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Italian Pages 590 Year 2010
MARKUS HEITZ LE CINQUE STIRPI (Die Zwerge, 2004)
«Le apparenze esistono per guardare oltre, giacché il cuore più grande può battere nell'essere più piccolo e singolare. Chi chiude gli occhi per presunzione non scoprirà questo preziosissimo tesoro né in se stesso né negli altri.»
Dal Libro delle massime di un morto sconosciuto, in «Raccolte e lettere filosofiche», conservato nel Tempio delle Cento Colonne, eretto in onore di Palandiell a Zamina, regno di Rân Ribastur «I nani e le montagne hanno una caratteristica in comune: li si può domare solo con un martello duro e infinita tenacia.» Detto popolare tramandato oralmente della Marca della Nebbia, nella regione nordorientale del regno di Idoslân «Per sfuggire a un nano furibondo occorrono gambe leste. E ricorda: dovrai sempre essere più svelto dell'ascia che ti scaglierà dietro. Se gli sfuggi, modifica il tuo aspetto: egli possiede una memoria incredibile. Può così accadere che, dopo venti cicli solari, un boccale ti si fracassi all'improvviso sulla testa e la risata rabbiosa di un nano ti risuoni nelle orecchie.» Dalle Annotazioni sui popoli della Terra Nascosta, sulle loro peculiarità e particolarità, Grande Archivio di Viransiénsis, regno di Tabaîn, redatte dal magister folkloricum MA. Het nell'anno del 4299° ciclo solare
DRAMATIS PERSONAE LE STIRPI DEI NANI I Primi Xamtys II Frontealta del clan dei Frontealta della stirpe del Primo, Borengar, detta anche «dei Primi», regina Balyndis Ditadiferro del clan dei Ditadiferro, fabbro I Secondi Gundrabur Testacanuta del clan dei Pietradura della stirpe del Secondo, Beroïn, detta anche «dei Secondi», imperatore dei nani Balendilín Solbraccio del clan dei Fortidita, consigliere dell'imperatore Bavragor Pugnomartello del clan dei Pugnomartello, scalpellino Boïndil Duelame, detto anche il Rabbioso, e Boëndal Manouncinata del clan dei Branditori d'ascia, guerrieri e gemelli I Terzi — I Quarti Gandogar Barbadargento del clan dei Barbadargento della stirpe del Quarto, Goïmdil, detta anche «dei Quarti», re dei Quarti Bislipur Colposicuro del clan dei Pugnolargo, consigliere di Gandogar Tungdil Bolofar, più tardi Manodoro, figlio adottivo di Lot-Ionan Goïmgar Barbalustra del clan dei Barbalustra, levigatore di pietre preziose I Quinti Giselbart Occhio di Ferro, fondatore della stirpe del Quinto e del clan degli Occhio di Ferro Glandallin Colpo di Martello del clan dei Colpo di Martèllo della stirpe del Quinto, Giselbart, detta anche «dei Quinti»
GLI ESSERI UMANI Lot-Ionan il Paziente, mago e signore del regno incantato di Ionandar Maira la Guardiana, maga e signora del regno incantato di Oremaira Andôkai la Burrascosa, maga e signora del regno incantato di Brandôkai Djerůn, guardia del corpo di Andôkai Turgur il Bello, mago e signore del regno incantato di Turguria Sabora la Taciturna, maga e signora del regno incantato di Saboria Nudin il Sapiente, mago e signore del regno incantato di Lios Nudin Gorén, ex apprendista di Lot-Ionan Frala, serva nella dimora di Lot-Ionan, e le sue figlie Sunja e Ikana Jolosin, allievo di Lot-Ionan Eiden, stalliere di Lot-Ionan Rantja, allieva di Nudin L'Incredibile Rodario, attore Furgas, magister technicus Narmora, compagna di Furgas e attrice Hîl e Kerolus, rigattieri Vrabor e Friedegard, messaggeri del consiglio dei maghi Principe Mallen von Ido della schiatta degli Ido, successore al trono dell'Idoslân in esilio Re Lotario, signore del regno di Urgon Re Tilogorn, signore dell'Idoslân Re Nate, signore del regno di Tabaîn Re Bruron, signore del regno di Gauragar Regina Umilante, signora del regno di Sangreîn Regina Wey IV, signora del regno di Weyurn Regina Isika, signora del regno di Rân Ribastur GLI ALTRI Sinthoras e Caphalor, albi dello Dsôn Balsur, il regno albico Liútasil, principe del regno elfico di Landur Bashkugg, Kragnarr e Ushnotz, principi dei mezz'orchi del regno di
Toboribor Swerd, gnomo e tirapiedi di Bislipur
PARTE PRIMA PROLOGO Porta di Pietra del Passo Settentrionale, regno del Quinto, Giselbart, 5199° ciclo solare, tarda estate La bruma candida colmava le gole e le valli dei Monti Grigi. Le vette della Grande Lama, della Lingua di Drago e delle altre montagne si ergevano caparbie tra la nebbia, protendendosi verso il tramonto. Esitante, come se temesse le rocce scoscese, l'astro tramontò, rischiarando il Passo Settentrionale con la sua luce rosso cupo sempre più fioca. Glandallin del clan Colpo di Martello si appoggiò ansimando al muro rozzamente sgrossato della torre di guardia e, con la mano destra sopra le folte sopracciglia nere, si schermò gli occhi da quell'insolita luminosità. La salita l'aveva lasciato del tutto senza fiato, e il peso dello scudo, delle due asce e della cotta di maglia fittamente intrecciata gravava sulle sue vecchie gambe. Tuttavia, non era rimasto nessuno più aitante di lui. La battaglia che i nove clan della Quinta stirpe avevano combattuto tutti insieme nelle gallerie qualche giorno prima aveva mietuto numerose vittime. La morte si era portata via soprattutto i più giovani e inesperti. Ma il loro sacrificio non era stato vano: il nemico sconosciuto era stato annientato. I suoi amici continuavano però a morire a causa di un'insidiosa malattia di cui nessuno conosceva l'origine. Indeboliva i nani, lasciandoli febbricitanti e rubando loro la forza, lo sguardo limpido e la mano ferma. Essendo uno dei più anziani, Glandallin si era dunque assunto l'incarico di vegliare sulla Porta di Pietra per quella notte. Da quel punto elevato, il sentiero si snodava tra i Monti Grigi verso la Terra Nascosta, dove elfi, uomini e stregoni vivevano nei loro regni. La sua stirpe era quella che garantiva la pace ai territori settentrionali. Due giganteschi portali di granito durissimo impedivano l'accesso ai mostri. Un tempo Vraccas, dio e creatore dei nani, aveva forgiato gli enormi battenti e li aveva chiusi con cinque catenacci che potevano essere aperti solo pronunciando parole segrete. Soltanto i custodi del sentiero
conoscevano l'incantesimo e senza la formula corretta l'imponente porta restava sprangata. Sparse tutt'intorno giacevano le ossa scolorite e le armature malconce di coloro che non si erano lasciati intimorire dall'ostacolo. Orchi, mezz'orchi e altri mostri avevano subito una sconfitta dietro l'altra, imparando a prezzo della vita che le asce dei nani continuavano a essere affilate anche dopo migliaia di cicli solari. Il guardiano solitario si staccò la borraccia dalla cintola e bevve un sorso di acqua fresca per dare sollievo alla gola riarsa. Alcune gocce gli colarono dagli angoli della bocca, filtrando tra la barba nera. Ci erano volute ore per raccoglierla in eleganti trecce che ora gli penzolavano sul petto come corde sottili. Glandallin posò la borraccia ed estrasse le armi per deporle sul parapetto della torre scolpita nella montagna. Le impugnature di ferro delle due asce emisero un tintinnio armonioso quando sfiorarono la roccia. Un raggio di sole arancione accarezzò le decorazioni scintillanti, illuminando le rune e i simboli che avrebbero dovuto donare al proprietario tenacia, protezione e sicurezza di tiro. Borengar Biancafucina, mastro fabbro dei nani e fondatore della stirpe dei Primi, aveva fabbricato personalmente le lame e le aveva donate a lui, il vincitore di innumerevoli scontri sotto la Porta di Pietra. Non vi era spada di mezz'orco, clava di troll o lancia d'orco che fosse riuscita a spezzare i trecentoventisette cicli solari della sua esistenza, sebbene tante creature delle tenebre ci avessero già provato, come dimostravano le cicatrici sul suo corpo tozzo. Anche l'armatura e il potere delle iscrizioni, comunque, si erano sempre dimostrati un valido aiuto. Fin dove spaziava lo sguardo del nano, il massiccio montuoso si levava come una scheggia color piombo dalla collinosa regione del Gauragar, popolata dagli uomini. Si innalzava simile a una spina dorsale, spaventando il viandante con i ripidi pendii, le vie incerte e il tempo minaccioso. Nonostante le ricchezze dei Monti Grigi, accadeva dunque di rado che gli abitanti del Gauragar si avventurassero da quelle parti. Soltanto il suo popolo viveva tra le ombre di quelle vette frastagliate. I nani della stirpe del Quinto, Giselbart Occhio di Ferro, avevano costruito il loro regno sotterraneo nella dura carne dell'altopiano settentrionale. Scavavano pozzi, erigevano magnifiche sale, accendevano i fuochi più incandescenti e ricavavano saloni nella roccia per dedicarsi alla lavorazione dei metalli e alla ricerca di tesori al riparo dal sole e dalle
intemperie. Glandallin contemplò le cime invalicabili che, in lontananza, si assottigliavano fino a formare un largo nastro scuro. Quella era la sua amata patria, un luogo colmo di enigmatica bellezza che non avrebbe scambiato con alcun altro al mondo. Vraccas, il Fabbro divino, aveva circondato la Terra Nascosta con una cinta di monti per proteggere la popolazione dai mostri del dio Tion. La convivenza pacifica era pertanto compito esclusivo degli elfi, dei nani, degli uomini e delle altre creature. Quando Glandallin volse lo sguardo verso nord, i suoi occhi scuri seguirono la Porta di Pietra, un valico largo trenta passi che conduceva in una regione inesplorata detta Terra dell'Aldilà. In passato i re umani avevano inviato spedizioni in tutte le direzioni dei venti, ma solo pochissime erano ritornate e, senza volerlo, avevano mostrato ai mezz'orchi la strada fino al portone. Con i mezz'orchi erano arrivati gli altri mostri che il perfido dio Tion aveva creato per rendere loro la vita difficile. Il nano scrutò il sentiero. L'attenzione di un guardiano non doveva mai venire meno. Quegli esseri ripugnanti non avevano imparato nulla dalle sconfitte. La mente oscura e maligna di cui Tion li aveva dotati li induceva a lanciarsi di continuo contro i portali per penetrare nella Terra Nascosta. Volevano distruggere tutto e tutti perché il loro creatore li aveva generati con quell'unico scopo. A volte trascorrevano interi cicli solari, a volte solo alcune rivoluzioni, prima che sferrassero un nuovo attacco. Fino ad allora le orde non avevano pensato di guidare le offensive in colonne ordinate e di procedere con l'astuzia; si erano dunque susseguiti furiosi assalti sempre finiti in un bagno di sangue per gli aggressori. Le bestie urlanti e accecate dall'ira non avevano mai superato i merli dei cammini di ronda, dove le asce dei nani le avevano attese per dare loro un micidiale benvenuto, trapassandone le ossa, la carne e le armature dall'alba al tramonto. In quelle giornate il loro sangue nero, verde scuro e giallognolo arrivava fino alle caviglie davanti all'indistruttibile portone di granito, contro il quale le mazze battenti e i proiettili delle catapulte si schiantavano andando in frantumi. Anche i figli di Vraccas avevano subito delle perdite ed erano stati feriti e mutilati, ma nessuno di loro si era lagnato della propria sorte. Dopotutto erano nani, il popolo più forte del mondo conosciuto, i protettori della Terra Nascosta.
Eppure ci hanno colti di sorpresa! Glandallin ripensò ai misteriosi esseri nei pozzi, che avevano ucciso tanti membri della sua stirpe. Erano comparsi all'improvviso. Assomigliavano agli elfi: alti, snelli e dalle movenze aggraziate, ma più spietati e più subdoli in battaglia. «Elfi o bestie ignote?» si domandò sottovoce, optando per la seconda alternativa. Tion il Vile le avrà seppellite e dimenticate sotto terra tanto tempo fa. I nostri minatori devono averle ridestate e liberate dalla roccia, ipotizzò. Era quasi certo che non potessero essere gli elfi della Terra Nascosta. I nani e gli Orecchi appuntiti si detestavano; Vraccas e Sitalia, la creatrice degli elfi, l'avevano stabilito quando avevano dato vita ai due popoli, colmandoli di astio reciproco. Ne erano scaturiti contrasti inconciliabili e scaramucce che avevano mietuto parecchie vittime, anche se mai un conflitto vero e proprio. E se fossero loro? Che l'odio si sia inasprito tanto da sfociare in una guerra? Rifletté in silenzio. Oppure vogliono prendere le armi contro di noi per privarci dei nostri tesori? Sono forse invidiosi del nostro oro? Non sapendo rispondere a quelle domande, si costrinse a concentrarsi. Il pensiero del cruento scontro nelle gallerie buie con quei guerrieri sinistri, fossero elfi oppure no, lo distraeva e gli offuscava gli occhi, che scivolavano sul paesaggio senza vedere davvero le montagne e la Porta di Pietra. Corrugò le sopracciglia con uno scatto rabbioso quando il pungente vento del nord, che a quell'altitudine soffiava gelido fra le trecce della barba, portò un odore ripugnante. Mezz'orchi. Puzzavano di sporcizia, escrementi e sangue rappreso, un tanfo che si mescolava al lezzo rancido delle loro armature ingrassate. Credevano che le asce dei nani avrebbero slittato sul sego, procurando così meno danni al metallo. Anche questa volta il grasso non vi servirà a niente contro di noi. Glandallin non aspettò di scorgere i vessilli cenciosi e le estremità arrugginite dei giavellotti oltre l'ultima altura della Porta di Pietra, né di udire il tintinnio delle cotte di maglia. Fece un passo di lato e si mise in punta di piedi, stringendo le mani callose intorno alle ruvide impugnature di legno dei due mantici. I polmoni artificiali si riempirono prima che ne spremesse fuori il respiro con un movimento energico. L'aria si riversò nell'ampio condotto, raggiunse gli abissi e risvegliò il corno sotterraneo. Cupi rimbombi si propagarono per le gallerie e i
corridoi dei Quinti. Il nano azionava i mantici a turno affinché il flusso d'aria non si interrompesse. I boati crebbero fino a trasformarsi in un suono regolare e penetrante che strappò dal sonno persino il membro più profondamente addormentato della sua stirpe. Il nobile compito di difendere la Terra Nascosta li chiamava di nuovo a raccolta. Madido di sudore, Glandallin si guardò sopra la spalla destra per osservare l'avanzata degli aggressori. Arrivavano. A centinaia. Le creature del dio Tion formarono un largo fronte davanti alla Porta di Pietra, più numerose che mai. Alla vista dei mostri, un uomo avrebbe sentito il cuore arrestarsi per il terrore, e gli elfi avrebbero cercato riparo tra i boschi. Ma non un nano! L'attacco contro il passaggio non stupì Glandallin, ma la scelta del momento lo inquietò. I suoi amici e parenti avevano bisogno di riposo per riprendersi del tutto dalla malattia silente e dalle fatiche delle ultime battaglie. Lo scontro imminente avrebbe senza dubbio richiesto più energie del solito. Più energie e più vite. I difensori occuparono i cammini di ronda intorno alla porta con un certo ritardo; alcuni barcollavano più che camminare, e le loro dita si chiudevano inerti intorno ai manici delle asce. La schiera che si trascinava verso le posizioni difensive consisteva solo di cento anime valorose. Ne sarebbero occorse mille. Glandallin terminò la guardia perché la sua presenza era necessaria altrove. «Che Vraccas ci assista! Siamo troppo pochi», sussurrò, senza riuscire a staccare gli occhi dalla strada, su cui confluiva la fiumana di mezz'orchi maleodoranti. Procedevano urlando e grugnendo, diretti verso il portale. I pendii nudi ne riverberavano i versi animaleschi, e l'eco ne amplificava i canti di vittoria. Quei suoni distorti gli penetrarono fino in fondo all'anima, e a un tratto Glandallin ebbe l'impressione che le bestie si fossero trasformate. La massa chiassosa e scatenata ostentava una sicurezza quasi palpabile. Senza volerlo, indietreggiò di un passo. Per la prima volta ebbe paura di quegli esseri. E il suo terrore crebbe. Scrutando l'esercito nemico, i suoi occhi sfiorarono anche il gruppetto di abeti alti e imperturbabili che avevano resistito alla povertà del suolo. Li
conosceva da quando era piccolo, li aveva visti crescere e prosperare. Ora, tuttavia, i rami si piegavano verso il basso, e gli aghi cadevano sul terreno sassoso, scomparendo tra le rocce. Le piante, malate, stavano morendo. Proprio come noi. Glandallin pensò agli amici sofferenti. Quali forze sono all'opera quaggiù, Vraccas? Proteggi il tuo popolo! implorò, recuperando le asce dal parapetto. Spaventato, baciò le rune. «Per favore, non abbandonatemi», supplicò piano, voltandosi e scendendo di corsa gli scalini per andare ad aiutare il manipolo di difensori. Li raggiunse quando il primo attacco si abbatté sulle mura. Una pioggia di frecce si riversò sibilando sui nani. I mezz'orchi appoggiarono decine di scale d'assalto e si arrampicarono senza esitazione su per i pioli traballanti. Altri costruirono catapulte portatili per sostenere la carica contro i merli con proiettili incendiari. I sacchetti di pelle, gonfi e infuocati, fischiavano nell'aria e si spaccavano appena incontravano resistenza. Nelle immediate vicinanze, ogni cosa veniva cosparsa di petrolio e cominciava ad ardere. Le prime salve furono troppo basse; il fatto che i primi reparti di mezz'orchi fossero periti nella tempesta di fuoco non turbò la marmaglia nera. La sassaiola e la lava scura che pioveva dall'alto non riuscirono a frenarne l'entusiasmo e la cupidigia. Per ogni bestia caduta, altre cinque si affollavano sui gradini. Questa volta volevano superare il portone, questa volta la Porta di Pietra doveva cadere. «Attento!» Glandallin soccorse un difensore colpito da una freccia alla spalla destra. Una delle creature di Tion, un esemplare meno robusto degli altri, con grosse zanne e naso schiacciato, approfittò di quel momento di distrazione per gettarsi oltre il muro e balzare sul cammino di ronda tra i merli. Il nano e il mezz'orco si fissarono. Il tempo parve essersi fermato. Le urla, il sibilo delle frecce e il tintinnio delle asce divennero all'improvviso più deboli e indistinti. Glandallin udiva invece il respiro affannoso dell'avversario. Gli occhi della bestia, infossati e iniettati di sangue, rotearono a destra e a manca. Il nano intuì con chiarezza il motivo di tanta agitazione. La creatura era la prima della sua specie a essere arrivata fino al primo bastione difensivo, e non si capacitava ancora di una simile fortuna. Glandallin percepì l'odore del sego spalmato in uno spesso strato grigiastro sulle piastre dell'armatura, e il tanfo del grasso rancido lo spinse
a concentrare di nuovo tutti i sensi sulla battaglia. Si scagliò contro il mezz'orco con un urlo. Il bordo del suo scudo si abbatté sul piede del nemico, fracassandolo; allo stesso tempo, il nano si accanì contro la corazza. La lama dell'ascia affondò con uno scricchiolio nel punto scoperto sotto l'ascella. Il braccio cadde sulla pietra, troncato di netto. Il sangue verde scuro schizzò dalla ferita aperta disegnando ampi archi. Il mezz'orco lanciò un grido stridulo, e un attimo dopo ricevette un violento colpo verticale alla gola. «Porta i miei saluti ai tuoi parenti e dì loro che li aspetto!» Glandallin spinse indietro il moribondo, buttandolo oltre il parapetto insieme con l'aggressore successivo. Precipitarono entrambi, scomparendo nell'abisso. Il nano sperava che avrebbero trascinato con sé verso la morte una mezza dozzina dei loro simili. Da quel momento non ebbe più un attimo di tregua. Corse intorno alla balaustrata, spaccando elmi e crani, schivando frecce e proiettili incendiari e scagliandosi contro un mezz'orco dietro l'altro. L'oscurità, che calava sempre più sulla Porta di Pietra, non gli causava alcuna difficoltà; il suo popolo riusciva a vedere nelle tenebre più fitte. Le braccia, le spalle e le gambe diventavano tuttavia sempre più pesanti a ogni colpo e a ogni passo. «Vraccas, concedici una pausa per riprendere le forze», ansimò, pulendosi gli occhi dal sangue dei mezz'orchi con le trecce della barba. E il dio dei fabbri lo esaudì. I corni e le trombe ordinarono alle creature di Tion di abbandonare i merli. Obbedienti, i mezz'orchi si prepararono alla ritirata. Glandallin spedì un ultimo nemico all'altro mondo prima di accasciarsi sul pavimento di pietra e allungare la mano verso la borraccia. Sfilatosi l'elmo, si versò l'acqua sui capelli sudati. Il liquido fresco gli scivolò sul viso, restituendogli vigore. In quanti siamo rimasti? Si alzò per guardare verso i difensori del cammino di ronda. I cento nani si erano ridotti a settanta; tra loro scorse la sagoma, riconoscibile in lontananza, di Giselbart Occhio di ferro, il loro progenitore. Il primo di tutti i Quinti stava in piedi dove giaceva la maggior parte dei mezz'orchi massacrati. La sua lucida armatura d'acciaio robustissimo, fabbricata dai nani, scintillava con intensità, e i diamanti che gli impreziosivano la cintura brillavano alla luce delle pozze di petrolio
incendiate. Salì su uno spuntone affinché tutti lo vedessero. «Restate ai vostri posti.» La sua voce ferma risuonò tra i merli. «Siate saldi come il granito di cui siamo fatti. Nulla riuscirà a scalfirci, nessun orco, nessun mezz'orco, nessuna delle bestie inviate da Tion. Le annienteremo come facciamo ormai da migliaia di cicli! Vraccas è con noi!» Riecheggiarono deboli grida di trionfo e approvazione. L'ottimismo dei nani, che aveva vacillato pericolosamente, era ricomparso; il loro orgoglio e la loro testardaggine avrebbero sbaragliato gli aggressori. I guerrieri esausti si rifocillarono con cibo e birra scura, sentendosi sempre più riposati e vigorosi a ogni morso e a ogni sorsata. I tagli più profondi vennero medicati alla bell'e meglio, e i bordi delle ferite vennero ricuciti senza tante cerimonie con cordicelle sottili. Glandallin sedette accanto al suo amico Glamdolin Braccioforte. Mangiando, osservavano l'enorme orda che si era ritirata a un centinaio di passi dalla porta. Il nano aveva la sensazione che i mostri volessero riunirsi in un ariete vivente e prendere la rincorsa per sfondare i portali con la violenza dei loro corpi. «Non ho mai visto il nostro più crudele avversario ostinato e impavido come questa notte», commentò piano. «C'è qualcosa di diverso dal solito.» Rabbrividendo, ripensò agli alberi morenti. Un'ascia cadde tintinnando sulle lastre di pietra alla sua sinistra. Girandosi verso il suo commilitone, Glandallin lo vide afflosciarsi. «Glamdolin!» Affrettandosi a sorreggere l'amico per esaminarlo, si spaventò. La fronte caldissima era costellata di delicate goccioline di sudore che gli scorrevano sul volto e tra la barba, gli occhi arrossati e febbricitanti fissi nel vuoto. Glandallin capì subito che la misteriosa malattia aveva colpito ancora, mettendo in ginocchio Glamdolin. Dove non riuscivano i mostri, riusciva il morbo insidioso. «Riposati. Presto starai meglio.» Trascinò via Glamdolin, che aveva già iniziato a rantolare, e lo adagiò con delicatezza accanto al muro. Nutriva tuttavia poche speranze che le sue condizioni migliorassero. L'attesa logorò sia i nani sia i mezz'orchi; la stanchezza, la nemica di tutti i guerrieri, dilagò. Glandallin continuava ad appisolarsi in piedi, ma quando il suo elmo urtò il parapetto con un rumore cupo, trasalì e si guardò intorno. Nel frattempo altri nani erano caduti vittime della malattia e avevano dovuto abbandonare le file dei difensori. Le prospettive non
erano rosee per i figli del Fabbro divino. Un penetrante grido d'allarme gli fece battere forte il cuore: gli aggressori avevano nuovi alleati. Sotto i freddi raggi della luna, il nano distinse le imponenti sagome di mostri giganteschi, quattro volte più grandi dei mezz'orchi. Ne contò quaranta. I corpi disgustosi erano coperti da armature rudimentali, e le mani simili a zampe brandivano giovani abeti squadrati rozzamente a Emo' di clave. Orchi! Se avessero superato i merli, la linea difensiva sarebbe dovuta retrocedere. I pentoloni con la lava bollente erano ormai vuoti, le riserve di sassi erano momentaneamente esaurite. L'incertezza di Glandallin fu tuttavia di breve durata; gli bastò lanciare un'occhiata alla luminosa figura di Giselbart per ritrovare la fiducia in un ennesimo trionfo sulle creature delle tenebre. La massa dei mezz'orchi si mise in movimento/accogliendo con grida di gioia l'avanzata degli orchi. Quegli esseri immensi, che superavano i mezz'orchi in ferocia e bruttezza, arrancarono fino alla testa dell'esercito. Una volta arrivati a destinazione, prepararono grosse ancore da lancio i cui quattro uncini erano lunghi ciascuno come un uomo adulto. Fecero quindi passare lunghe catene attraverso fori praticati nelle estremità superiori. Quegli aggeggi non sono adatti per arrampicarsi, rifletté Glandallin. Probabilmente gli orchi vogliono usarli per demolire le mura del cammino di ronda. E guardandoli, direi che potrebbero riuscirci. Le ancore vorticarono nell'aria, agganciandosi a una trentina di punti del massiccio avancorpo. Quando qualcuno abbaiò un ordine, gli orchi e i mezz'orchi in attesa cominciarono a tirare le catene. Gli anelli di metallo si tesero tintinnando e dall'alto si udì uno schiocco di frusta. Il nano sentì un lieve scricchiolio. Il baluardo, costruito dalle mani del suo popolo e saldo da molti cicli solari, emise un gemito disperato sotto la forza bruta dei mostri. «Svelti, portate via i feriti!» urlò. Gli aiutanti, che prima si erano occupati dei pentoloni di lava, accorsero per mettere al sicuro Glamdolin e tutti gli altri nani che non erano in grado di combattere. Quando un merlo si staccò, l'artiglio di ferro e i blocchi di pietra precipitarono sibilando e ammazzarono due orchi e dieci mezz'orchi. Ma le bestie non si arresero. Di lì a poco l'ancora ronzò ancora, incastrandosi in un altro punto.
Questa volta i nani indietreggiarono. Abbandonarono il cammino di ronda appena in tempo, posizionandosi sopra i battenti del portale di pietra. Anni prima, i fabbri avevano montato trinceramenti d'acciaio dietro cui ora si rannicchiarono i difensori. Glandallin udì il fragore quando la balaustrata cedette, crollando sulla porta. La terra tremò sotto il suo peso e le esclamazioni di gioia degli avversari furono indescrivibili. Per quanto mi riguarda, quelle bestiacce possono anche sfondarsi il cranio! Glandallin si sforzò di mantenere la calma. La porta non sarebbe mai caduta, perché occorreva ben altro per distruggere la barricata. Sbirciò con prudenza oltre il bordo del rivestimento protettivo. Si avvicinavano altri nemici. In groppa ad altissimi cavalli, neri come la notte, si diressero verso la testa dell'esercito avversario. Glandallin riconobbe subito le figure alte e snelle dalle orecchie appuntite. Erano le stesse che avevano attaccato i nani nei tunnel e che erano state respinte a prezzo di perdite ingenti. Gli occhi dei cavalli brillavano di un rosso scuro, e gli zoccoli sprizzavano scintille biancastre a ogni passo. Due cavalieri corsero fino al portale e diedero istruzioni agli orchi e ai mezz'orchi, che le eseguirono senza protestare. I mostri sgomberarono le macerie davanti alla porta, preparando un nuovo assalto. Gli elfi girarono i cavalli e si allontanarono per osservare la scena da una distanza di sicurezza. Uno dei due cavalieri afferrò l'enorme arco che portava in spalla e lo incoccò. Le dita guantate toccarono mollemente la corda intrecciata; il tiratore aspettò finché si rese necessario il suo intervento. I nani si affrettarono a trascinare frammenti di pietra e a scagliarli contro le bestie. Alcune cercarono di sfuggire ai proiettili. Tuttavia, non appena tre mezz'orchi accennarono a scappare, l'arco dell'elfo scattò verso l'alto. Prima che Glandallin se ne rendesse conto, scoccò il primo dardo, di una portata inconsueta. Colpito, uno dei mostri crollò a terra. Mentre il mezz'orco cadeva, l'elfo aveva già scagliato un'altra freccia; il secondo mostro morì con un urlo e il terzo fu ucciso un attimo dopo. Le altre creature colsero il drastico avvertimento e tornarono al lavoro. Nessuno osò insorgere contro gli alleati per quelle esecuzioni; persino i sottocomandanti tacquero per paura di essere puniti con la morte. All'alba non vi erano ormai più macerie davanti alla porta. I nani della stirpe del Quinto contemplarono con stupore uno spettacolo
bizzarro. Mentre a oriente il cielo si tingeva a poco a poco di sfumature chiare che annunciavano il sorgere del sole, a nord si levava un vasto banco di nebbia. Al suo interno si intravedevano baluginii lividi, rossastri e argentei; i colori si mescolavano, e la loro intensità variava senza sosta. Aleggiando sopra le teste dei mostri, la nube si spostò controvento verso il portone. I mezz'orchi, di solito così chiassosi, tacquero, si strinsero insieme con aria impaurita e si guardarono bene dall'entrare in contatto con quel vapore vivo. Anche gli occhi si ritrassero. Gli elfi chinarono umilmente il capo, porgendo alla bruma un saluto degno di un sovrano. La nebbia luccicante scese fino a terra davanti ai cavalieri e rimase immobile. Poi accadde l'inimmaginabile: uno scossone attraversò il portale, la pietra vibrò e il primo dei cinque catenacci prese a scorrere sugli anelli. Qualcuno doveva aver pronunciato l'incantesimo per lasciare la Terra Nascosta in balia delle orde. «Non è possibile!» esclamò Glandallin inorridito, abbassando lo sguardo verso l'altro lato della porta per scoprire il colpevole. «Come...» Era Glamdolin Braccioforte. Era solo davanti al portone, le mani tese verso il granito in un gesto implorante e le labbra pronte a recitare la formula successiva. «Taci, pazzo!» gli urlò Glandallin, atterrito. «Che fai?!» Ma il nano lo ignorò. Le rune del secondo chiavistello scintillavano già. Il paletto si mosse con un cigolio. «Può essere soltanto una maledetta magia che agisce contro di noi», commentò Glandallin ad alta voce. «La nebbia! Deve averlo stregato!» Il terzo catenaccio si spostò, liberando le barre di ferro del portale. Ora le file dei difensori si agitarono. I primi balzarono in piedi, precipitandosi verso le scale per correre di sotto e costringere Glamdolin al silenzio. Ma il quarto chiavistello scivolava già sulla sua guida. Ne restava soltanto uno, e non c'era alcuna traccia dei nani che avrebbero dovuto fermare il traditore stregato. «Non faremo in tempo», constatò Glandallin, furibondo. «Che Vraccas perdoni il mio gesto, ma non ho scelta.» Dopo aver afferrato l'ascia, la scagliò con forza e rabbia contro l'amico al cui fianco aveva lottato fino a poco prima. La lama turbinò nell'aria, roteando intorno al suo asse e fischiando nell'abisso. Glandallin aveva preso bene le misure. L'arma centrò il bersaglio. Glamdolin gemette quando la scure gli si conficcò nella spalla sinistra.
Un fiotto di sangue schizzò dalla ferita aperta e il nano si accasciò al suolo. Sollevato, Glandallin ringraziò il suo dio per aver guidato l'ascia. Ma ormai era troppo tardi. Il traditore aveva attuato il suo scellerato proposito. L'ultima barriera era caduta. I giganteschi battenti si dischiusero lentamente. Si ritrassero sobbalzando con riluttanza, come se il granito avvertisse che si stava aprendo per le creature sbagliate. La roccia sfregò contro la roccia; l'angusta fessura divenne una grossa crepa che si allargò fino a diventare un passaggio sempre più grande. Dopo un tempo quasi infinito, la porta si aprì. Riecheggiò un ultimo scricchiolio, poi la via verso la Terra Nascosta fu libera per la prima volta dalla creazione del mondo. No! Non possiamo permetterlo! Glandallin si riscosse dalla paralisi. Seguì Giselbart e gli ultimi guerrieri giù per i gradini, intenzionato a difendere il portone. Arrivò penultimo davanti alla larga apertura. I suoi compagni si erano già schierati: con una mano reggevano lo scudo, con l'altra stringevano l'ascia, la temuta arma dei nani. Si allinearono compatti, formando un piccolo baluardo vivente contro l'immane moltitudine di elfi, troll, orchi e mezz'orchi. Quaranta contro quarantamila. Gli avversari non osarono avanzare. Temevano un'imboscata, perché non era mai accaduto che il passaggio si aprisse per loro. Glandallin lasciò vagare lo sguardo sulla prima linea di nemici ripugnanti, dietro la quale erano in agguato una seconda fila, una terza, una quarta, e molte altre ancora. Le sue sopracciglia cespugliose si corrugarono, e un profondo solco gli comparve sopra il naso. L'ostinazione, l'odio per l'incarnazione del male e una fede incrollabile nella sua missione lo fortificarono. Giselbart aveva pronunciato la formula per richiudere il portale. I battenti si riaccostarono docili ma lenti, troppo lenti. Il Quinto passò in rassegna lo schieramento lì dietro, posando ancora una volta la mano sulla spalla di ciascuno. Il suo tocco ebbe insieme un effetto incoraggiante e consolatorio, che rinvigorì gli ultimi difensori della Terra Nascosta. Gli elfi impartirono gli ordini, le trombe squillarono. Gli orchi e i mezz'orchi urlarono per farsi animo, sollevando le armi e lanciandosi in una corsa tonante. L'assalto ebbe inizio. «Possono avvicinarsi solo in fila indiana. Fategli assaggiare il nostro
buon acciaio!» gridò Glandallin a destra e a manca per fare coraggio ai compagni. «Vraccas è con noi! Siamo i figli del Fabbro!» «Siamo i figli del Fabbro!» ripeterono i suoi fratelli, i piedi ben piantati sulla roccia. Giselbart collocò quattro nani come ultima difesa. Quindi gettò via lo scudo, estrasse entrambe le asce e diede il segnale del contrattacco. Gli ultimi rappresentanti della stirpe del Quinto si misero a correre per sterminare gli avversari. La collisione tra le forze impari si verificò a dieci passi dall'arcata del portone. I guardiani della porta si infilarono come talpe tra le linee dei mezz'orchi, che si erano scagliati in avanti. Glandallin roteò l'ascia che gli era rimasta, tranciando una gamba dietro l'altra. Non si fermava ad ammazzare le bestie; gli bastava farle cadere perché fossero di ostacolo alle altre. «Di qui non passerete mai!» strillò. Ben presto fu imbrattato da capo a piedi di sangue puzzolente, che gocciolò dall'armatura e dall'elmo facendogli bruciare gli occhi. Quando la forza minacciò di abbandonarlo, impugnò l'ascia con entrambe le mani. «Mai!» Alcune ossa si spezzarono, liquidi caldi si riversarono su di lui, una spada e un giavellotto lo ferirono leggermente, ma continuò a combattere. Non gli importava della sua vita. Voleva che la porta si chiudesse in tempo e che la Terra Nascosta restasse al sicuro. Una volta guariti dalla febbre, i malati si sarebbero occupati della difesa. Niente è ancora perduto! si disse. Le rune del mastro fabbro Borengar, che fino a quel momento avevano davvero sprigionato un potere miracoloso, dovevano tuttavia aver esaurito la loro protezione una volta per tutte. Con la coda dell'occhio, Glandallin vide cadere il commilitone alla sua destra: lo spadone di un mezz'orco gli aveva spaccato il cranio. Animato da un odio cocente e dalla sete di vendetta, fece due passi di lato, conficcò l'ascia nel ventre del mostro e gli squarciò la pelle nera nel senso della lunghezza. Un'ombra incombente lo avvertì troppo tardi. Cercò invano di schivare la clava che gli piombò addosso, ma la pesante estremità della mazza si abbatté sulla sua gamba, schiacciandogliela. Urlando, Glandallin cozzò contro il mezz'orco più vicino, cui staccò mezza coscia mentre cadeva. Atterrò quindi a testa ingiù nell'intrico di gambe e si rotolò ringhiando finché non vide più alcun avversario intorno a sé.
«Fatevi sotto!» sfidò irato gli altri nemici. Lo punirono con l'indifferenza. Spinti da sfrenata cupidigia, gli passavano accanto di corsa per raggiungere la Terra Nascosta. Che cosa se ne sarebbero fatti della dura carne di un nano quando li aspettava qualcosa di molto meglio? Simili a stupidi animali, si accalcavano e si spintonavano per varcare il portale, senza più curarsi del nano sconfitto. Tra sofferenze indicibili, Glandallin sollevò il busto per guardare verso i due battenti di granito. Sperava che l'ultima fila dei suoi compagni resistesse e respingesse l'offensiva. La sua speranza si rivelò vana. Era l'ultimo superstite, gli altri nani giacevano a terra morti e mutilati nei modi più crudeli, attorniati dagli innumerevoli cadaveri dei nemici abbattuti. I diamanti sulla cintura di Giselbart scintillavano, indicando il punto in cui il signore della loro stirpe era caduto vittima di tre orchi. Quella vista colmò Glandallin di un dolore insopportabile e al tempo stesso di un orgoglio caparbio. Frattanto il portone si era quasi richiuso. Otto orchi spingevano disperatamente i battenti per impedire che si sigillassero di nuovo. Le piante dei loro piedi callosi, tuttavia, sdrucciolavano sulla roccia, perché nemmeno la loro forza titanica poteva opporsi alla magia del dio Vraccas. I pochi mostri che finora si erano intrufolati nella Terra Nascosta non costituivano certo un pericolo insormontabile per gli elfi, gli uomini, gli stregoni e tutti gli altri esseri. Il sole mattutino si levò sopra la cresta oltre la Porta di Pietra, accecando il nano. Glandallin si schermò gli occhi sensibili con la mano per continuare a guardare e avere la certezza che il portone non presentasse più neppure la più piccola fessura. Ce l'abbiamo fatta, Vraccas, stava pensando con sollievo, quando un dolore lancinante gli trapassò la schiena. Nel giro di alcuni secondi, la sottile punta di una lama gli spuntò dal petto prima che qualcuno la estraesse. Gli mancò il fiato. «Chi...?» Il perfido aggressore gli girò intorno e gli si accovacciò dinanzi. Il nano si ritrovò a studiare il delicato viso di un elfo; i raggi del sole splendevano tra i suoi capelli biondi, trasformandoli in fili d'oro. La bellezza di quell'essere era inquinata da un difetto che incuteva paura: al posto degli occhi, Glandallin distinse due insondabili buchi neri a forma di mandorla. L'Orecchio appuntito indossava una scintillante armatura di piastre d'acciaio brunito, che gli scendeva fin sopra il ginocchio. Le gambe erano coperte da pantaloni di cuoio, gli stivali marrone scuro gli arrivavano poco
sotto la rotula. Guanti vermigli gli proteggevano le dita dalla sporcizia, e la mano destra stringeva un giavellotto con una fine punta di ferro insanguinata, che aveva trapassato l'intreccio di anelli della sua cotta di maglia. La singolare creatura parlò. Glandallin non lo comprese, ma il suono sinistro delle sue parole gli fece correre brividi gelidi lungo la schiena. «Il mio amico ha detto: "Guardami. La tua morte si chiama Sinthoras"», tradusse qualcuno alle sue spalle. «Io ti sottraggo la vita e la terra ti sottrae l'anima.» Glandallin tossì, espellendo sangue scuro che gli colò dagli angoli della bocca e si infiltrò tra la barba. «Sparisci, vile Orecchio appuntito! Voglio assicurarmi che la porta si chiuda», intimò il nano in tono brusco. Cercò di allontanare l'avversario con un colpo d'ascia, ma per poco l'arma non gli scivolò di mano: ormai le forze gli venivano meno. «Vattene, altrimenti ti spezzo come un filo di paglia, elfo traditore», continuò a strepitare, con disprezzo del dolore. Sinthoras proruppe in una gelida risata. Sollevò il giavellotto e ne conficcò la punta in uno stretto spazio tra gli anelli della cotta. «Ti sbagli. Noi siamo albi. Siamo venuti per annientare gli elfi», disse mellifluo dietro di lui. «Che la porta si chiuda pure, ma quando risorgerai dalla morte grazie al potere del terreno, sarai uno di noi e la aprirai. Tu conosci l'incantesimo.» «Mai!» protestò il nano. «La mia anima volerà da Vraccas...» «No, perché ora la tua anima appartiene al suolo, quindi anche tu gli appartieni per sempre», lo interruppe il suo aggressore. «Adesso muori, torna e consegnaci la Terra Nascosta.» L'estremità affilata penetrò nella carne del nano impotente e indebolito. Il dolore lo fece ammutolire. Con una lieve pressione, Sinthoras gli conficcò la lama per la seconda volta nel corpo sfinito. Lo sguardo beato, lo fece quasi con solennità, con gentilezza, quindi ne attese la morte. Osservò con avidità i lineamenti di Glandallin, distorti dall'agonia, e si impresse quell'immagine nella memoria. Si alzò solo quando fu sicuro che la vita avesse abbandonato l'ultimo guardiano della Porta di Pietra.
I Terra Nascosta, regno incantato di lonandar, 6234° ciclo solare, primavera Il martello rimbalzava con un sonoro tintinnio sul ferro rovente, che si arrotondava sempre più a ogni colpo, prendendo forma e cedendo al potere della forza e dell'abilità. Il concerto cessò all'improvviso. Si udì un borbottio di insoddisfazione, mentre le ganasce d'acciaio di una tenaglia si chiudevano di scatto, afferrando il pezzo e gettandolo di nuovo nella fucina. Il fabbro non era contento del suo lavoro. «Che cosa combini, Tungdil?» domandò in tono spazientito Eiden, lo stalliere del mago Lot-Ionan, accarezzando sotto le froge il cavallo immobile. «Dobbiamo forse aspettare in eterno? Devo arare il campo.» Il nano dalla corta barba marrone affondò le mani nel secchio d'acqua e approfittò della breve interruzione per liberarsi della sporcizia. Il suo busto nudo e tozzo era coperto da un grembiule di cuoio, e le gambe erano infilate in pantaloni di pelle. Si passò le dita poderose tra i lunghi capelli castani per lavare via il sudore e rinfrescarsi un poco. «Non sarebbe andato bene», fu la breve spiegazione. Tungdil azionò il mantice, il cui soffio gli riecheggiò nelle orecchie come il respiro di un gigante decrepito. L'aria fresca tinse i carboni ardenti di una sfumatura rosso fuoco. «Solo un istante.» Il fabbro ripeté la procedura, adattando il ferro allo zoccolo. Quando il corno bruciò, Tungdil scomparve in una puzzolente nuvola bianca e gialla. Raffreddò rapidamente il metallo immergendolo in un secchio d'acqua, infilò i chiodi negli appositi fori e posò con prudenza la zampa posteriore sul pavimento. Si affrettò ad allontanarsi dal cavallo forte e robusto, le cui dimensioni gli incutevano diffidenza. Eiden scoppiò a ridere, accarezzando l'animale. «Allora il piccoletto ha sistemato tutto, eh?!» disse al quadrupede. «Vieni, ma stai attento a non calpestarlo.» Uscirono entrambi dalla fucina per arrivare al campo il prima possibile. Il nano si stiracchiò, scuotendo le braccia muscolose. Le malignità dello stalliere non gli facevano alcun effetto. Era abituato sia allo scherno offensivo sia a quello bonario; essendo l'unico nano che viveva tra gli uomini, non poteva aspettarsi altro.
Nella Terra Nascosta, vedere un rappresentante del suo popolo era raro quanto trovare una pepita d'oro sul ciglio della strada, e la fama dei pochi nani ambulanti che, durante le loro peregrinazioni, offrivano i propri servigi come fabbri o costruttori di utensili non era delle migliori. Venivano considerati tipi strambi e molto riservati, e si mormorava che fossero interessati soltanto alle monete e ai lauti guadagni. Però mi piacerebbe incontrarne uno, pensò Tungdil. Il suo sguardo vagò per il locale in perfetto ordine, soffermandosi sui numerosi martelli e tenaglie riposti sui loro sostegni. Potrebbe senz'altro raccontarmi molte cose sulle cinque stirpi dei nani. Tungdil amava la semioscurità della forgia, perché accentuava la bellezza dei carboni luccicanti. Azionò di nuovo il mantice; l'aria ravvivò le fiamme, sprizzando scintille nel camino. Un largo sorriso si delineò sul viso del nano. Immaginò che i luminosi puntini rossi volassero fuori del fumaiolo e salissero alle stelle per trasformarsi in astri a loro volta. Battere il martello sul ferro incandescente gli procurava altrettanta gioia. Chissà se i miei simili forgiano i metalli diversamente da me... «Perché nella tua officina è sempre così buio?» Sunja, la figlia della serva Frala, una vivace bimba bionda cui l'aspetto di Tungdil risultava del tutto indifferente, era sbucata dal nulla. Il nano sorrise tanto che il suo volto simpatico si raggrinzì. Si meravigliava della velocità con cui crescevano i figli degli uomini. Entro breve la piccina sarebbe stata alta quanto lui. «I gatti e i bambini piccoli non si sentono mai arrivare.» Gettò un pezzo di ferro nella forgia. «Vieni, lasciamolo arroventare, e intanto te lo spiego.» Piena di stupore, Sunja lo aiutò ad abbassare il mantice e, come sempre, Tungdil le fece credere di avere fatto uscire da sola l'aria dalle guance di cuoio rigonfie. Ben presto il metallo scintillò. «Vedi?» Afferratolo con la tenaglia, lo adagiò sull'incudine. «Naturalmente c'è un motivo per cui qui dentro regna la penombra. Solo così il fabbro può sapere se l'acciaio ha raggiunto la temperatura giusta. Se aspetto troppo, il ferro si brucia, se lo tolgo troppo presto dal suo letto di carboni ardenti, si spezza oppure non si lascia forgiare.» Tungdil si compiacque quando vide il grave cenno d'assenso della piccina, che assomigliava a sua madre come una goccia d'acqua. «La mamma dice che sei un mastro fabbro.» Il nano scoppiò in una risata. «Non esageriamo. Ma conosco molto bene il mio mestiere.» Le strizzò l'occhio, e lei rise allegramente.
Nessuno gli aveva insegnato quell'arte. Aveva osservato il vecchio fabbro di Lot-Ionan all'opera, e non gli era occorso nient'altro. Ogni volta che l'uomo non usava l'incudine, Tungdil aveva colto l'occasione per esercitarsi. Non aveva impiegato molto per imparare i rudimenti. Adesso che erano trascorsi più di trenta cicli, si sentiva in grado di eseguire qualsiasi lavorazione dei metalli. Assorti nei loro pensieri, Tungdil e Sunja osservarono il mutevole gioco dei colori. Arancione, giallo, rosso, bianco, blu... I pezzi di carbone brillavano, crepitando e scoppiettando. Stava per chiederle che cosa ci fosse per pranzo, quando intravide i contorni di una persona nell'ingresso luminoso. «Tungdil, vieni in cucina. Abbiamo bisogno di te», dichiarò in tono imperioso Jolosin, un apprendista di quarto grado. «Non potresti essere un po' più gentile?» lo rimbeccò il nano, rivolgendosi poi a Sunja: «Promettimi di non toccare niente». Con un gesto rapido, si infilò nella borsa un piccolo oggetto di sua creazione prima di seguire l'apprendista stregone lungo i corridoi della volta sotterranea che ospitava la scuola dei Pazienti. Circa duecento uomini scelti, giovani e vecchi, imparavano i rudimenti dell'arte magica sotto la sorveglianza di Lot-Ionan. Tungdil non voleva avere nulla a che fare con l'elusiva e capricciosa magia; il suo regno era la fucina, in cui poteva sfogarsi a piacimento. Preferiva il lavoro manuale e, di tanto in tanto, un buon libro. Il mago aveva infatti destato in lui la passione per la lettura. La raffinata veste blu scuro di Jolosin svolazzava qua e là, e i capelli ben curati fluttuavano. Tungdil sogghignò. Che vanitoso! Svoltarono nell'ampia stanza in cui aleggiava un profumino squisito. Sopra due grandi focolari erano appesi calderoni che ribollivano e gorgogliavano. Tungdil capì subito perché il giovane l'aveva chiamato. Una catena che serviva per sollevare i pentoloni mediante un paranco si era staccata dal suo sostegno, e il contenitore poggiava sul focolare. Il peso era eccessivo per una donna, e nessuno degli studenti, che si reputavano migliori degli altri persino nel servizio in cucina, osava fare qualcosa. Si sarebbero potuti scottare o addirittura sporcare le dita: questo però lo pretendevano dalle mani di un fabbro. La cuoca, un donnone dai fianchi robusti, attraversò la stanza in preda all'agitazione. «Presto, altrimenti il gulasch si brucia!» strillò, armeggiando con la reticella che stava per scivolarle dai capelli.
«Sarebbe un peccato, con la fame che ho.» Senza indugio, il nano arrancò fino al camino, tastò brevemente la catena per accertarsi che non fosse troppo calda e afferrò gli anelli fuligginosi. I suoi muscoli si erano irrobustiti grazie agli anni passati davanti all'incudine, e con l'andare del tempo persino il martello più pesante era diventato leggero. Sollevare un calderone con un paranco non era affatto un'impresa ardua. «Tieni questa», ordinò a Jolosin, tendendogli la catena sudicia. «Devo riparare il sostegno.» Il giovane esitò. «Non peserà troppo?» chiese con prudenza. «No. E poi, se sei bravo come continui a ripetere, puoi sempre fare un incantesimo per alleggerirla», rispose Tungdil con un ghigno, cacciandogliela in mano e mollando la presa. L'apprendista imprecò, sorreggendo il pentolone con tutte le sue forze. «Scotta», si lamentò. «Non azzardarti a rovinare il mio gulasch, ragazzo», lo minacciò la cuoca in tono brusco, rinunciando a combattere con i capelli castano scuro che ormai le scendevano sul viso paffuto. «Tienilo forte, altrimenti nemmeno il mago ti salverà dal mio matterello!» I suoi possenti avambracci guizzarono. Tungdil scoprì subito perché il blocco si era allentato, ma prolungò un poco il suo intervento per giocare un brutto tiro allo studente, così presuntuoso da rifiutarsi di eseguire le mansioni più umili. «Oh, pare piuttosto grave», disse ad alta voce, sforzandosi di sembrare preoccupato. Frala, la serva dai capelli neri e dai begli occhi verdi, intuì lo scherzo e ridacchiò mentre pelava le patate. Con un'abile mossa il nano prese la catena e la fissò di nuovo al gancio. Il calderone restò sospeso, il gulasch era salvo. «Adesso puoi lasciarlo.» Jolosin obbedì, guardandosi le mani imbrattate; anche l'elegante veste blu scuro aveva riportato qualche danno. Disorientato, si voltò verso Frala, che lo fece avvampare scoppiando a ridere. «L'hai fatto apposta, misero mostriciattolo!» sibilò in direzione di Tungdil. Mosse un passo minaccioso verso il nano, intenzionato ad alzare le mani contro di lui, ma poi la superiorità fisica del fabbro gli fece cambiare idea, e corse fuori, stizzito. Il nano sogghignò, pulendosi le mani sul grembiule. «Anch'io gliele avrei suonate volentieri. Peccato che se la sia squagliata.» Frala gli lanciò una mela che aveva pescato dalla cesta lì accanto. «Povero Jolosin», rise. «Adesso la sua bella veste è tutta sporca.»
«Ho forse dimenticato di dirgli che avrebbe potuto insudiciarsi?» disse Tungdil, scrollando le spalle e avvicinandosi alla serva che, come lui, svolgeva i lavori e le commissioni più umili nella scuola di magia di LotIonan. «Ma gli sta bene», aggiunse, e le lievi rughe di ilarità intorno ai suoi occhi vispi si fecero più profonde. «Voi due proprio non vi potete sopportare», sospirò Frala. «Un giorno qualcuno si farà male davvero durante uno dei vostri battibecchi.» Una patata atterrò in una tinozza piena d'acqua. «Chi la fa l'aspetti.» Tungdil si accarezzò i peli sul mento, corti e ispidi. «È il mio nemico giurato da quando mi ha tinto la barba con un pettine magico. Ho dovuto raderla!» «Ho sempre pensato che i nemici giurati dei nani fossero i mezz'orchi», osservò Frala, facendogli l'occhiolino. «Lui fa eccezione. La barba è la cosa più preziosa per un nano, e probabilmente un vero nano l'avrebbe ammazzato. Ma io sono troppo buono.» Addentò la mela con vigore. La sinistra gli scivolò nella piccola borsa attaccata alla cintura, quindi depose un regalino nella mano di Frala. «Tieni. È per te.» Aprendo le dita, la serva scorse tre chiodi da maniscalco, che il nano aveva trasformato con grandissima meticolosità in un amuleto. Commossa, gli accarezzò la guancia. «È molto gentile da parte tua. Grazie.» Si alzò, prese una spessa cordicella e vi infilò il ciondolo, quindi annodò rapidamente lo spago affinché il dono di Tungdil le pendesse sul petto. «Come mi sta?» chiese, civettuola. «Sembra fatto apposta per te», rispose il nano, felice perché la ragazza aveva gradito quel semplice monile come se fosse il gioiello più prezioso della Terra Nascosta. I due erano uniti da un legame molto particolare. Tungdil conosceva Frala da quando era piccolissima, e l'aveva vista crescere e tramutarsi in una giovane donna la cui avvenenza faceva girare la testa agli studenti di magia. Nel frattempo la serva aveva avuto due bambine, Sunja, di otto anni, e Ikana, di un anno appena. Frala non si vantava della sua bellezza ed era sempre cordiale con tutti gli abitanti della galleria, compreso Tungdil. Per lei, l'aspetto di Tungdil era familiare e normale quanto quello di un essere umano, e aveva trasmesso quella convinzione alla figlia maggiore. Il nano notava benissimo la differenza. Quasi tutti gli uomini e le donne
che arrivavano nel regno di Ionandar per apprendere la nobile arte della magia da Lot-Ionan lo consideravano un tipo strambo, una specie di fenomeno da baraccone. La serva, invece, gli parlava come parlava ai garzoni o alla cuoca, facendolo sentire accettato e benvoluto. In passato, Tungdil le aveva fuso alcune figurine di stagno, con cui Frala aveva giocato piena di entusiasmo, e le aveva mostrato l'officina, permettendole di azionare il mantice. «Soffio di drago», l'aveva battezzato lei, ridendo estasiata quando le scintille si erano alzate in volo. Gli era molto grata per essersi preso cura di lei, e ora di sua figlia. Frala trasferì le ultime patate in un bacile e aggiunse altra acqua, poi si voltò verso di lui. I suoi occhi verdi lo scrutarono. «È bizzarro», osservò, sorridendo. «Stavo proprio pensando che per me non sei cambiato di una virgola in tutti questi anni.» Masticando, il nano sedette sullo sgabello. Mezza mela era già scomparsa nella sua pancia. «E io stavo proprio pensando che noi due ci intendiamo a meraviglia», replicò, sincero. «Frala, vieni qui a rimestare il gulasch!» ordinò la cuoca. «Devo andare a prendere ancora qualche erba.» Il lungo mestolo, alto quasi quanto Tungdil, passò di mano. «E bada che non si attacchi», ammonì il donnone in tono minaccioso prima di uscire. La serva si piazzò davanti al calderone, mescolando con vigore la pietanza dal profumo squisito. «Ho visto invecchiare tanti esseri umani, persino l'onorato mago», proseguì «ma tu sei rimasto sempre lo stesso per ventitré cicli. Chissà se sarai ancora così tra altri ventitré.» La giovane aveva toccato un argomento di cui Tungdil non amava discutere. Se quanto aveva letto riguardo alla durata della vita di un nano era vero, sarebbe vissuto per altri trecento cicli solari e più. La certezza che un giorno avrebbe assistito alla morte di Frala, perdendo così la sua adorabile amica, gli straziava già il cuore. Con espressione meditabonda si infilò il torsolo in bocca e lo sgranocchiò. «Basta così, Frala», disse, cercando di scacciare quei pensieri angoscianti. Quel giorno, tuttavia, sembrava che la serva riuscisse a leggere nel profondo del suo cuore. «Mi prometti una cosa, Tungdil?» Il nano annuì. «Quando non ci sarò più, ti occuperai delle mie figlie?» Tungdil inghiottì i semi amari, che gli graffiarono la gola. «C'è ancora molto tempo. Vivrai almeno...» alzò lo sguardo verso di lei «... almeno
cento cicli. Supplicherò il vecchio stregone di regalarti la vita eterna. E anche a Ikana e a Sunja», borbottò. La giovane rise. «Non preoccuparti, non ho intenzione di presentarmi così presto al cospetto di Palandiell.» Rimestò con cura il gulasch; il sudore le colava sulla fronte e sul viso. «Ma... è bello sapere che qualcuno baderà alle mie bambine.» Alzò le spalle con aria un poco smarrita. «Ti prego, sii il loro padrino.» «Quando verrai chiamata dalla tua dea, le tue figlie saranno abbastanza grandi da badare a se stesse», protestò, ma quando si rese conto che Frala diceva sul serio, giurò di prendersi cura di Ikana e Sunja. «Per me è un onore essere il loro padrino.» Scivolò giù dallo sgabello. «Se il gancio dovesse staccarsi, mandami Jolosin», si accomiatò, ma non prima di avere ricevuto anche una piccola scodella di gulasch per il disturbo. Nella fucina lo attendevano Sunja e un nuovo lavoro portato dallo stalliere. I cerchi di due botti si erano spezzati, perciò si apprestò ad aggiustarli. Poi si ruppe un pezzo dell'aratro, che dovette essere riparato con urgenza. Tungdil era contento di darsi da fare. Lo sforzo e il calore del fuoco lo coprirono di sudore; le gocce gli rotolavano lungo le braccia, cadendo con un sibilo nella forgia. La figlia maggiore di Frala lo osservava come ipnotizzata, allungandogli gli utensili più leggeri e affaccendandosi intorno al mantice. Il ferro arroventato cedeva sotto i suoi colpi, tramutandosi in quello che lui desiderava. In istanti come quello si sentiva un vero nano, e non un trovatello allevato da stregoni umani. I suoi pensieri presero un'altra direzione. Durante i sessantatré cicli della sua esistenza non aveva visto neppure un nano, perciò era felice quando Lot-Ionan gli chiedeva di sbrigare delle commissioni, cosa che purtroppo accadeva di rado. Sperava ardentemente che un giorno avrebbe incontrato un suo simile e avrebbe scoperto qualcosa in più riguardo al suo popolo; i nani ambulanti avevano tuttavia diradato le loro visite. Lo Ionandar era una regione popolata solo da esseri umani. Gnomi e coboldi non esistevano ormai quasi più, e una volta Frala gli aveva raccontato che i pochi superstiti vivevano in luoghi dimenticati nel sottosuolo, uscendone soltanto quando avevano l'opportunità di rubare qualcosa agli elfi, ai nani o agli uomini. Gli ultimi elfi abitavano nell'Àlandur, tra la vegetazione della Foresta Eterna, mentre i nani risiedevano nelle cinque montagne intorno alla Terra
Nascosta. Tungdil aveva quasi abbandonato la speranza di raggiungere, un giorno, uno dei loro regni e apprendere qualcosa in più sulle proprie origini. Le sue conoscenze in merito derivavano dai libri del mago, ma erano nozioni molto aride, informazioni prive di vita. Alcuni scrittori si burlavano dei «Cavernicoli», altri li incolpavano addirittura di avere consentito l'arrivo del Terrore senza nome nella Terra Nascosta. Per quanto si sforzasse, Tungdil non riusciva a crederci. I volumi di quel tipo spiegavano perché c'erano così pochi nani al di fuori dei loro regni. I «Cavernicoli» si erano senz'altro offesi e preferivano voltare le spalle agli uomini. Tungdil aveva già aggiustato il primo cerchio della botte, quando Jolosin ricomparve. Indossava una nuova veste, notò il nano con gioia maligna. «Sbrigati!» ansimò lo studente, nervoso, cercando di riprendere fiato. «Ancora il pentolone del gulasch? Corri a tenerlo fermo. Arrivo subito», sogghignò Tungdil. «Nel laboratorio...» Accorgendosi che la voce gli veniva meno, Jolosin indicò la direzione del locale. «Il camino», sbuffò, affrettandosi a tornare da dove era venuto. Sembra proprio una faccenda seria... Inquieto, il nano posò il martello e si pulì le mani sul grembiule. Dopo avere rimandato Sunja in cucina da sua madre, seguì l'apprendista lungo i corridoi scolpiti nella pietra.
Terra Nascosta, sul confine del regno del Secondo, Beroïn, 6233° ciclo solare, inverno Miriadi di minuscoli granelli di sabbia flagellavano gli elmi, gli scudi, le armature e ogni pollice di carne scoperta. Un vento torrido e impetuoso sospingeva la terra staccatasi dalle dune. La valorosa schiera di nani avanzava nella tempesta in groppa ai pony. I fazzoletti avrebbero dovuto proteggere i loro visi dalla violenza della natura, ma la chiara polvere del deserto si insinuava comunque attraverso la stoffa: non vi era bocca in cui non scricchiolasse, e barba in cui non si infiltrasse. «Maledetto vento!» imprecò re Gandogar Barbadargento del clan omonimo, signore della Quarta stirpe e dei suoi dodici gruppi, raddrizzandosi il fazzoletto per difendersi il naso dalla sabbia. Il nano, che aveva duecentonovantotto anni, era considerato un sovrano esperto e un ottimo combattente. Alto poco più di cinque piedi, aveva braccia muscolose e non si era separato dalla sua pesante e costosa armatura nemmeno in quelle circostanze. I capelli castano scuro gli spuntavano da sotto l'elmo tempestato di diamanti, e la barba era del medesimo colore. Imperturbabile, guidava il suo seguito tra dune e cumuli di detriti. «Trovo più fastidiosa la sabbia. In montagna non può capitare nulla di simile», affermò Bislipur, il suo amico e mentore, che cavalcava lì accanto. Superava il sovrano dei nani in statura e robustezza e indossava quasi altrettanti anelli preziosi e bracciali d'oro. Aveva un portamento da guerriero, e la sua cotta di maglia mostrava i segni delle numerose battaglie affrontate. Avevano combattuto l'ultima solo cinque rivoluzioni prima, contro i mezz'orchi. «Un granello di sabbia non ha mai fatto male a nessuno. Di solito non me ne lamento neppure io», bofonchiò. La quantità e la violenza con cui la polvere sferzava lui e la legazione, tuttavia, facevano gemere anche il nano più temprato. «Non siamo un popolo del deserto. Ci sarà pure un motivo se Vraccas ci ha fatti di pietra e non di sabbia», aggiunse, esprimendo il pensiero dell'intero drappello. I pony con cui si erano messi in cammino verso il Secondo regno dei nani nitrivano e sbuffavano con rabbia per liberarsi le froge, ma così non facevano altro che aspirare una quantità ancora maggiore di quella sabbia inclemente.
«Non c'è altra strada», si lagnò Gandogar. «Ma se può consolarvi, ce l'abbiamo quasi fatta.» Il manipolo di trenta nani si trovava nel Sangreîn, la desolata terra della regina Umilante, dove steppe aride si alternavano a deserti ancora più aridi. Il paesaggio era così triste che i viaggiatori preferivano fissare lo sguardo sulle punte degli stivali o le criniere arruffate dei cavalli. Nelle regioni meridionali, dopo essersi messi in cammino dai Monti Marroni, avevano dapprima attraversato le amene valli e le ripide gole del montuoso Urgon di re Lotario. Avevano poi cavalcato attraverso il molto più vario Idoslân di re Tilogorn, dove le colline si chiamavano montagne e i boschi ombrosi si avvicendavano a prati verdeggianti. Ora Gandogar conduceva il suo seguito attraverso la zona più ostile del Sangreîn, una cintura di sabbia finissima larga quaranta miglia, che, quasi a tenere lontani i visitatori, si stendeva come una barriera intorno al massiccio montuoso situato più in là, la meta del loro viaggio. Di tanto in tanto, quando il mugghio del vento si calmava e la cortina di sabbia si diradava, intravedevano l'imponente altura che si ergeva come un miraggio magico. Le vette innevate dei Monti Blu li attiravano con la prospettiva del refrigerio, dell'acqua fresca e della compagnia del loro popolo. Bislipur si sistemò il fazzoletto davanti al naso e alla bocca, accarezzandosi la barba brizzolata e mugugnando: «Non sono certo un appassionato di magia, ma adesso uno stregone ci farebbe proprio comodo». «Perché?» «Il suo potere costringerebbe questo maledetto vento a placarsi.» Un'ultima raffica si abbatté sugli inviati prima che il fragore cessasse di colpo. Davanti a loro, la catena montuosa si estendeva ormai per più di cinque miglia verso oriente e verso occidente. «Si direbbe che lo stregone sia tu», commentò Gandogar, tirando un sospiro di sollievo. Non aveva mai sopportato il mondo al di fuori del suo regno, e quell'esperienza l'aveva persuaso a giurare che quello sarebbe stato il suo primo e ultimo viaggio. «Guarda, ci siamo quasi!» I pendii delle montagne proiettavano ombre allungate, oscurando l'imponente fortezza di Orcomorto. L'edificio si restringeva alle propaggini del massiccio montuoso, perché i suoi costruttori l'avevano scavato in parte nella pietra, e in parte avevano eretto gli sbarramenti da cui si diramavano quattro inespugnabili terrazze difensive sovrapposte.
Nella parete di roccia del livello più elevato si apriva l'ingresso al regno sotterraneo, largo otto passi e alto dieci. Sembra che il monte stia sbadigliando con una bocca enorme, pensò il re. Quando la legazione si avvicinò alla fortezza, i due battenti della porta si spalancarono, invitanti. Sopra le torri sventolavano con solennità i diciassette vessilli dei clan del loro ospite. «Abbiamo cavalcato da un capo all'altro della Terra Nascosta e finalmente siamo giunti a destinazione», rise Gandogar, sollevato. Gli altri nani si lasciarono contagiare dalla sua allegria. Costituivano il seguito che aveva condotto il sovrano sano e salvo da Beroïn. Erano i leader, i migliori guerrieri e artigiani di tutti i dodici clan della Quarta stirpe, coloro che sapevano maneggiare alla perfezione la scure, l'ascia e gli utensili. La loro forza leggendaria spiegava anche perché non erano incappati in alcun bandito lungo il tragitto; sarebbe infatti valsa la pena di aggredirli solo per l'abbondante quantità di oro che trasportavano. Bislipur fece un cenno imperioso, il cui significato fu compreso all'istante. Un esserino alto tre piedi scivolò dalla groppa del suo pony con fare cerimonioso e zampettò nella sabbia bianca. Gli ampi calzoni erano trattenuti da una larga cintura. Anche se pareva molto nerboruto, gli si intravedeva una pancia voluminosa sotto gli indumenti. Sopra la camicia di iuta giallognola indossava una giubba rossa; un berretto blu da cui spuntavano due orecchie appuntite gli nascondeva il viso. Le scarpe con la fibbia sollevavano la sabbia a ogni passo; un nastro argenteo gli cingeva il collo. Si inchinò con garbo davanti a Bislipur. «Swerd è al Vostro servizio», bofonchiò, scorbutico. «Come sempre, non di sua spontanea volontà.» «Taci, gnomo», tuonò Bislipur, levando il pugno possente. Swerd si piegò. «Vai avanti e annunciaci. Poi aspetta il nostro arrivo senza toccare nulla.» «Ho sentito e obbedisco senza alcun piacere.» Dopo aver fatto un profondo inchino, lo gnomo corse verso il suo pony. Di lì a poco sfrecciò accanto ai nani, diretto verso la fortezza. Si vedeva anche da lontano che Swerd non sapeva cavalcare. Saltellava su e giù sulla sella assecondando i movimenti del cavallo, si premeva il berretto sulla testa con le dita simili ad artigli e lasciava che fosse l'animale a trovare la strada verso il primo bastione. «Se galoppa più veloce, rischia di perdere la virilità», commentò
Gandogar. «Quando intendi lasciarlo libero?» domandò al suo mentore. «Quando avrà pagato a sufficienza per le sue azioni», rispose Bislipur, spiccio. «Proseguiamo.» Premette i talloni contro i morbidi fianchi del pony, che partì al trotto. Si approssimarono alla fortezza di Orcomorto, che conoscevano solo tramite racconti e illustrazioni. Probabilmente erano trascorsi secoli da quando l'ultimo rappresentante della stirpe di Goïmdil si era avventurato fino all'altro capo della Terra Nascosta. In passato, il loro popolo si era riunito a intervalli regolari per celebrare insieme il dio Vraccas e ringraziare il Fabbro di averli creati, ma da quando la Porta di Pietra era caduta sotto l'assalto degli albi, degli orchi e dei mezz'orchi, e i clan della Quinta stirpe erano stati annientati, la coesione si era spezzata. «È giunto il momento.» Gandogar sollevò un poco le natiche, che gli dolevano a causa del continuo dondolio. Nessuno di loro era un cavaliere provetto. Gli inviati erano saliti controvoglia sui pony; essendo veri nani, non si sarebbero fidati di cavalli più grandi, e inoltre sarebbe stato poco dignitoso ricorrere a una scaletta per montare in sella. Su questo erano stati inflessibili. Due dei loro accompagnatori si erano rifiutati di usare gli animali e si erano costruiti piccoli e maneggevoli carri da guerra che avanzavano in fondo al corteo. «Siamo tutti felici di essere arrivati alla fine del viaggio», disse Bislipur, sbrigativo, sputando un poco di sabbia. Tuttavia, la vista dell'imponente baluardo li ripagò in parte della fatica. Gli occhi di Gandogar vagarono sulle magistrali decorazioni che abbellivano le mura e le torri; bastarono le figure, gli zoccoli, le colonne e gli ornamenti del primo bastione a colmarlo di meraviglia. Noi saremo anche i migliori levigatori di pietre preziose, ma loro sono senza dubbio i migliori scalpellini. Il portone si spalancò, consentendo al drappello di accedere al cortile della prima terrazza. Swerd, in piedi accanto al suo pony, aspettò obbediente finché Bislipur lo mandò in fondo al gruppo con un gesto. Un nano si avvicinò alla legazione. Si vedeva che era anziano: doveva avere più di trecento cicli. «Saluto re Gandogar Barbadargento della Quarta stirpe e il suo seguito. Sono Balendilín Solbraccio del clan dei Fortidita, consigliere del nostro imperatore Gundrabur Testacanuta della Seconda stirpe. Siate i benvenuti.»
