Lo sguardo nel racconto [PDF]

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Zitiervorschau

Critica letteraria con tem poran ea

Collana diretta da Marzio Marzaduri e Gianni Scalia Graziano Benelli La nouvelle critique. Il dibattito critico in Francia dal 1960 ad oggi Sandro Briosi Sartre critico Paola Pugliatti Lo sguardo nel racconto. Teorie e prassi del punto di vista

In copertina: Foto di Susan King.

BIBLIOTECA MALATESTIANA

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ZANICHELLI

Copyright ©

1985 Nicola Zanichelli S.p.A., Bologna

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tu tti i paesi Copertina e impostazione grafica: Raimondo Biscaretti Redazione: Ciro Masi Prima edizione: aprile 1985 Ristampa 5 4 3 2

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1985

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Stampato a Selci Umbro dalla tipografia Pliniana, V.le Francesco Nardi, 8 per conto della N. Zanichelli Editore S.p.A. via Irnerio, 34 - Bologna

1989

Indice

V II

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N ota • l(vl. ^l^rimo sguardo alla categoria di punto di vista

1.1. La visione limitata 1.2. Punto di vista o « punto di vista »? 1.3. Le attribuzioni « vedere », « dire », « orientare » nella prassi dei narratori 1.4. Il narratore non è l ’autore

4 13 26 33

2. Il dibattito storico ! i o 2.1. Critici e teorici di prima e seconda generazione 2.1.1. L ’esigenza di una tecnica del narrare 2.1.2. Henry James: teorico o critico di se stesso? 2.1.3. Henry James: le categorie del punto divista 2.1.4. Henry James: la discriminante showing vs telling 2.1.5. J. Warren Beach: il metodo e la tecnica 2.1.6. P. Lubbock: « arte » e « mestiere » del romanziere (e del critico) 2.1.7. N. Friedman: una descrizione per tipi 2.1.8. W: C. Booth: la visione etica

38 41 50 52 69 79 90 102

, 3. E stensioni e prosecuzioni 3.1. 3.2. 3.3. 3.4.

108 112 117

122

4.

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La « situazione n arrativ a» : F. K. Stanzel Punto di vista e modelli culturali: Ju. M. Lotman Il punto di vista secondo B. A. Uspenskij Le categorie di « modo » e « voce » in Genette

Em ittenza e ricezione : il completamento del m odello com unicazionale •4 .1 / Il contratto narrativo e la negoziazione del « punto di vista »

( 4 .2 ./Narratori, focalizzai ori, narratari V . . . / 4.2.1. L'autore come «narratore semiotico» 4.2.2. L’autore come « narratore extrafittìzio » 4.2.3. Narratore e focalizzatore: M. Bai 4.2.4. Il narratore come creatore mitico dell’universo 4.2.5. Il narratario 4.2.6. Il lettore implicito e il suo punto di vista: W. Iser 4.2.7. Il Lettore Modello 4.2.8. Il lettore reale 5. Le direzioni della pragmatica 5.1. Fra pragmatica enunciazionale e pragmatica illocutoria 5.2. La responsabilità di enunciare 5.3. A ffettività/valutatività: teoria linguistica e prassi dei narratori 5.4. Intenzionalità: forza illocutoria e « punto di vista » 5.5. Lo statuto logico del discorso di finzione 5.6. A tti linguistici in narrazioni « naturali » e in narrazioni letterarie 6. Discorso narrativo e ideologia 6.1. Soggettivismo individualistico vs coscienza ideologico-sociale 6.2. Narratori « soggettivi » e narratori « obiettivi »: una possibile discriminante ideologico-testuale ( 6.3. La parola come ideologema o « p u n to di v ista»

riportato

^

; degli autori e delle opere narrative

Desidero ringraziare gli amici che in vari m om enti della stesura di questo libro m i hanno aiutata a risolvere o a focalizzare dubbi e perplessità, o che m i hanno incoraggiata a proseguire nell’esplorazione di un tema che fin dall’inizio si è rivelato tanto affascinante quanto insidioso. Penso soprattutto a Keir Elam, Pino JAattella, Marzio Marzaduri, Sandra Melloni, Giovanna Mochi, Roberta Muliini, Patrizia V ioli e Romana Zacchi, con i quali ho discusso parti del manoscritto ricevendone suggerimenti teorici o strategici che quasi sempre ho accettato, o che m i hanno segnalato utili ampliamenti bibliografici. In particolare, una discussione con Alessandro Serpieri m i ha convinta a mutare radicalmente l ’impostazione del primo capitolo e ad avanzare con maggiore sicurezza qualche proposta teorica in positivo. Infine, ma non ultimo, Cesare Segre ha cortesemente messo a mia disposizione il manoscritto di un suo testo allora non pubblicato. I dubbi, le perplessità e le contraddizioni che rimangono sono, ovviamente, mia esclusiva responsabilità. E sono, credo, da segnalare come tali, allontanando la pretesa di risolvere una volta per tutte una tematica sulla quale altri, certo più efficacemente di me, hanno meditato senza però riuscire a districarne tu tti i nodi. La consapevolezza di non poter offrire soluzioni definitive è equilibrata, però, dalla convinzione di aver smosso le acque azzardando qualche suggerimento di articolazione il cui miglior pregio è, credo, la « discutibilità ». A i miei studenti, con i quali tu tti gli anni discuto problemi di narratologia (in una situazione di classe nella quale purtroppo i ruoli sono marcatamente asim metrici), dedico questo libro: convinta che lo studio teorico dei problemi dell’arte narrativa susciterà in loro il desiderio di un contatto costante con le storie fantastiche che il mondo ha prodotto. A Simone, interlocutore sottile e lettore già competente, dedico l ’inclusione di un frammento narrativo, come omaggio ad un romanziere da lui molto amato. A Guy, grazie per un suggerimento iconografico. Bologna, 8 marzo 1984

*

N o ia

Per motivi di accessibilità propongo in traduzione tutti i framm enti da romanzi stranieri, talvolta (soprattutto per i romanzi in lingua inglese) traducendo io stessa i brani riportati, talaltra servendomi di versioni correnti. In questi ultim i casi ho sempre controllato i testi originali, modificando in qualche punto le traduzioni utilizzate nel senso di una maggiore aderenza lessicale e sintattica; il che è apparso necessario soprattutto quando era in discussione il livello discorsivo del testo.

1. Primo sguardo, alla categoria di punto di vista

1.1. La visione lim itata Una storia — che essa sia raccontata per mezzo di immagini o di parole, che ci venga trasmessa nel sogno o dalla lettura di un libro — ha sempre « qualcuno » che la racconta: un narratore. Il narratore di una storia è una strategia testuale: filtro di attenzione, principio di selezione e di ordine. Ciò che avviene nel sogno è selezionato, focalizzato ed ordinato da quel potente e motivato narratore che è l ’inconscio di chi sogna. Nel testo del sogno, proprio come nel testo del romanzo, un « narratore » si incarica di scegliere, prelevandoli da una fabula profonda, i materiali della storia e di montarli in una sequenza di intreccio significativa. I narratori, tuttavia, non sono tu tti alla stessa stregua motivati, affidabili, competenti ed informati; alcuni hanno la possibilità (virtuale) di conoscere « tu tti » i materiali della storia: la loro visione è illimitata e i loro poteri sono quasi-divini; altri narratori sono costretti a contemplare la storia, per così dire, « da dietro una finestra », oppure incontrano, lungo la traiettoria del loro sguardo, ostacoli che ne impediscono la visione e che essi non sono capaci di superare. Scegliere un punto di vista per una storia significa (nella accezione primaria e più semplice del termine) decidere dove collocare il luogo di osservazione del narratore: se stabilire che dovrà osservare la storia da dietro una finestra e costringerlo così ad una prospettiva fissa oltre che lim itata oppure dotarlo della facoltà di visitare liberamente e onniscientemente tu tti gli spazi, i tempi e i ruoli da narrare; e, nel caso della visione limitata, se collocarlo al centro o alla periferia, al cospetto o al di sopra, fuori o dentro la storia che racconta. Il narratore a punto di vista lim itato è quindi una strategia narrativa dotata di poteri, di autorità e di informazioni ridotti

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rispetto a quelli dei quali è dotato il narratore cosiddetto onnisciente, demiurgo affidabile e impositivo, talvolta invadente e sempre competente. Perché, dunque, limitare la visione del narratore esautorandolo dei poteri quasi-divini che l ’attività di narrare può attribuire? Da quale esigenza nasce, cioè, la formula del punto di vista ristretto? Si trattò, per i romanzieri che teorizzarono e sperim entarono soluzioni narrative di limitazione della visione, di un interesse meramente tecnico, oppure la questione investiva un aspetto più sostanziale dell’arte del romanzo, una modalità speciale, cioè, di produzione e di trasmissione del senso? È, oggi, da abbandonare come obsoleta questa formula, oppure essa va reinterpretata, sia rileggendo il dossier storico che ne decretò la fortuna che rivedendola alla luce di più recenti acquisizioni? Generalmente si rimprovera ai primi teorici di aver privilegiato una accezione semplificata, tecnicistica, puram ente prospettica della nozione; di essersi preoccupati, cioè, esclusivamente di stabilire dove sia posto, in una narrazione, il punto di osservazione del narratore; e di aver dettato precetti di limitazione del campo visivo e di eliminazione dell’onniscienza. Di non avere, insomma, considerato l ’accezione più ampia e più significativa, secondo la quale punto di vista significa « opinione o più in generale investimento assiologico della storia, accezione che in alcune trattazioni recenti (vedi Lanser 1981, ad esempio) è considerata come la sola che valga la pena di discutere. Il giudizio non sembra storicamente corretto né teoricamente produttivo: i primi teorici, infatti, seppure interessati ai metodi tecnici di limitazione della visione, erano anche consapevoli del fatto che scegliere una visione limitata significa assumere non soltanto un particolare punto di vista (ottico-prospettico), ma anche aderire ad un « punto di vista » orientativo-valutativo (d’ora in poi userò fra virgolette questa seconda accezione): quello dell’intelligenza che narra o quello della intelligenza che serve come mediazione della visione;1 inoltre, dimenticare la componente ottico-prospettica in favore di quella assiologica, significa scegliere un percorso (ideologico) certo più parziale di quello prodotto dal prescrittivismo dei primi teorici. In realtà, entrambe le accezioni sono rilevanti

1. J. W. Beach, nella prefazione alla seconda edizione di Beach 1918, parla di punto di vista come d i visione di un autore onnisciente o « di uno dei personaggi della storia, che vede tutto ciò che gli è possibile vedere ed interpreta ciò che vede alla luce della sua mente e della sua visione» (c i t xiv-xv; corsivi miei).

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nell’arte del narrare; e, di più, esse ci indicano elementi della narrazione che intrattengono una qualche forma di rapporto: un rapporto sfumato, difficile da cogliere, probabilmente non formalizzabile, che al più può aspirare ad una regolarizzazione tipologica che sarà di necessità incompleta e approssimativa, poiché l ’universo dei « possibili narrativi » non consente riduzioni capaci di contemplarne tutte le (virtuali)' attualizzazioni. Lo stesso H enry James, al quale l ’invenzione,, della strategia della visione limitata è attribuita, era del tu tto consapevole di trovarsi di fronte ad un problema a due facce. Egli non parla mai di punto di vista come di pura e semplice angolazione ottica, ma fa riferimento alla scena offerta dalla vita a chi voglia ricrearla nell’arte osservando che questa scena presenta un aspetto diverso a seconda di chi (di quale coscienza individuale, cioè) la contempla. Dichiara, dunque, che il suo sforzo artistico costante è stato quello di ancorare di volta in volta la narrazione alla coerenza di una delle coscienze individuali presenti ed agenti nel mondo fittizio: di far scaturire il racconto, come egli dice, dal centro di una coscienza o da una intelligenza centrale, Questa soggettività è narrata secondo le coordinate percettive e orientative della sua intelligenza. Solo come conseguenza di questa esigenza si impone la scelta (tecnica) della restrizione del campo visivo: poiché l ’istanza della narrazione de Gli Ambasciatori (The Ambassadors, 1903) non può vedere altro che ciò che vede Lam bert Strether, non può commentare con filtri assiologici diversi da quelli che la soggettività del personaggio frappone, non può supporre altro che ciò che entra nella sua sfera di attenzione, essa calibrerà la sua competenza e le sue valutazioni sulla soggettività che assume come fonte della informazione narrativa. Analoga a quella jamesiana era stata, d ’altra parte, la ricerca di Flaubert, in quanto analogo era l ’interesse per il disvelarsi di una coscienza individuale che facesse da filtro di attenzione orientando la narrazione: limitare la portata della visione del narratore significava, sì, rinunciare alla posizione demiurgica dell’onniscienza; ma significava anche accedere senza (apparenti) mediazioni alla' soggettività dei personaggi, registrarne i processi mentali « in presa diretta », cogliere di sorpresa non solo il lettore ma anche il narratore, che nel processo di dissociazione di responsabilità rispetto al personaggio apparentem ente non fa che verbalizzare ciò che è visto da un altro, che prestare cioè la sua voce (vedremo in seguito con quali effetti di cortocircuito dialogico) alla coscienza di altri.

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1.2. P u n to d i vista o « p u n to d i v is ta » ? A partire dagli anni quaranta, alcune esposizioni del problema cominciano a proporne esplicitamente una articolazione in due sensi diversi: Brooks e W arren affermano che l ’espressione punto di vista ha due usi distinti in campo letterario: essa fa riferimento da una parte ad un « metodo della narrazione » e dall’altra all’« atteggiamento o idea di fondo dell’au to re» (1943: 607); la scrittrice Elizabeth Bowen indica una divaricazione del problema in: a) angolazione visiva e b) angolazione morale: la prima sarebbe unicamente prospettica, m entre della seconda entrerebbero a far parte le opinioni (sociali, politiche, nazionali, sessuali, estetiche, ecc.) dell’autore (cit. in Alien, a cura di, 19483: 185-8). Queste formulazioni teoriche, tuttavia, non hanno gran seguito negli anni successivi; e invece, notevole influenza esercita il libro di Booth (1961b), che fa decisamente vacillare l ’accezione prospettica di punto di vista. Booth, infatti, sposta con energia l ’attenzione sull’accezione assiologica, cioè su una discussione delle « molte voci dell’autore », ovvero dei molti modi in cui l ’em ittente del testo si rivolge al destinatario. Ogni romanzo, sostiene Booth, ha regole retoriche sue proprie, strategie attraverso le quali è notijficato al lettore il sistema di valori dell’autore (implicito); e queste regole vanno a buon segno quando il testo riesce ad accordare l ’opinione del lettore con quella dell’autore (vedi 2.1.8.). È soprattutto per effetto di questa formulazione che le espressioni tradizionalmente legate al problema del punto di vista cominciano a spostarsi dall’accezione ottico-geometrica a quella figurata (che può significare visione o opinione che il narratore ha di un insieme di fatti, o addirittura Weltanschauung del narratore e /o autore). Booth diventa così, comprensibilmente, il campione della virata ideologico-assiologica imposta alla nozione, e un robusto filone teorico tu tto ra vivo e polemico corrobora la sua impostazione, obliterando oppure esplicitamente svalutando l ’accezione prospettica (in particolare Lanser 1981; ma vedi anche Krysinski 1977). L ’ipotesi ideologica, d ’altra parte, è sorretta autorevolmente dagli studi di Bachtin (vedi 6.3.), conosciuti da noi a partire 'dagli anni sessanta, che elaborano una teoria del romanzo come genere per eccellenza atto alla trasmissione di ideologia grazie alla sua particolare organizzazione discorsiva plurilinguistica. Ma la storia non finisce qui, e molti problemi rimangono, ancora oggi, irrisolti. Diciamo intanto che non è sufficiente il

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colpo di spugna assiologico-ideologico a convincerci che ciò che un tempo era riduttivam ente considerato^jecnipa per notificare una certa prospettiva fisica deve essere tradotto /«(investim ento ideologico; né che i prim i teorici avessero del tu tto mancato il bersaglio ponendo la questione in term ini prospettici. Tanto è vero che quest’ultima faccia del problema ritorna come questione degna di considerazione in opere autorevoli come Todorov 1966 e 1968, Uspenskij 1970 e Chatman 1978. A questo punto, però, la faccia assiologica del problema non può più essere ignorata; e, quando l ’accezione prospettica rientra in circolo, viene assunta come problema del tutto diverso dall’altro (i problemi di focalizzazione, in sostanza, sarebbero altra cosa che i problemi di voce o istanza dell’enunciazione). Ciò che interviene a chiarire in parte (ma anche a rendere più complesso) il problema, è la scoperta del livello dell’enunciazione di un testo, al quale si colloca pertinentem ente la voce narrante o istanza della narrazione. Anche su questo punto sussistono però confusioni, poiché in alcuni studi sembra che livello dell ’enunciazione significhi livello dell’espressione, cioè pura e semplice resa verbale: prospettiva inaccettabile da parte di una teoria dell’enunciazione, la quale è interessata all’espressione in quanto manifestazione linguistica della.soggettività. La novità della teoria sta anzi proprio nel considerare il idiscorso/ come attività che ci consente di individuare dietro l ’enunciazione l ’enunciatore, dietro il prodotto il produttore, con il suo complesso universo di discorso. E difficile, quindi, accettare^ l ’ipotesi di ...una verbalizzazione priva di orientam ento (valutativo), ipotesi che sembra scaturire implicitamente da alcune formulazioni teoriche (Uspenskij 1970 separa il livello fraseologico dal livello ideologico; Bai 1977 afferma che « il narratore ha soltanto diritto alla parola »; Chatman 1978 considera tu tt’uno prospettiva e investimento ideologico e pone la voce ad un livello diverso, quello del discorso). E infatti, contro la riduzione del ruolo dell’espressione a pura verbalizzazione, registriamo l’autorevole impostazione teorica di Bachtin, secondo il quale la lingua è « opinione pluridiscorsiva sul mondo », e che quindi vede nella stessa pluridiscorsività semantica connaturata alla lingua ogni possibilità di orchestrazione del « p u n to di vista » di un testo. Insomma, come è possibile che una attività linguistica po?sa essere soltanto verbalizzatrice, quando sappiamo invece che parlare significa, perlomeno, parlare di sé? Come è possibile una

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enunciazione che non produca informazioni sull’enunciatore oltre al (e insieme col) contenuto degli enunciati? Il problema degli incroci fra voce, punto di vista e.« .p u n to di vista » si intravede assai complesso; e la sua complessità è confermata dalle formulazioni teoriche nelle quali è sentita l’esigenza di una distinzione di livelli testuali pertinenti alle varie attribuzioni. Dice Chatman: La differenza fondamentale fra « punto di vista » e voce narrativa è questa: il punto di vista è il luogo fìsico o l’orientamento ideologico o la situazione pratico-esistenziale rispetto a cui si pongono in relazione gli eventi narrativi. La voce, al contrario, si riferisce al discorso o agli altri mezzi espliciti tramite i quali eventi ed esistenti vengono comunicati al pubblico. Punto di vista non significa espressione, significa solo la prospettiva secondo cui è resa l’espressione. Prospettiva ed espressione non necessariamente sono collocate nella medesima persona. (Chatman 1978: 161 trad. it.). Come si vede, Chatman separa le due accezioni di punto di vista {luogo fisico e orientamento ideologico) dalla voce (discorso o espressione). La definizione non convince del tu tto , poiché essa sembra accordare alla voce una attività verbalizzatrice del tutto neutra (separata, insomma, dall’espressione di « punti di vista », cioè dall’orientam ento ideologico); inoltre, come accennavo prima, non sembra affatto da escludere che la « posizione fisica » rispetto a cui gli eventi sono messi in relazione influenzi in qualche modo la resa verbale di questi eventi. Una integrazione più problematica fra i vari livelli è leggibile in Segre, che nel commentare l ’opera di Booth osserva fra l ’altro: [...] il punto di vista non ha soltanto [...] un carattere percettivo, ma anche un carattere morale e psicologico; le cose si vedono in modo diverso, oltre che per variare di possibilità ottiche e informative, per dislivelli nelle attitudini mentali. I problemi dì percezione dei fatti investono anche le differenze tra i soggetti umani. (Segre 1984: 91; corsivi miei). In questa seconda formulazione, alla distinzione fra carattere percettivo e carattere morale e psicologico, si accompagna il suggerimento di una qualche forma di rapporto esistente fra percezione e modo di percepire, rapporto che sembra istituirsi a partire dalla categoria di persona (differenze tra i soggetti umani).

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Ma vediamo di m ettere ordine fra le categorie finora intraviste, se non altro per produrne una riduzione razionale: a) punto di vista come prospettiva fisica; b) « punto di vista » come opinione o come sistema assiologico o come complessiva Weltanschauung-, c) vocef (livello dell’espressione) : istanza della narrazione verbalizza tr ice dell’informazione narrativa; d) voce 2 (livello dell’enunciazione): istanza dell’enunciazione produttrice del « punto di vista » o dei « punti di vista » di un testo. Queste quattro categorie, variamente mescolate e definite (ma più spesso non definite) e di volta in volta più o meno esplicitamente accentuate, compaiono in tutte le formulazioni del problema. Vediamo come le varie posizioni teoriche le hanno, grosso modo, combinate: i) quello del punto di vista non è un problema prospettico ma un problema ideologico-assiologico o morale (con varianti, questa posizione si può attribuire a Booth 1961b, Krysinski 1977 e Lanser 1981); ii) quello del punto di vista è un problema di focalizzazione; esso è diverso dal problema della voce, che concerne l ’istanza della narrazione (vocei/voce 2 ). Le domande da porsi sono distinte: « chi guarda? » (focalizzazione) e « chi parla? » (voce) (Genette 1972; Bai 1977); iii) quello del punto di vista è un problema a due facce: prospettico e ideologico; esso è distinto dal problema della voce, che è enunciazionale e si colloca al livello dell’espressione (vocei) (Chatman 1978); iv) quello del punto di vista è un problema a due facce: prospettico e ideologico; esso è distinto dal problema della voce, che è enunciazionale; tuttavia, percezione ed espressione, vedere e parlare, focalizzazione e voce (voce2 ?) sono attività strettam ente connesse (Marchese 1983); v) fra voci (voce2 ) e modi (punti di vista percettivi) non vi è parallelismo ma combinazione; le posizioni ideologiche si realizzano dichiaratamente tram ite le voci ma si rivelano in ogni parte del testo, anche nel modo stesso di rappresentare gli orizzonti percettivi (Segre 1984). La prima formulazione bandisce il problema prospettico concentrando l ’attenzione solo su quello morale ed ideologico; è da notare che nei testi citati il « punto di vista » viene giustamente messo in relazione con la « v o c e » : dell’autore, dell’autore im-

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plicito, del narratore, del personaggio, ecc.; la seconda, separando focalizzazione e voce distingue pertinentem ente le attribuzioni, ma sembra assegnare a « colui che parla » una semplice attività ver- ., balizzatrice della visione di un altro, al quale apparterrebbe anche il « punto d i vista »; la terza ricalca la precedente, esplicitando il problema del punto di vista anche come orientamento ideologico o situazione pratico-esistenziale da non attribuirsi (nei casi in cui prospettiva ed espressione non sono collocati nella medesima persona) a colui che esprime; la quarta introduce (solo enunciandola) l ’opinione che esista un rapporto fra il vedere e il parlare; nella quinta si esprime pertinentem ente il legame fra « punti di vista » e voci che parlano nel testo, e fra « punti di vista » e orizzonti percettivi. A partire dalle ultime due formulazioni, nella convinzione, cioè, che esistano relazioni fra il vedere, il dire e l ’orientare il senso (o addirittura il valutare), cercherò di articolare una serie di incroci focalizzando la categoria di persona: — il punto di vista (prospettico) non è' una posizione ma un rapporto o una combinazione di rapporti, e cioè di posizioni relative, che m ettono in relazione: una posizione « io » della persona narrante (soggetto dell’enunciazione), una posizione « io / egli» della persona narrata (soggetto dell’enunciato), una collocazione spazio-temporale (posizione relativa delle due persone fra loro e rispetto agli eventi ed esistenti della storia), una eventuale posizione « tu » del destinatario della narrazione (narratario implicito o esplicito); — il « punto di vista » (orientamento del senso, ideologia, assiologia) è distribuito fra le varie posizioni di persona (soggetti dell’enunciazione e anche soggetti dell’enunciato); esso è endemico nel testo nelle sue varie articolazioni (conformi, dialogiche, conflittuali) poiché la funzione di orientare il senso è connaturata alla lingua. In quanto tale, è attribuzione, in prima istanza, del soggetto dell’enunciazione, che enunciando non può non enunciare se stesso, il proprio universo di discorso, la propria appartenenza ad un gruppo sociale, ecc.; ma è anche, grazie alle commutazioni (sintattiche e semantiche) di orientamenti discorsivi che la lingua consente, attribuibile in modi più o meno diretti al soggetto dell’enunciato. — le tre attività di vedere (punto di vista), verbalizzare > (vocei) e orientare il senso (« punto di vista »/voce 2 ) non necessariamente (non sempre) sono collocate nella medesima persona; tuttavia, il particolare vedere (la particolare prospettiva scelta

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per traguardare i fatti) influenza il modo in cui i fatti sono narrati (il verbalizzare) e dunque l ’orientamento del senso. Vediamo di rifare il percorso delle attribuzioni, questa volta a partire dal soggetto deU’enunciazione e dal soggetto dell’enunciato: Soggettò 'dell’en.ne-. — di solito non vede, ma riferisce ciò che un altro vede o ha visto (se stesso protagonista nel tempo della storia, un personaggio la cui visione assume come filtro, ecc.); — per statuto, enuncia (o verbalizza)-, — in quanto enuncia (o verbalizza) orienta il senso-, tuttavia, così come può assumere la visione di un altro, può assumere anche l ’attitudine valutativa della persona (o del gruppo sociale) la cui visione riferisce; Soggetto dell’en.to-. — vede (e agisce) ed è visto vedere (focalizzato dal soggetto dell’en.ne); — non enuncia statutariamente (se non negli inserti di dialogo, oppure nei casi, che vedremo sotto, in cui coincide col soggetto dell’en.ne); — può orientare il senso, quando il soggetto dell’en.ne « si nasconde » dietro gli orientamenti del soggetto dell’enunciato (monologo interiore indiretto, vari tipi di discorso riferito; in questi casi, tuttavia, non vi è mai una totale cancellazione del soggetto dell’en.ne, ma piuttosto un interferire di due posizioni). D etto questo, cercherò di formulare una tipologia degli incroci delle varie attribuzioni, operando drastiche semplificazioni sulla base di modalità narrative fondamentali. Prendo le mosse dallo schema Brooks e W arren rivisitato da G enette, cercando di articolarlo in qualche- zona. 1. N arratore presente come personaggio nella storia: a) l'eroe racconta la sua storia — ai) « in presa diretta »: i) monologo interiore diretto: uno dei casi in cui non si realizza intreccio di attribuzioni, poiché soggetto dell’en.ne e soggetto dell’en.to coincidono (all’interno, ovviamente, di una simulazione di cancellazione del narratore); il punto di vista è quello del narra-

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tore-protagonista; l ’istanza « simultanea » (per convenzione) è la medesima (personaggio pensato e personaggio-narratore pensante coincidono grazie all’identità di persona e alla mancanza di scarto temporale); dalla stessa fonte narrativa e dalla stessa prospettiva ci giunge il « punto di vista » come espressione di soggettività; si può aggiungere, tuttavia, che esistono pochi casi di monologo interiore « puro », che si mantenga tale per tu tto il testo: un esempio che si può citare è Gli allori sono tagliati di Dujardin (Les lauriers sont coupés, 1888); ii) romanzo epistolare: le istanze dell’enunciazione, dichiarate in ciascuna lettera, verbalizzano, organizzano e di volta in volta valutano dal loro punto di vista ed esprimendo un loro « punto di vista ». Anche il romanzo epistolare è rarissimamente « puro », cioè privo di commenti del « narratore » come avviene in Pamela di Richardson (1740) o di prefazioni di un curatore, come avviene ne Le relazioni pericolose di Lacios (Les liaisons dangereuses, 1782); ili) presa diretta simulata: Lo straniero di Camus (L ’étranger, 1942) è narrato in parte al presente o con piccoli scarti temporali di qualche ora; si avvicina alla presa diretta, ma forse non la raggiunge mai, anche perché M ersault non registra mai fra le sue attività quella di scrivere un diario, cioè non si contempla mai mentre scrive (e la narrazione non ha le marche di « scrittura abbreviata » del monologo interiore). Lo stacco temporale, anche minimo, fra momento della storia e momento della sua enunciazione fa del M ersault della storia il soggetto dell’en.to, e cioè colui che « ha visto »: del M ersault soggetto dell’en.to è, dunque, 11 punto di vista, m entre del M ersault soggetto dell’en.ne è la verbalizzazione; l ’orientamento del senso, invece, appartiene indistricabilmente ad entrambe le persone; a i)

« in differita »:

la casistica è ricchissima e varia, da Robinson Crusoe di Defoe (1719) a La coscienza di Zeno di Svevo (1923) a M oby Dick di Melville (1851) al De profundis di W ilde (1905) a II nome della rosa di Eco (1980), e include tu tti i casi di autobiografia (la narrazione di eventi reali non sposta i term ini del problema). In questi casi, le attribuzioni sono distribuite fra narratore-personaggio come soggetto dell’en.ne. nel tempo della narrazione e personaggio narrato come soggetto dell’en.to nel tempo della storia. Q uest’ultimo è, a rigore, il produttore del punto di vista: il soggetto dell’en.ìie verbalizza ciò che ha visto il soggetto dell’en.to,

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vedendo attraverso i suoi occhi, e dunque (sempre a rigore) dovrebbe riprodurre anche il « punto di vista » di quello. In realtà, è proprio in questi casi che avvengono gli incroci di orientamento più complessi ed- interessanti: se è vero che il narratore « differito » non ha altri occhi che quelli dell’eroe, è anche vero che la visione dell’eroe è riorientata dalla sovrapposizione di un altro punto di vista; non solo il narratore differito si infiltra spesso a commentare « col senno di poi », ma più sottilmente, poiché sua è l’arma dell’enunciazione, non può non enunciare se stesso e il proprio « punto di vista » insieme con il soggetto dell ’enunciato e l ’orientamento valutativo di quello. M entre caratteristicamente simulano una attività di semplice verbalizzazione, in realtà e proprio perché possiedono l ’arma del dire, questi narratori riorientano insensibilmente il senso e la visione dell’altro. - b) un testimone racconta la storia dell’eroe-. in questo caso il personaggio è, in maniera più netta, soggetto dell’en.to; il punto di vista e l ’orientam ento del senso sono attribuibili più nettam ente al narratore, anche se questi può cercare di indovinare l ’orientam ento del senso prodotto dal personaggio: è'spesso citato in questo senso il brano de II grande Gatsby di Fitzgerald (The Great Gatsby, 1925) in cui il narratore-testimone Nick Carraway cerca di indovinare i pensieri di Gatsby morente, introducendoli congetturalmente con espressioni come « deve aver guardato », « deve aver pensato », ecc.. G li orientam enti del personaggio narrato si infiltrano, ovviamente, sempre nei casi di discorso riferito dove, come si è detto, avviene una contaminazione fra l ’orientamento del narratore e quello del personaggio (vedi 6.4. e 6.5.). ’ 2. Narratore assente dalla storia come personaggio: a) il narratore analista e onnisciente racconta la storia-. postulo il caso solo per esigenze teoriche; in realtà ritengo che non si dia narrazione onnisciente « p u r a » ; a questo proposito, nota Segre: Anche se l’autore si attribuisce in partenza gli attributi dell’onniscienza e deH’imparzialità testimoniale, egli non può far a meno di avvicinarsi di volta in volta ai personaggi, limitando con .ciò stesso

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la sua visuale all’orizzonte in cui i personaggi si muovono. (Segre 1984: 100). In ogni modo, in linea teorica, il narratore onnisciente, con le sue attribuzioni quasi-divine, vede (ha visto) eventi ed esistenti di una storia e ora li racconta: il luogo dal quale vengono traguardati gli eventi (punto di vista) è quello nel quale di volta in volta egli si pone; a lui appartiene la verbalizzazione (vocei) e ciò che troviamo verbalizzato esprime anche la sua personalità (voce2 ), anche quando egli riferisce gli orientam enti del senso che attribuisce al personaggio narrato.2 b) II narratore racconta la storia servendosi di un personaggio come « riflettore »: è il caso ipotizzato e praticato da James come metodo di limitazione della visione: il narratore, in questi casi, calibra- il suo vedere, il suo sapere e il suo valutare su quelli del personaggio che funge da coscienza ordinatrice del racconto. Anche qui, come nei casi di narratori-protagonisti differiti, gli intrecci sono complessi e spesso indistricabili; m entre la simulazione vuole una completa adesione al punto di vista e agli orientam enti valutativi del personaggio-riflettore, in realtà visione, voce e orientamento del senso sono intrecciati; il narratore apparentemente dissocia la propria responsabilità da quella del personaggio (vedremo in 1.4. il caso di Madame Bovary), ma in realtà tradisce continuamente se stesso in giochi di interferenza sottilissimi;

2. L’onniscienza dei narratori non può mai possedere le marche dell’assenza di soggettività e dell’infallibilità che le sono attribuite nella definizione che segue: Si pensi a un essere onnisciente, demone o dio. Poiché sa tutto, esso conosce tutte le lingue, cosicché non vi è alcuna difficoltà nell’attribuirgli pensieri in senso puro e semplice. Inoltre, per lo stesso motivo, esso sarebbe in grado di vedere tutte le cose da tutti i possibili punti di vista (compresa la relatività temporale), cioè secondo tutti i possibili modi di far riferimento ad esse. D i conseguenza, nelle sue credenze non vi sarebbe alcuna «opacità», né assolutamente alcuna soggettività (dato che vedrebbe il mondo sub specie aeternitatis). Infine, tutte le sue convinzioni sarebbero corrette. Conoscerebbe tutto ciò che si verifica, tutti i fatti e, ancora, saprebbe quel che non si verifica ma potrebbe verificarsi; conoscerebbe tutte le possibilità. Il mondo dei fatti è un sottoinsieme della somma totale di tutte le possibilità. (Vendler 1970: 164 trad. it.).

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c) monologo interiore indiretto o monologo in terza persona: il narratore assente impiega, in brani privi delle marche grammaticali del monologo (e cioè il tempo presente e la prima persona) uno stile che è o che potrebbe essere quello del personaggio, attribuendo grammaticalmente a se stesso orientam enti del senso che vengono dal soggetto dell’en.to. In questi casi, né l ’idioma narrativo, né gli orientam enti valutativi sono attribuibili al narratore, il quale però non si cancella, mantenendo per sé le marche grammaticali del discorso oltre a possibili interventi di interferenza semantica (distanza ironica, ecc.). Il monologo interiore indiretto è usato dal Joyce delle opere giovanili ma anche n&WUlisse (Ulysses, 1922), con effetti di cortocircuiti semantici assai notevoli.3 d) il narratore racconta la storia dall’esterno: è la narrazione cosiddetta « spersonalizzata », che apparentemente non viene da alcuna fonte narrativa (esempi classici, H am m ett e certo Hemingway). Il punto di vista è esterno ai personaggi narrati, cosicché i soggetti dell’en.to non offrono (apparentemente) orientam enti del senso; la .voce è quella di un narratore che simula neutralità (non esprime « punti di vista »); tu ttavia, raramente il narratore costruisce un discorso privo del tutto di soggettivemi (affettivi, assiologici o semplicemente valutativi di quantità), implicitamente denunciandosi come posizione semantica orientata. 1.3. L e a ttrib u zio n i « v e d e r e » , « d i r e » , « o r ie n ta r e » nella prassi dei narratori Sulla base della tipologia delineata in 1.2., esemplificherò i casi elencati, per illuminare l ’intreccio delle attribuzioni nella prassi di 3. Il «monologo in terza persona» o «monologo interiore indiretto» è una strategia discussa da Kenner (1978) e da lui definita « il principio dello zio Charles»: certe espressioni verbali, attraverso le quali il narratore del Portrait di Joyce descrive il personaggio dello zio Charles sono « idiomi che potrebbe usare un personaggio se fosse lui responsabile della narrazione» (Kenner 1978: 17). Il procedimento è usato in maniera piuttosto sistematica e con effetti assai sottili nei racconti di G ente di Dublino (Dubliners, 1914), nei quali uno studio delle marche dell’enunciazione ha rivelato di volta in volta nei protagonisti dei racconti gli emittenti della storia, ancorché la narrazione sia condotta in terza persona. Uno studio molto dettagliato di questo particolare procedimento narrativo è stato condotto da Teresa Marnieri in una tesi di laurea discussa all’università di Bologna, intitolata h e voci narranti nel primo Joyce: Dubliners.

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alcuni narratori. Cominciamo con i casi di narratori presenti nella storia come personaggi, e in particolare quelli in cui l ’eroe racconta là sua storia in presa diretta-. i) monologo interiore diretto: Sì perché non ha mai fatto qualcosa del genere chiedere la colazione a letto con due uova da quando eravamo all’albergo City Arms quando faceva finta di star male con la voce da sofferente e faceva il pascià per rendersi interessante con Mrs Riordan vecchia befana e lui credeva d ’essere nelle sue grazie e lei non ci lasciò un baiocco tutte messe per sé e per l’anima sua spilorcia maledetta aveva paura di tirare quattro soldi per lo spirito da ardere mi raccontava di tutti i suoi mali aveva la mania di far sempre i soliti discorsi di politica e i terremoti e la fine del mondo divertiamoci prima Dio ci scampi e liberi tutti se tutte le donne fossero come lei a sputar fuoco contro i costumi da bagno e le scollature che nessuno avrebbe voluto vedere addosso a lei si capisce dico che era pia perché nessun uomo si è mai voltato a guardarla spero di non diventar come lei (J. Joyce, Ulijse). Nel lungo monologo di Molly Bloom che chiude YUlisse non vi sono, a differenza di quanto accade negli altri brani monologici del libro, interventi del narratore; neanche, si direbbe, gli interventi grafici e le istruzioni semantiche che potrebbero scaturire dalla punteggiatura. La modalità della « presa diretta », garantita dall’unità del soggetto dell’enunciazione e dall’enunciazione al tempo presente (naturalmente, quando non si allude a momenti del passato, come nelle prime righe), è inequivoca. Il punto di vista è interno al personaggio che pensa-enuncia, dal "quàlè ci giunge un « punto di vista » sui contenuti degli enunciati come espressione della sua soggettività e dei suoi orientam enti valutativi (vedi i soggettivemi devalorizzanti delle qualità attribuite ai due soggetti degli enunciati: « l u i » e « M r s R iordan»), In casi come questi, la convenzione della cancellazione del narratore consente al lettore attribuzioni sicure circa il vedere, il dire e l ’orientare, tu tti concentrati senza scarti nel soggetto de}: l ’enunciazione. Sottili, non codificabili interferenze, in casi come questi, sono possibili grazie all’eventuale presenza di un narratario (implicito), che nel caso del monologo di Molly non è però mai chiamato in causa. ii) narrazione epistolare-. Si vanno diffondendo qui, mia cara e degna amica, voci strane e molto spiacevoli sul conto di Mme de Merteuil. Certo sono ben lontana dal

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crederci e scommetterei che si tratta di una tremenda calunnia. Purtroppo so bene come le cattiverie anche le più inverosimili attecchiscano facilmente; e come l’impressione che lasciano difficilmente si Cancelli, per non essere preoccupata di queste, per quanto credo sia facile smentirle. (C. de Laclos, Le relazioni pericolose). La differenza che si può vedere fra questo testo e il precedente è nella presenza di un destinatario ^esplicito che non solo può influire ne 1Porieritamento del senso dell’estensore della lettera, ma che può suggerire all’estensore strategie di occultamento del senso mediante implicatura; un buon esempio di questo tipo di strategia è l ’espressione « credo sia facile smentirle » che conclude il frammento: probabilmente Mme de Volanges, dà voce a suoi precisi sospetti nei confronti di Mme de M erteuil, ma scrivendo all’amica traduce il sospetto in calunnia. Il « punto di vista » dichiarato esplicitamente non è tuttavia né quello dell’em ittente né quello che l ’em ittente attribuisce a Mme de Rosemonde, destinataria del suo messaggio, ma piuttosto quello che nella dinamica delle convenzioni del gruppo sociale è consigliabile assumere in assenza di prove di colpevolezza. Il monologo interiore diretto, senza interferenze né testimoni, non consente tali commutazioni di senso. iii) presa diretta simulata: Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: « Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti ». Questo non dice nulla: è stato forse ieri. L’ospizio dei vecchi è a Marengo, a ottanta chilometri da Algeri. Prenderò l’autobus delle due e arriverò ancora nel pomeriggio. Così potrò vegliarla ed essere di ritorno domani sera. (A. Camus, Lo straniero). In questo brano, la collocazione spazio-temporale di M ersault narratore coincide perfettam ente con la collocazione del M ersault protagonista. L ’istanza della narrazione, quindi, enuncia contemporaneamente le due posizioni e le loro peculiarità soggettive (vedi l ’assenza totale di aggettivi valutativi, caratteristica di tutto il romanzo, che si può far appartenere ad una peculiarità discorsiva sia del personaggio che del narratore). In realtà, la coincidenza è simulata: Mersault non sta scrivendo un diario e neanche una lettera; non è nemmeno impegnato in un monologo interiore; tanto è vero che già alla pagina successiva i tempi slittano al passato e all’imperfetto, registrando azioni già avvenute (« Ho

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preso l ’autobus delle due; faceva molto caldo. Prim a ho mangiato alla trattoria, da Celeste, come al solito »); la simulazione della presa diretta ritorna qua e là nel romanzo e, pertinentemente, nella chiusa: la m orte del M ersault soggetto dell’en.to non è, ovviamente, narrata, ma prevista dal M ersault soggetto dell’en.ne, che in quel momento non può non coincidere con 1’« altro ». Ma qui, come nei brani lievemente differiti, l ’orientamento del senso non può che appartenere ad entrambi i soggetti. L ’eroe racconta la sua storia « in diferita »: Ora so, come dice il dottore, che l’amore può ledere l’amante quando sia eccessivo. Ho tentato di spiegare cosa allora provassi, non tento per nulla di giustificare quanto provavo. Parlo di quello che furono i miei colpevoli .ardori di gioventù. Erano male, ma la verità mi impone di dire che allora li avvertii come estremamente buoni. E questo valga ad ammaestrare chi, come me, incapperà nelle reti della tentazione. Oggi, vegliardo, conoscerei mille modi di sfuggire a tali seduzioni. (U. Eco, Il nome della rosa; corsivi miei). Dal punto di vista temporale, esiste uno scarto di ampia portata fra Adso soggetto dell’en.to e Adso soggetto dell’en.ne. Chi vede è, a rigore, Adso novizio, m entre chi parla è Adso vegliardo. Questo brano, tuttavia, che ha quasi un valore m etanarrativo, precisa proprio l ’intreccio degli orientam enti valutativi fra il narratore differito (verbalizzatore-valutatore di un’esperienza di Adso novizio) e il personaggio (focalizzatore e a sua volta valutatore: « allora li avvertii come estremamente buoni »). La strategia narrativa consente fughe fra tempo della storia e tempo della narrazione, con l’utilizzazione del discorso come marcatore delle due distinte temporalità e per ciò stesso come veicolo di differenti « punti di vista ». Poiché il discorso non scaturisce sempre, come è in questo frammento, dall’istanza ulteriore (nel senso che molto spesso Adso vegliardo parla come se fosse Adso novizio), l ’organizzazione valutativa non appartiene solo alla voce e alle responsabilità assiologiche attribuibili al narratore differito: così Adso può raccontare il suo incontro amoroso con toni appassionati per poi restituirlo, nel brano citato, ai toni pedagogici del discorso ulteriore. In questa particolare strategia dei narratori ulteriori della propria storia, il diaframma della memoria convenzionalmente non frappone ostacoli: qui, infatti, il narratore può avventurarsi, a una distanza temporale calcolabile in circa mezzo secolo, in accuratissimi elenchi (« vidi rilucere gemme di ogni colore e dimensio-

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ne, e riconobbi il giacinto, il topazio, il rubino, lo zaffiro, lo smeraldo, il crisolite, l ’onice, il carbonchio e il diaspro e l ’agata »). Si vede subito, in ogni modo, come la collocazione temporale ulteriore del narratore di per se stessa sia alla base delle regole retoriche che consentono una impostazione valutativa in continuo intreccio di voci e di « punti di vista »: il che è nella tradizione dei narratori invecchiati o « pentiti » come la Moli Flanders o la Roxana di Defoe (ma l ’esempio più interessante rimane Robinson Crusoe) o l ’oppiomane delle Confessioni di De Quincey (Confessìons of an English Opium Eater, 1821), testi nei quali l ’orientamento del senso (e la complessiva assiologia) sono creati proprio attraverso il gioco degli ancoraggi del discorso al tempo della storia oppure a quello differito della narrazione (vedi la relazione fra tempo della narrazione e voce in G enette 1972: 262 sgg. trad. it.). Vediamo un altro narratore invecchiato, e vediamolo proprio nel momento in cui si pone il problema di affrontare una narrazione che necessariamente deve utilizzare gli occhi (il punto di vista) di un « altro »: Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne ... (I. Svevo, La coscienza di Zeno), Anche questo brano ha, per il problema che discutiamo, un valore m etanarrativo. Con precisione inequivoca, il narratore qui indica l ’intreccio dei punti di vista: egli dovrà vedere un altro che a sua volta ha visto. A differenza di Adso, tuttavia, Zeno coglie gli impedimenti della visione limitata alla quale è ancorato: incerto della propria « vista » e della propria memoria, coglie se stesso come prototipo del narratore a punto di vista limitato, la cui visione è impedita da « ostacoli d’ogni genere ». In questa particolare strategia narrativa non vi è garanzia che il narratore sempre si cancelli dietro la visione dell’altro o che non ne riorienti senza saperlo il « punto di vista ». A questo riorientam ento è tutta tesa la strategia narrativa del Dowell narratore de II buon soldato di F. M. Ford (The Good Soldier, 1915), il quale enuncia anche frequenti perplessità sul come narrare la storia. Egli è, in quanto narratore, assai poco affidabile: nonostante che abbia vissuto in prima persona gli eventi che racconta, è presto chiaro che in qualità di personaggio è testimone del tutto inattendibile perché, al

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tempo in cui si svolgevano gli avvenimenti che narra, ne era del tutto ignaro: egli vedeva, sì, ma nonostante vedesse non capiva. Inoltre, a ridurre ulteriorm ente la sua credibilità, intervengono le incertezze che egli esprime sulle sue capacità di narratore. Come personaggio, ha vissuto una vicenda del tu tto diversa da quella che ora racconta, che gli viene da fonti di informazione confuse e contrastanti, che come narratore egli non sa fare combaciare in modo coerente.4 Nel romanzo, i passi nei quali il narratore confessa (o simula) la sua impotenza contemporaneamente denunciando un continuo mescolamento dei punti di vista e delle valutazioni, sono innumerevoli. Vediamone alcuni: Non so come sia meglio raccontare la vicenda; se sia preferibile cercare di narrare la storia fin dall’inizio, come se fosse una storia o se rac-t contarla da questa distanza di tempo, come giunse a me dalle labbra di Leonora o da quelle dello stesso Edward. [...] penso di aver aggiornato la mia storia fino alla data della morte di Maisie Maidan. Cioè, ho spiegato tutto ciò che avvenne prima dai molti punti di vista necessari — quello di Leonora, quello di Edward e, in qualche tnisura, il mio. I fatti ci sono tutti, se solo si vuole trovarli: ci sono i punti di vista, nella misura in cui ho potuto accertarli e saputo riferirli. Sa il cielo che cosa accadde in Leonora dopo ciò. Sicuramente non lo sa neanche lei stessa. Probabilmente disse ad Edward molto di più di quanto io sono riuscito a riportare. Ma questo è quanto ella mi ha detto, e io non mi inventerò dei discorsi. Egli pensò che ella fingesse di odiarlo per salvarsi la faccia e pensò anche che quel suo atroce telegramma da Brindisi fosse un altro tentativo per farglielo credere — per provare che aveva sentimenti accreditabili ad un membro della comunità femminile. Non lo so. Lascio a voi la soluzione. (F. M. Ford, Il buon soldato-, corsivi miei). Ma l ’intrico dei punti di vista e delle valutazioni non è sempre così ingarbugliato come Ford ce lo presenta; anzi, il discorso dei 4. Col termine time-shijt Ford indica una tecnica di organizzazione temporale del racconto nella quale la sequenzialità naturale, « oggettiva », degli eventi è sostituita da una temporalità associativa, « soggettiva », che costringe il lettore a continui spostamenti in avanti e all’indietro, con frequente ripetizione di episodi, rivelazioni tardive, " « dimenticanze » del narratore, ecc., in vista di ciò che lo scrittore- indicava come progression d’effet; si veda l ’esposizione di questi principi in Ford 1924 e 1930 e una discussione delle teorie del romanziere in Fortunati 1975.

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narratori differiti quasi sempre lascia tracce di volta in volta attribuibili al soggetto dell’en.ne oppure al soggetto dell’en.to: La cosa mi parve un insulto, e ne fui furioso. Concepii lì per lì una strana vendetta, il cui pensiero mi colmò di gioia. Risposi così male a tutte le domande che l’esaminatore mi rivolse in latino, e dissi tanti solecismi, che egli si vide costretto a mandarmi nella classe inferiore di grammatica, dove con mia grande soddisfazione mi trovai insieme a una ventina di ragazzi di nove o dieci anni ... (G. Casanova, Storia della mia vita, 1791-1798; corsivi miei). Con ogni evidenza, quasi tu tti gli elementi affettivi e valutativi sottolineati appartengono al soggetto dell’en.to; probabilmente la sola valutazione attribuibile al soggetto dell’en.ne è la « strana vendetta », espressione nella quale è leggibile in filigrana anche una indicazione valutativa per il narratario. Vediamo ora il caso in cui un testimone racconta la storia dell’eroe-, i testimoni oculari sono narratori a punto di vista lim itato la cui visione dell’eroe è focalizzata dall’esterno. Più m arcatamente che nel caso dei narratori di se stessi, gli sguardi sono in questi casi separati, e dunque il punto di vista del narratore è più indipendente. Per il testimone oculare, tuttavia, rimane un maggior nymèro di residui congetturali irrisolti, anche se egli è, come il Nick Carraway de II grande Gatsby, un investigatore attento e curioso: II. carattere della composizione del signor Tostoff mi sfuggì, perché proprio mentre ne veniva iniziata l’esecuzione gli occhi mi caddero su Gatsby, in piedi, solo, sui gradini di marmo, intento a passare lo sguardo da un gruppo all'altro approvando con gli occhi. La pelle abbronzata del viso era liscia e attraente, e i capelli corti avevano l’aria di essere aggiustati ogni giorno. Non riuscii a vedere nulla di sinistro in lui. Mi chiesi se il fatto che non beveva aiutasse a distiguerlo dagli altri ospiti, perché mi pareva che diventasse sempre più corretto a misura che l’allegria cresceva. (F. S. Fitzgerald, Il grande Gatsby, corsivi miei). Lo sforzo di Nick Carraway, lungo tutto il romanzo, è proprio quello di avvicinarsi a Gatsby congetturandone la visione: guardandolo guardare, immagina non soltanto ciò che cade entro la portata del suo sguardo ma anche come il suo sguardo interiore classifica e valuta; fino all’estremo tentativo della descrizione « dall’interno » (ma sempre marcata da elementi modali conget-

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turali) dei pensieri di G atsby m orente, mentre il suo sguardo « deve essersi posato » su questo o quelPaltro elemento della scena. Ma il tentativo di avvicinarsi dalla periferia al centro della visione dell’eroe e al suo interno non è strategia di tu tti i testimoni oculari. In un caso, almeno, nel quale per di più lo sdoppiamento della posizione « io » è una finzione strategica, sembra che il testimone oculare preferisca rimanere ancorato alla traiettoria del ^proprio sguardo e alla propria collocazione periferica. Come è noto, Cesare racconta gli episodi del De bello gallico « in terza persona », come notano Scholes e Kellogg (1966), per assumere le caratteristiche dello histor attendibile. Cioè, per consentire al narratore di assumere l ’atteggiamento dello storico obiettivo ed affidabile, l ’autore decide preliminarmente di collocare il suo punto di vista in una zona periferica dell’azione, scindendo con notevole perizia narrativa la persona anagrafica dell’autore (che nella storia occupa una posizione centrale) dalla persona strategica del narratore. Questa decisione preliminare consente anche interventi valutativi che, scaturendo da una strategia testimoniale, acquistano un carattere di oggettività. La tattica narrativa è trasparente ed efficace: Cesare, trovato un luogo di osservazione adatto, è in grado di seguire 10 svolgimento dell’azione in tutte le parti; e manda aiuti a coloro che stentano a resistere. [...] Manda per primo l’adolescente Bruto con alcune coorti; poi il legato Gaio Fabio con altre; alla fine egli stesso, poiché la battaglia si fa più accanita, conduce in aiuto truppe fresche. (Cesare, La guerra gallica, ca. 52 a.C.; corsivi miei). In questo caso non vi è, come nel precedente, una congettura a proposito della visione del personaggio focalizzato; « trovato un luogo di osservazione adatto » sembra più la descrizione esterna di un’azione, qualitativamente non diversa dai successivi « mandare » e « condurre ». Compito del narratore-histor è, anzi, proprio il descrivere ciò che egli vede, e dal proprio punto di osservazione, come è richiesto da una strategia accuratamente testimoniale. Passiamo ora a vedere i casi dei narratori assenti dalla storia in quanto personaggi: a) narratore analista onnisciente : Tuttavia, la sua anima era torturata, vulnerabile. Perfino percorrendo 11 sentiero che conduceva alla chiesa, fiduciosa com’era di essere da tutti

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i punti di vista al di sopra di ogni giudizio volgare, sapendo bene che il suo aspetto era perfetto e impeccabile secondo i criteri più esigenti, era tuttavia torturata nella sua fiducia e nel suo orgoglio, sentendosi esposta alle ferite dello scherno e dell’insulto. Si sentiva vulnerabile, vulnerabile, vi era sempre una crepa segreta nella sua armatura. (D. H. Lawrence, Donne innamorate; Women in Love, 1920). Il narratore onnisciente visita J a psiche ..del...personaggio (altrove traguarda eventi da una posizione demiurgica che li comprende senza limitazioni né ostacoli) e ne riferisce i meccanismi con parole sue. Qui è dentro al personaggio, che conosce a fondo e i cui processi mentali è in grado di analizzare (e conosce alla stessa stregua tutte le altre persone della storia); altrove può contemplarne i gesti, quand’anche essi siano compiuti in segreto. T u ttavia, pronunciarsi sull’onniscienza di un narratore è assai più difficile di quanto non si possa pensare: è davvero del narratore la verbalizzazione del torm ento segreto di Hermione? È davvero sua, ad esempio, la forza impressa dalla ripetizione dell’aggettivo (« vulnerabile, vulnerabile »), piccola ma significativa spia del ripetersi del pensiero tormentoso? In realtà, anche il più intrusivo ed impositivo dei narratori dichiara endemicamente nel suo discorso la sua dipendenza dall’altro, sia che ne analizzi i processi mentali, sia^che ne segua i movimenti. Vediamo l ’infiltrarsi di questa dipendenza in un altro narratore cosiddetto onnisciente: Era passata luna di notte quando Pierre lasciò la casa del suo amico. Essendo di giugno, era una di quelle notti di Pietroburgo che non conoscono il buio. Pierre prese una carrozza di piazza con l’intenzione di andare a casa. Ma quanto più si avvicinava tanto più avvertiva l’impossibilità di prender sonno in una notte come quella, più simile ad un tramonto che a un’alba. (L. Tolstoj, Guerra e pace, 1867-9; corsivi miei). La prima annotazione sulla luminosità della notte di Pietroburgo (« una di quelle notti di Pietroburgo che non conoscono il buio ») sembra priva di colorazione affettiva, e può ben venire dal narratore; ma a chi appartiene la seconda (« più simile ad un tramonto che a u n ’alba »), caricata com’è di affettività e che per giunta viene dopo l ’annuncio esplicito della commutazione dall’esterno all’interno del personaggio (« avvertiva »)? Non è, ormai, Pierre a pensare e a suggerire le parole relegando il narratore alla funzione di scriba? Non è lui a vedere, dall’interno della

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sua carrozza (« quanto più si avvicinava »), a verbalizzare e a valutare (« in una notte come quella... »)? Anche nel discorso del narratore onnisciente, in realtà, sono spesso mescolate due voci che dialogano o interferiscono una sull ’altra, e che talvolta possono esprimere « punti di vista » contrastanti. In questi casi (e sono i più), separare « chi vede » da « chi parla » non solo è assai difficile, ma è anche im produttivo, poiché la produzione del senso può essere offerta proprio dalla contaminazione di due prospettive e di due « punti di vista ». I due orientam enti (le due voci) possono coesistere, come nota Bachtin, nella stessa parola, nella parola del narratore che « tiene presente » e riflette la parola del personaggio. b) il narratore racconta la storia servendosi di un personaggio come « riflettore »: Quando il bambino si svegliò veniva portato. C ’era un buio pesto e faceva freddo. Veniva portato giù per le scale da qualcuno che camminava senza fare rumore, con precauzione. Tra lui e il braccio che lo teneva cjsra un fagotto che lui sapeva fatto dei suoi panni. Non gridò, non mandò suono alcuno. Sapeva dall’odore nell’aria che si trovava nella scala di dietro che collegava alla porta laterale la camera dove sempre, a memoria sua, aveva occupato un letto tra quaranta letti. Anche dall’odore sapeva che chi lo portava era un uomo. Ma non mandò suono alcuno, restò tranquillo e in abbandono come se ancora dormisse, andando, scendendo alto da terra tra le invisibili braccia verso la porta laterale che metteva sul cortile dei giochi. (W. Faulkner, Luce d ’agosto; Light in August, 1932). I l narratore è qui « alle spalle » del bambino, in una posizione che gli consente di narrare soltanto ciò che il personaggio percepisce e nel modo in cui questi lo comprende, o non lo comprende. Poiché è buio, non è in grado di dirci chi sta portando via il ragazzo, né verso quale destinazione. Il percorso, poi, è indovinato a tentoni, attraverso gli odori e la memoria della topografia del luogo. Niente, dunque, giunge al lettore che non si collochi nel raggio della visione (impedita) e della comprensione del personaggio. Nel verbalizzare l ’esperienza del ragazzo, tuttavia, il narratore insinua anche elementi lessicali propri (« con precauzione », ad esempio, è una riflessione che oltrepassa la pura e semplice registrazione di sensazioni). E vediamo un frammento di Lawrence, nel quale due perso• naggi si fronteggiano muti, e la visione è alternativamente del-

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l ’uno e dell’altro, così come la verbalizzazione delle sensazioni reciproche: Ella sedeva immobile, combattuta. Chi era questo strano uomo, improvvisamente così vicino a lei? Che cosa le stava accadendo? Qualcosa negli occhi giovani di lui, che luccicavano caldi, sembrava affermare un diritto su di lei, parlare avvolgendola nella sua protezione. Perché.! suoi occhi erano così sicuri, così pieni di luce e così fiduciosi, perché non attendevano alcun permesso o alcun segnale? [...] Ella era stranamente quieta, quasi astratta mentre rispondeva a queste domande. Lo guardò di nuovo, con negli occhi un lampo di femminilità. Egli sentì che non avrebbe potuto muoversi, né per avvicinarsi a lei né per allontanarsene. Qualcosa nella presenza di lei lo feriva, finché quasi non si irrigidì innanzi a lei. Vide lo sguardo della ragazza sollevarsi verso i suoi occhi. (D. H. Lawrence, L ’arcobaleno; The Rainbow, 1915). Nei due capoversi, che sono divisi da un breve dialogo, si ha una restrizione alternata della focalizzazione: sulla visione che lei ha di lui nel prim o e l ’inverso nel secondo. M entre nel prim o la visione di lei è introdotta dallo stile indiretto Ubero, nel secondo il « punto di vista » d i lui è denunciato dal verbo di percezione sentì; in entrambi i capoversi, la commutazione della visione è precisata dall’esplicitazione del gioco degli sguardi (« qualcosa negli occhi giovani di lui... perché i suoi occhi erano così sicuri... J o guardò di nuovo... vide lo sguardo della ragazza sollevarsi verso i suoi occhi »). c) monologo interiore indiretto-. Egli la adocchiava come un serpente adocchia la preda. Il suo istinto di donna le disse che aveva risvegliato il diavolo in lui e a quell’idea una fiamma di porpora le corse dalla gola alla fronte finché il colore incantevole del suo volto non divenne quello di una rosa accesa. (J. Joyce, Ulisse). Qui, come altrove nel romanzo (il brano è tolto dall’episodio « Nausicaa »), il narratore ha caratteristiche di onniscienza; si muove agilmente dall’interno all’esterno 'dei personaggi, varia continuamente la prospettiva spostando l ’attenzione da un punto all’altro della scena ed è anche in grado di percepire una visione complessiva dall’esterno (può vedere il gruppo delle ragazze e dei bambini di cui G erty McDowell fa parte e anche, poco distante,

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Bloom seduto sulla spiaggia, del quale registra « in presa diretta » i pensieri, al tempo stesso percependone movimenti ed azioni). Le informazioni in suo possesso sono, almeno potenzialmente, in numero rilevante, ed egli ha l ’aria di industriarsi a riferire anche le minuzie. Vediamo, ad esempio, la cura del dettaglio nella descrizione dell’abbigliamento di Gerty: Una bella camicetta blu elettrico, tinta con palline coloranti (perché L ’illustrazione femminile riteneva che il blu elettrico sarebbe venuto di moda) con un’elegante scollatura a V fino al sommo dei seni e un taschino (in cui teneva sempre un po’ di ovatta imbevuta del suo profumo favorito perché il fazzoletto guasta la linea) e una gonna da passeggio a tre quarti blu scura non molto ampia mettevano in risalto alla perfezione la sua svelta, graziosa figurina. Portava un amoruccio di cappello sbarazzino a larghe tese guarnito a contrasto con una sottotesa in ciniglia germano e di lato un nodo a farfalla in colore. (J. Joyce, Ulisse). In realtà, è subito evidente che qui, come nel brano citato sopra, pochissimo ci viene dall’istanza -del narratore; quello che si esprime nell’episodio sono, al contrario, le due soggettività di Bloom (nei brani di monologo interiore diretto) e di Gerty (nel « monologo in terza persona »): il narratore si limita a « far incontrare » le due soggettività, facendo scoccare la scintilla del contatto. I suoi interventi diretti, quelli cioè nei quali non riconosciamo né la voce di Bloom né la voce di Gerty, sono brevi passaggi di raccordo che raccontano un qualche gesto di Bloom quando questi non monologa né è raccontato dal punto d i vista di Gerty. Tanto è vero, che per oltre venti pagine Bloom è « il signore in nero », e solo molto tardi il narratore rivela che si tratta di lui: « Leopold Bloom (sì, era proprio lui) ». In questi passaggi di raccordo, la voce del narratore è riconoscibile dal tono neutrale ■(« M r Bloom la guardò allontanarsi zoppicando »; « Mr Bloom si ricompose con cura la camicia bagnata », ecc.). Vi sono momenti in cui il narratore, Bloom e G erty sono insieme all’opera per costruire la visione triangolata del testo (la masturbazione di Bloom è raccontata attraverso l ’eccitamento di Gerty, « provocato » dal narratore che in quel momento realizza un contatto intimo a distanza). P iù spesso, il narratore, potenzialmente onnisciente, autolimita drasticamente le sue facoltà, rinunciando quasi del tutto alla sua visione indipendente. Tutto ciò che concerne Gerty, infatti, è monologo in terza persona, in cui il narratore, pur restando ancorato alle marche grammaticali della narrazione esterna, assume

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il linguaggio e i pensieri del personaggio narrato, utilizzandone i materiali intellettivi, linguistici, stilistici e valutativi. E tutto ciò che non concerne G erty è tecnicamente monologo interiore di Bloom. Le attribuzioni di visione, verbalizzazione e orientam ento del senso sono in questa modalità narrativa più facilmente assegnabili che nel caso precedente o addirittura nel caso del narratore analista onnisciente: infatti, ferma restando l ’ironia della « riproduzione », la stilizzazione del discorso punta proprio verso la caratterizzazione del personaggio attraverso una verbalizzazione che è a questi attribuibile. d) il narratore racconta la storia dall’esterno'. Poi si issò sulla finestra. E parve fluire entro alla cucina buia, come ombra che tornasse senza rumore e senza movimento alla matrice dell’oscurità. E forse pensò a quell’altra finestra e alla corda cui aveva dovuto affidarsi; forse no. (W. Faulkner, Luce d’agosto; corsivi miei). Nonostante la narrazione sia del tutto esterna (il narratore può solo congetturare i pensieri del personaggio, senza neanche entrare nella traiettoria della sua visione; sua [è la verbalizzazione e suo pare essere anche il « punto di vista » ), ci troviamo ancora di fronte ad un narratore riflessivo, in qualche misura coinvolto in un tentativo di avvicinarsi al personaggio o di offrire al lettore spunti di analisi, anche se spesso le congetture sono smentite. Altrove, come nel brano che segue, il narratore è semplicemente uno sguardo che registra e verbalizza simulando incomprensione: La porta della trattoria Enrico si aprì ed entrarono due uomini. Si sedettero al banco. — Cosa desiderate? — chiese George. — Non saprei, — uno dei due disse — Cosa vuoi da mangiare, Al? — Per me è lo stesso, — disse Al, — non lo so proprio cosa voglio. Fuori stava facendosi buio. La luce di un lampione brillò attraverso la finestra. I due uomini si misero a leggere il menù mentre all’altra estremità del banco Nick Adams li stava a guardare. (E. Hemingway, « I sicari »; « The Killers », 1938). Questo racconto di Hemingway è spesso citato come esempio limite di narrazione spersonalizzata, prodotta da un punto di vista ravvicinato ma esterno (la situazione dello spettatore a teatro; Friedman 1955 precisa, « terza fila, al centro della platea »). Sembra, in effetti, che il narratore riesca ad avere informazioni sulla

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storia soltanto quando i personaggi ne forniscono (i due uomini che entrano nella trattoria gli sono sconosciuti, ed egli può nominare Al col suo nome soltanto quando l ’altro l ’ha pronunciato). Tuttavia, se non sa chi sono i due sconosciuti, conosce invece George e Nick Adams, che introduce anzi come elementi noti anche al lettore. Non è venuto dentro alla trattoria coi due sconosciuti, dunque, ma era lì ad aspettarli insieme con George e con Nick. Più tardi vedremo che il punto di vista prescelto è quello di Nick Adams, che il narratore segue (uscendo dalla trattoria dove quasi tu tto il racconto si svolge) in una breve missione (anche se nel momento in cui Nick viene trascinato insieme al cuoco in cucina, il narratore non lo segue, continuando invece a registrare i movimenti e le battute di George). La verbalizzazione, comunque, non presenta elementi soggettivi attribuibili ai personaggi, e si sforza di evitare anche soggettivemi attribuibili al narratore; oltre alle battute di dialogo e ai movimenti sono registrati gli sguardi che, a differenza di quanto avviene nel brano di Lawrence, sono semplici traiettorie ottiche prive di orientamenti semantici. Estrem a periferia della spersonalizzazione del soggetto dell ’en.ne, questo narratore solo due o tre volte si lascia attirare entro il cerchio dei pensieri del soggetto dell’en.to (« George dalla finestra li seguì con lo sguardo... Nei loro stretti soprabiti e con le loro bom bette sembravano degli attori da vaudeville », oppure: « G li sembrava stupido ciò che stava dicendo »), anche quando sembra condividerne lo sguardo. 1.4. I l narratore non è l ’autore È tempo ora di precisare un problema al quale finora si è accennato senza però discuterlo: quello della distinzione, entro il modello della enunciazione narrativa, delle due persone che occupano il posto di Em ittente: l ’autore e il narratore. Ricorrerò ad uno schema formulato da M. Pagnini, nel quale sono particolarmente evidenti le differenze che intercorrono tra la situazione di enunciazione .naturale e quella della enunciazione letteraria. O sserva Pagnini che mentre l ’enunciazione naturale prevede un rapporto trimembre: 1) la persona che parla: « io » locutore 2) la persona (o la cosa) a cui si parla: « tu » allocutario 3) la persona o la cosa di cui si parla: « egli, esso », oggetto,

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l ’enunciazione letteraria prevede, fuori campo, due altre funzioni, e istituisce dunque un rapporto pentagonale: 1) la persona dell’autore, fuori campo .(assente) 2) la persona che parla: « io » locutore 3) la persona (o la cosa) a cui si parla: « tu » allocutario 4) la persona (o la cosa) di cui si parla: « egli,esso »,oggetto 5) la persona che leggendo, ascoltando, assistendo... è un testimone, anch’essa fuori campo: si chiama comunemente lettore o pubblico. (Pagnini 1 9 7 8 :1 7 1 ) Lo stesso Pagnini si sofferma più analiticamente sul problema in una sua opera più recente, offrendo anche osservazioni valide nello specifico della situazione narrativa. Lo sdoppiamento che l ’opera letteraria istituzionalizza tra i termini 1 e 2 (autore empirico o anagrafico e locutore interno al testo) consente, nel romanzo, l ’apparizione del narratore (un ruolo che è specifico del genere narrativo), che può essere più o meno al corrente della storia, più o meno « competente » sul suo svolgimento: È ovvio che questa varia distribuzione di competenza è una ‘ macchina ’ inventata, e azionata, dall’autore empirico, ed è perciò che nella narrativa è più facile avvertire la distinzione fra ‘ autore ’ e ‘ narratore ’, e, in qualche caso — particolarmente nella narrazione in prima persona — si sia indotti alla identificazione; ma, anche nella narrativa si può postulare, in ogni caso, come per la lirica, che il testo narrativo, al di là della sua costituzione come ‘ macchina ’, offre uno, o più, narratori quali identità definite, riconoscibili come ‘ funzioni ’ del testo, e una entità lontana e difficilmente afferrabile il cui confronto con il narratore (o i narratori) è un altro argomento della problematica testuale. I l . ‘ narratore ’ è il ruolo che l’autore escogita e fa assumere al suo delegato interno. (Pagmnn~98Th 29)~Quando si parla del narratore, dunque, sia che esso si configuri come v.oce narrante senza un volto, sia che abbia nel romanzo anche un ruolo come personaggio, non si allude, in nessun caso, all’autore empirico, ma a un ruolo nel testo o, come si diceva v prima, ad una strategia jestu a le \ quando si parla di punto di yista del narratore, dunque, si allude al particolare orientamento che l ’autore empirico ha scelto per m ettere in atto questa strategia; e quando si parla di « punto di vista » del narratore, si allude allo spazio di intervento e al tipo di orientam ento semantico che l ’autore ha deciso di attribuire alla funzione narrante, disso-

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ciando con questo atto decisionale la propria responsabilità da quella del locutore interno al testo; in alcuni casi, quando l ’autore sceglie di limitare la visione e dunque la competenza della funzione narrante, lo scrittore può saperne di più di quanto non ne sappia il narratore, eppure costringerà il narratore ad una limitazione della visione, ponendolo a contemplare la scena da una finestra che gli consente una inquadratura incompleta, e di conseguenza privando anche il lettore di un certo volume di informazione. Se questa dissociazione di responsabilità è vera e universalmente valida da un punto di vista teorico, è però anche vero che esistono infinite gradazioni alla più o meno netta separazione, alla maggiore o minore distanza ideale alla quale l’autore si pone rispetto alla voce narrante. Nella strategia che Tolstoj inventa per la narrazione di Guerra, e pace, la distanza che separa l’autore empirico dal narratore è assai breve, e il lettore è indotto a vedere il Tolstoj anagrafico dietro moltissime delle formulazioni e moltissimi degli atteggiamenti valutativi del narratore. Ciò avviene per almeno due motivi: innanzitutto, il lettore che sappia abbastanza delle idee dello scrittore ne rintraccerà la formulazione nel romanzo e sarà quindi indotto a sentire, in quella che le formula, la voce dello scrittore, direttam ente e senza alcun tram ite; in secondo luogo, il punto di vista prescelto — una particolare modalità di onniscienza — (Friedman 1955 la etichetta « Onniscienza d ’autore ») e che governa quasi tu tto il romanzo, è quello che consente il maggior numero di intrusioni e commenti da parte della voce narrante. Il narratore di Guerra e pace, infatti, non soltanto è massimamente competente su tutto ciò che avviene nell’animo dei personaggi, ma si riserva anche la libertà di commentare e giudicare, concedendosi per giunta uno spazio ampio di intervento nel quale colloca veri e propri saggi d ’autore-, un insieme coerente e sufficientemente sviluppato di opinioni che attraversano avvenimenti, storici e non, narrati, oltre che d i convinzioni generali sul problema della interpretazione della storia. Questa tendenza del narratore, che si pone come intrusione autorevole e che ha il carattere dell’inserto saggistico, è la più esposta alle equivocazioni e quella che più di ogni altra suscita nel lettore la tentazione della identificazione dell’autore anagrafico con il narratore della storia; a parte, naturalm ente, il testo in qualche modo autobiografico, anche se narrato in terza persona, come il Ritratto dell’artista da giovane (Portrait of thè A rtist as a Young Man, 1917) di Joyce.

