Per Una Storia Della Musica Italiana Nel Novecento [PDF]

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Per una storia della musica italiana nel Novecento

La storia degli avvenimenti, delle idee e dei personaggi che hanno animato il Novecento musicale italiano riflette inevitabilmente due fattori: lo svolgersi delle vicende storico-politiche della nazione e le evoluzioni del linguaggio e degli orientamenti estetico-musicali che si sono delineati parallelamente in Europa e nel resto del mondo. Da un punto di vista storiografico, la suddivisione fra un “primo” e un “secondo” Novecento, al di là e al di qua della Seconda guerra mondiale, può essere un modo per inquadrare più comodamente il racconto di un secolo tanto complesso, e certamente si presta anche a separare le rispettive produzioni musicali, caratterizzate da tratti stilisticoestetici effettivamente distanti. Sarebbe fin troppo facile segnalare differenze e antitesi tra il linguaggio musicale di inizio secolo e alcuni tra gli esiti più estremi maturati negli ultimi decenni. Questa distanza stilistica − maggiore, forse, di quella che si potrebbe cogliere confrontando gli sviluppi musicali tra l’inizio e la fine di secoli precedenti − sottintende un percorso altrettanto lungo, graduale e, in qualche caso, accidentato.

Il Novecento è stato il secolo dell’emancipazione della dissonanza e dell’ampliamento del concetto di musica fino a includere il rumore, i suoni della natura e il silenzio. Il Novecento è stato anche il secolo della conoscenza “scientifica” e della presa d’atto della dignità di culture musicali di tradizione orale. Nel Novecento, ancora, si sono affermati i linguaggi del jazz, del rock e della popular music, la cui diffusione capillare ha prodotto inevitabilmente forme di contaminazione fra generi e culture. Quando si parla di ampliamento dei linguaggi musicali (nel Novecento in generale e, di riflesso, in Italia) si devono pertanto tener presente almeno due aspetti. In primo luogo il fatto che questo tipo di evoluzione non procede necessariamente secondo un rapporto diretto di causa/effetto su una linea cronologica unidirezionale (un asse diacronico, direbbe Saussure), essendo piuttosto il risultato di apporti soggettivi maturati in circostanze storicoculturali ben precise, i cui effetti dipendono dalle rispettive modalità di ricezione. In secondo luogo, la presenza in uno stesso periodo (dunque su un piano sincronico) di impulsi creativi molteplici e non di rado divergenti, tale da rendere spesso problematico il rapporto tra i diversi orientamenti estetici e la loro riduzione a linee comuni. In questo senso il Novecento può intendersi a ragione come il secolo di quella molteplicità che Calvino proponeva tra le categorie utili per un “nuovo millennio”, oramai iniziato e dagli sviluppi forse già intuibili. Disegnare un profilo della storia della musica del Novecento in Italia comporta problemi e difficoltà impliciti in ogni tentativo di sintesi, traducibili anche in questo caso in semplificazioni, accorpamenti forzati di tematiche, scelte drastiche, omissioni e altri “sacrifici” alle esigenze di un discorso che voglia avere prima di tutto una finalità didattica e orientativa per chi si avvicini magari per la prima volta a questi argomenti. Costrizioni (naturalmente ovviabili con approfondimenti da condurre in altre sedi e con altri strumenti, bibliografici e discografici) alle quali si aggiunge l’inevitabile formalità di una delimitazione cronologica. La storia, come è evidente,

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non procede per compartimenti stagni, men che meno per vincoli di calendario, e il “Novecento” non è un segmento cronologico, quanto piuttosto una convenzione storiografica. Per questo si è scelto di far iniziare il profilo che segue non dal 1900, ma qualche anno prima, cogliendo nell’ultimo Verdi un momento essenziale della nostra tradizione musicale: al tempo stesso conclusione di un percorso importante (quello del melodramma ottocentesco) e viatico per un proseguimento che sostanzialmente in esso continuerà ad affondare le proprie radici. Allo stesso modo il racconto del “secolo breve” tenderà a diradare le sue trame con l’approssimarsi alla molteplicità − per molti versi ancora da definire e sistematizzare − degli anni più vicini al nostro presente, i cui margini sfociano sempre più velocemente nell’immediato futuro. ALL’OMBRA DI VERDI E PUCCINI Dopo il 1860, il circuito produttivo operistico italiano cambia sensibilmente rispetto al periodo precedente. Si afferma un'editoria musicale resa forte dalla nuova normativa sul diritto d'autore, per cui un editore può commissionare opere, imporne altre, proteggendo in ogni modo i propri autori, detenere i diritti sui libretti dei melodrammi del proprio catalogo, stampandoli in modo standard e facendoli utilizzare in ciascuna rappresentazione in area nazionale; la figura dell'impresario, conseguentemente, perde importanza e molti melodrammi che avevano avuto notevole fortuna in epoca preunitaria scompaiono dalle programmazioni, sia a causa del cambiamento dei gusti del pubblico, sia soprattutto per le mutate condizioni del circuito produttivo; il compositore scrive meno opere (che hanno un tempo di redazione molto più lungo e spesso travagliato), acquisisce maggiore responsabilità personale nell'eventuale riuscita di ogni suo nuovo lavoro e punta all'inserimento in repertorio di almeno uno di essi, perché potrebbe dargli una sicurezza economica permanente. In questo ambito è Casa Ricordi (fondata a Milano nel 1808) a detenere il monopolio, dopo aver acquisito nel 1888 la Casa Lucca, sua rivale storica dal 1839. Giuseppe Verdi, ormai divenuto un'icona non solo del teatro musicale internazionale ma anche della cultura dell'Italia unificata, dopo Aida (A. Ghislanzoni, Il Cairo, 1871), per oltre quindici anni preferì non accettare commissioni in ambito operistico, limitandosi a seguire a distanza i molteplici allestimenti dei suoi lavori. Da questo silenzio compositivo (interrotto nel solo 1874, anno a cui risalgono un quartetto per archi in Mi min. e la Messa da Requiem in memoria di Alessandro Manzoni) scaturiranno, come frutti maturi, i tardi capolavori del genio bussetano, Otello (redatto tra il 1880 e il 1886 e rappresentato trionfalmente al Teatro alla Scala di Milano il 5 febbraio 1887) e Falstaff (Milano, T. alla Scala, 9 febbraio 1893). Le due opere, il cui soggetto era stato tratto da Shakespeare (dall'omonima tragedia l'Otello, da The merry wives of Windsor e King Henry IV il Falstaff) erano l'esito del sodalizio che Verdi aveva stretto col noto scrittore e compositore, che aveva realizzato i relativi libretti. È significativa anche la scelta dell'oramai ottantenne compositore di coronare la sua strepitosa carriera teatrale con un lavoro di genere giocoso, il secondo e ultimo del suo catalogo, dopo lo sfortunato Un giorno di regno (F. Romani, Milano 1840), in una sorta di ideale chiusura del cerchio. Il genere comico

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All'ombra di Verdi, però, il genere comico aveva avuto un suo sviluppo fino a fine secolo. A metà Ottocento si erano distinti particolarmente in tale ambito: Lauro Rossi (La casa disabitata ovvero Don Euticchio Della Castagna, J. Ferretti, Milano 1834, rifacimento come I falsi monetari, Torino 1844; Dottor Bobolo ovvero La fiera, F. Rubino, Napoli 1845; Il domino nero, Rubino, Milano 1849); Errico Petrella (Le precauzioni inutili ossia Il Carnevale di Venezia, M. D'Arienzo, Napoli 1851); Nicola De Giosa (Don Checco, A. Spadetta, Napoli 1850);Luigi e Federico Ricci (Crispino e la comare, F. M. Piave, Venezia 1850). Lauro Rossi, nella sua veste di didatta e direttore dei Conservatori di Milano (1850-1871) e Napoli (1871-1878), fu il grande mèntore di questo tipo di produzione nel periodo successivo: gli autori che vi si dedicarono tennero in debita considerazione la sua opera e, in molti casi, furono suoi alunni o ebbero rapporti diretti con lui. Tra i suoi allievi Antonio Cagnoni era il più noto e aveva già legato il proprio nome a Don Bucefalo, su libretto di Calisto Bassi. Andato in scena al Conservatorio di Milano il 28 giugno 1847, quando l'autore aveva appena diciannove anni, ebbe una fortuna teatrale enorme e fu uno dei lavori preferiti dal celebre basso Alessandro Bottero. Anche Amilcare Ponchielli, diplomatosi in composizione sotto la guida di Rossi nel 1854, raggiunse finalmente il successo con I promessi sposi, opera del 1856 che, rielaborata sia testualmente (grazie a Emilio Praga), sia musicalmente, fu riproposta con grande successo al pubblico del Teatro Dal Verme di Milano nel 1872. Il veronese Carlo Pedrotti, in Tutti in maschera (M. M. Marcello, da L'impresario delle Smirne di Goldoni, Verona 1856), per il tipo di argomento e di ambientazione, presumibilmente tenne in considerazione la lezione del Domino nero di Rossi. Infine, la storia del genere comico nella seconda metà dell'Ottocento non può prescindere dall'originale contributo di Emilio Usiglio, che legò la sua fama a Le educande di Sorrento, lavoro a metà strada tra l'opera buffa e l'operetta (R. Berninzone, Firenze 1868). Alla scuola di Zola

Nel genere serio negli ultimi decenni dell'Ottocento alcuni compositori, nonostante il dominio incontrastato di Verdi, riuscirono a raggiungere una consistente notorietà, legata in particolare a una specifica opera: è il caso di Giuseppe Apolloni con L'Ebreo (A. Boni, Venezia 1855), dello stesso Boito con Mefistofele (libr. proprio, Milano 1868; versione rielaborata, Bologna 1875), di Filippo MarchettI con Ruy Blas, (C. D'Ormeville, Milano 1869), di Amilcare Ponchielli con La Gioconda (A. Boito, Milano 1876). Già diffusa in ambito letterario a opera di Luigi Capuana e Giovanni Verga (influenzati dal naturalismo di Émile Zola), la corrente artistica del Verismo si espresse anche in ambito operistico. Essa perseguiva l'intento di mostrare gli umani sentimenti nella loro forza primigenia, privilegiando un'ambientazione che raramente fino a quel momento era comparsa in un teatro d'opera: borghi rurali del profondo Sud, povere case di pescatori, quartieri urbani degradati e malavitosi. Anche la vocalità doveva essere posta al servizio di tale realismo esasperato, privilegiando maggiormente l'immediatezza espressiva e il pathos emotivo (reso talvolta con l'urlo, l'esclamazione, il singhiozzo) rispetto agli aspetti tecnici formalizzati dalla tradizione. Influenzati in particolare dall'impianto realistico e dalla forza drammaturgica dell'opera-capolavoro di George Bizet, Carmen (Parigi 1875), alcuni giovani compositori, nel triennio 1890-1892 produssero opere che effettivamente possono essere considerate veriste: Pietro Mascagni, con Cavalleria rusticana (G. Menasci e G. Targioni Tozzetti, dall'omonima novella di Verga, Roma 1890), Ruggero Leoncavallo con Pagliacci(Milano 1892, su libretto proprio ispirato da un fatto di cronaca nera avvenuto a Montalto Uffugo e giudicato dal padre dell'autore, giudice a Cosenza) e Umberto Giordano con Mala vita (N. Daspuro, Roma 1892). L'opera di Mascagni fu considerata il manifesto del nuovo stile: vinse nel 1889 la seconda edizione del Concorso Sonzogno per opere in un atto e in occasione della prima esecuzione, avvenuta al Teatro Costanzi di Roma il 17 maggio 1890, assicurò al suo sconosciuto autore (all'epoca maestro comunale di musica a Cerignola) una fama talmente improvvisa e vasta da sfociare nel fenomeno di costume. Dall'epoca, si suole eseguire insieme le opere di Mascagni e Leoncavallo, emblematiche del verismo musicale ed entrambe in un atto. Diversa fu la storia teatrale di Mala vita: tratta dall'omonimo dramma di Salvatore Di Giacomo e ambientata con crudezza nella Napoli dell'epoca, tra guappi

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e prostitute, fu accolta con riserva dalla critica e dal pubblico partenopeo, ma ottenne grande successo (anche grazie al suo bozzettismo) a Vienna e in Germania, esaurendo però in breve tempo la sua storia teatrale, né valsero a rivitalizzarne la fama gli sforzi di compositore e librettista, che la ripresentarono a Milano rimaneggiata nel 1897, col nuovo titolo Il voto. La vasta fama per Giordano era però arrivata l'anno prima, con un'opera incentrata sulla tragica figura del poeta Andrea Chénier, vittima della Rivoluzione francese (L. Illica, Milano 1896), ruolo prediletto dal grande tenore Beniamino Gigli. Il compositore bissò il successo con Fedora (A. Colautti, Milano 1898).

Musicisti da cinque generazioni Il Verismo in campo operistico non ha dato vita a una vera e propria scuola, ma può essere considerato un breve e circoscritto periodo cui hanno legato il loro nome in età giovanile autori che poi hanno indirizzato le loro carriere verso altre strade: Mascagni, forse per rispondere a quei critici che l'avevano accusato di modesta sapienza armonica e strumentale, si rivolgerà alla commedia lirica d'ambientazione borghese con L'amico Fritz (N. Daspuro, Roma 1891), spingendosi fino all'esotismo di Iris (L. Illica, Roma 1898), senza però riuscire più a eguagliare in ogni suo lavoro successivo al 1890 la forza espressiva e l'unitarietà d'ispirazione di Cavalleria rusticana; simile il destino artistico di Leoncavallo che, tra Zazà (libretto proprio, Milano 1900) e Zingari (id., Londra 1912), dal 1908 approdò all'operetta, dedicando a questo genere di spettacolo ben otto titoli e interessandosene prima di Puccini, Giordano, Mascagni e Franchetti; Giordano, dopo il "battesimo" verista con Mala vita, vivrà agiatamente con i proventi di Andrea Chénier e Fedora, cessando definitivamente di scrivere per il teatro musicale dopo il 1929. All'ombra di questi compositori di larga fama, altri ottennero notorietà per lavori meritevoli e originali. Vanno necessariamente segnalati Alfredo Catalani con La Wally (L. Illica, Milano 1892), Alberto Franchetti con Cristoforo Colombo (L. Illica, Genova 1892) e Francesco Cileacon Adriana Lécouvreur (A. Colautti, Milano 1902). L'astro fulgido del teatro musicale italiano tra Ottocento e Novecento è indubitabilmente Giacomo Puccini. Nato a Lucca nel 1858 da una famiglia di musicisti da ben cinque generazioni, ebbe una giovinezza inquieta e studi discontinui, finché nel 1876 non venne folgorato dall'Aida verdiana, cui assistette a Pisa. Formatosi al Conservatorio di Milano, nel 1883 partecipò senza fortuna alla prima edizione del Concorso Sonzogno per un'opera in un atto con Le Villi (su libretto dell'amico giornalista e poeta Ferdinando Fontana, allora agli esordi). Tuttavia, grazie a un gruppo di estimatori (tra cui c'era il suo mèntore, l'editore Giulio Ricordi), l'opera fu rappresentata l'anno dopo al Teatro Dal Verme di Milano, senza ottenere particolare fortuna. Edgar (F. Fontana, Milano 1889) segnò il suo debutto alla Scala, ma il primo grande successo arrivò con Manon Lescaut ( da A.-F. Prévost, Torino 1893); da quel momento la carriera di Puccini decollò inarrestabilmente. La critica è solita dividerla in due periodi: quello giovanile, iniziato con Manon, proseguito con Bohème (L. Illica e G. Giacosa, Torino 1896) e Tosca (id., Roma 1900), concluso con Madama Butterfly (id., Milano 1904), e quello della maturità, costituito dalle opere successive, cioè La fanciulla del West, (G. Civinini e C. Zangarini, New York 1910), La rondine (G. Adami, Montecarlo 1917), Il trittico, formato da Il tabarro, su testo di G. Adami, Suor Angelica e Gianni Schicchi, su testo di G.

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Forzano (New York 1918) e Turandot, su testo di G. Adami e R. Simoni, dalla fiaba di Carlo Gozzi, rimasta incompiuta, ma completata da Franco Alfano e data alla Scala di Milano nel 1926 per la direzione di A. Toscanini. I successi di Puccini La fanciulla del West aveva segnato l'inizio di un periodo di crisi, anche personale, di Puccini, aggravatasi nel 1912 a causa della morte di Giulio Ricordi. Durante i tristi anni della Prima guerra mondiale il compositore aveva scritto Il trittico, a riguardo rinunciando a una collaborazione, più volte tentata e mai ottenuta, con Gabriele D'Annunzio. Alla ricerca continua di un soggetto drammaturgico a lui gradito, nel 1920 Puccini iniziò la stesura del lavoro che avrebbe costituito, suo malgrado, il suo canto del cigno, l'opera Turandot, ambientata in una favolosa e lontana Cina. Si apprestava a redigere il finale dell'ultimo atto, quando la morte lo colse fulminea per collasso a Bruxelles nel 1924, dopo che aveva ben superato un difficile intervento per un tumore alla gola. Sulla produzione operistica pucciniana è gravato a lungo un immeritato pregiudizio critico, propagato dai principali esponenti delle coeve avanguardie musicali italiana ed europea, che accusavano il compositore di non volersi staccare dalle strutture tradizionali, di ricorrere a un facile melodismo e di tendere a "compiacere", sotto ogni aspetto, il pubblico. In realtà Puccini è stato, secondo Elvidio Surian, un compositore «che possedeva un senso straordinario – senza eguali nella storia dell'opera – delle intime leggi che governano il teatro musicale. Cercava sempre di ottenere un perfetto equilibrio tra musica e azione scenica» (cfr. Manuale, III, pp. 225-226). Di tale avviso sono senz'altro gli innumerevoli spettatori delle sue opere che in tutto il mondo ne decretano, soprattutto oggi, un vastissimo, imperituro successo. In effetti Puccini è insuperabile nel descrivere i contrasti e le passioni dell'animo umano, in particolare femminile, come le eroine delle sue opere testimoniano. Inoltre, ebbe la fortuna di possedere un'intelligenza musicale melodica che si sposava perfettamente con la tendenza a innovare sia in campo timbrico che armonico, riuscendo a mediare l'inconciliabile, ovvero l'ambito facile e popolare con quello colto, l'immediatezza espressiva con la complessità della scrittura. Il risultato, unico nel suo genere, fa di Puccini forse l'operista più internazionalmente rappresentato, insieme a Bizet. Curatissima strumentazione

Riccardo Zandonai, allievo di Mascagni al Liceo musicale di Pesaro, occupa un posto particolare a inizio Novecento con la sua Francesca da Rimini (da D'Annunzio, Torino 1914). Essa librettisticamente costituisce uno dei primi esempi di opera tratta direttamente dal dramma originale (Tito Ricordi si limitò infatti a minimi interventi rispetto al lavoro dannunziano) e si segnala per la felicità d'ispirazione e la brillante, curatissima strumentazione, legata alle solide conoscenze del sinfonismo tedesco che Zandonai possedeva anche grazie alla sua origine trentina (Sacco di Rovereto, TN, 1883-Pesaro, 1944). Nel 1920 un'altra innovativa opera, tratta direttamente da una tragedia di Vittorio Alfieri, la Mirra, del musicologo e compositore marchigiano Domenico Alaleona, a otto anni dal completamento della stesura fu finalmente rappresentata il 31 marzo 1920 presso il Teatro Costanzi di Roma, compensando il modesto successo di pubblico con l'ammirazione degli esponenti del mondo musicale più colto, grazie alle sue atmosfere raffinate e

