Lo scavo [PDF]

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Zitiervorschau

Ludovica Koch LO SCAVO

Roma, 1987-88

I

Si racconta qui di un ragazzo che aveva ancora tutte le dita, e ne andava orgoglioso. Non che fossero molto belle da vedere, con quelle unghie mangiate: ma erano lì, e cinque all’altra mano. A chi gli parlava di fortuna, per tante falangi preservate, il ragazzo aveva imparato a rispondere sempre la stessa cosa. Che c’entravano, invece, una sua privata velocità, e l’occhio. Che due anni prima, per esempio, il cugino grande (in licenza da militare, e forse per questa ragione astratto e molle) si era fatto prendere sotto la gamba sinistra. Ci camminava ancora male, e rigida com’era la gamba sarebbe rimasta. Lui invece era saltato giù per tempo. E il trattore, sbilanciatosi su un curioso dislivello, un macigno non visto o altro nascosto ostacolo, era restato piegato su un fianco con le ruote all’aria. Il motore doveva avere girato a vuoto per ore: perché a notte loro erano ancora tutti all’ospedale aspettando il chirurgo. Ma adesso a inciampare e a incepparsi era quest’altro trattore cancrenoso e giallo. Lo conosceva meglio del suo letto, tante volte ci si era arrampicato sopra come su un’isola fortificata, tanto l’aveva grattato e strofinato meditabondo e ficcato il dito e mazzetti d ’erba in ogni buco per prendere confidenza. Ora che aveva imparato a guidarlo, neppure guardava più le leve che andava muovendo, e ascoltava con mezzo orecchio vibrazioni e sussulti conosciuti. Poi, d ’improvviso, più per velocità che per occhio si era trovato a buttarsi giù come allora, mentre il trattore affondava per metà la ruota destra davanti. Senza rovesciarsi, stavolta, e senza grandi strappi. Non doveva essere stata la sponda di un fosso. E certo neppure, per distrazione, una scarpata o un mozzicone di muretto. Stavano arrancando regolarmente, lui e il trattore, su per una delle tonde montagnole che ai villeggianti attardatisi a Zogalia in quell’indugio di autunno parevano indistinguibili. Ma lo erano, distinguibili e distinte. Un famoso scultore, che aveva vinto la gara per il nuovo cimitero di Zogalia (dopo anni di risse sui giornali non solo locali) ne aveva fatta incidere una per una profondità di sei metri. Un taglio slabbrato, che dall’aereo doveva parere una murgia, un calanco, una gravina. E due lunghe pareti a colombari, divise da un ramificato corridoio -I -

funebre. Una volta smontate le sette gru che ancora denunciavano controluce un impegno di lavori pubblici, il cimitero avrebbe seguito le sorti delle città dei morti osche, apule, messapiche, daune. Subito dopo la chiusura dell’ultimo buco nell’ultimo colombario, il progetto prevedeva infatti di rinterrarlo e riseminarlo. Di ripiantare allori, faggi, querce, e sulla cima gli stessi olivi. E aspettare futuri scavatori di necropoli: che sarebbero stati delusi, probabilmente, dal corredo mortuario assolutamente trascurabile, e dalle imperfette mummificazioni covate dalle bare di zinco. Dentro un’altra collina non distante, un altrettanto famoso architetto aveva ricavato (una decina d ’anni prima) i collegi per gli studenti dell’università di Zogalia. Centosettanta nati in città e tutti gli altri da fuori. Il quarantadue per cento addirittura stranieri. L ’università aveva prestigio e molti soldi. I collegi erano fatti a terrazze e a gradoni di cemento e volti a ponente: dunque, dalla città, invisibili. Visibilissimi invece per la famiglia del ragazzo e per gli altri casali, ma ormai quasi dimenticati. Perché dopo i primi mesi di rock fragorosi e di segnalazioni (come dal mare) con gli specchietti, i ragazzi stranieri erano lentamente colati nella tetraggine congeniale a chi, a Zogalia, aveva sempre abitato, e non vedeva ragione di farvi resistenza. Si trascinava, quel tardo autunno, sul finire di un’estate desultoria, capricciosamente archeologica. I racconti locali si ampliavano ogni volta. Correva, per esempio, la storia di un tumulo a tholos trovato da contadini non molto lontani per via di un curioso becchettare di galline tutte sotto un olivo semimorto, spaccato dal gelo del febbraio prima e non ancora visibilmente ripresosi. Il calcio che le galline cercavano si era poi rivelato quello di un pezzo rugginoso di cranio, tirato forse su dalle lunghe radici dell’albero. Ma c’erano state anche occasioni ufficiali, mostre assolate, con file e malesseri. Come nel caso delle due dee di bronzo pescate otto anni prima, piene di buchi, nel tondo lago di Mani. Le dee erano sparite subito, e scordate, nei laboratori specializzati. Ricomparivano, adesso, mirabilmente ricomposte sottovetro, con gran zigzagare di cartelli didattici, con i dibattiti sotto i grossi titoli dei quotidiani. Prodigiosi lavori ellenistici, scrivevano. Quasi sicuramente di mano del misterioso Filostrato: scultore che era poco più di una leggenda e di un nome. Le statue (proponeva qualcuno) erano quelle di due delle tre Grazie: dato che una stendeva la palma destra all’altezza della spalla, e l’altra pareva fare invece il gesto di prendere.Macché (si irritavano subito altri esperti), non prendeva nulla. Chiudeva solo le dita intorno a un oggetto cilindrico, rituale ? andato perduto. Era assai più sensato pensare invece a due ninfe, dato che le fonti (Plinio e non solo Plinio) parlavano di un importante santuario di Diana appunto sulle rive del lago di -

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Mani. Santuario mai ritrovato, e oggi assolutamente irritrovabile sotto lo stretto anello di villette. Tutte con le rose olandesi sulla destra, e sul davanti un fuoribordo ormeggiato. Se di ninfe, come era probabile, si trattava, quella delle due col piede appoggiato su un cumulo pietroso era forse un’Eco, fermata l’attimo prima del suo lamentevole prosciugamento. E l’altra (con tracce di una mano d ’uomo attaccate alla vita) scappava forse da un Sileno in foia. O forse, invece, si traeva aggraziatamente in fondo allo stesso tondo lago un amante invasato, un Nympholeptos. Gli si scriveva poi “ninfici” sulla tomba, a quegli ingenui annegati, spiegava la sorella del ragazzo, che a scuola ci andava ancora. Ripeteva anche, per lui, una sorta di filastrocca a indovinello. Per nove vite d ’uomo vive la cornacchia chiacchierona, un cervo vive quanto quattro cornacchie, tre vite di cervi fanno la vita di un corvo, nove vite di corvo la vita di una palma, e le ninfe dai bei capelli vivono dieci intere vite di palma. Cioè quanto ? Tanto, dunque (aveva calcolato pazientemente il ragazzo a memoria, molte volte riprendendosi e risbagliando), da lasciare in vita ogni singola ninfa antica ancora per molte migliaia di anni. Ma si smarriva subito pensando a tanti decrepiti corvi e cervi e palme che, per le stesse ragioni, dovevano essere ancora disseminati in fondo agli angoli della terra. Forse, è vero, di cervi non se ne vedono più tanti. Ma le palme si comprano addirittura al vivaio in vaso, e crescono più in fretta di quanto si creda. E di corvi lui cercava sempre di acchiapparne qualcuno, tutte le volte che gli capitavano a tiro. Non gli sarebbe mai venuto inmente di doverne temere, invece, la sinistra solennità, la troppo lunga memoria. Di mettersi in viaggio per vederle da vicino, le due dee di Filostrato, il ragazzo non aveva pensato neppure. Non ci andava del resto nessuno, nelle famiglie che lui frequentava. Ma il telegiornale le aveva fatte vedere, più di una volta. La macchina da presa girava allora lentamente intorno alle lunghe gambe di una di loro. Il piede destro con le dita fortemente allargate e tese; il sinistro, invece, appena puntato, con la pianta verticale e profondamente arcuata. Girava piano intorno alle lucide cosce dell’altra. Soprattutto insisteva sulle due giovani facce chiuse e crudeli. A meno che quell’effetto di crudeltà lo scultore non l’avesse poi veramente progettato, e consistesse invece in uno scherzo ottico: nel contrasto fra il sorrisetto e lo squarcio sulla fronte della presunta Eco, un occhio mancante e mezza calotta cranica. L ’interno, vuoto e sonoro, metteva in mostra la superba riuscita del restauro. L’altra aveva leggeri riccioli sulle orecchie, una crocchia sfatta per amore o per l’immaginazione di una corsa, una curva nuca. Era così naturalmente lei, -

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delle due, a venire riprodotta in primo piano, e soprattutto di profilo, sulle cartoline e sui manifesti. Mentre il ragazzo simpatizzava oscuramente con l’altra, la macabra, la mutilata. Aveva addirittura ritagliato, mesi prima, una sua fotografìa sul giornale: senza che ora sapesse dire dove era finita. Fu comunque lei, con le sue cavità presumibilmente echeggiami, ma sorde sott’acqua (abitate com’erano state a lungo da colonie e scuole di piccoli pesci), a tornargli in mente in quel salto dal trattore. Perché sotto la ruota semiaffondata aveva cominciato quasi subito a sentire tonfi, rimbombi e nascosti crolli. Anche senza nessuna esperienza, aveva capito di avere scatenato qualche disastro incurabile. Che dentro la collina rintronava un grande vuoto. Che una caverna di cui nessuno sapeva in questo momento, sotto il peso del trattore, avrebbe con lentezza ceduto attirando anche lui. Sarebbe caduto sgangheratamente, rimbalzando e fracassandosi alla cieca fino alle rovine del fondo. E magari un vero fondo non c’era neppure: ma ficcato a metà nella melma stava in agguato il peloso diavolo biascicatore delle terzine che aveva fatto appena a tempo a leggere, l’ultimo anno di scuola. Da sopra sarebbe franata la terra molle, richiudendo il buco. E non l’avrebbero ritrovato mai, mai più ripescato: come quei disgraziati ninfìci attirati per amore sott’acqua. Il ragazzo non ce l’aveva fatta, perciò, neppure ad aspettare che il fragore si spegnesse del tutto. Era corso dal padre, assai rudimentalmente raccontando. E il padre l’aveva preso su in macchina, ed erano andati insieme a fare la denuncia al comune.

II

Dal comune avevano telefonato subito alla sovraintendenza del capoluogo. Non subito, dalla sovraintendenza era arrivato con due tecnici un funzionario: che poi insegnava anche qualcosa di archeologico o di epigrafico all’università di Zogalia. I tre avevano in quell’occasione, fra l’altro, incontrato il ragazzo e suo padre, venuti a testimoniare sull’orlo del buco. Ma non avevano sprecato con loro troppo tempo. Né molto di più ne avevano dedicato, bisogna dirlo, ai geometri del comune. Nella stessa mattinata si era messo in moto, praticamente da sé, lo stracco rituale di questi casi. Picchetti, filo spinato: e un guardiano che tenesse lontani ficcanaso e tombaroli. Poi niente di nuovo per settimane. Il

professore aveva evidentemente da fare altrove. La procedura di esproprio andava faticosamente per la sua strada. Bisognava solo stare lì ad aspettare pigre buste intestate. Il custode si annoiava: si toglieva la camicia e si stendeva sull’erba a prendere il sole. Il padre del ragazzo non era più eccitato come il primo giorno: ma frastornato, invece, e intrattabile. Stava perdendo un buon terreno e tutti gli olivi senza acquistare in cambio neppure l’occasione di una notorietà quanto si vuole volatile e locale. I giornali grandi, infatti, avevano dato la notizia in sette righe e senza fare nomi, nella rubrica interna dedicata stabilmente ai ritrovamenti. Tanto fortuiti che programmati. Perché, benché corresse, fra il sopra e il sotto del paese, intolleranza e rancore, non c’era campo rivoltato né fondamenta gettate, anche le più stolide, che non tirassero fuori cocci e tessere di mosaico. II quotidiano locale, invece, i nomi li aveva fatti. In proporzione. Due domande al ragazzo, sui pochi anni che aveva e su che cosa (esattamente) aveva provato il giorno dell’avventura (incredulità, suggeriva il giornalista, orgoglio ?). E una vera intervista al professore, con fotografìa: pensosa la fotografìa, riservata l’intervista, ma tutte e due con grandi aspettative. “Si tratta, probabilmente, della conferma, cercata per anni, alla mia teoria sull’assetto urbanistico dell’antica Zogalia. Una rivoluzione, negli studi sull’economia e sul sistema abitativo della regione nel passato. Ma per ora qualsiasi ipotesi concreta risulterebbe prematura.” Anche i villeggianti tardivi, che si erano impigriti a Zogalia per la stagione ancora bella (ma che ormai diminuivano di giorno in giorno), facevano ogni tanto 10 sforzo di salire, in macchina, sulla collina. Per farsi un’idea, dicevano. Per vedere “con i loro occhi” l’avvenimento cittadino di cui continuavano a sentire parlare (a tavola) negli stessi vaghissimi termini. Ma l’idea non riuscivano poi a farsela, e con i loro occhi c’era ben poco da vedere. Dalla recinzione, tutto quello che appariva era una buca nell’erba, non larga e non profonda. Il custode, accaldato e ormai rimbecillito dal sole, le domande faceva fìnta di non sentirle. E del resto nessuno si era preso mai la briga di spiegargli adeguatamente che cosa rispondere. Solo a novembre arrivarono i fondi per lo scavo, e si aprì un vero cantiere. Per richiudersi subito dopo, sotto la pioggia fìtta e la minaccia del fango. D ’altre parte, i sondaggi fotografici e i primi prelievi avevano dato, sembrava, risultati sconcertanti. Alla sovrintendenza si preferiva, perciò, prendere tempo. Consultarsi e studiare un piano. Il professore del primo sopralluogo aveva già dichiarato (in una reunione interna) che per lui la faccenda aveva perso interesse. Intanto, 11 ritrovamento cadeva fuori della sua specializzazione cronologica. Poi (questo la faceva solo capire) lui era sotto concorso: e la commissione avrebbe certo giudicato negativamente ogni avventurarsi in ambiti non di sua stretta pertinenza. -

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E finalmente, il lavoro d ’ufficio arretrato era tanto e tale che (gli dispiaceva molto) non vedeva altra strada che affidare la direzione concreta dello scavo al giovane funzionario entrato per ultimo. Bravo, però, intelligente. Bisognava dargli un’occasione. Meritava responsabilità precise. E d ’altra parte avrebbe lavorato in stretto collegamento con lui. Giovandosi della sua esperienza. Praticamente sotto la sua supervisione. Non ci sarebbe stato di che preoccuparsi. Così venne, così se ne andò l’inverno. La collina, crepata in cima come un occhio o come un uovo, continuò a inalberare la stessa tettoietta stinta. I non molti visitatori che vi si arrampicavano attraverso il maltempo non vedevano più neppure il custode: che se ne stava chiuso nella baracca malriscaldata e probabilmente dormiva tutto il tempo, come tutto il tempo aveva dormito sul prato. Ai non molti cronisti regionali che, quando erano a corto di notizie, facevano un salto non si rilasciavano interviste. Si smentivano (per portavoce) le ipotesi terra terra come le fantasiose riconstruzione. Di preoccupazioni più immediate, di meglio motivati malumori ce n’erano ogni giorno tanti che i giornalisti si volsero più a portata di mano. E i curiosi di archeologia restarono addirittura davanti al caminetto: a girarsi fra le mani i buccheri comprati l’anno prima, e pagati (sospettavano adesso) forse troppo. Quanto agli unici che avrebbero potuto, a buon diritto, farsi aprire il cancello del piccolo cantiere, gli studenti del professore della sovraintendenza, erano forse gli ultimi ad averne voglia. L ’iniziativa non era prevista dai programmi d ’esame. E poi facevano un corso diverso (molto esotico e molto archetipico) sulla torre di Babele. E poi avevano altre lezioni, e tante ore di biblioteca. E poi i lavori erano interrotti per l’inverno: non avrebbero neppure potuto imparare concretamente qualcosa sulle tecniche di scavo. E sopratutto, il professore non glielo aveva mai neppure proposto.

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III

A marzo il giovane archeologo della sovraintendenza (l’ultimo arrivato) assunse ufficialmente la direzione dello scavo e si mise in movimento: sperando di dare al suo procedere tutto libresco una parvenza di autorevolezza e di efficienza. Cominciò con l’incaricare i tecnici della sovraintendenza (ben altrimenti esperti di lui) dei rilevamenti d ’uso. Cartografìe, fotografìe, sondaggi stratigrafìci, analisi dei prelievi. Mentre lui (felicissimo sempre di andarsene in giro) si era incaricato di reclutare il gruppo di lavoro. Così incontrava, uno per uno, gli operai con cui firmava il contratto. Prendeva accordi con i restauratori. Faceva domanda formale al comune di Zogalia per il distacco di un suo architetto, durante i sei mesi previsti per lo scavo. Questo architetto, per l’archeologo che era assai fiero di una sua connaturata agevolezza nei rapporti umani (e si ventava di identificare un temperamento da piccolissimi segnali: il modo di incrociare le gambe sedendosi o la sostenutezza della testa), rappresentò invece fin dall’inizio un autentico problema. Anche fisicamente entrava con lui in forte contrasto, così grosso, rossiccio e di pelle molto bianca, mentre l’archeologo era scuro e minuto. E poi aveva per lo meno quindici anni di più, parlava, a raffiche, o molto poco o moltissimo, gesticolava, invece, con violenza, si ombrava facilmente, aveva scoppi di amarezza e inattesi svagamenti adolescenziale. Nato a Zogalia, c’era però tornato a prendervi casa e lavoro solo da quattro o cinque anni. Si favoleggiava confusamente di un sua notevole carriera in almeno un paio di paesi dell’Europa del Nord. Delle molte lingue che, sempre parlando poco, parlava. Di sue esperienze e di suoi esperimenti sopratutto nella progettazione di opere pubbliche intelligentemente gregarie. Scuole lamellari, ospedali organicistici, biblioteche neoplastiche. Le sue soluzioni (pareva) erano sempre anche colte, allusive, ironiche. Si permetteva citazioni da Ledoux e ammiccamenti Arts & Crafts, all’interno delle più rigorose anfibolie del nonfìnito. Perché, poi, avesse deciso un giorno, (o un giorno avesse deciso per lui) di voltare le spalle a quella elegante e non inutile attività, e alle molte lingue laconicamente parlate, per tornare a insonnolirsi a Zogalia (dove tutt’al più poteva aspettarsi ogni giorno sul tavolo sei o sette sottili pratiche: preventivi, elenchi di forniture, richieste di parziali modifiche a progetti approvati anni prima), - 7-

bisognava chiederlo a lui. Sicuri in partenza che non l’avrebbe raccontato. L’unica differenza fra il suo sedentario lavoro e il lavoro altrettanto sedentario di altri uffici tecnici in altri comuni consisteva forse nell’oggetto particolare di cui le carte eterogenee che gli si ammucchiavano davanti finivano sempre, da vicino o da lontano, per occuparsi. Non proponevano mai, per esempio, quelle piante catastali a larga scala, quelle planimetrie e assonometrie di interni privati e pubblici, di approvare l’abbattimento di tramezzi per ricavare da tre stanzette da letto confinanti una sala di riunioni aziendali. O al contrario, il progetto di un tramezzo alzato a dividere la camera dei figli cresciuti. Nessuno a Zogalia, per quanto si ricordasse e si raccontasse, si era sognato di manomettere un muro interno anche non portante. Nessuno si proponeva mai di tirare su un paio di stanze sopra il tetto, né di abbassare un solaio, né di alzare un soppalco.