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Non pare, tuttavia, che la distinzione delle persone emittenti possa essere messa in questione dall’esistenza di tipi di intervento nei quali la distanza psicologica e culturale fra autore e narratore tende ad accorciarsi: nel caso di Guerra e pace si potrà dire che Tolstoj ha escogitato la strategia di un narratore che si profila, nella espressione dei suoi giudizi storici e nelle sue tendenze pedagogiche, come culturalmente assai vicino all’autore empirico; e che egli ha scelto per il suo narratore un punto di vista illimitato (salvo sporadiche restrizioni come quella che commenterò in 6.2.) dal quale sia in grado di contemplare ogni cosa, senza alcuna esclusione: u n ’onniscienza, dunque, pressoché divina. In casi come questo, anzi, è solo la forma del romanzo ad imporre limiti all ’intelligenza narrante costringendola alla necessaria selezione degli avvenimenti e soprattutto soggiogandola alla tirannia di una narrazione lineare e sequenziale (la lingua non sa fare di meglio!) di ciò che la visione onnisciente può cogliere contemporaneamente e co-spazialmente in un solo sguardo; il che non impedisce a Tolstoj di sperimentare anche gli effetti della restrizione della visione impiegandoli ideologicamente. Se in un caso come quello di Guerra e^pace vi sono molte giustificazioni a che il lettore percepisci coincidenze tra il narra- ) tore e l ’autore, certamente un lettore sufficientemente allenato al contatto~con le opere narrative e narratologiche non potrebbe vedere, oggi, la voce di Flaubert in quella del narratore di Madame Bovary (1857); eppure, proprio questo romanzo, il cui autore teorizzò e praticò con convinzione il completo distacco che lo scrittore deve assumere rispetto alla materia che narra (Flaubert è il primo romanziere che abbia form ulato la necessità della scissione della quale stiamo parlando), andò incontro ad una clamorosa equivocazione, senza dubbio per il fatto che nel 1857 il pregiudizio che vedeva nella voce del narratore (e dunque nel suo « punto di vista ») la voce e la visione del mondo dell ’autore empirico non era stato in alcun modo intaccato. Il v caso di Madame Bovary è esemplare: esso, infatti, è citato da pressoché tu tti i teorici che si sono occupati dei problemi della persona del narratore. La difesa nel processo che vedeva Flaubert imputato di oltraggio alla morale e alla religione per l ’apologia di adulterio della quale l ’autore empirico era ritenuto responsabile, veniva impostata sulla base di considerazioni di tecnica narrativa che, seppure non sapevano dare ancora un nome all’espediente della particolare prospettiva valutativa adottata nel romanzo, sancivano tuttavia ili principio della dissociazione di re- ' ,C< ir,

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spqnsabilità dell’autore rispetto al narratore e /o al personaggio’ narrato. Si trattava, nel caso di Madame Bovary, di una modalità di dissociazione sottile e complessa; nessuno si sarebbe mai sognato di attribuire a Defoe la colpa di apologia della condotta delle sue corrotte eroine: ma Defoe si affidava a narratori che raccontavano la loro storia in prima persona, mentre lui stesso compariva nel testo quale editor, o revisore di manoscritti autografi venuti in qualche modo in suo possesso; Flaubert narrava invece in terza persona, e realizzando una scissione ancora più sottile rispetto a quella, già discussa, fra autore e narratore: si trattava di una distinzione tutta interna al testo, fra la voce e le valutazioni del narratore e ciò che veniva direttam ente dai pensieri della protagonista. Di chi è, dunque, la voce, e di chi sono le valutazioni espresse in terza persona nella storia di Emma Bovary? ~ P e r comprendere meglio la particolare tecnica di dissociazione messa in atto da Flaubert nei brani incriminati del romanzo — tecnica che punta soprattutto sull’uso dello « stile indiretto libero » o « discorso indiretto libero » (vedi 6.5) — mettiamo a confronto due testi nei quali un tema analogo (quello della « colpa » di una donna) è trattato in maniera del tutto diversa: In que’ primi momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva. Nel vóto uggioso dell’animo suo s’era venuta a infondere un’occupazione forte, continua e, direi quasi, una vita potente; ma quella contentezza era simile alla bevanda ristorativa che la crudeltà ingegnosa degli antichi mesceva al condannato, per dargli forza a sostenere i tormenti. (A. Manzoni, I promessi sposi, 1827). Scorgendosi nella lastra ella si stupì del suo viso. Mai aveva avuto gli occhi così grandi, così neri o tanto profondi. Qualcosa di impalpabile diffuso nella sua persona la trasfigurava. Essa si ripeteva: Ho un amante! Un amante! dilettandosi di quest’idea come a quella di una nuova pubertà che le fosse sopravvenuta. Essa stava dunque per possedere alla fine questi piaceri dell’amore, questa febbre di felicità di cui aveva disperato. Entrava in qualcosa di meraviglioso, dove tutto sarebbe stato passione, estasi, delirio ... (G. Flaubert, Madame Bovary). Nel primo caso ci troviamo di fronte ad un narratore autoritario, che con tutta evidenza esprime giudizi, che non sono del personaggio ma suoi, mentre riferisce ciò che il personaggio sente. Al livello del discorso, la separazione fra ciò che il personaggio pensa e sente e la valutazione del narratore è chiaramente esplicitata.

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Il verbo di percezione ■ — provò — , cbe come si vedrà Flaubert spesso elimina, ascrive a G ertrude una contentezza nelle prime ore del suo peccato che è subito castigata in quanto non schietta (o giustificata dalla qualificazione); l ’inciso direi quasi, oltre a ricordare la presenza di un narratore esterno, pone questa persona a distanza e le fa assumere un impegno di interpretazione e di valutazione morale che la colloca senza equivoci al di sopra della materia del raccónto; infine, la similitudine che chiude il brano scagiona del tutto il narratore: non, si badi bene, attraverso la espressione di una condanna senza appello, ma con le attenuanti dettate dalla cristiana comprensione (il condannato). Commentiamo ora il testo flaubertiano con le parole di H . R. Jauss: L’avvocato dello Stato considera l’ultima frase come un’obiettiva descrizione, che include il giudizio del narratore, e si sdegna per questa « glorificazione dell’adulterio », che sarebbe assai più pericolosa ed immorale dell’adulterio stesso. Ma l’accusatore di Flaubert fa qui un errore, che il difensore gli obietta subito. Infatti le frasi incriminate non sono una costatazione oggettiva del narratore, cui il lettore debba prestar fede, ma un’opinione soggettiva del personaggio, che in questo modo deve essere caratterizzato nei suoi sentimenti formati sulla lettura di romanzi. L’artifizio consiste nel riportare un discorso per lo più interiore del personaggio, rappresentato senza i segnali del discorso diretto (« io sto dunque per possedere ... ») o del discorso indiretto (« Essa diceva a se stessa che stava dunque per possedere ...»), con la conseguenza che è il lettore stesso che deve decidere se una frase vada accolta come asserzione vera o come un’opinione caratteristica di questo personaggio. (Jauss 1967: 104-5 trad. it.). Sarà H enry James, molto più tardi, a teorizzare l ’espediente di questa modalità di dissociazione di responsabilità (del narratore rispetto al personaggio) e a dargli dei nomi: il narratore in terza persona che si pone in un punto di osservazione che sta « dietro le spalle » del personaggio e che quindi è costretto a raccontare secondo una angolatura che è quella del personaggio, ne assume la prospettiva materiale e valutativa come « centro della visione »; il narratore che utilizza come filtro degli avvenimenti la mente di un personaggio, si impone di narrare la storia attraverso quella « intelligenza centrale ». Da questa particolare angolatura del narrare (estrema periferia di sottigliezza dell’uso della voce e del punto di vista) acquisterà articolazione e rilevanza tecnico-narrativa, già con Flaubert, lo stile indiretto libero: lui-

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timo paragrafo del brano di Madame Bovary riportato sopra, con l ’esclusione dell’espressione dichiarativa o di percezione (« pensava », « diceva a se stessa », ecc.), ne rappresenta un esempio egregio. James non approvò che Flaubert abbia imposto al narratore di Madame Bovary di scomparire (o simulare di farlo) dietro una intelligenza modesta come quella della superficiale Emma; la sostanza della soluzione tecnica (e conoscitiva), tuttavia, è analoga nei due scrittori. Così consolidato e meditato era il metodo in Flaubert che la sua difesa nel processo poteva assumere come responsabile di apologia dell’adulterio il centro della coscienza di Emma: a differenza di quanto aveva fatto il narratore (autore) di M oli Flanders (1722) esplicitamente dichiarando nella prefazione il suo distacco dalla storia, Flaubert non aveva enunciato alcuna dissociazione nei confronti dei comportamenti di Emma: assumendo, con l ’aiuto del discorso indiretto libero, il punto di vista e la voce della superficiale Emma, scagionava non solo se stesso, ma anche la funzione narrante, dalla colpa di oscenità. L ’assoluzione di Flaubert sanciva ufficialmente — anche se in una sede impropria e con l ’esplicito biasimo pronunciato nella sentenza per una tecnica narrativa che poteva risultare oltraggiosa — l ’affermazione del punto di vista ristretto nell’arte del romanzo, contemporaneamente esplicitando l’isolamento della persona anagrafica del romanziere e assegnandogli un ruolo « fuori campo » nel modello enunciazionale del testo.

2. Il dibattito storico

2 .1 . Critici e teorici d i prim a e seconda generazione 2.1.1. L'esigenza di una tecnica del narrare

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La differenza tra il contenuto, o esperienza, e il contenuto realizzato, o arte, è la tecnica. M. Schorer

Nel 1884 veniva stampato a Londra, con il titolo L ’arte del romanzo, (The A rt of thè N ovel) il testo di una conferenza tenuta alla « Royal Institution » da Sir W alter Besant, romanziere o poligrafo inglese; le novità apprezzabili proposte da questo testo sono sostanzialmente quelle che James coglierà in un suo saggio di poco successivo: l ’aver impostato, cioè, una discussione del romanzo come arte degna della medesima considerazione di cui godevano la pittura, la scultura, la musica e la poesia e l ’aver proposto che, al pari delle altre arti, anche quella del romanzo sia governata da leggi generali, descrivibili con una certa precisione e assimilabili da parte di chi pratichi quell’arte. Alcuni dei passi di questo testo tuttora significativo, quelli che presumibilmente suscitarono l ’interesse di James, possono essere utilmente riproposti in quanto in certo modo inaugurano la discussione sulle regole e sulle tecniche proprie del genere romanzesco. Besant apriva la sua trattazione annunciando lo svolgimento di tre proposizioni: 1. Che la narrativa è un’Arte degna in ogni suo aspetto di essere considerata sorella e pari alle arti della Pittura, della Scultura, della Musica e della Poesia; ciò significa che il suo ambito è altrettanto sconfinato, le sue possibilità altrettanto vaste, i suoi pregi altrettanto degni di

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ammirazione di quelli che possono essere reclamati dalle sue arti sorelle. 2. Che quest’Arte, come quelle, può essere governata e guidata da leggi generali; e che queste leggi possono essere formulate e insegnate con altrettanta precisione ed esattezza che le leggi dell’armonia, della prospettiva e della proporzione. 3. Che, come le altre belle arti, la narrativa è lontana dalle arti puramente meccaniche, cosicché nessuna legge e nessuna regola può essere insegnata a coloro i quali non siano già dotati dei necessari talenti naturali. (Besant 18842: 6). Egli proseguiva, a questo punto, con un ammiccamento al suo pubblico, non privo di un certo effetto retorico, riconoscendo che l ’uditorio di quella particolare occasione era certamente già consapevole della dignità artistica della narrativa, ma che al contrario molta di questa problematica sfuggiva al pubblico comune dei lettori di romanzi. L ’elemento più im portante della conferenza di Besant sta, in ogni modo, nel tentativo di formulare alcune regole che il romanziere deve tener presenti nell’esercizio del suo mestiere. Non importa qui soffermarsi sui contenuti di queste regole (Besant ne indica tre, che dovevano suonare congeniali a James: a) aderenza all’esperienza; b) abitudine ad osservare e ad annotare ciò che si osserva; c) abilità di selezione); importa, piuttosto, rilevare il richiamo che ne scaturisce alla necessità di apprendimento e affinamento di tecniche compositive; richiamo che alcuni anni più tardi James raccoglierà, esplicitamente ponendolo alla base di un suo importante scritto. Come si vedrà nelle pagine che seguono, le osservazioni e le precisazioni teoriche di James sul problema del punto di vista sono contenute soprattutto nella edizione newyorchese dei suoi romanzi,1 pure se accenni al problema si trovano anche nelle Lettere} Esse, dunque, cominciano ad essere accessibili al lettore solo a partire dal 1907, e la loro pubblicazione sarà completata

1. The Novels and Tales of Henry James, edizione completa delle opere del narratore americano, fu pubblicata in 24 volumi a New York dal 1907 al 1909. Fu, appunto, in occasione della pubblicazione di questa edizione che James scrisse le prefazioni alle sue opere narrative. Successivamente, le Prefazioni furono racconte in volume da R. P. Blackmur, che vi premise una introduzione (1934). Per le citazioni da quest’opera faccio riferimento alla traduzione italiana curata, con ampia introduzione, da A. Lombardo (1956). 2. L ’edizione completa, in due volumi, è quella a cura di Lubbock, 1920.

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nel 1909. Già molto tempo prima, tuttavia, in un suo scritto del 1888, James aveva posto all’attenzione del critico e del romanziere un problema generale di notevole rilievo, sul quale i suoi critici si soffermeranno a riflettere: il problema, appunto, dell ’esigenza di un approfondimento teorico degli aspetti tecnici dell ’arte del narrare. Per James, come già per Flaubert, narrare è u n ’arte che esige un metodo, il quale può essere descritto nelle sue componenti tecniche e diventare così, per chi pratica l’arte, disciplina compositiva, e per chi ne discute, strum ento e misura di conoscenza. Il messaggio è formulato con chiarezza già in apertura del saggio « L ’arte del romanzo », nel quale James risponde all’opuscolo di Sir W alter Besant: Solo poco tempo fa si sarebbe potuto supporre che il romanzo inglese non fosse ciò che i francési chiamano discutable,3 Non sembrava aver dietro di sé né una teoria, né una consapevolezza della propria natura: non sembrava cioè essere l’espressione di una fede artistica, il risultato di una scelta e di un confronto. Non dico che fosse necessariamente peggiore per questo: bisognerebbe avere più coraggio di quanto ne possegga io per affermare che la forma del romanzo concepita, ad esempio, da Dickens e da Thackeray manifesti qualche segno di incompletezza. Ma era tuttavia naif (se mi posso aiutare con un’altra parola francese); ed evidentemente, se il romanzo è destinato ad essere danneggiato dalla perdita della sua ndiveté, è però deciso ad assicurarsi i Vantaggi corrispondenti. Durante il periodo al quale ho alluso era diffusa la consolante e piacevole sensazione che un romanzo è un romanzo come un pudding è un pudding e che il nostro unico compito è quello di trangugiarlo. Ma da uno o due anni, per una ragione o per l’altra, vi sono stati segni di rinnovata vivacità: per lo meno fino ad un certo punto sembra essersi aperta l’era della discussione. L’arte vive di discussione, di esperimenti, di curiosità: vive sulla varietà dei tentativi, sullo scambio delle idee e sul confronto dei punti di vista. Si presume quindi che i tempi in cui nessuno ha da dire qualcosa di particolare sull’argomento, né ragioni da addurre per giustificare il pronrio metodo o le proprie predilezioni, ancorché siano tempi onorevoli, non siano tempi di sviluppo — e siano forse, financo, tempi d ’una qualrhe piattezza. La riuscita attuazione di ogni arte è di per sé incantevole spettacolo, ma anche la teoria è interessante; e sebbene si abbia grande quantità della prima senza la seconda, ho il sospetto che non vi sia

3. Cioè: che non potesse essere oggetto di discussioni, proprio per la mancanza di consapevolezza teorica che sembrava lo distinguesse.

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mai stato successo artistico privo di un nucleo latente di convinzioni teoriche. (James 1888: 35-6 trad. it.).4 È sufficiente un sommario prelievo di espressioni quali teoria, consapevolezza della propria natura, scelta, confronto, forma, metodo, convinzioni teoriche, ecc. per vedere quale sia la tensione che attraversa il brano; la stessa parola arte estende le sue possibilità di significazione: essa indica, sì, il risultato finale, il romanzo compiuto o la tela finita, ma significa anche l’insieme degli accorgimenti sperimentati e sperimentabili, le tecniche collaudate con puntiglio e fatica, gli espedienti che fanno il mestiere del romanziere; il metodo, insomma, da inventare, apprendere e sperimentare, e che definitivamente sventa, per quel prodotto artistico che è il romanzo, l’alibi della ineffabilità. Non si tratta di un suggerimento marginale: è, anzi, significativo, che nei titoli delle prime opere critiche di rilievo dedicate in tutto o in parte alla narrativa di James compaiano i term ini m ethod (Beach 1918) e craft (Lubbock 1921), e che in esse si sostenga l ’importanza della abilità tecnica sia per il romanziere che per il critico (« Il letterato è un craftsman 5 e il critico non può essergli da meno », 4. Il brano è tratto dal saggio « The A rt of Fiction ». James coglieva l ’occasione dello scritto di Besant poiché esso sembrava rivelare in uno scrittore inglese l ’interesse sulle osservazioni che intorno all’arte del romanzo « tentano di fare coloro che la esercitano ». L ’opuscolo di Besant (con il quale James parzialmente concorda, ma che pure confuta in molte delle sue affermazioni) è quasi solo u n ’occasione. Nello scritto di James appaiono alcune delle categorie teoriche che saranno poi discusse più ampiamente nelle Prefazioni (non vi appare ancora, tuttavia, il problema del punto di vista); ma soprattutto vi si avverte la forte convinzione della necessità di avviare una discussione teorica, e di smontare una volta per tu tte la potente diffidenza che il pubblico e la critica nutrono nei confronti del romanzo che non si riconosca come puro divertimento (nell’espressione di James, « il sospetto con cui si guarda a qualsiasi storia che non confessi di essere soltanto uno scherzo ») e, di conseguenza, nei confronti del romanziere che cominci a riflettere sulla natura del proprio mezzo espressivo e sui suoi strumenti artistici. La citazione del brano è tratta dall’edizione italiana a cura di A. Lombardo (1959), che oltre al saggio in questione contiene scritti su Balzac, Turgénev, Maupassant, Flaubert, Zola, ecc. Nello stesso anno 1888, Maupassant pubblicava la sua prefazione a Pierre et Jean, considerata un manifesto del realismo narrativo. 5. Non traduco la parola inglese craftsman (e altrove craft) in mancanza di un termine italiano che copra la medesima area semantica: una traduzione come « artigiano » sarebbe infatti parziale e la traduzione « artista » non è per niente automatica. Per quanto concerne Lubbock, bisogna tener presente che nella introduzione alla seconda edizione del suo libro (1965) egli indugia a lungo sulla distinzione arti craft, rendendo assai esplicito il suo pensiero, e cioè che craft sia il mestiere considerato nelle sue peculiarità tecniche, indipendentemente dalle valutazioni sulle qualità dei risultati artistici. Vedi la discussione della concezione di arte come craft in Fortunati 1975: 15-23.

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affermava Lubbock 1 9 2 1 :2 0 ). Romanziere e critico, dunque, sono posti con eguale misura di responsabilità di fronte alla necessità di acquisire abilità tecniche (e saranno posti, ben presto, di fronte alla necessità di acquisire un metalinguaggio descrittivo che consenta di discuterne); per il primo si tratterà di elaborare una serie di riflessioni su come ottenere determ inati effetti nello scrivere un romanzo, e per il secondo di elaborare una serie di categorie critiche su come leggere un romanzo (le quali scaturiranno dalla conoscenza del metodo di scrittura) e dar loro nomi. E non è senza peso che il primo segnale di tale esigenza e il primo invito rivolto al critico in tal senso vengano dal romanziere; che sia, per una volta, l ’artista a indicare la strada al critico, non soltanto ponendolo di fronte alla necessità di affrontare con la dovuta consapevolezza teorica la discussione sul romanzo, ma anche fornendo subito un abbozzo di classificazione tipologica : le categorie formulate da James e subito impiegate e discusse dai suoi primi critici, sono •— pur con gli ovvi spostamenti intercorsi — quelle' ch e'tu tto ra gran parte della narratologia continua a discutere. Esse,' anzi, resistono all’usura critica precisamente perché non rappresentano invenzioni teoriche costruite a posteriori, ma descrivono al contrario i tipi di soluzione che si delineano di fronte a problemi narrativi, proprio nel farsi dell’esperienza di scrittura: le alternative scartate e quelle adottate, sperimentate o sperimentabili. Con ciò non si vuole certo affermare che la riflessione dell’artista valga, in generale, più di quella del teorico o del critico; di solito, anzi, è vero il contrario. In questo caso, tuttavia, la felice combinazione, in una sola persona, dell’artista coscienziosissimo, dello sperimentatore-teorico e del critico attento, ha potuto produrre un nucleo di riflessioni che risultano preziose per la possibilità di conferma e di feedback tra le due attività che esse consentono. Leggendo le Prefazioni si ha continuamente la sensazione che il gioco intellettuale preferito da James in quel testo sia quello di oggettivare i propri processi mentali come se non appartenessero all’io scrivente; e l ’espediente tecnico per tradurre questo gioco in scrittura è quello di m ettersi ■ —in quanto critico — ■ « dietro le spalle » del romanziere (come tante volte egli, da teorico, suggerirà che il romanziere faccia per spiare il personaggio scelto come « intelligenza centrale » di un romanzo). Paradossalmente, anzi, si potrebbe affermare che gli unici (o quasi) scritti nei quali James impiegò la prima persona (e cioè quelli teorici) sono quelli nei quali più netto si manifesta il distacco tra l ’io locutore (il « narratore »-critico) e la

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persona narrata (il « personaggio »-scrittore); e che dunque il fatto che egli sapesse così bene esser critico e teorico della sua arte sia, in sostanza, uno dei risultati più brillanti della sua magistrale ingegnosità tecnica di narratore. Leggendo il romanziere e il critico delle Prefazioni non si può non rilevare la puntigliosa coerenza che percorre l ’intera opera di James: egli non usò mai, nei suoi romanzi, strum enti tecniconarrativi di rilievo che non "abbia poi descritti nella sua opera teorica; e negli scritti teorici non formulò alcuna teoria che non avesse sperimentato nella prassi narrativa.6 2.1.2. H enry James: teorico o critico di se stesso? Non vi e dubbio, dunque, cbe i suggerimenti teorici contenuti nell’opera critica di James siano uno strum ento insostituibile per arrivare alla comprensione della tecnica narrativa del romanziere americano. Non tu tti i critici, tuttavia, e neanche tu tti i romanzieri, concordano sulla estensibilità delle annotazioni di James a problem i generali dell’arte narrativa; alcuni di essi leggono le Prefazioni da un lato come una « storia d ’artista » (cosa che l ’opera indubbiamente è), documento prezioso, dunque, per ricostruire la traccia di una evoluzione personale, e dall’altro, al più, come riflessione su un metodo che tuttavia si definisce come prettam ente individuale, e dunque addirittura idiosincratico. Inoltre, non per tu tti il problema del punto di vista ristretto (certamente la tematica teorica più nuova che James abbia formulato) è ugualmente rilevante. E. M. Forster dichiara"di noa concordare con Lubbock, secondo il quale quello del punto di

6. Sulla rara capacità di penetrazione del James critico e sulTa ' coerenza della complessiva concezione artistica di James, si pronuncia con vigore A. Lombardo: [...] sembra davvero che per James le opere verso le quali rivolge la sua « lanterna critica » non abbiano misteri. Se in ogni opera letteraria c’è, come ci dice un suo celebre e suggestivo racconto, una « figura nel tappeto » che solo l’autore conosce e che il critico disperatamente si sforza di individuare, certo il James _ critico è più di ogni altro in grado di sfiorare, se non afferrare, l’appassionante chimera. Non solo, ma se si aggiunge che a questa speciale, diretta conoscenza dei problemi tecnici, dei procedimenti, delle «intenzioni» dell’artista, si accompagna, in lui, da un lato quel sincero amore e calore che è pur sempre condizione necessaria d ’ogni critica vitale e dall’altro un concetto dell’arte che è tra i più coerenti e vernieri dell’età moderna, sarà chiaro che James si propone al nostro giudizio financo come un modello, un esempio illuminante. (Lombardo 1959: 11).

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vista sarebbe il problema di metodo centrale dell’arte narrativa; Forster ritiene piuttosto che più im portante sia « la capacità dello scrittore di abbindolare il lettore per fargli accettare ciò che egli dice », oltre all’abilità nel realizzare « una giusta mescolanza di personaggi» (1927: 86, 87 ried.). René W ellek, dal canto suo, afferma che James è di gran lunga il maggior critico americano dell’O ttocento; egli, tuttavia, apprezza esclusivamente il James critico, quello dei R itratti parziali degli scrittori a lui contemporanei, anche se non contenuti nella collezione che ha questo titolo (Partial Portraits, 1888) — e si lascia, dunque, sfuggire che tu tti i ritratti critici d i James sono « parziali » — , m entre con decisione stende un velo sul James teorico. Dichiara, infatti, che è stata sempre esagerata l’importanza delle Prefazioni, che il critico cita, pare, soltanto per obbligo di completezza: [...] esaltare le Prefazioni come la più grande opera di critica letteraria che sia mai stata scritta, mi sembra esagerato. Giudicate nel loro insieme come opera critica, le Prefazioni deludono: è indubbio che siano di grande interesse per chi studia la vita di James e la sua carriera di scrittore e che per giunta abbiano il merito quasi unico di essere un ampio commento su un autore elaborato dall’autore stesso. Ma le Prefazioni sono essenzialmente un insieme di reminiscenze e di osservazioni, e non critica vera e propria. [...] Inoltre le Prefazioni contengono delle riflessioni sul rapporto fra arte e vita, e analizzano e difendono, pur se saltuariamente, la tecnica usata da James nei suoi romanzi, soprattutto l’esigenza di una intelligenza centrale, di un costante punto focale della narrazione. (Wellek 1965: 260-1 trad. it.). O ra, se si può concordare con W ellek sul fatto che il James propriamente critico si trovi raramente nelle Prefazioni e che egli non pronunci, quando vi appare, giudizi veramente illuminanti, meno accettabile risulta che W ellek liquidi rapidamente il problema del punto di vista come espediente tecnico impiegato e poi descritto da James; come categoria senza seguito, quindi, la cui formulazione servirebbe esclusivamente ad una migliore comprensione dell’opera del narratore americano. È fuor di dubbio che James abbia descritto il proprio metodo e illustrato le proprie preferenze prospettiche, magari idiosincratiche; ma è fuor di dubbio anche che proprio a partire da quella descrizione si è resa possibile la descrizione ulteriore delle leggi prospettiche del narrare, e che sono state proprio le Prefazioni di James a suscitare la consapevolezza critica del problema. Se anzi andiamo alla ricerca di spunti veramente inediti nell’opera non-narrativa

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dello scrittore americano, li troveremo da un lato nella storia d ’artista che essa nel suo complesso costruisce (compresi gli aneddoti e le conversazioni a tavola, che non sono mai soltanto questo), e dall’altro nella quantità di indicazioni di metodo, meditate e convinte, che essa offre. Certo, queste indicazioni sono — come osserva W ellek — sommerse in un mare di reminiscenze (nascoste, si dirà meglio, in una struttura quasi-narrativa); a cercar bene, tuttavia, vi si troveranno i principi fondamentali che da decenni governano la riflessione narratologica. Né serve, a correggere la prospettiva, il secondo dei brani che, a distanza di parecchie pagine, W ellek dedica al problema del punto di vista, quando descrive i principi di James: Se l’idea e l’illusione si devono ottenere nel romanzo con dei mezzi oggettivi ma non con un procedimento drammatico, ossia né col dialogo, né con la narrazione in prima persona, non resta altra alternativa che quella stessa di James: l’uso, cioè, di un osservatore, o, per usare le sue stesse parole, di un « riflettore ». Fin dal 1868 gli era piaciuto di « pensare ad un osservatore distaccato, a un critico, un ozioso commentatore di tutta la situazione, che prende appunti, per così dire, nell’interesse della verità ». Sia negli scritti teorici che nei romanzi James accentuò sempre più un unico centro focale di coscienza, un unico « punto di vista », una « luce centrale ». Tali « centri » vengono illustrati nelle Prefazioni: Maisie è il « centro ironico » di Ciò che sapeva Maisie (What Maisie Knew)\ Lambert Strether è « il registratore», « il riflettore» de Gli Ambasciatori {The Ambassadors), entro il cui ambito tutto viene mantenuto; ne Le ali della colomba {The Wings of thè Dove) vi sono dei «centri successivi», «porzioni del soggetto controllate da loro come da felici punti di vista » e « punti di vista » sono i due personaggi del principe e della principessa nelle due sezioni de La coppa d ’oro {The Golden Botvl). Il punto di vista non è tuttavia per James un mero espediente tecnico al servizio del1’« economia del trattamento », atto a permettere « una coerenza di registrazione ». Esso serve ad ampliare la consapevolezza del personaggio, e quindi ad accrescere l’identificazione del lettore con esso. Infine è un ulteriore accorgimento atto a produrre l’effetto generale dell’illusione, {ibid.: 281). H a ragione W ellek a suggerire che le teorie di James servano, al più, a leggere i romanzi di James? Sembra proprio di no. La prima riflessione impegnativa sull’opera narrativa dello scrittore americano, quella di Beach (1918), impiega categorie jamesiane (come « punto di vista », « scena », « intelligenza centrale »,

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ecc.) esclusivamente per illuminare il metodo di scrittura di James; non pare, cioè, che Beach suggerisca in quest’opera possibili estensioni di quelle categorie alla lettura di altri romanzieri. Ma già l ’opera di Lubbock (1921) allarga il campo di indagine, includendo nelle applicazioni testuali Flaubert, Tolstoj e Balzac, oltre allo stesso James: e dal libro risulta in maniera assai convincente che le « idiosincratiche » precisazioni di metodo prodotte da James si rivelano assai produttive anche per questi scrittori. L ’altra im portante opera di Beach (1932), nella quale un intero capitolo è dedicato al problema del punto di vista, prende in esame una folta schiera di romanzi in una panoramica della narrativa « impressionistica » e « post-impressionistica » (sono le definizioni di Beach) fino alYUlisse di Joyce. Anche in questo caso, le discriminanti attinte all’opera di James si rivelano, soprattutto in alcuni casi (vedi, ad esempio, il caso di Conrad, a cui Beach riserva molto dello spazio del libro), addirittura insostituibili. 2.1.3. H enry James: le categorie del punto di vista Chi intraprenda la ricerca dei brani in cui James, nelle Prefazioni, espone le sue idee sul problema del punto di vista ristretto, dovrà disporsi ad incontrarne la trattazione sotto una gamma piuttosto ampia di espressioni che designano, con lievi sfumature di accentuazione, il medesimo contenuto teorico. Poche volte, anzi, James parla esplicitamente di punto di vista: più spesso egli parla di visione (un’espressione che, per designare un ambito pressoché coincidente di problemi, sarà ripresa da Pouillon 1946 e in seguito da Todorov 1966 e 1968), e per dar nomi alle sue soluzioni narrative al problema della visione limitata impiegherà una serie di espressioni di valore analogo (centro della visione, centro del soggetto, centro della coscienza, centro di interesse, ecc.). Un altro pacchetto interessante di categorie fa riferimento più indirettam ente al punto di vista, illustrando il metodo di presentazione della storia: si tratta, innanzitutto, delle nozioni di preparazione, esposizione ed eliminazione; e in secondo luogo della discriminante scenico vs panoramico (vedi 2.1.4.), nozione ripresa non solo dai primi critici di James, ma m utuata in opere molto più recenti, come quella di G enette (1972). Mi soffermerò in prim o luogo sui brani in cui James illustra i vari insiemi di categorie teoriche che direttam ente o indirettam ente illuminano il problema del punto di vista ristretto, ten-

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tando di isolare un nucleo coerente di riflessioni. Pare opportuno avviare la discussione riportando un brano molto celebre, tratto dalla prefazione a Kitratto d i signora (Portrait of a Lady, 1881), in cui James impiega, per la narrativa, l ’efficace metafora della casa attraverso le cui finestre si apre la visione della scena umana: La casa della narrativa, in breve, non ha una finestra sola, ma un milione ■ —• un numero quasi incalcolabile di possibili finestre, ognuna delle quali è stata aperta, o è ancora apribile, sulla sua vasta fronte, dalla necessità della visione e dalla pressione della volontà individuale. Queste aperture, di forma e misura dissimili, danno tutte sulla scena umana, sì che ci si potrebbe aspettare, da esse, una identità di riproduzione maggiore di quella che troviamo. Esse sono finestre nel migliore dei casi, o altrimenti meri fori in un muro morto, sconnessi, collocati in alto; non sono porte coi cardini che si aprano direttamente sulla vita. Ma hanno questa caratteristica, che ad ognuna di esse v’è una figura con un paio d’occhi, o almeno con un binocolo, che costituisce uno strumento unico di osservazione, il quale assicura a chi ne fa uso un’impressione distinta da ogni altra. Lui e i suoi vicini osservano lo stesso spettacolo, ma uno vede di più là dove un altro vede di meno, uno vede nero là dove un altro vede bianco, uno vede grande là dove un altro vede piccolo, uno vede rozzo là dove un altro vede delicato. E così via di seguito; fortunatamente non è dato dire dove, per un particolare paio d’occhi, la finestra non si possa aprire; « fortunatamente » in virtù, precisamente, di questa incalcolabilità di raggio. Il campo che si estende, la scena umana, è la « scelta del soggetto »; l’apertua effettuata, sia larga, o con balcone' o a fessura, o bassa, è la « forma letteraria »; ma, sia da sola che insieme ad altre, essa non è nulla senza la presenza dell’osservatore ■ — senza, in altre parole, la coscienza dell’artista. (James 1956: 48). Dentro la « casa » di James, a contemplare da una finestra o da una feritoia, o a spiare da un buco nel muro sconnesso, non potremo trovare, naturalm ente, narratori onniscienti; ci troveremo « figure con un paio d ’occhi o ... con un binocolo », capaci perciò di raccontare esclusivamente quello che cade entro il raggio più o meno lim itato della propria visione. La scena che ognuno di essi contempla, poiché ogni osservatore è diverso da tu tti gli altri, sarà dunque contraddistinta dalla unicità della prospettiva individuale: diversa, dunque, senza dubbio, da quella che potrebbe raccontare il potenziale narratore che contempli dalla feritoia accanto. Non si tratta, occorre notare, per James, di illustrare con una immagine di efficace evidenza un .principio teorico senza conseguenze nella pratica della scrittura: al contrario, tutta la sua

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opera narrativa, da Roderick H udson a Gli ambasciatori, è costantemente impegnata nella realizzazione di una visione ristretta e unica,, che consenta la massima economia di trattam ento dei materiali narrativi: « Non v ’è economia di trattam ento senza che sia adottato un punto dì vista », egli dirà nella prefazione a Le ali della colomba (The W ings of thè D ove, 1902; ibid.: 332). Qui, è chiaro, « economia di trattam ento » non equivale a rapidità narrativa, ma piuttosto al mantenimento coerente di una scelta prospettica: una volta scelta una determinata prospettiva (un particolare osservatore, cioè, attraverso i cui occhi contemplare la scena della vita), il narratore può scavarvi dentro sostandovi quanto a lungo ritenga necessario, talvolta anche sfiorando il limite della prolissità, senza che tuttavia l ’indugio rappresenti mai uno spreco nel trattam ento della forma narrativa. Ed è altrettanto chiaro che l ’unicità della visione di ciascuna delle figure non è (o non è soltanto) dettata dalla prospettiva fisica, ma che essa scaturisce dalla unicità dell’io di chi contempla: nero/bianco, rozzo ¡delicato sono termini alternativi che, lungi dall’indicare una visione ottico-prospettica, aprono con chiarezza sugli orientam enti semantici (e valutativi) dettati dalla coscienza individuale di ciascun osservatore-narratore. Non sarà inutile, prima di proseguire nella discussione della tem atica''teorica di James, proporre un esempio del suo trattam ento del punto di vfsta ristretto, tolto dalle pagine del suo primo romanzo, Roderick H udson (1876). Nella scena della quale riporterò un brano, Rowland M allet (che non è il protagonista del romanzo, ma è senza dubbio la coscienza che consente, costantemente filtra e impronta di sé la visione accordata ai materiali narrativi) si trova ad assistere, dall’alto dei gradini del Colosseo e in lontananza, ad una conversazione che si svolge al di sotto del suo punto di osservazione, tra due persone che per un certo tempo non è in grado di distinguere, e che infine riconosce per il suo amico e protetto Roderick H udson e per la fidanzata di questi, Christina Light. Ciò che è notevole nel brano, nei termini della tecnica adottata, è il rigore che il narratore si impone nel limitare gli elementi di progressiva rivelazione che man mano fa entrare in gioco a ciò che è fisicamente percepibile ai sensi di Mallet, l ’osservatore-riflettore del quale d ’altra parte si serve per filtrare tutta la storia. Egli registra, in progressione e man mano che si verificano e trovano posto nella coscienza di M allet, annotazioni. che, poiché risultano in un primo momento incerte, sarà necessario riprendere e rettificare (ma sempre solo nel momento

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in cui lo stesso M allet sarà in grado di rettificatle), supposizioni in un primo momento insicure, poi più sicure e infine comprovate dall’evidenza dei suoi stessi sensi; cosicché il lettore null’altro potrà « vedere », « sentire » e « capire » se non quello che Mallet stesso è in grado di vedere, sentire e capire: Rowland si recava spesso al Colosseo, non gli veniva mai a noia. Una mattina, circa un mese dopo il ritorno da Frascati, mentre attraversava la vasta arena, notò una giovane donna seduta su uno dei frammenti di pietra allineati lungo l’antico parapetto. Gli sembrava di conoscere quel viso, ma non riusciva a ricordare esattamente. Quando le ripassò vicino, vide che uno dei soldatini francesi, in pantaloni rossi, che allora stavano là di guardia, le si era avvicinato e cercava di entra nelle sue grazie. La giovane sorrideva luminosamente, e Rowland a quel sorriso (che gli era sempre piaciuto) riconobbe una certa avvenente Assunta che a volte apriva la porta ai visitatori della signora Light. Si chiese cosa potesse fare quella ragazza sola nel Colosseo, e congetturò che Assunta, avendo anche lei degli ammiratori come la sua padroncina, ma non godendo delle stesse-opportunità per riceverli, si servisse di questo massiccio retaggio dei suoi antenati latini come di un salottino privato. In altre parole, aveva un appuntamento con l’innamorato che, a quanto sembrava, avrebbe fatto meglio ad essere più puntuale. Era un pezzo che Rowland non saliva alle gradinate superiori del grande circo, e siccome la giornata era bellissima e prometteva perciò una vista particolarmente nitida fino in lontananza, decise di concedersi questo piacere. Il custode gli aprì il grande cancello di legno, ed egli salì quei gradini dove un tempo si erano accalcate tumultuando le avide folle romane, e non si fermò finché non raggiunse il punto più alto che fosse accessibile nell’anfiteatro in rovina. Il panorama era bello come si aspettava, e i riflessi sui monti Sabini non erano mai stati più incantevoli. Guardò fin che non fu sazio, poi tornò sui suoi passi. Interruppe la discesa per fermarsi di nuovo su uno sperone più basso, da cui lo sguardo cadeva vertiginosamente nell’interno del circo. Nelle parti alte del Colosseo ci sono delle rovine anfrattuose che ricordano molto la superficie scabra di un dirupo alpino. In quei giorni una quarantina di fiori delicati e di ciuffi d’erba selvatica avevano trovato un terreno propizio fra i grigi crepacci, e fiorivano e oscillavano fra le vecchie pietre come avrebbero potuto fare sulla roccia vergine. Rowland stava per andarsene, quando sentì delle voci che venivano di più in basso. Bastò che avanzasse ancora un poco per trovarsi proprio sopra a due persone che si erano sedute su una stretta sporgenza, in un angolo soleggiato. Pareva che si fossero proposte di trovare un luogo assolutamente appartato, ma non si erano accorti che un osservatore, nel punto dove ora stava Rowland, poteva dominare la loro pospone. Uno di questi avventurieri dell’aria era una donna che portava un fitto

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velo, cosicché Rowland anche se non si fosse trovato proprio sopra di lei, non avrebbe potuto ugualmente vederne il viso. L’altro era un giovane il cui viso era pure invisibile ma che, mentre Rowland era là, scrollò i suoi folti riccioli con una mossa che equivaleva a una firma: Roderick Hudson. Perciò a Rowland bastò la riflessione di un minuto per capire chi potesse essere la donna. Era stato ingiusto verso la povera Assunta, che sedeva pazientemente in quella tetra arena; non era venuta per conto proprio. Rowland dopo questa scoperta esitò. Doveva ritirarsi più silenziosamente che fosse possibile, o doveva gridare un amichevole « buon giorno »? Mentre meditava su questo problema gli giunsero distintamente alcune parole dei suoi amici. Erano parole di tale natura da togliergli la voglia di ritirarsi, e tuttavia da metterlo in imbarazzo se fosse stato scoperto in quel luogo dove era evidente che egli li aveva veduti. (H. James, Roderick Hudson, 1876). Che il risultato ottenuto non sia casuale, e che si tratti al contrario di un effetto coscientemente e coscienziosamente ricercato già fin dal primo romanzo, ce lo dice un brano della prefazione a Roderick H udson: Le ragioni che potevo addurre per il disastro del mio giovane [Roderick Hudson] erano indiscutibilmente scarse ma forse potevo renderle vive; se riuscivo a conseguire l’intensità, potevo produrre un’illusione. Fu appunto questa che, ora lo vedo, mi debbo essere sforzato di raggiungere con quanta arte potevo; ma ho detto più sopra che cosa realmente mi salvasse. Il mio soggetto, di fronte alla difficoltà, s’era fortunatamente definito — e ciò malgrado il titolo del libro — come altra cosa che l’avventura del mio giovane scultore. Questa avventura aveva costituito solo indirettamente il soggetto del libro, che, invece, era, essenzialmente e nell’effetto finale, la visione ed esperienza che del giovane scultore aveva un altro uomo, il suo amico e protettore. [...]

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Il centro d ’interesse è, per tutto Roderick, nella coscienza di Rowland Mallet, e il dramma è il dramma medesimo di quella coscienza — che io, naturalmente, dovetti rendere abbastanza acuta da essere in grado di sostenere, come una scena illuminata, l’azione drammatica. (James 1956: 14-5). Man mano che si procede nella lettura delle Prefazioni si noterà — isolando i brani che riguardano questo problema di metodo — che l ’esposizione si fa via via più m atura ed elaborata; lo stesso James, dunque, traccia una storia della evoluzione del « metodo » così come si manifestò e si sdipanò nella sua coscienza di artista. Nella . prefazione a Uamericano, suo secondo romanzo (The

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American, 1877), tornando sul medesimo problema di trattam ento, James riprende la metafora della casa e della finestra, e parla della realizzazione del « possesso personale » del personaggio la cui coscienza serve ad organizzare la materia narrativa da parte del narratore, come di un principio di economia: La mia preoccupazione, quale allora la vedevo, era di rendere e mantenere Newman coerente. [...] Se Newman va bene, debbo aver pensato, andrà bene anche la situazione in cui si trova; perché l’interesse di ogni cosa è nel fatto che tutto è la sua visione, la sua concezione, la sua interpretazione; noi siamo seduti alla finestra della sua sufficientemente ampia coscienza; da quella bella posizione noi « assistiamo ». Egli ha perciò suprema importanza; tutto il resto ha importanza solo in quanto egli lo sente, lo tratta, lo incontra. È sempre una bella infatuazione, io credo, l’intensità dello sforzo creativo di entrare nella pelle della creatura; l’atto di possesso personale, nella forma più completa, di un essere da parte di un altro e con in più il fatto che lo sforzo dell’artista è, ad un tempo, quello di mantenere per il suo soggetto quell’unità, e per il suo uso di essa (in altre parole per l’interesse che desidera suscitare) quell’effetto di un centro\ che ne economizzano al massimo il valore. (ibid.: 37-8). Ritorna, quindi, sul medesimo tema nella prefazione a Ritratto di signora, dove dichiara di aver affidato la soluzione ad una scelta di rigore tecnico: ' > « Metti il centro del soggetto nella coscienza della fanciulla », mi dissi, « e avrai la difficoltà più interessante e più bella che tu possa desiderare. Tieni fermo su questo — per il centro: metti il peso maggiore su quella bilancia, che sarà largamente la bilancia del suo rapporto con se stessa. Rendila, nello stesso tempo, abbastanza interessata alle cose che non sono lei stessa, e questo rapporto non dovrà temere di essere troppo limitato. Nel frattempo, metti sull’altra bilancia il peso più leggero (che è, di solito, quello che fa traboccare l’equilibrio dell’interesse): premi meno forte, in breve, sulla coscienza dei satelliti della tua eroina, specialmente quelli maschili; rendila un interesse che contribuisca a quello maggiore... ». (ibid.: 53). Nella prefazione a La musa tragica (The Tragic M use, 1890), James accenna ad una sperimentazione tecnica che gli consente di operare un lieve spostamento nel metodo: ciò che altrove è ottenuto attraverso il filtraggio della coscienza di un personaggio, viene qui raggiunto grazie alla presentazione scenica o, come io scrittore dice, grazie ad una costruzione che « deve svolgersi vi-

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sibilmente ». Dei tre personaggi principali del romanzo, solo Nick Dormer e Peter Sherringham sono apparentem ente trattati come « centri » dai quali si irradia l ’interesse della storia; Miriam Rooth, invece (la « musa tragica » del titolo), è oggettivata, per così dire, nella interpretazione che ne danno gli altri. Ella, tuttavia, diventa centrale poiché molta parte della materia è trattata scenicamente, e dunque al lettore è data la possibilità di entrare anche nella soggettività di lei: The Tragie Muse non rende facile dire quale delle situazioni trattate predomini e governi. Di conseguenza, che cos’è avvenuto, in quell’ordine imperfetto, del famoso centro del soggetto? Certo esso non è nella coscienza di Nick — e infatti, se è così, perché ci viene somministrata una dose così intollerabile di Sherringham? Né può essere nella coscienza di Sherringham — avremmo, in tal caso„un eccesso di Nick. In che modo, d’altro canto, può essere in quella di Miriam, dato che non ne abbiamo alcuna rappresentazione diretta, e che la riceviamo per induzione e deduzióne, vedendola solo attraverso la più o meno perplessa interpretazione che ne danno gli altri? L’enfasi è tutta su una Miriam assolutamente oggettiva, e, affermato questo, in che modo — con tanta soggettività attorno a lei — uno strumento così denso può essere un centro? [...] Miriam è [...] centrale all’analisi, malgrado sia oggettiva; centrale in virtù del fatto che l’intera costruzione deve svolgersi visibilmente, sin dal principio, in condizioni drammatiche, o almeno sceniche — anche se si tratta di condizioni sceniche che si avvicinano al drammatico quel tanto che è permesso al romanzo, e che con quest’ultimo hanno in comune il fatto di muoversi nella luce dell ’avvicendamento. Ciò impone una coerenza diversa da quella del più sciolto dei romanzi, e, per il soggetto, un punto di vista differente e una differente collocazione del centro. (ibid.: 94-5). Nonostante l ’adesione al metodo debba essere rigorosa, non debba cioè mai concedere sortite dalla coscienza che viene scelta per selezionare, ordinare e valutare i materiali narrativi, in un caso particolare James è consapevole del fatto che una coerenza senza infrazioni può risultare soffocante e proporre addirittura un immiserimento della storia. Maisie, la protagonista di Ciò che sapeva Maisie {W hat Maisie Knew , 1897) è infatti una bambina, e ciò che ella capisce degli eventi è necessariamente parziale: una visione troppo limitata perché solo a partire da essa si possa costituire il punto di vista. La soluzione di James a questo problema è assai interessante, e propone una ulteriore acquisizione al suo metodo dell’intelligenza centrale: a ciò che Maisie capisce, il narratore aggiunge ciò che ella

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vede senza capirlo; il filtro risiede, dunque, insieme nella coscienza e negli occhi (per un commento a questa situazione narrativa, vedi Chatman 1978: 164-5 trad. it.). Senza mai uscire dal cerchio di attenzione di Maisie, dunque, viene accumulato materiale supplementare a quello già elaborato e compreso dalla coscienza infantile della protagonista: si tratta di materiale che il lettore stesso potrà elaborare ulteriorm ente, dotandolo di un contenuto di riflessione: Ricordo che la mia prima visione di questa possibilità si accompagnava al problema di un quadro limitato (che pur conseguisse, come dico, completezza e coerenza) a ciò che la bambina avrebbe potuto capire — se fosse stata capace di interpretare ed apprezzare. Ulteriore riflessione e sperimentazione mi mostrarono il mio soggetto soffocato da tale estremo rigore. La mente infantile avrebbe, nel migliore dei casi, lasciato lacune e vuoti; sì che, con la superficie sistematica anche impeccabile, sarebbe nondimeno venuta meno la chiarezza di senso. Avrei dovuto estendere la materia alle cose che la mia stupita testimone vedeva, materialmente e inevitabilmente; una grande quantità delle quali o non le avrebbe capite o le avrebbe del tutto fraintese — e su queste linee, e soltanto su queste, il mio compito avrebbe potuto-essere eseguito. A ciò dunque mi disposi — al problema di dare tutto, e cioè tutta la situazione che la circondava, ma solo attraverso quello che giungesse in prossimità della sua attenzione; solo in quanto le passasse davanti e l’attraesse, la toccasse e la colpisse, per il meglio o per il peggio, per un guadagno o per una perdita: sì che noi colleghi testimoni, noi, non più invitati ma solo più esperti critici, ci sentissimo in forte possesso della situazione stessa. [...] I bambini hanno assai più percezioni che termini in cui tradurle; la loro visione è sempre assai più ricca, e la loro percezione sempre più forte, del loro immediato vocabolario, {ibid.: 159-60). V Giungiamo così alla prefazione a La coppa d ’oro (The Golden Boivl, 1904), una delle più dense e interessanti della serie, almeno per il problema che ci interessa. Prim a di discutere la soluzione che egli dà in questo romanzo al problema del punto di vista, James accenna ad una sua im portante intuizione teorica^ circa il fatto che la responsabilità dell’autore vada scissa dalla responsabilità dell’intelligenza narrante interna al romanzo, alla quale viene conferita la delega della organizzazione del materiale narrativo. La formulazione di questo im portante principio dell ’enunciazione narrativa (e letteraria più in generale), riscoperto in anni recenti (vedi 1.4), viene impostata a partire da un caso particolare, il caso cioè delle narrazioni brevi di James nelle

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quali la « persona » narrante (o la coscienza attraverso la quale si narra) non figura (a differenza di quanto accade nei romanzi) come uno dei personaggi della storia. Che il filtro degli avvenim enti possa passare per una coscienza non nominata e non presentata nella vicenda, può sembrare un principio narrativo più straniante di quello che assegna la responsabilità della « visione » ad uno dei personaggi; in realtà, la « voce » o « istanza » che enuncia la storia, seppure non ha un volto nel mondo fittizio, è sempre, in maniera più o meno diretta, in un rapporto di natura pragmatica con la storia stessa: mentre l ’autore delega, escludendosi dal modello della enunciazione narrativa, il narratore si assume tutte le responsabilità: esso è la prima, e inevitabile, « persona » del romanzo. , È facile, dunque, vedere come questo principio costituisca la più opportuna delle generalizzazioni teoriche possibili a partire da una discussione del metodo jamesiano. James la enuncia di sfuggita, dandoci tuttavia del problema una formulazione chiara: Ho già rivelato, e invero l’ho commentata ad abbondanza, la mia preferenza a trattare il mio soggetto, a « vedere la mia storia », attraverso l’opportunità e la sensibilità d’un qualche testimonio o narratore più o meno distaccato, non strettamente implicato, anche se pienamente interessato e intelligente; duna persona che contribuisca al caso solo con una certa quantità di critica e di interpretazione di esso. [...] Questa persona, spesso, nelle mie narrazioni più brevi, non è che un partecipante non nominato, non presentato e (tranne che per il diritto dell’intelligenza intrinseca) non garantito, è il sostituto o delegato dell’autore impersonale, un utile sostituto o apologeta del potere creativo altrimenti troppo velato e disincarnato. [...]. Tutto, in breve, mi dev’essere apparso meglio — meglio per il processo e l’effetto della rappresentazione, mio irreprimibile ideale — della mera, velata maestà dell’irresponsabile « autorità del narratore ». Preso costantemente dal senso che il pittore del quadro o il cantore della ballata (comunque vogliamo chiamarlo) non può mai essere responsabile abbastanza, e per ogni pollice della sua superficie o nota del suo canto, io scopro le mie irrefrenabili orme, a destra e a manca, dopo il fatto, muoversi rapide, in punta di piedi, verso il punto di vista che, nell’ambito proposto, mi dia il massimo, invece che il minimo, di cui rispondere. [...] Non che la velata maestà dell’autorità dell’autore non regni, qui, visibilmente-, ma io mi sorprendo a scuotermela di nuovo di dosso e a disconoscerne la pretesa mentre scendo nell’arena e faccio del mio meglio per vivere e respirare e star vicino e conversare con le persone impegnate nella lotta che fornisce a quelli dei palchi il godimento del grande giuoco. (i b i d 363-5).

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2.1.4. Henry James: la discriminante showing vs telling Il principio teorico più fecondo tra quelli form ulati da James (a parte, ovviamente, quello del punto di vista ristretto) è la discriminante showing vs telling (m ostrare/raccontare). La distinzione non è una invenzione di James in quanto, come è noto, risale a Platone (La repubblica, I I I , 392-394), il quale la formulò come imitazione vs narrazione semplice. Il criterio distintivo (rappresentare oppure narrare) prende spunto dal metodo di esposizione dell’intreccio nel testo drammatico, che si vuole in questo più « diretto » che nella totalità dei testi narrativi. Il testo narrativo, tuttavia, può tendere più o meno alla condizione della pura imitazione che è per statuto propria del dramma, e realizzare così la concentrazione e la coerenza che sono proprie del testo drammatico. La distinzione operata da Platone viene rimessa in circolo (almeno in ambito anglosassone) proprio da James, e sarà di fatto ripresa da quasi tu tti i narratologi dei quali ci occuperemo in questo volume (per fare solo alcuni nomi si possono ricordafe Beach 1932, Lubbock 1921, Friedman 1955, G enette 1972, Chatman 1978. Booth 1961b attua un attacco a fondo di tale distinzione; vedi 2.1.8.). ) James nota nelle Prefazioni che talvolta un personaggio,'altre volte una situazione, altre ancora la necessità di rivelare gli antefatti di una storia, esigono un trattam ento scenico. James non chiarisce, per la verità, i particolari tecnici del metodo, e preferisce soffermarsi sui suoi effetti. Nella prefazione a La ynusa tragica e in quella a L ’età imbarazzante (The A w kw ard Age, 1899) chiarisce, intanto, che il trattam ento scenico del soggetto esige che il narratore si ponga, rispetto ai personaggi, in una posizione frontale piuttosto che alle loro spalle, come fa quando deve assumerli quali « intelligenze centrali » e dunque assorbire la storia attraverso i loro occhi. In un caso particolare, il trattam ento scenico del personaggio è dettato dal personaggio stesso: Miriam de La musa tragica è u n ’attrice; essa, inoltre, è « oggettivata » in quanto oggetto dell’attenzione di due uomini. M entre, dunque, Peter Sherringham e Nick Dorm er sono trattati come « centri », o « riflettori » dai quali si irradia la storia, la soggettività della donna scaturisce mediatamente: in parte attraverso ciò che gli altri pensano di lei e in parte dal suo gesto e dalla sua parola oggettivati (vedi il brano citato a p. 47):

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Io non vado mai « dietro » a Miriam; solo il povero Sherringham ci va, e molto, e un poco ci va anche Nick Dormer, e l’autore, mentre essi sprecano in tal modo la meraviglia, va dietro a loro: nondimeno ella è altrettanto simbolica, altrettanto funzionale, per l’illustrazione dell’idea, quanto ciascuno di essi Io avevo desiderato per lei, 10 ricordo, ogni possibile vivacità — tanto ineluttabile m’era parso « far l’attrice », toccare il teatro, affrontare in un modo o nell’altro quella situazione ... (ibid.\ 96) Altrove, nella prefazione a L ’età imbarazzante, James allarga il problema del trattam ento scenico del singolo personaggio per esplorare il suo bisogno di trattam ento drammatico in termini di approssimazione allo statuto del genere: parla di « occasioni sociali » attraverso le quali la storia si costruisce, e di progresso della narrazione in termini di scene e atti di un dramma; qui, ciò che James nomina come occasione è la situazione drammatica con le sue potenzialità di evoluzione: Pensavo a questo concetto dell’Occasione come ad una cosa a se stante, una cosa realmente e completamente scenica, e mi era difficile, mentre mi curvavo sui fitti arcani del mio piano, nominarla con una O abbastanza grande. La bellezza della concezione era in questa approssimazione delle rispettive divisioni della mia forma ai successivi Atti di un Dramma [...]. Il divino pregio dell’atto di un dramma — e un pregio maggiore di qualsiasi altro al quale esso possa arrivare — stava, riflettevo, nella sua speciale, difesa oggettività. Questa oggettività, a sua volta, quando conseguiva il suo ideale, nasceva dall’imposta assenza di quell’« andare dietro » a creare spiegazioni e amplificazioni, a estrarre ogni sorta di oggetti dal grande magazzino di aiuti all’illusione del «mer o» narratore [...]. Ogni cosa, in effetti, diventa interessante dal momento in cui deve considerare da vicino, perché sia conseguito il mero effetto, la legge del proprio genere. (ibid.: 119). 11 trattam ento ritmico « occasioni », dà modo trattato nitidamente. È Ciò che sapeva Maisie rator », 1888):

per scene, in una chiara alternanza di a James di porgere al lettore un tema ciò che lo scrittore annota rileggendo o « Il riverberatore » (« The Reverbe-

[...] sarei stato perduto, nel caso d’un attacco, se non avessi sentito il mio soggetto, malgrado la sua esilità, anche come sua piccola azione diretta, e non l’avessi pertanto collocato in quella benedetta luce drammatica che, strumento di intelligibilità migliore di ogni altro, ordina e regola anche quando è appena un barlume; squadra le cose e le mantiene in felice rapporto l’una con l’altra. (i b i d 201).

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Il ricorso alla presentazione drammatica è, dunque, per James, un altro criterio di « economia », principio di semplificazione portatore di compattezza. Lo scrittore era acutamente conscio di alcune delle leggi di trasformazione attraverso le quali il mondo viene catturato nell’universo del testo: le leggi dell’eliminazione, della preparazione e della esposizione. E con due brani sulla preparazione e sull’esposizione nel testo drammatico e nel testo del romanzo mi sembra opportuno concludere questo paragrafo: Se l’arte del dramma, come ha detto un grande maestro francese, è soprattutto l’arte delle preparazioni, ciò è vero solo in grado minore dell’arte del romanzo, e vero esattamente nella misura in cui l’arte del particolare romanzo s’avvicina a quella del dramma. La prima metà di una narrazione insiste sempre nel configurarmisi come il palcoscenico o il teatro per la seconda metà ... [...]

Esposizione può significare, in una « storia », venti diverse maniere, cinquanta digressioni, alternative, escrescenze; il romanzo, qual è ampiamente praticato in Inghilterra, è il perfetto paradiso della conclusione scelta. Il dramma consente alla logica di una sola maniera, matematicamente esatta, e una conclusione sciolta sarebbe, sulla sua superficie, un’impertinenza così grossolana, e un disonore così grave, come il nodo d ’un filo di seta o di lana sulla parte esterna di un arazzo. (ibid.: 91, 122). 2.1.5. J. W arren Beach: il metodo e la tecnica J. W arren Beach dedicò interam ente la sua carriera di critico letterario allo studio delle tecniche del romanzo, a ciò stimolato in primo luogo dalla narrativa e dalle formulazioni teoriche di James. I suoi studi (su James, su H ardy e sulle tecniche del romanzo novecentesco) rappresentano un raro esempio di riflessione su testi contemporanei che continui ad esibire nel tempo una prospettiva critica e storica quasi sempre equilibrata, e che solo di rado gli studi successivi hanno messo in questione. L ’opera di Beach ha contribuito in modo decisivo all’affermazione, nell’area della critica letteraria anglosassone, della necessità di elaborare criteri di lettura pertinenti e specifici per l ’arte del romanzo, nonché all’approfondimento e alla divulgazione di categorie narrative e narratologiche e alla loro applicazione allo studio dei testi.

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cava un libro intitolato II metodo di Henry James (The M ethod of Henry James). Si trattò del primo tentativo di ricostruzione e ricomposizione delle categorie teoriche di James, e della prima lettura della narrativa jamesiana condotta quasi esclusivamente sulla base delle coordinate che lo stesso narratore aveva formulate sul proprio « metodo ». Al problema del punto di vista e a quello del metodo scenico di presentazione sono dedicati due capitoli del libro. Non si tratta ancora di una descrizione analitica: siamo di fronte ad un primo « taglio » attraverso i problemi della prospettiva, e ad un primo richiamo ad alcune modalità di realizzazione della « visione » nell’opera jamesiana. È im portante notare che già in questo suo primo studio Beach intravede la possibilità di impiegare le categorie del punto di vista anche per esperienze narrative diverse da quella di James (Hawthorne, Dickens, H ardy e altri narratori sono citati per assimilazione o per contrasto con il metodo jamesiano). Vediamo i punti salienti della trattazione, cercando di riprodurre la modalità contrastiva proposta nel testo di Beach: a) seeing vs doing (vedere vs fare)-. \ s u questa distinzione (vedi 2.1.4. per la discriminante show ingj telling in James), sostenuta anche negli altri capitoli del libro, è basata la rilevanza che Beach accorda all’insorgere del problema del punto di vista nella narrativa jamesiana: Le storie di Henry James sono registrazioni di visioni piuttosto che di azioni. Questa è . almeno, come si è visto, l’impressione generale del lettore. Il progredire della storia è sempre più o meno ciò che James stesso in un caso chiama « progredire della visione ». De Gli ambasciatori egli dice, facendo riferimento aH’illuminazione del personaggio principale, « Il problema della mia storia e il modo di procedere della mia azione, e in fin dei conti la preziosa lezione che si ricava dal tutto, è proprio la mia dimostrazione di questo procedere della visione ». Di Le spoglie di Poynton egli dice, riferendosi al personaggio centrale, Fleda Vetch, « Il progredire e l’andamento della mia storia diventarono e rimasero quelli della sua comprensione ». In una storia così concepita, una questione di primaria importanza deve essere ovviamente il punto di vista dal quale la visione è percepita, la fonte delle informazioni e il mezzo attraverso il quale ciò che deve essere visto è trasmesso al lettore. (Beach 19182: 56). Occorre sottolineare che la distinzione seeing vs doing (non proposta da James) non include il medesimo ordine di problemi della

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distinzione panoramico vs scenico, implicitamente tracciata da James quando egli illustra il metodo scenico di presentazione (vedi 2.1.4.), e poi ripresa da molte trattazioni narratologiche successive; nel seeing di Beach, infatti, sembra che si possano includere entram bi i metodi di presentazione della storia (attraverso narrazione semplice e attraverso imitazione, per" intenderci); il tram ite serve a Beach come riferimento al fatto che la narrazione, comunque sia condotta, è filtrata, in James, da una « visione » che la orienta, e che fa dunque sì che il lettore « veda » ciò che accade entro il cerchio di attenzione di quella visione (è ciò che accade nel brano di Roderick Hudson citato in 2.1.3., nonostante esso sia costruito per narrazione semplice). b) autore onnisciente vs punto di vista ristretto: la discussione del punto di vista ristretto è introdotta da alcuni accenni all’assenza di focalizzazione e alle conseguenti « libertà » che si concede il narratore onnisciente, libertà alle quali James rinunciò quasi sempre, così come quasi sempre rinunciò a servirsi del privilegio, in qualche modo illusorio, della prima persona (la trattazione proseguirà, come vedremo al punto (c), nella illustrazione, per contrasto, del metodo narrativo di Hawthorne) : James è molto di rado, e mai nelle opere tarde, 1’« autore onnisciente ». Egli disprezza molto questa maniera negligente di raccontar storie. Soltanto nelle sue prime opere egli talvolta si concede di entrare in campo e di dare informazioni particolari al lettore, — informazioni che il lettore non avrebbe potuto avere dal personaggio o dai personaggi che al momento sono più coinvolti. Altrettanto poco egli impiega l’espediente di far raccontare la storia in prima persona dal protagonista, che comporta un grande sacrificio iniziale di plausibilità. La sua musa austera non ammette le concessioni al « terribile flusso dell’autorivelazione » che caratterizza narrazioni come Gii Blas e David Copperfield. (iibid:: 56-7). c) m utam ento di focalizzazione (arbitrario vs coerente): l ’alternanza, nel medesimo testo narrativo, tra modalità onnisciente e punto di vista ristretto, e lo spostamento non motivato della visione da un personaggio all’altro, sono visti da Beach come una minaccia alla credibilità, all’effetto di realismo e alla coerenza della storia. A questo proposito, lo scrupolo e il rigore del metodo jamesiano sono messi a confronto con la modalità più « libera » (Beach suggerisce: meno coerente perché meno consa-

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pevole) di un altro grande maestro della narrativa americana: H aw thorne, nel quale i m utamenti di focalizzazione, proprio perché casuali, finiscono, secondo il critico, col distruggere l ’illusione e in ultima analisi col prendersi gioco delle attese del lettore: Hawthorne, in il fauno di marmo è del tutto ignaro degli scrupoli che mettono alla prova con tanta costanza la coscienza del più recente narratore americano. Non soltanto egli indulge nelle descrizioni e nelle disquisizioni più estese, nelle quali non appare alcun tentativo di seguire le scoperte e le impressioni dei personaggi; ma spesso egli strappa alPimprovviso il tessuto delle loro impressioni per inserirvi osservazioni sue. Inoltre, vi sono moltissime scene in cui egli comincia col raccontare la storia dal punto di vista di uno dei personaggi, registrando soltanto ciò che può essere colto da questi, per poi improvvisamente virare, per un momento o per sempre, verso il punto di vista di un altro. (ibid.: 57). In James, secondo la valutazione di Beach, non esistono cambiamenti arbitrari: nei casi in cui il « riflettore » attraverso il quale la storia è riverberata non è unico (quando, cioè, la narrazione impone una molteplicità di focalizzazioni piuttosto che la concentrazione costante in un solo centro della visione), il cambiamento non è mai sentito come casuale, e di conseguenza i personaggi non sono mai degradati al ruolo di fantocci manipolati dall’esterno: è il caso, soprattutto, de La musa tragica e di Le ali della colomba (si tratta, d ’altra parte, di esperimenti di alternanza di focalizzazione citati e motivati da James nelle prefazioni a questi romanzi). d) osservatore (coinvolto vs non-coinvolto): in alcune delle narrazioni di James (soprattutto nelle narrazioni brevi) è introdotto l ’espediente di un osservatore-riflettore non coinvolto nella storia personalmente, o il cui interesse nell’azione rimane limitato e marginale; a differenza dell’osservatoreriflettore che troviamo nei romanzi (sul modello di Rowland Mallet o di Lam bert Strether). Questo osservatore obiettivo — più obiettivo dell’autore onnisciente, poiché egli narra solo ciò che disinteressatam ente ed evitando atteggiamenti autoritari è in grado di vedere dalla sua posizione periferica — compare quasi sempre come un io partecipe marginalmente della storia (un’eccezione, dunque, all’avversione dichiarata di James alla narrazione in prima persona; ecce-

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zione, peraltro, che non si prolungherà oltre gli anni ’90), e talvolta si nasconde del tutto, narrando in terza persona: in questo caso, a differenza di quanto avviene nei grandi romanzi jamesiani, egli è solo una voce, che il lettore non riesce ad attribuire ad alcuno dei personaggi: né attore a pieno titolo, dunque, né « riflettore » della coscienza di uno degli attori. Beach descrive ulteriorm ente questo espediente narrativo, sostando soprattutto, sembra, sul caso della narrazione in prima persona; la descrizione sembra coincidere con il tipo di narratore che Friedman chiamerà « testimone oculare » (nella tipologia di Friedman, « I as witness ») : Naturalmente, questo osservatore non è rappresentato nella storia come un intruso, senza altro legittimo interesse per la storia che la generale curiosità umana. [...] Il suo rapporto con gli altri personaggi deve sempre essere naturale. Occorre in primo luogo che egli venga a conoscenza della situazione in maniera del tutto naturale; e il suo proseguire nell’indagine sarà il risultato di un interesse amichevole o professionale abbastanza plausibile. In molti casi egli è un uomo di lettere per il quale l’interesse per un fenomeno letterario rafforza l’amichevole simpatia per le persone coinvolte. (ibid. : 69). Le pagine che Beach dedica al punto di vista nella narrativa di James si concludono con alcune osservazioni sull’espediente, spesso impiegato dal romanziere, della introduzione di una ficelle (un personaggio che ha la funzione di confidente nei confronti dell ’intelligenza attraverso la quale la storia è filtrata), espediente che serve ad incoraggiare la coscienza centrale ad esprimere in parole la sua visione nei confronti della vicenda, e dunque — osserva Beach — a « drammatizzare » il punto di vista (ibid.: 70-1). In generale, la trattazione del problema del punto di vista in quest’opera di Beach non è più ampia, e neanche più analitica, di quanto non fosse nelle Prefazioni dello stesso James; al critico è da ascriversi, tuttavia, il merito di aver isolato questo importante problema di metodo dalla grande quantità di suggestioni che James ci offre nei suoi scritti teorici e di averlo così segnalato all’attenzione dei critici successivi. Sarà Lubbock, a distanza di pochi anni, a riprendere l ’argomento in relazione anche ad altri romanzieri e a presentare — forse con entusiasmo eccessivo ■ — quella del punto di vista ristretto come la tecnica di maggior rilievo nell’arte del romanzo. Nel 1932 Beach pubblica il volume sulle Tecniche del romanzo novecentesco (The Tw entieth Century Novel. Studies in Technique),

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certamente la sua opera di maggior rilievo. Tra la monografia jamesiana e quest’ultimo libro si colloca l ’opera di Lubbock (1921), che certamente esercitò una vasta influenza sulla riflessione di Beach. Il libro sulle Tecniche è sicuramente da considerarsi a tutt ’oggi uno dei contributi maggiori nell’ambito della narratologia angloamericana: in quest’opera, alcuni dei temi toccati nella monografia su James si articolano sulla base di una riflessione teorica sensibilmente m aturata, in parte staccandosi dalle categorie jamesiane e in parte utilizzando queste per proporne una sintesi che James probabilmente intuì ma che non espose con chiarezza. Il programma dichiarato in apertura del libro è quello di uno studio della evoluzione delle tecniche del romanzo di lingua inglese del Novecento. Studiare la tecnica, asserisce Beach, è importante perché « funzione della tecnica è aiutare la realizzazione della intenzione artistica, e vedremo in moltissimi casi come l ’effetto particolare ricercato dall’artista determina i metodi tecnici ^consapevolmente scelti »? Lo studio della tecnica, afferma tu tta via il critico quasi a voler giustificare una scelta di metodo che escludeva, almeno in linea di programma, la trattazione dei temi e dei contenuti dell’arte narrativa, non rappresenta l’esercizio vero e proprio della critica ma « u n ’utile preparazione alla attività critica », preparazione da sempre trascurata da chi si occupa di letteratura: con il risultato che non solo nella critica al romanzo domina una gran confusione —■ condizione più o meno normale per la critica di tutte le arti — ma che non abbiamo neanche a disposizione, per descrivere la tecnica narrativa, termini approssimativamente precisi e generalmente accettati. (Beach 1932: 3-4).