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all'incisività drammaturgica della protagonista. Altri significativi compositori furono Franco Alfano (noto oggi forse più per aver completato la Turandot di Puccini, che per opere proprie, tra cui vanno citate Risurrezione, data a Torino nel 1904, e La leggenda di Sakuntala, su libretto proprio, Bologna 1921) e Ermanno Wolf-Ferrari, delicato rievocatore della Venezia goldoniana, con I quatro rusteghi(Monaco 1906), Il campiello (Milano 1936) e altri titoli. GLI ANNI DIECI La Generazione dell'Ottanta

All'inizio del Novecento le avanguardie francesi e tedesche (fauvismo, dadaismo, espressionismo), i cui risultati in particolare nelle arti figurative stavano rivoluzionando il mondo culturale, sono tenute presenti dagli artisti italiani, che però si confrontano con esse in modo personale e non subordinato. In Italia il periodo fu, in particolare in campo musicale, complesso e percorso da una feconda ansia d'innovazione, tesa a coniugare la ricerca tecnica ed espressiva con la valorizzazione della letteratura musicale ereditata dal lontano passato, in funzione antiromantica e filonazionale. Sale alla ribalta una generazione di giovani compositori all'incirca coetanei, entrata nella storia con il nome di Generazione dell'Ottanta, che operarono infaticabilmente anche come critici, trascrittori, organizzatori, divulgatori, didatti: Ottorino Respighi (1879-1936), Ildebrando Pizzetti (1880-1968), Gian Francesco Malipiero (18821973), Alfredo Casella (1883-1947). Su di essi una significativa influenza ebbe, sia come compositore che come teorico, Ferruccio Busoni (1866-1924), compositore italiano che operò soprattutto in Germania e, in senso latamente culturale, il letterato Gabriele D'Annunzio (1863-1938), che sollevò la musica a pari dignità rispetto alle altre arti sia attraverso i suoi romanzi e le sue opere poetiche, sia patrocinando la pubblicazione dell'opera omnia di Claudio Monteverdi (cui si dedicò in particolare il veneziano Malipiero) e ideando con altri la collana in 150 volumi I classici della musica italiana (Milano 1919-1921). Anche il movimento ceciliano, che a livello europeo sin dalla prima metà dell'Ottocento auspicava un ritorno della musica liturgica alla semplicità delle origini, contribuì alla riscoperta del canto gregoriano e dell'opera palestriniana ed ebbe all'inizio del secolo XX come più importanti esponenti in Italia padre Lorenzo Perosi (1872-1956), compositore e organista che diresse dal 1898 alla morte la Cappella Sistina, e Giovanni Tebaldini (1864-1952), musicologo e compositore attivo come direttore di cappella presso la Basilica di Loreto e come docente di musica antica al Conservatorio di Napoli: la pubblicazione nel 1903 del Motu proprio Fra le sollecitudini di Papa Pio X suggellò ufficialmente questo indirizzo e, in linea con tale intento riformatore, nel 1911 fu fondata a Roma la Scuola superiore di musica sacra (dal 1931 denominata Pontificio Istituto di musica sacra).

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Pini di Roma

La musicologia nazionale, mossi i primi passi nel tardo secolo XIX, rafforza la propria identità con la pubblicazione a Torino, dal 1894, della «Rivista musicale italiana» e la costituzione a Parma, nel 1908, dell'Associazione dei musicologi italiani, fondata da Guido Gasperini. Pionieri nel campo furono in particolare Oscar Chilesotti (1848-1916), che curò la collana di musica rinascimentale in nove volumi Biblioteca di rarità musicali (Milano 1883-1915), e Luigi Torchi(18581920), a cui si deve la raccolta di composizioni dal tardo Medioevo al Barocco L'arte musicale in Italia (Milano, 18971903). La Generazione dell'Ottanta fu però coadiuvata e indirizzata nel suo intento di rifondazione e valorizzazione del repertorio strumentale italiano (rispetto alla preponderante produzione operistica di derivazione tardottocentesca) da musicologi "militanti" quali Fausto Torrefranca (1883-1955) e Giannotto Bastianelli (1883-1927), che applicarono in campo musicale l'estetica del filosofo neoidealista Benedetto Croce (1866-1952), di cui in seguito la rivista «La rassegna musicale», fondata nel 1928 da Guido M. Gatti, fu privilegiata tribuna. Il bolognese Ottorino Respighi, figlio d'arte, studiò musica inizialmente col padre Giuseppe, poi si dedicò allo studio del violino e della composizione presso il liceo musicale della sua città. Dai suoi insegnanti Luigi Torchi e, soprattutto, Giuseppe Martucci, apprese il rigore formale e imparò a conoscere il repertorio sinfonico-cameristico del romanticismo tedesco, non molto praticato all'epoca in Italia, e il repertorio wagneriano. Grazie alla sua attività di violista, ebbe l'opportunità di suonare nel 1900 nell'orchestra del Teatro imperiale di Pietroburgo e in Russia conobbe Nikolaj RimskijKorsakov, da cui ricevette lezioni di composizione e orchestrazione. Un altro importante momento formativo fu legato alla sua permanenza a Berlino, la prima volta nel 1902, dove studiò con Max Bruch, la successiva nel 1908-1909. Ritornato in patria, insegnò composizione al liceo musicale di Bologna nel 1911-1912, sostituendo Torchi, e poi a Roma, al liceo musicale di Santa Cecilia, dal 1913, restando legato a tale istituzione fino al 1926. Affiancò all'attività didattica quella di strumentista e direttore d'orchestra in Italia e all'estero, spesso al fianco della moglie Elsa Olivieri Sangiacomo(1894-1996), una sua ex allieva, apprezzata compositrice e cantante, che dopo la morte precoce del marito si dedicò generosamente a diffonderne l'opera. Il carattere composito e europeo della sua formazione fece di Respighi (che pure aveva iniziato la sua carriera come operista, con Re Enzo, libretto di Alberto Donini, Bologna, 1905) ) il padre del poema sinfonico italiano, con capolavori quali Fontane di Roma (1916), Pini di Roma (1924), Vetrate di chiesa (1926), Feste romane (1928), che gli diedero grande fama. In un altro nucleo di composizioni confluì la sua attività di attento studioso e trascrittore di musica antica: Concerto gregoriano per violino e orchestra (1921),Concerto in modo misolidio per pianoforte e orchestra (1924) e, soprattutto, Antiche arie e danze per liuto, tre suites per orchestra d'archi (1917-1931). Nell'ultimo periodo della sua vita si riavvicinò al teatro musicale, con titoli come Belfagor (libretto di Claudio Guastalla, Milano, 1923), La campana sommersa (Claudio Guastalla, Amburgo, 1927), Maria Egiziaca (Claudio

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Guastalla, Venezia, 1932), La fiamma (Claudio Guastalla, Roma, 1934). Ha inoltre lasciato sette balletti, sonate, liriche vocali e varia musica cameristica. Un fruttuoso sodalizio

Anche Pizzetti, di origine parmense, fu avviato allo studio della musica dal padre, Odoardo, pianista, e completò la sua formazione presso il conservatorio della sua città, studiando composizione con Giovanni Tebaldini, che ebbe il merito di fargli conoscere il canto gregoriano e l'antica musica vocale e strumentale italiana. La prima parte della sua vita artistica fu legata a Firenze, città nel cui conservatorio entrò come insegnante nel 1908, arrivando a condurne la direzione dal 1917 al 1924. Acuto teorico e critico, scrisse per la rivista «La Voce», con Giannotto Bastianelli fondò il periodico musicale «La Dissonanza» e con Ernesto Consolo la Società di amici della musica. Importante e fecondo il suo sodalizio con D'Annunzio: compose le musiche di scena per i drammi La nave (Roma, 1908) e La Pisanella (Parigi, 1913; come azione coreografica, Roma, 1955), che gli diedero notorietà, e scrisse due liriche vocali su testo dannunziano, I pastori (1908) e Erotica (1912), che testimoniano della sua predilezione per autori di grande raffinatezza (musicò anche Petrarca, Saffo in traduzione leopardiana, Michelangelo, ecc.) e che costituiscono alcuni tra i migliori esempi del genere all'epoca. D'Annunzio lo ricambiò permettendogli di adattare a libretto d'opera la sua Fedra (Milano, 1915); ancora da D'Annunzio è tratto il libretto pizzettiano de La figlia di Iorio (Napoli 1954). Se Respighi si dedicò a "rifondare" in senso nazionale il repertorio sinfonico, Pizzetti condusse un'azione analoga nel campo del teatro musicale, scrivendo quattordici opere, quasi tutte su libretto proprio, di cui il capolavoro resta L'assassinio nella cattedrale (da T. S. Eliot, Milano 1958), in cui mirò a rinnovare radicalmente la vocalità, ricercando un declamato capace di potenziare i dati della parola, denso di reminescenze gregoriane. Va ricordato anche per il suo ruolo di guida della vita musicale nazionale in senso didattico e organizzativo, prima come direttore del conservatorio "G. Verdi" di Milano (1924-1936), poi come docente del corso di perfezionamento in Composizione presso l'Accademia di Santa Cecilia (1936-1958), succedendo a Respighi, e come presidente della stessa nel triennio 1948-1951. Ebbe il merito di comprendere le potenzialità del neonato spettacolo cinematografico: scrisse una Sinfonia del fuoco per Cabiria di Giovanni Pastrone (1914) e collaborò a Scipione l'Africano di Carmine Gallone (1937). Gian Francesco Malipiero, appartenente a una celebre famiglia di musicisti veneziani e nobile da parte di madre (la contessa Emma Balbi), ebbe l'opportunità di iniziare i propri studi al conservatorio di Vienna, proseguendoli poi presso il liceo musicale di Venezia e quello di Bologna, come allievo di contrappunto e composizione di Marco Enrico Bossi.Con vocazione antiromantica

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Le buone condizioni finanziarie di famiglia gli permisero di potersi dedicare quasi a tempo pieno all'attività compositiva, anche se nel 1913 distrusse la propria produzione giovanile, ritenendola di uno stile troppo influenzato dal tardo romanticismo. Fondamentale nella sua formazione fu il suo soggiorno a Parigi in quello stesso anno, dove strinse amicizia con Maurice Ravel, Alfredo Casella e Gabriele D'Annunzio e poté assistere alla prima esecuzione di Le Sacre du Printemps di Igor Stravinskij. Nello stesso periodo, dopo che ben quattro suoi lavori furono premiati al Concorso nazionale di musica bandito a Roma dall'Accademia di Santa Cecilia (e presentati ciascuno con un diverso pseudonimo), la carriera compositiva di Malipiero decollò, permettendogli di raggiungere una duratura fama con la trilogia per il teatro musicale L'Orfeide (libretto proprio, su antiche poesie italiane, 1919-1922: La morte delle maschere, 1922; Sette canzoni, 7 espressioni drammatiche, 1919; Orfeo, ovvero l'ottava canzone, 1920; Düsseldorf, 1925). In essa lo stile drammatico di Malipiero, già sperimentato con Pantea (dramma per una sola danzatrice, baritono, coro e orchestra, 1919) si è compiutamente definito: rigettata ogni influenza del teatro naturalista e ogni condizionamento librettistico, sotto l'influenza del gregoriano e della monodia italiana del primo Barocco, Malipiero persegue una scrittura di grande libertà ritmica e strutturale, quasi rapsodica, che rifugge dal concetto di sviluppo in senso tradizionale e si snoda attraverso una tecnica "a pannelli". Approda a un teatro di marca più realistica con Tre commedie goldoniane(libretto proprio: La bottega da caffè; Sior Todaro brontolon; Le baruffe chiozzotte; Darmstadt, 1926) e, soprattutto, con La favola del figlio cambiato, il cui libretto si deve allo stesso Luigi Pirandello (Braunschweig, 1934), opera che incontrò l'opposizione di Goebbels e che, dopo la prima italiana all'Opera di Roma, fu interdetta agli altri teatri nazionali per volere di Mussolini. Malipiero si dedicò molto al teatro musicale, producendo circa trenta opere nell'arco di sessant'anni, di cui l'ultima originale fu Don Tartufo bacchettone (libr. proprio, da Molière-Gilli, Venezia, 1970). La vocazione antiromantica e vocalistica si evidenzia anche nella produzione strumentale, molto vasta, in cui vanno senz'altro ricordate le undici sinfonie, le due serie di Pause del silenzio (1917 e 1926), e il giovanile Canto notturno di un pastore errante dell'Asia per baritono e orchestra (da Leopardi, 1910). L'attività didattica viene ripresa da Malipiero a Padova nel 1936, e culmina nel 1939 con la nomina a direttore del liceo musicale di Venezia, carica che mantiene fino al 1952. Essa è strettamente legata a quella, strenuamente condotta, di studioso e trascrittore, che gli vale la nomina a direttore artistico dell'Istituto Italiano "A. Vivaldi" (dal 1947): è a Malipiero che si deve la riproposizione moderna dell'Orfeo di Monteverdi (1923; nuova versione, 1943), autore cui si lega indissolubilmente pubblicando l'intera opera omnia in 16 volumi (1926-1942). Analogamente, anche Antonio Vivaldi (insieme a numerosi altri autori italiani dei secoli XVI e XVII) deve la riscoperta novecentesca dei suoi lavori strumentali all'opera certosina ed appassionata di ricerca e divulgazione portata avanti da Malipiero.

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Per una musica nazionale italiana

Tra i musicisti della generazione dell'Ottanta colui che ebbe una formazione autenticamente internazionale, e che incise in maggiore profondità sulla vita musicale del suo tempo nelle molteplici vesti di organizzatore, teorico, strumentista, direttore, compositore, revisore e didatta, anche grazie a un'attività svolta nell'arco di cinquant'anni, fu il torinese Alfredo Casella. Figlio di musicisti, esordì in pubblico come pianista a undici anni. La madre Maria Bordino nel 1896 lo portò a vivere a Parigi, dove egli rimase per circa vent'anni, studiando al conservatorio pianoforte, e composizione con Gabriel Fauré. Personalità come Claude Debussy, Maurice Ravel, Gustav Mahler e Igor Stravinskij, conosciute personalmente, influirono sulla sua formazione. Conobbe altresì, e fece proprie, anche le tendenze più innovative della musica del tempo, rappresentate dall'espressionismo di Arnold Schönberg e dalla scuola russa. Nella sua prima produzione si evidenziano l'uso della tecnica politonale e delle dissonanze in funzione d'urto (cfr. i 9 Pezzi pianistici op. 24, del 1914), ma dal 1915 prevarrà in lui la spinta al neoclassicismo e alla rilettura delle forme strumentali del Settecento, funzionali al desiderio di contribuire alla creazione di una musica nazionale italiana che fosse sintesi di tradizione e modernità, in grado di sostenere il confronto con la produzione estera (cfr. laPartita per pianoforte e orchestra op. 42, del 1924-1925, e Scarlattiana per pianoforte e 32 strumenti, op. 44, su temi di Domenico Scarlatti, del 1926). Nel 1916 fondò, sul modello della parigina Societé musicale indépendante, della quale era stato segretario generale tra il 1911 e il 1914, la Società italiana di musica moderna, dal 1923 ridenominata Corporazione delle nuove musiche. Fecondo ed eclettico trascrittore/rielaboratore sia di autori del Settecento italiano sia di compositori più vicini nel tempo come Milij Balakirev, Louis-Charles Bruneau e Mahler, comprese che, per proporre opere esito di ricerca musicologica, andavano creati spazi esecutivi specialistici, pertanto promosse le Settimane musicali senesi, organizzate dall'Accademia musicale Chigiana di Siena (fondata nel 1932), di cui fu direttore artistico. Anche la didattica e la prassi pianistiche uscirono trasformate dall'operato di Casella: nel suo ruolo di docente al liceo musicale di Santa Cecilia prima e poi di responsabile dei corsi di perfezionamento pianistico dell'Accademia di Santa Cecilia, ebbe modo di pubblicare sue revisioni dei classici dello strumento (Chopin nel 1914, Beethoven nel 1919) che spazzarono via gli errori e i convenzionalismi delle edizioni ottocentesche. Si cimentò anche con il teatro musicale, lasciando tre opere, tra cui La donna-serpente (libretto di Cesare Vico Ludovici, da Carlo Gozzi, Roma 1932).Enfant prodige

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Nel campo della trascrizione pianistica e della produzione strumentale solistica non si può non citare l'eccellenza di Ferruccio Busoni, che all'inizio del Novecento reincarna e attualizza l'antica figura del concertista-compositore, alla fine del secolo precedente mirabilmente rappresentata dai pianisti Stefano Golinelli (1818-1891), Giovanni Sgambati (1841-1914) eGiuseppe Martucci (1856-1909), dal contrabbassista Giovanni Bottesini (1821-1889), dal violinista Antonio Bazzini (1818-1897), tanto per fare alcuni nomi. Busoni occupa un posto sui generis nella storia della musica del suo tempo. Figlio di padre triestino e di madre tedesca, si formò a Trieste, Graz e Vienna. Enfant prodige, iniziò la carriera solistica nel 1874, e già nel 1882 l'Accademia Filarmonica di Bologna lo accolse come suo membro. Berlino fu la sua città d'elezione e svolse interamente la sua carriera di concertista e direttore d'orchestra all'estero, eccettuato il periodo 1913-1915, in cui accettò di dirigere il liceo musicale di Bologna. Fu figura di grande riferimento e di stimolo per i compositori italiani della generazione dell'Ottanta. Il suo catalogo affronta tutti i generi musicali, compreso il teatro, con quattro opere in lingua tedesca (tra cui il Doktor Faustus, su libretto proprio, cui iniziò a lavorare dal 1916 e che doveva restare incompiuta), ma i contributi più importanti, frutto di un lunghissimo lavoro, restano innegabilmente la Bach-Busoni gesammelte Ausgabe (Edizione completa Bach-Busoni, Lipsia 1890-1920), sette volumi di rielaborazioni, trascrizioni e composizioni originali improntate a Johann Sebastian Bach, e la Busoni Ausgabe (Edizione Busoni) in venticinque volumi, che ebbe il merito di adattare l'opera bachiana per clavicembalo al moderno pianoforte, facendola entrare nel regolare circuito concertistico. A quest'ultima raccolta collaborò anche il marchigiano Bruno Mugellini (1871-1912), che fu anch'egli importante didatta del pianoforte e revisore. Per la Carish pubblicò un metodo in otto volumi, ancora oggi diffuso, numerose revisioni di classici della tastiera (tra cui J. S. Bach, W. A. Mozart, M. Clementi, C. Czerny) e proprie composizioni pianistiche.