La sua figura tarchiata era avvolta da una cotta di maglia; la cintura, che tratteneva l'ascia da guerra, era chiusa da una fibbia di pietra finemente lavorata. I ciuffi della barba erano costellati di numerosi fermagli dello stesso materiale, e una lunga treccia gli penzolava sulla schiena. Sollevò il capo. «Seguitemi, stimati fratelli. Vi faccio strada.» Voltatosi, percorse la salita che conduceva all'ingresso del monte. In quel momento, tutti notarono che gli mancava il braccio sinistro. Gandogar ipotizzò che l'avesse perso in una delle battaglie contro i mostri. Balendilín aveva una corporatura molto robusta, imputabile senz'altro al lavoro di scalpellino. L'unica mano callosa assomigliava quasi alla zampa di un orso; le cinque dita emanavano una forza che faceva onore al suo clan. Varcati diversi portoni e raggiunta la quarta struttura a gradini, Balendilín si fermò. Gli ospiti si accorsero della solidità con cui era stata costruita Orcomorto. Il nano indicò l'entrata del massiccio montuoso. «Ora smontate e affidate i pony alle nostre cure. Li tratteremo bene. Andiamo subito nella sala del consiglio, giacché siete attesi con impazienza.» Postosi in testa al corteo, li guidò lungo gallerie che avrebbero potuto benissimo contenere un drago. Furono tuttavia le opere degli scalpellini a lasciare senza fiato i visitatori dei saloni di marmo. Grigie colonne enneagonali del diametro di dieci passi e oltre si ergevano come alberi pietrificati. La stanza era così alta che non si riusciva a vedere il soffitto, e pareva che i pilastri svanissero nel nulla. Oppure si protendono a sostenere la vetta della montagna, pensò Gandogar, colmo di stupore. Tra le colonne si estendevano elaborati archi di pietra in cui erano incisi aforismi e versi tratti dalla storia della creazione del loro popolo. Proprio davanti a loro, gli scultori avevano realizzato un enorme ritratto in pietra del Secondo. Un Beroïn intagliato nel granito sedeva su un trono di marmo candido, la destra levata in segno di saluto, la sinistra posata sul manico dell'ascia. Una delle sue scarpe era alta quanto un nano e lunga quanto cinque pony. Ma non era tutto. Le pareti, un tempo di roccia nuda e grezza, erano state levigate con meticolosità. Sulla superficie dal fioco bagliore, gli eredi di Beroïn avevano scolpito altre frasi e altri disegni, così belli e minuziosi che Gandogar rallentò senza accorgersene per esaminarli con maggiore attenzione. Naturalmente, anche la stirpe del Quarto ricavava sale e saloni dalla
roccia, ma la sua arte impallidiva al confronto con questa. Gandogar tese la mano e, con soggezione, fece scorrere le dita sul marmo grigio-nero. Non avrebbe mai creduto possibile un simile sfarzo. «Per Vraccas!» esclamò, pieno di orgoglio e ammirazione. «Non vi è nulla di più eccellente. Siete i migliori scalpellini del nostro popolo.» Il consigliere dell'imperatore si inchinò. «Ti ringrazio per la lode. Sarò lieto di riferirla ai nostri artisti.» Il percorso, che si snodava tra i piedi del gigante immobile, li condusse a un corridoio un poco più angusto. L'aria si raffreddò di colpo. Poco dopo si ritrovarono davanti alla sala del consiglio. Balendilín sorrise a Gandogar. «Sei pronto ad avanzare la tua pretesa?» «Certo che è pronto», interloquì Bislipur con asprezza prima che il sovrano avesse il tempo di rispondere. Balendilín corrugò la fronte, ma non fiatò. Invece, aprì la porta ed entrò per presentare gli ospiti tanto attesi. La sala superava qualunque cosa avessero mai visto: colonne circolari si ergevano fino ad altezze vertiginose, e le scene di battaglia scolpite nelle pareti di pietra, tratte dalla storia del loro popolo, ricordavano gesta e vittorie gloriose dei cicli passati. Bracieri e candelieri diffondevano una luce calda, e un gradevole refrigerio ripagò i viaggiatori dell'afa patita nella terra di Umilante. Mentre Balendilín li presentava uno dopo l'altro, Gandogar scoccò un'occhiataccia al suo mentore. «Sei stato scortese. Avresti bastonato Swerd per un simile intervento», lo rimproverò a bassa voce. Le mascelle di Bislipur si contrassero. «Chiederò scusa al consigliere.» Si voltarono verso l'assemblea. I seggi per i sovrani delle cinque stirpi erano disposti a semicerchio intorno a un tavolo; più in là vi erano eleganti tribune di pietra per i comandanti dei clan, affinché potessero seguire le riunioni ed esporre i loro pareri. Una sedia e le file alle sue spalle erano vuote, un doloroso ricordo del massacro dei Quinti. Mancavano ancora il re e gli inviati dei clan della Prima stirpe, mentre i nani dei diciassette gruppi del Secondo erano già ai loro posti. Sul tavolo giacevano varie mappe della Terra Nascosta. Prima dell'arrivo dei Quarti, i presenti si erano consultati sui fatti accaduti nel Nord, ma ora si concentrarono su Gandogar. L'emozione del sovrano aumentò. Per la prima volta dopo oltre quattrocento cicli solari si radunavano i membri migliori e più potenti di
tutte le stirpi; per la prima volta si trovava a faccia a faccia con tanti re e lontani parenti. Ciascuno dei nomi di cui tanto aveva sentito parlare si associava ora a un volto, e il cuore gli batteva forte per la gioia. Gli altri si alzarono per salutare lui e il suo seguito con una poderosa stretta di mano. Gandogar notò le differenze tra i vari palmi: ora callosi, ora muscolosi, ora solcati da cicatrici, ora quasi delicati. Quell'accoglienza calorosa lo commosse, anche se negli occhi di qualcuno lesse sospetto e diffidenza nei suoi confronti. Ma poi arrivò davanti a Gundrabur Testacanuta, re dei Secondi e imperatore, signore di tutte le stirpi e di tutti i clan. Si sforzò di dissimulare la paura. Un tempo Gundrabur doveva essere stato un imponente figlio del Fabbro, ma dopo più di cinquecento cicli solari la fiamma della sua vita ardeva così fioca da dare l'impressione che il più lieve alito di vento potesse spegnerla. Gli occhi annebbiati, di un marrone giallognolo, tremolavano, incapaci di fissarsi su qualsiasi cosa. Gundrabur lo oltrepassò con lo sguardo. Data l'età, aveva rinunciato a portare un'armatura pesante. Il suo corpo decrepito era avvolto in una veste di tessuto marrone scuro elegantemente ricamata; i capelli e la barba argentea sfioravano il pavimento. Sul suo grembo giaceva la corona, simbolo del potere imperiale; persino quella era diventata un fardello troppo gravoso da portare. Accanto al trono era collocato il martello cerimoniale, nella cui testa erano incise delle rune; gemme e intarsi dei più disparati metalli preziosi riflettevano la luce dei bracieri e dei candelieri. Sembrava che il fragile sovrano dei nani non sarebbe mai più riuscito a sollevare il manico del pesante oggetto. Gandogar si schiarì la voce, cercando di nascondere un senso di oppressione. «Giacché mi hai chiamato, eccomi qui al tuo cospetto per succederti sul trono, mio re», disse, pronunciando l'antica formula. Gundrabur chinò il capo e fece per replicare, ma gli mancò la voce. «È contento che tu abbia accettato il suo invito e sia venuto fin qui da così lontano», interloquì Balendilín in sua vece. «Appena il consiglio delle stirpi si sarà pronunciato a favore, sarai tu a portare la corona.» Accennò al seggio libero intorno al tavolo, e il re dei Quarti si accomodò. Bislipur sedette dietro di lui. «Io sono il sostituto di Gundrabur e occupo il posto del re a nome dei Secondi.» Gandogar esaminò le mappe e notò che alcuni degli inviati lo
scrutavano, forse in attesa di un discorso con il quale sostenesse la sua pretesa alla carica di imperatore. Bislipur gli aveva tuttavia sconsigliato di alzare la voce troppo presto. Prima occorreva discutere della situazione nel Nord della Terra Nascosta, e Gandogar era ansioso di scoprire se i suoi fratelli avrebbero appoggiato il suo piano. «Dove sono i nove clan di Borengar?» domandò, lanciando un'occhiata alle sedie vuote dei Primi. «Non sono ancora arrivati?» Balendilín scrollò il capo. «Non riceviamo loro notizie da oltre duecento cicli.» Allungò la mano verso l'ascia, usando la punta per indicare la mappa. Nell'estremo Occidente, i nani di Borengar il Primo sorvegliavano il Passo d'Argento dei Monti Rossi, difendendolo dagli invasori. Il loro regno era circondato da quello della regina umana Wey IV. «Ma esistono ancora. Alcuni mercanti della terra di Weyurn ci hanno riferito che la porta del Passo d'Argento è ben sigillata.» Posò l'ascia sul tavolo davanti a sé. «Dovranno rassegnarsi al fatto che votiamo senza di loro. Non è colpa nostra se non si presentano.» Un mormorio di approvazione attraversò l'assemblea. «Prima che tu venga proclamato successore dell'imperatore, ascolta quali sfide ti attendono. La Terra Estinta continua ad avanzare strisciando. Il potere sinistro e invisibile si è impossessato di ciascuna porzione di terra conquistata dai mostri di Tion; la natura diviene crudele, le piante più grandi tentano di attaccare e soffocare ogni forma di vita. Secondo quanto raccontano gli uomini, chi perisce laggiù resuscita senz'anima e non possiede più una volontà propria. Diventa schiavo del potere oscuro e si schiera con le file dei mezz'orchi per lottare contro il proprio popolo.» «Continua ad avanzare strisciando?» Gandogar inspirò forte. A quanto pareva, gli stregoni non avevano l'energia necessaria per fermare la Terra Estinta. «Lo immaginavo! La spettacolare magia dei Lunghi non serve a nulla», proruppe. «Nudin, Lot-Ionan, Andôkai e tutti gli altri astutissimi eruditi si sono rintanati con i loro apprendisti nelle rocche, nelle fortezze e nei laboratori per perfezionare gli incantesimi. Ambiscono all'immortalità degli elfi per condurre ricerche e scarabocchiare le loro formule in eterno. Ecco che cosa ne abbiamo ricavato! La Terra Estinta è ormai inarrestabile e si deposita come ruggine su un ferro a lungo trascurato.» I nani proruppero in un grido per dichiararsi d'accordo con le sue parole schiette. «Ma abbiamo ottenuto anche dei vantaggi. Hanno quasi annientato gli elfi.» Il cuore di Gandogar esultò, perché ben presto quella razza boriosa
sarebbe stata sconfitta definitivamente. Anche lui sarebbe stato presente con le sue schiere per darle il colpo di grazia. Suo padre e suo fratello erano morti per mano degli elfi, ma adesso l'ora della vendetta era vicina. Ben presto le scaramucce e le continue ostilità sarebbero terminate una volta per tutte. Era impaziente di illustrare i suoi piani agli altri. «Quasi? Sembra che tu abbia qualcosa da dire», disse Balendilín, aggrottando le sopracciglia. «Ascoltatemi, migliori di ogni stirpe e leader dei clan», riprese Gandogar. Aveva le guance arrossate e gli occhi scuri brillavano per l'entusiasmo. «Vraccas ci ha offerto la possibilità di distruggere la progenie di Sitalia!» Il suo indice si posò sul minuscolo puntino che, sulla mappa, rappresentava quanto rimaneva del regno degli elfi. «Qui sono riuniti gli ultimi sopravvissuti. Ecco che cosa ho da dire: raduniamo un esercito numeroso, marciamo sull'Âlandur e puniamo gli elfi una volta per tutte per i loro misfatti inespiati degli ultimi cicli!» I nani lo fissarono; la sorpresa aveva sortito l'effetto desiderato. «Gandogar, ci siamo incontrati per nominarti nuovo imperatore», lo ammonì Balendilín con voce calma, tentando di reprimere l'agitazione «e non per tramare piani di guerra. Non è questo il nostro compito.» Dal mormorio intorno al tavolo comprese tuttavia che le osservazioni del Quarto avevano trovato un terreno fertile. «Non combattiamo i popoli della Terra Nascosta, al contrario li difendiamo! Ricordate la missione affidataci da Vraccas!» li implorò. Gandogar si guardò intorno. I suoi fratelli stavano valutando i pro e i contro. «C'è dell'altro! Sono in possesso di antichi documenti del nostro popolo che Bislipur ha recuperato e mi ha consegnato. Ascoltate voi stessi, e decidete il da farsi.» Traendo un profondo respiro, estrasse una copia su pergamena e lesse in tono grave: E gli elfi divennero invidiosi dei tesori dei nani. Aggredirono la stirpe del Quinto, Giselbart. Scoppiò un combattimento nelle gallerie e sotto la Porta di Pietra. Giselbart rinchiuse alcuni elfi traditori in un labirinto buio da cui non uscirono mai più. Gli elfi utilizzarono nondimeno la magia per infettare e fiaccare i figli del Fabbro. Massacrarono poi i Quinti finché rimasero soltanto pochissimi rappresentanti di quella stirpe.
Il silenzio calò sulla sala. La voce solenne del re diede forza alle parole, riempiendo gli ascoltatori di soggezione. Allorché i troll e i mezz'orchi fiutarono il sangue dei morti e dei feriti, si incamminarono e comparvero davanti al portone della Terra Nascosta. Gli elfi fuggirono per codardia, lasciando la porta al suo destino. Il portale si aprì tuttavia grazie all'astuzia dei mostri. Giselbart e i suoi ultimi fedeli lottarono come solo i nani sanno fare. I Quinti indeboliti non riuscirono però a fermare le orde. Da allora il male dilaga nel Paese. Si interruppe per osservare i volti turbati degli astanti. Non gli ci sarebbero voluti ancora molti sforzi per convincere il suo pubblico; soltanto il nano con un braccio solo scuoteva piano la testa. «Dubito della veridicità di questo scritto, re. Perché il nostro popolo l'ha scoperto soltanto ora? Non è strano che le parole sulle colpe degli elfi emergano proprio adesso? In un momento tanto conveniente per il tuo progetto?» «Erano state occultate di proposito, forse da nani titubanti come te, per impedire una guerra», ribatté Gandogar, beffardo, sollevando l'ascia e conficcandone la punta nella mappa in corrispondenza dell'Âlandur. «Avete udito le mie parole. È qui che risiedono i colpevoli! E devono pagare per le loro azioni e i nostri morti!» «E poi?» domandò Balendilín con durezza. «E poi, re Gandogar? A chi farai un favore? Alla Terra Estinta, ma non a noi né agli uomini. Ascoltandoti, si potrebbe pensare che dovremmo allearci con gli albi per sconfiggere gli elfi», protestò il consigliere, conducendolo su un terreno pericoloso. «Ricorda chi sono i nostri nemici, re Gandogar! Vraccas non ha mai decretato che dobbiamo attaccare i popoli della Terra Nascosta. Nessuno di noi sopporta gli elfi, l'hanno stabilito gli dei. Certo, vi sono stati morti e dissidi.» Si posò la destra sul moncherino. «Ho perduto una parte del mio corpo per uccidere quattro mezz'orchi, ma in guerra non leverei mai la lama contro un elfo. Preferirei tagliarmi anche l'altro braccio. Nonostante i disaccordi, sono i nostri protetti, e abbiamo sempre rispettato questo principio. È la legge di Vraccas!» Gandogar lo fulminò con un'occhiata carica di collera. Non sapeva che
cosa dire. Balendilín aveva distrutto i suoi sogni di vendetta. Udì Bislipur digrignare i denti. «Non mi considero un tirapiedi degli albi», ritentò. «Occorre sfruttare il momento favorevole. Poi, in veste di imperatore, guiderò il nostro popolo nella lotta contro le orde della Terra Estinta per eliminare uno spettro che perseguita i regni da troppo tempo. Là dove hanno fallito gli uomini, riuscirà il nostro popolo!» «Non ti riconosco più, re Gandogar», replicò Balendilín con sincera meraviglia, e il suo viso segnato dall'età e dall'esperienza assunse un'espressione perplessa. «L'odio per gli elfi ha offuscato tanto la tua ragione da indurti a disobbedire alle disposizioni del nostro dio?» Lanciò a Bislipur un'occhiata sospettosa. «Oppure qualcuno ti consiglia male?» A quel punto le file dei delegati cominciarono ad agitarsi; si alzò un nano del clan dei Manolarga, appartenente alla stirpe dei Secondi. «Ritengo che la sua proposta meriti considerazione», asserì con voce ferma. «Le parole di Gandogar potrebbero essere vere. Chi ha tradito una volta può tradire ancora. Che cosa accadrebbe se gli elfi si ritirassero dall'Âlandur morente e aggredissero un regno umano per procurarsi nuovi territori? Sarebbe giusto?» «Oppure se consegnassero al nemico un altro regno dei nani?» intervenne con ardore un Secondo del medesimo clan, balzando in piedi. «Penso che gli Orecchi appuntiti siano capaci di tutto! Devono pagare, che abbiano tradito i Quinti oppure no.» Lasciò il suo posto e si piazzò a fianco di Gandogar per ribadire la sua convinzione. «Anche se non apparteniamo allo stesso clan, io sono favorevole.» Alcuni dei presenti si dichiararono d'accordo con grida entusiastiche. Le loro voci cupe e forti riempirono la stanza, mescolandosi in una confusione incomprensibile in cui riecheggiava con chiarezza solo la parola «guerra». L'esortazione di Balendilín al silenzio fu soverchiata dallo strepito. Gandogar sedette, scambiando una rapida occhiata soddisfatta con il suo mentore. Gli Orecchi appuntiti verranno ben presto cancellati dalla Terra Nascosta, pensò. Un colpo tonante fece tremare la sala. «Zitti!» intimò qualcuno in tono imperioso. Una voce severa sovrastò il frastuono. I nani si voltarono, sconcertati. L'imperatore era ritto davanti al trono, la corona sui capelli candidi. Stringeva nella mano l'impugnatura del martello, che aveva scaraventato contro il suo scranno, aprendo larghe crepe nel marmo.
I suoi occhi colmi di rimprovero si abbassarono con inaspettata vivacità sui rappresentanti delle stirpi e sui leader dei clan. Nel salone nessuno era più nobile e maestoso di lui. Vecchiaia e debolezza sembravano sparite; la rabbia doveva averle scacciate dal suo corpo. La barba bianca ondeggiò con dolcezza quando sollevò il capo. «Ciechi! Qui è in gioco la Terra Nascosta, non l'occasione di annientare i nostri antichi nemici. Chiunque opponga resistenza alla Terra Estinta e alle sue creature è il benvenuto! Più gli elfi terranno testa all'avanzare delle tenebre meglio sarà.» Puntò gli occhi su Gandogar. «Sei giovane e irruento, re dei Quarti. Hai perduto due consanguinei per mano degli elfi, perciò ti perdono questa assurda proposta di guerra. Ma gli altri che sono così pronti ad abbracciarla sono pazzi. Voi dovreste sostenere il contrario.» Li guardò uno dopo l'altro. «Dobbiamo dimenticare la vecchia inimicizia. Un'alleanza, ecco che cosa ci serve e che cosa voglio! Gli ultimi elfi dell'Âlandur, i sette regni degli uomini, i sei maghi e noi nani dobbiamo schierarci tutti insieme contro la Terra Estinta. Pensate...» Il manico del martello gli scivolò tra le dita, cadendo sul pavimento e scalfendo una lastra di pietra. Gundrabur vacillò, accasciandosi sul trono con un gemito e respirando a fatica. Balendilín ordinò ai nani di ritirarsi nei loro alloggi e di aspettare ulteriori comunicazioni. «Appena l'imperatore si sarà ripreso, continueremo la riunione», annunciò. I delegati dei clan abbandonarono la sala in silenzio. Le parole del sovrano li avevano indotti a riflettere. Bislipur lanciò un'occhiata indagatrice al vecchio ansimante. «Non vivrà ancora a lungo», sussurrò al suo protetto mentre uscivano. «Quando la sua voce tacerà per sempre, ottenere l'appoggio degli altri clan sarà un gioco da ragazzi. Non fosse stato per lui, ti avrebbero già seguito.» Il successore al trono non rispose.
Terra Nascosta, regno incantato di lonandar, 6234° ciclo solare, primavera Jolosin attraversava di corsa i cunicoli, e Tungdil lo seguiva per quanto gli consentivano le gambe tozze. Superarono numerose porte di quercia, dietro cui gli apprendisti sedevano ascoltando le lezioni degli studenti più esperti. Lot-Ionan insegnava personalmente solo a quattro giovani, uno dei quali, un giorno, avrebbe ereditato la sua scuola, le sue gallerie e il suo regno. Jolosin si arrestò davanti al laboratorio, spalancando l'uscio. Furono investiti da nuvolette di vapore bianco. «Sbrigati, per piacere», gridò al nano. Tungdil entrò ansando nel locale, pervaso da un fumo denso come nebbia. «Continua a essere gentile, Jolosin, altrimenti puoi arrangiarti da solo», ansimò. «Sali nel camino», ordinò l'altro, spingendolo bruscamente attraverso la stanza. «Qualcosa l'ha ostruito.» Il vano del focolare emerse dal nulla; lì accanto vi era una piccola tinozza da cui si levava il vapore. «Come si comporterebbe uno stregone, grande apprendista? Tu sei uno dei migliori, o sbaglio?» «In questo caso ho bisogno di te», si rifiutò l'altro categoricamente. «Non sai neppure che cosa sia la magia, nano. Spicciati, i miei studenti mi aspettano.» Tungdil udì qualcuno che di tanto in tanto tossiva e si schiariva la voce. «Qual è la parolina magica?» «Che cosa?» «Prova ancora, grande apprendista. Tu conosci tutte le formule.» Jolosin storse il viso. «Per favore.» «Indovinato.» Sogghignando, il nano prese l'attizzatoio, se lo agganciò alla cintola e si infilò nel passaggio, in cui brillava una debole fiammella. Guardò verso l'alto, dove il fumo era spesso quanto una parete. Cominciò ad arrampicarsi con agilità. Le sue dita robuste trovavano facilmente appigli tra i mattoni sporgenti, e neppure la fuliggine unta gli era d'intralcio. Tungdil avanzò lento ma deciso finché si ritrovò a tre passi dal pavimento, che tuttavia era scomparso dietro la fitta nube di vapore. Muovendosi a tentoni, le sue dita incontrarono una resistenza. «Sembrerebbe un nido caduto nel pozzo», gridò verso il basso. «Allora tiralo fuori!»
«Che cosa vuoi che faccia? Pensi che ne voglia costruire un altro?» Si appoggiò al muro e con una mano scosse il nido, che era finito nel posto sbagliato. Il nido si staccò. A quel punto Tungdil ebbe una brutta sorpresa. Un liquido puzzolente gli si riversò addosso; la pelle iniziò subito a prudergli e gli occhi a lacrimargli. Poi gli piovvero addosso delle piume sottili che gli fecero il solletico al naso e su tutta la faccia. Non riuscendo a trattenere uno starnuto, scivolò sui mattoni cui si era aggrappato e precipitò. Riuscì a non scorticarsi contro le sporgenze del muro, ma le sue costole urtarono con violenza il condotto un paio di volte. Terminò la caduta libera piombando con il fondoschiena sui resti incandescenti del nido. Nuvole di cenere si sollevarono e lo coprirono di uno strato grigio. Balzò in piedi per evitare di ustionarsi, ma il fuoco gli aveva già aperto un foro nei pantaloni. Un'esplosione di risate gli comunicò che era stato vittima di uno scherzo di cattivo gusto. La nebbia si era dissipata come per magia, mostrando ai venti apprendisti lì riuniti il nano umiliato e completamente sudicio. In prima fila c'era Jolosin, naturalmente, che si sbellicava dalle risate, dandosi delle pacche sulla coscia con gioia maligna. «Guardate!» urlò, fingendosi impaurito. «L'orribile spazzacamino è uscito dal focolare!» «E ha trovato persino l'elisir di moffetta nascosto nel nido», gridò un secondo studente. «Non che abbia cambiato odore», sghignazzò Jolosin, voltandosi verso il nano. «Allora, piccoletto, ride bene chi ride ultimo. Puoi andare.» Tungdil si pulì il volto con la manica. La sua testa imbrattata di piume e cenere si chinò pian piano, gli occhi scuri che lampeggiavano di rabbia. «Una burla, eh? Be', la burla non è ancora finita», borbottò con ostinazione, allungando la mano verso la tinozza accanto al camino. Era fredda, perciò il suo contenuto non avrebbe scottato l'aspirante mago. Senza esitazione alzò il braccio per rovesciarla addosso a Jolosin, che si era appena girato verso i suoi amici. Qualcuno lo avvertì con uno strillo. Voltando la testa, l'apprendista vide la sciagura che si stava abbattendo su di lui. Ebbe la prontezza di tendere le mani e lanciare un incantesimo di difesa contro l'acqua, trasformandola subito in cubetti di ghiaccio che lo bersagliarono senza bagnarlo; la veste pulita rimase intatta.
Per quanto l'idea fosse stata geniale, l'apprendista stregone aveva combinato un grosso guaio, come intuirono gli studenti quando udirono il tintinnio alle loro spalle. Alcuni cubetti volarono loro accanto disegnando ampi archi e centrando le file ordinate di flaconi contenenti gli elisir, i balsami, gli estratti e le essenze messi da parte per gli esperimenti più svariati. Le prime sostanze fuoriuscirono dalle boccette frantumate e cominciarono a mescolarsi, producendo fischi e scoppi minacciosi. Sbiancando per la paura, Jolosin sbraitò: «Pazzo!» all'indirizzo di Tungdil, che protestò la propria innocenza: «Io? Il pazzo sei tu, che hai trasformato l'acqua in ghiaccio». Una mensola cadde, e scintille luccicanti si levarono verso il soffitto, esplodendo con un lampo rossastro. Nel laboratorio si stava preparando una vera e propria catastrofe. I primi studenti, già fradici, corsero fuori, e Jolosin li seguì. «Dovrai rispondere di tutto questo! Lot-Ionan ti punirà, nano. Farò in modo che tu sparisca da qui, figlio adottivo o no», urlò l'apprendista, stizzito, chiudendo la porta dall'esterno. «Fammi uscire! Giuro che ti metterò sulla mia incudine e ti colpirò con il martello arroventato!» Tungdil scosse l'uscio, invano. Probabilmente Jolosin l'aveva bloccato con la magia per impedirgli di fuggire e incolparlo dell'accaduto. Questa me la paga, pensò il nano, incassando la testa tra le spalle quando udì un botto violento. Guardandosi intorno, si affrettò a cercare un posto in cui mettersi al riparo, in attesa che lo liberassero.
Terra Nascosta, sul confine del regno del Secondo, Beroïn, 6233° ciclo solare, inverno Balendilín seguì con sguardo preoccupato i nani che uscivano dalla sala. Non aveva previsto che la riunione sarebbe finita così. Persino il progetto imperiale di creare un'alleanza tra tutti i popoli della Terra Nascosta aveva i piedi d'argilla. Maledetto Gandogar, pensò, furibondo. Vraccas, ti prego, donagli un poco di saggezza. Quando furono soli, la mano di Gundrabur tastò il bracciolo fino a posarsi sul suo gomito. «Il nostro piano fallirà», disse l'imperatore, sfinito. «Al giovane nano della stirpe di Goïmdil manca l'esperienza.» Abbozzò un sorriso, accarezzando le dita di Balendilín. «O un consigliere accorto, mio fedele amico.» Si raddrizzò stancamente, togliendosi la corona dalla testa. La destra, che fino a poco prima aveva stretto il martello da fabbro, tremò sotto il modesto peso. «Una guerra...» mormorò, disperato. «Una guerra contro gli elfi! Che cosa crede di ottenere Gandogar?» «Niente», rispose Balendilín, amaro. «È proprio questo il punto. E il suo mentore Bislipur sembra altrettanto duro di comprendonio. Dobbiamo studiare quegli strani versi, perché non credo alla loro autenticità. Sono un pretesto per raccogliere più consensi. Un falso...» «Ma li hanno sentiti tutti», obiettò Gundrabur. «È troppo tardi. Hai visto tu stesso che alcuni dei nostri clan sono propensi ad attaccare gli elfi, qualunque ne sia il motivo. Sai bene che i leader dei clan sono degli zucconi.» «Ma ho anche visto che altri clan della stirpe dei Quarti sono rimasti in silenzio. Gandogar non ha ancora vinto, perché le votazioni sono libere; ciascun clan può decidere come crede. Dobbiamo convincerli delle nostre idee.» I due nani tacquero. Dovevano trovare una soluzione al più presto, perché appena il re dei Quarti si fosse seduto sul trono, avrebbe riproposto il suo piano trovando ascoltatori benevoli. Gundrabur e Balendilín non avevano paura degli elfi, ma i loro protetti erano in minoranza. Le scaramucce e i combattimenti sanguinosi contro gli albi li avevano decimati, mentre gli avversari avevano ricevuto
rifornimenti dalle montagne del Passo Settentrionale. Una guerra avrebbe tuttavia causato perdite anche tra i figli del Fabbro divino, indebolendo così la sorveglianza davanti alle porte della Terra Nascosta. L'imperatore lasciò vagare lo sguardo sulla sala deserta. «Questa stanza ha visto tempi migliori. Tempi di concordia e unanimità.» Chinò il capo. «Finiti. Finiti sono i bei tempi, e fallita è la grande alleanza che volevamo creare, amico mio.» La grande alleanza, pensò Balendilín, guardando le cinque stele che si ergevano ai piedi del trono, su cui erano incise le parole sacre del suo popolo. Recavano i nomi di coloro di cui le altre stirpi non si curavano mai: i nani del Terzo, Lorimbur, che vivevano nell'Est. «Sarei andato contro i miei principi e avrei inviato un messaggio ai Terzi per avviare un dialogo con loro», sospirò l'imperatore. «Nei momenti di massimo bisogno deve valere soltanto la nostra origine comune, la nostra natura di nani.» «Dopo l'appello di Gandogar dubito che gli altri siano interessati a una riconciliazione», bisbigliò il consigliere. Il Paese necessitava tuttavia di ogni ascia capace di spaccare il cranio di un mezz'orco. «Sia come sia. Anche qualora la mia visione di un esercito di nani unito e inarrestabile si offuschi, dobbiamo almeno impedire la guerra contro gli elfi. Ci serve tempo, Balendilín», affermò Gundrabur, spossato. «Devo dissuadere i clan delle stirpi dall'idea di attaccare l'Âlandur.» «Dipende solo da te», osservò il suo amico con dolcezza. «Sarà il tuo stato di salute a decidere quando avverrà l'avvicendamento.» «No, deve esserci qualcosa in più della scintilla vitale di un vecchio nano.» Gundrabur si accarezzò la barba, ravviandola. «Le leggi del nostro popolo: è con quelle che dobbiamo convincerli e ridurre al silenzio i guerrafondai.» Alzatosi, si diresse verso le tavole a piccoli passi prudenti. I gradini rappresentavano ostacoli da superare con estrema attenzione, ma l'imperatore raggiunse la meta. Balendilín si affrettò ad affiancarlo per sorreggerlo. La luce dorata del sole filtrava dall'alto attraverso le aperture scavate nella roccia e rischiarava ogni singola runa in tutta la sua eleganza. Gli occhi spenti di Gundrabur vagarono sui simboli. «Se ben ricordo, ci resta una scappatoia per ritardare l'inevitabile elezione di Gandogar. Sfrutteremo questo tempo per le discussioni con i clan, che dovranno sfociare nella pace e nell'alleanza con gli elfi», spiegò
in tono assente. La sua vista, che si era affievolita sempre più durante i cicli precedenti, lo costringeva a camminare così vicino alla roccia da toccarla quasi con il naso. Alla stirpe di Beroïn seguiva quella di Goïmdil, non ci si poteva fare nulla. Secondo l'antica usanza, il re della stirpe successiva reclamava la carica per sé, e i clan eleggevano il capo supremo a meno che non vi fossero validi motivi per rifiutare il candidato. «Dov'è?» bofonchiò sottovoce mentre le sue dita scivolavano sulle tavole. La ricerca fu proficua. Con un'esclamazione di sollievo, Gundrabur chinò la testa, abbassò le palpebre e premette la fronte contro la lastra di pietra fresca, più vecchia di lui. «La giornata non finisce male com'è iniziata», disse, rincuorato. «Ecco qui.» Si raddrizzò, e l'indice nodoso della sua mano destra sottolineò le parole pregne di significato. «Qualora vi siano più aspiranti della medesima stirpe, i clan dovranno prima accordarsi per presentare al consiglio dei nani il candidato più idoneo», lesse, soddisfatto. Il consigliere diede una scorsa alle righe successive, giocherellando nervosamente con uno degli anelli che ornavano la barba grigio-nera. Non era scritto da nessuna parte che solo il re poteva assumere il comando delle stirpi. «Un semplice nano può portare la corona dall'oggi al domani, giacché tutto quello che gli occorre è il sostegno del suo clan e dei suoi amici.» Balendilín capì le intenzioni dell'imperatore. «Non abbiamo altri concorrenti che sfidino Gandogar», obiettò. «I clan dei Quarti sono in gran parte concordi; pochi dubitano del loro re, e...» La luce sul viso del suo signore lo disorientò. «Abbiamo un candidato?» chiese, incerto. «Non ancora», rispose Gundrabur con un sorriso malizioso. Si era ricordato giusto in tempo della lettera che aveva ricevuto alcune rotazioni prima. «Non ancora. Ma ce l'avremo presto. Me ne è appena venuto in mente uno.»
Terra Nascosta, regno incantato di lonandar, 6234° ciclo solare, primavera Le fiamme delle candele quasi consumate tremolavano sulla scrivania di quercia di Lot-Ionan. I moccoli stavano a testimoniare che il mago aveva trascorso lunghe ore nel suo studio, sebbene a lui fossero parse pochi istanti. Si chinò con un gemito per esaminare la pergamena costellata di rune. Aveva lavorato alla formula per giorni, notti e interi cicli. Mancava un unico simbolo per completarla. Sorrise. Il comune mortale, che entrava in contatto con simili forze solo di rado, aveva paura di qualunque cosa avesse a che fare con la magia. Per gli animi semplici non era facile comprendere gli intrecci degli elementi. Il contadino impaurito parlava di «prodigi» e «stregonerie», mentre per LotIonan quei fenomeni erano il risultato di una complicata sequenza di gesti e parole. Quello era il processo da cui dipendeva ogni cosa. Una sillaba sbagliata, una pronuncia poco chiara, un cenno diverso della mano, un movimento troppo rapido della bacchetta o persino un cerchio magico mal disegnato potevano determinare il fallimento di un incantesimo e, nella peggiore delle ipotesi, persino scatenare una catastrofe. Rammentava casi in cui studenti incauti avevano riportato gravi ferite o evocato senza volerlo creature da incubo, salvo poi correre mogi mogi da lui, implorandolo di limitare i danni. Lot-Ionan era paziente con i suoi allievi. Dopotutto, duecentottantasette cicli prima, aveva iniziato proprio come loro. Ora si fregiava del titolo di mago, che gli uomini traducevano come «maestro stregone». Duecentottantasette cicli. La sua mano punteggiata di chiazze scure si fermò a mezz'aria; cercando uno specchio tra il guazzabuglio di armadi, scaffali e mensole traboccanti di libri, i suoi vispi occhi azzurri trovarono la superficie riflettente di un vaso. Scrutò i tratti rugosi, i capelli brizzolati e la barba grigia su cui spiccavano innumerevoli macchie d'inchiostro. Sono diventato vecchio. Chissà se sono diventato anche più saggio, si domandò. La veste beige era costellata di toppe, ma Lot-Ionan non voleva separarsi da quell'indumento così comodo. A differenza di alcuni suoi colleghi e colleghe, non curava particolarmente il proprio aspetto. L'unico requisito che chiedeva al suo guardaroba era la praticità.
L'anziano erudito concordava con le persone normali su un punto: la magia era estremamente pericolosa. Ecco perché si era ritirato nelle gallerie: se uno dei suoi esperimenti fosse fallito davvero, non avrebbe danneggiato nessuno dei suoi sudditi. Non si era tuttavia rintanato nel sottosuolo soltanto per altruismo. Laggiù non doveva preoccuparsi degli uomini e dei loro crucci quotidiani; aveva infatti affidato il compito di gestire i litigi e le questioni di potere ad alcuni rappresentanti scelti, i cosiddetti magistri. Lo Ionandar, il suo regno, occupava le zone del Gauragar e dell'Idoslân in cui si estendeva il più sudoccidentale dei sei campi incantati. I primissimi stregoni avevano scoperto la forza della terra che, in una certa misura, li aveva pervasi. Una volta esaurite le scorte, avevano usato gli appezzamenti per caricarsi di nuova energia. Avevano invaso quell'area preziosa, suddividendola in sei settori e difendendola dai sovrani terreni, che nulla avevano potuto contro la loro abilità. Di generazione in generazione, i re avevano accettato che una fetta dei loro domini appartenesse agli stranieri. Erano i campi incantati a conferire ai maghi il loro potere. Gli stregoni avevano accresciuto le loro capacità e le loro conoscenze con l'andare del tempo, finché erano riusciti a produrre gli effetti più utili, spettacolari e raccapriccianti mediante rune, formule e incantesimi. Concentrati, si rimproverò. Intinse con scrupolosità la punta della penna d'oca nel calamaio e tracciò con cautela il simbolo del fuoco sul foglio. Ogni tratto era importante, e la più piccola disattenzione avrebbe distrutto il suo lavoro. Ce l'aveva fatta. Si raddrizzò, compiaciuto. «Ci sei riuscito, vecchio mio», mormorò, sollevato. La formula era pronta. Se avesse funzionato come lasciava sperare la disposizione delle rune, sarebbe stato in grado di percepire la magia, fosse essa nascosta negli oggetti, nelle persone o negli animali. Prima di passare dalla teoria alla pratica, però, si meritava un premio. Ciabattò fino al più antico dei suoi armadi per gli strumenti, afferrò una bottiglietta con il disegno di un teschio dal terzo ripiano e si concesse una lunga sorsata. Il simbolo ammonitore non significava nulla. Serviva solo a proteggere quell'acquavite corroborante dalle gole avide. Il mago non aveva adottato quella precauzione senza motivo: gli studenti più grandi, infatti, non disdegnavano un goccetto di tanto in tanto. Era felice di condividere il suo
sapere, ma non il suo inestimabile alcol. Le botti originali di quell'annata erano vuote già da tempo, il che rendeva ancora più pregiata la bottiglietta. All'improvviso una violenta esplosione scosse le fondamenta della sua dimora sotterranea. Frammenti di pietra caddero dal soffitto, impolverando il tavolo, e gli innumerevoli contenitori sobbalzarono sugli scaffali al punto che i coperchi tintinnarono. Nella stanza ingombra, ogni cosa precipitò nel caos. Il grande mago rimase impietrito per l'orrore. Il calamaio aperto scivolò di lato, si inclinò appena... e si rovesciò. Lot-Ionan fu troppo lento nel pronunciare un incantesimo che impedisse la tragedia, così tutto il liquido scuro si sparse sulla preziosa pergamena. I caratteri tracciati con tanta accuratezza scomparvero in un diluvio d'inchiostro nero. Lot-Ionan si paralizzò, esterrefatto. «Per Palandiell creatrice!» imprecò, e il suo viso gioviale si rabbuiò quando intuì la causa del terremoto. Tracannò l'acquavite rimasta, girò sui tacchi e si fiondò verso la porta. Si lanciò lungo le gallerie buie, percorrendo i locali e i corridoi della sua abitazione. La collera per la vanificazione di tutti i suoi sforzi aumentava a ogni passo. Furibondo, raggiunse l'uscio della stanza degli esperimenti, da cui provenivano rumori insoliti. Cinque o sei studenti parlottavano lì davanti. Nessuno osava sbirciare all'interno. «Venerabile mago», lo salutò Jolosin, pieno di soggezione. «Siamo giunti troppo tardi! Ho visto il nano che entrava nel laboratorio e...» «Togliti di mezzo!» ordinò Lot-Ionan, furioso, prima di levare il catenaccio. Il suo amato laboratorio assomigliava a un campo di battaglia su cui si fossero scontrati degli alchimisti impazziti. Oggetti di ogni genere svolazzavano liberi nell'aria, e qua e là erano scoppiati degli incendi. Rari elisir fuoriuscivano dai flaconi distrutti, gocciolando dalle mensole per poi mescolarsi in una brodaglia maleodorante sul pavimento. Il colpevole, rannicchiato nell'angolo, si riparava dalle detonazioni dietro un calderone capovolto. Aveva le dita infilate nelle orecchie e gli occhi chiusi. Nonostante i capelli bruciacchiati e la barbetta fumante, era senza dubbio Tungdil Bolofar. Riecheggiò un altro botto. Scintille blu sprizzarono attraverso il locale, mancando di poco il mago. «Che cosa succede qui?!» urlò Lot-Ionan fuori di sé, ma evidentemente il nano non aveva sentito, perché non reagì. «Tungdil Bolofar, sto parlando
con te!» gridò lo stregone con tutto il fiato che aveva in corpo. Stupito, l'altro si guardò intorno, e scorgendo l'esile figura dell'uomo, che aveva assunto un atteggiamento minaccioso, uscì pian piano dal suo rifugio. «Venerabile mago, non sono stato io», affermò, scoccando un'occhiataccia a Jolosin, che si era affacciato sulla soglia con gli altri studenti e si fingeva sorpreso. Lot-Ionan si voltò verso l'apprendista. «Io?» chiese il giovane con eccessiva meraviglia. «Come avrei potuto? La porta era sprangata. L'avete visto con i Vostri occhi.» «Zitti! Tutti e due!» sbraitò Lot-Ionan. Quel terribile pasticcio rischiava di far vacillare quanto restava del suo autocontrollo, una cosa che non accadeva da dieci cicli. «Ne ho abbastanza della vostra guerriglia nella mia galleria!» proseguì adirato, la barba punteggiata d'inchiostro che ondeggiava. Senza pensare nemmeno per un secondo di arrendersi, il nano si raddrizzò con fermezza sulle gambe. «Io non ho fatto niente», ribadì con ostinazione. Costringendosi a ritrovare la calma per cui era famoso, lo stregone sedette su una cassapanca rivestita di ferro, le braccia incrociate sul petto. «Ascoltatemi bene, voi due. Non mi importa chi è il responsabile di questo pandemonio. Detesto essere interrotto mentre lavoro, e avrei fatto volentieri a meno di questa esplosione, che ha distrutto la mia fatica di rotazioni, se non addirittura di un intero ciclo. Dunque farò in modo che nei corridoi torni la tranquillità.» «Venerabile mago, non vorrete bandire il piccoletto da qui?» domandò Jolosin con finta compassione. «Taci, apprendista! Riparleremo della tua parte di colpa in questo scompiglio, ma innanzitutto vorrei un po' di quiete in casa mia. Prima è, meglio è.» Guardò il nano. «Devo restituire un paio di cose a un vecchio amico.» A quelle parole Tungdil fu assalito da un brutto presentimento. «Tu, servo mio, sbrigherai questa piccola commissione in mia vece. Hai un'ora di tempo per fare i bagagli e prepararti a partire. Poi vieni da me, ti darò gli oggetti da riconsegnare. Sarà un lungo viaggio, Tungdil.» L'altro si inchinò con garbo e uscì a passo spedito. Non aveva previsto che gli avvenimenti prendessero quella piega. Una breve marcia non era una vera punizione, perché le sue gambe robuste l'avrebbero condotto per strade e sentieri. Magari incontrerò qualche nano. Niente male, come
castigo, pensò tra sé e sé. Il mago seguì con lo sguardo il domestico tarchiato e attese che scomparisse, quindi si rivolse a Jolosin. «Volevi giocare un brutto tiro a Tungdil, apprendista. Ti conosco fin troppo bene», gli disse. «Finché voi due vivrete nello stesso posto, non avrò pace. Ma voglio che la situazione cambi. Fino a quando Tungdil non sarà tornato, mediterai sulla tua cattiveria pelando patate, e prega Palandiell che rientri presto.» La bocca dello studente si aprì per protestare. «E se, nei giorni a venire, sentirò anche una sola lamentela da parte tua, o da parte di Frala e della cuoca sul tuo conto, puoi anche far fagotto e sparire, Jolosin.» Le mascelle dell'apprendista si chiusero di colpo. «Ah, e prima di iniziare il tuo servizio in cucina», continuò il mago indicando il caos che un tempo era il laboratorio, «riordina qui dentro.» Con un energico gesto della mano cacciò gli altri allievi e, dopo essersi alzato, prese una scopa dall'angolo e la infilò tra le dita dell'apprendista. «Naturalmente, farai tutto da solo e verrai liberato soltanto quando qui sarà tutto pulito», concluse, avviandosi verso la porta. «Lucido come uno specchio.» L'uscio si chiuse, e il catenaccio scivolò dentro il lucchetto.
II Terra Nascosta, regno del Secondo, Beroïn, 6233° ciclo solare, inverno Non volendo più fare mistero del suo piano, Gundrabur porse al consigliere una lettera. «Tieni. Me l'ha spedita Lot-Ionan il Paziente, come lo chiamano gli abitanti dello Ionandar, il suo regno incantato.» Quel nome non era nuovo a Balendilín. A quanto si mormorava, il mago, che viveva nella regione centro-orientale della Terra Nascosta, era uno stregone umano amante della solitudine. Trascorreva la maggior parte del tempo in una delle sue gallerie sotterranee per ideare nuove formule e incantesimi lontano da qualsiasi fonte di disturbo. «Al suo servizio si trova una creatura piuttosto insolita: un nano, un unico nano», spiegò l'imperatore. «Il messaggio specifica che Lot-Ionan l'ha allevato dopo averlo incontrato parecchi cicli fa in circostanze inconsuete. Ora desidera sapere se una delle nostre stirpi abbia notato la mancanza di uno dei suoi membri. Vuole rintracciarne la famiglia.» Balendilín diede una scorsa alle righe. «Sappiamo qualcosa di questo nano?» «La faccenda è insieme oscura e avvincente», rispose Gundrabur. «Negli ultimi duecento cicli non ho mai sentito dire che uno dei nostri clan avesse perso un bambino.» «E ora vorresti presentare il pupillo disperso dello stregone come candidato al trono?» chiese Balendilín, scettico, posando la missiva sul tavolo del consiglio. «È un'idea folle. Se è cresciuto tra i Lunghi, non ha la più pallida idea di che cosa significhi essere un figlio del Fabbro. Di certo nessuno lo appoggerà tra i clan della stirpe del Quarto, e non vi sono prove che sia davvero uno di loro.» L'imperatore si avvicinò al tavolo con lentezza e si accomodò sulla sedia destinata al re dei Secondi prima che le sue gambe smettessero di fare il loro dovere. «Può darsi», concesse, sfinito. «Può darsi, amico mio, ma finché non verrà qui e la questione non sarà chiarita, non potranno occupare il trono. Anche se io dovessi morire, saranno costretti ad aspettare.» Guardò il consigliere con espressione seria. «Se il martello di Vraccas si abbatterà su di me prima che il nano sia arrivato, toccherà a te impedire la guerra e proteggere il nostro popolo dalla devastazione.»
Balendilín contrasse le labbra. «Non ti spegnerai tanto in fretta. La fiamma della tua vita arde luminosa e scoppiettante, ne sono sicuro.» «Come tutti i nani, non sei un bravo bugiardo», rise Gundrabur, posandogli una mano sulla spalla. «D'ora in avanti, tuttavia, dovremo ricorrere entrambi alla menzogna per salvare la nostra gente da questo assurdo conflitto, che potrebbe causare la nostra rovina. Mentiremo come i coboldi, Balendilín. Una volta tanto avremo bisogno della discordia tra i clan», confidò all'amico. «Adesso vieni. Mi serve la tua mente sveglia. Occorre tessere una fitta rete di bugie in cui Gandogar e Bislipur restino impigliati sulla strada verso il trono, finché avremo tolto loro il chiodo fisso della guerra.» Balendilín lo aiutò ad alzarsi. Pur non credendo che il piano avrebbe funzionato, tenne la bocca chiusa. L'indomani mattina, quando Gandogar si destò e venne convocato nel salone con tutti gli altri inviati per la prosecuzione del dibattito, si incamminò tutto baldanzoso. Aveva buoni motivi per sperare che Gundrabur lo proponesse al consiglio come suo successore. L'organo avrebbe votato subito dopo, pertanto lui si sarebbe ben presto seduto sul trono. Il discorso pronunciato dall'imperatore a favore della pace l'aveva fortemente irritato, ma nel frattempo il rancore era svanito. Il vecchio, che in tutti quegli anni non aveva fatto nulla per garantirsi un posto nelle cronache dei nani, sarebbe caduto nell'oblio di lì a poco. Non poteva essere cattivo con un vegliardo moribondo. Gandogar entrò nella sala e prese posto, con Bislipur alle sue spalle. Le file non tardarono a riempirsi con gli altri membri delle delegazioni. Alcuni nani gli lanciarono occhiate incoraggianti, picchiettando sulle teste delle asce. Non era un gesto di minaccia, bensì una conferma del loro consenso ai suoi piani bellici. Un rappresentante dei Secondi portava una collana da cui penzolava uno strano ciondolo. Il re esaminò quell'oggetto raggrinzito con maggiore attenzione. Era un orecchio d'elfo mozzato, e il delegato avrebbe voluto sfoggiare quel trofeo, ma quando fu annunciato l'ingresso dell'imperatore, si affrettò a nasconderlo sotto l'armatura. Era ancora troppo presto per palesare l'odio contro gli elfi. Quando Gundrabur comparve, smentì le voci sul suo trapasso imminente. In cuor suo Gandogar fu deluso nel vedere l'imperatore così in
buona salute. Mentre formulava quel pensiero, la coscienza gli rimorse. Non augurava certo la morte al vegliardo, ma le critiche di Gundrabur ai suoi piani di vendetta lo inducevano a fare strani pensieri. Quando i presenti si inginocchiarono sulla gamba destra, il tintinnio e lo sferragliare delle armature riecheggiarono nel locale, poi i nani allungarono le asce verso Gundrabur. Quel gesto simboleggiava la fedeltà incrollabile che nutrivano nei suoi confronti e significava che lui poteva disporre della loro forza e della loro vita. Gundrabur rispose sollevando il martello e lasciandolo cadere sul pavimento con un rimbombo. Adesso potevano alzarsi, e vi fu di nuovo un gran baccano. Balendilín si fece avanti, puntando i seri occhi scuri su Gandogar. «Sei pronto ad avanzare la tua pretesa sul trono imperiale, re dei Quarti della stirpe di Goïmdil, del clan dei Barbadargento?» domandò, ripetendo le parole cerimoniali con cui aveva già dato il benvenuto all'ospite. Gandogar si alzò. Dopo essersi sfilato l'arma dalla cintola, la posò sul tavolo di pietra. «Combatterò contro i nemici del nostro popolo, duro come la roccia con cui ci ha fatti Vraccas e spietato come la mia ascia», rispose con solennità. Era così emozionato da non notare subito che era stato il consigliere, e non l'imperatore, a interpellarlo. Se ne rese conto solo quando Balendilín gli impedì di continuare. «Hai dichiarato la tua disponibilità, re Gandogar, e noi tutti l'abbiamo udita. Ma aspetterai finché si presenterà il secondo candidato della tua stirpe. Voi due dovrete raggiungere un accordo», lo informò Balendilín. «Fino ad allora la successione non è decisa.» «Che cosa?!» esclamò il re, e il sangue gli andò alla testa. Si voltò, lasciando vagare lo sguardo sulle file del suo seguito, che non era meno stupefatto di lui. «Chi di voi osa tradirmi?» urlò. «A qualunque clan tu appartenga, fatti avanti!» La sua mano si mosse verso l'impugnatura dell'ascia. «Fai torto ai tuoi accompagnatori», lo trattenne Balendilín. «Non è uno di loro.» Spiegò una lettera e la mostrò a tutti tenendola in aria. «Un giovane nano, che una bizzarra coincidenza separò dalla sua stirpe molti cicli fa, ha ricordato le sue origini e annunciato il suo arrivo. Vive nello Ionandar, e al momento si sta preparando per il viaggio.» «Nello Ionandar?» ripeté Gandogar, incredulo. «Nel regno incantato? Per Vraccas, che razza di storia è questa?» Si raddrizzò. «Non puoi dire sul serio! Un nano vagabondo invia un messaggio cui soltanto tu presti fede e
interrompe la cerimonia? Come si chiama il candidato?» «Non importa come si chiama. Porta un nome umano perché gli uomini l'hanno allevato come un trovatello», rispose il consigliere con durezza. «Gli oggetti che gli trovarono addosso all'epoca dimostrano tuttavia che appartiene alla tua stirpe.» «Non ci credo!» gridò Gandogar, adirato. «È un trucco!» «Allora anche le righe sul tradimento degli elfi contro i Quinti sono un trucco», ribatté Balendilín, inflessibile, la mano mollemente posata sulla fibbia della cintura. «Basta!» Gundrabur si alzò dal trono. «Osi chiamare bugiardo il mio amico, re Gandogar?» Le sue parole tuonarono nell'alto salone, e la collera della vecchiaia conferì a quell'esplosione forza e dignità. In confronto, le proteste del Quarto assomigliavano alle chiacchiere di una lavandaia. «Accetterai la mia decisione. Appena il nano giungerà alla fortezza, i clan della tua stirpe stabiliranno chi tra voi sarà il miglior successore.» Gandogar indicò il suo seguito con il braccio teso. «Perché aspettare? Chiedete subito l'opinione dei clan! Il loro parere non muterà mai! Perché dovrebbero eleggere uno sconosciuto...?» L'imperatore levò la mano nodosa. «No.» Le sue dita puntarono verso le stele con le rune. «Seguiamo le leggi dei nostri antenati. Così è scritto, così faremo.» Il silenzio che calò sull'immensa sala esprimeva varie emozioni. Se per la maggior parte consisteva di stupore, il resto era rabbia impotente, perché le legazioni non potevano far altro che attendere il presuntuoso candidato. Gandogar sprofondò sulla sedia, tirando a sé l'ascia; la lama lasciò un profondo graffio sul tavolo di pietra levigata, deturpando il candore per cui gli scalpellini avevano faticato tanto. «Mi sottometto», dichiarò freddo. Non osò aggiungere altro per paura che la disperazione lo sopraffacesse, inducendolo a dire qualche sciocchezza. Si voltò, scoraggiato. Il suo mentore appariva perfettamente calmo, ma Gandogar conosceva fin troppo bene quell'espressione. La mente di Bislipur rimuginava già sulle nuove circostanze, cercando una soluzione rapida. Il re sapeva di poter contare sull'ingegnosità del suo amico. «Dallo Ionandar a qui occorrono parecchie settimane di viaggio. Che cosa faremo per tutto questo tempo?» domandò, fissando il luccichio dei diamanti sulla sua armatura. «E come facciamo a essere certi che l'aspirante imperatore ci troverà?»
«O che arriverà in vita?» intervenne Bislipur. «Ci consulteremo», rispose Balendilín. «Dobbiamo discutere di cose che presto saranno importanti per i clan e le stirpi.» Poi sorrise. «È bello vedere che vi preoccupate per lui, ma gli abbiamo inviato una scorta che lo porterà da noi sano e salvo.» «Davvero? Allora mandiamogliene una anche noi», insistette Bislipur con finta sollecitudine. «Dopotutto, appartiene alla nostra stirpe. Dicci dove devono recarsi i nostri guerrieri.» «Questa offerta ti fa onore, ma non è necessario. Sarà ospite dell'imperatore, perciò Gundrabur ha inviato la nostra gente», rifiutò Balendilín con diplomazia. «Dopo questo inizio turbolento propongo di concederci una pausa con una birra forte e scura. Raffredderà gli animi surriscaldati.» Colpì due volte il tavolo con il lato piatto dell'ascia. Il tintinnio riecheggiò nella sala e oltre le porte. Di lì a poco si materializzarono dei servi con alcune botti. I corni e i boccali dei delegati si riempirono e tutti bevvero alla salute dell'imperatore attuale e di quello futuro. Pochi dubitavano che il nome di quest'ultimo sarebbe stato Gandogar. Bislipur diede al suo protetto una pacca sulla spalla. «Devi solo pazientare un poco. Onoriamo gli antenati e rispettiamo tutte le condizioni della nomina, perché solo così eviteremo che qualcuno sollevi obiezioni sulla legittimità della tua carica.» Dopo aver brindato con il re, ingollò un lungo sorso. La birra, che sapeva di malto, era pesante e un poco dolciastra. «Una birra così, la sanno fare solo i nani», rise Bislipur, pulendosi la schiuma dalla barba. Quando gli inviati cominciarono a essere più brilli e allegri, abbandonò il salone. Infilatosi in un corridoio poco frequentato, chiamò Swerd per affidargli un compito molto particolare.
Terra Nascosta, regno incantato di lonandar, 6234° ciclo solare, primavera Tungdil si inginocchiò fischiettando davanti all'armadio e stipò l'occorrente per il viaggio nel capace zaino di cuoio: ami, stoviglie, una coperta e una scatoletta di esche con una pietra focaia, nel caso avesse dovuto dormire all'addiaccio lungo il tragitto. Fissò quindi la mantella arrotolata allo zaino con una cinghia di pelle e indossò la cotta di maglia, sistemandosela con movimenti esperti. Adesso era finalmente pronto. L'intreccio di anelli metallici, che gli era tanto familiare, gli infondeva sicurezza. Era una sensazione che gli saliva dal profondo del cuore e che lui stesso trovava inspiegabile. La provava anche quando eseguiva qualche lavoretto davanti all'incudine. Fabbricare chiodi, arrotare coltelli, affilare utensili, forgiare ferri di cavallo e realizzare rivestimenti per porte erano operazioni che gli riuscivano facili. Immaginava che dipendesse dal suo sangue di nano. Sollevò dunque lo zaino rigonfio, si agganciò alla cintola l'ascia da guerra regalatagli da Lot-Ionan e si incamminò verso lo studio dello stregone. Avrebbe trovato la strada a occhi chiusi. Non gli occorreva alcuna illuminazione, e il suo senso dell'orientamento, una caratteristica tipica della sua razza, non lo tradiva mai quando si aggirava nel sottosuolo. Riusciva a riconoscere ogni tunnel in cui era già passato in precedenza perché percepiva le lievi differenze tra le pareti. Appena doveva cavarsela all'aperto, tuttavia, falliva miseramente, e senza una mappa era perduto. Dopo aver bussato brevemente, aprì la porta. Lot-Ionan, seduto alla scrivania, indossava la sua amata veste beige. Quando il nano entrò, sollevò un foglio di carta intriso d'inchiostro con un gesto accusatorio. «Vedi, Tungdil? Questo è opera tua.» Lo gettò di nuovo sul mucchio. «Inutile. Il mio lavoro di molte rotazioni è stato distrutto nel giro di pochi secondi.» «Non era nelle mie intenzioni», si difese l'altro, sinceramente contrito, ma ostinato come sempre. La cocciutaggine era un altro retaggio delle sue origini. «Lo so.» Il volto del mago assunse un'espressione benevola. «Come sono andate davvero le cose?» Tungdil chinò il capo. «L'apprendista Jolosin mi aveva fatto un altro dei suoi scherzi. Per vendicarmi, gli ho rovesciato addosso un secchio d'acqua», farfugliò. «L'ha tramutata in ghiaccio, ma i cubetti hanno
spaccato le fiale. Poi mi ha chiuso dentro affinché Voi mi credeste colpevole.» Puntò gli occhi scuri sul padre adottivo. Lot-Ionan sospirò. «Avevo intuito che eravate responsabili entrambi. Mi dispiace di aver alzato la voce.» Indicò la pergamena. «Questa significa che dovrò trascorrere anche le prossime rotazioni disegnando rune. Sapevi di non dover entrare nel laboratorio. Voi nani non siete fatti per dominare le elusive forze della magia o per maneggiare gli elisir.» «È stato un...» «Avresti potuto parlarmi dello scherzo di Jolosin, e io gli avrei inflitto la giusta punizione. Ora vedi dove ha condotto questa storia. Come castigo ti metterai in marcia, e questa volta non sarà un viaggio breve, Tungdil. Tuttavia sarò molto contento se tornerai da me. Credimi, a Jolosin è andata peggio.» Sogghignò. «Pelerà patate fino al tuo ritorno, e se per strada ti dovesse venire in mente di fare il giro lungo...» Lasciò in sospeso l'allusione maliziosa. «Sei pronto?» «Sì, venerabile mago», rispose il nano, sollevato perché l'uomo non lo considerava più l'unico colpevole. «Che cosa devo fare per voi?» In contrasto con quanto era accaduto poco prima nel laboratorio, l'atmosfera nella stanza ingombra di libri, scaffali e apparecchi era tranquilla e rilassata. Il fuoco scoppiettava piano nel caminetto e la docile civetta del mago teneva i grandi occhi ben chiusi. «Calma, giovane nano.» Alzatosi, Lot-Ionan prese il calice fumante e si accomodò sulla poltrona dall'ampio schienale davanti al camino. Si riscaldò i piedi tendendo le pantofole di feltro verso le fiamme. «Prendiamocela comoda. Tanto Jolosin ha parecchio da fare... Vorrei consegnarti ancora una cosa su cui riflettere quando metterai un piede davanti all'altro.» Accennò alla sedia accanto a sé. Tungdil sedette dopo aver deposto lo zaino sul pavimento. Sembrava che lo stregone dovesse dirgli qualcosa di molto speciale. «Ci ho pensato a lungo.» Il mago si schiarì la voce. «Hai trascorso sessantadue dei tuoi sessantatré cicli sotto la mia custodia.» Il nano intuì che cosa stava per accadere. In momenti di sentimentalismo come quello, quando era di buonumore perché aveva bevuto un poco di grog e il fuoco gli scaldava i piedi, il padre adottivo tendeva a rivangare il passato e a ricordare avvenimenti antichissimi. Tungdil amava quelle conversazioni. «Durante una burrascosa serata invernale, un branco di coboldi mi è comparso davanti trascinando un fagotto.» Lot-Ionan guardò il suo pupillo
negli occhi. «Quel fagotto eri tu», rise piano. «Non avevi ancora la barba, mio caro. Ti avrebbero potuto scambiare per un bambino umano. Mi hanno proposto di comprarti, oppure ti avrebbero gettato nel fiume più vicino. Non ho potuto far altro che dare ai Nasilunghi il loro compenso e accoglierti in casa mia.» «Ve ne sarò grato per il resto della vita, Lot-Ionan», sussurrò Tungdil. «Per il resto della vita», ripeté l'altro a bassa voce. Tacque per qualche istante. «Forse finirai di ripagarmi entro breve», aggiunse, accarezzando i folti capelli del nano con la destra. «Io ho vissuto fin troppo a lungo, e tu mi hai già reso moltissimi servizi che hanno saldato il tuo debito, se mai è esistito. Se i miei tentativi di arrestare l'invecchiamento non saranno coronati entro breve da un successo durevole, la mia anima non tarderà a volare da Palandiell.» Il nano si rattristava quando pensava alla caducità degli uomini, cui neppure gli stregoni riuscivano a opporsi. «Raggiungerete il vostro obiettivo», mormorò con voce roca. «Ma... volevate raccontarmi qualcosa.» Indovinando la sua intenzione di distrarlo, Lot-Ionan abbozzò un sorriso mesto. «All'inizio ti ho detto che la tua famiglia ti aveva consegnato a me affinché ti trasformassi in un grande mago dei nani, ma di lì a poco hai scoperto che quella non poteva essere la verità. Al più tardi dopo aver imparato a leggere e aver appreso qualcosa in più sul tuo popolo.» «I nani non amano molto la magia. E la magia non ama loro, ne sono certo», replicò Tungdil, ridacchiando. Le sue mani erano fatte per il martello da fabbro, e di tanto in tanto per un libro dell'enorme biblioteca, ma niente di più. «Vraccas ci ha donato tanta abilità manuale che nei nostri corpi non c'è più posto per la magia.» «Esatto», rise lo stregone, rammentando le piccole disgrazie che si erano verificate ogni volta che il suo figlio adottivo e la forza invisibile si erano incontrati per caso. «Ma non essere troppo modesto: hai acquisito un certo sapere e sei quasi un erudito. Alcuni apprendisti conoscono la Terra Nascosta e i suoi abitanti meno di te.» «Mi avete insegnato molte cose, Lot-Ionan, persino l'arte della disputa.» «Oh sì, quella è stata una sfida che mi ha quasi sfibrato. Talvolta la testardaggine tipica della tua razza è d'ostacolo alla tua lingua.» Tornò serio. «All'epoca non avevo chiesto ai coboldi come fossero venuti in tuo possesso, cosa che oggi rimpiango molto. Se gliel'avessi domandato, potrei almeno dirti dove si trova il clan della tua famiglia, dove si trova la tua
gente.» Allungando la mano, frugò in una pila di documenti alla ricerca di una mappa della Terra Nascosta. La srotolò con cautela e picchiettò con l'indice sul regno dei Secondi. «Ho inviato un messaggero presso la stirpe di Beroïn per scoprire se sanno qualcosa della sorte di un nano scomparso. Vorrei rintracciare i tuoi parenti, Tungdil. Vista l'età che raggiunge il tuo popolo, dovrebbero essere ancora vivi. Che cosa ne pensi?» L'altro era commosso. Sembrava che il suo più grande desiderio stesse per avverarsi. «Questo... è molto generoso da parte Vostra!» esclamò, emozionato. «Avete già ricevuto notizie?» Lot-Ionan fu lieto della sua reazione. «No, non ancora. Ma confido che i nani del Secondo siano abbastanza curiosi da interessarsi a un figlio perduto della loro gente. È soltanto un inizio, non aspettarti troppo.» «Vi ringrazio ancora», disse il nano con solennità. Gli mancavano le parole per esprimere i suoi sentimenti. «Giacché ho la mappa sulle ginocchia, ti mostro subito dove devi andare», proseguì lo stregone, indicando prima la galleria in cui si trovavano e poi un'altura denominata Giogonero. Si ergeva fuori dello Ionandar, poco distante dal confine con il Lios Nudin, la sfera d'influenza del mago Nudin, soprannominato il Sapiente. «Dovrai percorrere trecento miglia in direzione nord-ovest. Le strade sono facili da individuare, e la mappa ti aiuterà a orientarti. Lungo il tragitto vi sono diversi villaggi in cui potrai chiedere indicazioni.» Arrotolò la pergamena. «E ora passiamo alle cosucce che devi portare al mio amico Gorén. Vai all'armadio di ebano e prendi il piccolo sacco di cuoio con il nastro verde. Contiene oggetti che ho raccolto molto tempo fa per un esperimento e che ora non mi servono più. Sul tavolo ci sono alcune monete che puoi spendere lungo il cammino.» Mentre Tungdil si alzava, Lot-Ionan prese un libro e finse di leggere. Il nano aprì le ante ed estrasse il sacco. «Fatto», disse infine. «Adesso vai, Tungdil, e rifletti su quanto ti ho detto. Qualora rintracciassimo la tua famiglia, potrai decidere se restare con me oppure no», lo congedò Lot-Ionan, senza staccare gli occhi dal volume. Tungdil si diresse verso l'uscio. «Un'ultima cosa: stai all'erta! Fai attenzione al sacco e non smarrirlo, il suo contenuto è troppo prezioso», gli raccomandò il mago. Poi alzò lo sguardo e sorrise. «Se non vuoi provocare catastrofi, è meglio che tu non sciolga il nastro. Che Palandiell sia con te. E naturalmente anche il tuo
Vraccas.» «Potete fidarvi di me, Lot-Ionan.» «Non ne dubito, Tungdil. Torna in salute e fai buon viaggio.» Il nano lasciò la stanza per andare in cucina da Frala. Voleva farsi dare qualche provvista e comunicarle le novità riguardo alla sua provenienza. La trovò davanti alla grossa madia, intenta a impastare il pane. Il sudore le scorreva sul viso, perché il lavoro era molto faticoso e la dura massa di acqua, farina e lievito tutt'altro che morbida. «Mi servono dei viveri», annunciò raggiante. «Senti senti. Il mago ti ha affidato una commissione?» domandò lei, sorridendo e assestando un ultimo colpo all'impasto. «Allora vediamo che cosa c'è nella dispensa per il corriere del maestro stregone.» Batté le mani per liberarsi della farina ed entrò con Tungdil nel locale in cui un topo sarebbe stato lieto di venire al mondo. La serva gli infilò nello zaino formaggio, carne essiccata, salame stagionato e una pagnotta scura. «Dovrebbe bastare.» «Per trecento miglia?» «Trecento?» gli fece eco lei, stupita. «Tungdil, questa non è una commissione, è un viaggio vero e proprio. No, ovviamente dobbiamo aggiungere qualcos'altro.» Prese due salsicce e un po' di prosciutto. «Ma non farli vedere alla cuoca», lo avvertì, affrettandosi a richiudere il lembo dello zaino. Tornarono in cucina. «Allora? Dove ti condurrà il tuo lungo vagabondare?» chiese Frala, curiosa. «Sono diretto al Giogonero», le rivelò Tungdil. «Devo restituire un paio di cosette a un ex allievo del mago.» «Non ho mai sentito nominare questo monte», osservò Frala. «Dev'essere un cammino molto lungo, trecento miglia... Quali altri regni attraverserai?» Tungdil rise. «Ti porterei con me, ma Lot-Ionan avrebbe qualcosa da ridire. E anche tuo marito e le tue figlie.» Le mostrò la mappa, facendo scorrere il dito sul foglio. «L'Idoslân e il Gauragar! E il Lios Nudin è lì vicino, non è emozionante?» «Oh, da Nudin è tutto tranquillo. Quello non fa altro che accumulare conoscenze», rispose il nano, scrollando il capo. «Il dominio di Turgur il Bello, invece, sarà senz'altro interessante.» «Perché?»
«Il mago è alla ricerca della leggiadria eterna per tutti. Vuole che il contadino con le gambe più storte e la prostituta con la bocca più sbilenca barattino i loro difetti con un'avvenenza simile a quella degli elfi», raccontò alla serva. «Stando a quanto mi ha riferito Lot-Ionan, tuttavia, i suoi sforzi continuano a non dare alcun frutto. A quanto pare, in quel Paese vivono molte persone cui gli esperimenti di Turgur hanno regalato deformità tali da indurle a nascondersi per la vergogna. Forse è bene che stia lontano da Turgur prima che mi lanci un incantesimo per farmi diventare più alto.» «Che crudeltà», commentò Frala, compassionevole, accovacciandosi e attirando a sé il nano. «Ti auguro la benedizione di Palandiell e del tuo Vraccas affinché ti proteggano da ogni pericolo lungo il tragitto.» Toltasi il fazzoletto dal collo, glielo legò alla cintura. «Ecco il tuo talismano. Ogni volta che lo guarderai, penserai a me.» Gli strizzò l'occhio con fare malizioso. «E ricorderai che devi portarmi un bel regalo.» Tungdil la guardò nei vivaci occhi verdi, sospirando. Le era così affezionato da faticare a immaginare un avvenire con i nani e la sua famiglia senza di lei, tanto più che adesso era il padrino di Sunja e Ikana. Non desiderava Frala (simili pensieri non l'avevano mai sfiorato), ma conoscendola sin da quando era piccola, si sentiva come un fratello per la giovane. «Lot-Ionan ha inviato un messaggio ai nani di Beroïn affinché conducano ricerche sulle mie origini», la informò, accennando al colloquio con il padre adottivo. «Se i miei familiari vivono laggiù, mi piacerebbe andare tra i monti e incontrarli, magari anche vivere con loro. Il mago mi ha dato il permesso di scegliere.» La serva lo abbracciò di nuovo, manifestando la sua felicità per le belle notizie. «A quanto sembra, un sogno sta per realizzarsi.» Ridacchiò, sfrontata. «Jolosin farà i salti di gioia se ci lascerai.» «Questo sarebbe un buon motivo per non partire», commentò Tungdil, compiaciuto. Notò tuttavia che un'ombra aveva oscurato il viso ancora allegro di Frala. «Di tanto in tanto ci farai visita e ci racconterai dei nani che vivono nel Sud?» gli domandò. Una nota di malinconia si insinuò nella sua voce, benché fosse contentissima per il suo migliore amico. «Non correre, Frala. Può darsi che non mi abbiano smarrito, e che io sia semplicemente nato dalla roccia», la rassicurò Tungdil. «Restituirò a Gorén quanto gli appartiene, poi ci rivedremo.»