7. Queste annotazioni di Beach sull’importanza della tecnica e della consapevolezza dei suoi mezzi da parte dello scrittore anticipano per molti versi il contenuto dell’influente saggio di Schorer (1948), nel quale si afferma che la tecnica è tutto ciò che un artista ha a disposizione non solo per veicolare i propri contenuti, mi* addirittura per scoprirli. Per la verità, nel seguito della discussione (e più ancora nella prefazione alla edizione del 1954 di Beach 1918) il critico sente anche il bisogno di prendete le distanze, precisando che lo studio della tecnica non è vera e propria attività critica, ma una attività ausiliare: « Non ho mai pensato neanche per un momento che la principale attrazione di un grande romanziere, il suo valore e la sua importanza potessero essere ridotti a semplici questioni di procedimenti tecnici. H o sempre saputo che ciò che apprezziamo in un romanziere è l ’interesse intrinseco del suo tema (...), la sua conoscenza del mondo (...), il suo occhio per gli elementi salienti nei personaggi e nelle situazioni, la sua immaginazione, la sua filosofia, la sua capacità di penetrazione spirituale... » (Beach 1918, Introduzione alla ried., 1954: xiii; corsivi miei).

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Il programma è chiaro: tuttavia, i prim i dodici capitoli del libro (che coprono uno spazio di circa 150 pagine) procedono secondo un disegno piuttosto incerto. Sulla prima discriminante che taglia il romanzo del ’900, che è tecnica ma anche storica (« romanzoben-fatto » vs « romanzo espressionistico »),8 se ne innestano altre che riguardano piuttosto i contenuti (« romanzo filosofico », « romanzo psicologico »), m entre in questa prima parte del libro il lettore stenta a ricostruire un legame tra la prospettiva in cui sono presentati i romanzi chiamati in causa e quella « sparizione dell’autore » alla quale il critico dedica il secondo capitolo dell’opera indicandola come l ’aspetto più vistoso della evoluzione tecnica del romanzo inglese da Fielding a Ford (sparizione sancita dai romanzi di James ed elemento tecnico che sembra a tratti assumere per Beach valore normativo: un buon romanzo non deve « raccontare » e « spiegare », ma « presentare »). L ’importanza della tematica della sparizione dell’autore diventa chiara nella seconda parte del libro, nella quale Beach descrive ciò che egli indica come « ideale drammatico » nel romanzo: l ’effetto di presente, del « q u i » e « o r a » propri del dramma che è possibile ottenere anche nel romanzo e l ’opzione della tecnica del punto di vista ristretto sono, argomenta Beach, metodi di presentazione strettam ente connessi fra loro; e il legame necessario, il quale fa sì che l ’una tecnica — o effetto — compaia invariabilmente in presenza dell’altra, è da ricercarsi prò-''* prio nella cancellazione dell’autore (si direbbe più esattamente: del narratore): La spinta fondamentale verso la concentrazione drammatica in generale è il desiderio di creare nel romanzo qualcosa di equivalente al presente dell’opera drammatica. La limitazione del tempo tende a produrre l’effetto dell’Ora drammatico; la limitazione spaziale quello del Qui drammatico; il « centro di interesse » concentra l’attenzione, come

8. Beach non precisa quali siano le caratteristiche del « romanzo-ben-fatto » : sembra che si tratti, nei romanzi pubblicati in Inghilterra dal 1895 al 1925, di una sorta di « equivalente moderno del romanzo panoramico alla Thackeray », nel quale però l’autore persegue anche un ideale drammatico, riuscendo a tenersi fuori dal quadro narrativo. Bennett e Galsworthy sarebbero due buoni prototipi di questo genere narrativo. Anche il romanzo espressionistico rimane poco definito; contro il romanzo impressionistico, che mira a dare impressioni precise circa gli oggetti rappresentati, quello espressionistico mira a cogliere il loro significato e la loro essenza. Le prerogative dei generi romanzeschi discussi, comunque, piuttosto che dalle definizioni fornite dal critico si chiariscono attraverso le esemplificazioni via via offerte.

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nel dramma, su questi particolari personaggi o su questo particolare personaggio presente qui e ora. E infine la restrizione del punto di vista conduce al suo logico risultato l’ideale estetico del centro limitato di interesse. (ibid.: 193). Le tematiche teoriche di « centro dell’interesse », « punto di vista limitato » e « showing vs telling » che in James non avevano una chiara connessione reciproca, sono qui legate insieme nella prospettiva di un unico effetto. Si può, a questo punto, rilevare che la mancata distinzione tra autore e narratore (distinzione che verrà enunciata alcuni decenni dopo da Booth) produce qualche falla nella teoria: Beach sostituisce, tout court, l ’autore anagrafico con un narratore coinvolto nella storia, poiché non ha ancora a disposizione la figura del narratore come persona fittizia: già nel secondo capitolo del libro, il critico afferma che un aspetto tecnico di fondamentale importanza nel romanzo a partire da James è che la storia si racconti « da sola », o per meglio dire dall’interno, attraverso le impressioni dei personaggi. Sembra, dunque, e pare confermato nel capitolo sul « presente dramm atico », che sparizione dell’autore significhi necessariamente per il critico, collocazione della fonte narrativa entro la mente di uno dei personaggi. Si tratta, pare, di un residuo di limitazione che scaturisce dal privilegiare come modello la narrativa jamesiana: noi sappiamo che l’autore (o 1’« ente morale » alla Thackeray) può essere cancellato per essere sostituito da un narratore del tutto trasparente, il quale narra una storia che non passa per nulla attraverso la mente dei personaggi, ma che « qualcuno » si limita a contemplare e percepire dall’esterno: un narratore così disinformato e indifferente lo incontriamo, ad esempio, ne « I sicari » di Hemingway. In ogni modo, vai la pena di riportare — per meglio chiarire ciò che Beach intende quando parla di presente drammatico nel romanzo — ■alcuni brani in cui il critico delinea una serie di differenze tra testo drammatico e testo narrativo: le osservazioni sono indispensabili alla individuazione e alla chiarificazione del nodo teorico nel quale Beach inserisce, insieme con altri espedienti tecnici, quello del punto di vista ristretto; ma queste pagine possono essere lette indipendentem ente dall’intera trattazione, come utile definizione comparata dei due generi: Le differenze sostanziali fra romanzo e dramma nascono dal fatto che il romanzo è inteso per la lettura e il dramma per la rappresentazione.

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Nel romanzo l’azione è descritta: nel dramma è agita davanti ai nostri occhi. Le limitazioni della presentazione scenica riducono enormemente la quantità di azione che può essere mostrata in un dramma. In pratica, il dramma consiste interamente di dialoghi con l’accompagnamento di gesti. [...] E così, a prima vista, sembra che il romanzo abbia tutti i vantaggi e il dramma tutte le limitazioni impliciti nelle sostanziali differenze di funzione. Ma basta assistere ad una rappresentazione per rendersi conto di un vantaggio che la forma drammatica possiede e che la compensa ampiamente di tutte le limitazioni. La storia, nel romanzo ci arriva di seconda mano, attraverso il tramite relativamente lento deH’immaginazione. Quella del dramma ci arriva direttamente; siamo presenti di persona, vediamo coi nostri occhi, ascoltiamo con le nostre orecchie. [...] Anche nei romanzi vi è qualcosa che può essere considerato un «presente drammatico». [...] In un romanzo abbiamo l’equivalente psicologico del presente drammatico quando vi è, come dice James, una scena costituita vividamente, una « occasione discriminata ». Quando l’autore smette di spiegare le circo- ' stanze che hanno prodotto la situazione presente, giunge con concreta immediatezza alla situazione stessa. I personaggi sono posti uno di fronte all’altro, in un particolare momento della giornata; es^i cominciano ad agire, a parlare, procedono verso la soluzione di un problema. Può darsi che questo problema esista storicamente da molto tempo, e può darsi che varie operazioni siano state compiute « fuori scena ». Ma ora diventa un problema immediato: è portato in scena; le forze opposte si confrontano; la battaglia inizia; occorre prendere una decisione; trovare una soluzione: qui e ora. (ibid. : 145-ji). Poste le premesse delle diverse capacità e dei diversi vincoli a cui dramma e romanzo in quanto generi sono legati, il critico elenca gli ingredienti attraverso i quali, a suo avviso, il romanziere può creare nel testo narrativo un « effetto di presente » simile a quello che si ha nel dramma: i) centro di interesse-, il primo degli ingredienti tecnici che secondo Beach contribuiscono alla creazione del presente drammatico nel romanzo ha un contenuto diverso rispetto a quelli indicati da James: si è visto in 2.1.3. che per James « centro della visione, del soggetto, della coscienza », ecc. sono le categorie del punto di vista ristretto: esse indicano la capacità di certi racconti di scaturire direttamente e coerentemente dalla intelligenza di uno dei per-

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sonaggi della storia (anche se attraverso la mediazione di un narratore implicito che narra in terza persona la coscienza del personaggio-riflettore); attenersi ad un unico centro del soggetto o della coscienza, vuol dire dunque per James limitare la visione della storia al formato della capacità di percezione di un unico personaggio. Beach, invece, usando l ’espressione « centro di interesse », allude ad un procedimento di concentrazione dell’attenzione del narratore su un unico elemento (personaggio soprattutto) della storia. Così, mantenersi il più possibile legato ad un singolo centro di interesse significherà seguire da vicino un singolo personaggio e la sua vicenda in maniera quasi esclusiva per il maggior tempo possibile, indipendentem ente dal tipo di focalizzazione (esterna o interna): non unicità di colui che guarda e restrizione al suo campo visivo, dunque, ma unicità dell’oggetto guardato e del suo campo di azione (l’esempio prodotto è quello di D elitto e castigo, in cui la storia molto di rado perde di vista Raskolnikov, il quale è « in scena » per sette ottavi del romanzo). Si può discutere la specificità drammatica che Beach attribuisce a questa modalità di svolgimento dell’intreccio: è opinabile, infatti, che i testi drammatici concentrino l ’interesse su un unico ' personaggio mantenendolo sempre o quasi sempre in scena (a meno che non si confonda con questa procedura l ’aristotelica unità di azione, che del resto Beach elenca sotto altra dicitura); il dramma ha, al contrario, al suo attivo una notevole capacità di frammentazione dell’interesse (entrate e uscite dei personaggi, mutamenti repentini di scena, concatenazione di episodi diversi in cui sono impegnati agenti diversi, ecc.), senza d ’altra parte che per ciò l ’effetto di presente vada perduto. ii) punto di vista limitato-, Beach non discute qui questa categoria, limitandosi ad osservare che si tratta di una tecnica che tende ad accompagnarsi alla precedente e rinviandone la trattazione ad altra parte del libro. Le altre categorie sono più sicuramente drammatiche, e coprono vincoli spazio-temporali. Non le commenterò intanto perché esse non riguardano direttam ente il problema del punto di vista, e in secondo luogo perché il loro contenuto è facilmente intuibile. Sono:

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iii) limitazione di luogo; iv) quantità del tem po coperto; v) lunghezza dello sviluppo degli eventi di un singolo giorno, o di sequenze di giorni che si susseguono. A conclusione della esposizione di questo prim o nucleo delle proposizioni teoriche proposte da Beach (per quanto concerne il resto del libro sulle Tecniche mi lim iterò a commentare i punti che mi sembreranno più rilevanti nella discussione più specifica del problema del punto di vista), desidero fermarmi a commentare alcune annotazioni del critico a proposito del m etodo di esposizione in James, e più in generale in tu tti i romanzi che tendono verso 1’« effetto di presente ». È in questa zona di riflessione che Beach individua, utilizzandolo pertinentem ente, un elemento sicuramente specifico del testo drammatico (elemento necessario, poiché nasce dal vincolo statutario della esposizione attraverso mimesi), il quale può essere utilizzato, pressapoco con i medesimi procedimenti e col medesimo effetto, nel testo narrativo. La discriminante di partenza sembra essere quella ^fra « informazioni oggettive » e « informazioni soggettive », sia per quanto riguarda la storia (antefatti, circostanze, ambientazione, ecc.) che per quanto riguarda i personaggi (caratterizzazione esteriore e interiore). C ’è una notevole differenza, nota Beach (qualitativa piuttosto che quantitativa), tra il metodo di esposizione di un Balzac (ossessivamente preoccupato dalla presentazione « oggettiva » dei dettagli più m inuti di ciò che serve da preparazione e che in qualche modo precede e predispone la storia) e il metodo di esposizione di James: Il metodo di James è quello di presentare un personaggio, in una data occasione, intento a meditare sulla situazione nella quale si trova. Tutto ciò che veniamo a sapere sulle circostanze precedenti viene fuori in primo luogo, per così dire, per puro caso. Si fa riferimento — o meglio si allude ■ — ad un certo fatto perché esso è nello sfondo dei pensieri del personaggio. Lo sforzo di James è quello di dotarlo per il lettore dei medesimi connotati di già noto ed implicato nel processo mentale che esso ha per il personaggio. (ibid.: 188-9; corsivi miei). L ’esempio, quasi obbligato, è quello della prima pagina de Gli ambasciatori (il romanzo si apre, in effetti, con una sequenza di proposizioni che lasciano alla capacità di inferenza del lettore una notevole quantità di elementi da ricostruire; sull’apertura del romanzo vedi W att 1960). Nel commento che segue il brano ci-

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tato, Beach evidenzia in vari punti la peculiarità della esposizione attraverso informazioni implicite che caratterizza il metodo drammatico di James evidenziando, appunto, ciò che James lascia di « non-detto », ma tuttavia inferibile: Non ci viene detto con molte parole che egli [Strether] era sbarcato in Inghilterra, ma possiamo inferirlo, poiché era questa una delle cose che determinavano il suo modo di sentire. Non ci viene detto chi fosse Waymarsh; semplicemente inferiamo dai sentimenti di Strether che c’era qualcosa in lui che rendeva sgradevole la possibilità di rovinarsi il primo contatto con il vecchio mondo con la vista di lui. Non ci viene detto che tipo di persona fosse Strether, da dove venisse, quale tipo di vita conducesse in patria né perché fosse andato all’estero. (ibid.: 189-90; corsivi miei). D etto questo, Beach ricostruisce — a posteriori — la fabula dei precedenti, riordinata e completata da tu tte le informazioni che è possibile attivare attraverso inferenza. E nota (con le lim itazioni inevitabili per chi non disponga di coordinate teoriche né di un metalinguaggio adeguato, ma per ciò stesso con intuito più rimarchevole) che tale ricostruzione è u n ’operazione di astrazione possibile, ma che essa niente ha a che vedere con il metodo di scrittura, con l ’ordine, con il ritmo con cui nel testo le informazioni vengono distribuite (vedi anche, alle pp. 362-3 la ricostruzione della fabula di Lord Jim): Questi [cioè: quelli che il critico o il lettore ricostruisce] sono i fatti da produrre nella esposizione. Ma esporli in termini così espliciti e astratti è del tutto contrario al sistema di scrittura di questo genere di libri.'Per questo motivo: questi termini espliciti e astratti non sono quelli in cui i fatti si presentano alla coscienza di Lambert Strether in qualcuna delle occasioni in cui questa coscienza ci viene svelata. Essi sono tutti impliciti in ogni momento nel suo processo mentale. Nella sua mente egli sempre vi allude, ma non è possibile immaginare che egli dica cose che costituiscono i fatti primari della sua vita conscia. (ibid.: 191). N ell’ultima proposizione Beach accenna ad un meccanismo di autenticazione al quale il dramma, specie nelle operazioni di esposizione, fa sistematicamente ricorso: in assenza dell’ausilio della diegesi, il testo drammatico deve infatti informare « senza parere » sugli antefatti, sulla situazione, sull’ambientazione, sui personaggi e sulle loro posizioni reciproche (perfino deve notificarci

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i loro nomi, che compaiono nel testo scritto sotto forma di didascalie, ma dei quali è necessario prevedere una notificazione calibrata nel testo rappresentato), ecc.: l ’autenticazione deve essere rivolta a far sì che le informazioni che è necessario distribuire agli spettatori non suonino superflue, e dunque inautentiche, sull ’asse interno. Proprio a questa necessità di autenticazione sembra far riferimento u n ’altra osservazione di Beach: gli elementi dell’esposizione sono insinuati in maniera così insensibile nel corso della narrazione, che non ci accorgiamo mai del fatto che questo processo ha avuto luogo, (ibid.: 192). Non mi sembra, invece, che Beach elabori novità teoriche di rilievo nel capitolo (il X V III) dedicato al trattam ento del punto di vista ristretto nei romanzi di James; né, d ’altra parte, l ’analisi qui compiuta da Beach del metodo jamesiano rivela elementi tecnici inediti: James, lo sappiamo, può essere letto attraverso James, ed è proprio quello che fa Beach, non aggiungendo in questa occasione molto di più rispetto a quello che aveva già proposto, quindici anni prima, nel Metodo. Né appaiono elaborazioni teoriche di rilievo, almeno limitatamente al problema tecnico che qui ci interessa, nelle quasi cento pagine che separano il capitolo su James da quello dedicato a Conrad (Beach si limita, in questa zona, ad individuare alcuni autori che hanno impiegato il punto di vista ristretto: Hergesheimer, la Sedgwick, la W harton, Sherwood Anderson e qualcun altro). Con Conrad, il critico si trova a dover aggiustare le categorie descrittive già sperimentate, per poter affrontare l ’opera di un altro grande sperimentatore. P ur muovendo dal denominatore comune della eliminazione dell’onniscienza e della narrazione cosiddetta « oggettiva », Conrad non è più soddisfatto di una soluzione come quella jamesiana della adozione di un unico « centro della coscienza » come fonte della narrazione: la materia sfuggente dei suoi intrecci e il carattere elusivo delle situazioni da rappresentare richiedevano un supplemento di manipolazione del metodo; il critico, tuttavia, riconosce una linea di continuità che gli consente di descrivere la sperimentazione conradiana come supplemento di riflessione e ulteriore articolazione del metodo già sperimentato da James. Vediamo di individuare e di radunare in una serie di linee omogenee quelle osservazioni avanzate da Beach sull’uso del punto

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di vista ristretto in Conrad che possono proporre un ampliamento delle acquisizioni teoriche fin qui prospettate: — tecnica dell’isolamento: Beach propone una suddivisione tra limitazione fisica e limitazione psicologica del punto di vista, e nota come in Conrad l ’espediente di « isolare » fisicamente i personaggi, conducendo ad una restrizione psicologica della visione, possa sortire effetti narrativi notevoli; l ’espediente è impiegato di solito in momenti di particolare tensione, e consiste nell’isolare nettamente un momento particolare, in maniera che si trovi fisicamente e moralmente in una luce simile a quella di un lampo su di uno sfondo di tenebra notturna, (ibid.: 346). Due personaggi confinati, soli e inermi, in una stanza, incapaci di difendersi da una minaccia che viene dall’esterno, oppure la visione parziale della cabina di una nave percepita dal tondo di un oblò, o ancora l ’improvvisa esclusione ¿del senso della vista provocato dallo spegnersi di una lampada sono espedienti usati con notevole effetto nelle narrazioni conradiane. Beach commenta questa particolare tecnica riportando un brano di Caso (Chance, 1914) in cui il giovane ufficiale Powell, guardando per caso attraverso l ’oblò l ’interno della cabina del capitano Anthony, e vedendone soltanto una parte, ha la vivida visione di un braccio che, insinuandosi attraverso una tenda, si protende all’interno della cabina. Il secondo caso di limitazione fisica della visione, sempre in un romanzo di Conrad, è tratto da La freccia d ’oro (The Arrow of Gold, 1919), e riguarda un momento di particolare tensione in cui i personaggi (e con loro il lettore) rimangono al buio (il candelabro si è spento), isolati non solo fisicamente ma anche psicologicamente. Che simili occasioni di « isolamento », ai quali la narrativa del Novecento ha spesso fatto ricorso, non siano puri e semplici restringimenti meccanici della visione è indubbio. Ricorderò due casi nei quali l ’isolamento fisico del personaggio riesce a costituirsi in significati complessi, oltre a produrre effetti narrativi notevoli. In uno dei racconti di G ente di Dublino di Joyce, « Argilla » (« Clay »), la protagonista viene invitata a partecipare ad un gioco divinatorio, ad occhi bendati: il gioco consiste nello scegliere, allungando la mano verso uno di essi, il contenuto di uno fra tre piattini che vengono disposti davan-

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ti alla persona bendata. Il testo non ci dice quale sia il presagio contenuto negli oggetti del gioco, poiché la visione del racconto è rigorosamente lim itata a quella della protagonista, che del gioco non conosce le regole; inoltre, nel momento in cui M aria, la protagonista, viene bendata, anche al lettore è tolta la possibilità di « vedere »: egli non saprà mai che cosa le mani di Maria hanno toccato nel piattino scelto: Fra scherzi e risate la guidarono al tavolo e lei tese la mano come le avevano insegnato. La mosse in qua e là per aria, poi l’abbassò su un piattino. Sentì sotto le dita un che d ’umido e molliccio e si stupì che nessuno parlasse o le togliesse la benda. Per qualche secondo ci fu silenzio, poi un gran trambusto e un mormorio. Ci fu chi disse qualcosa del giardino e alla fine la signora Donnelly rimproverò con voce aspra una delle figliole del vicino ingiungendole di portar via subito quella roba. Non era nel gioco, disse e Maria capì che quel giro non valeva e si doveva ricominciare daccapo. Questa volta ebbe il libro da messa. (J, Joyce, « Argilla »). Senonché il lettore ha a disposizione qualcosa in più della protagonista, e cioè il titolo del racconto: l ’argilla, che può essere interpretata come presagio di morte. Un altro caso notevole di isolamento del personaggio è costruito sapientemente da Richard Hughes in La volpe nella soffitta (The Fox in thè A ttic, 1961) nel momento in cui la giovane protagonista cieca, Mitzi, attratta da un rantolo che viene dalla soffitta, trova a fatica la strada per scoprire la provenienza dell ’inquietante e impiegabile suono; il lettore la segue « alla cieca », senza che gli sia concesso di vedere, e dunque di capire, di più di quanto è concesso a Mitzi. È soltanto nel momento in cui il fratello di Mitzi sopravviene che il lettore, utilizzando la vista di quest’ultimo, vede Mitzi pericolosamente sporta sull’orlo della finestra e, al di sopra di lei, il cadavere di W olff impiccato ad una corda che sinistramente cigola. Ma torniamo all’esposizione che Beach fa delle tecniche conradiane: — collegamento tra la tecnica del punto di vista ristretto e il « to make you see » conradiano-. poche annotazioni autografe ci rimangono ad illuminare le basi teoriche della scrittura conradiana;9 nient’altro, anzi, che la 9. Vedi, per una esposizione delle teorie di Conrad, Ford 1924.

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breve prefazione a II negro del Narciso (The Nigger of thè Narcissus, 1914). La formulazione più celebre di queste pagine è una dichiarazione di intenti che rimane tuttavia poco argom entata (anche se il tono è appassionato), e che nulla ci dice circa le tecniche impiegate dal narratore per raggiungere l ’effetto ricercato: La fatica che cerco di compiere è quella di farvi udire, di farvi sentire per mezzo della parola scritta; cioè, innanzitutto, di farvi vedere. Beach connette direttam ente l ’intento conradiano di « far vedere » la scena al lettore non tanto con la strenua ricerca stilistica del m ot juste, quanto con una serie di tecniche che il critico indica come « più strutturali », e che hanno sempre un preciso legame con la scelta di uno o più punti di vista ristretti. Ma ciò che è più im portante in term ini di punto di vista è il controllo che il protagonista-narratore riesce ad esercitare direttamente sulla storia, sul suo sviluppo, sul suo rivelarsi passo passo, perfino sul suo rimanere ambigua, o semplicemente allusiva. È in queste peculiarità del procedimento narrativo (come nell’« isolamento » di cui si è detto prima) che si colloca la capacità di « far vedere » al lettore ciò che viene narrato: il lettore, insomma, sembra suggerire Beach, non vedrebbe con altrettanta vivezza se potesse vedere tutto, se non gli fosse lasciata quell’ampia zona vuota nella quale impegnare la sua capacità di inferenza: se non vedesse, insomma, con le limitazioni fisiche e d ’altro tipo che sono sempre imposte alla percezione umana. Beach giunge così, per gradi (ma la sua trattazione è insieme assai più ricca e assai meno lineare di quanto non traspaia da questo tentativo di razionalizzazione) ad identificare il grande contributo di sperimentazione che Conrad diede alla tecnica del punto di vista ristretto, con la modalità del — punto di vista ristretto multiplo : il tema è trattato a più riprese nel capitolo: ecco, tuttavia, la pagina più ricca di annotazioni interessanti: Ogni arte, disse Conrad, « deve aspirare con tutte le forze alla plasticità della scultura, al colore della pittura e alla magica suggestione della musica ». Bene. È chiaro quanto fosse difficile raggiungere la plasticità della scultura confinando rigorosamente il proprio punto di vista a quello di un solo personaggio, anche se intelligente. [...] Inol-

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tre, la concezione che Conrad aveva della natura umana era quella di una realtà intrisa di mistero e di proteica elusività. Nessun angolo visuale avrebbe potuto coglierla nella sua completezza. Il problema, con qualsiasi situazione e con qualsiasi personaggio, era quello di trovare un fuoco perfetto per l ’immagine. Ma un fuoco perfetto non c’è, e sì“deve continuamente sperimentare e cercare continuamente una po-~ sizione migliore. E alla fine, per poter dare una nozione anche vagamente esatta del soggetto, occorre mettere insieme tutti gli abbozzi parziali in un quadro di assieme. [...] Uno degli aspetti più interessanti dei racconti malesi di Conrad è la luce gettata sui personaggi dei bianchi dai nativi: questi commentano la follia, la cupidigia, la crudeltà, il tradimento e il potere indomabile della razza bianca. [...] Il problema di Conrad era quello di mantenere i vantaggi dei molti punti di vista senza perdere quello della coerenza, di comporre in un unico quadro le visioni diversamente angolate e fare una sìntesi di materiale così disparato. E risolse il problema assai brillantemente con l’aiuto del capitano Marlow. (ibid.\ 352-3). Non soltanto, osserva giustamente Beach, in questi casi la narrazione giunge ad lettore da più parti, proponendogli una molteplicità di punti di vista; essa fa anche uso, in perfetta coerenza con il carattere elusivo delle storie, di una serie di espedienti che potremmo indicare come altrettante « tecniche di distrazione », le quali rappresentano l ’estrema periferia dell’allontanamento della « oggettività »; Beach le indica come — frapposizione di schermì : le voci narranti non sono soltanto moltiplicate: invece di essere disposte linearmente, e di occupare su di un medesimo livello narrativo una porzione dell’attività del narrare, esse sono inscatolate una dentro l ’altra, frapponendo sempre nuovi schermi e così moltiplicando la distanza tra il lettore e la fonte prima della informazione. M arlow non è mai un narratore, per così dire, autonomo; in Caso, nota Beach, alcune informazioni ci giungono tutte come Marlow le racconta a « me », vale a dire, diciamo, all’autore. Alcune vennero a Marlow dall’osservazione personale, ma più le seppe da conversazioni con Mr. e Mrs. Fyne, con Flora e col giovane Powell, ufficiale del Fendale. E così, qui come in Lord ]im, i fatti ci giungono veduti da varie persone, che sono come schermi colorati che modificano il quadro originale, mentre ognuno di essi aggiunge il suo contributo all’interpretazione. [...] L’autore fa conoscere al lettore il modo in cui Marlow racconta la vicenda, e certe discussioni che sorgono tra lui e Marlow durante la narrazione, per

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quanto riguarda l’interpretazione della vicenda. Marlow, a sua volta, ha i suoi commenti da fare sul giovane Powell, che considera testimone assolutamente attendibile ma piuttosto ingenuo, il cui modo di vedere le cose deve essere arricchito dalla fantasia di qualcuno che conosca meglio la natura umana. Anche, per certi passi degli inizi della vita di Flora, Mrs. Fyne fornisce a Marlow informazioni che ebbe da Flora; così che abbiamo: Flora ... Mrs. Fyne ... Marlow ... io ... il lettore. Quattro schermi sono stati frapposti tra il lettore la fonte originale dell’informazione. In verità, credo che in certi casi sia Fyne a trasmettere a Marlow quello che Mrs. Fyne seppe da Flora, sicché abbiamo: Flora... Mrs. Fyne... Fyne... Marlow... io... il lettore. (ibid.: 3 5 7 -8 ).

Come si vede, la complessa organizzazione « a incastro » di quest’opera di Conrad, dà modo a Beach di arricchire la gamma delle osservazioni teoriche sul punto di vista lim itato con l ’individuazione di un modello narrativo che propone non una ma una serie di visioni lim itate incastonate una dentro l ’altra; un modello che, oltre a proporre la limitazione dell’informazione narrativa, produce un effetto di distanziazione della « verità ». 2.1.6. P. Lubbock: « a r te » e « m e stie re » del romanziere (e del critico) I l letto re di u n rom anzo — il le tto re critico, in ten d o — è egli stesso u n rom anziere; egli costruisce u n libro che può soddisfare o m eno il suo gusto, u na volta finito, m a p er il quale dovrà assum ersi la sua p arte di responsabilità. P . L ubbock

The Craft of Fiction è del 1921; precede, dunque, di più di dieci anni il libro sulla tecnica narrativa di Beach. Si tratta di un decennio nel quale episodi assai im portanti si verificano nella narrativa di lingua inglese: nel 1922 vede la luce Ulisse-, tra il ’20 e il ’30 si consolida la fama di Lawrence, e Virginia W oolf scrive alcuni dei suoi migliori romanzi; in America, i narratori che di più si impegneranno nella sperimentazione di metodi di focalizzazione (e non soltanto in quella), come Dos Passos, Faulkner e Hemingway, non hanno ancora compiuto all’inizio del decennio le loro esperienze più significative. A Lubbock manca dunque la

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materia narrativa che sarà sfruttata da Beach e che, allargando la casistica delle manifestazioni, avrebbe certamente ampliato anche le prospettive teoriche del libro. Quella del narratologo inglese rimane, dunque, u n ’opera sulla assunzione consapevole della tecnica del punto di vista ristretto alle sue origini (soprattutto flaubertiane e jamesiane), con l ’im portante inclusione di Guerra e pace, romanzo al quale troppo spesso, anche in seguito, è stata sbrigativamente attribuita la qualità dell’onniscienza.10 Vi sono, tuttavia, altri motivi per rileggere con attenzione questo libro, a parte quelli che qui ci riguardano direttamente, e che fanno dell’opera di Lubbock un tentativo pionieristico, almeno nell’ambito della teoria letteraria anglosassone: l ’aver assunto, intanto, un atteggiamento decisamente induttivo che, prendendo le mosse dalla descrizione delle opere, approda alla discussione delle tecniche impiegate piuttosto che sovrimporre categorie preformate; e l’aver posto con chiarezza ed impegno i problemi della lettura critica accanto a quelli della scrittura narrativa nel tentativo di colmare il vuoto della assenza di un metalinguaggio descrittivo: la craft che compare nel titolo, insomma, non è solo l ’arte — o meglio il mestiere — del romanziere, ma è anche l’arte ■ — • o il mestiere — della lettura critica. Ecco alcuni brani nei quali Lubbock enuncia questi problemi: a) sul metodo in d u ttivo : Non si può dire niente di utile a proposito di un romanzo se non ci si è impegnati a studiare il modo in cui esso è fatto. In tutte le nostre discussioni sul romanzo siamo messi in difficoltà dalla nostra ignoranza di ciò che si può chiamare la sua tecnica, ed è questo di conseguenza l’aspetto che bisogna studiare. Che Jane Austen sia una osservatrice sottile, che Dickens sia un grande umorista, che George Eliot dia prova di una profonda conoscenza del carattere provinciale, che i nostri romanzieri contemporanei siano così «vi vi » [..] lo sappiamo, lo abbiamo ripetuto, ce lo siamo detto mille volte [...]. Ma sono i loro libri insieme alle loro abilità e a ciò che essi hanno effettivamente realizzato

10. Non si spiega, per la verità, la mancata menzione di Conrad. Beach (1932) muove a Lubbock proprio questo appunto, individuando uno dei limiti del libro di Lubbock nel suo collocarsi cronologicamente alla vigilia di eventi letterari rivoluzionari (soprattutto Ulysses e La recherche). Se anche, ovviamente, Lubbock non è responsabile della omissione di opere non ancora pubblicate, Beach sembra accentuare il carattere « datato » (fórse anche retrogrado) del libro. Lui stesso, poi, dichiara di prendere le mosse nel punto in cui Lubbock finisce la sua trattazione.

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che noi aspiriamo a vedere — i loro libri che dobbiamo ricreare per noi stessi. Ofa, per poterli ritenere e ricreare c’è un mezzo evidente; studiare la tecnica, seguire il processo, leggere in maniera costruttiva. (Lubbock 1921: 272-3). b) sull’assenza (e sulla necessità) di un metalinguaggio critico-. Per criticare il mestiere della narrativa non abbiamo altro linguaggio che quello che è stato escogitato per le arti materiali; e anche se possiamo ritenere naturale e legittimo parlare dei colori dei valori e della prospettiva di un romanzo, in ultima analisi queste sono metafore che non possono essere spinte troppo in là. (ibid.: 11). c) sulla lettura del critico (« creative reading ») : Il lettore di un romanzo — il lettore critico, intendo — è egli stesso un romanziere: egli costruisce un libro che può soddisfare o meno il suo gusto, una volta finito, ma per il quale dovrà assumersi la sua parte di responsabilità. [...] Il lettore deve dunque diventare per parte sua romanziere, e non indulgere mai nella supposizione che la creazione del libro riguardi solo l’autore. [...] L’autore di un romanzo lavora in una maniera che sarebbe del tutto impossibile per il critico, questo è certo, e con una libertà e un raggio d’azione che lo disorienterebbero del tutto. Ma su un punto la loro opera coincide; entrambi costruiscono il romanzo, {ibid.: 17-8). [...] il letterato è un craftsman, e il critico non può esserlo di meno. Deve sapere come maneggiare la materia che continuamente si forma nella sua mente mentre legge; deve essere capace di riconoscerne le sottili variazioni e prenderle tutte in considerazione. Nessuno può lavorare materiali di cui non conosce bene le proprietà, e un lettore che cerca di impossessarsi di un libro non possedendo altro che la sua valutazione della vita delle idee e della storia è come chi costruisca un muro senza conoscere le proprietà del legno della terra e della pietra. [ibid.: 20),u Il disegno del libro di Lubbock, occorre dirlo, non è chiaro: spesso le categorie presentate dal critico, e che dovrebbero servire a distinguere o ad opporre vari m etodi di presentazione della storia (in dipendenza dall’assunzione di vari punti di vista), si intersecano o si sovrappongono, lasciando al lettore il lavoro

11. In quest’ultimo contesto è chiaro che prevalgono le sfumature «artigianali del termine craft.

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della progressiva discriminazione; lavoro che, nonostante l ’apprezzabile sforzo di Lubbock di dar nomi alle tecniche individuate, è reso più arduo dalla non univocità del lessico impiegato. Il rischio della sovrapposizione, che deriva dalla mancanza di un progetto chiaro, è tuttavia conseguenza del maggior pregio metodologico dell’opera: del fatto, cioè, che Lubbock sceglie di far emergere le categorie tecnico-narrative descritte direttam ente dai romanzi analiizatTj^ìaliTpTocedimento induttivo ha come unico criterio organizzativo la sequeinzialità delle opere-campione scelte per 4.a dimostrazione,12 e naturalm ente soffre delle interferenze via via proposte dagtT stessi testi. È, insomma, la stessa generosità dell’approccio al testo, insieme con l ’intelligenza critica che di volta in volta ad esso è dedicata, ad infittire le difficoltà del reperimento di uno svolgimento teorico lineare. Quella del punto di vista è per Lubbock la questione centrale della tecnica del romanzo: certo di più di quanto non lo sia per Beach e per quasi tu tti i teorici successivi. Quello di Lubbock, dunque, è il primo libro interam ente focalizzato su questo problema anche se, per le sovrapposizioni di cui si è detto, il punto di vista vi appare talvolta sotto spoglie m entite. A Lubbock va, in primo luogo, il merito di aver intuito una connessione tra la tecnica del punto di vista (ristretto) e i param etri della posizione e della distanza del narratore rispetto alla storia (in un punto, almeno, del libro, la distanza pertinente diventa quella fra il narratore e il lettore). La prima opposizione utile enunciata da Lubbock (e che riguarda, come le altre, il metodo di presentazione della storia) è indicata con i termini: a) panoramico vs scenico'. la distinzione è esemplificata con chiarezza sulle pagine iniziali di Madame Bovary. Flaubert [...] ci dà prima una scena — la scena dell’arrivo a scuola di Bovary da bambino; rende l’episodio di quella particolare mattina; quindi abbandona quell’episodio, riassume lo sfondo della vita del ragazzo, descrive i suoi genitori, le condizioni della sua famiglia, la sua carriera di studente in seguito. È così che iniziano nove romanzi su dieci — una scena di apertura, uno sguardo retrospettivo e un sommario. E lo spettatore, il lettore, è così abituato a questo procedimento 12. La sequenza dei capitoli vede nell’ordine Tolstoj, Flaubert, Thackeray, Balzac e James.

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che non avverte alcun mutamento violento nel punto di vista; eppure, d a u n m o m e n to a ll’a ltro eg li è s ta to s p o s ta to d a u n a p o siz io n e p r o p rio in faccia a ll’azio n e a d u n liv e llo p iù a lto e c o m p re n siv o , d a l q u a le è p o ss ib ile c o n te m p la re la d is te sa d i u n a se q u e n z a te m p o ra le , {ibid.:

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Nella>modalità scenica di presentazione della storia, il punto di vista è lim itato a ciò che il narratore (che è dentro la vicenda) è in grado di percepire in un frammento spazio-temporale ridotto; il lettore (spettatore) è posto in posizione frontale e ad una distanza ravvicinata: egli, di conseguenza, riceve scenicamente i movimenti, le parole e le azioni dei personaggi, semmai con l ’aggiunta di quel tanto di commento che può venirgli dal narratore « incluso » nell’episodio.14 È da notare che la modalità scenica non

13. Lubbock manca di notare che nelle prime pagine di Madame Bovary, proprio quelle che egli cita, compare un « io » narrante (incluso in un « noi » che è presumibilmente l’insieme dei compagni di scuola di Charles) il quale scompare assai presto dal romanzo, per non riapparire più. Il « mutamento violento » del punto di vista di cui il critico parla è reso più evidente dall’improvviso anacronismo della comparsa della visione panoramica, in un momento in cui ci aspetteremmo di veder scaturire ancora la narrazione da un narratore le cui informazioni siano necessariamente limitate. Il narratore, invece, non giustifica mai l ’improvvisa acquisizione, se non dell’onniscienza, almeno di una quantità assai rilevante di informazioni. Procedendo nella lettura, il lettore dimentica questa presenza omodiegetica iniziale, e l ’anacronismo non è più avvertito come tale. Questa particolare situazione narrativa è commentata efficacemente da S. Lanser: La prima parte del capitolo I colloca il narratore come scolaro nella scena in cui Charles Bovary, a circa quindici anni, è presentato. La narrazione si sposta sulla storia della famiglia di Charles, che il narratore potrebbe aver udita dalla gente del posto, e che infatti è infarcita di giudizi, dicerie e analisi psicologiche che una comunità potrebbe avanzare a proposito di una delle sue famiglie. Gradualmente, i pensieri e i sentimenti di Charles si insinuano nella narrazione, e quando Emma diventa il fuoco della storia, si perde la sensazione che il narratore sia una voce in prima persona, cosicché, quando ci racconta i pensieri e i sentimenti di Emma (o di Léon o di Charles o di Rodolphe), non sentiamo alcuna violazione delle norme testuali. Dopo la morte di Emma vi è un simile movimento di ritorno graduale verso la voce omodiegetica, mentre il narratore riporta la storia al presente e ci racconta quello che accade ai personaggi che sopravvivono. (Lanser 1981: 160). 14. Vi è una differenza tra questa modalità e quella che Friedman (1955) indica come « modalità drammatica » (vedi 2.1.7.): mentre Friedman illustra una situazione narrativa in cui è lo stesso narratore ad essere collocato in posizione frontale ravvicinata (terza fila al centro di una ideale platea), nella scena di Lubbock (almeno in questo primo esempio) il narratore è incluso nella rappresentazione, e il suo racconto organizza la scena che si svolge sul palcoscenico mantenendo il lettore in platea.

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è necessariamente, per Lubbock, legata alla presentazione attraverso dialogo. Nella modalità panoramica di presentazione, il punto di vista ha una portata più ampia: ponendosi al di sopra della materia narrata, il narratore — e di conseguenza il lettore — comanda una maggiore estensione spazio-tempoiale.15 Questa modalità (Lubbock non lo dice esplicitamente, ma mi pare che si possa ricavarlo dal suo discorso) non è necessariamente onnisciente: non è detto, ad esempio, che visione spazio-temporale allargata significhi capacità di penetrare la m ente dei personaggi. La seconda delle opposizioni da discutere è: b) illustrazione (picture) vs dramma: questa seconda opposizione non si riferisce alla posizione e alla distanza del narratore rispetto alla storia, ma piuttosto al suo atteggiamento narrativo, intrusivo nella illustrazione e pressoché cancellato nel dramma. Lubbock dichiara di riprendere i due termini da James, che nei suoi ultim i romanzi tentò di realizzare una mescolanza equilibrata delle due modalità {showing/telling)\ poiché la illustrazione e la scena jamesiane avevano caratteri che difficilmente si trovano in altri narratori, egli userà i term ini in un senso diverso, più ampio di quanto non suggeriscano le soluzioni di dialogo e descrizione. Lubbock fa, a proposito di illustrazione e dramma, una questione di posizione del lettore nei confronti dello scrittore; mi pare di capire il senso di questa notazione dando ai termini oppositivi la valenza della presenza o meno delPatteggiamento didascalico proprio dell’onniscienza alla Thackeray (è proprio questo scrittore che Lubbock considera il miglior prototipo dell’atteggiamento illustrativo). Lo scrittore che usa la prima modalità, pretende di orientare la lettura secondo criteri morali che sono suoi e che intende imporre al lettore; lo scrittore che impiega il metodo drammatico (e, come vedremo, vi sono varie gradualità di drammatizzazione dello scrittore, o meglio del narratore entro la storia), lascia che la storia « si racconti da sè », senza proporre il vincolo della propria intrusione, e lasciando quindi libero il lettore di decidere il proprio atteggiamento nei confronti della materia che gli viene offerta, in

15. È da notare che qui Lubbock trasferisce alla categoria del tempo caratteristiche di « linearità di svolgimento su di una superfìcie » che sono spaziali.

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questo caso in triodo « impersonale » o secondo varie modalità di distacco narrativo (ùna delle quali può essere quella flaubertiana e jamesiana del personaggio-riflettore). Vediamo la distinzione attraverso le parole di Lubbock: Come ho detto, è una questione che riguarda la relazione del lettore con lo scrittore; nel primo caso [illustrazione] il lettore si trova di fronte allo scrittore ed è lui che ascolta, nell’altro [dramma] egli si volge verso la storia e la contempla. Nel dramma rappresentato sul palcoscenico, evidentemente lo spettatore non ha alcun rapporto con l ’autore, mentre l ’azione procede. L’autore mette le parti in bocca agli attori, li lascia lì a produrre una certa impressione, e lascia noi, gli spettatori, a cavarcela in qualche modo. Il movimento della vita ci sta dinnanzi, la mente dell’autore che ha registrato e riprodotto è eliminata. Questo è il dramma; e quando pensiamo al narratore in opposizione al drammaturgo, è ovvio che in senso letterale nel romanzo non c’è il dramma vero e proprio. Il romanziere può darci le parole che sono state pronunciate dai personaggi, il dialogo, ma naturalmente deve inserire qualcosa di suo per darci l’aspetto dei personaggi, il luogo in cui si trovano e ciò che stanno facendo. Se non ci dà altro che il dialogo, avrà scritto una sorta di dramma; proprio come il drammaturgo, amplificando il dramma con « didascalie » e scrivendolo per la lettura, in realtà avrà scritto una sorta di romanzo, {ibid.: 111-2). Il metodo illustrativo (che abbiamo individuato nella tendenza dell’autore a far sentire la propria presenza nella storia) ha varie gradualità di applicazione, poiché varia la misura di intrusività che l ’autore decide di manifestare. Nella sua forma estrema, esso coincide con l’onniscienza:16 il che costituisce, secondo Lubbock, il difetto più marcato di questo tipo di narrazione. Nel passaggio, che sembra avvenire per gradi, tra la narrazione illustrativa e quella drammatica, si inserisce la tecnica del punto di vista lim itato: occorre notare* tuttavia, che in questa cerniera della esposizione teorica di Lubbock, il punto di vista è visto come capacità di drammatizzare l’attività mentale del narratore piuttosto che come scelta di una prospettiva ristretta: Il narratore, ritengo, deve affrontare una situazione in cui la sua storia richiede qualcosa di più della semplice impressione che il lettore potrebbe formarsi da solo se fosse presente sul posto a contemplare la storia con i suoi occhi, (ibid.: 124).

16. Ciò che Friedman (1955) indicherà come «onniscienza d ’autore».

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L’autore deve dare la sua visione, ma può trattarla come se a sua volta fosse un elemento delPazione. Ed è un elemento di azione, o di attività, il fatto che egli evochi dei ricordi; perché, dunque, non conferire a questo sforzo il valore di una sorta di dramma? [...] Sembra che vi siano tutte le ragioni per sostenere la drammatizzazione dello stesso narratore. (tbid.: 124, 125). Lubbock espone quindi, in una scala di gradualità, varie modalità di drammatizzazione del narratore; requisito fondamentale è, intanto, che il narratore abbia una qualche parte nella vicenda: La maniera più immediata per dare rilievo ad una impressione riferita è l’espediente di raccontare la storia in prima persona, nella persona di qualcuno che faccia parte della storia; [...] L’« io » che è anche personaggio prende il posto dell’« io » generico e distaccato dell’autore; la perdita di libertà è, ampiamente compensata dall’effetto di maggior rilievo del quadro. (ibid. : 127). Il primo passo verso la drammatizzazione del narratore è costituito dalla modalità della prima persona nell’autobiografia; procedendo, poi, nella modalità di drammatizzazione, incontriamo il metodo di James, in cui l ’autore sempre più rinuncia a trasmettere al lettore la propria soggettività in favore della soggettività del personaggio: scindendo la propria responsabilità rispetto ai processi mentali del personaggio narrato, egli ci dà dunque, oggettivamente, la soggettività di una visione che è dentro la storia. Occorre, tuttavia, introdurre una precisazione in mancanza della quale il brano che segue potrebbe risultare fuorviarne: poiché Lubbock allude alle due modalità (illustrativa e drammatica) come ai poli estremi di un continuum che ordina la presenza del narratore nella storia (dalla più invadente alla più discreta), postulato necessario della sua trattazione è che in un romanzo sempre si manifesti uno sguardo (quello del narratore) che contempla la storia e la registra di conseguenza: solo nel dramma allo stato puro del genere quest’occhio, secondo il critico, non è presente, e la visione è esclusivamente demandata allo spettatore. Vi sono, dunque, nel romanzo, gradi crescenti di drammatizzazione, ma non vi può esistere il dramma senza contaminazioni: in sostanza,

17. Questa modalità è indicata da Friedman (1955) come «onniscienza neutra». *>

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Lubbock parla di un metodo che non può — per le necessità stesse del genere —- che essere qualitativamente illustrativo, ma che può anche utilizzare in larga misura la modalità drammatica. Il rapporto con la questione del punto di vista è ora chiaro: dalla visione esterna, panoramica e illustrativa alla maniera di Thackerav (ubiquità spazio-temporale del narratore, con l’aggiunta delle ingombranti intrusioni del suo commento), per successive restrizioni si giunge ad una situazione nella quale il materiale narrativo è contemplato da un agente (o attraverso un agente) interno alla storia, capace di focalizzare esclusivamente gli oggetti della sua percezione e di offrirli alla contemplazione del lettore in una visione quasi-drammatica, limitando il più possibile il commento.18 Il tipo di romanzo preso in esame nel brano che segue, propone rispetto all’« io » autobiografico una ulteriore drammatizzazione: [...] ritengo che il romanzo in oggetto postuli — come in realtà la maggior parte dei romanzi — un punto di vista che non è quello del lettore; faccio il caso della storia che richiede un occhio che contempli, nel senso che suggerivo parlando de ha fiera della vanità. Quando non occorre un agente che selezioni, interpreti e componga, abbiamo il dramma senza contaminazioni [...]. Abbiamo il dramma senza contaminazioni quando il lettore è proprio di fronte alla scena per tutto il tempo, e non ha altre nozioni sulla storia se non ciò che può essere ricavato dall’apparenza della scena, dall’aspetto e dai discorsi dei personaggi [...]. il romanziere, dunque ritorna alla terza persona, ma vi ritorna con una differenza marcata. [...] la differenza è che invece di ricevere il suo [dell’eroe] resoconto, ora lo vediamo nell’atto di giudicare e di riflettere; la. sua coscienza [...] è ora davanti a noi nel suo moto originale, [ibid.: 142-3). L ’esempio è, naturalm ente, lo Strether jamesiano de Gli ambasciatori: [...] per il momento consideriamo questo libro come l’esempio tipico di romanzo nel quale una mente è drammatizzata — nell’atto di riflettere la vita a cui è esposta ma anche nell’atto di mettere in scena la sua particolare vita privata [...]. Questo [il mutamento nella mente del protagonista] non è dato come visione di alcuno — né la sua,

18. Si tratta, ovviamente, di un narratore non necessariamente omodiegetico.

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come sraebbe se egli' stesso raccontasse la storia, e neanche quella dell ’autore, come sarebbe se Henry James raccontasse la storia. L’autore non racconta la storia della mente di Strether; fa in modo che essa si racconti da sola, drammatizzandola. Avviene così che l ’autore rimuove sempre più da sé la responsabilità. La narrazione che egli concepisce è sua, in ultima analisi; ma essa sembra labile e priva di spessori se lo scrittore espressamente la rivendica a sé come sua, o in ogni modo diventa assai più consistente se egli la attribuisce ad un altro. Questa non è la mia storia, dice l ’autore; voi non sapete nulla di me; è la storia di quest’uomo o di questa donna, e voi la ricevete con le loro stesse parole, e lui o lei sono persone che potete conoscere; e potete vedere voi stessi quale è stata l’origine della vicenda, date le caratteristiche di quest’uomo e di questa donna. (ibid. : 147). Un ulteriore stadio di drammatizzazione nel romanzo vede, proprio come accade a teatro, la vicenda aderire esclusivamente al punto di vista del lettore: in questo estremo sforzo di oggettivizzazione, la storia « si racconta da sé », senza alcun tram ite; piuttosto che aderire alla coscienza di uno solo dei personaggi, essa è distribuita fra tu tti i personaggi, di volta in volta presentando le loro reazioni, come in una vera rappresentazione. Lubbock nota che molto di rado il romanzo aderisce ad una forma rigorosamente scenica (un esempio è L ’età imbarazzante di James); che questa m odalità impone restrizioni (il totale sacrificio della voce del narratore, in primo luogo); e che risulta possibile — anche se ardua da realizzare — solo con un tipo particolare di storia, il cui carattere sia di per sé drammatico (col che Lubbock intende una storia che non scaturisca da una coscienza centrale e che non sia troppo complessa e ampia per poter essere trattata scenicamente). Vediamo come il critico tratteggia quest’ultimo tipo di storia, discutendo L ’età imbarazzante di James. In questo romanzo, James decise di trattare la storia in una forma puramente drammatica: In L’età imbarazzante è tutto immediato e particolare; non vi è esplorazione del pensiero di alcuno, non vi è visione panoramica della scena dall’alto, non vi è alcun riepilogo retrospettivo del passato. [...] Il romanzo potrebbe essere stampato come un dramma; ciò che non è dialogo, è semplicemente una sorta di didascalia amplificata [...]. (ibid.: 190). Il libro di Lubbock si conclude con un utile sommario dei metodi di presentazione della storia individuati ed esemplificati: chiarite

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le coordinate di approccio al problema del punto di vista proposte dal critico, sarà utile rileggere queste pagine (251-263 circa), che si chiudono con un suggestivo ritratto del narratore onnisciente: Infine vi è la vecchia, remotissima modalità, imprudente e fiduciosa, di raccontare ' una storia, nella quale l’autore intrattiene il lettore, il menestrello attira il pubblico attorno a sé, e gli ascoltatori pendono dalle sue labbra. Qui la voce è dichiaratamente e soltanto quella dell’autore; egli non pone alcun limite alla sua libertà di raccontare ciò che gli pare e di contemplare la sua materia da un punto di vista che è soltanto il suo. (i b i d 263). Le pagine che ho dedicate all’esposizione del libro di Lubbock non rendono certo giustizia ad u n ’opera che rimane un modello difficilmente eguagliato di ricchezza e di sottigliezza critica. Nel tentativo di chiarire e schematizzare il percorso delle proposizioni teoriche del libro, ho infatti dovuto m ettere in ombra l ’analisi sempre illuminante dei singoli romanzi o dei singoli autori: le molte pagine dedicate a Flaubert, a Tolstoj, a Thackeray come la trattazione in estensione di Balzac (a proposito del quale assai rilevante è la discussione della categoria temporale di durata) e l ’appassionata seppur lucida trattazione di James, che più di ogni altro Lubbock considerava maestro nel mestiere del narrare, sono tuttora da rileggere con attenzione priva di prevenzioni: tra i narratologi di cultura anglosassone, infatti, Lubbock è il solo che abbia realizzato quella rara fusione di vigore teorico e raffinatezza critico-analitica che ritroverem o nell’opera altrettanto geniale e personale di Genette. Il libro di Lubbock, come quello del narratologo francese, ha difetti che possono essere facilmente rilevati: ambedue le opere, infatti, soffrono di quella felice vulnerabilità alla quale sempre sono esposte le esperienze veramente innovatrici. 2.1.7. N. Yrìedman: una descrizione per tipi Con il saggio di Norman Friedman, « Il punto di vista nella narrativa » (« Point of View in Fiction »), siamo già al 1955: i due decenni che intercorrono tra la pubblicazione del libro di Beach e quella di questo saggio registrano una attenzione critica continua e continuativamente cospicua sul problema del punto di vista, soprattutto negli Stati U niti. Se a nessuna delle opere apparse fra il 1932 e il 1955 dedicherò una trattazione particolare

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è perché in generale si tratta di contributi che non propongono prospettive nuove né una vera evoluzione del concetto ( l’opera più significativa del periodo è, in ogni modo, Brooks & W arren 1943). Tuttavia, nell’insieme (e si tratta di opere di varia natura, dal manuale scolastico al contributo teorico di un qualche spessore), esse sono testimonianza di una tr a c ia ininterrotta di interesse e dunque della rilevanza assunta, grazie alle prime trattazioni, dal problema del punto di vista. Vi sono poi, sempre in questo periodo o nel decennio precedente, opere narratologiche anche di notevole rilievo, come quella di Forster (1927) e quella di Schorer (1948), che tuttavia non mi sembra giustifichino un trattamento in estensione, poiché in esse la questione del punto di vista è trattata marginalmente. Nel momento in cui Friedman scrive il suo saggio, dunque, egli si trova fra le mani una categoria narratologica ormai assestata, anche se ancora priva di una classificazione per tipi. E il saggio di Friedm an ha anche il m erito di presentare una prima e assai esauriente messa a punto del concetto, riproponendo schematicamente le tappe della microstoria della sua evoluzione teorica e della sua fortuna critica anche fuori dalle grandi linee teoriche. Ma il saggio di Friedman ha ovviamente altri meriti oltre a quello della ricostruzione storica: quello, innanzitutto, di aver delineato lo sfondo teorico-letterario (ma anche più generalmente estetico) contro il quale l ’emergenza della nozione di punto di vista è da spiegarsi; e poi quello di aver proposto una prima classificazione che consente di distinguere vari tipi diversi di soluzioni date, in opere anche molto diverse fra loro, al medesimo problema narrativo (che la classificazione sia utile non vuol dire, beninteso, che essa sia la sola possibile). Friedman prende le mosse da una proposizione generale che fornisce un orientam ento di assieme al problema del punto di vista: esso è visto come aspetto particolare di una questione più ampia, secondo l ’autore specifica della letteratura e che non toccherebbe nessun’altra arte (una limitazione, questa, che potrebbe essere discussa): la tensione, cioè, alla quale sempre uno scrittore è sottoposto, « tra la difficoltà di m ostrare ciò che una cosa è e la facilità di dire ciò che egli ne pensa ». L ’alternativa (nella quale riconosciamo alcune opposizioni familiari: narrazione oggettiva vs narrazione soggettiva, showing vs telling, metodo scenico vs metodo panoramico, dramma vs illustrazione-, e infine racconto di parole vs racconto di avvenimenti come vedremo nella form u-

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lazione di G enette 1972), nota Friedman, è presente fin dall’antichità classica: dalle istruzioni dell’antico retore sulla « vivezza » (energeia) studio del moderno esteta sulla « proiezione » {empatia), la tra i valori e l’atteggiamento dell’autore, la loro incarnazione opera e iHoro effetto sul lettore, sono stati e continuano ad interesse cruciale. (Friedman 1955: 109-10 ried.).

fino allo relazione nella sua essere di

La più antica proposizione del problema si deve, naturalm ente, a Platone: qui Friedman ricorda la distinzione operata da Platone a proposito dello stile della poesia epica nel libro I I I della Repubblica, tra « narrazione semplice » ed « imitazione »: Quando il poeta parla nella persona di un altro, possiamo dire che egli assimila il suo stile al modo di parlare di quella persona; questa assimilazione di se stesso ad un altro, sia attraverso la voce che attraverso il gesto, è una imitazione della persona il cui carattere egli assume. Ma, se il poeta appare in ogni punto e non si nasconde mai, l’imitazione cade e la sua poesia diventa semplice narrazione. Platone illustra questa differenza «traducendo» un brano dall’inizio dell’Iliade dalla forma diretta a quella indiretta — soprattutto sostituendo al dialogo citato « egli disse che » o « egli gli ordinò di » — mutando così un brano di imitazione in un brano di semplice narrazione. Egli nota inoltre che l’estremo opposto — il solo dialogo — si avvicina allo stile del dramma, che è completamente imitativo(con l’eccezione,potremmo aggiungerò, del commento del coro o della narrazione del messaggero). Omero, naturalmente, mescola i due stili, come fa la maggior parte dei suoi successori. (ibid. : 110-1). Posto così lo sfondo della questione estetica generale dalla quale emerge il problema del punto di vista, Friedman ripercorre le tappe della storia esplicita della nozione, problema narrativo per James e strum ento analitico per i critici che dopo di lui l ’hanno discussa.19 La classificazione, che allinea otto tipi di trattam ento del punto di vista, occupa la seconda parte del saggio. I tipi descritti hanno fra loro relazioni che dipendono da quattro domande preliminari che concernono il narratore della storia:

19. Vedi la ricca bibliografia, dagli anni '20 agli anni ’50, contenuta nelle note da 9 a 16 del saggio.

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1) Chi parla al lettore? (autore in terza o in prima persona, personaggio in prima persona, o visibilmente nessuno); 2) Da quale posizione (angolo) rispetto alla storia egli la racconta: (dall’alto, dalla periferia, dal centro, di fronte o da una posizione variabile); 3) Quali canali di informazione usa il narratore per veicolare la sua storia al lettore? (parole dell’autore, pensieri, percezioni, sentimenti; o parole e azioni del personaggio; o pensieri, percezioni e sentimenti del personaggio: attraverso quale di questi, o quale combinazione di questi tre possibili mezzi, giunge l’informazione circa gli stati mentali, l’ambientazione, la situazione e il personaggio?); e 4) A quale distanza il narratore pone il lettore dalla storia? (vicino, lontano, a distanza variabile). (ibid. : 118).20

Mi fermerò brevem ente su due precisazioni, prima di introdurre la classificazione di Friedman: a) le varie modalità narrative descritte sono allineate sulla base della presenza del narratore nella storia: dalla più invadente a quella nella quale il narratore sembra del tutto cancellato. Il criterio in base al quale Friedman stabilisce la presenza del narratore nella storia e la distanza del narratore rispetto alla storia sembra essere soprattutto quello della maggiore o minore tendenza, nel romanzo, ad utilizzare lo showing o il telling (più la storia sarà mostrata, cioè direttam ente presentata con modalità drammatica, meno si sentirà la presènza del narratore, e più ravvicinata sarà la distanza; il contrario avverrà, naturalm ente, con la prevalenza del telling, cioè del discorso narrativo espositivo).21 La discriminante showing / telling è messa in relazione con una serie di opposizioni che sembrano ad essa parallele, ma che non sono del tu tto omologhe: esposizioneIpresentazione, asserzione (statement) / inferenza, narrazione I dramma, esplicito ¡implicito, idea ¡immagine, sommario ! scena. 20. A proposito di queste quattro domande preliminari, commenta Segre: « Il più precario mi pare il punto 4, che non può non essere simmetrico al punto 2, dato che il ricevente è condizionato dalla qualità del messaggio. Q uanto alle altre tre domande, si ha l ’impressione che la terza comprenda in sé la prima (i « mediatori » tra autore e lettore sono considerabili alla stessa stregua di fonti d’informazione) e non possa essere nettamente disgiunta dalla seconda, perché l’angolo di osservazione è anche determinato dal canale scelto ». (Segre 1984: 88). 21. Booth (1961b) critica a fondo le categorie showing vs telling (vedi 2.1.8.). Le riserve del critico americano sono riprese da Genette, il quale argomenta che la sola mimesi narrativa possibile è, al più, una illusione di mimesi, poiché « la narrazione, orale o scritta, è un fatto di linguaggio, e il linguaggio significa senza im itare» (1972: 185). Su questa base, G enette propone l’opposizione tra racconto di avvenimenti e racconto di parole.

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b) va spiegata la differenziazione (implicita, ma rilevabile) tra Autore e N arratore nel saggio di Friedman: il termine Autore ha diritto di cittadinanza solo nei primi due tipi (quelli dell’onniscienza), per i quali si può più propriamente parlare di una fonte narrativa che coincide (o sembra coincidere), per i tratti (psicologici, assiologici, culturali) manifestati, con la personalità nota dell’autore anagrafico (vedi il già rilevato ravvicinamento ‘ della distanza tra Tolstoj e il narratore di Guerra e pace). Negli altri casi, a partire dal terzo ( « i o » testim one»), Friedman parla di narratore, poiché a partire da questa modalità, e procedendo nella scala di cancellazione della intrusione che Friedman delinea, l ’autore « cede completamente il compito della narrazione a un altro ». Veniamo, a questo punto, alla classificazione di Friedman, che ritengo opportuno presentare quasi senza commenti, e proponendo piuttosto la traduzione di ampi brani del saggio, non accessibile in italiano. 1. Onniscienza dell’Autore Il critico innanzitutto espone e diversifica i procedimenti del sommario e della scena: nella distinzione, egli afferma, la presenza del dialogo non è la sola discriminante, e neanche il fattore cruciale. Vediamo gli esempi prodotti, e la loro discussione che conduce alla descrizione della «onniscienza dell’au to re» : Butler [...] ci dà un esempio di narrazione attraverso puro sommario: « Il vecchio Mr. Pontifex si era sposato nell’anno 1750, ma per quindici anni sua moglie non aveva avuto bambini. Alla fine di quel periodo Mrs. Pontifex sbalordì l’intero villaggio mostrando segni inequivocabili di essere pronta a regalare al marito un erede, maschio o femmina. Il suo era stato per molto tempo considerato un caso disperato, e quando, consultando il dottore circa il significato di certi sintomi, ella venne informata deh loro senso, si arrabbiò moltissimo e insultò il dottore senza giri di parole per le sciocchezze che diceva » (inizio del Gap. II). Notate che in questo brano, nonostante la data specifica (1765), quello che domina è il tono del narratore, piuttosto che l’evento stesso — « segni inequivocabili », « certi sintomi », ecc., rivelano il piacere che desta in Overton l’ironia della situazione piuttosto che la situazione stessa.22 L’aspetto di Mrs. Pontifex non ci 22. Il romanzo è Così muore la carne (The Way of A ll Flesh, 1903). Overton è il narratore. Il brano hemingwayano citato più sotto è l ’incipit del racconto « Tre giorni di burrasca » (« The Three-Day Blow », 1925).

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viene mostrato direttamente (anche se naturalmente possiamo inferirne il profilo), né ci viene mostrata la sua visita al dottore, o le sue parole di ira e di insulto, e così via. Per un esempio di scena immediata, tanto vale scegliere il più ovvio, cioè Hemingway, che ne è maestro: « La pioggia cessò come Nick svoltò nella strada che saliva attraverso il frutteto. La frutta era stata raccolta, e il vento autunnale soffiava attraverso gli alberi nudi. Nick si fermò e raccolse una mela Wagner al lato della strada, lucente nell’erba bruna di pioggia. Mise la mela nella tasca del suo impermeabile Mackinaw ». Qui, anche se nessuno ha parlato fino a questo momento, abbiamo la presentazione del particolare sensibile, tipica di Hemingway: ambientazione (tempo: pioggia, vento; sfondo: strada, alberi, mela, erba), azione (Nick svoltò, si fermò, raccolse, mise), e personaggio (Nick e il suo impermeabile. Mackinow). Domina l’evento, piuttosto che l’esplicito atteggiamento del narratore. Queste modalità di resa, la prima di seconda mano e indiretta, la seconda immediata e diretta, raramente si presentano in forma pura. Anzi, il maggior pregio del mezzo narrativo è la sua infinita flessibilità, che ora si allarga nel dettaglio vivido, ora si contrae nell’economia del sommario; tuttavia, si può azzardare l’affermazione generale e generica che la. narrativa moderna è caratterizzata dalla accentuazione della modalità scenica (nella mente o nel discorso e nell’azione), mentre la narrativa convenzionale è caratterizzata dalla accentuazione della modalità del sommario. Ma anche la più riassuntiva delle narrazioni porterà incorporati accenni e suggerimenti di scene, e anche le scene più concrete richiederanno l’esposizione di materiale riassuntivo. La tendenza, in ogni modo, nella Onniscienza dell’Autore è quella di allontanarsi dalla scena, poiché è la voce dell’autore che domina il materiale, parlando spesso come « io » o « noi ». In questa sede « onniscienza » significa letteralmente un punto di vista del tutto illimitato e difficile da controllare. La storia può essere contemplata da qualsiasi angolatura, o da tutte le angolature indifferentemente: da una posizione privilegiata pressoché divina, oltre il tempo e lo spazio, dal centro, dalla periferia, dal cospetto. Nulla impedisce all’autore di scegliere una qualsiasi di queste angolature, o di spostarsi dall’una all’altra tutte le volte, poche o molte, che lo vorrà. Il lettore, correlativamente, ha accesso alla gamma completa di tutti i possibili tipi di informazione, posto che il tratto distintivo di questa categoria sono i pensieri, i sentimenti e le percezioni dello stesso autore; egli è libero di informarci non solo delle idee e delle emozioni che sono nella mente dei personaggi, ma anche delle sue. Quindi, il tratto caratteristico della Onniscienza dell’Autore è la presenza delle intrusioni autoriali e delle osservazioni generali sulla vita, i costumi e la moralità, che possono essere o non essere in relazione esplicita con la storia presente. Così, ad esempio, Fielding in Tom Jones e Tolstoj

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in Guerra e Pace hanno inserito i loto saggi facendone dei capitoli separati all’interno dell’opera, e che per ciò sono facilmente isolabili. Hardy, al contrario, non fa una simile distinzione formale, e piuttosto inserisce i commenti qua e là nel mezzo dell’azione, quando gli sembra opportuno. [...] In ■pgni modo, conseguenza naturale dell’atteggiamento d’autore è che l’autore non si limiterà a riferire ciò che avviene nella mente dei personaggi, ma potrà anche criticarlo. (ibid.: 120-1, 122). 2. Onniscienza neutra L ’onniscienza neutra, sostiene Friedman, differisce dal tipo precedente solo perché in questa modalità sono assenti le intrusioni dirette dell’autore. È vero, tuttavia, che L’assenza di intrusioni non comporta [...] che l’autore necessariamente neghi a se stesso una voce usando la cornice dell’onniscenza neutra; persone come Mark Rampion e Philip Quarles in Point Counter Point sono ovviamente proiezioni di qualcuno degli atteggiamenti dello stesso Huxley (a quel tempo), come sappiamo da prove esterne, anche se Huxley non fa mai sentire la sua voce come quella dell’autore.

[ ...]

Infine, dal momento che è possibile usare sia la narrazione attraverso sommario che la scena immediata (quest’ultima soprattutto per azioni e conversazioni viste dall’esterno), la distanza fra la storia e il lettore può essere vicina o lontana, e può cambiare a piacimento, spesso capricciosamente e senza un disegno evidente. La caratteristica più evidente dell’onniscienza, tuttavia, è che l’autore è sempre pronto a intervenire frapponendosi fra il lettore e la storia, e che anche quando dispone una scena, la rende come la vede lui piuttosto che come la vedono i suoi personaggi, (ibid.: 123-4). 3. L ’« io » testimone oculare Il terzo tipo registra il passaggio della responsabilità narrativa dall’autore ad un narratore: Il nostro cammino verso la presentazione diretta traccia il percorso della resa; a uno a uno, così come si pelano gli anelli concentrici di una cipolla, cadono i canali di informazione dell’autore e i suoi possibili punti di vantaggio. Così come si era precluso il commento personale passando dalla Onniscienza dell’Autore all’Onniscienza Neutra, spostandosi verso la categoria dell’« io » Testimone Oculare, egli cede

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completamente il suo compito ad un altro. Nonostante il narratore sia una creazione dell’autore, a quest’ultimo è preclusa d’ora in poi la possibilità di intervenire direttamente con la sua voce nella vicenda. (ibid.: 125). I l narratore-testimone è un: personaggio nella storia, più o meno impegnato nell’azione, più o meno a conoscenza dei fatti e dei personaggi principali, e parla al lettore in prima persona. Egli, ovviamente, non ha alcun accesso superumano agli stati mentali dei personaggi: può raccontare al lettore solo ciò che legittimamente è in grado di scoprire in quanto osservatore: Il lettore ha a sua disposizione solo i pensieri, i sentimenti e le percezioni del narratore-testimone; egli dunque vede la storia da una prospettiva che si può indicare come periferia vagante. Ciò che il testimone può trasmettere legittimamente al lettore non è così limitato come potrebbe sembrare: egli può parlare con vari personaggi della storia e così conoscere la loro opinione su fatti importanti (vedi l’impegno di Conrad e di Fitzgerald nel curare la caratterizzazione di Marlow e di Carraway come uomini con i quali gli altri si sentono portati a confidarsi); in particolare, egli può avere scambi con il protagonista stesso; e infine, egli può procurarsi lettere, diari e altri scritti che facciano intravedere gli stati mentali degli altri. Al limite es'tremo della sua portata, può tracciare inferenze circa i sentimenti e i pensieri degli altri. [...] Dal momento che il narratore-testimone può in qualsiasi momento riassumere la narrazione oppure presentare una scena, la distanza fra il lettore e la storia può essere sia lontana che vicina o l’uno e l’altro. Si può aggiungere che le scene di solito sono presentate direttamente come il testimone le vede. (ibid.: 125-6). 4. L ’« io » protagonista Con il trasferirsi del compito narrativo da un testimone a uno dei personaggi principali, che racconta la propria storia in prima persona, cadono alcuni altri canali di informazione e si perdono altri punti di vantaggio. A causa del suo ruolo subordinato nella storia, il narratoretestimone ha una mobilità molto maggiore e conseguentemente ha una gamma e una varietà di fonti di informazione più ampia del protagonista, che è coinvolto al centro dell’azione. Il narratore-protagonista, dunque, è quasi completamente limitato ai suoi pensieri, ai suoi sentimenti e alle sue percezioni. Così, l’angolo di percezione è quello del centro fisso.