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MUSICA NEL VENTENNIO

Rumorose orchestre futuriste Il Futurismo, movimento d'avanguardia nato ufficialmente a Parigi il 20 febbraio 1909 con la pubblicazione del relativo Manifesto firmato da Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), si riproponeva di svecchiare la cultura italiana del tempo in ogni campo artistico, collegandola con le grandi avanguardie europee degli anni Dieci e Venti. Il pensiero estetico futurista privilegiò le categorie della simultaneità e della sintesi, predicò il culto della velocità, l'esaltazione della macchina, la distruzione della sintassi tradizionale e propagò tali idee attraverso numerose "serate futuriste" organizzate da Marinetti e dai suoi seguaci in tutta Italia che, più che la storia dell'arte, riguardano la storia del costume. Il Futurismo raggiunse i suoi risultati più validi e duraturi nel campo delle arti figurative, ma anche in quello musicale produsse originali apporti. Francesco Balilla Pratella (1880-1955), compositore romagnolo allievo di Mascagni, su sollecitazione di Marinetti scrisse il Manifesto dei musicisti futuristi (11 ottobre 1910), La musica futurista, Manifesto tecnico (11 marzo 1911) e La distruzione della quadratura (18 luglio 1912). La sua partitura orchestrale Musica futurista (Inno alla Vita)destò scalpore tra il pubblico del Teatro Costanzi di Roma nel febbraio e marzo 1913, mentre la sua opera L'aviatore Dro, composta tra il 1912 e il 1914, riuscì ad essere rappresentata solo nel 1920 nella natìa Lugo di Romagna. In generale però la produzione compositiva di Pratella, dalle influenze postdebussiane e pizzettiane, non corrispose alle estreme dichiarazioni programmatiche del compositore e forse il suo contributo più fecondo alla musica del tempo fu la sua attività etnomusicologica, testimoniata da varie pubblicazioni, tra cui Saggio di gridi, cori e danze del popolo italiano (1919) e Etnofonia di Romagna (1938). Più originale fu l'operato di Luigi Russolo (1885-1947), pittore veneto affascinato dalle teorie futuriste, che l'11 marzo 1913 pubblicò a Milano la lettera-manifesto indirizzata a Pratella L'Arte dei rumori, dove esprimeva la necessità di ampliare la gamma dei suoni a disposizione del compositore mediante il suono-rumore (come rumori di tram, di motori a scoppio, di carrozze e folle vocianti, ecc.) e dichiarava la nascita di un'orchestra futurista basata su sei famiglie di rumori. Conseguentemente si dedicò all'invenzione di strumenti denominati "intonarumori", quali lo scoppiatore, l'ululatore, il sibilatore, il ronzatore, il crepitatore, il rombatore, lo stropicciatore, ecc., presentati in pubblico in Italia e poi nelle principali capitali europee, tra vivaci reazioni, a partire dallo stesso 1913. A Parigi organizzò nel 1921 tre concerti per bruiteurs futuristes, diretti dal fratello Antonio, utilizzando ben 27 diversi "intonarumori". Nello stesso anno aveva brevettato il rumorarmonio o russolophon, capace di produrre sette rumori diversi in dodici gradazioni, nonché quarti e ottavi di tono. Presentato a Parigi nel 1927 e a Milano nel 1928, l'apparecchio fu utilizzato da Russolo per accompagnare film muti e lo portò a collaborare con il cineasta Jean Painlevé e con il compositore Edgar Varèse, il quale nel 1929 presentò a Parigi un concerto per rumorarmonio e arco enarmonico. Quest'ultimo era un'ulteriore invenzione di Russolo, presentata a Milano nel 1925, che permetteva di ricavare dagli archi sonorità inconsuete. L'ultimo strumento

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scaturito dal genio inventivo di Russolo fu il Piano enarmonico, brevettato a Parigi nel 1931, anno in cui egli decise di abbandonare la propria attività musicale per dedicarsi allo yoga, alle scienze esoteriche e alla filosofia. Personalità originale ed eclettica, Russolo nei primi anni Trenta visse in Francia e in Spagna, prima di ritirarsi nel 1934 a Cerro di Laveno, sul Lago Maggiore, dove riprese l'attività pittorica. Le sue ricerche sui suoni concreti, di cui gli "intonarumori" (all'epoca considerati curiose eccentricità) e gli altri strumenti da lui ideati furono espressione, fanno di Russolo un ispirato precursore delle ricerca strumentale sperimentale della metà del Novecento.

Un'arte non "degenerata" Durante l'era fascista vennero principalmente promosse forme d'arte che potessero esaltare in modo immediato presso le masse il Regime e la sua ideologia, furono pertanto favorite una scultura, un'architettura e una pittura ufficiali, i cui esiti sono tuttora visibili nelle città italiane. Le personalità culturalmente più note e significative vennero spesso blandite con onori e ricchezze (si pensi al ritiro dorato di Gabriele D'Annunzio al Vittoriale o all'ingresso nell'Accademia d'Italia di artisti che pochi anni prima erano esponenti di spicco dell'avanguardia, come Filippo Tommaso Marinetti, ammesso nel 1929). Se è pur vero che in Italia l'arte sperimentale nei vari campi non fu considerata "degenerata" e messa al bando come nella Germania di Hitler e nella Russia di Stalin, è altrettanto importante ricordare che fu incoraggiata solo quando si riteneva potesse servire alla diffusione dell'ideologia fascista (da cui la predilezione per il cinema e i rapporti ambigui con il movimento futurista). Forse per la sua sostanza "astratta" la musica non fu oggetto di particolari attenzioni da parte del regime e i compositori poterono godere di una certa libertà artistica. Entrarono nell'Accademia d'Italia sia Ottorino Respighi (1932) che Ildebrando Pizzetti (1939). Va però chiarito che gli ultimi due poemi sinfonici "romani" di Respighi (dopo Le fontane di Roma, 1916), cioè I pini di Roma (1924) e Feste romane (1928), non presentano alcun intento ideologico, ma rientrano in quel gusto tipico dell'autore e diffuso in Italia all'inizio del Novecento che voleva valorizzare il legame col passato ripensando l'antico in veste moderna. Quando Giovanni Gentile, il filosofo neoidealista e teorico del fascismo che fu ministro della Pubblica istruzione tra il 1922 e il 1924, vara nel 1923 la sua riforma scolastica, riserva alle materie musicali un ruolo del tutto marginale, di fatto escludendole dal curriculum formativo delle scuole primarie e secondarie (ad eccezione dell'Istituto magistrale) e relegando l'insegnamento di tali discipline in specifici istituti considerati tecnico-professionali, i Conservatorî, i cui regolamenti definitivi escono nel 1930. Da qui nasce purtroppo l'anomalia tutta italiana, ancora oggi operante, che vede la musica poco presente nella formazione culturale generale di ogni cittadino.

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Serenata al vento Un altro esito negativo del regime fascista in campo musicale, tuttora poco esplorato, è dato dalla ricaduta delle leggi razziali antisemite del 1938, che costrinsero tanti musicisti a nascondersi o a fuggire dal Paese. Tra i numerosi casi umanamente e professionalmente significativi, se ne citano tre per il loro valore emblematico, quello di Mario Castelnuovo-Tedesco, di Aldo Finzi e di Leone Sinigaglia. Il primo (1895-1968), di origine fiorentina, si formò nell'istituto musicale della sua città, studiando composizione con Ildebrando Pizzetti e pianoforte con Edgardo Del Valle de Paz. Nel periodo tra le due guerre, svolse attività di compositore (vincendo nel 1925 il concorso lirico nazionale con l'opera La mandragola) e di critico e saggista. Costretto ad abbandonare l'Italia nel 1939, si trasferì negli Stati Uniti; nel 1946 acquisì la cittadinanza americana e iniziò ad insegnare al conservatorio di Los Angeles. La sua imponente produzione ha spaziato in ogni genere musicale: si ricordano le undiciouvertures sinfoniche intitolate a drammi shakespeariani, i due concerti per chitarra e orchestra, il secondo concerto per violino e orchestra I Profeti. Aldo Finzi (1897-1945) nacque a Milano da una famiglia ebraica di origine mantovana, cui apparteneva anche il soprano Giuseppina Finzi Magrini. Si laureò in Legge all'Università di Pavia e contemporaneamente si diplomò in composizione come privatista al conservatorio di Santa Cecilia, iniziando una promettente carriera. Casa Ricordi pubblicò numerosi suoi lavori, che nel 1931 includevano i poemi sinfonici Cirano di Bergerac e Inni alla notte, e l'opera comica Serenata al vento. Negli anni successivi scrisse un concerto per piano e orchestra (1934), i poemi sinfonici L'infinito, ispirato all'omonima lirica leopardiana (1933) e Nunquam (1937). Dopo la promulgazione delle leggi razziali e durante il secondo conflitto mondiale Finzi non lasciò l'Italia ma fu costretto a nascondersi continuamente, continuando a comporre in modo anonimo o sotto altro nome. A testimonianza di quegli anni bui resta il Salmo per coro e orchestra (1944-1945).

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Aperto alle influenze mitteleuropee Leone Sinigaglia (1868-1944) studiò al liceo musicale di Torino con Giovanni Bolzoni, trasferendosi poi a Vienna per perfezionarsi con Eusebius Mandyczewski. Ebbe così occasione di diventare buon amico di Gustav Malher, Johannes Brahms e Antonin Dvoràk, da cui mutuò l'interesse per il canto popolare. Ritornato in Italia, raccolse centinaia di canti piemontesi, pubblicati in Vecchie canzoni popolari del Piemonte (Lipsia, 1913-1922) e rielaborati in versione per voce e pianoforte o per altri organici. Fu compositore prevalentemente strumentale, dalla scrittura raffinata, aperta alle influenze mitteleuropee. Morì all'Ospedale Mauriziano di Torino mentre stava per essere arrestato dalla milizia fascista. Nel dopoguerra, si deve in particolare a Luigi Rognoni lo studio e la valorizzazione della sua vasta opera. PETRASSI E DALLAPICCOLA

Petrassi, lo «scrupolo artigianale» Goffredo Petrassi (1904-2003) nacque a Zagarolo (Roma) e si formò musicalmente da autodidatta (eccettuata la sua esperienza come fanciullo cantore nella Schola Cantorum della chiesa romana di S. Salvatore in Lauro), fino all'ingresso al conservatorio di S. Cecilia di Roma nel 1928 e il relativo conseguimento del diploma di composizione nel 1932 e quello di organo l'anno successivo. L'attività di addetto in un magazzino di musica gli aveva permesso di conoscere molte partiture contemporanee, rafforzando i suoi interessi in tale direzione. La sua attività didattica in campo compositivo iniziò al conservatorio di Roma nel 1939 e proseguì con la titolarità della cattedra di perfezionamento in tale disciplina presso l'Accademia di Santa Cecilia dal 1958 al 1974, portando Petrassi a formare giovani autori che presto giunsero alla fama in Italia e all'estero: tra essi, Aldo Clementi (1925), Boris Porena (1927), Domenico Guaccero (1927-1984), Ennio Morricone (1928), Ivan Vandor (1932), Cornelius Cardew (1936-1981), Irma Ravinale (1937) e Marcello Panni (1940). Solo le attività di didatti della composizione del piemontese Giorgio Federico Ghedini (1892-1965), del milanese Bruno Bettinelli (1913-2004) e, in epoca successiva, del veronese Franco Donatoni (1927-2000), possono essere accostate, per importanza, a quella svolta da Petrassi. Non di minore spessore fu il suo ruolo di organizzatore e divulgatore musicale, in quanto ebbe l'opportunità di essere sovrintendente del Teatro La Fenice di Venezia (1937-1940), direttore artistico dell'Accademia Filarmonica Romana (1947-1950), presidente della Società Internazionale di Musica Contemporanea (SIMC, 1954-1956) in un'epoca in cui l'Italia, uscita con danni morali e materiali ingentissimi dal secondo conflitto mondiale, tentava di rimettersi in piedi e, culturalmente, si riaffacciava alla ribalta internazionale dopo gli anni bui dell'omologazione di regime. A tali attività va aggiunto il suo impegno come critico e come lucido teorico in ambito estetico. Nella definizione dello stile compositivo complesso ed eclettico di Petrassi svolsero un ruolo di rilievo Gian Francesco Malipiero, Alfredo Casella (musicista di riferimento dell'area romana), Paul Hindemith (in particolare in ambito strumentale) e Igor Stravinskij (soprattutto per la scrittura vocale e gli aspetti ritmici). Petrassi seppe confrontarsi da

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par suo anche con l'avanguardia tedesca del dopoguerra, rifiutandone l'assertività formale strutturalistica ma accogliendone gli esiti musicali più innovativi e interessanti. Per dirla con il noto studioso del Novecento storico e contemporaneo Renzo Cresti, «per Petrassi può valere quel "richiamo all'ordine" espresso, negli anni Venti, dalla rivista «La Ronda», secondo la quale la buona arte è soprattutto pulizia formale e scrupolo artigianale» (cfr. Cresti, Ipertesto di Storia della Musica, p. 532). Egli stesso parlò del suo magistero formale come un lavoro in cui «è il materiale musicale a suggerire il procedimento ed è il procedimento a suggerire lo svolgimento ulteriore, in una specie di autogenesi» (ibid.).

Grande spiritualità Come compositore si fece conoscere nel 1932 con la Partita per orchestra, lavoro in linea con il gusto neoclassico del periodo, ed ebbe poi il merito di rinnovare forma e linguaggio del concerto orchestrale, scrivendone ben otto fino al 1972. Ha lasciato la sua impronta anche nel campo del teatro d'opera, con Il Cordovano (da Cervantes, libretto di Eugenio Montale, Milano 1949, rev. 1958) e Morte dell'aria (Toti Scialoja, Roma 1950). Uomo di grande spiritualità e di profonda fede cattolica, sin dagli esordi ha dedicato molta attenzione alla musica sacra: in tale ambito, capolavoro giovanile è il Salmo IX per coro, archi, ottoni, percussione e due pianoforti (1936), seguito dal Magnificat per soprano, coro e orchestra (1940), mentre nel periodo della maturità ricordiamo Orationes Cristi per coro, con ottoni, viole e violoncelli (1974-1975) e Tre cori sacri a cappella (1983). Lavoro di alto spessore esistenziale, ed uno dei più noti di Petrassi, è il Coro dei morti per voci maschili, tre pianoforti, ottoni, contrabbassi e percussione (dalla lirica leopardiana inserita nell'operetta morale Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie), scaturito da un'esigenza creativa insopprimibile all'indomani della dichiarazione di guerra dell'Italia alla Francia ed alla Gran Bretagna nel giugno 1940, pubblicato dalla Suvini-Zerboni solo nel 1953. Con il suo stile personale e la fermezza del suo lungo impegno, un ulteriore merito di Petrassi consiste nell'aver dimostrato, in un'epoca fortemente politicizzata come il Secondo dopoguerra in Italia, come si possa produrre una musica socialmente e spiritualmente significativa al di là di etichette artistiche, politiche e religiose.

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In bilico tra diverse culture Luigi Dallapiccola (1904-1975) nacque a Pisino d'Istria (attualmente in Croazia), ma nel 1916 seguì la famiglia a Graz (Austria), dove poté imparare il tedesco e conoscere il vasto repertorio musicale di area germanica, mentre dal 1918 al 1922 visse a Trieste: l'essere in bilico tra diverse culture e la vicinanza con l'arte mitteleuropea costituiranno pertanto uno dei punti di forza del suo magistero compositivo. Completò i suoi studi musicali al conservatorio di Firenze, città dove si era stabilito nel 1922 e poi, dal 1934 al 1967, svolse attività di docente presso tale istituto scegliendo, in linea col suo carattere schivo e modesto, d'insegnare pianoforte complementare piuttosto che composizione. La sua vicenda biografica fu lineare e tranquilla, tutta tesa alla realizzazione personale in campo compositivo. Solo dopo il secondo conflitto mondiale lasciò Firenze per diversi periodi, invitato come compositore ormai illustre e insegnante da prestigiose istituzioni straniere, quali il Queen's College di New York (1956), l'Università di Berkeley in California (1962) e l'Università del Michigan (1967). Come Petrassi, anche Dallapiccola si fece conoscere agli esordi con una Partita (nel suo caso per soprano e orchestra, 1933) e da quel periodo fino al 1936 si dedicò alla stesura dei Cori di Michelangelo Buonarroti il Giovane, realizzandone tre serie: per coro a cappella, per coro e 17 strumenti, per coro e grande orchestra. Tali composizioni testimoniano della sua aderenza al gusto neomadrigalistico diffuso in quegli anni (avvalorato dalla dedica della seconda serie proprio a Malipiero), ma anche della sua personale vocazione per l'intima corrispondenza tra parola e musica, realizzata tramite l'esplorazione delle potenzialità espressive della voce umana e la raffinatezza timbrica. Una costante del suo atteggiamento creativo fu infatti l'interesse per la grande poesia antica e moderna, scelta per corrispondenza interiore: musicò Saffo in Liriche greche(5 frammenti da Saffo) (1942), Alceo in Sex Carmina Alcaei (1943) e Anacreonte in Due liriche di Anacreonte (1945), composizioni per voce e strumenti; in epoca successiva si ricordano le Quattro liriche di Antonio Machado per soprano e pianoforte (1948; vers. per soprano e orchestra da camera, 1964), i Goethe Lieder per mezzosoprano e tre clarinetti (1953) e Parole di S. Paolo per voce e strumenti (1964).

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Vicino alla scuola di Vienna In ambito strumentale a inizio carriera Dallapiccola produsse vari lavori, tra cui Musica per tre pianoforti (Inni) (1935), con cui vinse il concorso internazionale del Carillon di Ginevra. Una significativa svolta stilistica si ebbe con Tre laudi per voce acuta e orchestra da camera (1937), composizione costruita su una riuscita fusione tra diatonia e dodecafonia. Per lui, vicino alla Scuola di Vienna, l'espressione artistica non poteva essere scissa dall'impegno etico e tale consapevolezza fu motore dell'ispirazione dei Canti di prigionia per voci miste e strumenti (1938-1941), lavoro di forte impatto emotivo nato dal sofferto tormento interiore dell'autore per l'imbarbarimento dei tempi ed il deflagrare del secondo conflitto mondiale. In linea con questo intimo rigore Dallapiccola approdò, come passo necessario ed ineludibile, alla dodecafonia che praticò per primo in Italia, insieme a Gino Contilli (1907-1978). Per il compositore l'adesione a questo stile trascese il mero ambito tecnico e significò poter coniugare la libertà dell'immagine musicale con la solidità della costruzione dodecafonica, sia in senso stretto che metaforico: nell'articolo Sulla strada della dodecafonia pubblicato dalla rivista «Aut-Aut» nel gennaio 1951 affermò «personalmente ho adottato tale metodo perché è il solo che, a tutt'oggi, mi permette di esprimere quanto sento di dover esprimere» (in Surian, IV, p. 100). Il tema della libertà della persona, contrastata dalla Storia e pagata a caro prezzo, fu il filo rosso che contrassegnò il suo impegno nel campo del teatro musicale, genere cui Dallapiccola, date le premesse del suo magistero artistico, doveva necessariamente approdare: su libretto proprio, nel 1940 venne rappresentata a Firenze Volo di notte (da un racconto autobiografico di Antoine de Saint-Exupéry), nel 1949, nel corso del Maggio Musicale Fiorentino, Il prigioniero, opera considerata il suo capolavoro e ambientata in Fiandra, al tempo della rivolta dei Pezzenti contro il potere oppressivo di Filippo II di Spagna, coadiuvato dalla Santa Inquisizione. Infine, a Berlino, nel 1968, comparve Ulisse, un'opera complessa il cui testo era stato collazionato da Dallapiccola da autori di epoche diverse a lui cari, come Eschilo, Dante, Pascoli e Thomas Mann.