Dall'angolo della cucina provenne un vagito. Frala si affrettò a prelevare Ikana dalla culla, collocata accanto al focolare. «Guarda, questo è il tuo padrino, piccoletta», disse alla bambina. «Più avanti baderà a te come ha tenuto d'occhio me per tanti anni.» Il nano allungo l'indice, che la piccina afferrò subito e tirò a sé. Tungdil pensò addirittura di aver udito una risata sommessa. «Ride di me.» «Sciocchezze. Ride con te. Vedi? Le piaci», lo corresse Frala. «Porterò qualcosa anche a te e a tua sorella», promise il nano a Ikana, sfilando con prudenza il dito calloso dalla manina rosea. Superato il timore che quella creaturina dall'aspetto tanto fragile gli ispirava, faticava a separarsene. Ikana tese la manina, agguantandogli una ciocca di capelli castani. Il nano si liberò con cautela. «Vuoi forse che rimanga?» Tungdil e Frala percorsero insieme la galleria semibuia fino alla porta settentrionale. La luce chiara del giorno baluginava attraverso la fessura. La serva lo baciò sulla fronte. «Abbi cura di te», lo salutò. «E torna sano e salvo.» Un apprendista azionò i verricelli del meccanismo di apertura e i portali di quercia rivestiti di ferro si aprirono con un cigolio. Il sole splendeva sulle dolci colline verdeggianti, sui fiori appena sbocciati e sulle foreste di latifoglie. Trasportato dal vento, il profumo della terra tiepida pervase il tunnel, e gli uccelli intonarono il loro canto primaverile. «Lo senti, Tungdil? La Terra Nascosta è benevola nei tuoi confronti», osservò Frala, inspirando a fondo. «Che tempo magnifico! Il tuo sarà un viaggio gradevole.» Il nano indugiò all'ombra rassicurante del corridoio. Era avvezzo ad avere un soffitto sopra la testa e pareti che lo proteggessero tutt'intorno. Là fuori c'era un po' troppo spazio, cui doveva riabituarsi ogni volta che sbrigava una commissione per il mago. Non voleva tuttavia stare lì davanti a Frala come uno gnomo codardo, così trasse un profondo respiro, posò i piedi sulla superficie soleggiata dello Ionandar e si incamminò. «A presto, Tungdil!» gli urlò dietro la giovane. Voltatosi, la salutò con la mano finché l'accesso all'abitazione sotterranea di Lot-Ionan si richiuse, quindi proseguì. Ma non andò molto distante. Abbagliato, abbassò le palpebre già dopo pochi passi. Il periodo trascorso nel sottosuolo, lontano dai raggi del potente astro, lo aveva reso così sensibile che cercò riparo
dalla luminosità sotto un'imponente quercia, gettando i sacchi con le provviste e i gli oggetti sull'erba lì accanto. Magari sarà un viaggio piacevole, pensò. Si rannicchiò a terra e socchiuse gli occhi per farsi un'idea approssimativa di quanto lo attorniava. Il baldacchino di foglie lo proteggeva a malapena dalla luce inclemente. Gli capitava tutte le volte che usciva all'aria aperta, ricordò. Se non altro, il paesaggio ridente e le caratteristiche del terreno si adattavano alla corsa rapida. Prese la mappa per studiarla con maggiore attenzione e la tenne sopra di sé affinché gli facesse ombra. Se chi l'aveva disegnata non si era sbagliato, il panorama sarebbe mutato in prossimità del Giogonero. Il rilievo era circondato da una folta foresta di abeti, che non sembrava percorsa da alcun sentiero. Nessun problema. Il suo pollice sfiorò la lama dell'ascia. Gli alberi vedranno che cosa significa sbarrarmi la strada. Il sole continuò a calare. A poco a poco il nano si abituò alla luce, che stava già diventando più fioca e si tingeva di un delicato arancione. Il crepuscolo, che gli accarezzava gli occhi, sarebbe sceso di lì a poco, e per allora Tungdil voleva già aver percorso qualche miglio. Forse si sarebbe imbattuto in una fattoria dove gli avrebbero offerto ospitalità per la notte. Dopo essersi alzato con decisione, si gettò in spalla lo zaino e il sacco del mago, si agganciò l'ascia alla cintola e si rimise in marcia. Per un po' continuò a imprecare contro il sole, cosa che non lo rese più veloce, ma lo aiutò a sfogarsi. *
*
*
Quando, durante il quinto giorno del suo tranquillo peregrinare, Tungdil uscì dalla foresta e avvistò le palizzate di un grande villaggio recintato, il sole era appena scomparso dietro una collina. Sopra la porta si innalzava una torre di legno su cui due uomini camminavano avanti e indietro. All'inizio non si avvidero della sua figura tarchiata, ma poi uno dei due lo notò. A giudicare dal loro comportamento, tuttavia, non lo considerarono una minaccia. Tungdil era contento. Dopo quattro fredde notti trascorse tra volpi, scoiattoli e una vegetazione fin troppo rigogliosa, dall'altra parte della fortificazione lo attendevano senza dubbio una locanda, della buona birra, un piatto caldo e un letto morbido. Il suo stomaco gorgogliò. Quando giunse davanti alla porta, il passaggio restò chiuso. Le guardie si sporsero dal parapetto per osservare i suoi movimenti. «I miei omaggi! Fatemi entrare, non voglio passare la notte all'addiaccio», gridò, scrutando i due sconosciuti. Le piastre delle loro armature sembravano lavorate con grande maestria; per quanto poteva vedere da lontano, il fabbro che le aveva forgiate conosceva bene il suo mestiere. Quel particolare significava anche che gli uomini erano addetti alla difesa: non si trovavano lì solo per ostentazione. Non erano abitanti del villaggio. Poi Tungdil fece un'altra scoperta. A un esame più accurato, quelle che, al chiarore delle fiaccole, aveva scambiato per teste ornamentali si rivelarono crani veri. I paesani avevano decorato le palizzate con i capi mozzati di una trentina di mezz'orchi. Tungdil dubitava che fosse una buona idea provocare i mostri in quel modo. Vedendo le teste infilzate dei loro simili, i mezzorchi si lasciavano dissuadere da ulteriori aggressioni quanto le cornacchie dal saccheggio dei campi. Interpretavano invece quel genere di spettacolo come un invito ad annientare gli esseri umani per punirli delle loro azioni. Il nano, a quel punto, comprese due cose. Primo, si trovava nell'Idoslân. Secondo, gli uomini che la popolazione locale aveva ingaggiato per combattere i mezz'orchi erano forse valorosi, ma purtroppo non molto intelligenti. Il loro comportamento provocatorio si poteva spiegare solo supponendo che venissero ricompensati in base al numero di nemici decapitati. I soldati esponevano quelle esche raccapriccianti per attirare il successivo branco di mostri. «Che cosa c'è adesso?» domandò, irritato. «Perché non posso entrare?» «Ti trovi a Gutenauen, nello splendido Idoslân. Hai incrociato qualche
mezz'orco sul tuo cammino, Cavernicolo?» fu la risposta che ottenne. «No, nessuno», dichiarò Tungdil, sforzandosi di continuare a essere cortese; trovava offensivo l'appellativo «Cavernicolo». «E, per essere precisi, sono un nano, come voi siete uomini e non "Bipedi"». Le guardie risero. Una di loro fece un cenno, e il battente destro si aprì con un cigolio, consentendo l'accesso a Tungdil. Altri due mercenari armati fino ai denti erano pronti ad accoglierlo e lo guardarono con sospetto. «È davvero un nano», bisbigliò il primo, affascinato. «Non sono così piccoli come si racconta.» L'umore di Tungdil si guastò, perché non gli piaceva essere fissato. Aveva dimenticato che gli esseri umani si imbattevano raramente in un rappresentante della sua razza. «Avete guardato abbastanza? Sapete dirmi dove posso trovare ricovero per la notte?» Le guardie gli indicarono la locanda più vicina. Tungdil imboccò la strada polverosa e ben presto raggiunse l'osteria. Una ciotola di legno, segnata dalle intemperie e inchiodata alle assi della porta insieme con un boccale altrettanto malridotto, non prometteva al visitatore alcun lusso, ma se non altro un pasto sostanzioso e un sorso di birra. Tungdil si sforzò di passare inosservato. Quando sollevò il paletto e spinse l'uscio, i cardini arrugginiti gemettero. Era il dispositivo insieme più semplice ed efficace contro l'ipocrisia: nessuno poteva fingere di non udire il suono del metallo malconcio. Dopo un attimo di esitazione, il nano entrò. Dieci paesani sedevano ai tavoli rozzi davanti a birra e idromele; il tabacco, gli odori del cibo e il tanfo di sudore si mescolavano in un bouquet inconsueto. Gli avventori, vestiti con semplicità, si proteggevano dal freddo della serata primaverile con camicie di iuta e tessuti di lana grezza. Ai piedi portavano spessi calzini e scarpe con i lacci. Due tizi gli rivolsero un cenno esitante del capo, gli altri si limitarono a squadrarlo. Come avevo immaginato! Dopo avere risposto al saluto, Tungdil si avviò verso un tavolo libero. Come sempre, i mobili erano troppo grandi per lui, ma la cosa non lo disturbava. Ordinò un pasto caldo e un grosso boccale di birra. Poco dopo gli servirono un bicchiere colmo e una ciotola fumante di pappa di cereali e carne sminuzzata. Si gettò sul cibo con voracità. Aveva un sapore terroso, bruciacchiato e un po' insipido, ma lo aiutò a scaldarsi. L'acquosa birra giallo chiaro non
soddisfaceva il suo palato di nano, ma la bevve comunque. Non intendeva attaccare briga, e poi desiderava un letto per la notte. Uno degli uomini gli rivolse un'occhiata così penetrante che Tungdil la ricambiò con uno sguardo di sfida. «Chissà che cosa vuole da noi un Cavernicolo», disse lo sconosciuto, a voce così alta che lo sentì anche il più duro d'orecchi, prima di soffiare il fumo della pipa verso il soffitto annerito dalla fuliggine. «Un letto.» Il nano prese a masticare con maggiore lentezza, affondando il cucchiaio nella massa collosa e pulendosi i resti dalla barba corta. Un piantagrane... Ci mancava solo questo. Il tono dell'uomo era inconfondibile. Ma con me non attacca. «Non voglio litigare con voi», dichiarò Tungdil. «Ho trascorso le ultime notti all'aperto, e sono grato a Vraccas di avermi aiutato a trovare un giaciglio che non sia fatto di rami e foglie», aggiunse testardo. Gli altri clienti sghignazzarono. Alcuni si inchinarono in maniera esagerata davanti al fumatore e lo chiamarono «Vostra grazia» e «Vostra magnificenza»; qualcuno gli mise sulla testa un boccale vuoto a Emo' di corona. Giudicavano divertente che il nano si fosse rivolto in maniera così cerimoniosa a un semplice paesano. «Senti senti, il nano ha studiato. Che sia un bellimbusto?» L'uomo, adirato, si tolse il bicchiere dai capelli e si girò verso la sua gente. «Sì, ridete, stolti! Ho validi motivi per essere diffidente. Se l'hanno mandato i mezz'orchi per spiarci, e questa notte apre loro la porta, le urla vi moriranno in gola!» L'ilarità svanì. Tungdil comprese che, se non avesse fatto attenzione, la situazione sarebbe potuta diventare pericolosa. Soprattutto doveva smettere di esprimersi come un erudito. Un nano era già abbastanza insolito di per sé. «Il mio popolo e i mezz'orchi sono acerrimi nemici», ribatté con serietà. «Un nano non diverrebbe mai loro complice.» Allungò la destra verso il suo interlocutore. «Ti do la mia parola, la mia parola d'onore, che non sto macchinando alcun tradimento. Lo giuro su Vraccas, il creatore della mia razza.» L'altro osservò le sue dita robuste e rifletté sul da farsi. Infine gli strinse la mano e gli voltò le spalle. L'oste portò una birra fresca al nano, che ora si sentiva sollevato. «Devi scusarlo. Siamo tutti nervosi», si premurò di spiegare. «I mezz'orchi scorrazzano già da molte rotazioni nell'area nordoccidentale dell'Idoslân,
saccheggiando i centri abitati.» «È per questo che avete assunto i mercenari?» «Sì. Li abbiamo ingaggiati per proteggere il villaggio finché i soldati di re Tilogorn giungeranno e annienteranno le orde.» Fece per allontanarsi. «Aspetta!» La mano di Tungdil si posò sulla sua manica macchiata. Un barlume di speranza si era acceso in lui. «Ci sono dei nani nel suo esercito? Ho sentito dire che alcuni sono al suo soldo.» L'altro fece spallucce. «Non lo so, ometto. È verosimile.» «Quando arrivano?» chiese Tungdil, emozionato. Se esisteva la possibilità di vedere finalmente qualcuno dei suoi simili, avrebbe rimandato la commissione al Giogonero. Che Jolosin peli pure le sue patate. «Dovevano essere qui tre rotazioni fa», rispose l'oste e, con un gesto di scusa, indicò il bancone, dove gli assetati attendevano la loro birra. Tungdil lo lasciò andare e continuò a mangiare, meditando sul Paese in cui era capitato. L'Idoslân, il cui nome significava letteralmente «strage degli Ido», si chiamava così perché era stato teatro di diverse battaglie per la conquista del trono. Un tempo, gli Ido erano stati una grande schiatta di sovrani che avevano lottato per il potere all'interno della loro stessa famiglia, combattendosi a vicenda. I primi a fare le spese della loro cupidigia erano stati i sudditi. Il regno era stato frazionato, e ciascuna porzione era stata posta sotto il governo di un diverso membro del casato. A un certo punto, la gente comune ne aveva avuto abbastanza e li aveva trucidati uno dopo l'altro, creando così l'Idoslân. Un avventore sbronzo si alzò, levando il calice. «Lunga vita a Mallen! Che cacci dal trono il traditore Tilogorn!» Vedendo che nessuno si univa al suo brindisi, tornò a sedersi mugugnando. Se Tungdil ricordava bene, l'ubriacone aveva alluso al principe Mallen von Ido, l'ultimo discendente della schiatta. Risiedeva a nord, nell'Urgon, e da lì ordiva intrighi per tornare un giorno nel Paese come re legittimo. Alla parete era appesa una vecchia carta dell'Idoslân, ingiallita e annerita dal fumo. Il regno era fatto di boschi, pianure e montagne che si alternavano conferendo varietà al paesaggio. Un vero paradiso se non ci fossero stati i mezz'orchi. «Bello, vero?» intervenne un cliente, notando gli sguardi del nano. «Fino al Toboribor», convenne Tungdil, indicando la macchia nera disegnata al centro dell'Idoslân, proprio dove si stendevano i campi più
fertili. Prese il boccale e si trasferì al tavolo vicino. «Che cosa ha spaventato i mezz'orchi?» «Non c'è bisogno di spaventarli. Si mettono in marcia perché si annoiano, per seminare paura e terrore. Sono già stati a un paio di miglia da qui. Hanno incendiato campi e frutteti. Orribili creature! Guerra, rapina e assassinio, non conoscono altro», affermò l'uomo. «Ma sono forti», interloquì un secondo tizio, roteando gli occhi. «Ecco che attacca con il solito vecchio ritornello», gemette l'oste, versando ancora della birra. «Sì, il solito ritornello», ribatté l'altro quasi offeso, ma il commento non bastò a zittirlo. «Una volta mi sono trovato di fronte a un'intera banda di bestiacce particolarmente nerborute, quando prestavo ancora servizio nell'esercito di Tilogorn...» «... e non aveva il tempo di spaventare i bambini piccoli...» «Taci, bettoliere! Sono stato io a combattere contro di loro, non tu! Pensa, nano, superano un uomo normale di un'intera testa. I loro musi dal naso schiacciato e dalle zanne sporgenti sono semplicemente disgustosi. I loro occhi orrendi e le loro grida incutono una bella paura ai guerrieri inesperti.» «È scritto anche nei libri», sussurrò Tungdil, ma per fortuna nessuno udì quell'osservazione. Si grattò la testa; la sua pelle doveva ancora abituarsi al sole implacabile e, se fosse stata estate, si sarebbe scottato già da un pezzo. «All'epoca abbiamo impiegato mezza rotazione per sconfiggerli, tanto erano tenaci. Ah, allora avremmo sbaragliato da soli i mezz'orchi che gironzolano intorno al nostro villaggio. A quel tempo non avevamo bisogno di assoldare mercenari che ci proteggessero. L'esercito non è più quello di una volta», aggiunse con voce piagnucolosa, pieno di nostalgia per la sua gioventù. Gli cadde lo sguardo sull'ascia del nano. Osservò la lama, danneggiata dall'uso nel bosco e costellata di minuscole schegge e tracce di resina essiccata. «Un'arma così bella, e la utilizzi per spaccare la legna?» domandò, meravigliato. «Mi sono dovuto aprire un varco nel folto della foresta.» Tungdil avvampò, pregando in silenzio che nessuno gli chiedesse una dimostrazione della celeberrima abilità bellica della sua razza. Non ne sarebbe stato in grado. Essendo un mago, Lot-Ionan non si occupava di armi o combattimenti con la spada e non sapeva nulla del mestiere di guerriero. Tungdil non aveva dunque mai avuto un maestro che gli insegnasse a maneggiare
l'ascia contro un avversario. Le serve e i garzoni usavano scuri e accette per spaccare la legna o ammazzare i ratti. A questo si erano limitati anche i suoi tentativi di apprendere l'impiego della famigerata arma dei nani, che invece avrebbe dovuto essere un requisito imprescindibile per un rappresentante del suo popolo. Se un giorno si fosse trovato di fronte a un avversario (ipotesi che, data la presenza dei mezz'orchi, non sembrava affatto remota), avrebbe attaccato, sperando di mettere in fuga il nemico... «Ho sentito parlare spesso dei nani e delle loro doti belliche. Le avete nel sangue, oppure ve le insegnano?» chiese immediatamente il suo interlocutore. «Si dice che uno di voi basti per uccidere dieci mezz'orchi. È vero?» Tra tutti quegli umani, Tungdil se ne rese conto più chiaramente che mai: era ben lontano dall'essere un vero membro della sua razza. I suoi simili l'avrebbero senza dubbio schernito, e all'improvviso non desiderò più incontrarne uno. Persino l'idea dell'amore con una nana perse il suo fascino. «Certo che è vero», rispose, augurandosi che lo fosse. Quindi fece un grande sbadiglio e si stiracchiò. Era giunto il momento di coricarsi, abbandonando tutti quei pensieri e gli ascoltatori curiosi. «Scusate, ma adesso vorrei riposare.» Ora che avevano superato la timidezza iniziale, lo lasciarono andare malvolentieri. L'oste gli indicò un giaciglio al secondo piano dell'edificio a graticcio, in un lungo dormitorio in cui non alloggiava nessun altro. Tungdil utilizzò il catino per rinfrescarsi i piedi bollenti, liberi dagli stivali per la prima volta dal principio del viaggio. Bevendo rapidamente una terza birra, guardò fuori dalla finestra dell'angusto locale e osservò i tetti di tegole di Gutenauen. Il centro abitato era molto grande, e doveva comprendere più o meno mille case. Probabilmente la popolazione viveva di cereali e ortaggi coltivati nei campi circostanti, oltre che del raccolto degli alberi da frutta. Ora il piccolo regno era minacciato dai saccheggi dei mezz'orchi. Il tanto atteso esercito di Tilogorn avrebbe dovuto spicciarsi se voleva salvare ancora qualcosa. Dopo essersi asciugato i piedi provati dalla lunga marcia, Tungdil sistemò i vestiti sulla sedia e scomparve sotto la spessa trapunta. Una luce argentea rischiarò il sacco che doveva restituire a Gorén, mettendo a dura prova il suo autocontrollo. Non aprirlo, ordinò a se stesso. Il contenuto non è affar tuo.
Poco prima di addormentarsi, pensò al mago e a Frala, la sua cara sorella, di cui portava il talismano attaccato alla cintola. Gli mancavano le sue risate. L'indomani mattina, di buon'ora, avrebbe chiesto all'oste la strada verso il Giogonero, e nulla sarebbe riuscito a trattenerlo. Alcuni rumori ovattati lo riscossero dal suo sopore. Due uomini si sforzavano di sistemarsi nel dormitorio il più silenziosamente possibile. Da fuori proveniva il mugghiare di un temporale che imperversava su Gutenauen. Credendo di aver udito con chiarezza il nome del suo padre adottivo, il nano sbirciò con cautela i nuovi arrivati. Si trattava di un signore gracile ed elegante e di un tizio più alto e robusto, con un'armatura di cuoio marrone scuro rinforzata da piastrine di ferro. Un commerciante e la sua guardia del corpo? ipotizzò Tungdil. Quello che indossavano valeva senza dubbio molte monete. In quell'istante adocchiò un monile semplice ma originale, fissato al risvolto del più corpulento, che recava il sigillo del consiglio dei maghi. Inviati! «State andando da Lot-Ionan?» chiese ad alta voce, smettendo di fingersi addormentato. La curiosità aveva avuto la meglio sulla prudenza. Il più nerboruto aggrottò la fronte. «Come fai a saperlo?» «Il fermaglio sulla vostra veste», spiegò ai due uomini sorpresi. «Siete messaggeri del consiglio dei maghi.» Gli altri due si scambiarono una rapida occhiata. «Chi sei?» domandò il proprietario del monile. Il nano si presentò. «Allora puoi senz'altro dirci quali sono le condizioni di salute del tuo signore. Sta bene?» «Certo. Se foste così cortesi da presentarvi...» replicò Tungdil con gentilezza. Gli rivelarono i loro nomi: Friedegard, allievo di primo grado della scuola di magia di Turgur il Bello, e Vrabor, mercenario al servizio del consiglio. «Lot-Ionan sta benissimo», rispose Tungdil. «Lo constaterete di persona.» Non riuscì tuttavia a frenare la curiosità. «Qual è il motivo...» Si interruppe e passò a un linguaggio più semplice. «Che cosa volete da lui?» «Non penso di dover discutere di simili faccende con il galoppino del mago», ribatté Vrabor in tono brusco, afferrando la fibbia dell'armatura per aprirla. «Altrimenti avrei il titolo di banditore.» Il temporale raddoppiò di colpo la sua furia minacciosa; una raffica soffiò attraverso le fessure, producendo uno strano suono, un gemito stridulo e disumano, seguito da un acuto fischio a più voci. I messaggeri trasalirono, e le loro mani scattarono verso le impugnature
delle spade. Addio nottata tranquilla, pensò Tungdil guardando fuori, dove brandelli di nuvole illuminati dalla luna si rincorrevano nel cielo buio. All'improvviso un volto scarno e grazioso si materializzò davanti alla finestra; degli occhi grigioverdi fissarono Tungdil, stregandolo. L'incanto superò la paura suscitata dall'apparizione inattesa. Lunghi capelli neri sferzavano la faccia, e alcune ciocche si incollavano alla pelle umida e quasi bianca, simili a crepe sui lineamenti di un viso elfico scolpito con perizia nel marmo più pregiato. Ipnotizzato, il nano non riuscì a distogliere lo sguardo; tuttavia, nonostante la soavità di quelle fattezze, provò una profonda avversione fisica. La creatura possedeva un fascino eccessivo ed emanava una crudeltà indefinibile. «Laggiù...» balbettò Tungdil. Quella parola bastò ad attirare l'attenzione degli altri due, che alzarono gli occhi e si misero subito al riparo. La spessa lastra di vetro si frantumò. Una lunga freccia con l'impennaggio nero attraversò la stanza sibilando e si conficcò nella parete. «Cacciali via!» gridò Vrabor al suo accompagnatore, agguantando il tavolo massiccio, sollevandolo e incastrandolo davanti alla finestra. Fissò la protezione improvvisata con movimenti rapidi e la bloccò con un'asse. Non vi erano più spiragli attraverso cui potesse passare una freccia. Friedegard aveva chiuso gli occhi e abbassato leggermente la testa; le sue labbra si mossero senza produrre alcun suono mentre le dita disegnavano nell'aria bizzarre traiettorie con un cristallo grande quanto una moneta e incastonato nell'oro. «Che cos'è successo?» Tungdil balzò dal letto e afferrò l'ascia, che gli infuse una certa sicurezza. Gli uomini non risposero, restando in ascolto. Le folate si placarono, ma gli scrosci di pioggia si intensificarono. Pur tendendo le orecchie, non udirono più nulla. L'aggressore sembrava essersi allontanato con il temporale. «L'elfo se n'è andato?» chiese il nano. «Non lo so», ammise il mercenario. «Può darsi.» Dopo aver rinfoderato la spada, sedette sul suo giaciglio, le mani posate sull'elsa. «Oppure aspettano un'occasione migliore.» «Aspettano?» «Sono albi, non elfi. Sono in due, e ci seguono da quando siamo partiti da Porista.»
«Albi!» Erano i nemici giurati degli elfi, più spietati di qualsiasi mostro della Terra Nascosta, e odiavano la razza con cui erano imparentati per via della sua purezza irraggiungibile. Stando a quanto riferivano i libri, quella era l'unica ragione per cui avevano superato la Porta di Pietra. «Lot-Ionan è forse in pericolo?» «A lui non può accadere nulla», lo rassicurò Vrabor, stanco. «Gli albi sanno di non avere alcun potere contro gli stregoni. Vogliono soltanto me e Friedegard per scoprire che cosa portiamo con noi. Ci spiano da quando abbiamo lasciato la capitale del Lios Nudin, ma ci hanno attaccati solo ora, dopo aver intuito la meta del nostro viaggio.» Lesse la domanda inespressa negli occhi di Tungdil. «No, Cavernicolo, sarai anche il tirapiedi di LotIonan, e ci avrai anche salvati con la tua prontezza, ma non ti posso confidare che cosa vuole il consiglio dei maghi dal tuo padrone. Chiedilo a lui dopo che sarai rientrato.» «Sono un nano, non un Cavernicolo.» Tungdil accarezzò l'idea di tornare da Lot-Ionan il mattino successivo con i due sconosciuti per raccontargli l'accaduto, ma decise che sarebbe stato assurdo. Prima doveva condurre a termine la sua missione. Così si sdraiò, posandosi la scure di sghembo sulla coscia. Vegliarono tutta la notte in silenzio, senza che nessuno dei tre riuscisse a prendere sonno. La paura li tenne svegli anche se gli aggressori misteriosi non tornarono più; evidentemente l'incantesimo protettivo di Friedegard li aveva scoraggiati. La tensione si allentò al comparire della delicata luce dell'alba, quando il nano si assopì sul suo giaciglio.
III Terra Nascosta, regno incantato di lonandar, 6234° ciclo solare, inizio dell'estate Lot-Ionan sedeva sulla vecchia poltrona dall'ampio schienale nell'angolo dello studio e, con i piedi sollevati, sfogliava tutto compiaciuto una delle sue numerose raccolte di formule. Indossava la comoda veste beige e le pantofole ancora più comode; sul tavolino era appoggiata una pipa colma di tabacco, pronta per l'uso, con accanto un bicchiere fumante di infuso d'erbe. Il mago assaporava tutta quella tranquillità. «Lo senti, Nula?» domandò alla civetta che, appollaiata in cima allo schienale, sembrava leggere con lui. Lot-Ionan posò il libro e sospirò. «Silenzio. Niente chiasso, niente esplosioni. Mi è dispiaciuto aver allontanato Tungdil, ma è stata una saggia decisione.» L'uccello batté le palpebre in segno di conferma, emettendo un lieve ciangottio. Non che Nula lo comprendesse, ma lo stregone amava parlare con lei. Lo aiutava a riordinare le idee. «Ammetto che è stato un po' cattivo da parte mia. Gorén non vive più sul Tavoliere da parecchi cicli», spiegò in tono colpevole. «Il mio ex apprendista ha abbandonato il Giogonero dopo essere caduto vittima del fascino carnale e intellettuale di un'elfa.» La civetta socchiuse gli occhi. «Come faccio a saperlo? Gorén mi ha scritto con entusiasmo della sua nuova casa di Grünhain, illustrandomi con dovizia di particolari gli infiniti pregi delle elfe.» Lot-Ionan si rese conto ancora una volta di essere vecchio. Da parecchio tempo non pensava più ai piaceri dei sensi e della carne. Aveva cose molto più importanti su cui concentrarsi. «Confido che Tungdil scoprirà dov'è andato a finire Gorén. E conoscendo il mio servo, sono sicuro che non tornerà prima di aver consegnato il sacco.» Sorseggiò l'infuso: era l'antidoto migliore contro il freddo, anche se il mago non avrebbe voluto che l'ambiente fosse più caldo: la bassa temperatura gli manteneva lucida la mente, aiutandolo a riflettere. Nula batté di nuovo le palpebre con aria di rimprovero. «Che cosa vuoi? Il mio affetto per Tungdil è fuori discussione», si difese Lot-Ionan. «Ma quando farò un secondo tentativo, cercherò di evitare un disastro come quello di poche rotazioni fa, quando lui e Jolosin hanno
rovinato irreparabilmente la mia formula. Ecco il perché del lungo pellegrinaggio.» L'uccello non parve soddisfatto. «Gli farà bene. Così vedrà la Terra Nascosta anziché leggerne solo le descrizioni nei libri. Tungdil tornerà presto da questa avventura e sarà contento di avere portato a termine l'incarico. Jolosin si scorticherà le dita, detesterà le patate fino alla fine dei suoi giorni e non escogiterà più brutti tiri ai suoi danni. Tutti, dunque, trarranno vantaggio da questa soluzione.» Il suo sguardo cadde sul calendario dei cicli solari. «Oh, che cosa vedo?! Oggi aspettiamo un ospite di riguardo, Nula.» I dischi del regolo calcolatore annunciavano la visita di Nudin il Sapiente. Com'era ovvio, il suo collega non sarebbe venuto di persona. Vivendo a circa cinquecento miglia di distanza, i due stregoni comunicavano mediante la magia e un complicato rituale possibile solo durante determinate fasi lunari. Lot-Ionan era felice che abitassero lontani, perché pian piano Nudin era diventato la persona più odiosa che conoscesse. Allo stesso tempo, tuttavia, si era trasformato in un mago di grande talento, e le sue doti erano cresciute di pari passo con la sua antipatia. Prima o poi ognuno trovava la sua strada per penetrare i segreti della magia, dell'ars magica. Evidentemente Nudin cercava di raggiungere lo scopo facendosi sempre più burbero, più detestabile, più scontroso e più grasso. «Te lo assicuro, Nula, quel tipo padroneggia formule e incantesimi che gli altri non osano neppure guardare.» Allungando la mano sotto il tavolino, recuperò un bicchiere e una caraffa piena di acqua limpida. Dopo avere lucidato rapidamente il bicchiere sul risvolto della casacca, lo esaminò alla luce delle candele. Ripensò alle voci secondo cui Nudin non aveva ottenuto il suo crescente potere tramite lo studio e la ricerca. Stando ai pettegolezzi, aveva lanciato un incantesimo sul proprio corpo affinché la magia dimorasse a lungo dentro di lui. Lot-Ionan lo riteneva assurdo, ma riconosceva che Nudin era cambiato. Anche fisicamente. A un tratto l'aria si raffreddò e una violenta raffica di vento attraversò la stanza, agitando le candele. Al centro del locale comparve un tenue tremolio azzurrino da cui emersero gradualmente i contorni di un uomo. Dopo qualche istante, la sagoma imponente di Nudin comparve dinanzi a Lot-Ionan.
Quest'ultimo squadrò il visitatore vestito di scuro. Doveva essere un po' cresciuto, sia in diametro sia in altezza. Il suo corpo pareva più massiccio di prima, e forse indossava l'ampia veste color malachite per nascondere la pinguedine. I capelli biondo scuro, abbastanza lunghi, gli scendevano flosci fino ai lobi delle orecchie, e il verde degli occhi, di solito vivace e brillante, era offuscato da un'ombra. Era la copia esatta del vero mago che, in realtà, stava operando l'incantesimo dall'interno di un cerchio rituale nella sua residenza. L'illusione era perfetta. Perfetta come Lot-Ionan non l'aveva ancora vista nei suoi duecentottantasette cicli. In genere, le visioni prodotte mediante la magia erano baluginii trasparenti o presentavano altri piccoli difetti. Questa no. Nudin, che aveva nella sinistra un bastone di acero intagliato con un onice incastonata alla sommità, si liberò disinvoltamente delle ultime scintille blu che gli danzavano sulla veste elegante. Lot-Ionan si sentì ridicolo nel suo abito sbrindellato. «Che bello rivederti, Lot-Ionan. Dev'essere trascorsa quasi un'eternità dall'ultima volta che ci siamo trovati faccia a faccia», esordì Nudin, sorridendo. Aveva la voce aspra e rauca. «Accomodati.» Lot-Ionan indicò una poltrona, su cui l'ospite sedette con grazia. Esisteva un accordo in base al quale le illusioni andavano trattate come persone vere, in segno di stima e cortesia. «Gradisci un goccio di tè, Nudin? O preferisci qualcos'altro?» Non erano convenevoli. Un mago poteva avvertire il sapore di una bevanda assaggiata dal suo fantasma anche da una distanza di oltre cinquecento miglia. Nudin scosse la testa. «No, grazie, amico mio. Le questioni da discutere sono importanti e non tollerano ulteriori ritardi. Devi venire subito nel Lios Nudin. La Terra Estinta si fa sentire.» Le labbra di Lot-Ionan si fecero sottili. La rivelazione l'aveva sorpreso. «Quando è iniziato?» «Circa sessanta rotazioni fa. L'ho scoperto durante un sopralluogo sul confine», rispose l'altro, angosciato. «Le nostre barriere sono deboli e permeabili. Non riesco più a limitare i danni da solo, mi serve il potere dei Sei. Gli altri quattro sono già qui. Aspettiamo solo te.» Tacque. «Cos'altro?» lo esortò Lot-Ionan con garbo, nonostante il rischio di udire altre cattive notizie.
«Gli albi...» cominciò Nudin. «Sono stati avvistati lontano dallo Dsôn Balsur, nel Gauragar meridionale. E re Tilogorn dà la caccia a una folta banda di mezz'orchi che scorrazzano per l'Idoslân devastando e saccheggiando.» Lanciò al padrone di casa un'occhiata carica di preoccupazione. «Tutto questo non significa niente di buono, Lot-Ionan.» «Credi che abbia qualcosa a che vedere con il rafforzamento della Terra Estinta?» «Non posso negare di ritenerlo possibile», rispose Nudin, evasivo. «Perché non ti sei presentato quando il consiglio dei maghi ha indetto una riunione?» «Come?» chiese lo stregone, stupito. «Non ho ricevuto alcuna comunicazione.» «Mi hanno detto di averti mandato i migliori messaggeri, Friedegard e Vrabor, li conosci.» «Sì, certo che li conosco. Ma non sono arrivati», ribadì Lot-Ionan, seriamente in pensiero per i due uomini. Senza volerlo pensò agli albi. «È un bene che tu sia passato», affermò. «Mi metto subito in viaggio. Sarò nel Lios Nudin tra poche rotazioni solari.» Lot-Ionan pensava che l'immagine magica del Sapiente si sarebbe dissolta, ma non fu così. «Devo chiederti ancora una cosa», riprese Nudin. «In confronto all'avanzata della Terra Estinta è una quisquilia. I miei utensili... Ne hai ancora bisogno? Vorrei che me li restituissi, e potresti cogliere questa occasione per portarmeli.» «Ah, sì. Ricordo.» Moltissimo tempo prima Lot-Ionan aveva preso a prestito diversi oggetti per Gorén: uno specchietto, due pezzi di legno di sigurdazia lunghi un braccio e due caraffe di vetro argentato decorate da bizzarre incisioni. Gorén aveva letto qualcosa riguardo a quella roba in un compendio e aveva voluto esaminarla. Il mago non rammentava più a quale risultato fosse giunto l'apprendista; con molta probabilità non l'aveva giudicato interessante. Su due piedi non sapeva nemmeno dove avesse riposto quelle cose. Sperava solo che non si trovassero nel laboratorio quando Tungdil l'aveva gettato nello scompiglio. «Ci penso io», assicurò al collega. Ma Nudin non si accontentò. «Li hai ancora, Lot-Ionan?» Il mago annuì, sperando che l'altro non notasse la sua esitazione. «Sbrigati, vecchio mio. Il potere dei Sei è assolutamente necessario per proteggere la Terra Nascosta da altri orrori.» L'immagine dello stregone si alzò e, posizionatasi al centro dello studio,
colpì forte il pavimento con il bastone. L'illusione svanì tra una nuvola di scintille. Una polvere luccicante cadde a terra, e la sostanza farinosa continuò a sciogliersi fino a scomparire. Il colloquio terminò con la stessa spettacolarità con cui era iniziato. Lot-Ionan rimase sulla poltrona. Se i mezz'orchi del Toboribor e gli albi dello Dsôn Balsur si sono alleati, la sicurezza di molte persone è in pericolo. Avrebbe approfittato del viaggio per fare visita a re Tilogorn e offrirgli il suo aiuto. Una buona metà dello Ionandar si estendeva nel territorio dell'Idoslân, perciò era giusto che lui utilizzasse i suoi poteri magici contro l'oscura genia del dio Tion. Il mago si alzò. Devo spicciarmi, Nudin ha pronunciato parole sagge. Dopo aver chiamato a raccolta gli apprendisti, impartì loro istruzioni sui bagagli di cui avrebbe avuto bisogno e su chi avrebbe comandato gli altri allievi in sua assenza. Quindi, a malincuore, abbandonò la veste comoda per gli inconsueti abiti da viaggio, confezionati con una pesante stoffa beige. Sopra si infilò una cappa di cuoio blu scuro. I servitori gli sellarono Furo, lo stallone baio. I pochi effetti personali trovarono posto nelle bisacce, perché il tragitto di cinquecento miglia fino al consiglio dei maghi non gli avrebbe certo richiesto più di dieci giorni. Lot-Ionan balzò in sella con una certa rigidità. Furo sbuffò, ansioso di partire; il mago si chinò per accarezzargli la lunga criniera e sussurrargli una formula magica all'orecchio. Il cavallo nitrì forte e partì saltellando, percorrendo la galleria e varcando la porta. Appena fu all'aria aperta e riconobbe la strada davanti a sé, accelerò, passando dal trotto al galoppo. Volava sulle pietre e a ogni falcata superava lunghezze di diversi passi. Il potere del mago gli consentiva di correre più velocemente di qualsiasi altro quadrupede, cosa che lo riempiva di gioia. Furo attraversò così lo Ionandar con il suo padrone, che ebbe il suo bel daffare per restare in sella, e lo condusse sano e salvo alla meta.
Terra Nascosta, regno di Gauragar, 6234° ciclo solare, inizio dell'estate «Non conosco alcun Giogonero da quelle parti.» La giornata non sarebbe potuta cominciare peggio di così. L'oste posò la colazione di Tungdil sul tavolo accanto alla mappa. I raggi del sole filtravano attraverso gli spessi vetri della locanda e i granelli di polvere luccicavano in larghe bande luminose. Tungdil constatò con piacere di non dover più strizzare gli occhi, perché ormai si era abituato a tutta quella luce. Pareva che nell'Idoslân e nel grande villaggio di Gutenauen nessuno conoscesse il Giogonero, e l'altura non era indicata neppure sulla vecchia carta appesa alla parete. «Conosci qualcuno che possa aiutarmi?» ritentò il nano. «Magari uno scrivano o un funzionario di Tilogorn?» L'altro scrollò il capo, rammaricandosi di dover deludere il suo cliente. Tungdil piluccò di malavoglia la pappa di cereali. Era squisita, ma quella notizia gli aveva fatto passare l'appetito. Il nano si aggrappava alla segreta speranza che l'ingenuo paesano non fosse in grado di leggere una mappa; probabilmente, in vita sua, l'oste non si era mai allontanato da Gutenauen per più di dieci o venti miglia. Per quanto potesse sembrare stupido, Tungdil non individuò il centro abitato neppure sulla carta di Lot-Ionan. Con un po' di fortuna uno dei mercenari avrebbe saputo trovarlo e indicargli la posizione di quella maledetta montagna. I messaggeri del consiglio dei maghi avrebbero senza dubbio potuto aiutarlo, ma erano partiti ormai da parecchio tempo quando si era svegliato. Avevano dato all'oste alcune monete d'oro per ripagare il danno alla finestra e si erano affrettati a rimettersi in cammino verso le gallerie di Lot-Ionan, portando con sé la freccia. Anche Tungdil non voleva più aspettare. «Che Vraccas sia con te», lo salutò l'oste mentre si gettava in spalla lo zaino e il sacco con gli oggetti e usciva dalla locanda. Le guardie si erano date il cambio; i ruvidi volti dalla barba ispida gli erano nuovi, ma i mercenari avevano già sentito parlare della sua destinazione, e soprattutto conoscevano la posizione approssimativa del villaggio. Tungdil si mise in marcia poco dopo mezzogiorno e seguì l'angusto sentiero verso nord, come gli avevano consigliato i mercenari.
«E se incontri i mezz'orchi, di' loro dove possono trovare i crani dei loro amici», gli urlò dietro uno degli uomini dalle palizzate, picchiettando con il giavellotto sulla testa di un mostro, putrefatta e attorniata da un nugolo di moscerini. Le risate dei soldati lo accompagnarono ancora per un poco mentre il sentiero si snodava lungo i campi che aveva visto in lontananza la sera prima. Gutenauen faceva onore al suo nome, che significava «prati fecondi». Tungdil non aveva difficoltà a immaginare le spighe ondeggianti al vento in estate, le mele mature che pendevano dagli alberi in autunno e gli esseri umani che coglievano le nocciole dai cespugli. L'Idoslân gli piaceva sebbene non si estendesse sottoterra, dove si sarebbe sentito molto più a suo agio. Per fortuna ho una strada sotto i piedi! Pensò con angoscia che prima o poi avrebbe anche dovuto attraversare qualche campo. Come fanno gli Orecchi appuntiti a non smarrirsi tra gli alberi? Stando a quanto riportavano i libri, gli elfi dimoravano nei boschi e nelle foreste dell'Âlandur per vivere in comunione con l'arte, la natura e la bellezza. Il desiderio di perfezione spirituale non aveva tuttavia protetto quegli esseri colti dalla visita dei loro crudeli parenti, gli albi. L'albo era come avevo sempre immaginato un elfo, pensò Tungdil, rammentando l'incontro della notte precedente. Il Lesinteïl, il regno settentrionale degli elfi, era caduto già da parecchio tempo. Due terzi dell'Âlandur elfico appartenevano ormai alla Terra Estinta, e gli Orecchi appuntiti della Pianura d'Oro erano già scomparsi. La loro area si chiamava ora Dsôn Balsur, la regione da cui gli albi continuavano a mandare spie nella zona circostante il Gauragar. Bruron, il re umano locale, non disponeva di mezzi con cui fermarli. I normali soldati erano inferiori agli albi sotto tutti i punti di vista, e durante le battaglie morivano ancor prima di capire chi avevano di fronte. Calcolando la distanza tra la galleria di Lot-Ionan e la punta più sudoccidentale dello Dsôn Balsur, Tungdil ottenne un risultato di quattrocento miglia, un tratto più che impegnativo persino per gli albi. A meno che la Terra Estinta non sia avanzata verso sud senza che nessuno se ne accorgesse e gli albi non si siano spostati grazie al potere sinistro, rifletté. Tutto ciò rappresentava una minaccia per il regno incantato di Nudin il Sapiente e spiegava come mai i messaggeri del consiglio dei maghi volessero raggiungere Lot-Ionan.
Procedendo, Tungdil si guardava intorno senza sosta per non lasciarsi sfuggire la comparsa di eventuali mezz'orchi e non finire dritto in una delle loro orde. Prima di affrontare una svolta che offriva scarsa visibilità, prestava particolare attenzione e tendeva le orecchie per captare il tintinnio delle armi e delle cotte di maglia o gli acuti grugniti dei mostri. Il destino gli risparmiò tuttavia sia lo scontro diretto sia la fuga di fronte a una forza superiore. Quattro ore dopo il calare delle tenebre raggiunse i pali variopinti che segnavano il confine tra l'Idoslân e il Gauragar. Poiché gli dolevano i piedi, decise di interrompere il suo peregrinare per quella giornata. Si avvicinò a una grossa quercia e si arrampicò su per il tronco, quindi recuperò i bagagli con la corda che aveva acquistato a Gutenauen. La vita gli era così cara che preferiva sottrarsi alla vista dei mostri dormendo tra i rami di un albero come un uccello. Se si fossero accorti comunque della sua presenza, avrebbe escogitato qualcosa. Si legò al tronco con due giri di fune intorno alla pancia per non cadere inavvertitamente e non essere buttato giù se qualcuno avesse scosso la quercia, quindi chiuse gli occhi... ... e sognò. Scorse il Passo Settentrionale. Percepì il vento gelido che soffiava tra le cime della Grande Lama e della Lingua di drago, e la sua fantasia sorvolò come un'aquila i maestosi Monti Grigi. L'incantesimo si spezzò all'improvviso quando riecheggiarono urla raccapriccianti tra le venerabili rocce millenarie. Dall'alto, intravide la gigantesca Porta di Pietra e assistette alla battaglia in cui Giselbart era stato sbaragliato con il clan dei Quinti. Le asce martoriavano i corpi fendendo le corazze di metallo e venivano ritratte frettolosamente dalle ossa e dall'acciaio per conficcarsi poco dopo in una nuova vittima. Ma l'ondata nemica non si esaurì. Il nano si spaventò quando vide la fiumana quasi infinita degli aggressori che si riversava senza sosta contro la fortificazione. Avvertì l'odore nauseabondo del loro sangue verde, che rendeva scivoloso il pavimento di pietra del cammino di ronda, e sentì il grasso rancido delle loro armature sulla lingua. Il sapore amaro si intensificò fino a diventare insopportabile, soffocandolo e riscuotendolo dal sogno. Tungdil aprì gli occhi e si meravigliò della luce che lo circondava. Che cosa...? Proveniva da una decina di falò che ardevano intorno alla quercia.
Risate gutturali si mescolavano a cupi grugniti, sbuffi irritati e imprecazioni rimbombanti. Gli si gelò il sangue. L'orda di mezz'orchi che i mercenari attendevano con impazienza aveva stabilito un bivacco intorno all'albero, circondandolo. Ecco perché aveva avuto la visione della battaglia vicino al Passo Settentrionale. Le sue orecchie avevano udito quegli esseri, il suo naso li aveva fiutati, e la sua mente aveva creato un'allucinazione. Il nano rimase sul ramo, rigido come una statua, desiderando di potersi fondere con il tronco affinché nessuno dei mostri lo notasse. Una cosa era certa: il manipolo di soldati non sarebbe mai bastato per difendere Gutenauen da quell'orda. Le fiamme rosse proiettavano nel cielo riflessi lunghi parecchie lance, che dissuadevano il viandante notturno dall'avvicinarsi. Il segnale era giunto troppo tardi per i nani nascosti sugli alberi. Dopo un rapido calcolo delle creature che riusciva a distinguere dal suo punto d'osservazione, Tungdil contò un centinaio di mezz'orchi. Mezz'orchi forti, robusti e muscolosi che non si sarebbero certo fermati davanti a una palizzata di legno oltre la quale li aspettava un ricco bottino. Tungdil guardò con maggiore attenzione, reprimendo i conati di vomito. Quelle che alcune bestie cucinavano sopra i fuochi aperti e mangiavano con gusto avevano tutta l'aria di essere membra umane. Sopra due focolari costruiti appositamente, torsi umani giravano sullo spiedo come polli arrosto. Il nano si controllò. I mostri si sarebbero senz'altro meravigliati se dai rami della quercia fosse piovuta una pappa di cereali mezzo digerita. I brandelli di stoffa che i pochi mezz'orchi feriti avevano usato per fasciarsi avevano i colori del reggimento di re Tilogorn. Gli abitanti di Gutenauen avrebbero dovuto aspettare i rinforzi ancora a lungo. A quanto pareva, i soldati dell'Idoslân avevano sottovalutato l'efficienza bellica dell'orda e avevano pagato quell'errore con la vita, per finire poco dopo negli stomaci dei mezz'orchi affamati. Che cosa avrò malfatto agli dei, si domandò Tungdil, per spingerli a infliggermi una disgrazia dietro l'altra? A Gutenauen nessuno immaginava la sventura che stava per abbattersi sul villaggio. Toccava a lui avvertire la popolazione. Non ne avrebbe tuttavia avuto l'opportunità finché le bestie fossero rimaste accovacciate lì intorno; doveva dunque attendere in silenzio che gli si presentasse l'occasione di scendere dalla quercia senza farsi notare e insinuarsi tra i
loro ranghi. Poi gli venne un'altra idea. Se si fosse avvicinato ai falò, forse sarebbe riuscito a origliare i piani dei mezz'orchi. Dopo tutto, conosceva il loro dialetto. O almeno, si riteneva capace di mettere in pratica quanto aveva imparato dai libri. Essere allevati da un mago con una vasta biblioteca aveva qualche risvolto positivo; oltre all'arte dei metalli, lo studio e la lettura erano i suoi passatempi preferiti. Anche se non si sarebbe detto, le urla, i ringhi e i ruggiti seguivano una logica che consentiva il dialogo. Grazie ai mezz'orchi che avevano catturato, gli eruditi si erano impossessati dei segreti di una lingua zeppa di insulti e minacce. Il cuore cominciò a martellargli nel petto al pensiero di intrufolarsi tra le file dei mostri puzzolenti. Se l'avessero sorpreso, sarebbe stato spacciato, ma un nano non poteva lasciare nulla di intentato per salvare gli uomini dalla furia distruttrice delle creature di Tion. Era quello il compito che Vraccas il Fabbro aveva affidato al suo popolo, e dunque anche a lui. Ormai aveva preso la sua decisione. Esaminò il tronco, studiando un percorso silenzioso fino al suolo. Stava legando i bagagli ai rami, quando i mezz'orchi cominciarono ad agitarsi. Pian piano si alzarono intorno ai fuochi di bivacco, urlando e parlando sempre più forte. Stava arrivando qualcuno. Il branco si riunì intorno alla quercia. Tungdil strisciò lungo il ramo finché glielo consentì lo spessore del legno. Con un notevole sforzo avrebbe decifrato i discorsi dei mostri. I loro capi gridavano per farsi sentire da tutti, e questo tornò a suo vantaggio. Scostò le fronde verdi con cautela. I mezz'orchi avevano formato un ampio cerchio intorno a tre capitribù intimiditi con poderose zanne aguzze e dipinte. Poi calò il silenzio, e lo strepito si placò di colpo. Tungdil udì uno scalpiccio di zoccoli. Due cavalieri trottarono tra i mostri sui loro morelli; gli occhi dei quadrupedi neri emanavano bagliori amaranto, e le zampe toccavano il suolo sollevando scintille blu e bianche. La flessuosità felina con cui si muovevano non aveva nulla in comune con l'andatura dondolante dei cavalli normali. I cavalieri, alti e snelli, guidarono gli animali all'interno del cerchio e smontarono. Il nano credeva di sapere chi fossero: albi! Sotto i mantelli indossavano armature di cuoio finemente lavorate. Tungdil intravide guanti vermigli, lunghi pantaloni di pelle nera e stivali marrone scuro fino al ginocchio.
Quello con i lunghi capelli biondi portava un giavellotto dalla lama così sottile da non essere più spessa di un piccolo ghiacciolo; al fianco sinistro gli penzolava una spada. Il suo accompagnatore aveva i capelli neri legati in una treccia e nascosti sotto la cappa. Teneva in mano un lungo arco e aveva una faretra piena di frecce sulla spalla; due corte spade erano fissate alla sua coscia destra mediante cinghie di cuoio. Tungdil lo riconobbe. Era quello che aveva tentato di penetrare nel dormitorio della locanda. Ti supplico, Vraccas, fa' che Friedegard e Vrabor siano sfuggiti agli albi, pregò in silenzio. Fu il biondo a condurre le trattative, che si svolsero nella lingua comune; evidentemente gli albi si rifiutavano di riprodurre i suoni primitivi dei mezz'orchi. «Io sono Sinthoras dello Dsôn Balsur. Il mio padrone, Nôd'onn il Duplice, sovrano della Terra Estinta, mi manda per porgere la mano dell'alleanza ai tre principi del Toboribor», dichiarò, senza cercare in alcun modo di sembrare cordiale. Riferì la sua offerta; il tono della sua voce indicava chiaramente che avrebbero dovuto accettarla o rifiutarla così com'era. «Nôd'onn ha scelto voi, principe Bashkugg, principe Kragnarr e principe Ushnotz, per fare le conquiste che nessuno ha fatto prima di voi. Comanderete i mezz'orchi e sarete il potente braccio del Sud, la cui spada spaccherà i crani degli uomini.» «Chi di noi sarà il capo supremo?» domandò Kragnarr, che era alto quanto l'albo ma due volte più corpulento; gli altri due leader non erano altrettanto robusti. Bashkugg gli sferrò un violento colpo. «Vuoi forse essere migliore di noi?!» gridò, ostile. Kragnarr raccolse la sfida; si girò sbuffando verso il rivale e gli si avvicinò tanto che le loro larghe fronti si sfiorarono. Si fissarono, le zampe strette intorno alle impugnature delle enormi spade. Ushnotz si dimostrò più astuto; indietreggiò di un passo e attese di vedere come si sarebbe risolto l'alterco. «Il mio padrone propone che abbiate tutti il medesimo potere», rispose Sinthoras ad alta voce per sovrastare i ringhi. «No», si oppose subito Kragnarr, e Bashkugg latrò la sua approvazione. Anche da quella distanza Tungdil intuì, dall'espressione disgustata, che l'albo avrebbe preferito sterminare i mezz'orchi piuttosto che discutere con loro, ma doveva obbedire agli ordini di quel Nôd'onn. Il nano aveva udito
per la prima volta il nome che si celava dietro ogni male. «Allora il mio padrone propone che il capo supremo sia chi conquisterà il maggior numero di terre.» Le dita di Sinthoras erano tranquillamente posate sull'asta del giavellotto, ma i suoi muscoli tesi rivelavano che non si fidava affatto di quelle rozze creature. Il suo accompagnatore bruno appariva circospetto almeno quanto lui. «Terre?» abbaiò Ushnotz. «Perché non chi ammazza il maggior numero di Bocconcini? Sarebbe più di mio gusto» ringhiò, massaggiandosi lo stomaco. Gli altri due mezz'orchi non tardarono a concordare. «No», replicò l'albo, irremovibile. «Si tratta di terre, non della maggior quantità di morti.» «Perché?» sbraitò Bashkugg. «I guerrieri devono pur mangiare.» «Limitatevi agli eserciti che gli esseri umani vi contrappongono», insistette Sinthoras con freddezza. «Conoscete il desiderio del mio signore.» «Tu obbediscigli pure, Orecchio appuntito, ma non è il nostro signore», interloquì Ushnotz, scaltro. «Nel Sud non è lui a comandare, nel Sud comandiamo noi.» Sinthoras gli rivolse un sorriso compassionevole. «Ancora per quanto? Il mio padrone si avvicina inarrestabile dal Nord con i mezz'orchi, e vi contenderanno il Sud più in fretta di quanto voi riusciate a ricavare clave dagli alberi.» Li guardò uno dopo l'altro. «Scegliete ora l'obbedienza, e verrete ricompensati con principati per le vostre tribù. Il Toboribor è soltanto l'inizio: presto ciascuna tribù possederà terre e uomini che lavoreranno al suo servizio. Oppure scontratevi con i vostri simili.» La minaccia dei parenti dalla pelle nera e verde che si erano messi in marcia dal Nord e che forse avrebbero sottratto loro i possedimenti sortì il suo effetto. I tre mezz'orchi tacquero; erano così occupati a riflettere da dimenticare di nuovo il loro diverbio. Tungdil, che li spiava tra le foglie, stentava a credere ai suoi occhi e alle sue orecchie. Nôd'onn, o chiunque regnasse sulla Terra Estinta, voleva allearsi con quelle creature orrende per impadronirsi dei regni meridionali. Cicli di devastazione attendevano gli elfi e gli uomini. «Farò come suggerisce il tuo padrone», annunciò Ushnotz, che evidentemente non gradiva il compromesso. «E diventerò granduca.» Kragnarr lo fulminò con un'occhiata malevola. «Anch'io», gridò. «La tribù dei Kragnarr-Shorr conquisterà più terre di tutti voi messi insieme», aggiunse, schernendo gli altri due principi. «Sarò io a diventare granduca e
a governare tutte le tribù!» «Mai», protestò Bashkugg, irritato. «Occuperemo le città dei Sanguerosso prima di voi!» «Staremo a vedere. Dividetevi e avanzate verso tre punti cardinali diversi», ordinò Sinthoras, infilandosi la mano nella borsa attaccata alla cintola ed estraendone tre semplici cristalli blu scuro, che gettò ai mezz'orchi. «Questi sono un dono del mio signore: amuleti che dovrete portare sempre con voi per proteggervi dai poteri magici dei nemici.» Nel frattempo un mezz'orco coraggioso si avvicinò a uno dei cavalli, fiutando con interesse in quella direzione. Il morello, girata la testa, spalancò le mascelle e le richiuse di scatto. Denti aguzzi azzannarono la spalla del mostro, strappandogli un buon pezzo di carne. Il sangue verde scuro sgorgò dalla profonda ferita. La bestia strillò e indietreggiò con un balzo. Grugnendo, un altro mezz'orco sfoderò la spada e la sollevò per colpire l'animale mordace. La zampa posteriore destra del quadrupede guizzò all'indietro, colpendo il largo petto della creatura. Balenò un lampo accecante, e il mezz'orco volò in aria per parecchi passi, atterrando poi con violenza. Prima che riuscisse ad alzarsi, il secondo cavallo lo raggiunse e cominciò a scalciargli contro la pancia con le zampe anteriori. L'armatura si piegò e la piastra che riparava l'addome si spaccò con un clangore. La testa nera si abbassò, i denti affondarono nella gola scoperta e la sbranarono. Si udì un forte scricchiolio, e le grida di paura e dolore del mostro cessarono. Il nano non credette ai suoi occhi quando il morello inghiottì il collo che aveva staccato con un morso tra i nitriti maligni e riecheggianti del secondo quadrupede. L'albo biondo si voltò, urlando qualcosa di incomprensibile; quegli esseri, simili a cavalli soltanto nell'aspetto, si tranquillizzarono all'istante e trottarono obbedienti dai loro padroni, che montarono in sella con eleganza. «Sapete che cosa fare. Siate rapidi e rispettate il patto», concluse Sinthoras in tono asciutto prima di girare il cavallo. Gli albi si allontanarono. I mezz'orchi vicini si affrettarono a ritrarsi davanti ai morelli, formando un ampio corridoio per mantenere una certa distanza dai denti affilati. Poi ritrovarono la voce a poco a poco.
Il ferito si fece avanti. «Guarda che cosa hanno fatto gli Orecchi appuntiti!» gridò con rabbia a Bashkugg, premendogli la zampa insanguinata sulla faccia. «Hanno ucciso Rugnarr, e adesso noi dobbiamo uccidere loro!» Il robusto leader si pulì il sangue dagli occhi. «Chiudi il becco, stupido idiota», ruggì, aggiungendo una sfilza di improperi. «Sono dei nostri.» «Quelli? Dei nostri? Li divoreremo proprio come i Sanguerosso», insistette il mostro, caldeggiato da altri tre membri della sua tribù. Imbaldanzito, si accinse a tendere il suo arco corto e a puntarlo contro i messaggeri. «Sono proprio curioso di scoprire che sapore hanno, loro e i loro cavalli!» Il nano sapeva che non erano cavalli. A quanto ricordava, i libri di LotIonan li chiamavano Destrieri della Notte, ex unicorni cui il male aveva sottratto l'anima pura, il mantello candido e infine il corno per tramutarli in esseri delle tenebre eterne. Mangiavano carne e nutrivano un odio implacabile nei confronti di qualsiasi cosa, in particolare del bene in sé, caratteristica che li trasformava in cacciatori temibili. Bashkugg si stancò dello strepito. Agguantò la sua rozza spada e, tenendola di sghembo, la conficcò nella gola del ribelle; la lama penetrò fino a metà e venne estratta con forza bruta. Il principe afferrò quindi un altro mezz'orco per il collo e gli staccò la testa. Levò il cranio grondante nell'aria affinché tutti lo vedessero, lanciando un lungo urlo di monito e mostrando le zanne prima di buttarlo a terra e calpestarlo. Le ossa si ridussero in tanti piccoli frammenti che affondarono nella massa cerebrale verde scuro. Anche gli ultimi due insorti morirono di spada. Era così che i mezz'orchi risolvevano i loro dissidi. L'orda intimidita si calmò e i guerrieri tornarono verso i falò per continuare i festeggiamenti. La bestia massacrata dal Destriero della Notte e le quattro vittime di Bashkugg restarono a dissanguarsi tra la polvere senza che nessuno facesse loro caso. «E ora?» domandò Ushnotz. «Io mi dirigo verso sud e tu ti avvii verso ovest», rispose Kragnarr, indicando Bashkugg. «A te, Ushnotz, rimane l'est.» Gli altri assentirono. «E la città dei Sanguerosso?» «È vicinissima», esclamò Ushnotz senza riuscire a trattenersi. «Propongo di attaccarla tutti insieme e di impossessarci della sua carne prima di separarci.» Bashkugg si grattò il mento, a disagio. «Ma l'albo ci ha proibito...»
«Siamo nel Sud, dove comandiamo ancora noi. E la nostra gara non è ancora iniziata», replicò Ushnotz, malizioso. «L'Orecchio appuntito si riferiva alla conquista di nuove terre, ma queste terre ci appartengono già.» Scoppiò in una risata fragorosa. «Inoltre i Sanguerosso hanno infilzato le teste della mia gente sulle palizzate. Voglio vendetta», ruggì Kragnarr, battendosi l'ampio petto con tanto vigore che la corazza tintinnò. «Non permetterò che un Orecchio appuntito mi privi di questo piacere.» «All'alba?» chiese Bashkugg, suscitando grugniti di approvazione. Tungdil lasciò i rami lentamente, strisciando pian piano all'indietro. Nella Terra Nascosta stava accadendo qualcosa di funesto, ma doveva innanzitutto avvertire Gutenauen prima di raggiungere il Giogonero e tornare da Lot-Ionan per raccontargli di Nôd'onn, il misterioso sovrano della Terra Estinta. Lo stregone avrebbe saputo che cosa fare e avrebbe senz'altro convocato il consiglio dei maghi. Sarebbe stato ancora meglio se avesse invitato tutti i re e le regine per spiegare loro ogni cosa. A suo parere, era tempo che i maghi e gli uomini unissero le forze una volta per tutte contro la Terra Estinta. Se gli esseri umani avessero chiesto aiuto al suo popolo e le stirpi avessero inviato delle legazioni, vi sarebbero state buone probabilità di vittoria. Tungdil attese finché la maggior parte dei mezz'orchi si fu addormentata. Fuggire, tuttavia, non fu semplice, perché una trentina di guardie garantiva che nessuno si avvicinasse all'accampamento inosservato. Il nano scelse senza indugio il punto in cui montava la guardia un mezz'orco dall'aria particolarmente stanca e annoiata; il mostro si appoggiava all'asta del giavellotto arrugginito e continuava a chiudere gli occhi. Tungdil si risolse a portare con sé lo zaino e il sacco. Se fosse riuscito a scappare, le bestie avrebbero senz'altro scoperto quegli oggetti preziosi e lui li avrebbe perduti per sempre: una colpa che non voleva assolutamente dover confessare a Lot-Ionan e Gorén. Impiegò un'eternità per scendere facendo il minor rumore possibile. Un ramo spezzato avrebbe potuto significare per lui una fine ingloriosa. Le sue braccia cinsero la corteccia ruvida. Si calò piano piano verso il basso sul lato più in ombra. Di tanto in tanto la cotta di maglia si impigliava in un ramo, ma con cautela Tungdil riuscì sempre a liberare il legno dagli anelli senza romperlo.
Finalmente arrivò in fondo e si appiattì tra l'erba profumata, carica di rugiada, che perlomeno attenuava il tanfo nauseabondo dei mezz'orchi. Non gli restava altro che imitare i bruchi e strisciare prono sul terreno, avendo sempre cura di non sollevare il sedere e di spingere i sacchi davanti a sé. Quella che aveva creduto un'impresa facile si rivelò snervante, perché il manico dell'ascia continuava a incastrarglisi tra le gambe, la cotta di maglia tintinnava a ogni movimento e gli stivali sdrucciolavano tra gli steli umidi senza trovare un appoggio. Oltre a non essere capace di arrampicarmi, non mi riesce nemmeno di strisciare, pensò Tungdil, asciugandosi il sudore dalla fronte. I nani erano creature che Vraccas aveva generato per i combattimenti corpo a corpo. Quando volevano salire da qualche parte costruivano una scala e, quando volevano andare da qualche parte, si mettevano a correre. Né più né meno. Tungdil oltrepassò la guardia appisolata, che distava solo dieci piedi. Sotto i raggi della luna distinse ogni dettaglio del mostro disgustoso. Cicatrici ornamentali e strisce variopinte gli spiccavano sul muso in disegni confusi. Una bava lattiginosa gli colava dall'angolo della bocca, gocciolando sulle zanne sporgenti e cadendo sull'armatura ingrassata. Il naso schiacciato aspirava l'aria tra un susseguirsi di grugniti. Il nano fu tentato di conficcare l'ascia nel grosso cranio del mezz'orco, ma non avrebbe sicuramente avuto la meglio e non sarebbe nemmeno riuscito ad avvertire Gutenauen dell'attacco. Contento di avere superato il primo ostacolo, proseguì carponi finché poté nascondersi al nemico acquattandosi nel canale di scolo di un campo. Il fossato gli offrì una protezione sufficiente a consentirgli di raggiungere un boschetto poco distante, dove poté finalmente alzarsi in piedi. Questa sì che è un'avventura! Il fango sui vestiti non lo disturbava: aveva ben altro di cui preoccuparsi. Rammentava che il gruppo di alberi era minuscolo e che doveva attraversarlo in linea retta. Pregò di non smarrirsi. Credendo di essere ormai abbastanza lontano dai mezz'orchi, non prestò più attenzione ai rumori che produceva correndo. Solo se fosse arrivato al villaggio in tempo avrebbe avuto la speranza che gli uomini si mettessero al sicuro. Tungdil passò a un trotto malfermo, guadagnando ben presto l'altro lato della macchia di vegetazione. Sollevato, uscì dal sottobosco. Per Vraccas! La scena inattesa lo impietrì.
Quattrocento passi più in là era accampata un'altra orda di mezz'orchi, tre volte più numerosa della prima. Il campo era pieno di bestie addormentate; poiché non avevano acceso fuochi, il bagliore delle fiamme non l'aveva messo in allarme. Tungdil fece un balzo all'indietro prima che una delle guardie si accorgesse di lui. Per quanto si guardasse intorno alla ricerca di una via d'uscita, l'unico modo per arrivare al villaggio era strisciare nell'intrico dei corpi nemici. Dopo l'incertezza iniziale, l'ostinazione tipica dei nani tornò a predominare, accompagnata dal desiderio di segnalare agli uomini il pericolo imminente. Camminò di soppiatto al limitare del boschetto per cercare un passaggio tra i mostri al riparo dei cespugli, ma in quel momento con la suola calpestò qualcosa di duro e si udì un lieve scatto. All'improvviso le foglie si sollevarono dal terreno e due ganasce di metallo gli si chiusero intorno alla gamba sinistra, poco sotto il ginocchio. La terra si spalancò e il nano scomparve in una buca. Dopo una breve caduta batté la testa contro il fondo della fossa e perse i sensi. Il dolore lo fece rinvenire. Tungdil si svegliò a causa di un pulsare incessante all'arto malconcio. Gemendo, si rizzò a sedere e guardò in alto, dove i bordi neri della buca spiccavano tra il verde chiaro. Era spuntata l'alba. Conosceva l'oggetto che gli premeva con forza intorno alla gamba bloccandogli la circolazione: gli uomini ne facevano uso per catturare i lupi. Le ganasce dentate d'acciaio gli avevano perforato i pantaloni di cuoio, e croste rosso scuro si erano formate sulle ferite. Sentiva un martellio sordo nel polpaccio. Non esitò a liberarsi dalla tagliola. Stringendo i denti, agguantò l'ascia e si accanì contro i sottili bulloni che trattenevano le molle fino a frantumarli. Ogni colpo si trasmetteva dalla trappola alla gamba, strappandogli un lamento soffocato. Con un gesto deciso, separò i pezzi di ferro deformato, e in questo modo la pressione delle ganasce si allentò. Si liberò con prudenza dalla tagliola, scagliandola lontano con rabbia. Quindi si alzò sorreggendosi alla parete della buca, ma quando si appoggiò sull'arto ferito, sentì una fitta lancinante. Non sarebbe stato in grado di correre e, con molta probabilità, avrebbe potuto ritenersi fortunato se fosse riuscito a scappare dalla sua prigione. La preoccupazione per gli abitanti di Gutenauen, tuttavia, gli infuse
un'energia immensa. Dopo aver buttato fuori lo zaino, si mise in spalla il sacco e si aggrappò alle radici che spuntavano dal terreno. Ansimando, si issò fino all'orlo della buca. Con le ultime forze rimastegli, si lanciò oltre il bordo, ricadendo senza fiato tra le foglie. D'ora in poi farò più attenzione al terreno su cui metto i piedi, pensò. Dopo qualche istante strisciò fino al limitare del boschetto, dove l'aria fresca portata dal vento primaverile gli comunicò che le orde erano lontane. Il campo era deserto. Una grossa colonna di fumo nero tradiva la posizione dei mostri, allungandosi all'orizzonte come una nube temporalesca. Alzatosi a fatica, Tungdil recuperò il suo zaino e si rimise in marcia, scuotendosi il sudiciume e le foglie secche dai capelli. L'ira e l'odio repressero il dolore alla gamba, mettendogli le ali ai piedi. A un tratto cominciò a correre. Se non fosse riuscito ad avvertire i paesani a causa della sua sbadataggine, avrebbe potuto almeno aiutarli. Gli ammonimenti che il cervello gli sussurrava non ebbero alcun effetto sulla sua caparbietà. Nulla l'avrebbe dissuaso dal raggiungere il centro abitato; la foschia densa lo incitava a proseguire. Madido di sudore, nel pomeriggio giunse sul colle che sovrastava il villaggio. Gutenauen era in fiamme. Le palizzate di legno erano squarciate da brecce larghe diversi passi e in altri due punti erano completamente bruciate. Dappertutto giacevano le membra e i corpi mutilati dei difensori. Il nano distinse i resti dei mercenari, le cui teste erano infilzate sui rispettivi giavellotti. Dalle torri di legno, i loro occhi spenti fissavano l'inferno che, inarrestabile, tramutava Gutenauen in un cumulo di rovine annerite. Tungdil non udì grida d'aiuto né ordini volti a coordinare lo spegnimento dell'incendio e il salvataggio delle case ancora intatte. Percepì soltanto l'intenso crepitio delle fiamme, lo scricchiolio del legno che ardeva e gli schianti dei tetti e degli edifici che crollavano. L'intera popolazione era morta. Afferrata l'ascia, si addentrò nell'abitato distrutto. Forse posso trarre in salvo le persone intrappolate tra le macerie. Continuò a zoppicare appoggiandosi al manico dell'ascia, superando la porta della città e imboccando la strada. Il vento caldo odorava di carne bruciata. Lingue di fuoco divampavano dalle finestre, i vetri scoppiavano a causa del calore. Le fiamme
divoravano ogni cosa. I cadaveri erano stipati nei vicoli e nelle strade come insetti schiacciati. Alcune donne giacevano nel fango con il seno e il basso ventre denudati, il tronco graffiato e dilaniato dai morsi. Non era difficile immaginare il trattamento che le bestie dovevano aver loro riservato. Rabbrividendo, Tungdil scavalcò i cadaveri e tese le orecchie, cercando di captare almeno un gemito che gli segnalasse la presenza di un sopravvissuto. Niente, solo un silenzio di tomba. Il calore si intensificò. I muri ancora in piedi creavano una specie di forno, aumentando la temperatura al punto che il nano dovette abbandonare il villaggio devastato. Tornato sulla collina, sedette e si costrinse ad assistere alla distruzione del centro abitato. È tutta colpa mia. Disperato, si nascose il volto tra le mani e scoppiò a piangere. Versò lacrime di collera e impotenza, e gli occorse parecchio tempo per riprendersi. I mezz'orchi gli avevano mostrato per quale motivo il suo popolo montava la guardia davanti ai passi montani; gli uomini non erano in grado di difendersi dai mostri. Fissò il villaggio con lo sguardo velato dal pianto. Nessun luogo avrebbe dovuto fare quella fine. Dopo essersi asciugato le lacrime salate, si strofinò le mani sulla mantella; la gamba gli doleva tanto che decise di rimandare la partenza. Allora si raggomitolò in cima all'altura, si coprì e osservò il gioco delle fiamme mentre il sole tramontava. L'incendio infuriò per metà della nottata prima che il fuoco smettesse di trovare alimento. Qua e là, tra le rovine, si intravedeva un bagliore rosso che ricordò al nano gli spaventosi occhi dei Destrieri della Notte. È incredibile che si possano vivere tante esperienze terribili in così pochi giorni, pensò con tristezza. L'indomani avrebbe dovuto concentrarsi sulla sua vera missione e consegnare gli oggetti. Poi avrebbe dovuto persuadere Lot-Ionan ad affrontare la situazione nella Terra Nascosta prima che gli albi e i mezz'orchi diventassero troppo potenti. *
*
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Il mattino dopo, al risveglio, Tungdil constatò che la sua vaga speranza che si fosse trattato di un brutto sogno non aveva alcun fondamento. Il sole si nascondeva dietro nuvole grigie e l'aria odorava di pioggia. Gutenauen era ridotta a un mucchio di macerie fumanti, muri crollati e costruzioni bruciate, i cui resti, simili a scheletri neri, si protendevano verso il cielo cupo in segno di monito. La nebbia bianca si spostava dai campi e dai frutteti verso le rovine del villaggio, avviluppandole in un fitto manto. La terra, a lutto per gli uomini, stendeva un velo sul luogo in cui fino al giorno prima regnava ancora la vita. Non riuscendo più a sopportare quella scena, il nano prese i bagagli e si incamminò. Mentre avanzava zoppicando, mangiò una piccola parte delle sue provviste. Il pane che aveva comprato prima di lasciare Gutenauen gli si fermò quasi in gola. Avendo l'impressione che sapesse di sangue e rimorso, lo ripose. Le ferite alla gamba gli bruciavano. Se non avesse trovato entro breve un rimedio contro l'infezione, la febbre l'avrebbe assalito. Nella peggiore delle ipotesi poteva essere colpito da cancrena, perdendo l'arto e persino la vita. La marcia proseguì senza incidenti. La sera, dopo aver attraversato il confine del Gauragar, Tungdil si fermò sotto la sua quercia, le cui fronde lo protessero dalla pioggia che iniziò a cadere nel cuore della notte e cessò solo nella tarda mattinata. Durante la quinta rotazione del suo peregrinare, la pelle intorno alle ferite si fece calda al tatto; una leggera pressione bastava per far sgorgare pus giallo-verde dalla crosta. Il nano stringeva i denti. Era fuori questione aspettare sul ciglio della strada che qualcuno lo soccorresse. Si trascinò sotto l'acquerugiola lungo il sentiero, che andava tramutandosi rapidamente in un pantano. Quando finalmente si imbatté in una piccola fattoria con sei case coloniche, la fronte gli scottava da tempo. Una donna con i capelli chiari e semplici abiti da contadina uscì dalla stalla portando due secchi di latte e notò la figura barcollante. Rimase immobile. Con la vista annebbiata, Tungdil scorse soltanto un'ombra vaga. «Che Vraccas sia con voi», farfugliò prima di afflosciarsi nel fango senza neppure la forza di appoggiare le braccia per attutire la caduta. «Opatja!» strillò la donna con voce penetrante, posando i secchi. «Vieni, presto!»
Tungdil udì dei passi che si avvicinavano, e qualcuno lo girò sulla schiena. «Ha la febbre», affermò una persona dal volto deformato e indistinto, la cui voce gli riecheggiò forte nelle orecchie. Qualcuno si affaccendò intorno alla sua gamba. «Oh, è in cancrena. Trasferitelo nel granaio. Fate piano, mi raccomando.» Lo sollevarono, facendolo ondeggiare in aria. «Ha bisogno di un impacco d'erbe.» «Che cos'è?» domandò una vocetta infantile. «Non ho mai visto niente di simile.» «È un Cavernicolo», rispose una donna. «Ma vive sulla terra, non nelle caverne. Allora perché si chiama...» «Vai in casa, Jemta, e porta anche i tuoi fratelli», ordinò una voce maschile spazientita. Tungdil avvertì un tepore, il profumo del fieno e della paglia e il muggito di alcune vacche. La pioggia smise di cadere e intorno a lui calò l'oscurità. «Gutenauen», bisbigliò. «I mezz'orchi hanno raso al suolo Gutenauen.» «Che cosa ha detto?» La donna pareva allarmata. «Sta delirando, non farci caso», la tranquillizzò l'uomo. «Guarda qui. È finito in una trappola per lupi, oppure l'ha morsicato un mezz'orco dalla bocca molto grande.» Risuonò un'esplosione di risate. Il nano gli afferrò il braccio. «Avrò anche la febbre, ma ricordo tutto con esattezza. Presto arriveranno qui», disse, cercando di avvisare gli abitanti della fattoria. «Si spostano verso ovest, sud ed est, tre tribù, trecento mezz'orchi...» Udì dei passi spediti. «Ecco qui l'infuso», annunciò la voce di una bimba. «Oh, allora è così che è fatto un Cavernicolo!» «Ava, torna dai tuoi fratelli», ribadì l'uomo e, un attimo dopo, Tungdil ebbe la sensazione che gli versassero dell'olio bollente sulla gamba. Urlò, e il mondo divenne nero. *
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«... ma non una barba lunga come racconta sempre il nonno», diceva ancora la voce della bambina, questa volta in tono deluso. «Quella di papà è più folta. Questa sembra... lana ruvida.» «Che abbia con sé oro e diamanti?» Qualcuno gli si accostò. «Secondo le fiabe della nonna, sono ricchissimi.» «Torna qui! Non puoi tastarlo come se niente fosse, non è decoroso», sibilò la bimba. Tungdil aprì gli occhi. Udì subito gli strilli infantili e il fruscio della paglia quando i piccini si allontanarono in tutta fretta. Sollevando il busto, si guardò intorno. Era attorniato da nove bambini di età compresa tra quattro e quattordici cicli, che lo osservavano con curiosità mista a un po' di timore. Indossavano abiti semplici, nulla che costasse più di una monetina. La gamba fasciata gli pulsava ancora, ma il dolore era scomparso e la fronte non gli scottava più. L'avevano curato davvero! «Che Vraccas sia con voi», li salutò. «Dove mi trovo, e chi si è preso cura di me?» «Parla come noi», commentò con stupore un bimbo con i capelli rossi e le orecchie a sventola. La bambina più grande, che si era legata i capelli castani in due trecce, ridacchiò. «Certo che parla come noi. Che cosa credevi?» Gli rivolse un cenno del capo. «Io sono Ava. Mia madre ti ha visto cadere nel fango cinque rotazioni fa. Opatja e gli altri si sono presi cura di te.» Mandò una biondina di nome Jemta a chiamare gli adulti. «Stai bene? Hai fame?» «Cinque rotazioni?» Pensava di avere dormito solo per breve tempo. Il suo stomaco gorgogliò forte. «Sì, credo di avere fame. E sete.» Sorrise, perché lo stuolo di piccini gli rammentava casa sua, dove lo attendevano Frala, Sunja e la piccola Ikana. «Ho l'impressione che vogliate chiedermi qualcosa.» Quella frase scatenò una sfilza interminabile di domande. «Da quale regno dei nani provieni?» «Sei ricco?» «Hai con te oro e diamanti?» «Quanti mezz'orchi hai già ammazzato?» «Siete tutti così bassi, o ce ne sono anche di più alti?» «Riuscite a frantumare le rocce con le mani nude?» «Perché la tua barba è così corta?» «Avete tanti nomi e...» «Calma, calma!» Tungdil rise. «Non tutti insieme. Risponderò ciascuno, ma solo dopo avere riferito ai vostri genitori che cosa è accaduto a
Gutenauen.» Non voleva raccontare ai bambini le atrocità cui aveva assistito, bensì discutere la questione con gli adulti. La donna dai capelli chiari che aveva visto cinque giorni orsono, prima che la febbre lo sopraffacesse, entrò nel granaio portando sotto il braccio un cesto colmo di vivande dal profumo squisito. «Io sono Rémsa», si presentò. «Io mi chiamo Tungdil. Mi avete salvato dalla morte, e per questo vi sarò grato finché avrò vita, ma adesso dovete mandare via i piccini», le sussurrò. «Perché?» interloquì Jemta, sfrontata. Le sorrise. «Perché è meglio che tu non senta le brutte cose di cui parlerò.» «Ti riferisci all'assalto contro Gutenauen?» domandò la donna. «Hai farneticato di quello per tutto il tempo...» «No, è successo davvero! I mezz'orchi hanno... Dovete andarvene di qui! Si dirigono verso sud, est e ovest, tre branchi di circa cento guerrieri ciascuno. Devasteranno il vostro podere e uccideranno voi e tutto il bestiame. Fuggite!» la scongiurò. Rémsa gli toccò la fronte. «No, non può dipendere dalla febbre. La temperatura è scesa», osservò con espressione meditabonda. «Allora è tutto vero?» Posò pane, latte, lardo e formaggio sulla coperta davanti a lui affinché non rotolassero tra la paglia. «Lo dirò a Opatja. Manderemo un messaggero a Turmweihler. L'amministrazione reale saprà che cosa fare.» «Ma sono diretti qui!» protestò Tungdil, masticando. Non riuscendo più a resistere alla fame, aveva addentato una salsiccia. «Hai avuto la febbre per cinque rotazioni del sole, Tungdil. I mezz'orchi sarebbero arrivati già da un pezzo se ci avessero preso di mira», lo contraddisse Rémsa. «Ma per sicurezza metteremo qualcuno di guardia.» «A Turmweihler ci sono dei messaggeri?» I loro cavalieri e i loro piccioni viaggiatori conoscevano le vie più brevi verso le grandi città della Terra Nascosta. Il servizio era costoso, ma per lo meno le comunicazioni giungevano presto a destinazione. «Vuoi inviare un messaggio? Ti mando qualcuno cui dettare il contenuto in modo che...» «Grazie, ma so scrivere», la interruppe con garbo. Non si era offeso perché la donna aveva dato per scontato che fosse analfabeta, tanto più che pochissime persone comuni padroneggiavano l'arte della scrittura. «Carta e inchiostro saranno più che sufficienti. Il messaggero potrebbe portare la
lettera a destinazione. Va recapitata al mago Lot-Ionan, nello Ionandar.» Annuendo, la donna gli controllò la benda. «Ci è mancato poco che perdessi la gamba. Un altro giorno, è avremmo dovuto fabbricartene una di legno. La tagliola doveva essere vecchia e arrugginita. Ora mangia e riposati.» Rémsa cacciò via i bambini per consentirgli di rifocillarsi in pace, ma quelli ricomparvero poco dopo, ridacchiando e portando carta e penna. Non avevano intenzione di andarsene tanto presto. Poiché conoscevano i nani solo grazie alle fiabe e alle leggende, non volevano lasciarsi sfuggire quell'occasione. Osservarono ogni suo gesto mentre scriveva la missiva per lo stregone. Tungdil spiegò con la massima accuratezza che cosa era capitato a Gutenauen e che cosa avevano concordato gli albi e i mezz'orchi, specificando che il sovrano della Terra Estinta si chiamava Nôd'onn e aggiungendo molti altri dettagli. Spero che la lettera arrivi in tempo, pensò, preoccupato. Ne redasse una seconda copia nel caso un piccione si smarrisse, quindi si stese di nuovo sul pagliericcio morbido, esausto. Non appena i piccini si furono accorti che aveva terminato il suo lavoro, ricominciarono a tempestarlo di domande, ma il nano rispose a sua volta con un quesito: «Sapete dov'è il Giogonero?» «Io sì», cinguettò Jemta, orgogliosa. «Da qui dista poco meno di trecento miglia. C'è una strada nelle vicinanze, mi ha detto papà. Prima era commerciante e ha viaggiato per tutta la Terra Nascosta.» Rifletté. «Aspetta, vado a chiamarlo. Te lo saprà spiegare meglio di me.» Balzò in piedi e uscì come un fulmine per tornare poco dopo con Opatja, un tipo tarchiato con i capelli grigi. Tungdil constatò con gioia che gli aveva portato un boccale di birra. «Il Giogonero? Una meta singolare», osservò l'uomo. «Sì, c'è una strada poco lontano, ma le ultime miglia si snodano attraverso il bosco.» Dopo aver preso la mappa del nano, disegnò il percorso con tratti approssimativi. «Non puoi non vedere la montagna. La sua sommità piatta e nera sbuca tra le cime degli alberi.» «Una sommità piatta?» domandò Tungdil, accettando la birra con gratitudine. I bimbi si fecero più vicini per ascoltare. Opatja annuì. «Assomiglia a un pezzo di sapone spigoloso che Palandiell ha gettato nella foresta, alto quattrocento passi, largo trecento e lungo un miglio e duecento.» Per chiarire il concetto, afferrò il formaggio e lo tagliò fino a dargli una forma rettangolare. Quindi incise lunghe
scanalature dall'alto verso il basso per creare dei solchi tutt'intorno. «Li hanno prodotti il vento e la pioggia», disse ai bambini. «Me lo ricordo. È quello che viene definito Tavoliere perché assomiglia a un tavolato», affermò Tungdil. «Lo conosco grazie ai libri del mio mago.» Cercò di immaginare come potesse apparire il rilievo nella realtà. Quando il commerciante descrisse la montagna, gli parve di avere letto una leggenda in proposito, anche se non la rammentava con precisione. Trecento miglia, tuttavia, gli avrebbero offerto tempo sufficiente per frugare nella memoria. «Perché ci vuoi andare?» «Nei dintorni vive un tizio, un eremita, un ex allievo del mio stregone», rispose. «Il mio signore desidera sapere come sta. Devo accertarmi di persona che sia in buona salute.» Opatja gli esaminò la gamba ferita. «Aspetta ancora un paio di giorni prima di proseguire il viaggio. Ti daremo erbe a sufficienza per medicarti lungo il tragitto.» Si avviò verso l'uscita dopo aver preso le lettere per LotIonan. «Sono in debito con voi», disse Tungdil, riconoscente. «Ma no», protestò l'altro scrollando il capo e ridendo. «Era da un bel po' di tempo che questa brigata rumorosa non ci lasciava così in pace.» Lasciò l'ospite in balia dei piccini curiosi, che ripresero subito l'interrogatorio. Si meravigliarono quando appresero che il nano aveva già sessantatré cicli. «Allora la tua barba dovrebbe essere un bel po' più lunga», obiettò Jemta, piuttosto diffidente. «Il nonno ci ha raccontato che i Cavernicoli hanno una barba che arriva fino al pavimento.» «Siamo nani, non Cavernicoli. Ce l'ho da trenta cicli, ma ho dovuto raderla perché faccio il fabbro e le scintille me la bruciacchiavano sempre, e anche perché qualcuno me l'ha tinta di blu», spiegò Tungdil con pazienza. Il maschietto con le orecchie a sventola non esitò ad allungare la mano e a infilargliela tra la peluria. «È molto più dura e ispida di quella di papà», asserì. «È difficile pettinarla per poi legare i ciuffi in una o più trecce. È un'usanza del nostro popolo», continuò il nano, sorridendo e mostrando loro come la acconciava. «Ci piace decorarla, e disputiamo gare per stabilire chi ce l'ha più lunga e folta. Sono pochi i nani che preferiscono i baffi, i favoriti, il pizzetto o il viso rasato. La maggior parte è come me», dichiarò. Le sue conoscenze derivavano dai libri di Lot-Ionan.