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E dal momento che il narratore-protagonista può riassumere o presentare direttamente proprio come il testimone, la distanza può essere vicina o lontana, o l’uno e l’altro. Uno dei migliori esempi di questa modalità è quello di Grandi speranze. (ibid.: 126-7). 5. Onniscienza selettiva multipla Nonostante il fatto che sia la modalità dell’« io » Testimone che quella dell’« io » Protagonista sono limitate alla mente del narratore, c’è ancora qualcuno che parla, qualcuno ancora che narra. Il passo successivo verso l’oggettivazione del materiale della storia è l’eliminazione non solo dell’autore, che è sparito con la struttura dell’« io » Testimone, ma anche di un qualsiasi narratore. Qui il lettore visibilmente non ascolta la voce di nessuno; la storia viene direttamente attraverso la mente dei personaggi, con le tracce che imprime in essa. Di conseguenza, la narrazione tende ad essere completamente scenica, sia dentro la mente che all’esterno, per quanto concerne discorsi e azioni; la narrazione attraverso sommario, se esiste, è fornita con discrezione dall’autore sotto forma di « didascalie » oppure emerge attraverso i pensieri e le parole degli stessi personaggi. L’aspetto dei personaggi, ciò che essi fanno e dicono, l’ambientazione — e dunque tutti i materiali della storia — possono essere trasmessi al lettore solo attraverso la mente di qualcuno dei presenti. Così sono resi l’età e l’aspetto di Mrs. Ramsay in Gita al faro di Virginia Woolf: « Devono trovare una via d’uscita. Deve esserci un modo più semplice, meno laborioso, ella sospirò. Quando guardò nello specchio e si vide i capelli grigi, le guance infossate, a cinquant’anni, pensò, forse avrebbe potuto cavarsela meglio — suo marito, il denaro, il suo libro ». Ci si può chiedere in che cosa esattamente questa modalità di presentazione, nella quale l’autore ci mostra l’interiorità dei personaggi, differisca dalla onniscienza normale, in cui l’autore scruta dentro la mente dei personaggi e ci dice quello che vi accade. La differenza sta principalmente nel fatto che la prima modalità rende i pensieri, le percezioni e i sentimenti così come essi si presentano sequenzialmente e dettagliatamente man mano che attraversano la mente (scena), mentre la seconda li riassume e li spiega dopo che essi si sono manifestati (narrazione), (ibid.: 127-8). 6. Onniscienza selettiva La differenza con la categoria precedente è che qui il lettore può avere accesso alla mente di un solo personaggio; l ’esempio prodotto da Friedman è quello del Kitratto dell’artista da giovane di Joyce.

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7. La modalità drammatica Dopo aver eliminato l’autore, e in seguito il narratore, siamo ora pronti ad eliminare del tutto gli stati mentali. Le informazioni a disposizione del lettore nella modalità drammatica sono quasi completamente limitate a quello che i personaggi fanno e dicono; il loro aspetto e l’ambientazione possono essere fornite dall’autore come nelle didascalie; tuttavia, non vi è mai alcuna indicazione diretta di ciò che èssi percepiscono (un personaggio può guardare fuori dalla finestra — un’azione oggettiva — ma ciò che egli vede è affar suo), ciò che essi pensano o sentono. Questo naturalmente non vuol dire che gli stati mentali non possano essere inferiti dall’azione e dal dialogo. Abbiamo qui, in effetti, un dramma disposto nella forma tipografica del romanzo. Ma vi è qualche differenza: il romanzo è fatto per la lettura, il dramma per essere visto e ascoltato, e dunque vi sarà una correlativa differenza di portata, di ambito, di scorrevolezza e di sottigliezza. L’analogia, tuttavia regge abbastanza bene, nel senso che il lettore apparentemente non ascolta nessun altro che i personaggi, che si muovono come su un palcoscenico; il suo angolo visuale è frontale e fisso (terza fila al centro), e la distanza deve sempre essere ravvicinata (dal momento che la presentazione è completamente scenica). (ibid 129-30). 8. La macchina da presa L ’ultimo tipo propone la più totale esclusione di un autore (o di un narratore): lo scopo, e l’effetto, sono di trasm ettere senza alcuna apparente selezione né organizzazione del materiale una « fetta di vita » come si presenterebbe davanti ad un obiettivo fisso che la registri. Discutendo quest’ultima modalità^ Friedman azzarda una valutazione negativa della totale cancellazione della voce e della persona del n arratore:23 Forse, tuttavia, con la cancellazione definitiva dell’autore, anche il romanzo come arte si estinguerà, poiché quest’arte, se da un lato richiede una qualche misura di vivezza ed oggettività, dall’altro, pare a me, richiede anche una struttura, il prodotto di una intelligenza ordinatrice implicita nella narrazione e che dia forma ai materiali in modo da suscitare le attese del lettore circa il probabile corso di eventi, da bloccare queste attese con un corso di eventi contrario che sia ugualmente

23. Sappiamo bene, d’altra parte, che questa voce e questa persona non possono cancellarsi del tutto. Possono solo simulare di farlo.

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probabile, e infine da allentare queste attese in modo che il risultato finale appaia in fin dei conti necessario. Questa affermazione non deve essere scambiata per una perorazione del ritorno a quei romanzi nei quali « succede qualcosa », nel senso dell’azione melodrammatica; « eventi » sono, come ho sostenuto prima, gli stati mentali e anche ciò che è propriamente azione, e uno scrittore — come la Woolf, ad esempio — può acquisire infinita sottigliezza in materia senza abbandonare del tutto la struttura. Sostenere che la funzione della letteratura è quella di trasmettere senza alterazioni una fetta di vita, significa non comprendere la natura fondamentale del linguaggio stesso: l’atto stesso della scrittura è un processo di astrazione, di selezione, di omissione e di disposizione. E perché, in fin dei conti, dovremmo ricorrere ad un romanzo per avere una fetta di vita quando possiamo averne una molto più vivida, e viverla in prima persona, al più vicino angolo di strada? [ibid.: 130-1). Con Friedman e con il suo saggio ci troviamo di fronte all'ultima influente voce concorde sulla rilevanza della questione del punto di vista almeno per quanto concerne la narrativa contemporanea. L ’autore del quale mi occuperò nel prossimo paragrafo, il critico americano W . C. Booth, infatti, muovendo una critica massiccia al principio del punto di vista e alla distinzione showing vs telling, e soprattutto discutendo a fondo l ’atteggiamento prescrittivo che a suo avviso avrebbe im prontato il dibattito a partire da Lubbock, provocherà la dissoluzione della categoria critica che per oltre quarantanni, a torto o a ragione, aveva im prontato di sé la narratologia anglosassone. A partire dall’autorevole rifiuto di Booth, infatti, sarà difficile parlare ancora di tecniche del punto di vista ristretto senza perlomeno avanzare cautele che limitino la portata e la rilevanza della nozione. Il grande dibattito, che aveva certamente conosciuto punte di entusiasmo eccessivo, ma che aveva in compenso consentito la nascita e lo sviluppo di una impegnativa e compatta riflessione teorica sul romanzo, veniva privato del tema che più di ogni altro lo aveva reso vivace e interessante. È un fenomeno non infrequente nella storia della critica che opere p u r rilevanti possano segnare una battuta di arresto nella ricerca: il libro di Booth, letto soprattutto nei suoi risvolti polemici, ha provocato l ’atrofizzarsi precoce di un tema narratologico che meritava di essere considerato ancora con attenzione. Sicuramente, la questione del punto di vista esigeva un rinnovamento alla luce delle metodologie semiologiche che esso in parte precorreva e alla luce degli apporti teorici, ormai noti negli anni sessanta, degli studiosi russi. Ma l’innesto, solo

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parzialmente tentato da Genette, avrebbe dovuto attuarsi per tempo e in profondità perché il patrimonio di discussione ne risultasse rivitalizzato ed accresciuto. 2.1.8. W . C. Booth: la visione etica L ’autore ... crea una im m agin e di se stesso e una im m agin e del suo lettore; costru en do i l suo secon d o io egli costruisce il su o lettore, e la lettu ra più riuscita è qu ella in cui le person e costruite di autore e lettore raggiungo n o u n co m p leto accordo. W . C. B ooth

Costruendo la sua ampia teoria del romanzo, che rappresenta un episodio assai rilevante della narratologia anglosassone, Booth demolisce per via le categorie teoriche che per decenni hanno dominato, soprattutto negli Stati Uniti, non soltanto il discorso sul romanzo ma anche la scrittura di romanzi. Il libro di Booth ( 196lb ) è u n ’opera fortemente determinata da una visione etica dell’arte: ciò che interessa a Booth è studiare il rapporto dell’autore (autore implicito, come vedremo) con il lettore, e descrivere l ’insieme di espedienti attraverso i quali i grandi narratori della storia del romanzo hanno scelto di trasm ettere i loro messaggi per far sì che il lettore giungesse a condividere il loro sistema di valori. L ’insieme delle tecniche il cui impiego ha come finalità un tale effetto di persuasione è ciò che Booth indica come retorica della narrativa. Una tale impostazione del problema narrativo doveva necessariamente bandire come inadeguata la categoria di punto di vista (e la distinzione showing vs telling sulla quale questa si innesta), in quanto capace di illuminare « soltanto » il rapporto interno^ fra il narratore e i materiali della storia.24 Il primo obiettivo era 24. In realtà, il rapporto tra il narratore e i materiali della storia non può che riverberare sul destinatario esterno; e d ’altra parte, come afferma Genette, non è possibile spingere il rifiuto del referente fino al punto da fìngere di ignorare che la narrazione viene, in ultima analisi, dall’autore (1972: 259). Inoltre, neanche la funzione indicata da Booth come « autore implicito » è l’autore anagrafico, ma piuttosto una emanazione discorsivo-assiologica di quest’ultimo. Non si capisce, dunque, fino in fondo quale sia il vero luogo a contendere della discussione di Booth, a parte •— come vedremo nel seguito di questo capitolo ■— l’affermazione della necessità di chiamare in causa l ’assiologia dell’autore. Per il resto, ciò che Booth indica come « retorica » era stato per il Beach il « metodo » e fino a Schorer la « tecnica ».

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dunque quello di smontare le teorie della « scomparsa dell’autore » che, almeno lim itatam ente alla discussione sulla narrativa post-flaubertiana, avevano tenuto il terreno narratologico a partire da Lubbock, e di restituire la responsabilità narrativa all’autore (con le precisazioni che vedremo), em ittente e organizzatore unico del testo del romanzo, anche nei casi in cui simula di cancellarsi dietro la visione di uno dei personaggi. E poiché non esistono manifestazioni narrative che possano dirsi del tu tto « pure » (e cioè del tutto spersonalizzate e prive di commento), la distinzione showìng vs telling è, secondo Booth, inadeguata (cioè: se non esiste narrativa senza autore, tutta la narrativa è in qualche misura telling). D unque, piuttosto che tentare classificazioni di varie modalità di manifestazione del punto di vista, occorre tentare una classificazione delle molte voci dell’autore, i cui effetti sono troppo sottili e differenziati perché se ne possa rendere conto sulla base della distinzione tra showing e telling. Sulla classificazione delle voci dell’autore mi fermerò più tardi; per ora, cerchiamo di vedere sulla base di quali argomenti Booth smantella la distinzione- showing vs telling, o perloméno discute l ’u tilità della sua applicazione. a) l’argomento della normatività: piuttosto che un attacco diretto alle categorie narratologiche che fanno riferimento all’oggettività della narrazione, è una critica a fondo dell’atteggiamento teorico con il quale, secondo Booth, queste categorie sono state trattate a partire da Lubbock. Booth non nega, infatti, che nella narrativa contemporanea esista una tendenza alla cancellazione dell’autore (o piuttosto ad una simulazione di tale effetto); invece, come ho già detto, discute a fondo il fatto che il principio dell’oggettività (lo showing, per intenderci) da categoria descrittiva sia diventato categoria prescrittiva: per il romanziere contemporaneo, e per il critico che lo analizza, quello della spersonalizzazione della narrazione è diventato un obiettivo da raggiungere a tu tti i costi. O ltretutto, osserva Booth, che la cancellazione dell’autore sia diventata una imprescindibile necessità è dovuto ad una lettura scorretta dei suoi ormai mitici propugnatori: Flaubert e James. Il processo di riduzione critica al quale, a partire da Lubbock e per il tram ite di Beach, i problemi del romanzo sono stati sottoposti, avrebbe infatti semplificato e irrigidito enormemente quelli che sia per Flaubert che per James erano criteri molto flessibili, schematizzandoli ed erigendoli a precetti assoluti:

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Sfortunatamente, non soltanto nei manuali commerciali la tecnica è stata ridotta al problema di come liberarsi di un commento che è cattivo per definizione. In seri libri di testo scolastici si è subito trovata, e si trova tuttora, la distinzione showìng-telling presentata come chiave affidabile della meravigliosa superiorità della narrativa moderna. (Booth 1961b: 26). [...] Siamo di fronte ad una realtà così semplice e -sconcertante come talvolta hanno sostenuto i campioni dello showingì È sensato, in ultima analisi, stabilire due modi di trasmettere una storia, uno tutto buono e l ’altro tutto cattivo; una tutto arte e forma, l’altro tutto goffaggine e non-pertinenza; uno tutto showing e resa diretta e dramma, l’altro tutto telling e soggettività, tutto prediche e inerzia? (ibid. : 28). [...] Le definizioni sono descrittive o normative. Se esse servono solo a descrivere, allora non offrono alcuna base per condannare un’opera per il solo fatto che essa non entra nella categoria descritta. Se sono apertamente normative, allora naturalmente nasce il problema di fornire innanzitutto motivazioni per i criteri scelti e per il fatto che essi debbano applicarsi a tutti gli oggetti chiamati romanzi. (ibid.: 31). [...] A questo punto, a metà del ventesimo secolo, possiamo constatare in fin dei conti quanto sia facile scrivere una storia che si racconti da sé, purgata di ogni intrusione dell’autore, mostrata con un trattamento coerente del punto di vista. Anche a narratori privi di talento si può insegnare ad osservare questa quarta « unità ». Ma ormai sappiamo anche che essi in questo processo non necessariamente hanno imparato a scrivere dei buoni romanzi. Se sanno solo questo, sapranno scrivere romanzi dall’aria moderna — forse più « vetero-moderna » che modernissima, ma tuttavia moderna. Quello che devono ancora imparare, se sanno soltanto questo, è l’arte di scegliere quali elementi drammatizzare e quali tagliare del tutto, che cosa riassumere e che cosa espandere. E come ogni arte, questa non può essere imparata con regole astratte, {ibid/. 64). b) l ’argomento della inconsistenza teorica-. Booth, tuttavia, non soltanto denuncia l ’atteggiamento scorretto, perché prescrittivo, che la narratologia anglosassone avrebbe assunto sul problema dell’oggettività; egli sostiene anche l ’inadeguatezza della opposizione showing vs telling che rifiuta, dunque, anche come criterio descrittivo: essa sarebbe inadeguata perché nessuna narrazione è puro showing e tutte in qualche misura (perfino il dramma) fanno uso di telling-, dunque, la linea divisoria tra showing e telling è sempre in qualche misura arbitraria.

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Questo secondo argomento, oltre che di per sé discutibile, è sicuramente capzioso: che la linea divisoria tra showing e telling fosse, piuttosto che arbitraria, assai difficile da tracciare nettam ente, e che in ogni modo di nessuna narrazione si potesse asserire che essa è puro showing, tu tti gli autori influenti che hanno contribuito al dossier sul punto di vista l ’hanno messo in rilievo, in maniera più o meno estesa. I teorici che hanno preceduto Booth, l ’abbiamo visto, erano pienamente consapevoli del fatto che parlare di showing nel romanzo significava affidarsi ad una utile analogia, e che dunque nella narrativa la scomparsa dell’autore ha infinite gradualità di manifestazione, nessuna delle quali può essere indicata come totale. E si può dire qualche parola anche sull’argomento della normatività invocato da Booth: è possibile che esistano divulgazioni e volgarizzazioni del problema che abbiano da un lato rafforzato l’atteggiamento precettistico e dall’altro annullato le sfumature sempre presenti nelle trattazioni dei teorici maggiori: se queste esistono (e si può senz’altro dar fede a ciò che Booth asserisce), esse fanno certamente parte della microstoria del dibattito, e possono convivere accanto alle linee vincenti della teoria come dimostrazione dell’energia di una nozione ostinata; non tanto paradossalmente, dopo tutto, poiché è solo delle nozioni inutili e prive di vitalità che non si attuano volgarizzazioni e non si propongono travisamenti. In ogni modo, gli appelli alla « purezza » narrativa che i critici anglosassoni degli ultim i quarant’anni hanno lanciato in nome della totale scomparsa dell’autore e della incondizionata difesa dello showing e del punto di vista ristretto sono, per Booth, privi di senso; l ’arte « pura », priva di ogni commento e di ogni traccia di presenza dell’autore, non esiste; e per di più, se esistesse, essa sarebbe ben povera cosa. T utte le arti della parola, in realtà, fanno uso di espedienti retorici più o meno espliciti (cioè, più o meno travestiti di oggettività). Con il termine retorica Booth intende, in poesia come nel dramma come nella narrativa, qualsiasi effetto calcolato, non importa come realizzato, attraverso il quale l ’autore raggiunge il lettore aiutandolo a recepire la propria visione e persuadendolo di qualcosa che egli, attraverso la storia o per mezzo di essa, intende asserire.23 Gli elementi « retorici » di u n ’opera letteraria 25. La definizione non è data esplicitamente da Booth: la deduco, semplificando, dalla sua discussione. Mi pare che il termine copra più o meno l ’ambito

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sono dunque, a rigore, quelli che allontanano l ’opera da una •—■ astratta — definizione di purezza (cioè: rappresentazione attraverso correlativi oggettivi, cancellazione di qualsiasi commento, soggettività, ecc.). Essi impongono come essenziale e costantemente rilevabile la presenza dell’autore. Uno scrittore, dunque, non si trova mai a decidere « se usare o no » espedienti retorici; deve piuttosto, sempre, stabilire quali di questi_ espedienti impiegare. c) la nozione d i « autore implicito » e la classificazione delle sue molte voci: contro tu tte le voci che per decenni si erano levate constatando, prescrivendo ed esaltando la scomparsa dell’autore dal testo del romanzo, Booth ne recupera la presenza come elemento essenziale e come tratto ineliminabile dell’arte narrativa. La « persona » delineata dal critico, tuttavia, non è, grossolanamente, quella dell’autore anagrafico: così come è tecnicamente irrilevante parlare della oggettività dell’artista, è un errore dannoso, per Booth, ritenere che un autore effettui intrusioni senza mediazioni, introducendosi nel romanzo con i suoi propri problemi e i suoi propri desideri. La « persona » che parla al lettore de La fiera della vanità (Vanity Fair, 1847-48) non è Thackeray, né quella che parla al lettore di Tom Jones (1749) è Fielding; è, piuttosto, una « versione ufficiale » dell’autore, un « secondo io » al quale l ’autore delega il compito della narrazione; esso esiste come « persona » solo entro il testo di quel romanzo, come insieme di regole che determinano sul lettore effetti calcolati per quel testo. É nei confronti di questa « versione ufficiale », che è sempre fonte della narrazione, anche nei casi in cui finge di occullinai, clic il lettole reagisce mentre legge; è con questo « secondo io » costruito che il lettore entra in contatto, è con questo autore implicito creato ad hoc di volta in volta che egli può dissentire o sentirsi in sintonia. Ma nei grandi romanzi, quelli cioè

che M. Schorer assegna al termine tecnica: « La tecnica è il solo mezzo che egli [lo scrittore] ha a disposizione per scoprire, esplorare, sviluppare il suo tema, per veicolarne il significato e infine per valutarlo »; « ... ogni cosa che non sia semplicemente il cumulo delle esperienze è tecnica, e non si può dire che uno scrittore non ha tecnica, o che egli evita la tecnica poiché, essendo scrittore, non può evitarla»; « L a differenza tra il contenuto, o esperienza, e il contenuto realizzato o arte, è la tecnica». (Schorer, 1948: ora in Stevick, a cura di, 1967: 65-84). ^

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nei quali la tecnica degli effetti retorici è calcolata e impiegata con successo, non vi è disaccordo, poiché L’autore [...] crea una immagine di se stesso e una immagine del suo lettore; costruendo il suo secondo io egli costruisce il suo lettore, e la lettura più riuscita è quella in cui le persone costruite di autore e lettore raggiungono un completo accordo. (Booth 1961b: 138).26 L ’autore implicito non è, dunque, semplicemente — e neanche principalmente — una « persona » di rilevanza tecnica, ma è soprattutto una « persona » di rilevanza morale: [...] l’immagine che il lettore recepisce di questa presenza è uno degli effetti più importanti dell’autóre. Per quanto impersonale egli si sforzi di essere, il lettore si costruirà inevitabilmente una immagine dello scriba ufficiale che scrive in un certo modo — e naturalmente lo scriba ufficiale non sarà mai neutrale nei confronti dei valori che trasmette. Le nostre reazioni alle sue manifestazioni di impegno, segrete o palesi, ci aiuteranno a determinare la nostra risposta nei confronti dell’opera. [ibid.-. 71). Inoltre, l ’autore implicito, in quanto « combinazione ideale di norme » stabilite ad hoc per ciascuna opera, pur non coincidendo con l ’autore reale, ha con questo complessi rapporti, poiché ogni testo costruisce dell’autore reale una diversa « versione ufficiale »: Occorre parlare di varie versioni, poiché indipendentemente da quanto sincero un autore possa cercare di essere, le sue diverse opere com-

26. Osserva giustamente Uspenskij che il disaccordo fra autore e lettore può essere talvolta un effetto calcolato: « Di solito il punto di vista dell’autore è condiviso simultaneamente dal ricevente della descrizione (lettore o spettatore) che si unisce all’autore ed assume insieme con lui diversi punti di vista. Vi sono casi in cui queste due posizioni non concordano, e in cui tale non-concordanza è progettata deliberatamente. In Guerra e pace, nel brano in cui sono riportate le opinioni della società a proposito del divorzio di Helène e Pierre, Tolstoj scrive: Vi erano, in realtà, alcune persone limitate che non riuscivano ad intendere l ’alto livello della questione, e vedevano in questo progetto una dissacrazione della santità del matrimonio, ma erano solo pochi, e tennero la bocca chiusa ». (Uspenskij 1970: 125-6 trad. ingl.) Uspenskij commenta asserendo che qui Tolstoj non esprime la sua opinione, e si allontana dalla posizione che vuole il lettore assuma. D ’altra parte, la posizione di Booth sembra piuttosto semplicistica, alla luce soprattutto degli studi sul narratario e sulla negoziazione del punto di vista (vedi Prince 1973b e Kayser 1965).

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porteranno versioni diverse, differenti combinazioni ideali di norme. Proprio come le nostre lettere personali comportano diverse versioni di noi stessi, a seconda delle diverse relazioni con ognuno dei destinatari e dello scopo di ciascuna lettera, così l’autore si manifesta con connotati differenti a seconda delle esigenze di ogni particolare opera. (ibid.-. 71). L ’autore implicito è una « persona testuale » per noi nuova: la distinzione che mi ero preoccupata di tracciare in 1.4., infatti, era quella fra autore reale e narratore. O ra, il « secondo io » dell ’autore si colloca in qualche modo fra le due-Jrgure da me delineate: in un modello della enunciazione letteraria, esso è certamente interno al testo: è, anzi, descrivibile come l ’insieme delle regole di enunciazione che fanno sì che il testo sia quel testo; esso è, tuttavia, per Booth, una persona diversa dal narratore (può, anzi, avere con quest’ultimo un rapporto ironico, non-sintonico); d ’altra parte, in quanto « doppio orientato » dell’autore reale, è « più esterno » di quanto non lo sia la persona che abbiamo indicato come narratore.27 Vediamo come Booth distingue l ’autore implicito dal narratore: È un fatto curioso che non abbiamo termini per designare questo « secondo io » costruito o la relazione che abbiamo con esso. Nessuno 27. La nozione di « autore implicito » e il chiarimento (che prima di Booth la teoria aveva, a mio avviso, dato per scontato) circa il fatto che questi non coincida con l ’autore anagrafico ma che figuri, invece, come strategia testuale, è da ascriversi senza dubbio a Booth. Anzi, nell’attenzione che il teorico americano pone alla dinamica dei ruoli nell’opera narrativa è certamente la maggiore novità della sua riflessione teorica, che in questo suo risvolto delinea con molto anticipo teorie recentissime della pragmatica narrativa. Si vedano, ad esempio, le nozioni di « autore implicito » in Iser 1972, « sfondo comune di credenze» (di autore e lettore) in van Dijk 1977 e di Lettore Modello in Eco 1979. Tra gli autori citati, soltanto Iser ricorda l’opera di Booth, il che dimostra ulteriormente come il dibattito anglo-americano abbia perso vitalità per il mancato innesto, da parte della narratologia semiologica, dei suoi suggerimenti più vitali in un percorso che pure per molti versi esso aveva aperto. C. Segre, discutendo la nozione di « autore implicito » in Booth, non manca di rilevare il suo carattere in questo senso precorritore: « L ’invenzione dell’autore implicito è risultata di grande utilità descrittiva; presto si è anche intuito che, simmetricamente a lui, esiste un lettore implicito (a sua volta diverso da quello, anzi dalla folla di quelli effettivi) e i cui tratti sono delineati dal tipo di domanda che il testo implica »_ (Segre 1984: 90). Per la verità, anche questa figura simmetrica era stata tratteggiata da Booth: « ... la stessa distinzione bisogna farla fra ine stesso come lettore e 1 io molto spesso diverso che va in giro a pagare conti, a riparare rubinetti che perdono e che manca di generosità e di saggezza. È solo quando leggo che divento l ’io le cui convinzioni devono coincidere con quelle dell’autore » (Booth 1961b: 137-8).

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dei termini con i quali designamo vari aspetti del narratore è abbastanza esatto. « Persona », « maschera » e « narratore » sono i termini talvolta usati, ma di solito essi si riferiscono a colui che parla nella storia, che in fin dei conti non è che uno degli elementi creati dall’autore implicito, e che da questo può essere distanziato per effetto di ampie ironie. Con il termine « narratore » di solito si intende 1’« io » di un romanzo, ma questo « io » non coincide quasi mai con l ’immagine implicita dell’artista. (i b i d 73). In queste annotazioni permane, a mio avviso, qualche equivoco: non è vero, inanzitutto, che con il termine « narratore » si indichi 1’« io » del romanzo, se 1’« io » è inteso, come altrove sembra che Booth intenda, come persona grammaticale (vedi le pp. 150151): il narratore de Gli ambasciatori non dice tipicamente « io » (o lo dice molto di rado, in espressioni come: « ciò di cui ho appena parlato », « il nostro amico », ecc.); è, cioè, per usare un termine di G enette, un narratore eterodiegetico (non ha un ruolo come personaggio nel romanzo); anche se narra attraverso il « riflettore » di Strether, ha caratteristiche sue, che potrebbero essere, e probabilmente sono, quelle che Booth attribuisce all’autore implicito. E che dire, poi, di un narratore come quello di Guerra e pace, al quale Tolstoj impone caratteristiche, soprattu tto assiologiche, che sono molto evidentemente vicine a quelle dell’autore reale? Come distinguere questo narratore eterodiegetico fortemente modellato sull’autore reale dalla figura che Booth delinea come « secondo io » dell’autore? N on è forse quello che abbiamo indicato come narratore, precisando che un em ittente della storia esiste sempre, anche quando simula di cancellarsi, precisamente l’insieme delle regole di enunciazione della storia? Come si vede, la persona dell’autore implicito delineata da Booth, più che un valore tecnico, e una rilevanza linguistica, ha un valore etico: è quell’incommensurabile (tecnicamente) tensione alla proiezione verso l’esterno che serve a Booth per qualificare l ’autore implicito come sistema di valori e come strategia di trasmissione di questi: la stessa « persona », qualificata come narratore, sarebbe capace di illuminare una relazione che al critico non interessa: quella, cioè, tra un em ittente fittizio e il mondo fittizio che egli racconta. D ’altra parte, quando assegnavo al narratore lo statuto di « strategia testuale » intendevo qualcosa di molto simile a ciò che Booth intende caratterizzando il suo autore implicito come « insieme di regole »: rispetto, dunque, alla persona del narratore come è stata da me descritta e discussa in 1.4.,

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sembra che la differenza sia quasi esclusivamente terminologica anche se dettata da una precisa scelta ideologica. Allo stesso modo sembra che intenda la distinzione F. van Rossum Guyon, la quale suggerisce che l ’invenzione dell’autore implicito non sia che una precisazione terminologica, o poco più di questo, e che essa sia servita soprattutto a chiarire una volta per tu tte la distanza che esiste fra l’autore anagrafico e il narratore, comunque quest’ultimo sia caratterizzato. Una conclusione in questi termini è certamente semplificatoria, e non tiene conto di quella che ho indicata come la tensione maggiore del libro di Booth, che è anche quella che ne costituisce la novità di maggior rilievo: l i fatto, cioè, che l ’autore implicito, in quanto insieme di regole o strategia retorica, ha un senso come sistema di valori orientato verso un destinatario. L ’autrice, d ’altra parte, corregge il suo atteggiamento, notando poche righe dopo: Ma, al di là di questa distinzione terminologica, ciò che indubbiamente è più importante per Booth è di reintrodurre l’autore (anche se un autore implicito, sotto forma di un « io secondo ») nell’opera, e di conseguenza nella percezione, che,dell’opera ha il lettore. Questa prima distinzione determina, in effetti, per lui tutte le altre. (F. van Rossum Guyon 1970; 483). Ma anche concedendo all’autore implicito questo valore morale, se dovessimo precisare, sulla base dei chiarimenti che Booth ci offre, le differenti competenze da assegnarsi alle tre persone che risultano em ittenti del testo, ci troveremmo di fronte a qualche sovrapposizione difficile da eliminare:

AUTORE REALE

costruendo la sua immagine implicita, organizza l ’insieme di valori da trasm ettere e stabilisce le regole atte a trasmetterli

AUTORE IM P L IC IT O poiché a ciò delegato dall’autore reale, m ette in atto le regole da questo stabilite, trasmettendo insieme un sistema di valori e una immagine costruita dell’autore reale

NARRATORE

parla

■T"

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Come si vede, la separazione delle competenze fra autore implicito e narratore richiederebbe la presenza di due em ittenti linguistici della storia: come può l’autore implicito trasm ettere il suo sistema di valori se non attraverso il discorso? E d ’altra parte, se la funzione di m ettere in discorso la storia è ascritta al narratore, quale spazio rim arrà all’autore implicito per comunicare la propria immagine? (una simile difficoltà la incontriamo nella distinzione narratore/focalizzatore in Bai 1977; vedi 4.2.3.). Una separazione di questo tipo può forse essere realizzata, e risultare controllabile al livello discorsivo, in una qualche narrazione assai particolare (il romanzo può tutto!); non mi pare, tuttavia, che essa sia rilevabile negli esempi prodotti da Booth (Tom Jones e La fiera della vanità, per citarne solo due); né, d ’altra parte, mi riesce di citare alcun esempio di narratore omo-o eterodiegetico che sia posto a distanza rispetto ad un secondo em ittente (dell’orientamento assiologico) della storia. Per completare la discussione dell’opera di Booth occorre accennare alla classificazione delle voci dell’autore proposta dal critico e alla nozione di distanza da lui form ulata. Occorre notare preliminarmente che quando parla di « voce », Booth non fa riferimento alle peculiarità discorsive manifestate dall’em ittente della storia, come sarà nella formulazione di G enette: la nozione di voce in Booth amalgama in realtà le categorie di « voce » e « modo » come saranno intese in G enette 1972, vedi 3.4.), non escludendo problemi di pertinenza del punto di vista. Inoltre, proponepdo la sua classificazione, Booth precisa che essa è operata a posteriori, su esempi concreti: non vi sono, dunque, regole ma solo « precedènti ». Infine, i vari tipi, o atteggiamenti narrativi, non sono presentati come esclusivi (un narratore « rappresentato » può essere consapevole o meno della propria funzione di narratore, ad esempio). È da notare anche che, dopo aver riproposto la sua definizione di autore implicito, nella classificazione che segue Booth nominerà sempre questa persona come « narratore »: parlerà di « narratore rappresentato », dunque, piuttosto che di « autore implicito rappresentato », come ci si potrebbe aspettare. Il « secondo io » dell’autore nel romanzo può essere presente in due modi fondamentali: 1) narratore non rappresentato (undramatized): è quello che non compare come personaggio nella storia: egli filtra gli avvenimenti e compare nella storia solo come voce,

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senza che le sue caratteristiche personali ci siano date, almeno esplicitamente; 2) narratore rappresentato (dramatized): è il narratore che compare nella storia anche come personaggio, qualunque ne sia il ruolo all’interno della vicenda. Discutendo il narratore rappresentato, Booth osserva che in opere come Tris tram Shandy, Cuore di tenebra, La recherche e Dr. Faustus, « il narratore è spesso radicalmente differente dall’autore implicito che lo crea »’ (Booth 1961b: 152) (ma dove, al livello testuale, si manifesterebbe in queste opere l ’autore implicito se non nel discorso del narratore?). I Una ulteriore distinzione taglia attraverso quella tra osservatori e narratori-attori (i tipi, cioè, non sono esclusivi): esistono narratori autoconsapevoli, consci, cioè, della propria funzione in quanto scrittori e narratori non-autoconsapevoli, che non discutono mai il loro compito di scrittore o sembrano inconsapevoli del fatto che stanno immaginando e /o scrivendo u n ’opera letteraria (Booth incorre qui in un errore indicando come autoconsapevole, nel senso da lui precisato, il narratore de La recherche: Marcel, infatti, parla si di un libro che sta scrivendo, ma questo non coincide con il libro di Proust). La nozione di distanza, certam ente centrale nell’opera di Booth, è vista nei suoi connotati marcatamente morali da C. Segre: In una considerazione etica dell’arte viene particolarmente sollecitata la « distanza estetica », realizzabile come una specie di dialogo implicito fra autore, narratore, personaggi e lettore. Ognuno dei quattro può identificarsi con uno o più degli altri, oppure entrare in opposizione con loro. Booth si limita a censire i casi più notevoli: a) narratore più o meno distanziato dall’autore implicito (si può trattare, come per i casi seguenti, di distanza morale, intellettuale fisica, ecc.); b) narratore più o meno distanziato dai personaggi; c) narratore più o meno distanziato dal lettore (caso notabile quello del Bildungsroman); d) autore implicito distanziato dal lettore; e) autore implicito distanziato dai personaggi. Insomma il punto di vista non ha soltanto, come negli studi citati sinora, un carattere percettivo, ma anche un carattere morale e psicologico; le cose si vedono in modo diverso, oltre che per variare di possibilità ottiche e informative, per dislivelli nella attitudini morali. I problemi di percezione dei fatti investono anche le differenze tra i soggetti umani. Infine, Booth tiene presente la, diciamo così, distanza dalla verità, individuata nei casi estremi di narratori reliable [ affidabili ]\e unreliable

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[non affidabili]. S’intenda che la confidenza di cui i narratori sono o non sono degni va commisurata ai valori di verità impliciti nel mondo narrativo di un dato autore. (Segre 1984: 90-1). Le osservazioni di Segre ci danno modo di precisare ulteriormente lo spostamento dell’attenzione operato da Booth dal punto di vista percettivo al punto di vista morale: quella che per altri teorici sarà sostanzialmente la confusione di due diverse categorie narratologiche, rappresenta invece per Booth una motivata e convinta scelta ideologica.

3. Estensioni e prosecuzioni

3.1. La « s itu a z io n e narrativa »: F. K . Stanzel La tradizione narratologica di lingua tedesca presenta elementi di notevole interesse: essa non costituisce un dossier compatto su un unico problema narrativo, ma documenta al contrario una serie di diramazioni significative, prodotte con regolarità nell ’arco di almeno un secolo, a partire dalla metà dell’O ttocento. A O tto Ludwig (1813-1865), drammaturgo di larga fama che negli ultim i anni della sua vita si era dedicato alla riflessione critica (soprattutto sul teatro shakespeariano), spetta il merito di aver form ulato, con grande anticipo anche rispetto allo stesso James, una distinzione fra diverse forme di romanzo che è in sostanza quella incontrata in pressoché tu tti gli studi angloamericani finora discussi, e che ritroverem o, pressoché intatta, fino agli anni ’70 del nostro secolo: la discriminante è quella platonica fra imitazione e narrazione semplice (vedi in 2.1.7. la discussione che ne fa Friedm an), che Ludwig riformula come narrazione scenica e vera narrazione (in sostanza lo show ing/telling dei teorici americani); a questi due modi fondamentali del racconto Ludwig ne aggiunge un terzo, fatto di una mescolanza fra i primi due e nel quale dunque si fondono presentazione diretta e narrazione « mediata ». Seppure è vero che la distinzione risale a Platone, non è senza peso l ’averla rimessa in circolo per ulteriori riflessioni ed affinamenti (traendola dalla fonte antica o, ciò che è possibile, riformulandola ex novo); e la sua rinnovata fortuna presso i critici m oderni spetta, con ogni probabilità, proprio a Ludwig (1891: 59 sgg.). La formulazione della distinzione tracciata da Ludwig e la nozione di « mediazione » del racconto, sono riprese da F. K. Stanzel nelle prime pagine del suo libro pubblicato nel 1955, lo stesso anno, cioè, nel quale appariva la descrizione tipologica

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di Friedman. Ciò che interessa a Stanzel non è primariamente il problema del punto di vista, e dunque della collocazione spaziale (di prospettiva e distanza) del narratore rispetto alla storia, che è invece l ’interesse principale di Friedman; Stanzel individua una partizione più ampia e generale sulla base del canale (medium) di trasmissione della storia, assumendo la classificazione per tipi come operazione capace di rivelare la « struttura del senso ». Ogni storia, osserva Stanzel, è mediata da un narratore: ed è proprio il tipo di mediazione — e conseguentemente di presentazione — prescelto che definisce la Erzàhlsituation (situazione narrativa) di ogni romanzo. I tipi di situazione narrativa, collegati ad altrettanti tipi di mediazione di presentazione, sono secondo Stanzel tre: 1) mediazione dì autore (die auktoriale Erzàhlsituation), strategia onnisciente nella quale il narratore interviene con i suoi commenti imponendo la propria interpretazione della storia: [...] il lettore in una situazione narrativa percepisce sempre il punto di vista spazio-temporale del narratore, colorato da una interpretazione di autore. La struttura del significato di un romanzo autoriale è dunque costruita soprattutto attraverso riferimenti e relazioni esistenti fra il mondo fittizio e la figura del narratore autoriale, oltre che dalle tensioni conseguenti nei valori, nei guidizi e nei tipi di esperienza. (Stanzel 1955: 28 trad. ingl.). 2) mediazione della prima persona (die Ich Erzàhlsituation), nella quale il tratto distintivo è l ’identità del dominio di esistenza del narratore e del mondo fittizio. A questo proposito, Stanzel avanza una distinzione fra il personaggio narrato e il personaggio narrante (il narratore nella storia e nel discorso); ciò che egli indica come io espediente e io narrante, forma narrativa che ha capacità sia autoriali che figurali: La prostituta, la ladra, « la gentildonna » Moli Flanders è l’io esperiente; la Moli Flanders che narra il suo avventuroso passato con quel peculiare miscuglio di pentimento e di piacere retrospettivo è l’io narratore del romanzo di Defoe. (ibid.: 61). 3) mediazione del personaggio (die personale Erzàhlsituation), la cui strategia di presentazione è la narrazione attraverso la coscienza del personaggio (l’intelligenza centrale di James):

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In uri brano in cui la situazione narrativa sia ' mediata da un personaggio [...] il processo di mediazione può essere analizzato nel modo seguente: lettore (aspettativa) — personaggio del romanzo come mediazione personale (il suo qui-e-ora in un dato momento dell’azione; il mondo fittizio come contenuto della sua coscienza) — lettore (nella sua immaginazione il mondo fittizio si mostra così come risulta riflesso dal personaggio mediatore, insieme con l’impressione che la personalità di questo mediatore imprime sul lettore). (ìbid.\ 29). I tratti distintivi di quest’ultima situazione sono: scomparsa dell’autore; predominio della presentazione scenica; centro di orientamento del lettore posto nel qui-e-ora di uno dei personaggi del romanzo o di un osservatore immaginario sulla scena dell’azione; e la possibilità di dare al passato remoto epico il valore immaginativo del presente. (i b i d 92). j Occorre notare che la tipologia di Stanzel allinea nelle tre categorie discusse i tre tipi principali di situazione narrativa (il critico vede incarnati questi tipi in tre romanzi che analizza nel corso del libro: Tom Jones, M oby Dick e Gli ambasciatori). La tipologia è tuttavia intesa come una matrice dalla quale si generano situazioni narrative che possono discostarsi dai tipi principali. Stanzel spazializza le situazioni narrative entro un cerchio, visualizzandone così la rispettiva posizione: m ed iazio n e di autore

m ed iazio n e d ella 1a persona

m ed iazio n e d el personaggio

e commenta così lo schema: Questo cerchio tipologico contiene i tre principali tipi di romanzo spaziati a intervalli uguali; il loro rapporto è simile a quello che intendeva illustrare Goethe sistemando i « modi della poesia » in un cerchio dei generi. Fra i poli del romanzo di autore, del romanzo in prima persona e del romanzo con mediazione del personaggio tutte le forme narrative che da questi evolvono possono essere dislocate in modo tale che l’aspetto strutturalmente determinante della lóro situazione narrativa possa essere definito dalla loro reciproca posizione sul cerchio tipologico, cioè a dire dalla distanza che li separa dai due poli con-

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tigui. In un romanzo con mediazione di autore la situazione narrativa tipica può essere modificata dall’emergenza di un legame personale fra l’autore-mediatore e il mondo fittizio. L’autore, per esempio, può citare un personaggio del romanzo come suo immediato informatore. Non appena ha luogo questa modificazione, la collocazione di questo romanzo nel cerchio tipologico può essere ancora posta nella immediata prossimità del polo autoriale, ma spostata nella direzione del romanzo in prima persona. Questo spostamento riflette il fatto che il polo della prima persona designa una situazione narrativa in cui il narratore si trova completamente all’interno del dominio del mondo fittizio. Se ci muoviamo dal romanzo in prima persona nella direzione del romanzo autoriale, d’altra parte, si possono sistemare quei romanzi in prima persona nei quali l’atto stesso di narrare viene esplicitamente designato, poiché al polo autoriale l’atto narrativo è enunciato molto chiaramente. Più dettagliata è la presentazione dell’io narrante, più il romanzo in prima persona si avvicinerà al polo del romanzo autoriale. Dal lato opposto del polo della prima persona, nella direzione del romanzo con mediazione del personaggio, l’allusione all’atto del narrare sparisce sullo sfondo. La forma limite sarebbe un romanzo in prima persona consistente in un unico monologo interiore. Il punto di transizione fra il monologo interiore e il monologo narrato — tecniche che differiscono solo per l’uso del riferimento in prima o terza persona — marca il confine fra il romanzo in prima persona e il romanzo con mediazione di personaggio. L’anello tipologico può dunque chiudersi fra i poli figurale e autoriale se si aggiunge la serie continua di quelle forme narrative in cui l’autore riemerge gradualmente in persona. In ultima analisi ciò riconduce la situazione narrativa del romanzo figurale a quella del romanzo autoriale. (i b i d 165-6). Anche se la trattazione di Stanzel è centrata sulla definizione e descrizione della' tipologia delle situazioni narrative (ed è facile vedere che se il cerchio tipologico fosse riem pito avremmo molte più situazioni di quante non ne abbiamo nel saggio di Friedman), il teorico nota la ovvia connessione fra la definizione della situazione narrativa e la scelta del punto di vista: Gli esponenti della presentazione prevalentemente scenica richiedono spesso una fissazione rigorosa e coerente del punto di osservazione, e di conseguenza anche della prospettiva e della sfera di osservazione. Nel romanzo con mediazione del personaggio un mutamento del punto di vista dal quale il mondo fittizio è osservato implica un cambiamento del personaggio mediatore. L’unicità del personaggio mediatore e quindi del punto di vista lungo tutto il romanzo rappresenta in un certo senso il caso ideale [...] Nel romanzo con mediazione di autore un uso così rigoroso del punto di vista non si giustifica ... {ibid.: 53).

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Parallelamente ai tipi — principali e interm edi — di situazioni narrative possiamo così immaginare — anche se Stanzel non ce lo dice esplicitamente — di disporre sul cerchio i tipi di fecalizzazione che a quelle situazioni narrative corrispondono: sovrapposta al « romanzo autoriale » troveremo così la « onniscienza d ’autore » di Friedm an; e disporremo sulla destra, man mano che ci si avvicina alla situazione del « romanzo figurale » (grosso modo il « riflettore », singolo o multiplo, di James), i vari tipi di onniscienza, semplice o selettiva (prodotta, cioè, da narratori onniscienti ma non invadenti — sul modello, ad esempio, dei narratori di Lawrence — e poi via via da narratori con virtualità di onniscienza ma sempre più cancellati, e che sempre più si lasciano sopraffare nel flusso della narrazione lasciando che si aprano squarci di monologo interiore provenienti « direttam ente » dalla mente dei personaggi). Procedendo invece dal romanzo autoriale al romanzo in prima persona, disporremo sulla sinistra tipi di fecalizzazione ordinati sulla base della maggiore o minore assimilazione del narratore al dominio del mondo fittizio narrato, dai narratori di secondo o di terzo grado (che raccdntano « per sentito dire », non legati dunque direttam ente al mondo fittizio, ma a questo connessi da un tram ite che può a sua volta essere estraneo all’universo della storia) fin forse al narratore-protagonista del romanzo epistolare sul modello di Pamela, che non soltanto è del tutto assimilato entro il mondo fittizio, ma che spesso narra « in presa diretta », con assimilazione del tempo della storia al tempo del racconto. La zona intermedia sarà riempita da testimoni oculari a vario titolo coinvolti, e cioè più o meno periferici (vedi il Dowell di 11 buon soldato) fino all’io protagonista della autobiografia. Questa operazione di riempimento ci porta a rilevare una curiosa lacuna nella tipologia di Stanzel, la quale non consente di collocare nella spazializzazione proposta tu tte quelle situazioni narrative nelle quali la strategia di narrazione consiste nel fingere l ’assenza del narratore (o comunque le situazioni di narrazione in terza persona nelle 'quali il narratore non è onnisciente e ne sa addirittura meno del personaggio narrato: da Hemingway a Dashiell H am m ett fino alla école du regard). Al polo opposto rispetto al « romanzo autoriale », dunque, manca ciò che si potrebbe indicare come « situazione narrativa con simulazione di assenza del narrato re» , una situazione c h e ^ u r e Stanzel discute in qualche punto del suo lavoro sotto l ’etichetta dell’obiettività (vedi, ad esempio, ibid.: 21).

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Sui rapporti fra mediazione e punto di vista Stanzel ritorna in un suo recente lavoro (1979), che rappresenta una vigorosa messa a punto di molte categorie narratologiche, ma che a proposito del punto di vista non elabora novità di rilievo. Come molti altri teorici, Stanzel nota la confusione che regna in quasi tu tti i lavori a proposito del termine punto di vista, e cioè l ’indecisione sui due sensi: « atteggiamento di fronte ad un problema » e « luogo di osservazione dal quale una storia è narrata oppure l ’avvenimento di una storia è narrato da una figura del racconto » (Stanzel 1979: 21). Stanzel distingue tre costituenti della narrazione: persona, modo e prospettiva. La persona risponde alla domanda « chi narra? », qualunque sia il suo statuto (narratore, personaggio, riflettore, ecc.) e « si basa sulle relazioni e sugli effetti reciproci fra il narratore e le figure del romanzo » (ibid.: 71). Per il modo, Stanzel ritorna alla discriminante show ìngjtelling distinguendo tra rappresentazione (Darstellung), e cioè narrazione che dà al lettore la sensazione che non esista mediazione alcuna e racconto (Erzählung), che dà al lettore la consapevolezza di trovarsi in presenza di un narratore personale: il modo, quindi, « è un prodotto delle molteplici relazioni ed effetti reciproci tra il narratore-riflettore e il lettore » {ibid.). Il terzo elemento costitutivo è la prospettiva dalla quale il mondo fittizio è rappresentato dal narratore o da una figura che funge da riflettore (ibid.: 72). Soffermandosi a sottolineare la differenza fra modo e prospettiva, Stanzel dice che le due categorie si oppongono per « la direzione dello sguardo »: m entre il modo è definito a partire dallo sguardo del lettore, la prospettiva è definita dalla direzione dello sguardo sulla realtà rappresentata (l’opposizione non è chiara, e forse neanche rilevante, poiché le direzioni di sguardo possono essere concepite come speculari). Stanzel, in sostanza, ripete la partizione di G enette (vedi 3.4.), ma esclude dalla categoria di modo la prospettiva, che per il narratologo francese è invece parte del modo insieme con la distanza (nella quale, come si vedrà in 3.4., il teorico colloca la discriminante show ing/telling sotto spoglie diverse). Più oltre, Stanzel discute l ’opposizione persona/prospettiva, dicendo che le due categorie hanno in comune il problema del punto di vista, e che ciò che le differenzia sono « le conseguenze che derivano per entrambe le ottiche [prospettiva e persona, cioè] dalla scelta di un punto per la narrazione» (ibid.: 148). La trattazione si fa a questo punto circolare, soprattutto perché, pur distinguendo le categorie, Stanzel non indica mai i livelli

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testuali pertinenti al loro rilevamento. Passando a parlare più specificamente della prospettiva, secondo l ’opposizione in tern a/ esterna, Stanzel nota che la prospettiva interna può essere adottata da (a) una figura narrante o (b) una figura riflettore: nel prim o caso avremo una narrazione per lo più diretta sull’io narrante, nel secondo le percezioni rappresentate entreranno nella figura-riflettore, cosicché predom inerà la visione interiore. Nella prospettiva esterna, invece, il punto di osservazione del narratore è esterno al m ondo dei personaggi. Stanzel pone infine una opposizione fra prospettiva e visione (anche se la seconda viene presentata solo quale « variante terminologica » della prima, determinando così una ulteriore complicazione): m entre la prospettiva (interna/esterna) concernerebbe la rappresentazione del mondo esterno, la visione (interna/ esterna) concernerebbe il mondo interiore dei personaggi; la prospettiva avrebbe legami con la persona e la visione con il modo {ibid.: 148-9). Sembra che in questo punto, nell’incrocio delle categorie, sussista una confusione: dopo aver opposto modo e prospettiva secondo la « direzione dello sguardo » (narratore/lettore), Stanzel sovrappone a questo punto una diversa opposizione: persona e prospettiva legate dall’attenzione all’esteriorità degli elementi del mondo fittizio e invece modo e visione legati alla rappresentazione della interiorità dei personaggi. La distinzione non ha altra giustificazione che l ’assunzione letterale delle metafore prospettiva e visione, la prima delle quali più legata alla geometria della rappresentazione e la seconda, invece, più carica di connotazioni ideali. Il nodo prodotto qui dall’incrocio di categorie disomogenee (interno/esterno, focalizzatore/focalizzato, em ittente/ricevente, interiore/esteriore) si fa troppo indebitam ente intricato perché si possa pensare di scioglierlo con profitto. 3.2. Punto di vista e modelli culturali: Ju. M. Lotman Occupandosi — per la verità marginalmente — del problema del punto di vista, Lotman subisce sicuramente l ’influenza delle teorie di M. Bachtin (vedi 6.3.), soprattutto nel considerare la focalizzazione in un testo come cerniera di un rapporto fra soggetto e mondo rappresentato piuttosto che f ^ soggetto e rappresentazione (rapporto, quest’ultimo, interno fra narratore e materiali della storia). Egli, in più, in armonia con la tensione cui-

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turologica espressa nell’intera sua opera, immediatamente « fuori » dal testo vede il quadro del mondo assodato di una determinata cultura (quella che esprime il testo), piuttosto che la visione, o modello, scaturita da un soggetto individuale. Se, dunque, le osservazioni di Lotman sul punto di vista nei testi artistici sono contenute soprattutto in Lotman 1970 (cap. 8), esse da un lato si collegano alla trattazione di questioni specifiche in altri luoghi della sua opera (vedi, ad esempio, il problema dello spazio nei testi letterari in Lotman e Uspenskij 1975) e dall’altro hanno come sfondo necessario la complessiva impalcatura tipologicoculturale costruita dal complesso dei suoi scritti. Vediamo di esplicitare i nuclei della trattazione: dato un testo (Sistema, in quanto gerarchia di relazioni), all’interno di esso esiste sempre un Soggetto (ideologico e /o stilistico) capace di stabilire rapporti tra il sistema e i suoi oggetti (relazione tra la struttura e i suoi elementi). Tale relazione è il punto di vista del testo; questo punto di vista, all’interno di uno stesso testo, può variare, anzi « diventa un elemento percettibile della stru ttura nel momento in cui sorge la possibilità di un suo cambiamento entro i limiti della narrazione » (1970: 309 trad. it.). Ma il punto di vista del testo è un elemento della struttura artistica direttamente legato al problema generale della costruzione di un quadro del mondo; il punto di vista espresso da un testo, cioè, è in relazione con il punto di vista complessivo (visione del mondo) di una data cultura: il rapporto, quindi, che si istituisce tra la visione del mondo propria di una data cultura e i punti di vista parziali che la compongono è un rapporto creatore-creato. Ma poiché tale rapporto può essere sia di conformità (conferma del modello culturale) che di difformità (sua negazione), esso si configura come relazione di verità o di falsità: [...] ogni modello culturale ha un proprio orientamento che si esprime con una determinata scala di valori, in rapporto al vero e al falso, all’alto e al basso. Se immaginiamo il « quadro del mondo » di una data cultura come un testo a livello sufficientemente astratto, allora tale orientamento sarà esprimibile nel punto di vista di questo testo. Sorge allora il problema delle possibili relazioni tra il punto di vista del testo culturale e quello di un altro testo concreto (linguistico, oppure espresso da altri segni dello stesso livello, ad esempio dal disegno). [...] Per il fatto che il rapporto tra l’orientabilità del testo culturale e il punto di vista dei testi concreti è inteso come rapporto di verità o falsità, si delineano subito due possibili situazioni: piena coincidenza o contrapposizione diametrale. (1970: 311 trad. it.).

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Vediamo come Lotman esemplifica il meccanismo di coincidenza fra punto di vista culturale e punto di vista testuale (cioè: rapporto di verità) espresso dal sistema mentale del Medioevo: Il modello generale del mondo era pensato esistente da prima e dotato di creatore. Se si prendono i testi sacri come i più autorevoli di questo sistema, si vede che l’unità del punto di vista in essi espresso, e dell’orientamento culturale generale era raggiunta perché il creatore era comune. Il creatore del mondo era contemporaneamente anche l’ispiratore di questi « testi ispirati da Dio » (o « non fatti dall’uomo »), mentre l’autore umano era solamente l’intermediario, l’esecutorp, il copista o ricopiatore, il cui merito si riduceva alla fedeltà di riproduzione del testo autorevole. In tal modo era raggiunta anche la verità ... (ibid.: 311). Coincidenza piena, dunque, per quanto concerne i testi agiografici, ma come si vedrà anche per gli annali: La cronaca, gli annali, nella gerarchia medievale dei testi occupavano un posto meno rilevante di quello delle opere agiografiche, ma anche qui si osserva un quadro analogo: la presenza di un continuo immobile, un modello di norma ideale della storia dell’umanità e di comportamento delle persone nel quale si inseriva il testo reale della cronaca. E di nuovo l ’unità del punto di vista si raggiungeva non con l’esposizione della posizione personale del cronista ma con una piena identificazione con la tradizione, la verità e la morale. Solo in nome di queste poteva parlare. Era considerato vero proprio ciò che non faceva parte della sua posizione personale ... (ibid.: 311-12). Ma all’interno di un testo — anche di un testo medievale — si manifestano più voci; anzi, è proprio il fatto che il testo medievale è considerato come « non fatto dall’uomo » a costringere il suo estensore a introdurre una quantità di discorsi in prima persona, ad agire, cioè, « non come creatore ma come esecutore ». Di queste voci introdotte, alcune si riconoscono come false poiché introducono nel testo globalmente vero testi parziali falsi: Si supponeva che alcuni personaggi fossero capaci di costituire solo testi veri, così come altri solo testi falsi. Ad esempio il « nemico », « l’eretico », « il miscredente » nei testi medievali mentono sempre, indipendentemente dalle espressioni usate. Il diavolo è sempre « adulatore » (cioè imbroglione), questa è la sua qualità permanente, (ibid.: 314).

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Lotman nota che solo in epoca recente nacque consapevolmente il problema di collegare funzionalmente il punto di vista- del testo con la verità: è solo allora che la questione del punto di vista diventa una questione artistica (nel senso che finché il punto di vista espresso dal testo era considerato l’unico possibile, la verità o falsità di esso non erano legate a particolari direzioni del testo). Se anche nella letteratura moderna si incontra una strutturazione testuale di tipo medievale (nella quale, cioè, punto di vista e verità testuale sono fissate in precedenza), la moderna letteratura tende ad esprimere in una sola opera una pluralità di punti di vista. È in questa cerniera che il pensiero di Lotman si avvicina di più ad alcune delle formulazioni di Bachtin a proposito della qualità pluristilistica del romanzo in quanto genere (vedi 6.3.): la novità del romanzo epistolare del X V III secolo è, secondo Lotman, da ricercarsi nel conflitto fra i vari sistemi del discorso diretto. Ne Les liaisons dangereuses di Laclos, la sovrapposizione dei testi delle lettere costituisce la base della nuova rappresentazione della verità: questa non si identifica con una qualunque delle posizioni espresse nel testo, ma è data dalla intersezione di tutte. Le lettere presentate formano alcuni gruppi ognuno dei quali è un mondo definito, organizzato in se stesso, con una sua logica interna e una sua rappresentazione della verità. Ognuno di questi gruppi ha il proprio, definito, punto di vista. La verità sorge come sovrastruttura del testo dalla posizione dell’autore, come intersezione di tutti ipunti di vista. [...] La verità [...] sorge al di fuori del testo, come possibilità di osservare ogni eroe e ogni testo scritto in prima persona dal punto di vista di un altro (o di altri) eroe e di altri testi. (ibid. : 315). In realtà, in questa particolare svolta della trattazione diventa arduo seguire il pensiero di Lotman. La mancata menzione del livello del discorso (che è ' invece alla base della teoria bachtiniana) lascia un residuo di perplessità sulle possibilità concrete di attingere ciò che lo studioso indica come le posizioni diverse espresse da diversi personaggi che raccontano uno stesso fatto. Che cosa, se non i livelli stilistico-retorici, viene in aiuto dell’analista per stabilire, appunto, tali diverse posizioniì Sembra, fra l ’altro, che Lotman collochi più tardi l’avvento di preoccupazioni stilistiche. Il primo esempio prodotto è l ’Eugenio One gin di Puskin (1831), in cui compare l’autore il quale, operando con stili diversi in qualità di sistemi chiusi e dotati di punto di vista fissato, presenta uno stesso contenuto da posizioni stilistiche diverse. (ibid.\ 315).

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Le rotture stilistico-semantichte (cioè i procedimenti del racconto condotto da differenti posizioni stilistiche) si rafforzano, con l ’uso di un meccanismo costruttivo simile a quello del montaggio cinematografico, in Guerra e pace (vedi, ad esempio, l ’alternanza di quelle che in linguaggio filmico sono indicate come inquadrature soggettive — oggetti visti dal punto di vista del soggetto — e inquadrature oggettive — soggetto visto dal punto di vista degli spettatori, cioè di « nessuno » — ). Q ui — come non avviene in Bachtin — il punto di vista diventa un fatto prospettico (o è solo l ’analogia cinematografica che sembra 'a Lotman u n ’utile esemplificazione m utatis mutandis, dato che poche righe oltre riaccenna al procedimento come « amalgama nel quale i metodi linguistici esprimenti il punto di vista dell’eroe sono alternati ai punti di vista dell’autore e di altri personaggi ».; ibid.-. 321). Un ultimo punto da segnalare è il tentativo di saldatura avanzato da Lotman fra il problema dello spazio artistico e il problema del punto di vista. Lo schema spaziale dei testi artistici altrove trattato più estesamente (in Lotman e Uspenskij 1975: 145-181) e cioè la contrapposizione tra uno spazio chiuso (finito) e uno spazio aperto (infinito) si può interpretare in modi differenti a seconda dell’orientazione della parola del soggetto (a seconda, cioè, che il punto di vista della narrazione sia abbinato all’uno o all’altro spazio). Sembra, quest’ultimo, uno spunto (purtroppo appena accennato) assai prom ettente: capace di attraversare i testi non certo analiticamente, ma in compenso con l ’aiuto di quella potente organizzazione sintetica che è propria del pensiero di Lotman: di indicarne generali direzioni semantiche capaci di aderire a consistenti modelli culturali. La chiusura sul problema dello spazio del testo artistico consente a Lotman di inserire il problema del punto di vista in un sistem a/antisistem a del testo (quello spaziale, appunto, con i suoi contrapposti orientam enti interno/esterno) e di inserirlo quindi nella dialettica struttura del testo / struttura del mondo.

3.3. Il p u n to d i vista secondo B. A . U sp en sk ij B. A. Uspenskij è il solo dei teorici russi ad aver dedicato al problema del punto di vista una attenzione non marginale, scrivendo sulla questione u n ’ampia monografia (Uspenskij 1970). È questo, anzi, il motivo di maggior interesse di tale opera, una delle poche riprese estensive del problema negli ultimi decenni, e la sola

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trattazione con pretese di sistematicità che la teoria della letteratura abbia prodotto in Russia sul problema del punto di vista. Sfortunatam ente, però, il libro di Uspenskij soffre di una impostazione contraddittoria, rivelandosi in fin dei conti incapace di amalgamare armoniosamente e in maniera produttiva i suggerimenti dei teorici russi e quelli di narratologi e linguisti occidentali. La contraddizione spesso si manfesta in sovrapposizioni di problemi e di piani di analisi o, al contrario, in segmentazioni teoricamente non del tutto corrette che rappresentano, mi pare, un passo indietro sia rispetto ai suggerimenti di Bachtin e di Lotman che rispetto alle estensioni occidentali del dossier. Vediamo come Uspenskij formula il programma del suo studio, leggendo il quale si profilano già elementi che destano perplessità: Possiamo considerare il punto di vista come posizione ideologica e valutativa; possiamo considerarlo come posizione spaziale e temporale di colui il quale produce la descrizione degli eventi (cioè il narratore, la cui posizione è fissata lungo coordinate spazio-temporali); possiamo studiarlo considerando le caratteristiche di percezione; oppure possiamo studiarlo in un senso puramente linguistico (ad esempio in relazione a fenomeni come il discorso quasi-diretto); e così via. (1970: 6 trad. ingl.). Uspenskij designa questi livelli come: livello dell’ideologia, livello della fraseologia, livello spazio-temporale e livello psicologico; e divide poi la sua trattazione in sezioni che affrontano separatamente tali livelli. La prima obiezione che si può muovere alla segmentazione operata dallo studioso concerne, appunto, questa separazione: la divisione, cioè, non è proposta per comodità di trattam ento ma è vista come tale anche nella manifestazione testuale. Vedremo in seguito, a questo proposito, che Bachtin non disgiunge mai il livello valutativo dai livelli discorsivi; è, anzi, dalla parola e dai suoi molteplici usi che si irradia la possibilità, propria del testo del romanzo, di esprimere valutazioni. Uspenskij, pare, ritorna a criteri contenutistici per estrarre dal testo ciò che egli indica come i livelli ideologici del punto di vista. Di fatto, egli afferma che l ’aspetto ideologico o valutativo del romanzo è il livello « meno passibile di formalizzazione, poiché la sua analisi poggia in larga misura su interpretazioni in tu itiv e» (i b i d 8; corsivi miei).

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Non sembra — e occorre qui richiamare perlomeno le trattazioni di Booth e di Bachtin — che si possa concordare con la posizione di Uspenskij: gli orientam enti valutativi di un narratore, infatti, sono controllabili anche a partire dall’uso di categorie grammaticali (vedi, ad esempio, l’uso dei modi e degli aspetti del verbo in II buon soldato di Ford); e vedremo avvicinandoci alla categoria della « v o c e » (soprattutto in 5.3.) come gli atteggiamenti valutativi siano rilevabili nel discorso, anche in ciò che può presentarsi come « pura » constatazione. ^ La confusione si fa più marcata nel momento in cui Uspenskij, per illustrare la sua idea di « livello ideologico » .del punto di vista, cita la nozione di polifonia in Bachtin e conclude affermando che quando studiamo la polifonia prendiamo in esame punti di vista manifestati esclusivamente al livello di ideologia. Essi diventano manifesti soprattutto nel modo in cui i personaggi (veicolo di posizioni ideologiche) vahitano il mondo intorno a loro. (ibid.\ 10; corsivi miei). Certamente si tratta di un fraintendim ento e di una riduzione delle posizioni bachtiniane: come vedremo, infatti, 'la plurivocità del romanzo per Bachtin è raggiunta proprio attraverso l ’organizzazione pluristilistica; l ’incontro/scontro di diversi punti di vista ideologico/valutativi è un incontro/scontro di discorsi, di stili é di « lin g u e » . E d ’altra parte, dove altro si manifesterebbe se non nel discorso e nella enunciazione il livello della ideologia e dei modelli extratestuali? È vero che Uspenskij dedica alcune pagine a discutere possibili modi di espressione del punto di vista ideologico; tuttavia, egli si limita a citare casi particolari (ad esempio l ’uso dell’epiteto fisso in opere folkloriche, il quale testimonierebbe che l ’autore sta assumendo il « punto di vista » di una classe sociale o di una istituzione), senza riuscire ad agganciarsi sistematicamente ai livelli della parola e della sua organizzazione. Che Uspenskij veda il livello ideologico separato dal livello fraseologico sembra confermato dal fatto che, affrontando questo secondo piano di lettura del « punto di vista » egli asserisce che i diversi aspetti fraseologici del testo sono i mezzi strettamente linguistici di esprimere il « punto di vista ». Ci si può domandare, a questo punto, che cosa siano i mezzi strettam ente linguistici (forse solo un discorso metalinguistico può dirsi strettam ente

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linguistico, e anche questo con molte riserve). Ma leggiamo un altro brano: Il fatto che la diversificazione dei punti di vista in un’opera letteraria può essere manifestata non solo sul piano della ideologia ma anche sul piano fraseologico [...] è particolarmente evidente in quei casi in cui l ’autore usa modi di dizione diversi per descrivere personaggi diversi o in quei casi in cui egli fa uso di qualcuna delle forme di discorso riferito o di discorso sostituito nella sua descrizione, (ibicl.: 17; corsivi miei). Anche qui è evidente che Uspenskij procede a drastiche limitazioni circa la possibilità che il discorso, nella sua stessa organizzazione, possa esprimere un « punto di vista »: egli cita, infatti, usi particolari di assimilazione del discorso del narratore a ciò che si può pensare che possa essere lo stile del personaggio narrato, e cioè speciali procedimenti stilistici attraverso i quali il narratore (autore per Uspenskij) notifica al lettore di non condividere il « punto di vista » che esprime con « parole altrui ». Ancora una volta si conferma la impropria distinzione di due livelli: quello dell’effetto (valutativo-ideologico) e quello delle modalità di ottenim ento di tale effetto (tecniche discorsive impiegate). Mentre il secondo è nel testo in quanto manifestazione linguistico-stilistico-figurale lineare, il primo è, per così dire, un livello connotato; è ovvio, tuttavia, che le connotazioni ideologiche si innestano proprio sui livelli « fraseologici ». Si tratta, anzi, di procedimenti assolutamente normali: è sulla fraseologia di Emma Bovary (anche se espressa attraverso i r discorso indiretto e il discorso indiretto libero) che si innesta l ’ideologia dei romanzetti sentimentali; è sulla enunciazione stilisticamente connotata del narratore che descrive Gerty McDowell che si esprime l ’ideologia delle riviste di moda femminili; il discorso di Huckleberry Finn di Mark Twain deriva gran parte del suo senso dal porsi ideologicamente a fianco dei libri d ’avventura. Gli esempi, ovviamente, si possono moltiplicare all’infinito, e non sarebbero soltanto esempi letterari: parlando (anche semplicemente asserendo) non immettiamo subito nel discorso la nostra soggettività? prendendo la parola, appropriandoci della lingua che dice il mondo, non formuliamo forse modelli del mondo? D etto questo, occorre riconoscere che il trattam en to 'd i quello che Uspenskij indica come « livello fraseologico » del punto di vista ha non pochi motivi di interesse. Il teorico si sofferma, ad

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esempio, sul tema importante e poco studiato della nominazione (possibilità di esprimere atteggiamenti diversi e differenti « punti di vista » a seconda del tipo di nominazione usata; vedi le pp. 2032 del libro); e si sofferma a lungo sulla casistica dell’influenza del discorso altrui sul discorso autoriale vedendo da vicino, ed esemplificando, l ’uso del discorso riportato, del discorso indiretto libero, della combinazione specificamente discorsiva di « punti di vista » diversi nell’ambito di una frase o addirittura di una stessa parola. A proposito di quest’ultimo caso è interessante l’esempio prodotto: Uspenskij cita un brano da Memorie dalla casa dei morti di Dostoevskij, in cui un uomo che ha ucciso la propria moglie racconta il delitto coniando una speciale parola per indicare l’azione del coltello sulla gola della vittim a e la sensazione materiale dell’azione del coltello da parte dell’assassino (ibid. : 40). Uspenskij illustra soprattutto, in questa sezione, fenomeni discorsivi di fusione di visione (dell’autore e del personaggio); si tratta jli fenomeni di varia natura, soprattutto illustrati sull’esempio dell ’uso della lingua francese e di quella russa in Guerra e pace. In questa sezione, se anche i fenomeni discussi non appaiono distinti nettam ente né definiti, alcune osservazioni interessanti rendono le pagine meritevoli di lettura. Le osservazioni sul livello spazio-temporale non propongono una casistica nuova, e si muovono in generale sulla direttrice della posizione spaziale e temporale dell’autore rispetto a quella dei personaggi o soggetto narrante e oggetti- narrati (Uspenskij non valuta im portante la distinzione autore/narratore e usa indifferentemente i due termini). La discussione a proposito di tempi ed aspetti del verbo (pp. 70-4) può suscitare anch’essa perplessità; tuttavia, si ha l’impressione che alcune delle osservazioni di Uspenskij su questo punto risultino per noi incomprensibili o non del tutto centrate soprattutto a causa di un sistema di uso dei tempi piuttosto peculiare nella lingua russa. Nel capitolo dedicato al livello psicologico, non troviamo elementi che riscattino l’opera, mentre le sovrapposizioni fra i livelli che all’inizio si era preteso di separare si infittiscono. Anche se frutto di uno sforzo teorico notevole, nel complesso (a parte alcune pagine che si possono scegliere soprattutto nella sezione dedicata alla fraseologia), Uspenskij ha prodotto u n ’opera deludente, che manca sia il bersaglio dell’aggiunta di materiale classificatorio e teorico veramente inedito sia quello della semplice sistematizzazione delle teorie precedenti.