IV

Zogalia era, infatti, una città costruita una volta per tutte, paralizzata e perduta dalla sua stessa insolente arte edificatoria. A scuola si insegnavano le favole e i numeri della sua fabbrica lontana. Dieci mirabili giorni, novantamila fra calzatori e lavoranti e dodicimila mastri. Tutti con il mangiare nel sacco, a dormire sotto l’aria sull’erba già estiva, con pochi vestiti e mai cambiati per una sorta di scommessa o di voto. Trenta milioni di pietre contate e posate al giorno. Ne era venuta su una nitida concrezione. L’alzato subito rappreso di un unico disegno, che non aveva avuto né gli occhi né il tempo per adattarsi al terreno, all’ombra, ai venti: e così differenziarsi, qua e là alterandosi. La città resta chiusa, ancora oggi, entro muraglie a stella sostanzialmente integre, benché quasi tutte le torri angolari appaiano smozzicate e corrose. A chi si impegna nel giro completo dei bastioni, circa tre ore al passo delle coppie di ragazzi che l’ingombrano d ’aprile e di settembre (ma, diversamente dai ragazzi tenendo sempre d ’occhio alla propria sinistra gli scorci cangianti delle vie e dei tetti), emerge con immutata chiarezza il tracciato antica dei due quadrati intersecati: la rosa dei venti delle strade radiali, che sfociano nelle otto porte aperte sugli angoli ottusi della stella. Per ognuna di quelle strade si coglie d ’infilata la piazza centrale, dove si fronteggiano significativamente la cattedrale e il Palazzo della Ragione. E in diverse simmetrie concentriche galleggiano su frangenti di identiche -

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tegole i porticati del quartiere dei mercanti e la croce di Sant’Andrea dell’ospedale, la cupola pure di cotto del tribunale e la volta anulare del teatro coperto. L’attenzione di un adulto riconosce la contrapposizione dei luoghi sociali: gli spazi diurni del conversare e del cucinare e gli spazi notturni delle lamentazioni e degli eccitamenti. Sospetta, anche, una specializzazione funzionale dei sedici ordinato spicchi interni. Ma, da lontano com’è, deve accontentarsi di intravedere introverse piazzette delle erbe, di postulare assembramenti di botteghe e articolazioni di magazzini e di fabbriche. Le strade radiali sono infatti connesse fra loro da strade curve in anelli concentrici. A percorrerle, scopri a ogni passo nuove ombreggiature e prospettive: e anche dall’altro dei bastioni dove ora ti trovi le vedi muoversi e mutare spostando anche solo leggermente la testa, e spuntare campanili, rotonde, specole de astronomi, cime di cedri. Gli spicchi esterni sono invece visibilmente riservati alle abitazioni private. Accomunate dall’altezza, che si misura rigorosamente sulla larghezza delle strade. Distinte gerarchicamente (ma senza dissidi) dai paramenti e degli intonaci. Spoglie case strette senza colonne, a fasce di pietre chiare e nere, si alternano a lunghe fabbriche a portici e logge, e lucidi riquadri verdi, ocra, grigi. In una strada, tutti lo sanno, ci vuole molto del semplice, qualche poco del negletto, ma anche dell’elegante e del magnifico. Più ancora delle osservabili simmetrie delle parti e degli accessori, la sapienza inflessibile dei colori distingue a colpo d ’occhio Zogalia dal dilettoso fracasso di m asse nella veduta di qualsiasi altra città: dove la moltitudine delle parti regolari affiancate riesce sempre a comporsi in una certa idea di irregolarità e di confusione. Quei dieci prodigiosi giorni della sua fabbricazione, Zogalia era riuscita a gonfiarli e stirarli a dismisura; e a rattrappire, all’opposto, la sua storia nel paradigma di un progetto architettonico. Da subito e per secoli, ogni edifìcio ricalcava la spigolatura e la fisionomia dell’edifìcio più vecchio che aveva occupato lo stesso spazio; e questo a sua volta i lineamenti della più antica fabbrica sulle cui fondamenta era stato costruito. La bolla che aveva emanato da Roma il papa quattrocentesco che aveva contribuito a promuovere (e a pagare) la costruzione di Zogalia non poteva riguardare che la sua unica giurisdizione la cattedrale. Ma era stata assunta a manifesto e a diffida anche per l’intera città secolare. “Nessuno seppellisca nel tempio. Nessuno violi il candore delle colonne e delle pareti. Nessuno aggiunga quadri. Nessuno aggiunga cappelle, o altri altari. Nessuno modifichi la forma della costruzione, sia nel suo vano superiore che nell’inferiore. O sia scomunicato."

Così, per esempio, mai i ragazzi avevano o avrebbero avuto scuole se non costruite come chiostri, con celle tutte uguali dal soffitto a crociera, refettori, ambulacri, un chiuso frutteto ad arcate e la stessa epigrafe sul portone, che i cartolai stampavano ormai macchinalmente sul frontespizio di tutti i quaderni. “Cessi, qui, lo strepito dei lavori manuali. Si allontanino i fumi, e gli odori. Non entrino le lascivie degli oziosi. Si assapori la solitudine.” Così gli ammalati non immaginavano neppure che si potesse venire curati se non in file di cento letti sotto immensi soffitti a capriate, e alte finestre aperte sulle nuvole, da cui entravano a volte e scappavano poi subito urtandosi e schiamazzando le rondini. E gli universitari lasciavano ogni giorno i loro francescani collegi di cemento in collina per fare lezione in quelli che erano un tempo i palazzi delle grandi famiglie. Atri, vestiboli e sale affrescati in scorto a peristili e a paesaggi lacustri. Corridoi con fogliamenti e tralicci. Stanze d ’estate dipinte di boschetti e stanze per la febbre in trompe-l’oeil di sorgenti e di ruscelli. E alcove con forme umane bellissime, perché se ne ispirassero le donne concependo, e più tardi dolorosamente partorendo. I pittori servono a generare: nei tempi caldi, luoghi ombrosi, deserti e freschi. E luoghi caldi per i tempi freddi. Servono a fìngere (nelle biblioteche dagli scaffali anch’essi architetturali) fabbricati con cornicioni, cariatidi e nicchie, e altri scaffali di libri sopra le porte, smossi ogni volta con fantastica facilità per lasciare sbucare qualcuno.

Zogalia sapeva di avere avuto un architetto, e uno solo, rimasto a sorvegliare eternamente la sua città dall’alto della pala sull’altar maggiore della cattedrale. Lo avevano lì ritratto, travestito da orante, con la frangia, un berretto tondo e vigili occhi neri. Di un altro architetto, vivo, questo, e marcescibile, e per di più irascibile, scettico e taciturno come quello di cui qui si parla, la città non intendeva fare che l’ultimo di una teoria secolare di edili: magistrati della conservazione, del rifacimento dell’immutabile, del restauro. Come strumento, e ancora più come metodo di lavoro, gli avevano consegnato il primo giorno di servizio un ordinato archivio. Nell’archivio, settore.per settore della città, di ogni fabbricato erano registrati i dati tecnici, le piante, l’alzato, il disegno a grandezza naturale di un modulo dei pavimenti, la descrizione

minuziosa delle decorazioni, i campioni del colore degli intonaci. E inoltre i telai (in legno di castagno col marchio del comune) per ogni tipo legale di mattone. Più tutti i campioni. Mattoni quadri, tetradori e pentadori, per gli edifìci pubblici. Mattoni didori, rettangolari, per le case private. E poi pianelle, quadrucci, triangoli. Gli stampi approvati per le tegole, i coppi e le tortorelle. I modelli dei condotti (da lavorarsi a mano e perciò mai perfettamente identici). Le forme dei fregi e degli acropteri. Di questi stampi e forme l’architetto era tenuto a servirsi una volta al mese, per controllare la produzione delle sole due fabbriche di laterizi con licenza del comune. E controllava inoltre, periodicamente, l’osservanza delle tecniche millenarie di macerazione, impasto e cottura dell’argilla. Nei cantieri, l’equilibrata utilizzazione dei mattoni bianchi (resistenti ai rigori delle stagioni) per i terrazzi, dei mattoni della rotatura; e dei mattoni neri (quasi invetriati), buoni per il logorio più tenace, negli anditi, nelle cucine, nelle scale. Gli altri giorni del mese l’architetto restava invece in ufficio, a studiare uno per uno i progetti di nuovi lavori edilizi: volti sempre ed esclusivamente (se speravano di venire approvati) alla manutenzione e al ripristino dell’esistente. Ogni domanda era tenuta ad indicare pignolescamente, per quantità e qualità, i materiali che si prevedeva di usare. E non solo il cotto, i marmi e le pietre (tipo, provenienza e colori). Ma le pozzolane e le calci. E le polveri di alabastro e di gesso da mescolare all’intonaco più fine. E le cere per lucidarlo. E i legni per le travature e per gli infissi. Rovere, faggio e noce per le strutture sotterranee; quercia, cedro, ginepro per le travi dei solai, orno e acero per le scale. E per le porte null’altro che non fosse loto, cipresso, leccio o bosso. E d ’olmo rovesciato i cardini, i paletti di agrifoglio e di alloro, di corniolo i cavicchi. Su disposizione dell’architetto, i venti vigili della città venivano poi spediti, a date fìsse dell’anno, a controllare che gli antichi metodi di lavorazione dei materiali venissero presi alla lettera: in un’età che, dovunque fuori di Zogalia, dimezza i tempi ogni giorno e moltiplica a gara con se stessa i prodotti finiti. Ma a Zogalia la pietra veniva ancora cavata destate, e tenuta due anni all’aperto prima di usarla. E gli alberi sulle colline si tagliavano d ’autunno, ormai svuotati di succhi fruttiferi. E a luna calante, aggiungevano i contadini. Ma qui l’architetto rideva, e ripeteva sempre la stessa battuta. La luna, diceva, regola solo il flusso e il riflusso delle acque. E il flusso e il riflusso dei cervelli acquosi. Con fatica sempre maggiore, i vigili costringevano i taglialegna a osservare le vecchie regole. Incidere gli alberi profondamente alla base un mese prima di abbatterli, per farli svenare. Sottoporli (a seconda della specie) a diversi rituali di imbalsamazione e di indurimento. Unzione con olio, bitume, sterco. Il fico,

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sepolto un mese nelle ormai rare paludi. Il cedro (fortunatamente assai raro, perché troppo costoso, data la complessità dell’operazione) steso incatramato su un letto di grano rinnovato a settimane alterne. Poi, per tutte le specie di legni, tre anni di stagionatura all’ombra prima di usarli. Il comune (attraverso l’architetto) disciplinava poi duramente la cava e la destinazione delle pietre vive e delle pietre morte. La scelta delle calci, sottoposte a lunghe macerazioni che le rendessero mature come il miele. E le arene, che dovevano essere di fosso o di fiume, meglio le scure che le biancastre; e assolutamente mai di mare, perché salmastre e mal leganti. Le pozzolane, che fossero rosse da parere corallo scuro, o nerastre, vicine al colore della fuliggine. Per fabbricare le sabbie artificiali, si cuocessero brecce di fiume. O la terra grigia chiamata terrazza d ’Olanda. O la pietra turchina detta Tournay. L ’architetto le provava, pozzolane e sabbie, ripetendo con distacco gesti non di oggi. Le stringeva nel pugno, contando di sentirne venire uno stridio come di vetro o di terra bruciata. Le scuoteva su un panno bianco, dove non dovevano lasciare ombrature. Agli scolari, che nella scuola dell’obbligo studiavano obbligatoriamente la storia locale, si insegnava a calcolare quanto lungamente fossero stati preparati, quei dieci giorni di scommessa che avevano tirato su Zogalia dall’aria. E gli scolari evocavano, passivamente e pavidamente, squadre intere di attivi e versatili fantasmi. Antenati che (per almeno dieci pazienti anni) col vento giusto e con la luna adatta cavavano, tagliavano, impastavano, cuocevano. Un gran macerare calcina: morendo, magari, inavvertitamente a frotte prima che cadesse mai il momento di usarla, quella calcina. Gli scolari subivano e seguivano. Sapevano, anche (perché gli veniva spiegato diffusamente e con diagrammi) che i trenta milioni di mattoni e di pietre posati in ognuno dei Dieci Giorni Genetici dalla lunga ombra erano stati poi gradatamente sostituiti più di una volta, nei sei secoli fino al momento di questa storia. Ma con tale infaticabile continuità e collettività che nessuno vedeva o sentiva neppure più il tramestio perenne. E la città risorgeva ogni mattina nella stessa parvenza di intoccata lucentezza. A suo tempo sarebbero subentrati loro (gli scolari di oggi) ai padri e agli zii nei cantieri di manutenzione. Accettando la corvée con l’identico atteggiamento trasognato e passivo che quelli avevano ereditato dai loro, di zii e di padri. Così limmutabile, a forza di venire immutatamente rifatto nei secoli, era venuto insensibilmente mutandosi dalle fondamenta. E Zogalia, che si era comprata l’immortalità ancora a buon prezzo (con il sommesso e astuto macchinamento delle sostituzioni), restava nello stesso tempo la città chiusa, -

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mentale e coerente del suo leggendario inventore quattrocentesco, e una sottilissima, gigantesca, indelimitabile falsificazione.

VI

L’archeologo che avrebbe diretto i lavori di scavo era invece meridionale, accondiscendente e giovane. Alla sovraintendenza usavano affibbiargli, in un’interminabile iniziazione, i compiti che tutti gli altri detestavano. Come verificare ogni giorno i fogli di presenza dei custodi e degli uscieri. O guidare (tutte le primavere) i bambini delle elementari ai rosicati ruderi romani del capoluogo. O sedersi a rilasciare permessi, per le discese di gruppo nel curioso sacello pitagorico vicino alle mura. Ogni tanto (durante le improvvise latitanze del suo capuffìcio) si assum eva però controlli più qualificati. Sullo stato e sulla catalogazione dei depositi del museo. Sulla manutenzione periodica dell’arco di trionfo e del piccolo teatro. Sul lavoro dei tre restauratori della sovraintendenza, ormai bolsi e impigriti. Lui, però, da quella bolsaggine e da quell’impigrimento non si era ancora lasciato infettare. Leggeva, la sera, strane e disordinate cose; e altre cose strane e disordinate aveva capito quando, prima e dopo la laurea non lontana, era riuscito a infilarsi (con mansioni che eccedevano di poco quelle di un tollerato tirapiedi) in tre o quattro missioni assai diverse fra loro. Preistoriche, puniche, egittologiche. Gliene era restata l’abitudine, assai personale, a un almanaccare a mezza voce assolutamente eterodosso sulla Teoria Generale degli Spazi Interrati. E un entusiasmo pressoché demenziale (ma interamente statistico) per il lavoro annuale dei lombrichi e delle talpe. Non richiedendo, quell’almanaccare e quell’entusiasmo, di regola un interlocutore, accadeva che gli altri non gli dessero più retta neppure quando poneva delle domande precise. E che non gli ubbidissero (quando dava istruzioni) né i tecnici né gli operai: con cui si era illuso, per qualche settimana, di riuscire a formare un gruppo di lavoro affiatato. Malsicuro, vago, annaspante, il direttore degli scavi pareva tuttavia seguire qualche sua nascosta idea, una confusa eccitazione: e non si dava per vinto. Nel giornale di scavo aveva riportato, tra le notizie preliminari (descrizione del sito, informazioni esterne: innanzitutto, si capisce, la storia del ragazzo col trattore -

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e del suo goffo ritrovamento), anche i risultati dei primi sondaggi d ’autunno. E quei risultati erano pieni di incongruenze. Una stratigrafia aveva riportato, per esempio, frammenti di piombo, di carbone e di cotto. La sonda fotografica si era trovata a riprendere una stella regolare a sei punte, larga come una mano. I reperti stratigrafici suggerivano una datazione incredibilmente bassa. Un’accozzaglia di dati che assai diffìcilmente entravano in relazione reciproca. Per tutto l’inverno, l’archeologo si era preparato a fronteggiare queste bizzarrie su libri, se possibile, ancora più sconnessi del solito. La cosa gli appariva, semmai, un privilegio personale, una sfida. Ma poi, nel giro di tre giorni, vide emergere da due e da quattro riquadri campione la stessa frantumata mistura di cotto, di carbone e di piombo. Allora si avvicinò d ’impulso all’architetto, vincendo la soggezione che gli metteva per l’età, la silenziosità e l’aria annoiata e scettica con cui seguiva i rituali di scavo. Gli propose: “Andiamo insieme a cena, stasera ? ”

VII

La cena era stata primaverile e ben fatta. “Hai idea di dove si ritrovino”, aveva domandato l’archeologo, “le tegole di piombo saldate, come queste, insieme ? L ’intercapedine di carbone, le tavolette di cotto ? In quest’ordine ? Io ci ho pensato parecchio. E credo che mi sia venuto in mente. Erano pavimentati allo stesso modo i giardini pensili di Semiramide. Suppongo che al piombo toccasse assicurare lo scolo dell’acqua, che il carbone servisse da isolante e da filtro, e che i mattoni costituissero un solido solaio. Sotto, io mi figuro, dovevano correre criptoportici. E sale in fuga, basse, ombreggiate e fresche contro tanto sole. Tu hai altre idee ? ” “Che letture erudite”, lo canzonò l’architetto. “Ma che favole. Io, dei giardini babilonesi, ricordo informazioni assai più tecniche. Erano sostenuti (pare) in aria da un prodigioso numero di piloni di pietra, cavi e pieni di terra. Dentro ogni pilone era piantato un albero altissimo. E sui piloni poggiava un immenso tavolato di travi di palm a.” “E sopra le travi... ” lo interruppe l’altro, e l’architetto riprese: “Sopra le travi, un ammasso fertilissimo di terra, costato diecimila viaggi di buoi; e coltivato a fiori rari e a frutta. Devo aver letto da qualche parte anche di uno straordinario -

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impianto idraulico. Trombe e canali di rame facevano circolare un’acqua dedotta apposta dalle lontane montagne. I giardini erano poi tanto estesi che alberi e arbusti venivano variamente accostati. Per classi di colore, per profumati o no, per abitudini stagionali e diurne, per commercio amichevole o ostile con gli insetti. Non c’era posto, dunque, sotto i giardini per le tue fughe di stanze in ombra. Piuttosto si doveva credere di trovarsi in un affollato sottosuolo naturale. Corso in tutti i sensi da gallerie curiosamente ordinate.” “Tu non vedi, dunque”, meditò e ripigliò dopo un poco l’archeologo, “in una struttura sospesa che un’escrescenza artificiale della crosta della terra, una cisti, un polipo, soprattutto maligno ? Io credo invece che il pieno sul vuoto sia un’azione di giudizio. L ’atto che distingue fra attività collettive e regolate e ciechi vagabondaggi intestinali. Sai che esistette addirittura un città pensile antica ? Era forata sotto, pacifica sopra. Ma in qualsiasi momento poteva sbucarne un intero esercito in assetto di guerra.” “Tutte le città sono pensili, se le guardi dal basso”, dichiarò arrogantemente l’architetto. “E anche tutte le case. È un problema di osservazione. Una scelta descrittiva. Le fabbriche che non nascono calcolatamente sospese (per incastellature di palafitte, per aggiunte di terrazze e di torrette) sospese lo diventano, Per sottrazioni: a furia di scavarci sotto. Restano in bilico sui sette fiumi coperti delle loro cloache, sulle catacombe, sulle metropolitane. Si costruisce come si ragiona. O inducendo, o deducendo. Anzi: inducendo con una mano, e deducendo con l’altra. Cavando di sotto, per murare di sopra.” Si interruppe, bevve, sembrò riflettere ancora, riprese. “I materiali sono limitati. E sono sempre gli stessi. Li spostiamo soltanto, in un gran polverone di togliere e di rimettere. Finché le palafitte non diventano veramente troppo fradice, e le volte delle gallerie troppo sottili. Allora crolla il pieno e crolla il vuoto, si riforma un bell’ammasso caotico e comincia il tuo, di lavoro. Dunque, perché Babilonia, con le sue mura di lapislazzuli e d ’oro ? O vuoi farmi credere che le tue sonde arrugginite hanno tirato su un pezzettino di lapislazzuli ? ” “Non mi prendere in giro." “Chi ti prende in giro ? Non sei solo tu, come vedi, a leggere le favole degli antiquari. Storielle eleganti, che stanno bene con la cena. Ce ne sono due o tre di grande effetto in salotto. Altre da letto, che mi tengo di riserva. Ti consiglio di provare. Te la ricordi, per esempio, la storia del nervo sottilissimo trovato dagli anatomisti egizi, che collega al cuore l’anulare sinistro ? Per questo, potrai sempre raccontare, il cuore si gonfia per un anello nobiliare, duole per una gemma regalata da una donna. E ancora, questa non è da letto ma fa grande impressione, esiste in Tracia una pietra sarcofago. In quattro giorni mangia -