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Commiato, testamento spirituale Anche in campo strumentale compose lavori significativi presto entrati in repertorio, come la Sonatina canonica in Mi bem. magg. per pianoforte su capricci di Paganini (1942-1943), le dueTartiniane per violino e orchestra da camera (1951 e 1956), il Quaderno musicale di Annalibera, sempre per pianoforte (1952, trascritto per orchestra con il titolo Variazioni nel 1954) e Piccola musica notturna per orchestra (1954). Un significato di testamento spirituale, alla luce della sua scomparsa avvenuta tre anni dopo, assume Commiato, per soprano e strumenti (1972). Accanto a Petrassi e Dallapiccola, vanno ricordati altri importanti compositori della loro generazione: oltre ai già citati Ghedini, Bettinelli e Contilli, Lino Liviabella (allievo di Respighi, 1902-1964), Giacinto Scelsi (1905-1989), che conobbe e reinterpretò, immettendole nel tessuto culturale italiano, estetiche e tecniche compositive orientali, Tito Aprea (1904-1989), Franco Margola (1908-1992), Roberto Lupi, capostipite della Schola Fiorentina (1908-1971), Nino Rota (1911-1979), Giancarlo Menotti (1911-2007) e Valentino Bucchi (allievo a Firenze di Dallapiccola e Vito Frazzi, 1916-1986).

Fra tradizione e innovazione Infine, si propone un breve quadro sulla coeva opera lirica: gli anni Cinquanta si configurano in Italia come una chiave di volta tra tradizione e innovazione, passato e presente, e il contesto culturale è animato da un infuocato dibattito tra "tradizione" e "modernità", quest'ultima rappresentata dall'estetica di Theodor Adorno e dai dodecafonisti della scuola di Darmstadt, che ricoprono un ruolo preminente. Nel 1949 si allestiscono al Teatro alla Scala di Milano Il Cordovano di Petrassi e alla Fenice di Venezia Billy Budd di Giorgio Federico Ghedini, nel maggio 1950 vedono la luce in contemporanea L'allegra brigata di Gian Francesco Malipiero, alla Scala, e Il prigioniero di Luigi Dallapiccola, al Comunale di Firenze seguite, in ottobre, da Morte dell'aria, sempre di Petrassi, all'Eliseo di Roma. Ancora nel 1950 al Teatro Carlo Felice di Genova si dà la prima italiana della Medium di Giancarlo Menotti, compositore italiano formatosi negli Stati Uniti, che usa un linguaggio post-pucciniano e nel 1958 fonda il Festival dei Due Mondi di Spoleto. Nel settembre 1951 alla Fenice di Venezia è vista come un autentico evento la prima dell'opera The rake's progress di Igor Stravinskij, su libretto di Wystan Hugh Auden; va ulteriormente menzionata La figlia di Jorio di Ildebrando Pizzetti, data nel dicembre 1954 al Teatro S. Carlo di Napoli. Infine, nell'Italia uscita dalla Seconda guerra mondiale e divenuta, tramite referendum, una repubblica, la divulgazione culturale ricopre un ruolo importante e anche il teatro musicale viene proposto in modo "popolare" attraverso la radio: specifiche opere vengono commissionate a questo scopo, di cui I due timididi Nino Rota (scritta nel 1950, registrata nel 1953) costituisce uno dei primi esempi.

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LA NUOVA MUSICA

Berio, verso un'opera plurale Luciano Berio (1925-2003) nacque a Oneglia (Imperia) da una famiglia di musicisti, all'interno della quale ricevette la sua prima formazione, proseguendola al conservatorio di Milano, dove si diplomò in composizione nel 1950, studiando con Giulio Cesare Paribeni e Giorgio Federico Ghedini. L'incontro determinante fu però quello con Luigi Dallapiccola, con cui nel 1951 si specializzò al Berkshire Music Festival di Tanglewood (USA). Nel 1954 fondò con Maderna lo Studio di Fonologia Musicale presso la Rai di Milano, assumendone la direzione fino al 1959. Espletò la sua attività didattica presso le istituzioni più prestigiose, tra cui la Harvard University, la Juillard School of Music di New York, i Corsi internazionali di Darmstadt, l'Ircam di Parigi. Di grande stimolo per la sua attività di compositore fu la vicinanza con l'eclettica artista e cantante armeno-statunitense Cathy Berberian, che fu sua moglie dal 1950 al 1966. Il linguaggio di Berio, che si distanzia sia dall'etica espressionistica che dal contesto seriale e dalla musica materica, è incentrato sull'atto del comporre inteso come esplorazione, ludus, artigianato, atto comunicativo, in una visione sincretica di epoche e stili. Berio, sin dagli esordi compositivi, ha dunque rigettato il formalismo accademico (anche quello della cosiddetta "avanguardia" del suo tempo), fidandosi del suo senso creativo e della sua fantasia, con un atteggiamento eclettico e, in un certo senso, onnivoro, verso l'universo sonoro, tenendosi lontano da ogni dogmatismo teorico e da ogni scuola. Per permettersi questa libertà creativa ha assimilato e padroneggiato tecniche compositive diverse, ha indagato i meccanismi della semiologia e avvicinato diverse discipline all'atto compositivo, nell'ottica di un'"opera plurale" che fosse in grado di comunicare con l'ascoltatore. Berio infatti aveva capito che lo strutturalismo inteso in modo esclusivo poteva condurre al vicolo cieco dell'identificazione della composizione con la sua sola progettualità, mentre per lui essa era esattamente il contrario, cioè un meccanismo aperto verso molteplici significati e sollecitazioni. Dello strutturalismo mantiene il rigore compositivo, però rivolto agli esiti finali del progetto creativo, che lui attua con materiali musicali eterogenei, apparentemente lontani tra loro, e conduce sempre in modo unitario, teso a cogliere rapporti inconsueti e valenze semantiche nuove tra gli elementi utilizzati.

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Frequenti soggiorni all'estero Quest'apertura mentale gli derivava dall'ambiente familiare (il padre, ottimo musicista, non disdegnava di accompagnare al pianoforte i film muti), dai frequenti soggiorni all'estero, dalla sua composita attività di direttore d'orchestra, trascrittore, organizzatore, docente. Nel 1956 affermava che «oggi, al di là di ogni richiamo all'apollineo e al dionisiaco, ritornano ad emergere le qualità pratiche ed artigiane del compositore». Già in Chamber music per voce femminile, clarinetto, violoncello e arpa (da J. Joyce, 1953) aveva dato un'interpretazione "affettiva" della serie dei 12 suoni, evidenziandone gli aspetti melodici. In un'intervista concessa a Rossana Dal Monte e confluita nel volume Intervista sulla musica edito dalla casa Laterza nel 1981, Berio tocca numerosi aspetti della sua arte, fornendone illuminanti spiegazioni: «È certo che mi sono occupato di jazz, di folklore e, addirittura, anche di canzonette. Non però con il gusto del recupero. Ogni contatto con queste "altre sfere" ha sempre avuto diverse motivazioni. […] Il mio rapporto con la musica popolare è di natura diversa e non è aneddotico come è stato, invece, il mio rapporto col jazz e le canzoni. Il mio interesse per il folklore è di vecchia data se penso che da ragazzo scrivevo delle false canzoni popolari. Recentemente questo interesse ha messo radici più profonde e ho cercato di capire, in maniera più specifica, più tecnica, i processi che governano certi stili popolari ai quali mi sento attratto [… ]. Penso soprattutto al folklore siciliano, a quello serbo-croato e alle "eterofonie" dell'Africa centrale. Non sono un etnomusicologo, sono solo un egoista pragmatico: infatti tendo ad interessarmi solo a quelle espressioni, a quelle tecniche popolari che, in un modo o nell'altro, possono essere assimilate da me senza frattura e che mi permettono di esercitarmi a fare qualche passo avanti nella ricerca di una unità soggiacente fra mondi musicali apparentemente estranei l'un l'altro». [pp. 116-118].

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Dalla tradizione, senza la tradizione Con Maderna, cui lo accomunavano alcune posizioni e(ste)tiche, ebbe un rapporto importante, tanto da dividere con lui anche l'esperienza compositiva: dalla loro collaborazione nacqueDivertimento per orchestra (1955). Una personalità come la sua non poteva che approdare al teatro musicale, grande metafora della vita, e infatti vi esordisce nel 1954 con Mimousique II, un'azione mimica su libretto di Roberto Leydi, data a Bergamo nel 1954, ma sempre scegliendo un approccio che, partendo dalla tradizione, volutamente la nega. In tale ambito i suoi lavori più noti sono Opera (Santa Fé 1970, rev. Firenze 1977), La vera storia (su testo di Italo Calvino, 1977-1979, rappresentata a Milano nel 1982), Un re in ascolto (id., Salisburgo 1984) e Outis (1996). Subisce la fascinazione della voce umana, in particolare di quella femminile, soprattutto per la sua capacità di rendere i fonemi significanti, così i suoi lavori vocali diventano paradigmatici per i giovani autori italiani degli anni Settanta e Ottanta: con Folk songs per mezzosoprano e sette strumenti (1964; vers. con orchestra, 1973) dà sfogo alla sua tendenza alla contaminazione, fornendo uno dei rari esempi in cui la musica occidentale del tempo si confronta con la canzone popolare; con Sequenza III (1966) offre una geniale sintesi di tutte le possibilità espressive della voce umana, sia come tale, sia in rapporto con la polisemia del testo: in Cries of London per sei voci (1974; vers. per otto voci, 1975) utilizza ludicamente le grida dei venditori ambulanti; con A-ronne per otto voci (1974) suggella il suo rapporto con il suo alter ego letterario, Edoardo Sanguineti, legato a lui da un sodalizio di lunga data da cui nel 1965 era nato il significativo Laborintus II per voci e strumenti. Anche nella scrittura strumentale Berio lascia il segno: la sua Sinfonia per otto voci soliste e orchestra (1968), costruita su frammenti musicali estrapolati da secoli di musica, da Monteverdi a Stockhausen, è esemplificativa del possibile incontro tra generi e stili che successivamente caratterizzerà il post-moderno europeo, mentre con la serie di Sequenzesolistiche letteralmente rifonda il linguaggio degli strumenti affrontati. Ne scrive quattordici, dalla prima per flauto, dedicata a Severino Gazzelloni (1958) all'ultima, per violoncello (2002, vers. per contrabbasso di Stefano Scodanibbio), passando per l'arpa (1963), la voce umana, il pianoforte e il trombone (1966), la viola (1967), l'oboe (1969), il violino (1977), il clarinetto (1980; esiste anche una vers. per sassofono), la tromba (1984), la chitarra (1988), il fagotto (1995) e la fisarmonica (1998). I suoi tardi lavori sanciscono il definitivo allontanamento dall'estetica di Darmstadt e costituiscono l'articolata conferma di uno stile ormai consolidato, basato su molteplici letture di materiali eterogenei, con un'attenzione sempre maggiore verso la vocalità: si citano Ofanim per solo, coro, strumenti ed elaborazioni elettroniche (1988-1992), Shofar per coro e orchestra (1995) e l'opera teatrale Cronaca del luogo(1999), in cui i suoni sono resi come una specie di graffiti sul muro musicale, per cui fanno simbolicamente parte dell'intero progetto ma si possono anche guardare uno alla volta.

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Bruno Maderna: un italiano a Darmstadt Bruno Maderna (1920-1973), carismatico compositore, direttore d'orchestra e didatta veneziano, è stato una figura fondamentale a livello internazionale per la nuova musica di metà Novecento. Diplomatosi giovanissimo in composizione al conservatorio romano di Santa Cecilia, si perfezionò a Venezia col suo conterraneo Gian Francesco Malipiero (1942-1943) e, per la direzione d'orchestra (campo cui indirizzò da subito i propri interessi e nel quale, da bambino, era stato enfant prodige), ebbe come principali maestri Antonio Guarnieri e Hermann Scherchen. Nel 1949 divenne, insieme a Pierre Boulez, direttore stabile dell'Internationales Kammerensemble (Orchestra da Camera Internazionale) di Darmstadt, la cittadina tedesca vicina a Francoforte dove si svolgevano dal 1946 gli Internationale Ferienkurse für Neue Musik, promossi da Wolfgang Steinecke, che erano sede d'incontro e di formazione per numerosi compositori di tendenze sperimentali, in genere seguaci dello strutturalismo postweberniano, e per strumentisti interessati alla sperimentazione di nuove tecniche. Furono infatti componenti di spicco dell'Orchestra da Camera di Darmstadt nella sua prima versione il flautista Severino Gazzelloni, l'oboista Lothar Faber, i clarinettisti Guy Deplus, Georgina Dobrée e Stelio Licudi, il cornista Renato Fagotto, i pianisti Alfons e Aloys Kontarskij, il percussionista Christoph Caskel e i componenti del Quartetto Parenin.

Lo Studio di Fonologia Musicale di Milano La vocazione "pionieristica" di Maderna si esplicò ulteriormente nel 1955, anno in cui insieme a Luciano Berio fondò lo Studio di Fonologia Musicale presso la Rai di Milano. Svolse un'intensa attività di didatta della composizione contemporanea e della direzione d'orchestra in Italia e all'estero, presso istituzioni di grande prestigio come il conservatorio di Milano, la Summer School of Music del Dartington College di Devon, in

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Inghilterra, il Conservatorio di Rotterdam, il Mozarteum di Salisburgo (1967-1970). Dal 1971 alla morte fu direttore stabile dell'Orchestra sinfonica della Rai di Milano, nel 1972 la sua "invenzione radiofonica" Ages vinse il PremioItalia e nel 1974 gli fu conferito alla memoria dalla città di Bonn, a suggello dell'eccellenza del suo operato artistico, il Premio Beethoven per il suo lavoro Aura. Cresti lo definisce «un umanista italiano in mezzo allo sperimentalismo europeo» (cfr.Ipertesto, p. 533), in quanto Maderna seppe e volle utilizzare tecniche nuovissime per esplorare le infinite possibilità offerte dagli elementi musicali tradizionali, coniugando come nessun altro in quell'epoca di asettico sperimentalismo Avanguardia e Storia, secondo la lezione appresa in gioventù dal suo maestro Malipiero. Influì sul suo impiego delle procedure seriali la concreta prassi del dirigere, per cui il suo strutturalismo fu sempre musicalmente vivo e operante, tanto rigoroso quanto comunicativo, sempre volto all'evento sonoro: questa sua posizione lo rese sui generis, attirandogli talvolta le critiche dei circoli compositivi più intransigenti. Inoltre, il temperamento curioso unito a geniale fantasia e profonda cultura lo portarono a operare feconde contaminazioni: in Composizione N. 2 (1950) e Improvvisazione N. 1 (1951-1952) si rinvengono sottesi rimandi all'antica melodia greca Epitaffio di Sicilo e a ritmi di valzer, rumba, polka e can-can, in Composizione in tre tempi (1954) tre canti popolari veneti sono elaborati secondo i raffinati dettami ritmici del contrappunto fiammingo, mentre Dark rapture crawl (1957; i medesimi materiali musicali saranno utilizzati nel Concerto per pianoforte e orchestra del 1959) si apre a evidenti influenze jazzistiche.

Tra il poeta e la macchina Anche nel suo rapporto con la musica elettronica Maderna (che con Berio e il musicologo Luigi Rognoni aveva ben chiaro sin dal 1955, quando fonda lo Studio di Fonologia della Rai di Milano, come liberare tale tipo di musica dalla sua sudditanza agli aspetti puramente tecnologici) disdegna posizioni di esclusivo sperimentalismo, mostrandosi più interessato al rapporto tra suoni sintetici e suoni prodotti naturalmente: per primo, in Musica su due dimensioni per flauto, piatto e nastro magnetico (1952) combina suoni elettronici e dal vivo, mentre in altri lavori usa suoni strumentali tradizionali come base per trasmutazioni elettroniche. S'impegnò per quasi un decennio nel work in progress Hyperion, trattato e rielaborato in numerose e sempre diverse versioni, collegate dall'assunto iniziale, cioè l'esplorazione del rapporto conflittuale tra il Poeta e la Macchina, ovvero l'individuo e il sistema, riflessione che costituisce il filo rosso dell'intero operato maderniano. L'ultima stagione compositiva dell'autore si aprì con Quadrivium per quattro esecutori di percussioni e quattro gruppi d'orchestra (1969), lavoro costruito su una controllata tecnica aleatoria, esito del percorso degli anni precedenti, a cui Maderna stesso, come direttore, dava il suo determinante contributo. Uomo di profonda umanità e semplicità, in nessun altro compositore dell'epoca come in Maderna l'ispirazione musicale fu congiunta con l'esperienza della vita, con umani sentimenti quali la nostalgia, la sofferenza, la commossa empatia verso il prossimo e l'esterno, come le sue composizioni degli anni Settanta testimoniano ampiamente. Suo testamento spirituale va considerato il Terzo concerto per oboe, da lui stesso magistralmente diretto a Amsterdam nel 1973, in cui vengono recuperati l'elemento melodico e la dimensione lirica, e di cui lui stesso ha scritto «Ho pensato, componendolo, che la musica esiste già, che è sempre esistita [….] È solo necessario un atto di fede per sentirla intorno a sé, dentro di sé, e quindi realizzarla in una partitura. "Formale" e "informale" sono la stessa cosa» (cfr. voce DEUMM, p. 564). Analogo valore definitivo nel contesto della poetica e della ricerca di Maderna, anche alla luce della sua scomparsa imminente, assume l'opera Satyricon, da Petronio (Amsterdam 1973), in cui una varia e straniata umanità, emblematica di ogni epoca, è ritratta con un disincanto venato d'umana pietà, sulla base di uno stile musicale "aperto" e pulsante, che si apre anche al sentire del pubblico, in una

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rappresentazione teatrale a tutto tondo. Altri suoi capolavori sono Aulodia per Lothar per oboe d'amore e chitarra ad lib. (1965), Serenata per un satellite per sette strumenti e Concerto per violino, entrambi del 1969.