Ridendo, i bimbi si confezionarono barbe finte con la paglia e il fieno, per poi incollarsele alla faccia con pezzetti di resina che recuperarono dalle travi del granaio. «Tutti i Cavernicoli... tutti i nani hanno la barba?» «Sì. E se incontrate un nano rasato, potete stare certi che l'hanno punito per qualcosa. Deve restare in esilio finché la barba gli diventa lunga quanto il manico di un'ascia, e poiché la nostra barba cresce con lentezza, trascorrono interi cicli prima che possa tornare.» Nozioni tratte dai libri e raccolte dagli uomini. Sospirò. Jemta strappò senza indugio i fili di paglia dal viso del bambino con le orecchie a sventola. «Ecco, sei esiliato! Sparisci!» A quel punto scoppiò una lite per le barbe finte; i piccini cercarono di esiliarsi a vicenda finché Rémsa comparve e mise fine allo strepito. I bimbi si accomiatarono dal loro nuovo compagno di giochi tra energiche proteste. La donna gli rivolse un sorriso cordiale. «Si fidano di te», osservò. «È un buon segno. Dormi bene, Tungdil. Preghiamo Palandiell che tu guarisca presto.» Mi trovano simpatico, chi l'avrebbe mai detto? Tungdil era felice. La fattoria sarebbe senz'altro piaciuta molto a Frala e alle sue figlie. Ho già tante cose da raccontare al mio ritorno. Non mi crederanno. Accarezzò il fazzoletto che la serva gli aveva donato e si stese sul suo giaciglio, incrociando le braccia dietro la testa. I quesiti sulle ricchezze e sulle usanze dei nani l'avevano rattristato, perché aveva potuto riferire ai suoi ascoltatori solo le conoscenze apprese dai libri. È ora che incontri qualche figlio del Fabbro in carne e ossa!
IV Terra Nascosta, regno di Gauragar, 6234° ciclo solare, inizio dell'estate Tungdil ebbe ben presto occasione di sdebitarsi per tutte le premure e le attenzioni dei contadini. Due giorni dopo, quando ormai la gamba non gli doleva più, era in piedi davanti alla forgia della piccola fucina, perché il fabbro della fattoria si era rotto un braccio e non era in grado di portare a termine i suoi incarichi per gli abitanti dei dintorni. L'aiuto gratuito del nano gli faceva davvero comodo. I bambini, che azionavano a turno il mantice, iniziarono quasi subito a contendersi quell'importante mansione. Tungdil spingeva i pezzi grezzi tra i carboni, attendendo che emanassero un bagliore rosso ciliegia. I bimbi lo attorniavano mentre batteva il martello sul ferro tra spruzzi di scintille. Ogni colpo, ogni suono veniva accolto da una risata gioiosa. Il fabbro gli rivolse un cenno di approvazione con il capo. «Ho visto di rado un lavoro così rapido, e soprattutto così meticoloso», lo elogiò. «A quanto pare, i Cavernicoli sono gli inventori della lavorazione dei metalli.» «Ci chiamiamo nani, non Cavernicoli.» «Perdonami», si scusò l'uomo, sorridendo. «I nani sono gli inventori della lavorazione dei metalli.» Tungdil sorrise. «Per quanto sia veloce, qui c'è ancora parecchio da fare. Mi tratterrò per un'altra rotazione prima di partire per il Giogonero.» «Come si fabbricano i chiodi?» domandò Jemta sfrontata, interrompendo la conversazione. «Sarai tu il prossimo fabbro del villaggio, vero?» Tungdil le accarezzò i capelli biondi e le insegnò come fabbricare i chiodi. Orgogliosa, la bambina mostrò ai genitori il risultato della sua fatica mentre il nano forgiava una nuova manovella per il pozzo. Nel pomeriggio, Tungdil lasciò il calore soffocante della fucina per immergersi in una tinozza con i vestiti puzzolenti e rinfrescarsi un poco. Presto sibilerò come il ferro rovente gettato in un secchio d'acqua. Il liquido era così ghiacciato da togliergli il respiro, ma il nano si abituò al freddo e affondò completamente, per poi riemergere soffiando e sbuffando. Si stava strofinando gli occhi, quando un'ombra gravò su di lui. Percepì un tintinnio di ferro e un odore di olio. Un cavaliere, pensò, socchiudendo gli occhi con prudenza.
Un uomo imponente di circa trenta cicli era appoggiato alla parete della fucina, le braccia incrociate sul petto corazzato. Pur disponendo di varie armi, non indossava alcuna uniforme né portava uno stemma che lo identificasse come un guerriero regolare. «Cercate me, signore?» chiese Tungdil, uscendo dalla tinozza. L'acqua gli ruscellava dagli abiti, impregnando il suolo sabbioso. «Sei tu il fabbro?» fu la risposta. «No. Gli do solo una mano. Ma se avete qualcosa da riparare, potete rivolgervi a me.» Il nano si mostrò ancora cortese sebbene l'altro non gli avesse suscitato una simpatia immediata. Gli occhi grigi del soldato gli lanciarono uno sguardo penetrante, come se volessero trapassargli i vestiti per scrutargli l'anima. «Abbiamo due cavalli da ferrare. Sai farlo?» Quella sì che era una canzonatura bella e buona. «Certo. Proprio come voi sapete cavalcare, altrimenti non comprereste nemmeno un cavallo», lo rimbeccò Tungdil, girando intorno alla casupola. Si sforzò di mantenere un atteggiamento dignitoso benché si lasciasse dietro una scia d'acqua, avesse i capelli appiattiti sulla testa e i suoi stivali producessero suoni simili a quelli che si sentono quando si guada una palude. Sulla stradina accidentata erano in attesa sei cavalli e quattro uomini che sembravano pronti a gettarsi direttamente nella mischia. Oltre alle stoviglie e a diversi sacchi di cuoio, l'animale da soma portava due reti arrotolate sulla schiena. Gli sconosciuti, intenti a parlottare tra loro, si zittirono quando lo videro. Lo guardarono sbalorditi, ma nessuno fiatò. Il nano ordinò a un guerriero di azionare il mantice. L'aria soffiò sui carboni, facendoli brillare; alcune fiammelle divamparono, guizzando e tremolando sopra il combustibile. Il calore investì Tungdil. I capelli e i vestiti gli si asciugarono in un batter d'occhio. Si sentiva a suo agio. «Siete mercenari, signore?» chiese al suo aiutante, scegliendo con tutta calma prima il martello e poi il pezzo grezzo. Un altro soldato portò dentro il cavallo zoppicante. Tungdil appoggiò per un attimo il ferro allo zoccolo, concludendo che sarebbe andato bene. «Qualcosa del genere», rispose il suo interlocutore. «Diamo la caccia a mezz'orchi e criminali la cui cattura viene ricompensata con l'oro.» Tungdil adagiò il ferro sui carboni ardenti e aspettò. «Avete molto da fare, signore?» insistette. «E avete notizie dei mezz'orchi che hanno devastato Gutenauen?»
«Il Gauragar è grande e le truppe di re Bruron non possono essere ovunque. Non possiamo lamentarci», asserì l'altro bruscamente. La conversazione terminò così. In silenzio, Tungdil modellò i ferri e li adattò ai cavalli. La fucina fu invasa da un fumo bianco e giallastro. Poco dopo il nano chiese ai suoi clienti il doppio del prezzo consueto. I mercenari pagarono senza protestare e si allontanarono. Tungdil non tardò a dimenticarli. Era arrivato il giorno dell'addio, cosa di cui si rammaricarono soprattutto i bambini. Si erano infatti affezionati all'ometto che realizzava per loro gioielli così raffinati. Tungdil ringraziò con calore i suoi salvatori. «Sono sicuro che senza il vostro intervento quella ferita in suppurazione mi avrebbe ucciso», affermò, infilando loro in mano le monete in più che aveva spillato ai mercenari. «Non possiamo accettarle», si oppose Opatja. «Non me le rimetterò in tasca. Non capita tutte le rotazioni che un nano si separi dal suo oro», dichiarò Tungdil con una tale fermezza che il denaro scivolò ben presto nelle borse dei contadini. Rémsa gli porse un sacchettino di erbe. «Applicale sui punti che non sono ancora guariti del tutto, ogni sera, quando ti fermi. Tra poco le ferite non si vedranno più.» Si salutarono con una stretta di mano, quindi Tungdil si incamminò. I bimbi lo accompagnarono per un tratto, finché il cielo si rannuvolò, minacciando pioggia. «Verrai a trovarci al ritorno?» chiese Jemta, abbattuta. «Certo, tesoro. Sono stato molto lieto di fare la vostra conoscenza. Se ti eserciterai con diligenza, diventerai un ottimo fabbro.» Le tese la mano, ma lei la scansò e lo strinse a sé. «Adesso siamo amici», si accomiatò, rivolgendogli un cenno e correndo via. «Non dimenticare di passare a trovarci», lo ammonì prima di scomparire. Il nano era ancora lì con la mano tesa, sorpreso da tanto slancio. «Guarda un po', Vraccas», mormorò, commosso. «Chi avrebbe mai immaginato che avrei conquistato il cuore di una donna?» Continuò ad arrancare allegramente, ripensando ai gentili abitanti della fattoria. Le piacevoli giornate primaverili parevano tuttavia finite. Il cielo non si rasserenò più e ben presto iniziò a piovere senza sosta. Tungdil sentiva i piedi gonfi e freddi negli stivali di cuoio che si inzuppavano sempre più. Nonostante le circostanze sfavorevoli, procedette di buon passo.
Continuava però a rimuginare sui mezz'orchi e sull'avanzata della Terra Estinta, preannunciata dall'albo. Una volta Lot-Ionan gli aveva spiegato quanto il Terrore fosse avanzato da nord. Nel punto più largo, intorno al Quinto regno dei nani, occupava seicentocinquanta miglia, e si protendeva per altre quattrocento verso sud, dove l'ampiezza del suo fronte si dimezzava. Durante una sosta al riparo di uno spuntone di roccia, Tungdil estrasse la mappa e ipotizzò che il potere malefico si estendesse come un cuneo. La punta rimbalzava contro la forza dei maghi, smussandosi e appiattendosi, e l'invasione si arrestava. Ora, tuttavia, sembrava che Nôd'onn, il misterioso sovrano della Terra Estinta, non intendesse arrendersi; i suoi successi erano incontestabili, nonostante gli sforzi dei maghi per arginarne l'avanzata. Sul lato orientale, lo Dsôn Balsur degli albi cresceva nel Gauragar come un'ulcera lunga duecento miglia e larga settanta. E finché la Porta di Pietra non fosse stata chiusa, quei mostri ripugnanti avrebbero continuato a ricevere rifornimenti attraverso il Passo Settentrionale. Se anche i mezz'orchi del Toboribor si uniranno alla Terra Estinta, i maghi si troveranno in difficoltà, rifletté Tungdil. I loro incantesimi erano molto efficaci, ma gli stregoni non potevano essere in più luoghi contemporaneamente. Nemmeno loro possedevano il dono dell'ubiquità. Se non altro sanno che i mezz'orchi si sono alleati con la Terra Estinta. Nel frattempo, infatti, Lot-Ionan doveva avere ricevuto il suo messaggio. Il variegato paesaggio del Gauragar lo ripagò delle disavventure incontrate all'inizio del viaggio. Nonostante la pioggia, l'estate induceva la natura a mostrarsi nei suoi colori più vivaci e intensi, ma il nano si accorse a malapena dello splendore variopinto di boschi, colline e pianure. Di lì a poco passò accanto a un tempio abbandonato di Palandiell, un piccolo edificio chiaro con molte finestre e decorazioni scolpite che simboleggiavano protezione e fecondità. La costruzione era dedicata alla dea in cui credeva la maggior parte degli uomini. Per Tungdil era troppo mite, troppo anonima; preferiva Vraccas, i cui templi, stando ai libri, solo di rado sorgevano nelle città. Alcuni esseri umani adoravano Elria, la dea dell'acqua; altri pregavano il dio Samusin, che regolava il vento e presiedeva all'equilibrio tra il bene e il male: lui vegliava benigno su bestie, elfi, nani e uomini indistintamente. Tion, invece, il creatore dei mostri più crudeli, era oggetto di odio più che di venerazione. Non conosco nessuno che si convertirebbe a lui, pensò
Tungdil. I servi di Lot-Ionan, tra cui anche Frala, adoravano Palandiell. Tungdil aveva eretto un piccolo altare a Vraccas nella sua fucina e ogni tanto offriva un poco d'oro fuso al creatore dei nani, che aveva modellato i cinque capostipiti nel granito più duro e aveva dato loro la vita. Non sapeva se lo facessero anche i suoi simili, ma giudicava appropriato donare a Vraccas solo il metallo più prezioso. I suoi occhi scuri esaminarono la costruzione solitaria, infestata dai rampicanti. Presto gli esseri umani ricominceranno a pregare più spesso, rifletté. Poco dopo dovette abbandonare il sentiero per fare posto a un'enorme truppa di cavalleria pesante. I guerrieri lo oltrepassarono sferragliando; il fango si sollevò in alti schizzi, imbrattandogli la mantella. Tungdil contò duecento soldati. Chissà se sarebbero bastati contro una banda di mezz'orchi. La notizia del gran numero di bestie nell'Idoslân si era diffusa con la velocità del fulmine; il nano lo capì dagli incontri sempre più frequenti con le pattuglie. Non credendo che re Tilogorn fosse in grado di sconfiggere i mostri, re Bruron del Gauragar aveva adottato opportune misure per rintracciarli e aggredirli. Tungdil era contento che gli uomini avessero preso sul serio il suo messaggio. In seguito, i libri di storia non avrebbero certo accennato al fatto che lui, Tungdil Bolofar, il nano senza stirpe né clan, aveva raccontato della distruzione di Gutenauen a una famiglia di contadini e che quest'ultima aveva avvisato l'amministrazione reale di Turmweihler. Non che gli importasse di essere menzionato: gli bastava andare fiero della propria impresa, anche se poi sarebbe rimasto il solo a conoscerla. Dormì perlopiù all'addiaccio, pernottando di tanto in tanto in un granaio e concedendosi solo un altro soggiorno in una locanda. Preferiva infatti risparmiare il suo denaro sempre più scarso. Dopo nove rotazioni solari, la ferita si era rimarginata del tutto. Le fatiche del viaggio gli avevano fatto perdere un po' di peso, tanto che dovette stringere la cintura di due buchi. Non ansimava più quando si inerpicava su un'altura; la corsa temprava la sua resistenza, e anche i suoi piedi si erano abituati alle marce quotidiane. Talvolta, durante la notte, veniva assalito dai ricordi della devastazione di Gutenauen. La sua mente ancora non si capacitava di quell'atrocità. Dopo qualche altra rotazione solare incappò finalmente nel Tavoliere. La montagna appariva davvero come Opatja l'aveva descritta
paragonandola senza tanti complimenti a un pezzo di formaggio, solo che non era affatto gialla, al contrario. La luce illuminava le larghe crepe simili a burroni nella parete piatta, che scendeva a picco. Il cupo rilievo si ergeva come un sasso gettato nel paesaggio ed era circondato da abeti verde scuro. In confronto con le sue dimensioni, gli alberi parevano piccoli e fragili, pur innalzandosi cinquanta passi e più. Un tempo il Giogonero era senza dubbio un vero monte, alto parecchie miglia. Forse un dio gli ha tagliato la vetta per punizione, lasciando la sua base dura conficcata nel terreno come la radice di un albero abbattuto, pensò Tungdil. La montagna aveva un che di minaccioso. Se non avesse dovuto consegnare gli oggetti, il nano avrebbe senz'altro optato per una lunga deviazione intorno al Giogonero. Gorén non doveva amare molto la compagnia se si era scelto un simile rifugio. Mettendo da parte quelle riflessioni, Tungdil si raddrizzò il sacco in spalla e imboccò la strada sassosa che si snodava per mezzo miglio a est del bosco. Girando intorno alla foresta di abeti, cercò un sentiero o una pista, ma quando il sole tramontò si ritrovò al punto di partenza senza avere concluso nulla. Che strano bosco! Se i tronchi non mi lasciano alternativa, domani dovrò aprirmi un varco. Sentendo la stanchezza nelle ossa, si accampò accanto al viottolo e accese un fuoco, tenendo d'occhio il limitare della foresta nel caso si avvicinasse un animale feroce. Poco dopo giunsero degli ospiti, che si rallegrarono di non essere soli. Due rigattieri arrestarono il loro carro coperto vicino al falò e staccarono i due muli che tiravano il veicolo. I tegami, le pentole e i coperchi che facevano parte del loro bagaglio tintinnavano più forte delle armature dei soldati. «C'è ancora posto intorno al fuoco?» domandò il carrettiere prima di passare alle presentazioni. Per Tungdil, Hîl e Kerolus erano due tipici esseri umani. Capelli lunghi, abiti semplici, corporatura robusta, viso non rasato e abitudine di urlare senza motivo. Scherzavano, ridevano e facevano circolare senza sosta la bottiglia di acquavite, ma la loro allegria sembrava forzata. «Non vorrei che fraintendeste le mie parole», affermò Tungdil, «ma mi sembrate... preoccupati.» Hîl smise subito di ridere. «Hai ragione, Cavernicolo...»
«Nano. Sono un nano.» «Ah. C'è qualche differenza tra nani e Cavernicoli?» «No, nani è la definizione più adatta; anch'io, per rispetto, vi chiamo uomini e non Bipedi o Miseri lunghi.» Hîl sorrise. «Ho capito.» «A essere sinceri, abbiamo paura sia della montagna sia delle creature che vivono nel bosco. Ci siamo fermati accanto al Giogonero solo perché i nostri due muli si sono rifiutati di proseguire», confessò Kerolus, rompendo quattro uova in un tegame per cucinarle. Spartì volentieri il suo pasto con il nano e il suo compagno. «Che cos'hanno di speciale queste rocce?» chiese Tungdil, raccogliendo il tuorlo con la crosta del pane. Il rigattiere lo guardò con stupore. «Un Caver... nano che non conosce la leggenda? Allora sarò lieto di narrarti della montagna che non è più una montagna.» Hîl si distese vicino al tepore del fuoco, e l'altro uomo cominciò a raccontare... Una volta il Giogonero si chiamava «Monte delle Nuvole» perché la sua cima sfiorava il cielo. Era più fiero e imponente di tutti i rilievi intorno alla Terra Nascosta. La neve sulla sua vetta non si scioglieva mai e i pendii più elevati erano d'oro puro. Nessun essere umano, tuttavia, riusciva ad arrampicarsi fin lassù per impossessarsi di quelle ricchezze. Le pareti più basse, su cui poggiava tutto il peso dell'altura, erano troppo dure e lisce. L'oro e la neve candida, inoltre, brillavano con tanta intensità da accecare chi guardava insù troppo a lungo. Bramando l'oro, gli uomini chiesero aiuto ai nani. Questi ultimi inviarono una delegazione nel Gauragar per vedere di persona il Monte delle Nuvole e percossero le rocce con pale, picconi e scalpelli. Poiché i loro attrezzi erano più resistenti di quelli degli esseri umani, riuscirono ad aprirsi un varco nel Monte delle Nuvole e a penetrare al suo interno salendo verso la sommità. In questo modo scavarono la montagna e asportarono l'oro senza restare abbacinati. Gli abitanti del Gauragar non ne furono molto felici e pretesero che i nani cedessero loro il tesoro. Allorché i due gruppi cominciarono a litigare, il monte, che nel frattempo aveva preso vita, tremò per la collera
nel tentativo di scrollarsi di dosso i saccheggiatori, ma i fori al suo interno erano così numerosi che crollò, seppellendo quegli esseri avidi sotto di sé. La montagna perdette dunque la sua bellezza e la sua maestosità. Da allora perseguita i nani e gli uomini con il suo odio. Con l'andare del tempo, la roccia mutilata si è tinta di nero per la cattiveria. Il fuoco crepitò forte. Kerolus vi gettò un ceppo affinché le fiamme divampassero e scacciassero l'oscurità. Ho percepito subito la malvagità del Giogonero, pensò Tungdil. Non capiva come Gorén potesse vivere lì. Se non altro, quel particolare diceva molto sulla sua indole. «Si mormora che nel bosco si aggirino esseri pronti a uccidere i viandanti. Il monte li ha convocati, promettendo loro grasse prede», spiegò il rigattiere, rabbrividendo. «Quando la fame diviene intollerabile, escono dalla foresta per saccheggiare i villaggi. Divorano qualsiasi cosa, uomini e animali.» «È bello avere compagnia», osservò Tungdil con sincerità, preparandosi a una sgradevole passeggiata tra gli abeti. La sua ascia l'avrebbe aiutato in caso di necessità. «Ma anch'io ho una storia da narrare.» Riferì le avventure di Gutenauen, soffermandosi sull'albo e sulla devastazione della cittadina, ma a un certo punto dovette interrompere il suo racconto, perché il ricordo di quell'orrore era ancora troppo vivido. Tacque e cercò di addormentarsi, ma il bosco lo tenne sveglio. A quanto pareva, gli alberi si divertivano a gemere e a scricchiolare forte quando lui avrebbe voluto scivolare in un sonno profondo. I rumori non disturbavano invece Hîl e Kerolus. Ora il nano comprese perché bevevano tanta acquavite: l'alcol intorpidiva loro i sensi al punto che non udivano più niente. Erano stati tanto generosi da affidargli il compito di vegliare sulle loro vite. I fruscii cessarono solo quando albeggiò. I rigattieri si alzarono, gli augurarono buon viaggio e ripartirono freschi come rose, mentre il nano si sentiva le ossa rotte. Di malumore, fissò le tenebre che lo aspettavano tra i tronchi. Non c'era niente da fare, doveva raggiungere il Giogonero. Se la storia che Kerolus gli aveva narrato la sera prima conteneva anche solo un briciolo di verità, Gorén doveva vivere tra i resti della galleria scavata dai nani. Con o senza mostri, devo attraversare il bosco. Dopo aver estratto l'ascia, la brandì con entrambe le mani e si avviò. Avvertì subito un
influsso ostile. Il monte gli comunicò con chiarezza che non gradiva la sua presenza. Tungdil non si lasciò intimorire. Prima avesse consegnato gli oggetti prima sarebbe potuto tornare alla tranquillità della sua amata galleria nello Ionandar. Forse i nani della stirpe del Secondo hanno già scritto a LotIonan rispondendo alla sua richiesta, ipotizzò fiducioso. La sua ostinata determinazione lo condusse ben presto oltre la foresta e direttamente ai piedi del monte senza che incontrasse alcun mostro. Durante il giorno le creature sembravano non avere voglia di aggredire i viandanti. Meglio così. Le ripide pareti del Giogonero, tuttavia, gli manifestarono una malevolenza così muta e sinistra che avrebbe preferito fare dietrofront. Una valanga di detriti si staccò all'improvviso. Tungdil riuscì a trovare riparo appena in tempo, e l'ultimo frammento di pietra atterrò a un palmo da lui. Le rocce avevano dimensioni sufficienti a ucciderlo. Ma non c'era niente da fare, doveva rintracciare Gorén. Il nano girò intorno alla montagna senza scorgere alcuna capanna, né l'imbocco di un sentiero. Chiamò Gorén ad alta voce, sperando che si palesasse. Invano. Imprecando, riprese a camminare intorno alle pareti nere e piene di crepe; così facendo, scoprì degli angusti gradini scavati nella roccia da scalpellini capaci. Erano abbastanza larghi per lui, ma gli ingombranti piedi degli uomini avrebbero avuto difficoltà a trovare un appoggio sicuro. Tungdil scalò il Giogonero; salì cento passi, poi duecento, e infine trecento. Strisciò carponi, aggrappandosi saldamente ai bassi gradini, l'unico appiglio disponibile. Di tanto in tanto il monte gli scaricava addosso detriti e piccole frane che gli procuravano escoriazioni alle mani e al viso. Un sasso gli aprì una ferita superficiale sulla fronte. In preda alle vertigini, il nano si addossò alla parete per non precipitare. Quando tutto intorno a lui smise di vorticare, si deterse il sangue dall'occhio destro e continuò a inerpicarsi brontolando. «Vraccas ci ha fatti di roccia affinché dominassimo la roccia, Perciò ti conviene sottometterti!» gridò. «Non riuscirai a buttarmi giù.» Osservando l'ombra proiettata dal suo corpo, si rese conto che il sole stava per raggiungere lo zenit e di lì a poco avrebbe cominciato a declinare; il vento gelido gli soffiava nelle orecchie, strattonandogli lo zaino. Il pericolo aumentava a ogni istante; Tungdil non voleva neppure
pensare alla discesa. Osò tuttavia voltarsi e lanciare un'occhiata al Gauragar, che si stendeva quattrocento passi più giù. Il sole e le nuvole creavano un gioco di ombre impareggiabile sul variopinto mosaico di prati, campi e boschi. A distanza di miglia, i suoi occhi scorsero alcune città che parevano edificate con i mattoncini delle costruzioni. Fiumi e ruscelli serpeggiavano come vene attraverso il paesaggio, e l'aria profumava di primavera. Quello spettacolo magnifico gli tolse quasi il respiro. A un tratto si sentì grandioso e gigantesco quanto il monte. Ora comprendeva perché il popolo dei nani aveva deciso di risiedere tra le montagne. Continuò ad arrampicarsi con rinnovato coraggio finché incappò in una nicchia a oltre cinquecento passi di altitudine e si risolse a trascorrervi la notte. Strisciò con prudenza nell'incavo, che gli avrebbe offerto un riparo dal vento impetuoso e dalla caduta di detriti. Domani deciderò il da farsi, rifletté. I raggi del sole calante rischiararono il rifugio di fortuna. La luce calda lambì le scure pareti della montagna, mettendo in risalto diverse formazioni rocciose. Più Tungdil osservava le asperità della nicchia, più gli pareva di distinguere dei caratteri. Il nano socchiuse gli occhi. Che sia un miraggio? si domandò. La sua mano tastò la superficie. C'era davvero scritto qualcosa. Nel corso dei cicli le intemperie avevano consumato e levigato le rune, ma la loro presenza era innegabile. Sapeva come risolvere il problema. Affrettandosi ad aprire la scatola delle esche, accese una fiammella con cui arroventare il manico dell'ascia. Estrasse la mappa dallo zaino, rivolse il lato bianco verso l'alto e passò con cautela il legno annerito sulla carta. Le particelle di fuliggine aderivano con difficoltà, ma l'esperimento riuscì: le lettere si impressero sul foglio e comparvero le tracce di un'antichissima scrittura. Tungdil impiegò parecchio tempo per tradurre le rune elaborate nella lingua comune dei nani e decifrarne la complessa formulazione. Costruito con il sangue, tinto dal sangue. Creato contro i Quattro,
caduto contro i Quattro. Maledetto dai Quattro, abbandonato da tutti e Cinque. Un tempo destato dai Tre contro la volontà dei Tre. Ancora tinto dal sangue di tutti i figli. Lo scalpellino aveva inciso le parole nella roccia disponendole a forma di albero, come simbolo del rinnovamento e dell'eterno ritorno. Tungdil non riuscì a calcolare l'età delle rune perché non aveva letto niente in proposito nel libro sulla lingua dei nani che aveva trovato negli scaffali di Lot-Ionan. Riteneva tuttavia che quei versi fossero un messaggio di un'epoca passata, risalente ad almeno millecento cicli prima. Li recitò ad alta voce per risvegliarli alla vita; commosso, ne ascoltò il suono sconosciuto ma stranamente familiare, assai diverso dall'idioma degli esseri umani. Le sillabe lo emozionarono, lo colpirono e lo turbarono. Anche i pendii e le gole del Giogonero, però, udirono l'antica lingua e, nello sforzo di ricordarla, il monte tremò. Tutto il suo astio verso i nani riemerse con forza, rivolgendosi ora contro Tungdil. «Non riuscirai a liberarti di me.» Si addossò alla parete in modo che le scosse non lo facessero precipitare. Ma anche la roccia alle sue spalle si mosse, ritraendosi con uno scricchiolio e rivelando l'accesso a un tunnel. Il monte smise di vibrare all'improvviso. Tungdil concluse di avere due possibilità. O la montagna voleva attirarlo in una trappola e farlo prigioniero per sempre, oppure Gorén gli aveva aperto l'uscio della sua casa. Non aspettò a lungo. Raccolse le sue cose senza indugio e si gettò il sacco in spalla per entrare, risoluto, nel corridoio. Aveva percorso solo pochi passi, quando il rilievo fu attraversato da un altro sussulto. La Porta di Pietra si richiuse inesorabile sul cielo notturno. Dopo che le stelle sopra la Terra Nascosta lo ebbero salutato con il loro
scintillio, Tungdil restò imprigionato nel Giogonero.
Terra Nascosta, regno incantato di Lios Nuditi, 6234° ciclo solare, inizio dell'estate Il sontuoso palazzo si stagliava con il suo brillio candido contro il cielo azzurro acciaio; le torri color sabbia si innalzavano sopra i tetti a cupola, luccicando al sole tiepido. La loro imponenza e il loro altero sfavillio indicavano la strada al viaggiatore da cinquanta miglia di distanza; solo un cieco non avrebbe potuto vedere Porista, la capitale del regno incantato di Lios Nudin. Lot-Ionan, che si godeva quel panorama meraviglioso, era impaziente di rivedere gli altri, sebbene il motivo della riunione lo inquietasse. Tirando le redini, attraversò la porta della città ad andatura misurata. Furo si ribellò sbuffando, perché avrebbe preferito galoppare e sentire il vento nella criniera. Gli stregoni rispettavano da oltre duemila cicli solari un'antica regola secondo cui il consiglio dei maghi doveva radunarsi in quell'edificio sfarzoso. Dietro quella tradizione si celavano ragioni di varia natura. Da una parte, la capitale sorgeva al centro della Terra Nascosta; dall'altra, il Lios Nudin rappresentava il cuore di quei territori. I campi magici presenti nei cinque regni incantati sembravano infatti aver avuto origine in quella zona. Simile a una sorgente, pertanto, il Lios Nudin alimentava di potere magico lo Ionandar, la Turguria, la Saboria, l'Oreimara e il Brandôkai. Il mago rise, accarezzando il collo dello stallone insoddisfatto. «Sulla via del ritorno potrai correre quanto vorrai», gli promise, concentrando l'attenzione sul trambusto tutt'intorno. Le mura di Porista offrivano protezione e alloggio a quarantamila persone. Poiché la città si trovava nella Pianura dei Prati, che si estendeva per centinaia di miglia, gli abitanti si dedicavano all'agricoltura e all'allevamento del bestiame, attività piuttosto redditizie. I loro prodotti reggevano quasi il confronto con quelli del Tabaîn, situato nella regione nordoccidentale della Terra Nascosta e chiamato anche Pianura delle Spighe. Lot-Ionan guidò Furo lungo le vie trafficate. Doveva evitare di continuo carri e carrozze e stare attento a non travolgere i passanti. Ben presto cominciò a rimpiangere la solitudine della sua galleria. Finalmente giunse davanti al portale del palazzo, cui la gente comune poteva accedere solo su invito. Una barriera invisibile bloccava i temerari che cercavano di scavalcare la cinta di nascosto: restavano appiccicati al
muro come mosche su panioni finché morivano di fame e di sete. Si distaccavano solo quando di loro non rimanevano che le ossa. I maghi non dimostravano alcuna pietà verso quelle trasgressioni, perché nell'edificio potevano entrare soltanto i Sei e il loro seguito. Lot-Ionan recitò la formula per aprire il portone. Sospinti da forze misteriose, i battenti si dischiusero, consentendogli così l'accesso. Lo stregone smontò da cavallo dopo aver ordinato all'animale di fermarsi davanti allo scalone di marmo beige. Una volta superati gli ampi gradini, attraversò luminose sale a volta i cui pavimenti erano impreziositi da splendidi mosaici. Le bianche colonne deviavano magistralmente la luce che filtrava dalle coperture di vetro emisferiche, in un tripudio di colori creato ad arte. Il corridoio si allungava fino alla sala del consiglio, in cui lo aspettavano gli altri maghi. La porta si spalancò quando Lot-Ionan pronunciò la parola magica. Eccoli lì, seduti intorno al grande tavolo rotondo di malachite: Nudin il Sapiente, Turgur il Bello, Sabora la Taciturna, Maira la Guardiana e Andôkai la Burrascosa. Erano i potenti Sei, che disponevano di forze inimmaginabili. Ciascuno di loro desiderava raggiungere un obiettivo tramite la magia. Non avrebbero avuto alcuna difficoltà a rovesciare i sette re e regine umani della Terra Nascosta e a conquistarne i possedimenti, ma nessuno di loro aveva simili mire. Erano interessati al perfezionamento della magia, non al potere terreno. Lot-Ionan salutò prima Sabora, poi gli altri quattro, e si accostò al tavolo per prendere posto tra lei e Turgur. Gli altri risposero al suo gesto cortese con un grave e sbrigativo cenno del capo. Sabora gli afferrò la mano, stringendogliela per un attimo e rivolgendogli un sorriso cordiale. «Sono lieta che tu sia arrivato, LotIonan.» Indossava un abito di velluto giallo, accollato, aderente, un po' austero e lungo fino al pavimento. I capelli corti erano diventati ancora più argentei, ma gli occhi grigi screziati di nocciola erano vivaci e cercavano il suo sguardo. «La Burrascosa non stava più nella pelle.» Ridusse la voce a un sussurro affinché la udisse soltanto lui. «E nemmeno io. Ma per un'altra ragione.» Lot-Ionan sorrise, sentendosi a un tratto come un giovanotto innamorato. L'affetto era reciproco. «Nel frattempo abbiamo scoperto perché non hai risposto alla nostra prima convocazione», dichiarò Andôkai in tono di rimprovero. La sua
bellezza si poteva tranquillamente definire acerba e la sua figura era insolitamente muscolosa per una maga; a quanto si mormorava, lottava con la destrezza di un guerriero. I lunghi capelli biondi erano raccolti in due trecce rigide e gli occhi azzurri parevano sempre in cerca di litigi. «Friedegard e Vrabor sono morti», aggiunse Maira, più alta e più snella di Andôkai. I capelli rossi le scendevano sciolti sulle nivee spalle nude; il sobrio abito verde chiaro si intonava magnificamente ai suoi occhi e ai monili che portava alle orecchie e intorno al collo. «Abbiamo appreso la notizia poco prima del tuo arrivo, Lot-Ionan.» Guardò Nudin. «Siamo concordi nell'affermare che gli albi possono essere gli unici responsabili del delitto. La Terra Estinta deve averli inviati per ostacolare la riunione dei Sei.» Lot-Ionan corrugò la fronte. «Sarebbe la prima volta che il potere del Nord ordina ai suoi servi più pericolosi di spingersi tanto a sud. Nudin mi ha riferito che le nostre difese cominciano indebolirsi», replicò. «Il nostro avversario riceve rinforzi dall'altro versante del Passo Settentrionale... ora più che mai. Se non lo fermeremo una volta per tutte, dovremo incontrarci di continuo a Porista per tendere le reti magiche.» Il suo indice picchiettò con vigore sul tavolo. «Tutto questo deve terminare! Annientiamo la forza della Terra Estinta, amici!» «Certo», interloquì Turgur, accondiscendente. Un viso regolare e rasato con cura, baffetti sottili e lunghi ricci neri e fluenti erano i tratti distintivi del Bello. Nessun uomo della Terra Nascosta poteva competere con lo stregone per l'avvenenza; le dorate di ogni età si gettavano ai suoi piedi, e gli uomini lo ammiravano o lo detestavano per questo motivo. «Niente di più. semplice, Lot-Ionan. Meno male che ce l'hai detto. Come mai nessuno di noi ci ha pensato prima?» «Il sarcasmo è fuori luogo», lo rabbuffò Nudin con la sua voce gracchiante. Il consiglio tacque. I presenti ripensarono in silenzio a tutti i precedenti tentativi di respingere gli avversari invisibili. «Nonostante tutte le formule che abbiamo utilizzato, la Terra Estinta si acquatta come una grassa belva nera nel Gauragar, nel Tabaîn e nell'Âlandur, come pure nell'ex Lesinteïl e sulla Pianura d'oro, che oggi si chiamano Dsôn Balsur», dichiarò Lot-Ionan. «Con le forze che abbiamo scatenato, avremmo potuto polverizzare le montagne e prosciugare i mari», si intromise Andôkai, che si intendeva di
distruzione. La maga venerava Samusin, il dio dei venti, e ambiva a controllare anche la brezza più leggera. Il suo temperamento era imprevedibile quanto i fenomeni atmosferici e non di rado aveva provocato lo scoppio di un temporale. «Evidentemente non basta», asserì Turgur. «La Terra Estinta ha affondato i suoi artigli nella terra e non si muove.» «Non è così!» lo contraddisse Andôkai, aspra. «Sta in agguato e ormai sembra pronta a spiccare un salto. Se non interverremo, il suo attacco sarà senza dubbio coronato dal successo!» Lot-Ionan riprese la parola. «Ci ho riflettuto. Abbiamo constato che le nostre energie sono sufficienti per tenere in scacco la minaccia. Se convochiamo a Porista i nostri allievi e li coinvolgiamo nel rituale, può darsi che riusciamo a scacciare il nemico.» Si guardò intorno, trepidante. Rimuginava sulla questione già da qualche tempo. Ciascuno di loro aveva almeno trenta giovani apprendisti e apprendiste in grado di usare la magia. «Se uniamo le forze di oltre centottanta stregoni contro la Terra Estinta, trionferemo.» «Oppure l'esperimento fallirà, e dovremo giungere alla terribile conclusione che la dimensione terrena e quella spirituale non sono degne avversarie del male», osservò Nudin, asciutto. Lot-Ionan non osò pensare alla peggiore di tutte le ipotesi. Presto o tardi la Terra Nascosta cadrà preda del potere oscuro. Da quel momento gli uomini, gli animali e la natura saranno condannati a vivere in eterno come semimorti e a obbedire alla volontà della spaventosa forza proveniente dal Nord. Un brivido di paura lo percorse. «No, non deve accadere.» Andôkai ritrovò la voce per prima. Quando si rivolse agli altri cinque, parve angosciata. «So che la mia fede in Samusin crea difficoltà a qualcuno. Ma la situazione è quella che è. Dobbiamo fare qualcosa.» «Mi sorprendi», ammise Lot-Ionan. «Avrei giurato che ti saresti opposta alla cacciata.» «Samusin è il dio dell'equilibrio. Dove esistono solo le tenebre, non vi è neppure l'ombra. Non possiamo permettere che l'incubo di un Paese soggiogato diventi realtà. Approvo la tua proposta», confermò. «Se la Terra Estinta si ritira, la simmetria si ripristinerà da sola.» Votarono; erano tutti favorevoli a mettere in pratica il piano di LotIonan. «Innanzitutto, però, dobbiamo rafforzare le barriere esistenti. I nostri
sforzi saranno vani se la Terra Estinta sfonderà le difese mentre gli apprendisti sono ancora in viaggio», li ammonì Nudin con voce roca. «Propongo di riposarci per un'ora e di consumare un pasto leggero prima di entrare in azione tutti insieme.» Dopo essersi dichiarato d'accordo, il consiglio si sciolse. Nudin pregò Lot-Ionan di trattenersi ancora un poco, e lo prese in disparte conducendolo verso la finestra settentrionale della sala. A quel punto erano vicinissimi e lo stregone notò quanto Nudin fosse gonfio e appesantito. Aveva gli occhi iniettati di sangue e le sue pupille emanavano uno scintillio febbrile. È malato! Nudin tossì e si affrettò a mettersi un fazzoletto davanti alla bocca; con l'altra mano si appoggiò al bastone d'acero, in cerca di un sostegno. Poi si rimise in tasca la pezzuola con un gesto frettoloso. Lot-Ionan credette di intravedere del sangue sulla stoffa. «Dovresti farti imporre le mani da Sabora», gli suggerì, preoccupato. «Sembra che tu stia... molto male.» Ma Nudin crollò il capo e si sforzò di abbozzare un sorriso vago sul volto tumefatto. «Un banale raffreddore, niente di più», replicò spiccio. «Un lieve malanno ogni tanto non nuoce al corpo.» Rivolse al suo interlocutore un cenno di elogio. «Hai avuto un'ottima idea. Poiché hai convinto persino Andôkai, anche gli altri ti seguiranno.» Divenne purpureo e represse a fatica un secondo attacco di tosse. «Noi maghi ci siamo occupati solo di noi stessi per troppo tempo. Più tardi consulterò Sabora», lo rassicurò. «È piacevole vedere che siamo compatti anche rispetto ad altre questioni. Peccato che ci siano volute circostanze tanto allarmanti.» «Perbacco», esclamò Lot-Ionan, sconcertato. «Hai forse un nuovo soprannome? Ora ti chiami per caso "l'Autocritico"?» Quel giorno trovava lo stregone del tutto accettabile perché un po' meno altezzoso del solito. Se dipendeva dalla malattia, Lot-Ionan si augurava che il morbo contagiasse anche Turgur e Andôkai. Nudin scoppiò in una risata che si tramutò in un violento accesso di tosse. Questa volta Lot-Ionan vide il sangue che gli usciva dalle labbra prima che il mago si pulisse. «Vai da Sabora», ribadì, assumendo volutamente un tono imperioso. «Il rituale richiede energia, e sembra proprio che tu ne abbia bisogno.» Nudin levò la mano in segno di resa. «Hai vinto. Mi rivolgerò a lei», gracchiò. «Ancora una cosa: dove sono i miei oggetti, vecchio mio?» Lot-Ionan avrebbe preferito non affrontare l'argomento. «Ho dimenticato
la borsa», confessò. «Te li restituirò quando i miei apprendisti arriveranno a Porista.» Nudin sorrise. «Per lo meno li hai trovati. Non preoccuparti, non c'è fretta. La Terra Estinta ha la precedenza.» «Mi sono ricordato di frugare nell'armadio del mio studio e di impacchettarli, ma il colloquio con te mi ha turbato tanto che ho mollato tutto», ammise Lot-Ionan, stizzito. Il sovrano del Lios Nudin gli diede una pacca sulla spalla. «Nessun problema.» Vacillò leggermente. «E ora scusami. Devo stendermi un poco», concluse prima di avviarsi verso l'uscita. La sua ampia veste frusciò piano; con l'estremità del bastone percosse il pavimento a colpi regolari. «Vai da Sabora!» gli urlò dietro Lot-Ionan. Con espressione meditabonda, guardò fuori dalla finestra affacciata sui meravigliosi giardini del palazzo e sui tetti della città, e alzò lo sguardo verso l'orizzonte, dove il verde dei campi e l'azzurro del cielo si confondevano. Da lassù non si coglieva alcuna differenza, ma la Terra Estinta era lì, a poche miglia di distanza. Poco dopo sentì una mano delicata sulla spalla e percepì un profumo che non avvertiva più da tempo; il suo vecchio cuore accelerò i battiti. Sollevando la destra, la posò sulle dita che l'avevano sfiorato. «Mia cara amica», disse, voltandosi verso Sabora. «Mio caro amico», gli fece eco lei, raggiante. Lo stregone era sempre contento di vedere Sabora. La maga la pensava come lui riguardo alla vecchiaia. Non essere l'unico vegliardo rugoso tra tanti visi giovani gli infondeva un immenso sollievo. Non era vanitoso, ma durante le riunioni si sentiva due volte più anziano di quanto fosse in realtà. Andôkai dimostrava trenta cicli pur avendone centocinquanta, Maira pareva una cinquantenne malgrado i suoi trecento cicli e Turgur manipolava la propria immagine conservando l'aspetto esteriore di un quarantenne prestante. Sabora indovinò i suoi pensieri. «Invecchieranno anche loro, Lot-Ionan, non angustiarti», lo consolò, prima di abbracciarlo a lungo. «Che cosa mi dici della tua arte?» gli domandò infine. «Lavoro con zelo, ma il mio servo mi ha rovinato una formula preziosa prima che riuscissi a sperimentarla», rispose. «Presto sarò in grado di rendere visibile la magia nelle cose e nelle persone, il che darà un enorme contributo alla mia ricerca. E tu? Le tue virtù terapeutiche si sono affinate tanto da consentirti di sconfiggere tutte le malattie?»
Sabora lo prese a braccetto e passeggiarono insieme lungo le sale a volta. «Le semplici ferite non sono più un ostacolo da tempo. Al momento sto tentando di debellare la peste», lo informò. «E con risultati soddisfacenti. Ma uomini che soffrono di malattie misteriose continuano a interpellarmi. Gli dei inventano ogni giorno nuove tribolazioni.» «Prima o poi garantirai agli esseri umani una vita senza crucci», la incoraggiò. «Nudin ti ha già parlato? Ha una pessima cera.» La maga crollò il capo. «No. Mi è passato accanto senza fiatare.» Un sorriso malizioso le si insinuò sul volto. «Ma non posso fare nulla per il suo sovrappeso. È Turgur quello che ha utilizzato la magia per modificarsi il corpo e la faccia.» «Deve essersi avvicinato all'obiettivo di mantenere la sua avvenenza anche in tarda età. Lo ricordavo con un viso più grinzoso e irregolare.» Sedettero in uno dei numerosi giardini. La donna si appoggiò a Lot-Ionan. «È stupefacente», mormorò. «Abbiamo tutti scopi così diversi, eppure siamo uniti.» «Credevi che Maira avrebbe sollevato qualche obiezione perché è la più anziana? Conosce bene gli effetti della Terra Estinta e riunisce le creature più pure e nobili nei suoi boschi per offrire loro un rifugio dai mezz'orchi.» «Sì, corre voce che gli ultimi unicorni vivano proprio nel suo regno. Lì sono al riparo dalle bestie», concordò Sabora. «Dobbiamo fare in modo che presto l'intera Terra Nascosta torni a essere sicura come millecento cicli fa. È giunto il momento di agire.» Felice della sua compagnia, Lot-Ionan la cinse con un braccio. «Turgur mi ha meravigliato», ammise. «Ho sempre creduto che pensasse solo a se stesso. Il suo stile di vita è improntato all'arte, alla bellezza e alla raffinatezza. Ma ora...» Sabora rise. «Avrà paura per le piante e i giardini perfetti che ha creato con la magia. La Terra Estinta gradirebbe molto i suoi parchi e le sue aiuole ornamentali.» Si raddrizzò. «Ho sentito dire che Gorén è stato qui. Non era uno dei tuoi apprendisti?» «Gorén? Qui? A Porista? Ma vive a Grünhain.» «Turgur mi ha raccontato di aver incontrato lui e uno studente di Nudin dopo l'ultima riunione.» «Se non lo conoscessi bene, penserei a un complotto», scherzò il mago. «Il Bello frequenta gli allievi dei suoi due concorrenti e carpisce loro i risultati delle ricerche.» «Quello sì che sarebbe un miscuglio singolare. La bellezza magica, la
percezione della magia e...» Sabora esitò. «Non so che cosa studia Nudin. E tu?» «Neanch'io, non mi ha rivelato nulla», rispose Lot-Ionan. «Ma dev'essere qualcosa di molto impegnativo se riesce a malapena a fare un po' di moto tra un esperimento e l'altro.» Le parole di Sabora avevano stuzzicato la sua curiosità, e decise che più tardi avrebbe chiesto a Turgur dell'incontro con Gorén. La cinse teneramente con entrambe le braccia, cullandola con dolcezza. «Dimentichiamo gli altri per un paio d'ore, Sabora», la pregò. «Ci vediamo troppo poco.» «Già, troppo poco», confermò la donna dai corti capelli argentei. «Proporrò ad Andôkai di scambiare il suo regno con il mio, così saremo più vicini.» «I suoi sudditi ne saranno contenti. La quiete tornerebbe nel loro Paese dopo tutte quelle tempeste», la punzecchiò. «Come sai, le acque chete rovinano i ponti», lo rimbeccò la maga con un luccichio malizioso negli occhi.
Terra Nascosta, regno di Gauragar, 6234° ciclo solare, inizio dell'estate Gli occhi di Tungdil si abituarono in fretta al buio. Le pareti levigate erano state scolpite con perizia nella roccia scura della montagna. Sembrava un lavoro da nani, perché gli uomini non si sarebbero mai presi tanto disturbo. Per quanto la leggenda del monte l'avesse affascinato, non ci credeva più. Il poco che aveva visto fino a quel momento gli aveva comunicato l'impressione di trovarsi in un alloggio, non in una miniera d'oro. Scese molti scalini e alla fine giunse davanti a una saracinesca aperta, dietro la quale vi era una porta di quercia accostata. Spesse barre di ferro attraversavano il legno, e alcune piastre d'acciaio lo rinforzavano. Se l'uscio si fosse chiuso, sarebbe stato in trappola. «Ehilà?!» urlò. «C'è nessuno? Signor Gorén?!» Non udì nulla, a parte il cupo rimbombo della sua voce, e poco dopo calò di nuovo un silenzio di tomba. Tungdil avanzò. «Mi chiamo Tungdil. Mi manda il mago Lot-Ionan, mi sentite?» gridò, affinché nessuno lo scambiasse per un ladro. Sull'altro lato della porta riconobbe varie leve che servivano per alzare e abbassare la saracinesca, come scoprì dopo che la curiosità lo ebbe spinto ad azionarle. I rumori che produsse erano molto forti. Troppo forti. «Perdonatemi», urlò, proseguendo a passo spedito per trovare finalmente Gorén. Il percorso lo portò nelle viscere del Giogonero. Aveva l'impressione di essere stato catapultato in un regno dei nani. Scale e gradini conducevano verso la sicurezza della pietra, offrendogli una vaga idea di come dovevano essere le montagne del suo popolo. Alla fine si ritrovò in una cucina, una grande stanza scavata abilmente nella roccia e dotata di forni che, come le stoviglie, sembravano inutilizzati da tempo. «Signor Gorén?!» Tungdil sedette, posò il suo carico e attese per alcuni istanti. Fu assalito da un orribile sospetto. Che sia morto? Decise di mettere da parte la timidezza e di cercare qualche traccia della presenza dell'apprendista. Imboccò un corridoio dopo aver superato la prima porta che gli capitò di incontrare. Sbucò in un'ampia grotta lunga oltre duecento passi e larga quaranta. Al suo interno era stato allestito un giardino a regola d'arte, ma la mancanza di qualcuno che lo curasse gli conferiva un'aria abbandonata. La
luce filtrava attraverso lastre di vetro, consentendo alle piante di crescere nonostante il freddo. Venivano annaffiate dalla pioggia che scorreva dall'alto in canali ricavati dalla pietra; qua e là l'acqua gocciolava dal soffitto. Tungdil avanzò aprendosi un varco tra la vegetazione lussureggiante e seguì il corridoio fino a raggiungere uno studio. La scena gli era molto familiare: pergamene srotolate, papiri fittamente costellati di parole, libri aperti uno sopra l'altro sui tavoli e sul pavimento... «Alcuni dei suoi appunti?» si domandò ad alta voce. Altri la definirebbero una biblioteca. Con una certa esitazione si apprestò a cercare qualche indizio della presenza di Gorén. Quasi tutti i tomi polverosi che sfogliò erano incomprensibili perché scritti nella lingua dotta degli stregoni, patrimonio esclusivo dei maghi e degli apprendisti di grado più elevato. Ricchezza? Longevità? Salute eterna? Su che cosa vertevano le sue ricerche? Il suo compito non era tuttavia rispondere a quegli interrogativi, bensì consegnare il sacco con gli oggetti all'uomo giusto. Dietro l'armadio scovò un fascio di lettere in cui Gorén si consultava con altri due eruditi sull'argomento della possessione (sotto quali forme si manifestava, quali varianti erano note e quali erano state osservate), e tentava di stabilire se fosse possibile essere posseduti da uno spirito. Uno degli studiosi doveva essere un mago di alto rango, perché Tungdil non riuscì a decifrare nemmeno un vocabolo. L'altro scriveva come un apprendista di primo grado, illustrando i mutamenti esteriori e caratteriali subiti da un uomo. Non vi era tuttavia traccia di Gorén. Il nano perlustrò i locali vicini ed entrò in piccoli laboratori, in biblioteche semivuote e in magazzini pieni di ingredienti per le formule magiche, allontanandosi sempre più dal centro della montagna. Nel frattempo rifletteva sulla situazione. Evidentemente Gorén non abitava più lì; Tungdil però aveva promesso solennemente a Lot-Ionan di recapitare gli oggetti. Non sarebbe pertanto tornato a casa finché non avesse portato a termine la sua missione. Ci si poteva sempre fidare del giuramento di un nano. E Jolosin dovrà pelare patate ancora per un bel pezzo. Niente male! All'improvviso si imbatté in iscrizioni che erano state tracciate senza dubbio da un nano. Fu assalito dal terrore. Espressioni cariche d'odio e di profondo astio gli stavano davanti agli occhi, incise per l'eternità nella roccia. Chiunque avesse maneggiato lo scalpello aveva dato sfogo a un
cocente disprezzo e a una spaventosa animosità per quattro stirpi e tutti i loro clan. Ciò significava sicuramente una cosa. Un tempo questa fortezza apparteneva alla stirpe di Lorimbur! Nel Gauragar, nella terra degli uomini, si era dunque imbattuto in un capitolo della storia del suo popolo che non era citato nelle cronache tradizionali. Creato contro i Quattro, caduto contro i Quattro, pensò, rammentando le parole incise nella pietra. Forse voleva dire che i Terzi avevano costruito una fortificazione nel cuore della Terra Nascosta. Per attaccare da qui gli altri figli del Fabbro? Ovviamente, se aveva interpretato bene i versi, i Terzi avevano subito una sconfitta da parte dei loro parenti. Maledetto dai Quattro, abbandonato da tutti e Cinque. A quanto pareva, una maledizione impediva che qualcuno abitasse il Giogonero. Il nano credette di intuire che cosa era accaduto. Grazie a una fortunata circostanza, Gorén aveva saputo dei tunnel e delle stanze contenute nel monte e aveva deciso di servirsene come rifugio. Con i suoi poteri era riuscito a comprendere e spezzare l'anatema dei nani, e si era sistemato lì dentro. Probabilmente i versi «Costruito con il sangue, tinto dal sangue» non l'avevano intimorito più di tanto. A un tratto Tungdil udì un sussurro, e un brivido gli corse lungo la schiena. Le pareti gli parlavano, e alcuni spettri parvero circondarlo e bisbigliare al suo indirizzo. È solo la mia immaginazione, si disse. Gli fecero ascoltare il fragore delle asce, il tintinnio delle cotte di maglia e le urla dei guerrieri. I rumori si amplificarono e il frastuono divenne più nitido, le grida dei feriti e dei moribondi intollerabili. «No!» urlò, premendosi le mani contro le orecchie. «Lasciatemi!» Anziché svanire, tuttavia, l'illusione diventò più realistica e minacciosa, perciò il nano si mise a correre più in fretta che poté. Non c'era più nulla che lo trattenesse lì, voleva soltanto fuggire dal Giogonero e dai fantasmi. I mormorii, lo strepito e il clangore diminuirono a mano a mano che si allontanava da quel tratto di galleria. Tungdil si spaventava di rado, ma la montagna aveva messo a dura prova il suo coraggio. Avrebbe preferito trovarsi sotto il solleone o sotto la pioggia più fitta piuttosto che trascorrere una notte tra quelle pietre. Ora che conosceva in parte il terribile segreto della fortezza, vide gli spettri dei suoi antenati morti intorno al suo giaciglio. Dopo innumerevoli ore di ricerche non individuò alcun segno della
presenza di Gorén, ma notò il nome di un'elfa che si ripeteva più volte nelle sue poesie d'amore. Sulle mappe malconce, un luogo era stato cerchiato così spesso da persuaderlo che Gorén si fosse trasferito a Grünhain. Per arrivarci, avrebbe dovuto percorrere altre trecentocinquanta miglia in direzione nord-ovest. A quanto pareva, l'apprendista si era ritirato nel bosco che veniva considerato una propaggine della Foresta Eterna, al centro della quale si trovava l'Âlandur, il Paese degli elfi. Le leggende accennavano alla particolare atmosfera pacifica che regnava tra le loro stirpi; le foglie cadevano e germogliavano in continuazione senza curarsi dell'avvicendamento delle stagioni. Tungdil tirò le somme e sorrise. Si è innamorato di un'Orecchia appuntita ed è andato da lei. L'elfa sconosciuta gli avrebbe dunque offerto l'opportunità di prolungare la sua avventura, anche se non per questo avrebbe nutrito una maggiore simpatia per quella razza. Il nano avrebbe voluto tornare in cucina per imboccare il corridoio che conduceva all'esterno, ma essendo assorto nei suoi pensieri, superò una diramazione senza accorgersene. Esplorò pertanto altre parti della fortezza dei Terzi. Riconobbe che la stirpe di Lorimbur si era sforzata di creare qualcosa di impressionante, ma invano: le pareti erano oblique e le distanze tra i gradini irregolari non erano state ben calcolate. La maledizione di Vraccas aveva impedito loro di eccellere nella più elementare di tutte le occupazioni del loro popolo. Alla fine si ritrovò davanti a un portone che i costruttori avevano ricavato dalla roccia. Appena lesse ad alta voce le rune incise sulla chiave di volta, una fessura comparve nella parete massiccia. I battenti di pietra si scostarono frantumandosi per permettergli di uscire. Non appena ebbe varcato la soglia, il passaggio si chiuse alle sue spalle. Per quanto tastasse e cercasse, non riuscì a trovare alcuna crepa che tradisse la presenza dell'ingresso. I Terzi sono riusciti a fare almeno questo. Il breve tratto attraverso il bosco di abeti gli consentì di abituarsi pian piano alla luce del giorno e quando si avviò lungo la strada per Grünhain, la luminosità non lo infastidiva più. Per la prima volta da quando era partito, Tungdil apprezzò il ronzio delle api, il profumo dell'erba e i raggi splendenti del sole. Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio del Giogonero.
V Terra Nascosta, regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, inizio dell'estate Quella sera i Sei si riunirono nella sala per i preparativi. Allontanate le sedie dal tavolo di malachite, tracciarono sul pavimento grandi cerchi di gesso e li riempirono di rune, simboli e caratteri, che sarebbero serviti a trattenere la magia dopo la riuscita dell'incantesimo e a vincolarla per un certo periodo affinché non si dileguasse senza sortire alcun effetto. Avrebbero poi dovuto indirizzare contemporaneamente tutte le loro energie verso il tavolo posto al centro. Impiegarono ore per terminare il lavoro. Non proferirono parola, perché il dialogo avrebbe ostacolato la concentrazione, e un solo tratto sbagliato li avrebbe costretti a ricominciare tutto da capo. Lot-Ionan finì per primo e osservò il tavolo verde scuro, con cui aveva un particolare legame. Quando, tempo prima, aveva scovato quel mobile insolito da un bottegaio, si era informato sulla pietra di cui era fatto. Le sue ricerche avevano rivelato che la miniera da cui era stata estratta si trovava ai margini di un campo magico. I suoi esperimenti, poi, avevano evidenziato la particolare capacità del materiale di immagazzinare la magia e di liberarla a comando. La malachite assorbiva le forze evocate e produceva un concentrato di potere occulto. Quelle conoscenze erano tornate utili ai suoi seguaci e alla Terra Nascosta a distanza di diversi cicli solari, perché senza quel potente cristallo i Sei non sarebbero mai riusciti ad arrestare l'avanzata della Terra Estinta. Generazioni di maghi e maghe avevano sfruttato le proprietà di quella pietra, e la stessa cosa sarebbe accaduta quel giorno. Turgur si alzò, contemplando il suo cerchio con compiacimento e sbirciando poi Nudin. «C'è qualcosa che non va», bisbigliò a Lot-Ionan. «Tieni d'occhio Nudin.» «Perché?» domandò lo stregone, perplesso. «Che cosa...» Nudin si raddrizzò, guardandoli; il suo viso congestionato appariva diffidente, come se si fosse accorto che i due uomini stavano confabulando. «Non ora. Lo spiegherò più tardi a te e agli altri», disse Turgur. «Mi aiuterai?» «Aiutarti?» Il mago dalla lunga barba candida aveva la mente piena di
formule ed era irritato dal fare misterioso del Bello. Prima che potesse chiedergli delucidazioni, Maira ordinò loro di prendere posto. La luna e le stelle brillavano nel cielo quando gli stregoni entrarono nei cerchi intorno al tavolo. La cerimonia poteva iniziare. Il soffitto a cupola si mosse e si inclinò di lato, finché sopra le loro teste ci fu soltanto il firmamento. I Sei allargarono le braccia, tenendole orizzontali e recitando a occhi chiusi le formule che avrebbero evocato le forze magiche. Ciascuno pronunciò la sua invocazione. Maira cantò, Andôkai sibilò in tono furente e collerico, e le parole di Turgur suonarono arroganti quanto lui, mentre Sabora ricorse a un sussurro appena percettibile. Le loro voci si mescolarono in un coro confuso e implorante cui la magia non riuscì a resistere. Nudin e Lot-Ionan parlavano in maniera quasi identica, esprimendosi con gravità e solennità, come se fossero al cospetto di un re e lo salutassero con soggezione. Non avendo dimenticato le bizzarre osservazioni di Turgur, il Paziente spiava le azioni di Nudin attraverso le palpebre socchiuse. Constatò con sollievo che il Sapiente non mostrava alcun comportamento inconsueto. Uno dopo l'altro, i simboli intorno alla Guardiana emanarono uno splendore abbagliante; la maga si trovava in un raggio scintillante e iridescente che si allungava a perdita d'occhio verso il cielo nero, illuminando la sua figura. Maira era pronta. Tutt'intorno i cerchi divamparono, inondando di luce gli stregoni. Senza dubbio gli abitanti di Porista fissarono il palazzo del consiglio con stupore, godendosi l'insolito spettacolo. Un'enorme energia colmò la stanza e un crepitio si diffuse dappertutto. Qua e là, tra le colonne, si accesero piccoli fuochi di sant'Elmo sfumati d'azzurro. La Guardiana posò le mani sulla malachite, imitata dagli altri cinque. Lot-Ionan notò che Turgur non perdeva di vista Nudin e appariva molto teso. Il potere evocato li attraversò e si trasmise al cristallo verde scuro, che prese subito a pulsare. Il suo luccichio si accrebbe finché i Sei staccarono le dita dalla superficie fredda e indietreggiarono di un passo. «Mettiti in viaggio e rafforza le catene invisibili che bloccano la Terra Estinta», gridò Maira, recitando la formula. La malachite e la magia le obbedirono immediatamente, e l'energia si sprigionò dal centro del tavolo
sotto forma di un bagliore biancastro e scintillante. All'improvviso, tuttavia, Nudin afferrò il suo bastone, puntandone l'estremità direttamente verso il fascio luminoso. L'onice assorbì il biancore. Un lampo scuro balenò dalla pietra nera e argentea, trasferendo la forza al mago, che lanciò un grido raccapricciante e si contorse per il dolore. «Traditore!» Turgur agguantò la bacchetta magica, intenzionato a staccare l'onice dall'acciaio, ma un'invisibile barriera protettiva glielo impedì. La gemma sottrasse alla malachite l'ultimo granello di magia, e il baluginio sopra la lastra si spense insieme con lo splendore dei cerchi. Il rituale era terminato, la potenza era stata raccolta e sprigionata. Nudin barcollò all'indietro per appoggiarsi a una colonna, stremato. Lot-Ionan guardò Turgur, che ovviamente era il più informato sui piani di Nudin. «Ci ha traditi!» strillò il Bello, fuori di sé. «Si è alleato con la Terra Estinta! Se solo avessi captato prima i segnali.» «Che cosa significa tutto questo?!» tuonò Andôkai, correndo verso Nudin. Con le mani poderose lo afferrò per le spalle e sembrò sul punto di malmenarlo. Ma lo stregone la precedette. Il suo pugno chiuso colpì il mento di Andôkai con tanta rapidità che la maga non ebbe la possibilità di schivarlo. La Burrascosa fu catapultata in aria, volò attraverso la stanza per alcuni passi e cadde all'indietro sul tavolo, dove giacque immobile. «Ci devi spiegare che cosa hai combinato, Nudin», ordinò Lot-Ionan, aspro. Il mago vestito di scuro si raddrizzò. «Taci, vecchio pazzo», gli intimò, puntandogli contro il bastone decorato dall'onice. I quattro stregoni si prepararono a respingere un attacco magico. La malattia doveva avergli ottenebrato la mente. Dopotutto, la follia era abbastanza comune tra i maghi. «Che cosa significa tutto questo, Nudin?» insistette Sabora. «Ambisci forse al potere? È stato uno stratagemma per ottenere più forza tramite il rituale? Oppure Turgur diceva il vero? Sarebbe assurdo.» Lanciò un'occhiata fulminea agli altri. «Posa a terra il bastone prima che accada una disgrazia.» «La disgrazia è già accaduta», replicò Nudin. «La disgrazia è che avete sbagliato per tutti questi anni. L'avete combattuta anziché ascoltarla. Lei ha
ragione su molte questioni!» «La Terra Estinta!» esclamò la Guardiana, inorridita. «Hai... parlato con lei?» «Ho imparato da lei», la corresse Nudin. «A voi la scelta. Sarete con me o contro di me quando tramuterò e proteggerò la Terra Nascosta?» Lot-Ionan allungò la mano verso la bacchetta. La sua era una decisione scontata. «Il tuo gesto di oggi ti ha procurato cinque nemici», commentò mesto. «La curiosità e la sete di sapere ti sono state fatali. Non avresti dovuto prestare ascolto alla voce del male.» «Non è il male», obiettò Nudin, apprestandosi a dare una spiegazione, ma sottili rivoli di sangue cominciarono a colargli dal naso e dall'occhio sinistro, disegnando linee vermiglie sul suo volto molle. Si interruppe. «Guarda come ti ha ridotto», intervenne Maira con dolcezza. «Voltale le spalle, Nudin!» «No», protestò lui, impaurito. «No, mai! Sa più di tutti i miei libri, più di tutti gli uomini e i maghi messi insieme.» La sua voce divenne stridula. «Grazie a lei i miei sogni si avvereranno. Capite, è l'unica che possa aiutarmi a procedere!» «Non puoi più tornare indietro perché sei diventato parte della Terra Estinta. E in cambio di quelle conoscenze, quest'ultima pretende niente meno che l'intera Terra Nascosta con tutti i suoi uomini e i suoi esseri?» interloquì Turgur, pungente. «Sì, sembra proprio un affare vantaggioso, vecchio mio.» «Nessuno ti appoggerà, Nudin», mormorò Sabora, scuotendo la testa argentea. «Come hai potuto?» «Non capite», osservò il mago, deluso. «È venuta a salvarci tutti dalla sciagura!» «A salvarci dalla sciagura?» Maira fece un cenno agli altri. «No, Nudin. Non esiste nulla di peggio della Terra Estinta, non vi può essere niente di più spaventoso. Dobbiamo fermarla», disse, traendo un profondo respiro, «dobbiamo fermarla.» «Pazzi! Non farete nulla alla mia amica.» Nudin borbottò parole incomprensibili, battendo l'estremità del bastone sul pavimento. Il marmo si incrinò e comparve una crepa che serpeggiò verso il tavolo, raggiungendone il basamento un attimo dopo. La malachite si sbriciolò come una zolletta di zucchero nel tè bollente prima di esplodere in mille schegge minuscole. Andôkai cadde sulle lastre dure senza nemmeno un gemito; i frammenti verdi le esplosero intorno.
Lot-Ionan, che aveva ricordato troppo tardi il controincantesimo, fissò atterrito i resti della pietra, come gli altri quattro. Ha distrutto irreparabilmente il centro dell'energia! Mentre, paralizzato, guardava i frammenti scintillanti, una palla di fuoco blu gli sfrecciò accanto per annientare il mago traditore. Il proiettile magico, scagliato da Turgur, si scontrò tuttavia con un incantesimo di difesa. «Tutti insieme!» gridò Maira. «Proteggete la Terra Nascosta da sventure peggiori!» Il suo richiamo riscosse Lot-Ionan. Scacciò così tutti i pensieri riguardanti il futuro della sua patria e la profonda delusione causata dalla slealtà di Nudin, per concentrarsi su quel combattimento insolito. Gli altri avevano bisogno della sua collaborazione. In duecentottantasette cicli, tuttavia, non aveva mai dovuto usare la magia per uccidere e annientare. Dapprima i maghi attaccarono il ribelle con un veloce susseguirsi di lampi d'energia e sfere infuocate, per fondere i loro poteri in un'unica aggressione. La parete protettiva di Nudin fu circondata da fiamme ed esplosioni, e la sua sagoma scomparve in quell'inferno. Quando Sabora fece crollare due colonne lì accanto, un'enorme porzione di soffitto precipitò su di lui; una polvere sottile si sollevò vorticando e togliendo loro la visuale. Nessuno dei quattro osò occuparsi di Andôkai. Dovevano rivolgere tutta la loro attenzione a Nudin. «Vediamo se ci siamo riusciti.» Maira pronunciò un incantesimo per soffiare le macerie fuori dal tetto. Quando la polvere si diradò, videro il vuoto. Il Sapiente si era dileguato. Nulla indicava che lo avevano distrutto. «Non può essere», ansimò Turgur, nervoso. «Dovremmo averlo sconfitto. Nudin...» Sgranò gli occhi. Pieno di orrore, si guardò la mano, che invecchiava a una velocità fulminante. La pelle si coprì di rughe e macchie finché fu punteggiata di chiazze nere e cominciò a marcire. Il Bello lanciò un controincantesimo, ma invano. La decomposizione si estese al braccio, gli invase tutto il tronco e continuò a diffondersi. «Resisti!» Sabora gli fu accanto con un balzo. Senza timore, gli posò la mano sulle zone imputridite per guarirle con i suoi poteri, ma anche lei fallì. Turgur cadde poiché non vi era più niente che tenesse insieme il suo corpo. La sua lingua era diventata un pezzo di carne maleodorante, perciò il Bello balbettava impotente. Perse la sua avvenenza e di lì a poco la vita.