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3.4. Le categorie di « m odo » e « voce » in G e n e tte Il libro di G enette (1972) ha avuto notevolissima influenza sulla narratologia successiva, sia per l ’ampia e dettagliata trattazione delle molte categorie narratologiche che esso propone, sia per l ’invenzione-di un articolato metalinguaggio descrittivo. Si tratta di uno studio certamente importante, pregevole soprattutto nella discussione della Recherche di Proust che è l ’oggetto testuale sul quale le formulazioni teoriche sono provate e discusse; ma si tratta anche di un lavoro non privo di contraddizioni, alcune delle quali sono state successivamente rilevate (vedi, ad esempio, Bai 1977). Discuterò qui soltanto la trattazione che G enette presenta del problema del punto di vista, a mio avviso la parte più discutibile del libro, mancando quindi di rendere giustizia a sezioni più convincenti e nitide, quale è la prima parte, dedicata al problema delle categorie temporali; e soprattutto tacendo delle belle pagine analitiche che il narratologo francese dedica all’opera di Proust. La categoria del punto di vista si trova, in G enette, inclusa nel problema del « modo » (e cioè di ciò che il teorico indica come « regolazione della informazione narrativa ») e rinominata come prospettiva: essa riassume connotati ottico-prospettici, separata come è dalla categoria di « voce » che concerne invece il problema della inscrizione della soggettività nel linguaggio. A ben guardare, dunque, G enette ripropone quella partizione fra accezione prospettica e accezione assiologica di punto di vista, più volte avanzata e più volte respinta che, come si è visto in 1.2., non sembra si possa sostenere senza precisazioni. Vediamo in uno schema sintetico come è organizzata la categoria di modo: MODO

1. Per meglio chiarire le distinzioni a proposito della categoria di prospettiva, ecco qualche esempio: la focalizzazione zero è quella dell’onniscienza classica; la

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Vediamo innanzitutto la categoria di modo, che G enette introduce utilizzando la definizione proposta dal dizionario Littré per il modo in grammatica: nome dato alle diverse forme del verbo per affermare più o meno la cosa di cui si tratta, e per esprimere [...] ì diversi punti di vista da cui si considera l’esistenza o l’azione, (cit. in Genette 1972: 208 trad. it.; corsivi miei). La definizione di L ittré è precisa: affermare più o meno ed esprimere un punto di vista, o u n ’opinione, indicano bene la funzione dei diversi modi del verbo, che servono proprio per esprimere le diverse maniere in cui il parlante presenta l ’azione, il processo o lo stato del mondo indicati nel verbo;'cioè, in sostanza, precisano l’atteggiamento del parlante nei confronti dei suoi stessi enunciati. Abbiamo, anzi, nella semplice definizione grammaticale, una indicazione preziosa per attuare un collegamento fra « punto di vista » e persona, fra parlante ed enunciati, fra soggetto ed assiologia, ed ancora fra locutore ed atto linguistico. G enette dichiara, in effetti, che ciò che gli interessa di questa definizione sono appunto i due elementi dell’affermare più o meno e dell’esprimere diversi punti di vista. Tuttavia, come vedremo, opera una scissione fra modo e istanza narrativa, scissione opinabile in quanto non si vede come i « modi » di presentazione del racconto possano essere percepiti indipendentemente dalla istanza che li esprime: il modo stabilisce, infatti, una rete di relazioni pragmatiche che m ette in rapporto l ’istanza di enunciazione con i suoi enunciati, con la situazione, con il destinatario, e dalla quale si possono ricavare scopi, forza illocutoria, impegno, ecc. Vediamo come G enette circoscrive invece il modo enucleandone solo una componente prospettica: « Distanza » e « prospettiva », provvisoriamente chiamate e definite così, sono le due modalità essenziali della regolazione della informazione narrativa, costituita dal modo, esattamente come la mia visione

focalizzazione interna fissa è quella de Gli ambasciatori (ammesso che in questo romanzo la prospettiva sia sempre interna a Strether); interna variabile è quella di Madame Bovary (si sposta da un personaggio all’altro); interna multipla vede la narrazione dei medesimi avvenimenti da diverse angolature (G enette cita i romanzi epistolari con molti scriventi e il film Rashomon-, ma vedi anche Mrs. Dalloway della Woolf e lo stesso Ulisse di Joyce); infine, l’esempio classico di localizzazione esterna è Dashiell Hammett.

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di un quadro dipende, per la precisione, dalla distanza che mi separa da esso, e per l’estensione-, dalla tnia posizione nei confronti di un eventuale ostacolo parziale che gli faccia più o meno da schermo, {ibid.: 209). Siamo di nuovo, per la definizione di punto di vista, alla « finestra » di James, semmai anzi più rigorosamente ancorata ad indicazioni geometriche. Questa traduzione in termini narratologici della definizione grammaticale di modo, occorre aggiungere, rivela subito due equivoci (oppure una trasformazione voluta che appare problematica): il più o meno che nella definizione di L ittré è evidentemente un argomento qualitativo di impegno del locutore nei confronti del contenuto dei suoi enunciati (con i modi si afferma, si dubita, si sottopone a condizioni), diventa in G enette argomento quantitativo: il fornire, cioè, una quantità maggiore o minore di informazioni: analogamente, il punto di vista, che nella definizione di Littré è un argomento assiologico (affermando, dubitando, comandando, ecc. si possono implicitamente suggerire valutazioni, oltre che compiere atti linguistici), diventa in G enette prospettiva fisica (« posizione nei confronti di un eventuale ostacolo parziale... »). Torniamo al nostro schema, nella zona della distanza. Poiché è ormai impegnato sul versante della quantità, G enette fornisce una distinzione quantitativa di due diverse modalità di narrare. Si tratta delle modalità jamesiane di telling e showing (racconto puro e mimesi per Platone), rinominate come racconto di avvenim enti e racconto di parole. La conclusione di G enette è che il racconto di avvenimenti (telling) si distinguerebbe dal racconto di parole (showing) per la maggiore economia prodotta, nel primo tipo, dalla eliminazione di tutto ciò che è superfluo e privo di utilità funzionale nella storia, come ad esempio gli inserti che servirebbero a creare ciò che Barthes indica come ejfet de réel. L ’errore deduttivo sulla quantità di informazioni è svelato dallo stesso G enette quando ci indica, come esempi di showing, la narrativa di James e lo Hemingway de « I sicari »; modalità, la prima, estremamente puntigliosa e diffusa, e la seconda estremamente ellittica ed economica. D ’altra parte, l ’argomento quantitativo si può smontare anche solo ricordando che la scena « pura » che si realizza nel dramma richiede che siano colmati i molti vuoti di ciò che la diegesi può dire e descrivere con agio pressoché illimitato e che invece la forma drammatica deve necessariamente implicare. La conclusione di G enette a proposito della categoria

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di distanza è quindi inquinata proprio dall’equivoco quantitativo, che viene utilizzato anche per trarre conclusioni (ancora in term ini quantitativi) sulla presenza del narratore: La quantità di informazione e la presenza dell’informatore sono inversamente proporzionali, dato che la mimesi si definisce mediante un massimo di informazione e un minimo di informatore e la diegesi mediante il rapporto inverso. (i b i d 213). Ma ciò che è im portante notare è che discutendo la categoria di distanza (le cui coordinate sono per G enette tipi di discorso-, narrativizzato, trasporto in stile indiretto e riferito, dalla maggiore alla minore distanza), G enette non puòyfare a meno di coinvolgere l ’istanza dell’enunciazione: « Eccoci al limite dei problemi di voce», nota infatti {ibid.-. 222); in realtà' non siamo al limite, ma caratteristicam ente entro i problemi di voce se — come nota Volosinov — nelle forme del discorso riportato abbiamo « parole che reagiscono su parole » e cioè un documento della « ricezione attiva del discorso di altri parlanti » (Volosinov 192-9: 202 trad. it.), che è «ricezione valutativa» {ibid.: 203; vedi in 6.5. la discussione delle interferenze che si realizzano nel discorso riportato). Lo stesso slittamento inevitabile avviene a proposito della prospettiva. G enette riprende la partizione operata da Todorov 1966, il quale la assume a sua volta da Pouillon 1946;2 e nota che i problemi di focalizzazione e i problemi di voce sono stati erroneamente trattati come un solo ed unico problema: _________

t

2. Pouillon suddivide i tipi di visione in « visione interna », « visione con » e «visione alle spalle»; Todorov definisce la visione o il punto di vista «m odo in cui gli eventi riportati -sono percepiti dal narratore e quindi dal lettore virtuale » (1968: 124 trad. it.). Ciò che a noi più importa è l’affermazione che segue, che sembra proporre una integrazione fra prospettiva e livello dell’enunciazione: « Le visioni sono collega'te da vicino ai registri della “ parola ”, e i due insiemi corrispondono a ciò che si chiama il modo in cui uno scrittore presenta i fatti» (ibid..). P er quanto concerne la prospettiva, Todorov riformula la tipologia a tre termini di Pouillon nel seguente modo: Narratore > Personaggio (tutti i casi in cui il narratore ne sa di più del personaggio); Narratore = Personaggio (i casi in cui il narratore non eccede le conoscenze del personaggio); Narratore < Personaggio (il narratore è meno informato del personaggio, o com unque dice meno di quanto il personaggio presumibilmente non sappia); vedi Todorov 1966. Per una perspicua esposizione e discussione parallela delle teorie di Pouillon e di Todorov, si veda Volpe 1984: 40-8.

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[...] la maggior parte dei lavori teorici su questo argomento (che sono, essenzialmente, delle classificazioni) soffrono, a mio parere, di una fastidiosa confusione fra quanto chiamo qui modo e voce, cioè fra la domanda qual è il personaggio il cui punto di vista orienta la prospettiva narrativa?, e la domanda, completamente diversa: chi è il narratore? — o, per parlare più sinteticamente, fra la domanda chi vede? e la domanda chi parlai (ib'td.: 233). Ora, l ’avere identificata e teorizzata la distinzione ad un livello di categorie narratologiche discrete ha costituito una im portante riorganizzazione della materia; tuttavia, la formulazione delle domande citate sopra (« chi vede? » e « chi parla? ») ha dato luogo a non poche semplificazioni successive. Infatti, quella che dovrebbe essere (e che è, nelle intenzioni di G enette) una discriminante fra problemi (di focalizzazione e di voce), è formulata come distinzione di persone alle quali si attribuirebbero responsabilità distinte (il guardare l ’una e il dire l ’altra); ma, come si è visto, la separazione di attribuzioni fra soggetto dell’en.to e soggetto dell’en.ne non è quasi mai inequivoca; di più, l ’orientam ento del senso — come si è visto in molti dei frammenti analizzati in 1.3. e come si vedrà ancora in 6,5. — è spesso prodotto proprio dalla sovrapposizione o contrapposizione dialogica di (almeno) due voci o posizioni semantiche; sovrapposizione che, d ’altra parte, Genette individua bene riconoscendo — almeno nel caso del discorso riportato in « stile indiretto libero » — che le due istanze (del narratore e del personaggio) «vengono ...co n fu se» (ibid.: 222 trad. it.). D ’altra parte, è nell’analisi del romanzo di Proust che il lettore prova il godimento di u n ’esegesi ricca e sottile; al di là della proliferazione metacritica e terminologica e delle piccole contraddizioni che non intaccano il valore di novità e insieme la capacità di sintesi organizzativa di questo testo.

4. Em ittenza e ricezione : il completamento del modello comunicazionale

4 . 1. Il co n tra tto narrativo e la negoziazione d el « p u n t o d i vista » Qualsiasi vera comprensione è di natura dialogica. V. N. Volosinov

W . Iser, teorizzando l ’atto della lettura e la risposta estetica del lettore, parla del rapporto del lettore con il testo (letterario) come di un rapporto interattivo-. r la lettura non è « interiorizzazione » diretta perché non è un processo a senso unico, e il mio obiettivo è quello di trovare i mezzi per descrivere il processo di lettura come interazione fra il testo e il lettore. (Iser 1976: 107 trad. ingl.). A questa che Iser indica come relazione interattiva, considerandola quindi, in un certo senso, alla stregua di ogni altro evento comunicativo, anzi più generalmente sociale, Sartre dava specificamente il nome di patto (Sartre 1947: 146 trad. it.). I « p a rtecipanti » di questa interazione, così come Iser li discute, sono « il testo » e « il lettore »; qui, in attesa di precisare le articolazioni proposte per il modello comunicazionale narrativo, li considereremo genericamente come un « em ittente » (o un messaggio codificato) e un « ricevente ». Iser precisa che si tratta di una interazione sui generis (ed è certamente vero che essa ha caratteristiche diverse dalla classe di eventi che va sotto la rubrica della interazione faccia-a-faccia); e conclude che il rapporto interattivo che si stabilisce fra un testo e il lettore è un rapporto asimmetrico. Dal canto suo, Culler individua una relazione di complicità istituita sulla base di un sapere condiviso fra narratore e lettore:

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la prima e fondamentale condizione per l ’istituirsi di un contratto narrativo, dunque, sarebbe nel riconoscimento di un narratore, operazione che consentirebbe al lettore di situare il linguaggio del testo rispettò al mondo, e che impedirebbe che il testo rimanesse pura scrittura (Culler 1975: 194-201). La natura del rapporto sarà meglio chiarita in 4.2. Per il momento assumiamo che il rapporto ci sia e che esso abbia due poli attivi, come con diverse angolazioni le ipotesi teoriche citate sembrano proporre. Assumiamo anche che, sul modello di ciò che avviene nelle varie forme di interazione sociale, l ’interazione stimolata dal testo sia costruita su una serie di transazioni; il testo, insomma, non solo stimola risposte ma anche continuamente le negozia; dunque, il « punto di vista » o i « punti di vista » che esso intende asserire sono, più o meno esplicitamente, frutto di negoziazione. La teoria della cooperazione testuale giunge a sostenere che un testo non soltanto postula, ma addirittura costruisce il proprio lettore ideale (Eco 1979); in una prospettiva diversa, quella della marxista filosofìa del linguaggio, Volosinov affermava parecchi anni prima : L’atto di parola [...] è costruito tra due persone socialmente organizzate, e in assenza di un destinatario reale, si presuppone un destinatario nella persona, per così dire, di un normale rappresentante del gruppo sociale a cui appartiene il soggetto parlante. La parola è orientata verso un destinatario [...]. Nella maggior parte dei casi presupponiamo un certo orizzonte sociale tipico e determinato verso cui è orientata la creatività ideologica del nostro tempo e del nostro gruppo sociale, cioè, assumiamo come nostro destinatario, un contemporaneo della nostra letteratura, della nostra scienza, della nostra morale e dei nostri codici legali. (Volosinov 1929: 158-9 trad. it.). Ma « una parola è un ponte gettato tra me e un altro. Se una estremità del ponte dipende da me, allora l ’altra dipende dal mio destinatario » (ibid.). E il destinatario? A questi spetta la « comprensione », quel processo attivo, cioè, che determina il significato nella specifica situazione interattiva, poiché « la comprensione sta all’espressione come una battuta di dialogo sta alla successiva » (ibid.: 184). E poiché « non c’è parola senza accento valutativo » (ibid.: 185), «com prensione» significherà in primo luogo accettazione o rifiuto dell’accento valutativo: in breve, del « punto di vista », o dei « punti di vista », che la lingua del testo attiva.

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Vediamo come in alcuni testi prodotti nell’ambito di culture diverse avviene la negoziazione del punto di vista, la contrattazione della attenzione del lettore e la serie di transazioni attraverso le quali si stabilisG^ il patto narrativo; in breve, la serie di mosse che non soltanto mirano ad una captatio benevolentiae del lettore (ad esempio includendolo in un insieme sociale gratificante oppure erigendolo a giudice della bontà della narrazione), ma anche, e più comprensivamente, propongono una ideologia, cioè un modo di conoscere la realtà (o un « punto di vista » su di essa) che appaia auto-evidente, adeguato e non-contraddittorio: (i) Stai per cominciare a leggere Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione ( accesa. Dillo subito, agli altri: « No, non voglio vedere la televisione! » Alza la voce, se non ti sentono: « Sto leggendo! Non voglio essere disturbato! » Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida: « Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvifio! » O se non vuoi non dirlo. Speriamo che ti lascino in pace. [...]

Non che t ’aspetti qualcosa di particolare da questo libro in particolare. Sei uno che per principio non s’aspetta più niente da niente. Ci sono tanti, più giovani di te o meno giovani, che vivono in attesa d’esperienze straordinarie; dai libri, dalle persone, dai viaggi, dagli avvenimenti, da quello che il domani tiene in serbo. Tu no. Tu sai che il meglio che ci si può aspettare è di evitare il peggio. [...]

_ _..........

Dunque, hai visto su un giornale che è uscito Se una notte d ’inverno un viaggiatore, nuovo libro di Italo Calvino, che non ne pubblicava da vari anni. Sei passato in libreria e hai comprato il volume. Hai fatto bene. (I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979). (Ü)

Il risultato di quella notte di follia fu che ella credette di essere riuscita a trionfare del suo amore. (Questa pagina nuocerà in diversi modi al suo disgraziato autore). Le anime gelide lo accuseranno d’indecenza. Ma egli non fa alle giovani donne che brillano nei salotti di Parigi il torto di supporre che una sola di loro sia suscettibile degli impulsi di follia che degradano il carattere di Mathilde. Questo personaggio è del tutto immaginario, anzi immaginato al di fuori delle

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abitudini sociali che assicureranno un posto di assoluta preminenza alla civiltà del XIX secolo, nei confronti di quella degli altri secoli. Non è certo la prudenza ciò che manca alle fanciulle che sono state il vanto dei ■balli di quest’inverno. [...] Ora, dopo aver messo in chiaro che il carattere di Mathilde è impossibile nel nostro secolo non meno prudente e virtuoso, temo assai meno di suscitare irritazioni continuando il racconto delle follie di questa amabile ragazza. (Stendhal, Il rosso e il nero; Le rouge et le noir, 1830). (iii) Il signor Harding uscì e inviò il messaggio, e sarà bene che noi lo seguiamo fino a destinazione. Mezz’ora dopo aver lasciato Barchester, esso raggiunse il Conte d i ... nella sua biblioteca. Quali espressioni elaborate, quali appelli eloquenti, quali rimostranze indignate egli stesse escogitando, in quel momento, si può immaginarlo, ma non descriverlo! Il modo in cui egli preparava i suoi strali contro i rivali che lo avevano sconfitto, in piedi come un pari d ’Inghilterra, la schiena contro il caminetto nel quale ardeva il carbone marino, le mani nelle tasche dei calzoni, come il suo occhio fine fosse acceso d’ira e la sua fronte ardesse di patriottismo, i miei creativi lettori possono figurarselo. Ma stava facendo proprio questo? No: la storia e la verità mi impongono di negarlo. Egli era comodamente seduto in una poltrona, occupato ad esaminare una lista di Newmarket, e accanto al suo gomito, sul tavolo, era poggiato, aperto, un romanzo francese intonso che attirava la sua attenzione. (A. Trollope, Le torri di Barchester; Barchester Towers, 1857). (iv) Nel dicembre 1863, ’Ntoni, il maggiore dei nipoti, era stato chiamato per la leva di mare. Padron ’Ntoni allora era corso dai pezzi grossi del paese, che son quelli che possono aiutarci. Ma don Giammaria, il vicario, gli aveva risposto che gli stava bene, e questo era il frutto di quella rivoluzione di satanasso, che avevano fatto collo sciorinare il fazzoletto tricolore dal campanile. (G. Verga, I Malavoglia, 1881). I tre passi del brano (i) sono contenuti nelle prime tre pagine del romanzo di Calvino, e il primo di essi è l ’incipit del testo. L ’incipit in questione ha come oggetto, appunto, un incipit. Non, paradossalmente, l ’inizio della storia, ma l’inizio dell’operazione di lettura-, l ’inizio, cioè, dell’interazione fra testo e lettore. Tuttavia, m entre il lettore legge gli enunciati che illustrano e negoziano

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questa situazione, sa anche di trovarsi di fronte all’inizio del testo, e che il testo sta già contrattando la sua adesione. In modo sostanzialmente non diverso dal Fielding di Joseph Andrew s (1742), che nel primo capitolo del romanzo si preoccupa di stabilire un contatto con lettori e lettrici tratteggiandone in sostanza un ritratto culturale (hanno, perlomeno, letto la Pamela di Richardson), Calvino delimita il campo degli interlocutori/lettori, gratificandoli di una patente intellettuale che assai probabilmente è proprio quella che loro compete: il lettore ideale di Calvino è maschio (« Sei uno che per principio ... Sei passato in libreria »), disincantato (« Non che t ’aspetti qualcosa di particolare ... Sei uno che per principio non s’aspetta più niente da niente »), informato {« hai visto su un giornale ... non ne pubblicava da vari anni »), né giovane né vecchio (« Ci sono tanti, più giovani di te o meno giovani »). Q uesti i connotati essenziali, che traspaiono direttamente dal significato degli enunciati del brano, e che fanno sì che subito il testo si orienti verso una classe di destinatari. Ma il ritratto del destinatario non è ancora completo se oltre a porci la domanda (semantica) su « che cosa significano questi enunciati » non ci poniamo la domanda (pragmatica) su « che cosa ha voluto dire Calvino enunciandoli ». E qui, ad un livello più sottilmente retor~ rico, cogliamo alcuni ammiccamenti rivolti ad un lettore elitario, un lettore che pochi mesi prima è passato in libreria per comprare un altro libro, e cioè Lector in fabula di Eco (sottotitolo: La cooperazione interpretativa nei testi narrativi). Il ritratto del destinatario di Se una notte ... si precisa: si tratta dì un lettore (maschio) di quell’altro libro, consapevole del proprio ruolo di lettore, della necessità di cooperare con il testo e a giorno del tipo di operazioni che occorre compiere. È in questo senso che « non s’aspetta più niente da niente ». Poiché è in grado di smontare i meccanismi della narratività, occorre dargli un testo nel quale questi meccanismi sono già tutti esposti. Solo questo, forse, potrà sorprenderlo un poco. Compare l’ideologia: semiologia e pragmatica del testo come modo « autenticante » di conoscere la realtà (la quale è il testo). Oppure, la visione del mondo inevitabilmente mediata dalle operazioni della cooperazione testuale. Ma compare anche un più sottile punto di vista: la sfida al lettore disincantato che — anche se non si aspetta più niente di particolare — non potrà, a meno di negare la sua appartenenza all’insieme sociale nel quale, gratificandolo, il narratore lo ha inserito, negare, del libro, la particolarità.

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La manovra « forte » del frammento (ii), e che giunge probabilmente inattesa e sorprendente anche al lettore più scaltrito, è l’improvvisa e recisa sconfessione che il narratore fa del suo personaggio: M athilde de La Mole, stravagante, orgogliosa, appassionata, forte, non solo è, dice il narratore, un personaggio di finzione, ma il suo carattere, « è impossibile nel nostro se co lo ...» . L ’impostazione argomentativa nasce apparentem ente dal timore del narratore (« autore di questa pagina ») di essere biasimato da parte del lettore proprio per aver costruito questo personaggio eccessivo, così scandalosamente privo di prudenza. Il narratore, dunque, non può che scagionarsi denunciando il meccanismo della finzione: a costo di distruggere l ’autenticità della storia, riguadagnerà la fiducia del lettore. Ma l ’oggetto della negoziazione è in realtà più complesso di quanto non possa apparire da questa prima lettura: il lettore accorto, e che per giunta ha cooperato alla costruzione del mondo fittizio e alla sua autenticazione fino alla pagina 363 del libro (è qui che nella traduzione italiana che utilizzo il passo è inserito), non può non papere che nessun narratore rinuncia alla attendibilità del mondo alternativo da lui creato e che nessun narratore fa, al lettore che lo ha pazientemente seguito entro questo mondo, il torto di tacciarlo di ingenuità o, peggio, di creduloneria. In realtà, piuttosto che alienare il narratario dalla storia, il passo ha l ’effetto di associarvelo ancor più strettam ente, includendolo nella cerchia sociale del narratore, compagno a questi nelle attività sociali dei salotti parigini e testimone « dei balli di quest'inverno ». Il gentiluomo che ha a cuore la assoluta preminenza della civiltà del XIX secolo, lettore ideale o narratario costruito del libro, già trascinato dal narratore dalla parte della ideologia liberale, sa anche che « il nostro secolo » è infarcito di ipocrisia; ed è proprio questo che il narratore vuole comunicare sul piano ideologico: apparentemente sconfessando M athilde togliendola dal gruppo- delle « fanciulle che sono state il vanto dei balli di quest’inverno », e la cui « prudenza » consiste solo nel non disprezzare « un cospicuo patrimonio, i cavalli, le opulente proprietà terriere e tutto ciò che assicura una gradevole posizione nel mondo » {ibid.), non fa che imporre recisamente la realtà auto-evidente del personaggio. La scusa si scopre così per quello che il narratore vuole che sia: una giustificazione, appunto, per non incorrere nel biasimo, poiché la realtà « vera » del romanzo, come ben sapeva Defoe, bisogna autenticarla come dubbiosa o comunque giustificarla con prudenza perché appaia più vera. Su tutto questo, aleg-

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già la solidità del patto narrativo, che autorizza il creatore dell’universo fittizio, ormai in una posizione semi-divina di inattaccabilità, a ricominciare la storia di M athilde come se non ne avesse mai negata l ’autenticità; anzi, con la sicurezza dettata dal controllo ormai raggiunto sull’interlocutore: Tutta la giornata seguente ella spiò ogni occasione ... Il narratore del frammento (iii), singolare miscuglio di onniscienza e di dichiarazioni di ignoranza, è però attento a guadagnarsi la fiducia del lettore: siamo a pagina 10 del romanzo e ciò che viene qui negoziato è proprio il rapporto di fiducia. Il modo in cui avviene la transazione è insolito. Il narratore decide di scoprire la sua tendenza a m entire per poi recitare un mea culpa che lo riabiliti. Egli avanza una ipotesi, sostenendola come se fosse corroborata da sicure informazioni, come se — da narratore onnisciente quale finora ha dimostrato di poter essere a tratti si trovasse nella biblioteca del Conte di ... ad ascoltare, vedere e annotare ogni gesto e parola del personaggio; ma al tempo stesso si dichiara incapace di descrivere ciò che vede. E fa appello, perché si figurino ciò che descrivibile non è, alla immaginazione dei suoi « creativi le tto ri» (più creativi, forse, di lui stesso?). Ma perché la scena non è descrivibile? E perché il ricorso alla immaginazione e alla creatività del lettore? Perché la scena, non essendo autentica, non è autenticabile. Da storico accurato e veritiero, se anche per un momento si è fatto prendere la mano dalla tendenza ad inventare per abbellire la storia, dichiara di non poter ingannare il lettore: e ciò che segue, per quanto pallido e poco interessante possa apparire, ha l ’inestimabile pregio della verità. Denunciata la debolezza e proposto il pronto rimedio, il narratore per ciò stesso contrae l’impegno di non più mentire. Il lettore, da parte sua può, d ’ora in poi, confidare nella « autenticità » del mondo fittizio con il quale interagisce. Potrà fidarsi di ogni cosa: delle valutazioni come dei fatti, delle dichiarazioni di impotenza come delle dimostrazioni di onniscienza. Al brano (iv) non occorrono commenti dettagliati. Dello stile di immedesimazione de I Malavoglia il lettore italiano è accuratamente informato, come è informato della teoria verghiana della « inerenza della forma al soggetto ». Il solo particolare sul quale vorrei fermarmi è l’inclusivo « aiutare/ ». Che valore ha questo inclusivo nella prospettiva della interazione fra il narratore e il

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lettore? Chi è incluso nella espressione? Chi si colloca dalla parte del « punto di vista » dei Malavoglia? Il narratore, naturalmente, che si è costituito finora come voce appartenente ad uno degli abitanti di Trezza, e che questa identità manifesta, rafforzandola, lungo tutto il. testo. Il narratore, insieme ai personaggi dell’universo narrato, che come loro è diseredato e bisognoso, talvolta, di aiuto da parte dei « pezzi grossi » del paese; il narratore che, insieme con la famiglia di Padron ’N toni, ha partecipato ai moti garibaldini del 1860 (« la rivoluzione di satanasso ») e che ora se lo sente rinfacciare, insieme con Padron ’Ntoni, dal parroco di Trezza. Ma l’insieme creato dall’inclusivo non è completo, e gli individui che lo compongono non sarebbero neanche in grado di esprimersi con una loro voce, se anche il narratario non accettasse di entrarci. La posta in gioco della negoziazione attivata dall’inclusivo (siamo al primo capitolo del romanzo) è proprio l ’ingresso del narratario nel gruppo sociale che parla la lingua (e dunque esprime l ’ideologia e il « punto di vista ») dei pescatori di Trezza.

4.2 . N arratori, localizzatori, narratari H o il piacere di presentare ora ai miei lettori un documento originale e singolarissimo, la cui divulgazione fu resa possibile da una circostanza anche più singolare. Nessuna riflessione farò in proposito, né vi aggiungerò nulla di mio, per lasciare che ognuno giudichi da sé. J. Hogg, Confessioni di un peccatore

Occorre, aquesto punto, soffermarsi su quello che è uno degli apporti più macroscopici che il modello semiotico della comunicazione ha fin qui proposti alla narratologia, e cioè la moltiplicazione delle persone em ittenti e riceventi, o l ’insieme delle puntigliose precisazioni a proposito di quelle già assestate: intermediari con statuto diverso e, si direbbe, con funzioni ed attività differenti.1 1. Nella esposizione dei connotati di queste persone procederò dalla zona dell ’emittenza a quella della ricezione, considerando idealmente come estrema periferia delle due zone autore reale e lettore reale, e collocando le figure in una. scala di prossimità (ovviamente imprecisa) rispetto a queste due polarità.

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Ci-si può domandare perchè le discussioni teoriche sul romanzo tendano alla moltiplicazione di filtri e diaframmi, m entre di solito siamo disposti ad accettare che Quando leggiamo una poesia abbiamo a che fare (e a che interagire) semplicemente con 1’« io lirico » dell’autore. Personalmente, non ho una risposta adeguata a questo interrogativo, al quale forse sarebbe possibile replicare ricorrendo al dialogismo e al plurilinguismo di cui ci parla Bachtin anche come frapposizione di innumerevoli diaframmi fra noi e il testo del romanzo. Solo che, m entre l ’analisi condotta da Bachtin ci m ette in grado di attingere i meccanismi della lingua del romanzo e della sua capacità di intervento sul mondo, si ha la sensazione che il progressivo ispessimento del modello comunicazionale narratologico, m entre tenta un chiarimento e un raffinamento di conoscenza dei meccanismi di emissione e di ricezione, finisca con l’avallare una sorta di espropriazione della storia dal suo fruitore. N ell’ambito degli studi sull’emittenza, la tendenza a 'moltiplicare le persone narranti ha anche un filone apparentem ente semplificatore che punta, con cautela e con molti distinguo, a recuperare all’A utore la paternità della narrazione. Questa tendenza, che prende le mosse da Booth e dalla sua nozione di autore implicito, propone almeno due varianti dell’autore: il narratore come portavoce dell’autore (Krysinski 1977) e la extrafictional voice, voce extrafittizia o extranarrativa (Lanser 1981). U n’altra annotazione a proposito della moltiplicazione degli em ittenti: si è visto che la persona dell’autore implicito ha prodotto, a distanza di anni, un suo pendant collocato nella zona di ricezione, nella persona del lettore implicito (in sostanza, in qualche modo la figura della quale abbiamo discusso in 4.1., cioè quella alla quale sono dirette le operazioni di negoziazione del punto di vista e che ad esse risponde); allo stesso modo, se — ad esempio ■ —■la nozione di voce extranarrativa proposta da Lanser ha caratteristiche diverse da quelle che costituiscono l ’autore implicito di Booth, questa al pari di quella richiederà un pendant nella zona di ricezione: un narratario extrafittizio diverso dal lettore implicito, dal lettore modello e, naturalm ente, dal lettore reale. Il modello, così, si espande orizzontalmente, e la precisazione di statuto ed attività di queste figure limitrofe diviene assai ardua. Possiamo chiederci, in fin dèi conti, quanto sia p ro d u ttiv a 2. 2. G. Fink dedica un volume alla figura del narratore nella grande narrativa americana dell’Ottocento, attribuendo a questa « persona » fittizia non. solo

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Ma procediamo nella esposizione, oltre che per amore di documentazione, anche per rafforzarci contro gli assalti dell’io diviso della narratologia. 4.2.1. L ’autore come «narratore sem io tico» La proposizione chiave del lungo e complesso saggio di Krysinski (1977)-è che il narratore è delegato dall’autore a rappresentare una totalità assiologica ed ideologica, totalità che raccoglie complesse risonanze extratestuali, dunque i simboli e i miti della collettività. L ’autore, in quanto organizzatore dei segni che costruiscono il testo a partire dal mondo, in quanto coordinatore di tu tte le modalità della narrazione ivi incluso, naturalm ente, il posizionamento del narratore o dei narratori, non è da indicarsi come « narratore reale », ma bensì come « narratore semiotico », mentre i narratori sono figure delegate dall’autore per condurre a termine in modo discorsivamente adeguato il proprio progetto, figure e segni di un gioco condotto da un altro narratore, l ’autore stesso. Progetto e realizzazione discorsiva del progetto sono le attività rispettivam ente attribuite al narratore semiotico e al narratore apparente, o mediatore. Il rapporto fra autore e narratore diventa così un rapporto simbolico: il progetto del mondo organizzato dall ’autore viene consegnato, per la sua realizzazione discorsiva, al narratore, il quale è più di un concetto strutturale imprigionato entro un testo. Egli incarna la necessità e la prassi di simboli e miti. Il narratore è la voce del simbolo. Il suo ruolo è quello di mediare la coscienza dell’individuo e la coscienza collettiva, simboli di realtà o di utopia. (Krysinski 1977: 58).

tutta la responsabilità della mediazione della storia, ma anche tratti distintivi caratteristici e ricorrenti: Mediatore programmaticamente impotente fra autore e destinatario, figura discreta ed esangue che si .aggira, spesso esitante, nello spazio creato dalle intersecazioni fra le « fabule » e gli « intrecci » che costituiscono il mondo della letteratura, il Narratore potrebbe forse aspirare a un suo statuto strutturale, a una sua « paradigmaticità ». [...] N on sarebbe difficile enucleare taluni predicati costanti: la solitudine del Narratore, la sua incapacità ad « agire » nel contesto narrativo, la sua tendenza a conquistare una sorta di rivalsa sul terreno letterario. (Fink 1978: 68).

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È qui che incontriamo la differenza fra l’autore implicito di Booth e il narratore semiotico di Krysinski, differenza sottile ma significativa. In apertura del suo saggio, prendendo qualche distanza, Krysinski indica, appunto, la propria variazione di prospettiva rispetto a Booth: \ Le varie teorie e tipologie dei punti di vista (Lubbock; W. Booth) limitano il concetto di autore a quello di « autore implicito », senza considerare il fatto che la presentazione di un narratore specifico da parte di un autore rivela un insieme di problemi collegati in modo più complesso al problema della rappresentazione. [...] Pare che l’autore deleghi ciò che si può indicare come le visioni metonimiche della sua propria totalità assiologica ed ideologica, sia che questa venga manifestata positivamente che negativamente. A chi sono delegate queste visioni? Al narratore o ai narratori da lui scelti. E dunque l’autore è appunto il narratore del narratore; [...] Dunque, il problema delle visioni è legato ad una sovrapposizione e ad un intrico di frizioni fra una pre-mimesi, concettualizzata ed immaginata ed una mimesi verbalizzata. Il narratore compie la funzione di mediatore. Egli indica così l’autore che gli dà esistenza nel linguaggio. (ibid.: 45). Si capisce che a Krysinski non sia sufficiente la nozione di autore implicito come insieme di regole retoriche o istruzioni del testo, come combinazione ideale di norme costruite di volta in vblta ad hoc per ciascun testo, come semplice « versione ufficiale » dell’autore, soggetta a m utamenti. La versione di Booth, si può dire per semplificare, è quella di un mediatore dell’autore in funzione del testo, m entre quella di Krysinski è la figura di un mediatore di simboli e miti in funzione del mondo. 4.2.2. L ‘'autore come « narratore extrafittizio » Lanser (1981) asserisce l ’esistenza non soltanto del narratore fittizio, ma di una « voce extrafittizia » (extrafictional voice o extrafictional narrator), che qualifica come « presenza autoriale », e che vede situata dentro al testo: questa voce, che non ha niente a che vedere con il narratore, che è nel testo ma può anche non parlare mai nel testo, è là voce della autorità dello scrittore, una sorta di diritto alla convalida collettiva che l ’autore anagrafico ha ricevuto e che gli consente l ’atto di parola: l| v

Il termine « autore » designa non solo il (i) produttore (i) di un messaggio, ma un tipo particolare di potere formalizzato, l’autorità che

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l’emittente ha (presumibilmente) ricevuto dalla comunità sociale pertinente. [...] L’atto verbale, in altre parole, implica non solo un emittente, un ricevente e un messaggio, ma delle condizioni perché l’attività di parola abbia successo, che dipendono per la loro realizzazione dall’autorità dell’emittente e dalla validazione che il ricevente dà a questa autorità. (Lanser 1981: 82). Si precisa così il senso sociopragmatico in cui Lanser intende la voce dell’autorità nel testo, come consenso che il lettore le accorda (preliminarmente?), come permesso e autorizzazione all’autore perché avanzi la sua ipotesi di mondo fittizio. Insieme con la voce extrafittizia (autorità dello scrittore) altre strutture esterne contribuiscono alla costituzione del testo (e di questa voce?): il titolo, l ’indicazione di un genere specifico, una prefazione; le quali anche, dice Lanser, possono essere usate come strum enti per manipolare il « punto di vista » del testo. Ci sembra ora di capire che Lanser precisi lo statuto di questa voce come non-narrativo, e che la costituzione di questa nuova maschera nasca dal bisogno di riportare in primo piano l ’autore nella sua contestualità storica di scrittore inserito in (subordinato a, avvantaggiato da) un costume editoriale e un mercato culturale; e invece, all’improvviso Lanser riformula la persona come in qualche modo legata allo statuto narrativo, figura di autorità, sempre, ma in primo luogo di autorità diegetica: La voce extrafittizia è il veicolo più immediato che l’autore possiede, e nonostante che la maggior parte della comunicazione narrativa non avvenga al livello extrafittizio, la voce extrafittizia ha una forza di impatto maggiore della sua presenza quantitativa. [...] Tutte le altre voci che il testo crea sono subordinate ad essa, meno direttamente connesse con la transazione storica fra autore e pubblico, e più deboli quanto a statuto diegetico. (ibid.: 128). Il lettore, a questo punto, può avere la sensazione di trovarsi di fronte ad una vertigine all’infinito, ad una moltiplicazione senza senso di maschere dallo statuto incerto, di « voci » il cui discorso, non afferrabile, è collocato in una zona di alto rischio: quella che dal non-testo conduce al testo. Cercando di immaginare visivamente il percorso (operazione che la familiarità con i grafici semiotici rende automatica) e le persone che lo popolano, sempre più distanti vediamo la vecchia figura dell’autore e la più recente figura del narratore. In quest’ultima, credevamo — ■senza dubbio

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ingenuamente — di poter assommare tutte le voci e risolvere così tutti i problemi, non dimenticando, ovviaimente, che quelle voci e quei problemi sono pur sempre stati creati da qualcuno, autore o narratore dei narratori. E invece, questo ponte che separa autore e narratore lo troviamo popolato da figure oscure, non sempre trattate con benevolenza (sono di volta in volta la pressione dello establishment editoriale o la falsa coscienza), non sempre consapevoli dei loro compiti, quasi sempre inconoscibili. Non saranno le qualità proteiche, demiurgiche, mitiche dei narratori delle quali ci parla Kayser (1958) a provocare la moltiplicazione delle maschere, accumulando mito su mito, ma in fin dei conti spogliando quell’unica persona che avevamo immaginata onnipotente di ogni funzione che non sia quella di « rappresentare » o di ripetere in parole proprie contenuti che, per essere nati altrove, essa sconosce? 4.2.3. Narratore e focalizzatore: M. Bai Ma abbiamo ora da affrontare il filtro di una ulteriore mediazione, e dunque la figura di un altro usurpatore : il focalizzatore. >-' La distinzione che M. Bai (1977) pone alla base del suo discorso sulle istanze del racconto è quella genettiana fra « chi parla » e « chi vede »: l ’istanza che parla è il narratore, delegato dell’autore (« chi scrive »); ma fra « chi scrive » e « chi parla » si col-„ loca il focalizzatore, colui che vede e, vedendo, influenza colui ^ che parla. Troppo spesso — è inutile dirlo — l’interpretazione del racconto passa direttamente dall’autore al personaggio, e l’eventuale somiglianza fra' i due è decisiva per l’idea che ci si fa di quest’ultimo. Si passa direttamente dall’istanza che scrive all’istanza che è. In un momento decisivo della storia della teoria del racconto si è scoperta l’importanza essenziale e l’autonomia del delegato che l’autore ha deliberatamente investito della funzione narrativa del racconto: il narratore. In un altro momento, altrettanto decisivo benché più recente, si è scoperta la presenza di colui al quale questo narratore delega a sua volta una funzione intermediaria fra sé e il personaggio: il focalizzatore. (Bai 1977: 116). Senza soffermarmi analiticamente sui passaggi logici del saggio di Bai (peraltro assai impegnativo e quindi meritevole di attenzione), mi Umilerò a discuterne brevemente i presupposti, a mio avviso non accettabili. Bai disegna un modello gerarchico di successive mediazioni nell ’emittenza e nell’orientamento del racconto. [Le istanze sono: l ’Au-

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tore (fuori dal testo) e, dentro il testo: 1. il narratore (che si colloca al livello del racconto, o discorso); 2. il focalizzatore (che si colloca al livello della storia) e 3. l'attore (anch’esso al livello della storia). Ciò che crea le maggiori difficoltà è il fatto che la serie di istanze elencate è presentata come modello funzionante in ogni racconto e quindi caratteristico 'del racconto come genere di scrittura {ibid.: 116). Bai dice che m entre James distingueva le due istanze, G enette le ha pertinentem ente separate. O ra, ammesso che l ’ipotesi di G enette vada decisamente verso la separazione (preferisco ritenere che il narratologo francese distingua per necessità descrittiva « chi parla » da « chi vede »), è proprio la separazione statutaria che sembra non possa essere sostenuta, non almeno per tutti i tipi di racconto. Inoltre, se anche si potesse sostenere la separazione (istituzionale ed endemica) fra narratore e focalizzatore, non troverebbe comunque spazio una separazione (altrettanto istituzionale ed endemica) fra focalizzatore ed attore: il dire e il vedere, infatti, in tanto possono essere separati (in alcuni tipi di racconto) in quanto non sempre (non necessariamente) il vedere e il dire sono collocati nella stessa persona. Se, dunque, in alcuni casi è difficile (impossibile) accettare la separazione fra narratore e attore-focalizzatore (vedi il monologo interiore diretto, vedi il racconto epistolare), in (pressoché) tu tti i casi (a meno di non considerare narrazioni molto particolari) sembra impossibile sostenere una funzione di focalizzazione che non sia attribuita (separatam ente o alternativam ente o indistricabilmente) al narratore oppure al personaggio. U n ’altra difficoltà la prospettiva di Bai la crea nella netta separazione fra la funzione di enunciare (dire, verbalizzare) e quella di orientare il senso. La studiosa, infatti, allude al fatto che il narratore « invisibile » può non lasciare tracce di sé nella propria enunciazione {ibid.-. 117). Ecco un grosso scoglio teorico: le tracce di una qualche soggettività o di un qualche orientam ento semantico, dunque, in questi casi non si manifesterebbero al livello del discorso (al quale si colloca il narratore), ma solo al livello della storia (livello al quale opera la focalizzazione, « suggerendo » la propria visione al narratore). Ed è proprio nel tentativo di sostenere questo punto che la contraddizione si manifesta all’interno dello stesso saggio: più oltre, infatti, la studiosa afferma che « il narratore ha soltanto diritto alla parola » {ibid.: 121): ma avere diritto « soltanto » alla parola, non significa, in ultima analisi, assumersi

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tutta la responsabilità di enunciare e di enunciarsi? Tanto è vero, che l ’oggetto dell’attività del narratore \ i l narrato) è descritto dalla stessa Bai in term ini che denunciano perlomeno u n ’incertezza: Il narrato è composto dalle parole della narrazione. È l’enunciato. Per definire lo statuto del narratore si è cercata una risposta alla domanda: « chi parla? ». Una volta trovata questa risposta, ci si domanderà « che cosa dice? ». Così come l’oggetto di una azione subisce questa da parte del soggetto, allo stesso modo l’oggetto della narrazione dipende dal soggetto, è a questo subordinato. (i b i d 118; corsivi miei). Ci si può chiedere che cosa significhi « dipendere da » in questo contesto. Cioè, quale responsabilità sia esclusa, nella composizione della visione di un universo fittizio, da questa « dipendenza » del narrato dal narratore, e come l’atto di enunciare possa non implicare un dire se stesso in quanto posizione semantica orientata. Veniamo alla definizione di focalizzazione, che Bai indica come « centro di interesse ». Innanzitutto, intendo con questo concetto il risultato della selezione, fra i materiali possibili, del contenuto del racconto. In secondo luogo, il concetto implica la « vista », la visione, anche nel senso astratto di « considerare qualcosa sotto uh certo angolo », e infine la presentazione, (ibid.: 119). Il focalizzatore sarà dunque colui che vede, che seleziona i materiali, che delibera ed impone un « punto di vista », che « presenta ». Presenta al narratore, il quale sceglie (?) le parole, ma che ha « soltanto » diritto ad una parola carica delle valutazioni di qualcun altro. È cieco (e questo è vero: talvolta lo è), non ha opinioni (e questo non credo possa essere sostenuto), e soprattutto parla senza dirsi ed esprimendo una posizione semantica che appartiene ad altri. Precisando il ritratto del focalizzatore, Bai spiega che « in un racconto con narratore ‘ invisibile ’ il focalizzatore è spesso altrettanto anonimo » {ibid.-. 119); ma può cedere la focalizzazione, così come il narratore può cedere la parola, a qualcun altro. « È allora che il racconto è narrato dal punto di vista del personaggio, a focalizzazione interna » (ibid.-. 120). Le due possibilità sono, dunque, la focalizzazione esterna e quella interna: in quest’ultimo caso, però, Bai spiega, il personaggio non è mai soggetto della focalizzazione, ma oggetto focalizzato: la responsabilità rimane sempre al focalizzatore.

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È qui che si inserisce la differenziazione dei livelli di focalizzazione: ad un primo livello, il focalizzatore ha una visione esterna dell’oggetto narrato (ne vede segnali esteriori); come il narratore nel discorso diretto, il focalizzatore aderisce al personaggio senza però cedergli la focalizzazione; un mutamento di livello può essere marcato da una commutazione nei verbi. Ad esempio, se ci è detto che un personaggio guarda, poiché il verbo guardare perm ette una percezione dall’esterno, il focalizzatore mantiene ancora il suo potere; se invece ci è detto che un personaggio vede, siamo già al secondo livello. Il focalizzatore è il personaggio (ma ci era stato detto prima che il personaggio è sempre oggetto della focalizzazione), al quale il focalizzatore extradiegetico ha per il momento passato la mano, diventando focalizzatore al secondo livello. Non è del tutto chiaro come, in questo gioco di commutazione di livelli, si ponga il narratore. Bai dice che narratore e focalizzatore possono collocarsi al medesimo livello oppure a livelli differenti; l ’esempio prodotto, che verte sull’impiego del verbo ragionare, con il quale il narratore cederebbe la parola al personaggio (passando al secondo livello) e il focalizzatore esprimerebbe ancora il suo potere, non è del tutto convincente, e soprattutto mostra la macchinosità di un progetto la cui produttività ad un livello di conoscenza testuale non è dimostrata. Gli esempi, si sa, sono sempre illustrazioni ad hoc: non servono a mostrare come un oggetto (testuale) è costruito ma come può diventare operativo un progetto teorico. Di fronte alle scelte della Bai, tuttavia, ci si domanda come la teoria reggerebbe, ad esempio, nella pretesa di far funzionare le commutazioni di livelli, di fronte a testi nei quali non soltanto le funzioni di mediazione, ma anche le stesse informazioni distribuite, non sono gerarchizzabili. Senza arrivare a Finnegans W a k e , penso a certi capitoli di Ulisse (« Le mandrie del sole », ad esempio) o anche solo a certo Dos Passos. 4.2.4. Il narratore come creatore mitico dell’universo È del 1958 un saggio di Kayser sul problema del narratore, che affronta anche lo statuto del lettore. Lo studioso tedesco non indica come responsabile della narrazione e della creazione dell ’universo fittizio altri che il narratore; mentre nella zona di ricezione troviamo delineata nettam ente e con notevole anticipo la

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figura del lettore implicito. Il narratore, ci dice Kayser, fa da tramite fra la storia e il lettore, ma narrando costruisce u n ’altra persona, ci indica anche un altro elemento della forma romanzesca, lo fa sorgere sotto i nostri occhi, ed è il lettore. Questa constatazione ha di che sorprendere. Il lettore del romanzo, non siamo in effetti noi stessi^ con la nostra identità certificata dallo stato civile? Come possiamo noi dunque, come tutti questi lettori, tutti diversi, possono essere elementi della forma del romanzo? [ ...] Ma chi è questo lettore? Vediamo già che non si tratta di noi in quanto individui diversi e dotati di uno stato civile. In quanto tali, sappiamo in effetti che Werther, Tom Jones o Don Chisciotte non sono esistiti veramente, ma sono finzioni create dall’autore. [...] Il lettore è una creatura fittizia, un ruolo nel quale possiamo entrare per guardare noi stessi. La critica, nelle sue analisi stilistiche, forse non ha ancora accordata la dovuta attenzione al rapporto che il narratore intrattiene così con il suo lettore, né al ruolo così prescritto per il lettore. (Kayser 1958: 502-3 trad. frane.). Lo studio del narratario e quello del lettore implicito verranno ripresi oltre quindici anni dopo, sotto la spinta della estetica della ricezione e della pragmatica del testo; essi, comunque, hanno inizio qui. Kayser non si ferma a lungo sulla costruzione del ruolo del lettore implicito, poiché l ’interesse del saggio è centrato sul narratore. Il narratore, parte dell’universo poetico e indissolubilmente correlato a quel lettore che ne è anch’esso parte, è un ruolo fittizio nel quale, tu tte le volte che si pone a narrare una storia, un autore deve entrare o che deve creare: Tutti i papà e tutte le mamme sanno che si devono trasformare quando raccontano una storia ai loro bambini. Devono abbandonare l’atteggiamento razionalistico degli adulti e mutarsi in esseri per i quali l’universo poetico e le sue meraviglie sono una realtà. Il narratore ci crede, ànche se narra un racconto pieno di bugie. [...] II papà o la mamma che a loro volta raccontano una storia subiscono la stessa metamorfosi che ha dovuto operare l’autore quando ha cominciato il suo racconto. Il che vuol dire che nell’arte del racconto il narratore non è mai l ’autore, ma un ruolo inventato dall’autore. Per lui Werther, Don Chisciotte e Madame Bovary esistono e basta; egli è in armonia con l ’universo poetico, {ibid.: 504).

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Ma il narratore reale non ha facoltà di onniscienza, può leggere nella mente degli altri solo per il tram ite delle parole, non ha potere di vivere in luoghi e in sistemi temporali diversi; non dispone, insomma, come il narratore del romanzo, di poteri riservati a Dio o agli dei. L ’analogia, dice Kayser, non regge, anche se a tu tta prima sembrerebbe applicarsi ai narratori in prima persona: anche in questi casi, infatti, vi sono elementi, nella narrazione, che trascendono la soggettività del personaggio. Kayser sceglie il caso di M oby Dick: l ’iniziale « Chiamatemi Ismaele », che sembrerebbe attribuire al marinaio la responsabilità della narrazione, ci lascia una qualche incertezza. Il personaggio è un marinaio primitivo e semplice, m entre colui che narra ha letto Rabelais, Locke e Kant, e narra certamente più di quanto Ismaele abbia potuto vedere o sentire: Sarebbe assolutamente errato vedere in questo mutamento dì prospettiva un errore tecnico e spiegarlo (come qualcuno ha tentato di fare) attraverso la successione di più piani e di più fasi del lavoro. [...] In questo romanzo, come d ’altronde altrove, il narratore in prima persona non è per niente il prolungamento lineare del personaggio raccontato: è più di questo; il suo personaggio, quello dell’eroe invecchiato, non è che la maschera sensibile che nasconde una realtà diversa, (ibid.: 506). Il narratore si è dunque rivelato una maschera: diverso dall’autore e diverso, pure, dal personaggio, anche quando pare che sia questo ad esprimersi con la propria voce. Ma, dunque, chi porta questa maschera, sia che adotti la maschera di un narratore personale o che resti, al contrario, un’ombra? Siamo stati costretti a demolire l’analogia fra narratore del romanzo e narratore reale secondo la vita di tutti i giorni. Un’altra analogia si impone al posto di quella: il narratore del romanzo è analogo al dio (o agli dei) onnisciente e onnipresente. Il narratore del romanzo non è né l’autore né il personaggio fittizio, spesso così familiare. Dietro questa maschera è il romanzo che si racconta, lo spirito onnisciente e onnipresente che crea quest’universo. Egli costituisce questo universo nuovo e unico prendendo forma e mettendosi a parlare, evocandolo lui stesso con il suo verbo creatore. È lui che crea questo universo e, in esso, può essere onnisciente e onnipresente. Il narratore del romanzo è, in termini chiari e analogici, il creatore mitico dell’universo. {ibid.: 509).

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Kayser M ann, prendo pagina

conclude il suo saggio ' con una pagina -¿a L ’eletto di T. che illustra molto bene le conclusioni del suo studio. Riil testo riportandolo per intero, poiché si tratta di una affascinante:

Chi suona le campane? Non i campanari. Anch’essi come tutto il popolo sono accorsi sulla strada chiamati da quello scampanare misterioso e immenso. Persuadetevi: le celle campanarie sono vuote. Inerti pendono le funi, e tuttavia le campane ondeggiano e sbattagliano. Si dirà forse che nessuno le suona? No, solo una testa ignara di grammatica e di logica potrebbe affermare una cosa simile. « Le campane suonano » vuol dire: vengono suonate, anche se tutte le celle campanarie sono vuote. « Chi dunque suona le campane di Roma? » Lo spirito della narrazione. « Può dunque egli essere dappertutto, hic et ubique, può, per esempio, essere nello stesso tempo nella torre di S. Giorgio in Velabro e lassù a Santa Sabina, che conserva ancora le colonne dell’esecrabile tempio di Diana? Può suonare nello stesso tempo in cento luoghi sacri? » — Certo, lo può. È aereo, incorporeo, onnipresente, non legato allo spazio, non soggetto alle differenze del Qui e Là. È lui che dice: « Tutte le campane suonano » e di conseguenza è lui che le suona. Così spirituale è questo spirito e così astratto che di lui, grammaticalmente, si può parlare solo nella terza persona e si può dire solo: « Egli è ». Ma questo ‘ Egli ’ può anche raccogliersi in una persona e cioè nella prima, e impersonarsi in qualcuno-che in essa parla e dice: « Sono io. Io sono lo spirito della narrazione che, seduto laddove ora mi trovo, e precisamente nella biblioteca del chiostro di S. Gallo in terra alemanna, dove una volta sedeva Noktero il balbuziente, racconto questa storia per divertimento e straordinaria edificazione e comincio dalla sua fine gloriosamente santa e suono le campane di Roma, id est, racconto che in quel giorno dell’ingresso tutte le campane cominciarono a suonare da se stesse ». (T. Mann, L ’eletto; Der Erwählte, 1951). 4.2.5. Il narratario Con lo studio di Prince (1973b) entriamo nella zona della ricezione, nella quale abbiamo finora incontrato soltanto il lettore fittizio del quale ci parla Kayser. Vediamo di orientarci nella segmentazione dei vari destinatari che Prince delinea, distinguendo da essi il narratario: a) il narratario non è il lettore reale: la distinzione qui è netta: m entre l’uno è un ruolo fittizio, l ’altro è un ruolo reale. Il lettore è, di volta in volta, ogni effettivo lettore del testo;

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b) il narratano non è il lettore virtuale-. il lettore ' virtuale è quel destinatario probabile in funzione del quale il testo è costruito; una figura che l ’autore immagina come dotata di qualità, di capacità, di gusti, di opinioni. Diciamo che si tratta di una costruzione che l ’autore si fa immaginando il proprio pubblico di lettori, e che può coincidere o meno con il pubblico dei lettori reali; c) il 'narratario non è il lettore ideale : per uno scrittore il lettore ideale è colui che comprenderà perfettamente e approverà interamente la più piccola delle sue parole, la più sottile delle sue intenzioni. (Prince 1973b: 180). Ogni destinatario del racconto che sia diverso dalle tre figure così delineate, rientra nella tipologia del narratario. Prince include quindi nella categoria del narratario sia il destinatario interno della narrazione che in qualche modo figuri nell’intreccio (vedi il caso dell’interlocutore interno di Clemence ne La caduta di Camus — La chute, 1956 — , quello del califfo de Le mille e una notte o anche il caso, più complesso, di Lockwood, narratore primo di Cime tempestose di E. Bronte — W uthering Heights, 1847 — , che ad un certo momento diventa destinatario della porzione di storia raccontata da Nelly Dean), sia una persona assente, alla quale sembra che i segnali del narratore siano diretti. Prince definisce le caratteristiche dei narratari in rapporto ad un narratario di grado zero (un narratario, cioè, del quale il testo non indica né caratteristiche sociali né personalità né un sistema di valori. T utte le smentite o deviazioni in rapporto al grado zero servono a costruire il ritratto di un narratario specifico. Prince esemplifica con due enunciati tratti da « Un cuore semplice » (« Un coeur simple », 1877) di Flaubert: « Ella si gettò a terra » sembra indirizzato ad un narratario di grado zero, del quale il testo non dà ragguagli e al quale quindi non siamo autorizzati ad attribuire altro che la capacità di conoscere la lingua e la grammatica elem entare della narrazione: non gli attribuiamo né gusti né sistemi valutativi né emozioni. Al contrario, un eunciato come « T utto il suo essere produceva in lei quel turbam ento in cui ci fa precipitare lo spettacolo degli uomini straordinari »,

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non soltanto riferisce le reazioni dell’eroina nei confronti di M. Bourais ma ci dice anche che il narratario ha provato gli stessi sentimenti alla presenza di persone notevoli, {ibid.: 183). L ’esempio flaubertiano, e in particolare l ’uso dell’inclusivo « ci fa precipitare », ricorda da vicino l ’altro inclusivo, « aiutar« », de I Malavoglia, del quale si diceva che punta a recuperare all’insieme linguistico-assiologico dei pescatori di Trezza il narratario, e a negoziare con lui un « punto di vista » del testo al quale gli si chiede così di aderire. L ’esempio verghiano è particolarmente felice per illustrare anche la distinzione fra narratario e lettore virtuale proposta da Prince: in questo caso, infatti, la classe dei narratari così predisposta è specificamente la classe dei destinatari fittizi del narratore fittizio, ed essa non coincide affatto con l ’insieme dei lettori virtuali del romanzo il quale, in quanto^ opera letteraria, non è certo costruito in funzione dei pescatori di Trezza in quanto possibili lettori (altrove, ad esempio nel Joseph Andrew s, siamo meno disposti ad andare alla ricerca di un narratario che sia così evidentemente diverso dal lettore virtuale). I problem i, con il saggio di Prince, nascono man mano che inoltriamo nella precisazione dei connotati del narratario, passando dal grado zero del narratario anonimo, attraverso segnali più o meno espliciti che ci forniscano un qualche connotato della persona, a quelli che Prince indica come narratari-personaggi, o comunque narratari descritti con caratteristiche precise: la nazionalità, la professione, ecc. O ra, prendiamo uno degli esempi proposti da Prince, e cioè Cuore di tenebra di Conrad (Heart of Darkness, 1902). A ll’inizio del romanzo, un narratore in prima persona racconta di essersi trovato, una sera, su un piccolo yacht da crociera ancorato nell’ultimo tratto del Tamigi, che conduce al mare. Lo stesso narratore, che di sé non dice nulla, ci dà alcune sommarie informazioni sulle altre quattro persone presenti: il D irettore della Compagnia, l’Avvocato, l’Amministratore e M arlow. Si sofferma, dunque, per alcune pagine, su M arlow, e sulla sua abitudine di raccontare storie, per poi cedergli definitivamente la parola. È M arlow, e non il narratore primo, a raccontare la storia del titolo. Citando questa situazione narrativa, Prince individua negli ascoltatori di M arlow (non ci dice però se anche il narratore primo) i narratari di Cuore di tenebra. O ra, non sembra che, in questo e in altri testi, la classe dei destinatari, interni alla narrazione in quanto parte dell’intreccio, possa essere considerata omologa al narratario al quale di tanto in tanto il narratore si rivolge

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implicitamente con un inclusivo o più esplicitamente appellandolo « lettore », « amico », « ascoltatore », ecc. Nel caso degli ascoltatori di M arlow, come nel caso del califfo de Le mille e una notte, ci troviamo di fronte ad elementi della storia (meno importanti ai fini dell’intreccio nel primo caso e addirittura essenziali nel secondo) che, in quanto tali, vengono a loro volta consegnati ad un destinatario complessivo, un narratario assente con il quale è negoziato, nel suo complesso, il « punto di vista » che dal romanzo scaturisce: nel caso di Conrad, non soltanto quello proposto dalla voce di M arlow e dal racconto a lui affidato, ma anche quello proposto dal narratore primo, ivi compresi i suoi giudizi su M arlow narratore, che con ogni evidenza non sono percepibili da parte dei destinatari da lui narrati. 4.2.6. I l lettore implicito e il suo punto di vista: W . Iser Procedendo nella lettura di testi più recenti, incontriamo ancora due persone sulle quali fermare la nostra attenzione: il lettore implicito (Iser 1972 e soprattutto 1976) e il lettore modello (Eco 1979). Entram be le nozioni hanno come obiettivo la ricostruzione e la descrizione delle procedure di lettura che i testi narrativi stimolano, e delle manovre cooperative che il lettore esegue. Si tratta, in entrambi i casi, di figure inedite, non assimilabili né alla figura del narratario né a quella del lettore virtuale; quanto al lettore ideale che incontriamo brevem ente nel saggio di Prince (destinatario privilegiato in grado di comprendere ogni sfumatura del testo e ogni più piccola intenzione dell’autore), a tutta prima esso si potrebbe avvicinare al Lettore Modello di Eco. Se non che nel primo è postulata una competenza ideale (identica a quella dell’autore), m entre nel secondo è contemplata la possibilità della decodifica aberrante. Inoltre, soprattutto in Eco, ma anche in Iser, le persone di lettore modello e lettore implicito sono in primo luogo concetti operativi, che servono a farci individuare e descrivere i meccanismi della narratività: un obiettivo che finora era stato perseguito a partire dalla attività delle persone emittenti. La novità e l ’importanza di queste figure sta anzi proprio nel rove: sciamento di prospettiva che esse propongono, un rovesciamento che avviene quasi simultaneamente ma dietro la suggestione di stimoli culturali diversi. Nel caso di Iser la matrice sembra essere quella degli studi di estetica della ricezione sviluppatisi a Costanza (anche se Iser giustamente precisa che l ’oggetto di quegli

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stùdi è un lettore storico, m entre il suo lettore è un costrutto intellettuale), che hanno il loro maggiore esponente in H . R. Jauss (vedi Jauss 1967) e che propongono la sostituzione della tradizionale storia della produzione letteraria con una storia della ricezione e delPefficacia sulla base dell’orizzonte di attesa del pubblico; nel caso di Eco, Lector in fabula è per molti versi un proseguimento coerente di Opera aperta (1962); se si vuole, quello che il precedente libro sarebbe stato se fosse nato in un clima saturo di semiotica e di pragmatica del testo. Ma fermiamoci prima sullo Im plizite Leser, cercando di trarre dal lavoro esteso e complesso di Iser un succo essenziale. Iser (1976; è da quest’opera che tu tti i riferimenti sono tratti) definisce il suo lettore implicito sullo sfondo di figure analoghe delineate da altri studiosi per descrivere l ’impresa della cooperazione testuale. Innanzitutto lo differenzia dalle varie categorie di lettori reali che sono oggetto di ricostruzione della storia delle ricezioni documentate del testo letterario; per quanto concerne i lettori ipotetici, costruzioni con valore euristico, egli traccia significative differenze fra il suo lettore implicito e: (a) il lettore ideale; (b) il superlettore (Riffaterre 1971); (c) il lettore informato (Fish 1970); (d) il lettore progettato (W olff 1971). Il .primo è, dice Iser, del tutto fittizio e privo di qualsiasi base nella realtà, in quanto postulato come capace di attualizzare tutti i significati di un testo, abilità che ovviamente nessun lettore reale possiede; il superlettore postulato da Riffaterre è il rappresentante di un gruppo di lettori dotati di competenze diverse che si uniscono in punti nodali del testo per ricavarne un significativo fatto stilistico e scoprire e decodificare così punti di particolare densità semantica; il lettore informato di Fish è un parlante perfettam ente competente della lingua, in possesso anche di un notevole sapere semantico e letterario (costrutto astratto, dunque, ma che può realizzarsi in un lettore particolarmente consapevole e maturo); infine, il lettore progettato di Wolff incarna l ’idea di lettore che l ’autore aveva in mente (l’abbiamo già incontrato come lettore virtuale), la quale presumibilmente esprime le convenzioni del pubblico contemporaneo e il desiderio dell’autore di assecondarle o contrastarle (la discussione è alle pagine 27-34 della traduzione inglese). Queste figure di lettori, nota Iser, propongono tutte restrizioni che compromettono l ’applicabilità della nozione. Il lettore implicito che egli postula, dunque, non ha caratteristiche predeterminate né una collocazione storica definita:

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Egli incarna tutte quelle predisposizioni che sono necessarie perché un’opera letteraria possa esercitare il suo effetto, predisposizioni che sono organizzate non da una realtà empirica esterna ma dal testo stesso. Di conseguenza, il lettore implicito come concetto ha radici saldamente piantate nella struttura del testo; è un costrutto, e non va in alcun modo identificato con il lettore reale. (Iser 1976: 34 trad. ingl.). Come vedremo anche in Eco, è quindi il testo a postulare la competenza del lettore e a dare a questi un ruolo: il rapporto fra il lavoro testuale (atto strutturato) del lettore e la struttura del testo è dunque un rapporto descrivibile come intenzione/esecuzione. Ma il ruolo del lettore può essere eseguito (e dunque il significato del testo attualizzato) in modi diversi, a seconda di circostanze storiche o individuali: la struttura del testo consente modi diversi di esecuzione. Chiaramente, dunque, il processo di esecuzione è sempre selettivo e qualsiasi attualizzazione può essere giudicata sullo sfondo delle altre potenzialmente presenti nella struttura testuale del ruolo del lettore. Ogni attualizzazione, quindi, rappresenta una realizzazione selettiva del lettore implicito. {ibid.: 37). Ci avviciniamo al punto nodale della trattazione di Iser, e cioè la descrizione e discussione del punto di vista del lettore implicito nel testo. Ciò che, infatti, la struttura del testo produce per il lettore è proprio un punto di vista; così facendo, essa segue una regola fondamentale della percezione umana, poiché le nostre visioni del mondo hanno sempre natura prospettica. [...] In virtù di questo punto di vista il lettore è messo in condizione di poter organizzare il significato verso il quale le prospettive del testo lo hanno guidato. (ibid.: 38). Di fatto, il modo migliore di descrivere la maniera in cui un lettore è presente nel testo è il ricorso alla nozione di punto di vista vagante-, la interazione fra testo e lettore è di natura tu tta particolare, poiché particolare è il modo di contatto e di percezione che si ha nel caso di un testo scritto. Poiché l ’oggetto-testo non può essere percepito simultaneamente nella sua interezza ma deve invece essere assorbito per fasi, invece di una relazione soggetto-oggetto vi è un punto di vista che si sposta, che viaggia all'interno di ciò che deve comprendere. Questo modo di cogliere un oggetto è soltanto della letteratura, (ibid. : 109).

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Il processo di lettura è un continuo gioco di attese modificate e ricordi trasform ati: il testo propone continuamente forze di protenzione e di ritenzione fra l ’orizzonte passato, che è già stato riempito, e quello futuro, ancora da organizzare. È il punto di vista vagante a creare continuamente amalgami, ritenendoli nella memoria e man mano modificandoli. Ci troviamo, con Iser, di fronte ad una formulazione che propone una im portante novità: lo sguardo (la visione, il punto di vista o la prospettiva) che organizza il testo è quello del lettore: se anche le sue risposte sono suggerite dalla struttura del testo, col suo lavoro di sintesi e di continuo aggiustamento, con la sua capacità di muoversi attraverso tutte le prospettive parziali (del narratore, dei personaggi) e di m etterle in relazione, di farne di volta in volta risaltare alcune e porre sullo sfondo altre, con la sua memoria prodigiosa, il lettore implicito, sembra di poter concludere, si pone in fin dei conti come il solo creatore onnisciente dell’universo del romanzo, o almeno come la sola « persona » capace di dominarlo interagente: ciò che i personaggi sanno parzialmente, ciò che il narratore può avere dimenticato, anche dopo averlo narrato, o ciò che può aver ceduto alla responsabilità enunciazionale di altri, il lettore implicito lo sa, lo elabora, lo ricorda; colmando i vuoti, crea connessioni e prevede sviluppi. Chi altro, entro il mondo fittizio, è in grado di fare di più? Un ultimo punto della teoria di Iser va menzionato, e cioè il riferimento ai « vuoti » del testo e alla loro funzione propulsiva nella fenomenologia della lettura, come stimolo al punto di vista vagante del lettore implicito a creare connessioni laddove il testo le nega: sono proprio gli elementi mancanti o impliciti (anch’essi parte della struttura del testo), e cioè i vuoti che spezzano la connettibilità, a stimolare la cooperazione del lettore; infatti, nel momento in cui il testo sottrae la connessione esplicita, si apre un numero maggiore di possibilità, cosicché la combinazione di vari schemi implica decisioni selettive da parte del lettore, (ibid.: 184). 4.2.7. Il Lettore Modello Sui vuoti di cui è intessuto il testo è basata anche molta parte della teoria e della fenomenologia della cooperazione testuale in Eco (1979). Ed è tempo, appunto, di fare conoscenza con l ’ultima figura della nostra galleria, per la quale — ancor più che per il lettore implicito di Iser — la collocazione nella zona di

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ricezione è inadeguata dato il ruolo che essa assume nella generazione e nella interpretazione del testo: il Lettore Modello, a differenza di quasi tu tti i costrutti fin qui menzionati e a somiglianza ' del lettore implicito di Iser, non ha connotati delineati a priori; né è solo un punto di vista che ci aiuta a capire come è fatto e come funziona un testo; è questo ma è molto di più, nel testo-, in modo più netto di quanto non lo sia il lettore implicito di Iser, il Lettore Modello è una strategia testuale, di volta in volta progettata e costruita per essere collocata in fabula. Generato col testo, il Lettore Modello è nel testo come elemento costitutivo del gioco testuale, come previsione di interpretazione. E poiché è il meccanismo del testo che, prevedendolo, genera il Lettore Modello, occorrerà, per tracciarne un ritratto, cogliere alcuni aspetti del comportamento dei testi. Un testo, dice Eco, è intessuto di spazi bianchi, di interstizi da riempire, e chi lo ha emesso prevedeva che essi fossero riempiti e li ha lasciati bianchi per due ragioni. Anzitutto perché un testo è un meccanismo pigro (o economico) che vive sul plusvalore di senso introdottovi dal destinatario, e solo in casi di estrema pignoleria, estrema preoccupazione didascalica o estrema repressività il testo si complica di ridondanze e specificazioni ulteriori — sino al limite in cui si violano le normali regole di conversazione. E in secondo luogo perché, via via che passa dalla funzione didascalica a quella estetica, un testo vuole lasciare al lettore l’iniziativa interpretativa, anche se di solito desidera essere interpretato con un margine sufficiente di univocità. Un testo vuole che qualcuno lo aiuti a funzionare. (Eco 1979: 52). Il testo, dunque, prevede il lettore « come condizione indispensabile non solo della propria capacità comunicativa concreta ma anche della propria potenzialità significativa» {ibid.-. 52-3). Ma qui interviene l ’inquietudine prodotta dalla consapevolezza della mobilità e complessità del codice, e in ogni modo del fatto che per decodificare un messaggio non è sufficiente la competenza linguistica; e poiché oltretutto la competenza del destinatario non è necessariamente quella dell’em ittente, poiché, cioè, esiste la possibilità di decodifiche « aberranti », occorre chiedersi che cosa garantisce che l ’interpretazione avvenga « con un margine sufficiente di univocità »; e come possa un testo affidare la propria sorte interpretativa al proprio meccanismo generativo: generare un testo significa attuare una strategia di cui fan parte le previsioni delle mosse altrui —• come d’altra parte in ogni strategia.