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qualunque cadavere, non lasciando di lui che le scarpe e i denti. La memoria è viscida. E liquida è l’attenzione. Ma queste favole inutili sono vischiose. Ci scivolano sopra lentamente.” “Io non so come fai”, protestò l’archeologo. “Anche soltanto a parlarne in questo modo. Io non me ne libero più, delle tue storie strane. Leggo dall’universale rimestio biologico, nella notte più lunga dell’anno, e mi capita subito di svegliarmi e di trovarmene travolto. Il puleggio arido che fiorisce improvvisamente. Il voltarsi delle foglie del salice. I semi che si girano dentro alle mele. O dentro di me. Sei tu che non hai capito” accusò, addirittura. “Con Semiramide, ti stavo facendo una domanda professionale. A che serve, in una costruzione, uno strato di piombo saldato ? ” “La tecnica è tecnica”, gli rispose l’architetto." Nei giardini pensili come nei gabinetti pubblici. Non c’è soluzione che non citi, magari per parodiarla, una soluzione più antica. Se illustre, tanto meglio. E non c’è più nobile copertura del metallo. Piombo, rame dorato o che so io. A Babilonia, come nel tuo discutibile rudere, le tegole di piombo dovevano risolvere lo stesso problema. Io ci vedo soprattutto un efficace isolante. Dall’umido e dalle radici. Tornerei a usarle anch’io per questo scopo, se non esistessero materiali più leggeri e meno costosi.” “Ma le conseguenze. L ’interpretazione. Ti rendi conto ? Uno strato tanto accuratamente impermeabilizzato dev’essere un tetto. Non il pavimento di un edifìcio crollato e sepolto. Il mio rudere, come lo chiami tu, non è un rudere affatto. È un fabbricato ancora coperto e chiuso. E se è così, non sorgeva sulla collina, ma ci affondava dentro. 0 per lo meno ci affonda adesso. E noi dovremo scavare assai più a fondo del previsto. Forse per tutta l’altezza della collina. Dovrò affittare altre macchine. Dovrò rifare un preventivo di spesa. Non me l’approveranno mai. E se capiscono che la cosa è curiosa (e grossa) me la tolgono di mano. Bisogna dunque che vada avanti con i mezzi che ho. Ma vorrei capirci un po’ meglio fin da ora.” Un lungo silenzio. Che altro aspettarsi, da una sola serata, da una conoscenza diffidente ? Ma al momento di alzarsi, l’architetto disse ancora qualcosa. “Stanimi a sentire. Tu sai che cosa io faccia di mestiere, qui a Zogalia. Sto tutto il giorno a controllare campioni di laterizi e di legni. A confrontare formule di intonaci. Lo faccio ormai automaticamente, pensando ad altro. Così, quando sono venuti fuori (sotto al piombo) i tuoi primi cocci, io ne ho strofinati e soppesati meccanicamente un paio, col mio solito gesto. E posso dirti che questi mattoni non sono diversi da quelli che mi tengo per documentazione sul tavolo, tolti alle costruzioni originarie di Zogalia. Ammesso sempre che sia esistita (io ne -

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dubito) una Zogalia originaria. Il tuo edifìcio sotterraneo, qualunque cosa sia, risale più o meno alla fondazione della città. Ne costituisce una propaggine. Un’escrescenza. 0, se preferisci, una deiezione. Seppellita intenzionalmente, per ragioni che per ora è impossibile indovinare. Io, per lo meno, non saprei assolutamente che cosa pensarne. Ma per fortuna non sono io che devo pensare. Sei tu. Dormici sopra. E non ti fare troppe aspettative.”

Vili

I sondaggi per accertare l’estensione del presunto tetto avevano dato un raggio di circa dieci metri. Più in là declinava un terrapieno fittamente coltivato. Tutto in giro allo strato di piombo, i pali avevano individuato un massiccio muro rotondo. Ininterrotto, a giudicare dal profilo della collina. L’archeologo era entrato nuovamente in agitazione. Se pure ne era uscito mai, dall’agitazione per questa prima, malcongegnata, esposizione all’aperto del suo universo libresco. Ricominciò a farneticare a mezza voce, sommerso nel viavai indifferente dei suoi collaboratori. Sugli edifici rupestri, costruiti per sottrazione fino a coincidere con un disegno nascosto. Su quelli (come la fabbrica ancora invisibile su cui camminava) costruiti invece per aggiunzioni e sopraelevamenti, fino a chiudere l’aria nell’identico, ordinato disegno. Ipotizzò (parlando a un alloro rigoglioso destinato a cadere fra breve sotto la ruspa) che, voltata e coperta la fabbrica nascosta, ci si fosse rovesciata sopra per mascherarla una mostruosa massa di terreno di riporto. Arandolo poi e riseminandolo fino a confonderne del tutto le pendici con le montagnole vicine. Appoggiandosi a un decrepito olivo (che invece sarebbe stato trapiantato), suppose poi, per la costruzione della collina artificiale, una spirale doppia di rampe, progressivamente demolite alla fine: ispirandosi in molto piccolo a quanto dai libri sapeva sull’erezione delle Piramidi. Si fece passare davanti agli occhi (sdraiato stavolta con la testa dentro a un cespuglio maturo di corbezzolo) teorie interminabili di carretti, uomini, buoi, carichi di quella tremenda terra di riporto. E per alleviare l’oppressione che gli dava il raffigurarsi quell’innumerabile fatica, rievocò le nitide xilografìe dei trattati di meccanica e di architettura. Regalò ai diecimila fantasmi di muratori sconosciuti sistemi di pulegge fantasma, argani, -

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mirabili e semplici macchine di corda e di ferro. Ma a questo punto le invenzioni visive sdrucciolavano oltre. Lo costringevano ad assistere al deragliare accidentale di non pochi carri. Al massacrarsi giù per le pendici di bestie e di uomini. Travolti senza rumore, con eleganti giravolte e salti. Si alzò, con foglie e terra appiccicate sul dietro della camicia. Andò a dare disposizioni per il lavoro delle macchine, nella settimana seguente. Scavare una trincea che seguisse strettamente il profilo del muro circolare localizzato. E in tanto futuro polverone, si ripromise un’indagine quasi inosservata anche dall’interno. Avrebbe fatto allargare, nel tetto di piombo, il buco provocato dal trattore del ragazzo. E ci si sarebbe calato dentro insieme all’architetto (se voleva accompagnarlo), e sicuramente insieme al fotografo.

IX

Ho fatto un sogno e mi sono svegliato male (pensò di telefonare timidamente, e non telefonò, l’archeologo all’architetto nella settimana seguente). Stanotte che mi preparavo a scendere con te per una prima esplorazione dentro al buco. Ho sognato una volta a vela. Sulle vele erano affrescate altre vele, vere vele bianche. Sbattevano rumorosamente nel vento, e finivano per scindersi e per dissiparsi. Di sotto emergeva un soffitto piano, scandito da nitide modanature angolari. Da centine intersecate. Da piatte lesene. Un dedalo di righe più e meno profonde si tagliava e battagliava nel buio. Poi nasceva, non so da dove, una luce mobile e radente, che sul soffitto faceva affiorare e inabissarsi percorsi spezzati sempre diversi. Mandala, meandri, mappe di città auree, fondamenta di palazzi di settecento stanze, ordinati labirinti di siepi di bosso, campane infantili, canali lunari, risaie, filari di viti maritate. I disegni erano intersecati e sovrapposti. Vi sospettavo dentro una gerarchia inconoscibile. Parevano derivare (per segmentazioni, fratture e varianti) da una configurazione primitiva e semplice. Credevo di essere continuamente sul punto di afferrare quella configurazione, stabilendo una media fra le oscillazioni e le ombre. Invece sfuggiva ogni volta, come divincolandosi dalle dita degli occhi. Perché il mio guardare era diventato un lavoro tattile e lento, molte volte ricominciato. Mi sceglievo un qualunque tracciato. Una graticola incavata più -

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o meno profonda. 0, al contrario, un rilievo, spigoloso o rotondo. E mi costringevo ad assecondarlo fino in fondo, certo che mi avrebbe condotto a cogliere un’ossatura, sotto quel groviglio. Ma ne venivo invece io stesso malamente imbrogliato. Spingere lo sguardo comportava una pressione e uno scavo. Trascinavo con me, avanzando, cumuli di trucioli inerti, molle materia raschiata. Li abbandonavo negli angoli del disegno che stavo percorrendo. Ma i trucioli formavano subito dighe e ponti, che alteravano l’equilibrio complessivo. E già non ricordavo più le configurazioni fin lì seguite. Disperavo di riuscire a ricostruirle. Intanto dal fondo delle nuove trincee filtrava il buio. Invadeva i solchi. Dilagava per i sotterranei di quello che supponevo il palazzo di Cnosso. Inondava le città ideali appena intrawedute. Sfondava viali e siepi del giardino geometrico, deformava i canali e le forre in un pantano ameboide. Riconosco un tratto animale in questo dilavante fermentare. Nello smussarsi di angoli già rigorosi. Nelle parallele che si intersecano. Nelle crociere cartesiane ingravidate. Vorrei prevenire il disastro che so di avere messo in moto. Con gli occhi devo avere forzato non so quale minuscolo puntello, che reggeva il bilanciamento di sistemi ostili. O sm osso il leggero cavicchio che ne assicurava l’autonomia reciproca. Ma gli avvenimenti sono ormai inarrestabili. Curve più o meno ottuse danno forma a sacche, intestini e ventri. Tutto il soffitto brulica furtivo e topesco. Dai solchi sbucano attraverso chilometri di gallerie i milioni di lombrichi che gonfiano ogni anno di mezzo centimetro il piano della terra. Con secoli di paziente lavoro escrementizio, hanno fatto crollare acquedotti e terme. Inabissato potenti selciati. Interrato indifferentemente maioliche e lattine. A convegno da tutta la terra, per raccontarsi chissà quali prodezze sprofondatone e digestive, si serpeggiano ora reciprocamente addosso. Si intrecciano gli uni agli altri in grappoli ondulatori. Pericolanti. Pesanti. So bene che tra un attimo mi crolleranno tutti addosso, e rovinerà con loro il soffitto diventato soffice e friabile. Comincerà anche per me il cieco viaggio all’ingiù: attratto come sott’acqua dal mio peso, che si arresterà solo contro un corpo più massiccio e più solido. Naufragato sopra quel corpo, riprenderò più lentamente a sprofondare in attesa di un nuovo intoppo provvisorio. Se pure ne troverò un altro. Insomma un incubo di specie classica, ti assicuro. Invece telefonò: “Potremmo spostare l’appuntamento a domani ? Non sto molto bene. -

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Perdonami. Sì, penso io ad avvertire gli operai e i tecnici.”

X

Quel domani non arrivò che dieci giorni più tardi. Si sa il rischio che si corre, a spostare un appuntamento dove siano implicate più di due occupatissime persone. In provincia più ancora che nelle città grandi. Si calcolano allora le gerarchie, i riguardi reciproci e le suscettibilità. Ma tutto fa pensare che in questo caso il ritardo fosse espressamente cercato. L ’archeologo camminava, infatti, su e giù per il cantiere con la faccia spaventata e i capelli di traverso di un liceale sotto esami. Distribuiva agli operai, e al macchinista della scavatrice, farraginose e contraddittorie istruzioni. L ’architetto sembrava invece scomparso definitivamente, tanto dal cantiere quanto dal dimesso ufficio al comune. Aveva lasciato detto qualcosa di vago su una sua missione di controllo alle cave (non vicine) che producevano per Zogalia lumachella e breccia corallina, marmo verdeantico e un marmo biancorosso simile a carne salata. Oltre a una speciale pietra mischiata, che, guardata a lungo, portava a galla similitudini di vari paesi, e montagne, alberi, fiumi, sassi, valli e colli di forme diverse. Battaglie e figure strane, arie di volti, e abiti, e infinite cose. Nonostante tutto, venne il giorno necessario e giusto per allargare il primo traumatico buco (da cui erano già passate tante sonde) e per calarvisi in sei o sette. Una cauta esplorazione che permettesse di studiare un piano sistematico di intervento. Faceva già caldo di nuovo, sebbene non si fosse che a metà maggio, con le Pleiadi (la notte) appena e non tutte tornate visibili. Ma i venti pesanti del sud erano già riusciti a inumidire i nervi, e a indurre una prima epidemia di insonnia. Con pessimi risultati sullo spirito collaborativo generale. Rispostacce e rancori. Le sensazioni di chi per primo si calò cautamente sulle due scale a pioli assicurate in alto e prese terra su un cumulo inerte e incerto di macerie, furono dunque la sorpresa dell’aria fredda e grossa da cantina, e il piacere del buio. Un lungo silenzio e un’immobilità diffidente tennero insieme il gruppo. Lentissimamente veniva stracciandosi la tenebra più fitta. Stringendo gli occhi sotto il baluginio che filtrava dall’apertura in alto (irregolare e scentrata), si -

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cominciavano a intrawedere non tanto delle forme, quanto addensamenti fluttuanti e masse gigantesche: che, guardate, non indietreggiavano. Sembravano invece dilatarsi, e venire aggressivamente vicine. Passò forse un’ora a studiare tutto in giro (sempre senza muoversi) la profondità del vasto sotterraneo invaso e ingombro. Da tutte le parti dell’umidità male echeggiante, sfrecciavano strisciavano crepitavano scorrevano gemevano cieche presenze animali pazze di panico. Sopra le teste svolazzava e sbatteva una volta troppo tenebrosa per essere valutata. Ma certo popolata, e assai alta. Solo quando tornò a tacere la protesta biologica, qualcuno decise di accendere le lampade e di muoverle in giro. Allora esplose dall’ombra (con una violenza accecante del tutto sproporzionata al potere delle lampade, e proporzionata invece allo strappo emotivo) una grande rotonda concamerata a nicchie e a colonne con intervalli regolari. Ormai vuota di topi, senza più pipistrelli, spaccata qua e là da frane e radici d ’albero, malauguratamente non retrattili come le bisce appena scappate. E una cupola crepata, mangiata. Ma ancora con tracce d ’azzurro, e stelle, e una cornicula luna, e grandi, malconce figure a rilievo di stucco dorato. Cigni, Carri e Tori, Andromede e Leoni. Una volta zodiacale da cui si irradiavano in lenta spirale bestie rampanti e forme umane con archi, anfore e pepli. Al riverbero delle lampade mal tenute e sotto le lunghe ombre, le sfere prendevano profondità. Parevano irregolarmente rotare su un asse ignoto, inabissandosi, riemergendo. Come svegliatosi di soprassalto, il fotografo si mise a fare il suo lavoro di cavalletto, filtri e flash: rivolto verso l’alto e poi tutto in giro, con mosse esagerate a scatti. L ’archeologo guardava senza ritegno, somaticamente. Voltava la testa, allargava le braccia, apriva (come un bambino) la bocca, girava ubriaco su se stesso. L’architetto stava invece tranquillamente seduto, chissà da quanto tempo, su un mucchio di detriti, con le mani nelle tasche e occhi intenti e fìssi. Né prima né ora qualcuno del gruppo pensò di fare commenti, un’esclamazione, una domanda. Ma al momento di risalire (fissato, sempre senza parlare, per condivisa intolleranza e oppressione), ci fu un curioso spingersi e incalzarsi su per la stretta scala a pioli. Un’urgenza assolutamente immotivata.

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XI

Ancora una settimana e presero il via, con una parvenza di sistematicità, i rilevamenti e gli studi paralleli al processo di scavo. Man mano che (prima con le macchine, poi con le pale) si veniva rimuovendo dalla gran cupola l’eccesso di terra vegetata, se ne osservavano senza precipitazione i principi costruttivi. Al tempo stesso, si procedeva a un radicale restauro della copertura. Le tegole di piombo e di cotto erano assai danneggiate. Non solo e non soprattutto, naturalmente, sfondate dal trattore del ragazzo: ma da secolari erpicature, dagli sconvolgimenti del terreno, dalle radici più potenti degli alberi. In questa fase, la presenza dell’architetto si dimostrò necessaria tutto il giorno e tutti i giorni. Sia per individuare il sistema di voltatura (dove un’intercapedine leggera di calcina, frammenti di coccio e pietra pomice si sovrapponeva a un’ossatura continua di mattoni a pettine), sia per dirigere gli interventi di conservazione. Non era, del resto, la conservazione il suo più stretto mestiere ? Da non molto, l’architetto aveva smesso l’aria annoiata con cui aveva accettato l’incarico agli scavi, come uno dei numerosi fastidi del suo provinciale lavoro. La faccia chiusa che aveva portato in giro le prime, poche volte che si era fatto vedere al cantiere. Veniva, invece, adesso regolarmente e di prima mattina. Guardava e fumava molto. Parlava, come al solito, il meno possibile. Ma quel poco con un tono alto e sicuro, che aveva sui tecnici un effetto eccitante. Gli andava mostrando, per esempio (man mano che affioravano alla vista), i vasi di terracotta a testa in giù sistemati nelle connessioni fra la curvatura della volta e il muro perimetrale. Nelle cosce, diceva lui. Citava, anche (a parole staccate), le volte in cotto più famose del mondo. E senza spiegazioni i tecnici capivano che l’espediente era illustre. Serviva ad alleggerire al massimo una cupola destinata a venire oppressa da migliaia di metri cubi di terriccio. Il progettista ignoto doveva aver posto pretese di spietato rigore: tanto regolarmente si affiancavano nella malta le olle vuote, tanto strettamente paralleli correvano i mattoni dell’ossatura. I momenti più puntigliosamente tecnici erano per l’architetto sempre assai felici. Costituivano, a quanto pareva, il luogo che il suo chiuso temperamento assegnava alla massima estroversione. Alla collegialità. All’oggettivazione. Si cominciava così a capire che le ossessioni meticolose dei materiali e dei metodi -

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(mestiere di ogni giorno) incontravano forse una sua segreta e non ironica corrività. Una maniacalità miniaturizzante da orologiaio. L’archeologo, invece, sembrava a sua volta durevolmente scomparso. Era tornato a infrattarsi in biblioteca. E non la secca biblioteca specializzata della sovraintendenza, ma quella seicentesca del capoluogo. Che aveva un catalogo ancora scritto a inchiostro, chiaroscurato, svolazzante, dentro una serie di registri alti e neri. E i libri in sala raccolti per stravaganti materie. Scaffali con cartigli di “Magia Naturalis”, “M usurgia” e “Consonantia Rerum”. La sua decisione (o la sua fuga) era stata certo assecondata dallo sfolgorante giugno fuori, e sugli scavi già affocato. L ’ombra asciutta e stantia della biblioteca diventava una tana particolarmente piacevole. Ma (come nel caso dell’architetto) bisognava fare i conti soprattutto con un’inclinazione profonda e privata. Di natura (forse) umidamente regressiva. Sfogliando enciclopedie argentee, poligrafìe bizantine e trattati umanistici sul cielo e sulla terra, l’archeologo era venuto raccogliendo una scienza composita, divagante e del tutto superflua. Per esempio sulle relazioni fra morti violente e spettacolari e congiunture, quadrature e opposizioni dei pianeti nefasti. Su come Saturno (quadrato o opposto al Sole) provochi infallibilmente morte, per l’urto e sotto i piedi della folla. O per impiccagione. O per strangolamento. E, nei segni dalla forma animale, per sbranamento di belve. E morte in carcere se sul Discendente opposto al Sole e alla Luna. Aspettato da Mercurio, e vicino alle costellazioni in foggia di serpente, induce morte per un morso avvelenato. E per veleni e insidie femminili, se ad essi si accompagna Venere. Per annegamento o naufragio in aspetto con la Luna, e in Pesci o segni d ’acqua. Imparò a porsi inusitate domande sugli scambi fra l’alto e il basso. Regolati (a quanto sembrava) da un galateo più sottile e più fermo dei trattati internazionali e degli orari ferroviari. (Come aria possa salire e scendere acqua dal centro al cielo e dal cielo al centro. Come sopra al cielo possa esservi acqua pesante. Come un angelo possa essere al tempo stesso in cielo e in terra, e a distanza di più di centomila leghe, senza tenere più spazio che l’equivalente di un piede. Come l’elemento dell’aria sia figurato come la chiara di un uovo. Come Averroè faccia un sofisma matematico falso per dimostrare che dodici piramidi riempiono uno spazio. Come una goccia o porzione d ’acqua possa riposare naturalmente al centro del mondo, e contro al cielo riposare una porzione d ’aria.) Stordito da tanta fuggente e sbilanciata sapienza, l’archeologo (che aveva completamente dimenticato a quali problemi concreti fosse venuto a cercare risposte in biblioteca) sperimentava fisicamente la soffocazione indotta dai viaggi mentali disseminativi e centrifughi. E soprattutto era arrivato (in una settimana -