Il mago si era sciolto come cera. Lot-Ionan cercò di vincere la paura crescente del traditore. Nudin conosceva incantesimi che non esistevano nella Terra Nascosta; la Terra Estinta gli aveva insegnato cose spaventose. Il Sapiente si materializzò dietro una colonna proprio accanto a Maira. La Guardiana si ritrasse. «Lascio a voi la decisione», disse Nudin con voce nasale. Dirigendosi verso gli altri tre, si piazzò vicino ad Andôkai. «La scelta spetta a voi. Pensate a che cosa potreste ottenere. Io...» Andôkai, ancora immobile, spiccò un balzo, sfoderando la spada. La lama sibilò nell'aria e trapassò il petto dello stregone. «Eccoti ricompensato per il tuo tradimento!» urlò la Burrascosa, rivolgendo l'arma verso l'alto con un grido acuto. Gli spezzò le costole del lato sinistro e la clavicola, quindi estrasse la spada. Nudin vacillò, afflosciandosi. Cadendo, il moribondo sollevò il bastone, menando un affondo con sorprendente vigore. L'estremità perforò il petto di Andôkai, che sussultò, si accasciò e serrò le dita intorno alle schegge di malachite. Poi giacque inerte. «Andôkai!» Sabora corse subito al suo fianco e tentò di guarirle la ferita con la forza della sua magia. Lot-Ionan e Maira tirarono un sospiro di sollievo quando videro il traditore giacere nel suo stesso sangue. Si inginocchiarono accanto alla Burrascosa per assisterla, ma i loro incantesimi non servirono a nulla. «Le nostre energie sono state fiaccate dal rituale e dal combattimento», osservò Sabora, affrettandosi ad alzarsi. «Assicuratevi che non perda troppo sangue. Vado a chiamare un apprendista di Nudin che si intenda di magia terapeutica e sia riposato. È sempre meglio di niente.» Mosse due passi verso la porta e si paralizzò. La sua pelle cambiò colore, tingendosi di un azzurro pallido dalla testa ai piedi. «Sabora?» Lot-Ionan tese la mano per toccarla. Il freddo gli congelò le dita, che rimasero incollate alla donna. La Taciturna si era tramutata in ghiaccio. «La Burrascosa giace pacifica sul pavimento, il Bello ha perduto la sua avvenenza, la Taciturna è muta per sempre», affermò la voce gracchiante di Nudin alle sue spalle. «Che cosa ne sarà del Paziente?» Nudin?! Lot-Ionan si staccò con violenza dalla maga. Brandelli di pelle rimasero attaccati alla carne congelata di Sabora e lo stregone strillò.
Veder morire così la sua cara amica gli infuse una rabbia incredibile. «Nemmeno tu sfuggirai alla morte!» Voltandosi con un incantesimo terribile sulle labbra, fissò il traditore, che era in piedi lì davanti con la veste imbrattata di sangue, il bastone spianato contro di lui. La profonda ferita infertagli dalla spada di Andôkai era scomparsa, e solo il tessuto strappato testimoniava l'attacco subito. Prima che Lot-Ionan riuscisse a fare qualcosa, forze misteriose gli immobilizzarono il corpo. Le sue membra divennero sempre più fredde, il gelo lo assalì, la sua pelle si tese al punto che il dolore gli rigò le guance di lacrime. Soltanto gli occhi riuscivano ancora a muoversi. «Nudin, non ti rendi conto che la Terra Estinta ti controlla?» Maira fece per alzarsi, ma scivolò sui frammenti di malachite. Nudin non indugiò. Ordinò alle schegge sparse sul pavimento di tramutarsi in spine di diversa lunghezza, poi lanciò un incantesimo contro la maga. La Guardiana respinse il lampo nero, ma cadde tra i frammenti. Le punte acuminate le lacerarono i vestiti e la pelle delicata, penetrando nella sua carne e ferendola gravemente. «Nudin! Ti supplico...» ansimò con foga. «Nessuno mi supplica!» Torreggiando sopra di lei con le gambe divaricate, il mago strinse il bastone con entrambe le mani e prese a picchiarla. L'onice nera le colpì il viso, lampeggiando. Maira lanciò un urlo lacerante. «E neppure io supplicherò più qualcuno!» La percosse sulla testa come un folle finché il cranio le esplose con fragore e non rimase più nulla del suo volto, un tempo così dignitoso. Ansando, Nudin si raddrizzò, il trionfo che gli brillava negli occhi dementi. Si guardò intorno, osservando i cadaveri. «È colpa vostra», gridò con rabbia, quasi per giustificarsi. «È stata la vostra decisione a condurvi alla morte.» Tastandosi la faccia, si accorse del sangue rappreso e, disgustato, si pulì con la veste. «Non io», aggiunse a voce un poco più bassa, «non io.» Non potendo fare altro, Lot-Ionan piangeva in preda alla disperazione. Erano stati traditi e annientati da un uomo che un tempo consideravano un amico. Nudin si calmò. Accasciatosi su una sedia, rovesciò il capo e scrutò le stelle. «Sono Nôd'onn il Duplice», disse ai puntini luccicanti. «Nudin il Sapiente non esiste più, è sparito con gli altri Cinque del consiglio e non tornerà.» Le sue mani si serrarono intorno al bastone. «Sono insieme due e
uno», bisbigliò, assorto nei suoi pensieri, prima di alzarsi con goffaggine e avviarsi verso l'uscita. Lot-Ionan lo seguì con lo sguardo. «Morirai sicuramente, mio vecchio e bugiardo amico», profetizzò Nudin, oltrepassandolo. «Ben presto la pietrificazione sarà completata e ti trasformerai in una statua.» Concentrò su di lui gli occhi arrossati, che apparivano stanchi e delusi. «Avresti dovuto schierarti dalla mia parte e non con quel traditore di Turgur. Ma in nome dei vecchi tempi ti prometto che ti collocherò in una bella posizione», concluse. Le sue dita grassocce si posarono su Lot-Ionan. Cingendolo con le braccia, lo ruotò un poco, in modo che potesse vedere Sabora. «Guardala mentre ti consumi, e muori con la consapevolezza che lei ti seguirà tra breve. Stammi bene. Devo apprestarmi a salvare il nostro Paese. Da solo, dato che voialtri mi avete piantato in asso.» Di lì a poco uscì dal campo visivo di Lot-Ionan, e le porte si chiusero con un gran baccano. Lo stregone rimase solo con i morti, la cui vista gli straziava l'anima; soprattutto il corpo congelato di Sabora gli faceva perdere la ragione. Dei, volete forse assistere al declino della Terra Nascosta? Se non è così, vi imploro di fare qualcosa! L'ira, l'odio, la tristezza e lo sconforto si accumularono nella sua anima, e la disperazione alimentò le sue lacrime. Alla fine, la magia si dimostrò compassionevole. Le ultime lacrime gli si solidificarono sulla pelle di marmo come segno della sua angoscia, la respirazione cessò e il cuore si fece di pietra. La morte impedì al Paziente di vedere Sabora che si liquefaceva sotto l'inclemente sole estivo del giorno dopo. Quella scena sarebbe infatti stata sufficiente a ucciderlo. Quando tutto tacque, un gigantesco guerriero entrò da una finestra e, dopo avere scavalcato i morti, si inginocchiò accanto alle spoglie immobili di Andôkai. Il suo grido assordante e disumano riecheggiò nel palazzo.
Terra Nascosta, regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, inizio dell'estate Tungdil avanzava spedito. I suoi stivali percorrevano un miglio dopo l'altro mentre si spostava inarrestabile verso nord-ovest avvicinandosi alla Selva Verde. La strada più breve che conduceva alla sua nuova meta attraversava il Lios Nudin, l'area governata da Nudin il Sapiente. L'idea di approssimarsi sempre più al fronte della Terra Estinta non gli piaceva affatto. Il lato settentrionale del regno incantato confinava direttamente con la sua estremità meridionale; la Selva, tuttavia, distava ben centodieci miglia da lì. Se un giorno i maghi non fossero più stati i sovrani di quella regione, Gorén avrebbe dovuto rassegnarsi ad abbandonare il bosco. Poco oltre il Giogonero incappò in un distaccamento di messaggeri. Affinché Lot-Ionan non stesse in pensiero per lui chiedendosi dove fosse finito, Tungdil gli scrisse un'altra breve lettera in cui spiegò che cosa gli era capitato fino a quel momento e dove era diretto. La spedizione gli costò le sue ultime amate monete d'oro. Il tempo era clemente. Il sole splendeva tiepido e benevolo nel cielo, e il vento mitigava la calura. Quando la temperatura saliva, comunque, il nano si riparava all'ombra di un albero e aspettava il tardo pomeriggio. Le sue gambe si erano irrobustite e la cotta di maglia era diventata leggerissima. Il viaggio aveva dunque i suoi vantaggi. A Tungdil non piacque molto il Lios Nudin. L'area era piuttosto pianeggiante e gli abitanti del regno incantato usavano l'eufemismo «altopiano» per designare le sue dolci colline. Vi erano poi prati e campi a perdita d'occhio, costellati di vacche e soprattutto di pecore, che brucavano sotto l'attenta vigilanza dei cani. I pochi boschi erano radi ma antichissimi. Sembrava che gli alberi dovessero vivere in eterno là dove in tempi remoti avevano affondato le radici. Il Lios Nudin non ospitava nessuna grande città. A parte la capitale, che Tungdil scorse in lontananza da sud, vi erano soltanto Lamtasar e Seinach, in cui abitavano oltre trentamila persone. I numerosi villaggi e fattorie gli consentirono di lavorare occasionalmente come fabbro per aggiungere alle sue provviste il pane, il formaggio e il lardo affumicato con cui la gente pagava i suoi servigi. Non poteva certo pretendere oro da quegli umili contadini. Da quattro rotazioni percorreva la strada provinciale che si snodava
verso ovest. Appena attraversato il confine, si sarebbe trovato di nuovo nel Gauragar e avrebbe dovuto proseguire di sbieco verso nord per raggiungere Grünhain. Spero che nel frattempo Gorén non abbia litigato con la sua elfa e non si sia trasferito altrove. Negli incubi notturni sognava di trascorrere il resto della vita a inseguire l'ex apprendista di Lot-Ionan per restituirgli quei maledetti oggetti. In compenso stava facendo molte nuove esperienze e si era persino abituato alla vita in superficie. I ricordi dell'aggressione dei mezz'orchi, che ormai risalivano a diverse settimane prima, avevano perso a poco a poco il loro carattere spaventoso. Tungdil amava ascoltare le storie dei contadini, respirare i profumi della campagna e sentire i differenti dialetti degli uomini. La Terra Nascosta lo stupiva ogni giorno con la sua varietà. Nelle ore di solitudine, il nano aveva nostalgia della galleria, della sua estensione limitata, dei corridoi protetti e delle stanze dal soffitto basso. I libri gli mancavano quanto le conversazioni con gli apprendisti di grado più modesto e le chiacchierate con Sunja e Frala, il cui fazzoletto gli pendeva ancora dalla cintura. Intanto non aveva abbandonato la speranza che il suo popolo lo identificasse come il nano smarrito e rispondesse al suo padre adottivo. Ci pensava ogni giorno, pregando Vraccas che i suoi simili volessero incontrarlo. Nel pomeriggio la vegetazione si infittì; alberi sempre più numerosi si protendevano verso il cielo, formando una foresta luminosa e ospitale. Si stava avvicinando alla sua destinazione: Grünhain era ormai a un tiro di schioppo. Secondo la mappa, si trovava cinquanta miglia a ovest del Lios Nudin e cento miglia a sud-ovest del confine della Terra Nascosta, dunque in una zona sicura. Si sarebbe stupito di incontrare dei mezz'orchi laggiù. In quell'istante, nel bosco, un ramo si spezzò. Conoscendo ormai bene i rumori della natura, Tungdil sapeva che un simile schiocco non poteva essere stato causato da un ramoscello: qualcosa di pesante aveva rotto un grosso ramo. Afferrando il manico dell'ascia, scrutò nella direzione da cui era arrivato il suono. Si udì un altro schiocco. «Ehilà!» La sua voce tonante spaventò il capriolo che cercava dell'erba tenera tra
gli alberi. L'animale balzò via, e il nano ne scorse il posteriore candido che saltellava su e giù prima di scomparire dietro un tronco. Sollevato, rise. Che cos'altro poteva essere? Vagando per il bosco, Tungdil ebbe la sensazione che la quiete e l'armonia si impossessassero di lui. Gli alberi sembravano emanare una pace che lo pervase; il cinguettio degli uccelli pareva più vivace, più gioioso di prima. Gli animali lo salutavano come si accoglie un amico partito per un lungo viaggio tanto tempo prima. La strada fangosa e polverosa si trasformò in un nastro coperto di erba verde che si insinuava dolcemente tra le radure. Le sue suole calpestavano un terreno cedevole e morbido, davvero invitante. Persino l'opprimente calura estiva, che negli ultimi giorni gli aveva reso la vita difficile, era sopportabile all'ombra del luminoso baldacchino di foglie. Una lieve brezza portava via l'afa, e marciare gli riusciva più facile che mai. Poiché gli schianti divennero più frequenti, Tungdil si abituò ai rumori della Selva. Vide cervi, caprioli e cinghiali che correvano a rifugiarsi tra gli alberi al suo passaggio. Il bosco brulicava di animali che sembravano percepire l'atmosfera della foresta e gioirne quanto lui. Mi presenterò all'Orecchia appuntita con atteggiamento contegnoso e riverente, pensò. Il popolo dei nani e quello degli elfi si odiavano, ma personalmente Tungdil non intendeva odiare chi non gli aveva fatto nulla di male. Voglio vedere come mi accoglierà. Si spezzò un altro ramo. A giudicare dall'intensità del rumore, di lì a poco si sarebbe ritrovato davanti a un cervo fiero e avrebbe potuto ammirarne le corna. Altri tronchi sottili si ruppero, alcuni ramoscelli schioccarono, quindi risuonò un'imprecazione. Nella lingua dei mezz'orchi! La tranquillità della Selva si frantumò come un vetro fragile sotto la violenza di un martello da fabbro. Tungdil avvertì un penetrante tanfo di sudore e grasso rancido. Fino a poco prima si era creduto al sicuro, e ora i mezz'orchi sbucavano tra i cespugli e volevano farlo a fettine. Un Pelleverde particolarmente sgradevole gli tagliò la strada. Era armato fino alle zanne sporgenti ed era grande quasi il doppio di lui. «Maledetta vegetazione! Bruciamo tutta questa sterpaglia, così avanzeremo più spediti.» Il mostro scostò un ramo dall'armatura con un gesto rabbioso, continuando a non accorgersi del nano. I suoi accompagnatori, che spuntarono tra gli alberi alle sue spalle, furono più attenti. «Ehi, Frushgnar! Davanti a te!»
Il breve avvertimento indusse il cranio spigoloso a girarsi. La bocca enorme si aprì in un inquietante ruggito. I minuscoli occhi infossati si soffermarono su Tungdil, scintillando. «Un Cavernicolo! Proprio al momento giusto», sbraitò il mezz'orco, sguainando la spada dentellata. «Stavo per dire la stessa cosa di te.» Quando il nano si guardò sopra la spalla, impallidì. Le bestie che strisciavano fuori dal bosco erano sempre più numerose, e smise di contarle quando arrivò a trenta. Questa volta lo scontro era inevitabile. Voleva resistere ai mezz'orchi e cadere come un figlio del Fabbro. Forse sarebbe riuscito a compiere la prodezza di ucciderne almeno uno, comparendo così al cospetto di Vraccas come un nano degno di tale nome. La volontà prevalse. «Ma giacché siete qui, devo ammazzarvi.» «Tu e quale esercito?» chiese la creatura, beffarda. Tungdil lasciò scivolare i sacchi tra l'erba. L'idea di fallire quando era così vicino alla meta lo irritava, e questo gli infuse energie incredibili. «Non mi serve un esercito. Mi basta la mia ascia.» Più fiutava il loro puzzo e più sentiva intensificarsi l'odio innato del suo popolo verso quei mostri. Rivide Gutenauen rasa al suolo e piena di cadaveri. Mise a tacere la parte evoluta della sua mente, e con un grido di battaglia si avventò contro il primo mezz'orco. La bestia bloccò il fendente con lo scudo, grugnì sprezzante e gli si parò davanti. «Invece un esercito ti farebbe comodo», rise con voce stridula prima di lanciarsi all'inseguimento. Il nano barcollò all'indietro, urtando un albero. Schivò appena in tempo la spada dell'avversario, che mancò di poco la sua testa e andò a conficcarsi nel tronco. Tungdil vide la coscia grassa e scoperta proprio davanti a sé e la colpì senza indugio. L'ascia penetrò nella gamba, aprendovi una profonda ferita, e il sangue verde scuro prese a scorrere verso il ginocchio. «Beccati questa!» Dimenticando la spada, il mezz'orco sguainò un pugnale per trucidare il nano. La lama rimbalzò contro la cotta di maglia, ma la violenza del colpo bastò a fargli perdere l'equilibrio. Tungdil tentò di restare in piedi, ma incespicò nei sacchi e cadde supino. Maledizione! «Chiama il tuo esercito, con te ho quasi finito.» La bestia lanciò il lungo coltello nella sua direzione, ma sbagliò mira. Per colmo di sventura, Tungdil si impigliò tra le cinghie dello zaino e cercò di liberarsi mentre il nemico estraeva la spada dall'albero.
Il mezz'orco avanzò zoppicando. Quando lanciò l'arma sbuffando di collera, quella tagliò l'aria con un sibilo. Il nano si girò sul fianco. Il sacco con gli oggetti gli rimase attaccato di sbieco sulla schiena, proprio dove la lama del mostro lo centrò. Gli averi di Gorén attutirono il colpo, ma vari scricchiolii segnalarono a Tungdil che almeno uno degli oggetti non sarebbe arrivato sano e salvo a Grünhain. Sempre che Tungdil riuscisse a portarli a destinazione. La sua ira si riaccese. «Hai cantato vittoria troppo presto!» Rotolandosi, scagliò l'ascia, che penetrò per due terzi nel polpaccio destro della bestia. «Ecco fatto!» Il mezz'orco si piegò con un gemito e cadde tra l'erba accanto al nano. Dopo essere strisciato via e balzato in piedi, Tungdil si accanì contro il nemico fino a rompergli l'osso del collo. Aveva ucciso una delle creature di Tion. Si augurava che Vraccas fosse soddisfatto, perché non poteva pretendere di più da lui. Altri trenta mostri corsero nella sua direzione. Erano troppi per riuscire a sconfiggerli. Me ne porterò dietro un altro. Tungdil chinò il capo, stringendo l'ascia con entrambe le mani. Era così che dovevano essersi sentiti i suoi antenati quando le orde si erano gettate contro la Porta di Pietra. Avrebbe condiviso il loro destino e sarebbe caduto con onore. Quando i primi avversari furono a dieci passi da lui, riecheggiò il suono di un corno, squillante e imperioso. Si udirono quindi schianti e tintinnii, l'acciaio cozzò contro l'acciaio, e i mezz'orchi morirono ruggendo. Tungdil aveva ricevuto un aiuto insperato e provava un'immensa gratitudine per chiunque avesse disperso i mostri. «Non è solo! Presto, portatemi la loro carne», ordinò il comandante dei mezz'orchi. I primi Pelleverde fecero subito dietrofront e si scagliarono contro i nuovi nemici, che si erano materializzati all'estremità del loro branco. L'elfa mi ha mandato i suoi guerrieri, ipotizzò Tungdil. Non resterò a guardare senza fare nulla. Trottando dietro le bestie, prese la rincorsa per colpirne una dietro il ginocchio. La creatura cadde come un albero abbattuto. «Un altro in meno!» rise Tungdil, furibondo. Un mezz'orco si apprestò ad aggredirlo mentre il resto dell'orda formava uno schieramento compatto intorno ai guerrieri dell'elfa, togliendo la visuale al nano.
Quest'ultimo si rese conto ben presto che i suoi due successi inattesi l'avevano reso troppo audace. Il suo terzo avversario non ricorse ad alcun giochetto, ma lo assalì imperterrito con una spadona. Dopo cinque violenti colpi, Tungdil si trovò in difficoltà. Un poderoso fendente gli strappò di mano l'ascia, che capitombolò tra l'erba. Non sapendo che cos'altro fare, allungò la mano verso il coltello. «Fatti sotto!» «Volentieri!» Il mezz'orco lanciò un urlo di gioia. «Quello, lo uso per togliermi la tua carne dai denti, Cavernicolo», ringhiò, preparandosi all'attacco.
Terra Nascosta, regno di Urgon, 6234° ciclo solare, inizio dell'estate «Un esercito comune?» chiese Lotario, il sovrano dell'Urgon, ridendo forte. Il giovane, che aveva solo ventuno cicli, si allontanò dalla fronte i lunghi capelli biondi e fece segno a un servitore di portargli dell'acqua fresca. «Contro la Terra Estinta?» Re Tilogorn, un uomo di circa quaranta rotazioni con i capelli castani che gli arrivavano alle spalle e il viso serio e scarno, annuì. Si era recato fino al palazzo di Lotario per suggellare un'alleanza tra i monarchi. Da ben quattro ore cercava di convincere il suo interlocutore in quella stanza tetra, e mentre fuori il sole si spostava sopra le montagne dell'Urgon e tramontava dietro le loro cime, ebbe l'impressione di non aver fatto alcun progresso. «Si mormora che le barriere magiche non tengano più. E se crolleranno, dovremo essere pronti a un'aggressione di mezz'orchi come non ne abbiamo mai subite finora.» Tilogorn indicò la carta della Terra Nascosta. «I sette regni devono unirsi, e se Voi mi appoggerete, sarà più facile persuadere le regine Umilante, Wey e Isika, come pure i re Bruron e Nate.» Lotario bevve un sorso, fissando Tilogorn da sopra il bordo del bicchiere. «Dite sul serio?» «Altroché», rispose l'altro. «Se uniremo le forze sopravvivremo, ne sono certo.» «Non dovremmo affidarci al potere dei maghi prima di...» «I maghi faranno la loro parte, noi allestiremo le truppe», lo interruppe Tilogorn. «Ho mandato un messaggero nel Lios Nudili per concordare un incontro con il consiglio. Dovrebbe tornare presto.» «Credete che gli stregoni si abbasseranno a parlare con noi mortali? Andôkai la Burrascosa occupa una parte dei miei domini, ma non si è ancora degnata di presentarsi al mio cospetto.» Tilogorn rise. «Andôkai è una maga straordinaria da cui è meglio stare alla larga. Benché gli stregoni si facciano vedere di rado e non si immischino quasi mai nelle nostre faccende, in questo caso faranno un'eccezione, ne sono sicuro. Sono consapevoli della loro responsabilità.» Lotario guardò la carta ed esaminò i confini della Terra Estinta, che per lui non rappresentavano ancora una minaccia. «Non so. Nel mio regno fila tutto liscio...»
«Ma ancora per quanto, signore?» insistette Tilogorn, sforzandosi di assumere un tono conciliante. «Senza dubbio il vostro montuoso Paese è più facile da difendere del piatto Gauragar o dell'Idoslân, ma i mezz'orchi, gli albi e tutte le altre creature della Terra Estinta non si lasceranno fermare ancora per molto.» «Le butterò giù dalle mie vette con le loro pesanti armature, oppure le annegherò nei miei laghi», obiettò Lotario con la consueta arroganza. «I miei soldati sono esperti, combattiamo ogni giorno contro i troll sbandati che vivono tra i monti. Un solo uomo basta a proteggere i miei sentieri da un centinaio di quei mostri.» «Non paragonate gli albi agli ingenui troll. Una freccia ben mirata, e il vostro uomo è morto, ricordatelo. I loro rinforzi, che giungono dal Nord, sono inesauribili. I vostri militari, invece, si ridurranno sempre più.» Tilogorn indicò quelli che un tempo erano regni elfici. «Si sono ostinati tutti a lottare da soli e sono stati sconfitti. Questo non dovrebbe essere un monito per noi? Un esercito enorme, che sia in grado di tenere testa ai mostri, ecco cosa ci occorre!» «E le forze della Terra Estinta? I morti insorgeranno in suo nome.» «Questa voce è giunta anche alle mie orecchie, perciò ho pensato che potremmo bruciare subito i cadaveri affinché non tornino sotto forma di creature senz'anima. Metteremo insieme reparti incaricati di presidiare le retrovie e di occuparsi dei caduti.» Quella domanda segnalò a Tilogorn che Lotario si sarebbe lasciato persuadere. «Sono il Vostro unico alleato, signore?» «Sarò io a guidare l'esercito», dichiarò Lotario senza alcuna esitazione. «Ci divideremo il compito», protestò il re dell'Idoslân. «Trarremo vantaggi reciproci dalla rispettiva esperienza. Inoltre, i miei uomini non seguirebbero un comandante più giovane di loro.» Gli tese la mano. «Siamo d'accordo?» Lotario non riuscì a trattenere una risata. «Va bene. Allestiremo un esercito che la Terra Nascosta ha visto di rado. Così potremo invadere lo Dsôn Balsur e cacciare gli albi oltre la Porta di Pietra oppure annientarli del tutto, il che sarebbe la cosa migliore», affermò con entusiasmo. «Poi verrà il turno dei mezz'orchi, e trasformeremo i nostri regni in territori pacifici e sicuri. A essere sincero, non vedo l'ora.» Strinse la mano a Tilogorn, ma un attimo dopo il suo viso assunse un'espressione preoccupata. «C'è ancora una cosa che dovete sapere. Ricordate il principe Mallen von Ido?»
Tilogorn sospirò. «Chi potrebbe dimenticare l'ultimo rampollo della schiatta degli Ido? Ho sentito dire che vive nei vostri possedimenti.» «Per essere precisi, comanda le mie truppe», lo corresse Lotario. «Ma lo congederò dal mio servizio appena marceremo contro i mezz'orchi nel vostro Paese. Non voglio essere ritenuto responsabile di sanguinosi contrattempi per avere reintrodotto con un pretesto l'ultimo degli Ido nell'Idoslân.» Non era una notizia molto piacevole. «Temo che lo scompiglio si diffonderà nell'esercito prima di allora. Mallen ha senz'altro dei seguaci tra le file dei militari.» Lotario sorseggiò l'acqua. «In fondo è un tipo ragionevole. Credete che sareste capace di convincerlo come avete fatto con me?» Prima che Tilogorn potesse rispondere, Lotario si alzò e si diresse verso l'uscita. «Lo faccio chiamare. Se persuaderete lui, avrete buon gioco sui sovrani della Terra Nascosta.» Scomparve. Il suo ospite si chinò a studiare la mappa. «Saluto il sovrano dell'Idoslân», disse una voce tagliente. «Chi avrebbe mai pensato che noi due avremmo combattuto fianco a fianco? È quella che definisco l'ironia della sorte.» Voltandosi, Tilogorn vide il viso anonimo di un uomo sui trenta cicli che era entrato insieme a Lotario. La raffinata armatura con lo stemma degli Ido ne tradiva la ricchezza, pur non essendo all'ultima moda. «Il principe Mallen von Ido?» chiese Tilogorn, così meravigliato da dimenticare di salutarlo. «Vi ricordavo diverso.» «Tuttavia, riconoscete ancora il sigillo del casato cui spetta in realtà il trono del vostro Paese, re Tilogorn?» lo rimbeccò Mallen, sarcastico. «State comodo sul mio cuscino?» «Grazie dell'interessamento, principe Mallen. Le vostre manovre non sono riuscite a scalzarmi. Il popolo ama la mia famiglia più di quanto amasse il casato degli Ido», replicò Tilogorn, spiccio. «Ho appreso che militate nell'esercito dell'Urgon.» «Devo pur fare qualcosa per guadagnarmi il pane durante l'esilio.» «Voi Ido siete sempre stati bravi a combattere. Per lo più contro voi stessi. Alla fine, i conflitti familiari e le sofferenze del popolo sono costati alla vostra stirpe il controllo del regno.» Si morse le labbra. Simili frecciate non l'avrebbero aiutato a convincere Mallen. «Mi rincresce, volevo...» «Oh, per favore, re Tilogorn. Non iniziate a propinarmi lezioni di
storia», lo interruppe il principe in tono condiscendente prima di piazzarglisi davanti. «Ma discuterò volentieri con voi di come potrò fare ritorno con onore nella mia nazione e dare un contributo al suo benessere.» «Se volete dare un contributo, mettete una pietra sopra la rivalità tra le nostre famiglie finché avremo salvato la Terra Nascosta dalla minaccia incombente», asserì Tilogorn, supplichevole. «Mi scuso per le dure parole di poco fa», ritentò. «Vi scusate, dunque.» L'espressione di Mallen restò diffidente. «Ora, su una cosa avete ragione. L'Idoslân non ci guadagnerà nulla se saranno i mezz'orchi o la Terra Estinta a governarlo. Ci ho riflettuto più di una volta.» Guardò la carta. «Per quanto possa sembrare strano, aderisco alla vostra offerta di pace se in cambio mi consentite di accedere all'Idoslân in qualsiasi momento.» Tilogorn esitò. «Voglio solo rivedere la mia patria e i pochi amici e parenti che vi risiedono», spiegò l'Ido con calma. «Per ora i dissidi sono dimenticati, lo giuro su Palandiell, re Tilogorn.» Questa volta il monarca gli tese la mano. «Presterò fede alle vostre parole perché leggo nei vostri occhi la preoccupazione per la Terra Nascosta.» «Non vi ho promesso la mia amicizia, non fraintendetemi», lo avvertì Mallen con schiettezza. «Solo gli dei sanno che cosa accadrà tra noi dopo la guerra contro le orde, ma ora non è a questo che dobbiamo pensare.» Lotario, che fino ad allora si era tenuto volutamente in disparte, prese la parola. «Ebbene, mi sembra che la ragionevolezza abbia trionfato. Propongo quindi di comunicare le nostre intenzioni agli altri sovrani per riunire le truppe al più presto.» Li scortò personalmente attraverso i corridoi del suo palazzo. Tilogorn si girò per scrutare i volti dei due uomini. Lotario pareva attendere con impazienza lo scontro imminente; la faccia imperturbabile di Mallen non lasciava trapelare alcun sentimento, a parte l'inquietudine. A un tratto lo scalpiccio dei loro stivali riecheggiò cadenzato sul duro pavimento di marmo. «Lo sentite?» domandò Tilogorn. «Strano che regni confinanti ma divisi come non mai si prefiggano il medesimo scopo e si comportino come un unico Paese solo davanti al pericolo.» «È troppo tardi per rimpiangere il passato», commentò il sovrano
dell'Urgon. «Che il nostro comportamento sia di esempio per gli altri. Chi è dotato di buonsenso ci seguirà.» Tilogorn assentì. «Ben detto, re Lotario. È fuor di dubbio che abbiamo dimostrato buonsenso», concluse, rivolgendo un cenno del capo a Mallen.
VI Terra Nascosta, regno di Gauragar, 6234° ciclo solare, inizio dell'estate «Vieni, vieni, bel porcellino», urlò qualcuno con entusiasmo nella lingua dei nani. «Avvicinati, così potrò sgozzarti!» Un'ombra tarchiata sgusciò tra le gambe del mostro, quindi due scuri dal manico corto guizzarono verso l'alto e penetrarono a fondo nelle interiora non protette del mezz'orco. Ridendo, l'ometto estrasse le armi dal corpo del nemico, spiccò un balzo da acrobata nonostante la cotta di maglia e colpì di nuovo. Le lame centrarono il mostro piegato in avanti su entrambi i lati del collo. Decapitata per due terzi, la bestia crollò a terra. «Per la barba di Beroïn, come hai potuto farti strappare l'ascia dalle dita?» chiese lo sconosciuto a Tungdil in tono di rimprovero. «Sei... un nano?» ansimò quest'ultimo, sbalordito, mentre si alzava. «Che cos'altro potrei essere? Sembro forse un elfo?» Chinatosi, raccolse l'arma e la gettò a Tungdil. «Prendila, e questa volta tienila ben stretta. Avremo tempo più tardi per chiacchierare.» Con una risata furibonda, si lanciò nella violenta battaglia. Sul sentiero, oltre al suo salvatore, Tungdil notò un secondo nano che, a parte l'acconciatura, era identico al primo fin nei minimi dettagli dell'armatura e dell'aspetto fisico. Combatteva intrepido con un'azza di ferro, una sorta di martello da guerra con una penna lunga quanto un avambraccio. «Così volete ucciderci? Ma siete troppo pochi!» Il suo protettore schernì i mezz'orchi con voce tonante. «A giudicare da quanto siete brutti, la vostra orrenda madre dev'essersi concessa a un elfo», aggiunse per provocare l'orda. «A un elfo rognoso, senza orecchie e con una gamba sola! E per giunta le è piaciuto!» Non appena una bestia balzò in avanti grugnendo, le scuri del nano lampeggiarono, abbattendola. «Venite, potete provarci anche voialtri!» Suo fratello rinunciò agli schiamazzi, ma infierì metodicamente sugli aggressori, fracassando membra e trapassando corpi. Sotto i loro fendenti, il numero dei mezz'orchi si era ridotto a quattro, mentre gli altri giacevano morti tutt'intorno e impregnavano di sangue la terra della Selva. Quando gli ultimi mostri optarono per un'offensiva contemporanea, i due gemelli si misero schiena contro schiena.
«Perbacco, dobbiamo girare!» gridò il salvatore di Tungdil con una luce folle negli occhi. Anziché aspettare che le bestie avanzassero, si lanciarono all'attacco, ruotando intorno al proprio asse come le figurine di un carillon e usando la loro lingua per scambiarsi istruzioni sugli spostamenti necessari. Quella tecnica insolita garantì loro una rapida vittoria sui nemici. L'ultimo colpo fu accompagnato da una risata fragorosa e da un maligno: «Bene, bene». Tungdil provò un'enorme ammirazione. I due nani avevano sterminato l'intera orda senza riportare neppure un graffio. Restò sul sentiero come fulminato, accorgendosi solo allora di essersi trasformato in uno spettatore. «Che il fuoco vitale della fucina di Vraccas arda sempre in te», lo salutò il secondo nano. «Io sono Boëndal Manouncinata del clan dei Branditori d'ascia, della stirpe del Secondo, e questo è mio fratello Boïndil Duelame, chiamato anche il Rabbioso», si presentò, e i suoi occhi scuri scrutarono Tungdil con cordialità. «Già. Non sembra in grado di reggere il confronto con diversi Musi di porco», interloquì suo fratello, ridendo di cuore. «Aveva il suo bel daffare già con uno. Oppure volevi strozzare quelle bestiacce a mani nude? È per questo che avevi gettato via l'ascia?» «Voi signori siete arrivati proprio al momento giusto», osservò Tungdil, socchiudendo gli occhi. Nello sguardo di Boïndil c'era qualcosa che lo irritava; forse era quel brillio singolare, la luce fanatica che aveva notato già prima. La imputò alla tensione del combattimento. «Lascia perdere il "voi"», affermò l'altro, ammiccando. «Noi nani preferiamo il semplice "tu" perché Vraccas ci ha fatti tutti della stessa pietra.» «Bene, lo terrò a mente. Vi devo la vita», disse Tungdil, insieme commosso e contento, perché si era imbattuto in due rappresentati del suo popolo per la prima volta da quando era partito. Avrebbe voluto porre loro mille e più domande. Boëndal scrollò il capo, e la lunga treccia gli si agitò sulla schiena come un grasso serpente nero. «Non devi ringraziarci, noi soccorriamo tutti i nani.» «E poi, se si tratta di un membro della stirpe dei Terzi, gliele suoniamo di santa ragione», ansimò Boïndil, ripulendo le scuri dal sangue e dagli altri liquidi corporei dei suoi avversari tra l'erba alta. «Abbiamo impiegato parecchio tempo per trovarti.» Boëndal esitò. «Se
sei Tungdil Bolofar...» «Bolofar, che razza di nome», borbottò suo fratello. «È una di quelle sciocchezze magiche? Ti protegge forse da qualcosa?» La sorpresa traspariva dal volto di Tungdil. «Sì, sono Tungdil», ammise titubante. «Come fate a...» «Allora dimmi come si chiama il tuo padrone e dove sei diretto.» «Si chiama Lot-Ionan il Paziente e, per quanto vi sia grato, la mia destinazione non vi riguarda», rispose Tungdil con fare scontroso. «Non vi conosco ancora così bene da confidarvi i miei segreti.» Boïndil scoppiò in una sonora risata. «Be', questa sì che è una bella risposta, anche se parla come un erudito.» Gli posò la mano sulla spalla. «Sappiamo che devi andare da Gorén, ce l'ha riferito il tuo padrone. Era una prova per essere sicuri di avere rintracciato il nano giusto.» «Il nano giusto?» chiese Tungdil. «Non capisco...» Poi si ricordò della lettera che Lot-Ionan aveva spedito alla stirpe del Secondo. «Ma certo! La mia stirpe vuole vedermi!» esclamò. «Ma come mai la scorta? Per via dei mezz'orchi?» «Ci interessa di più condurti velocemente nel nostro regno. L'imperatore Gundrabur ci manda a prenderti e ad accompagnarti», spiegò Boëndal, ripulendo con cautela il lungo uncino dell'azza con un brandello di stoffa strappato dal farsetto di un mezz'orco. Suo fratello estrasse un panno impregnato d'olio e lo usò per lucidare le lame scintillanti delle scuri. «A dire il vero, bisognerebbe che qualcuno inviasse una scorta ai mezz'orchi per proteggerli da noi», sghignazzò. «L'imperatore», mormorò Tungdil con soggezione. «Che cosa ho fatto per meritarmi un simile onore?» «Ti porteremo fino alla fortezza di Orcomorto, dove sosterrai la tua candidatura davanti all'altro pretendente al trono.» Lo disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «L'altro... pretendente al trono?» ripeté Tungdil, incredulo, studiando le facce rugose dei gemelli. «Quale pretendente? E a quale trono? Che cosa c'entro io?» «Potremmo chiamarlo Tungdil l'Ignaro.» Boïndil scoppiò in una risata che si tramutò in un attacco di tosse. «Che qualcuno mi arrostisca un elfo! Il piccoletto non sa un bel niente», tuonò. «Ma allontaniamoci di un paio di passi dai Musi di porco, il loro tanfo mi dà il voltastomaco. Ci accamperemo a un miglio da qui, dove gli potremo spiegare ogni cosa, fratellino», suggerì a Boëndal.
Evidentemente non fu neppure sfiorato dall'idea che Tungdil potesse avere qualcosa da ridire, ma quest'ultimo, divorato dalla curiosità, non sollevò obiezioni. Il terzetto si rimise in marcia, quindi si fermò lontano dalla strada. «Non c'è niente di meglio di un pasto squisito dopo una vittoria.» Acceso il fuoco, Boïndil iniziò a scaldare del formaggio su un bastoncino. «E quando si perde una battaglia, si digiuna?» «No, in quel caso può darsi che non faccia alcuna differenza. Nella fucina eterna di Vraccas ci sono cibi deliziosi», rispose l'altro, girando lo spiedo. L'odore tolse il respiro a Tungdil. «Ho già sentito un fetore come questo: all'inizio del mio viaggio, quando i piedi mi puzzavano terribilmente dopo ventuno rotazioni negli stivali.» «Oh, fai lo schizzinoso?» lo canzonò Boïndil, imitandone il raccapriccio. «Questo è il miglior formaggio che esista nel regno dei nani. Forza, Boëndal, dagli qualcosa che aiuti il suo palato ad abituarsi al giusto sapore. Il lungo periodo trascorso tra gli uomini l'ha viziato.» Suo fratello affettò del pane e glielo porse con il formaggio e un po' di prosciutto. «Ti spiego tutto in poche parole. Gundrabur non vivrà ancora a lungo e il trono dovrà presto essere occupato da un nano della stirpe del Quarto. L'imperatore ha saputo della tua esistenza e del tuo segreto grazie alla lettera del mago.» «Ora non ho più alcun segreto», gemette Tungdil, che non era ancora riuscito a infilarsi in bocca il pezzo di formaggio. Troppa grazia, per carità. «È importante che tu lo sappia. Non sono stati i coboldi a portarti da Lot-Ionan. Il rapimento è stata una menzogna del Lungo...» «Del Lungo?» «È così che chiamiamo gli uomini in tono scherzoso. Per via della loro statura. Ma torniamo allo stregone. Voleva tenerti all'oscuro della verità finché fosse arrivato il momento giusto», continuò Boëndal, porgendogli una borraccia d'acqua. «Appartieni alla stirpe dei Quarti.» Tungdil ripensò alla mappa. «Non posso crederci. Il regno è troppo spostato verso nord.» «Ma c'è un motivo ben preciso», proseguì il nano con espressione seria. «Poiché eri il figlio illegittimo del re dei Quarti, è stato necessario occultarti. Subito dopo la nascita sei stato affidato a una famiglia di cari amici, che avrebbe dovuto prendersi cura di te. La regina ha appreso della
tua esistenza e ha ordinato la tua morte affinché tu, il bastardo, non potessi avanzare alcuna pretesa sul trono negli anni a venire.» «Lo vuoi ancora, il formaggio?» lo interruppe Boïndil. «Se aspetti ancora un po', cadrà tra le fiamme e andrà sprecato.» Gli porse il bastoncino senza parlare. «Grazie.» «La famiglia, impietosita, ha attraversato la Terra Nascosta e si è presentata al cospetto di Lot-Ionan», riprese Boëndal. «Hanno consegnato il neonato al mago per una semplice ragione: la regina non avrebbe mai immaginato che uno stregone potesse allevare un nano.» «Spero tu sappia che noi nani non teniamo in alcun conto la magia dei Lunghi», si immischiò Boïndil, sospettoso. «Taci!» lo zittì suo fratello. «Lasciami finire.» Si rivolse di nuovo a Tungdil. «Così, adesso sai perché sei cresciuto nello Ionandar, lontano da tutti i regni dei nani. Ora che abbiamo saputo di te, il consiglio delle stirpi ha il dovere di ascoltarti come secondo candidato alla carica di capo supremo dei nani.» Tungdil bevve un lungo sorso d'acqua. «Perdonami, ma non credo a una sola parola», farfugliò sconcertato. «Lot-Ionan mi avrebbe raccontato la verità da tempo.» «Voleva farlo quando fossi tornato dal tuo pellegrinaggio», replicò Boëndal, aprendo lo zaino e mostrandogli una lettera scritta nell'inconfondibile calligrafia del mago. «Ce l'ha consegnata perché prevedeva che non ti saresti fidato di noi.» Tungdil srotolò il foglio con dita tremanti e diede una scorsa alle righe. Era vero. Tutto quello che gli avevano riferito era vero. Volevo soltanto incontrare altri rappresentanti del mio popolo, e da un momento all'altro sono diventato il pretendente al trono di tutti i clan dei nani. «Non posso farlo», dichiarò con voce strozzata. «Vi accompagno volentieri, ma cedo il campo al mio rivale.» Rise con mestizia. «Come potrei regnare sulle stirpi? Ai loro occhi non sono nemmeno un vero nano. Nessuno mi tollererebbe e...» A un tratto il bastoncino con il formaggio maleodorante gli arrivò sotto il naso. «Smettila di piagnucolare», fece Boïndil, burbero. «La strada fino alla fortezza è lunga. Basterà per tramutarti in uno di noi.» Lo spiedo si agitò, incoraggiante. «Assaggialo», ordinò Boïndil, la scintilla fanatica che continuava a brillargli negli occhi. «Prima diventi un nano e meglio è.» Tungdil tolse il pezzetto di formaggio tiepido dallo stecco. Era disgustoso: quell'odore gli sarebbe rimasto sulle dita (e probabilmente
anche in bocca) per giorni. «No», ribadì, caparbio. «Devo portare gli oggetti a Gorén.» «Non ti ci vorrà molto per raggiungere il centro abitato di Grünhain. Aspetteremo finché ti sarai liberato del sacco», asserì il Rabbioso. Il suo gemello annuì. «Il tuo mago è al corrente. Ci ha autorizzati a condurti a Orcomorto.» «Che cosa accadrebbe se tornaste senza di me?» «Con molta probabilità Gandogar verrebbe eletto imperatore, ma l'accusa di non essere il sovrano legittimo gli rimarrebbe appiccicata addosso per sempre», rispose saggiamente Boëndal, incitando il fratello con un gesto. «Sì, esatto!» si intromise Boïndil. «Potrebbero nascere dei... malumori tra le stirpi. Alcuni... potrebbero mettere in dubbio la sua reggenza, le file dei nani si dividerebbero e...» Guardò le fiamme in cerca di aiuto, quindi si illuminò in volto. «Forse scoppierebbe una guerra tra i clan e all'interno delle stirpi. E sarebbe tutta colpa tua.» Pareva molto compiaciuto. Tungdil era confuso. Quella giornata era stata troppo ricca di avvenimenti. Aveva ucciso un mezz'orco per la prima volta in vita sua e, poco dopo, si era ritrovato con mezzo sedere adagiato sul trono imperiale. Doveva assolutamente riflettere. «Ho bisogno di un po' di tempo per pensarci su.» Stremato, si accoccolò accanto al fuoco e chiuse gli occhi. Dopo essersi schiarito la voce, Boïndil iniziò a cantare piano, intonando una melodia dei nani che esercitava un notevole fascino e narrava della notte dei tempi... Gli dei nacquero perché così piacque loro. Uno sorse da una fiamma, dalla pietra liquida e dall'acciaio. Quello è Vraccas il Fabbro. Una si levò dalla terra. Quella è Palandiell la Feconda. Uno prese vita dai venti del mondo. Quello è Samusin il Celere. Una voleva essere distruttrice e creatrice quanto l'acqua. Quella è Elria la Caritatevole. Uno riunì in sé la luce e le tenebre. Quello è Tion l'Ermafrodito. Sono i Cinque... Tungdil non udì più nulla. Le parole della sua lingua, che sentiva pronunciare per la prima volta dalla bocca di un altro nano, lo cullarono tanto che si addormentò.
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Quando si svegliò, Tungdil decise di seguire i gemelli fino al regno dei Secondi, sebbene avesse ancora il tanfo pungente del formaggio nelle narici. La curiosità verso gli altri membri del suo popolo aveva avuto la meglio sulle sue riserve. «Perché lo sappiate, non ho alcuna intenzione di diventare imperatore», chiarì. «Vengo solo per scoprire qualcosa di più sulla mia famiglia.» «Come vuoi», acconsentì Boëndal, soddisfatto. «L'essenziale è che tu ci accompagni.» I due fratelli raccolsero la loro roba, e il gruppetto si incamminò di buon passo. «Dobbiamo raggiungere il centro abitato il più velocemente possibile per tornare ancor più velocemente alla fortezza. Ottocento miglia sono tante.» «Ti condurremo fino al confine del villaggio, o qualunque cosa l'elfa abbia costruito tra gli alberi», annunciò Boïndil, aspro. «Non vogliamo avere niente a che fare con l'Orecchia appuntita. È già abbastanza sgradevole dover attraversare una selva elfica.» Sputò sul primo cespuglio che gli capitò. «Ma non ti ha fatto niente.» Tungdil tastò con delicatezza il sacco. Pareva che un paio di oggetti non fossero più intatti; il fendente della spada non aveva certo giovato. Per quel gesto, il mostro si era meritato due volte la morte. «Ho percorso oltre seicento miglia attraverso il Gauragar e il Lios Nudin e sono sfuggito ai mezz'orchi avendo cura che nulla danneggiasse questi preziosi oggetti», sospirò. «A sole tre o quattro ore di cammino da Gorén, quella bestiaccia è sbucata fuori e li ha distrutti.» Sperava nella clemenza dell'ex apprendista di Lot-Ionan. Il guerriero, tuttavia, continuava a pensare all'elfa. «A me? No. Ma il suo popolo ha fatto qualcosa al popolo dei nani», replicò con collera. «Gli elfi e la loro superbia, potrei...» Poiché l'odio minacciava di sopraffarlo, lo sfogò estraendo le scuri e abbattendole con foga contro un giovane albero, che cadde sotto i suoi colpi. Boëndal, imperturbabile, posò i bagagli, si gettò la lunga treccia oltre la spalla e attese che l'accesso d'ira si placasse. «Ogni tanto gli succede. La fucina della sua vita arde più intensamente del solito e, quando sprigiona una scintilla, la rabbia diventa irrefrenabile», spiegò a un Tungdil esterrefatto. «Ecco perché l'abbiamo soprannominato il Rabbioso.» «La fucina della sua vita arde più intensamente?!» «Forse Vraccas sa a quale scopo. Se viene nella tua direzione in quello
stato d'animo, allontanati e non alzare l'arma», gli consigliò Boëndal. «La furia si calma subito dopo che il suo fuoco interiore si è consumato.» Il tronco si spaccò di lì a poco. «Ecco, ora va meglio. Maledetti elfi!» Senza fornire alcuna spiegazione per il suo comportamento, Boïndil pulì le lame dalla resina e dalle schegge prima di proseguire. «Dobbiamo ancora trovarti un altro nome», borbottò tra sé. «Bolofar è un po' come Lissemiff, Praddelquatsch o Blüffdümüff. Stupido, insensato e per nulla degno di un nano. Ci inventeremo qualcosa lungo il tragitto.» Guardò Tungdil. «Che cosa ti piace fare?» «Leggere...» «Leggere? Libri?» domandò Boëndal, divertito. «Sì, non avevamo faticato a intuirlo, signor Sapientone. Ma non ti farebbe molto onore se ti chiamassimo Sfogliapagine o Mangialibri.» «Il sapere è importante!» «Certo, è un enorme aiuto contro i mezz'orchi, come abbiamo avuto modo di constatare», lo punzecchiò l'altro. «Avresti potuto ucciderli con il verso giusto.» Boïndil ridusse gli occhi a fessure. «Comunque sia, non sei ancora un bravo guerriero. Ma hai le spalle larghe e le mani grosse, forse farai strada.» Tungdil sospirò. «Mi piace forgiare i metalli, e mi riesce anche bene.» «È una dote diffusa tra il nostro popolo.» Boëndal avrebbe voluto aggiungere qualcos'altro, ma si interruppe per fiutare l'aria con attenzione, imitato dal fratello. «Fumo», affermò allarmato. «E carne bruciata. Sembrerebbe che ci sia stato un attacco.» Estratte le scuri, Boïndil si lanciò in un trotto leggero. Gli altri due lo seguirono. Il sentiero descrisse una lieve curva prima che gli alberi si aprissero a ventaglio e rivelassero una radura dove fino a poco prima sorgevano delle case. L'elfa si era costruita un rifugio al centro dell'armonia della Selva Verde, rifugio che in gran parte era stato raso al suolo da un incendio. I resti lasciavano immaginare quanto fossero stati belli gli edifici a più piani. Si ergevano intorno ad alberi particolarmente maestosi; archi di legno intagliati, travi levigate con perizia e facciate impreziosite da motivi elfici, tra cui brillavano ancora alcune piastrine d'oro qua e là, si inserivano alla perfezione nell'ambiente circostante. Lo sfarzo, tuttavia, era stato distrutto da una forza bruta. I mezz'orchi avevano preceduto Tungdil ancora una volta. Il nano non percepì più la quiete e la serenità di prima. Grünhain era stata profanata. «Per Vraccas»,
gemette atterrito. «Dobbiamo controllare...» «... se qualche mezz'orco si aggira ancora nei paraggi», intervenne Boïndil, felice. «Be', i Nasi schiacciati gliel'hanno fatta vedere agli Orecchi appuntiti. Noi non avremmo saputo fare di meglio.» «Giusto», approvò Boëndal, del tutto impassibile, stringendo il manico dell'ascia. «Hanno fatto un bel lavoro.» La scena non impietosì particolarmente i gemelli, perché, essendo autentici figli del Fabbro, non provavano alcuna compassione per gli elfi. Tungdil nutriva sentimenti diversi. Vagò tra le ceneri scintillanti, sollevando un'asse qua e una trave là per cercare Gorén. Scoprì invece molti cadaveri, alcuni dei quali orribilmente mutilati. Quando il raccapriccio si mescolò ai ricordi di Gutenauen, indietreggiò e abbassò le palpebre, ma le immagini non scomparvero, e la sua fantasia le rese ancor più spaventose. Ricomponiti, ordinò a se stesso. Se Gorén è tra le vittime, come farò a riconoscerlo? E se è riuscito a fuggire, dov'è scappato? I suoi occhi si posarono sulla casa principale, ancora indenne per metà. Là dentro? «Ispezionate i dintorni», gridò. «Voglio appurare che cosa è successo a Gorén.» «Date le circostanze, posso anche entrare nel centro abitato», asserì Boïndil, allegro. «Magari ci imbattiamo in uno o due Musi di porco.» Mentre i gemelli lo seguivano nella radura ed esaminavano le rovine, Tungdil salì con prudenza la scala pericolante e mezzo bruciata dell'edificio principale; i gradini cigolarono sotto il suo peso, ma raggiunse sano e salvo la piattaforma annerita dalla fuliggine e accedette al primo piano. La casa pentagonale si innalzava intorno a un albero gigantesco; i corridoi che conducevano da una stanza all'altra erano aperti sulla parte rivolta verso il tronco, cosicché fosse possibile vederlo da tutti i lati. Piccoli ponti sospesi portavano ai rami più robusti, da cui pendevano tristemente i resti di lampioncini variopinti. Le prime foglie di grandi dimensioni si staccarono e volarono a terra, come se l'albero piangesse i morti con cui aveva vissuto a stretto contatto per tanti anni. Tungdil distolse lo sguardo dalle foglie cadenti e setacciò i locali senza imbattersi in alcun superstite. In compenso, nella biblioteca in gran parte risparmiata dalle fiamme trovò una busta sigillata con sopra il nome di Lot-Ionan e un oggetto incartato.
Il nano esitò. È una situazione d'emergenza, si disse, rompendo il sigillo, leggendo le righe e sospirando. Altre cose da consegnare! Nella missiva, Gorén ringraziava il mago per avergli consentito di consultare i volumi. Probabilmente li aveva preparati per affidarli a un messaggero. Quel messaggero era Tungdil. Il nano individuò anche un'altra lettera, scritta nell'incomprensibile linguaggio degli eruditi di grado più elevato; soltanto il mago avrebbe potuto decifrarne il testo. Infilato il nuovo carico nello zaino, continuò a cercare. La costruzione fu attraversata da un tremito. Cominciò con una leggera vibrazione che si intensificò fino a scuotere forte le travi. L'edificio protestò con cigolii e scricchiolii, quindi le scosse terminarono con la stessa rapidità con cui erano iniziate. Tungdil capì che sarebbe stato meglio andarsene. Uscì sul corridoio e rimase di stucco. L'albero aveva cambiato posizione e i rami spogli premevano contro i pilastri, come era facile intuire dal rumore. Il tronco rigido si inclinò gemendo verso sinistra e un ramo nodoso oscillò nella sua direzione. «Che cosa significa tutto questo?! È stato Boïndil a tagliare il giovane albero, non io!» Ma quel dettaglio non interessava alla pianta, che cercò di colpirlo. Tungdil si chinò appena in tempo. Il ramo simile a una clava lo mancò, distruggendo la parete di tavole alle sue spalle. Il nano corse verso la scala e si trovò davanti a un muro bianco. All'inizio pensò che fosse scoppiata una bufera, poi comprese che a vorticargli intorno erano i fiori e le foglie di tutti gli alberi della Selva. Il bosco stormiva e disseminava il suo fogliame, l'armonia distrutta si tramutava in odio. La casa tremò di nuovo e le travi si spezzarono lasciando cadere alcuni frammenti. Il nano si lanciò giù per i gradini, verso la terraferma. I gemelli si meravigliarono quanto lui. Stringendo le armi, osservavano con scetticismo quel singolare mutamento. «Dev'essere una maledetta magia elfica», gridò Boïndil, sovrastando il fracasso. «Ci hanno aizzato contro la Selva!» «Dobbiamo squagliarcela», gridò Tungdil. «Gli alberi vogliono punire chi...» Le parole gli morirono sulle labbra quando un faggio di Palandiell sparpagliò intorno a sé le foglie avvizzite, mostrando i rami nudi. Il nano vide qualcosa di orrendo. Aveva rintracciato l'elfa. Senza la protezione delle fitte fronde, il suo bel
volto niveo spiccava sulla corteccia scura. Dal collo in giù era più che altro un luccicante scheletro rosso sangue senza neppure il più piccolo brandello di carne; lunghi chiodi erano conficcati nelle sue ossa sottili e la tenevano appesa all'albero in posizione verticale. La scena sconvolse persino i due nani indifferenti. «Per le fiamme della fucina di Vraccas, che cosa sta succedendo qui?» chiese Boëndal. «Svigniamocela», suggerì suo fratello, «prima che ci accada la stessa cosa.» «Prima devo sapere dov'è finito Gorén. Do un'altra occhiata in giro.» Tungdil non poteva fare altrimenti, l'orrore lo attirava come una calamita, e i suoi protettori furono costretti a rimanergli accanto. «Magari il suo cadavere è vicino a quello dell'elfa.» Le ossa dell'elfa sembravano inchiodate con cura. Per completare l'opera, gli aggressori le avevano martellato un lungo chiodo attraverso la bocca e la parte posteriore del cranio, fissandola così al tronco. Fori neri si spalancavano dove un tempo vi erano stati senza dubbio due occhi magnifici. «Guardate qui», urlò Boïndil. «Qualcuno l'ha prima inchiodata all'albero e poi mangiata viva. È un'impresa troppo impegnativa per i mezz'orchi, che avrebbero divorato l'Orecchia appuntita senza pensarci due volte. E le avrebbero succhiato il midollo.» Deglutendo, Tungdil osservò il volto della vittima, che conservava la sua bellezza nonostante la morte e le torture. In cuor suo sapeva di non amare gli elfi, ma quello spettacolo atroce non gli regalò alcuna soddisfazione. Nel frattempo Boëndal girò intorno all'albero, trovando altri corpi nonché una serie di impronte nere e arcuate. «Zoccoli di cavallo», osservò, «quasi marchiati a fuoco sul terreno. Che cosa credi che significhi, Sapientone?» Tungdil rammentò i due cavalieri che si erano recati dai mezz'orchi la notte precedente l'assalto a Gutenauen. «Albi», mormorò. «Gli zoccoli dei loro Destrieri della Notte emettono scintille e bruciano la terra.» Ora la mutilazione dell'elfa cominciava ad avere un senso. Gli albi traevano un piacere particolare dall'uccidere senza pietà i loro parenti. «Albi?» ripeté Boïndil. Il fuoco nei suoi occhi brillò e l'entusiasmo divampò. «Caspita, sarebbero un diversivo rispetto agli ingenui Musi di porco. Hai sentito, fratello, gli Orecchi appuntiti di Tion finiranno sotto le nostre lame!» Il loro protetto guardò lo scheletro: gli sembrò di vedere i Destrieri della
Notte che attorniavano la sovrana di Grünhain inchiodata all'albero e le si avventavano contro mentre urlava e si contorceva per il dolore. Fu assalito dall'impulso di vomitare; si affrettò a mettersi la mano davanti alla bocca perché non voleva perdere anche lo scarso rispetto che i gemelli nutrivano nei suoi confronti. La loro curiosità fu destata dal cadavere di un uomo rannicchiato poco distante dall'elfa. Trapassato dalle frecce, giaceva in un fazzoletto di terra intatta, ma tutt'intorno era scoppiato un incendio, come indicava il terreno bruciacchiato. All'interno di quel cerchio nero e perfetto, contarono sette mezz'orchi carbonizzati. Tungdil ipotizzò che la causa fosse stata un incantesimo. «Potrebbe essere stato Gorén. Ha usato il fuoco magico per cercare di proteggersi dagli assalitori.» Con dita tremanti, tastò gli indumenti del defunto e trovò una scatoletta di latta che conteneva alcune zollette di malto zuccherato e recava inciso un nome: Gorén. «Uno scudo gli sarebbe stato più utile», osservò Boïndil, asciutto. «La magia ti pianta in asso proprio quando ne hai più bisogno.» Suo fratello scrutò gli alberi furenti, che si tingevano di colori autunnali sebbene fosse estate. «La selva elfica mi sembra sinistra. Andiamocene», ordinò. «Ho l'impressione che le piante vogliano sradicarsi e marciare contro di noi.» «Che cosa ne facciamo dei cadaveri?» domandò Tungdil. «Dovremmo...» «Sono morti», replicò Boïndil, freddo. Boëndal si incamminò. «Bestie, elfi e amici degli elfi. Non ci riguardano.» Rendendosi conto che non lo avrebbero ascoltato, Tungdil li seguì tra le rovine per tornare sul sentiero e lasciare Grünhain. Gli dispiaceva abbandonare l'elfa e Gorén come bestiame macellato, e si voltò verso di loro quasi a scusarsi con lo sguardo. In quell'istante scorse qualcosa di bizzarro tra le macerie. Un cavalletto! Si trovava tra i resti di una casa, come se il pittore avesse fatto una pausa e si fosse allontanato per un attimo. Tungdil si commosse. Riusciva a ricostruire con chiarezza che cosa era successo. L'elfa amante dell'arte o uno dei suoi sudditi erano stati interrotti dai mezz'orchi e avevano lasciato un'opera incompiuta, un muto ricordo delle atrocità verificatesi.
Chissà che cosa ha dipinto... «Torno subito.» Si arrampicò tra le tavole perché voleva vedere l'opera da vicino. Boëndal sospirò, facendosi tremare i peli sopra il labbro. «Non ci rende la vita facile.» «No, per niente», bofonchiò Boïndil, usando la treccia nera per asciugarsi il sudore dalla fronte. Lo seguirono borbottando. Il loro protetto era in piedi davanti al quadro, che aveva qualcosa di strano. Rappresenta la radura devastata. La mano che aveva guidato il pennello era quella di un maestro. L'artista aveva utilizzato soltanto i toni del rosso per immortalare la distruzione su una superficie bianca e liscia. Ogni minimo dettaglio era stato riprodotto con penosa fedeltà: gli alberi, i cadaveri, i resti degli edifici. Tungdil esaminò la tela con maggiore attenzione. Non sembra lino. Girando intorno al cavalletto, inorridì. Il lato posteriore era umido e scarlatto, e quando lo sfiorò con cautela ritrasse la mano, disgustato. Pelle! Il pittore aveva impiegato della pelle per raffigurare la scena. A giudicare dalla perfezione del materiale, aveva scelto la sovrana della Selva. Il nano concluse che i tratti rossi non erano stati tracciati con un normale acquerello. Chiamò i gemelli. Poco più in là vi erano altri due quadri, più piccoli. Uno mostrava il volto sofferente dell'elfa, gli occhi che brillavano pieni di paura e angoscia, mentre l'altro rappresentava con meticolosità il suo corpo inchiodato al tronco. Nauseato, Tungdil lasciò cadere le tre opere raccapriccianti. «Il quadro non si è ancora asciugato», disse Boëndal dopo averlo osservato più da vicino. «Il suo folle creatore potrebbe tornare da un momento all'altro.» «Me lo auguro», ringhiò suo fratello. «Spelleremo vivo anche lui.» «Fatti così ripugnanti non dovrebbero mai accadere», asserì Tungdil, pieno di ribrezzo, pur riconoscendo di avere visto raramente una tale abilità artistica. Dopo aver afferrato il cavalletto, lo gettò nel fuoco insieme con le due tele. In silenzio, si accinsero a imboccare il sentiero che li avrebbe condotti fuori del villaggio, quando udirono uno sbuffo. Fu un suono ostile e bellicoso, accompagnato da un nitrito acuto e furente. Un morello sbucò dal bosco spoglio venti passi alla loro destra; gli occhi gli fiammeggiavano e ogni sua falcata sollevava scintille bianche che lambivano le redini. Il Destriero della Notte trasportava una snella alba dai lunghi capelli
castano scuro, il corpo infilato in un'armatura di cuoio nero indurito, decorata da pezzi di tionio lucido. «Cavernicoli puzzolenti?» Dietro le sue spalle spuntava l'elsa di una spada, e la sua mano destra stringeva un arco, le cui lunghe frecce stavano in una faretra attaccata alla sella. Tungdil rammentava bene quei dardi. «Avete rovinato i miei quadri! Perciò mi serve del sangue fresco per dipingerne di nuovi.» L'alba si raddrizzò un poco per vedere meglio i suoi interlocutori. Il suo viso grazioso e finemente modellato era così ingannevole da assomigliare a quello di un'elfa, e chiunque avrebbe potuto scambiarla per una creatura della dea Palandiell, se non fosse stato per il nero delle cavità oculari. «Spero che il vostro sangue non si coaguli troppo.» La mano libera si posò sull'asticciola di una freccia. «Deve essere liquido perché si possano rendere bene i particolari.» «Caspita, adesso sì che ci si diverte! Finalmente lo scontro che aspettavamo. Ma prima torniamo tra le rovine», ordinò Boïndil in tono allegro nella lingua dei nani. «All'aperto l'Orecchia appuntita può abbatterci come conigli.» Piegandosi in due, corsero via e si rifugiarono dietro una parete di legno. Il primo dardo li sfiorò sibilando e penetrò senza sforzo nelle assi dietro cui si erano tuffati, rimbalzando con fragore contro la cotta di maglia rinforzata di Boëndal. La punta di tionio nero graffiò il metallo. Il nano imprecò. Strisciando, si addentrarono tra le macerie fumanti per nascondersi e tendere un'imboscata all'alba. Sbirciando oltre l'angolo, Tungdil distinse il muso affusolato del Destriero della Notte. Quella che un tempo era stata una creatura della luce si aggirava come una belva tra i resti di Grünhain, e si udivano lievi sibili ogni volta che gli zoccoli toccavano la terra e la marchiavano a fuoco. Le froge si dilatavano nel tentativo di fiutare i tre nani. Tungdil si sentì pervadere da una paura che non aveva mai provato prima di allora. La sella dell'animale era vuota. Dove si è cacciata l'alba? Non si vedeva da alcuna parte del centro abitato. Tungdil chiuse gli occhi, sforzandosi di dimenticare tutto quello che sapeva su quegli esseri. Quando sollevò le palpebre, erano scomparsi anche Boëndal e Boïndil, e lo smarrimento si fece terrore. «Dove siete?» bisbigliò, stringendo forte l'ascia. Come potevano schernirlo per le sue mediocri qualità da guerriero e poi lasciarlo solo tra le
rovine mentre due delle creature più crudeli della Terra Nascosta gli davano la caccia? Qualcuno gli sfiorò il braccio. Tungdil trasalì e passò subito all'attacco; l'ascia colpì l'uomo sotto le costole. Atterrito, il nano fissò il ferito. «Gorén?! Credevo che fossi morto!» farfugliò. L'ex apprendista guardò distrattamente lo squarcio aperto dalla lama. Ne tastò i bordi con le dita, poi si concentrò su Tungdil. «Io... non sento... niente», gemette. Si estrasse la freccia di un mezz'orco dal corpo. «Niente», ripeté, disperato. «Ma... io... odio...» La sua mano agguantò una trave, e gli occhi spenti si rivolsero verso il nano senza vederlo. «Gorén, no, aspetta, io...» Quando l'altro tentò di aggredirlo, Tungdil scivolò di lato, e il pezzo di legno cozzò rumorosamente contro la parete. Lo schianto fu abbastanza forte da attirare l'attenzione dei cacciatori. Il Destriero della Notte nitrì, avvicinandosi. Tungdil si affrettò a sgusciare via per sparire sotto un soffitto crollato; lo stallone non doveva trovarlo. «Non... sento...» Gorén si alzò vacillando e traballò come un ubriaco tra i resti dell'edificio, raggiungendo la piazza e trascinandosi dietro la tavola. In quell'istante, il morello spiccò un balzo, travolgendolo. Tungdil vide con chiarezza la zampa anteriore che gli sfondava la parete addominale sprizzando scintille, ma con suo grande orrore l'uomo si rialzò. Quella scena gli aprì gli occhi. La Terra Estinta si è impossessata di Grünhain. Tutto ciò che muore nella foresta torna sotto forma di semimorto. Gli alberi non stavano piangendo l'elfa. No, il potere oscuro filtrava nella terra e si insinuava nelle loro radici, salendo fino in cima. Com'è possibile? Come ha fatto la Terra Estinta ad attraversare la barriera protettiva? si domandò, confuso. Devo assolutamente informare Lot-Ionan prima di dirigermi verso sud con i gemelli. Se il male è riuscito a penetrare attraverso lo sbarramento in un punto, forse ci riuscirà anche in altri luoghi. Prima, però, i tre nani dovevano fuggire dal bosco sani e salvi, e Tungdil nutriva ancora qualche dubbio in proposito. Il Destriero della Notte aveva fiutato il suo odore e stava tornando indietro. Gli zoccoli della bestia si accanirono contro il nascondiglio di Tungdil, alcuni lampi guizzarono e le assi vennero ridotte a schegge. Il morello voleva indurre il nano a uscire dal suo rifugio. Tungdil non poté fare altrimenti. Sgusciò fuori dall'altra parte per gettarsi dietro il riparo più vicino, ma l'animale non glielo permise.
Scavalcò l'ostacolo con un energico salto. Allungando il collo, serrò le mascelle intorno alla spalla destra del nano. La cotta di maglia impedì alle zanne affilate di causare danni troppo gravi, ma la forza del cavallo fu sufficiente a schiacciare l'articolazione. «Maledetta bestiaccia», gridò Tungdil, cercando di colpirlo con l'ascia. La combattività dei nani si risvegliò in lui e vinse la sua paura. Lo stallone, tuttavia, non mollò la presa. Sollevò la testa, scuotendo Tungdil come un burattino. La bocca si spalancò all'improvviso, e il nano vorticò nell'aria prima di atterrare nell'erba ormai grigia. Il Destriero della Notte nitrì, la zampa posteriore che raspava il terreno e scavava un profondo solco. Mentre Tungdil cercava ancora di ritrovare l'orientamento, il cavallo si scagliò nella sua direzione. A un tratto comparvero i gemelli. Sbucarono dai loro nascondigli a destra e a sinistra del sentiero quando lo stallone giunse alla loro altezza. «Vieni, bel cavallino! Ti trasformo in un pony!» La scure che Boïndil stringeva con entrambe le mani si abbatté sul ginocchio destro dell'animale, e l'azza di Boëndal fracassò il sinistro. La creatura di Tion cadde e si rotolò più volte, sollevando nuvole di polvere. Indifferente al dolore, tentò di rialzarsi. Allora i guerrieri le si lanciarono contro. «Adesso combattiamo guardandoci negli occhi.» Il Destriero della Notte fece per azzannare Boïndil, che invece gli conficcò la lama dritta in bocca. «Assaggia questa!» La testa nera scattò all'indietro, e così facendo l'essere compì il proprio destino. La punta ricurva dell'arma di Boëndal gli si piantò nella fronte, proprio in mezzo agli occhi. I muscoli delle braccia e del busto del nano si gonfiarono, e i suoi stivali affondarono nel terreno. Ora Tungdil comprese perché si chiamava Manouncinata. Boëndal, dopo avere ghermito il cranio del cavallo, lo attirò a sé e offrì al fratello l'opportunità di vibrargli un fendente sulla nuca. «Hai ancora voglia di mordere, brocco?» lo schernì Boïndil. Le vertebre del collo si spezzarono e il quadrupede si afflosciò. Boëndal gli salì sulla testa ed estrasse il lungo spuntone dall'osso. Il suo gemello sogghignò. «Adesso tocca alla piccola amazzone dalle orecchie aguzze.» Indicò un punto dietro Tungdil. «Nasconditi meglio e guarda come si combatte, così impari qualcosa.» Si acquattarono vicino allo stallone ucciso e aspettarono. Tungdil avrebbe voluto raccontare loro dell'incontro con il semimorto, ma i due
fratelli scossero il capo. Prima dovevano sbarazzarsi dell'alba. Poco dopo udirono il lungo grido disumano di una donna. Boïndil contrasse allegramente le sopracciglia, gettandosi la treccia dietro la schiena e tenendosi pronto. «Questa è musica per le mie orecchie.» Boëndal rimase in ascolto prima di balzare su all'improvviso; suo fratello lo seguì senza fare domande. Dovrei accompagnarli invece di restare rimpiattato qui come un codardo. Tungdil si sentiva in dovere di dare loro una mano contro la terribile avversaria, anche solo tentando di distrarla. Sospirando, prese l'ascia e fece per alzarsi, quando due mani scheletriche lo afferrarono alle spalle e lo spinsero a terra. «Chi sei?» chiese una delicata voce femminile, mentre dita umide e maleodoranti gli tastavano la faccia. «Sei basso. Un Cavernicolo?» Lo sconosciuto lo costrinse a girarsi. Il nano vide il volto profanato della magnifica elfa. Anche lei si era trasformata in una nemica. La sovrana della Selva Verde si era staccata dal faggio e vagava alla cieca perché gli albi le avevano cavato gli occhi. «Lasciami, elfa!» le intimò Tungdil, cercando di recuperare l'arma. Poiché gli immobilizzava le braccia, tuttavia, riuscì ad agguantare soltanto il pugnale. Quando la colpì, la lama tintinnò contro le costole nude senza causare alcun danno. «Che cosa ci fa un nano nella mia selva!?» domandò l'elfa, artigliandogli la gola con la mano ossuta. «Sei un alleato degli albi? Il vostro odio contro il mio popolo è cresciuto tanto che vi unite al male per annientarci?» Reprimendo la paura, Tungdil notò la differenza tra il suo tono e quello di Gorén. Evidentemente le era rimasto ancora un briciolo di volontà. «No, signora! Lot-Ionan mi ha mandato a restituire gli oggetti di Gorén...» rispose con voce strozzata. Le nere orbite oculari lo fissarono. «Che cosa ne sarà di me?» mormorò impaurita. «Sento che mi sto trasformando. Ero morta, eppure... la mia anima...» Si interruppe. «Ti ha mandato Lot-Ionan? Il maestro del mio amato?» La sua stretta inesorabile si allentò. «Laggiù, nella casa principale, c'è un libro, in biblioteca. Gorén voleva spedirlo al mago quando gli albi ci hanno attaccati...» «L'ho già preso», la rassicurò. «Non devono impadronirsene!» gli raccomandò. «Portalo nello lonandar e consegnalo allo stregone! Lui capirà quando leggerà la lettera del mio
amato.» La pressione delle dita scheletriche tornò ad aumentare. «Giuramelo!» Tungdil balbettò un giuramento su Vraccas e sul suo padre adottivo. L'elfa ossuta parve soddisfatta e lasciò la presa. «Tagliami la testa», lo supplicò piano. «Non voglio cedere alla Terra Estinta il poco che mi resta della mia anima.» La sovrana di Grünhain allargò le braccia ossute. «Guarda che cosa mi hanno fatto. Devo forse vagare per l'eternità obbedendo agli ordini del male?» I fori neri sul suo volto lo ipnotizzarono. «Io...» «Mi hanno portato via tutto quello a cui tenevo. Il mio amore, la mia bellezza, la mia casa e il mio bosco.» Levando la sinistra, allungò l'indice e se lo infilò con esitazione nell'orbita vuota. «Non posso nemmeno piangere quanto ho perso. Abbi pietà.» Tungdil non riuscì più a sopportare la sua vista e l'infinita tristezza della sua voce. Tremando, si alzò, arrancò nella sua direzione e le vibrò un fendente con l'ascia. Quando la testa mozzata rotolò tra le rovine dell'edificio, lo scheletro si accasciò. L'elfa era morta una volta per tutte. La foresta gemette. Ai cigolii e agli scricchiolii si unì il frastuono dell'accanita battaglia che i gemelli avevano ingaggiato contro l'alba. La Terra Estinta! Non lo sanno ancora! Tungdil si avviò a fatica. Dobbiamo tagliare la testa ai cadaveri, altrimenti torneranno sotto forma di semimorti. Frattanto Boëndal e Boïndil erano alle prese con un'avversaria che non ne voleva sapere di combattere secondo le regole dei nani. L'alba, lesta come un gatto, schivava i colpi balzando e saltellando, senza tuttavia riuscire a trapassare la corazza rinforzata dei due fratelli. «Beccati questo!» Scartando di lato, Tungdil scagliò l'ascia contro la nemica, che se ne accorse e si scostò con agilità. A un tratto Gorén comparve alle sue spalle e tentò di colpirla con la trave. Pur udendo il fischio del legno nell'aria, l'alba non riuscì a evitare la collisione. La trave le centrò la schiena, catapultandola in avanti, e Boïndil le si fece incontro con le scuri ridendo come un folle e mirando alla coscia, dove il cuoio dell'armatura era più sottile. «Vieni da me, Occhineri!» La sua mossa fu efficace. L'alba urlò di dolore, quindi il lato piatto dell'azza di Boëndal le si abbatté sulla pancia. Ammutolì e tacque per sempre quando le scuri le si piantarono nel collo.