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N e lla str a te g ia m ilita r e (o sc a c c h is tic a , d ic ia m o in o g n i str a te g ia g io c o ) lo str a te g a si d ise g n a u n m o d e llo d i a v v e r sa r io .

di

[...] Per organizzare la propria strategia testuale un autore deve riferirsi a una serie di competenze (espressione più vasta che « conoscenza di codici ») che conferiscano contenuto alle espressioni che usa. Egli deve assumere che l’insieme di competenze a cui si riferisce sia lo stesso a cui si riferisce il proprio lettore. Pertanto prevederà un Lettore Modello capace di cooperare all’attualizzazione testuale come egli, l’autore, pensava, e di muoversi interpretativamente così come egli si è mosso generativamente. (i b i d 54, 55). Ma c’è di più: un testo non soltanto presuppone.o prevede, ma anche istituisce la competenza del proprio Lettore Modello: [...] prevedere il proprio Lettore Modello non significa solo « sperare » che esista, significa anche muovere il testo in modo da costruirlo. Un testo non solo riposa su, ma contribuisce a produrre una competenza. (ibid.-. 56). / Da parte sua, anche l ’Autore compare nel testo in quanto strategia: ciò che viene attualizzato non è l ’insieme di intenzioni che risalgono ad un soggetto empirico, ma l’insieme di intenzioni virtualmente contenute nell’enunciato; al pari del Destinatario, l ’Em ittente è un ruolo attanziale dell’enunciato, presente come stile riconoscibile, come soggetto dell’enunciato, (quando nell’enunciato dice « io ») come occorrenza illocutiva, come operatore di forza perlocutiva o « come intervento di un soggetto estraneo all’enunciato ma in qualche modo presente nel più vasto tessuto testuale» (ibid.-. 61). Insomma, quando si usano term ini come Autore e Lettore Modello si intenderà riferirsi a tipi di strategia testuale: Il Lettore Modello è un insieme di condizioni di felicità, testualmente stabilite, che devono essere soddisfatte perché un testo sia pienamente attualizzato nel suo contenuto potenziale, (ibid.: 62). Non mi soffermerò sul modello proposto da Eco né sul dettaglio delle operazioni suggerite sia al livello di strutture discorsive che al livello di strutture narrative e di attivazione di mondi possibili; e cercherò invece di enucleare ciò che pare più interessante riguardo alla attualizzazione del « punto di vista » o dei « punti di vista » del testo da parte del lettore Modello (e del correla-

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strategico). Uno dei nodi testuali che richiedono la cooperazione del lettore è la formulazione di ’strutture attanziali. A proposito della collocazione teorica di questa operazione, Eco giustamente afferma che è difficile stabilire quando e come essa avvenga, poiché se da una parte una ipotesi circa gli attanti è formulabile solo dopo una definizione di strutture narrative e di ipotesi sui mondi possibili, dall’altra, per poter formulare macroproposizioni narrative il lettore deve aver già avanzato qualche ipotesi di ruoli attanziali, almeno entro porzioni di fabula: Quando leggiamo Novantatré di Hugo, a che punto del romanzo decidiamo, su esplicite e reiterate dichiarazioni dell’autore, che vi si racconta la storia di un soggetto grandioso, la rivoluzione, voce del popolo e voce di Dio, che si disegna contro il proprio opponente, la reazione? [...] È chiaro che in una opera del genere l’ipotesi attanziale sopravviene non in risoluzione di una serie di astrazioni successive, da strutture discorsive a fabula e da questa alle strutture ideologiche, ma si instaura molto presto nel corso della lettura e guida le scelte, le previsioni, determina i filtraggi macroproposizionali, {ibid..: 175). La medesima perplessità sussiste per Pattualizzazione di strutture ideologiche. Ma ciò che più interessa è la correlazione che Eco istituisce fra strutture attanziali e strutture ideologiche: m entre una impalcatura attanziale si presenta come sistema di opposizioni, dunque come un s-codice (gli s-codici sono strutture dotate solo di una grammatica interna, indipendentem ente dalle correlazioni di significato che intervengono per effetto delle regole associative di un codice), una struttura ideologica si presenta come codice in senso proprio e cioè come sistema di correlazioni. Potremmo anzi dire che una struttura ideologica si manifesta quando correlazioni assiologiche vengono associate a ruoli attanziali iscritti nel testo. È quando una impalcatura attanziale viene investita di giudizi' di valore, e i ruoli veicolano opposizioni assiologiche come Buono vs Cattivo, Vero vs Falso (o anche Vita vs Morte o Natura vs Cultura) che il testo esibisce in filigrana la sua ideologia, {ibid.: 176). Ma qui entra di nuovo in ballo la competenza del Lettore M odello, competenza questa volta specificamente ideologica, che è parte della sua competenza generale e che interviene nella attualizzazione di ciò che possiamo chiamare il sistema ideologico del

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te sto , o comunque nella creazione di percorsi ideologici che incanalano attribuzioni assiologiche: la competenza ideologica del Lettore Modello interviene a dirigere la scelta della impalcatura attanziale e delle grandi opposizioni ideologiche. Per esempio un lettore la cui competenza ideologica consista in una rozza ma efficace opposizione tra Valori Spirituali (connotati come « buoni ») e Valori Materiali (connotati come « cattivi ») potrà essere tentato di attualizzare in un romanzo come ha morte a Venezia due grandi opposizioni a livello attanziale, la vocazione estetica di Aschenbach contro il suo desiderio carnale (e dunque Spirito vs Materia) assegnando, a livello di strutture ideologiche, al primo una inarca di « positività » e al secondo una marca di « negatività ». Lettura alquanto povera e scarsamente problematica, ma si cercava appunto un esempio di come la competenza ideologica determini l’attualizzazione delle strutture profonde testuali. Naturalmente un testo può prevedere tale competenza nel proprio Lettore Modello e lavorare [...] per metterla in crisi e indurre il lettore a individuare strutture attanziali e ideologiche più complesse, {ibid.: 177). ' Si vede subito quanto le osservazioni di Eco possono giovare alla individuazione dei percorsi ideologici di un testo, soprattutto se l ’analisi percorrerà le varie caselle del modello (ma vedi anche le proposte avanzate in 6.2.); poiché — questo è im portante rilevarlo — gli investim enti ideologici appaiono sia ai livelli di una prima attualizzazione della manifestazione lineare (primo investimento semantico, prime ipotesi sul soggetto dell’enunciazione, ecc.) che ai livelli più complessi di strutture narrative e di strutture di mondi (per un modello della distribuzione della informazione nel testo vedi M artella, Pugliatti e Zacchi 1983). 4.2.8. Il lettore reale Ancora qualche annotazione, prima di abbandonare le persone riceventi che le varie teorie hanno individuate nel modello comunicazionale narrativo; annotazioni che vertono su una « persona » trascurata dalla teoria perché considerata — ■ a torto o a ragione — ■non-teorizzabile: il lettore reale o empirico, del quale si può parlare, appunto, solo in termini empirici e al singolare personale « io », ma a proposito del quale forse è possibile anche avanzare qualche ipotesi di generalizzazione. Non, ovviamente, sul suo statuto ontologico, caratteristicamente singolare, ma piuttosto su alcuni aspetti probabilmente generalizzabili del suo

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modo di inserirsi nel patto narrativo: in quanto ultimo anellodelia catena di riceventi, infatti, il lettore empirico è destinatario (come nessun’altra delle persone sopra delineate) non solo della storia ma anche della somma dei destinatari (narratari impliciti,, lettori impliciti, extrafittizi, virtuali, ideali, ecc.) evocati dal testo. Naturalm ente, si dirà, un lettore « reale » con connotati generalizzabili è già un modello e un costrutto euristico. Infatti. Alla domanda pre-teorica che ci si può porre (« che cosa succede al lettore empirico confrontato con la lettura di un romanzo? »), la risposta che si può dare riguarda proprio la tendenza del lettore a organizzarsi in un modello, attraverso un processo di sdoppiamento e di somma che lo porta a strutturarsi in più ruoli: innanzitutto quello di lettore virtuale, poi quello di narratario extradiegetico e infine (ma non sto qui illustrando una gerarchia né priorità temporali) quello di Lettore Modello. Il solo ruolo che il lettore empirico non tende ad impersonare è quello del narratario intradiegetico (il califfo de Le mille e una notte, per intenderci). In quanto proiezione del lettore virtuale, il lettore empirico si ristruttura entro i connotati di un ritratto collettivo ipotetico ma storicamente fondato, assumendo nell’operazione di ricezione mitologie e simboli culturalmente connotati e previsti dal testo (se leggo I promessi sposi posso facilmente integrarmi in un gruppo di ascolto che apprezza i valori umani e trascendenti della morale e della religione cattolica, mentre se leggo I Viceré non stento a collocarmi entro una audience che comprende ed apprezza i valori liberali, disprezzando al contrario i privilegi di casta quanto Parrampicatura sociale); in quanto narratari©-fittizio extradiegetico, poi, il lettore empirico assume le sembianze di un modello di Ascoltatore, cogliendo gli ammiccamenti dell’Em ittente in quanto rivolti a quel modello, e di conseguenza costruendo strutture ideologiche rivolte a quell’interlocutore discorsivamente predisposto nel testo. Quando leggo, in un romanzo, Ella fu commossa, questa volta, lusingata da quella frase come tutte le donne dai complimenti che sanno trovare la strada del cuore, e gli volse uno di quegli sguardi rapidi e grati che fanno di noi i loro schiavi. (G. de Maupassant, Bei-Ami, 1885). non posso, naturalm ente, includermi nell’insieme dei narratari evocati in quanto lettrice empirica; anzi, in quanto tale so che probabilmente non esiste più, nella mia realtà, un insieme di uomini che tendono a « farsi schiavi » di uno sguardo né un in-

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'Emittenza e ricezione; il completamento del modello comunicazionale

sieme di donne « grate dei complimenti che sanno trovare la strada del cuore ». Tuttavia, se non fossi in grado di addossarmi i connotati (almeno quelli ricostruibili) di quei narratari, senza pertanto rinunciare ai miei connotati empirici, se non fossi in grado cioè di ristrutturarm i anche nell’insieme di destinatari evocati nel discorso, non potrei in alcun modo interagire con il testo cogliendone gli ammiccamenti e individuando il patto di complicità che esso propone. In quanto « copia » (cioè, imitazione) del lettore implicito o del Lettore Modello, poi, il lettore empirico aspira al puntuale compimento delle operazioni di cooperazione testuale; ad assumere, cioè, connotati, e a mostrare competenze che non sono né quelle del lettore virtuale né quelle del narratario extradiegetico. Un esempio può spiegare la sfalsatura di tutti i ruoli indicati: quando leggo Joseph Andrews, mi occorrono solo poche pagine per individuare i ruoli riceventi da addossarmi, perché previsti dal testo: il lettore virtuale d i tquesto romanzo è un destinatario in grado di cogliere la distanza ironica che separa questo testo da 'Pamela o da testi analQghi, ed è possibile che i miei connotati di lettore empirico coincidano ancora, nonostante la distanza storica, con quelli del lettore virtuale immaginato da Fielding, almeno in parte; so anche che il narratario extradiegetico del romanzo, al quale il lettore si rivolge appellandolo « amico » o « lettrice », è invece qualcuno che non è in grado di cogliere tale distanza ironica e che, facendo parte del gioco del narratore, lo prende alla lettera: insomma', ritiene davvero che un giovane, al pari di una fanciulla, debba difendere la propria virtù, e non sospetta l ’ipocrisia. Bersaglio « falso » ma possibile. In quanto aspirante Lettore Modello, so in che modo devo interagire con il testo per trarne il maggior partito, so che il testo mi prevede in un certo modo e in un certo modo intende costruirmi: conosco le attese di attualizzazione dell’Autore Modello in quanto strategia e so come rispondere, a mia volta ponendomi quale strategia. Insomma, la somma dei ruoli fittizi che il lettore empirico costruisce in quanto ultimo anello di una catena di destinatari, produce di per sé un modello storico-ermeneutico assai complesso. Le ombre dei destinatari che lungo il testo ricostruisco e nei cui panni mi contemplo (lettore implicito e Lettore Modello inclusi) non mi impediscono di sovrapporre, in ultima analisi, una ulteriore persona — un me stesso lettore empirico di romanzi — in grado di costruire, facendo leva su quelle ombre o prendendosene gioco, l ’ultima, per me definitiva, ipotesi di mondo.

5. Le direzioni della pragmatica

5 .1 . Fra pragmatica enuticiazionale e pragmatica illocutoria Nei due capitoli che concludono questo libro parlerò, mettendo da parte il versante prospettico della nozione di punto di vista, della organizzazione di orientamenti semantici (soggettività, assiologia, ideologia) in quanto « punti di vista » prodotti dal discorso narrativo. Le teorie di riferimento saranno quella dell’enunciazione e quella degli atti linguistici; in 6.5., poi, proporrò la teoria della dialogicità valutativa avanzata da Volosinov, capace a mio avviso di sviluppi assai interessanti per il problema che ci interessa. Siamo, come si vede, nell’ambito degli studi di pragmatica. Perché, dunque, parlavo di orientam enti semantici? Quando si parla di pragmatica a proposito di letteratura, le direzioni di studio sono molteplici e piuttosto confuse. In particolare, in narratologia è scaturita dalla teoria dell’enunciazione la nozione di voce (vedi 3.2.), m entre da quella degli atti linguistici è derivata una nozione assai nebulosa di atto narrativo, intesa in due modi distinti: (a) nelle narrazioni (letterarie), come in qualsiasi altra situazione, si compiono azioni linguistiche che nel testo appaiono come direzioni illocutorie ed effetti perlocutori; (b) narrare è un atto linguistico di tipo particolare (l’atto di narrare, appunto). Senza proporre una vera discussione del problema, che ci porterebbe molto lontano, dirò soltanto che prevale, nelle linee di intervento ricordate, la tendenza a considerare le dinamiche comunicazionali e interattive del discorso narrativo nelle loro ripercussioni entro al testo (ruoli, voci, azioni linguistiche, ecc., e loro effetti « pragmatici » entro il contesto fittizio). Ciò che interessa la narratologia enunciazionale, ad esempio (e Genette non fa eccezione), è identificare, attraverso il loro peculiare discorso,

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le istanze che di volta in volta producono la narrazione; comporre, cioè, un « ritratto » dell’istanza (anche se assente) così come essa scaturisce dalle parole e dalla loro combinazione. Il che, in term ini di procedimenti, comporta in sostanza la scomposizione degli elementi del lessico nelle loro componenti semantiche o l’analisi degli idioletti nelle loro componenti stilistico-retoriche. Ciò che interessa la narratologia illocutoria, poi, è addirittura più restrittivo: nessuno degli studiosi che si sono occupati del problema (vedi 5.4.) è andato molto oltre l ’assegnazione di nomi agli atti linguistici che si compiono nel testo e l’indicazione di direzioni illocutorie (raramente di effetti perlocutori) sempre entro ai contesti di finzione; m entre d ’altra parte si sprecano energie per qualificare ed aggiungere alle classificazioni esistenti l ’atto linguistico particolare che sarebbe il narrare: direzione che proietta, sì, il testo in un contesto esterno, ma attribuendo a questo contesto la sola funzione di recepire passivamente degli « atti narrativi ». E invece, fuori dalla riflessione (sia senunciazionale che illocutoria) rimane l ’analisi del modo in cui il testo costruisce o condiziona il « punto di vista » del lettore; o delle strategie attraverso le quali l ’istanza della narrazione evita o sospende o rende problematica l ’espressione diretta dell’atteggiamento illocutorio (vedremo in 6.5. qualche esempio di queste procedure di latenza del « punto di vista »). E manca soprattutto ogni considerazione sugli effetti perlocutori che il testo produce: sulle strategie, cioè, attraverso le quali il romanzo pretende di operare, e spesso opera, cambiamenti nel mondo del lettore; il quale a sua volta interagisce con il testo con l ’apporto dei « punti di vista » suggeriti dal proprio universo di discorso. Indicazioni in questo senso ci vengono, oltre che dalle teorie sul ruolo del lettore esposte in 4.2.6. e 4.2.7., dai preziosissimi studi di Bachtin e Volosinov sui quali mi fermerò nell’ultimo capitolo di questo libro; m entre invece il solo studio narratologico che possa dirsi tecnicamente pragmatico (Pratt 1977) comm ette fra l ’altro l ’errore di assimilare tout court il discorso narrativo letterario alle cosiddette « narrazioni naturali »; quando invece è stato dimostrato con argomenti convincenti che queste ultime hanno modelli di struttura peculiari (Labov 1972) e che rispondono a speciali costrizioni sociali, che variano oltretutto in base al particolare « genere » narrativo (Polanyi 1982). Da una parte, dunque, le analisi della soggettività, incentrate come sono su rilievi lessicali discreti e scomposizioni del si-

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gnificato, non potranno che risultare in una semantica; o al più in una sorta di pragmatica mitigata perché pragmatica di contesti simulati. Il testo letterario, infatti, è per sua natura « decontestualizzato » (vedi Pagnini 1 9 8 0 :2 3 e passim): in esso, cioè, rapporti sociali, pre-condizioni, intenzioni e scopi della comunicazione sono costrutti semantici che fingono le dinamiche sociali interattive e i loro effetti. D all’altra, la teoria degli atti linguistici non supera una definizione del narrare come atto indifferenziato e monolitico, oppure la tentazione di vedere l ’efficacia dei singoli atti linguistici entro il contesto di finzione. In questo senso ha ragione Austin quando sostiene che un atto linguistico sarà vuoto o inefficace quando pronunciato da un attore sul palcoscenico: vuoto, certo, e inefficace, nel senso che non produrrà effetti reali (giuridici o di altro genere) nella realtà extratestuale; efficacissimo, invece, potrà esserlo in senso perlocutorio, perché in grado di indurre nello spettatore convinzioni, comportamenti e « punti di vista » capaci di cambiare il mondo. In questo capitolo e in quello che segue, la mia trattazione — come il lettore non mancherà di notare — soffre delle carenze teoriche sopra esposte; tuttavia, nel commentare i frammenti narrativi mi sono sempre sforzata di costruire (o implicitare), fuori dal testo, lo sguardo del lettore e di seguire questo sguardo finché esso diventa, appunto, un « punto di vista ». 5 .2 . La responsabilità d i enunciare R ileg g ete la vostra lettera. C ’è un ordin e che v i sm aschera ad ogn i frase. C. d e L aclos, h e re la zio n i perico lo se D ic en d o « io » n o n p osso fare a m eno di parlare di m e. E . B enveniste

È allinguista francese Emile Benveniste che possiamo far risalire il primo nucleo consistente di riflessioni a proposito della soggettività nel linguaggio. Già in Benveniste 1946, l’interesse per la categoria grammaticale-filosofica di persona (categoria presente, in un modo o nell’altro, in tutte le lingue dotate di verbo e quindi, secondo Benveniste, evidentemente non accidentale, ma piuttosto connaturata al verbo stesso), l ’interrogazione sulla natura di tale categoria, la designazione della pertinenza della persona alle posizioni « io » e « tu » (e l ’esclusione dell’« egli » come non-per-

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sona, l ’assente dei grammatici arabi), danno indicazioni rilevanti nel senso della ricerca del soggetto nella sua enunciazione linguistica. Ciò che è im portante è che nell’ambito delle due posizioni di persona, « io » e « tu », la posizione « io » ha uno statuto particolare, e cioè lo statuto a cui inerisce la soggettività, mentre il « tu » è la persona non-soggettiva (Benveniste 1946: 277 trad. it.). Queste osservazioni si precisano e si arricchiscono nei saggi successivi (Benveniste 1956 e 1958) proprio nel senso di uno studio dell’esercizio della lingua come fondazione della soggettività; la stessa categoria di persona espressa dal verbo è vista,^in ultima analisi, come necessitata dal fatto che usare la lingua significa immediatamente dire la propria soggettività (Benveniste 1958: 316 trad. it.). Inoltre, l ’installarsi della soggettività con la corhparsa della posizione « io » può provocare, nota Benveniste, mutamenti di prospettiva nel linguaggio. ^Ad esempio, esistono verbi che, al mutare della persona, non cambiano significato (si tratta dei verbi che descrivono azioni, come mangiare o soffrire); invece, altre classi di verbi, indicati da Benveniste come verbi di operazione logica,• quando usati alla prima persona non descrivono l ’occupa' zione o l ’attività del soggetto (si tratta d i'v erb i come supporre, desumere, dedurre, ecc., che si comportano in maniera diversa da verbi come ragionare, riflettere, ecc.), ma indicano un particolare tipo di rapporto del soggetto con il contenuto dell’enunciato (Benveniste 1958: 317 trad. it.). Possiamo utilizzare quest’ultima affermazione ricordando ciò che si diceva del narratore inaffidabile de II buon soldato (vedi 1.3.), impegnato assai frequentemente nella enunciazione di verbi di operazione logica (o locuzioni modalizzanti) orientati quasi sempre sulla modalità della dubitazione. Quando Dowell usa espressioni come « Immagino che (I fancy th a t) durante il viaggio di ritorno dall’India, Leonora fu felice come mai lo era stata in vita sua », oppure « Suppongo che (I suppose that) per tutto quel tempo io fui un marito ingannato e che Leonora si accattivò Edw ard », o ancora: « Arguisco che (I gather) dopo di ciò non ebbe più rimorsi », oppure « Credo (I guess) di aver reso difficile per te, ascoltatore silenzioso, cogliere questa impressione », non si descrive occupato a dubitare, a supporre, ad arguire, ecc.; l ’installarsi della soggettività trasferisce l ’accento su un atteggiamento del soggetto: nel caso particolare, quello di poiettare ombre di dubbio sul contenuto degli enunciati.

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Dalle osservazioni sui verbi di operazione logica, il passo è breve verso l ’apertura alla teoria degli atti linguistici. Benveniste, infatti, lo compie in chiusura dello stesso saggio, discutendo quelli che chiama verbi dichiarativi (come giurare, promettere, garantire, certificare), questa volta ponendo l’accento sugli effetti pratici della inscrizione del soggetto nel linguaggio. I verbi discussi da Benveniste sono, in sostanza, quelli che Austin (1962) indicherà come performativi. A proposito di questi verbi, Benveniste iiv dica con chiarezza il fatto che il soggetto, enunciandoli, contrae un preciso impegno (1958: 319 trad. it.). La teoria dell’enunciazione e la teoria degli atti linguistici hanno inizio con questi saggi e con l ’opera quasi contemporanea di Austin, per merito dei quali il soggetto entra prepotentem ente nell’orizzonte della linguistica. E ppure, i soggetti simulati che sono i narratori fittizi se ne avvantaggeranno solo molti anni dopo, e anche allora in modo piuttosto tangenziale. Intanto, la teoria si precisava e si raffinava. Nel 1970 la rivista Langages dedicava un numero speciale ai problemi dell’enunciazione, nel quale il contributo di Benveniste è quello della proposta di un quadro formale. Introducendo il problema, Benveniste definisce l ’enunciazione come « processo di appropriazione » nel quale, utilizzando « indici specifici e procedimenti accessori », il locutore notifica il suo ingresso nel discorso, impianta l ’altro (un allocutario) di fronte a sé ed esprime il suo rapporto col mondo (Benveniste 1970:14). Vediamo succintamente le categorie linguistiche elencate da Benveniste, in primo luogo quelle indicate come indici specifici di notificazione dell’ingresso del soggetto nel discorso. Sono, innanzitutto, i cosiddetti indici di persona (io-tu nel loro reciproco rapporto); della medesima natura sono gli indici di ostensione (ad esempio i dimostrativi: questo, qui, quello, ecc.), termini che implicano un gesto: le forme che la grammatica tradizionale chiama pronomi personali, dimostrativi, ecc., sono individui linguistici, cioè forme che rinviano sempre e soltanto a degli individui. Lo statuto di questi individui (indici di persona o di ostensione, detti anche deittici) si definisce a partire dal fatto che nascono da una enunciazione e sono legati ad una particolare situazione, o contesto, di enunciazione. Sono significanti il cui significato non cambia, ma il cui referente è di volta in volta diverso: io designa di volta in volta colui che dice io-, oggi, domani, ieri qui, là, non designano sempre lo stesso tempo

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e lo stesso luogo, ma di volta in volta il luogo e il tempo in cui avviene l ’atto di enunciazione o un luogo e un tempo lontano da esso (vedi l ’importanza della nozione di punto di vista ad esempio nella discussione dei verbi aller/venir in Kerbrat-Orecchioni 1980: 70 sgg. o del verbo inglese come in Fillmore 1966, verbi in cui la prospettiva si definisce a partire dal punto di vista del soggetto enunciante). O ltre alle forme temporali come gli avverbi di tempo e le locuzioni temporali, sono da elencare i tempi del verbo, tra i quali il presente coincide con il momento dell’enunciazione (il modo è invece da studiare non tanto in relazione alla collocazione del locutore, quanto in relazione al suo atteggiamento: assertivo, dubitativo, ecc.) \ O ltre a queste forme grammaticali, l ’enunciazione è responsabile di alcune grandi funzioni sintattiche: l’interrogazione, che è u n ’enunciazione costruita per suscitare una risposta verbale, l ’intimazione, costruita per provocare una risposta comportamentale; l ’asserzione, che mira a comunicare una certezza che parte dal soggetto (e, conversamente, tutte le locazioni che mirano a produrre incertezza o, deliberatamente, il rifiuto di asserire). Siamo qui al limite della discussione di categorie diverse da quelle puram ente indicali, ostensive e deittiche, che Benveniste si proponeva di classificare nel suo saggio: tocchiamo, con le funzioni sintattiche, con le modalità, e vcon i verbi performativi, il problema dell’impegno del locutore: del suo agire usando la lingua e del suo notificare, attraverso l ’organizzazione del proprio discorso, un modello del mondo.

5 .3 .

A ffe ttiv ità /v a lu ta tiv ità : narratori

teoria linguistica e prassi dei N o n c ’è parola senza accento valutativo.

V . N . V olosinov

Le categorie grammaticali e sintattiche indicate da Benveniste come base dell’appropriazione della lingua da parte del soggetto non esauriscono il campo di indagine dei problemi dell’enunciazione. Successivi impulsi teorici hanno prodotto studi (per la ve-

1. Sulla costituzione del profilo temporale del testo in una prospettiva linguistico-testuale, il contributo più significativo è finora Weinrich 1964.

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rità non molti) che si avvalgono sia delle istanze della pragmatica che di quelle della semantica producendo un approccio unificato. Il più esteso di questi studi è Kerbrat-Orecchioni 1980: nell ’indagine della linguista francese, il punto focale centrale è il soggetto, componente essenziale della situazione pragmatica di discorso, m entre l’analisi degli elementi affettivi e valutativi, che aspira a costituirsi in quadro formale, procede attraverso l ’investigazione dei tratti semantici del lessico, anche se certi elementi del contesto (o perlomeno del co-testo) non sono mai del tutto persi di vista.. In un certo senso, afferma la studiosa, tu tte le unità lessicali sono soggettive, in quanto simboli sostitutivi e interpretativi delle « cose ». Vi sono, tuttavia, tratti semantici che più di altri sono marcati dalla soggettività del soggetto dell’enunciazione: [...] quando un soggetto dell’enunciazione si trova di fronte al problema della verbalizzazione di un oggetto referenziale, reale o immaginario, e dovendo per ciò selezionare alcune unità nella riserva lessicale e sintattica che il codice gli propone, egli ha grosso modo da scegliere fra due tipi di formulazione: • il discorso « oggettivo », che si sforza di cancellare ogni traccia dell’esistenza di un enunciatore individuale; . il discorso « soggettivo » nel quale l’enunciatore si rivela esplicitamente [...] o si pone implicitamente [...] come fonte valutativa dell’asserzione. (Kerbrat-Orecchioni 1980: 70-1). Affrontando lo studio e la classificazione dei termini soggettivi, l ’autrice dichiara che essi costituiscono un insieme non ben delim itato, e che dunque il loro reperimento si affida largamente all ’intuizione. Inoltre, fa notare che l ’asse di opposizione oggettivo/ soggettivo non è dicotomico ma graduale; che esistono, quindi, termini più o meno soggettivi e termini più o meno compatibili con un discorso oggettivo (scientifico, burocratico, ecc.) 2. È da

2. In uno dei suoi romanzi-inchiesta, La scomparsa di Majorana, Sciascia sottilmente smantella, in più occasioni, la pretesa oggettività del linguaggio burocratico. Lo scrittore commenta, ad esempio, gli orientamenti semantici della verbalizzazione apparentemente asciutta di un incontro fra il fratello del professore scomparso e il capo della polizia, « dove quel che a noi può sembrare — a filo di grammatica,' di sintassi, di logica — fuor di regola o di coerenza, è invece linguaggio che allude o indica o prescrive ». Il verbale, insomma, che a prima vista sembra normalmente (cioè in accordo con i connotati stilistici del

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porre, in ogni modo, l ’esistenza di certe categorie di soggettivemi (tratti soggettivi del linguaggio): in particolare, i tratti affettivo, valutativo e modalizzatore come segmentazioni del tratto generale soggettivo. Vediamo ora in qual modo alcuni narratori utilizzano elem enti soggettivi con valore assiologico per esprimere valutazioni in prima persona o a nome di qualcuno dei personaggi, dunque illuminando i tratti della propria o dell’altrui soggettività. Il narratore di II rosso e il nero di Stendhal, nonostante narri in terza persona e a differenza della maggior parte dei narratori « assenti », tiene a fornire su di sé informazioni che servono non soltanto a collocare la sua persona spazio-temporalmente, ma anche a farne il portavoce di una certa parte politica: In effetti queste sagge persone esercitano il più noioso dispotismo: e proprio per questo il soggiorno nelle piccole città di provincia è insopportabile per chi ha vìssuto in quella grande repubblica chiamata Parigi. La tirannia dell’opinione pubblica (e quale opinione!) è altrettanto stupida nelle cittadine francesi quanto negli Stati Uniti d’America. Quante volte pensando ai balli di Parigi abbandonati il giorno prima, col petto appoggiato" a questi grandi massi di un bel grigio azzurro, ho immerso lo sguardo nella valle del Doubs. Per parte mia ho da obiettate soltanto una cosa al « Cours de la Fidelité » (nome ufficiale, scritto in una ventina di punti diversi su lastre di marmo che hanno fruttato una ulteriore decorazione al sindaco); ed è il modo barbaro con cui le autorità fanno sfrondare e potare fino al vivo questi vigorosi platani. (Stendhal, Il rosso e il nero; nelle citazioni di questo capitolo i corsivi sono sempre miei). N onostante viva o abbia vissuto a Parigi, il narratore è familiare con l ’ambiente provinciale che descrive; sembra, anzi, che in discorso burocratico) agrammaticale e incoerente, è invece attraversato, secondo Sciascia, da allusioni, giudizi e precise intenzionalità: Colpisce subito l’evidente svista del prim o i lungo nel nome Majorana, dove di i ce n ’è solo uno (una): ma gli si può anche assegnare la funzione che di solito si assegna ai lapsus. E cioè: guardate a che folle dettaglio questi folli familiari si attaccano. Non è invece da notare come svista o errore l'indovinato che segue al visto riguardo al colore dell’abito. Si tratta di un giudizio sulla testimonianza dell’infermiera: dice di aver visto, ma ha solo indovinato. Pertanto, in tutta la « nota di servizio » è continuamente sottinteso l’avvertimento: badate che sono i familiari a sollecitare altre ricerche, badate che sono stati loro a raccogliere queste testimonianze; noi siamo convinti che il professore, chi sa dove e come, si è suicidato — e come non si è p o tu to venire a capo d i nulla prima, così non si verrà a capo di nulla con nuove indagini. (L. Sciascia, La scomparsa di Majorana , 1975).

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questa situazione di enunciazione egli si collochi spazialmente proprio a Verrières (vedi l’uso d i individui linguistici, o deittici, in « questi grandi massi », « questi vigorosi platani »). Egli si presenta, dunque, come narratore informato ed affidabile. Dopo aver costruito di sé questa immagine, egli affronta l’incontro con il protagonista, e sembra in un primo momento considerarlo con simpatia, finché non ci sorprende con un sostantivo fortemente devalorizzante: Julien, sorpreso di non ricever botte, si affrettò ad andarsene. Ma appena fu sicuro che suo padre non l’avrebbe visto, rallentò il passo. Pensò che una sosta in chiesa avrebbe giovato alla sua ipocrisia. Questa parola vi stupisce? (ibid.). Essendosi presentato come fonte informata ed attendibile, il narratore sa non soltanto di poter introdurre il forte valutativo devalorizzante, ma anche di poterlo far passare per un elemento di descrizione oggettiva (addirittura si tratta di una valutazione che scaturisce dal personaggio). Da questo momento il narratario è consapevole del fatto che la storia di Julien Sorel sarà narrata da una soggettività forte, sempre pronta a cogliere in fallo il protagonista e mai disposta a sorvolare sui suoi difetti. M olto avanti nella storia, il narratore esplicitamente verbalizza ciò che prima aveva solo insinuato, e cioè Yassoluta mancanza di fede di Julien, futuro sacerdote! E nonostante egli si dichiari della medesima parte politica di Julien, talvolta sembra parteggiare per gli avversari, per i quali almeno la politica è un gioco di potere volto all’acquisto di benefici e non, come nel protagonista, ingenuo arrivismo e impulsività mai finalizzata. Un altro narratore decisamente disposto a scoprire le carte del proprio sistema di valori è quello di I Viceré.Vediamolo alle prese con l ’uso di sostantivi devalorizzanti: Il monaco stava a sentirlo, spalancando tanto d’occhi, come aspettando di vedere fin dove sarebbero arrivate le enormità che quel bestione eruttava: alla fine scoppiò: ... (F. De Roberto, I Viceré, 1894). Qui l ’impiego dei sostantivi devalorizzanti enormità e bestione non è da ascriversi al narratore, il quale sta solo prendendo a prestito il lessico, le abitudini ingiuriose e il sistema valutativo del personaggio (il monaco è D on Blasco, rozzo, iroso e corrotto rap presentante dell’aristocrazia clericale). Il narratore sta dunque cer-

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cando di indovinare le reazioni del personaggio (« come aspettando di vedere ... ») e riproducendole in un linguaggio che il lettore è abituato a sentire dalla bocca di questi. È vero però che, apparentem ente riferendo una reazione di don Blasco e una sua valutazione, il narratore scopre anche la sua valutazione negativa: la riproduzione di ciò che Bachtin chiamerebbe « discorso altrui in lingua altrui », esimendo il narratore dall’esprimere un giudizio esplicito, lo abilita al tempo stesso a produrre un giudizio sul personaggio, sulle sue abitudini ingiuriose e sul suo atteggiamento iroso (oltre ai sostantivi, rientrano nel quadro valutativo anche i verbi eruttava e scoppiò, il primo da attribuire al personaggio e il secondo al narratore, impegnato questa volta a registrare l ’ira di don Blasco). Tornando alla trattazione teorica della Kerbrat-Orecchioni, ne traiamo osservazioni interessanti a proposito della instabilità dei valori assiologici e della loro marcatura contestuale: Il valore assiologico di un termine [...] può essere più o meno stabile o instabile. Cioè, mentre alcuni termini “"sono chiaramente marcati [...] di una conontazione positiva o negativa, altri ricevono tale connotazione solo in un dialetto, socioletto o idioletto particolare. [...] Ma l ’instabilità degli investimenti assiologici osservabile nelle competenze lessicali dipende dalla diversità delle competenze ideologiche che queste riflettono ... (Kerbrat-Orecchioni 1980: 76). i

Ricorriamo ancora, per esemplificare l ’instabilità dei sostantivi assiologici, al narratore stendhaliano de II rosso e il nero. Sempre nelle prime pagine del romanzo, egli descrive (e valuta) la cittadina di Verrières attraverso le opere che il suo sindaco vi ha fatto costruire, prima fra tu tte la terrazza panoramica denominata Cours de la Fidélité: soffermandosi sui magnifici platani che vi fanno ombra, dice: Il loro rapido sviluppo e le loro belle fronde tendenti all’azzurro si devono alla terra che il sindaco ha fatto collocare dietro il suo immenso muro di sostegno, allargando così la passeggiata di oltre sei piedi, nonostante l’opposizione del consiglio municipale (e di questo devo dare atto a Renai, anche se egli è un ultra e io un liberale). (Stendhal, Il rosso e il nero). Ecco posta con chiarezza la posizione politico-ideologica del narratore: egli è, politicamente, avversario del sindaco Renai, anche se è disposto a concedergli, « obiettivamente », il merito di buone

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iniziative. Egli ci lascia in dubbio, invece, a proposito dell’esatta posizione che occupa a Verrières: non sembra, ad esempio, che faccia parte del consiglio comunale, né che sia una presenza stabile; anche perché poche righe più avanti, prosegue: I liberali del luogo sostengono, sia pure esagerando, che la mano del giardiniere ufficiale si è fatta molto più pesante da quando i proventi della potatura vanno a finire nelle mani del vicario Maslon. (Stendhal, II rosso e il nero). Il narratore presuppone evidentemente qui un narratario che simpatizzi con i liberali (o intende costruire un Lettore Modello che aderisca al punto di vista liberale); di fatto, l ’esplicitazione delle posizioni politiche di narratore e personaggio narrato propone di per sé per il testo una notevole mobilità di lettura e una possibile gamma differenziata di simpatie; oggi, ad esempio, il lettore ha, di fronte a questi paragrafi del romanzo, il problema di informarsi esattamente circa l ’estensione semantica dei termini ultrà e liberale nella Francia post-napoleonica; e finché le informazioni pertinenti non saranno acquisite, probabilmente sospenderà la propria valutazione e di conseguenza la propria adesione o meno alla prospettiva del racconto. Si passa quindi alla categoria degli aggettivi soggettivi, all’interno della quale la Kerbrat-Orecchioni distingue diverse modalità di espressione della soggettività: Aggettivi oggettivi. Es.: ce lib e/sp o s ato agg ettivi di colore m asc h io /fem m in a

soggettivi affe ttivi. Es.: penoso buffo patetic o

{

non assiologici ( g ra n d e "" lungo b) i caldo v num eroso

valutativi

assiologici / buono c )< bello ^ gradevole

Sono, naturalm ente, le categorie a), b) e c) che ci interessano per la inscrizione della soggettività nel linguaggio. Vediamo le definizioni fornite per ciascuna categoria: aggettivi affettivi: gli aggettivi affettivi enunciano, insieme aU una proprietà dell’oggetto che essi determinano, una reazione emotiva del soggetto parlante di fronte a quest’oggetto. (i b i d 84).

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aggettivi valutativi non-assiologici: questa classe comprende tutti gli aggettivi che, senza enunciare giudizi di valore né un impegno affettivo del locutore (almeno per quanto concerne la loro stretta definizione lessicale: in contesto essi possono infatti colorarsi affettivamente o assiologicamente), implicano una valutazione qualitativa o quantitativa dell’oggetto denotato dal sostantivo che essi determinano. La loro utilizzazione si fonda in questo senso su una doppia norma: (1) interna all’oggetto che è supporto della proprietà; (2) specifica del locutore — ed è in questa misura che essi possono essere considerati «soggettivi». (ibid.: 85-6). aggettivi valutativi assiologici:

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[...] a differenza dei precedenti, i valutativi assiologici veicolano sull’oggetto denotato dal sostantivo che essi determinano un giudizio di valore, positivo o negativo. Essi sono, dunque, doppiamente soggettivi: (1) nella misura in cui il loro uso varia [...] secondo la natura particolare del soggetto dell’enunciazione di cui essi riflettono la competenza ideologica; (2) nella misura in xui manifestano, da parte del locutore, una presa di posizione a favore o contro l’oggetto denotato, {ibid.: 90-1). Sono proprio i valutativi assiologici, dunque, che secondo la Kerbrat-Orecchioni hanno il più alto indice di soggettività. E sulla importanza della aggettivazione nella^ rivelazione della assiologia del soggetto della enunciazione (reale o fittizio) non si può non concordare: in questo senso si citava la quasi totale eliminazione dell’aggettivo (soggettivo e non) dal discorso di Mersault narratore della sua stessa storia ne Lo straniero di Camus: l ’espediente discorsivo è proprio volto, in quel caso, a far sparire ogni traccia di affettività e di valutatività (soprattutto assiologica) dall ’enunciazione, allo scopo di caricare il narratore-personaggio di quei tratti di neutralità e di indifferenza che fanno di lui una singolare creazione letteraria. M ersault, tuttavia, è sicuramente u n ’eccezione; più spesso, narratori che non nascondono la loro affettività o la loro assiologia puntano proprio sulle sottigliezze dell’aggettivo per esprimere il loro punto di vista. È possibile, anzi, immaginare uno studio del narratore (del suo impegno, della sua pretesa di obiettività, della sua attitudine ad imporsi con valutazioni proprie, ecc.) condotto attraverso una classificazione di prevalenza di classi aggettivali che possono caratterizzarne l ’atteggiamento nei confronti della materia narrata.

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Qui di seguito riporterò alcuni brani narrativi scelti, appunto, sulla base di prevalenze di classi aggettivali e che di conseguenza veicolano atteggiamenti diversi: quello della soggettività affettiva, quello della valutatività non-assiologica e quello della valutatività assiologica. a) la soggettività affettiva: La murata del bastimento faceva un'opaca cintura d ’ombra sull 'oscuro vitreo scintillìo del mare. Ma vidi immediatamente qualcosa di lungo e pallido galleggiare vicinissimo alla scaletta. Prima che potessi formulare un’ipotesi, un lieve sprazzo di luminosità che parve provenir subitaneo dal corpo nudo di un uomo, tremolò nell’acqua sonnacchiosa, con l’ingannevole silenzioso gioco di un baleno estivo in un cielo notturno. Con un sussulto vidi rivelarsi al mio intento sguardo un paio di piedi, due lunghe gambe, una larga livida schiena immersa fino al collo in un verdastro bagliore cadaverico. Una mano a fior d’acqua stringeva l’ultimo gradino della scaletta. Era completo, salvo la testa! Il sigaro mi sfuggì dalla bocca spalancata con un piccolo fruscio ed un breve sibilo perfettamente avvertibile nell’assoluto silenzio di tutte le cose sotto il cielo. A questo sibilo, suppongo, sollevò il viso: un indistinto pallido ovale, nell’ombra della murata. Ma anche allora riuscii appena a decifrare laggiù la forma del suo capo bruno. Fu però sufficiente a dissipare l’orrenda agghiacciante sensazione che mi aveva attanagliato il petto. (J. Conrad, Il coinquilino segreto-, The Secret Sharer, 1912). La sensazione complessiva prodotta dal brano è quella di una forte marcatura di affettività: esso riproduce le sensazioni di paura e di sgomento del narratore-protagonista nel momento in cui, sotto la murata della nave, in una luce che non consente una visione nitida, scopre l ’uomo che nel seguito del racconto sarà ospite segreto nella sua cabina. I l mistero e la paura provocati dall’inesplicabilità della visione puntano verso una forte soggettività affettiva del locutore. Eppure, a ben guardare, gli aggettivi del brano sicuramente classificabili come affettivi non sono molti. Vi includerei soltanto sonnacchiosa, ingannevole, orrenda, agghiacciante e forse cadaverico. Per il resto, l ’aggettivazione si dispone equamente fra i valutativi non-assiologici (lungo, lieve, larga, completo, piccolo, breve, ecc.) e gli oggettivi (opaca, oscuro, vitreo, nudo, estivo, notturno, ecc.), naturalm ente con qualche incertezza di classificazione per aggettivi come subitaneo, assoluto, indistinto, ecc. Il gioco retorico, abilissimo, che produce la sen-

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sazione di forte soggettività, consiste nell’attirare aggettivi apparentem ente neutri in una sfera di emotività privandoli di ogni capacità di descrivere o valutare oggettivamente: opaco, oscuro, vitreo, pallido, livido, verdastro, ecc. non sono dati come qualità intrinseche del denotato che il locutore annoti in maniera oggettiva ed attendibile, ma piuttosto come effetti della deformazione procurata insieme dalla luce incerta e dallo stato di eccitazione nervosa del narratore. Così, aggettivi apparentem ente oggettivi come estivo e notturno sono inseriti nel gioco metaforico o analogico (è l’ingannevole silenzioso gioco delle acque a creare la sensazione di un baleno estivo nel cielo notturno). Infine, anche i valutativi non-assiologici come lunga., largo, piccolo, breve, lieve, sono messi in questione (assumono, cioè, il carattere di yalutazioni non attendibili e non oggettive) per via della insicurezza di percezione riconosciuta dallo stesso locutore. È in casi come questo che, alla prova dei testi, ci si accorge della unilateralità e della insufficienza di u n ’analisi che tende a lessicalizzare direzioni semantiche globali ed effetti retorici che attraverso l ’analisi di elementi del lessico presi singolarmente sono inattingibili. < Viene qui confermata, in ogni modo, la differenza che la Kerbrat-Orecchioni poneva fra la classe dei soggettivi affettivi e quella dei valutativi-assiologici, indicata nel fatto che i primi non implicano di solito giudizi di valore, coinvolgendo invece sicuramente l ’emotività del locutore. E si spiega, correlativamente, la totale assenza, in questo brano, di valutativi assiologici, i quali implicano pregiudizialmente la capacità di « vederci chiaro » da parte del locutore: il che non significa certo — come vedremo meglio in 6.2. — che gli assiologici esprimano qualità oggettive dei denotati. Q uest’ultim a caratteristica degli assiologici (la loro capacità di inserirsi efficacemente nei procedimenti del discorso ideologico) è chiara al Valmont de Le relazioni pericolose il quale, nel brano che segue, si m ostra consapevole non soltanto della possibilità di mentire che gli assiologici consentono, ma anche della loro qualità di esprimere una particolare situazione del parlante piuttosto che connotati intrinseci di ciò di cui si parla: Cerco invano la ragione di questa vostra strana idea, ma più o meno mi pare possa riferirsi agli elogi che mi sono permesso di rivolgere ad altre donne, almeno lo deduco dall’ostentazione con cui mettete in rilievo gli epiteti di adorabile, celestiale, attraente di cui mi sono ser-

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vito parlandovi di Mme de Tourvel o della piccola Volanges. Ma non sapete che queste parole, spesso usate più a caso che per riflessione, esprimono non tanto il valore della persona quanto la situazione in cui ci si trova parlandone? Ma degli assiologici si dirà di più in seguito: vediamo, intanto, l ’altra classe di valutativi, e cioè b)

i valutativi non-assiologici:

Per giudicare il nuovo venuto, Julien dovette limitarsi a ciò che potevano dirgli i suoi tratti e il suo aspetto. Era basso e tozzo, molto colorito in viso: i suoi occhi scintillanti non esprimevano che una cattiveria da cinghiale. L’attenzione di Julien fu bruscamente distratta dall’arrivo quasi immediato di un tipo del tutto diverso. Era un uomo alto, magrissimo, che portava tre o quattro panciotti. Il suo sguardo era carezzevole, i suoi gesti gentili. « Ha tutta la fisionomia del vecchio vescovo di Besançon » pensò Julien. Quell’uomo era evidentemente un ecclesiastico; dimostrava dai cinquanta ai cinquantacinque anni e aveva un’aria molto paterna. (Stendhal, Il rosso e il nero). La situazione di Julien, in questo momento della storia, è assai particolare: egli è stato condotto dal Marchese de La Mole ad una riunione politica segreta perché trascriva la discussione che vi si svolgerà. Naturalm ente, il Marchese ha avvertito Julien del fatto che non dovrà per nessun motivo al mondo fare domande né porsi quesiti su quanto vedrà; altrettanto naturalm ente, la curiosità di Julien non si è per questo spenta: fedele alla consegna di de La Mole, non gli porrà quesiti sui personaggi incontrati, ma non potrà perciò evitare di porne a se stesso. Soltanto, tu tto ciò che egli ha a disposizione per valutare situazione ed individui è l’aspetto esteriore dei personaggi che vengono via via introdotti. Il narratore, in questa circostanza, sceglie di azzerare la propria onniscienza (altrove nel romanzo ampiamente sfruttata) per guardare con gli occhi del protagonista. Il lettore, quindi, non saprà altro che ciò che Julien stesso vede e, tu tt’al più, ciò che egli riesce a inferire (lo sguardo carezzevole e i gesti gentili di uno dei personaggi gli suggeriscono l ’inferenza: « quell’uomo era evidentem ente un ecclesiastico »). I valutativi non possono, dunque, che essere prevalentemente non assiologici; anche laddove sembra che faccia capolino u n ’ombra di assiologia (carezzevole, gentile, paterno), in realtà essa è attirata nella sfera del non-assiologico,

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poiché gli attributi sono tu tti desunti da comportamenti o dall’aspetto esteriore. Lo scrivano zelante annoterà senza valutare, e la valutazione sarà così preclusa anche al narratario. c) i valutativi assiologici: I Viceré di Federico De Roberto è la storia di una famiglia siciliana di purissima nobilità spagnola colta nel momento in cui le vicende che portarono all’unità d ’Italia tendono a distruggere i privilegi di casta e a portare alla ribalta professionisti, borghesi e nobili « improvvisanti ». G li Uzeda resistono disperatamente (ottusamente, ci suggerisce il narratore) alle novità portate dal corso degli eventi politici, salvo poi a profittarne economicamente, ad esempio acquistando i beni dei monasteri dissolti. Il narratore è, con tu tta evidenza, un uomo al passo coi tempi, che vede nella famiglia Uzeda una assurda sopravvivenza impoverita e corrotta oltre che fatalm ente minata da una vena di pazzia. Uno dei luoghi nei quali il potere esclusivo di questa e di altre famiglie nobili dell’isola è arroccato è il ijionastero di ¿. Nicola, dove solo i frati di sicura nobiltà assurgono alle prime cariche e nel cui noviziato sono ammessi soltanto i rampolli delle grandi famiglie. Anche il convento, tuttavia, è scosso dalla ventata di rinnovamento che il passaggio di Garibaldi ha portato; e così, i frati .che non godono di particolari privilegi non essendo nobili o essendo soltanto bastardi di nobili famiglie, ostentano una improvvisa adesione alla fede liberale, nella speranza che qualcosa cambi in loro favore. La rissa esplode nel momento in cui il giovane Camillo Giulente, appartenente ad una famiglia di « mastri notari » (epiteto che in bocca ai nobili suona fortemente spregiativo) che da qualche tempo tenta la scalata alla condizione nobiliare, viene ammesso con uno scarto di pochi voti al noviziato di S. Nicola: La notizia aveva fatto chiasso: i nobili improvvisati, di fresca data, se ne erano rallegrati come di una fortuna loro propria, riconoscendo l’influsso dei nuovi tempi, l’azione spx£giudicata dei padri liberali; ma tra i puri lo scandalo durava ancora. (F. De Roberto, I Viceré). Qui il narratore intreccia e pone a confronto due diversi « punti di vista » e due diverse assiologie: quella dell’antica nobiltà e quella dei nobili nuovi. Per i primi, i « mastri notari » sono nobili improvvisati (valutativo assiologico fortemente devalorizzante, opposto a nobili « di antico lignaggio »), di fresca data (appa-

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rentemente valutativo non assiologico, che però si carica delle sfum ature devalorizzanti del precedente, del quale è una precisazione); e loro stessi sono i puri (valutativo assiologico laudativo). Per gli altri, invece, la ventata di m utamento dei tempi nuovi (valutativo apparentemente non assiologico ma caricato in contesto di valori positivi) ha prodotto l ’azione spregiudicata ( = libera da pregiudizi di casta) dei padri liberali { — fautori della libertà). Il « punto di vista » del narratore non sta né con gli uni né con gli altri: se trova sicuramente assurdo il pregiudizio dei prim i, non può non giudicare meschina la pretesa dei secondi (di fatto, egli contrappone le due posizioni, in una sorta di rissa), per i quali l ’influsso dei nuovi tempi e la spregiudicatezza dei padri liberali vale semplicemente l’estensione dei privilegi ad una nuova, comunque ristretta, cerchia elitaria. Passando alla categoria dei verbi soggettivi incontriamo molteplici difficoltà: non solo, come avverte la Kerbrat-Orecchioni, per quanto concerne la loro classificazione, ma anche per quanto concerne il loro reperimento nei testi narrativi. Sembra, inoltre, che i narratori si affidino di più, per esprimere la loro soggettività o quella dei personaggi narrati, alle altre categorie grammaticali (nome, aggettivo, avverbio) che a quella del verbo. La preferenza dipende probabilmente dal fatto che atteggiamento assiologico e modalità ( = grado di adesione ai contenuti enunciati) sono preferibilmente espressi attraverso una simulazione di oggettività che dissipi la responsabilità della loro enunciazione; cioè, piuttosto che affidarli a verbi fortem ente marcati espressi alla prima persona o alla terza (che evidenzierebbero senza mediazioni rispettivamente la responsabilità del locutore-narratore oppure quella del personaggio soggetto dell’enuciato) si preferisce simulare che giudizio valutativo e grado di impegno passino (discorsivamente, almeno) come registrazioni di qualità intrinseche e dunque indubitabili dell’oggetto. La ricerca, dunque, è quasi sempre deludente: anche se ci si rivolge a narratori quali quello de La fiera della vanità o quello di Guerra e pace che sembrerebbe dovessero concedersi un ampio spazio di valutazione anche alla prima persona, ci si accorge che la narrazione in diversa misura impositiva che essi propongono è di rado punteggiata da espressioni verbali che ne marchino la soggettività: non solo per quanto concerne la persona del narratore ma anche quando questi ci presenta la soggettività dei personaggi. Espressioni verbali come « io credo che » o « egli era convinto che » sono più spesso frasi profonde

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non esplicitate che manovre discorsive modalizzanti esplicite. I b rani nei quali ho esemplificato marcature soggettive nella scelta di sostantivi ed aggettivi sono stati tu tti ripercorsi alla ricerca di verbi che sorreggessero tali marcature: ad esempio, il passo conradiano da II coinquilino segreto, nel quale l’inserimento di una soggettività verbale (in particolare di verbi d i apprensione percettiva quali avere l ’impressione che, parere che, ecc.) parallela a quella espressa dall’aggettivo sembrerebbe obbligata, ne è invece quasi del tutto privo (ad eccezione di suppongo, verso la conclusione). L ’indagine, tuttavia, anche se deludente, non è certo inutile. In tan to , proprio per il fatto che i verbi soggettivi sono impiegati così economicamente, la loro presenza si rivelerà più significativa e degna di attenzione (vedi il già ricordato caso « patologico » del narratore de II buon soldato); in secondo luogo, può essere considerata significativa la loro assenza (quasi) totale in alcuni testi. Ad esempio, dovendo cercare verbi marcati assiologicamente (esprim enti una valutazione buono/ cattivo), e insieme l ’espressione di una modalità di impegno^ mi sono rivolta al saggio che conclude Guerra e pace, nel quale il narratore energicamente confuta atteggiamenti, principi ed interpretazioni della storiografia tradizionale (cioè: li ritiene cattivi in quarìto errati o superficiali), e propone (come buona) una suà interpretazione della ^storia. Nonostante che in questo caso non ci si trovi di fronte ad una vera e propria narrazione e nonostante le ovvie limitazioni della traduzione, anche qui sembra decisamente prevalente l ’uso di categorie soggettive diverse dal verbo: si profila l ’ipotesi che altri tipi di discorso oltre a quello narrativo usino i verbi valutativi e modalizzanti con parsimonia; il che potrebbe delineare una sorta di universale socio- o psicolinguistico (o un diffuso procedimento ideologico): e cioè la tendenza ad eludere l ’espressione dell’atto di giudizio e delPimpegno come responsabilità del soggetto dell’enunciazione, per sostituirla con la « naturalizzazione » di qualità che, attraverso il nome e l ’aggettivo, si pretende ineriscano agli enti nominati. Un altro tentativo deluso può essere considerato significativo: ■alla ricerca di verbi modalizzatori di apprensione percettiva (esprim enti una valutazione vero ¡falso/incerto) mi sono rivolta ai capitoli finali di M oby Dick, nei quali la balena bianca viene finalmente avvistata e che concludono il romanzo con la lunga caccia dei marinai del « Pequod ». L ’ipotesi di una forte inscrizione divver-

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bi di apprensione percettiva sembrava giustificata, nel ricordo impreciso o addirittura aberrante del testo, dalla lunga attesa di una forma (simbolica?) che non si sarebbe manifestata con chiarezza. E invece la percezione visiva del m ostro per i marinai è nettissima; né falsa né incerta, l ’immagine del mostro non è tuttavia neanche introdotta da verbi di opinione che esprimano verità o che tale verità tentino di corroborare (come giudicare, credere, essere sicuro che, ecc.): type o token, la balena semplicemente è. Il narratore (Ismaele oppure quella voce imprendibile che di tanto in tanto sembra sostituirlo), confrontato con la forma del mostro, non esprime dubbi ma neanche certezze: piuttosto che impegnarsi in prima persona, preferisce registrare le qualità (ma anche l ’essenza) della balena (sembra dirci: « ciò è quello che noi inoppugnabilmente vedemmo »), lasciando al lettore — e al critico — la responsabilità della interpretazione. Non che i verbi soggettivi siano del tu tto assenti in questi capitoli, naturalm ente: lo scaltro narratore, ad esempio, vede il mostro con occhi diversi (più esperti ed acuti) di quelli degli altri marinai: egli può inoltre vedere la balena anche con gli occhi di chi non l ’ha mai incontrata e che dunque confonde il suo soffio con quello di un qualsiasi altro capodoglio: ad ogni colpo di mare mostrava l’alta gobba scintillante e regolarmente sfiatava il suo gettito silenzioso nell’aria. Ai creduli marinai quello parve lo stesso gettito silenzioso che per tanto tempo avevano veduto sotto la luna, nell’Atlantico e nell’Indiano. (H. Melville, Moby Dick), È anche vero, tuttavia, che il verbo di apprensione percettiva si appoggia, fornendo un contributo più implicito che esplicito (impressione errata o falsa) all’aggettivo creduli, ben più eloquente entro il campo semantico dell’inganno del semplice parve. Insomma, m entre nel caso del sostantivo e soprattutto dell’aggettivo è possibile parlare di narrazioni con più o meno forte inscrizione di assiologia o di soggettività veicolata da tratti semantici lessicali, gli esempi di verbi assiologici e modalizzanti che trarrò da testi narrativi sono da considerarsi come manifestazioni di usi quasi sempre isolati, e generalmente non si costituiscono in stilemi o ideologemi caratteristici di una qualche soggettività. L ’ipotesi, che a priori sembra incontestabile, e cioè che l ’uso dei verbi, manifestazione grammaticale ideale dell’atto linguistico, possa determinare im portanti differenze nel « punto di vista » del testo attraverso la precisazione dell’atteggiamento del narratore,

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coinvolgendo il « fare linguistico » del soggetto, non è quindi confermata dalla presenza di categorie verbali soggettive nei testi narrativi: quando un narratore giudica, valuta, condanna, esprime credenze o sentimenti, o contrae impegni, raramente lo fa impiegando la forma classica dell’atto illocutorio (cioè dicendo « io giudico », « io condanno », « io mi impegno a »); molto più frequentem ente la sua attività illlocutoria è indiretta, cioè raram ente la codificazione della forza illocutoria è grammaticalizzata nel verbo (questa ricerca delle modalità di mascheramento o di disseminazione della forza illocutoria è, appunto, una delle direzioni nelle quali una teoria narratologica degli atti linguistici potrebbe indagare con profitto). Talvolta, usando un procedimento ideologico, attribuisce agli oggetti qualità che pretende oggettive, evitando di esporre la propria soggettività; talaltra il giudizio, il sentimento o l ’impegno sono sepolti in una frase profonda che in superficie preferisce grammaticalizzarsi attraverso le categorie del nome, dell’aggettivo o perfino dell’avverbio. D etto questo, mi proverò ugualmente ad esemplificare l ’uso soggettivo anche di questa categoria, tenendo presente il fatto che è proprio il suo uso parsimonioso a renderne significativa la presenza. N on riporterò la classificazione di Kerbrat-Orecchioni, eccessivamente macchinosa per i miei scopi, e mi limiterò ad etichettare, di volta in volta, il tijjo di espressione verbale soggettiva commentata. La sola avvertenza teorica che sembra utile precisare in questa sede è la distinizone operata dialla Kerbrat-Orecchioni fra tratti soggettivi assiologici (che esprimono o implicano un giudizio di valore buono/cattivo), tratti soggettivi modalizzatori (che esprimono o implicano un giudizio di verità/falsità/incertezza), e tratti soggettivi affettivi (che esprimono una reazione affettiva). a) verbi di sentimento con orientamento assiologico e affettivo: Poi ricordo che un giorno mio padre mi sorprese col suo panciotto in mano. Io, con una sfacciataggine che ora non avrei e che ancora adesso mi disgusta (chissà che tale disgusto non abbia una grande importanza nella mia cura) gli dissi che m’era venuta la curiosità di contarne i bottoni. (I. Svevo, La coscienza di Zeno). Il verbo di sentimento con orientamento assiologico m i disgusta esprimente una valutazione negativa è sorretto da m i sorprese (verbo che esprime implicitamente una valutazione negativa del processo: non si può sorprendere qualcuno a commettere u n ’azione giudi-

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cata buona). Il locutore-narratore in .prima persona esprime qui una valutazione negativa di un processo di cui egli stesso è (o è stato in passato) agente; si tratta sicuramente di un tratto caratteristico dell’indole di Zeno: egli è sempre consapevole dei suoi errori, che le sue nozioni di psicanalisi lo aiutano ad analizzare con lucidità: solo, non sa mai porvi rimedio. L ’atteggiamento di Zeno è confermato in un passo che segue di poche pagine il primo: Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. In questo caso i due verbi di sentimento con orientam ento affettivo odiare e amare si appoggiano ad un verbo di opinione (non sapere se, sapere) che ha un tratto soggettivo modalizzatore con il quale il locutore-narratore esprime prima incertezza e poi certezza a proposito della sua reazione affettiva rispetto all’oggetto (la sigaretta). b) verbi locutori assiologici: E rimasto solo (strano anche questo!) non pensai alla salute di mio padre, ma, commosso e — posso dirlo — con ogni rispetto filiale, deplorai che una mente simile che mirava a mète alte, non avesse trovata la possibilità di una cultura migliore. (I. Svevo, La coscienza di Zeno). Appena arrivata, infatti, donna Ferdinanda, che nonostante la mal sedata inquietudine pubblica era in città per una sua causa contro certi debitori morosi, venne a trovarli all’albergo, s’informò dell’accaduto, approvò la determinazione di Raimondo con una sola parola, ma molto espressiva: « Finalmente! ... ». C’erano in città anche Benedetto e Lucrezia che s’era poi fatto coraggio: Raimondo andò a trovarli il domani del suo arrivo. Lucrezia gli restituì la visita nella stessa serata, non curando l’opposizione del marito. Questi giudicava molto severamente la condotta del cognato e, se avesse osato, avrebbe impedito alla moglie di far quella visita; ma Lucrezia dichiarò che non vedeva nulla di male nel recarsi a trovare il proprio fratello: era forse obbligata a sapere che « accompagnava » una signora? (F. De Roberto, / Viceré). Nel passo da Zeno il narratore-protagonista ci informa di un proprio processo mentale (non sembra che necessariamente in questi

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verbi domini il tratto « dire »); nel brano da I Viceré, invece, la valutazione viene attribuita ai personaggi. Anche qui si esprime una delle costanti del romanzo: i protagonisti, in lotta continua l’uno contro l ’altro, quasi sempre esprimono il loro livore prendendo posizioni diametralmente opposte nel valutare gli avvenimenti, sia privati che politici; nel contrasto verbale, spesso violento, a proposito di u n ’eredità o di un matrimonio si celano in realtà vecchi rancori che niente hanno a che fare con l ’episodio scelto come bersaglio apparente dello scontro. c) verbi modalizzatori di apprensione percettiva: E mi parve, durante quel momento di attesa, che la cabina della goletta si riempisse d’un fremito invisibile e vivente come di leggeri respiri. Tutti i fantasmi scacciati dall’Occidente incredulo, da uomini che pretendono di esser saggi e soli e in pace — tutti gli spettri senza casa d’un mondo scettico — apparvero subitaneamente intorno alla figura di Hollis, curvo sulla scatola; tutte le ombre esiliate e affascinanti di donne amate; tutti i bei fanfasmi e gl’ideali ricordati, obliati, diletti, esecrati; tutti i fantasmi respinti é pieni di rimprovero di amici ammirati, calunniati, traditi, lasciati morti per via — sembravano esser venuti tutti da inospitali regioni della teiia per affollarsi nella cabina semibuia, come se questa fosse stata un rifugio, e, in tutto il mondo incredulo, il solo posto di fede vendicatrice... Durò un secondo — poi tutto scomparve. Hollis guardò dalla parte fiostra con un piccolo oggetto brillante fra le dita. Sembrava una moneta. (J. Conrad, « Karain »). In questo passo, tratto da una delle pagine finali del racconto, Hollis, un bianco, sta tentando di agire beneficamente con ciò che pretende essere un incantesimo sulla mente malata del Rajah malese Karain, ossessionato dalla m orte del suo portatore di spada. Per un attim o, l ’incantesimo sembra agire anche sull’io narrante della storia, facendo sì che egli percepisca suoni e forme che all’improvviso affollano la cabina. Nella posteriorità della narrazione, tuttavia, egli potrà — svanita l ’improvvisa suggestione — indicarle come sensazioni ingannevoli. Il brano che segue è tolto dal cap. l i di M oby Dick. Il capitolo è intitolato « Lo spruzzo fantasma ». N otte dopo notte, in un momento di calma del mare, uno spruzzo argenteo si mostra all’equipaggio del « Pequod ». Lo spruzzo misterioso sembra lusingare l ’equipaggio all’inseguimento, ma non appena le lance scendono in mare esso svanisce. Si diffonde sulla nave la paura, e-

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molti giurano che dovunque e in qualsiasi immemoriale tempo avvistato, quello spruzzo è sempre stato sfiatato da Moby Dick. La visione non è falsa, ma appare certo con connotazioni di incertezza:: Fu scorrendo per quest’ultime acque che una notte serena di luna, mentre tutte le onde si voltolavano come volute d’argento, e coi loro molli, diffusi ribollimenti, facevano quel che pareva un argenteo silenzio e non una solitudine: fu in una simile notte di silenzio che uno spruzzo d ’argento si vide -lontano, in direzione delle bianche bolle a prora. Illuminato dalla luna, pareva una cosa celeste; sembrava un qualche dio piumato e risplendente che sorgesse dal mare. (H. Melville, Moby Dick). d) verbi modalizzatori di apprensione intellettuale: Non giunse alcun messaggio telefonico, ma il maggiordomo dovette rinunciare al suo pisolino e aspettò fino alle quattro, quando già da molto tempo non c’era più nessuno a cui recarlo, se anche fosse giunto. Ho l’impressione che Gatsby stesso non credesse che sarebbe giunto, e forse non gliene importava più. Se ciò era vero, doveva essergli parso [felt] di aver perduto il calore del vecchio mondo, di aver pagato un prezzo troppo alto per aver vissuto troppo a lungo con un solo sogno. Doveva aver guardato lassù un cielo estraneo attraverso foglie spaventevoli e rabbrividito nello scoprire che cosa grottesca è una rosa e com’è cruda la luce del sole sull’erba quasi non ancora creata. (F. Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby). Qui ci troviamo in presenza di una tipica situazione narrativa con narratore-testimone oculare. Nick Carraway, che sa certamente su Gatsby meno cose di quante non ne sappia il protagonista del romanzo, sta qui cercando di immaginare il momento della m orte di questi. Egli, non presente alla scena, cerca di ricostruirla e di azzardare ipotesi sullo stato d ’animo dell’amico. Ciò che è qui importante (a parte il verbo di opinione ho l’impressione che, con il quale il narratore avanza un ’ipotesi su una opinione del personaggio, credesse), sono le varie locuzioni che esprimono dubbio (doveva essergli parso, doveva aver guardato ... e rabbrividito). È ovvio che il narratore non può non denunciare la modalità dell’incertezza nel momento in cui fa ipotesi su pensieri e sensazioni altrui; lo sforzo di Nick Carraway, d ’altra parte, è lungo tutto il romanzo quello della ricostruzione attraverso la raccolta di elementi. Abbiamo già visto più volte l ’atteggiamento del narratore de Il buon soldato e commentato la sua incapacità di impegnarsi sia

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sulla verità che sulla falsità dei materiali della storia che ci presenta. Egli sa solo esprimere il dubbio e la totale mancanza di impegno: No, non posso fare a meno di desiderare che Florence l’avesse lasciata in pace a giocare con l’adulterio. Perno che ci giocasse; anche se era così bambina che si ha l’impressione che sapesse appena compitare la parola. No, era solo sottomissione — alle noie, alle forze tempestose che spingevano quel poveretto verso la rovina. E suppongo che in realtà Florence non avesse grande importanza. (F. M. Ford, Il buon soldato). e) verbi che « implicano » una valutazione buonoI cattivo : Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima. (I. Svevo, La coscienza di Zeno). Zeno non ha un buon rapporto con il suo psico-analista, né — sembra — il dottore con lui, se pubblica le memorie del suo paziente per vendetta e sperando che questi si dispiaccia. Anche sull’andamento della terapia pare che vi siano dissensi: mentre Zeno vorrebbe procedere ad esporre con un certo ordine e ab ovo, il dottore gli raccomanda di guardare a cose più recenti. Quando usa l ’espressione verbale ostinarmi, dunque, Zend riferisce un giudizio di valore negativo del dottore sul suo intestardirsi a procedere come a lui aggrada piuttosto che come il medico gli suggerisce; e a procedere in maniera scorretta, dunque. Analoga implicazione assiologica è nei verbi del frammento che segue, da La peste di Londra di D. Defoe (A Journal of thè Plague Year, 1722): Così vi fu un cittadino ch’era riuscito a mantenersi sano fino a settembre, quando la peste infieriva per lo più nella City. dove l ’implicazione di attribuzione di valore è buono nel caso di riuscire e cattivo nel caso di infierire. Ma aveva egli veramente giurato di attentare alla vita dell’essere che ella portava in grembo, infliggendole torture sopra torture, lasciandola così, nella notte oscura e tempestosa, con quello spasimo del peccato orribile, del nuovo tradimento, con l’anima piena di dolore e di vergogna? (F. De Roberto, I Viceré).