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appena) a condividere corporeamente e privatamente l’antica percezione dell’universo come una sola grandissima Bestia, inspirante, espirante, secernente. Con un circuito venoso ininterrotto di vapori e di acque; così che i mari, le nevi e tutti i fiumi del mondo passano e ripassano senza stancarsi per la stessa asmatica foce di fiumiciattolo locale. Con facoltà spermatiche discendenti, e ascendenti nutritive. Sul suo stesso polso, sui suoi polmoni verificava, senza rendersene conto, i battiti e lo sfiatare della Bestia. Gliene veniva un’ubriacatura diffusa, e vertigini. Ma anche una dilatazione de le papille e dei pori, e un umore alto, eccitato. Smise pure di sentirsi a disagio per le sue libidinose scorrerie tematiche. Verso la fine della settimana che aveva sottratto alla presenza in cantiere, gli riuscì infatti di mettere le mani su notizie che avevano direttamente a che fare con la grande rotonda sotterranea: scoperta e così sommariamente esplorata. Aveva trovato, cioè, storie sulle scomparse volte stellate arabe, romane, greche. Ruote, sfere e zodiaci riprodotti a fresco e a mosaico su cupole di terme. Forse perché salissero a velarli nuvole, umori, odori; instaurando con la loro mobilità di fitto e di rado l’illusione di un lento roteare a spirale delle costellazioni, di un lento declinare sul mattino. In una di queste cupole, un macchinario faceva scorrere su un asse metallico una stella mobile, a segnare i venti e l’ora del giorno. Lo zodiaco scompare completamente dalle folte volte stellate medievali, aveva appreso senza meraviglia. Gli sfaccettamenti esotici delle tessere blu, verde e oro disegnano allora solo stelle maggiori aionate e nitide stelle minori: in un’alternanza simmetrica da scacchiera. A torcersi in giro (leggeva) le costellazioni riprendono nel Quattrocento. E rifletteva: certo: con il ritorno di un angolo esatto di osservazione. Con l’interesse per i congiungimenti e le occasioni delle cose. Le volte quattrocentesche segnano inizi di storie. Fissano geniture e giorni di grande innovazione. Li incrociano con una minuziosa collocazione geografica. Fermano così nella memoria gli elementi per le aspettative degli esiti, che riguardano tutti. Per la ricostruzione delle ragioni. Ma curioso (non potè fare a meno di dirsi l’archeologo lasciando ormai sul tavolo fotografìe e diagrammi) quanto siano immancabilmente le Berenici e le Lede, le Cassiopee e le Veneri a determinare i pronostici, e a influenzare la lettura delle concomitanze.

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XII

“Mi creano dei problemi, quelle colonne”, disse improvvisamente l’architetto, dopo un silenzio così lungo che sembrava avere dimenticato (per snobismo, per astrattezza) la riunione di lavoro in cui si trovava. Il pacco di grafici e di prospetti che aveva davanti, le molte sigarette, l’ora assai tarda e l’educata impazienza degli altri. L ’archeologo e la sua équipe tecnica, invece, avevano discusso e fatto domande fino alla spossatezza; e adesso se ne sarebbero volentieri andati tutti. Al mare o in qualsiasi altro posto abbastanza lontano per non sentire più parlare dello scavo. O almeno: non fino al lunedì mattina seguente. “Soltanto le colonne ? ”, cercò di scherzare lo sfiatato, accaldato archeologo. E pensava: attento, questa è la prima volta che smette la solita arroganza. Che parla senza lasciare cadere assiomi. Che chiede un parere. O almeno confessa un momento di insicurezza. A me, che nell’insicurezza più disordinata navigo, naufrago e nuoto da quando mi hanno mandato in questo posto. Se non da prima. Attento. Se non capisco bene, se sono troppo stanco mi gioco un’intesa che potrebbe cominciare fra cinque minuti. E sicuramente da solo non ci arrivo, in fondo a questo scavo. O ci arrivo: ma delle camere che avrò scavato non saprò poi dire neppure se servivano al culto, agli affari o a delizie private. “Le colonne, sì. Intanto sono tre, davanti a ogni nicchia, e non due o quattro. Dunque sbarrano, e non agevolano il passaggio. Poi sono (apparentemente a capriccio) lisce e striate, doriche e ioniche. Rispettano le misure regolamentari, per carità, e le colonne doriche sono lunghe otto diametri, e nove le colonne ioniche. Ho controllato: le strie delle colonne ioniche sono ventiquattro come devono essere. I capitelli, le rastremature e i piedistalli sono canonici in tutto. Ma non riesco a trovare il criterio secondo cui si alternano i due ordini. So solo che le colonne doriche sono una più delle ioniche. Per il resto, ogni nicchia sembra scegliersi di testa sua due o tre colonne uguali, e avvicinarle o alternarle. Non ho mai visto, non ho mai letto di una cosa del genere. E non sono colonne di riporto, accostate di fortuna. Il marmo è lo stesso per tutte, e viene da cave ancora oggi aperte, a un’ora da qui.” “Io sapevo”, disse il disegnatore, sorpreso e scolastico, “che gli ordini avevano anticamente ragioni mimetiche. Che la colonna dorica rappresentava un uomo alto e robusto, la ionica una bella donna fiorente e la colonna corinzia una -

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ragazza acerba, con riccioli e fiori sulla testa. Sapevo, dunque, che la scelta era obbligata, per un tempio di Diana o di Giove Statore. Ma che ci fanno, qui, tutti questi uomini e donne affollati insieme ? ” “Io sapevo”, disse con esitazione la laureanda tedesca “che le colonne sono in realtà cariatidi, e le cariatidi colonne. Che i begli uomini, e le belle donne, che sopportano dritti e senza lagnarsi un peso orribile (con un cercine o un cuscino sopra la testa per riuscire a resistere più a lungo) sono una fila di schiavi pazienti e disciplinati. Abituati a reggere qualsiasi imposizione, e legati sul posto finché al padrone piacerà di scioglierli.” “Io ho capito”, disse guardandosi le scarpe l’archeologo, “che fossero persone, diverse fra loro e non libere, già a quel primo giro di lampade della settimana scorsa, quando dal buio sono saltate le colonne a stringersi intorno a noi. Ma a me sono sembrate servitori aggressivi, custodi troppo zelanti, sentinelle gelose. Non posso dire, ancora oggi, di essere tornato del tutto in pace con loro. ” “Io pensavo”, disse quasi controvoglia il segretario della missione, “all’altra etimologia delle colonne, quella vegetale. Alberi scortecciati e no, di varie essenze, stretti ad anello intorno a una radura. E mi era venuto in mente che avessero continuato qui sotto a germogliare. Che i faggi, gli allori e gli olivi che stiamo abbattendo sulla collina non siano che propaggini, polloni antichi e ispessiti di questi tronchi fossili.” “Io ho notato”, disse il restauratore, un uomo anziano, “che un’anomalia nelle misure c’è, anche se non riguarda strettamente le colonne. Ma la cornice che corre tutto in giro, sopra l’architrave. Secondo le norme, ha una sagoma divisa in cinque parti, con le proporzioni del profilo umano. Dall’alto, dunque, porta una gola diritta che corrisponde alla fronte, una gola riversa all’altezza degli occhi, sul naso un ovolo, una tenia alla bocca e al posto del mento un cavetto. Ma qui la tenia è alta più del doppio, rispetto al canone. L’effetto è quello di una bocca semiaperta, circolare, che mugoli e gridi ininterrottamente.”

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XIII

Lo scavo sistematico del muro rotondo esterno portava alla luce stranezze sempre nuove. La sua grossezza era spropositata, per dirne una. Quasi due metri di spessore complessivo. Malta e pietrame incerto in mezzo a due facciate di pietre, tagliate e attentamente commesse. Quando giungeva in corrispondenza con le sette nicchie chiuse dalle colonne (un altro numero immotivatamente dispari), il muro si assottigliava, in basso, di circa la metà. E si gonfiava, formando dei lobi regolari. Sette esedre, dunque, di cui cominciava a spuntare la volta dalla terra rimossa. Ancora più sconcertante era stata la scoperta, nello spessore del grosso muro, di un condotto verticale. Poi di due, di tre. E probabilmente (continuando a fare sondaggi) di un’intera serie di pertugi maggiori e minori, che il tempo e le pioggie avevano fittamente riempito di radici e di terra. I condotti (chiusi in alto da grate di ferro ancora visibili per qualche resto corroso) avevano certo messo una volta in collegamento la rotonda nascosta con la superfìcie della collina. Mascherati probabilmente (in origine) da qualche accorgimento grottiforme sotto la vegetazione, tenuti sicuramente sgombri da una manutenzione attenta dall’alto, alcuni di quei cunicoli dovevano essere serviti da sfiatatoi, prese d ’aria, condotti acustici, osservatori del cielo. E (con un semplice sistema di specchi metallici) da presa di luce al grande ambiente interrato sottostante. Altri (due, allo stato attuale degli scavi), cilindrici e più larghi, avevano invece indubbiamente ospitato scale a lumaca, per la salita e per la ridiscesa. Crollati ormai per il peso alluvionale, e ammucchiati in disordine in fondo a due delle esedre, gli stretti gradini curvi e tronchi permettevano di figurarsi una spirale vuota in mezzo e illuminata da sopra. Bella, magari, audace: ma certo vertiginosissima e temibile. Un’idea (più che una pratica concreta, che non doveva esserci stata mai) di commercio fra il buio e monotono mondo sepolto e il mondo vario, indifferente e accidentale che passava sull’erba e sotto il sole. Abituati ormai a rimandare continuamente le interpretazioni (e perfino le ipotesi), l’architetto e l’archeologo si limitavano a scambiarsi informazioni, e corti commenti tecnici. L ’architetto si diceva entusiasta della soluzione (geniale, ripeteva) dei condotti fra alto e basso: che utilizzavano i pozzi lasciati in corso di costruzione dentro a ogni grosso muro per fini statici, e assicuravano -

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stabilmente l’abitabilità della grande rotonda a molte persone. Quando poi scoprì dentro il cavo del muro anche un sistema di condutture idrauliche in cotto che permetteva (con la stessa semplicità) l’irrigazione delle sette esedre e il deflusso delle acque usate, l’entusiasmo diventò l’ammirazione disinteressata di un competente. Simile all’omaggio sportivo reso a un collega noto solo alla lontana che (pur battendo strade a noi personalmente estranee) operi bellissime, improvvide cose, di cui ci sia più facile capire l’eccezionaiità che il senso. L ’archeologo aveva invece un pesantissimo daffare a guidare il lavoro di attento svuotamento a mano (con pale, palette e spazzole) dei condotti individuati nel grande muro. E nello stesso tempo dava disposizioni per il prelievo e l’analisi di campioni nei cumuli di composite macerie (humus, legni, metalli, materiali di costruzione) che ingombravano il pavimento della sala rotonda,e di ognuna delle nicchie dietro le colonne. Un gran traffico di barattoli e di etichette, destinati in parte al laboratorio da campo, ma per lo più alla sovraintendenza del capoluogo. Assorto a vigilare che, sui due fronti, non si venisse meno al rigore necessario, l’archeologo pensava poco e a poche cose. A una, tuttavia, certamente. Al fatto che le scale a chiocciola quasi interamente crollate sul fondo delle esedre mostravano (una volta rimosse) di voler continuare, e in uno stato assai migliore di conservazione, ancora più in giù. E che le ricognizioni con onde riflesse effettuate sul pavimento della rotonda segnalavano (ipoteticamente) una cavità sottostante almeno altrettanto estesa.

XIV

“Ci stiamo giocando, tanto tu che io”, riprese l’architetto un discorso mai cominciato, seduti l’uno e l’altro a bere birra sotto le prime stelle cadenti, “insisto, tanto tu che io, non solo il nostro ridotto prestigio personale (e ti assicuro che niente mi sta meno a cuore). Ma il primato che i nostri due mestieri si sono tradizionalmente arrogati. Non so se sono chiaro. Il predominio sul passato che rivendica la tua presunta scienza. Il governo dell’ordinamento delle cose, cui tiene pazzamente la mia. Ti dirò che mi fa quasi piacere.” L’archeologo la soggezione l’aveva ormai completamente persa. Forse perché -

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troppo stanco e sfatto dal caldo per preoccuparsi degli effetti sull’altro di quello che diceva e faceva. Forse perché le esperienze condivise nelle ultime settimane erano state così forti da spazzare via i riguardi delle età e dei temperamenti. Qualche sbilanciamento nei rapporti fra i due doveva però essere intervenuto, traumaticamente o naturalmente. Era quasi sempre l’archeologo, ormai, a starsene silenzioso e passivo (lavorando insieme) anche per parecchie ore di seguito. E l’architetto sembrava uscito definitivamente dalla parte ironica e condiscendente che si era scelto. Incalzava, ora, prendeva iniziative, poneva problemi. Anche fisicamente, era venuto assumendo un tratto rapido e inquieto di ragazzo. Vistosamente parassitario, se si faceva attenzione alla spossatezza, invece, del tanto più giovane archeologo, alla fatica con cui tirava una giornata dopo l’altra a seguire il lavoro del cantiere. Rispose brevemente, dall’altra sdraio: “Guarda che io sono uno che ha studiato sempre a modo suo, male, per lo più, e che non è riuscito a imparare un senso decente di categoria. Non hai visto come mi trattano, i miei colleghi della sovraintendenza ? Ho l’impressione di subirlo, il passato, di trovarmi sempre intrappolato materialmente in qualche sua piega. Figurati se mi sono mai sognato di cercare di dominarlo. Sono un archeologo nel senso in cui potresti parlare di un archaeopteryx. Schiacciato in qualche occasionale giacitura sotto tonnellate di strati geologici. E la cosa, anche a me, non dispiace affatto.” L ’architetto ora fumava, e guardava le stelle. “Potremmo dire, allora, che tu procedendo verso il basso, io verso l’alto, condividiamo uno stesso modo provvisorio e relativo di trattare gli spazi costruiti ? Il passaggio umano che li logora va cancellandone, in tutto o in parte, proprio la fisionomia funzionale. La ragione della loro fabbricazione e (in teoria) della loro durata. Invece si deformano quasi subito. Sono usati a sproposito. Prendono un’aria incerta e bastarda. Vengono mutilati, o allargati. E, molto presto, saltano proporzioni e misure. Ma alla lunga l’ininterrotta consumazione collettiva riporta misteriosamente la casa, o la città, a un’identità elementare. Che (lo si capisce solo dopo) era già nascosta nel progetto di partenza. Magari mascherata da caduche destinazioni innovative. Una volta emersa, non riesce più a cancellarsi. Al contrario: si conferma con chiarezza sempre maggiore. E tende, stranamente, a mimetizzare la sua natura di artifìcio.” Una pausa, senza che l’altro ritenesse di intervenire. Così fu ancora l’architetto a insistere, a precisare l’idea. “Ripete le semplici forme che dominano nel paesaggio intorno, l’identità antica che emerge dalla consumazione. Si smussa, o si spigola, sul principio di quelle. Così che la città (o la casa), già lungamente -

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dilavata nel colore, finisce per confondersi pacificamente con le linee della collina e le creste dei boschi. Proprio quelle che aveva creduto di controllare. A volte (è l’ultimo stadio) si disfa lentamente, e si interra da sola. E qui il mio mestiere smette e comincia il tuo.” “Non è proprio così”, rispose con una strana voce piatta l’archeologo. “Non è indifferente, se una costruzione.si disfa sopra o sotto terra. Se come un castello di carte, o come una cisterna che si riempie e scompare. Le tue fabbriche conservano un principio di vuoto, espansivo, che continua ad agire fin quando sono in piedi due pezzi di muro ad angolo. Le mie muoiono per invasione del loro vuoto individuale. E allora non spingono più, ma sono spinte. E digerite.” Silenzio. Due stelle filanti, senza che fosse ancora agosto. “C'è un’altra cosa”, disse l’architetto. “Io sto partendo per un mese, un mese e mezzo. Ho una consulenza in Olanda, che ho accettato molto tempo fa. Non ci sarò, quindi, quando avrai finito di sterrare la rotonda e passerai (immagino) al piano inferiore. Tieni conto (se nel frattempo sarai obbligato a un’interpretazione) della grossezza anomala, ingiustificata fin qui, del muro di perimetro. Così spesso, che io sappia, lo si trova solo nelle fortificazioni. Di difesa e di offesa.”

XV

Rimasto solo a mandare avanti il cantiere per le due settimane prima di andare tutti in vacanza, l’archeologo sì trovò (senza volerlo) lo stato d ’animo di un ragazzo a fine scuola, disperso e leggero. Tirare bilanci anche provvisori del lavoro collettivo degli ultimi mesi era per fortuna (in così breve tempo) assolutamente precluso. Bisognava accontentarsi di portare a termine la delicata rimozione delle macerie che soffocavano la rotonda, mandando via via allo studio ogni reperto anche minimo. Si veniva così liberando gradualmente un pavimento incavato al centro, intarsiato con un complesso disegno radiale verde e rosso e circondato da due anelli di gradinate, al di qua delle colonne e delle nicchie. Quando i gradini emersero puliti tutto in giro, l’ambiente assunse improvvisamente un andamento sferico. E un carattere ipotetico di teatro. Senza bisogno di direttive specifiche, i restauratori lavoravano intanto a -

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consolidare gli intonaci e gli stucchi della volta. A fermarne la degenerazione biologica: il bosco di licheni e di muffe che aveva invaso la misteriosa cupola stellata. E dai laboratori della sovraintendenza cominciavano ad arrivare i risultati delle prime perizie sui frammenti di legno, di ferro, di rame. I risultati parlavano di materiali pregiati, di buona fattura. Si trattava (pareva) di oggetti di alto artigianato: strumenti musicali, macchine ottiche. I brandelli anneriti di pergamena, dal canto loro, erano appartenuti sicuramente a costole di libri putrefatti e scomparsi. Ma per dire di più servivano altre ricerche, e un’assai più lunga pazienza. L’archeologo accoglieva ognuna di queste valutazioni precarie e parziali (e i resoconti giorno per giorno della squadra che andava sgombrando la rotonda) con la meravigliata apertura mentale che gli era propria. Senza ritegno e senza riguardi (ora che non c’era più a portata d ’orecchio l’architetto), aveva ripreso la vecchia abitudine di almanaccare svagatamente a mezza voce. Ma teneva troppo alla felice sospensione, all’irresponsabilità regalatagli dal momento, per metterla a rischio scervellandosi su ipotesi generali di interpretazione. Banali o peregrine che fossero. Due settimane ancora (ragionava), e si sarebbe interrotta ogni cosa. Gli operai e i tecnici si sarebbero disseminati in ferie pagate. E lui sarebbe tornato come tutti gli anni al paese, in un’ombrosa casa di donne. A regredire affettuosamente: sapendo che il pericolo di lasciarsi digerire sarebbe durata troppo poco per essere veramente un pericolo. E dopo si sarebbe visto e discusso, con un cervello più sveglio e occhi più chiari. Ma stavolta (cosa ancora mai successa) qualcuno si fermava a fare attenzione a quanto riusciva a capire dei borbottamenti, dei tic dell’archeologo. Era, naturalmente, la laureanda tedesca. Ultima rimasta del gruppo di studenti accettati come osservatori al cantiere, e che stavano ormai certo tutti al mare. Lei invece avrebbe passato tutta l’estate nell’affocata stanza di collegio sulle colline di Zogalia. Probabilmente perché quello era il suo ultimo anno di università e (scriveva a casa) il lavoro della tesi era ancora considerevolmente arretrato. Probabilmente, anche, perché sapeva che a Zogalia, dopo, non sarebbe tornata. Voleva forse fermare e concludere le abitudini di quegli anni. Lavorava a che le memorie (da casuali e abborracciate come erano venute stratificandosi) si filtrassero sospese e perfette. Si costituiva un magazzino mentale per tempi difficili. Un chiuso luogo privato. Di sé la ragazza non parlava. Inizialmente anche per inceppamenti di lingua. Ma soprattutto per un vero orrore a qualunque tipo di espansioni. Così che la sua compagna di stanza non sapeva neppure esattamente di dove fosse. Una piccola città dalle parti di Dusseldorf, pareva: se non addirittura un paesotto. -