«Non era necessario, stregone. Avremmo catturato da soli l'Orecchia appuntita», disse Boïndil in tono offeso a Gorén, che vacillava verso di lui. «Come fai a essere ancora vivo?» domandò il nano un attimo dopo. «Siamo circondati dalla Terra Estinta! Non gli ha consentito di morire. Devi decapitarlo, perché solo così si spegnerà per sempre», gridò Tungdil. «Se è così che stanno le cose...» borbottò il guerriero, sottraendosi alla goffa aggressione del semimorto. Una scure scintillò e la testa di Gorén rotolò per terra. Il mago era morto. «Giacché ci siamo, dovremmo occuparci anche degli altri», suggerì Boëndal, indicando il sentiero con un cenno del capo. I resti bruciati dei mezz'orchi e degli abitanti di Grünhain cominciarono ad animarsi obbedendo all'ordine della potenza oscura. Quest'ultima non faceva distinzioni tra vittime e assalitori, ma i gemelli si misero all'opera con grande diligenza. Affrontarono un avversario dietro l'altro, decapitando e salvando così tutti dal loro destino. Tungdil si limitò a guardare. «È stato fin troppo facile», brontolò Boïndil quando ebbero terminato quel lavoro ripugnante. «Ma è bastato per placare la mia collera.» Il brillio nei suoi occhi si attenuò pian piano. «Andiamo.» Attraversarono rapidamente quella che un tempo era stata Grünhain, diretti verso sud. Gli alberi nudi e spogli garantirono loro un passaggio agevole, forse in segno di omaggio estremo a coloro che avevano ammazzato almeno uno degli albi colpevoli di aver portato la morte e la rovina nel pacifico villaggio. I rami e i tronchi cigolavano e schioccavano, piegandosi verso il basso e sfregandosi tra loro con fare minaccioso, ma niente di più. Gli unici altri suoni che i tre nani percepirono furono il fruscio e lo scricchiolio delle foglie secche sotto gli stivali. Non vi era traccia di animali e nemmeno un uccello osò cinguettare. «È indispensabile che vada prima da Lot-Ionan», spiegò Tungdil, ripetendo loro in poche parole le istruzioni dell'elfa. «La Terra Estinta e i mezz'orchi non possono essersi spinti tanto a ovest. Il mio mago deve essere informato e ricevere i libri. Sembrano molto importanti.» «Nello Ionandar? Significa una deviazione di seicento miglia», commentò Boëndal con scarso entusiasmo. «Così arriveremo ancora più tardi nel regno dei Secondi.» «Non possiamo fare altrimenti», replicò Tungdil, ostinato. «Oppure andiamo nel Lios Nudin e facciamo visita al consiglio.»
Boïndil rise. «Questo sì che è parlare, dimostraci la tua testardaggine come si conviene a un nano.» Suo fratello si mostrò conciliante. «D'accordo, allora, andiamo nel Lios Nudin. L'imperatore ha vissuto così a lungo che supererà anche questo paio di rotazioni. Vraccas gli donerà senz'altro la resistenza necessaria.» Allungò la mano verso la borraccia. «Tra parentesi, ti sei comportato da prode benché nessuno ti abbia insegnato a usare l'ascia», lo elogiò Boïndil. «Ma ricorda, un nano non lancia mai la sua arma se non ne ha una seconda. E il tuo stile lascia ancora a desiderare. Ti mostrerò come maneggiare l'ascia, Tungdil, e presto i Musi di porco avranno paura di te quanta ne hanno di me.» Tungdil non aveva nulla in contrario. «Prima imparo e meglio è.» Quella sera, quando furono costretti a fermarsi per riposare, Boëndal intonò un'altra melodia che parlava dell'antica inimicizia tra i nani e gli elfi, ma ammutolì quando colse lo sguardo di Tungdil. Una canzone sulla morte e sulla rovina non avrebbe certo contribuito a risollevargli il morale. «Che cosa sapete della mia stirpe?» chiese Tungdil. «I Quarti?» Boëndal si grattò la barba, prendendo un pezzo di formaggio per arrostirlo sul fuoco. «Hanno dodici clan, e per lo più sono piccoli, mingherlini, un poco rammolliti. Dipende dal fatto che la loro attività è la levigatura delle pietre preziose.» Scrutò Tungdil. «Be', tu sei della misura giusta. Non ci sono eruditi tra loro, ma hanno più o meno la tua statura... anche se, ecco, tu sei quasi troppo robusto. La tua schiena è troppo larga.» Rifletté sulle proprie parole. «Non lo dico per offenderti. È così che stanno le cose», spiegò in tono cordiale. «È così che ci ha fatti Vraccas.» Tungdil non si accontentò di quella risposta. Era così generica da non fornirgli nuove informazioni. «Tutto qui?» I gemelli si scambiarono un'occhiata. «I regni dei nani non hanno notizie l'uno dell'altro già da parecchio tempo», affermò Boëndal con sincerità. «Sappiamo poco. Aspetta di incontrarli personalmente. Ma posso raccontarti qualcosa sui Secondi. I nostri diciassette clan vantano gli scalpellini più dotati di tutte le stirpi. Orcomorto ti toglierà il respiro. Scommetto che non hai mai visto nulla di simile! Nemmeno la più grande fortezza dei Lunghi può reggere il confronto.» Infervorandosi sempre più, Boëndal elogiò lo sfarzo delle costruzioni di pietra che facevano impallidire di invidia le altre stirpi. Tungdil pendeva dalle sue labbra, felice al pensiero che presto avrebbe visto con i suoi occhi
i monumenti del suo popolo.
Terra Nascosta, regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, estate Camminarono giorno dopo giorno per raggiungere la capitale e fare visita al consiglio degli stregoni. In un primo momento, Boïndil aveva insistito affinché procedessero accanto al sentiero per motivi di sicurezza. Dopo quattro giorni nel sottobosco, tuttavia, ne avevano abbastanza degli alberi che li graffiavano, dei viticci che si impigliavano nelle cotte di maglia e dei rami che, per qualche ragione inspiegabile, si infilavano sempre nel naso o negli occhi di Tungdil. Tornarono sulla strada polverosa, facendo molta attenzione a chi si avvicinava. Gli avvenimenti avevano segnato Tungdil in modo indelebile Gli incubi lo tormentavano e quando, lungo il tragitto, si chinò su un ruscello per riempire la borraccia, il suo viso gli parve più vecchio e più maturo, e gli occhi più seri di quando era partito. Poiché non intendeva cadere vittima di un mezz'orco, si dedicò con impegno alle esercitazioni quotidiane con Boïndil, e imparò in fretta, quasi troppo in fretta, come osservò il suo maestro. Mentre si allenavano nei colpi, nelle finte e nelle parate, Boëndal sedeva lì accanto, fumando la pipa e osservandolo con attenzione, ma senza parlare. Ogni volta che il terzetto si imbatteva in persone e centri abitati, Tungdil narrava gli eventi della Selva Verde e raccomandava agli esseri umani di stare alla larga dal confine della Terra Estinta. I suoi racconti furono confermati dai cortei di carri che sfilavano ogni giorno lungo la strada per portare i fuggitivi in salvo nel regno di Lios Nudin. I mezz'orchi erano comparsi anche in altre zone, e gli uomini ritenevano che Nudin il Sapiente fosse in grado di resistere all'avanzata più di quanto lo fosse re Bruron. Un pomeriggio Tungdil restò indietro di un paio di passi nei pressi di una curva; quello era il segnale che voleva fare i suoi bisogni in tutta tranquillità. I gemelli proseguirono. Quando, alleggerito, tornò sul sentiero, giunse a un incrocio, ma non scorse traccia dei suoi due protettori. Un cartello indicava Porista, perciò si avviò in quella direzione. Di lì a poco incappò in un carro coperto fatto di legno colorato, collocato di sbieco accanto alla strada. Sulle pareti luccicavano asce, scuri, forbici e coltelli dipinti. Gli animali da tiro erano stati staccati, e il veicolo pareva
essersi arrestato in tutta fretta. «Ehilà?» Lo sportello sulla parte posteriore era socchiuso e lasciava intravedere l'interno buio attraverso una sottile fessura. Quel particolare gli sembrò insolito. «Tutto bene?» Per prudenza, afferrò l'ascia. Poteva darsi che il proprietario fosse caduto vittima dei mezz'orchi e che i Nasi schiacciati fossero ancora nei paraggi. Dove si sono cacciati Boïndil e Boëndal? «Ehilà?» ripeté, salendo i due angusti scalini di legno che conducevano all'entrata. Spingendo lo sportello con il manico dell'ascia, scorse una piccola officina. I cassetti erano aperti, le ante degli stipetti erano spalancate, e nell'angolo posteriore due scarpe spuntavano da sotto un armadio. Tungdil entrò. «Parlate. Non voglio farvi del male.» Percepì un odore metallico, dolciastro. Intuì che chiunque fosse steso lì davanti non era più tra i vivi. Ora ne era certo: gli dei avevano maledetto il suo pellegrinaggio. I terribili fatti che lo perseguitavano senza tregua non si sarebbero potuti spiegare altrimenti. Dopo essersi infilato l'arma nella cintola, prese le suole degli stivali e le scosse. «Siete ferito?» Non ottenendo alcuna reazione, sollevò il mobile per liberare chiunque fosse incastrato lì sotto. Allora notò che si trattava del corpo di un nano, e solo del corpo. Qualcuno l'aveva decapitato e della testa non vi era traccia. I bordi della ferita sul collo luccicavano e non si erano ancora seccati. L'omicidio doveva aver avuto luogo poco prima. «Per Vraccas, che cosa è successo qui dentro?» L'armadio gli scivolò dalle mani per l'orrore, ripiombando sul cadavere. Indietreggiando, Tungdil tentò di riordinare le idee. Provò compassione per il nano, che era caduto vittima di efferati criminali insieme con la sua fucina ambulante. La cupidigia umana di oro e monete aveva decretato il suo destino. Non posso lasciarlo qui, pensò, agguantandolo e tirandolo per i piedi, quando qualcosa tintinnò sulle tavole. «Perbacco!» Osservò l'oggetto con maggiore attenzione. Era un pugnale imbrattato di sangue e, se la penombra non lo ingannava, si trattava dell'arma del mercenario cui aveva ferrato il cavallo settimane prima alla fattoria. Tungdil udì uno scalpiccio di zoccoli. Spiò con cautela dalla finestrella, lasciandosi sfuggire un'imprecazione nella lingua dei nani. Constatando che cinque guerrieri avevano appena raggiunto il carro, rimase immobile e si appiattì contro il legno dietro la porta. Poiché non l'avrebbe sicuramente
spuntata contro quei soldati esperti, avrebbe dovuto nascondersi se voleva sopravvivere. Non si sentiva ancora pronto per affrontare una forza superiore con la stessa facilità di Boïndil e Boëndal. Passi pesanti si avvicinarono al veicolo, un paio di stivali salì i due gradini cigolanti, il carro sobbalzò, e infine un'ombra schermò la luce che filtrava dallo sportello. Il nano strinse l'ascia con entrambe le mani. L'uomo borbottò qualcosa, accovacciandosi accanto al corpo. «È venuto qualcuno», urlò. «Il nanerottolo è in una posizione diversa da prima. Badate che nessuno mi colga alla sprovvista.» Cercò il coltello. «E nascondete bene il vaso di miele con dentro la testa», ordinò. «Non voglio essere costretto a spiegare a nessuno perché conserviamo l'orrendo cranio di un Cavernicolo.» «Ma è semplice. Perché riceviamo dell'oro in cambio», replicò da fuori uno dei suoi compagni con una risata roca. «Questi sono affari nostri», replicò l'assassino. «È già abbastanza difficile avvicinarsi a questi ometti, non abbiamo bisogno di concorrenti.» Trovò il pugnale. «Eccoti qua.» Lo ripulì con cura sui vestiti del defunto, per poi rinfoderarlo e alzarsi. L'armatura rifletté il sole che entrava dalla finestra laterale, e un raggio colpì la lama dell'ascia di Tungdil, che luccicò immediatamente. «Che cosa...» Il soldato si voltò. Tungdil doveva agire subito per sfruttare l'effetto sorpresa. Balzò avanti, abbassò la lama e lacerò il cuoio, colpendo il piede dell'uomo. In preda all'agitazione, vibrò un fendente così poderoso che l'ascia si incastrò tra le assi del pavimento. La estrasse tirando con tutta la sua forza. Il guerriero lanciò un urlo. Con molta probabilità i suoi accompagnatori si erano ormai accorti che qualcosa non andava. «Ben ti sta!» Il nano liberò la lama dal legno e fuggì. Saltò giù dal carro e gridò per spaventare i cavalli. Gli animali imbizzarriti si impennarono. I mercenari, che stavano per smontare ed erano appoggiati a una sola staffa, persero l'equilibrio e ruzzolarono tra la polvere. Tungdil non aspettò, e corse verso destra nel folto del bosco. I militari non avrebbero potuto usare i cavalli fra i tronchi fitti e, a causa della sterpaglia, non sarebbero avanzati con tanta facilità nemmeno a piedi. Una volta tanto, la sua modesta statura era un vantaggio. Inoltre, sotto il baldacchino di foglie compatte, la luce del giorno svaniva prima che
all'aperto, ma quello non era un problema per Tungdil. «Acciuffate quel bastardo di nano!» tuonò il comandante. «Ci garantirà un premio sostanzioso!» Tungdil sfrecciò tra gli alberi, fermandosi di tanto in tanto ad ascoltare. Come intuì dalle imprecazioni e dagli schiocchi dei rami, i suoi inseguitori non avevano intenzione di arrendersi, ma erano rimasti indietro. A un certo punto smise di udire i loro passi pesanti; li aveva seminati. Ansimando, si appoggiò al tronco di un albero per riprendere fiato. La sua resistenza era migliorata, ma fuggire con i bagagli in spalla richiedeva uno sforzo notevole. Si affrettò a controllare il suo carico: il sacco con gli oggetti, che dopo l'aggressione del mezz'orco aveva iniziato a produrre strani tintinnii e acciottolii, era ancora al suo posto. Bevve un sorso d'acqua, tendendo le orecchie. Danno la caccia al mio popolo in cambio di una ricompensa. Non riusciva a capacitarsi di quanto aveva sentito, perché quelle frasi superavano tutto quello che gli era capitato fino a quel punto durante il viaggio. Promettere oro per le teste dei nani violava le leggi della Terra Nascosta, e Tungdil non osava nemmeno immaginare che cosa intendessero fare i soldati con il suo cranio. Dopo una breve sosta riprese a correre in linea retta attraverso il bosco per raggiungere il sentiero più vicino. La sua meraviglia fu indicibile quando si imbatté in Boïndil e Boëndal. «Eccolo qua!» esclamò Boïndil. «Forse ti sei smarrito.» «No, siete voi a esservi smarriti. Non avete imboccato la strada per Porista», lo corresse, trafelato. Boëndal lo scrutò. «Che cos'è successo, Sapientone? Sei arrabbiato?» «Spero di no, perché altrimenti avrei fatto finta di non vederlo», bofonchiò suo fratello. «Oppure un unicorno voleva...» «Ho incontrato dei cacciatori di taglie», lo interruppe Tungdil. «Catturano i nani e li decapitano perché qualcuno li ricompensa con l'oro.» «Che cosa?!» tuonò Boïndil, strabuzzando gli occhi e facendo tremare la lunga barba. «Dove sono andati?» «Non ne ho idea, e a essere sincero sono molto contento di non averli più alle calcagna», ammise Tungdil. Cercarono una radura lontana dalla strada per discutere. «Hanno detto chi li paga?» domandò Boëndal. «No. Li avevo già incrociati, ma quella volta non mi avevano fatto nulla. C'erano troppi esseri umani alla fattoria.» Sono scampato alla morte per un pelo.
«Mmmh... Potrebbe essere un nuovo stratagemma dei Terzi per stanare le altre stirpi e annientarle. Oppure vogliono che diventiamo nemici dei Lunghi come lo siamo degli elfi e che tutto sfoci in una guerra.» Boëndal si guardò intorno. «Comunque sia, avremo parecchie cose da riferire quando arriveremo nel secondo regno dei nani.» Tungdil si infilò sotto la coperta e trascorse la notte al riparo delle fronde di un faggio. Rinunciarono al fuoco perché, nell'oscurità, le fiamme si vedevano a distanza di miglia e persino lo schiocco di un rametto risuonava forte nel silenzio notturno. Incrociando le braccia dietro la testa, Tungdil trovò un maggiolino e se lo tolse dalla folta chioma. Ragionò ad alta voce: «È strano che questa taglia sia stata messa più o meno quando voi avete cominciato a cercarmi.» Boïndil, che si era messo comodo e aveva arrotolato la lunga treccia nera a Emo' di cuscino, aggrottò le sopracciglia. «Vuoi dire che non è un trucco di Lorimbur? Significa che qualcuno ce l'avrebbe con noi?» Suo fratello crollò il capo. «No, sei sulla pista sbagliata. Il nostro Sapientone intende dire che ce l'hanno soprattutto con lui, giusto?» «È pazzesco, lo so», riconobbe Tungdil, sospirando. «Ma mi avete raccontato che esiste un altro pretendente al trono.» Boëndal colse l'allusione. «Mai», protestò con fermezza. «Un nano onorevole non ordisce intrighi. Re Gandogar Barbadargento è al di sopra delle azioni che gli vorresti attribuire.» «Lo difendi come se appartenesse alla nostra stirpe», bofonchiò Boïndil con una sfumatura di rimprovero. «Lo difendo perché è un nano. Un nano onesto con opinioni sbagliate», insistette l'altro con decisione. «Inoltre, il consiglio ha saputo di te solo dopo la nostra partenza.» Rifletté. «No», ribadì con risolutezza. «La taglia è una manovra di Lorimbur. E questo e già abbastanza grave. Qualsiasi altra cosa sarebbe ancora peggio. Se ci tradissimo a vicenda, crollerebbe tutto. Ecco perché non può essere vero.» Si addormentarono rimuginando. Tungdil fece sogni confusi. Schiere di albi e mezz'orchi lo inseguivano con rasoio e sapone per tagliargli la barba, che nel frattempo era ricresciuta un bel po'. Riuscivano a raggiungerlo, a sopraffarlo e a raderlo. Avere il viso glabro come quello di un bambino era un'esperienza umiliante e sconvolgente. L'incubo lo risvegliò da un sonno per nulla ristoratore. Mangiò qualcosa e pregò Vraccas con più fervore del solito affinché lo aiutasse a sfuggire ai
cacciatori di taglie del Gauragar e a compiere la sua missione. Non mi rendi le cose facili, Vraccas. Tungdil aveva nostalgia della galleria e di Frala, Sunja e Ikana. Quasi quasi sarebbe stato felice di rivedere anche Jolosin. *
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Essendo compagni di viaggio, i nani divennero anche amici. Boïndil approfittava di ogni momento libero per prendere in disparte Tungdil e perfezionare la sua conoscenza dell'arte del combattimento. «Allora», bisbigliò Boëndal una sera accanto al fuoco, dopo che suo fratello si fu assopito. «Che cosa ne pensi dei primi nani in cui ti sei imbattuto nella tua vita?» Tungdil ridacchiò. «Devo essere sincero?» «Te ne sarei grato, Sapientone.» «Boïndil è più irascibile di te. I suoi pensieri impiegano più tempo dei suoi pugni per entrare in azione, ma quando prende una decisione, non c'è più verso di dissuaderlo e nella maggior parte dei casi fa quello che gli passa per la testa.» «Fin qui tutto esatto. Poi?» «Non ha fatto mistero della sua avversione per gli elfi e i mezz'orchi. La sua più grande passione è il combattimento, cui si dedica con un ardore che io non ho mai provato.» «Per Vraccas! Hai osservato con attenzione mio fratello», rise Boëndal. «Ma non farglielo capire. E che idea ti sei fatto di me?» chiese curioso, porgendogli la pipa dopo qualche tiro. «Hai un'indole un po' più mite, ragioni più in fretta e sei sempre disposto a lasciarti persuadere da altre proposte», rispose Tungdil, dando una boccata. «I tuoi occhi scuri sono cordiali, mentre l'espressione negli occhi di tuo fratello è... indescrivibile.» Boëndal batté forte le mani. «Niente male, Sapientone.» «Com'è che siete diventati entrambi guerrieri?» «Non essendo molto bravi a lavorare il marmo e le altre pietre, abbiamo deciso di dare manforte ai corpi di guardia», spiegò l'altro, sorridendo. «La nostra stirpe protegge la Porta Alta, come viene chiamato il nostro passaggio, simile a una gola. La strada è larga cinquanta passi, i pendii ripidi si innalzano per cento passi e si inclinano l'uno verso alto a un'altezza di ottocento. Solo quando il sole si trova a perpendicolo sopra la fessura, la luce penetra nella forra.» «Allora dovreste ribattezzarla Porta Buia», osservò Tungdil. «Finora siamo riusciti a difendere la Porta Alta con un manipolo di nani contro qualsiasi forza superiore.» «Avete dei portali come i Quinti?» «No. I nostri avi hanno scavato un fossato profondo cento passi e lungo centotrenta. Dalla loro parte hanno costruito uno spesso muro fortificato,
con un ponte levatoio meccanico. Gli ingegneri hanno impiegato tanto tempo per progettarlo quanto ne è occorso agli operai per ricavare l'avvallamento dalla roccia dei Monti Blu», disse Boëndal, descrivendo quel capolavoro della tecnica con aria trasognata. «Hanno unito sottili piastre di pietra scorrevoli per creare un passaggio leggero come una piuma ma duro come il granito. Quindi hanno innalzato altre colonne dal fondo della fossa affinché il ponte avesse un sostegno sufficiente. È strutturato in modo che possiamo ritirarlo quando vogliamo con l'ausilio di funi, catene e ruote dentate.» «Questo è...» Tungdil era senza parole. «Non conosco nessun popolo che abbia mai eretto un simile ponte. Ma che cosa succede se gli orchi e i mezz'orchi raggiungono la passerella?» «Li possiamo buttare giù in qualsiasi momento. Nel fossato giacciono i resti dei mostri di Tion che hanno cercato invano di superare l'ostacolo.» Rise sommessamente. «Hanno usato persino le catapulte per sparare i loro guerrieri sull'altro lato. Quelli che sono sopravvissuti all'impatto se la sono dovuta vedere con le nostre spade.» Il suo buonumore contagiò Tungdil. «Io avrei cercato di riempire la fossa. Oppure di scalarla dopo averne raggiunto il fondo», asserì, almanaccando. «Ci hanno provato, ma è stato altrettanto inutile. Solo una volta ci siamo trovati in difficoltà paragonabili a quelle che incontrò il valoroso Giselbart con i suoi difensori», narrò, citando le antiche cronache della sua stirpe. «Un esercito di orchi ha rinunciato a costruire un passaggio e ha avuto la tua stessa idea: si sono calati con prudenza fino in fondo al fossato per poi farsi strada tra le ossa dei loro antenati morti da tempo e inerpicarsi a centinaia dall'altra parte.» «Ma li avete fermati.» «Altrimenti la fortezza si chiamerebbe Nanomorto, non Orcomorto», brontolò Boïndil. «Potete abbassare la voce? Ho bisogno di dormire.» Si girò verso di loro, guardando le fiamme. «No, ci siete riusciti, sono di nuovo sveglio.» Scartò un pezzo di formaggio e lo arrostì sul fuoco. Questa volta Tungdil accettò l'offerta. Il sapore era migliore di quanto gli fosse sembrato all'inizio. «Comunque», riprese Boëndal «le bestie avrebbero quasi preso d'assalto il muro fortificato se il Secondo non avesse ammazzato i loro comandanti e gli orchi avessero saputo come comportarsi in seguito. Questo è bastato
ai nostri antenati per rispedire gli avversari nell'avvallamento, dove sono andati incontro alla morte causata da una caduta imprevista. Ma è capitato quando noi due eravamo ancora in fasce. I mostri non si presentano più alla Porta Alta da almeno tre decadi», concluse. «Si è sparsa la voce che noi due montiamo la guardia laggiù», interloquì suo fratello, ridendo forte. «Era tutto così tranquillo, che l'imperatore ci ha incaricato di cercarti per portarti alla fortezza come pretendente al trono.» Guardò Tungdil da sopra le fiamme e gli occhi gli si illuminarono. «Tra parentesi, avevi ragione: sono nato per combattere. Non mi tiro mai indietro, perché la mia vocazione è fare il guerriero.» «È mio fratello, non lo abbandonerò mai. Siamo una stella doppia e lo resteremo. Per sempre. Dove c'è uno c'è anche l'altro» dichiarò Boëndal. «Allora ogni nano ha una... vocazione verso una particolare attività», riepilogò Tungdil. Era impaziente di sapere che cosa sarebbe diventato. «Sarò un semplice operaio che scava gallerie, oppure in me sonnecchia il talento necessario per diventare un artigiano provetto?» «I Quarti sono levigatori di diamanti e pietre preziose. Hai qualche interesse per le gemme?» domandò Boëndal. Strano a dirsi, Tungdil non aveva mai provato una forte attrazione per i gioielli luccicanti. Lot-Ionan possedeva alcuni monili decorati da zaffiri e rubini, brillanti e ametiste. A Tungdil piaceva guardare le pietre preziose, perché la luce si rifrangeva magnificamente al loro interno, ma non gli sarebbe mai venuto in mente di levigare un diamante grezzo per valorizzarlo. «Credo di no. Ricordo che ho sempre trovato più interessante la fucina, sin da quando ho iniziato a camminare e pensare», rispose cogitabondo e con una sfumatura di delusione nella voce. «Il tremolio delle braci che sembrano vive, l'odore del ferro caldo, il tintinnio del martello e il sibilo del metallo quando lo immergo nell'acqua per raffreddarlo. Finora è stato questo il mio mondo.» «Allora diventerai fabbro», affermò Boïndil, soddisfatto. «Un fabbro erudito. Va bene lo stesso. E non stona con la tua natura di nano.» Tungdil strisciò più vicino al falò, meditando. Immaginò montagne di diamanti, poi i vivaci puntini di fuoco color arancio che vorticavano su per il camino. Preferiva di gran lunga la fucina. E l'oro. Amava il giallo scintillio caldo e dolce di quel metallo. «Raccolgo ogni pezzettino d'oro abbandonato», mormorò. «Raccatto da terra monete, gioielli, persino minuscoli granelli caduti dalle tasche dei
cercatori d'oro distratti.» I gemelli risero. «Hai accumulato un piccolo tesoro. Se questo non è un comportamento da nano, giuro che bacerò un Muso di porco», disse il Rabbioso, assentendo. «Resta con noi, e farò di te un guerriero. Che cosa ne pensi?» chiese, prendendo la pipa. «Credo che non sarà tutto inutile. Contro una forza superiore come quella...» «Non esistono forze superiori», lo contraddisse subito l'altro, «soltanto sfide più grandi o più piccole, ricordalo.» «Allora lasciamelo dire. Sono sempre più convinto che il mio Posto sia dietro l'incudine. È quello che mi rende felice.» Per il momento, Tungdil decise di accantonare simili questioni. Trasse a sé lo zaino, in cui i libri di Gorén giacevano avvolti nella carta cerata, e li scartò con prudenza. Gli altri due lo guardarono. «Allora? Che cosa c'è scritto, Sapientone?» domandò Boïndil. «È forse questa la tua missione? Diventerai ingegnere oppure scrivano. Noi nani abbiamo degli abilissimi ingegneri.» «Non riesco a decifrarlo.» La delusione lo pervase quando non riuscì nemmeno a leggere i titoli. «Deve trattarsi di opere destinate ai grandi maghi.» Tungdil si chiese come avesse fatto l'ex apprendista di Lot-Ionan a capire quegli scritti. Poi si batté una mano sulla fronte, dandosi dello stupido. L'elfa, la sovrana della Selva Verde! Sarà stata sicuramente in grado di spiegargli i segreti della magia e di aiutarlo nella traduzione dei volumi. Le sue dita curiose accarezzarono le copertine di cuoio. Che cosa contenete di tanto importante che gli albi non possono conoscere? si domandò in silenzio. Da quando i parenti cattivi degli elfi hanno paura di un paio di tomi? «Dobbiamo aspettare», disse a se stesso e ai gemelli. Mentre riavvolgeva i libri nel loro involucro con estrema cura, lo sguardo gli cadde sul sacco con gli oggetti. Il cuoio, pur essendo resistente, ne aveva passate di cotte e di crude. Scolorito dal sole, era attraversato da sottili venature; qua e là spiccavano macchie scure causate dal sudore di Tungdil o dal contatto con i viveri unti. Il fendente del mezz'orco aveva lasciato una vera e propria cicatrice sotto forma di una linea marrone chiaro. Più il nano fissava la borsa e più desiderava guardarvi dentro. Combatteva già da tempo contro l'impulso di sciogliere il nastro variopinto e dare una sbirciatina.
Che cosa potrebbe capitare? Gorén è morto, e voglio sapere che cosa mi sto trascinando dietro per tutta la Terra Nascosta. Non riuscì a tenere a freno la curiosità. Allungò la mano verso il sacco con aria indifferente, per non dare a Boïndil e Boëndal l'impressione di contravvenire agli ordini del mago. Sciolse il nodo con destrezza, e le estremità della cordicella si sciolsero. Subito risuonò un rumore così assordante da far gelare il sangue. Minuscole sfere di luce si alzarono nell'aria crepitando ed esplosero in un tripudio di colori. «Per il martello di Vraccas e per tutti i fuochi splendenti della sua fucina!» Boïndil e Boëndal balzarono su, mettendosi schiena contro schiena e sguainando le armi. Imprecando, Tungdil si affrettò a legare di nuovo la funicella. Il baccano cessò solo quando chiuse la borsa con un nodo identico a quello originale. Si era imbattuto in uno degli incantesimi protettivi di Lot-Ionan. Lo stregone aveva previsto la sua curiosità e gli aveva dato una lezione. «Per tutte le montagne della Terra Nascosta, che cosa è stato, Sapientone?» chiese Boëndal, seccato. «Una delle solite corbellerie magiche?» «Volevo solo verificare che... la trappola magica funzionasse ancora dopo tanto tempo», rispose Tungdil, controllando il respiro. Si era spaventato almeno quanto i gemelli. «È contro... i ladri che potrebbero essere tentati di rubare la borsa.» «Quel cosino ha scatenato tutto questo putiferio?!» Il Rabbioso guardò il cuoio, incredulo. «Qual è lo scopo di tanto baccano? Serve forse al ladro per dare spettacolo e guadagnarsi qualche moneta d'oro?» «No, in questo modo so sempre dov'è e posso riprendermi quello che mi appartiene», rispose Tungdil, inventando una spiegazione più decorosa, poiché non voleva confessare che quella trovata era un deterrente contro la sua curiosità. «Non sarebbe stato più intelligente se il mago avesse pronunciato un incantesimo capace di impedire il furto?» ringhiò Boïndil, sputando. «La magia dei Lunghi, puah. Non conta niente, non serve a niente.» Suo fratello rincarò la dose. «Dovrebbe sbucare fuori un martello che colpisse il farabutto sulla testa», disse sogghignando. «O che gli schiacciasse le mani affinché non le mettesse più sulla roba degli altri», aggiunse Boïndil. Boëndal tornò a sedersi. «Valli a capire, i maghi. Hanno tanto potere e
non pensano alle cose più semplici.» Tungdil deglutì. Era grato al suo padre adottivo per non aver scelto una punizione così brutale. «Gli sottoporrò le vostre proposte», assicurò. «Possiamo sottoporgliele di persona.» «No», si affrettò a protestare. «No, lo farò io. Non gli piacciono le proposte... degli estranei.» Si sentì avvampare; per fortuna, i suoi accompagnatori non lo stavano guardando, impegnati com'erano a salvare dalle fiamme il formaggio caduto nel fuoco con l'aiuto di un bastoncino. «A Grünhain un simile baccano ci sarebbe potuto costare la vita», borbottò Boïndil. «Tieni le dita alla larga dal nastro», gli consigliò con insistenza. Sospirando, recuperò la sua cena dalle braci, la tuffò per un attimo in una ciotola d'acqua per eliminare la cenere e se la infilò in bocca. «Abbiamo avuto fortuna», osservò. L'accaduto era servito di lezione a Tungdil. D'ora in poi toccherò il sacco solo per mettermelo in spalla o per posarlo a terra la sera. Per quanto mi riguarda, può contenere anche un tesoro, non me ne importa nulla.
VII Terra Nascosta, regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, estate Rantja guardò la moltitudine. Nell'atrio del palazzo, i centottanta migliori apprendisti dei regni incantati aspettavano di essere accolti da Nudin il Sapiente. I maghi e le maghe avevano ordinato loro di recarsi nel Lios Nudin per aiutarli nella battaglia contro la Terra Nascosta. Un cicaleccio impaziente riempiva l'ampia stanza dal soffitto alto. «Le barriere magiche sono piuttosto malconce se persino gli studenti devono partecipare alla lotta contro il potere oscuro venuto dal Nord», commentò un apprendista lì accanto. «Sei sempre più carina, Rantja.» «Jolosin!» esclamò la ragazza con gioia, tendendogli la mano. In quell'istante notò la nuova veste blu scuro del giovane. «Oh, hai raggiunto il quarto grado. Hai tormentato tanto Lot-Ionan da non lasciargli altra scelta?» «E Nudin ti ha promosso subito al quinto grado sebbene tu abbia solo trentadue cicli? Sono colpito», ribatté l'uomo dai capelli scuri in tono insieme scherzoso e ammirato. «Stai bene?» «Benissimo», affermò Rantja con un sorriso che si incupì un attimo dopo. «O meglio, stavo benissimo finché ho saputo che la Terra Estinta sta ampliando il suo potere.» Vide poi un bel po' di taglietti sulle dita del suo interlocutore. «Che cosa ti è capitato?» L'altro scosse la testa. «Non chiedermelo. Ti basti sapere che sto lavorando a un incantesimo per pelare le patate», dichiarò di malumore. «Sono contento di essermi finalmente allontanato dalle pentole e di poter fare qualcosa di sensato.» Si guardò intorno. «Hai già visto i grandi maestri?» «Sono scomparsi, come il mio mago, del resto», rispose Rantja, preoccupata. «Tu hai informazioni più precise?» «Ho soltanto ricevuto un messaggio con cui Lot-Ionan mi comunicava che i rituali magici richiedevano tutta la sua attenzione, perciò, per il momento, aveva deciso di rimandare il rientro», disse Jolosin preoccupato, togliendosi dalla spalla il sacco di cuoio con tutti gli oggetti, chiuso da un nastro verde. «La situazione è mai stata così grave?» Rantja scrollò il capo. Le porte si spalancarono e Nudin il Sapiente comparve per dare loro il
benvenuto. Vacillava leggermente e aveva un'aria sfinita. «I miei saluti», gracchiò. La sua voce riecheggiò stanca e stridula. I suoi ascoltatori ebbero l'impressione che un uomo e una donna parlassero contemporaneamente. «Oggi è una giornata nera per la Terra Nascosta. Seguitemi e guardate che cosa ha combinato la Terra Estinta.» Dopo aver fatto loro cenno di seguirlo, si avviò. «Avevo già incontrato Nudin, e devo dire che è molto cambiato», bisbigliò Jolosin a Rantja. «Deve aver messo su almeno venticinque chili e deve indossare scarpe dalle suole spesse.» «Lo so. Molti ritengono che sia più alto del solito.» «Molto più alto. E più grasso. Mi sembra escluso che un uomo continui a crescere alla sua età. Che cosa gli sarà successo? Un esperimento fallito?» Camminando proprio dietro Nudin, percepirono un odore dolciastro, di marcio. L'acqua profumata che il mago utilizzava doveva essere andata a male, ma lo stregone sembrava non essersene accorto. Rantja calpestò qualcosa di viscido e scivolò. Jolosin la afferrò, evitandole una violenta caduta. «Grazie», disse la giovane in tono sbrigativo. Quindi proseguirono, perché gli studenti dietro di loro li spingevano. Nessuno, dunque, si accorse della lunga striscia vermiglia sulle lastre di pietra. Nudin perdeva sangue. La punta del suo bastone picchiettava a intervalli regolari il pavimento. Il mago procedeva spedito, conducendoli attraverso un dedalo di ambienti a volta e sale, fino a raggiungere un'altra porta a due battenti. Levò il bastone con la sinistra, e l'onice emanò un luccichio minaccioso. «Siate forti», li esortò prima di pronunciare la formula che apriva il portale. I battenti si schiusero. Un puzzo di putrefazione uscì dalla sala, facendo vomitare alcuni apprendisti. Rantja vacillò e si appoggiò a Jolosin, che la tenne saldamente, lottando contro i conati. Nudin non si scompose, nonostante il fetore. «Capite quanto è diventato importante il vostro contributo per la Terra Nascosta?» Avanzò, e i giovani entrarono nella stanza esitanti. Scorgendo le spoglie dei loro mentori, lanciarono urla sconvolte e inorridite. Una statua, un mucchio di vestiti, cadaveri in via di decomposizione... Andôkai era così malridotta che non se ne riconoscevano neppure i lineamenti. «Per Palandiell», farfugliò Jolosin quando vide la statua che un tempo
era stata il suo maestro. Nonostante tutto il rancore che gli serbava per la punizione, non gli avrebbe mai augurato una fine simile. «Siamo perduti», balbettò, posando la borsa di cuoio che aveva portato su ordine di LotIonan. «Se loro non sono riusciti a fare nulla contro la Terra Estinta...» Il bastone di Nudin batté forte sul pavimento e gli astanti tacquero. Tutti gli occhi furono puntati su di lui. «Abbiamo commesso l'imperdonabile errore di sottovalutare la Terra Estinta», annunciò con voce tremante. «Quando abbiamo caricato il cristallo e concluso la prima fase della cerimonia, il Terrore dal Nord ci ha colpiti. La pietra preziosa è esplosa! Sono sopravvissuto all'aggressione per miracolo.» L'estremità del bastone indicò quanto rimaneva dei maghi e delle maghe: miseri resti, cadaveri puzzolenti, simulacri ridicoli. «Ho perso dei buoni amici. Voi siete i loro apprendisti, i migliori che ancora esistano nella Terra Nascosta.» Nudin tossì, sputando un grumo di sangue, poi barcollò e si appoggiò allo stregone pietrificato. «Vedete, risento ancora delle conseguenze dell'attacco. Dobbiamo sbrigarci a rimettere insieme il cristallo», ansimò, sfibrato. «Solo così potremo fermare la Terra Estinta. Se falliremo, gli esseri umani non avranno scampo. Il loro esercito non bloccherà mai l'avanzata del Terrore.» Gli studenti si scambiarono occhiate perplesse. Le sue parole e la vista dei mentori morti li avevano scossi nel profondo dell'anima. «I Cinque che tutti consideravano quasi onnipotenti sono stati sconfitti dalla Terra Estinta», sussurrò Jolosin. «E noi dovremmo...» «Dobbiamo seppellirli», affermò Rantja con espressione assente. «Non possiamo lasciarli qui, non è dignitoso.» Si interruppe, cominciando a tremare. «Dominatevi!» li implorò il mago. «Innanzitutto, dobbiamo agire velocemente se vogliamo avere qualche speranza di sbaragliare i nostri avversari. Dei defunti ci occuperemo in seguito.» Con il bastone disegnò un cerchio. «Mettetevi in posizione. Prendetevi per mano e ripetete le mie parole», ordinò. I presenti obbedirono. Rantja e Jolosin si misero fianco a fianco, rinfrancati e incoraggiati dal contatto fisico. Nudin posò il bastone sulle lastre davanti a sé e si piazzò accanto all'apprendista di Lot-Ionan. Le sue mani erano molli e appiccicose, e Jolosin, schifato, dovette far violenza su se stesso per non ritrarre le dita. «Venerabile mago, ho con me gli oggetti che un tempo Lot-Ionan vi chiese in prestito.» Lanciò un'occhiata alla borsa, e Nudin annuì con fare spiccio.
Quindi iniziarono l'invocazione collettiva della magia, che si sarebbe dovuta materializzare come una forma compatta, per poi penetrare nelle schegge di malachite. Il tempo passò veloce. *
*
*
La giornata cominciò sotto la pioggia. Una pioggia battente. L'estate, che ormai si diffondeva sulla Terra Nascosta con tutta la sua energia, cedette per qualche ora il passo alle nuvole affinché il terreno potesse ricevere acqua in abbondanza dopo un periodo di siccità. Le piante furono senz'altro liete del rovescio, ma non così i tre nani. Imbronciati, si rifugiarono sotto un albero e attesero. «Ecco perché viviamo tra le montagne», si lagnò Boïndil, che approfittò della sosta per radersi i lati della testa. Negli ultimi giorni si era mostrato sempre più irrequieto. Nel suo cuore di guerriero desiderava incrociare il muso di qualche mezz'orco per urlargli contro, sputargli addosso e colpirlo. Nel bel mezzo del Lios Nudin, tuttavia, era improbabile imbattersi in quelle bestiacce. «Che cosa facciamo se gli viene un accesso di furore?» sussurrò Tungdil a Boëndal di nascosto. «Dobbiamo arrampicarci su un albero?» L'altro, intento a strizzarsi la treccia, fece un largo sorriso. «Finché ci sono io, non hai nulla da temere. So controllare le sue esplosioni in modo che non si sfoghi sugli esseri viventi. Nella maggior parte dei casi, almeno.» Osservarono i veicoli che percorrevano la strada poco distante. A cassetta di un carro sedevano due giovani innamorati che si concentravano più su se stessi che sui buoi; gli animali non vi facevano caso, trotterellando lungo il sentiero. La vista della coppia rammentò al servo di Lot-Ionan una domanda che da tempo gli bruciava sulle labbra, ma che esitava a porre. Era indeciso se rivolgerla ai gemelli; si sentiva incredibilmente ridicolo perché continuava a interrogarli sul suo popolo. Pur avendo vissuto per interi cicli attorniato da centinaia di libri, non sapeva le cose più elementari riguardo ai nani. Sapientone un corno! Ma tentennare non serviva a nulla, aveva bisogno di certezze. Evitando di guardare gli altri due, chiese: «Come sono le nane?» Silenzio. Il picchiettio della pioggia sulle foglie divenne troppo rumoroso. La risposta dei gemelli si fece attendere. «Carine», rispose Boïndil, laconico. «Molto carine», aggiunse Boëndal. «Aha», fece Tungdil. Silenzio. L'acquazzone si placò e il ticchettio cessò, sostituito da un gocciolio
sommesso e persistente; l'acqua scorreva da rami e ramoscelli. «Hanno la barba?» riprese Tungdil. Silenzio. Il nano si meravigliò di quanti rumori producesse la pioggia se la si ascoltava con attenzione. «Non la chiamerei barba», disse il Rabbioso. «Più che altro una peluria», precisò suo fratello. «Molto attraente.» Silenzio. Il sole si aprì uno spiraglio tra le nubi plumbee, e l'estate tornò con prepotenza nella Terra Nascosta. Tungdil farfugliò il quesito successivo, che riguardava un argomento piuttosto delicato. «I nani e le nane...» I gemelli si voltarono nella sua direzione senza fiatare e Boëndal lo squadrò con compassione. «È ora che incontri il suo popolo», osservò in tono asciutto, levando lo sguardo verso la chioma dell'albero. «Ha smesso di piovere. Proseguiamo.» Alzatosi, Boïndil lo seguì. «Non hai risposto!» «Siamo guerrieri, non eruditi. Inoltre, non si discute di certe cose.» «Anche loro sono guerriere?» «Le nane della nostra stirpe, no», rispose Boëndal, camminandogli accanto. «Si occupano per lo più della vita domestica. Conducono il bestiame al pascolo nelle valli, riempiono le dispense, preparano una birra squisita e ci cuciono i vestiti.» «Quando un uomo e una donna combattono l'uno accanto all'altra non ne viene nulla di buono», borbottò il Rabbioso. Da come ne parlava, si sarebbe detto che avesse già vissuto esperienze di quel tipo, ma il tono della sua voce dissuase Tungdil dall'indagare oltre. «Guardati dal disprezzare le loro doti. Sono orgogliose quanto noi. Alcune figurano tra i nostri migliori fabbri e scalpellini. Le loro dita maneggiano martelli e scalpelli con tanta precisione che, durante le gare, i loro rivali non smettono di stupirsi.» «Eccezioni...» bofonchiò Boïndil, lasciando intendere di non gradire l'idea che le nane svolgessero compiti maschili. «Sono più brave come guardiane del focolare. È questa la loro vocazione.» Tungdil aveva ascoltato con attenzione. «Allora è come per gli esseri umani», constatò. Era sempre più curioso riguardo alle nane e non vedeva l'ora di incontrarne una. Finalmente giunsero a Porista. Tungdil ammirò le torri e le cupole del palazzo, ma i gemelli si limitarono ad abbozzare un sorriso stanco davanti
all'architettura dei Lunghi, che non reggeva nemmeno lontanamente il confronto con quella del loro popolo. La speranza segreta di Tungdil, ossia rintracciare Lot-Ionan e risparmiarsi la fatica di trascinarsi ancora dietro i libri e gli oggetti danneggiati, era destinata ad andare delusa. Appresero che i maghi e le maghe erano già partiti da giorni per rientrare nelle loro terre. Poiché Nudin il Sapiente non riceveva nessuno, non poterono far altro che tornare dal Paziente nello Ionandar. Mentre passavano accanto a un vicolo, Tungdil scorse, legato in una stalla, un cavallo che gli sembrava familiare. «Aspettate.» Si diresse verso l'animale perché, se la memoria non lo ingannava, era stato lui a ferrarlo. Sollevò con delicatezza la zampa anteriore destra ed esaminò il ferro. Recava impresso il suo marchio, e la forma dei chiodi era inconfondibile. «Sono i miei», mormorò. «Amici tuoi?» chiese Boëndal, allentando la presa intorno all'azza che portava in spalla. Suo fratello si toccò i lati della testa per controllare che non vi fosse rimasto neanche un capello. «Direi proprio di no.» Tungdil si avvicinò alle bisacce strapiene e, preso un secchio, lo capovolse, vi salì sopra e si allungò per arrivare alle cinghie di cuoio. Sollevata la patta, tastò alla cieca nella borsa finché trovò un grosso vaso. Lo estrasse con un gesto brusco. «Ricordate il fabbro ambulante morto?» Il suo intuito non aveva sbagliato. Aperto il barattolo, vide la testa di un nano calvo. I cacciatori di taglie avevano rasato la loro vittima senza riguardo affinché il cranio entrasse nel recipiente. Il miele proteggeva il capo mozzato dall'aria, rallentandone la decomposizione. Gli ultimi rivoli di sangue fluttuavano nel liquido dorato e trasparente, simili a strisce rosse. «Questi sono i suoi assassini.» I gemelli gli si avvicinarono facendo tintinnare le cotte di maglia. Nessuno dei due parlò; fissarono con raccapriccio quello che un uomo aveva fatto a un membro del loro popolo in cambio di un poco d'oro. «Per Vraccas! Li farò a fettine!» tuonò il Rabbioso. L'ira lo pervase fino alle punte dei capelli, e le scuri gli volarono in mano da sole. «Lasciate che...» In quel momento, la porta che collegava la stalla all'abitazione si spalancò. Tungdil riconobbe subito il soldato, che a sua volta riconobbe subito lui. Si fermò di colpo e scrutò i tre nani. «Maledizione!» Il rapporto delle forze non dovette sembrargli abbastanza equilibrato, perché girò sui
tacchi e scomparve nell'edificio. «Combatti, codardo! Persino i Musi di porco valgono più di te!» Boïndil era già alle sue calcagna. Dall'interno giunsero i rumori di una colluttazione breve ma violenta, che si concluse con l'acuto urlo di morte del militare. L'avvertimento di Tungdil raggiunse troppo tardi il Rabbioso. «Ci sarebbe stato più utile da vivo!» Ma non rimproverò l'amico. Solo quando Boïndil vide il sangue e il corpo inerte del suo avversario, la collera che gli aveva ottenebrato la mente cedette il posto alla ragionevolezza. «Aspettiamo che tornino gli altri», suggerì Boëndal, asciutto. «Se ricordo bene il tuo racconto, ne mancano ancora quattro.» Tungdil annuì, e si nascosero nella stalla. I mercenari comparvero verso sera; a giudicare dai loro volti, non avevano avuto fortuna e rientravano senza bottino. Il Rabbioso sbuffava dietro la porta con le scuri in mano e attendeva impaziente l'arrivo dei guerrieri. Suo fratello si era appostato dentro un mucchio di paglia. Tungdil preferì tenersi in disparte. I gemelli erano così affiatati durante i combattimenti che la sua presenza li ostacolava più di quanto li potesse aiutare. Quando i quattro uomini furono entrati nella stalla e smontati dai cavalli, Boïndil e Boëndal si scambiarono un cenno del capo e uscirono dai loro nascondigli. «Lasciate in vita uno di quei farabutti!» rammentò loro Tungdil, seguendoli. Uno dei guerrieri vide gli aggressori che si avvicinavano e allungò la mano verso l'elsa della spada. Aveva estratto per metà l'arma dal fodero, quando una delle scuri di Boïndil gli centrò il fianco sinistro con tanta violenza da scagliarlo contro la parete. La seconda lama cadde obliqua dall'alto, lacerandogli la pelle e i tendini del ginocchio destro e fracassandoglielo. L'uomo si piegò in due con un grido. Poi il Rabbioso non lo degnò più di uno sguardo. Constatato l'effetto ottenuto con quei due colpi, si lanciò ridendo contro il nemico successivo. Suo fratello si occupò degli altri due assassini. Si avventò contro il primo a testa bassa, e l'azza scintillò. Il mercenario riuscì a staccare lo scudo dal cavallo e a metterselo davanti per proteggersi, ma aveva sottovalutato l'enorme forza di penetrazione dell'arma di Boëndal. L'estremità acuminata sfondò il metallo e sbucò
dall'altra parte, dove si trovava il braccio dell'uomo. Quello che trapassava il legno e il ferro non si fermò certo davanti alla carne e alle ossa. Il cacciatore di taglie urlò. Dopo avere strappato l'uncino dallo scudo, Boëndal colpì il nemico al ginocchio. L'articolazione si piegò all'indietro a causa dell'enorme pressione e si spezzò con uno schiocco. Il secondo avversario era fuori combattimento. «Così impari a uccidere i nani in modo tanto vile!» Accecato dall'ira, il Rabbioso tempestò il suo rivale di fendenti rapidi e poderosi. Tungdil notò che i soldati si sforzavano di parare i colpi furiosi degli assalitori, ma i loro visi disperati erano molto eloquenti. Di solito la paura preannunciava la sconfitta, e così accadde anche in quel caso. Boïndil fece vorticare le scuri perché il mercenario non potesse prevedere da dove sarebbe arrivato l'attacco. Terrorizzato, il nemico si voltò e tentò di raggiungere il suo cavallo. Correva più veloce del nano, ma non più svelto dell'azza di Boëndal. L'arma gli rimbalzò contro la schiena con un tonfo sordo quando fece per montare in sella. La pesante estremità metallica gli fracassò le costole, ritardando la sua fuga. Il Rabbioso ne approfittò per recuperare lo svantaggio. «Sei troppo alto per i miei gusti, Lungo», sbuffò, tagliandogli i tendini dei talloni. Mentre l'altro cadeva, lo colpì di nuovo, uccidendolo con due vigorosi fendenti alle clavicole. Poi Boïndil affrontò il quarto soldato, rannicchiato dietro un mucchio di paglia. «Adesso tocca a te!» Lo sguardo era acceso da un bagliore di follia, la cotta di maglia imbrattata del sangue nemico. «In quale dio credi? Palandiell? Samusin?» L'uomo gettò via l'arma e alzò le braccia. «Mi arrendo», si affrettò a gridare. Il nano mostrò i denti. «Non me ne importa niente», ringhiò, scagliando le scuri contro il corpo del mercenario disarmato, che crollò a terra con un gemito e morì in fretta ma tra mille tormenti, come Tungdil poté intuire dai suoi rantoli. Tungdil si girò. Il comandante, che Boïndil aveva messo fuori combattimento all'inizio dello scontro, giaceva agonizzante in una larga pozza di fango. Tungdil si affrettò a raggiungerlo. «Chi vi ha pagati?» domandò. «Diccelo subito, e ti salviamo la vita.» «Altrimenti restiamo a guardarti mentre ti rotoli nel tuo stesso sangue»,
minacciò Boïndil. «Per Palandiell, fasciatemi!» supplicò il cacciatore di teste, premendosi la mano contro il fianco ferito. Il sangue gli zampillava tra le dita così copioso che Tungdil non credeva di poterlo salvare. Lot-Ionan sarebbe stato sicuramente in grado di farlo, ma una benda non sarebbe servita a nulla. «Diccelo», gli intimò Boïndil, adirato. «Oppure finisco quello che tua madre ha messo al mondo con tanta sofferenza!» Ma l'altro morì prima che il nano potesse mettere in atto la sua minaccia. Voltatisi, i gemelli arrancarono verso l'ultimo sopravvissuto, cui la lunga punta dell'arma di Boëndal aveva trapassato lo scudo e la mano. Il mercenario strinse i denti. Il dolore procuratogli dal ginocchio fratturato mise a dura prova la sua determinazione di non gridare. «Abbiate pietà, non so quasi niente», balbettò. «Nel Gauragar abbiamo appreso della ricompensa offerta per la testa di un Cavernicolo. È successo poco dopo che abbiamo incontrato lui», spiegò, indicando Tungdil. «Chi ve l'ha riferito?» tuonò il Rabbioso, avvicinando una delle scuri insanguinate alla gola del soldato. «Il capo della corporazione! Il capo della corporazione!» gridò l'altro, decisamente impaurito. «È stato lui a mandarci da queste parti. Raccogliamo le teste, e una volta ogni trenta rotazioni compare un messaggero che ritira i vasi. Riceviamo la nostra quota dalla corporazione. Trenta monete ciascuno per ogni cranio.» «Quale corporazione?» chiese Tungdil. «Quella dei cacciatori di taglie», rispose il guerriero, gemendo forte quando le fitte divennero insopportabili. «Lasciatemi andare. Vi ho detto tutto quello che sapevo.» Tungdil gli credeva, ma era certo che i gemelli non l'avrebbero risparmiato. L'avidità di quegli uomini andava punita. «Tu non vai da nessuna parte.» La lama di Boïndil finì il suo lavoro prima che gli altri due nani potessero trattenerlo, e il soldato esalò l'ultimo respiro. «In marcia», ordinò Boëndal con voce spenta. «Andiamocene prima che la guardia cittadina venga a ficcare il naso qui dentro.» Si affrettarono a recuperare i bagagli e lasciarono Porista per proseguire il viaggio verso lo Ionandar. In un primo momento temettero che le sentinelle li seguissero, ma poterono procedere indisturbati. Tungdil si sentiva pieno di rimorso. «Non è giusto. Avremmo dovuto
consegnarli alla guardia insieme con il barattolo», affermò mentre camminavano sotto la pioggia in mezzo al fango e alle pozzanghere. Gli occhi di Boïndil si ridussero a fessure. «È un rimprovero perché non ho lasciato in vita nessuno dei Lunghi?» Si asciugò le gocce d'acqua dalla barba nera. «Il loro destino sarebbe forse cambiato? Li avrebbero processati e giustiziati.» «Si sono meritati la morte, solo che...» Tungdil non sapeva come esprimere il senso di colpa per farlo capire al Rabbioso. Boëndal appoggiò il fratello. «No, Sapientone. Non ci sono "solo che", "se" o "ma" che tengano. Hanno ucciso per denaro, sono morti per denaro. Che differenza avrebbe fatto se li avessero giustiziati i Lunghi? In questo modo abbiamo vendicato i nani trucidati. È stato meglio così.» Per sottolineare che non avrebbe cambiato idea, si gettò la treccia oltre la spalla. Tungdil non aveva nulla da obiettare. Era troppo erudito per comprendere la mentalità dei suoi accompagnatori. «Sbrighiamoci. Il consiglio dei nani ci aspetta», dichiarò Boïndil, più conciliante. Il massacro della stalla gli aveva permesso di sfogare la collera repressa, ed era tornato più affabile.
Terra Nascosta, regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, estate «Non ce la faccio più», gemette Rantja a bassa voce. «Ti prego, resisti», le bisbigliò Jolosin. «Se uno di noi abbandona il cerchio, la cerimonia si interrompe. Lo devo al mio mentore... e tutti noi lo dobbiamo alla Terra Nascosta.» Nudin cominciò a parlare in maniera diversa. Il suo gracchiare si trasformò in un acuto mormorio che non assomigliava più alla voce del mago. Un attimo dopo, adottò un tono basso e cupo che vibrò nel ventre degli apprendisti. Nemmeno i più esperti ricordavano di aver mai udito qualcosa di simile. Tuttavia funzionò. Emanando un luccichio verde scuro, i frammenti di malachite si sollevarono a tre passi dal pavimento e fluttuarono liberi nella stanza formando una sorta di disco. Persino le schegge conficcate nel cadavere di Maira la Guardiana si fecero strada nella carne putrefatta e ne uscirono con un lieve schiocco. «Guarda!» Jolosin strinse la mano di Rantja. «Ce l'abbiamo quasi fatta!» Il Sapiente continuò a svolgere il ruolo di portavoce. Gli studenti ripeterono le sue formule finché queste ultime, all'improvviso, divennero incomprensibili. Nudin farfugliava parole apparentemente senza senso, e i suoi aiutanti non riuscivano più a seguirlo. Il rituale rischiava di fallire. I pezzetti di pietra si unirono a formare una luminosa lastra rotonda del diametro di dieci passi, che prese a ruotare intorno al proprio asse. «È così che dev'essere?» chiese Jolosin a Rantja. «Non ho mai partecipato a una cerimonia simile.» La giovane non rispose. I movimenti divennero rapidissimi; più la malachite guadagnava velocità, più i frammenti apparivano compatti. Alla fine si addensarono in un grosso cristallo. «Il Sapiente sa bene quello che fa», ansimò Rantja, prima di ammutolire come tutti gli altri. Il silenzio aveva un che di solenne. Centottanta persone erano in piedi intorno alla pietra scintillante cui la volontà di Nudin aveva dato una nuova forma. Alcuni studenti tirarono un sospiro di sollievo, godendosi lo spettacolo maestoso davanti ai loro occhi. «Ci siamo riusciti», esultò Jolosin. Tentò di liberare le dita da quelle di Nudin per abbracciare Rantja, ma il mago aveva una stretta d'acciaio.
La bocca del Sapiente si aprì per pronunciare un'unica parola sconosciuta. Una scheggia si staccò dalle altre e volò come un proiettile nel petto di Jolosin senza che gli altri se ne avvedessero. «Che cosa...» L'apprendista emise un gemito. Avrebbe voluto lasciare la mano dello stregone per toccare il punto in cui era penetrato il pezzetto di malachite. Quando il frammento aguzzo gli si conficcò nella carne, avvertì il sangue che colava dalla ferita e gli scorreva sul ventre, ma le dita fredde e appiccicose non lo lasciarono. «Venerabile mago», balbettò tra le fitte di dolore. «Sono... ferito. La pietra mi ha attaccato.» Nudin girò il viso molle e tumefatto nella sua direzione. Le pupille gli si dilatarono fin quasi a invadere le iridi, per poi ricoprirsi di un torbido velo argenteo. «Lo so, giovanotto. Non ne posso fare a meno, mi serve la tua magia.» Gli strinse la mano con fare incoraggiante. «Presto smetterai di soffrire.» Il Sapiente abbassò le palpebre. Un altro minuscolo pezzetto di malachite volò attraverso la sala e colpì Rantja; le schegge sfrecciarono qua e là sempre più velocemente, e solo quando metà degli apprendisti fu caduta vittima degli attacchi, gli altri si accorsero di ciò che stava accadendo e supplicarono Nudin di fare qualcosa. «Restate dove siete! Oppure volete rovinare tutto quanto?» Continuò a rimanere immobile con gli occhi chiusi. Coloro che erano ancora indenni non fecero caso alle sue parole. Volevano lasciare il cerchio e mettersi al riparo prima di riportare ferite mortali. Ma non ci riuscirono. Si accorsero con raccapriccio di avere le mani incollate a quelle dei vicini, e poco dopo furono colpiti a loro volta dai frammenti. La malachite sprigionava raggi verde scuro che lambivano gioiosi i corpi dei giovani e scivolavano dentro di loro attraverso gli squarci provocati dai frantumi. Nudin aprì gli occhi, in cui brillava una luce folle. Sbottonatosi la veste all'altezza del petto, urlò una seconda parola. Una scheggia di cristallo lunga quanto un dito percorse uno dei raggi scintillanti per conficcarsi nel suo corpo. Il raggio si dilatò, aumentò di diametro, pulsò e guizzò mentre i fasci di energia verde scuro che legavano gli studenti alla malachite si indebolivano per poi spegnersi di
colpo. «Finito!» Nudin lanciò un urlo di trionfo, forte e disumano, quindi rise soddisfatto. «Ho finito! Adesso posso gettare la maschera e tornare a essere Nôd'onn il Duplice.» Gli apprendisti si accasciarono sul pavimento. Jolosin e Rantja non riuscivano a parlare, come tutti gli altri. La pietra li aveva privati di ogni forza e della loro magia. Gli studenti di fibra meno robusta furono i primi a morire. I loro cuori smisero di battere, e la respirazione cessò. Jolosin, Rantja e pochi altri riuscirono a mobilitare le loro ultime riserve e a strisciare verso l'uscita per sfuggire a Nudin. Il mago allungò le dita appuntite ad afferrare la scheggia conficcata nel suo petto. Estrasse il frammento insanguinato per poi esaminarlo con aria meditabonda e infilarselo di nuovo nella carne. Quindi si avvicinò alla lastra di malachite. «Hai fatto il tuo dovere. Sparisci.» Appena toccò il cristallo fluttuante con l'onice, il disco cadde, andando nuovamente in mille pezzi. Non fermarti, passa all'incantesimo successivo. Nôd'onn si accostò al sacco con gli oggetti, lo tirò a sé e si affrettò verso l'uscita. Scavalcò tre studenti e li uccise conficcando loro la punta del bastone nella schiena. Il bianco dell'acero si tinse di rosso. Sulla soglia, si girò ancora una volta. I suoi occhi perlustrarono il locale, in cui il fetore della decomposizione si sarebbe intensificato ben presto. L'idea non lo infastidiva. Non aveva più alcun motivo per tornare nella sala del rituale, perché ormai aveva quasi realizzato il suo piano. In quel momento notò Jolosin e Rantja. Sfondò il cranio del giovane con una bastonata brutale e violenta, poi spinse la ragazza dalla soglia all'interno della stanza con lo stivale. Rantja si girò sulla schiena e, tra le lacrime, cercò di pronunciare una formula di autoguarigione, ma l'incantesimo fallì. Accovacciatosi, Nôd'onn le accarezzò con delicatezza i lunghi capelli castani. La conosceva molto bene e la considerava una delle sue studentesse più brillanti; forse si sarebbe fatta strada fino a succedergli al comando del Lios Nudin, ma non avrebbe mai aderito ai suoi progetti. «L'incantesimo non ti riesce perché hai la scheggia di cristallo dentro di te e sei vuota ed esausta», spiegò. «Morirai come gli altri, Rantja.» Con occhi colmi di disprezzo, la donna guardò il mago, che conosceva, o credeva di conoscere, ormai da cicli.
Lui distolse lo sguardo, ma la vista della moribonda lo aveva riempito di mestizia. «Mi dispiace aver dovuto spezzare tante vite per impadronirmi delle loro forze», si scusò. «D'altronde, non avreste mai approvato i miei piani, proprio come Sabora, Turgur, Lot-Ionan, Andôkai e Maira. Mi era rimasta soltanto questa strada, che non ho certo imboccato con leggerezza. Il destino ha preteso che agissi così. Bisogna proteggere la Terra Nascosta da catastrofi peggiori», disse dolcemente, rispondendo alla domanda muta di Rantja. «Non esistono catastrofi peggiori del Terrore dal Nord», replicò lei, stremata. «Traditore! Gli dei ti puniranno!» Nudin la fissò con aria meditabonda. «Può darsi», ribatté con lentezza. «Può darsi. Accetto l'ira degli dei se in cambio posso salvare gli uomini.» Si alzò e, a un suo cenno, i battenti giganteschi si spalancarono. «E potrò farlo solo con l'aiuto di alcuni prescelti e della Terra Estinta.» «Sei pazzo», sussurrò Rantja, e i suoi occhi si spensero. «Sei...» Il corpo giacque abbandonato, il capo le ricadde all'indietro e si girò leggermente di lato. «No», protestò Nudin, abbattuto. «Nessuno mi capisce. Ma ero stato avvisato...» Si voltò all'improvviso e percorse il palazzo a passo spedito per raggiungere la volta sotterranea. Le porte della sala in cui i più grandi esperti di magia avevano trovato la loro ultima dimora si richiusero con un rumore sordo. Il Duplice scese di corsa gli scalini e raggiunse la zona in cui avvertiva con maggiore intensità il flusso magico che attraversava il suo paese. Il Lios Nudin si trovava al centro delle energie che si irradiavano verso gli altri cinque regni incantati. Presto le cose sarebbero cambiate. Aveva sconfitto i maghi e i loro migliori studenti, ma doveva occuparsi anche degli apprendisti che occupavano i gradini inferiori della scala degli eruditi. Non potendo fermare il flusso magico, aveva in mente un nuovo stratagemma per sottrarre agli allievi di livello più basso lo scarso potere che possedevano. Ma prima devo sbrigare una faccenda altrettanto importante. Dopo avere rimosso la striscia di cuoio verde, aprì il sacco e lo capovolse rovesciandone il contenuto sul pavimento. Una clessidra si frantumò sul marmo, seguita da una pergamena e da due amuleti che andarono in mille pezzi. Nôd'onn fissò gli oggetti con rabbia. Non sono i miei! La punta del suo
bastone rovistò tra la sabbia della clessidra. Maledizione! Si costrinse a mantenere la calma. Poteva sempre ordinare ai mezz'orchi di andare a prendere i suoi averi nella galleria di Lot-Ionan. Concentrandosi, lo stregone sfruttò le sue capacità per cercare mentalmente il campo magico. Quando si accorse di aver trovato un contatto, recitò la formula che la Terra Estinta gli aveva insegnato e liberò le energie sottratte agli apprendisti.
VIII Terra Nascosta, regno incantato di Ionandar, 6234° ciclo solare, tarda estate I tre nani acquistarono dei pony per avanzare più velocemente e cavalcarono senza sosta, smontando e camminando accanto agli animali solo quando il dolore alle natiche diventava intollerabile. Strada facendo, Boïndil e Boëndal insegnarono a Tungdil alcune melodie che, essendo note a tutte le stirpi, costituivano un ultimo vincolo capace di legare tra loro i figli del dio Vraccas. I motivetti erano semplici e facili da ricordare, perché i nani non amavano le arie elaborate. Tungdil, tuttavia, li trovò un poco melanconici: doveva dipendere dall'oscurità costante in cui viveva il suo popolo. Le canzoni più allegre erano quelle che parlavano di oro e tesori, come Qualcosa brilla laggiù nella galleria o Fuoco diamantino, fresco e chiaro. I gemelli intonarono con lui il canto conviviale Mille bevitori, mille calici dopo che Boïndil ebbe acquistato una piccola botte di birra. L'indomani fu una di quelle giornate in cui Tungdil avrebbe desiderato non possedere una testa. Boëndal gli assicurò che la birra dei nani non provocava simili effetti, mentre i Lunghi producevano un intruglio scadente. Lungo il tragitto, il venditore ambulante Sami, un tipo dagli abiti dimessi e dalla barba ispida, riferì loro alcuni avvenimenti singolari. «In alcune regioni si racconta che i migliori apprendisti di tutti e cinque i regni incantati siano partiti per il Lios Nudin», annunciò mentre Tungdil esaminava il suo assortimento di gioielli. Aveva promesso a Frala di portarle qualcosa di bello e voleva comprarle un regalo prima di dimenticarsene del tutto. I gemelli aspettarono, pazienti. «Qualche novità da Grünhain?» «L'elfa si è sottomessa alla Terra Estinta e il bosco si è trasformato in un luogo del Terrore. Re Bruron meditava di incendiare gli alberi affinché nessun viandante sbadato potesse avventurarsi in quella zona e venire ucciso», rispose Sami, indicando con intenzione i suoi saponi alle erbe. «Quelli farebbero al caso tuo, Cavernicolo.» «Siamo nani! Vorresti insinuare che puzziamo?» ringhiò il Rabbioso. «Vieni qui che ti insapono, misero Lungo.» «No, niente affatto. Pensavo che cercasse qualcosa per una signora», si
affrettò a difendersi il venditore. «Ma giacché siamo in argomento...» intervenne Tungdil. Non riuscendo a trattenere la frecciata, lanciò a Boïndil un pezzo di sapone duro e grossolano. «Prendi.» Comprò una saponetta al gelsomino, un pettine decorato e due bambole per Ikana e Sunja. Boïndil annusò il sapone, ne grattò via un pezzetto e lo assaggiò. «Puah, lavarsi! Non ha nemmeno un buon sapore.» Lo ripose con noncuranza. «La Terra Estinta sta avanzando?» domandò Boëndal a Sami. «È probabile. Si mormora che gli elfi occupino l'ultimo fazzoletto del regno di Âlandur e lo difendano dagli attacchi incessanti degli albi. A quanto pare, i primi elfi sono fuggiti e hanno cercato rifugio nella Pianura delle Spighe, nel Tabaîn.» Sami avvolse i regali in un tessuto ruvido. «Si dice che gli albi stiano prendendo il sopravvento lentamente ma con costanza. Se volete il mio parere, l'Âlandur cadrà, e allora non vi sarà più nessun regno elfico nella Terra Nascosta.» Porse il pacchetto a Tungdil. «Una monetina d'argento, egregio signor Cavernicolo.» «Nano», lo corresse Tungdil. «Prego?» «Siamo nani, non Cavernicoli.» «Giusto, l'avevo dimenticato», si scusò subito Sami, lanciando un'occhiata diffidente a Boïndil, che si osservava i lati rasati della testa in uno specchio. Le notizie avevano turbato Tungdil. «Non vedo l'ora di sapere che cosa ne pensa il consiglio delle stirpi.» «Esulterà», disse il Rabbioso, stringendosi nelle spalle. «Una parte degli Orecchi appuntiti è stata liquidata e l'altra verrà sterminata ancor più facilmente se si avventurerà tra le nostre montagne. Non sopporterei di vedere i loro brutti musi tra i nostri Monti Blu, siano essi albi o elfi. È meglio che i fuggitivi rimangano dove sono.» Tungdil si grattò la barba castana. «E i mezz'orchi?» «Oh, se vogliamo dare credito alle voci che li riguardano, si fermeranno contemporaneamente in tre posti.» Sami fece una smorfia insofferente. «Le strade non sono sicure. Re Bruron non riesce ad affrontare le creature di Tion e ad annientarle. Perciò quelle bestiacce continuano i loro saccheggi, e quelli come me devono preoccuparsi per la vita e per la merce.» Leccandosi le labbra, Boïndil gli lanciò uno sguardo carico di cupidigia. Tungdil lo udì mormorare: «Bene, bene».
Alla fine, si accomiatarono dal venditore e proseguirono. Per racimolare qualche moneta, Tungdil prestava la sua opera di fabbro lungo il cammino; i gemelli lo aiutavano oppure decoravano le architravi delle porte e delle finestre di contadini e paesani con meravigliose incisioni. Così raccolsero prosciutto e formaggio a sufficienza e si avvicinarono alla loro meta successiva: la galleria. «Hai delle briciole di formaggio nella barba», disse Tungdil a Boïndil durante una sosta. «E allora?» «Non... sta bene», affermò il nano, cercando di essere diplomatico. Il Rabbioso si limitò ad accarezzarsela per eliminare i granelli più grossi. «Ce ne sono ancora...» «Gli altri rimangono dove sono», ribatté l'altro, brusco. «Così la barba resta sempre bella morbida.» Quasi a conferma delle sue parole, anche un pezzetto di pane gli si impigliò tra i peli arruffati. Tungdil immaginò che la barba avesse una vita propria e inghiottisse il cibo. Quello era senza dubbio il motivo per cui gli scarafaggi non vi facevano il nido. Vi strisciavano dentro e venivano divorati. «Che cosa diranno le nane quando vi vedranno così trascurati...?» «Ricominci con questa storia?» lo interruppe Boïndil con un sorriso maligno. Aveva dei resti di formaggio tra i denti, e diede a Tungdil una pacca incoraggiante sulla spalla. «Abbi pazienza, Sapientone. Presto imparerai molte cose se sarai furbo. Secondo me, non sei il più brutto. Troverai senz'altro una donna adatta a te», fu il consiglio di Boëndal. «E poi... che cosa faccio?» L'altro gli diede una gomitata nel fianco. «Le fai gli occhi dolci. Quindi le canti una canzone e le forgi un anello per conquistare il suo cuore. Le baci i piedi, glieli massaggi con il suo formaggio preferito e giri in tondo quattro volte. A quel punto si aprirà il portone che ti condurrà nella sua Terra Nascosta.» «Mi sembra... Non è questo che dicono i libri», osservò Tungdil, perplesso. Guardò Boëndal, nei cui occhi brillava una scintilla di malizia. In quello stesso momento, il Rabbioso scoppiò in una fragorosa risata. «Stupido idiota.» Tungdil storse la bocca. «Non è divertente», dichiarò, offeso. «Non è colpa mia se non conosco nessuna nana.» Boïndil si asciugò le lacrime di ilarità dagli angoli degli occhi. «Non prendertela. Mio fratello, però, ha sempre avuto successo con questo
metodo.» Le risa dei due fratelli riecheggiarono tra le dolci colline dello Ionandar. «Sii semplicemente te stesso», suggerì Boëndal, un po' più serio. «Naturalmente non posso parlare per tutti, ma ho imparato che, se fingi, ti smascherano in fretta.» «Ha sempre voluto fare il poeta», sghignazzò Boïndil. «Ma non ha convinto nessuno. Nel tuo caso, potrebbe funzionare.» «Quali regali preferiscono?» «Oh, molto scaltro! Vuoi tentare di corromperle?! Per conquistare il cuore di una nana nubile non esistono ricette che si possano imparare dai libri, Sapientone», interloquì Boëndal. «O le piaci e te lo fa capire, oppure non le piaci.» «E ti fa capire anche questo», esclamò il Rabbioso in tono allegro. «E non chiedermi come», rise Boëndal. «Se le piaci, può succedere qualsiasi cosa. Ma adesso basta parlare di donne.» Procedettero. Dopo diverse rotazioni del sole, Tungdil si rese conto che il paesaggio gli era familiare. Si stavano avvicinando sempre più alla galleria del mago. Pregustò con gioia l'incontro con gli apprendisti, e soprattutto con la cara Frala e le sue figlie. Faranno tanto d'occhi quando sapranno che cosa vuole da me il popolo dei nani. Per dimostrare alla serva che non l'aveva dimenticata, si annodò il suo fazzoletto intorno alla vita. Il gruppetto giunse alle rive di un fiume. Sulla sponda opposta dondolava una barca, e sull'argine si ergeva la casa del traghettatore. La mano di Tungdil si allungò verso la campana che penzolava da un ramo accanto all'approdo per avvisare il barcaiolo della loro presenza. Il Rabbioso lo fermò. «Che cosa fai?» «Chiamo il traghettatore», rispose l'altro. «Oppure hai imparato a nuotare mentre camminavi e cavalcavi e vuoi raggiungere l'altra sponda a bracciate?» Boïndil osservò la corrente. Le onde gorgogliavano e sciabordavano contro la riva. «Cerchiamo un'altra strada», decise. «Qui è troppo profondo. Potremmo cadere dalla barca e annegare.» «Potresti anche cadere dal pony e romperti l'osso del collo», ribatté Tungdil, pungente. «Il tragitto fino al prossimo guado richiede almeno due rotazioni!» Scrutò i volti impenetrabili dei gemelli e capì che tanto valeva risparmiare il fiato. «Di qua», sospirò, indicando contro corrente. «Perché rifuggite l'acqua?»