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Infliggere implica certo una valutazione negativa dell’oggetfo (nel caso particolare torture). Anche in questo caso, tuttavia, il peso delle valutazioni negative è caricato solo in parte minima sul verbo, mentre molto più esplicitamente viene dai sostantivi (torture, notte, spasimo, peccato, tradimento, dolore, vergogna) e dagli aggettivi (oscura, tempestosa, orribile). f) verbi che « implicano » insieme una valutazione buono ¡cattivo e vero/ falso/ incerto : Il falso verbale, che era stato accuratamente preparato, diceva che spontaneamente (« le nerbate — pensò Diego — le nerbate ») Rosario Pizzuco confessava di avere incontrato tempo addietro il Marchica, e di avergli fatto confidenza di certe offese ricevute dal Colasberna: e il Marchica si offrì come strumento di vendetta; ma essendo lui, Rosario Pizzuco, uomo di saldi principi morali, poco inclinato alla violenza e assolutamente alieno da sentimenti vendicativi, l’offerta fu rifiutata. Il Marchica insistette, rimproverando anzi al Pizzuco l’atteggiamento di indecorosa sopportazione che assumeva nei riguardi del Colasberna: ... (L. Sciascia, Il giorno della civetta, 1963). Sia confessare che rimproverare presuppongono che l ’azione che introducono è cattiva-, in più confessare ha una presupposizione di verità che in questo contesto sembra si possa attribuire anche a rimproverare (vedi, per la discussione di questi verbi, chiamati « verbi di giudizio », Fillmore 1971). Della stessa natura, anche se con presupposizioni in qualche caso diverse (vedi accusare, che presuppone cattivo ma non vero) sono i verbi dei frammenti che seguono: Il piccolo patrimonio che il padre aveva raggranellato raggiungeva appena gli ottomila franchi di rendita, e Pierre si rimproverava di avere più volte messo nell’imbarazzo i suoi genitori con le sue lunghe esitazioni nella scelta di una carriera, i suoi tentativi sempre abbandonati e il suo continuo ricominciare gli studi. [...] '— No, Jean, tesoro. Domani non mi perdoneresti più. Ora lo credi e ti sbagli. Stasera mi hai perdonato, e il tuo perdono mi ha salvato la vita; ma non devi più vedermi. (G. de Maupassant, Pierre et ]ean, 1888). E aveva finto di non sapersi decidere, per aspettare che sì decidesse quell’altra; ed aveva mendicato pretesti, e accusato il suocero, e così bene temporeggiato che allo scoppio della pestilenza aveva fatto a modo suo!

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[...]

A Firenze aveva messo un certo pudore nelle sue tresche; s’era quasi studiato, a momenti, di farsele perdonare, tornando ad ora ad ora buono con lei; adesso sfrenavasi fino a costringerla d ’essere spettatrice dell’infamia! (F. De Roberto, I Viceré). g) verbi locutori modalizzatori: Come ci mettemmo in cammino a passo a passo — il vecchio Mourteen dice che, insieme, noi due sembriamo il cùcùlo col suo pipìt (uccellino simile all’allodola) — in mezzo al gruppo delle ragazze che ridevano a vedere quella nostra strana relazione, rilevai una bella faccia ovale animata da quell’espressione singolarmente raffinata ch’è così caratteristica di un certo tipo delle donne irlandesi dell’ovest. (J. M. Synge, Le isole Aran\ The Aron Islands, 1907). Fu intorno al principio di settembre del 1664 che io seppi dai miei vicini, chiacchierando con loro, che la peste era di nuovo ritornata in Olanda, dove durante l’anno 1663 era stata^molto violenta, e particolarmente ad Amsterdam e a Rotterdam, dove, dicevano alcuni, era stata portata dall’Italia, altri dicevano dal Levante, con le merci scaricate in porto dai legni turfchi; altri ancora dicevano che fosse arrivata da Candia; altri da Cipro. Ma poco importava da doye venisse, quando tutti erano d ’accordo che la peste era tornata in''Olanda. (D. Defoe, La peste di Londra). Usando il verbo dire, nei due esempi precedenti, il locutore non si impegna circa la verità/falsità di ciò che affermano gli agenti del processo. Nel primo caso, dice introduce u n ’analogia idiosincratica dello stravagante e fantasioso M ourteen, la quale è in qualche modo « vera » (o plausibile) per il soggetto che la stabilisce. Nel secondo caso, si parla di dicerìe circa la provenienza della peste, che il narratore non è in grado di controllare. Egli, dunque, non prende posizione scegliendo come vera una delle ipotesi avanzate: fra parentesi noterò che il procedimento della dissociazione rispetto ad eventi riferiti che non è possibile dare per documentati è frequente come dispositivo autenticante in questo testo di Defoe. Gli è stato chiesto se ero suo cliente e ha detto: « Sì, ma era anche un amico »; che cosa pensava di me e ha risposto che ero un uomo; che cosa intendesse dire con questo e ha dichiarato che tutti sanno che cosa vuol dire; se aveva notato che io fossi di carattere chiuso e ha riconosciuto soltanto che io non aprivo la bocca per non dir nulla. (A. Camus, Lo straniero).

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Fra i verbi di questo brano, solo riconoscere implica un giudizio di verità (il verbo è analogo a confessare), m entre con dire, rispondere e dichiarare il locutore non contrae alcun impegno valutativo: questo è, ancora una volta, tipico dell’atteggiamento distaccato di Mersault. La donna si sforzò di •mostrarmi ciò che lei vedeva, ma non fu capace di indurmi ad ammettere che lo vedevo anch’io, giacché, per ammettere una cosa simile avrei dovuto mentire. (D. Defoe, La peste di Londra). Qui è lo stesso narratore a commentare la natura del verbo ammettere (in inglese confess), m ettendo appunto in rilievo il suo presupporre la verità del processo che introduce. È mai stato trovato un documento, una testimonianza, una prova qualsiasi che costituisca sicura relazione tra un fatto criminale e la cosiddetta mafia? Mancando questa relazione, e ammettendo che la mafia esista, io posso dirvi: è un’associazione di segreto e mutuo soccorso, né più né meno che la massoneria. (L. Sciascia, il giorno della civetta). Qui l ’implicazione di verità che è parte del contenuto semantico di ammettere è riconosciuta dal locutore, che sa di dover trattare il verbo con cautela: non solo egli nega la connessione fra mafia e crimine, ma rifiuta anche di asserire l ’esistenza della mafia, o almeno si mostra prudente su una simile ammissione di esistenza. Infine, propongo un brano dalla prefazione di Lady Roxana di Defoe (1724), nella quale il fittizio presentatore del manoscritto ondeggia continuamente fra il tentativo di dissociarsi dall’impegno di verità e quello di coinvolgere in quest’impegno il proprio informatore, soffermandosi anche su valutazioni assiologiche a proposito della condotta del soggetto degli enunciati: Lo scrittore dice che egli conobbe assai da vicino il primo marito di questa signora, il birraio, e il padre di lui, ed anche ne conobbe le tristi vicende, e perciò può affermare che la prima parte di questa storia è perfettamente vera. Ciò, egli spera, può essere garanzia dell’attendibilità di tutto il resto, benché l’ultima parte del racconto si svolga all’estero, e non possa essere così ben confermata come la prima; senonché, essendo pur questa narrata da lei, non abbiamo motivi per mettere in dubbio la verità anche dell’ultima parte. Dal modo col quale racconta la sua storia, apparisce evidente che essa non insiste a cercar giustificazioni per nessun episodio della sua

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vita, e tanto meno raccomanda la propria condotta, o alcuna sua azione, tranne il suo pentimento, alla nostra imitazione: all’incontro, si lascia spesso andare a biasimare e a condannare certe sue pratiche. Quanto spesso si rimprovera nel modo più appassionato e ci conduce a giuste riflessioni su casi consimili! È vero che ebbe i più inaspettati successi in tutte le azioni peggiori; ma anche all’apice della fortuna dove riconoscere di frequente che il piacere della malvagità non valeva il pentimento ... (D. Defoe, Lady Roxana). v I tratti modalizzatore e assiologico dei verbi impiegati servono egregiamente i due scopi principali di questa prefazione: autenticare la storia come vera e documentata ed esprimere un giudizio di valore (negativo) sulla condotta della protagonista, giudizio negativo che d ’altra parte è condiviso da Roxana pentita (il che la assolve almeno in parte dal biasimo). Queste strategie di noncoinvolgimento sono tipiche dei romanzi di Defoe (vedi M oli Flanders e Robison Crusoe), ed esse convivono qu^si sempre con i dispositivi di autenticazione (si è visto prima come nell’incipit de La peste di Londra il narratore-protagonista sia cauto nell’asserire come vero ciò che non può presentare come documentabile). h) verbi di opinione (modalizzatori): Nel buio della stanza mi immaginavo di vedere la faccia grigia e massiccia del paralitico. Mi tirai le coperte fin sulla testa e cercai di pensare a Natale. Ma la faccia grigia mi perseguitava. (J. Joyce, « Le sorelle », « The Sisters », in Gente di Dublino). L’atteggiamento intellettuale che, usando il verbo immaginarsi, il locutore esprime nei confronti del processo introdotto è quello di conferire un giudizio di falsità sullo stesso; diverso sarebbe, come nei casi che seguono, usare verbi come credere o sapere: in questo caso il locutore immagina in quanto sa che la faccia del prete è una visione. Indeterminazione su verità o falsità è invece nel verbo di quest’altro frammento: Aveva una voce triste e velata. E Gabriel, sentendo quanto sarebbe stato vano ormai tentare di ricondurla là dove avrebbe voluto, le carezzò una mano e disse con eguale tristezza: — E di che cosa è morto così giovane, Gretta? — Credo che sia morto per me. (J. Joyce, « I morti », « The Dead», in Gente di Dublino).

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Una modalità di certezza è espressa nei frammenti che seguono: Lo sapeva benissimo, nessuno meglio di lei, che cosa faceva dire così a quella strabica di Edy: era perché lui era un po’ più freddo con lei e invece non erano altro che liti d ’innamorati. [ ...]

Sì, aveva saputo fin dal primo giorno che quel sogno ad occhi aperti di un matrimonio che è statò fissato e le campane suonano per Mrs Reggy Wylie T. C. D. (perché colei che sposerà il fratello maggiore sarà Mrs Wylie) e nella cronaca mondana Mrs Gertrude Wylie portava una sontuosa toiletta grigia guarnita di costose volpi azzurre, non si sarebbe realizzato. [ ...] Il cuore stesso della fanciulla-donna volò verso dilui, l’uomo dei suoi sogni, perché aveva saputo all’istante che era lui. [...]

Era una vera donna lei, ma non come tante altre farfalline, senza femminilità, che egli aveva conosciute, quelle che vanno in bicicletta per mettere in mostra ciò che non hanno e lei invece bramava di saper tutto, di perdonare tutto se mai si fosse innamorato di lei, fargli dimenticare ogni ricordo del passato. (J. Joyce, Ulisse). Gli ultimi quattro brani, tolti dall’episodio « Nausicaa », sono tu tti riferiti a Gerty McDowell, ed inseriti nel lungo monologo indiretto (ho già commentato in 1.3. il procedimento) con il quale il narratore caratterizza il personaggio; non è sorprendente che a Gerty, fanciulla nutrita di incrollabili stereotipi, sia legata la modalità della certezza. L ’ultima categoria grammaticale che occorre menzionare è quella degli avverbi, che hanno soprattutto una funzione modalizzante, in quanto possono segnalare il grado di adesione del soggetto deH’enunciazione ai contenuti dell’enunciato: avverbi come forse, verosimilmente, certamente, vanno considerati insieme con espressioni restrittive del tipo quasi, appena, soltanto, ecc., e con altre espressioni dallo statuto sintattico incerto come connotatori proposizionali quali dunque, tuttavia, oppure, poiché e parti del discorso quali preposizioni, interiezioni, congiunzioni, ecc. A tu tti questi elementi del discorso è demandato il compito di notificare distanza o coinvolgimento del soggetto e, più indirettam ente, un giudizio di verità/incertezza/falsità sui processi enunciati. Tralascerò di illustrare con esempi queste categorie, e mi proverò invece ad esemplificare, in via riassuntiva, il maggior num ero

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possibile di elementi soggettivi traendoli da un frammento di P unto contro punto di A. Huxley (Point Counter Point, 1928): Bè, diciamo all’una. Sai come sono

verbo di opinione espressivo della modalità di certezza riguardo alla proposizione che segue;

■questi ricevimenti. Ma in realtà

avverbio implicante un giudizio di realtà;

lei non lo sapeva, per la buona ragione che

aggettivo valutativo assiologico, nel quale il tratto assiologico è indebolito in quanto impiegato in una espressione leggibile come un poiché lievemente rafforzato; »

non essendo sua moglie, non vi era invitata. Aveva lasciato suo m arito per vivere con W alter Bidlake; e Carling, che ■aveva scrupoli

sostantivo assiologico apparentemente laudativo, ma in contesto devalorizzante; è il caso di rilevare che il brano sembra privilegiare il « punto di vista » di « lei », e cioè M arjorie Carling, come si vedrà meglio in seguito, nell’uso del discorso indiretto libero;

cristiani,

aggettivo valutativo apparentemente non assiologico o addirittura assiologico con valore laudativo, in contesto attratto nella sfera devalorizzante del sostantivo scrupoli-,

■era vagamente .un sadico

avverbio con valore modale m itigante; sostantivo devalorizzante, mitigato nel contesto dall’avverbio che lo precede;

e voleva prendersi una vendetta , rifiutava


che pensa

verbo di apprensione intellettuale, o indicante/attività intellettuale: né assiologico né modalizzante;

ricorda, immagina,

analoghi ai precedenti;

E ciò che era stato un grumo di gelatina dentro il suo corpo avrebbe inventato un dio e lo avrebbe adorato; ciò che era stato una sorta di pesce avrebbe creato, e dopo aver creato sarebbe diventato il campo di battaglia del bene e del male;

sostantivi assiologici rispettivamente valorizzante e devalorizzante.

dimensionale non-as>

Anche se non tutte le categorie classificate in questo capitolo sono esemplificate nel brano analizzato, pure si tratta indubbiam ente di un frammento piuttosto denso di elementi soggettivi. Ciò che l’analisi può portare alla luce è, intanto, la preponderanza ■del « punto di vista » della donna e dei suoi param etri valutativi (ho eliminato un passaggio nel quale ^invece pare che predomini quello di W alter Bidlake, al quale d ’altra parte può essere attribuita anche la riflessione « Ella sembrava brutta, stanca e malata »,

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se non altro per il fatto che essa segue Hi un poco l ’enunciato « Dallo specchio la faccia di lei lo guardava, vicina alla sua »). Sicuramente, le valutazioni espresse (gli scrupoli cristiani e il sadismo del marito, la sofferenza per la perdita di amore e per l’infedeltà dell’amante, la nausea e lo sgomento provocati dall’essere che si muove nel suo ventre) hanno come fonte Marjorie. Il brano ha una prevalenza di valutativi assiologici e di termini provvisti di soggettivemi affettivi, m entre la valutazione modale è decisamente relegata in secondo piano, e quando è presente lo è di solito come sfumatura subordinata al tratto assiologico. Ma l ’analisi m ette in rilievo soprattutto le carenze della classificazione: infatti, è singolare notare che i due squarci del testo che paiono alla lettura maggiormente segnati da soggettività affettiva e assiologica non trovino, sulla base delle nostre categorie, la via di u n ’analisi semantica (si tratta di: « un potenziale pesce con le branchie si muoveva nel suo ventre e un giorno sarebbe diventato un uomo » e di « e ciò che era stato un grumo di gelatina dentro il suo corpo avrebbe inventato un dio e l ’avrebbe adorato; ciò che era stato una sorta di pesce avrebbe creato, e dopo aver creato sarebbe diventato il campo di battaglia del bene e del male »). Le istanze della narrazione manifestano quasi sempre soggettività sfuggenti, oblique e talvolta imprendibili, e il lavoro di cooperazione che il lettore compie per smascherarle è certo assai più complesso di quanto u n ’analisi del lessico soggettivo non faccia intravedere. Chi è e come opera, di volta in volta, quella « persona », spesso assente, capace di condizionare il « punto di vista » del lettore, di strappargli consensi o disseminare sospetti, a chi appartiene quella voce capace di abbindolarlo fino alla totale sospensione della incredulità per poi magari tradirne all’improvviso la fiducia mettendolo di fronte alla rivelazione dell’inganno 3? Qual è lo

3. Il narratologo-romanziere David Lodge conosce e sfrutta sottilmente queste possibilità di inganno. In uno idei suoi romanzi (H ow far can you go?, 1980), in cui è narrata la vicenda di alcune coppie di giovani cattolici negli anni del riorientamento della metafisica tradizionale della chiesa cattolica e del loro tentativo di difendere una verginità spirituale seriamente minacciata dalla società permissiva e perfino dal Concilio Vaticano II, il narratore si costituisce fino all’ultima pagina come voce assente, anche se evidentemente coinvolta (ora con ironia, ora con partecipazione) nella problematica dei personaggi. È solo nell ’ultima pagina del romanzo che ii narratore si rivela improvvisamente incluso nell’universo fittizio -narrato, chiudendo la lista dei personaggi nel momento in cui ne riassume la situazione attuale. N on solo, ma il narratore personale improvvisamente rivelato coincide, per i tratti che di sé nomina, con la persona

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sfondo delle sue opinioni e dei suoi principi, sulla base di quali direttive ideologiche compie le sue selezioni e compone la sua pretesa di ontologia facendola passare per completa ecj assoluta? E infine, come si modifica — ma anche come interferisce sugli orientam enti semantici dell’istanza della narrazione — il « punto di vista » del lettore nel dialogo con questi singolari interlocutori? A individuare la sfida che si configura nel patto narrativo non basta l ’esame del lessico soggettivo il quale, come si è visto, non solo manca il bersaglio degli orientam enti semantici sia locali che globali, ma soprattutto tende a cancellare l ’apporto dialogico del lettore. È anche vero, tuttavia, che l ’efficacia e le potenzialità della teoria dell’enunciazione e di quella degli atti linguistici non sono state sfruttate appieno e nella direzione giusta come strum énti utili a districare l ’intreccio e la dinamica dei « punti di vista » che si realizza nel contratto narrativo. 5 A . Inten zio n a lità : forza ìllocutoria e « p u n to di v is ta » I fenomeni che qui assegno alla rubrica di intenzionalità presentano ampie zone di sovrapposizione con le categorie della soggettività esaminate nel paragrafo precedente: per fare solo un esempio, ciò che prim a abbiamo definito elemento di discorso marcato da

dell’autore, descrivendosi impegnato a scrivere l’ultimo capitolo del romanzo che abbiamo appena letto: Io insegno inglese in u n ’università di mattoni rossi e scrivo romanzi nel tempo libero. M entre scrivevo quest’ultimo capitolo morì Paolo V I e fu eletto Giovanni Paolo I. Non avevo ancora finito di batterlo a macchina che Giovanni Paolo I moriva e gli succedeva Giovanni Paolo II , il primo papa non italiano in quattrocentocinquant’anni: polacco, poeta, filosofo, linguista, atleta, uomo del popolo, uomo del destino, scelto drammaticamente, immediatamente popolare — ma teologicamente conservatore. Una chiesa che cambia, acclama un papa che evidentemente ritiene che il cambiamento si è spinto troppo in là. Che accadrà adesso? Impossibile scommettere, il futuro è incerto, ma sarà interessante stare a vedere. Lettore, addio! L ’improvvisa comparsa della persona narrante finora nascosta, e il fatto che questa persona coincida, per quel che se ne dice, con l’autore (Lodge insegna letteratura inglese in una università « di mattoni rossi », Birmingham, e scrive romanzi nel tempo libero), scatena nel lettore u n ’affannosa ricerca a ritroso del personaggio (nessuno dei lettori del romanzo, per quanto ne so, si sottrae a questo tipo di risposta cooperativa): sottovie spoglie di chi si è nascosto Lodgenarratore? Se solo uno dei personaggi maschili mancasse alla lista degli ultimi riferimenti sul « com’è andata a finire », il gioco sarebbe fatto. E invece no. La ricerca rimane delusa, e cioè, ancora una volta ha vinto il narratore, questa volta facendo si che il lettore cooperi alla costruzione del proprio inganno.

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un tratto assiologico devalorizzante può essere visto, in quanto atto linguistico, come verdittivo (Austin 1962) o come espressivo oppure rappresentativo (Searle 1975a) e avere la forza illocutoria dell’ingiuria o della calunnia. Tuttavia, nonostante le ovvie coincidenze, tengo separata la nozione di forza illocutoria perché la riflessione narratologica stimolata dalla teoria degli atti linguistici ha premesse — e dunque uno svolgimento — del tu tto indipendente: m entre la teoria dell ’enunciazione ammette (o meglio non esclude in via di principio) la peculiarità del discorso letterario, la teoria degli atti linguistici tende a parlare della letteratura nei termini in cui si parla di tutte le altre cose che si fanno con la parola (vedi P ra tt 1977). Pragmatica enunciazionale e pragmatica illocutoria hanno quindi dato luogo, in aree culturali diverse (prevalentemente francese la prima e anglosassone la seconda) a formulazioni del tu tto differenti in materia narratologica: non solo nei metodi di analisi, ma soprattutto nell’ottica con la quale l ’opera narrativa viene contemplata. Una distanza abissale separa l ’ideologia letteraria implicita nella analisi della voce narrate della Recherche in G enette 1972 e quella che sottende il trattam ento del display-text {testo narrativo e descrittivo del mondo, non importa se letterario o naturale) in Pratt 1977: e ciò, nonostante il fatto che in entrambi i casi si possa parlare di un atteggiamento genericamente pragmatico. Vediamo di chiarire che cos’è la forza illocutoria e in che senso ci interessa qui parlarne. La componente illocutoria di un enunciato, che è anche la sua direzione intenzionale, è descrivibile come una forza convenzionale impressa all’enunciato, associata ad un determinato atto linguistico (promettere, ordinare, consigliare, asserire, ecc.). Questa forza, dunque, non fa riferimento al semplice significato degli enunciati, ma prende specificamente in considerazione le intenzioni del locatore: quando produciamo un enunciato, cioè, non soltanto esprimiamo dei significati, ma abbiamo anche degli scopi che vanno dal provocare una certa risposta comportamentale nel destinatario al sollecitare la sua adesione ai contenuti (espliciti o impliciti) del nostro discorso, al far sì che egli tragga certe conclusioni. Correlata alla forza illocutoria che il locutore imprime al suo atto di parola è la cosiddetta illocutionary uptake, e cioè la comprensione di questa forza: il riconoscimento, da parte del destinatario, del fatto che un particolare atto illocutorio è stato compiuto. La comprensione illocutoria è

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una condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché il ricevente compia con successo l ’atto cognitivo che chiamiamo comprendere un enunciato. (Lyons 1977: 731). L ’importanza potenziale della teoria nella prospettiva narratologica che ci interessa sembra evidente: comprendere (nel senso precisato da Lyons) un enunciato narrativo significherà aprire una porta di accesso alle intenzioni delle voci che parlano nel testo; accedere, cioè, ad un tipo di comprensione che non sembrava scaturire dal rilevamento dei soggettivemi. Tuttavia, perché si possa cogliere la forza illocutoria di un enunciato, occorre saper individuare i luoghi in cui essa si annida nel discorso, e cioè individuare i marcatori discorsivi di forza illocutoria. Ed è proprio in questo senso che la teoria è carente: m entre in alcune form uT lazioni teoriche il campo dei fenomeni discorsivi ai quali si applica il concetto di forza illocutoria si fa sempre più vasto (includendo tutte le tattiche stilistiche, retoriche, lessicali, intonazionali, ecc., che possono notificare una qualche intenzione), i tipi di forza illocutoria con relativi marcatori verbali li troviamo ancotati alla forma grammaticale del verbo, in inventari che consentono articolazioni assai limitate: alla classificazione di Austin (1962) e alla tassonomia di Searle (1975a) si può aggiungere forse soltanto l ’integrazione di Vendler (1970) a proposito dei verbi di pensiero 4. Ovviamente, tu tto questo a noi interessa nella prospettiva narratologica: e qui, meno che mai sono state elaborate indicazioni pertinenti. I teorici che si sono occupati del problema non hanno oltrepassato di molto il riconoscimento della importanza della nozione di atto illocutorio per la definizione dei « punti di vista » espressi dalle voci di un testo. La formulazione che riporto di seguito riassume il punto di partenza (ma anche il punto di arrivo) della narratologia illocutoria: I concetti di atto illocutorio e di implicatura illocutoria hanno una rilevanza diretta per comprendere le funzioni del punto di vista e per

4. La prospettiva di Vendler nel saggio citato è per più versi interessante, e meriterebbe maggiore attenzione, anche narratologica. Vendler guarda agli indicatori di forza illocutoria fisiologica) negli atti di pensiero in termini di atteggiamenti proposizionali; il contributo del saggio è quello di offrire quindi criteri per connettere atti mentali ed atti verbali, che nei nostri termini narratologici possono essere visti come « punti di vista » e atti linguistici.

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an a lizza re le su e m a n ife s ta z io n i in te s t i sp e c ific i. A ttr a v e r s o l ’a ttiv ità illo c u to r ia o g n i e n u n c ia to e sp r im e u n a q u a lc h e r e la z io n e fra la p r o p o s iz io n e e il su o e m it te n te . (L a n ser 1 9 8 1 : 7 9 ) .

Quando però si passa ad analizzare le manifestazioni di forza illocutoria in testi narrativi,- ci si rende conto che l ’unica operazione possibile (e la sola finora compiuta) è quella della nominazione, peraltro piuttosto rigida, di manovre illocutorie assai poco differenziate; o, al più, di tensioni illocutorie prevalenti (nel narratore, nei singoli personaggi, in particolari momenti del racconto, ecc.: vedi l’identificazione di macro-atti linguistici proposta da van Dijk 1977). Ma soprattutto ci si rende conto del fatto che manca ogni discussione degli effetti perlocutori che il testo produce nella sua interazione con il lettore, in termini di mutamenti che esso è capace di operare nel mondo di questi. Occorre aggiungere che le poche elaborazioni teoriche fin qui prodotte a proposito di atti linguistici e testo narrativo si sono necessariamente preoccupate di sgombrare il campo da impedimenti e problemi connessi con la stessa letterarietà dell’oggetto: ad esempio, di stabilire quale tipo di atti linguistici si compiono in una narrazione fittizia (Ohman 1971, 1972-3 e 1973 e Searle 1975b); oppure, più radicalmente, quale differenza esiste (se esiste) fra enunciati narrativi letterari ed enunciati narrativi naturali (Pratt 1977 e Lanser 1981). In sostanza, i pochi elementi teorici utili alla definizione del « punto di vista » nella prospettiva degli atti linguistici, occorre andarli a scovare là dove si annidano sommersi da problemi e da preoccupazioni più generali. Insufficienza della teoria allo stato attuale della sua elaborazione? Im produttività della nozione nel caso del testo letterario, dove la pressione pragmatica del contesto è sfumata o, perlomeno, dove non sussiste al medesimo livello di pregnanza che in altre situazioni comunicative la tensione contestuale che sperimentiamo nel rapporto interattivo quotidiano? Probabilmente alla applicazione della teoria degli atti linguistici al testo letterario manca ancora uno sfondo teorico preliminare che esamini le convenzioni speciali che regolano il patto sociale narrativo e dunque ì criteri di sospensione della vigenza sociale che producono le condizioni per la simulazione, nel testo narrativo, del mondo sociale e um ano; e che di conseguenza producono anche la risposta che tale simulazione stimola nel lettore. La negazione di letterarietà al discorso narrativo letterario non serve a risolvere il problema; è in-

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vece su una base di differenziazione (dei presupposti convenzionali di tale discorso e dunque delle sue manifestazioni) che i testi letterari possono essere contemplati anche in una luce pragmatica s. 5 .5 . L o sta tu to logico d el discorso d i finzione. La negazione di letterarietà investe, in alcune trattazioni teoriche, lo stesso statuto logico del discorso di finzione (vedi P ratt 1977 e Lanser 1981). A questo proposito, le questioni discusse dai teorici sono sostanzialmente due: se esistano elementi logici che qualificano in modo diverso le narrazioni di fatti veri dalle narrazioni di fatti di finzione (non necessariamente letterari); e se esistano componenti (strutturali e grammaticali) che caratterizzano le nar? razioni (non importa se letterarie o non, e se di fatti veri o in-

5. In modo più articolato e corretto i problemi sono stati impostati in ambito di analisi del testo drammatico, sia sulla base della utilizzazione della teoria degli atti linguistici che di applicazione dei criteri per l ’analisi conversazionale al dialogo drammatico. In alcuni recenti contributi, anzi, emerge come criterio essenziale la diversa costituzione di testo interattivo naturale e testo interattivo drammatico. Elam nota intanto, in linea generale, l'insufficienza delle classificazioni esistenti: applicata ad un testo intero in modo sistematico, la griglia di Searle si rivela presto rigida e retoricamente povera, dato il basso numero di categorie e la genericità della loro definizione, tanto che sarà necessariamente completata da ulteriori mezzi analitici, dalla retorica o dalla stilistica, o semplicemente ad hoc (che forme di promessa, quanti tipi di comando, quale grado di impegno al contenuto proposizionale?, e così via), mezzi che possono facilmente mettere in crisi l ’intero modello. (Elam 1983: 66). Più in specifico, di fronte all’analisi del testo drammatico, la diversità testuale diventa elemento fondante di ogni operazione ermeneutica: Solo se considerate come mosse retoriche e strategiche con doveri testuali ben diversi da quelli compiuti nella comunicazione pragmatica quotidiana, le illocuzioni e perlocuzioni acquistano un preciso valore euristico ed er^ meneutico, e quindi anche critico, (ibid.). Il contributo di Aston nello stesso volume ammette e dimostra la possibilità di una applicazione dell’analisi conversazionale al dialogo drammatico che sia fondata sulle differenze fra i due generi di discorso. Le due « conversazioni » che si svolgono nella situazione teatrale, fra i personaggi in scena e fra autore/attori e pubblico, a differenza di quanto avviene nella interazione naturale, sono largamente preordinate, data l ’esistenza di un testo, di prove, e di limitazioni convenzionali sulle possibilità''di intervento del pubblico. Confrontando questa situazione con quella della conversazione reale, mi sembra possibile vedere come le caratteristiche distintive del dialogo teatrale siano . riportabili, almeno in parte, a differenze di problematicità nella costruzione del sociale, e perciò a differenze nell’impiego dei metodi di cui gli interagenti dispongono. (Aston 1983: 209).

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ventati); entrambe le prospettive tendono ad assimilare il discorso di finzione letterario con quello delle narrazioni « naturali ». La prima questione è quella che si pone Searle in un suo articolo (1975a). Searle si propone di indagare la differenza logica che esiste fra enunciati narrativi fittizi ed enunciati seri (laddove fittizio non significa letterario, poiché « solo alcune finzioni narrative sono letterarie, e altre no » e vi sono opere che « sono letteratura ma non sono finzione » (149-50 trad. it.). Non ci interessa qui di percorrere tutte le tappe logiche dell ’articolo di Searle, ma di enucleare alcune conclusioni che costituiscono il cuore della narratologia illocutoria (ma Searle non cita mai i precedenti articoli di Ohm ann, e P ratt sembra non conoscere questo contributo di Searle che certamente sarebbe stato .centrale alla sua discussione): a) Searle discute l’opinione diffusa secondo cui chi pronunci asserti di finzione (un autore di romanzi, ad esempio) non compia l ’atto illocutorio di fare asserzioni ma piuttosto quello di raccontare storie o scrivere romanzi. L ’opinione è, secondo Searle, scorretta, perché « secondo questa teoria lo scrittore di finzione avrebbe un proprio repertorio di atti illocutivi che per così dire saltano in groppa agli altri atti illocutivi standard » (ibid. : 153). Inoltre, atti come scrivere romanzi o raccontare storie non esistono; b) posto, dunque, che chi pronuncia asserti fittizi compie, né più né meno che chi pronuncia asserti veri, l ’atto di fare asserzioni, in che cosa si differenzia una asserzione fittizia da una vera? La risposta di Searle è che chi compie asserti fittizi fa m ostra di fare asserzioni-, non nella forma dell’inganno, ma nel senso che si impegna a fare come se facesse asserzioni, senza l’intenzione di ingannare; c) sulla base di quest’argomento, Searle stabilisce che la differenza logica fra asserti fittizi e asserti non-fittizi è nella intenzione illocutiva dell’autore: « Non vi sono proprietà testuali, siano esse sintattiche o semantiche, che possano identificare un testo come opera di finzione. Quello che fa di un testo un’opera di finzione è, per così dire, la presa di posizione illocutiva che il suo autore assume nei suoi confronti, e questa presa di posizione dipende dalle intenzioni illocutive complesse che l’autore ha quando scrive (o in qualche modo compone) l ’opera » {ibid.-. 155). d) a questo punto Searle si chiede che cosa rende possibile questa intenzione di far finta-, vi sono regole che fanno di una

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enunciazione una asserzione sincera; regole, cioè, che permettono la correlazione fra parole ed enunciati e il mondo, che stabiliscono connessioni fra linguaggio e realtà. Ciò che rende possibile l’opera di finzione è un insieme di convenzioni extralinguistiche (non semantiche) che spezzano la connessione diretta fra parole e mondo (oppure, annoto di passaggio, la modificano, nel senso che si sospendono alcune convenzioni e ne entrano in vigore delle altre?); questa sospensione, secondo Searle, abiliterebbe il parlante a usare le parole col loro significato ordinario senza assolvere agli impegni normalmente richiesti da questi significati; e) superata così la problematica dell’atto di asserire, Searle affronta quella dell’atto di fare riferimento. Una delle condizioni di successo dell’atto di riferimento è che deve esistere un oggetto a cui il parlante si riferisce. O ra, come è possibile che si faccia riferimento con successo a oggetti e personaggi di finzione? La risposta di Searle è che, come fa finta di fare asserzioni, un autore può far finta di fare riferim ento: « fingendo di riferirsi, finge che ci sia un oggetto a cui si riferisce » (ibid.\ 159). Gli atti illocutivi prodotti nel discorso di finzione hanno uno statuto particolare anche per Ohmann. Tuttavia, a differenza di Searle, O hm ann identifica discorso di finzione e discorso letterario; egli sostiene, cioè, che per statuto logico il discorso letterario differisce da quello naturale, e trova la distinzione logica fra atti linguistici in interazione naturale e atti linguistici in letteratura sulla base della impossibilità di applicare al discorso letterario il criterio delle condizioni di felicità. Come già proponeva Austin, Ohm ann conclude che le opere letterarie sono discorsi nei quali le regole illocutive sono sospese, atti che non hanno le solite conseguenze. (Ohmann 1973, la discussione di questo punto è affrontata in modo più ampio in Ohmann 1971). Come si vede, vi sono punti di contatto' e punti di divergenza nelle due posizioni esposte: m entre per Searle la differenziazione passa attraverso la discriminante fittizio/non-fittizio, per Ohmann passa attraverso la discriminante letterario/non-letterarkx È proprio il fatto che Ohm ann accorda uno statuto a sé alla finzione letteraria a generare le critiche di P ratt (1977) e, sulla medesima scia, di Lanser (1981). Vediamo due brani indicativi da queste opere. Nel libro di P ratt si sostiene, che

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c’è molto da guadagnare se si abbandona l’assunto tradizionale che la letteratura esiste in opposizione ad altri usi della lingua e se invece si privilegia un approccio che consideri la letteratura sulla base di ciò che essa ha in comune con altri tipi di discorso. [...] Teoricamente non vi è alcun motivo di credere che l’insieme degli asserti che chiamiamo « letteratura » sia da distinguersi sistematicamente da altri asserti sulla base di proprietà grammaticali o testuali intrinseche. (Pratt 1977: vii, xi). Lanser sostiene che, nonostante il fatto che scrivere opere di finzione sia un atto linguistico di tipo particolare (sul che Searle non concorderebbe per niente), ■ esso ha in comune con tutte le produzioni verbali una struttura convenzionale che si realizza in un contesto particolare. Ciò significa che la comunicazione letteraria è fondamentalmente simile, piuttosto che opposta, ad altre modalità di comportamento verbale. (Lanser 1981: 64). È quasi superfluo commentare che, appunto, convenzioni e contesti particolari producono discorsi peculiari. 5 .6 . A t t i linguistici in narrazioni « naturali » e in narrazioni letterarie La « fallacia del discorso poetico » che P ratt cerca di dimostrare proprio a partire dal discorso narrativo, non trova — pare a me — argomenti convincenti. P ra tt utilizza lo studio di Labov (1972) sull’uso del vernacolo inglese dei neri di Harlem , nel quale l ’ultimo capitolo è dedicato alle narrazioni naturali che occorrono in situazione interattiva, narrazioni — dichiara l ’autore — sorprendenti per l ’abilità narrativa e per l’arte verbale dispiegata dai soggetti intervistati. Le narrazioni registrate consentono inoltre di stabilire costanti strutturali e sintattiche che rendono possibile la costruzione di un modello: ma si tratta di un modello di procedimenti narrativi specifici in uno specifico contesto culturale, oltretutto controllato in una fascia di età limitata (adolescenti e pre-adolescenti dell’area centro-sud del distretto di H arlem). Labov non propone il suo come modello generalizzabile a tutte le narrazioni naturali, e tantomeno ne afferma l ’identità con i modelli narrativi letterari.6 6. Interessante, nella prospettiva del « punto di vista » che qui ci interessa, la categoria di Valutazione (Evaluation) elaborata da Labov (Ì972) a proposito delle narrazioni naturali. Nei testi narrativi orali esaminati, quella di Valutazione

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Non sembra, dunque, corretta l ’utilizzazione che P ra tt fa dei dati di Labov per dimostrare la coincidenza fra modelli narrativi' naturali e modelli letterari; ma il tentativo non è neanche opportuno: seguendo il ragionamento di Labov, infatti, P ratt finisce col fare alcune ammissioni che inquinano il suo tentativo di dimostrazione-. intanto, che le stesse narrazioni orali sono, all’interno dei contesti interattivi in cui occorrono, m om enti marcati (da uno stile distinto, da speciali costruzioni grammaticali, da speciali intonazioni, ecc.); che, insomma, alPinterno dell’interazione le narrazioni si realizzano come momenti stilisticamente peculiari {cit.: 50); di più, che le narrazioni orali hanno una organizzazione estetica {cit.\ 70); che nelle narrazioni scritte, e proprio perché sono scritte, vi sono comportamenti anomali: incipit e finali m arcati, ad esempio (dilazioni e reticenze nella fase iniziale, finali aperti, che nelle narrazioni raccolte da Labov sarebbero considerati aberranti; c it.: 59). Infine, dopo aver a lungo messo in discussione il principio poetico della autoriflessività del linguaggio letterario in nome dei diritti del contesto, P ratt conclude che tranne che per il fatto che non sono letteratura, le narrazioni naturali rientrano chiaramente nella categoria dei messaggi autoriflessivi descritta dagli strutturalisti, in quanto enunciati la cui funzione principale non è quella di trasmettere informazioni, {cit.: 69). Ma qual è il contesto tipico della situazione letteraria, e in che senso è possibile (indispensabile, secondo Pratt) descrivere e definire la letteratura nei term ini che usiamo per descrivere altri tipi di discorso? In particolare per la narrativa, quali atti (o quali classi di atti) linguistici si compiono nelle narrazioni? E infine, è prima indicata da Labov come una sezione a sé stante del testo: attraverso espedienti valutativi, il narratore enuncerebbe asserti metanarrativi, commentando l ’eccezionaiità e dunque l ’interesse (o tellabìlity) della storia che narra, e indirettamente inducendo un tale giudizio nel destinatario. Labov asserisce in un primo momento che per inserire la sezione valutativa è necessario sospendere l ’azione narrata in un ¡punto cruciale, dopo l’azione di complicazione e prima della risoluzione (Labov 1972: 355). Ma procedendo nella lettura del saggio ci rendiamo conto di un cambiamento di rotta, in quanto Labov finisce con l’espandere il reperimento di espedienti valutativi a tutto il testo, come « struttura secondaria che è concentrata nella sezione di valutazione ma che si può trovare in varie forme in tu tta la narrazione » (ibid., 369). Inoltre, correggendo ancora il tiro, Labov finisce con l ’indicare i vari espedienti valutativi non solo in meccanismi finalizzati ad asserire la tellabìlity della storia, ma anche in strategie endemiche con funzione assiologica: intensificatori, quantificatori, correlativi, esplicativi sono categorie sintattiche valutative endemiche, che caratterizzano una stilistica delle valutazioni [ibid.: 378).

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in quali pieghe della teoria illocutiva del discorso letterario troviamo suggerimenti per un m utamento, o per un arricchimento, di prospettiva a proposito del problema del « punto di vista »? Quando si parla di contesto di un discorso, ci si riferisce ad un insieme di elementi extralinguistici (intenzioni, aspettative, relazioni fra i partecipanti, occasione, situazione sociale, ecc.) in cui avvengono le enunciazioni e che di queste determinano l ’appropriatezza. La letteratura stessa, sostiene P ratt, è un contesto: il modo in cui la gente produce e capisce le opere letterarie dipende in larga misura da un sapere sulle regole, sulle convenzioni e sulle aspettative in gioco quando il linguaggio è usato in quel contesto. (Pratt 1977: 86). Ciò significa che sussistono condizioni di appropriatezza per gli atti linguistici che si compiono nel discorso letterario, proprio come per ogni altro tipo di discorso; ma anche che queste condizioni sono specifiche, poiché m entre per un teste in tribunale non è appropriato valutare, in una narrazione — come emerge dai dati di Labov — la valutazione è compatibile con le intenzioni e con le attese dei partecipanti (l’esempio è prodotto dalla stessa P ratt, ibid.-. 85). Una informazione contestualmente fondamentale è, secondo P ratt, la conoscenza del genere di discorso, definibile appunto come « insieme di condizioni di appropriatezza » [ibid.-. 86). Questo vale, ovviamente, non solo per il discorso letterario: poiché, tu ttavia, parliamo di narrativa, possiamo dire che per quel particolare tipo di discorso che è la narrazione di esperienze sussistono condizioni di realizzazione appropriata. Poiché la situazione di discorso della narrativa orale è diversa da quella della narrativa letteraria, presumibilmente anche le condizioni di appropriatezza saranno diverse: ma diversità nelle intenzioni, nelle aspettative, e, in generale, nell’uso non determineranno differenze nella organizzazione discorsiva del genere? Per precisare quale sia la situazione di discorso letteraria, ricorriamo ancora alla Pratt. Nella situazione di discorso naturale, il parlante che voglia inserire una narrazione si pone su un livello diverso rispetto agli altri: chiede (e normalmente ottiene) il permesso di usufruire di un turno inusitatam ente lungo; in sostanza, che gli altri sgombrino il terreno conversazionale finché la narrazione non sia compiuta. Chi compie questa richiesta, però, contrae degli obblighi: il suo momentaneo privilegio e le aspettative

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dei parlanti lo obbligano a fornire in cambio un contributo degno di essere ascoltato. Da parte sua l’ascoltatore, rinunciando al diritto di accesso al terreno conversazionale, « acquisisce il diritto di giudicare il contributo del p arlan te» {ibid.'. 109). Questa analisi, osserva la P ratt, regge anche per la situazione di discorso letteraria: strategie proprie del genere, quali i titoli, i sottotitoli, le intestazioni dei capitoli, i sommari, le prefazioni, ecc., compiono una uguale « richiesta di terreno », e abilitano il lettore ad esprimere giudizi (ibid.: 114). Occorre qui fare un passo indietro, e precisare la differenza delle condizioni che presiedono al compimento felice di vari tipi di atti linguistici, per poter definire le condizioni degli atti linguistici che presum ibilm ente prevalgono in un discorso narrativo (sia naturale che letterario): [ . . . ] le c o n d iz io n i d i a p p ro p ria te zz a d e lle d o m a n d e in c lu d o n o [ . . . ] « c h e il p a r la n te d e sid e r a c o n o s c e r e la r is p o sta »; a n a lo g a m e n te , u n a d e lle c o n d iz io n i d i a p p r o p r ia te z z a d e g li im p e r a tiv i d ic e c h e « il p a r la n te v u o le c h e l ’a s c o lta to r e fa c c ia X » . S ia le d o m a n d e c h e g li im p e r a tiv i, q u in d i, p r e s u p p o n g o n o , fra l ’a ltr o , c h e il p a r la n te a b b ia u n o sc o p o m o lto p r e c is o . I l su o o b ie t t iv o è q u e llo d i p r o v o c a r e u n a a z io n e sp e cifica da p a r te d e l l ’a sc o lta to r e . [ . . . ] Q u e s t o sc o p o p r e s u p p o s to d e te r m in a le c o n d iz io n i p e r u n a d o m a n d a o p e r u n c o m a n d o « a p p r o p r ia to » [ . . . ] . L e a ss e r z io n i, si s o s t ie n e , c o n tr a sta n o c o n g li im p e r a tiv i e c o n le d o m a n d e in q u a n to m ir a n o a far sì c h e il d e stin a ta r io c r e d a o s a p p ia o p e n s i q u a lc o sa p iu tt o s t o c h e e g li fa c cia q u a lc o sa . C o m e a v v ie n e c o n le d o m a n d e e c o n i c o m a n d i, q u e s t o sc o p o p r e s u p p o s to d e te r m in a il c riter io d i a p p r o p r ia te z z a d e lle a ss e r z io n i, { i b i d . : 1 3 2 -4 ; c o r s iv i m ie i).

Date queste premesse (torneremo fra breve sullo scopo delle asserzioni, particolarmente im portante per il nostro problema), Pratt passa a discutere in dettaglio le condizioni di appropriatezza delle asserzioni. La studiosa nota che dire che le asserzioni devono essere: (a) vere e (b) non-ovvie non è sufficiente, poiché « una asserzione vera e non ovvia sarà inutile se non ha alcuna relazione con gli interessi del destinatario» (ibid.: 134). Le prime due condizioni possono essere sufficienti per asserzioni che sono risposte a domande, nelle quali cioè l ’interesse è presupposto, ma vi sono asserzioni di altro genere, che richiedono in più una condizione di tellabìlity. Questo termine, intraducibile in italiano (grosso modo: raccontabilità), può essere bene spiegato attraverso una distinzione avanzata da P ratt: quella fra tellability e

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assertibility (asseribilità). Per tutto ciò che si asserisce esistono condizioni di felicità: una di queste condizioni è che ciò che si asserisce non deve essere ovvio, né noto al destinatario (condizione di asseribilità)', ma una asserzione, oltre che non ovvia e non nota, deve essere anche interessante per il destinatario (condizione di tellability)-, insomma, m entre asseribile è tu tto ciò che è nuovo e non ovvio, tellable è solo ciò che, oltre ad essere nuovo e non ovvio, è anche interessante (Pratt 1977: 132-7). Ora, dice P ratt, è chiaro che chiunque racconti una storia non soltanto si assicura che-questa storia non sia nota al destinatario, ma mette in atto strategie che servono a far apparire la storia interessante.7 Ora, la condizione di tellability è essenziale per una importante sottoclasse di atti linguistici assertivi, quelli che si compiono nel dispìay-text (sottoclasse di asserzioni: esclamazioni, narrazioni naturali e letterarie il cui scopo è rappresentativo e descrittivo del mondo). La nozione di tellability si applica, appunto, ad asserzioni di questo tipo, la cui condizione di appropriatezza per l ’ascoltatore è che egli sia « capace di riconoscere e di apprezzare la tellability di ciò che viene asserito » {ibid.: 145). Vediamo come il concetto di tellability ci porta dentro al problema del « punto di vista », caratterizzando contemporaneamente il display-text al quale la condizione inerisce (il discorso narrativo) come quello nel quale, tipicamente, è realizzata una richiesta di adesione assiologica e, in ultima analisi, la possibilità che il destinatario aderisca a questa richiesta: L e a ss e r z io n i la c u i a p p ro p ria te zz a è la t e l l a b i l i t y d e v o n o r a p p r e se n ta re sta ti d i affari c h e si r itie n e sia n o in s o lit i, c o n tr a ri a lle a s p e tta tiv e o a ltr im e n ti p r o b le m a tic i; le a ss e r z io n i in fo r m a tiv e p o s s o n o e sse r e ta li, m a n o n d e v o n o e s s e r lo , e il lo r o sc o p o p r in c ip a le n o n è d i e sse r lo . E n tr a m b i i t ip i d i a ss e r z io n i s o n o u s a ti p e r in fo r m a r e , m a e s s e in fo r m a n o p e r m o tiv i d iv e r s i. C o m p ie n d o u n a a ss e r z io n e la c u i a p p ro p ria te zz a è la t e l l a b i l i t y , u n p a r la n te n o n s o lo r ife r isc e , m a a n c h e e s p o n e u n o sta to d i affari, in v ita n d o il su o d e stin a ta r io (i s u o i d e stin a ta r i) ad u n ir si a lu i p e r c o n te m p la r e q u e llo sta to d i a ffa ri, p e r v a lu ta r lo e p er rea g ire ad e s s o . I l s u o s c o p o è q u e llo d i p r o d u r r e n e i s u o i a s c o lta to r i

7. Una celebre negazione letteraria della regola enunciata da P ratt è nei Racconti di Canterbury di Chaucer (The Canterbury Tales, 1386-1400), dove ironicamente la sola storia priva di interesse è proprio quella narrata dall’autore-narratore (« The Tale of Sir Thopas »), il quale viene costretto ad interrompere la narrazione. Ricordiamo anche un caso che ci è noto, e cioè il Dowell de II buon soldato, che dichiara addirittura che la storia che racconta non è una vera storia.

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n o n s o lo u n ’o p in io n e m a a n c h e c o in v o lg im e n t o im m a g in a tiv o e d aff e t t i v o p e r lo s t a t o d i affari c h e r a p p r e se n ta e u n a tte g g ia m e n to v a l u ta tiv o n e i c o n fr o n ti d i e s s o . E g li v u o le c h e g li a s c o lta to r i c o n d iv id a n o i l s u o s tu p o r e , il su o d iv e r tim e n t o , i l s u o te r r o r e o la su a a m m ir a z io n e p e r l ’e v e n t o . I n u ltim a a n a lisi, se m b r a , c iò c h e e g li ricerca è u n a in te r p r e ta z io n e d e l l ’e v e n t o p r o b le m a tic o , u n a a ttr ib u z io n e d i sig n ific a to e d i v a lo r e so r r e tti d a l c o n s e n s o su o e d e i s u o i a s c o lta to r i. (i b i d .: 1 3 6 ) .

Completiamo il ragionamento di P ratt portandolo alle estreme conseguenze: se il genere di un discorso è un insieme di condizioni di appropriatezza; se la condizione di appropriatezza propria degli asserti che si realizzano nel genere display-text è la tellability, e se alla tellability inerisce non solo lo scopo di suscitare interesse ma anche quello di produrre un atteggiamento valutativo nei confronti dello stato di affari esposto, allora la produzione di assiologia e la risposta valutativa sono inerenti al genere di discorso che chiamiamo narrativa (sia quella naturale che quella letteraria). Per una via del tutto diversa, insomma, arriviamo ad una conclusione non nuova: quella implicitamente adombrata nelle « finestre » di James come quella esplicitata nel « plurilinguismo » ideologico che Bachtin vede inerente alla lingua del romanzo. Un ultimo anello per completare il discorso sulla qualità, sugli scopi (illocutori) e sugli effetti degli atti linguistici che si compiono caratteristicam ente nelle narrazioni, e cioè le asserzioni. P ratt nota che questa classe di atti corrisponde in sostanza ai rappresentantivi di Searle. Per questa classe di atti, Grice (1967) sostiene che, a differenza di atti come richieste e comandi, che producono azioni (sono action-producing), essi producono pensieri (sono thought-producing). Questa distinzione corrisponde a quella operata da Searle quando discute la direzione illocutoria dei vari tipi di atti linguistici: vi sono atti (come appunto richieste e comandi) che cambiano il mondo (sono world-changing) e atti che descrivono il m ondo (sono world-describing). A quest’ultima categoria appartengono i rappresentativi. Dunque, se u n ’opera narrativa è costituita principalmente di asserzioni (o di atti rappresentativi), essa è sostanzialmente thought-producing e worlddescribing: [...] è c h ia r o c h e le e s c la m a z io n i, l e n a r r a zio n i n a tu r a li e m o lt e se n o n tu t t e le o p e r e le tte r a r ie r ie n tr a n o n e lla c a te g o r ia il c u i sc o p o p r im a rio è t h o u g h t - p r o d u c i n g , r a p p r e s e n ta tiv o e w o r l d - d e s c r i b i n g . (P r a tt 1 9 7 7 : 1 4 3 ).

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Non è facile accettare la conclusione che la letteratura non cambi il mondo perché solo lo descrive; che non produca azioni perché produce « solo » pensieri; infatti, non è logico concludere che ciò che produce pensieri non sia capace di cambiare il mondo. P ratt è consapevole di una tale obiezione e la controbatte osservando che Io scopo di indurre all’azione che u n ’opera letteraria può prefìggersi è da vedersi come indiretto in una prospettiva di atti linguistici, nel senso che « il suo raggiungimento dipende dal raggiungimento dello scopo rappresentativo » (ibià.\ 143, n. 13). Ma è troppo poco: se, come la stessa P ra tt ammette, lo scopo del discorso letterario non è quello di trasm ettere informazioni ma quello di produrre pensieri, allora caratteristicamente — e non parassitariamente — al discorso letterario ineriscono effetti perlocutori. In altre parole, proprio perchè è thought-producing il discorso letterario può essere ioorld-changing\ m entre la risposta ad un discorso che trasm ette informazioni è la semplice comprensione della forza illocutoria, comprensione che può solo modificare la conoscenza del mondo dell’ascoltatore, la risposta al discorso thought-producing della letteratura non è nella ricezione-comprensione, ma piuttosto nella costruzione di atteggiamenti, di « punti di vista » e di mondi. A differenza di altri tipi di testo, il testo letterario mira sempre a smuovere le acque dei comportamenti: lo fa, certo, anche fingendo un universo di illocuzioni, costruendo mondi fittizi entro i quali si dà informazione e nei quali a questa si risponde nel modo usuale, con la comprensione e quindi con l’accrescimento del sapere. Non è quello delle illocuzioni fittizie, però, il livello che deve interessare un approccio pragmatico. E tuttavia, l’equivoco permane: la pragmatica letteraria, infatti, non sa abbandonare del tutto le illocuzioni che si compiono entro il mondo fittizio per occuparsi invece di ciò che accade ■ — ad un livello di perlocuzione — nel rapporto fra il mondo fittizio e il lettore. Questo equivoco può essere esemplificato da un dialogo a distanza fra Austin e Iser. Austin commenta a proposito dell’efficacia dei performativi in contesti particolari, fra i quali quello letterario: u n e n u n c ia to p e r fo r m a tiv o sarà [ . . . ] ,

in modo peculiare,

v u o t o o in e f -

ficace s e p r o n u n c ia to , ad e s e m p io , da u n a tto r e s u l p a lc o s c e n ic o , o in t r o d o t t o in u n a p o e s ia , o d e tto in u n s o lilo q u io . [ . . . ] I n q u e s te circ o s ta n z e , la lin g u a è in m o d o p a r tic o la r e e c o m p r e n s ib ilm e n te u sa ta

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Le direzioni della pragmatica

n o n se r ia m e n te , m a p iu t t o s t o in m o d o p a r a s s i t a r i o r is p e tto al su o u s o . ( A u s tin 1 9 6 2 : 1 4 4 ) .

Questa affermazione di Austin è stata spesso contestata. Citando Am leto, Iser argomenta: Q u a n d o A m le to in s u lta O f e lia , A u s t in d e fin ir e b b e l ’e n u n c ia to p a r a ssita r io . [ . . . ] M a n e s s u n o fra i l p u b b lic o avrà l ’im p r e s s io n e c h e q u e s to sia u n a tto lin g u is t ic o p a r a ss ita r io , c io è v u o t o . A l c o n tr a r io , il d isc o r so d i A m le t o « c ita » l ’in te r o c o n t e s t o d e l d ra m m a , c h e a su a v o lta p u ò e v o c a r e t u t t o c iò c h e lo s p e tta to r e sa s u lle r e la z io n i u m a n e , su lle m o tiv a z io n i e s u lle situ a z io n i. U n a tto lin g u is t ic o c h e p u ò e v o c a r e fa tti c o s ì im p o r ta n ti n o n è c e r ta m e n te « v u o t o » , a n c h e s e n o n p r o d u c e u n ’a z io n e r ea le in u n m o n d o r ea le. (I s e r 1 9 7 6 : 5 9 tr a d . in g l.) .

Anche tralasciando il fatto che Austin parla di performativi e non di illocuzioni, ciò che è l’insulto che Iser porta ad esempio, rimane tuttavia un equivoco serio: Austin ha certamente ragione quando nota che un attore che pronunci sulla scena formule quali « ti battezzo » o « ti condanno » pronuncia atti linguistici parassitari, in quanto egli non ha né l ’intenzione né la capacità di compiere questi atti in modo tale che abbiano reale efficacia. Iser, da parte sua, m entre apparentem ente difende l ’efficacia degli atti linguistici nel mondo del lettore o dello spettatore, in realtà la confina drasticam ente allo illocutionary uptake: limita, cioè, l ’efficacia del discorso letterario e della sua possibile azione sul mondo all’evocazione di una grammatica dei comportamenti, degli scopi e degli effetti che, una volta « citati » e poiché costruiti su modelli sociali reali, sarebbero semplicemente riconosciuti dal lettorespettatore. Ancora una volta, quindi, viene scartata la possibilità che il testo letterario eserciti effetti nel mondo, possibilità che invece, come si diceva, è insita negli scopi del discorso letterario e nell’uso che il lettore ne fa: viene negata, cioè, la sua capacità perlocutoria. Nel capitolo che segue e che conclude questo libro cercherò di discutere, assumendo di volta in volta varie prospettive teoriche, alcuni modi in cui il testo del romanzo compone ed impone modelli valutativi con lo scopo di produrre atteggiamenti (di consenso) nel lettore. Il tentativo ideologico del testo di manipolare le opinioni del lettore, di creare armonia di « punti di vista », di imporre una assiologia, entro una teoria degli atti linguistici potrebbe essere studiato con profitto se il fuoco dell’attenzione venisse spostato dalle illocuzioni alle perlocuzioni.

6. Discorso narrativo e ideologia

6.1.

S o ggettivism o individualistico vs coscienza ideologicosocìale La p erso n alità soggettiva in tern a con la p ro p ria autoconsapevolezza ... esiste com e ideologem a. V. N . V olosinov

Nel capitolo precedente ho volutamente tralasciato qualsiasi precisazione a proposito del concetto di soggettività, non contrastando l ’ipotesi che il complesso dei soggettivemi (stilistici, affettivi, valutativi) possa essere considerato emanazione di (e testualmente costruisca) soggetti singoli, psicologicamente e culturalmente definibili come individui. È vero però anche che i soggettivemi (sia affettivi che valutativi) riscontrati nei testi tendevano spesso, nell’operazione analitica, ad imporsi come espressione di modelli valutativi radicati nel sociale, più o meno stabilmente assestati dal punto di vista culturale; e dove ciò era più evidente, non si è mancato di rilevarlo: vedi l ’impiego obliquo dei verbi di giudizio in Sciascia, la compenetrazione valutativa in Verga, gli ammiccamenti elitari in Calvino, le modalità di costruzione del narratario in Stendhal, la espressione di posizioni ideologiche contrastanti in continuo dialogo in De Roberto, ecc. Questo capitolo conclusivo è inteso come correzione di tiro parziale della ipotesi enunciazionale avanzata, o come presentazione sotto diversa luce di alcune delle tematiche discusse in precedenza. Dal riorientam ento della discussione risulterà, spero, rafforzato, l ’assunto che le varie facce del problema del punto di vista sono indistricabilmente connesse. Ritornerò, quindi, sul problema (o sui problemi) del punto di vista affrontandolo da varie angolazioni: innanzitutto riesumerò

202

Discorso narrativo e ideologia

l a d i s t i n z i o n e fr a n a r r a t o r i « s o g g e t t i v i » e n a r r a t o r i « o b i e t t i v i » , d i s t i n z i o n e c h e v e d e i l f e n o m e n o s t o r i c o d e lla « c a n c e l l a z i o n e d e l l ’a u t o r e » p r o d o t t a d a l l e t e o r i e d i l i m i t a z i o n e d e l p u n t o d i v i s t a com e

« o g g e t tiv iz z a z io n e

d e l la

v is io n e » .

E

s u ll a b a s e

d e f i n i z i o n i d i i d e o l o g i a c e r c h e r ò d i d im o s t r a r e n o n

d i a lc u n e

s o lo c h e n o n

e s i s t o n o n a r r a t o r i « o b i e t t i v i » , m a c h e i l n a r r a t o r e p e r c o s ì d ir e « c a n c e lla to »

è

fo r s e p iù

r e s p o n s a b i l e d e l la p r o d u z i o n e d i i d e o -

lo g ia d e l n a r r a to r e « o n n is c ie n te » e r e p r e s s iv o . I n s e c o n d o lu o g o , la n o z i o n e d i « d i a l o g i s m o » s e c o n d o B a c h t i n c i s e r v ir à a r io r i e n ta r e

la

n o z io n e

g e n e ttia n a

di

« is t a n z a

d e l l ’e n u n c i a z io n e »

s u lla

b a s e d e l la c o - o c c o r r e n z a d i p i ù p o s i z i o n i s e m a n t i c h e ( v o c i c o n a c c en ti

v a lu ta tiv i)

n e lla

m e d e s im a

m a n ife s ta z io n e

s e g n ic a .

I n f in e ,

i l « d i a l o g i s m o » b a c h t i n i a n o c i in t r o d u r r à p e r t i n e n t e m e n t e a l p r o b l e m a dei « tipi di d i s c o r s o » c h e si realizzano caratteristicamente nel romanzo: s o p r a t t u t t o attraverso la d i s c u s s i o n e d e l fenomeno d e l « d i s c o r s o r ip o r t a t o » rientrerem o per un ingresso diverso nella classica d i s c r im i n a n t e show ingjtellìng (mimesi/diegesi, racconto di avvenim enti/racconto di p a r o l e , ecc.), sulla base d e l l e c o o r d i nate di « interazione v e r b a le » (intreccio di accenti valutativi) elaborate da Volosinov.

6 .2 . N arratori « soggettivi » e narratori « o b iettiv i »: una possibile discrim inante ideologico-testuale Nella diatriba pro e contro la limitazione della visione, finisce col prendere corpo un pregiudizio, e cioè che al « silenzio dell’autore », alla affermazione dell’ideale drammatico e all’eliminazione dell’onniscienza (che si configurerebbero come ricerca di « obiettività ») inerisca il silenzio dell’ideologia. È significativo, in questo senso, che tu tte le trattazioni che tendono a recuperare l’ideologia al testo del romanzo, da Booth in poi, attuano una qualche forma di reintroduzione della figura dell’autore (vedi Uspenskij 1970, Krysinski 1977 e Lanser 1981 e le discussioni di questi testi in 3.3., 4.2.1. e 4.2.2.), con la più o meno implicita allusione al fatto che l ’ideologia non può che scaturire da un em ittente personalizzato e soggettivo della storia, il quale per giunta intrattenga legami più o meno diretti col suo em ittente reale. Se, insomma, all’autore (o al narratore marcatamente soggettivo) è da attribuirsi la responsabilità dell’ideologia, allora la poetica della narrazione « obiettiva » che si realizza con la limitazione del punto di vista significa anche, perlomeno, una riduzione dell’impegno ideologico nel testo del romanzo.

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203-

Una tale impostazione è equivoca per almeno due motivi: intanto, un percorso di senso ideologico non si definisce (o non si definisce sempre) a partire da posizioni semantiche esplicitamente valutative ma, e forse più caratteristicamente, si costruisce a partire da strategie di « sottrazione dell’informazione »; in secondo luogo, se è vero che — come sostiene Volosinov — « la parola è il fenomeno ideologico per eccellenza » (1929: 64 trad. it.), se, insomma, al significato inerisce necessariamente la valutazione, allora è la lingua stessa ad escludere fenomeni comunicativi ai quali non inerisca una produzione di senso ideologica. La nozione di ideologia è usata da Volosinov come sinonimo di assiologia, cioè «accentuazione valutativa», significato valutativamente orientato incorporato nei segni di una data comunità. Se però guardiamo da questo punto di vista i testi narrativi, ci rendiamo conto del fatto che in questi si realizzano modalità differenziate di trasmissione di orientam enti valutativi. In particolare, scegliendo una discriminante molto ampia, e che quindi necessita di precisazioni da caso a caso, diremo che esiste un modo di esprimere valutazioni caratteristico dei narratori soggettivi e autoritari (onniscienti) e un modo, al contrario, caratteristico dei narratori oggettivi e quasi-cancellati (a punto di vista limitato, con varie gradualità). M entre la prima modalità si manifesta per accumulazione esplicita di giudizi di valore, la seconda si nasconde entro percorsi più sotterranei, anche attraverso modalità di sottrazione delPinforinazione narrativa. Alle due modalità narrative corrispondono grosso modo rispettivam ente la produzione di sistemi assiologici e la produzione di percorsi ideologici. Per proseguire nella discussione, utilizzo due definizioni di ideologia formulate in area semiotica: la prima qualifica i tratti della conoscenza ideologica della realtà materiale: I l c o n tr a r io d i u n a c o n o sc e n z a o g g e ttiv a [ . . . ] d e lla r ea ltà m a te r ia le è u n a c o n o sc e n z a « n a tu r a liz z a ta » d i q u e s ta r e a ltà , u n a c o n o sc e n z a c io è d e lla r ea ltà m a te r ia le c h e si c o n sid e r a d e r iv a r e in m o d o n e c e s s a r io da c iò c h e è il su o o g g e t t o , sia p e r c h é si s u p p o n e c h e e ssa lo rifle tta p a s s iv a m e n te « c o s ì c o m ’è » , sia p e r c h é si s u p p o n e c h e la p e r tin e n z a d e lle c a r a tte r istic h e d e te r m in a n ti l ’id e n tità c h e e s s a g li r ic o n o sc e v ie n e im p o s ta d a ll’o g g e t to s te s s o .

[...] Q u a n d o la « n a tu r a lità » d i u n a c o n o s c e n z a d e lla r ea ltà m a te r ia le a p p a re o v v ia , i l c h e r e n d e r id o n d a n te i l te n ta tiv o d i sp ie g a r e la c o n o s c e n z a in q u e s tio n e , n o i d ir e m o c h e ta le c o n o sc e n z a si c o n fo n d e c o n

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Discorso narrativo e ideologia

la p r o p r ia id e o lo g ia o c h e la c o s titu is c e .

( P r ie t o

1975:

1 3 5 -6

trad .

i t .) .

La seconda concerne il meccanismo semantico-retorico di organizzazione della ideologia come assolutizzazione del proprio « punto di vista »: D e fin ia m o [ . . . ] c o m e i n v e n t i o id e o lo g ic a u n a se r ie d i a sse r ti s e m io tic i, b a s a ti su p u n ti d i v is ta p r e c e d e n ti, sia n o e s s i o m e n o e s p lic ita ti, o v v e r o su lla s c e lta d i s e le z io n i c ir c o s ta n z ia li c h e a ttr ib u isc o n o u n a d a ta p r o p r ie tà a u n se m e m a , c o n te m p o r a n e a m e n te ig n o r a n d o o c e la n d o a ltre p r o p r ie tà c o n tr a d d itto r ie , c h e s o n o u g u a lm e n te p r e d ic a b ili d i q u e l s e m e m a a ca u sa d e lla n a tu ra n o n lin e a r e e c o n tr a d d itto r ia d e llo sp a z io s e m a n tic o .

[...] _ D e fin ia m o c o m e d i s p o s i t i o id e o lo g ic a u n a a r g o m e n ta z io n e c h e , m e n tr e s c e g lie u n a d e lle p o s s ib ili s e le z io n i c ir c o s ta n z ia li d e l se m e m a q u a le p r e m e s s a , n o n r e n d e e s p lic it o il f a t t o c h e e s is t o n o a ltre p r e m e sse c o n tr a d d itto r ie o p r e m e ss e a p p a r e n te m e n te c o m p le m e n ta r i c h e p o r ta n o a u n a c o n c lu s io n e c o n tr a d d itto r ia , p e r ta n to o c c u lta n d o la c o n tr a d d itto r ie tà d e llo sp a z io se m a n tic o . D e fin ia m o in o lt r e la d i s p o s i t i o id e o lo g ic a c o m e u n ’a r g o m e n ta z io n e c h e , q u a n d o p a r a g o n a d u e d iv e r s e p r e m e ss e , sc e g lie q u e lle c h e n o n p o s s e g g o n o m a r ch e c o n tr a d d itto r ie , p e r ta n to o c c u lta n d o in m o d o c o n sc io o in c o n s c io q u e lle p r e m e ss e c h e p o tr e b b e r o c o m p r o m e tte r e la l i n e a r ità d e l l ’a r g o m e n ta z io n e . (E c o 1 9 7 5 : 3 6 3 - 4 ) .

L ’elemento comune alle due definizioni è individuabile nel processo di « sottrazione » o di « occultamento »; nel primo caso, in ciò che Prieto indica come « naturalizzazione », sarà la sottrazione della spiegazione (ridondante) conseguente alla autoevidenza imposta ideologicamente dalla pretesa che la conoscenza derivi direttam ente dall’oggetto; nel secondo caso, si tratta di « occultamento » di percorsi semantici contraddittori e quindi di negazione della stessa natura non-lineare dello spazio semantico. Verso quale tipo di testo ci conducono queste due definizioni? Cominciamo perlomeno a dubitare che l ’ideologia alberghi esclusivamente nel discorso del narratore repressivamente intrusivo, dedito alla « spiegazione » e al « commento » (anzi, spiegazione e commento, secondo la prospettiva di Prieto, sono ridondanti nel procedimento ideologico, cognitivo e persuasivo, in quanto mettono in questione l ’autoevidenza di quella conoscenza dell’oggetto, poiché tendono a giustificare ciò che non deve essere giustificato); d ’altra parte, non è affatto scontato che il narratore onni-

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sciente, intrusivo e repressivo, occulti nelle sue scelte di percorsi valutativi le marche semantiche contraddittorie. Il punto chiave sembra essere, ancora una volta, l’assoliitizlazìone del proprio punto di dista, scopo che con modalità diverse può essere perseguito sia dai narratori « soggettivi » che da quelli « obiettivi ». Non meno del commento idiosincratico, infatti, le forti focalizzazioni, le interpretazioni limitate e quindi « parziali », le drastiche selezioni con occultamento di dati producono interventi ideologici. Insomma, il percorso ideologico di un testo (narrativo) può essere tracciato in modo palesemente repressivo dalla simulazione della presentazione di « tu tti » gli elementi di una data realtà, con esplicitazione di un sistema di valori soggettivo; più sotterraneamente, il controllo ideologico del destinatario può essere realizzato attraverso la sottrazione di informazione narrativa: una codifica che richiede, sì, l ’intervento attivo del lettore per la ricostruzione del panorama frammentario ma che, come osserva ancora Eco a proposito dei testi cosiddetti « aperti », può dare luogo a molte ma non a tu tte le interpretazioni (Eco 1979:

5 6 -6 0 ).