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L ’unica cosa certa era che avesse a che fare con il grande Reno. Né si sapeva quanti anni la ragazza avesse: sebbene da notizie frammentarie su studi (e forse lavori) interrotti prima di iscriversi all’università di Zogalia si potesse dedurre che gli anni fossero un paio di più dei suoi compagni di facoltà. Non sapeva neppure, la ragazza che divideva con lei la stanza, chi l’aspettasse in Germania. Ogni due settimane le vedeva nella cassetta della posta (con una regolarità fuori dal mondo anche per la regolata Zogalia) un’unica busta pesante, scritta sopra sempre dalla stessa mano. Probabilmente la madre, pensava, pensavano i compagni. La madre era anche la sola persona di famiglia (o comunque legata alla misteriosa provenienza della ragazza) che si fosse intravista. Quattro anni prima, aveva accompagnato la figlia a insediarsi nella stanza di cemento del collegio, mai cambiata da allora. Alla ragazza che avrebbe occupato l’altro letto (conosciuta da appena mezz’ora, e intimidita davanti all’irruzione di una donna energica con trent’anni più di lei) la madre aveva confidato, in una mescolatissima lingua e in un temporale di raccomandazioni, le sue inquietudini. Le sue ansie. Quanto le costasse separarsi dalla figlia per tanto tempo. E, di seguito, una confusa storia di ricoveri a diciott’anni. Di una malattia legata alle campane e al calare della sera (ma qui forse la tradiva il suo italiano incerto). Di malesseri, di pianti inspiegabili. Di colloqui ad alta voce con la nonna morta. Di momenti di panico davanti a certi rigogliosi cespugli di ribes in giardino, di cui lei stessa, invece (la madre), andava fierissima. Tradotte cinicamente dall’imbarazzata compagna di stanza (che non vedeva l’ora che entrasse a interrompere quell’indelicata alluvione la ragazza, evidentemente trattenuta in basso per le formalità dell’iscrizione), le confidenze non richieste della madre volevano dire che, nella cittadina sul Reno, qualche presunta stranezza aveva suscitato un malvenuto vespaio. E disagio e vergogna per la famiglia. Si era così deciso di spedire la ragazza all’estero, in un esilio di studio, approfittando della sua facilità per le lingue, del guaribile rovello della tarda adolescenza e della fama internazionale (meritata o no che fosse) dell’università di Zogalia. Quanto alle lingue (non si era saputa trattenere dall’aggiungere la madre), la ragazza aveva più che una disposizione: un dono. Le capitava (assicurò) di parlare addirittura lingue difficilissime e mai studiate, in momenti di grande emozione. Sanscrito, nientemeno, ebraico: come attestavano gli orientalisti della vicina Dusseldorf e della lontana Tubingen, che il pastore aveva ritenuto opportuno invitare (su carta intestata) per consulenza. Invece di esorcizzare la ragazza e di farla finita, come avrebbe fatto qualunque parroco di un paese cattolico. -

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XVI

A Zogalia, le campane della cattedrale suonavano (per regolamento) non più di due volte l’anno, nelle feste grandissime: perché non si consumasse troppo il battaglio prezioso, perché non corresse rischi l’inimitabile lega. E quelle grandissime feste la ragazza le passava tutte e due a casa sua, in Germania. Non c’era dunque pericolo, da quel lato, di una nuova crisi. La sera, invece, continuava a calare tutti i giorni, a Zogalia come sul Reno e indubbiamente anche altrove. E certo, si sarebbe potuto notare che la ragazza straniera tendeva allora a cadere per una buona mezz’ora nel mutismo e nello sguardo fìsso. Ma dal momento che dell’identica tristezza si ammalavano contemporaneamente in varie forme (qualcuna anche rumorosa e reattiva) la sua compagna di stanza e quasi tutti gli abitanti della città in età dai sette ai ventotto anni e oltre, per non parlare delle mucche, dei cani e dei cavalli nelle fattorie intorno, il sintomo non era più un sintomo e scompariva completamente dall’osservazione. Più caratteristico era invece che la ragazza avesse sempre addosso gli stessi vestiti, e che sembrasse lavarsi piuttosto poco. Tanto che i suoi colori stingevano abitualmente (anche a motivo di tutto quel sole) gli uni sugli altri. Più chiari restavano gli occhi stranieri, e gli ossidati orecchini. Senza che nessuno glielo avesse chiesto, manteneva nella frequenza agli scavi una regolarità puntigliosa e solitaria che doveva costare (alla sua passiva natura) una costrizione addirittura mostruosa. E qui si sedeva e non si muoveva, attenta a non intralciare il viavai delle carriole, mimetizzandosi come poteva sotto le tettoie e contro i sostegni delle carrucole. Ascoltava gli spezzati e rudimentali discorsi che traversavano il cantiere e (appunto) le farneticazioni dell’archeologo quando le capitava vicino. Senza mai intervenire, forse anche senza capire tutto. Comunque senza una reazione, di sorpresa o di sorriso. Prendeva appunti dentro a una grossa agenda, farcita di fogliettini colorati. Sfogliava, sottolineandolo a matita, un manuale inglese di archeologia pratica: che certo non era previsto dal suggestivo corso sulla Torre di Babele. E ogni tanto tirava fuori dalla sporta dorata che si trascinava sempre dietro un carboncino e un album di schizzi. Sembrava avere ereditato lo stimolo e la capacità di disegnare dai viaggiatori più o meno illustri del suo paese, nel Settecento, nell’Ottocento. E non solo -

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particolari minuti e tecnici dei suoi studi, capitelli e intarsi. Ma cespi di foglie e cesti col bucato, orridi, bestie e cadute d ’acqua. Schizzava, soprattutto, lo stesso edificio a distanze diverse. Prima assai ravvicinato, così che le modanature a definire gli scomparti della facciata, e le bordure dei vestiti delle statue, e i fregi, e le crepe (non progettate) del tempo assumevano un’astratta autonomia, geometrica e centrifuga. Poi a qualche passo indietro, per cogliere fatti ritmici (come la congruenza fra loro delle finestre e delle colonne). E (ancora allontanandosi) studiava il bilanciamento reciproco delle sporgenze e degli incavi, delle zone buie e dei risalti illuminati. Finché, spostandosi la ragazza stavolta fino al limite della distinguibilità dell’edificio, e nel caso di grandi fabbriche camminando via da loro anche per un quarto d ’ora, sul blocco di Fabriano non si fermava che un’impressione di grandi masse articolate. Inanalizzabili, ininterpretabili e di nuovo decentrate e fuggenti, perché mangiate progressivamente daH’aria, e macchiate dalle nuvole e dagli alberi intorno. Forzandola a commentare i suoi disegni, si riusciva qualche volta a ricavare dalla studentessa una sorta di teoria arborescente dell’ornamentazione, che spiegava a ritroso i suoi procedimenti. Arborescente (se l’aggettivo era usato correttamente nella sua originale pratica della lingua) significava l’innestarsi spontaneo di ogni sistema di equilibri in un sistema maggiore e più semplice. E, all’inverso, la coazione (su ogni ordine appena istituito) a ramificarsi e a scindersi in un subordine retto da altri princìpi, visibili solo annullando o sospendendo la configurazione più grande. Significava lo sfogliarsi, a sua volta, del subordine ancora lineare in riccioli e volute ad esso assolutamente ripugnanti. E, scendendo, un progresso di dispersione centrifuga, un proliferare sempre più fìtto e verminoso di impulsi ciechi. Nell’artificiale, nel costruito gira l’identica spinta alla dissoluzione che muove il mondo biologico. Il controllo sulle cose è minacciato, allo stesso tempo, dalla periferia e dal centro... Ma qui la ragazza si confondeva. Sudava. Balbettava sciocchezze. Si puntellava con frasi tedesche. Rovinava miseramente, ripiegandosi, richiudendosi. Anche perché accadeva sempre verso sera (nel suo più diffìcile momento) che qualcuno si accorgesse di lei, ferma da tutto il giorno in disparte a scarabocchiare nel suo blocco, e le ponesse questo tipo di domande. La spingeva, di regola, a una tale disperazione che la ragazza si giurava di morire, piuttosto che rimettersi il giorno dopo a quel rischio. Ma il giorno dopo finiva poi per ricapitare, alla stessa ora di sempre. Fu invece una mattina che l’archeologo, capitatole accanto nel suo affannato 34

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girovagare per il cantiere, scoprì che almeno una persona, nel gruppo degli studenti, non era partita ancora per il mare. Chissà poi perché, dato che non poteva supporre che lei fosse come lui pagata per prendersi un giorno dopo l’altro il sole rovente. Né che dovesse dar conto a qualcuno sull’uso del suo tempo. Così si fermò improvvisamente accanto a lei, interrompendo l’abituale monologare a mezza voce che, quella mattina, verteva sugli astrolabi in genere. E in particolare sulle briciole di astrolabio trovate nella sala rotonda. (Sulle sfere stellate ordinate da Nerone, a bilanciamento idraulico. Sull’utilità generale dell’osservazione del cielo: che solleva da quest’aria opaca e seduce gli occhi del corpo, come quelli della mente, a una regione più alta, sfavillante di splendidissima luce.) E gli venne in mente che la ragazza soffriva forse più di tutti quell’umido luglio, abituata come doveva essere a giornate d ’estate interminabili, trasparenti, fra betulle e laghi. Che il suo professore si era occupato di lei ben poco, limitandosi come aveva fatto a presentargli il primo giorno lei e il gruppetto dei suoi compagni di corso, e abbandonandoglieli praticamente fra le braccia. “Studenti dell’ultimo anno. Bravi, Appassionati. Hanno tutto da imparare, dall’osservazione concreta di uno scavo. E non le daranno fastidio, le assicuro. Gli ho detto di limitarsi a prendere appunti sui metodi e sui tempi di lavoro. Di non far perdere tempo. Di non fare domande.” Pensò anche che i suoi compagni avrebbero potuto evitare di lasciarla lì sola, a presentarsi ogni giorno agli scavi senza aspettarsene niente. Per semplice disciplina, per automatismo, per mancanza di nuove istruzioni. Che avrebbero potuto, invece, spingerla a marinare anche lei le imposizioni del professore della Torre di Babele. Magari portarla un giorno a fare un bagno, in quel mare a mezz’ora di macchina: e, un altro giorno, invitarla a mangiare in famiglia. Se proprio avevano deciso che non era il tipo di ragazza da portare fuori. Decisione, poi, che si sarebbe anche potuta discutere. Bastava probabilmente un altro vestito, i consigli di un’altra ragazza, un po’ di trucco, un po’ di voglia. Oggi, poi, aveva un’aria particolarmente abbattuta. Era possibile che non si riuscisse neppure a dormire, nel forno che dovevano essere diventate le stanze di cemento del collegio. E certo anche la compagna di stanza se n’era andata a casa. E le biblioteche erano chiuse. Zogalia, che durante l’anno accademico civettava con i suoi studenti stranieri, offrendo loro film in versione originale, concerti rock e pancakes nei bar la mattina della domenica, tornava d ’estate provinciale e gretta: coi tavolini del tressette in piazza e la processione del patrono. -

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Gli venne voglia di essere gentile con lei, senza però sapere bene che cosa dirle: non conoscendo di lei che qualche inquietante diceria sui suoi lati bizzarri e (con gratitudine) la scialba presenza sullo sfondo che aveva accompagnato le emozioni e i rovelli degli ultimi mesi. L ’emergere della cupola e delle mura, l’esplorazione della rotonda ancora nascosta, il sospetto di più profondi sotterranei. Che altro ? Attaccare discorso alla maniera dei seduttori da quattro soldi, ricorrendo all’unica poesia tedesca che sapeva a memoria (nobile, per altro: Der Erlkónig), gli pareva puerile. A Dusseldorf non era mai stato. Degli studi di lei ignorava tutto. Si trovò così a parlarle, con una grazia seria e diretta da ragazzo, del problema su cui rimuginava dalla mattina. I tecnici della sovraintendenza erano sicuri che certi frammenti curvi di ferro e di rame, che certi pezzi di vetro convesso trovati nei mucchi di detriti della rotonda fossero appartenuti a strumenti astronomici d ’epoca. Anche abbastanza sofisticati: ma non sufficienti, quantitativamente, a fare pensare a un vero osservatorio sotterraneo. E per quale ragione al mondo un osservatorio avrebbe avuto bisogno di un muro grosso due metri ? Lei lo ascoltava come ascoltava sempre. Gentile, sfatta, passiva. Sporca: a starle così vicino lo si vedeva chiaramente. Ma sporco si sentiva anche lui, con quella polvere, con quel sudore. Era una vera compagna di lavoro, non un’osservatrice. Gli sarebbe venuto naturale darle disposizioni, o chiederle un parere: dato che nessuno come lei sapeva tutto dello scavo, praticamente dal primo giorno. Ma l’avrebbe sprofondata nel terrore, dandole delle responsabilità cui non era preparata. Si indovinava, infatti, un suo accordo assai labile con le iniziative del mondo esterno, un armistizio diffidente, una tremenda fatica a stare ai patti. Ma quell’intervento inatteso sulle colonne (l’unico che le avesse sentito fare) era stato attento, giusto. E perché mai una ragazza così giovane doveva stare al mondo con tale sforzo, stringendo i denti, economizzando le energie ? Anche passando a darle del tu, lui, il direttore dello scavo, l’avrebbe spaventata. Si rassegnò a pagare lo scotto dei pochi dieci anni che doveva avere più di lei, e dandole sempre del lei (Sie) le propose di fare insieme una corsa al mare nel pomeriggio. Dopo l’orario di lavoro, s ’intendeva. Certo, passando prima dal collegio a prendere il costume da bagno di lei. Lui, il suo lo teneva perennemente nel portabagagli. Così, bene o male, si sarebbero lavati. E poi a lui era sempre piaciuto fare il bagno di sera.

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XVII

Gli ultimi cinque giorni di apertura del cantiere, la laureanda tedesca scomparve. Non tornò più. In tutti si fece strada, sotto le occupazioni, la meraviglia. Prima attraverso un disagio indefinito, una sensazione di incompletezza. Poi con il riconoscimento esplicito di un disordine nelle cose, di un ingranaggio inceppato, di una violazione a qualche legge mai formulata. Non solo l’archeologo, che riteneva di essere da poco entrato con lei in uno stadio di conoscenza ancora armato, ma sostanzialmente fiducioso. Ma anche gli operai locali, e l’équipe della sovraintendenza. Si resero improvvisamente conto di quanto a lungo quella muta e inerte compagnia avesse occupato uno spazio concreto, gettato un ’ombra personale e solida. La sensazione trovò sbocco in qualche sporadica domanda, in un paio di commenti che altro non erano se non constatazioni di assenza. Non c’era modo di informarsi su di lei, sapere che cosa le fosse successo, nel lavoro frenetico degli ultimi sondaggi, delle relazioni ufficiali, dell’attrezzare la bocca dello scavo per una chiusura temporanea. E, d ’altra parte, a che titolo telefonare o chiedere notizie ? C ’era soltanto da rallegrarsi che la ragazza avesse finalmente capito il disinteresse (se non la beffa) del suo relatore. E che si fosse decisa a prendersi, in coda al gruppo, una vera vacanza. E venne il giorno degli ultimi pagamenti agli operai, delle spedizioni dei campioni ai laboratori, degli appuntamenti di lì a un mese, della consegna del cantiere a un custode. Non a quello dell’estate prima, entrato nel frattempo come aiuto portantino in prova all’ospedale di Zogalia. Ma al cugino del ragazzo col trattore: che con quella gamba lesa occupava una posizione assai avanzata nelle liste del collocamento, ogni volta che si trattasse (come in questo caso) di lavori sostanzialmente sedentari. E risultava anche capofamiglia, essendosi recentemente sposato, non senza l’opposizione dei genitori e degli zii: che lo trovavano troppo giovane e mai rimessosi bene dalle sue svagatezze. L’archeologo aveva già comprato il biglietto di treno per andare a casa. Cosa che da qualche tempo faceva con sempre maggior fatica. L ’ultima volta, si ripromise (non per la prima volta). Pensò all’interrogatorio che si aspettava dalla madre sull’uso delle sue serate in città. (Le giornate di lavoro e di studio, presentando assai minori pericoli di dissipazioni, ricevevano invece da lei scarso -

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interesse.) Pensò alle lontane, e ingrassate, e intristite compagne di scuola: che, come per caso, continuavano a capitare in visita dalla madre nel corso del suo agosto al paese. Alla tremenda rassegnazione degli amici di quand’era ragazzo, che li gonfiava anche fisicamente, che gli aveva fatto perdere i capelli e arrochito la voce. L ’anno prossimo faccio un viaggio in Scandinavia. In Turchia. In Spagna. Non costa poi tanto, l’aereo, e una volta lì io so vivere di poco. O mi faccio invitare da qualche missione di scavo americana, di qua o di là del Mediterraneo. Magari mi ritrovo in un paese identico al mio, polveroso e laconico. Ma non mi conosce nessuno, e lì io sono uno studioso straniero, un potenziale benefattore turistico. No, meglio un’isola, dove non vestirmi mai e portarmi dietro dei libri. Ma se le isole mi hanno sempre fatto venire l’angoscia. L ’abbandono. Penso sempre che si mettano di notte ad andarsene alla deriva, che i traghetti non riescano più a ritrovarle, che si facciano risucchiare in un vortice, che tutti gli abitanti si buttino, d ’intesa, un giorno a nuoto, e mi lascino al mio tavolino di bar, senza la possibilità di sapere mai che cosa è veramente successo. Meglio una grande città. Meglio una città piccola. Meglio una casa isolata di campagna. Meglio la mia solita stanza alla sovraintendenza, con un ventilatore, sonniferi e un giro di chiave. Chiusi doverosamente i registri di scavo, consegnò ai suoi superiori della sovraintendenza i consuntivi di spesa e tutte le relazioni. Passò a controllare l’imballatura e la schedatura dei frammenti puliti. Fece la valigia e sistemò la sua stanza come per un’assenza assai più lunga. Ma prima di andarsene senza più combattere al paese, per l’ultima volta (o almeno per una delle ultime), gli venne in mente di provare a fare un salto al collegio femminile di cemento, in cima alle colline di Zogalia. E lì, dopo molto inutile bussare, sbucò fuori da gualche parte la portiera. Gli raccontò di una notte intera di ululati animali, di mugolìi, di singhiozzi che non finivano di dietro la porta chiusa. Del medico di turno all’ospedale (chiamato d ’urgenza) che aveva detto soltanto: “Brutta cosa, l’estate, per questi m ali.” Della madre, che il giorno dopo era scesa dalla Germania a portarsi via la ragazza.