Luigi Nono: il nuovo in ogni sua forma Luigi Nono (Venezia 1924-1990) è stato uno dei primi compositori italiani della sua generazione a farsi conoscere a livello internazionale e, insieme a Berio, è forse l'autore più universalmente noto degli anni Sessanta. Nato in una illustre famiglia veneziana, si formò nella sua città con Gian Francesco Malipiero (19411946) e poi Bruno Maderna, cui fu legato da un'amicizia fraterna. Importante per lui fu anche l'esperienza di studio condotta con i due grandi direttori d'orchestra Hermann Scherchen e Hans Rosbaud. In linea con le idee dei suoi maestri di composizione, non amava il formalismo accademico dell'avanguardia post-weberniana né le concezioni estetiche dei suoi quasi coetanei Pierre Boulez e Karl-Heinz Stockausen, i quali negavano alla musica qualunque significato extramusicale. Egli si sentiva attratto verso il nuovo in ogni sua forma, non in quanto tale ma come veicolo di senso, e nel contempo verso la grande tradizione polifonica fiamminga e rinascimentale. Questi due orientamenti, apparentemente inconciliabili, nell'ambito del suo percorso creativo si salderanno e nutriranno a vicenda, producendo esiti molto originali. Il giovane Nono subisce l'influenza di Schönberg soprattutto sul piano dell'impegno etico e della dialettica tra "espressione" e "forma": il suo primo lavoro, Variazioni canoniche sulla serie dell'op. 41 di A. Schoenberg per orchestra da camera (1950), vuole essere un omaggio al fondatore della dodecafonia, di cui doveva sposare nel 1955 la figlia Nuria. La passione civile che lo anima si evidenzia subito, nell'intensa e emozionata adesione all'universo di Federico García Lorca (uno dei suoi autori preferiti) che pervade il Trittico lorchiano (1951-1953) per voci, coro e strumenti. L'intento comunicativo lo spinge a privilegiare la voce, mentre a livello estetico vuole annullare la distinzione dei parametri e dimostrare che il percorso musicale si sviluppa all'interno del suono: nascono pertanto alla fine degli anni Cinquanta capolavori come Il canto sospeso per soprano, contralto, tenore, coro e orchestra, su lettere di condannati a morte della Resistenza europea (1955-1956), La terra e la compagna per soprano, tenore, coro e strumenti (da Cesare Pavese, 1958), I Cori di Didone per coro e percussioni (da Giuseppe Ungaretti, 1958) e in quest'ottica, sin dal 1960 utilizza il nastro magnetico, inizialmente inOmaggio a Emilio Vedova, poi in tanti lavori successivi, tra cui Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz (1966, dalle musiche di scena per Die Ermittlung di Peter Weiss, Berlino 1965).

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Denuncia sociale e ricerca linguistica Nel 1959, con la conferenza Presenza storica nella musica di oggi tenuta a Darmstadt, Nono prende le distanze dalle avanguardie degli anni Cinquanta, critico in particolare contro l'alea e John Cage. Alla generale mancanza di certezze in ambito estetico egli risponde con un maggiore impegno politico e con un'assunzione di responsabilità in prima persona: nasce l'azione scenica Intolleranza 1960 (da un'idea di Angelo Maria Ripellino, Venezia 1961), in cui intraprende la strada della denuncia sociale, condotta musicalmente tramite il rigoroso prosieguo della sua ricerca linguistica. Di questa stagione creativa si segnalano Como una ola de fuerza y luz per soprano, pianoforte, orchestra e nastro magnetico (1972), Siamo la gioventù del Vietnam per coro unisono (1973) e l'opera su libretto proprio Al gran sole carico d'amore (da testi di Arthur Rimbaud e altri), rappresentata per la prima volta al Teatro Lirico di Milano nel 1975 per la direzione di Claudio Abbado (uno dei più fidati collaboratori del compositore insieme al pianista Maurizio Pollini), ritenuta dal critico Enzo Restagno la grande sintesi e la ricapitolazione del percorso creativo condotto da Nono fino a quel momento e il preludio verso il percorrimento di altre strade. In essa l'autore riutilizza il live electronics, già usato nell'opera Non consumiamo Marx (da Cesare Pavese e anonimi, Parigi 1969), strumento cui rivolgerà la propria attenzione fino agli ultimi anni. Dalla fine degli anni Settanta l'attenzione creativa di Nono privilegia infatti il campo della musica elettronica, intesa come ulteriore possibilità per allargare l'ambito espressivo disponibile all'atto del comporre e per proseguire la sua ricerca di spazi acustici di nuova concezione. L'esito culminante di questo percorso è l'opera-capolavoro Prometeo, tragedia dell'ascolto (Venezia, Chiesa di San Lorenzo, 25 settembre 1984), il cui testo è stato ideato da Nono in collaborazione con il filosofo Massimo Cacciari e consiste in un collage di frammenti poetici in italiano, greco e tedesco. In essa la narrazione e la scena tradizionali sono state sostituite da una "camera acustica", basata su una struttura in legno chiaro specificamente concepita dall'architetto Renzo Piano sul cui pavimento trovano posto 400 spettatori chiamati a partecipare ai movimenti e alle trasformazioni del suono, prodotto da molteplici e variamente posizionate fonti acustico-spaziali. Dopo la sua prematura scomparsa, tra le carte di Nono si sono rinvenuti appunti e abbozzi preparatori sull'Infinito di Giacomo Leopardi, testo che amava dalla prima giovinezza e che presumibilmente aveva intenzione di musicare. Partiture, documenti e tutto quanto concerne il percorso biografico e musicale di questo compositore, grande tanto come artista che come uomo, sono oggi conservati presso l'Archivio "Luigi Nono" di Venezia, costituito nel 1993.

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NEOAVANGUARDIE E TRADIZIONE

(Con) Luigi Nono Si è voluto denominare in questo modo il paragrafo parafrasando il titolo di un'importante rassegna su Nono che il Teatro della Pergola di Firenze ospitò nella primavera del 1983 e che riunì intorno all'autore giovani compositori vicini alla sua poetica, perché egli svolgeva con passione un ruolo aggregatore e orientatore delle nuove energie in campo compositivo ed era un promotore acuto e generoso della nuova musica. Così, pur non esistendo in epoca contemporanea una vera e propria scuola compositiva veneziana, si inseriranno in questa sezione della trattazione altri autori di area veneta a lui direttamente o idealmente vicini. Claudio Ambrosini (1948), compositore veneziano, ha studiato al conservatorio della sua città musica elettronica e strumenti antichi, laureandosi contemporaneamente in Lingue Straniere e in Storia della Musica. Si è poi perfezionato con René Clemencic in Belgio. Frequenti, a Venezia, i suoi incontri con Bruno Maderna e Luigi Nono, che lo annoverava tra i suoi autori preferiti. Si è interessato permanentemente alla ricerca strumentale e alla produzione del suono, rivolgendo la sua attenzione sia alla "fisiologia" degli strumenti sia all'ascolto inteso come percezione/comunicazione (tanto che nel 1980 aveva coniato il termine "acuologia", nel senso di "ecologia dell'ascolto"): nel 1977 inizia ad occuparsi di computer music presso il Centro di Sonologia Computazionale dell'Università di Padova; dal 1979 dirige l'Ex Novo Ensemble, che ha fondato, unitamente al CIRS (Centro Internazionale per la Ricerca Strumentale), costituito nel 1983; nel 2007 fonda Vox Secreta, un ensemble vocale e strumentale che si prefigge di dar vita ad un nuovo progetto di espansione della vocalità. Volutamente lontano da scuole e circoli di settore, dedito ad una solitaria ed altissima attività compositiva, nel suo lungo percorso di ricerca Ambrosini ha composto lavori vocali, strumentali, elettronici, opere liriche e radiofoniche (spesso su libretto proprio), oratori e balletti, commissionati da enti italiani e stranieri, e ha partecipato alle principali rassegne internazionali (tra cui il Festival di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia, Strasbourg, Stanford, New York, Sidney, e altri). Sue musiche sono state inserite nei programmi dell'IRCAM di Parigi, della Scala di Milano, delle Fondazioni Gulbenkian di Lisbona e Gaudeamus di Amsterdam, del Mozarteum di Salisburgo, della Akademie der Künste di Berlino, di Perspectives du XX siècle di Radio France, ecc. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti è senz'altro da ricordare nel 1985 il Prix de Rome, dato per la prima volta ad un musicista non francese. Tra i suoi lavori degli anni Ottanta si ricordano Rondò di forza per pianoforte (1981), De vulgari eloquentia per sei strumenti (1984) e Trobar clus per pianoforte e dieci strumenti (1985); tra quelli degli anni Novanta vanno segnalati la cantata Proverbs of hell per soli, pianoforte, percussione, coro e grande orchestra (1990-1991), commissionata dalla Rai, e la Passione secondo Marco (1999-2000), commissionata dall'Accademia Filarmonica Romana e da Rai Tre in occasione del Giubileo. Nel 2007 ha vinto il Leone d'Oro per la Musicadella Biennale di Venezia con Plurimo, concerto per due pianoforti e grande orchestra dedicato a Emilio Vedova, e nel 2008 il premio Music Theatre Now (Berlino) per l'opera Il canto della pelle - Sex Unlimited. La sua opera Il killer di parole (da un soggetto di Daniel Pennac e dell'autore), commissionata dal Teatro La Fenice di Venezia e ivi rappresentata nel dicembre 2010, ha ottenuto il prestigioso Premio Abbiatidella critica musicale italiana, ed è stata riallestita in traduzione francese al Teatro dell'Opera di Nancy nel giugno 2012. Le due opere citate fanno parte di un ciclo che ne comprende cinque, iniziato con Il giudizio universale (1996) e proseguito con Big Bang Circus (2000-2002), Il canto della pelle (2005-2006), Il killer di parole (2008-2010) e Apocalypsis cum figuris (2012).

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La via veneta di SONOPOLIS Prezioso collaboratore di Nono (ma anche di Aldo Clementi, Salvatore Sciarrino, Claudio Ambrosini, Franco Donatoni e altri) nella realizzazione elettronica di lavori musicali è il padovano Alvise Vidolin (1949). Collabora con il Centro di Sonologia Computazionale dell'ateneo di Padova fin dal 1974, occupandosi di ricerca e di didattica, ed è cofondatore dell'Associazione di Informatica Musicale Italiana (AIMI), di cui è stato presidente nel triennio 1987-1989. Nicola Cisternino (1957), di origine pugliese, è veneto d'adozione. Si segnala particolarmente per la sua costante attività nel campo della divulgazione e della didattica. Ha ideato e condotto progetti significativi nella storia della musica contemporanea italiana, tra cui SONOPOLIS, Percorsi integrati nella musica d'oggi in Veneto. Come docente di una scuola media a indirizzo musicale, ha dato vita all'Ensemble Palomar, costituito da giovanissimi, con cui affronta innovative esperienze di musica d'insieme. Da questa forma mentis proiettata verso l'esterno scaturisce la sua produzione artistica: le sue composizioni sono "metaprogetti" che nascono dopo una gestazione di anni e si estendono nel tempo come, ad esempio, il ciclo di Apokalipsys (1987- primi anni '90), e quello de Le vie dei canti, iniziato nel 1997. Dotato di un doppio talento, quello musicale e quello grafico-pittorico, ex allievo e amico di Sylvano Bussotti, è tra i pochi oggi in Italia a perseguire una scrittura alternativa che sia anche opera d'arte. I Graffiti sonori, iniziati nel periodo 1980-1985 con una serie di disegni a matita su carta di cm 50x70 e proseguiti con Ottosonante, fino alla partitura-graffito computerizzata di Xöömij – da Le Vie dei Canti (omaggio a Bruce Chatwin, 1997) sono stati esposti più volte in Italia e in Francia.

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Sylvano Bussotti. La "Schola fiorentina" Bussotti (Firenze 1931) è l'esponente più illustre e sui generis di quella "Schola fiorentina" promossa dal concreto insegnamento compositivo di Roberto Lupi e della costante, prestigiosa presenza di Luigi Dallapiccola. Ha studiato violino e composizione al conservatorio "Luigi Cherubini", perfezionandosi a Parigi nel 1957 con Max Deutsch. Dotato di un talento eclettico, in grado di spaziare dal campo musicale a quello pittorico e teatrale (lo zio Tono Zancanaro è stato uno dei più grandi grafici del Novecento e anche il fratello Renzo è nel campo delle arti figurative), Bussotti dagli anni Sessanta è attivo come compositore, regista, promotore di performance di musica contemporanea, spesso di tipo gestuale, scenografo, organizzatore musicale, con incarichi prestigiosi come la direzione artistica della Fenice di Venezia (1976-1977): nel 1962 ha vinto il concorso di composizione indetto dalla SIMCSocietà Italiana Musica Contemporanea, nel 1967 ha collaborato con il Living Theatre di New York. Le sue partiture hanno una veste grafica curata e originale, sono in un certo senso esse stesse opere d'arte, e come esempi di grafia musicale contemporanea vengono spesso esposte e citate. I suoi molteplici campi d'azione l'hanno portato a concepire in ambito teatrale "spettacoli totali", circolari, in cui egli cura, oltre a quello musicale, ogni altro aspetto (testuale, coreografico, scenografico-registico, costumistico), definiti dall'autore stesso dal 1976 «Bussottioperaballet». È intuibile come un temperamento artistico e "polilinguistico" libero come quello di Bussotti sia entrato da subito in rotta di collisione col post-webernismo imperante in Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta. In generale, compone in modo asistematico e refrattario a possibili catalogazioni, seguendo un proprio e originale senso della forma. Bussotti intende il suono come evento privato, intimo, tale da esprimere l'irripetibile soggettivo, spesso la sua spinta è autobiografica, è pertanto attratto dalla voce umana, che ha spesso utilizzato in veste sia solistica sia corale: ricordiamo Torso, liriche per voce e orchestra (testi di Aldo Braibanti, 1960), Cinque frammenti all'Italia per voci sole (1967-1968) e The Rara Requiem per 7 sette voci e strumenti (1969). Tra i suoi numerosi balletti e opere, una gestazione di anni ha caratterizzato Lorenzaccio (da Alfred De Musset, 1968-1972; Venezia 1972), definito «melodramma romantico danzato in 5 atti, 23 scene e 2 fuoriprogramma». Particolarmente emblematici del suo stile e della sua esuberante personalità sono il "mistero da camera" La Passion selon Sade (Louise Labé, Palermo 1968), il poema coreografico Bergkristall (1972-1973, Roma 1974; versione per orchestra, 1979). Col balletto Oggetto amato e il melodramma Nottetempo (entrambi del 1976) Bussotti ha inaugurato la serie di composizioni definite «Bussottioperaballet», proseguite annualmente con vari titoli, tra cui si ricordano Le Rarità, potente (1979) e La Racine: pianobar pour Phèdre (1980). Negli ultimi anni si è dedicato alla stesura dell'opera da camera autobiografica in un tempo su testi propri Silvano Sylvano. Rappresentazione della vita, per soprano, tenore, basso, voce recitante, ballerini e strumenti (2002-2007, work in progress; Roma 2007; Stoccolma, 2008).

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Dopo gli happening Amico e collaboratore di Bussotti sin dagli anni Sessanta è il compositore Giuseppe Chiari(19262007), appartenente al gruppo Fluxus che, influenzato da John Cage, fa musica d'azione, organizza happening e mostre di pittura. Gli sono vicini i pianisti/compositori Daniele Lombardi (1945) e Giancarlo Cardini (1940). Tra le figure storiche della "Schola fiorentina" vanno senz'altro ricordati Arrigo Benvenuti (1925-1992), colui che fonda nel 1954 l'organismo culturale con questo nome, aggregando i più begli ingegni musicali della zona, tra cui il celebre chitarristacompositore Alvaro Company (1931), allievo di Andrés Segovia, dalla cui scuola sono usciti i membri del Trio Chitarristico Italiano Alfonso Borghese, Roberto Frosali e Vincenzo Saldarelli e il chitarrista-compositore Nuccio D'Angelo (1958); Carlo Prosperi(1921-1990), docente di alta composizione al conservatorio "Luigi Cherubini", dalla cui classe provengono tutti i compositori toscani degli anni Settanta ed Ottanta; Piero Luigi Zangelmi(1927-2004), anch'egli insegnante al "Cherubini", fine autore di musiche cameristiche e pianistiche; Paolo Renosto (1935-1987), apprezzato compositore di opere per il teatro musicale e di lavori orchestrali dalla raffinata timbrica e Antonino Riccardo Lucani (1931), musicologo, compositore ed autore di musiche da film e televisive, oltreché di lavori per il teatro e da camera, entrambi allievi di Lupi; Gaetano Giani Luporini (1936), a lungo direttore dell'istituto musicale pareggiato "Luigi Boccherini" di Lucca, impegnato come compositore, pittore e poeta, e importante collaboratore dell'attore/regista Carmelo Bene; Ugalberto De Angelis (1932-1982), autore di stile espressionista. Vanno inoltre ricordati come specialisti e docenti di musica elettronica Pietro Grossi (1917-2002) e Albert Mayr (1943). Tra gli strumentisti ricercatori per il proprio strumento si citano il flautista Roberto Fabbriciani, il clarinettista Ciro Scarponi, il pianista Pietro Rigacci (figlio del noto direttore d'orchestra Bruno). Anche il compositore Giorgio Battistelli (Roma, 1953), come direttore artistico dell'Orchestra regionale Toscana, ha svolto un suo ruolo nel locale contesto musicale. Appassionato studioso e divulgatore della storia musicale toscana del secondo Novecento è il musicologo fiorentino Renzo Cresti (1953), cui si devono fondamentali studi su molti degli autori citati e numerose iniziative di promozione della musica contemporanea italiana.

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La "scuola milanese" A metà del Novecento hanno studiato e operato a Milano una serie di personalità che, pur nelle loro differenze, hanno poi lasciato un'eredità artistica tuttora operante, da qui la scelta di parlare di una vera e propria "scuola milanese". Il milanese Bruno Bettinelli (1913-2004), allievo di Giulio Cesare Paribeni e Renzo Bossi al conservatorio "Giuseppe Verdi" di Milano e poi docente di composizione dal 1957 presso la medesima istituzione, è stato un importante caposcuola, che ha formato molti dei protagonisti della musica italiana del secondo Novecento, quali Claudio Abbado, Danilo Lorenzini, Bruno Canino, Aldo Ceccato, Riccardo Chailly, Azio Corghi, Armando Gentilucci, Riccardo Muti, Angelo Paccagnini, Maurizio Pollini, Uto Ughi, e tanti altri. Cantante e compositrice di fama è Silvia Bianchera (1946), ex allieva e consorte di Bettinelli, a cui si devono molte iniziative per promuovere l’opera e il ricordo musicale del maestro. Bettinelli si è distinto come vincitore di concorsi compositivi fin dalla giovinezza, ma la consacrazione gli è venuta dal Premio Ferruccio Busoni del 1955, ottenuto con la Fantasia per pianoforte. Sia come persona che come autore ha sempre posto la coerenza concettuale e linguistica al primo posto, intendendola fortemente legata alla coerenza morale. Per lui la musica è impegno, studio, ricerca e applicazione costanti, per acquisire il "mestiere" tecnico necessario ad esprimersi con libertà, al di fuori di costrizioni stilistiche e scuole. Nell'aprile 1991, in un'intervista concessa a Renzo Cresti per «Piano Time», così spiegava il suo punto di vista: «L'attuale disorientamento, si diceva, fa dunque seguito all'esaurirsi di questa "certa avanguardia" radicale, esasperata, chiusa in se stessa, con ben poca possibilità di comunicare valendosi di un linguaggio in continua evoluzione […]. Sta di fatto che questa situazione sta provocando nelle giovani generazioni una crisi che rasenta lo sgomento. Da qui il nascere di nuove "correnti" del tipo neoromantico, minimalista, e via dicendo. Correnti che significano spesso raggruppamenti di singole unità senza una ben precisa fisionomia personale; personalità che, viceversa, dovrebbero significare (e siamo alle solite) spiccato talento sorretto da una ferrea conoscenza e pratica delle tecniche, in tutta la loro estensione. Per concludere; al di fuori di "ismi", di vane limitazioni, di ridicole barriere, di fanatiche esclusioni, ciò che conta veramente è il sapersi rendere conto nel dovuto modo che "in musica tutto è permesso, niente è permesso". Forte di questa presa di coscienza, l'autentico artista saprà sempre fare le scelte giuste, anche le più ardite. Ai velleitari si addice il silenzio». (in Enciclopedia italiana dei compositori contemporanei, I, pp. 40-41).