Boëndal gli raccontò la leggenda che spiegava come mai l'acqua non sopportava i nani. «La dea Elria, che nacque da quell'elemento e si sentiva molto legata a esso, non amava noi nani. Per lei i figli del Fabbro, che avevano a che fare con il fuoco e le fiamme, erano l'esatto contrario delle sue creature acquatiche. Affinché non entrassimo in contatto con quegli esseri, lanciò una maledizione su di noi. Appena entriamo in acqua fuori dai nostri regni, siamo destinati ad affogare.» I fratelli attribuivano intenzioni omicide a mari, laghi, fiumi, stagni e persino alle pozzanghere di grandi dimensioni, ed evitavano tutto quello che assomigliava a una distesa d'acqua profonda. «Comunque, è un ottimo pretesto per non lavarsi», commentò Tungdil. Cavalcarono lungo il fiume per il resto della giornata e raggiunsero il guado dopo essersi accampati per la notte. I gemelli avanzarono con estrema prudenza nella corrente impetuosa che turbinava con forza intorno alle loro cosce, come se volesse davvero travolgerli e farli annegare. Verso sera si approssimarono all'entrata della galleria che ospitava la scuola di Lot-Ionan. Boïndil e Boëndal si inquietarono all'idea di essere ancora pericolosamente vicini alla magia. «È stato già abbastanza sgradevole dover passare da lui mentre ti cercavamo. Sarà anche gentile, ma è e rimane un predicatore di formule», ringhiò Boïndil, burbero. «La stregoneria non è nulla di buono. Noi nani lo sappiamo e le giriamo al largo. Se Vraccas avesse voluto che padroneggiassimo la magia, ci avrebbe dotato di quella capacità.» Guardò il suo protetto con diffidenza. «Lo sai, vero?» chiese in tono insistente. «Oppure Lot-Ionan ti ha corrotto?» «Non so fare incantesimi, e non ci ho mai neppure provato», lo tranquillizzò Tungdil, arrestandosi. «Vorrei che continuaste a comportarvi in modo rispettoso dinanzi a Lot-Ionan», aggiunse, guardandoli entrambi con espressione supplichevole. «È colui che un tempo mi ha accolto e salvato. Pensate che senza di lui non ci sarebbe alcun pretendente al trono...» «Perbacco, mi sembra di sentir parlare di nuovo il Sapientone», osservò Boëndal con sarcasmo, imitandolo. «La sua lingua inizia addirittura a diventare più superba: costruisce frasi stranissimissime per sostenere una conversazione con gli altri esseri...» «Stranissime», lo corresse Tungdil, sorridendo. «Ho capito,
perdonatemi. Siate cordiali, oppure, se vi risulta più facile, rimanete in silenzio. Oppure aspettate davanti al portone, non me la prenderò.» La sera calò mentre percorrevano gli ultimi passi che li separavano dalla galleria. Già da lontano, Tungdil notò un particolare insolito: la grande porta era socchiusa. Forse un apprendista negligente aveva dimenticato di chiudere bene i battenti e di proteggerli con un incantesimo. Un sogghigno perfido si insinuò sul suo volto abbronzato, e gli comparvero delle rughe intorno agli occhi. Ben presto il responsabile avrebbe rimpianto amaramente quella svista. Il nano progettò di far prendere un bello spavento agli studenti e alle serve. «Guardate qui», disse Boïndil in tono di rimprovero quando si accorse del portone aperto. «Per Vraccas, è forse una trappola per attirare i viandanti in un'imboscata? I battenti si richiuderanno una volta che saremo entrati?» «Che cosa se ne fanno dei viandanti?» protestò suo fratello. «Li usano per verificare l'efficacia dei nuovi incantesimi. Che ne so... Forse sperimentano su di sé la loro arte solo quando sono sicuri che funzioni davvero.» Guardò Tungdil per ricevere una conferma alle sue parole, ma l'altro tacque per prudenza. Boïndil strinse una delle sue scuri. «Se uno dei custodi della magia mi guarda storto, se ne pentirà», bofonchiò attraverso la barba nera. Boëndal rise forte. «Se ti trasformeranno in un topo o in un pezzo di sapone, ti vendicherò.» Accarezzò l'impugnatura dell'azza con un gesto eloquente, ma suo fratello evitò di replicare, limitandosi a corrugare le sopracciglia. Tungdil si avvide che entrambi avevano incassato leggermente il capo tra le spalle e, come dimostravano i loro movimenti, avevano assunto un atteggiamento bellicoso. Per sicurezza, si posizionò in testa al gruppetto. «Fate piano», li pregò, «voglio fare loro una sorpresa.» Boïndil continuava a essere scettico. «Sicuro che sia una buona idea? E se si spaventano e ci lanciano un sortilegio?» ipotizzò. «Che cosa succede se non ti riconoscono?» Tungdil scosse il capo ed entrò nella galleria, dove aleggiava un profumo familiare. Carta, papiro, pergamena e la polvere di centinaia di libri si mescolavano al tipico odore della pietra e a un lieve aroma di cucina. «Forse ci sono bollito e arrosto per cena.» Girò il capo per gettare uno sguardo ai gemelli, ma quelli avevano occhi solo per la struttura delle pareti e parlottavano domandandosi chi mai
avesse costruito quei corridoi. «Sono stati i Lunghi. Si vede, l'avevo notato già durante la nostra prima visita», asserì il Rabbioso, studiando i muri con occhio esperto. «Troppo rozzi, e nessuna idea della conformazione della roccia. Hanno scavato nella direzione contraria agli strati, anziché prestare attenzione ai filoni.» Indicò alcune venature sottili. «Se ci si sforza un poco, si riescono a decifrare gli indizi forniti dalla pietra. Li vedo persino io, che sono un guerriero.» «Il contenuto di sabbia è molto alto.» Boëndal osservò il soffitto, sostenuto da travi poste a intervalli di un paio di metri. «Una costruzione molto audace», commentò. «Non sono stati interpellati scalpellini né ingegneri.» Prese la sua arma e la picchiettò con cautela contro il soffitto, da cui caddero subito dei frammenti. «Non sono un esperto, ma avrei rimosso completamente il rivestimento del corridoio. Per effetto del calore, l'umidità è passata alla roccia dagli strati sabbiosi, che si sono così prosciugati. Il tuo mago non ha la più pallida idea dei fattori cui bisogna prestare attenzione quando si costruisce una galleria. Meno male che...» «Non fate rumore», ribadì Tungdil. «Mi rovinate la sorpresa!» «Guarda! Adesso so perché Vraccas ci ha ordinato di badare ai Lunghi.» Boïndil alzò gli occhi al cielo. «Niente guardie, niente campane per dare l'allarme, niente di niente. Da noi non funziona così», sussurrò al fratello, ma sempre a voce abbastanza alta perché Tungdil lo sentisse. «Qui si può passeggiare più tranquillamente che nella tana di un drago morto.» Tungdil continuò ad avanzare. I suoi occhi si abituarono in fretta alla penombra, ma la galleria gli sembrava un po' troppo silenziosa. Non c'erano porte che sbattevano, né persone che chiacchieravano. Se non fosse stato per il profumino appetitoso del cibo, avrebbe ipotizzato che il mago e la sua scuola avessero traslocato in un'altra dimora sotterranea. «Forse hanno lasciato qui il cuoco e hanno abbandonato la galleria», azzardò il Rabbioso a mezza voce. «Magari si sono accorti che il loro tunnel pericolante è in pessime condizioni.» Boëndal lo fulminò con un'occhiata. «Perché avrebbero dovuto lasciare qui proprio il cuoco?» «Perché non era bravo», sogghignò Boïndil. «Per punizione deve restare qui e cucinare finché la roccia crolla. Oppure l'hanno cotto nel suo stesso brodo.» Tungdil li lasciò parlare e li guidò immediatamente verso lo studio del suo padre adottivo. Bussò alla grande porta e, non ricevendo alcuna
risposta, entrò. «Preferiamo aspettare fuori per non disturbare il vostro incontro», gli gridò Boëndal. Quando vide la stanza, il nano si stupì. Su un lato regnava la confusione più assoluta (libri, appunti e altri fogli sparsi nel solito caos), mentre nell'altra metà predominava l'organizzazione più impeccabile. Tungdil non aveva mai visto il locale in quello stato. I volumi di magia erano allineati sugli scaffali in ordine alfabetico, i documenti erano impilati con cura, la penna e il calamaio si trovavano negli appositi sostegni. Lot-Ionan deve aver inventato un nuovo incantesimo che gli risparmia la fatica di dover riordinare, concluse. Probabilmente l'aveva sperimentato solo su una parte dello studio. Speriamo che la magia non abbia fatto piazza pulita anche di lui. Vagò per la stanza sperando di scoprire qualcosa che spiegasse il silenzio della galleria e della scuola. *
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Il Rabbioso inspirò rumorosamente. «Aspettare mette appetito», dichiarò. «Cerco la cucina dei Lunghi. Magari ci daranno qualcosa se chiediamo con cortesia.» «Dovremmo portarci dietro Tungdil», suggerì suo fratello. «Ricorda che qui non ci conosce nessuno...» «Ah, impareranno a conoscerci», rise Boïndil, incamminandosi. La fame vinse tutte le sue riserve. «Puoi aspettare qui se vuoi. Il mio stomaco protesta.» Boëndal non voleva lasciarlo andare da solo. Erano ospiti degli uomini, perciò occorreva assumere un comportamento decoroso, cosa di cui dubitava che il suo gemello fosse capace. «Tungdil, andiamo a cercare la cucina. Mi occupo io di lui», urlò prima di rincorrere Boïndil, che era scomparso dietro la prima curva del corridoio. I nani non ebbero alcuna difficoltà a trovare la strada. Vraccas aveva donato loro la capacità innata di orientarsi perfettamente sottoterra, a prescindere dal fatto che fossero già stati in un luogo oppure no. Intuivano se un tunnel scendeva o saliva, notavano i più lievi cambiamenti di direzione e sapevano sempre verso quale punto cardinale camminavano. In quel caso non furono le stelle a indicare loro la via, bensì un effluvio squisito. I gemelli oltrepassarono aule aperte in cui non vi era nessuno. «Forse stanno mangiando», ipotizzò Boëndal, lottando contro l'inquietudine crescente. Percorsero il corridoio in cui l'aroma di carne arrostita era più intenso. Le loro corazze e le cotte di maglia tintinnavano piano; le spesse suole delle scarpe scalpicciavano leggermente sul pavimento. Finalmente raggiunsero un uscio che, a giudicare dalle macchie di cui era costellato, doveva condurre nel regno del capocuoco. Boëndal voleva scattare in avanti per fare un ingresso un po' meno rumoroso, ma Boïndil aveva già posato le dita sulla maniglia e l'aveva abbassata con vigore. L'alto locale con i quattro focolari appariva abbandonato come il resto della casa. Gli abitanti non dovevano essersene andati da molto. I fuochi ardevano, riscaldando le piastre dei fornelli, e le grosse pentole coperte sibilavano e gorgogliavano. Sopra le fiamme dei due camini erano appesi calderoni panciuti in cui ribollivano le minestre. Pezzettini di carne affioravano qua e là sulla superficie brunastra prima di affondare di nuovo
nel liquido. Il brutto presentimento di Boëndal si rafforzò, e il nano si guardò intorno con estrema attenzione. Locali vuoti e tegami pieni non avevano alcun senso. Che cosa sta succedendo qui? «Finalmente siamo arrivati», esultò Boïndil, mollando la scure per prendere un tozzo di pane e dirigersi con decisione verso il primo focolare. Spinse uno sgabello davanti al forno, sollevò un poco il coperchio e sbirciò dentro per vedere che cosa gli avesse fatto venire l'acquolina in bocca. Si trattava di pezzi di carne succosa che cuocevano nel loro brodo. «Assaggiamo.» Dopo aver inzuppato il pane, spalancò le mascelle per trangugiare l'antipasto tutto in una volta. «Boïndil, no!» L'urlo del fratello lo fermò.» Che cosa c'è?» sbottò. Il suo stomaco ringhiò in segno di protesta per l'interruzione. «Mi disturbi mentre mangio.» Boëndal, in piedi accanto alla porta, stringeva l'azza con la sinistra. Pareva che si stesse preparando a un attacco. «L'appetito ti passerà subito. Guarda nell'angolo.» Boïndil si voltò nella direzione indicata. Sul tagliere che il cuoco usava per triturare e sminuzzare giacevano ossa che non gli ricordavano alcun animale di sua conoscenza e, a giudicare dalla forma, i quattro teschi lì accanto potevano essere appartenuti soltanto ai Lunghi. Impiegò un po' di tempo per capire che cosa era stato sul punto di mangiare. Inorridito, gettò via il pane e scattò in piedi, estraendo le scuri. «Se metto le mani sullo stregone, la sua magia non gli servirà a un bel niente», promise, nauseato. «Non ho mai sentito dire che gli uomini o i maghi facciano cose del genere», osservò Boëndal. «Se vuoi il mio parere, qui abitano dei nuovi inquilini. Il portone è rimasto aperto in seguito a un'aggressione.» Spiò l'uscio con fare guardingo. «Dobbiamo avvertire subito il nostro Sapientone.» Schiena contro schiena, corsero lungo i corridoi vuoti e sinistri per tornare da dove erano venuti. *
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Tungdil sedeva sullo sgabello davanti alla poltrona dallo schienale imponente e aspettava con impazienza il ritorno del padre adottivo, scrollandosi la polvere dai vestiti. Era curioso di vedere la reazione del mago ai suoi racconti. Avrebbe cominciato dalla cosa più importante, restituendogli subito i libri di Gorén. Non credeva che Lot-Ionan l'avrebbe iniziato ai segreti dei misteriosi volumi, anche se in cuor suo ci sperava. Nel corridoio risuonarono dei passi lievi. Non erano i rumori provocati di solito dai gemelli, bensì indicavano una persona leggera e priva di corazza. Alzatosi, Tungdil si infilò dietro la porta per nascondersi e far prendere uno spavento allo studente; voleva concedersi almeno quello scherzo. Lasciò lo zaino e il sacco con gli oggetti dove li aveva posati e sgattaiolò dietro l'uscio, pregustando il divertimento. Un giovane dai corti capelli neri entrò nello studio. Indossava una veste color malachite, che lo identificava come un apprendista di Nudin il Sapiente e, vista la disinvoltura con cui curiosava tra i documenti e gli oggetti personali di Lot-Ionan, sembrava ignorare che cosa fosse il rispetto. Per Vraccas, che cosa sta facendo? Per il momento Tungdil rimase nel suo rifugio e osservò il Lungo che riordinava le annotazioni. Allora era stato lui a rimettere a posto parte della stanza. Dopo essersi seduto alla scrivania, studiò i libri e gli appunti con sguardo critico prima di appoggiarli sulle rispettive pile e scriverne i titoli su una lista. Che cosa cercano gli allievi di Nudin nella galleria? si domandò Tungdil. E soprattutto, chi li ha autorizzati a comportarsi in maniera tanto indecorosa e sfrontata? Se Lot-Ionan avesse avuto bisogno di qualcuno che riordinasse, avrebbe avuto a disposizione un numero di servi più che sufficiente, ma quei fogli facevano parte dei documenti che il padre adottivo considerava strettamente personali, il nano lo sapeva bene. I suoi apprendisti non avevano il permesso di consultarli e, a maggior ragione, non avrebbero dovuto farlo degli estranei. Nel corridoio riecheggiarono passi strascicati, e una seconda persona comparve nel vano della porta. Lo studente alzò gli occhi, adirato per l'interruzione. «Che cosa c'è?» Tungdil premette il viso contro l'uscio per sbirciare il nuovo arrivato attraverso l'angusta fessura. Scorse soltanto la schiena larga, coperta da una camicia modesta. «Ho sbrigato i miei lavori in cucina», annunciò una voce profonda e
stentata. Il nano la riconobbe subito: apparteneva a Eiden, tirapiedi e tuttofare dello stregone. «Bene. Mettiti in un angolo e non disturbarmi più», gli ordinò l'altro, brusco. Eiden non si mosse, restando sulla soglia come una statua. «Ho fame», dichiarò in tono piatto. «Vai in cucina e succhia un paio d'ossi, ma tieni giù le mani dalla carne. Quella è per le nostre spie», gli raccomandò l'altro con durezza. «Vai. Sparisci.» «Voglio la carne», insistette Eiden con voce rauca. «Fuori!» L'apprendista prese il tagliacarte e glielo scagliò contro. Che fosse un caso o meno, la punta si conficcò proprio nel petto del garzone, che gemette prima di girarsi per lasciare la stanza. Il nano ne vide il volto cinereo e distrutto, sfondato da una clava sul lato destro. La ferita lo faceva assomigliare alla grottesca caricatura di un essere umano. Tungdil lo squadrò, e gli mancò il fiato. La stoffa bianca della camicia era in gran parte imbrattata di sangue rappreso, che doveva essere sgorgato dalle due ferite aperte in corrispondenza del cuore e della clavicola. I bordi degli squarci mostravano i primi segni di decomposizione, e il corpo sotto il tessuto lacerato aveva un lucore smorto e pallido. Tungdil ripensò subito alle esperienze vissute nel bosco dell'elfa e ai morti viventi. Ma non può essere! Le barriere contro la Terra Estinta tengono ancora. Lot-Ionan e gli altri maghi le stavano alimentando con nuova forza per impedire l'avanzata, e il confine con il Terrore sinistro dal Nord distava quattrocentocinquanta miglia dalla galleria. Che cosa è accaduto qui dentro? Una raffica di vento attraversò il locale. Accanto allo studente comparve un luccichio azzurrino, da cui presero forma i contorni di un uomo. Era Nudin il Sapiente. L'apprendista si alzò e si inchinò davanti all'immagine. «Sto cercando, venerabile mago», esordì. «Ma non ho ancora trovato ciò che mi avete chiesto.» Alzò la testa per guardare il volto grasso del suo signore. «I tunnel sono ampi. Il vecchio aveva parecchi laboratori e biblioteche», si giustificò con cautela. «È un'impresa ardua per una persona sola, venerabile mago.» «Ecco perché avrai compagnia entro breve», gracchiò l'altro. Il nano rimase zitto zitto perché non si accorgessero della sua presenza.
Pareva che Vraccas l'avesse scelto per assistere alle conversazioni come ascoltatore involontario. In tutti quegli anni aveva visto Nudin solo una volta, ma credeva di ricordarlo più snello, più piacente, e soprattutto più simpatico. Questo Nudin sembrava una brutta copia creata da un invidioso per burlarsi dello stregone. «A Porista, Lot-Ionan mi ha confessato di avere dimenticato i miei oggetti in un armadio», proseguì il Sapiente, girandosi pian piano per esaminare il locale con la massima attenzione. La sua voce era insieme alta e cupa. «Hai già perquisito con cura ogni locale?» «No, signore», si scusò il giovane. «Pensavo che voleste prima avere i libri, perciò ho cercato quelli.» Nudin si avviò verso il grande mobile da cui Tungdil aveva estratto il sacco con gli oggetti. «Non è certo che i tomi siano stati consegnati al mio vecchio amico. Gli albi mi hanno riferito che un drappello di guerrieri ha raggiunto Grünhain e ha rubato i libri di Gorén dopo che i mezz'orchi avevano devastato l'insediamento. Hanno specificato che si trattava di nani.» «Com'è potuto accadere?» si lasciò sfuggire lo studente. «Non avevate ordinato loro...» «Gli albi sono ottimi alleati.» L'immagine del mago aveva raggiunto l'armadio. Appoggiò il bastone alla parete e le sue dita gonfie si posarono sulle maniglie, abbassandole. Le ante si aprirono con facilità. «A causa del loro amore per l'arte, tuttavia, a volte non agiscono secondo i criteri umani. Questa abitudine è stata fatale alla loro messaggera.» Dopo essersi chinato, recuperò un sacco di cuoio identico a quello di Tungdil. «Pare che finalmente abbiamo ottenuto un successo», commentò Nudin. Sciolse il nastro e il contenuto del sacco, costituito da cinque pergamene, rotolò sul pavimento. Nudin sbuffò. Evidentemente non era quello che cercava. Tungdil si sporse da dietro la porta. I suoi bagagli erano nascosti dietro la poltrona, e qualcosa gli diceva che Nudin sarebbe stato molto contento di trovarli. A un tratto, come se vedesse le due borse l'una accanto all'altra, comprese tutto: il suo sacco era chiuso da un nastro blu, ma Lot-Ionan gli aveva ordinato di prendere quello con il laccio verde. Ho scambiato i colori! Sono partito con gli oggetti sbagliati! Anche se avesse trovato Gorén vivo nella Selva Verde, avrebbe percorso invano tutte quelle miglia. Il suo errore si stava rivelando una fortuna.
Il nano non riuscì a comprendere le parole dei due uomini. Non conosceva ancora il motivo per cui Nudin e il suo apprendista si comportavano come se fossero i nuovi padroni della galleria ma il fatto che Eiden fosse vivo nonostante le gravi ferite e avesse un atteggiamento molto diverso dal solito, e che Nudin definisse gli albi alleati, destò in lui un terribile sospetto. Il Sapiente sembrava aver cambiato partito per ragioni insondabili. Doveva scoprire che cosa era accaduto al suo padre adottivo e agli altri studenti, stando attento a non cadere nelle grinfie dello stregone. «Un'ultima cosa», borbottò l'apprendista. Dopo una breve ricerca estrasse due lettere dal mucchio. Erano i messaggi che Tungdil aveva spedito al suo mentore lungo il tragitto. «Lot-Ionan ha ricevuto due missive da un certo Tungdil, che era stato incaricato di rintracciare Gorén nella Selva Verde.» Porse i fogli al suo signore, che diede una scorsa alle righe con gli occhi iniettati di sangue. «Ora ricordo», affermò il mago. «Naturalmente! Il vecchio aveva al suo servizio un nano con questo nome. Forse è lui ad avere i libri e gli oggetti.» Nudin gettò le lettere sul tavolo. «Gli metterò gli albi alle calcagna, lo scoveranno e lo porteranno da me, vivo o morto. Un nano non si vede tutti i giorni nella Terra Nascosta.» Rivolse un cenno del capo al giovane. «Bravissimo, apprendista, sebbene l'idea ti sia venuta un po' tardi. Riceverai la tua ricompensa al mio arrivo. Continua a cercare, magari trovi qualcosa di ancora più utile.» L'immagine tremolò e scomparve dopo essere diventata trasparente. Tungdil era incappato in tante stranezze da credere che nulla l'avrebbe più meravigliato, ma origliare la sua condanna a morte senza poter proferire parola era una bella sfida. Lo studente tornò a sedersi con espressione compiaciuta. Aveva impressionato il suo maestro, conquistando così un poco del favore tanto desiderato. Tornò a concentrarsi sui documenti. Quando immerse la penna nel calamaio per aggiungere qualcosa al suo elenco, gli occhi gli caddero per caso sulla poltrona, dietro la quale spuntavano le cinghie dello zaino. «Che cosa diav...?» Si alzò lentamente e attraversò la stanza per esaminare l'oggetto sbucato da chissà dove. Chinatosi, sollevò il sacco. Tungdil afferrò l'ascia. Doveva colpire lo stregone con la rapidità di un fulmine, per non lasciargli il tempo di danneggiarlo con un incantesimo. I suoi muscoli si tesero.
Stava per attaccare, quando nel corridoio risuonarono un chiasso e uno strepito che li fecero trasalire entrambi.
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Questa volta i gemelli si sforzarono di non fare rumore. Qualunque creatura si annidasse nei corridoi, non volevano metterla in guardia prima di piombarle addosso e farla a fettine. Di certo chi mangiava i Lunghi non si fermava neppure davanti ai nani, ma un'azza e una scure nella gola avrebbero fatto passare l'appetito a chiunque. Qualcuno venne loro incontro con passi lenti e pesanti. A un segno di Boïndil, rimasero immobili e aspettarono dietro una curva la creatura che arrancava lungo il tunnel gemendo. A un tratto avvertirono un fetore di vecchia carne in decomposizione, e Un uomo girò l'angolo vacillando. Nessuno sarebbe riuscito a reggersi sulle gambe con simili ferite, ma l'uomo avanzava imperterrito. Quando scorse i nani, lanciò un urlo di gioia. I suoi movimenti divennero all'improvviso fulminei, e il desiderio di carne fresca lo rianimò, ma non poté nulla contro l'esperienza dei due guerrieri. Boëndal scartò per evitare il fendente del semimorto e lo colpì al ginocchio affinché perdesse l'equilibrio e cadesse. Eiden indietreggiò e si gettò contro il Rabbioso, che lo salutò con il grido di battaglia dei nani, le braccia levate e le armi pronte a colpire. Schivò l'avversario, e le sue lame scattarono in avanti, mozzando l'avambraccio sinistro del Lungo. Eiden urlò e si dimenò, ruzzolando in avanti e digrignando i denti all'indirizzo dei due fratelli. «Guarda. Non si dà per vinto! Il suo odio verso la vita dev'essere illimitato.» Boïndil lo decapitò, e il garzone giacque subito immobile. I gemelli si precipitarono lungo la galleria per aiutare Tungdil. Erano certi che vi fossero altri mostri e che la vita dell'aspirante successore al trono fosse in serio pericolo. Quando giunsero davanti alla porta e sbirciarono nello studio, scorsero un giovane con una veste color malachite che, in piedi accanto alla poltrona, teneva in mano il sacco con gli oggetti del loro protetto. Probabilmente li stava aspettando a causa dello strepito provocato dalla lotta contro il semimorto. «Vi ridurrò in cenere, canaglie!» Aprì la bocca, sollevò il braccio destro gesticolando e indicando i nani e, in quel momento, l'uscio si chiuse. I due fratelli si scambiarono un'occhiata. «Ha utilizzato una formula magica?» domandò Boïndil.
«I maghi sono strambi. Io avrei chiuso la porta senza fatica.» «Riapriamola!» Boïndil diede una spallata al legno, facendo irruzione nella stanza con un grido. Il Lungo era disteso supino nell'armadio e non si muoveva più. Diverse mensole erano scivolate fuori dai loro sostegni, crollandogli addosso con tutto il loro contenuto. Le assi e gli oggetti ammucchiati gli avevano procurato una ferita superficiale. Tungdil, in piedi lì davanti, si massaggiava il capo. «Adesso so perché si indossa l'elmo quando ci si avventa con la testa contro la pancia dell'avversario», sghignazzò. «Non ti avevo detto che valeva la pena di dedicare tutte quelle ore alle esercitazioni?» disse il Rabbioso in tono di approvazione. «Sei sulla buona strada per diventare un vero nano.» «E adesso spiegaci che cosa è successo qui. Come mai lo stregone ospita dei semimorti nei suoi tunnel e mangia carne umana?» chiese Boëndal. «Non è stato Lot-Ionan.» Tungdil fece loro un breve riassunto della conversazione che aveva origliato tra l'apprendista e Nudin. I gemelli, a loro volta, gli raccontarono quello che avevano visto in cucina. La somma dei due resoconti produsse la triste certezza che il Sapiente aveva invaso la dimora sotterranea e, in un modo o nell'altro, aveva annientato qualsiasi forma di vita. Morti? Tristezza e sconcerto si impossessarono di Tungdil, che dovette sedersi. Tutte quelle persone, le serve, gli studenti, Frala, Sunja e Ikana, erano dunque cadute vittime del Sapiente impazzito? Si oppose all'idea che il potente Lot-Ionan avesse fatto una simile fine. È vivo. Deve essere vivo! Di sicuro è fuggito e sta riunendo intorno a sé i migliori apprendisti per combattere contro Nudin. Devo trovarlo. «Partiamo subito», decise Boëndal. «L'accaduto è di estrema importanza anche per il consiglio dei nani.» «No», protestò Tungdil, caparbio. «Devo sapere che cosa è capitato a Lot-Ionan...» Guardò il giovane svenuto. «Sarà lui a dircelo.» Dopo esserglisi inginocchiato accanto, lo schiaffeggiò più volte con vigore per fargli riprendere i sensi. L'altro batté le palpebre. Boïndil bloccò la porta mentre suo fratello posava la punta dell'azza proprio tra le sopracciglia del prigioniero. «Se dovessi anche solo essere sfiorato dall'idea di un incantesimo, ti ficco questo ottimo acciaio nel cervello», lo minacciò con voce rauca, assumendo un'aria più che furibonda. «Io rompo le ossa come tu rompi i gusci d'uovo vuoti.»
«Dov'è Lot-Ionan?» domandò Tungdil con un misto di impazienza e timore. «I nani di Grünhain?!» ansimò l'apprendista, stordito. «Voi... Pensavo che foste...» «Dov'è Lot-Ionan?» sbraitò Tungdil. Boëndal spinse un poco più forte l'estremità dell'arma, perforando la pelle senza difficoltà. Il sangue iniziò a colare mentre il metallo premeva inesorabile contro la fronte. «Parla o muori.» «No, vi dirò tutto! Nôd'onn l'ha ucciso», confessò il giovane, terrorizzato. «Il signore della Terra Estinta?» «Li ha ammazzati tutti, a Porista.» I nani appresero così l'incredibile verità sui fatti accaduti nel Lios Nudin. Nella Terra Nascosta non c'era più nessuno in grado di tenere testa all'ultimo mago. «Nôd'onn ha modificato i campi magici in modo da essere l'unico a utilizzarli», balbettò lo studente. Una morsa di ferro strinse il cuore di Tungdil e lo schiacciò con il peso della certezza. «Il Sapiente è Nôd'onn?! Il sovrano della Terra Estinta?» Conosceva la verità già da settimane e non se n'era reso conto. Aveva voglia di urlare e di conficcare l'ascia nel cranio del Lungo. «Che cosa c'entra tutto questo con i libri e gli oggetti?» chiese. «Parla!» «Non ne ho la più pallida idea! Nôd'onn li cercava, non so altro», rispose l'uomo. Tungdil lo colpì con il lato piatto dell'ascia, facendogli perdere di nuovo i sensi. Quindi i nani lo incatenarono e lo rinchiusero nell'armadio. Prima di andarsene, si consultarono riguardo al suo destino. Tutti e tre convennero di doverlo uccidere. Ogni mago avversario rappresentava un pericolo, e poiché potevano liquidarlo con tanta facilità, sarebbe stato un errore irreparabile lasciarlo in vita. La tensione abbandonò Tungdil, sostituita dal dolore per la perdita degli amici e della famiglia. Le lacrime gli rigarono le guance, filtrando tra la barba. Si asciugò gli occhi con il fazzoletto di Frala, un talismano ormai diventato un ricordo. Vendicherò te e le tue figlie, giurò alla sua cara sorella. Percependo un odore familiare, sollevò il capo e guardò i gemelli. Anche loro fiutarono il sego acido e nauseabondo tanto amato dai mezz'orchi. Afferrata l'ascia, Tungdil si alzò. «Vediamo che cos'ho imparato dalle lezioni di combattimento», dichiarò con voce rauca, dirigendosi verso l'uscita.
Terra Nascosta, regno del Secondo, Tabaïn, 6234° ciclo solare, tarda estate Si mormorava che l'imperatore stesse per morire. C'era persino chi sosteneva che Gundrabur fosse già stato schiacciato dal martello di Vraccas e trascinato nella Fucina Eterna. Non era difficile indovinare chi fosse stato a diffondere simili notizie. Le malelingue appartenevano ai clan della stirpe di Goïmdil, impazienti di vedere il loro re seduto sul trono di marmo. La guerra contro il regno elfico di Âlandur sarebbe stata combattuta, che avesse senso oppure no. Bislipur si trovava ovunque vi fosse un gruppetto di nani. A quanto pareva, il mentore zoppo di Gandogar non aveva bisogno di riposo e intendeva battere il ferro finché era caldo. Lavorava quanto Balendilín, il consigliere dell'imperatore, che considerava il suo maggiore avversario. «Che Vraccas abbatta su di lui il suo martello», imprecò Bislipur, entrando nella stanza che i Secondi gli avevano assegnato come alloggio. Non facciamo progressi, pensò con rabbia, sedendo sul letto. Erano sempre più numerosi i membri dei clan che si mostravano scettici verso la campagna militare contro gli elfi. Balendilín mi sta rovinando tutto. Devo fermarlo! «Padrone, ho alcune notizie per Voi, sebbene sia tornato malvolentieri», annunciò una vocetta da sotto il letto. «In realtà, non ne avevo nessuna voglia.» Alzatosi, il nano sferrò un calcio al mobile. «Vieni fuori, gnomo!» Non appena Swerd fece capolino dal suo nascondiglio, la mano callosa del suo signore lo prese per la collottola e lo sollevò. Bislipur lo scosse come un gatto scuote il topo che ha catturato, prima di scagliarlo con violenza in un angolo. «E non osare mai più intrufolarti nella mia camera!» Swerd si rialzò con fare cerimonioso, rassettandosi la giacca rossa. «Non mi sono intrufolato, padrone. Non c'eravate, perciò Vi ho aspettato in un posto dove nessuno potesse vedermi, come mi avevate ordinato.» Abbassandosi la camicia di iuta, scoprì il ventre prominente, la cui pelle verde scuro era coperta di peli neri. Le orecchie appuntite si rizzavano nell'aria, dando l'impressione di trattenere il berretto blu sulla testa. Nella Terra Nascosta erano rimasti solo pochi esseri della sua razza. «Volete ascoltare quello che ho da raccontarvi, padrone?» domandò Swerd con un'espressione innocente nei grandi occhi. I pantaloni ampi e logori e le scarpe malconce erano tutti impolverati. Lo gnomo aveva
percorso parecchie miglia. «Poi potrò andarmene?» «Te ne andrai quando non avrò più bisogno di te», lo rimbeccò Bislipur, posando la mano sul filo d'argento con cui poteva regolare magicamente la larghezza del collare dello gnomo. «Parla, prima che ti strangoli.» «Ah, vorrei non essermi mai introdotto nel Vostro rifugio», piagnucolò l'altro. «Mi rincresce tanto!» Scrutò il nano con trepidazione, sperando invano di scorgere un segno di clemenza sul suo volto spietato. «Certamente non mi stupisce che la tua razza sia quasi estinta. Siete esseri deboli e ripugnanti.» Il mentore del re era gelido come gli anelli e i fermagli preziosi che indossava. Strinse ancora un poco la cinghia di cuoio intorno al collo del suo schiavo. Le dita di Swerd si serrarono intorno al cappio magico per non essere soffocato, ma fallirono come in tutti i quarantatré cicli precedenti. Si accasciò sulla pietra rantolando, ma il nano allentò la stretta prima che Swerd svenisse. Lo gnomo tossì. «Grazie, padrone. Mi regalate un'altra splendida giornata al Vostro fianco», ansimò, arrampicandosi su una sedia. «Il Vostro perfido piano è fallito. Ho appreso che il pretendente al trono è ancora vivo. Cosa che non si può dire dei nostri cacciatori di taglie», raccontò. «Nella fretta, non sono riuscito a trovare nessun altro disposto a compiere il Vostro vile attentato. I tempi sono cambiati nella Terra Nascosta.» Bislipur ignorò il sarcasmo nelle parole del suo galoppino. Swerd si comportava così da quando era al suo servizio, nella speranza che il padrone lo uccidesse in un accesso di collera, ma Bislipur non gli avrebbe fatto quel favore. Lo gnomo doveva soffrire. «Che cosa è successo?» «Ho seguito lui e i due gemelli fino alla galleria di Lot-Ionan, dove si sono imbattuti nei mezz'orchi...»
Terra Nascosta, regno incantato di Ionandar, 6234° ciclo solare, tarda estate Il tintinnio e lo sferragliare delle armature tradirono le bestie a cento passi di distanza. Le loro voci raccapriccianti urlavano tutte insieme. Avevano scoperto il cadavere del semimorto. Quando i nani svoltarono l'angolo del corridoio, si trovarono di fronte ai nemici. L'uscita distava trecento passi, e il tunnel era zeppo di mezz'orchi fino al portone, o almeno così parve a Tungdil. Una selva di armi li separava dalla libertà. «Magnifico!» esclamò il Rabbioso, chinando il capo con aria aggressiva. «Fratello, guarda com'è stretto il tunnel. Così non ce ne scapperà nemmeno uno.» Fece vorticare le scuri. «Bene, bene! Vraccas, stiamo per sgozzare tanti Maialini!» «Oggi combatterai con noi per la prima volta, Sapientone», annunciò Boëndal con espressione seria. «Appoggia la schiena contro le nostre, e non staccare mai il sedere dai nostri, così ci copriamo le spalle a vicenda.» Cercò con gli occhi lo sguardo di Tungdil. «Fidati di noi come noi ci fidiamo di te. Ce la farai, sei un figlio del Fabbro.» Con il cuore che gli martellava nel petto, Tungdil si mise in posizione, premendosi contro i gemelli. Fiducia, ricordò a se stesso. Che Vraccas mi aiuti! Deglutì, e la paura scomparve. Per Lot-Ionan, Frola e la Terra Nascosta! «Bando alle ciance!» esultò Boïndil con un luccichio folle nelle pupille. «Cominciamo a spaccare crani e a fracassare ginocchia!» I fratelli aprirono la danza della morte. Tungdil si mise in movimento con una certa goffaggine per non perderli e per non lasciare nemmeno uno spiraglio nelle loro difese.
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All'inizio, dopo le prime tre o quattro piroette, Tungdil registrò ogni dettaglio. Notò i musi dei mezz'orchi, riconobbe le varie armature con cui si proteggevano dalle armi dei nani, vide i puntoni che sbucavano nell'intrico di gambe e una delle lunghe trecce nere che gli guizzava accanto. Ben presto, però, tutto scomparve e gli avvenimenti si susseguirono a una velocità incredibile. Il nano si concentrò sulle spade, sulle clave e sui pugnali fulminei per schivarli o pararne i colpi. La sua ascia incontrò resistenza più di una volta, e poiché di tanto in tanto la lama si tingeva di verde, ipotizzò di aver colpito qualche avversario in tutto quel caos. I gemelli adottarono la medesima tattica che avevano utilizzato a Grünhain. Vorticavano in avanti, si insinuavano a spirale tra le fila nemiche, colpivano e un attimo dopo erano da un'altra parte, pronti a impedire che i mostri vibrassero un fendente efficace. Tungdil era contento di indossare la cotta di maglia. Non possedendo la destrezza dei suoi accompagnatori, ricevette qualche colpo e qualche stoccata, che però non penetrarono attraverso il metallo. Sarebbe valsa la pena di riportare lividi, contusioni e magari persino fratture se fosse rimasto in vita e avesse evitato che i libri e gli oggetti finissero tra le dita di Nôd'onn. Udì le perfide risate del Rabbioso, cui seguivano sempre gli strilli di un mezz'orco. Boëndal, invece, combatteva in silenzio, risparmiando il fiato. A poco a poco le braccia di Tungdil divennero sempre più pesanti. I nani non dovevano fare i conti solo con i nemici che bloccavano loro la strada, ma anche con le bestie non ancora cadute sotto le loro armi, che avanzavano incalzandoli. Quella situazione disperata gli aguzzò l'ingegno. «Zigzag», urlò per attirare l'attenzione dei due fratelli e sovrastare il tintinnio delle lame. «Ai puntoni.» «Buona idea, Sapientone», gridò Boëndal, parando un fendente e ferendo un mezz'orco con il lato piatto dell'azza. Di lì a poco la sua poderosa arma si abbatté contro uno dei pali di legno. La trave si staccò subito dal soffitto, provocando una pioggia di polvere e sassi. I nani ripeterono più volte quella manovra, finché la roccia, rimasta senza sostegno, rovinò dietro di loro. Le creature di Tion scomparvero sotto tonnellate di detriti; il crollo della galleria coprì le spalle ai tre guerrieri.
Per paura di restare sepolti come i loro simili, i mezz'orchi sopravvissuti scapparono, inseguiti da Boïndil, che ne eliminò qualcuno e si fermò ad aspettare gli altri due nani solo a poca distanza dal portone. «Sbrigatevi», ansimò felice. «Fuori ci aspettano almeno altri venti Maialini. Sarebbe un peccato se sfuggissero al macello.» Gli altri due si strinsero a lui. Nonostante l'odio, Tungdil si augurava che i nemici superstiti si fossero dileguati; dubitava infatti di riuscire a sollevare le braccia stanche oltre la fibbia della cintura. Lasciarono il tunnel riprendendo la loro formazione a trifoglio. La luce delle stelle li accolse con uno scintillio argenteo e illuminò i mezz'orchi. Gli occhi dei mostri in agguato emanavano un bagliore verde, tradendone la posizione. Dovevano essere un centinaio, e si fecero loro incontro fiutando, grugnendo e ringhiando. «Venti, eh?» borbottò Tungdil, scoraggiato. «Ammetto che sono un po' più numerosi del previsto», concesse Boïndil. Dal suo tono, tuttavia, non sembrava seriamente preoccupato per la superiorità numerica degli avversari. «Allora questa è una delle grandi sfide di cui ti parlavo.» «Ci spostiamo a destra o a sinistra?» si informò Tungdil. «In mezzo», tuonò Boïndil. «Così si intralceranno a vicenda, e noi avremo maggiori probabilità di uscirne più o meno indenni. Io mi occupo del comandante. Poi possiamo attaccarli sui fianchi e farli fuori.» «Tungdil non è ancora pronto», interloquì Boëndal. «La nostra missione non è ammazzare i mezz'orchi, bensì condurlo sano e salvo tra le montagne, fratello.» Tungdil fu molto felice di quell'intervento. Non avrebbe osato protestare perché non voleva deludere i gemelli, ma per fortuna Boëndal, dotato di una notevole prudenza e di una vista acuta, si era accorto della sua spossatezza. «D'accordo, allora scagliamoci solo nel mezzo», disse Boïndil in tono quasi offeso. Appena ebbero preso questa decisione, misero in atto il loro piano prima che ai mezz'orchi venisse in mente di usare le frecce. In un primo momento, la loro tattica ormai collaudata diede i suoi frutti. Forse i nani ce l'avrebbero fatta se i nemici non avessero ricevuto un aiuto inatteso. Le file dei mostri si diradarono all'improvviso. Le bestie indietreggiarono, dando l'impressione di sgomberare loro il passaggio. «Fermi! Tornate indietro, figli di elfi storpi!» urlò il Rabbioso
manifestando così la sua delusione per la ritirata dei mostri. «Non sfuggirete alle mie scuri!» Al posto dei mezz'orchi, si parò loro davanti un uomo altissimo. Tungdil lo riconobbe subito, perché poco prima aveva visto la sua immagine che parlava con l'apprendista. La figura pingue e congestionata, coperta da una veste verde scuro, apparteneva al mago traditore che aveva ucciso il suo padre adottivo. Di persona, lo stregone appariva ancora più ributtante. Lacrime di sangue gli rigavano le guance, e il grasso e la pelle pendevano flaccidi dal suo volto, deformandogli i lineamenti. Puzzava come se si fosse rotolato in un letamaio. «Ne avete fatta di strada», osservò Nôd'onn con un sussurro. «Ma il vostro viaggio si interrompe qui.» Volse lo sguardo su Tungdil, allungando la mano tumefatta nella sua direzione. «Dammi il sacco con gli oggetti e i libri che hai rubato a Grünhain. Poi sarai libero.» Tungdil strinse l'ascia con decisione. «No. Questi oggetti appartengono al mio signore, e lui non mi ha detto di consegnarli a te.» Nôd'onn rise. «Sentite come parla il nano valoroso.» Avanzò di un passo. «Quello che ti porti dietro è mio. Non intendo discutere oltre.» Conficcando il bastone nel terreno, inclinò in avanti l'estremità decorata dall'onice. Lo zaino e il sacco con gli oggetti magici presero vita all'improvviso e strattonarono Tungdil per liberarsi. Il nano si aggrappò alle cinghie per trattenerli, ma le forze utilizzate dal mago erano invincibili. Il cuoio si strappò, scivolandogli tra le dita. All'ultimo momento, il nano mise il piede su un lembo del sacco. Brandì l'ascia senza esitazione. «Distruggerò i tuoi averi», minacciò. «Fai pure. Mi risparmierai il lavoro», lo incoraggiò Nôd'onn. Levò la destra e, dopo aver allargato le dita, le chiuse a pugno con un movimento brusco. Le borse volarono nell'aria, sospinte con tanta violenza che il nano non riuscì più a fermarle. Caddero tra le braccia di un mezz'orco gigantesco, che le strinse a sé con un grugnito. Il mago tossì all'improvviso, affrettandosi ad asciugarsi il rivolo di sangue che gli colava dal naso. «Tornate nel vostro regno, nani, e comunicate al vostro re che mi servono le sue terre. Può cedermele senza che venga versata una sola goccia di sangue, oppure le mie truppe e i miei alleati verranno a conquistarle con la forza.» Indicò Tungdil. «Quello,
potete prendervelo. Non so che cosa farmene.» I due fratelli tacquero; brandivano le armi con ferrea determinazione, aspettando il momento giusto per attaccare il mago. Intendevano atterrarlo appena qualcosa lo avesse distratto, ma nulla attirò la sua attenzione e quella dei mezz'orchi. A un tratto, poco più in là, scoppiò un tafferuglio tra le bestie. I mostri cominciarono a spintonarsi e a insultarsi. Un esemplare particolarmente muscoloso e massiccio estrasse la spada e la conficcò nel ventre del vicino fino all'elsa. Nel giro di qualche secondo, nell'orda esplose uno scontro cruento. Il Rabbioso chinò il capo con un movimento impercettibile, un segno inequivocabile che indicava il proposito di aggredire lo stregone. Gli occhi bruni fissarono le ginocchia di Nôd'onn. «Spezzagli il bastone», ordinò a Tungdil nella lingua dei nani. «Sarebbe ridicolo se non lo sconfiggessimo.» Boïndil pareva non conoscere parole come dubbio o presunzione. «No. Non ce la faremo con le armi tradizionali.» Tungdil sbirciò il mostro corazzato che teneva lo zaino e il sacco. «Ci servono quegli oggetti. Se vuole distruggerli, significa che ha un motivo per temerli», bisbigliò. «Allora sai qual è il tuo compito, Tungdil. Aspettate il mio segnale», gridò il Rabbioso. Ma qualcuno li precedette. Dalla collina scese un raggio scintillante che colpì al fianco il mago traditore. Nôd'onn gemette, mollando il bastone e vacillando verso destra. La successiva lancia di magia pura si avventò contro dieci mezz'orchi, riducendoli ad ammassi puzzolenti di carne e metallo. Le altre bestie urlarono, guardandosi intorno alla ricerca del nuovo aggressore. Intravidero ben presto una sagoma esile sull'altura e si precipitarono verso il dolce pendio. Nôd'onn si voltò di scatto, aprendo la destra; il bastone si sollevò da terra e gli volò in mano. Era quello il momento che i nani attendevano. Boïndil si scagliò contro il mago sbraitando e gli fracassò le gambe, mentre Boëndal sollevò il martello da guerra sopra la propria testa per prendere lo slancio necessario e affondò l'azza nell'ampia schiena dello stregone. Strattonò il manico dell'arma e Nôd'onn crollò sotto il duplice attacco. I mezz'orchi intorno al mago avevano occhi solo per il nuovo nemico, che sapeva come difendersi. Nuvole nere comparvero dal nulla sopra i
mostri, e cominciò a tuonare. Quando le prime bestie raggiunsero la cima del colle, scoppiò un violento temporale. Le saette crepitanti si abbatterono sulle creature di Tion, che esplosero come salsicce nell'acqua bollente sotto quelle scariche di energia. I fasci abbaglianti accecarono i mostri giunti successivamente e l'assalto all'altura si interruppe. Si levò un vento impetuoso, che mugghiò intorno alle bestie, spazzandole via come pupazzi. Cozzarono contro i loro simili, si schiantarono contro gli alberi oppure vennero trascinate dalle raffiche incontro alla morte. Il Rabbioso corse ad aiutare Boëndal, che aveva immobilizzato Nôd'onn infilzandolo con l'uncino. Colpì il mago quattro volte, finché le sue vertebre si spezzarono e la testa rotolò lungo il sentiero. Un liquido rosso e maleodorante si riversò nel fango dalla ferita. «Gli oggetti!» rammentò Boëndal al fratello, mentre si apprestava ad aprirsi i pantaloni e a orinare sul cadavere come ultimo segno di scherno. Frattanto Tungdil si era scagliato con le sue ultime forze contro il mezz'orco che custodiva le borse. Senza riflettere sulle manovre da compiere, estrasse l'ascia d'impulso e applicò le nozioni imparate. Il mostro cadde prima del previsto e la vittoria lo colse quasi di sorpresa. So combattere anche senza quei due! pensò, agguantando il sacco e lo zaino. «Le prospettive sono di nuovo rosee per la Terra Nascosta.» Boëndal gli si affiancò; la sua treccia guizzava quasi come se fosse viva. Suo fratello, che gli copriva le spalle, uccise rapidamente altri due mezz'orchi. «È stato facile...» Guardò di lato e all'improvviso lanciò un urlo di collera. «No! Per Vraccas, non l'abbiamo...» Nôd'onn si alzò. Il corpo decapitato si rimise in piedi, quindi tese la mano. La testa fluttuò nell'aria e si posò da sola sul moncone del collo; nel punto in cui le scuri avevano eseguito un lavoro irreprensibile, non restò neppure una cicatrice. Lo stregone non parve confuso né provato in alcun modo quando aizzò contro i nani i mostri rimasti e si voltò verso la collina per annientare l'avversario inatteso. «Portatemi i libri e gli oggetti», ordinò. «Ammazzate i nani!» L'onice brillò. Nôd'onn allungò le mani verso l'altura, e la terra tremò. La sua magia scavò un profondo solco nella terra e avanzò in linea retta verso la figura sul dorso del colle. I fulmini che ora piovevano su di lui dalle nuvole caddero alla distanza di un braccio grazie a un incantesimo protettivo.
L'avevo immaginato. È impossibile sconfiggerlo con le armi terrene. Tungdil indicò il sentiero ai suoi accompagnatori. «Da questa parte», ansimò. «Di qua raggiungeremo la strada verso il Sud.» I tre nani si affrettarono a nascondersi in un fossato per sfuggire ai mezz'orchi. Udirono i nemici che si aggiravano nei dintorni, ma nessuno li scoprì. «Avremmo dovuto continuare a combattere», si lamentò Boïndil, bisbigliando. «Così saremmo morti. Hai visto che Nôd'onn si è rialzato? Senza testa?» Tungdil si appiattì al suolo. «È più potente della Terra Estinta.» Il suo sguardo cadde sul sacco che conteneva gli oggetti. «Qui dentro c'è il segreto della sua distruzione.» «Sei tu il Sapientone. Scopri che cosa dobbiamo fare», disse Boëndal. «Torniamo dai Secondi e riferiamo loro le intenzioni del mago. I regni dei nani sono in pericolo e, a quanto pare, tu sei l'unico che ha il potere di fermare lo stregone.» «Non da solo.» I suoi ultimi pensieri prima che il sonno lo sopraffacesse riguardarono l'avversario magico che aveva attaccato Nôd'onn all'improvviso e che probabilmente aveva salvato loro la vita. Ti supplico, Vraccas, fa' che sia stato Lot-Ionan, pregò.
Terra Nascosta, regno del Secondo, Beroïn, 6234° ciclo solare, tarda estate «... e così li ho seguiti nel bosco, ma a un tratto sono scomparsi», concluse lo gnomo. Allentò un poco il collare, che gli aveva procurato un livido scuro. «Ho tagliato la corda per sfuggire ai mezz'orchi.» Bislipur rifletté con attenzione. Le notizie erano tali da sconvolgere tutti i suoi piani. «Dunque sono diretti qui», disse tra sé. «I mezz'orchi o i nani?» Swerd venne ignorato. «Non dovreste informare i clan che prima o poi quest'uomo dichiarerà guerra ai nani? Siete così vile da tenerlo nascosto?» Bislipur zoppicò verso l'uscita. «Aspettami qui e non farti vedere finché te lo dico io», gli ordinò, lasciando la stanza. «Ma certo, terribile padrone», sospirò lo gnomo, ciondolando le gambe. Bislipur bussò alla porta di Gandogar. «Apri», gridò «dobbiamo discutere di un paio di cose.» Il re comparve sulla soglia e guardò il suo mentore con stupore. «Fuori, Bislipur?» «Una passeggiata farà bene a entrambi. Tanto più che ho già dato adito a troppi pettegolezzi: corre voce che io trascorra molte ore dietro una porta chiusa per ordire un complotto contro l'imperatore», rispose acido. «Questa volta gli altri ci vedranno.» Gandogar indossò un leggero mantello sopra l'armatura e lo seguì tra i labirinti di roccia di Orcomorto. Passarono accanto alle opere scolpite dei Secondi. I clan avevano usato la semplice pietra per creare incantevoli capolavori; la loro abilità trasfigurava l'ordinario, tramutandolo in straordinario. Le parole del suo accompagnatore distrassero Gandogar dalle sculture. «Ti avevo detto che una lunga attesa ci sarebbe stata fatale», ribadì Bislipur a bassa voce. «L'atteggiamento dell'imperatore è pura testardaggine, nient'altro.» «E che cosa proponi?» «Nel frattempo ho parlato con molti altri clan. Sono favorevoli ad attaccare e annientare gli elfi prima che la Terra Estinta ci preceda.» Gandogar rifletté. «Sarebbe così grave? In quel caso non dovremmo preoccuparci di loro.» «No. La situazione precipiterebbe», spiegò Bislipur. «Ricorda il potere del Terrore: ciò che muore torna. Il nostro popolo dovrebbe combattere
contro gli elfi semimorti, che sono inarrestabili. Le forze della Terra Estinta sono enormi.» Zoppicava accanto al sovrano e la sua cotta di maglia tintinnava appena. «Oppure gli elfi fuggiranno in un'altra regione dove non potremo più rintracciarli e infliggere loro la giusta punizione per le nefandezze che hanno compiuto contro i nani. Non potresti più vendicare la morte di tuo padre e di tuo fratello.» Bislipur parlava sottovoce, ma in tono insistente. Chiunque li avesse incrociati avrebbe pensato che si stessero consultando sulle argomentazioni da presentare nella riunione successiva. «Devi salire sul trono e guidare le altre stirpi contro l'Âlandur», continuò Bislipur. «La Terra Estinta è rimasta immobile troppo a lungo. Se si destasse, dovremmo rimanere nelle nostre fortezze e attendere che la sua furia si plachi.» «Hai sentito l'imperatore. Si attiene alle leggi dei nostri antenati», replicò Gandogar. «Anch'io sono tenuto a rispettarle, e lo farò.» Raggiunsero una magnifica valle inondata di luce, i cui erbosi pendii di un verde brillante erano punteggiati di pecore e capre. Le vette ripide si susseguivano su entrambi i lati. Il re ebbe l'impressione che le nuvole vi rimanessero impigliate. «Guarda che pace», sospirò, sedendo su un masso. «Vorrei che le riunioni del nostro consiglio fossero altrettanto tranquille.» «Un paragone calzante.» Gli occhi freddi di Bislipur indugiarono sui prati scoscesi. «Gli altri nani si comportano come pecore. Entrano, belano finché ricevono birra e foraggio, poi tornano ai loro ovili tutti soddisfatti.» Posò una mano sulla spalla del monarca. «Sei un re, Gandogar, e non meriti di aspettare ancora un pretendente sbucato da chissà dove. Esigi una decisione e lascia che io convinca la maggior parte dei clan.» «Mi chiedi molto.» Gandogar si alzò. Proseguendo insieme, tornarono nei corridoi sotterranei, che li condussero nelle dure viscere del massiccio montuoso. Attraversarono ponti di pietra, sopra burroni di cui non riuscivano a scorgere il fondo. Si trattava di gallerie chiuse da cui non era più possibile estrarre nulla. Il monte aveva ceduto le sue ricchezze ai nani, come dimostravano le cicatrici nere da cui era solcato. Bislipur camminò in silenzio accanto al sovrano, lasciandogli il tempo di meditare sulle sue parole. «Una nuova votazione», disse Gandogar, assorto nei suoi pensieri.
«Pretenderla significa violare le leggi del nostro popolo e mettere in dubbio la decisione dell'imperatore.» «È una mossa che richiede molto coraggio, e soprattutto la determinazione per fare la cosa giusta. Tu possiedi entrambe queste doti», replicò Bislipur, implorante. «Sali al trono. Subito.» Arrivarono in una delle numerose cave da cui si estraevano i lastroni del marmo più pregiato; alla loro destra serpeggiava un fiume. I due nani osservarono il trambusto da un ponte, ottocento passi buoni sopra le teste degli operai. «Che cosa succederà se Gundrabur morirà all'improvviso? Resteremo senza imperatore finché questo sconosciuto si farà vivo e il procedimento potrà proseguire?» insistette Bislipur. «E se la Terra Estinta attaccherà, e i clan si ritroveranno senza leader? Chi guiderà la difesa e il contrattacco? Scoppierebbero dei dissidi e i nani verrebbero sconfitti.» Gandogar finse di non sentire, sebbene le parole di Bislipur avessero sortito il loro effetto. Si era posto anche lui quegli interrogativi, senza riuscire a trovare una risposta. Sono le leggi che ci ha imposto Vraccas. Ma possono danneggiarci solo perché ci ostiniamo a rispettarle? La loro osservanza è una ragione valida per lasciarci sfuggire delle occasioni? Guardò gli operai per distrarsi. Pur maneggiando il marmo, un materiale privo di vita, lavoravano con prudenza e disegnavano con meticolosità la sagoma della lastra successiva. Con picconi, martelli e scalpelli si apprestavano a strappare un pezzo del corpo roccioso della montagna. Le lame delle loro enormi seghe venivano azionate da ruote idrauliche. Una polvere grigia, da cui i minatori si proteggevano tenendosi dei fazzoletti davanti al naso e alla bocca, aleggiava nell'aria come un velo di nebbia, formando spessi strati sugli utensili che venivano utilizzati con minore frequenza. Gandogar provò un immenso orgoglio all'idea di diventare presto l'imperatore di stirpi e clan che appartenevano a uno stesso popolo, pur essendo così diversi. Erano uniti dal sangue, dalla discendenza e dai nemici comuni. Le nostre leggi possono danneggiarci? Vide i volti del padre e del fratello, trucidati dagli elfi senza motivo. Serrò i pugni e aggrottò le sopracciglia. Gandogar aveva visto abbastanza ed era giunto a una decisione. «Hai ragione, Bislipur, dobbiamo agire. Sarò io, e nessun altro, a creare una nuova fratellanza tra i figli del Fabbro. A questo scopo non esiste nulla di
meglio di una guerra vittoriosa contro il nemico comune», dichiarò, pensieroso. «Il trionfo sugli elfi unirà di nuovo le stirpi, facendo loro dimenticare tutti i litigi, le riserve e i disaccordi del passato.» «E il tuo nome sarà legato inscindibilmente alla nuova gloria», aggiunse il suo mentore, compiaciuto. Le sue prediche incessanti sembravano dare finalmente i loro frutti. «L'attesa deve finire. Esigerò che Gundrabur convochi una riunione finale entro le prossime trenta rotazioni solari per confermare la mia successione.» «E se muore prima? È vecchio e fragile...» Gandogar non esitò. «Allora salirò al trono, che l'imbroglione sia arrivato o meno», rispose con decisione. «Torniamo indietro. Sono stanco e affamato.» La mente di Bislipur si soffermò sul nuovo incarico che il re gli aveva affidato in maniera implicita e inconsapevole. In trenta rotazioni possono accadere tante cose, pensò con sinistro compiacimento il nano dalla barba brizzolata. Poiché aveva già commesso atti ancora più atroci dell'omicidio per sostenere il potere di Gandogar, una bassezza in più non avrebbe avuto alcun peso. Questa volta, tuttavia, il suo proposito richiedeva una pianificazione impeccabile. «Vengo, mio re», urlò. Bislipur camminò sul bordo del ponte, guardando lo strapiombo apparentemente senza fine. Chi cade in un simile abisso scompare per sempre. Swerd avrebbe presto avuto qualcosa da fare.
Terra Nascosta, regno incantato di Ionandar, 6234° ciclo solare, tarda estate «In piedi, Sapientone, si riparte», gli sussurrò qualcuno all'orecchio. La barba gli solleticava il collo, e il sogno di un mondo migliore si dissolse. Tungdil si alzò, strofinandosi gli occhi. I gemelli spiarono fuori dal fosso per individuare eventuali mezz'orchi tra gli alberi, ma pareva che le bestie si fossero risolte a cercarli altrove. Avrebbero dunque potuto rimettersi in marcia verso sud in tutta tranquillità. Che avventura! pensò Tungdil, turbato. Era la cosa più terribile che avrebbe potuto immaginare. Si era messo in viaggio per restituire un paio di oggetti a un tizio e, dopo avere scoperto di essere il pretendente al trono del regno dei Secondi, si era ritrovato all'improvviso nel bel mezzo del conflitto tra il folle Nudin e la Terra Nascosta. Tutte le persone che un tempo amava e conosceva erano morte, e lui stava fuggendo con altri due nani dal pazzo che voleva la loro vita e il sacco con gli oggetti. E non ho la più pallida idea di che cosa fare. Tungdil si tolse foglie e rametti dalla barba e dai capelli. Se ricordava bene le parole del mago, Nudin aveva dichiarato guerra all'intera Terra Nascosta, a tutti i re e agli elfi, e non aveva paura neppure di minacciare i nani. «Hai l'aria preoccupata», osservò il Rabbioso, porgendogli un pezzo di pane e formaggio e indicando il bosco. «Vieni. Puoi mangiare strada facendo.» Tungdil seguì le istruzioni del guerriero. «Nudin deve avere programmato tutto da tempo e dev'essere molto sicuro del fatto suo, se ha scelto di usare noi come messaggeri», rifletté ad alta voce. Boïndil scoppiò a ridere. «Ma solo finché gli abbiamo mozzato la testa.» «Cosa che non l'ha infastidito particolarmente», intervenne suo fratello, burbero. «Ne sai qualcosa, Sapientone? È una dote di tutti gli stregoni?» Il nano scrollò il capo. «No. I maghi sono comuni mortali, solo che vivono più a lungo degli altri. Sanguinano e si feriscono come i loro simili. Una volta ho visto Lot-Ionan che si tagliava con un coltello. Quando ha guarito la ferita con una formula magica, gli ho chiesto se potesse annullare anche la morte...» Rivide i visi familiari di Frala e del padre adottivo; la tristezza lo pervase e le parole gli morirono in gola. I suoi accompagnatori non
insistettero. «Non possono fare nulla contro la morte», continuò, abbattuto. Purtroppo. «Oppure ci riescono soltanto i bugiardi», aggiunse Boëndal. «Comunque sia, Nôd'onn si è rialzato. Aveva la mia azza piantata nella schiena e aveva perso la sua maledetta testa!» «Sarà un gioco di prestigio speciale», azzardò il Rabbioso, sprezzante. «La Terra Estinta gli avrà donato questa capacità.» Tungdil non trovava alcuna spiegazione. Se in un primo momento aveva immaginato che Nudin si fosse tramutato in un semimorto, la sua ipotesi era stata smentita dalla resurrezione del mago. Nel peggiore dei casi, il traditore era riuscito a scoprire il segreto della vita eterna, il che significava che un'oscurità perenne incombeva sulla Terra Nascosta. «Avremmo dovuto farlo a pezzetti e bruciarlo», borbottò Boïndil. «Non sarebbe servito granché», affermò una voce chiara che riecheggiò tra i tronchi. «Ormai è impossibile sconfiggere Nôd'onn con le armi note ai mortali. Non ci riusciranno né la spada né l'ascia né la magia. Ci ho provato di persona e ho fallito.» I nani afferrarono le asce e le scuri, e Boïndil coprì le spalle agli altri due. «Non possono essere mezz'orchi», bisbigliò Boëndal a Tungdil. «Stiamo a vedere», ribatté suo fratello. «Sfida grande o sfida piccola?» Tra il verde degli abeti si materializzò una figura che tolse il respiro a Tungdil. Non avrebbe mai immaginato che esistessero uomini come quello. Era alto almeno quanto due nani e aveva il petto largo come una botte. Tungdil aveva visto la magnificenza di un'armatura intera soltanto nei libri. La lunga gorgiera, i bracciali e i gambali erano forgiati nel tionio più pregiato e plasmati in maniera tale da garantire al soldato una corazza robusta come l'acciaio. Tra le placche di metallo si intravedevano gli anelli di una cotta che assicurava all'uomo un'ulteriore protezione. Affinché il suo vestito di ferro non tintinnasse troppo, lo sconosciuto indossava un leggero mantello tra i vari strati di metallo. I piedi giganteschi calzavano stivali chiodati e la testa era nascosta da un elmo la cui visiera era sapientemente modellata a forma di demone. All'altezza della fronte correva un cerchio che ricordava una corona, con punte lunghe ciascuna quanto un dito. La sua mano destra stringeva un'ascia bipenne come se fosse leggera quanto un pezzo di legno, mentre la sinistra reggeva uno scudo. Tra le sue
armi figuravano una piccola clava e una spada, che su di lui pareva un pugnale. Come se tutto quel peso e quell'arsenale di morte non gli bastassero, sulla schiena portava uno spadone. Boïndil lanciò una rapida occhiata sopra la spalla per farsi un'idea del nuovo arrivato, e non riuscì più a staccare gli occhi da quell'apparizione. «Lascia che vada avanti io», supplicò il fratello. «Tu coprici le spalle mentre io mi occupo di quella montagna di ferraglia.» Gli occhi gli scintillarono, pieni di cupidigia. «Questa è quella che chiamo una sfida grande. Costui vale senz'altro più dei Maialini.» «Chiudi il becco», lo rimproverò Boëndal. «Non sappiamo ancora che cosa vuole.» «Ha una voce molto squillante per un tizio alto quanto un albero», commentò Tungdil, stupito. Accanto al guerriero comparve una donna dal volto acerbo e dai capelli biondi legati in una treccia. «Non era la sua voce.» I suoi occhi azzurri squadrarono il terzetto. «Era la mia.» Tungdil si domandò se la conoscesse, ma i suoi lineamenti marcati e il suo abbigliamento non gli dicevano granché. Il corpo atletico era infilato in un vestito di cuoio marrone scuro i cui ampi spacchi lasciavano una notevole libertà di movimento. La sconosciuta, che aveva anche guanti e stivali neri, teneva la destra posata sull'elsa di una spada. Più Tungdil la guardava e più gli riaffiorava alla mente un racconto del padre adottivo. «Siete forse Andôkai, detta anche la Burrascosa?» chiese titubante. La maga annuì. «Proprio così. E tu sei Tungdil, che è sfuggito a Nôd'onn con i suoi amici.» Indicò il gigante al suo fianco, che la superava di quasi cinque teste e restava immobile come la statua di un dio della guerra. «Questo è Djerůn, il mio fedele accompagnatore.» «E che cosa vuoi da...» fece Boëndal, sospettoso, ma Tungdil si affrettò a interromperlo. «Che cosa è successo a Lot-Ionan? È ancora vivo, venerabile maga?» Andôkai lo guardò, il volto rabbuiato dal dolore e dalla collera. «È morto, Tungdil. Morto come Maira, Turgur e Sabora. Nôd'onn ha sottratto loro la vita per spianarsi la strada verso il dominio della Terra Nascosta.» Il nano chinò il capo. Era una notizia terribile, e la sofferenza per la perdita definitiva del suo padre adottivo lo divorò, spalancando un abisso nel suo cuore. «I migliori studenti hanno seguito i loro maestri nella rovina affinché Nôd'onn trionfasse incontrastato», proseguì la donna, inesorabile.
«Allora sei stata tu ad attaccarlo con i fulmini! Hai ottenuto più di noi?» si immischiò il Rabbioso. «Ha resistito a tutto», rispose lei. «L'ho aggredito con ogni mio potere, ma invano. Quando abbiamo visto che persino la decapitazione non era servita a nulla, abbiamo temuto che potesse essere troppo tardi. Poi ne abbiamo avuto la certezza.» «Lunghi», bofonchiò Boëndal, sprezzante. «Noi ci facciamo in quattro per difenderli dalle orde di Tion che stanno in agguato davanti alle montagne, e loro che cosa fanno? Pianificano la sconfitta dall'interno. Vraccas avrebbe dovuto darvi una balia che vi prendesse per mano e vi bacchettasse sulle dita quando combinate delle sciocchezze.» «Forse hai ragione.» La maga si avvicinò. «Vi ho cercato per scoprire che cosa voleva Nôd'onn da voi», spiegò. Si accovacciò davanti a Tungdil. «Devi possedere qualcosa che vuole a tutti i costi. L'abbiamo visto dalla collina. Che cos'è?» «Non è niente. Sono soltanto ricordi del mio signore», mentì. «Nudin lo detestava e voleva questi oggetti per distruggerli.» «Al contrario, un tempo andavano d'accordo. Ero io a non essere molto simpatica al tuo signore», replicò Andôkai, sorridendo. Tungdil ricordò ogni cosa. Lot-Ionan disapprovava le opinioni della maga e il suo dio, Samusin. Quando gli altri due sapranno che Andôkai ha tollerato la presenza dei mezz'orchi nel suo regno, potrebbe scoppiare una lotta impari. La sproporzione non dipendeva soltanto dai poteri magici della donna, ma anche dalla forza del suo accompagnatore, che sembrava in grado di spaccare in due un albero. «Non sei simpatica nemmeno a me», dichiarò con schiettezza Boïndil. «Vai per la tua strada e lasciaci in pace. Abbiamo altro cui pensare.» «Altro cui pensare?» gli fece eco Andôkai, beffarda, rialzandosi. «Non avrete più nulla cui pensare quando lo stregone si sarà impossessato dei regni. Le nazioni dei nani cadranno come quelle degli elfi e degli uomini. Nôd'onn e la Terra Nascosta, la sua alleata, vogliono il potere. Un potere senza limiti.» Sollevando il mento, lo guardò con espressione sdegnata. «Rintanatevi pure nel vostro rifugio tra le montagne. Vi assicuro che le creature di Tion prenderanno presto d'assalto le vostre fortezze su due lati.» «Che cosa farete voi?» domandò Tungdil. «Me ne andrò da qui», rispose lei con sincerità. «Non sono tanto stupida da illudermi di poter fermare la Terra Nascosta. Nessun esercito resisterà a
Nôd'onn, anche se i re credono in questa chimera e vi fanno affidamento. Perché dovrei restare? Per tornare sotto forma di semimorta dopo che mi avranno uccisa? Che Samusin me ne scampi.» Osservò i nani. «E voi? Siete diretti verso il regno dei Secondi? Se è così, mi aggregherò a voi, varcherò la Porta Alta, e poi non mi rivedrete mai più. Fino ad allora saremo alleati.» Il terzetto si consultò per qualche istante e decise di accettare la proposta nonostante il voto contrario del Rabbioso. Tungdil e Boëndal avevano tratto insegnamento dalle esperienze passate e volevano garantirsi un aiuto magico per essere pronti a tutto durante il viaggio. Nonostante le proteste, Boïndil cedette perché non era bravo con le parole; il linguaggio erudito di Tungdil lo ridusse al silenzio. «Se qualcosa va storto, dovrete vedervela con me», giurò agli altri due. «Potete unirvi a noi», annunciò Tungdil. «Ma saremo noi a stabilire fin dove, Trecciabionda», precisò Boïndil, lanciando un'occhiata sdegnosa al guerriero. Si capiva che si sarebbe misurato ben volentieri con quell'avversario altissimo. «Sai parlare? Ehilà! Ci senti da lassù, con quel secchio sulla testa?» «Djerůn è muto», intervenne la maga, brusca. «Lascialo in pace e sii cortese, per favore, altrimenti potrei fare qualche osservazione sulla tua statura e sul tuo puzzo.» «Decido io quando essere cortese», la rimbeccò il nano, offeso, gettandosi la treccia oltre la spalla. «E tu non starmi in mezzo ai piedi», gridò al guerriero prima di mettersi in testa al gruppo. «I mezz'orchi sono miei. Dovrai aspettare il tuo turno.» La marcia iniziò. Tungdil camminava dietro Andôkai. Parlerò con lei quando ci accamperemo, si ripromise. Voleva chiederle altri dettagli che non dovevano giungere alle orecchie dei gemelli. *
*
*
«Com'è morto Lot-Ionan, venerabile maga?» domandò Tungdil alla donna, che sedeva sul suo mantello un poco distante dal fuoco e fissava le fiamme. Tungdil aveva scelto la lingua degli eruditi per sfoggiare la sua istruzione e dimostrarle che non era un nano come tutti gli altri. Aveva impiegato parecchio tempo per trovare il coraggio di avvicinarsi a lei e parlarle a quattr'occhi. Il guerriero era accovacciato lì accanto, la schiena appoggiata al tronco di un albero. Le armi giacevano ai lati, allineate con cura in ordine di lunghezza e pronte per l'uso. Tungdil non riusciva a capire se, sotto l'elmo, l'uomo dormiva oppure no. «Vedo che Lot-Ionan ti ha insegnato qualcosa», disse lei lentamente, senza distogliere lo sguardo dal fuoco. «Un nano colto è raro nella Terra Nascosta. Ancor più raro di un nano normale.» Fece una pausa. «Perché dovrei torturare entrambi raccontandoti della sera in cui è stato compiuto il tradimento? A che cosa ti serve sapere come è morto il tuo signore?» «Sto cercando di comprendere perché mai Nudin si è trasformato.» «Sto cercando di comprenderlo anch'io, Tungdil.» Andôkai girò verso di lui il volto austero. «Ma non ci riesco.» Narrò che cosa le era capitato quella sera. «Nudin mi ha afferrata all'improvviso e mi ha abbattuta con un colpo magico, facendomi perdere i sensi.» Si portò la mano al mento. «L'ho atterrato con un fendente, ma mi ha trapassata con il suo bastone. Poi di quella notte rammento soltanto i rumori, che mi giungevano attraverso l'incoscienza.» Inspirò a fondo, allungò le gambe e guardò in su, ammirando le stelle. «Devono avere lottato strenuamente: ricorderò le loro grida di morte per tutta la vita. Avevo la sensazione che il sangue abbandonasse il mio corpo senza che io potessi fare nulla.» «Come siete riuscita a sopravvivere?» La donna guardò il soldato con dolcezza. «Grazie a Djerůn. Nôd'onn aveva dimenticato che l'avevo portato con me a palazzo. Si è intrufolato nella stanza quando il folle è uscito, e ha curato la mia ferita. Ero troppo debole per affrontare il traditore. Djerůn ha trafugato un cadavere da un cimitero della città, l'ha vestito con i miei abiti e l'ha lasciato nel salone insieme con gli altri morti affinché Nôd'onn credesse che non rappresentassi più una minaccia per lui.» Tese la mano verso un ramo e lo buttò nel fuoco. Le scintille si sollevarono danzando verso il cielo buio. «Non rappresento una minaccia per lui nemmeno da viva», aggiunse, scoraggiata. «E... Lot-Ionan?» volle sapere Tungdil.