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XVIII

Per tutta la durata della notte in treno, l’archeologo si sforzò di rievocare minutamente le frasi e i gesti della loro unica chiacchierata, quel pomeriggio al mare e poi mangiando insieme pesce fritto in qualche posto lungo la costa. Lei aveva detto, per esempio: “Io credo di non essere nessuno, e non nel senso che lei potrebbe pensare (e che è giusto), che non conto, non so, non ho ancora fatto. Ma nel senso del niente. Parlo con lei di colonne, con mia madre di torte di uvaspina, con i miei compagni dell’esame. Perché me lo chiedete. Se posso farne a meno, non parlo. Con me non parlo. Quando ho letto un libro, l’ho veramente finito. Quando guardo un paesaggio, o un quadro, quando vedo un amico, andandomene non me lo porto dietro. Ricordo moltissime cose di quand’ero bambina. Sicuramente molte di più e molto più chiare di quanto si riesca a ricordare di solito. Ma non me ne faccio niente: stanno lì. Vado a letto senza fare storie con chi me lo propone. Ma il giorno dopo mi alzo e vado via.” E aveva detto ancora, sempre usando correttamente il lei che sembrava ormai così naturale, così adatto al loro incontro: “Al tempo non penso mai. So che lei non potrebbe fare il suo mestiere se non credesse almeno al passato. Io non ci credo. Il tempo deve solo andarsene, e lo fa così lentamente, con tale fatica. Quando sono sola faccio quasi sempre delle patiences, come si dice in italiano ? solitari. E faccio le parole incrociate. I miei amici ne hanno un vero orrore. Dicono che se ne sentono soffocare. Sommergere. Io neppure le amo. Ma le faccio, così vengono le cinque e le sei. Quand’ero più piccola temevo la sera. Adesso temo il pomeriggio, e anche la sera. So che finirò per temere l’alba, il pomeriggio e la sera. Risalendo ancora alla rovescia, comincerò ad avere paura anche della notte. Non potrò dormire, e farò parole incrociate e patiences senza smettere mai.” Si rigirò nella cuccetta, ormai rassegnato a non prendere sonno per quel viaggio. Brutta cosa l’estate, aveva detto il dottore. Brutta cosa. E venivano le frasi più dure da ricordare. “Ci sono dei quadri, in Germania, d o v e rappresentata l’estrazione della pietra della follia. Somiglia alle scene di cavadenti. Ci sono sempre tre o quattro persone che mangiano, ridono, ballano; e dei bambini che giocano per terra. Due tengono fermo per le braccia e per il mento un tale seduto all’aperto, con la faccia contorta e la bocca spalancata. E c’è un vecchio con gli occhiali, in piedi, che con un ferro -

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curvo gli scava dentro la fronte. Ne tira fuori un sasso insanguinato. Lei crede al tempo, mi ha detto. Sono quadri dell’epoca in cui, qui, si costruiva Zogalia. Ho letto la storia. So che l’hanno fatta di pietre contate, di misure esatte. Di quadrature, intricamenti e colligature proporzionate (e qui forse si smarriva il suo pur splendido italiano). Ogni materiale, ogni colore, ogni forma si inserisce perfettamente nel disegno complessivo. Ma non crede che facciano più male, quelle seducenti scanalature di colonne, degli spigoli vivi del sasso nella testa ? Ci sono luoghi dove per niente si perde il senno, ci si impicca e ci si butta giù. E non si tratta sempre di rovine, o di luoghi spettrali. Sinistro non vuol dire lugubre.” Basta, basta. Mancavano forse meno di due ore. E alla stazione avrebbe certo trovato ad aspettarlo sua madre. Anche se lui la pregava tutte le volte di restarsene a casa. Sarebbe arrivato anche da solo. La strada la sapeva.

XIX

A ll’inizio di settembre l’archeologo, che aveva smesso di essere tale per qualche settimana, si ritrovò seduto davanti al suo telefono d ’ufficio. Frastornato e con un diavolo per capello (dovuto certo anche ad altro) si sforzava di rimettere in piedi la baracca asmatica del gruppo di scavo. Nemmeno uno (ma questo avrebbe dovuto aspettarselo per non restarci così male), nemmeno uno aveva mantenuto gli impegni presi prima di sciogliersi. Non erano pronte le tabelle di descrizione e di datazione dei reperti. Il restauratore era in congedo per motivi di famiglia. Il segretario della missione aveva ripreso troppo tardi i contatti con gli operai: che dunque erano ancora tutti per una settimana o due occupati nei lavori agricoli. Faceva molto caldo e i suoi superiori diretti, che avrebbero potuto aiutarlo a saltare qualche passaggio burocratico e riprendere la missione più efficacemente in mano, non si erano ancora fatti neppure vedere. Non importa, pazienza, patience, si ripeteva lui, facendo esercizi mentali di tolleranza nei confronti dell’universo intero. Con scrupolo raddoppiato (nei giorni che suo malgrado gli avanzavano) studiava di nuovo i preventivi di spesa, riguardava gli illeggibili appunti presi in piedi. Riguardava anche le sue relazioni: per eliminarne con grande cura tutte le notazioni che andavano al di là dell’impersonalmente descrittivo: che ponevano problemi, o (peggio) -

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immaginavano soluzioni. Cercava di figurarsi concretamente se i pochi soldi e le poche settimane sarebbero bastati per aprire, e per esplorare soddisfacentemente, il grande ambiente che si sospettava sotto la rotonda. Il ritardo coatto possedeva del resto anche un suo potere quietante. Lo accoglieva con gratitudine, come si fa con gli intralci della sorte che obbligano a sospendere un’avventura seducente, ma assai temibile. Sopravvive (pensava), nello studioso, nel tecnico, il richiamo di minaccia e di desiderio che dal fondo di ogni grotta sale al bambino a cui capiti di affacciarcisi. Continuava a proibirsi le ipotesi: ricordandosi la severità (su questo punto) dell’architetto, che per la lontananza era venuto assumendo tratti del tutto immeritati di maestro e di padre. Ma soprattutto per la piccola probità scientifica che resiste alla tentazione di leggere un sistema in un complesso casuale e ancora aperto di dati. A maggior ragione si tratteneva dal cercare (nelle poligrafìe del passato) le storie di favolosi sotterranei, i tesori sepolti di Astiage e di Nino, le catacombe ereticali, i viaggi agli inferi aperti sotto le acque di un laghetto vulcanico. Ma non poteva fare a meno (ripensando a distanza all’esperienza della grande sfera stellata sottoterra) di ossessionarsi dell’opposizione fra quell’esterno ottuso e cieco, le grevi muraglie, l’informe copertura di arbusti e di zolle, e quell’interno accentrato e geometrico. Se veramente, come sembrava di capire dalle analisi, i resti sbriciolati di metallo, di pergamena e di legno testimoniavano di una collezione mescolata di strumenti musicali, di libri, di macchine fisiche, ottiche, astronomiche, matematiche, la rotonda materializzava (nel corpo del paesaggio collinare) una sorta di cervello, una memoria collettiva. Un deposito teoricamente completo della sapienza e dei metodi di un’intera civiltà, protetto contro qualche calamità storica o naturale segnata nello zodiaco. Un’arca contro le inondazioni o i grandi incendi. La basilica sotterranea di un culto misterico. La cripta di una setta perseguitata. La cella funeraria di una famiglia o di un intero popolo, braccati e spaventati dalla cancellazione. L’avvilimento che lo coglieva leggendo sui giornali la pubblicità dei rifugi antiatomici l’aiutava a paragonare quell’antico sforzo di conservazione e il presente, che si accontenta della sopravvivenza personale. La differenza (gli pareva) somigliava a quella che corre fra un’eredità in denaro e una raccolta ricevuta di quadri. Anzi, una vera quadreria patrizia: di quelle condotte per temi o (capricciosamente) per colori dominanti, per alberi, per nudi. Ogni quadro scelto e commissionato per amore solo di se stesso era stato lì combinato con cento altri in una distesa mobile, dall’altezza d ’occhio al soffitto: dove a seconda dell’ora del giorno e dell’umore affiorino e si inabissino serie legate a labili e sempre -

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diverse associazioni, seguendo il percorso di un filo di rosso, di una nuvola; e non per scelte di firma o di pregio. Ci vollero quasi dieci giorni, prima che il gruppo di scavo potesse ritrovarsi al completo sul noto cantiere, con le attrezzature e le macchine. Si trattava ora di eliminare il tavolato che ne aveva chiuso provvisoriamente l’imboccatura, e di riprendere l’esplorazione del sotterraneo dal delicato punto in cui era stata interrotta. Subito prima, cioè, dì liberare anche il secondo tronco di scale, che portava a scendere ancora più giù.

XX

Il gruppo di scavo non era in tutto identico. L’architetto, intanto, che avrebbe già dovuto essere di ritorno da un pezzo, non aveva dato di sé nessuna notizia. Il restauratore era sempre in permesso: ai motivi di famiglia (pareva) era subentrata una malattia. Lo sostituiva un’inespertissima nuova recluta della sovraintendenza. Intelligente: ma ci sarebbe voluto del tempo, prima che riuscisse a inserirsi efficacemente nei ritmi comuni. Nuovo era anche qualcuno degli operai: perché c’era chi, a settembre inoltrato, non se l’era sentita di lasciare a se stessi la vigna e gli olivi. Ma i cambiamenti sono utili, tanto ai singoli quanto ai gruppi. L ’archeologo sembrava ora contento di ricominciare, emozionato. E siccome non tutti (fra i nuovi) sapevano della consegna di girare al largo quando gli capitava l’estro delle divagazioni a mezza voce, trovava sempre qualcuno cui passare le sue storiette peregrine. I frutti della più recente incursione in biblioteca, nei giorni appunto in cui si era proibito di leggere qualunque cosa sui sotterranei. Invece aveva letto dell’umanista che si era messo in viaggio per la lontana Scozia con l’intenzione di verificare una leggenda. Su un certo albero in riva a un fiume crescevano in Scozia come frutti (si raccontava) le anitre selvatiche. Giunte a maturazione, se cadevano sulla terra secca ci restavano a marcire: ma se cadevano in acqua si animavano d ’improvviso, e prendevano il volo. Una volta penosamente arrivato, il dotto si era sentito dire che l’albero nasceva, sì, ma in Irlanda. E aveva commentato: scappano sempre, i miracoli, quando ci si avvicina. Poi c’era una storia più esotica, una ricetta magica persiana. Se si mette della salvia a putrefarsi su un letamaio (stando attenti a che il sole e la luna occupino, -

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con la stessa angolatura, la seconda casa del Leone), la salvia genera un merlo mostruoso, con la coda di un serpente. E se si uccide quel merlo, lo si fa a pezzi e lo si riduce in cenere, e un po’ di quella cenere la si versa sulla lampada (del tuo nemico, si suppone), gli si riempie tutta la casa di serpenti, che durano un’ora, o una notte. Ma non erano poi del tutto peregrinii. o solo scaramantici (per chi si preparava, come loro, a scavare sottoterra), quei raccontini di serpenti. E se fosse arrivato l’architetto lo avrebbe capito. Perché, come la pietra della follia, appartenevano clandestinamente agli stessi anni che avevano fabbricato Zogalia e il grande edifìcio sulla collina, disseppellito solo per metà. Una biscia srotolatasi sotto la prima pietra sm ossa era stata a suo tempo il presagio di fortuna della città. Un serpente stellato si torceva dentro la cupola sepolta. E la più profonda familiarità lega fra loro il Supremamente Semplice e il Supremamente Artefatto.

XXI

La seconda rampa di scale non scendeva più in chiocciola ma (a sorpresa) diagonalmente, e senza interruzioni per tutta la lunghezza del muro. E il muro da circolare si era fatto, nel piano inferiore, squadrato. Ancora più spesso: per resistere tanto al peso della grande rotonda, quanto alla spaventosa pressione centripeta delle masse di terra accumulate intorno. Una volta sgombrati pazientemente i gradini invasi, emerse con grande chiarezza l’artifìcio che aveva progettato le scale, simmetriche e inverse, dentro due muri affrontati. Perché una troppo lunga serie di scalini sbigottisce l’immaginazione, e presenta alla vista l’aspetto di un precipizio aperto sotto i piedi. E qui l’assenza di ogni pianerottolo (di qualunque pretesto di riposo) serviva evidentemente a rendere vertiginosa, ineluttabile, la chiamata a scendere di chi avesse anche solo messo piede sul primo scalino. Sarebbe stata una caduta guidata, più che una discesa; e diretta verso un obiettivo sicuro, ma fino all’ultimo insospettabile. Né si riusciva a figurarsi (guardando dall’alto la fuga traversa del cunicolo gradinato, che verso il fondo sembrava per la distanza arrotondarsi e stringersi) se fosse mai stata prevista una risalita: tanto forte potere di attrazione doveva avere assegnato il progettista agli ambienti nascosti dove conducevano quelle scale. -

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Esiste forse una legge ottica, rifletteva confusamente l’archeologo (questa volta senza passare al vaneggiamento a mezza voce) per cui le scale d ’infilata all’aperto tendono sempre a comparire convesse, a occultare le linee di innesto di destra e di sinistra, a stringersi in un arco che viene accentuandosi, come per insofferenza e ribrezzo, sotto i piedi di chi le scende. E finiranno (se indugia) per scaraventarlo contro la facciata del palazzo di fronte, espellendolo come un parassita. Deve poi esistere un’altra legge (visiva, prima che psicologica) che fa invece sì che le scale interne affondino al centro e si rialzino ai lati; trasformandosi in una canna cava, succhiarne, che sommerge ogni resistenza dentro una naturale esperienza di ritorno. Ben poca aria doveva arrivare fino in fondo. E meno luce, anche continuando a supporre un perduto sistema di specchi. Ma forse sufficiente a una sopravvivenza sonnolenta da talpe: dato che la protezione di milioni di metri cubi di terra doveva assicurare una temperatura costante, senza bisogno di accendere fuochi che consumassero ossigeno. L ’architetto arrivò senza avvertire, come chiamato, il giorno stesso in cui dal fondo delle due scale si cominciava a sterrare l’ingresso all’ambiente nascosto, con colpi di pala che riecheggiavano profondamente. Era assai dimagrito, così che la sua costituzione massiccia si snaturava in una curiosa consistenza di tartaruga. E aveva nere occhiaie, e una bocca disgustata. Ma lo trovarono vivo e acuto come nei momenti migliori. Non raccontò (naturalmente) dei due mesi all’estero; e al cantiere lo conoscevano ormai abbastanza per non permettersi neanche un’allusione. Come se non si fosse mai interrotta, si ristabilì nell'attimo della sua ricomparsa l’antica assegnazione delle parti. L ’archeologo ritrovò l’interlocutore navigato su cui rovesciare interi cataloghi di dubbi teorici. E l’architetto ricominciò con grande naturalezza a non rispondere a neppure uno di quei dubbi; a spostare il discorso lateralmente, in un apparente vagabondare per periferie e terreni di nessuno. Riprendevano, così tutti e due a sollevarsi a vicenda (senza parere) del peso di rappresentatività scetticamente indossate; sapendo di portare al naufragio, in quella singola esperienza condivisa, tutte le tradizioni di pensiero e di pratica entro cui avevano fino a quel momento lavorato.

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XXII Sigillata dalle scale diagonali riempite di terra, sfuggita alle colonie animali e alle radici che avevano devastato la rotonda, isolata (per l’interporsi della rotonda stessa) dalle vicende del soprasuolo, la profonda sala quadrangolare, pensavano, si era forse perfettamente conservata. E ormai per accertarlo bastava forzare il sottile diaframma di terra rimasto in fondo alle scale. Ma l’esplorazione della sala dovette aspettare che per qualche giorno ne sfiatasse il terribile odore, e vapori grevi e visibili: che di notte s ’incendiavano qualche volta in fuochi fatui. L ’architetto, che possedeva nella sua casa di Zogalia una bella terrazza a portici, si fermava qualche volta a guardare svolazzare quegli stracciati chiarori. L ’archeologo (che dalla sua stanza d ’albergo non riusciva invece a vedere niente) fu costretto a salire in macchina, un paio di volte, sulla collina per assistere a quel fenomeno sconosciuto e tutto letterario. Seduto sull’erba, senza avvicinarsi troppo perché da vicino i bagliori impallidivano fino a sparire, fiutava l’aria e studiava le irregolarità, la convulsa violenza, di quel bruciare silenzioso. Si figurava (assecondando la credenza) che una vera torma di anime migranti, gonfia e fitta come di vespe, fosse sciamata per il buco che lui aveva fatto aprire nel grande cavo murato, sfregandosi contro l’aria in quelle accensioni. Anime; o più correttamente tempeste di neuroni, vortici di elettroni, dissipazioni di energia, stappate e sprigionate dopo parecchi secoli, (spiriti della bottiglia, ginn di Aladino) dal ventre della collina dove avevano visto, passato, pensato, penato irraccontabili e certo assai tristi cose. Diradatisi i vapori, defluiti i gas, forzata l’aereazione dell’ambiente con i tubi giù per il condotto delle scale, si decise che fosse venuto il momento di una regolare esplorazione. A differenza dalla prassi informale seguita nel momento di saltare giù nel primo buco, si rendeva ora necessaria una vera spedizione iniziatica. Calarsi nella rotonda su scale assicurate ormai in modo molto più stabile. Traversare la grande rosa dei venti; la quadratura del cerchio istoriata nel pavimento. Salire i due gradini circolari che un tempo erano serviti da sedili. Infilarsi (da destra o da sinistra della colonna centrale che ostacolava il passaggio) in una delle due esedre dove sboccavano le scale, e che dovevano essere state a lungo abitate. E finalmente (ognuno con la sua lampada in mano) imboccare il -

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precipitoso cunicolo diagonale che alloggiava la scala. Scenderla cautamente in fila indiana, obbligati dalla strettezza del pertugio: e non certo per sottolineare il lato cerimoniale dell’itinerario. Il primo posto della fila spettava, anche formalmente, all’archeologo: che tuttavia non ci teneva affatto e aveva cercato (senza successo) di cederlo a qualcun altro, per avere il tempo di controllare le proprie aspettative. Ma tutto il gruppo scendeva ad accompagnarlo, per curiosità, per solennità. Il fotografo, l’architetto, la nuova restauratrice, gli operai, il segretario, i tecnici. Con l’eccezione del custode, che per quella sua gamba rigida avrebbe faticato troppo arrancando su e giù per i ripidi scalini; che, soprattutto, detestava le intere categorie mentali dell’umido e del sottoterra. (Specie con quel luminoso sole di primo autunno). E con l’altra eccezione del macchinista della scavatrice, affittata a giornate, che non poteva permettersi di interrompere il lavoro. Scavalcarono, uno alla volta, le macerie ancora ammucchiate ai piedi della scala. Svoltarono, uno a uno. E ricordando l’esperienza fatta al piano di sopra (il grande balzo espansivo, estensivo, della rotonda dal buio), rivolsero il raggio delle lampade prima orizzontalmente in giro, poi verso l’alto. Ma non potevano aspettarsi che i dieci getti di luce venissero invece violentemente ribattuti contro di loro da una selva fitta e profonda di colonne nane. Colonne gonfie e torte, come se fosse venuto lentamente deformandole l’insopportabile peso, la tremenda oppressione del soffitto basso. Come se, contro quel soffitto, le colonne non avessero ancora finito di combattere: e si attendessero invece (in un futuro non lontano) di soccombere definitivamente: piegandosi, spezzandosi e permettendo finalmente al solaio, alla cupola e all’intera collina di rovinare docilmente sopra se stessi. Soltanto allora avrebbe avuto pace la legge naturale tanto a lungo offesa dall’insolenza di quegli immensi spazi vuoti, inutilmente puntellati. Pretendevano, quei vuoti, di garantire un luogo permanente di osservazione, di dimora e di controllo proprio lì dove ogni cavo è destinato prima o dopo a riempirsi, e ogni resistenza è travolta in un movimento a spirale (gravitando e risalendo, sassi, animali, fanghi e piante; inabissandosi e riaffiorando altrove). Dove il solo progetto coerente è il disfacimento e l’indifferenziazione progressiva dell’ambiziosamente progettato. Dove le cose eterogenee e le complesse subiscono una necessaria riduzione: scomponendosi, semplificandosi (e solo allora ricombinandosi con altri semplici); metabolizzandosi secondo nuove formule in prodotti altrimenti complicati, dotati di qualità e di possibilità assolutamente ignote alle loro componenti originarie. Ma non portava ancora nessun segno di incurvamento, il soffitto quadrato, -

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piano e senza decorazioni. A differenza da quanto era accaduto scoprendo la volta (che aveva attratto immediatamente gli occhi di tutti), in un ambiente così dilungato e basso lo sguardo era quasi obbligato a evitare il soffitto troppo vicino. A muoversi orizzontalmente: e subito dopo verso il basso. Indugiarono, così, a studiare invece il pavimento. E sebbene si fossero aspettati di trovarlo sostanzialmente intatto (grazie alla secolare chiusura ermetica delle due scale d ’accesso), nessuno avrebbe mai creduto che potesse essere anche tanto lavorato, levigato, di ossidiana compatta e uguale. Le bocche d ’aria usate più di una settimana per l’aereazione avevano evidentemente risucchiato ogni strato di polvere, se il pavimento si stendeva in ogni direzione lucido e nero, riflettendo come in uno stagno cupo le colonne e il soffitto. Nel buio rotto appena dalle lampade, una soffocazione di natura mentale impedì a tutti (per un certo tempo) di mettersi a girovagare fra le colonne. Come temendo di venire schiacciati da un improvviso, logico e troppo a lungo rimandato collasso delle travi, o di annegare nell’ingannevole specchio di acqua torbida del pavimento. Pure, baluginavano qua e là oggetti incerti che avrebbero meritato che ci si avvicinasse a studiarli con qualche attenzione. Fra tutti, quello che si distingueva meglio, perché sistemato sul fondo immediatamente di faccia alla porta d ’ingresso, e perché inquadrato e sottolineato dalla fuga prospettica delle colonne, era un busto mutilo di statua classica. Un’Anadiomène: da quanto si poteva capire da un mozzicone di avambraccio levato, e dai resti di una mano che teneva raccolti i capelli. Ma le mammelle alte e il bel ventre liscio apparivano circondati da tre o quattro giri di catena di ferro, che certo doveva essere ormai tanto rugginosa da sfarinarsi appena toccata. E i bianchi occhi calmi e la tenera bocca erano stati umiliati da una stretta gabbia incrociata di metallo e di lacci. Una sorta di museruola.