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Dal Barocco alla Dodecafonia Stilisticamente, Bettinelli ha saputo coniugare forme e stili ereditati dalla tradizione (in particolare, il contrappunto e il principio della variazione) con le istanze della nuova musica e con l'interesse per la ricerca timbrica e armonica, giungendo ad utilizzare in modo libero e personale il totale cromatico. Nel Concerto n. 3 per orchestra (1954) aveva ripensata e fatta propria la lezione di Webern; nei primi anni Sessanta, con Episodi, sempre per orchestra, aveva privilegiato il timbro come veicolo espressivo. Non si è precluso alcun genere compositivo, lasciando tre opere, sette sinfonie, concerti per strumenti e orchestra, musica vocale sacra e profana (su testi di Montale e Ungaretti), pezzi cameristici e solistici. Come i grandi maestri del primo Novecento, ha altresì studiato e revisionato composizioni di autori del Barocco italiano. Quasi coetaneo di Bettinelli, ma di diverso orientamento stilistico, è stato il milanese Riccardo Malipiero (1914-2003), nipote e allievo di Gian Francesco. L'interesse per la dodecafonia si era evidenziato già nel 1938, confluendo nell'opera Minnie la candida, su libretto di Massimo Bontempelli, rappresentata nel 1942 al Teatro Regio di Parma. Dal 1945 si è avvalso integralmente della tecnica dodecafonica e nel 1949 a Milano ha organizzato, con Luigi Dallapiccola, Bruno Maderna e il bresciano Camillo Togni (1922-1993), il Primo congresso internazionale di musica dodecafonica. Altri due importanti autori da citare sono i milanesi Niccolò Castiglioni (19321996) e Giacomo Manzoni (1932). Anche per la loro formazione l'opera di Schönberg e lo strutturalismo sono stati fondamentali: Castiglioni ne ha approfondito le tecniche ai corsi estivi di Darmstadt, Manzoni ha avuto l'opportunità di studiare con uno dei più importanti dodecafonisti italiani, Gino Contilli (1907-1978), al liceo musicale di Messina. Entrambi hanno lasciato una propria eredità artistica, attuata da ex allievi docenti di composizione nei principali conservatori italiani.

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Una generazione con Donatoni Nel ruolo di caposcuola a Bettinelli subentra idealmente il veronese Franco Donatoni (1927-2000), ex allievo di Liviabella e Pizzetti, che può espletare la sua opera di didatta al conservatorio di Milano, all'Accademia Chigiana di Siena e all'Accademia di Santa Cecilia, dove diventa titolare della cattedra di perfezionamento in composizione. Si è formata con lui una generazione di compositori, tra cui Sandro Gorli, Giuseppe Sinopoli, Fausto Romitelli, Luca Mosca, Giorgio Magnanensi, Claudio Scannavini, Roberto Carnevale, Aurelio Samorì, Nicola Straffelini, Giulio Castagnoli, Giovanni Verrando, Pippo Molino, Stefano Bellon, Mauro Cardi, Matteo D'Amico, Vincenzo Pasceri, Piero Niro e molti altri. Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti da Donatoni si ricorda il Premio SIMC attribuitogli nel 1961 per la composizione orchestrale Puppenspiel e il Premio Marzotto, datogli nel 1966 per Puppenspiel II, per flauto e orchestra. Il percorso stilistico di Donatoni, influenzato agli esordi da Hindemith, Bartòk e Stravinskij, è passato attraverso la "Neue Musik" di Darmstadt, l'alea controllata di Stockausen, il negativismo di Cage (di cui Per orchestra, del 1962, è chiara testimonianza), sempre mantenendo una propria originalità legata al continuo trasformarsi del materico sonoro, ed è approdato negli anni Ottanta al recupero di stilemi del passato, quali la variazione, il tematismo, la tonalità. Il lombardo Alessandro Solbiati (1956), anch'egli ex allievo di Donatoni, porta avanti l'eredità didattica del maestro in campo compositivo nella sua attività di docente al conservatorio di Milano. Azio Corghi (1937), formatosi alla scuola di Bettinelli, ha invece sostituito Donatoni fino al 2007 come responsabile della cattedra di perfezionamento in composizione all'Accademia di Santa Cecilia. Il bolognese Fabio Vacchi (1949), che ha studiato con Manzoni e Donatoni, è uno dei pochi compositori della sua generazione particolarmente dedito al teatro musicale. Nel 1982 la sua opera Girotondo ha partecipato al Maggio Musicale Fiorentino. Si ricordano inoltre Il viaggio(1990) e La stazione termale (1993-1995). Milano va inoltre considerata nel secondo Novecento il capoluogo italiano dell'editoria musicale contemporanea, con Casa Ricordi, le edizioni Suvini-Zerboni e Carish, e anche la sede delle più importanti riflessioni teoriche e musicologiche sullo strutturalismo e i suoi esponenti, grazie all'intensa opera critica di Luigi Rognoni (1913-1986), massimo esperto italiano di dodecafonia, e di Massimo Mila (1910-1988).

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Scelsi e l'ambiente "romano" Altrettanto ricco di stimoli culturali e incontri artistici di spessore è l'ambiente musicale a Roma, dove agiscono l'eredità di Respighi e Casella, unitamente al concreto operato compositivo, didattico e organizzativo di Petrassi. I ministeri, la Rai, il mondo del cinema attirano inoltre numerosi musicisti. Figura di "nicchia" in anticipo sui tempi, valorizzata come meritava solo negli ultimi decenni, è stata quella di Giacinto Francesco Maria Scelsi (Arcola, presso La Spezia, 1905 - Roma, 1988), conte d'Ayala Valva. Egli apparteneva a una famiglia storica siciliana che aveva svolto un ruolo significativo nelle vicende dell'Unità d'Italia. Trascorse la propria infanzia con la sorella Isabella nel castello di Valva, in Irpinia, appartenente alla famiglia per parte di madre, studiando privatamente. Ebbe una formazione scolastica e musicale irregolare, ma quando la famiglia si stabilì a Roma poté approfondire le sue conoscenze compositive con Giacinto Sallustio. Negli anni Venti viaggiò in Francia e Svizzera, stringendo amicizia con grandi nomi della cultura dell'epoca, quali Jean Cocteau, Norman Douglas, Mimì Franchetti, Virginia Woolf, che sollecitarono i suoi interessi verso la musica e l'arte. Nel 1927 si recò in Egitto presso la sorella, che lì abitava con il marito, ed ebbe così un primo approccio con una musica di origine extraeuropea. La sua prima composizione, Chemin du coeur, risale al 1929, mentre dal 1930 inizia a dedicarsi a Rotativa, lavoro per tre pianoforti, fiati e percussioni che sarà eseguito alla Salle Pleyel di Parigi il 20 dicembre 1931 per la direzione di Pierre Monteux, rivelandolo al mondo musicale internazionale. Negli anni Trenta Scelsi continua a comporre, a frequentare il bel mondo e a viaggiare. Nel 1937 il compositore organizzò in collaborazione con Goffredo Petrassi (cui fu legato da personale amicizia) quattro concerti di musica contemporanea alla Sala Capizucchi di Roma, presentando lavori di giovani compositori italiani e, soprattutto, stranieri, tra cui Kodaly, Meyerowitz, Hindemith, Schönberg, Stravinskij, Šostakovič, Prokof'ev, Nielsen, Janáček, Ibert, ecc., pochissimo conosciuti in Italia. Trascorse forzatamente il periodo della Seconda guerra mondiale in Svizzera, aiutando intellettuali perseguitati e proseguendo le sue ricerche in campo compositivo. Collaborò anche alla rivista «La Suisse contemporaine». A questo periodo appartengono il Trio per archi (1942) e brani pianistici eseguiti da Nikita Magaloff. Ebbe modo di studiare la tecnica dodecafonica con Walter Klein, allievo di Schönberg, e le teorie compositive di Alexander Scrjabin con l'amico medico Egon Köler. Dopo il periodo bellico si ristabilì a Roma, dove si trovava la sua famiglia d'origine, attraversando una crisi psichica che fu lenita solo dai suoi interessi per la poesia, le arti visive, il misticismo orientale e l'esoterismo. Al 1949 risalgono le prime esecuzioni del Quartetto per archi e di La naissance du Verbe per coro e orchestra. L'adesione alle dottrine zen influenzarono la sua attività compositiva, che s'indirizzò verso un'improvvisazione priva di condizionamenti e verso la sperimentazione in campo strumentale, documentata e coadiuvata dal nastro magnetico. In particolare, amava accostare due strumenti simili sfasati tra loro di un quarto di tono, per provocare misteriose vibrazioni, e affidava ampio spazio interpretativo ai propri esecutori (tra cui si ricordano la cantante Michiko Hirajama, il violinista Enzo Porta, il contrabbassista Stefano Scodanibbio), spesso formati da lui stesso, data la difficoltà esecutiva delle sue musiche. Nella sua produzione i Quattro pezzi (su una nota sola) per orchestra da camera (1959), eseguiti al Théâtre National Populaire di Parigi nel dicembre 1961, per la direzione di

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Maurice Le Roux, segnano uno spartiacque tra la prima produzione di Scelsi, che lui considerava di stampo accademico e che voleva occultare, e una nuova via compositiva del tutto personale, esito dell'interazione tra le varie componenti della sua formazione filosofico/culturale e le complesse, eterogenee esperienze musicali fino ad allora condotte, del tutto innovative per l'epoca. Il mondo accademico italiano fu generalmente ostile a Scelsi, a fronte di un maggior interesse destato dai suoi lavori all'estero. In Italia, appassionato sostenitore e divulgatore della sua musica fu Franco Evangelisti, spesso all'interno dei festival di Nuova Consonanza. Scelsi, profondo sostenitore della cultura orientale, non voleva essere considerato un compositore ma, semplicemente, una sorta di "messaggero" tra mondi diversi, messi in contatto dalle sue opere "aperte", suggestive e misteriose fin dal titolo: Anagamin per archi (1965), Pfhat per coro, orchestra, organo e campane (1974) e Sauh I-IV per quattro voci femminili (1973-1975) sono alcuni esempi. Negli ultimi anni si dedicò a pubblicazioni di tipo teorico e letterario, per la casa editrice Le parole gelate, e all'avvio della pubblicazione sistematica della sua vasta produzione musicale, a cura delle Editions Salabert di Parigi. Nel 1987 aveva dato vita alla Fondazione "Isabella Scelsi", ospitata presso l'abitazione dove egli aveva trascorso gli ultimi vent'anni della sua vita; diretta dal 2004 da Nicola Sani, è provvista di archivio/biblioteca e museo, ed è molto attiva nel promuovere l'opera del compositore con concerti e pubblicazioni.

Un catanese a Santa Cecilia Il compositore catanese Aldo Clementi (1925-2011) appartiene indirettamente all'ambiente romano, in quanto si è formato con Petrassi (con cui si era diplomato in composizione nel 1954 al conservatorio di Santa Cecilia). Dal 1955 al 1962 è stato presente ai Ferienkurse di Darmstadt, seguendo esecuzioni di sue musiche. Nel 1963 ha ottenuto il premio SIMC con Sette scene per orchestra da camera. Per lui come per tanti altri giovani compositori italiani del secondo Novecento è stato determinante l'incontro con Bruno Maderna, come fondamentale è stata l'esperienza presso lo Studio di Fonologia Musicale della Radiotelevisione Italiana di Milano. Dal 1971 al 1992 ha insegnato Teoria musicale presso il DAMS dell'Università di Bologna. Tra i tanti riconoscimenti ottenuti, va ricordato il Premio Franco Abbiati, assegnatogli nel 1992. I manuali di storia della musica lo ricordano soprattutto perché all'inizio degli anni Sessanta è stato tra i fondatori dell'associazione romana Nuova Consonanza, assieme a Mauro Bortolotti (1926-2007), Franco Evangelisti (1926-1980),Domenico Guaccero (1927-1984), Francesco Pennisi (1934-2000) e altri. Questi compositori sono da considerarsi i più importanti esponenti dell'avanguardia musicale romana di quegli anni ed hanno esperienze formative simili, con comune denominatore i Ferienkurse di Darmstadt. Nuova Consonanza nacque al fine di promuovere la musica contemporanea e d'avanguardia in Italia tramite festival, convegni, conferenze e attività concertistiche. Nel 1964, per opera di Franco Evangelisti (cui è stato dedicato uno specifico concorso compositivo), fu costituito il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, collegato al gruppo di improvvisazione californiano New Music Ensemble. Dopo un'iniziale serie di concerti nel Ridotto del Teatro Eliseo, l'associazione organizzò il primo festival presso il Teatro delle Arti, giungendo nel 2011 a realizzare la 48a edizione. Il

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romano Alessandro Sbordoni (1948), allievo di Evangelisti e Guaccero, ha fatto parte del Gruppo di Improvvisazione, ricoprendo anche la carica di presidente dell'associazione Nuova Consonanza. L'attività editoriale specializzata faceva capo al compositore e direttore d'orchestra romano Bruno Nicolai (1926-1991), fondatore e direttore dal 1975 delle edizioni EDIPAN. Nel 1977 aveva inoltre rilevato le Edizioni De Santis, aveva fondato la Cooperativa La Musica e nel 1985, con Daniele Lombardi, aveva creato la rivista di musica contemporanea «1985 La Musica», vera fucina di idee e di riflessioni teoriche sul mondo musicale dell'epoca. La nuova didattica della composizione deve ancora oggi molto al romano Boris Porena (1927), anch'egli ex allievo di Petrassi, che dal 1974 dirige il Centro di ricerca e sperimentazione culturale Musica in Sabina. Porena è autore di Kinder Music (Milano 1973), dove si propone ai bambini un approccio nuovo e accattivante verso il mondo dei suoni, basato sulla loro creatività, e della serie di volumi Nuova didattica della musica (per pianoforte, 1982; per la composizione, 1983; per la scuola media e oltre, 1985). L'azione culturale di Roman Vlad Una figura di musicista di area romana importante per rilievo istituzionale e azione culturale è indubbiamente quella di Roman Vlad (1919), compositore, musicologo e pianista di origine rumena. Dal 1987 al 1993 presidente della SIAE e dal 1994 dell'Accademia Filarmonica Romana, è stato direttore artistico di numerosi enti, tra cui l'Accademia Filarmonica Romana (per due mandati negli anni Cinquanta e Sessanta), il Teatro Comunale di Firenze e il Teatro alla Scala di Milano; è stato sovrintendente del Teatro dell'Opera di Roma. Prosecutrice ideale dell'attività di Petrassi in campo didattico è la compositrice napoletana Irma Ravinale (1937), sua ex allieva, perfezionatasi poi a Parigi con Nadia Boulanger e a Colonia con Karlheinz Stockhausen. Diplomata anche in direzione d'orchestra, pianoforte, musica corale e direzione di coro, Ravinale ha iniziato a insegnare composizione dal conservatorio Santa Cecilia di Roma nel 1966, creando una sua prestigiosa scuola. Figura tra le più autorevoli della musica italiana, è una delle pioniere della composizione femminile in Italia. Ha diretto il conservatorio San Pietro a Majella di Napoli dal 1982 al 1988 e il conservatorio Santa Cecilia di Roma dal 1989 al 1999. Altro insigne didatta della composizione al conservatorio Santa Cecilia è stato Gian Paolo Chiti (Roma 1939). Tra i nomi più noti usciti dalla scuola della Ravinale ricordiamo Ada Gentile (1947), il boliviano Edgar Alandia (1950) e Rosario Mirigliano (1950), anch'egli molto interessato alla teoria della composizione. Sono raffinati autori vincitori di concorsi nazionali ed internazionali, attivi nell'organizzazione musicale e nella riflessione teorica, che pongono in particolare la ricerca timbrica alla base del loro operato compositivo. Lucia Ronchetti (1963) è una compositrice di formazione romana che ha saputo costruirsi una solida carriera anche all'estero, con inviti come autore residente presso enti culturali di Parigi, Stoccarda, Boston, Berlino e New York. La promozione della musica delle compositrici donne d'altronde deve molto a un'istituzione unica in Italia che nasce proprio nel Lazio nel 1978 e che oggi ha raggiunto vertici internazionali, con un'attività rivolta ad ogni genere di musica al femminile: si tratta della Fondazione Adkins Chiti: Donne in Musica, fondata e presieduta da Patricia Adkins Chiti, cantante e musicologa di larga fama di origine inglese. In collaborazione con il Comune di Fiuggi, nel luglio 1996 Donne in Musica è diventata una Fondazione Internazionale: membro del Consiglio Internazionale per la Musica dell'UNESCO, del Consiglio Europeo per la Musica, ha sviluppato una rete in 115 Paesi e collabora con oltre cinquanta associazioni che rappresentano le donne nella musica nei cinque continenti.