È ovvio che la distinzione appena tracciata implica generalizzazioni che in presenza dei testi vanno sfumate; tenendo presente il rischio, scelgo tre testi che mi paiono utili ad illustrare modi diversi di orientare la lettura incanalando le valutazioni del destinatario. I primi due testi non possono dirsi « aperti », anche se il secondo lo è più del primo, almeno relativamente al frammento citato; si tratta di due narratori onniscienti: mentre il primo, però (quello de I promessi sposi) è colto in atteggiamento non solo di onniscienza ma anche di intrusione valutativa, il secondo (quello di Guerra e pace) è sorpreso in una situazione nella quale autolimita il suo sapere altrove illimitato proprio allo scopo di produrre una lettura ideologica degli eventi. Il terzo narratore (l’affidabile cronista inventato da Asimov) incarna una forma singolare di onniscienza « obiettiva », aliena da valutazioni. Anche in questo narratore apparentem ente distaccato e neutrale, si manifestano tuttavia tracce di percorsi ideologici, raggiunti, come vedremo, con speciali tattiche retoriche. Il narratore de I promessi sposi è soprattutto preoccupato di distinguere bene e male, buono e cattivo, in modo tale da non lasciar dubbi; la sua azione repressiva è affidata, nel discorso, alla nominazione (nettamente valorizzante o devalorizzante, con l ’uso diffuso del suffisso affettuoso uccio o di quello spregiativo accio), al rafforzamento mediante avverbi valutativi, ecc. (vedi la discus-

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sione di questi elementi in 5.2.1). La sua narrazione non pretende mai di essere « obiettiva »: anzi, in favore di una presenza autoriale massiccia, essa bandisce la neutralità (che non è nel costume dell’anonimo estensore del manoscritto né in quello di chi ne ha rifatta la « d icitura»). H o scelto di commentare due brani, nei quali sono manifestate con evidenza le polarità assiologiche di bene e male. Vediamo, per prima, la descrizione del Cardinal Federigo : Del suo era poi così scarso e sottile misuratore a sé stesso, che badava di non ismettere un vestito prima che fosse logoro affatto: unendo però, come fu notato da scrittori contemporanei, al genio della semplicità quello d ’una squisita pulizia: due abitudini notabili infatti, in quell 'età sudicia e sfarzosa. Similmente, affinché nulla si disperdesse degli avanzi della sua mensa frugale, gli assegnò a un ospizio di poveri; e uno di questi, per suo ordine, entrava ogni giorno nella sala da pranzo a raccoglier ciò che fosse rimasto. Cure, che potrebbero forse indur concetto d’una virtù gretta, misera, angustiosa, d'una mente impaniata nelle minuzie, e incapace di disegni elevati; se non fosse in piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì animosa lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da’ fondamenti... Passando poi a commentare gli effetti della suddetta fondazione, il narratore li qualifica miracolosi, e aggiunge: ma pensate che generoso, che giudizioso, che benevolo, che perseverante amatore del miglioramento umano [...] in mezzo a quell 7g«orantaggine, a quell’inerzia, a quell 'antipatia generale per ogni applicazione studiosa... (A. Manzoni, I promessi sposi; corsivi miei). I due fram m enti non hanno quasi bisogno di commento: mi soffermerò soltanto su due espedienti strategici che servono egregiamente a instaurare un dialogo con il narratario, direttam ente includendolo nello spazio della argomentazione persuasiva. Nel primo fram mento il narratore non si accontenta di esprimere la sua valutazione positiva della parsimonia di Federigo con se stesso e della sua generosità con i poveri: egli si preoccupa anche di controbattere l’obiezione di chi potrebbe vedere, nel suo studio al risparmio, un indice di grettezza e una incapacità di disegni elevati. L ’obiezione, possibile in un destinatario che manifesti segni di indipendenza di giudizio (forse quello stesso che apprezza l ’epiteto cattivo di « madonnina infilzata » attribuito a Lucia da Perpetua), è subito smontata con l ’argomento forte della fondazione

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della biblioteca, monumento presente (notare l ’uso sorprendente del deittico ostensivo questa), e dunque prova inconfutabile della lautezza del personaggio e dei suoi disegni elevati. L ’altra strategia persuasiva consiste nell'invito: « Ma pensate che generoso ... », d ’altra parte preceduto da: Non domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del Borromeo sulla cultura pubblica; sarebbe facile dimostrare in due frasi, al modo che si dimostra, che furon miracolosi... (corsivi miei). dove si insinua che, come dice Prieto, la dimostrazione è inutile di fronte a ciò che si presenta come autoevidente. Solo che qui, è proprio l ’autoevidenza ad essere messa in dubbio dall’eccessiva argomentazione in favore (come, d ’altra parte, dal dichiarare esplicitamente che la dimostrazione non serve). E d ’altra parte non sembra che., almeno in questo frammento, il narratore si preoccupi di occultare percorsi alternativi dello spazio semantico (addirittura li propone, invece, per poi smontarli con un accumulo di valutazioni): anzi egli ricorre persino alla autorità degli « scrittori contemporanei » per surrogare l ’argomento assiologico della semplicità e pulizia di Federigo contro sudiciume e sfarzo dell’età (come dopo, ritornando a contrapporre le qualità del personaggio alle tendenze della sua età, porrà il suo amore per il miglioramento umano contro l’ignorantaggine, l ’antipatia per ogni applicazione studiosa, ecc.). Non diversa, nel metodo di palesamento di un sistema di valori, è la descrizione della dimora dell’innominato: Il castello deH’innominato era a cavaliere di una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatore, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendio piuttosto erto, ma uguale e continuato, a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione. [...] Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava... (corsivi miei). In questi frammenti, ancor più che nei precedenti, non vi è nulla di sottilmente allusivo: in questo caso, anzi, la descrizione non

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sembra poter ammettere alternative. Lo stesso inciso « non si saprebbe dir bene » non manifesta incertezza del narratore ma piuttosto una qualità, attribuita con sicurezza agli oggetti descritti (castello e aspra giogaia) e agli insoliti rapporti che gli elementi disordinati ed aspri del paesaggio intrattengono; m entre 1’« andirivieni di tane e di precipizi » allude non troppo velatamente all ’inquietudine del paesaggio, nel quale il fondo della valle non riesce mai a diventare, come dovrebbe, fiume, presentandosi invece o troppo arido o troppo impetuoso. Le casucce sparse qua è là, poi, gratificate di un epiteto apparentem ente affettuoso, sono in realtà segni di povertà che accentuano la spietata tirannia del « selvaggio signore ». E la descrizione del luogo procede, inquadrando gli elementi umani: « un ragazzaccio, armato come un saraceno », « tre sgherri che stavan giocando, con certe carte sudice e piegate a forma di tegoli », « quel caporalaccio », « bravaccio », fino al momento in cui il narratore scopre le carte con una indicazione di lettura esplicita: « lo Squinternotto, ch’era il quarto {oh! vedete che bei nomi, da serbarceli con tanta cura) ... » (corsivi miei), dichiarando apertamente la propria animosità nelle scelte nominali e attirando su di esse l’attenzione del lettore, al quale è rivolto l ’invito di riporre nella memoria non solo questo, ma tutti gli altri nomi che il narratore ha dato agli oggetti, pretendendo che essi siano loro « naturalm ente » attribuiti (così come, nella descrizione della regione amena che apre il romanzo, alle cose ineriscono nomi ed epiteti tranquillizzanti come « tre grossi torrenti », « due monti contigui », « lunga e vasta giogaia », « pendìo lento e continuo », « poggi e valloncelli », « campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali »). Q u e s t o n a r r a t o r e n o n è, e n o n p r e t e n d e d i e s s e r e , u n o s t o r ic o o b i e t t i v o : i l s u o c o m p i t o è, a n z i, q u e l l o d i v a l u t a r e i m p l i c i ta m e n te

o

a p e r ta m e n te

t u t t i g l i e l e m e n t i d e l la s t o r ia ;

m a e s ite -

r e m m o a n c h e a in d ic a r e i s u o i p r o c e d i m e n t i d i s c o r s i v i c o m e m a r c a ta m e n te

id e o lo g ic i:

e g li

sp esso

d is p ie g a

p e r c o r si s e m a n tic i

a l-

t e r n a t i v i c o n l ’o b i e t t i v o d i c o n f u t a r l i ( l ’a b b ia m o v i s t o n e l c a s o d i F e d e r ig o , lo

è

r ic o r d i a m o

n e l la

s to r ia

s p ie g a t o d a lla t i r a n n ia d e l p a d r e :

f ic a t o

m a i!);

non

« n a tu r a liz z a »

d i G e r t r u d e , il c u i p e c c a t o s p ie g a to , a p p u n to , m a g iu s t i-

m ai

sen za

p r e c isa r e ,

i n d ic a r e ,

p u n t u a li z z a r e , a t t r i b u i r e p r e d i c a t i . I l s u o m e t o d o d i o r ie n t a m e n t o d e l « p u n t o d i v is ta » , in s o m m a , se m b r a a s s io lo g ic o p iu t t o s t o c h e id e o lo g ic o ,

fo r te m e n te

s o g g e ttiv o

e

c u m u la tiv o

n e l l ’e s p r e s s i o n e

d i u n s is te m a d i v a lo r i se n z a sfu m a tu r e ; n o n te n d e d i p r e fe r e n z a

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ad occultare le marche semantiche contraddittorie ma preferisce esporle e discuterle, di volta in volta scartandole per ricostruire il quadro del mondo che intende affermare; ed è tale la forza e la coerenza del suo sistema di valori, che le opzioni alternative possono essere dispiegate senza che si corrano rischi di dispersione nell’orientamento valutativo. Con il secondo frammento, è possibile dimostrare come l ’orientamento ideologico possa scaturire dalla sottrazione di informazione. Il narratore di Guerra e pace, da sempre considerato onnisciente (ma Lubbock ne discute le limitazioni di visione), ha le caratteristiche dello histor (vedi Scholes & Kellogg 1966: 338 trad. it.); tuttavia, il fatto di essere uno storico massimamente competente e dettagliatamente informato non gli impedisce di attuare in alcuni momenti restrizioni drastiche della propria visione, smettendo alPimprovviso la veste dell’onniscienza e in qualche modo m ettendo a rischio la propria qualificazione di storico rigoroso e imparziale. Queste restrizioni improvvise, che in apparenza sembrano determinate dal bisogno di accedere direttam ente al punto di vista del personaggio narrato, hanno — perlomeno nel caso del frammento che prendo in esame — l ’effetto di marcare un percorso ideologico di interpretazione dei fatti narrati. Nella narrazione della battaglia di Borodino, il narratore seleziona un certo numero di punti di vista lim itati, assumendo la visione prospettica e l ’interpretazione valutativa del personaggio il cui sguardo di volta in volta prende a prestito. Nel complesso, tuttavia, la somma delle visioni lim itate ed incerte costruisce un orientamento che non è di nessuno dei punti di vista parziali illuminati, ma che è piuttosto costruito da tutti questi insieme, come risultante della loro « parzialità ». Il narratore sceglie per primo Pierre Bezùchov, attraverso il quale percepisce i fatti nei primi due paragrafi dedicati all’azione di battaglia. Pierre non è un soldato, ed è presente sul campo per un atto di generosa curiosità: vuole semplicemente essere vicino alle truppe russe. E poiché non è un soldato, non capisce nulla di ciò che gli avviene intorno. Così il narratore, per il tempo che è costretto a seguirlo, è anche forzato a sottrarre alla narrazione quantità ed esattezza di informazioni militari, ad escludere i dettagli tecnici e a negare al lettore la comprensione dello svolgimento degli eventi. Può soltanto, di tanto in tanto, ma sempre passando attraverso lo stupore di Pierre e attraverso il filtro opaco

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della sua visione confusa, insinuare qualche informazione, per co?ì dire, surrettizia: D a v a n t i a l u i c ’era u n p o n t e e p r e s s o il p o n t e s ta v a n o a ltr i s o ld a ti c h e sp a r a v a n o . P ie r r e si a v v ic in ò a lo r o . S e n z a n e a n c h e sa p e r lo , era a r riv a to al p o n t e s u lla K o lo c a , c h e si tr o v a fra G o r k i e B o r o d in o e c h e i fr a n c e si (d o p o a v e r o c c u p a to B o r o d in o ) a v e v a n o a tta c c a to n e lla p r im a a z io n e d e lla b a tta g lia . P ie r r e v e d e v a c h e d a v a n ti a lu i c ’era il p o n t e e c h e d a i d u e la ti d e l p o n t e e s u l p r a to , tra i m u c c h i d i fie n o ta g lia to c h e a v e v a o s s e r v a to il g io r n o p r im a , a lc u n i s o ld a t i, n e l f u m o , fa c e v a n o q u a lc o sa ; m a , n o n o s t a n t e l ’in c e s s a n te sp a ra to r ia , e g li n o n p e n s a v a n e a n c h e lo n ta n a m e n te c h e p r o p r io lì f o s s e il c a m p o d i b a tta g lia . (L . T o ls t o j , G u e r r a e p a c e ) .

Non appena è in grado di abbandonare Pierre, e prima di porsi alle spalle di un altro dei personaggi, il narratore assume un punto di vista panoramico e fornisce, da una prospettiva temporalmente ulteriore (quasi a recuperare il vuoto di notizie determinato dalla presenza di Pierre), una serie di dettagli tecnici sullo svolgimento della battaglia, fin dal suo inizio. Spostandosi ulteriorm ente, si pone dunque alle spalle di Napoleone, la cui incomprensione delle azioni dipende, pare, dal punto di osservazione nel quale l ’imperatore si è posto, collocato troppo in basso per consentirgli una visione chiara. Il narratore ne segue soprattutto lo sguardo, non utilizzando la capacità onnisciente altrove dispiegata di penetrarne i pensieri: I n p ie d i su l t u m u lo , N a p o le o n e g u a r d a v a c o l c a n n o c c h ia le , e n e l p ic c o lo c e r c h io d e l c a n n o c c h ia le v e d e v a fu m o e u o m in i, a v o lt e su o i, a ltre ru ssi: m a d o v e f o s s e c iò c h e a v e v a v is t o , a p p en a g u a rd a v a d i n u o v o a o c c h io n u d o , n o n lo sa p e v a p iù . D is c e s e d a l tu m u lo e si m ise a p a sse g g ia r e a v a n ti e in d ie tr o d a v a n ti a e s s o . O g n i ta n to si fe r m a v a , p o r g e v a l ’o r e c c h io al r o m b o d e l c a n n o n e e sc r u ta v a il c a m p o d i b a tta g lia . N o n s o lo d a q u e l lu o g o in b a s s o d o v e e g li sta v a , n o n si p o te v a c a p ire c h e c o sa s u c c e d e s s e la g g iù , c o m e n o n lo si p o te v a d al tu m u lo d o v e sta v a n o a d e ss o a lc u n i s u o i g e n e r a li, m a n e a n c h e d a lle f l è c h e s s te s se , d o v e ora s i t r o v a v a n o a lte r n a tiv a m e n te o in s ie m e r u ssi e fr a n c e si, m o r ti, v iv i e f e r it i, in p red a a llo s p a v e n to o a fu r o r e .

Né la visione è più chiara nel momento in cui il narratore giunge alle spalle di Kutuzov. Il vecchio comandante in capo dell’esercito russo, dal punto in cui è, non vede la battaglia: con la testa

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china ne percepisce i suoni m entre riceve i messaggi dei suoi ufficiali: Egli crede, tuttavia, di sentire nettam ente il polso della situazione, ed è convinto della vittoria. E il narratore non lo smentisce, non pronunciandosi mai sul suo esito. In realtà, con la scelta di molti punti di vista parziali, e tu tti insicuri, il narratore trasm ette un giudizio di incertezza sulla battaglia il cui esito, favorevole ai russi, non è mai notificato col « senno di poi » del narratore che conosce la storia, ma è solo indovinato attraverso le informazioni frammentarie che giungono ai vari personaggi. Nella scelta di un punto di vista che slitta continuamente dall’uno all’altro dei personaggi, e che non riesce a costituirsi in visione panoramica, il narratore ha visto una possibilità non predicatoria di cogliere e trasm ettere, da hìstor raffinato, il senso di un’azione bellica disordinata e confusa, sul cui esito in campo di battaglia è impossibile pronunciarsi. Ma la scelta non illumina soltanto uno sguardo su un episodio particolare; infatti, ponendo non soltanto un timido outsider come Pierre Bezùchov, ma anche Napoleone e Kutuzov, tra le coscienze annebbiate di quel giorno di battaglia, il narratore indica implicitamente la sua ideologia, altrove minuziosamente spiegata, circa il fatto che la consapevolezza di chi crede di trasm ettere gli ordini non ha alcun peso sul corso degli eventi storici: i piani di battaglia disattesi, che non giungono mai o giungono troppo tardi a chi dovrebbe eseguirli, la casualità delle azioni che i capi degli eserciti credono invece determinata dalle strategie da loro escogitate in anticipo, il disordine delle azioni improvvisate sulle quali, una volta messe in moto, nessuna mente strategica è in grado di intervenire trasm ettono, assai più intensamente che in tutti i « saggi d ’autore » disseminati nel romanzo, il senso della inevitabilità delle leggi che governano le azioni volute dal corso della storia. I percorsi assiologici altrove tracciati dalPautorità dell’onniscienza si impongono, almeno in queste pagine del romanzo, come orientam ento ideologico prodotto attraverso la restrizione della visione e la conseguente riduzione della informazione. E passiamo all’estensore competente ed impassibile della cronaca dell’Impero Galattico, per coglierlo in una serie di asserzioni solo apparentemente neutrali: Il primo Impero Galattico era durato diecimila anni. Aveva regnato su tutti i pianeti della Galassia con un governo centralizzato, a volte tirannico, a volte benevolo; era stato sempre però una fonte d’ordine. Ogni essere umano aveva dimenticato che potesse esistere un altro

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tipo di governo. (I. Asimov, L ’altra faccia della spirale; Secondi Foundation, 1952). L ’istanza dell’enunciazione è ulteriore rispetto agli eventi enunciati in quest’incipit: l ’ulteriorità è marcata, intanto, dal tempo dei verbi e poi dall’espressione « era durato diecimila anni ». Si tratta di una istanza storicamente partecipe (o consapevole) dei fatti esposti nell’enunciato e degli eventi che sta per narrare. La stessa voce asserisce come dato di fatto l ’esistenza di forme di vita e di governo in pianeti diversi dal nostro. Il tempo e lo spazio in cui si muove il narratore sono per lui paesaggio culturale assodato: il carattere assertivo degli enunciati, con il verbo all’indicativo (modo della certezza), indirettam ente stabilisce per il narratore rapporti di prossimità (spaziale, temporale e discorsiva) rispetto ad eventi ed esistenti menzionati. Il narratore non esprime dubbi né sottopone a condizioni: sembra, cioè, disposto ad impegnarsi sul valore di verità dei suoi asserti. E cioè, naturalizza come indubitabili e prossimi gli enti attivati nel discorso. Ma la strategia più forte della sua costruzione ideologica è nel tipo di relazione che l ’istanza della narrazione imposta con il suo destinatario virtuale, relazione che passa attraverso l ’uso di espressioni come g o v e r n o c e n t r a l i z z a t o , t i r a n n i c o , b e n e v o l o , f o n t e d ’o r d i n e , e s s e r e u m a n o . Per quanto fantasticamente lontano nel futuro il narratore si ponga nel significato esplicito dei suoi enunciati, il destinatario è subito rassicurato circa la presenza di una base sicura di sapere condiviso: di un universo di discorso che consente il passaggio della comunicazione. Il destinatario, infatti, possiede e impiega come questo narratore nozioni quali g o v e r n o c e n t r a l i z z a t o , a proposito delle quali giudica con coordinate assiologiche del tipo t i r a n n i c o ¡ b e n e v o l o . Ciò che diventa im portante, dunque, nella costruzione dei « punti di vista » che il testo proporrà non è tanto la prossimità del narratore rispetto agli eventi narrati, ma la prossimità del narratario, del quale fin dall’incipit si negozia l ’inclusione nel paesaggio culturale della storia. In effetti, l ’analisi delle poche righe dell’incipit precisa la strategia complessiva che costituisce forse la novità più rilevante dei romanzi della Galassia come macrotesto: e cioè l ’aver collocato il punto di vista del narratore a distanza molto ravvicinata sia dagli avvenimenti che narra che rispetto all’universo di discorso del narratario. Anzi, non è tanto la probanza scientifica delle ipotesi fantascientifiche di Asimov a creare 1’« effetto di reale » del testo, quanto questo raccorciamento delle distanze cui-

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turali, che facilita l ’accettazione, da parte del narratario, degli orientam enti semantici che il testo esprimerà. Ciò che di solito nei romanzi di fantascienza è un futuro presentato come possibile, nelle storie dell’Im pero Galattico di Asimov è un « passato » da stendere in una cronaca perché possa essere valutato. 6.3. La parola com e ideologem a o « p u n to dì vista » sul m ondo in M . Bachtin L ’opera di Michail Bachtin, leggibile da noi solo da pochi anni, pone alla nostra attenzione i molteplici problemi dell’uso ideologico della parola nel romanzo: ciò che altrove è apparso sotto l ’etichetta di voce o di istanza dell’enunciazione, nell’opera del teorico russo è valutazione o « punto di vista » sul mondo inerente alla stessa organizzazione linguistica del testo del romanzo. I testi di Bachtin che prenderò in considerazione sono due: il saggio « La parola nel romanzo » (1934-’35) e il volume su D ostoevskij (1963). Si tratta di opere assai ricche e complesse e di sorprendente originalità, che certamente nella mia trattazione appariranno al lettore che ne abbia fatta esperienza ridotte ad una unica prospettiva (quella enunciata sopra, appunto). Tratterò i due saggi separatamente e nella sequenza cronologica indicata (ma bisogna tener presente che la prima stesura del Dostoevskij è precedente al saggio « La parola nel romanzo »), traendo dalla seconda opera solo i suggerimenti che mi sembra possano rappresentare un arricchimento del problema già trattato nel primo saggio. Cominciamo col riflettere su un enunciato di base del primo saggio, che ci dà modo di entrare in argomento ponendoci alcune domande: I l r o m a n z o c o m e to ta lità è u n fe n o m e n o p lu r is tilis tic o , s iv o , p lu r iv o c o . (B a c h tin 1 9 3 4 - ’3 5 : 6 9 tra d . it.) .

p lu r id isc o r -

Perché pluristilistico? Per spiegarci il termine occorre percorrere le osservazioni di Bachtin sulla stilistica tradizionale. Egli osserva che la stilistica « trascrive per il piano un tema sinfonico (orchestrato) » (ibid.: 71); che si è, cioè, da sempre preoccupata di isolare lo stile individuale dell’artista, trascurando o ignorando del tutto il fatto che in u n ’opera (soprattutto in un romanzo) convivono

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« unità stilistiche eterogenee, che si trovano a volte su vari piani linguistici e sono soggette a varie leggi stilistiche» (ibid..: 70). Perché pluridiscorsivoì La pluralità degli stili implica l ’impiego di discorsi di varia natura, che provengono da varie istanze dell’enunciazione socialm ente definite: Il discorso dell’autore, i discorsi dei narratori, i generi letterari intercalati, i discorsi dei protagonisti non sono che le principali unità compositive, mediante le quali la pluridiscorsività è introdotta nel roman-zo; ognuna di esse ammette una molteplicità di voci sociali e una varietà di legami e correlazioni (sempre in vario grado dialogizzati) tra queste. Questi particolari legami e correlazioni tra le enunciazioni -e le lingue, questo movimento del tema attraverso le lingue e i discorsi, il suo frantumarsi nei rivoli e nelle gocce della pìuridiscorsività sociale, la sua dialogizzazione: ecco la principale peculiarità della ■stilistica romanzesca, [ibid.: 71). Perché plurivocoì La varietà dei discorsi proviene da una molteplicità di istanze dell’enunciazione socialmente definite, poiché nel romanzo parla una molteplicità di voci. E veniamo ora ad un altro degli enunciati di base del saggio ■di Bachtin: Lo stile del romanzo è l’unione degli stili: la lingua del romanzo è il ■sistema delle «lingue», [ibid.: 70). M entre la prima parte dell’enunciato dovrebbe essere ora chiara, vediamo di spiegarci la seconda, domandandoci: che cosa è lingua per Bachtin? :Ci riferiamo non al minimo linguistico astratto di una lingua comune nel senso di un sistema di forme elementari (simboli linguistici), che garantisca un mìnimo di comprensione nella comunicazione pratica. Noi prendiamo la lingua non come sistema di categorie grammaticali •astratte, ma la lingua ideologicamente saturata, la lingua come concezione del mondo e persino come opinione concreta, la lingua che garantisca il massimo di reciproca comprensione in tutte le sfere della vita ideologica, [ibid.: 79). E veniamo così al problema della dialogìcità della lingua (lo ritroverem o come interferenza e rapporto interattivo in Volosinov),

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che si rifrange e trova posto anche nel sistema linguistico del romanzo: tutte le volte che l ’uomo tenta di impadronirsi della lingua nell’atto di enunciazione per valutare il mondo, trova il mondo già definito dalla lingua altrui e dal discorso altrui: O g n i p a r o la c o n c r e ta (e n u n c ia z io n e ) [ . . . ] tr o v a il su o o g g e t t o , v e r s o il q u a le te n d e , se m p r e , p e r c o s ì d ir e , g ià n o m in a t o , d is c u s s o , v a lu t a t o , a v v o lt o in u n a fo s c h ia c h e lo o sc u r a o p p u r e , al c o n tr a r io , n e lla lu c e d e lle p a r o le g ià d e t t e su d i e s s o , { i b i d .: 8 4 ) . I n t u tt i i su o i c a m m in i v e r s o l ’o g g e t to , in t u t t e le d ir e z io n i la p a r o la si sc o n tr a c o n la p a ro la a ltru i e n o n p u ò n o n en tr a re c o n e ssa in u n a v iv a in te r a z io n e p ie n a d i t e n s io n e . S o lo il m it ic o A d a m o c h e si a c c o s tò c o n la p rim a p a r o la al m o n d o v e r g in e n o n a n co ra n o m in a to , s o lo il so lita r io A d a m o p o t è e ffe ttiv a m e n te e v ita r e fin o in fo n d o q u e s to r e c ip r o c o o r ie n ta m e n to c o n la p a ro la a ltru i n e l l ’o g g e tto , ( i b i d . :

8 7 ).

Questa dialogicità interna alla lingua è, dunque, uno scontroincontro di « punti di vista » o valutazioni sul mondo: dialogo ideologico e assiologico, quindi; pluridiscorsività sociale che nel romanzo trova il suo genere d ’elezione. Questa cerniera del pensiero di Bachtin ci fa tornare alla mente la prospettiva di Booth e la sua nozione di autore implicito; solo che il teorico americano colloca, nella organizzazione retorica del romanzo, gli ideologemi rifratti di una sola persona strategica, e dunque un « punto di v ista » privo di quello sfondo dialogico — sociale — che Bachtin vede come già connaturato alla plurivocità della lingua. Per Bachtin, la separazione dell’autore reale dal narratore e dai personaggi non è strategica ma necessaria, n é si attua solo nello sdoppiamento fra autore reale e autore implicito (serie di norme retoriche atte a trasm ettere un sistema di valori); quando la lingua del romanzo non esprime direttam ente le intenzioni semantiche dell’autore, può dividersi in una infinità di rivoli, ognuno dei quali — dialogando con l ’istanza semantica dell’autore e con le altre — rappresenta una istanza semantica diversa, poiché è la stratificazione stessa della lingua (di genere, professionale, sociale, di visione del mondo, individuale) ad abilitare lo strum ento ad orchestrare la visione dell’autore: L a p lu r id is c o r s iv ità in tr o d o tta n e l r o m a n z o (q u a li c h e sia n o le form ed e lia su a in tr o d u z io n e ) è u n d i s c o r s o a l t r u i in l in g u a a l t r u i c h e se r v e a ll’e sp r e s s io n e r ifr a tta d e lle in t e n z io n i d e l l ’a u to r e . L a p a ro la d i q u e s to d isc o r so è u n a p a r tic o la r e p a ro la b i v o c a . E ss a se r v e in s ie m e a d u e p a r-

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la n t i e d e sp r im e s im u lta n e a m e n te d u e d iv e r s e in te n z io n i: l ’in te n z io n e d ir e tta d e l p e r s o n a g g io p a r la n te e q u e lla r ifr a tta , d ’a u to r e . I n q u esta p a ro la ci s o n o d u e v o c i, d u e s e n s i e d u e e s p r e s s io n i. E si tr a tta d i d u e v o c i d ia lo g ic a m e n te c o r r e la te , c o m e se sa p e s se r o l ’u n a d e l l ’a ltra [ . . . ] e ■ conversassero tra lo r o . L a p a r o la b iv o c a è se m p r e in te r n a m e n te d ia lo g izz a ta . T a le è la p a r o la u m o r is tic a , ir o n ic a , p a r o d ic a , ta le è la p a ro la r ifr a n g e n te d e l n a r r a to re e d e i d is c o r s i d e l p r o ta g o n is ta , ta le è, in fin e , la p arola d e i g e n e r i le tte r a r i in te rc a la r i: so n o tu t t e p a r o le b iv o c h e in te r n a m e n te d ia lo g iz z a te . I n e s s e si tr o v a u n d ia lo g o p o te n z ia le , n o n s v o lt o , u n d ia lo g o c o n c e n tr a to d i d u e v o c i, d i d u e c o n c e z io n i d e l m o n d o , d i d u e lin g u e , {ibid.-. 1 3 3 ).

L ’autore, dunque, può porsi a distanza più o meno ravvicinata rispetto alle istanze semantiche che parlano la parola nel testo: egli può esprimere le proprie intenzioni in maniera diretta o può rifrangerle indirettam ente (dire, cioè, ciò che è proprio nella lingua altrui): ma può anche creare voci nelle quali non si esprimono in alcun modo le proprie istanze semantiche: realizzare, cioè, un discorso altrui in lingua altrui. Tale è il discorso di narratori usati come « punti di vista » ideologico-verbali; tali sono, assai spesso, i discorsi dei personaggi. Ma l ’irruzione del discorso altrui può avvenire anche all’interno di quello che per i suoi connotati sintattici e formali si presenta come discorso dell’autore: l ’uso dell’ironia, la scelta di particolari parole o espressioni, le domande, le esclamazioni, segnali quali i puntini di sospensione, l ’uso di uno stile espressivo caratterizzato, nascondono l’enunciazione (e quindi la visione del mondo) di una persona appartenente al mondo fittizio: questo insieme di accorgimenti Bachtin lo indica come discorso altrui nascosto, facendovi rientrare anche i casi di stile indiretto libero che saranno analizzati in 6.5. sulla scorta ■delle osservazioni di Volosinov. E veniamo all’opera di Bachtin su Dostoevskij. Prima di affrontare la discussione dei romanzi del narratore russo, Bachtin delinea una distinzione assai im portante nel suo sistema estetico: quella fra romanzo polifonico e romanzo monologico. L ’opera di Dostoevskij è polifonica in quanto in essa convivono voci perfettamente autonome, con una loro indipendente autocoscienza e un loro disegno del mondo. Per contro, le forme del romanzo realistico europeo sono essenzialmente monologiche, e cioè presentano oggetti e coscienze reificati e rapportati ad u n ’unica coscienza artistica e ad u n ’unica visione del mondo. Tale è, per Bachtin, la narrativa di Tolstoj:

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Il punto di vista monologicamente ingenuo di Tolstoj e la sua parola penetrano dappertutto, in tutti gli angoli del mondo e dell’anima, tutto assoggettando alla propria unità. (Bachtin 1963: 77). Le cose stanno in maniera diversa nella narrativa polifonica di Dostoevskij, al quale il personaggio interessa come particolare punto di vista sul mondo e su se stesso. Come posizione semantica e valutativa dell’uomo rispetto a se stesso e rispetto alla realtà che lo circonda. Per Dostoevskij è importante non quello che il suo personaggio è nel mondo, ma ciò che il mondo è per il personaggio e ciò che egli è per se stesso, (ibid.-. 64). O ra, il personaggio come « punto di vista » o sguardo sul mondo, come autocoscienza autonoma, richiede una modificazione radicale della posizione dell’autore; questa sarà una posizione dialogica, tale da consentire alla autonoma soggettività del personaggio di esprimersi. Dunque, l ’autore del romanzo polifonico non parla del personaggio ma col personaggio, non di una terza persona (assente) ma con un « tu »; e il personaggio risponde all’autore, a differenza di quanto avviene nel romanzo monologico, dove si trova soffocato dalla autocoscienza invadente dell’autore: La parola dell’autore sul personaggio è organizzata nei romanzi di Dostoevskij come parola su qualcuno che è presente, che ascolta l’autore e che è in grado di rispondere. [...] Nel disegno di Dostoevskij il personaggio è portatore di una parola pienamente valida, e non oggetto muto e senza voce della parola dell’autore. Il disegno dell’autore circa il personaggio è disegno circa la parola. Perciò anche la parola dell’autore circa il personaggio è parola circa la parola. Essa è orientala sul personaggio come sulla parola e perciò dialogicamente rivolta ad fesso. L’autore parla in tutta la struttura del suo romanzo non del personaggio ma col personaggio. [...] tutto deve toccare il personaggio nel vivo, provocarlo, stuzzicarlo, perfino polemizzare con lui e irriderlo, tutto deve essere rivolto verso il personaggio, indirizzato a lui, tutto deve essere sentito come parola su uno che è presente, e non parola che riguarda un assente, come parola di «seconda» e non di «terza» persona, (ibid.: 86-7). Questa comunicazione dialogica genera una parola a due voci: ogni voce è una posizione semantica (e ideologica) e scaturisce da una responsabilità enunciativa:

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I r a p p o r ti lo g ic i e s e m a n tic o -o g g e ttu a li, p e r d iv e n ir e d ia lo g ic i [ . . . ] d e b b o n o in c a rn a rsi, c io è d e b b o n o e n tr a re in u n ’a ltra sfe ra d e l l ’e s se r e: d iv e n ta r e parola, c io è e n u n c ia z io n e , e a v e re u n autore, c io è u n c re a to re d e lla e n u n c ia z io n e , la c u i p o s iz io n e e ssa e sp r im e . O g n i e n u n c ia z io n e in q u e s t o s e n s o h a i l su o a u to r e , c h e n o i s e n tia m o n e lla e n u n c ia z io n e s te s s a , c o m e su o c re a to re . Dell’autore reale,

come esiste al di fuori dell’enunciazione, possiamo anche non sapere nulla. ( ibid . : 238; c o r s iv i m ie i). II rapporto dialogico di cui parla Bachtin è possibile non solo nello scambio tra enunciazioni « relativamente intere » (con i soggetti della enunciazione differenziati, dunque), ma anche all’interno di una medesima enunciazione, « perfino all’interno della singola parola, se in essa si scontrano dialogicamente due voci » {ibid.\ 239). Bachtin procede dunque a classificare tre tipi di manifestazione della parola nel romanzo; i tipi sono disposti da un grado massimo a un grado minimo di oggettività (e quindi, al contrario, da un grado minimo ad uno massimo di dialogicità): I tipo-, è la « parola diretta e immediatamente intenzionale — che nomina, che comunica, che esprime, che raffigura — usata per la immediata comprensione dell’oggetto » {ibid: 242); in questa parola si esprime direttam ente l’ultima istanza semantica (disegno globale) di chi parla; I I tipo: è la parola oggettiva del personaggio raffigurato (la manifestazione più diffusa di questo secondo tipo è il discorso diretto dei personaggi). In questa parola si realizza la convergenza, nel medesimo contesto, di « due centri discorsivi e due unità discorsive: l ’unità dell’enunciazione dell’autore e l ’unità dell’enunciazione del personaggio » {ibid.: 242). I gradi di oggettività di questo tipo sono diversi, e la prevalenza di accentuazione può riguardare la « determinatezza socialmente tipica » o quella « individualmente caratteriologica » del personaggio {ibid.: 258). Si tratta, però, per questi due primi tipi, di parole ad una sola voce-, la voce del personaggio, cioè, è ancora parola oggettiva, non penetrata da u n ’altra (altrui) parola e da un altro senso. I l i tipo: è la parola con orientam ento sulla parola altrui; il caso in cui « in una stessa parola si trovano due intenzioni, due voci. Tale è la parola della parodia, tale è la stilizzazione, tale è il ‘ racconto mediato stilizzato ’ » {ibid.: 245).

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E qui appare, ancora una volta, l ’espressione « punto di vista », il cui senso nel contesto bachtiniano dovrebbe essere ora chiaro: [ . . . ] a llo s tiliz z a to r e im p o r ta l ’in s ie m e d e i p r o c e d im e n ti d e l d isc o r so altr u i, a p p u n to c o m e e s p r e s s io n e d i u n p a r tic o la r e p u n t o d i v is t a . E g li la v o r a c o n u n p u n t o d i v is t a a ltr u i. P e r c iò u n a c er ta o m b r a o b ie ttiv a r ic a d e p r o p r io su l p u n to d i v is ta s t e s s o , p e r i l c h e e ssa d iv e n ta c o n v e n z io n a le . ( ibid . : 2 4 6 ) . la m a n ie ra v e r b a le a ltr u i è u tiliz z a ta d a ll’a u to r e c o m e p u n t o d i v ista .

{ibid.:

2 4 7 ).

Concludo il rapido e parziale sguardo su Bachtin riportando un commento di Segre che ci aiuta a precisare la distanza del teorico russo non soltanto rispetto alle accezioni prospettiche di punto di vista ma anche rispetto all’utilizzazione narratologica, soprattutto genettiana, delle teorie dell’enunciazione: S ia m o o r m a i lo n ta n i d a lle p r im e te o r iz z a z io n i d e l p u n to d i v is ta . I l te r m in e n o n h a p iù l ’o r ig in a r io v a lo r e p r o s p e ttic o (d ista n z a e a n g o lo da c u i v e n g o n o tr a g u a r d a ti i f a t t i) , m a h a p iu t t o s t o q u e llo d i c o n c e z io n e d e l m o n d o . I v a r i t ip i in d iv id u a ti da B a c h tin rig u a rd a n o p e r ciò i l r a p p o r to s o g g e t to - o g g e tt o , c h e s e c o n d o i ca si v ie n e g e s t it o d a ll’auto r e , o d e m a n d a to a m e d ia to r i fittiz i (n a r r a to r e o p e r s o n a g g i), o p p u r e sig n ific a to p e r c a rica tu ra , p e r a n tifr a si, p e r ip e r c a r a tte r iz z a z io n e , n e lle m o d a lità d e lla p a r o d ia , d e lla p o le m ic a in e s p r e s s a , d e lla stiliz z a z io n e .

più che di rapporto con la materia narrativa, si tratta di rapporto col mondo rappresentato. (S e g r e 1 9 8 4 : 9 6 ; c o r s iv i m ie i).

In so m m a ,

6.4. T ip i del discorso riportato: m o delli sinta ttici e m odelli sem antici Più volte, nel corso di questo studio, ci siamo im battuti nella distinzione telling/show ing, riformulazione della partizione platonica racconto puro/ mimesi, indicata in anni recenti da Genette come racconto di avvenimenti!racconto di parole. Nelle trattazioni teoriche, la distinzione implica sempre una nozione di distanza narrativa, dal « puram ente » diegetico al « puram ente » mimetico, oltre che una componente di presenza/assenza del narratore (che sarebbe, nello shoioing « puro », completamente cancellato). In queste discussioni, i problemi di distanza, presenza/assenza del narratore e di mediazione, sono trattati a partire dalle categorie grammaticali tradizionali del discorso riportato: discorso di-

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retto, discorso indiretto libero e discorso indiretto: dalla presentazione nella quale il personaggio si è sostituito del tutto al narratore, attraverso una forma « intermedia », alla presentazione pienamente autoriale. Come vedremo, è soprattutto la forma cosiddetta « interm edia » a creare problemi teorici, e al tempo stesso quella che ha prodotto il maggior numero di sperimentazioni nel romanzo e osservazioni interessanti nella teoria (si tratta, per ricordare qualcosa che ci è già noto, della particolare forma di « dissociazione » del narratore dal personaggio narrato che si vedeva in 1.4. a proposito di M a d a m e B o v a r y ) . Fermiamoci su Genette. In accordo con l ’ipotesi della progressiva cancellazione del narratore, G enette include la distinzione r a c c o n t o d i a v v e n i m e n t i ! r a c c o n t o d i p a r o l e nella categoria di d i s t a n z a (insieme con la p r o s p e t t i v a una delle due partizioni del m o d o o regolazione dell’informazione narrativa). Si è già discussa, in 3.4., l ’impostazione q u a n t i t a t i v a che G enette dà al problema del m o d o , e si è detto come (in contraddizione con la distinzione netta che afferma fra modo e voce), egli introduca nel modo coordinate pertinenti alla rubrica della voce: queste coordinate sono, appunto, quelle che egli discute nei paragrafi dedicati a r a c c o n t o d i a v v e n i m e n t i (diegesi) e r a c c o n t o d i p a r o l e (mimesi), concludendo che nel prim o vi è un m i n i m o d i i n f o r m a z i o n e e u n m a s s i m o d i i n f o r m a t o r e e nel secondo un rapporto inverso (m a s s i m o d i i n f o r m a z i o n e e m i n i m o d i i n f o r m a t o r e ) . Anche G enette, dunque, giocando con la combinazione delle categorie di distanza, presenza del narratore e quantità di informazione, i d e n t i f i c a f o r m e d i d i s c o r s o n a r r a t i v o n e l l e q u a l i l ’i s t a n z a n a r r a t r i c e s a r e b b e p r e s so c h é c a n c ella ta :

l ’estrema periferia è indicata nel cosiddetto « m onologo interiore », « emancipato da qualsiasi tutela narrativa » (1972: 221); m entre lo « stile indiretto libero », una delle forme del discorso riferito (la modalità che alberga, secondo G enette il massimo di mimesi) si distinguerebbe dal monologo interiore o « discorso immediato » per il fatto che mentre in quest’ultimo il narratore è del tutto cancellato, nel precedente « il narratore assume il discorso del personaggio, o, se preferiamo, il personaggio parla con la voce del narratore, e le due istanze vengono allora c o n f u s e » ( i b i d 222; corsivo mio). Ma mettiamo un p o ’ d ’ordine in questa materia, per vedere meglio come i problemi del discorso riportato siano connessi con le categorie narratologiche di diegesi e mimesi. Secondo non soltanto Genette, ma pressoché tutti i teorici che abbiamo incontrato in questo lavoro, dalla narrazione condotta

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attraverso t e l l i n g a quella condotta attraverso s h o w i n g , si realizzerebbe un percorso di p r o g r e s s i v a d i s t a n x i a z i o n e e dunque di progressiva o g g e t t i v i z z a z i o n e d e l r a c c o n t o , fino alla c a n c e l l a z i o n e d e l n a r r a t o r e . È vero che G enette parla di due istanze che si confondono (almeno nello stile indiretto libero, e cioè nella forma che la grammatica e la stilistica considerano « intermedia » fra discorso riferito indiretto e discorso diretto *); tuttavia, la già ricordata argomentazione quantitativa e l ’aver posto la discussione dei tipi di discorso riferito sotto la rubrica della d i s t a n z a , ripropongono l’ipotesi tradizionalmente asserita della cancellazione del narratore e del suo « cedere la parola al personaggio » anche nelle forme di stile indiretto libero. Questo tipo di conclusione si rifa, più o meno esplicitamente e più o meno marcatamente, ad un modello sintattico. L ’idea di fondo sarebbe quella di un c o n t i n u u m di trasformazioni progressive di marche grammaticali: man mano che si procede dalla diegesi autoriale alla mimesi dei vari tipi di discorso riferito (con al limite estremq il monologo interiore, a rigore non riferito da alcuno), le marche grammaticali della posizione « io » (esplicita o implicita) del narratore l a s c e r e b b e r o i l p o s t o a marche che denunciano l ’ingresso nel discorso dell’« io » narrato. Ora, la zona nella quale questo passaggio di responsabilità è (grammaticalmente) controllabile, è la fascia nella quale si collocano le forme di (a) discorso indiretto; (b) discorso indiretto libero e (c) discorso diretto. Linguisticamente, l ’ipotesi che ha tenuto il campo fino a non molti anni fa è u n ’ipotesi d e r i v a z i o n a l e , secondo la quale il discorso indiretto libero deriverebbe dal discorso indiretto, e questo a sua volta dal discorso diretto. In anni recenti, l ’ipotesi derivazionale è stata giustamente contestata (da Banfield 1973 e 1978 su basi soprattutto grammaticali e da McHale

1. Può servire ricordare gli esempi prodotti da G enette (1972) dei tre tipi di discorso, dal più distante al più mimetico (gli esempi si rifanno a Proust): a) discorso trasposto in stile indiretto-. « Dissi a mia madre che dovevo assolutamente sposare Albertine »; b) stile indiretto libero: « Andai a trovare mia madre: dovevo assolutamente sposare A lbertine»; c) discorso riportato (o diretto)-. «D issi a mia madre (o pensai): bisogna assolutamente che sposi Albertine »; (la forma effettivamente usata da Proust è quella « intermedia » dello stile indiretto libero). Genette premette a questi tre tipi fondamentali una quarta modalità, che definisce « discorso narrativizzato o raccontato » e che indica come la forma che realizza la maggiore distanza: « Informai mia madre della mia decisione di sposare Albertine ».

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1978 su basi più marcatamente semantiche): è stata indicata, cioè, una fallacia interpretativa nell’ipotesi che esista una versione diretta, originale dietro ogni manifestazione di discorso indiretto e indiretto libero. È soprattutto all’ipotesi derivazionale che è legato l ’approccio grammaticale, meccanizzante, al fenomeno del discorso riferito; e ingombranti residui grammaticali sono ancora da rintracciare in Banfield (1973 e 1978). È su basi soprattutto grammaticali, infatti, che Banfield formula due principi non meno responsabili di fallacia interpretativa dell’approccio derivazionale. A proposito del discorso indiretto, la studiosa sostiene che « per ogni espressione vi è un unico referente di Io (il parlante) e un unico referente di T u (il destinatario) » (1973: 20), e cioè che nelle forme di discorso indiretto è sempre presente un solo parlante o (in term ini narratologici) una sola voce; il discorso indiretto, dunque, sarebbe una forma di parafrasi o traduzione del discorso di un altro nelle proprie parole. Banfield corrobora il principio con argomenti stilistici, concludendo a proposito del discorso indiretto nel testo narrativo che in esso si esprime soltanto l’istanza del narratore. La fallacia interpretativa sembra ancora più marcata quando Banfield passa a discutere il caso dello stile indiretto libero, distinto dal discorso indiretto per la soppressione del verbo di comunicazione: se il discorso indiretto è traduzione nei termini del narratore del discorso altrui, nel discorso indiretto non vi è riproduzione di comunicazione verbale. Piuttosto, lo stile indiretto libero è un veicolo di espressioni della coscienza; nello stile indiretto libero gli elementi espressivi sono tutti, secondo Banfield, da attribuire ad un unico soggetto-della-coscienza (il personaggio narrato), che esso sia espresso o no da una posizione pronominale Io. In ogni caso, la conclusione di Banfield è che (a differenza di quanto accade nel discorso indiretto, che è sempre e solo responsabilità sintattica e semantica del narratore), nel discorso indiretto libero il solo referente (semantico) possibile è il soggetto-dellacoscienza: l ’io che vi può comparire (ma che non sempre compare) si riferisce a quest’ultimo, mentre ogni possibilità di presenza della voce e dell’orientam ento semantico del narratore è del tutto esclusa (ibid. : 26-32). In sostanza, vediamo qui un tentativo di superare l ’approccio sintattico, con una conclusione che tuttavia appare fallace: mentre dal punto di vista sintattico il discorso indiretto libero è esclusiva responsabilità del narratore, nella prospettiva di Banfield, l’orientamento del senso è da attribuirsi esclu-

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sivamente al soggetto semantico che vi si esprime, e cioè la coscienza del personaggio narrato. In fondo non si tratta di un discorso nuovo: il ragionamento, che a tratti può apparire convincente, porta Banfield a conclusioni non diverse da quelle espresse nella linea narratologica tradizionale della « cancellazione dell’autore » che G enette, con l ’allusione alla mescolanza delle voci, sembrava avere messe in questione. Conclusioni che paiono inaccettabili se viste alla luce della teoria bachtiniana del dialogismo e che, come vedremo nel prossimo paragrafo, vengono suggestivamente contraddette nei saggi che nel 1929 Volosinov aveva dedicato al problema del discorso riferito. 6 .5 .

D ia lo g ic ità , in te r fe r e n za e id e o lo g ia n e l d isc o rso r ip o r ta to F in alm ente ]a terra aveva cessato di g irare col m ovim en to della M acchina In fernale. L ’ultim a casa si era ferm ata, l ’u ltim o albero aveva ritrovato le sue radici. L ’o ro lo g io del C on sole segnava le due e sette m in u ti. E d egli era ora p erfettam en te lu cid o , sn eb b iato. Sensazione orribile. I l C on sole chiuse il libro scolastico: vecch io Scrooge dannato; che strano ritrovarlo qui! M . L ow ry, S o tto il vulcano

C o m e si è v is t o , d ia lo g is m o e p o liv o c a lit à s o n o , p e r B a c h tin , e le m e n ti c o s t it u z io n a li d e l r o m a n z o c o m e g e n e r e : s i c r o n ic a c h e

d i a c r o n ic a m e n t e , d a l m i c r o d i a l o g o

s ia i n p r o s p e t t i v a che

può

in s ta u -

r a r s i i n u n a s i n g o l a p a r o la a lla g r a n d e p o l i v o c i t à d e l t e s t o n e l s u o c o m p le s s o .

Volosinov (1929) offre un quadro delle manifestazioni linguistiche (semantiche) della polivocalità, soffermandosi in particolare sulle forme del discorso riportato, con im portanti osservazioni sullo stile indiretto libero (discorso semi-diretto), il quale serve egregiamente come dimostrazione per il suo progetto di una marxista filosofia del linguaggio in quanto forma nella quale si realizza una interferenza dialogica, una reazione della parola sulla parola in un atto di « interazione verbale ». S in te tic a m e n te , p r o d u ttiv o

i

l ’a p p r o c c io

p u n ti

d i fo r z a

d i V o lo s in o v ,

che so n o

d is tin g u o n o i

s e g u e n t i:

e

ren dono

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a) in tutte le forme di discorso riportato si esprime, oltre al tema di tale discorso, una ricezione attiva del discorso altrui; b) storicamente, questa dinamica ricettiva e interattiva si esprime in forme diverse (epocalmente connotate) di penetrazione, nel discorso riportato, della replica e del commento del discorso che riporta; c) il piuttosto gresso di posizioni verbale;

discorso indiretto libero (che è una di queste forme), che un insieme di regole sintattiche che notificano l’inun discorso riportato, è un dialogo fra contenuti e fra semantiche che nel discorso attuano una interazione

d) dunque, una interpretazione del discorso indiretto libero non deve tendere al riconoscimento, in ogni caso, di un parlante particolare, ma piuttosto al riconoscimento della dialogicità (pluralità di parlanti) e del modo in cui le parole reagiscono sulle parole; e) il discorso indiretto libero non è una derivazione da altre forme di discorso riportato, ma una forma originale e nuova, nella quale si realizza in modo particolarmente efficace « la dinamica dell’interdipendenza fra discorso riportato e discorso che rip o rta » (cit.: 238 trad. it.); f) le forme della ricezione attiva del discorso altrui e della sua trasmissione esprimono (attraverso modelli) gli orientamenti valutativi di una data comunità sociale e culturale dei parlanti piuttosto che quelli di una psiche individuale (la sintesi è tratta dalla terza parte di Volosinov 1929, che occupa le pp. 191-263 della trad. it.). Si vede subito, anche attraverso una sintesi che di necessità impoverisce la ricchezza teorica di questi scritti, quale possa essere la capacità esegetica delle teorie di Volosinov (come di quelle di Bachtin) nell’analisi delle categorie di « punto di vista » e voce nel testo del romanzo. Se anche la classificazione di Volosinov (per la quale rimando alla lettura dei saggi citati) non è maneggevole, e forse neanche omogenea, la suggestività della sua analisi ha prodotto e continuerà a produrre un cambiamento di direzione decisivo, dall’approccio sintattico ad un approccio integrato, sintattico-semantico, nel quale elemento determinante della voce è l ’accentuazione dei contenuti (in alcuni lavori recenti, prende corpo una descrizione tipologica di modalità discorsive della narratività che costituisce intanto una opportuna gradua-

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zione dell’opposizione showing/telling in un Continuo di marcature rilevabili nel discorso; vedi McHale 1978). Se, tuttavia, quelle sul dialogismo, sui fenomeni di interferenza e di « interazione verbale » della lingua del romanzo sono indicazioni esegetiche preziose e anche praticabili, più difficile appare affrontare il nocciolo ideologico delle teorie di Bachtin-Volosinov, e cioè offrire una motivazione delle manifestazioni linguistiche della plurivocità (ad esempio nel discorso indiretto libero) in termini di riproduzione e dinamizzazione di sistemi di valori dialoganti all’interno di una data cultura, con caratteristiche di omogeneità oppure di molteplicità. Il salto culturologico, se avverrà, richiederà uno sguardo integrante che l ’analisi del racconto non ha ancora espresso; ma e forse proprio dall’analisi della narratività, e da una nozione articolata di « punto di vista » che indicazioni in questa direzione potranno venire; penso non solo alla narratività romanzesca e fictional ma anche, ad esempio, a quella storiografica, un campo di indagine non ancora percorso dai criteri di u n ’analisi semantica (e culturologica) del discorso. L ’avvertenza serve ad introdurre l ’ultima parte di questo paragrafo (e di questo libro), nella quale analizzerò alcuni frammenti di discorso indiretto libero per ricavarne esempi di interferenza di voci e di « punti di vista ». Serve, in particolare, a m ettere in guardia il lettore contro la parziale illusorietà dell’operazione: gli esempi, dicevo prima, molto di rado servono a mostrare il funzionamento di un oggetto-testo (specie nella sua totalità), e più spesso sono argomenti (ideologici) che servono a dimostrare l ’applicabilità di una teoria. Quelli che seguono non fanno eccezione; e, di più, chi li ha scelti {ad hoc) non si nasconde la difficoltà di estendere l ’analisi alla materia semantica di un intero romanzo; o addirittura, di generalizzare — in modo convincente — fino a raggiungere, a partire dalle tracce inscritte nella manifestazione discorsiva, la costituzione semantico-ideologica di un testo. D etto questo, affidiamoci ancora una volta alla voce di quelli che Fink chiama i « testimoni dell’immaginario » per coglierli, questa volta, nel dialogo che essi intrecciano con i personaggi dei quali ci raccontano: S ta v o lta i M a la v o g lia e ra n o là , s e d u ti su lle ca lca g n a d a v a n ti al c a tale t t o , e la v a v a n o il p a v im e n to d a l gran p ia n g e r e , c o m e se il m o r to fo s s e d a v v e r o fra q u e lle q u a ttr o ta v o le , c o i s u o i lu p in i al c o llo , ch e lo z io C r o cifisso g li a v e v a d a ti a cre d e n z a p e r c h é a v e v a sem p re c o -

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nosciuto padrón ’Ntoni per galantuomo; ma se volevano truffargli la sua roba, col pretesto che Bastianazzo s’era annegato, la truffavano a Cristo, com’è vero Dio! ché quello era un credito sacrosanto come l ’ostia consacrata, e quelle cinquecento lire ei l’appen,deva ai piedi di Gesù crocifisso; ma, santo diavolone!, padrón ’Ntoni sarebbe andato in galera! La legge c’era anche a Trezza! (G. Verga, I Malavoglia). Siamo al quarto capitolo deb romanzo, e il lettore ha già avuto molteplici e continue conferme dell’atteggiamento empatico del narratore nei confronti della famiglia di padrón ’Ntoni, di cui racconta la storia. Ma ha avuto anche conferma del fatto che il narratore si presenta, in maniera inequivoca, come uno degli abitanti di Trezza, parte integrante della composizione sociale della piccola comunità di pescatori e partecipe della loro cultura e dei loro orientam enti valutativi (vedi l ’analisi di un altro frammento del romanzo in 4.1.). Il dialogo che in questo brano il narratore instaura con lo zio Crocifisso (che ha prestato a padrón ’Ntoni i denari per il carico di lupini che si è perduto in mare con Bastianazzo) è preparato da una serie di allusioni al fatto che questi non vuol sentire ragione e vuol essere ripagato « senza tanti cristi »; e che è sordo ad ogni supplica « e per di più era scarso di cervello » (valutazioni che sembrano venire dal narratore). Qui, il discorso indiretto libero serve a realizzare un contatto più ravvicinato con il personaggio e, in certo modo, a far intendere anche le sue ragioni. La verbalizzazione del « punto di vista » viene apparentem ente dallo zio Crocifisso, con l ’uso di termini devalorizzanti quali truffargli ad enfatizzare il suo orientamento valutativo; tuttavia, e proprio perché sappiamo « da che parte sta » il narratore, leggiamo nel frammento un registro ironico che interferisce sottilm ente con l ’orientamento del personaggio. L ’ironia, difficilmente rilevabile nella veste linguistica del frammento, è invece inequivoca nel contesto, entro al quale il brano realizza l ’irruzione dell’atteggiamento impietoso di quelli che hanno « la roba », irriverenti persino di fronte alla morte. Espressioni come « un credito sacrosanto come l ’ostia consacrata » oppure « quelle cinquecento lire ei l ’appendeva ai piedi di Gesù crocifisso » e « padrón ’N toni sarebbe andato in galera! », se verbalizzano sicuramente l ’atteggiamento valutativo del personaggio con la trasmissione analitica e stilisticamente connotata dei suoi pensieri, includono anche le valutazioni del narratore, gli accenti latenti della voce differentemente orientata della sua empatia nei confronti dell’« onesto » padrón ’N toni e della sua sfortunata fami-

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glia. Come dice Volosinov, la forma del discorso indiretto libero, con il suo doppio orientamento sintattico-semantico (che lascia cioè la responsabilità grammaticale al narratore m entre assegna i contenuti al personaggio), è capace di creare un palcoscenico per l ’espressione dell’orientamento semantico del personaggio, al tempo stesso stendendo un ambiente mentale orientato per la percezione dialogica dell’orientamento riferito. Vediamo un altro frammento, nel quale l ’intreccio degli orientamenti valutativi è forse ancora più complesso che nel precedente: L e la c r im e d i T o n y si a sc iu g a r o n o a p o c o a p o c o . I l su o c e r v e llo era in fia m m e, a ffo lla to d i p e n s ie r i... D io ! c h e affare! L o sa p ev a b e n e c h e u n g io r n o sa r e b b e d iv e n ta ta la m o g lie d i u n c o m m e r c i a n t e , a v r e b b e c o n tr a tto u n m a t r i m o n i o s o l i d o e v a n t a g g i o s o , c o n s o n o alla d i g n i t à d e l l a f a m i g l i a e d e l l a d i t t a . . . M a era la p r im a v o lt a c h e si p r e se n ta v a u n a u t e n t i c o e s e r i o p r e t e n d e n t e ! C o m e d o v e v a c o m p o r ta r si? E c c o c h e le i, T o n y B u d d e n b r o o k , d o v e v a a u n tr a tto se r v ir si d i q u e lle e s p r e s s io n i t e r r i b i l m e n t e s o l e n n i c h e fin ora a v e v a l e t t o s o lta n t o n e i lib ri: il su o « c o n s e n s o » , la su a « m a n o » ... « p e r t u t t a la v i t a » ... D i o m io , c h e s itu a z io n e in te r a m e n te n u o v a ! (T . M a n n , I B u d d e n b r o o k ; B u d d e n b r o o k s , 1 9 0 1 ; c o r s iv i m ie i).

Anche in questo caso, l ’intreccio degli orientam enti valutativi va inquadrato in un più ampio contesto, nel quale le posizioni assiologiche del narratore sono espresse. L ’alternativa fra e m p a t i a e d i s t a n z a i r o n i c a , spesso impiegata per caratterizzare i due possibili atteggiamenti del narratore nel riportare parole o pensieri del personaggio, non sembra, nel caso del frammento in esame, offrire un criterio sufficiente per districare gli atteggiamenti. Il narratore è sicuramente simpatetico con una parte dell’orientamento valutativo della piccola Tony Buddenbrook (il suo sgomento e le sue lacrime di fronte alla inaspettata — n u o v a — situazione di una proposta matrimoniale); tuttavia, egli non può nascondere a se stesso (e al lettore) l’enfasi che nei pensieri della fanciulla assume la valutazione del v a n t a g g i o e c o n o m i c o , e cioè il suo precoce assorbimento delPatteggiamento assiologico mercantile che è proprio del padre. La fanciulla è così, e nei suoi stessi pensieri, i n e l u t t a b i l m e n t e destinata ad un matrimonio s o l i d o e v a n t a g g i o s o (empatia e distanziamento ironico, come si vede, collaborano alla produzione dell’orientamento valutativo del narratore, interferendo con quello di Tony); né il narratore risparmia alla piccola Tony l ’interferenza di un altro, più indicativo,

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giudizio implicito, quando rivela che la folla dei pensieri nel cervello in fiamme della fanciulla alberga, in fin dei conti, una preoccupazione del tu tto esteriore: quella, cioè, di dover a un tratto servirsi di espressioni inusitate per poter fronteggiare la nuova situazione. G li esempi, si diceva, servono a provare l ’applicabilità delle teorie e, dunque, servono anche a m etterla in questione. Di fronte a frammenti come quelli esaminati, si sgretola l ’ipotesi che assegna al personaggio tutta la responsabilità dell’orientamento semantico nello stile indiretto libero. Ma è anche vero che la più suggestiva ipotesi dialogica (che non è sempre facile sostenere alla prova dei testi), è probabilmente da assumere come una delle possibilità di orientam ento semantico del « punto di vista » di un testo; e qui si voleva solo dimostrare la forza del discorso narrativo nel configurare anche questa possibilità.

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racconto,

C o m e com u nica I l F o r m ic h ie r e .

il

M ila n o ,

tea tro :

a ll’a n a lisi d e l

rac-

B o m p ia n i.

dal testo

I n t e r a z i o n e , d i a l o g o , c o n v e n zio n i- , m a t i c o , B o lo g n a , C L U E B .

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Chance, 65, 68-69; The Arrow of Gold, 65; The Nigger of the Narcissus, 67; Heart of Darkness, 100, 142-143; The Secret Sharer, 165-166, 170. « Karain », 174. Culler, J., 122-123.

Bachtin, M., 4, 5, 108, 111, 113, 114, 154, 198, 202, 213-219, 223, 224, 225. Bal, M., 5, 7, 99, 117, 134-137. Balzac de, H., 36 n., 41, 62, 72 n., 79. Banfield, A., 221-223. Barthes, R., 119. Beach, J. W., 2 n„ 36, 40-41, 50, 52-69, 70, 70 n., 91. Bennett, A., 58 n. Benveniste. E., 155-158. B esan t, Sir W „ 33-34, 35, 36 n. Blackmur, R. P., 34 n. Booth. W. C., 4, 6, 7, 50, 59, 82 n., 89, 90-101, 114, 130, 132, 202. Bowen, E., 4. Brontë, E., Wuthering Heights, 141. Brooks, C., 4, 9, 80. Butler, S.. The Way of A ll Flesh, 83-84, 83 n.

Defoe, D., 17, 30, 127. Robinson Crusoe, 10, 180; Moll Flanders, 32, 103, 180; A 'jo u r n a l of the Plague Year, 176, 178, 179, 180; Lady Roxana, 179-180. De Quincey, T., Confessions of an English Opium Eater, 17. De Roberto, F., 201; I Viceré, 151, 161-162, 168-169, 173174, 176-178. Dickens, C., 35, 53, 70; David Copperfield, 54; Great Expectations, 87. Dijk van, T. A., 96 n., 189. Dos Passos, J., 69, 137. Dostoevskij, F., 213, 216, 217; D elitto e castigo, 61; Memorie dalla casa dei morti, 116. Dujardin, E., Les lauriers soni coupés, 10.

Calvino, I., 201; Se una notte d ’inverno un viaggiatore, 124, 125-126. Camus, A., L ’étranger, 10, 15, 164, 178-179; La chute, 141. Casanova, G., Histoire de ma vie, 19. Cesare, De bello gallico, 20. Chatman, S., 5, 6, 7, 48, 50. Chaucer, G., The Canterbury Tales, 197 n. Conrad, J., 41, 64-65, 66 n., 66-69, 70 n., 86;

Lord Jim, 63, 68;

Eco, U., 96 n , 123, 126, 143, 144, 145, 146-150, 204, 205; II nome della rosa, 10, 16-17. Elam, K., 190 n. Eliot, G , 70. Faulkner, W., 69; Light in August, 22, 25. Fielding, H ., 58; Tom Jones, 84-85, 94, 99, 104; Joseph Andrews, 126, 142, 152. Fillmore, C., 158, 177. Fink, G., 130-131 n., 225. Fish, S., 144.

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Ìndice degli autori e delle opere narrative

Fitzgerald, F. S., 86; The Great Gatsby, 11, 19-20, 175. Flaubert, G., 3, 35, 40, 72 n., 79, 91; Madame Bovary, 12, 29-32, 72-73, 73 n., 118 n., 220; « Un coeur simple», 141. Ford, F. M., 18 n., 58, 66 n.; The Good Soldier, 17-18, 106, 114, 156, 170, 175-176, 197 n. Forster, E. M., 38-39, 80. Forlunati, V., 18 n., 36 n. Friedman, N., 25, 28, 50, 56, 73 n., 76 n., 79-90, 102, 103, 106. Galsworthy, J., 58 n. Genette, G., 7, 9, 17, 41, 50, 79, 81, 82 n., 90, 90 n., 97, 99, 107, 117-121, 135, 187, 219, 220-221. Goethe, J. W., 104. Grice, H . P., 198. Hammett, D., 13, 106, 118 n. Hardy, I . , 52, 53, 85. Hawthorne, N., 53, 54; The Marble Faun, 55. Hemingway, E., 13, 69, 106; « T h e K illers», 25-26, 59, 119; « T h e Three-Day B low », 83 n., 84. Hergesheimer, J., 64. Hogg, J., The Private Memoirs and Confessions of a Justified Sinner, 129. Hughes, R., The Vox in the A ttic, 66. Hugo, V , Quatrevingt-Treize, 149. Huxley, A., Point Counter Point, 85, 182-185. Iser, W., 96 n., 122, 143-146. 147, 199200.

James, H., 3, 12, 31-32, 33 52, 53-57, 58, 59, 60-61, 62-63, 64, 72 n„ 74, 78, 79, 91, 103, 106, 119, 135, 198; The Ambassadors, 3, 40, 43, 53, 62, 77, 81, 97, 102, 104, 118 n .; The Art of the Novel. Critical Prefaces. 33-52; Partial Portraits, 39; What Maisie Knew, 40, 47-48, 51; The Wings of the Dove, 40, 43, 55; 1 he Golden Bowl, 40, 48-49; Portrait of a Lady, 42, 46; Roderick Hudson, 43-45, 54; The American, 45-46; The 'Tragic ■Muse, 46-47, 50-51, 55;

The A w kw ard Age, 50, 51, 78; « T h e Reverberator», 51; The Spoils of Poynton, 53. Jauss, H . R., 31, 144. Joyce, J., 13; Ulysses, 13, 14, 23-25, 41, 69, 70, 118 n., 137, 181; A Portrait of the A rtist as a Young Man, 13 n., 28, 87; Dubliners, 13 n.; « Clay », 65-66; « The Sisters », 180; « The Dead », 180; Tinnegans Wake, 137. Kayser, W., 95 n., 134, 137-140. Kellogg, R., 20, 209. Kenner, FI., 13 n. Kerbrat-Orecchioni, C., 158, 159-160, 162, 163-164, 166, 169, 172. Krysinski, W., 4, 7, 130, 131-132, 202. Labov, W , 154, 193-194, 193-194 n. Laclos de, C.; Les liaisons dangereuses, 10, 14-15, 111, 155, 166-167. Lanser, S., 2, 4, 7, 73 n., 130, 132-134, 188-189, 190, 192, 193, 202. Lawrence, D. H., 69, 106; Women in Love, 20-21; The Rainbow, 22-23. Le mille e una notte, 141, 143, 151. Littré, M.-P.-E., 118, 119. Lodge, D., H ow Tar Can You Go?, 185-186 n. Lombardo, A., 34 n., 36 n., 38 n. Lotman, ju . M., 108-112, 113. Lowry, M., Under the Volcano, 223. Lubbock, P., 34 n., 36, 36 n., 37, 38, 40, 50, 56, 57, 69-79, 89, 91, 132, 209. Ludwig, O., 102. Lyons, J., 187-188. Mann, T., Doktor Taustus, 100; Der krw ählte, 140; Der Tod in Venedig, 150; Buddenbrooks, 227-228. Manzoni, A., ] promessi sposi, 30-31, 151, 205209. Marchese, A., 7. Mark Twain, Huckleberry pinn, 115. Marnieri, T., 13 n.

Indice degli autori e delle opere narrative Martella, G., 150. Maupassant de, G., 36 n.; Pierre et Jean, 36 n., 177; Bei-Ami, 151-152. McHale, B., 221-222, 225. Melville, II., Moby Dick, 10, 104, 139, 170-171, 174-Ì75. Ohmann, R., 189, 191, 192. Omero, 81. Pagnini, M., 26-27, 155. Platone, 50, 81, 102, 119. Polanyi, L., 154. Pouillon, T-, 41, 120, 120 n. Pratt. M. L„ 154, 187, 189, 190, 191, 192-193, 194, 199. Prieto, J. L., 203-204, 207. Prince, G., 95 n., 140-143. Proust, M., A la recherche du temps perdu, 70, 100, 117, 121, 221 n. Pugliatti, P., 150. Puskin, A., Eugenio Onegin, 111. Richardson, S., Pamela, 10, 106, 126, 152. Riffaterre, M., 144. Rossum Guyon van, F., 98. Sartre, J. P., 122. Scholes, R., 20, 209. Sciascia, L., 201; La scomparsa di Majorana, 159-160 n.; il giorno della civetta, 177, 179. Schorer, M„ 33, 57 n„ 80, 90 n., 94 n. Searle, J„ 187, 188, 189, 191-192, 193, 198. Sedgwick, A.. D., 64. Segre, C., 6, 7, 11-12, 82 n., 96 n., 100101, 219. Shakespeare, W., Hamlet, 200. Stanzel, F. K„ 102-108. Stendhal, 201; Le rouge et le noir, 124-125, 127-128, 160-161, 162-163, 167-168.

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Sterne, L., The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman, 100. Stevick, P., 94 n. Svevo, I., La coscienza di Zeno, 10, 17, 172-174, 176. Synge, J. M., The Aran Islands, 178. Thackeray, W. M., 35, 58 n., 59, 72 n., 74, 77, 79; Vanity Fair, 94, 99, 169. Todorov, T., 5, 41, 120, 120 n. Tolstoj, L., 41, 72, 79; Guerra e pace, 21-22, 28, 29, 70, 83, 84-85, 95 n., 97, 112, 116, 169, 170, 205, 209-211, 216-217. Trollope, A., Barchester Towers, 125, 128. Turgenev, I., 36 n. Uspenskij, B. A., 5, 95 n., 109, 112-116, 202 .

Vendler, Z., 12 n., 188. Verga, G., 200; I malavoglia, 125, 128-129, 142, 225227. Volosinov, V. N., 120, 122, 123, 153, 154, 158, 201, 202, 203, 214, 216. 223-225, 227. Volpe, S., 120 n. Warren, R. P., 4, 9, 80. W att, I., 62. Weinrich, H., 158 n. Wellek. R„ 39-40. W harton, E., 64. Wilde. O., De profundis, 10. Wolff, E„ 144. Woolf, V., 69, 89; To the Lighthouse, 87; Mrs. Dalloway, 118 n. Zacchi, R., 150. Zola, E., 36 n.

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