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XXIII

Doveva avere sbilanciato qualche laboriosa tregua locale fra terra, alberi e aria, quella disordinata fuga di fantasmi e di fuochi fatui su per i buchi trasversali delle scale. Con il ritardo di alcuni giorni, il gruppo che scavava si accorse infatti di un gironzolare crescente di cani randagi su e giù per la collina. Si cominciò a intrawedeme uno soltanto: poi due, tre, fino gradualmente a otto o nove. Storti, arruffati e magri: ma silenziosi, e curiosamente remissivi. I cani prendevano a comparire verso sera: al momento in cui si smontava, si ripiegava e ci si preparava per andarsene. Allora i cani si stringevano in giro allo scavo, e si accucciavano senza rumore intorno agli ultimi arbusti non divelti. Gli arbusti avevano subito anch’essi una mutazione: visibile a colpo d ’occhio anche a chi (distratto dai compiti concreti di ogni giorno) avesse mancato di notare come si fossero totalmente tacitati i canti d ’uccello che, soprattutto nelle ore della mattina, usavano altrimenti sfrecciare e intersecarsi variamente per l’anello superstite di bosco. Come, la sera, non si vedessero più filare fitte e cupe le rondini. Pareva che, come nella storia del notabile romano insonnolito e attediato per il gran chiasso notturno d ’uccelli intorno alla sua stanza, qualcuno si fosse preso la briga di sistemare un tremendo spauracchio; e un interminabile serpente dipinto circondasse come allora (mangiandosi la coda) il cantiere. Gli alberi e gli arbusti più vicini allo scavo sembravano dunque colpiti da una sorta di accelerato autunno. Risaltavano (contro i molti più in basso che cominciavano appena a colorarsi) come uno sfolgorante anello rosso, bizzarramente simmetrico. Lì sotto, i cani restavano probabilmente immobili per tutta la notte. La mattina non se ne vedeva più l’ombra. Ma il custode (che dormiva nella stanzetta prefabbricata montata per lui fino dall’apertura del cantiere) raccontò un paio di volte di come fosse stato svegliato, insieme alla moglie, dal loro giovane e greve sonno. Gli arrivavano lunghi ululati, più lamentosi che sinistri; e un larghissimo ringhiare, più di rimpianto che di rancore. L’archeologo sapeva di non poter contare su più di due e (se aveva fortuna) tre settimane ancora. La stagione reggeva mirabilmente, data la latitudine; e per una specie di miracolo (oltre che per le economie degli ultimi tempi: soprattutto la rinuncia definitiva all’affitto delle macchine) non erano ancora finiti del tutto i fondi stanziati un anno prima. Ma la vendemmia inoltrata nelle campagne -

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intorno parlava di un arrivo assai prossimo delle piogge e del fango. E le scuole finalmente riaperte (di cui sentiva parlare con soddisfazione sul cantiere) gli ricordavano che fra un mese al massimo si sarebbe ritrovato davanti alle vetrine del museo, a dare spiegazioni a classi sgomitanti e masticatrici. A nessuno della sovraintendenza sarebbe certo venuto in mente di sostituirlo. E d ’altra parte il compito aveva sempre mobilitato al massimo (con eccellenti risultati) la sua candida gentilezza. L’autonomia inattesa di cui l’archeologo era stato investito negli ultimi mesi sarebbe tornata col tempo (e già in parte lo era) inattendibile. Un episodio isolato, un lapsus dei superiori, una gaffe della memoria: che trasformava una consegna burocratica in un riconoscimento imprevisto di responsabilità e di competenza. Sapeva anche che il professore aveva (nel frattempo) vinto il concorso. Era salito di grado: e se si affacciava oltre i suoi steccati, stavolta non aveva più ragione di temere le critiche. Già portato a Zogalia dall’insegnamento, si sarebbe aggiunto prestigio (la primavera seguente) riprendendo e concludendo trionfalmente lo scavo. Sarebbe venuto a dare un’occhiata al cantiere negli intervalli delle lezioni; se non gli fosse parso più comodo portarsi lì addirittura gli studenti dietro, farsi vedere da loro sotto una luce sperimentale e avventurosa, affidargli, magari, dei lavoretti sostitutivi dell’esame. Mentre lui, costretto fra breve dal maltempo a interrompere lo scavo prima di averne visto il fondo, non avrebbe avuto modo di affiancare alle relazioni obbligatorie uno studio di qualche respiro di quanto aveva visto, trovato, capito e non capito. I suoi risultati, per sbalorditivi che fossero, non erano ancora (se non in minima parte) dei veri risultati. Ma piuttosto dati suggestivi e contraddittori, briciole ermeneutiche, casse di reperti mentali che aspettavano (in fila per i corridoi del cervello) una catalogazione e un restauro: come le casse dei reperti materiali nei corridoi e nei magazzini della sovraintendenza. L’archeologo decise di forzare i tempi. Di non attendere la risposta (chimica, biologica, fìsica) dei laboratori per farsi un’idea di che cosa fosse, e a che cosa potesse servire, ogni pezzo trovato. Di costringere (con una riunione settimanale) l’équipe di scavo a diventare anche équipe di studio dello scavato. E di accordarsi con l’architetto per uno scambio di idee regolare. Almeno un giorno sì e uno no.

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XXIV

Con sua grandissima meraviglia l’architetto, che dacché se ne andava in giro con quei vestiti larghi e fluttuanti aveva assunto un tratto distaccato da dandy, non solo fu d ’accordo a incontrarsi regolarmente con lui per discutere: ma lo invitò a cena per la sera seguente a casa sua. Dell’appartamento dell’architetto si favoleggiava (a Zogalia) come piccolo e prezioso, pieno di bellissime cose e chiuso a quasi tutti in città. Anche per questo l’archeologo, il giorno dopo, era talmente emozionato che (ripromettendosi di osservare l’arredamento e tutti i quadri nei più minuti particolari) non vide invece o non ritenne nulla, e riemerse dalla visita come da un soggiorno sott’acqua. Ubriaco e abbagliato più dal molto detto e sentito che dal poco visto. Aveva aperto la porta una signora in nero, con rossi capelli rialzati e un sorriso arrogante. Attenta e muta, poi, per tutta la cena; e subito dopo scomparsa definitivamente, su un altro di quei superbi sorrisi. (Con un saluto assai formale ricambiò quel sorriso l’archeologo: che sciaguratamente parlava assai poco anche le lingue d ’uso corrente, e si infuriava con se stesso, perché un codazzo turbinoso e secco di frasi scolastiche gli soffocava ogni volta in gola i rudimenti necessari di conversazione.) “Un’amica di Rotterdam”, l’aveva presentata con levità l’architetto, dopo aver pronunciato un nome e un cognome diffìcilissimi. E a fine serata (senza alcun nesso con il colloquio, che era venuto stravagando per sentieri neoplatonici e trismegistici) era tornato a riferirsi a lei: “Si preoccupa, dopo l’operazione. Le ripeto che finirà per perdere il lavoro, che non troverà più scuse in famiglia. Ma forse in questo modo le sto domandando di restare. Da un po’ di tempo faccio uno sbaglio sull’altro.” Lasciò cadere, come per vergogna, un tono di voce, ne raccolse un altro più noto: “Così il tuo rudere sarebbe diventato una vera torre, e tu ti prepari a scendere ancora più giù ! Emozionante. Figurati, tra poco, i giornali. Lo Schliemann di Zogalia ! Come faranno, alla tua sovraintendenza, per continuare ad affibbiarti tutte quelle corvées ? ” “I giornali non parleranno di niente, finché questo pasticcio resterà così ammassato. Finché non riuscirò a capirci almeno quanto basta per scrivere la relazione finale. E poi: ti ho chiesto tante volte di non prendermi in giro. -

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Schliemann ! Non mi sto affatto preparando a scendere più giù. Non credo neppure che sia possibile, scendere più giù. E comunque non ce ne sarebbe sicuramente il tempo, se dobbiamo ancora lavorare tanto per interpretare i reperti della sala bassa. Ti ho soltanto raccontato quello che ho visto. Che al centro del pavimento di ossidiana ci sono delle sottili fessure in quadrato. Sembrano definire un’isola, una zattera, un recinto ideale. Ma potrebbe anche trattarsi, per quanto ne sappiamo, di una pietra tombale. O di una lastra delimitata per qualche funzione pratica.” “No, si tratta di una botola”, riprese con sicurezza l’architetto. “Come tu hai pensato subito. Potrebbe aprirsi dentro un grosso pilastro cavo, che sorreggesse dal centro il solaio. E bisognerà almeno provare, in seguito, a sollevarla e a guardare sotto. Ma in questo momento (sono d ’accordo con te) è più urgente sforzarsi di capire a che cosa servisse la sala quadrata sotto la sala tonda. A che punto sono i rilevamenti sugli oggetti trovati, Venere incatenata compresa ? ” “La Venere l’ho imballata e spedita ai nostri laboratori in città”, rispose l’archeologo. “Non avremmo modo, qui, di trattare il marmo. E si respira meglio, da quando non c’è più. Si dorme meglio la notte. Ma il resto, che sono pezzi più o meno grandi di metallo e di legno, lo stiamo descrivendo e contemporaneamente restaurando qui in cantiere. Ti ho già detto che è ritornato da un giorno all’altro il mio restauratore dell’anno scorso ? Il vecchio ? Molto provato. Non so da che. Molto cambiato. Ma è tornato al momento giusto. Sta lì tutto il giorno in silenzio, con la ragazza che lo aiuta come un maestro, a travasare resine e paraffine. Forse ci sono età in cui un semplice sbilanciamento di energie e di umori provoca frane, catastrofi, metamorfosi. E, molto in fretta, c’è un altro dentro ai nostri vestiti. Poi vengono altri vestiti. Un’altra voce. Tu che dici ? ” “Che esistono unicamente questi salti. Che si è tante cose insieme solo al patto di essere una cosa per volta. Che ritrovare continuità con quello che si è stati e che si è morti è come, per i reincarnati, rievocare sensazioni di quando si era bufalo o farfalla.” Poi l’architetto si scosse. “Scusami. Io, che odio generalizzare ! Parlami piuttosto di quello che sta venendo fuori, da tutti quei tuoi bagni di allume e di resine.” “Io anticipo sempre. Dovrei imparare la prudenza. Sarebbe il mio mestiere, la prudenza. Ma da quanto capisco, si tratta di pezzi di arnesi. Di grandi macchine. Pensano di avere identificato frammenti di un telaio. Di un torchio. Di una pressa. Di un tornio. Di un crogiuolo. Sembra, cioè, che l’intero stanzone fosse stato un tempo attrezzato come un -

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laboratorio misto, una filanda, una fabbrica. Che la costrizione del soffitto basso e del buio venisse sfruttata come impulso motore. Che l’immane dinamismo gravitativo delle pietre e della terra (intorno e sopra) venisse convertito in cieco lavoro multiforme. Ininterrotto, anche, perché non tenuto neppure alle scadenze delle notti. Qualcuno deve avere inventato di concentrare diverse, e certo alte, competenze artigiane in una cripta di luce fievole e di aria oppressa, molte volte schermata dagli accidenti di sopra l’erba. Era (io credo) un machiavello perfetto. La spinta data alle macchine, l’espansione rotante degli ingranaggi sarebbe stata sicuramente avvertita come un contrattacco efficace (come l’unico scongiuro) alla minaccia della rovina centripeta. Con questo espediente, la ripetitività coatta dei gesti avrebbe assunto una linearità e un orientamento. E la mortificazione dell’obbligo sarebbe stata portata leggermente, perché si sarebbe fìnta la premessa a una liberazione collettiva. Un progetto veramente astuto.”

XXV

“E la Venere ? ”, domandò con indifferenza l’architetto. "La Venere. Forse non è esatto che dormo meglio da quando l’ho mandata via. Da quando manca, le infilate delle colonne sembrano irragionevoli e sbieche. I pezzi di legno e di ferro non sono neppure più frammenti, ma frantumi. È lei che teneva insieme (instaurando rotazioni di conoscenza e di desiderio) l’attività di queste macchine mutilate. Era la forma stessa, io l’ho capito dopo, su cui si modellavano per infiniti errabondi brancolamenti le tele, le carte, i vasi, i mobili, i libri lavorati un tempo sui diversi attrezzi della cripta. E non ha perduto del tutto il suo potere. Per qualche illusione della vista, riesce a dare un centro agli spazi in cui si chiude. Tanto al colonnato tortile a quincunce che alla cassa di legno in cui adesso è ficcata. Ma proprio per questo è insopportabile guardarla, con quel ferro alla bocca, con quel ferro addosso, E doveva essere stato un insostenibile dolore tenerla d ’occhio lavorando verso di lei storpiata e muta. ” “Per avere Elena da guardare valeva la pena di subire i più orrendi massacri.

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Purché al massacro sfuggisse almeno Elena. Che farsene di un’Elena a pezzi ? Questo vuoi dire ? ” ironizzò l’architetto. “A costo di sembrarti pedestre, vorrei ricordarti che le catene significano anche se stesse. Che i banchi di lavoro in una stanza interrata e chiusa non possono essere stati volontari. E perché la rotonda sopra respirerebbe, invece, un’aria di esperimenti e di calcoli ? ” “Ti rispondo assai rozzamente", disse l’archeologo, “perché non sono arrivato molto avanti in queste speculazioni, benché mi ci stia rompendo la testa praticamente da quando ci siamo calati insieme nella rotonda. Dunque da molti mesi. Sono anch’io convinto che le due sale (di sopra e di sotto) siano state progettate in aperto contrasto. E quindi vadano spiegate congiuntamente. Non mi hai ripetuto tante volte che l’ordinamento di un edificio è sempre la manifestazione corporale delle sue ragioni...” “Della sua ratio”, interruppe l'architetto.“È di più.” “Della sua ratio, come vuoi. Del suo movente, delle sue intenzioni. Bisogni accontentati, paure placate non si sviluppano forse nei rapporti (nelle configurazioni) di un solido consonante ? Soprattutto negli interni. Il solido poi si regge, fa magari meraviglia e scuola. Suscita altre intenzioni. Ma resta possibile, io credo seguendoti, ritrovarci il fossile della sua idea. E per la rotonda quell’idea doveva essere attrattiva, vorace. Ma espulsiva nella cripta quadrata.” “Un momento”, interruppe ancora l’architetto. “A me hanno insegnato (e ho qualche volta provato) anche una cosa diversa. Che edificare non è altro che un piacere voluttuario, come di chi sia innamorato. Che nell’edifìcare c’è tanto piacere e desiderio che quanto più se ne fa, più se ne vorrebbe fare. Ma il più (il piacere) non è un’idea. È buio, bruto e pesante. E va largamente per le sue strade. Di ratio ne ha anche la materia. Hai pensato mai alle ragioni specifiche dell’ossidiana, del tufo ? Alle intenzioni del quadrato ? ” “Non direttamente. Ma forse ci rifletto anch’io con i miei mezzi. Che altro trovo scavando se non i moventi dei muri, i progetti dei cocci ? Proverò a spiegarti meglio quello che avevo in mente. A me sembra che la cupola stellata, con tutti gli arnesi che conteneva (libri, astrolabi e strumenti musicali) concentrasse una curiosità somma, e una grande capacità di indagamento dell’universo. Nascosti lì dentro, si tentava, qualcuno tentava (io credo) di adescare i disegni delle materie, i cambiamenti degli organismi, la peribilità e la passibilità delle costellazioni, i numeri delle cose. Come fa l’uccellatore in agguato sotto i suoi richiami impaniati. Chi accettava di seppellirsi nella rotonda lo faceva (penso) nella speranza di isolare e di studiare, sotto la sarabanda delle mutazioni, il principio che accompagna il caos, precede il mondo, sveglia le sonnolenze, rischiara l’oscuro, -

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vivifica i morti, dà forma all’informe e termina l’incompiuto. Si pretendeva forse di assecondare l’antico principio dell’Eros nel cerchio delle sue discese e delle risalite.” “Bellissimo” commentò ironicamente l’architetto. “E la sala quadrata ? ” “Con la stessa approssimazione, io ci vedo il luogo della tappa di conoscenza successiva. Se accetti le formule d ’epoca, sotto e dopo la trappola di Eros deve collocarsi il covo di Ermes. L’incastro confuso delle forme percepite e delle nature ragionate genera (si capisce) uno smarrito scoraggiamento. Naufraga la speranza di penetrare speculativamente l’inspeculabile. E di quanto non si può conoscere non si può neppure parlare. Ti ricordi che Pitagora, istruito dalle sfingi davanti ai templi, diventa maestro di silenzio ? Ma ti ricordi anche che Apollonio decide di passare dieci anni, tacendo, a seppellire i morti del deserto ? Le cose di cui non si può parlare si può però lavorarle. Sono le mani che ritrovano le analogie perdute. Le rispondenze dei simboli sono per prima cosa somiglianze di tatto. Temperature, curvature, durezze, pesi. Esiste un pensiero pratico, che orienta e sorregge la mente. Dominare tecnicamente i materiali, sezionarli e trasformarli è una via regia di sapienza. Non si potrebbe pensare che l’edifìcio ospitasse una sorta di accademia, assai esclusiva e segreta ? E che gli studenti scendessero, finito il primo tirocinio, dall’osservatorio al laboratorio ? ” “Hai fatto, vedo, letture dottissime. Sono ammirato. Ma non mi hai ancora detto tutto. La tua torre iniziatica dovrebbe, credo, postulare un terzo stadio. Supponendo che tu abbia ragione fino qui, che ti aspetti di trovare ancora più in basso ? ” “Ah, mi costringo veramente a non pensarci. Ma se (come dici) ho ragione fin qui, lo schema prevedrebbe, più giù, la camera claustrofobica e disordinata di Saturno. La matematica rende tristi. La tecnica, accidiosi. Come si diceva un tempo, la ragione pratica si rompe dentro la ragione fantastica. Quando le attività, i movimenti, le passioni sono potuti apparire (anche per un momento solo) come stordimenti di malati, incubi, deliri di dementi, l’itinerario diventa irreversibile. Ai giovani filosofi in formazione doveva venire chiesto, allora, di scendere oltre. Di sottoporsi a un’ascesi saturnina. Ma non chiedermi come immagino che fosse organizzata dall’esterno, quest’ascesi. Di Saturno sappiamo molto. Non pretendeva che fossero misteri, i suoi riti. Ma sicuramente erano riti assai solitari. E non ho fretta di scendere a trovarne le tracce.” Era assai tardi. L’architetto si alzò per accompagnare l’ospite alla porta. “Elegante. Seducente. Mi hai molto colpito. Ma temo che la tua ricostruzione -

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sia anche assolutamente falsa.” “Falsa. Che dici. Perché ? ” “Credevo di averti messo in guardia, stasera e molto tempo fa. Ma come hai potuto non accorgerti che abbiamo scoperchiato una prigione ? ”