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Nel solco della tradizione: Menotti, Mannino e altri Sia Menotti sia Mannino, scelti come emblematici di un percorso comune a molti compositori meno famosi di loro, hanno lavorato per decenni incuranti di mode e conventicole, coerenti con il loro stile e semplicemente appagati da quanto prodotto. In questo senso rappresentano la tradizione e l'alto "artigianato" del comporre. Gian Carlo Menotti (1911-2007), nato a Cadegliano (Varese), già a cinque anni mostrò il proprio talento e a dieci compose la sua prima opera, La morte di Pierrot, frutto di una duplice vocazione, musicale e letteraria, cui rimarrà sempre fedele scrivendo successivamente tutti i libretti per i suoi melodrammi. Dopo gli studi al conservatorio di Milano, nel 1927 si trasferì negli Stati Uniti, studiando con Rosario Scalero al Curtis Institute of Music di Filadelfia, dove si diplomò nel 1933. In tale istituzione percorse significative tappe nell'insegnamento, fino a divenire preside del dipartimento di teoria e composizione (1952-1955). La sua felice intuizione fu quella di organizzare dal 1958 a Spoleto il Festival dei Due Mondi, esito di una collaborazione italo-americana, in un periodo storico di crisi del teatro d'opera italiano e di limitata produzione di quello statunitense, a latere di una musica colta europea tanto intransigente sul piano estetico/formale da rischiare di compromettere in modo definitivo il rapporto con il pubblico meno specializzato. Per questo l'operato artistico di Menotti venne salutato con sollievo dagli ambienti musicali più tradizionalisti e con sospetto da tutti gli altri. È significativo che tutti i premi più importanti gli siano stati conferiti da parte americana: nel 1945 il Premio dell'American Academy of Arts, nel 1946 il Guggenheim Fellowship, nel 1950 (con The Consul) il Premio Pulitzer per la musica e il New York Critic's Award, nel 1985 il Kennedy Award. La componente drammaturgica è particolarmente curata da Menotti, che è guidato da ottimo istinto teatrale: non a caso molte sue opere hanno ottenuto un grande e continuativo successo di pubblico, un'eccezione in un'epoca di opere nuove raramente seguite da un adeguato numero di repliche. Ad esempio The Medium (New York 1946), considerata dalla critica, insieme a The Consul (Filadelfia, 1950), il suo lavoro più significativo, ha ottenuto in un teatro di Broadway oltre duecento repliche, prima di entrare nel normale circuito operistico. Menotti sceglie soggetti tratti dalla vita reale, in grado di coinvolgere emotivamente lo spettatore. Il suo talento è versatile, in grado di muoversi con disinvoltura sia nel genere drammatico (cui appartengono The Medium e The Consul) che in quello giocoso: ricordiamo Amelia al ballo (Filadelfia, 1937); The old Maid and the Thief, opera per la radio (1939); The Telephone ou L'amour à trois (New York, 1947). In particolare The Telephone, protagonista una logorroica Lucy che parla ininterrottamente al telefono, impedendo al suo spasimante Ben di chiederla in sposa finché lui stesso ricorrerà al telefono per farlo, si segnala per la sua ironia e per la sua brevità (circa un quarto d'ora). In The Saint of Blecker Street (New York, 1954) Menotti torna a temi esistenzialmente impegnativi, come l'incomunicabilità tra fratello e sorella per motivi religiosi e caratteriali. Il suo linguaggio non si discosta mai dalla tonalità e dal diatonismo e, sua caratteristica specifica, usa gli stili storici (dal barocco al jazz) nell'ottica del pastiche, con disinvoltura talvolta manieristica. Curioso l'esperimento di Help, Help, the Globolinks! (Amburgo, 1968), in cui insolitamente utilizza il nastro magnetico. Ha lasciato anche balletti, il

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mimodramma Le poète et la muse (da Jean Cocteau, Spoleto, 1959), composizioni per orchestra (tra cui la sinfonia The Alcyon, 1976), concerti solistici, brani cameristici e pianistici.

Senza seguire le mode Franco Mannino (1924-2005), di origini palermitane, si formò all'Accademia di Santa Cecilia, diplomandosi nel 1940 in pianoforte e nel 1947 in composizione, con Virgilio Mortari. La sua esperienza artistica è quella del musicista a tutto tondo, impegnato come concertista, direttore d'orchestra, organizzatore, trascrittore. Nel 1950 ottenne negli Stati Uniti, come pianista, il Premio Columbus, nel 1956 in Francia il Premio Diaghilew per la migliore novità teatrale dell'anno, l'azione coreografica Mario e il Mago, su soggetto di Luchino Visconti, data al Teatro alla Scala di Milano. Nel 1958, mentre Menotti teneva a battesimo a Spoleto il Festival dei Due Mondi, Mannino faceva altrettanto a Bergamo, inaugurando il Festival delle Novità. Nel biennio 1969-1970 ottenne la direzione artistica del Teatro S. Carlo di Napoli, nel periodo 1982-1986 fu direttore e consigliere artistico dell'Orchestra del National Arts Center di Ottawa. Con Menotti ha in comune un talento particolarmente versato per il teatro musicale, un'attività indefessa e coerente con se stessa, incurante di mode estetico/stilistiche, l'attenzione verso la promozione della propria opera, una carriera svolta internazionalmente (con Stati Uniti e Canada in posizione preferenziale). Nel campo dell'opera ha spaziato da lavori composti per soddisfare il grande pubblico, come Vivì (P. Masino e E. Missiroli, Napoli 1957), definito da Roberto Zanetti «fumettone lirico-erotico», ad altri più raffinati, frutto di collaborazione con intellettuali del calibro di Luchino Visconti (Il diavolo in giardino, con F. Sanjust e E. Medioli, Palermo, 1963), Luigi Malerba (La speranza, con E. Visconti, Trieste, 1970) e Andrea Camilleri (Il quadro delle meraviglie, Roma, 1963). La sua vasta attività come direttore d'orchestra ha portato Mannino a dedicare molta attenzione alla composizione strumentale, quantitativamente più presente, nel suo catalogo, rispetto a quella operistico/teatrale. Da segnalare anche la sua non marginale attività di compositore per il cinema, come collaboratore di insigni registi, tra cui Mario Soldati (La provinciale, 1952), John Huston (Il tesoro dell'Africa, 1954) e Luchino Visconti (L'innocente, da D'Annunzio, 1976).

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Il maceratese Lino Liviabella (1902-1964), discendente di una famiglia di musicisti, si formò al conservatorio Santa Cecilia di Roma, studiando composizione con Ottorino Respighi. La sua attività didattica si svolse principalmente al conservatorio di Bologna (città dove si era trasferito nel 1942), di cui divenne direttore dopo aver svolto tale ruolo a Pesaro e Parma. Nonostante i numerosi premi compositivi vinti Liviabella, elaboratore di uno stile che sapeva sintetizzare tradizione e modernità, fu oggetto di diffidenze estetico/ideologiche che ostacolarono la piena realizzazione della sua attività artistica. In campo teatrale ha lasciato Antigone (Emidio Mucci, Parma 1942), le opere da camera La conchiglia (id., Firenze 1955) e Canto di Natale, uno dei primi esempi in Italia di opera televisiva (Enzo Lucio Murolo, da Dickens, Rai 1963), oltre a musica sinfonica, cameristica, pianistica e sacra. Il romano Tito Aprea (1904-1989) occupa un posto di riguardo tra i pianisti-compositori. Formatosi al conservatorio di Napoli con Alessandro Longo, ebbe una fortunata carriera concertistica e fu insegnante per quasi un trentennio al conservatorio Santa Cecilia. La sua raccolta Juvenilia (1954) rientra tra i classici della letteratura didattica per pianoforte. Tra i suoi allievi, ricordiamo il figlio Bruno (1941), pianista e direttore d'orchestra. Franco Margola (1908-1992), nato ad Orzinuovi (BS), si formò nel conservatorio di Brescia come violinista e al conservatorio di Parma per la composizione, sotto la guida di Achille Longo. Alfredo Casella e Ildebrando Pizzetti influenzarono il suo stile compositivo. Insegnò a lungo al conservatorio di Parma e tra i suoi allievi ebbe Niccolò Castiglioni e Camillo Togni. Il suo catalogo compositivo annovera circa ottocento lavori, in particolare strumentali: tra quelli più significativi, un concerto per pianoforte e orchestra dedicato a un giovanissimo Arturo Benedetti Michelangeli (1943). Dal 2009 gli è intitolato a Brescia un festival musicale. Il siciliano Antonino Eliodoro Sòllima (1926-2000) è stato anch'egli noto pianista-compositore. Arturo Benedetti Michelangeli lo scelse per la prima esecuzione italiana del Kammerkonzert di Alban Berg, avvenuta al Teatro Nuovo di Milano nel maggio del 1954. Con il violinista Salvatore Cicero e il violoncellista Giovanni Perriera ha costituito il Trio di Palermo, che nel 1978 ha ottenuto il Diapason d'oro. Ha principalmente svolto la sua attività didattica al conservatorio di Palermo, dove è stato direttore per diciotto anni. Tra i suoi allievi, ricordiamo il figlio Giovanni Sòllima (1962), noto violoncellista. Il suo vasto catalogo contiene principalmente musiche strumentali, tra cui concerti per strumento solista e orchestra e la serie di Evoluzioni (nn. 1-7, 1960-1973).

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GLI ANNI OTTANTA

Sciarrino, tra suono e silenzio Gli anni Ottanta in Italia segnano un'epoca di ripensamento dell'avanguardia, di riaffermazione dell'individualità creatrice, di riavvicinamento al pubblico come referente dell'evento sonoro e di recupero di forme e stili della tradizione, ma in un'ottica astorica. In essi converge l'esito di tutto lo sperimentalismo dei trent'anni precedenti e germoglia un nuovo atteggiamento verso l'arte, dove la multimedialità inizia ad avere sempre più spazio. La personalità compositiva più significativa sul piano degli esiti artistici e che meglio rappresenta il passaggio dall'epoca precedente è senz'altro Salvatore Sciarrino (Palermo, 1947). Praticamente autodidatta (escluso un breve periodo di lezioni private ricevute da Turi Belfiore e Antonino Titone), ha studiato in profondità il repertorio dei grandi autori del passato e quello dei maggiori maestri contemporanei. Pur avendo cominciato a comporre a dodici anni, ritiene quanto scritto prima del 1966 parte del proprio apprendistato. Nelle sue composizioni per strumento solista e in particolare nei 6 Capricci per violino (1976) si evidenzia la caratteristica saliente del suo stile, cioè l'utilizzo del timbro come struttura portante di un discorso musicale in cui il suono, rigorosamente acustico, viene "rivalorizzato" nella sintesi delle sue componenti in una superiore e lucida organicità dell'insieme. Corollari di quest'ottica, incentrata sulla volontà di portare l'ascoltatore a fruire in modo più attivo quanto proposto e a riappropriarsi della realtà circostante, sono la difficoltà dell'aspetto tecnico strumentale, sempre molto arduo in Sciarrino, e il rapporto suono/silenzio, consapevolmente condotto. È molto attirato anche dalla scrittura per voce, per i mezzi audiovisivi, per il teatro di parola (ha collaborato con Carmelo Bene in Lectura Dantis) e per quello musicale, cui si è dedicato sin dagli esordi, con l'opera da camera Amore e Psiche (libretto di A. Pes, Milano 1973). Ad essa sono subito seguite Aspern ("singspiel" su libretto proprio e di G. Marini, da H. James, Firenze 1978) e Lohengrin (su libretto proprio e di Pier'Alli, da J. Laforgue, Milano 1983; 2a versione, 1984). Tra i suoi lavori strumentali degli anni Ottanta, si citano Vanitas per voce, violoncello e pianoforte (1981) eAutoritratto nella notte per orchestra (1983). Il mondo musicale nazionale ha colto da subito l'eccellenza e l'originalità di Sciarrino, conferendogli molti premi: ricordiamo quelli della SIMC nel 1971 e 1974, il Premio Abbiati della Critica musicale italiana nel 1983, il Premio Italia nel 1984, il Premio internazionale Feltrinelli nel 2003. All'estero, gli è stato conferito il Premio Prince Pierre de Monaco (2003) e il Musikpreis Salzburg (2006), recentemente istituito. Sciarrino concepisce il suo impegno compositivo strettamente correlato con quello didattico e divulgativo: ha insegnato nei conservatori di Milano (1974-1983), Perugia (1983-1987) e Firenze (1987-1996), condotto corsi di perfezionamento (tra cui quello di Città di Castello, 1979-2000), scritto articoli e monografie.

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Ascolto attivo Un altro compositore che, come Sciarrino, vuole promuovere un ascolto attivo e consapevole nel pubblico, utilizzando strutture sonore semplificate e suggestive, è il romano Gianfranco Pernaiachi (1951). Negli anni Ottanta la cosiddetta "musica colta" prosegue con sicurezza il dialogo con altri generi musicali, timidamente iniziato negli anni Sessanta e Settanta. Se dovessimo stilare un elenco degli autori italiani che per primi hanno sentito l'esigenza di abolire gli steccati dei vari generi compositivi, Mario Cesa (Avellino 1940) avrebbe un ruolo di primo piano nell'ambito del rapporto col folclorico. Nei suoi lavori la tradizione (sia colta, sia popolare) è coniugata con un'avanzata sperimentazione timbrica, sonora, strutturale e grafica; ad esempio, i Cinque esercizi per pianoforte sulle feste popolari irpine (1979), dedicati al pianista Bruno Canino, sono redatti in una sorta di scrittura intuitiva, che può essere "decodificata" soltanto ripercorrendo l'iter creativo in ogni specifico brano, che nasce da un singolo spunto (un ritmo, un ricordo, un'immagine, un movimento di danza…); ne Il pellegrinaggio per ensemble polistrumentale (1988) troviamo la gioia fisica della festa e il mormorio antico della preghiera come metafora della vita, sinolo indissolubile di gioia e dolore; troviamo sacro e profano decontestualizzati da una trasversale ironia e un fluire ininterrotto di energia vitale e dionisiaca che abbatte gli schemi e rigenera, in vario modo, se stessa. Il compositore-demiurgo guida l'esecuzione e il gesto sonoro ne diventa sostanza. L'opera oltre la crisi Anche l'opera, considerata negli anni Settanta un genere musicale in crisi irreversibile, si rigenera a contatto con altri ambiti musicali e rinasce come opera multimediale, operafusion, opera-musical, opera neotonale, insomma, come evento spettacolare "aperto" ad altri generi e altri linguaggi. La tendenza si era evidenziata già in Prometeo, tragedia dell'ascolto di Luigi Nono (Venezia 1984), dove la scena tradizionale era stata sostituita da una "camera acustica", basata su una struttura in legno costruita appositamente da Renzo Piano. Un'opera che realizza una sintesi paradigmatica tra elementi eterogenei quali l'aspetto linguistico, metateatrale, acustico/sonoro e multimediale è Giacomo mio salviamoci! di Giorgio Battistelli (su testi di Giacomo Leopardi e Vittorio Sermonti, Macerata, 1998), commissionata dal Comitato per le celebrazioni del Bicentenario leopardiano. Altro filone importante è quello del Postmoderno: si suole ritenere che tale movimento in Europa sia iniziato in campo musicale a Darmstadt nel 1976 con l'esecuzione della Sonata per violino solo di Hans-Jürgen von Bose. In Italia si fa strada all'inizio degli anni Ottanta, con alcuni concerti a Reggio Emilia (1980) e alla Biennale di Venezia (1981), e si configura subito come neo-Romanticismo, un movimento che valorizza la piacevolezza e il sentimentalismo, rappresentato in particolare da Marco Tutino (Milano, 1954) e, soprattutto, Lorenzo Ferrero(Torino, 1951). Ferrero ha avuto una formazione composita, studiando sia composizione al conservatorio della sua città, sia filosofia con Gianni Vattimo, laureandosi in estetica con un tesi su John Cage nel 1974. Ha sviluppato un particolare interesse per il teatro musicale, esordendo al festival di Avignone del 1978 con Rimbaud, ou le fils du soleil (su libretto di L. F. Caude). Tra le sue oltre dieci opere le più famose e rappresentate sono quelle nate dalla collaborazione con il librettista Giuseppe Di Leva, Salvatore Giuliano e Charlotte Corday, date al Teatro dell'Opera di Roma rispettivamente nel 1986 e nel 1989. Ferrero è tra i pochi compositori della sua generazione a essere ampiamente conosciuti ed eseguiti all'estero, come testimonia anche la sua vasta discografia. Tra i suoi numerosi lavori strumentali, si ricorda il Concerto per pianoforte e

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orchestra (1991). Un altro autore che condivide con Ferrero, oltre all'origine torinese, un'ampia popolarità estera grazie al suo stile eclettico e citazionista basato su strutture musicali semplici e ripetitive, è Ludovico Einaudi (1955), formatosi con Azio Corghi e Luciano Berio. Il campo della ricerca strumentale sperimentale, che aveva raggiunto grandi risultati nel decennio precedente, negli anni Ottanta prosegue il suo iter, con festival specialistici e compositori particolarmente dediti ad essa, come il marchigiano Fernando Mencherini (1949-1997). Un ruolo importante in tal senso ha svolto la Rassegna di Nuova Musica di Macerata, creata e diretta dal 1983 da un'importante figura di strumentista-compositore, il contrabbassista maceratese Stefano Scodanibbio (1956-2012), allievo di Sciarrino, collaboratore di Scelsi e di altri famosi maestri del Novecento, tra cui Luigi Nono.

Tra tradizione e modernità Negli anni Ottanta e Novanta una caratteristica importante richiesta al compositore per emergere è la capacità di unire tecnica e comunicatività e di saper coniugare in modo personale tradizione e modernità. Gli autori preparati e di valore sono tanti, ognuno caratterizzato da proprie peculiarità, ed è molto difficile privilegiare un nome rispetto a un altro. Si fornisce un primo parziale elenco, rimandando per eventuali approfondimenti all'Enciclopedia italiana dei compositori contemporanei a cura di Renzo Cresti (Firenze, 1953): Luigi Abbate (Bergamo, 1958), Paolo Aralla (Lecce, 1960), Paolo Arcà (Roma, 1953), Andrea Basevi-Gambarana (Genova, 1958), Roberto Beccaceci (Ancona, 1958), Bernardino Beggio(Padova, 1953), Massimo Berzolla (Piacenza, 1963), Claudio José Boncompagni (Buenos Aires, 1961, fiorentino d'adozione), Gilberto Cappelli (Predappio, Forlì-Cesena, 1952), Alberto Caprioli (Bologna, 1956), Giulio Castagnoli (Roma, 1958), Giampaolo Coral (Trieste, 1941-2011), Gianvincenzo Cresta (Avellino, 1968), Marco D'Avola (Chiaramonte Gulfi, Ragusa, 1959), Fulvio Delli Pizzi (Roma, 1953), Arduino Gottardo (Schio, Vicenza, 1950), Luca Lombardi (Roma, 1945), Eduardo Carlo Natoli (Roma, 1962), Corrado Pasquotti (Vittorio Veneto, Treviso, 1954), Gianni Possio (Torino, 1953), Biagio Putignano (Carmiano, Lecce, 1960), Davide Remigio (Melbourne, 1963, pescarese d'adozione), Luciano Sampaoli (Pesaro, 1955), Flavio Emilio Scogna (Savona, 1956), Tonino Tesei (Pollenza, Macerata, 1961), Paolo Ugoletti (Brescia, 1956). Negli anni Ottanta un'altra positiva tendenza si fa strada: aumenta il numero delle ragazze iscritte alle classi di composizione, per cui una nuova generazione di donne compositrici sceglie la carriera autorale e si fa strada, non senza qualche difficoltà, nel mondo musicale. Dopo le prime, coraggiose pioniere come Elsa Olivieri Sangiacomo in Respighi (Roma 18941996), Elena Barbara Giuranna (Palermo, 1902-Roma, 1998), Matilde Capuis (Napoli, 1913),Teresa Procaccini (Cerignola, Foggia, 1934), Giovanna Salviucci Marini (Roma, 1937), la citata Irma Ravinale e Elisabetta Capurso (Mattuglie, 1940 – attualmente Croazia), oggi sono attive numerose e apprezzate compositrici. Le ricordiamo per aree geografiche: in Lombardia ha operato Elisabetta Brusa prima di dedicarsi ad un'ampia carriera internazionale, mentre fanno parte dell'associazione Suonodonne, presieduta da Esther Flückiger, Emanuela Ballio, Alessandra Bellino, Sonia Bo, Caterina Calderoni, Beatrice Campodonico, Gabriella Cecchi, Biancamaria Furgeri, Ada