XXVI

Una prigione. Non un’accademia platonica. Non un circolo ermetico. Non una corte d ’amore. E neppure una vasta e variata bottega. L ’apprendistato ai banchi e alle macchine non era servito a impadronirsi dei segreti tecnici delle forme, per diventare a propria volta maestri rispettati e cercati. E lo studio di geometrie, di rime e di accordi nella camera cupolata di sopra non aveva potuto insegnare a nessuna mente a essere tutto, dissolvendosi nelle vicende di tutte le cose. Invece, una prigione. Capace di centinaia. Nauseato, smarrito, riluttante e lottando, l’archeologo si riconosceva già posseduto irreparabilmente dalla giustezza della nuova idea. Cominciava, così, a chiarirsi almeno l’interramento: le ragioni del mimetizzare la grande costruzione sotto una collina ricoltivata, confusa fra le molte altre intorno. Come avrebbe potuto la stellata Zogalia, macchina chiusa, feroce fabbrica di ordine, lavoro di un solo cervello, cervello essa stessa, scarnificato e coerente, degli orizzonti collinari, con terminazioni estese ben oltre quegli orizzonti; come avrebbe potuto l’irradiante, sospesa Zogalia dei Dieci Giorni confessare 1’esistenza (sprofondata e non lontana) di una Zogalia delle Dieci Notti ? Soprattutto si sarebbe proibita di dichiarare la maternità di quel feto mostruoso; e poi il ricambio ininterrotto che esiste fra le circonvoluzioni della Testa e le circonvoluzioni delle Viscere. Era tanto tardi che l’insonnia, infastidita, agitata, si lasciava accettare, promettendo di non durare ormai molto a lungo. Indolenzimenti diffusi ripetevano molti altri lontani rigirarsi nel letto. Le frasi fino allora fermamente pensate si dissipavano lentamente. Le parole si scomponevano, e producevano diverse parole. Proliferavano nel buio le figure: come visioni di un affamato eremita, o di un barbone che per troppo freddo (pur assuefatto) non riesce a dormire. -

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Così, dalle sillabe di segreta uscivano grida e grate. Fradici crocicchi di sbarre, carrucole e catene, feritorie e inferriate sui fossati, a filo di un’acqua filamentosa e flaccida. Turisti fantasticanti in visita a cinquecento castelli di pianura e di montagne. Segregazione, segrete azioni, seghe notturne sulle grate, fughe di cattiva letteratura. E invece, acqua dal fossato nelle notti di vento, e dal cielo durante gli uragani. Tremiti, brividi, fetori, bagnato, sogni di tradimenti. Altri tradimenti ricordati svegliandosi; ripensati molti giorni di fila. A primavera il fossato si riempiva, magari, di rane. Dalla putredine fiorivano i giunchi e le mai viste ninfee, che (assecondandone l’orecchio di chi stava dentro il fruscio) venivano composte in asimmetrie mentali da stampa giapponese. Compitando la propria segregazione se ne cavavano gazze e greggi. Ci si illudeva che richiami e belati, da prati lontanissimi, arrivassero a folate superando il fracasso della piazza e l’ottuso sciacquio sotto le feritoie. In altre stagioni ne usciva dell’altro, da quelle sillabe. Gridi d ’estate: rondini, venditori ambulanti; e da dentro (di là del proprio mure) gridi di impauriti, di impazziti, di interrogati. Nella spietata chiarezza delle xilografie didattiche, ci si figuravano allora (senza poterne avere conferme né smentite) poliedri, ruote e vergini di Norimberga. Grigio d ’inverno, e un improvviso silenzio. Dov’erano finiti, i sorveglianti, i sorvegliati ? L ’insopportabile vicino di stanza che tossiva tutta la notte, e gli altri che chiamavano e che battevano ? Segregazione gregaria. Mesi d ’autorità, l’inverno. Venivano allora assunti falangi di nuovi secondini. Stagionali, contadini inurbati, neofiti lustri di rigore e di zelo. Minacciavano sanzioni. E sezioni. Le sezioni sono cosa di temperamento e di calcolo. A chi sa fare qualche mestiere, non si taglia il membro che glielo impedirebbe, ma un altro, o naso, o orecchie, o occhi, che non abbia a perdere il lavoro. E se esercizio non sa, gli si taglia senza riguardo o mani o occhi o naso o quale piacerà al settore. Il quale era un chirurgo legale ai limiti della pensione, e affabile, che nel fondo di qualche corridoio non localizzato aveva ricavato (si raccontava) un esemplare laboratorio e un museo anatomico. C ’erano lucidi vasi, lucidi armadi, lucidi attrezzi, preparati traslucidi. Ma a questo punto la fantasticheria orripilante dell’archeologo perdeva bruscamente lena. Al letto di dissezione di quel mite chirurgo gli veniva fatto di pensare (avvicinandosi l’alba) quasi con sollievo. E si prefigurava di stendercisi sopra per un lungo riposo.

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XXVII

“Delle prigioni antiche come questa, che cosa sai ? ”, gli domandò l’architetto, senza più ironia, qualche giorno dopo. “Poco. Anche delle moderne. Associazioni. Letteratura. La cisterna di Giuseppe. Pero che allatta in carcere il padre, la ‘carità romana’. San Pietro e l’angelo. Gabbie e gogne. Immuramenti. Clarence annegato nella malvasia. Casanova. Campanella sott’acqua, nella fossa del niglio. Il Panopticon. André Chénier. E le patetiche stampe settecentesche. Famiglie intere carcerate per debiti. Vecchi, ragazzette, lattanti. Stretti in un gruppo atterrito. Si sottraggono con grandi gesti agli approcci di prostitute e assassini. Tutto qui. È meglio che parli tu.” “Mi dispiace che tu sia così avvilito. Davvero, mi dispiace. Ti ricordi quando ti ho fatto riflettere su quel muro di perimetro, troppo grosso per un’architettura di pace ? È comprensibile che tu ti sia sbagliato. Le prigioni sono costruzioni bastarde. Mescolano gli stili, e soprattutto i registri. Il predicatorio, il contrattuale, il ruvido. Vergognandosi dei propri fondamenti, si fingono altri edifici, più accettabili socialmente. Combinano tratti che appartengono al convento e alla fortezza, all’ospizio, all’officina, alla scuola.” Qui fu l’archeologo a interrompere. Senza scusarsi. “Lo fanno solo per cattiva coscienza ? Ho l’impressione che ci sia dell’altro. Una comunità casuale non diventa (una volta chiusa) un universo ? I murati come i passeggeri di una nave, o i naufraghi su un’isola. Dovranno bastare a se stessi in tutte le occasioni. Istituiranno gerarchie, assegneranno competenze, riconosceranno dipendenze e bisogni. Clandestini nel mondo di fuori e di sopra, di cui hanno imparato a fare a meno, sono (in questo) cittadini con pieni diritti. Non si nascondono. Nessuno più li insegue. Non hanno molte paure, non avendo molti desideri. La società chiusa impone i suoi bisogni: e praticano nuove professioni. Diventano (come serve) monaci e medici, guardie, artigiani, maestri. Per queste ragioni, io credo, prende forma anche fisica (nel carcere) una città rudimentale.” L’intervento gli valse una leggera sorpresa dell’altro. Per la prima volta: l’onore delle armi. Poi l’architetto riprese: “Posso forse dirti qualcosa di più tecnico. Dovunque esistettero, sembra che -

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le prigioni siano state articolate in un sopra e in un sotto, o in un esterno e un interno. Bisognava, evidentemente, che fosse chiara la distinzione fra sorveglianza e pena. Nelle prigioni classiche, un primo locale era destinato agli sviati e agli immodesti, perché vi fossero ammaestrati; e fu poi dato ai pazzi. Un altro ai debitori. Il terzo era dei perfidi, come si diceva: già condannati o da condannare. La terza prigione era una fogna e una tomba. E non c’era che una condanna.” “Ma non ai tempi che interessano noi ! Non mi hai fatto notare tu che Zogalia è stata progettata come un unico monumento alla dignità dell’uomo ? Passa (si diceva allora di lui) nella natura di un dio come se fosse dio lui stesso. Ha familiarità con le specie dei demoni, sapendo di avere le stesse origini. Si prende cura della terra. Si mescola agli elementi con la sveltezza della mente. E con l’acutezza della mente affonda negli abissi del mare. Il cielo non gli pare troppo alto: nessuna caligine confonde l’intenzione dell’anima. La densità della terra non impedisce il suo lavoro, né la profondità delle acque ottunde il suo sguardo. Sono cose scritte su ogni mattone, su tutti i sassi di cui tu vai controllando la conservazione. Quest’uomo, metterlo sottoterra ? E a che scopo, sapendo di non riuscire a smussargli né lo sguardo né la mente ? ” “Non ho finito. E puoi capire come non mi diverta parlare di queste cose. Ma l’interramento sembra, in ogni tempo, una condizione costitutiva della prigione. Non so se nasca prima la fantasia del pozzo senza finestra e senza porte, 0 la costruzione reale: accessibile soltanto dall’alto, quando piacerà a chi siede sopra. Probabilmente l’architettura si ricorda (qui come altrove) di essere la tecnica dei principi. Copia direttamente dal prototipo mentale. I grandi monasteri del Duecento (abituati a maneggiare immagini prime) avevano tutti carceri forti e ferme sotto il pavimento del dormitorio.” L ’archeologo osò interrompere ancora. “Che resta, allora, del vanto dell’architettura: la seduzione verso il largo e il lontano ? Non dovevano, le fabbriche, somigliare a quell’aria che nei tempi caldi tira la gente dal letto, e la ritiene con delizia a prendere il fresco ? Altre fabbriche, fatte dagli stessi architetti, tirano e tengono invece nel ristretto e nel basso. Dove non arriva nessun soffio. ” “Sciocchezze”, disse l’altro duramente. “L’architettura ha molti mezzi e molti padroni. Deve, se serve, sapersi imbruttire. Ordina anche il disordine. Mima il suo contrario, la caverna, per indurre malinconia nelle carceri civili, e orrore nelle criminali. Monta bugne ruvide, espressamente irregolari, aperture anguste e informi, muraglie vistosamente fuori piombo. Non è più diffìcile che fare colonnati e portici. E non è un mestiere diverso. 1 teorici delle città ideali sono anche i maggiori inventori di raffinate, riquadrate -

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prigioni. Vi si arriva per vie d ’acqua e porte di ferro. Vi leggi, entrando, terribili nomi. Lo Stentamente. La Martorata. Malealbergo. La Tenebrosa. La Dolorosa. Ti ricamano sulla spalla lettere che dicono se sei stato ladro, o omicida, o traditore. Ogni settimana, per il primo anno, ti rappresentano la natura di morte che ti aspetta. Ma se hai qualche virtù di mano o di mente, meglio è farti stentare coi martìri e fare che tu lavori che farti morire. Perché se ne cava qualche utilità, e ammazzandoti sarà perduta quella virtù, e non la potrai comunicare ad altri. E anche se non avessi virtù, meglio è di farti lavorare e stentare. Perché mentre vivi senti afflizione e male, e quando sei morto hai passato tutto il male. E anche la vergogna.”

XXVIII

Non ci sarebbero state altre riunioni del gruppo di scavo. L ’archeologo si era tirato addosso (bagnandosi con le prime piogge) una febbretta e un malessere che gli facevano desiderare soltanto di uscire presto da un’avventura talmente più forte di lui. Così propose di incontrarsi tutti ancora una volta per confrontare i risultati e concordare l’orientamento dei lavori negli ultimi giorni. La decisione di non spingere oltre l’esplorazione della grande fabbrica sepolta era stata quasi forzata dalle circostanze e a tutti implicitamente resa nota. Coincideva anche profondamente con le spossate inclinazioni del direttore dello scavo. Che si riprometteva di concludere (quando l’avesse scritta) la relazione ufficiale proponendo di attrezzare la Notturna (come chiamava fra sé la torre interrata) a museo della scienza e della tecnica d ’epoca. Nella rotonda, consolidata e illuminata adeguatamente, si sarebbero potuti esporre i frammenti restaurati di libri, strumenti musicali, ottici e fisici nel punto stesso in cui erano stati trovati, ciascuno accompagnato da un modello in grandezza naturale dell’attrezzo intero. Un settore a sé avrebbe studiato (con diagrammi e ingrandimenti) i sistemi storici delle costellazioni: mettendo a confronto le figure trovate nel cielo dai caldei, dai greci, dai cinesi, dagli arabi; e possibilmente discutendo e dimostrando l’obbligo stesso della percezione, che estrae da tre punti luminosi in fila la forma di un Arciere o di una Bilancia. In altre bacheche (scendendo) la sala quadrata a colonne avrebbe offerto gli arnesi del lavoro artigiano, briciole di spole e di torni; e accanto campioni di -

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quel lavoro finito. Stoffe, vasi. Non sarebbe stato impensabile (nella stessa prospettiva didattica) affollare la sala di manichini vestiti in stile, in piedi a stampare e a fondere, seduti a tessere. L’illusione di tante presenze assorte e mute avrebbe forse alterato le spietate regole delle quincunce, o attenuato l’oppressione del soffitto. Solo la Venere non sarebbe stata rimessa al suo posto: perché diffìcilmente spiegabile entro quel fìnto fervore manuale (lei che non ha mai saputo di mestieri), e perché assai più degnamente avrebbe figurato nel museo di arti antiche del capoluogo. Naturalmente, una volta sbarazzata di quelle turpi e tarde propaggini metalliche, e restituita (come vogliono le leggi del restauro) al suo statuto estetico. Tutti questi suggerimenti l’archeologo si proponeva di puntellare con belle e dotte argomentazioni. Sperava così di sottrarre, all’attenzione della commissione che l’avrebbe letto, i molti buchi del racconto, l’assenza dell’interpretazione, la flaccida tenuta del suo testo. E soprattutto sperava di sviare (con un resoconto tecnico, piatto e non problematico dello scavato) ogni futura riapertura di indagini sulla Notturna. Ma adesso, con l’architetto e davanti ai colleghi e ai tecnici con cui aveva diviso ogni giornata di lavoro per tanti mesi, servivano assai pochi ragionamenti, e meno giustificazioni. Aveva l’impressione che il sollievo visibile di tutti per la vicina chiusura del cantiere poggiasse su delusioni e stanchezze di natura diversa fra loro, e certo non uguale alla sua. Sul problema se approfittare degli ultimi giorni praticabili per una catalogazione generale, e non solo tipologica, dei reperti: o se, invece, tentare una rapida ricognizione degli spazi (o forse del nulla) sotto la botola di ossidiana, parlò per prima la restauratrice giovane. “A me sembra essenziale dedurre la necessità di un altro sondaggio solo dagli elementi che abbiamo raccolto fin qui. Allargare senza un’ipotesi il sistema dei dati può voler dire mandarlo a pezzi. Ora, tutto quello che abbiamo visto e studiato fa pensare a una contrapposizione esemplare e chiusa fra due spazi estremi. Il Sopra e il Sotto. Il Circolo contro il Quadrato, il Concavo contro il Piano, il Centrale contro l’Allineato, il Gioco contro il Lavoro. Non ci sono, poi, molte possibilità di figurazione degli spazi, e queste due forme le esauriscono. Posso pensare che le abitassero due società ostili, ma complementari fra loro. I Giovani, forse, a studiare le stelle di sopra, e gli Adulti di sotto, a fare andare le macchine. Come postulare un terzo spazio ancora più giù, un mondo dei Vecchi ? Né tondo né quadrato, né centrifugo né centripeto ? Non avrebbe risorse. Non avrebbe forma. Io credo che tutto ne escluda resistenza. Ma se esiste, io -

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preferisco non vederlo.” Poi toccò al disegnatore. “Nei diagrammi che ho fatto, il nostro scavo assume una curiosa elementarità, niente affatto sconcertante. La proiezione ortogonale mostra un quadrato iscritto in un cerchio, e un quadrato minore iscritto ancora al suo interno. Le diagonali si intersecano: segnano il centro. Che cade in mezzo alla botola, il quadrato minore. Se sviluppiamo la proiezione nell’alzato, appare evidente anche la diminuzione progressiva delle altezze. La cripta raggiunge appena la metà della sala con la cupola. Congiungo i perimetri, prolungo le linee verso il basso; e prende forma un imbuto, col vertice posto (a distanza ancora minore) sotto il centro della botola. Il quadrato piccolo non è dunque un recinto magico, ma una sorta di rifugio di emergenza. Delimita la zona della m assima sicurezza contro le infiltrazioni dal perimetro, e i crolli dall’alto. E non è realmente una botola. Che cosa può esserci sotto, se non un semplice punto fìsico, il fuoco della gravità, che attrae il Pieno e il Pesante finché invaderanno definitivamente il Vuoto ? La botola non conduce in un luogo. Ma al principio sempre attivo della catastrofe.” Non era il suo turno, ma l’architetto prese ugualmente la parola. “Parliamo di materiali. La cupola è di cotto, alta, leggera e chiara. La cripta ha un robustissimo muro, molte e grosse colonne di pietra serena, un pavimento nero pure di pietra. Se si scende ancora (e io credo, come ho già detto, che un tempo si potesse) la terza stanza avrà pareti e solaio talmente rinforzati, per ragioni statiche, che non potrà essere enormemente più larga della botola. Ingombrata al centro da un pilastro quadro e cavo che permetta la discesa, io la penso anch’essa quadrata, e assai spoglia. O forse (per una volta) antropomorfica, rettangolare. Ha, credo, piedritti a bugne vermicolate, come ne usavano simbolicamente i cimiteri, e un tetto di lugubre ardesia. Ma certo non ha un fondo. Lo aveva, come aveva arredi e abitatori di cui non possiamo sapere. Ma non avete mai messo l’orecchio sopra la botola ? Si sente, se ci si concentra, un buio rumoreggiare. Ha un fondo d ’acqua mossa, la stanza. Un fiume sotterraneo che spazza, rode e sale. Fra qualche anno lo vedremo. Filtrerà dalle fessure della botola. Inonderà l’ossidiana. E porterà a inabissarsi la Notturna.” Disse, parlando con sforzo, il restauratore anziano: “Per altre ragioni, anch’io non consiglierei di provare a scendere. Mi rendo conto che qualcuno di noi non crede una parola di quanto si è detto fin qui. Ritiene, invece, che in qualche luogo del mondo sia sempre esistita una caverna piena (come una memoria di artefice) di innumerevoli simulacri. E che quella caverna sia stata ora trovata. È un magazzino di modelli delle cose, di teste e -

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braccia perdute dalle statue classiche, di anelli evolutivi mancanti. Ma tutte queste cose sono state saggiamente sepolte, secoli fa. Scoperchiata, la caverna diventa un vaso di Pandora. Ne usciranno di furia speranze e desideri di rimpatriarsi nel primo caos, e una smania di disfazione. Non sono qui sotto, gli dèi terrestri che aspettiamo con festa. Si asserragliano sui monti della Libia, dentro una grande città sconosciuta.” L ’archeologo non potè sottrarsi al dovere di parlare anche lui. Gli costava molto. “Io avrei voluto riuscire a sollevare la lastra di ossidiana e a guardare dentro, prima di chiudere lo scavo. Magari per un’ora soltanto. Sono consapevole dei rischi che farei correre a noi personalmente, e alla fabbrica su cui lavoriamo da un anno. E non spero certo che sotto la botola si nascondano spiegazioni e risposte. So che troverei (se pure troverei qualcosa) soltanto altri problemi, più intricati e più gravi. Ma penso che una lastra di copertura sia fatta per essere tolta, una porta per essere aperta, una scala per scenderla. È l’unica cosa che so fare. E continuerò a farla, tutte le volte che sarò soltanto io ad andarne di mezzo. Ma non qui. La Notturna appartiene a se stessa, e agli uomini che l’hanno fabbricata, e a noi che l’abbiamo scavata, e a tutti quelli che non l’hanno ancora mai vista. Sembra evidente (è tutta la sera che ce lo ripetiamo a vicenda) che lasciarne instudiata una parte sia la condizione perché continui a reggersi, e si possa parlarne. Non corre lo stesso patto, nelle frequentazioni fra persone ? Non tutto va ricordato, e ancora meno va detto. O domandato. Non è molto che l’ho imparato anch’io.” Si alzò. La riunione non aveva ragione di prolungarsi oltre.

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