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Gentile, Patrizia Montanaro, Rita Portera, Barbara Rettagliati, Antonia Sarcina e altre; in Veneto esiste il Cevedim (Centro veneto donne in musica), presieduto dalla percussionista e compositrice Annunziata Kiki Dellisanti; in EmiliaRomagna operano, tra le altre, Chiara Benati, Fiorenza Gilioli e Cristina Landuzzi; l'associazione Artemusi(c)aCompositrici per le Marche, nata a Recanati nel 2001, riunisce Paola Ciarlantini (presidente), Barbara Polacchi,Roberta Silvestrini, Sara Torquati, Luciana Tosti Mariotti, Loredana Totò e Francesca Virgili; in Puglia l'associazione Parnasodonneinmusica, nata nel 2006 in seno all'EurOrchestra da camera di Bari e presieduta dalla pianistacompositrice Angela Montemurro Lentini, promuove il principio delle pari opportunità in tutte le arti. Molto si è dunque fatto ma molto di più resta ancora fare perché la musica delle compositrici donne, misconosciuta in ogni epoca, sia resa nota attraverso i dizionari e i manuali di storia della musica e perché tale repertorio, soprattutto in Italia, sia eseguito correntemente da solisti, gruppi musicali e orchestre. MUSICA E CINEMA

Il melodramma sullo schermo La programmazione dei teatri verso la fine del secolo XIX tendeva ad essere eterogenea: si proponevano, oltre a opere e operette, drammi recitati (spesso da compagnie amatoriali), esperimenti scientifici, balli, rappresentazioni illusionistiche, spettacoli di marionette e di arte varia. Intorno agli anni Dieci del Novecento a tale variegata galleria di spettacoli si aggiunse la proiezione cinematografica. I soggetti dei film muti attingevano con totale libertà, secondo il criterio della più assoluta mescolanza, all'imponente bagaglio teatrale, musicale e narrativo del secolo precedente, divenuto evidentemente una sorta di koiné soggettistica nell'immaginario popolare. La prassi intorno al 1910 era di proiettare nello stesso spettacolo quattro pellicole, rispettivamente: di genere storico (solitamente, il lungometraggio iniziale), documentaristico, fantastico-sentimentale e comico. Rientrava nel genere storico anche il filmopera, molto coltivato da registi e case di produzione o in forma di lungometraggi sperimentali sincronizzati con musica incisa o, in numero notevolmente più alto, come pellicole liberamente ispirate a soggetti di cui esistevano note versioni operistiche. Pasquale Pagliej inventò nel 1908 per la casa di produzione La Nazionale, di cui era socio, un "cinemofono", utilizzato in due brevi film, Manon Lescaut e Lucia di Lammermoor: nello stesso anno destò sensazione al Cinematografo Lumière di Roma il film Il trovatore dei fratelli Azeglio e Lamberto Pineschi per il sincronismo perfetto del sonoro, dovuto a un sistema di loro invenzione. Paradigmatico per l'eccezionale sincronismo ottenuto fu però Histoire d'un Pierrot di Baldassarre Negroni, su musiche di Mario Costa, dalla pantomima musicale di Fernand Beissier (1914). Era avvenuta dunque una sorta di ideale passaggio di consegne tra il melodramma, forma spettacolare per eccellenza del secolo precedente, che affondava in profondità nel retroterra culturale dell'uomo della strada, e il nuovo prodotto filmico, accessibile a tutti, anche a coloro cui il teatro d'opera, per motivi finanziari, era rimasto a lungo precluso. Il genere

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cinematografico ispirato al mondo dell'opera per questi motivi resterà in auge anche in epoca successiva, dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, praticato in particolare da specialisti come Raffaello Matarazzo e Carmine Gallone.

Dalla Kinobibliotheck al Padrino L'Italia ha fornito originali contributi nel campo della musica per il cinema, sin dai primordi della "settima arte": si ricordano l'attore e compositore Giuseppe Becce, attivo in Germania dal 1906, che pubblicò una vasta raccolta di brevi brani, tra loro combinabili, destinati all'accompagnamento dei film muti (divisi in base al tipo di situazioni drammaturgiche che si era chiamati a "coprire"), la Kinobibliotheck (Berlino 1919-1929), e la Biblioteca cinema di Casa Ricordi, la più importante raccolta italiana di musiche d'atmosfera per il cinema muto. Per essa pubblicarono sia compositori ritenuti esponenti del repertorio colto, come Franco Vittadini, sia autori del repertorio cosiddetto d'intrattenimento, come Vincenzo Billi. I più grandi compositori italiani d'inizio Novecento non disdegnarono di collaborare con il cinema, creando partiture oggi entrate nella storia della cultura: Ildebrando Pizzetti (Sinfonia del fuoco per baritono, coro e grande orchestra, destinata a Cabiria di Giovanni Pastrone, film su soggetto di Gabriele D'Annunzio risalente al 1914 e considerato il primo kolossal, tale da influenzare la produzione delle grandi case produttrici statunitensi); Pietro Mascagni(l'orchestrale Rapsodia satanica, per l'omonimo film di Nino Oxilia, 1915); Luigi Mancinelli(opera sinfonico-vocale Frate Sole, per l'omonimo film di Mario Corsi e Ugo Falena, 1918). Pizzetti continuerà poi la sua attività in questo ambito, creando le musiche per Scipione l'Africano di Carmine Gallone (1937), I promessi sposi di Mario Camerini (1941) e Il mulino del Po di Alberto Lattuada (1949). L'avvento del suono, nel 1927, e la nascita della cosiddetta colonna sonora videro l'affermazione di veri e propri professionisti del campo. Il più famoso di questi ultimi (suo malgrado, trattandosi di un geniale compositore la cui ingente produzione, che copre ogni genere musicale, è oggi ormai entrata nel canone concertistico internazionale) è stato Nino Rota: figlio d'arte, esordì nel cinema a soli ventidue anni collaborando con Raffaello Matarazzo in Treno popolare (1933). Nonostante abbia lavorato con tutti i maggiori registi italiani, quali Renato Castellani, Mario Soldati, Luigi Zampa, Alberto Lattuada, Eduardo De Filippo, Mario Monicelli, Luchino Visconti, ecc., la sua fama resta indissolubilmente legata al prezioso sodalizio con Federico Fellini, iniziato nel 1952 con Lo sceicco bianco e conclusasi con Prova d'orchestra nel 1978, sodalizio che solo la morte poté spezzare, poiché Rota morì nel 1979. Fu apprezzato collaboratore anche di registi stranieri, tra cui King Vidor, René Clément e Francis Ford Coppola: sue le musiche del Padrino e del Padrino parte II, con cui nel 1974 ottenne l'Oscar.

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L'estetica della musica neorealista Dopo la fase delle commedie d'ambientazione alto-borghese tipiche del Ventennio, ribattezzate dalla critica film dei "telefoni bianchi", il cinema del Dopoguerra reclama il ritorno a una realtà autentica e alla verità del quotidiano, con le sue contraddizioni, il suo carico di dolore e povertà: si entra nel periodo denominato neorealismo, che in ambito cinematografico vede l'affermarsi di registi come Roberto Rossellini e Vittorio De Sica. L'estetica della musica neorealista, aliena dalla spettacolarità fine a se stessa e dall'edonismo, fu bene espressa dal teorico Fernando Ludovico Lunghi al 7° Congresso internazionale di musica, svoltosi a Firenze nel 1950. I musicisti cinematografici che collaborarono con i maggiori registi di questa scuola furono: Renzo Rossellini, autore delle musiche dei film più importanti del fratello Roberto, Roma città aperta (1945), Paisà (1946), Germania anno zero(1948) e Stromboli, terra di Dio (1949); Alessandro Cicognini, che lavorò nei film-capolavoro della coppia De SicaZavattini, Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948) e Umberto D. (1951);Carlo Rustichelli, collaboratore di Pietro Germi in Il ferroviere (1956) e L'uomo di paglia(1958). Dagli anni Sessanta a oggi l'astro della musica per il cinema a livello mondiale è Ennio Morricone, di cui ricordiamo gli esordi negli "spaghetti-western" di Sergio Leone, la collaborazione con registi dediti a un cinema d'impegno civile, come Gillo Pontecorvo (La battaglia di Algeri), Pier Paolo Pasolini (Uccellacci e uccellini, Teorema, Le 120 giornate di Sodoma), Elio Petri (La classe operaia va in paradiso, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), Giuliano Montaldo (Sacco e Vanzetti, L'Agnese va a morire), fino alla fama internazionale con Mission di Roland Joffè (1986), consacrata dall'Oscar alla carriera nel 2007, giunto dopo cinque nomination non premiate. Altri compositori, pur non investiti dalla fama mediatica riservata a Morricone, hanno tenuto alta l'eccellenza italiana nella musica da film, raggiungendo a loro volta l'Oscar dopo una lunga carriera nel settore: si tratta di Giorgio Moroder (addirittura tre: 1978, per Fuga di mezzanotte di Alan Parker; 1983, per la canzoneWhat a Feeling di Flashdance, regista Adrian Lyne; 1986, per la canzone Take Me Breath Away di Top Gun, regista Tony Scott), Luis Bacalov, argentino naturalizzato italiano (1994, per Il postino di Michael Radford e Massimo Troisi), Nicola Piovani (1997, per La vita è bella di Roberto Benigni).

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Prediletto da Brian De Palma Altra importante figura nel campo è quella di Franco Piersanti, già collaboratore di Rota, autore di circa un centinaio di colonne sonore dal 1976 (esordio con Io sono un autarchico di Nanni Moretti) a oggi. Il suo lavoro ritenuto più importante consiste nelle musiche per Il segreto del bosco vecchio di Ermanno Olmi (1993), mentre la sua fama resta legata in particolare alle colonne sonore scritte per i film tv dedicati al commissario Montalbano, celebre creatura letteraria di Andrea Camilleri. Fiorenzo Carpi, Pino Donaggio e Armando Trovajoli sono emblematici per essere approdati alla musica da film dopo un lungo impegno in altri campi: il primo è stato autore di musiche di scena (dal 1947, compositore stabile al Piccolo Teatro di Milano, esordisce nel cinema con Leoni al sole di Vittorio Caprioli, 1961); il secondo, attivo nel campo dal 1973 e autore prediletto di Brian De Palma, è stato cantautore di larga fama; il terzo si è dedicato alla musica leggera e, soprattutto, al jazz, affermandosi poi come brillante autore di musiche per film appartenenti al filone della cosiddetta "commedia all'italiana".

Una felice parentesi Da segnalare inoltre l'impegno nella musica da film di autori per i quali il cinema è stata una felice parentesi: Roberto De Simone (Quantu è bellu lu murire acciso di Ennio Lorenzini, 1976, e Fontamara di Carlo Lizzani, 1980); Giorgio Gaslini (La notte di Michelangelo Antonioni, 1961, e Profondo rosso di Dario Argento, 1975); Ivan Vandor (I giorni contati di Elio Petri, 1962, e Andremo in città di Nelo Risi, 1966); Antonino Riccardo Luciani (Il caso Pisciotta di Eriprando Visconti, 1973; la sua Chanson Balladée, 1977, è restata per anni sigla della trasmissione televisiva Almanacco).

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Per usare le parole di Morricone, «le future generazioni, se vorranno cercare di capire il nostro secolo – capirlo in tutti i suoi risvolti: sociali, linguistici, culturali, di costume –, avranno nel cinema il "reperto" più prezioso» (da MorriconeMiceli, Comporre per il cinema, v. Bibliografia essenziale, p. 304). Bibliografia essenziale A. Adorno e H. Eisler, Composing for the film, London & Atlantic Highlands,The Athlone Press, 1994. C. Cano, La musica nel cinema. Musica, immagine, racconto, Roma, Gremese, 2002. P. Ciarlantini, La storia della musica per il cinema in Italia: riflessioni su un ritardo epistemologico, in «Erba d'Arno», 2005, 99, pp. 78-82. E. Comuzio, Colonna sonora. Dizionario ragionato dei musicisti cinematografici, Roma, Ente dello Spettacolo, 1992 (nuova edizione Musicisti per lo schermo, con CD allegato, 2004). S. Cortellazzo e D. Tomasi, Letteratura e cinema, Roma-Bari, Laterza, 1998. C. Gaetani, Il cinema e la Shoah, prefazione di M. Ovadia, Recco, Le Mani, 2006. S. Miceli, Morricone, la musica, il cinema, Milano, Ricordi - Modena, Mucchi, 1994. E. Morricone e S. Miceli, Comporre per il cinema. Teoria e prassi della musica nel film, a cura di L. Gallenga, Roma, Fondazione Scuola nazionale di cinema, 2001. O. Piazza, Letteratura e cinema, Roma, Spazio Tre, 2004. G. Plenizio, Musica per film. Profilo di un mestiere, Napoli, Guida, 2006. G. Rondolino, La musica nel cinema, in Musica in Scena, Torino, Utet, 1997, vol. VI, pp. 263-333. E. Simeon, Manuale di storia della musica nel cinema, Milano, Rugginenti, 2006. IL JAZZ IN ITALIA

Dopo i pionieri, Gorni Kramer In Italia si comincia ad ascoltare musica jazz durante il Primo conflitto mondiale, per mezzo della mediazione dell'esercito statunitense. Va inoltre ricordato che nel 1918 si esibisce a Roma la nota orchestra di Jim Europe. Pionieri del genere sono musicisti italiani che hanno fatto esperienza all'estero, come Arturo Agazzi "Mirador" (1890-1968), un batterista milanese rientrato dall'Inghilterra subito dopo la Grande Guerra per costituire la sua Syncopated Orchestra. Sempre a Milano, nel 1920, il sassofonista Carlo Benzi fonda la Ambassador's Jazz Band. Strumentisti che operano agli albori del genere in Italia sono inoltre il pianista Gaetano "Milietto" Nervetti (1897-1980) e il violinista Cesare Galli (1908-1995), di area milanese, insieme al chitarrista Vittorio Spina, attivo a Roma. Ma è l'orchestra di Pippo Barzizza (1902-1994) che merita di essere considerata a pieno titolo l'artefice della conoscenza dello stileswing, mentre il protagonista della Swing Era in Italia, a metà degli anni Trenta, è Gorni Kramer (1913-1995), fisarmonicista e compositore che riunisce intorno a sé i migliori professionisti del settore, tra cui l'arrangiatore Franco Majoli, il pianista Alberto Semprini (a sua volta a capo di una vasta orchestra "ritmosinfonica"), i trombettisti Baldo Panfili e Natale Petruzzelli, il trombonista Clinio Bergamini, il chitarrista Armando Camera, il batterista Pippo Starnazza (nome d'arte di Luigi Redaelli), i cantanti Alberto Rabagliati e Natalino Otto(nome d'arte di Natale Codognotto), con tanti altri.

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Al Regime non piace Il governo fascista, in particolare dopo l'ingresso dell'Italia nel Secondo conflitto mondiale, tollera malvolentieri questo tipo di musica, arginandone attività e diffusione, anche se una modesta discografia riesce ad essere realizzata. Ne consegue che dal 1945 il jazz italiano si riprende lo spazio negatogli, organizzandosi anche dal punto di vista critico e divulgativo: se già alla fine degli anni Trenta esponenti della musica "colta" come Alfredo Casella e Massimo Mila gli avevano dedicato attenzione e Giancarlo Testoni e Ezio Levi avevano dato alle stampe un primo libro dedicato al jazz (1938), è proprio nell'agosto 1945 che il medesimo Testoni fonda a Milano la rivista «Musica Jazz», che dal 1965 sarà diretta da Arrigo Polillo(1919-1984), vero caposcuola della critica jazz in Italia. Si deve ad una felice intuizione del trombettista, contrabbassista ed arrangiatore Roberto Nicolosi (1914-1989) la prima collana di dischi dedicata al genere in Italia, dal titolo Jazzisti italiani, e la prima trasmissione radiofonica specializzata, La galleria del jazz, anch'essa iniziata nell'estate 1945. La Federazione italiana del Jazz nasce nel 1947 dal Centro studi del Jazz, fondato nel 1945, tra gli altri, da Polillo. Si organizzano festival e rassegne che ospitano i più grandi jazzisti americani: tra essi ricopre un ruolo di primo piano Louis Armstrong, che già nel gennaio 1935 aveva tenuto due concerti a Torino, e che nell'autunno 1949 ha l'opportunità di condurre unatournée nelle principali città italiane. Nella seconda metà degli anni Quaranta la scena è dominata da jazzisti di nuova generazione, come il chitarrista Franco Cerri, il batterista Gilberto Cuppini, il tenorsassofonista Eraldo Volontà e Francesco Ferrari, fondatore e direttore dell'Orchestra di Ritmi Moderni, dal 1944 per oltre dieci anni l'unica grande formazione specializzata della Radio Italiana.

Negli anni Cinquanta il gusto nostalgico per il jazz delle origini porta alla formazione di gruppi come la Roman New Orleans Jazz Band (1949), la Original Lambro Jazz Band (Milano 1950) e la Milan College Jazz Society (1952), mentre contemporaneamente si diffonde lo stile bop, grazie a musicisti come i trombettisti Nunzio Rotondo e Oscar Valdambrini (con il quale collaborano il tenorsassofonista Gianni Basso e il trombonista Dino Piana), e i

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pianisti Armando Trovajoli, Renato Sellani e Enrico Intra. L'infaticabile Polillo organizza inoltre il Festival del Jazz di Sanremo (1956-1965). A Giorgio Gaslini, pianista e compositore milanese (1929), si deve l’incontro tra il jazz e la musica colta, di cui la suite Tempo e relazione (1957) è compiuta espressione, e la formulazione del concetto di "musica totale", sfociata nella pubblicazione del relativo volume edito da Feltrinelli nel 1975. Il pianista siciliano Claudio Lo Cascio va invece ricordato come il precursore dell'interazione tra jazz e musica folclorica regionale, che successivamente confluirà nel dialogo tra jazz e musica etnica. A metà degli anni Sessanta il jazz italiano è una realtà musicale consolidata che annovera centinaia di professionisti, tra cui spiccano il trombettista solista Enrico Rava, i pianisti-compositori Franco D'Andrea, Guido Manusardie Enrico Pieranunzi, l'altosassofonista Massimo Urbani, eccellente improvvisatore. I migliori jazzisti nazionali danno vita all'Italian Instabile Orchestra e nel 1989 si costituisce a scopo tutelativo-promozionale l'Associazione nazionale musicisti di Jazz (Amj). Tante rassegne specializzate nascono sul territorio nazionale sull'esempio dell'Umbria Jazz Festival che, iniziato nell'agosto 1973 con carattere itinerante e divenuto stanziale dal 1982, con sede a Perugia, ha acquisito in pochi anni prestigio internazionale. A livello didattico sono sorti scuole e corsi di perfezionamento (tra cui si citano la Civica scuola di Jazz di Milano e i corsi di Siena Jazz) e finalmente oggi anche i Conservatori di Musica offrono corsi di laurea in Musica Jazz.

Il jazz italiano è quindi più che mai vitale, con nomi di chiara fama ed emergenti le cui performance attirano sempre più un pubblico folto ed eterogeneo: tra essi, ricordiamo il trombettista Paolo Fresu, i sassofonisti Stefano Di Battista e Roberto Ottaviano, il trombonista Gianluca Petrella, il percussionista Tullio De Piscopo, i pianisti Danilo Rea, Rita Marcotulli e Stefano Bollani e il contrabbassista Enzo Pietropaoli. ItaliaJazz.it: il nuovo portale dedicato al mondo del jazz italiano e alla sua promozione, realizzato dall'Associazione I-Jazz, con il sostegno del MiBACT .

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