«Quando Djerůn mi ha portata via, il tuo signore era pietrificato», rispose piano Andôkai. «Nôd'onn l'aveva tramutato in una statua.» Una lacrima di rabbia impotente le spuntò dall'angolo dell'occhio. «Una statua», mormorò il nano, scivolando più vicino al fuoco. «È possibile annullare...» La maga scosse il capo, rinunciando a ulteriori spiegazioni. Sedettero l'uno accanto all'altra in silenzio, pensando alle vittime. Le stelle orbitavano sopra di loro, il tempo passava. «Volete lasciare la Terra Nascosta? Per andare dove? Che cosa ne sarà del vostro regno?» chiese Tungdil, stanco. Gli bruciavano gli occhi perché non aveva battuto le palpebre neppure una volta mentre ammirava il gioco di colori delle fiamme. Il calore gli asciugò le lacrime e il sale gli irritò gli occhi sensibili. «Credete che la situazione sia migliore in un paese lontano, venerabile maga?» «È sconsigliabile mettersi sul percorso di un masso rotolante quando si è soli», ribatté lei a bassa voce. «Mi ripugna l'idea di prolungare inutilmente la sofferenza, perciò cedo il mio regno di mia spontanea volontà. Che cosa otterrei se opponessi resistenza? Vedrò che cosa c'è dietro le montagne. La Terra Nascosta non merita più il suo nome.» Pregò Tungdil di ritirarsi. «Vorrei dormire.» «Grazie, venerabile maga.» Tungdil tornò dai gemelli e riferì loro i fatti accaduti nella capitale del Lios Nudin. «Allora gli altri stregoni sono morti davvero?» domandò il Rabbioso, arrostendo un pezzo di formaggio prelevato dalla sua riserva inesauribile. «Dunque le chiacchiere sui loro poteri erano tutte sciocchezze.» «Lo scudo più robusto non può nulla contro un pugnale traditore», asserì suo fratello, addentando un pezzetto di pane abbrustolito. «I Lunghi sono un popolo triste. Gli dei avranno avuto una giornataccia quando li hanno creati», aggiunse, masticando. «Ma la cosa ancora più triste è che trascineranno con sé verso la rovina tutta la Terra Nascosta.» Tungdil accettò il formaggio che gli offrirono e se lo infilò in bocca. Aveva imparato ad apprezzarne il sapore aspro, cosa che interpretava come un segno della sua progressiva trasformazione in un vero nano. Boïndil gli diede una gomitata, indicando con lo spiedo la singolare coppia dall'altra parte dell'accampamento. «Guarda, ha ancora la pentola in testa», rise. «Non si può dire che non sia cresciuto bene.» Boëndal mostrò un po' più di rispetto. «Non avevo mai visto un Lungo come quello», confessò. «Certo, non avevo ancora frequentato molto gli
uomini, ma è senza dubbio l'esemplare più alto che abbia mai incontrato. Spaventerebbe persino un mezz'orco.» «Vuoi dire che non è un essere umano? Un giovane orco, magari?» ipotizzò suo fratello. «In quell'armatura potrebbe nascondersi qualsiasi cosa.» Boïndil fece per andare a interpellare il diretto interessato. «Se è un Pelleverde o un'altra bestia, morirà all'instante», promise. «E la sua signora morirà con lui. Non mi importa se è una maga oppure no, tanto i Lunghi non hanno più bisogno di lei.» Tungdil avvampò. Non credeva che Andôkai avesse al suo fianco un mostro di Tion. Devo impedirgli di provocare una lite. Se sfiderà il guerriero a combattere, Andôkai si schiererà dalla parte di Djerůn, e potrebbe finire male. «No, aspetta, è un uomo», rassicurò Boïndil con enfasi. «Nella Terra Nascosta ci sono uomini che diventano così alti. Ho letto che si riuniscono in eserciti di cui i mezz'orchi hanno grande rispetto.» Si coprì di sudore perché aveva mentito a due rappresentanti del suo popolo, ma dopotutto era una bugia raccontata a fin di bene. «E perché diventano così alti?» insistette Boïndil, giocherellando con una delle sue scuri e continuando a sperare in un pretesto per scontrarsi con Djerůn e misurare le sue forze contro quelle dello sconosciuto. Tungdil cercò febbrilmente una scusa che non doveva essere logica a tutti i costi. «Le... madri... legano... ai piccini due corde intorno al tronco e alle gambe subito dopo il parto... e tirano. Lo fanno tutti i giorni, mattina e sera», improvvisò. «E funziona, come vedete. Sono guerrieri famosi. Crescono dentro l'armatura, da cui sono inseparabili.» I gemelli lo guardarono con espressione perplessa. «Gli esseri umani fanno una cosa simile?» Il Rabbioso era scettico. «Abbastanza crudele, no?» «È quello che dicono i libri.» Boëndal studiò il guerriero. «Mi piacerebbe sapere quanto pesa e quante libbre riesce a sollevare.» I tre nani osservarono l'uomo, continuando a non capire se dormiva oppure no. Il muso ghignante del demone sulla sua visiera luccicava al chiarore del fuoco e sembrava farsi beffe di loro. Boëndal fece spallucce. «Prima o poi dovrà pur mangiare», borbottò. «Allora lo vedremo in faccia.»
IX Terra Nascosta, regno di Gauragar, 6234° ciclo solare, tarda estate La Terra Nascosta non vedeva da millenni di cicli solari una comitiva singolare come quella che, ormai da diverse rotazioni, vagabondava attraverso lo Ionandar e ora attraverso il Gauragar. Molto prima che le teste dei nani spuntassero dalla cima di una collina, l'imponente busto corazzato del guerriero si stagliava sopra l'altura, suscitando espressioni stupefatte e urla spaventate tra i contadini intenti al lavoro dei campi. Di solito i gemelli camminavano in testa, con Tungdil nel mezzo, mentre la maga e il suo accompagnatore li seguivano a breve distanza. Il soldato procedeva a piccoli passi per non superare continuamente gli altri. Andôkai aveva pagato una cifra esorbitante a un mezzadro per acquistare un cavallo su cui caricare i suoi bagagli e parte delle armi di Djerůn. Tungdil si domandava senza sosta se fare parola alla maga dei libri che portava con sé. I segreti racchiusi in quegli scritti sembravano inquietare Nôd'onn quanto gli oggetti, e questo gli infondeva la speranza di poter fare qualcosa contro lo stregone. Se fallirò, Andôkai dovrà rinunciare ai suoi progetti di fuga. È l'unica maga superstite. Si augurava vivamente di riuscire a convincerla. Restò dunque un poco indietro fino ad affiancarla. «C'è un interrogativo che mi assilla», esordì. «Come mai siete ancora in grado di usare la magia? Nudin... Nôd'onn l'ha modificata.» «Perché vuoi saperlo?» chiese lei di rimando. «È importante.» «Per te o per me?» «Per la Terra Nascosta.» «Oh, se è così, ti rispondo volentieri.» Andôkai abbozzò un sorriso. «Perché io non sono cordiale come lo erano gli altri maghi. Samusin, il mio dio, aspira all'equilibrio e ama sia la luce sia le tenebre, perciò io sono in grado di utilizzarle entrambe. La magia mutata a fin di male non mi disturba, sebbene mi riesca un po' più difficile accumularla e impiegarla. Il traditore non crede che sia ancora viva. Ma a che pro? Io non conto più nulla.» Scrutò il paesaggio dinanzi a sé, schermandosi gli occhi con la mano. «Tra poco dovrebbe esserci un bosco che ci regalerà un po' d'ombra. Questo sole è insopportabile.»
Adesso o mai più. Tungdil si fece animo. «Venerabile maga... Se esistesse un mezzo con cui fermare il traditore, lo usereste?» le chiese senza tanti preamboli. Andôkai continuò a camminare imperterrita, tenendolo sulla corda. «Ti riferisci per caso a quello che ti porti dietro, ometto?» «Sono oggetti che abbiamo preso a Grünhain, a casa di Gorén», le spiegò, raccontandole la loro avventura. «Gli albi e i mezz'orchi li stavano cercando, ma noi li abbiamo preceduti.» «Posso vederli?» Tungdil esitò, ma ormai un rifiuto non avrebbe avuto alcun senso. Estrasse con delicatezza i tomi dallo zaino, rimosse la carta cerata che li avvolgeva e glieli porse. Andôkai li aprì entrambi e li sfogliò con cautela senza che il suo volto tradisse alcuna emozione. Il nano provò una profonda delusione, perché aveva dato per scontata la sua meraviglia. Giudicò un cattivo segno che la sua interlocutrice restasse così indifferente. «Tutto qui?» domandò lei dopo qualche istante, restituendogli i volumi. «Di che cosa si tratta?» chiese Tungdil di rimando, senza perdersi d'animo. «Sono raccolte riguardanti creature leggendarie, storie di armi favolose e il resoconto del viaggio compiuto da una squadra di ricognizione che un tempo superò la Porta di Pietra ed entrò nella Terra dell'Aldilà. Secondo la prefazione, un solo uomo fece ritorno. Era ferito mortalmente e recava con sé i testi che furono riuniti in questi libri. Non capisco perché Nôd'onn dovrebbe essere interessato a questi scritti, a meno che non abbia conservato la sua vecchia sete di sapere.» «Nient'altro?» chiese Tungdil, riponendoli. «Nient'altro.» «Ma... ha fatto attaccare e annientare un centro abitato per questi tomi. Ci ha messo alle calcagna i mezz'orchi per impossessarsene.» La guardò con espressione dubbiosa. «Vi sbagliate, venerabile maga. I testi devono nascondere un segreto che non riuscite a decifrare.» «Che non riesco a...?» La sovrana del Brandôkai rise di gusto. «Djerůn, ascolta. Sto percorrendo una strada polverosa accanto a un nano che sostiene di essere più istruito di me.» Il guerriero continuò ad avanzare, impassibile. «Se non sono più istruito, sicuramente sono meno borioso e presuntuoso di voi», la rimbeccò Tungdil. «Siete certa che nelle vostre vene non scorra
sangue elfico?» «Oh, il nano tira fuori le unghie», ribatté la Burrascosa, divertita. «Si vede che è stato Lot-Ionan ad allevarti.» Accennò ai gemelli. «Quei due avrebbero estratto l'ascia già da tempo, cercando di concludere la conversazione a modo loro.» Divenne seria all'improvviso. «Questa sera, con calma, darò un'altra occhiata a quelle pagine, Tungdil. Forse celano davvero qualcosa in più di quanto mi sia parso a prima vista.» «Grazie, venerabile maga.» Dopo averle rivolto un cenno del capo, il nano allungò il passo per raggiungere Boïndil e Boëndal. «Forse, tra breve, sapremo perché Nôd'onn voleva i nostri libri», annunciò. «Hai spifferato qualcosa alla Lunga?» fece Boïndil, perplesso. «Glieli ho mostrati.» L'altro scrollò il capo con aria di rimprovero. «Sei proprio un Sapientone ingenuo. Comportati meno da uomo e diventa finalmente uno di noi.» «Ah sì? Dovrei forse spaccarle la testa non appena è in disaccordo con me?» sbottò Tungdil, irritato. «Sarebbe un inizio», replicò Boïndil, non meno scontroso. Boëndal si frappose tra loro, facendo da paciere. «Basta! Risparmiate la rabbia per i mezz'orchi in cui senz'altro ci imbatteremo ancora», li esortò con fermezza. «Tungdil ha fatto bene a interpellarla. Non mi piace l'idea che mi diano la caccia per qualcosa di cui non so nulla.» Suo fratello borbottò qualche parola incomprensibile e accelerò il passo. «Non ho mai detto che sarebbe stato facile viaggiare con noi, Sapientone», precisò Boëndal, sghignazzando. Tungdil non riuscì a trattenere una risata. Verso sera si fermarono. Le nottate erano già diventate molto più fredde; l'aria odorava di erba e terra e i grilli suonavano il loro concerto. Mentre i nani consumavano i loro ultimi viveri (avendo scorto le prime possenti vette delle montagne all'orizzonte, speravano di poter gustare presto qualche leccornia fresca del loro popolo), Andôkai mantenne la promessa e studiò il contenuto dei volumi. Tungdil evitò di disturbarla, il che non gli impedì comunque di avvicinarsi a Djerůn e portargli qualcosa da mangiare. Come era accaduto le sere precedenti, gli allungò un piatto con una pagnotta, mezza forma di formaggio e un grosso pezzo di carne. Questa volta voleva osservare il guerriero con attenzione. Nessuno, infatti, l'aveva ancora visto senza l'elmo d'acciaio.
«Djerůn farà il primo turno di guardia», decise Andôkai, senza alzare gli occhi dal tomo. «Voi potete andare a riposarvi.» «Nessun problema», bofonchiò Boïndil, ruttando forte. Dopo aver eliminato le briciole più vistose dalla barba, arrotolò la treccia fino a ricavarne un comodo cuscino e si stese accanto al fuoco. «Ma se arrivano i Maialini, Lungo, sii così gentile da svegliarmi, perché possa far assaggiare loro le mie scuri», disse all'uomo che, come sempre, sedeva per terra diritto come un fuso. I fratelli colsero l'occasione per coricarsi prima degli altri; ben presto il loro sonoro russare riecheggiò nel bosco, facendo vibrare i rami. La Burrascosa chiuse il volume, spazientita. «Adesso so perché finora hanno fatto loro il primo turno di guardia», sbottò. «Questo baccano è intollerabile se non si è profondamente addormentati.» Tungdil ridacchiò. «Chissà che frastuono nei regni dei nani.» «Non resterò abbastanza a lungo da appurarlo», replicò la donna in tono burbero, stiracchiandosi. I muscoli delle sue braccia si gonfiarono, cosa che le valse uno sguardo ammirato da parte di Tungdil. Persino le serve della galleria, che svolgevano parecchi lavori manuali, non avrebbero potuto misurare la loro forza con la sua. «Avete scoperto...» Tungdil si morse le labbra, perché si era ripromesso di non alludere ai libri. La maga allungò le gambe, vi si puntellò sopra con i gomiti e posò il mento sui palmi delle mani. I suoi occhi azzurri cercarono quelli del nano. «Pensi che cambierei idea se in queste pagine trovassi un mezzo per contrastare Nôd'onn?» «Il vostro dio è il dio dell'armonia. Dovreste considerare vostro dovere stabilire un equilibrio tra la luce e le tenebre nella Terra Nascosta», la implorò Tungdil, facendo appello alla sua fede, giacché pareva che l'onore non avesse molta importanza per lei. Altrimenti come si spiegava l'intenzione di piantare in asso il suo regno? Andôkai appoggiò una mano sul dorso del tomo nero. «Se qui dentro ci fosse la formula per un incantesimo con cui mettere in ginocchio Nôd'onn, sarei disposta a oppormi a lui», dichiarò con espressione meditabonda. «Ma non ho trovato nulla del genere. Descrizioni fiorite di esseri favolosi, fiabe... nient'altro.» «Significa che resterete ferma nel proposito di voltare le spalle alla Terra Nascosta?» «La mia esperienza è niente in confronto al potere di cui dispone
Nôd'onn. Non è stato facile sfuggire alle sue grinfie.» Aprì il volume a caso. «Se esiste un enigma per decifrare le sillabe, non riesco a trovarne la chiave.» Deciso a rivelarle quanto sapeva, Tungdil le porse la lettera scritta nella lingua degli eruditi. «Era insieme ai libri», spiegò. «Forse vi sarà d'aiuto.» «È tutto, oppure mi nascondi altri segreti?» «No, ora sapete ogni cosa.» Andôkai prese il foglio, lo piegò e lo infilò tra le pagine del testo. Quindi si strofinò gli occhi. «La luce è troppo fioca per leggere, continuerò domattina.» Avvolse di nuovo i volumi nel loro involucro impermeabile, se li mise sotto la testa a mo' di guanciale e si distese. «Domattina?» Avendo sperato che esaminasse subito la missiva, Tungdil trasse un profondo sospiro. Era una donna complicata. Prima di scivolare di nuovo accanto al fuoco, il nano lanciò un'occhiata a Djerůn. Il piatto era vuoto e l'elmo era sempre saldo sulla testa del guerriero. Conversando con la Burrascosa, Tungdil aveva dimenticato di osservare il soldato mentre cenava e non aveva neppure udito il più lieve tintinnio provenire dall'armatura. Quell'uomo gli sembrava sempre più inquietante.
Terra Nascosta, regno del Secondo, Beroïn, 6234° ciclo solare, tarda estate Balendilín non aveva un attimo di tregua. Appena tornato nella sua camera, ricevette un messaggio con cui veniva avvertito che due nani della delegazione dei Quarti volevano parlargli. È un buon segno. Finalmente un poco di ragionevolezza. I clan di Gandogar sono rinsaviti. Si incamminò subito verso il punto d'incontro indicato, poco distante dal pascolo. Il consigliere era di buonumore. Nelle settimane precedenti il suo compito era consistito soprattutto nello smentire le voci sulle cattive condizioni di salute di Gundrabur. Il capo supremo delle stirpi possedeva infatti un cuore forte e una volontà ancora più indomita, che molto probabilmente gli avrebbe permesso di guidare il suo popolo fino all'arrivo del secondo pretendente. Nel frattempo si discuteva persino di come rinsaldare una volta per tutte gli scarsi contatti tra i regni dei nani. Le cose vanno quasi troppo bene, pensò Balendilín, sbucando dal corridoio e ritrovandosi all'estremità di un ponte lungo cinquanta passi, sospeso sui resti di una miniera di rame. Mise un piede davanti all'altro con prudenza, abbandonandosi alle sue riflessioni. La sua strategia della dissuasione sarebbe stata ancora più efficace se Bislipur non avesse continuato a immischiarsi e a riaccendere l'entusiasmo per un'eventuale guerra contro gli elfi con i suoi discorsi sovversivi. È responsabile delle opinioni di Gandogar, sussurra i suoi pareri nelle orecchie del giovane re. A un tratto notò un movimento sul lato opposto. Come se gli avesse letto nel pensiero attraverso le spesse pareti di roccia della montagna, Bislipur gli comparve davanti all'improvviso, la sinistra posata sulla testa dell'ascia. Balendilín interpretò il suo atteggiamento come una muta minaccia. Restò immobile, in attesa. «Che cosa vuoi?» «Alcuni la chiamano "contesa degli storpi"», gli urlò Bislipur, la cui voce riecheggiava tra i muri vuoti. «Lo zoppo contro il mutilato. Ritieni che abbiano ragione?» Balendilín tese le orecchie per captare le voci di altri nani nei paraggi, ma non udì nulla. Era solo. «Contesa è la parola sbagliata», rispose. «Abbiamo idee diverse e cerchiamo di persuadere la maggioranza.» Fece due passi avanti, imitato da Bislipur. «Allora, che cosa vuoi?» «Il meglio per il nostro popolo», affermò l'altro, rabbioso.
«Intendevo dire da me.» «Che tu capisca che io e Gandogar rappresentiamo il futuro delle stirpi e dei clan. Come posso convincertene?» «Finché esigerai una guerra contro gli elfi, non troverai in me un sostenitore per il tuo sovrano», asserì Balendilín con sincerità, arrestandosi. Bislipur fece lo stesso. Li dividevano ancora quindici passi. «Allora è contesa», ribadì l'altro con freddezza. «Finché non verrà presa una decisione, ti considererò un nemico che si oppone a ciò che è bene per tutte le stirpi. Farò in modo che gli altri clan la pensino come me.» Quando Balendilín riprese a camminare, anche Bislipur avanzò, finché furono alla distanza di un braccio. «E farò in modo che, nonostante la tua influenza, l'imperatore ritrovi il senno.» Ormai erano così vicini che le punte dei loro nasi si sfioravano. «Proprio tu parli di senno? Tu?» Balendilín lesse l'avversione e l'animosità irriducibile negli occhi del suo interlocutore. «Ti giuro che impedirò il conflitto con l'Âlandur, fratello mio», si costrinse a dire per non dare l'impressione di avere paura, benché Bislipur gli incutesse un timore che non aveva mai provato. «Persino i tuoi clan cominceranno a tentennare.» «Non impedirai a me e a Gandogar di salire sul trono», profetizzò Bislipur, cupo. Emanava una violenza e una brutalità represse che minacciavano di esplodere da un momento all'altro. «A te e a Gandogar? Che cosa c'entri tu con il trono?» Rimasero immobili, e nessuno dei due distolse lo sguardo. Poi l'aggressività di Bislipur scomparve all'improvviso. «Ti auguro buona fortuna per la tua impresa disperata, e che Vraccas ti benedica», aggiunse, facendosi da parte e superando Balendilín. Il consigliere dell'imperatore chiuse gli occhi per un istante, deglutendo. Era stato così sicuro di dover affrontare un duello che non gli pareva vero di essere giunto illeso dall'altra parte del ponte. Sentì Bislipur fischiettare un motivetto; l'eco trasformava quelle poche note in un canto solenne. Se non altro, ora Balendilín sapeva come comportarsi. Sollevato, percorse il tunnel scavato nelle pendici del monte, affrettandosi a raggiungere il punto d'incontro concordato con i nani del Quarto. Stava svoltando l'angolo del corridoio, quando la terra gli tremò sotto i piedi. Gli uomini non avvertivano simili vibrazioni, ma il suo popolo aveva imparato a percepire i movimenti delle montagne. Qualcosa di pesante entrò nel cunicolo.
Poi Balendilín sentì il rimbombo di numerosi zoccoli e una serie di muggiti nervosi. Qualcosa doveva avere spaventato le vacche della sua stirpe mentre tornavano nelle stalle. Maledizione! Si guardò intorno, ma non scorse nicchie abbastanza grandi per proteggerlo dalle corna del bestiame. Aveva una sola possibilità: tornare sul ponte e arrampicarsi oltre il parapetto, sul bordo angusto. Voltatosi in tutta fretta, si mise a correre. Udì il frastuono degli zoccoli e le corna che sfregavano contro le pareti; questo rumore gli infuse nuova energia. Sbuffando, guadagnò l'estremità del tunnel e la passerella gli sembrò una visione rassicurante; sentiva il fiato degli animali sul collo. Saltò oltre la balaustra e si tenne in equilibrio sulle pietre del bordo esterno. Lo slancio rischiò di farlo cadere in avanti, nell'abisso, ma l'acrobazia gli riuscì. I bovini arrancarono alle sue spalle. Vraccas, ti ringrazio! Un forte scricchiolio attraversò la costruzione: sul parapetto comparvero le prime crepe. Balendilín rammentò che di solito il ponte non serviva per il passaggio delle mucche. Era stato eretto per i nani, e non per il loro bestiame. Il peso della mandria aveva sottoposto la struttura a una sollecitazione eccessiva; le oscillazioni provocate dai movimenti degli animali ebbero un effetto devastante. La passerella si spaccò al centro, nel punto più fragile, e i supporti laterali si piegarono, preannunciando la fase successiva della catastrofe. Un blocco lungo quattro passi sprofondò nel baratro insieme con le vacche che vi si trovavano sopra. Tutto cominciò a franare. La costruzione si sbriciolò pezzo dopo pezzo. I bovini scomparvero nella voragine, e i loro muggiti divennero sempre più fiochi, senza che il nano riuscisse ad avvertire alcun tonfo. Devo andarmene! Balendilín era in grave pericolo, perché l'orlo della spaccatura si avvicinava, mentre il bestiame moriva alle sue spalle e l'oscurità gli si spalancava dinanzi. Finalmente i bovini si fermarono paralizzati, e il nano osò spiccare un salto tra le loro file per raggiungere un punto sicuro. Ma la fortuna non era dalla sua parte. Appena ebbe toccato terra, la roccia sotto i suoi piedi cedette. Precipitando, afferrò un masso sporgente e vi si aggrappò con tutte le sue forze. Se avesse avuto entrambe le braccia, si sarebbe issato senza difficoltà
oltre il margine; invece penzolava sopra lo strapiombo, incapace di trarsi in salvo e bisognoso dell'aiuto altrui. Muscoli e tendini non avrebbero resistito in eterno. «Qualcuno mi sente?» urlò per attirare l'attenzione. Fondava tutte le sue speranze sul fatto che i pastori andassero in cerca della mandria dispersa. «Ehi, sono qui!» Le vacche si tranquillizzarono, reagendo alle sue grida con lievi muggiti stolidi. Due animali si avventurarono fino al bordo, annusandogli la mano e leccandogliela. La loro bava formò una piccola pozza che rese la roccia ancora più viscida. Balendilín aveva l'impressione di pesare quanto tre mezz'orchi adulti. Il suo braccio si faceva sempre più lungo, e la sua voce sempre più rauca. Le mucche si spostarono di colpo perché qualcuno si aprì un varco nella mandria. «Quaggiù!» strillò il consigliere, risollevato, perché le sue dita minacciavano di scivolare. «Mi serve aiuto!» Si udì un fruscio, e la polvere gli piovve addosso, depositandosi sulla barba e sui vestiti. Balendilín si trovò di fronte il viso verde scuro dello gnomo, sul cui grosso naso spiccava un porro ancora più vistoso. I grandi occhi lo studiarono con cupidigia, e le dita simili ad artigli gli tastarono il braccio. «Eccoti qui!» Dopo essersi sporto oltre l'orlo, Swerd si affaccendò attorno alla cintura del nano. «Un istante, ci sono quasi», disse allo sventurato in tono rassicurante. La fibbia si slacciò con uno scatto e lo gnomo si ritrasse con espressione soddisfatta. Dopo avere rubato la borsa e il prezioso fermaglio, li agitò davanti agli occhi di Balendilín. «Ecco fatto! Adesso puoi mollare», esclamò, scoppiando in una risata simile a un belato e tagliando la corda. «Aspetta! Torna indietro!» lo implorò l'altro, sconcertato. «Non puoi lasciarmi...» Le sue dita scivolarono. Tutti gli sforzi furono vani, perché la pozza di saliva untuosa gli aveva tolto ogni appiglio. L'abisso lo attirava verso di sé. A un tratto un'ascia spuntò dall'alto. La corta lama d'acciaio penetrò tra gli anelli della sua cotta di maglia e lo agganciò prima di risollevarsi. Servendosi dell'arma come di un'ancora, lo sconosciuto lo issò oltre il margine. Tirando un sospiro di sollievo, Balendilín si afflosciò accanto al suo salvatore, che ansimava per lo sforzo.
«Gandogar?!» Il consigliere aveva scritto in faccia lo stupore per essere scampato alla morte proprio grazie all'intervento del re dei Quarti. «Siamo avversari, non nemici», dichiarò Gandogar con un sorriso obliquo. «Siamo un solo popolo, i figli del Fabbro. I nostri nemici sono le creature di Tion, non le nostre stirpi e i nostri clan. Non l'ho dimenticato, nonostante il nostro disaccordo.» Si alzò, aiutando anche l'altro a rimettersi in piedi. «Che cos'è successo?» Il nano afferrò con gratitudine la sua mano protesa. Dopo quell'atto eroico non dubitò più nemmeno per un secondo che il pretendente al trono parlasse e agisse con assoluta lealtà. «La mandria deve essere sfuggita ai pastori», ipotizzò. Non volle rivelare altro. Prima di muovere delle accuse, doveva dimostrare senza ombra di dubbio che dietro l'attentato si celavano Swerd e Bislipur, perché l'accaduto non era certamente stato frutto di una coincidenza. Poiché lo gnomo non faceva mai nulla di sua iniziativa, ma obbediva agli ordini del suo padrone, la sua apparizione un po' troppo rapida aveva convinto Balendilín che il mentore di Gandogar aveva voluto eliminarlo. «Ti devo la vita», disse in tono grave. «Continuerò a oppormi con ogni mezzo alla guerra contro gli elfi, ma ho un grande debito con te.» «Non mi aspettavo nulla di diverso», replicò Gandogar, cordiale. «Tu avresti fatto lo stesso per me.» «Non esserne troppo sicuro», ribatté Balendilín con un sorriso compiaciuto. «Avrei avuto un ottimo pretesto per non soccorrerti.» «Davvero?» «Come avrei potuto tirarti su con un braccio solo?» rise il nano. Dopo lo stupore iniziale, il sovrano lo imitò. A Balendilín dispiaceva molto che avessero opinioni contrastanti: a parte questo, il suo istinto gli suggeriva che Gandogar sarebbe stato il successore ideale. Quando tornò nella sua stanza, aveva ormai maturato la certezza di essere caduto in una trappola sin dall'inizio. Non aveva, infatti, visto alcuna traccia dei Quarti che avevano chiesto di incontrarlo. In compenso, la borsa e la fibbia della cintura giacevano davanti alla sua porta. Evidentemente lo gnomo ci aveva ripensato e aveva deciso di cancellare le prove del suo gesto vergognoso. Balendilín recuperò la sua roba. Non ci cascherò un'altra volta!
Terra Nascosta, regno di Sangreîn, 6234° ciclo solare, inizio dell'autunno I viandanti si resero conto di non poter più scherzare con l'autunno, almeno durante la notte. Avevano raggiunto il Sud e le prime aride propaggini del regno desertico di Umilante ma, nonostante la sabbia fine che soffiava loro in faccia senza tregua, non era affatto caldo. Appena il sole completava la sua rotazione e l'oscurità calava, la temperatura diminuiva sensibilmente, il che induceva Artdôkai a insistere per accendere un grande fuoco nonostante le proteste dei gemelli. Boëndal temeva che il bagliore attirasse i mezz'orchi e altre canaglie. Non voleva più correre alcun rischio mettendo a repentaglio la vita del pretendente al trono, proprio quando erano così vicini al regno della seconda stirpe dei nani. Anche se a malincuore, persino Boïndil dava ragione al fratello, ma questo non impediva alla maga di gettare i ceppi tra le fiamme con le sue stesse mani. Quando furono distanti circa otto rotazioni dal portone della fortezza, si fermarono in un villaggio affacciato su un laghetto tranquillo, dove il commercio prosperava in tutte le sue forme. Dopo aver barattato i loro prodotti con quelli dei nani, numerosi mercanti provenienti da Orcomorto concedevano a se stessi e al loro seguito una sosta prima di affrontare il lungo cammino attraverso il desolato paesaggio del Sangreîn. Dopo quel centro abitato, li attendevano solo sassi e banditi. «Non preoccupatevi. Qui gli uomini stimano noi nani, perché siamo sinonimo di merci buone e resistenti con cui ottenere lauti guadagni su altri mercati», spiegò Boëndal. Interpretando gli sguardi degli esseri umani, Tungdil capì che il loro gruppetto dava nell'occhio solo per via di Djerůn, che li scortava come una torre di ferro ambulante. I bambini, stupefatti, circondavano il guerriero, che sopportava tutto quel trambusto con enorme calma perché ormai era abituato allo scalpore prodotto dalla sua comparsa. I viandanti alloggiavano in tende allineate lungo la sponda del lago. Quei ripari di tela e legno erano estensibili a piacere secondo le richieste dei viaggiatori, ed era addirittura possibile erigere strutture a due piani, simili a case, con l'ausilio di soppalchi. Poiché l'accompagnatore della maga era troppo alto per una tenda normale, la comitiva se ne fece costruire una su due livelli e rinunciò al
soppalco. Si misero al riparo dal vento gelido dietro i teli e accendendo un focherello in una nicchia per preparare il tè. «Sono impaziente ed emozionato», confessò Tungdil, sorseggiando la bevanda bollente. «Presto conoscerò la mia stirpe e il mio clan.» «Ti capisco», disse Boëndal con un'occhiata benevola. «Il consiglio dei nani non starà più nella pelle dalla curiosità. Ha dovuto aspettare a lungo.» «Tè...» esclamò suo fratello, disgustato. «Per Vraccas! Mi rifiuto di berlo», dichiarò, alzandosi. «Vado a vedere se riesco a trovare un buon bicchiere di birra in questo bizzarro villaggio senza muri degni di tale nome.» Così dicendo, uscì. «Che cos'hai di tanto speciale da meritare una scorta che ti conduca nel regno del Secondo?» domandò Andôkai, china sui libri. La lettera giaceva aperta sulla sua coscia. Fino a quel momento, la Burrascosa non aveva mostrato alcun interesse riguardo alla missione dei gemelli e al motivo per cui i nani cercavano Tungdil. Quest'ultimo esitò. «Vogliono chiedermi una cosa», rispose, elusivo. «Ma a voi che cosa importa? Tanto state per lasciare la Terra Nascosta.» La donna alzò la testa, meravigliandosi del suo tono risoluto. «Così mi sono guadagnata la tua eterna riprovazione, vero? Se invece la tua osservazione mirava a far leva sul mio senso dell'onore per indurmi a rimanere, potevi risparmiatela. Le tue parole hanno mancato il bersaglio.» Boëndal inarcò le sopracciglia con espressione impotente. Tungdil si infuriò per l'indifferenza della maga. In fondo, su di lui incombeva una sorte ben peggiore. Aveva ritrovato il suo popolo e ben presto l'avrebbe incontrato, ma con molta probabilità sarebbe perito con esso se i libri di Gorén non avessero rivelato nulla che potesse fermare Nôd'onn. Se non altro, sarebbe morto al fianco dei suoi parenti... La pioggia cominciò a cadere, tambureggiando lievemente sulla tenda. La polvere bagnata aderiva al suolo e alle tende, disegnando linee confuse sulla tela. In quella stagione, gli acquazzoni non erano inconsueti nel deserto del Sangreîn. Periodi umidi si alternavano a periodi asciutti: altrove questo clima avrebbe consentito la coltivazione dei cereali, ma nulla cresceva in quelle regioni sterili. Pochissimi terreni ospitavano alberi e fili d'erba, che i proprietari custodivano gelosamente. La falda all'ingresso della tenda si scostò all'improvviso, e una figura avvolta in un mantello entrò senza essere stata invitata. Djerůn si riscosse dalla sua immobilità come una statua che prende vita. La sinistra corazzata si allungò verso lo spadone, la destra si serrò intorno
all'elsa, e il guerriero si inginocchiò; la lama sibilava fendendo l'aria e mirava alla gola del visitatore. «No», urlò Andôkai, e Djerůn si immobilizzò di colpo. «Perdonatemi», balbettò l'uomo, terrorizzato, tenendo tra le mani una botte. «Devo consegnarvi questa. Non avevo intenzione di disturbarvi.» Inchinatosi, si affrettò a posare il suo carico sul pavimento e corse fuori per evitare di essere trucidato. «Niente male», si congratulò Boëndal con Djerůn. «È molto veloce per essere un ammasso di ferraglia, gatta ci cova.» L'altro tornò a sedersi per terra con le gambe incrociate; né lui né la sua signora reagirono al commento del nano. Ma quest'ultimo non si arrese. «Finora io e mio fratello non ci siamo curati del gigante, ma se desidera varcare la Porta Alta con voi, dovrà mostrare il viso alle guardie e rivelare la sua provenienza.» «Che norme singolari», osservò Andôkai. «Che cosa importa ai nani dei volti di coloro che vogliono lasciare la Terra Nascosta?» Il suo tono era irritato, perché ne aveva abbastanza di quelle interruzioni continue. «Preoccupatevi della difesa, non di chi vuole andarsene.» «Nessuna creatura di Tion entrerà viva nel regno del Secondo», ribatté il nano con enfasi. «Non importa da che parte stia.» «È un uomo allungato...» si intromise Tungdil. «Sono stato al gioco affinché potessimo viaggiare tranquilli. Ma presto raggiungeremo i Monti Blu. Questa è la legge del nostro popolo, e i viaggiatori devono rispettarla. Nessuno ti impedisce di cercare un'altra strada tra le montagne, ma non attraverserai il nostro regno se sotto quell'elmo si nasconde una creatura che potrebbe essere nostra nemica», affermò Boëndal, stizzito. «Staremo a vedere», replicò la maga. «Questo significa forse che è una creatura del male a scortarti?» gridò Boëndal, sbigottito. «Non ho detto questo. Ma anche se fosse? Samusin, il mio dio, non me lo proibisce.» «Samusin? Non voglio neppure sentirlo nominare.» Il viso del nano si rabbuiò. Dopo essersi alzato con lentezza, strinse il lungo manico dell'azza. «Che cosa si cela dietro la visiera?» «Adesso ne ho abbastanza!» sbottò Andôkai, chiudendo il tomo con tanta violenza che si udì uno schiocco. «Anche se nell'armatura si nascondesse Nôd'onn in persona, oppure un orco o uno spirito malvagio, la
questione non ti riguarderebbe, nano!» Ora scoprirono come mai tutti la chiamavano la Burrascosa. «È il mio accompagnatore, e a differenza di te e di tuo fratello si comporta in maniera irreprensibile! Non puzza neppure come un caprone, cosa che non si può certo dire di voi!» I suoi occhi azzurri lampeggiarono di collera; con un gesto energico, si tirò indietro le ciocche di capelli che le erano ricadute sulla faccia. «Mostrerà il viso quando ne avrà voglia. E se non ti sta bene, non mi rincresce affatto.» Indicò verso destra. «A proposito, laggiù c'è un bagno che ti consiglio caldamente di usare. È un miracolo che al vostro passaggio gli uccelli non cadano dal cielo morti stecchiti.» Lanciò loro un'occhiata gelida prima di afferrare l'altro libro e aprirlo con veemenza. Nel silenzio che seguì, udirono dei passi rapidi che si avvicinavano alla tenda e, un attimo dopo, il Rabbioso si materializzò sulla soglia. «Orecchi appuntiti! Ci sono degli Orecchi appuntiti qui!» annunciò, adirato. «Il mercante mi ha detto che vengono dall'Âlandur e...» La sua attenzione si concentrò sulla botte, che giaceva lì davanti, ignorata da tutti. «Nessuno ha sete?» domandò, prendendo una delle scuri per sfondare il coperchio. Poi si riempì un boccale, lo vuotò d'un fiato e ruttò forte. «Niente male», osservò, tornando ad affondare il bicchiere nel contenitore. «Gli elfi», gli ricordò Andôkai, aspra, prima che potesse dedicarsi totalmente alla birra. «Giusto», confermò Boïndil, sedendo su uno sgabello rivestito di cuoio. «Stavo comprando la botte, quando il mercante mi ha chiesto se avessi già saputo le ultime novità riguardo all'Âlandur e se volessi festeggiare la sconfitta dei miei nemici. Secondo lui, gli elfi sono in procinto di cedere il loro regno. Al momento, i loro ricognitori stanno cercando nuove regioni della Terra Nascosta in cui stabilirsi.» «E questi ricognitori avrebbero percorso il lungo tragitto fino al Sangreîn?» fece la maga, incredula. «Qui non c'è nulla che possa attrarre gli elfi. Niente boschi, soltanto polvere, sassi e sabbia. Mi pare molto strano.» Tungdil guardò Boëndal e intuì che erano giunti alla medesima conclusione. Boïndil dovette bere un altro sorso di birra per avere un'analoga illuminazione. Come sempre, era un po' lento di comprendonio. «Credi che siano albi?» domandò alla fine. «Nôd'onn non intende rinunciare ai libri», rispose Tungdil. «E sarebbe
impossibile non notarci lungo la strada. So perché sono arrivati all'oasi solo ora», continuò. «Durante la notte sono tali e quali agli elfi, perché gli occhi neri non li possono tradire nell'oscurità.» «Allora, Sapientone, potrebbe anche trattarsi di veri elfi», puntualizzò Boëndal. «Faremo la guardia a turno. Se sono albi, prenderanno di mira noi e i libri. Non riesco a immaginare un altro scopo per la loro visita. Qualunque cosa succeda questa notte, nessuno uscirà dalla tenda. Lasciamo che siano loro ad attaccare.» «Dovremmo anticiparli», ringhiò suo fratello in tono bellicoso; era trascorso troppo tempo dal suo ultimo combattimento. «Se sono albi, meritano di morire. Se sono elfi, meritano di morire comunque. Gli Orecchi appuntiti, semplicemente, sono più sopportabili da morti.» Andôkai ascoltò la conversazione in silenzio, quindi rivolse a Djerůn un gesto impercettibile della mano e si distese per riposare. «No, fratello, li lasceremo in pace», ribatté Boëndal con decisione. «Se scateniamo una zuffa, potremmo avere tutto il villaggio contro. Non siamo ancora nel nostro regno. Frena la rabbia. Faccio io la prima guardia.» Sbadigliando, Tungdil ingollò un boccale di birra prima di sdraiarsi su un mucchio di tappeti, agitato da sentimenti contrastanti. Le sue dita serrarono l'impugnatura dell'ascia, che gli infondeva un poco di sicurezza. Sperava quasi che gli albi li attaccassero, così la maga si sarebbe convinta dell'importanza di quei volumi. Tungdil si era appena assopito, quando un assordante grido di allarme riecheggiò nell'oasi. I nani balzarono subito in piedi, pronti a combattere. Persino Andôkai estrasse la spada; i suoi occhi saettavano inquieti, fissando ora l'ingresso ora le pareti della tenda. Djerůn si inginocchiò davanti all'entrata con l'ascia e lo scudo in posizione orizzontale per creare una barriera insormontabile. La visiera a forma di demone scintillò, sembrando quasi viva alla luce del fuoco che si consumava. Per un attimo, Tungdil credette di scorgere un bagliore viola dietro le fessure per gli occhi. Boëndal spense il fuoco affinché le loro ombre non fossero visibili dall'esterno e non li tradissero. I tre nani si misero schiena contro schiena, la donna rimase immobile a un passo di distanza. In un primo momento regnò il silenzio, poi agghiaccianti urla di morte risuonarono nella notte. A quel punto gli occupanti delle altre tende si risvegliarono, cominciarono a uscire dai leggeri ripari e a chiedere informazioni per individuare il motivo di tutto quel caos.
Di lì a poco i nani e i loro compagni di viaggio videro danzare sulle pareti di tela le ombre dei mercanti che correvano, e udirono il tintinnio delle corazze e delle armature indossate in tutta fretta, nonché degli scudi e delle lame che cozzavano contro i paletti. L'oasi si destò a un'ora insolita e si preparò alla lotta. «Un diversivo o un'aggressione vera e propria?» sussurrò Tungdil. «Che cosa ne pensate?» «Mezz'orchi!» strillò una voce inorridita da qualche parte, quindi le spade si incrociarono. Il combattimento era iniziato. Le bestie furtive ormai erano state avvistate, perciò non si sforzarono più di agire in silenzio. Tungdil ne udì i grugniti e le grida stridule. Senza volerlo, ripensò a Gutenauen, alla galleria, a tutti quei morti... Era decisamente combattuto. Voleva aiutare gli esseri umani a difendere il centro abitato, ma temeva che gli albi fossero in agguato alle loro spalle, in attesa che loro uscissero allo scoperto. «Che cosa facciamo?» domandò nervosamente ai gemelli. «Aspettiamo», rispose Boëndal, teso, stringendo più forte l'impugnatura dell'azza. Il tintinnio delle armi divenne più insistente e violento; il frastuono della battaglia e i lamenti di feriti e moribondi riecheggiavano ormai in tutto il villaggio. I mezz'orchi dovevano aver accerchiato e attaccato l'oasi contemporaneamente da tutti i lati, per evitare che gli abitanti si aprissero un varco e fuggissero. I combattimenti erano sempre più vicini alla loro tenda. Come in uno spettacolo di ombre cinesi, il gruppetto poteva seguire gli scontri tra uomini e bestie sulle pareti di tela del proprio rifugio. Boïndil si consultò brevemente con il fratello. «Andiamo», annunciò. «I Maialini vinceranno, e tu, Tungdil, sei troppo importante per farti correre dei rischi. Ci...» In quel momento un mezz'orco armato varcò la soglia grugnendo e rimbalzò con veemenza contro lo scudo di Djerůn, che gli si oppose come un muro di ferro. Stordito e con il naso che sanguinava, il mostro mosse un passo barcollante di lato quando l'ascia del guerriero gli si conficcò di sbieco nella clavicola sinistra. Le ossa e alcune parti dell'armatura cedettero sotto la violenza del fendente; divisa in due, la creatura crollò sul pavimento in una pozza di sangue e viscere, e un fetore insopportabile si diffuse nell'aria.
«Ehi! Ti avevo detto che i Musi di porco erano miei, Lungo!» si lamentò subito Boïndil. «Il prossimo lo lasci passare, hai capito?!» Un secondo avversario fece irruzione nella tenda. Andôkai gridò a Djerůn un ordine incomprensibile, e quello spostò lo scudo da una parte. Il mezz'orco corse in avanti alla cieca prima di notare il suo simile a terra e il guerriero gigantesco accanto all'ingresso. «L'ha lasciato passare davvero!» esclamò Boïndil, spiccando un salto in avanti per abbattere l'aggressore, impresa che gli riuscì senza difficoltà. Le scuri fecero il loro dovere e il mostro morì tra grida stridule. «Boïndil, basta con le bambinate», gli ordinò Boëndal in tono serio. Dopo aver praticato un taglio nella parete posteriore, sbirciò fuori. «Qui è ancora tutto tranquillo», affermò. L'azza acuminata lacerò la stoffa con facilità. Il nano sgusciò all'esterno e si accertò che non vi fossero pericoli prima di far cenno agli altri di seguirlo. Il gruppo aveva percorso un paio di passi, quando un'ombra lunga ed esile si levò davanti a Boëndal e lo attaccò all'improvviso. L'elmo impedì alla spada del nemico di spaccargli il cranio, ma il colpo poderoso bastò a farlo crollare sulle ginocchia. «Elfo o albo che tu sia, è giunta la tua ora!» Boïndil respinse il rivale con un balzo furioso. Quando l'aggressore dischiuse il mantello, intravidero un'armatura di piastre annerite che gli scendeva fin quasi alle caviglie. La bellezza del suo volto e le orecchie appuntite rivelarono ai nani l'identità di chi voleva ostacolare la loro fuga. A un tratto anche Djerůn si ritrovò di fronte un albo che lo impegnò in una dura battaglia. Sulla mano di Andôkai comparve una lucente sfera scura da cui un fulmine scoppiettante si scagliò verso un terzo albo che l'aveva scelta come bersaglio del suo attacco. Tungdil pensò che l'Orecchio appuntito si sarebbe disintegrato, ma non accadde nulla di simile. L'albo tese il braccio, rivolgendo verso il fascio di energia sibilante un cristallo che attirò la scarica magica e la assorbì per intero, senza che il suo proprietario subisse alcun danno. La Burrascosa imprecò ad alta voce, estraendo la spada. Tungdil si guardò intorno per vedere se da qualche parte vi fosse un quarto avversario. Notò con orrore un altro nemico che saltava giù da un carro e atterrava proprio ai suoi piedi. Guanti vermigli, giavellotto lungo e sottile, capelli dorati... Sinthoras! Era uno dei due albi di cui aveva origliato i discorsi quella notte tra i mezz'orchi, vicino a Gutenauen.
Sinthoras gli disse qualcosa. «Parla chiaro», lo esortò Tungdil con fermezza. La paura indeboliva la caparbietà del suo popolo, ma il nano si rifiutava di capitolare davanti a quell'essere. «Guardami. La tua morte si chiama Sinthoras», bisbigliò l'albo biondo con voce flautata. «Prenderò la tua vita come ho preso quella di tutti i Cavernicoli che ho incrociato.» «Ti sbagli. Vraccas mi assiste come a Grünhain, quando abbiamo annientato una tua simile», ribatté Tungdil rabbioso. Non voleva più aspettare che l'Orecchio appuntito si decidesse ad attaccarlo. «Per LotIonan e per Frala!» urlò, sferrando l'offensiva. Ridendo, Sinthoras schivò con destrezza i fendenti assestati con foga ma con scarsa abilità. Intuendo subito di avere a che fare con un guerriero inesperto, si concesse il divertimento di tormentare la sua vittima prima di ucciderla. Il giavellotto dalla punta lunga e sottile perforò gli anelli della cotta e i vestiti di Tungdil, centrandogli la spalla sinistra e procurandogli dolore pur senza penetrare a fondo. La stoccata irritò il nano, che avanzò verso l'albo pieno di collera, senza accorgersi che il suo avversario giocava con lui. Sinthoras lo attirò così sempre più lontano dai suoi compagni e sempre più vicino alla confusione delle tende. L'albo saltellava tra i paletti e le corde tese, mentre Tungdil incespicava, faticando a non perdere l'equilibrio. Gli attacchi del giavellotto erano troppo fulminei perché potesse pararli con l'ascia. Sinthoras si materializzava ora davanti a lui, ora alle sue spalle; il sangue gli colava da tante piccole ferite, che gli bruciavano maledettamente. Tungdil si avvide del suo errore solo quando, voltandosi per un attimo, non scorse più i suoi amici, e neppure Djerůn, tra i picchetti e le strisce di stoffa. All'improvviso, tuttavia, non vi era più traccia nemmeno di Sinthoras; l'albo si divertiva a condurre il suo gioco mortale. Gli uomini dell'oasi combattevano con il coraggio della disperazione e la certezza di non potersi aspettare alcuna pietà dai mezz'orchi, mentre le bestie si preoccupavano soltanto di addentare la carne dei mercanti e le loro merci. Le prime tende crollarono e si incendiarono. L'acqua del lago rifletté le immagini deformate delle fiamme e del massacro, finché le onde ne incresparono la superficie.
«Dove sei?» Maledizione, è più facile lottare contro un mezz'orco. Tungdil decise di tornare dagli altri per la via più breve, sempre ammesso che l'albo glielo permettesse. Ma non fu così. «Mi hai chiamato?» Sinthoras comparve dietro di lui sbucando dal nulla e gli conficcò il giavellotto con veemenza nella spalla destra. Il nano ebbe l'impressione che qualcosa gli si spezzasse nel braccio e che l'arto divenisse fuoco liquido. La mano si aprì e l'ascia cadde a terra. Prima di avventarsi contro di lui, l'avversario gli fece lo sgambetto affinché capitombolasse a faccia in giù. Quando, da dietro, l'albo gli infilò la lunga punta del giavellotto all'altezza del cuore, alcuni anelli della cotta tintinnarono piano. «Ti ho promesso che sarei stato la tua morte», gli sussurrò Sinthoras all'orecchio. «Avreste dovuto lasciare i libri a Grünhain, allora non vi sarebbe capitato nulla.» «Che cosa nascondono quei volumi?» gemette Tungdil. «Dimmelo prima di ammazzarmi.» L'albo rise. «Non sapete neppure che cosa vi siete portati dietro per tutto questo tempo? Per Tion, soltanto i nani possono essere così ingenui.» Rifletté. «Quei tomi sono inestimabili. Potresti chiedere un sacco d'oro in cambio di una sillaba del segreto e diventare l'abitante più ricco della Terra Nascosta. Oppure potresti usare tu stesso il segreto e trasformarti in un eroe come il mondo non ne ha ancora visti. Avevi tra le mani la chiave della gloria.» La pressione dell'arma aumentò. «Trovo molto allettante l'idea di farti morire con questa consapevolezza», aggiunse con voce dolce ma carica di malvagità. Utilizzando la lingua degli albi, mormorò parole che il nano non comprese, ma che gli fecero venire la pelle d'oca. Di lì a poco, la lama gli sarebbe penetrata nel cuore, mettendo fine alla sua vita. In quell'istante, un'ombra enorme si proiettò su di loro. Un oggetto pesante attraversò l'aria sibilando e Tungdil vide l'albo che spiccava un salto, ma questa volta senza eleganza. Cadde a testa in giù contro una tenda, strappando il tessuto. Djerůn sfrecciò accanto al nano, all'inseguimento di Sinthoras. Utilizzò il lato inferiore dello scudo come un coltello; il bordo affilato e l'immensa ascia colpirono alternatamente la stoffa, finché la tela si tinse di rosso dall'interno e giacque immobile. Il guerriero falciò anche i tre mezz'orchi che avevano tentato di fermarlo.
Tungdil stentò a credere a quanto avvenne in seguito. Djerůn, che gli voltava le spalle, si piegò in avanti e, a giudicare dal movimento del braccio, si alzò la visiera; staccò quindi la testa di un mezz'orco morto e si portò il muso grondante di sangue davanti alla faccia. Che cosa fa? Gemendo, Tungdil si mise in ginocchio appoggiandosi all'ascia e lo chiamò. Il guerriero si raddrizzò, si girò con espressione sorpresa e richiuse l'elmo. Alla luce della tenda incendiata, Tungdil distinse un ceffo ossuto e senza pelle, mascelle larghe con zanne sporgenti e occhi simili a fessure. La visiera si bloccò con uno scatto, e dietro la maschera da demone si accese di nuovo un bagliore viola. Il grumo di carne era scomparso; soltanto il cadavere mutilato e i guanti corazzati della bestia, che emanavano un luccichio verde scuro perché imbrattati di sangue, segnalavano che era appena accaduto qualcosa di strano. Che cos'è? Dev'essere un orco, un mezz'orco o qualcosa di simile! Djerůn indicò con l'ascia la direzione da cui era venuto e aiutò il nano a orientarsi nel groviglio di tende. Tornarono indietro e Tungdil lasciò al guerriero il compito di sterminare i mostri che incrociarono sul loro cammino. Le ferite gli dolevano troppo. A metà strada, il Rabbioso andò loro incontro con aria preoccupata. Quando notò il sangue sulla cotta di maglia del pretendente al trono, serrò le labbra e contrasse le mascelle. Dedusse che, senza Djerůn, il suo protetto se la sarebbe vista brutta. Raggiunti gli altri, videro Andôkai che staccava la testa dalle spalle di un albo ferito, intento a strisciare per terra. La donna si impossessò senza indugio dell'amuleto di cristallo con cui il nemico aveva respinto i suoi attacchi magici. Ansimava tanto che l'armatura di cuoio intorno al petto minacciava quasi di scoppiare. Sembrava allo stremo delle forze. Lei, Djerůn e i gemelli avevano trucidato tre albi. La maga rivolse a Tungdil un frettoloso cenno del capo per poi voltarsi verso sud e mettersi alla guida del gruppetto. Il sangue colava dal collo di Boëndal, che però non sembrava infastidito. I nani sapevano incassare i colpi. Tungdil strinse i denti e arrancò dietro i suoi compagni. In seguito avrebbe avuto tutto il tempo per bendare le ferite; ora dovevano salvare se stessi e i libri dagli alleati di Nôd'onn e arrivare il prima possibile alla fortezza dei nani.
Si inerpicarono su una duna, dove Djerůn affrontò tre mezz'orchi, evidentemente incaricati di fare la guardia. «Adesso basta!» Il Rabbioso accorse al suo fianco per partecipare alla lotta con ardore, sfogando tutta l'ira accumulata a causa della sua negligenza e riuscendo ad abbattere due Pelleverde. «Vedi?» gridò a Djerůn. «Sono più veloce di te!» Il frastuono nel villaggio sotto di loro si affievolì. Come intuirono dalle urla e dagli strilli trionfanti, le orde avevano riportato una cruenta vittoria sui mercanti e sui difensori dell'oasi. Altre tende presero fuoco, i cadaveri vennero fatti a pezzi e le membra gettate su alcuni carri per la rimozione. Una truppa di mezz'orchi distinse i fuggitivi sulla cima dell'altura e si lanciò all'inseguimento. Ben presto una ventina di bestie si precipitò su di loro. «Non si sono ancora arresi.» Andôkai attese che si avvicinassero, quindi levò le braccia e pronunciò una formula. Un vento impetuoso prese a soffiare di colpo, formando un vortice del diametro di quattro passi che si allargava a ogni sillaba articolata dalla maga. Il mulinello aspirò sabbia, sassi e detriti prima che la donna gli ordinasse di scaricarsi sui mostri disorientati. Le raffiche e le pietruzze strapparono loro la pelle. Gridando e ululando, cercarono di sfuggire al turbine devastante. «Andate avanti», suggerì la Burrascosa ai nani. «Io li tengo impegnati ancora per un poco e poi vi raggiungo.» Gli altri obbedirono, avviandosi. Poco dopo la maga ricomparve tra loro; Djerůn camminava in fondo alla comitiva, badando che nessuno li seguisse. Ma questa volta i mezz'orchi si erano arresi. A differenza degli albi, non erano pronti a scendere in campo contro la magia. E poi, quella notte avevano già raccolto un bottino sufficiente.
X Terra Nascosta, regno del Secondo, Beroïn, 6234° ciclo solare, inizio dell'autunno «Pretendo che l'assemblea delle stirpi prenda una decisione oggi stesso», dichiarò Gandogar ad alta voce, affinché nell'ampio salone tutti lo sentissero. Aveva indossato l'armatura e l'elmo tempestato di diamanti per impressionare i clan. «Abbiamo atteso per trenta rotazioni, ma non è accaduto nulla...» Nessuno fiatò mentre continuava. L'imperatore sedeva sul trono, il martello appoggiato di sghembo sui braccioli di pietra, e ascoltava con gli occhi chiusi. Balendilín seguiva il discorso con espressione impenetrabile. Non era ancora riuscito ad accusare Bislipur o il suo tirapiedi Swerd e, per colmo di sventura, i clan tentennavano. «Abbiamo visto tutti il fumo che si è alzato poco lontano da qui.» Gandogar si girò per mostrarsi al suo pubblico e per guardare in faccia i nani, della cui fiducia aveva bisogno. «Stando a quanto si dice, erano mezz'orchi! La genia di Tion lascia il suo regno per attaccare apertamente la Terra Nascosta. Il nostro popolo deve avere una certezza riguardo al successore di Gundrabur. Ogni rotazione del sole porta nuove difficoltà; i mercanti raccontano di avvenimenti singolari nei regni incantati e nell'Âlandur. A quanto pare, gli elfi cercano una nuova dimora perché stanno per cedere la loro nazione. Non possiamo più aspettare!» «Per la guerra o per la scelta del successore?» chiese qualcuno dalle file dei delegati. «Per entrambe le cose», tuonò Bislipur al posto di Gandogar. Tutte quelle chiacchiere gli facevano ribollire il sangue e non sopportava più quelle interminabili discussioni. «Dobbiamo attaccare e annientare gli Orecchi appuntiti prima che si dileguino in boschi sconosciuti.» Serrò il pugno. «Vendetta per tutti i nostri morti!» La quasi totalità dei presenti si dichiarò d'accordo. Solo alcuni rimasero muti oppure espressero il loro dissenso scrollando il capo o assumendo un'espressione contrariata. Lo sguardo di Gandogar cadde sul nano dalla cui collana pendeva l'orecchio d'elfo mozzato. La campagna militare sembrava ormai cosa certa. Quello che ancora gli mancava era il titolo di imperatore, cui l'anziano Gundrabur si aggrappava con tutte le sue forze.
Gli occhi stanchi del sovrano di tutte le stirpi si aprirono lentamente. «Zitti!» ordinò in tono perentorio. «Vi comportate come bestie voraci che fiutano la carne fresca», urlò. La sua mano nodosa indicò il delegato che portava il trofeo al collo. «Toglitelo.» L'altro esitò, cercando con gli occhi l'aiuto di Gandogar. Gundrabur afferrò il martello e, alzatosi, scese i gradini per fronteggiare il ribelle. Le dita grinzose ghermirono la catena e la strapparono, facendo ruzzolare l'orecchio d'elfo sulle lastre di pietra. «Sono ancora l'imperatore», tuonò Gundrabur. «Sono io a decidere il destino delle stirpi. Aspetteremo che...» «Non aspetteremo oltre», lo interruppe Gandogar. «Ne ho abbastanza di rimanere qui tra i monti a blaterare mentre gli elfi fuggono e i mezz'orchi compiono le loro scorrerie.» Balendilín scese gli scalini e si fermò davanti al re, la mano posata sulla fibbia di pietra. «Stai parlando con l'imperatore, sovrano dei Secondi», lo rimproverò con asprezza e senza alcun riguardo per la sua carica. «Sto parlando con un nano che ormai è troppo vecchio per prendere decisioni lucide», lo rimbeccò Gandogar, adirato. «Non mi sottometterò alla sua cocciutaggine e non starò a guardare mentre ci lasciamo sfuggire la migliore occasione che abbiamo mai avuto per vendicarci. Tutto è precipitato nel caos, e dobbiamo agire anziché dilungarci in discussioni interminabili o tracannare birra finché, ubriachi, crolliamo sui nostri giacigli, per poi riprendere a cianciare e a sbronzarci il giorno successivo!» Balendilín reclinò appena la testa. «Non mi piace quello che stai per fare, re Gandogar. Non puoi violare le leggi del nostro popolo.» Con il braccio teso, indicò le tavole su cui erano incisi tutti i testi. «Chi le mette in dubbio distrugge il fondamento e le ultime vestigia della nostra tradizione. Se è questo il tuo intento, prendi il martello e frantuma le tavole! Scrivi le tue leggi, ma la storia non dimenticherà te e le tue gesta.» Bislipur si affiancò a Gandogar, la mano sull'ascia. La tensione nella sala aumentò in modo allarmante, preannunciando un'esplosione di violenza. In quel momento qualcuno spalancò con vigore i battenti del portale. «Niente birra! Non ora!» gridò Gandogar, furioso, pensando che i servitori portassero altre botti. «Il secondo pretendente al trono è arrivato!» urlò invece un messaggero. I presenti girarono la testa di scatto, guardando con impazienza il vano della porta, dove si stagliavano le figure di tre nani, di una Lunga e di un
gigantesco guerriero. Un mormorio percorse l'assemblea. «Sarò io il primo a parlare con lui e a dargli il benvenuto», decise Gundrabur, sollevato. «Da solo.» Tornò sul trono con l'aiuto di Balendilín e attese che i delegati uscissero. Tutti lanciarono occhiate curiose al nano sconosciuto che stava in piedi tra i gemelli, ma nessuno osò rivolgergli la parola. Fatta eccezione per Bislipur. Il mentore di Gandogar gli si parò davanti con fare minaccioso. «Non sei uno di noi!» sbraitò, sprezzante. «Torna da Lot-Ionan e lascia che i nani si occupino delle loro faccende. Non ci servi, abbiamo già un successore.» «E noi ne portiamo uno più valido», ribatté Boëndal con freddezza, infilandosi tra il nano e il suo protetto. «Hai sentito Gundrabur. Fuori, Bislipur!» Il Rabbioso si mise al fianco del fratello e rivolse un largo sorriso al loro interlocutore. «Se cerchi rogne, Secondo, fammelo sapere. Ti raderò con le mie scuri», disse, facendogli l'occhiolino. Bislipur si allontanò, sbuffando. I battenti si accostarono, chiudendo fuori anche Andôkai e Djerůn. L'imperatore fece segno ai tre nani di avvicinarsi. Lui e il suo consigliere guardarono Tungdil con cordialità. «Il figlio perduto torna tra il suo popolo», esordì Gundrabur, alzandosi per posargli la mano sulla spalla. «Che Vraccas sia ringraziato per averci consentito di trovarti.» Commosso, Tungdil chinò il capo; per l'emozione gli si seccò la gola e non riuscì a parlare. Si sentiva sporco e sudato, le ferite gli dolevano ancora nonostante le cure di Boïndil, e le dita dell'imperatore toccavano un punto sensibile. In realtà, nessuno sarebbe dovuto comparire in quelle condizioni davanti al sovrano di tutte le stirpi, ma Gundrabur fu tanto benevolo da passare sopra al suo aspetto trasandato. Gundrabur si rivolse ai gemelli. «Avete fatto onore alla vostra fama di prodi guerrieri», li lodò. «Vi ringrazio di cuore. Ora andate a riposarvi.» Il Rabbioso abbassò lo sguardo sul pavimento perché riteneva di non meritare l'elogio. Dall'incidente nell'oasi si rimproverava senza sosta di avere fallito, perché il pretendente al trono sarebbe morto senza l'intervento di Djerůn. Quel pensiero lo tormentava. Lasciò il salone con suo fratello. «Prima che ti spieghi tutto, raccontaci che cosa vi è accaduto lungo la strada», disse Balendilín. Tungdil soffocò l'agitazione; era lieto di poter descrivere il suo viaggio. Durante il resoconto ritrovò pian piano la calma. Le statue, le sale enormi,
le mura, i bastioni monumentali e le opere onnipresenti dei nani, tuttavia, rischiarono di sopraffarlo. «Prima di cominciare, vi prego di procurare ad Andôkai e Djerůn tutto ciò di cui hanno bisogno. Mi hanno aiutato lungo il tragitto.» Senza accorgersene, aveva adottato un eloquio più raffinato. Forse dipendeva dall'ambiente. Dopo che Solbraccio ebbe acconsentito alla sua richiesta, Tungdil iniziò il racconto. Parlò di Lot-Ionan e del periodo trascorso tra gli uomini, dell'incarico che l'aveva condotto al Giogonero e a Grünhain, del tradimento di Nudin (o di Nôd'onn) ai danni degli altri stregoni e della Terra Nascosta, della taglia sui nani, dei libri misteriosi, degli albi che volevano impossessarsene a tutti i costi e dell'intenzione di Nôd'onn di conquistare i regni dei nani come il resto del mondo conosciuto. Il tempo passò mentre Tungdil, le guance in fiamme, riferiva ogni cosa, sforzandosi di non abbellire o infiorettare il suo racconto inutilmente. Si interruppe solo una volta, per un motivo più che comprensibile. La porta si aprì, e tre nane portarono loro da mangiare e da bere. Da quel momento in poi, Tungdil non riuscì più a staccare gli occhi dalle creature che aveva sognato per tante notti e di cui desiderava ardentemente la compagnia. Erano un poco più piccole di lui e non altrettanto massicce, ma piuttosto robuste, come lasciavano intuire le loro vesti simili a tuniche. I visetti tondi erano coperti di una peluria delicata e quasi invisibile che scendeva dagli zigomi fino alla mandibola. I peluzzi, dello stesso colore dei capelli, sembravano morbidi, non ispidi come quelli delle barbe maschili. Era stato senza dubbio quel particolare a dar vita alla leggenda secondo cui le mogli dei nani avevano la barba. Tungdil le giudicò molto graziose. Il cuore gli batté forte quando le tre donne gli rivolsero sorrisi timidi, ma assolutamente amichevoli. Riuscì a riprendere il filo del discorso solo dopo che furono uscite. Gundrabur e Balendilín non dissero nulla riguardo all'interruzione, ma Solbraccio non poté fare a meno di sorridere. Tungdil concluse il suo resoconto accennando all'attacco contro l'oasi e afferrò il manico del boccale, da cui saliva un effluvio di birra. La assaggiò con la bocca secca, avvertendo sulla lingua il sapore di malto del liquido nero e forte. Gli bastò un sorso cauto per capire che avrebbe potuto abbracciare il mastro birraio. Per quanto gli uomini fossero bravi, i nani possedevano le ricette migliori. Bevve un'altra lunga sorsata. «Non porti buone nuove, Tungdil», commentò Gundrabur, pensieroso.
«Vogliamo essere sinceri con te, perciò ora tocca a noi aggiornarti sul consiglio delle stirpi.» Ad assolvere quel compito fu il consigliere dell'imperatore, che gli riassunse in poche parole i dissidi scoppiati all'interno dell'assemblea riguardo alla guerra contro gli elfi e alla sua persona. «Il tuo racconto dimostra che potremo fare qualcosa contro la Terra Estinta e i suoi complici solo se ci uniremo tutti: elfi, nani e uomini.» Tungdil trasse un profondo respiro. «Questa alleanza non condurrà a nulla se non risolveremo l'enigma dei libri e degli oggetti», osservò. «Deve esistere un'arma che Nôd'onn teme fortemente. Senza Andôkai la Burrascosa e il suo sapere, però, abbiamo le mani legate. Tutto dipende dalla maga, ma lei intende voltare le spalle alla Terra Nascosta. Senza il suo aiuto siamo alla mercé del nemico come tutti gli altri regni.» «Mi amareggia vedere che il male avanza con tanta rapidità», mormorò Gundrabur, turbato, chiudendo gli occhi. «Parlerò con la maga e cercherò di persuaderla.» Tungdil tacque, pur sapendo che il sovrano avrebbe fatto meglio a risparmiare il fiato. Andôkai ragionava secondo criteri diversi da quelli dei nani. Mentre rifletteva, ricordò che erano entrati nella fortezza senza che nessuno avesse costretto Djerůn a togliersi l'elmo. Lui stesso se n'era dimenticato, proprio come i gemelli e le guardie davanti al portone. I nani avevano consentito al gigantesco guerriero di superare le mura senza effettuare alcun controllo. La Burrascosa può esserci riuscita solo mediante la magia, pensò. Per il momento, comunque, decise di non farne parola a nessuno, o almeno non al Rabbioso che, con la sua mente quasi folle, avrebbe sicuramente dato in escandescenze e sfidato il Lungo a duello. Tuttavia era giunta l'ora di chiarire un'altra faccenda. «Non giudicatemi ingrato, sono molto felice di trovarmi finalmente in mezzo al mio popolo, ma non salirò al trono», dichiarò, rifiutando subito la reggenza. «Avete un successore molto più adatto di me: io sono cresciuto tra gli uomini e devo ai libri tutte le mie conoscenze sui nani. Libri fuorvianti, devo ammettere», aggiunse. «Desidero motivare la rinuncia al mio diritto e partire con i Quarti. I nani hanno bisogno di un imperatore riconosciuto da tutti.» «Le tue parole scelte con cura ti fanno onore, Tungdil, ma non hai mai avuto alcun diritto», rivelò Gundrabur. «Siamo stati noi a inventare la storia della tua discendenza. In gran segreto, abbiamo pregato Lot-Ionan di stare al gioco. Non sappiamo neppure se sei un Quarto.» Quella notizia colpì Tungdil nell'intimo. «Allora... perché mi avete
convocato e costretto a intraprendere un viaggio così lungo?» «È stata una fortuna, non credi? Così, forse, avremo l'opportunità di fare qualcosa contro la Terra Estinta», rispose Balendilín. «Altrimenti a quest'ora giaceresti a Grünhain, trucidato dai mezz'orchi.» «Sì, ma...» Cercò le parole giuste. «Gli inviati, l'assemblea delle stirpi e dei clan, la lunga attesa per arrivare fin qui... e ora scopro di non avere alcun diritto?» Aveva l'impressione che gli avessero tolto la terra da sotto i piedi. Finalmente si era sentito a casa dopo quelle fatiche e quelle esperienze spaventose, ed ecco che ripiombava nell'incertezza. «Devi capirci. Se il nuovo imperatore si chiamerà Gandogar, dichiarerà guerra agli elfi», spiegò Gundrabur. «Vogliamo impedirlo ritardando il più possibile la sua elezione per dissuadere il consiglio da questo proposito. Per questo, una volta ricevuta la lettera del mago, abbiamo inventato una storia su di te e sulla tua presunta discendenza nobile.» «Nel frattempo speravamo di trovare una via d'uscita, un cavillo legale o qualcosa di simile», proseguì Balendilín. «Questa strage non porterà alcun vantaggio, ma nessuno vuole riconoscerlo e comprenderlo. Siamo stati bugiardi come coboldi a un unico scopo: evitare possibili danni al nostro popolo.» Tungdil preferì tacere, perché la sua lingua avrebbe sputato solo veleno e parole cattive. Ingollò la birra, vuotando il boccale d'un fiato. «Siete almeno riusciti nel vostro intento?» «No, o meglio, solo per metà», confessò l'imperatore. «Per questa ragione volevamo pregarti di aderire al nostro complotto e candidarti all'elezione contro Gandogar.» «Perché?» Tungdil si strinse nelle spalle. «Non vincerei.» «Esatto. Ma io posso rifiutare il nuovo pretendente nonostante i voti del consiglio se ritengo che non sia idoneo a succedermi», replicò Gundrabur. «E poi? Scoppierebbe una guerra fratricida», osservò Tungdil. «Sarebbe forse meglio che prendere le armi contro gli Orecchi appuntiti?» «Non arriveremo a tanto. I nostri avi promulgarono una legge che permette al pretendente di sfidare a duello il suo rivale, e il secondo candidato deve avere l'appoggio di una parte dei clan», continuò Balendilín. «Nelle ultime settimane sono riuscito a convincere circa un terzo dei delegati. Sono sufficienti.» «E poi Gandogar mi farà a pezzettini?» bofonchiò Tungdil, scontroso. «Continuo a non capire come tutto questo possa essere d'aiuto alla nostra
gente.» Gli altri due si scambiarono una rapida occhiata. «Devi giurarci che non lo rivelerai a nessuno», lo esortò Balendilín con aria grave. Tungdil obbedì. «Nel frattempo cercheremo un modo per allontanare Bislipur e il suo tirapiedi, Swerd, dalla cerchia di Gandogar», gli confidò l'altro. «Bislipur è ossessionato dall'idea di sterminare gli elfi e ha influenzato anche il suo pupillo. Lo assilla da mattina a sera, tanto che Gandogar non è più in grado di ragionare con lucidità.» Balendilín assunse un'espressione furibonda. «So che Bislipur ha cercato di uccidermi, ma non posso dimostrarlo. Non ancora.» «E se ci riuscirai, sarà possibile dissuadere Gandogar dal suo proposito?» domandò Tungdil, scettico. «Gli apriremo gli occhi affinché veda la bassezza del suo sedicente amico e la falsità dei suoi consigli. Gandogar non è un nano cattivo, ha soltanto il mentore sbagliato», rispose Balendilín. «Ma ho bisogno di tempo... che tu ci puoi procurare recitando questa messinscena.» Lo guardò dritto negli occhi. «Renderai un servigio di cui il tuo popolo riconoscerà il valore solo in avvenire», affermò Gundrabur. «I libri di storia riferiranno che Tungdil, un nano smarrito, comparve come se fosse stato scolpito nella pietra per salvare i figli del Fabbro dalla discordia e dall'autodistruzione.» «Accetto», disse Tungdil. «Ma mi servirà tutto il vostro sostegno.» «Stanne certo, mio caro Tungdil. Nessuno sa agire con più onore di te», lo elogiò Balendilín. «Perdonaci se non ti abbiamo concesso neppure un attimo di tranquillità e ti abbiamo convocato subito, ma il chiarimento di questa faccenda aveva la priorità su tutto il resto. Ora riposati! Ti lasciamo un giorno per riprenderti. Dopodiché il consiglio ti aspetta per prendere in esame la tua pretesa alla carica di imperatore.» Solbraccio gli rivolse un sorriso incoraggiante. «Regalaci un po' di tempo, Tungdil, per costruire un futuro migliore senza Bislipur», lo congedò Gundrabur. Afferrando il martello cerimoniale, lo protese verso il nano. «Giura su questo martello, con cui Vraccas ci creò, che non ne parlerai con nessuno!» Tungdil obbedì e si voltò per andarsene. Quando uscì dal salone, trovò Andôkai e Djerůn ad aspettarlo. «Ci hanno proposto di fermarci per un poco», lo informò la maga con aria indifferente. «Accetto volentieri. Gli ultimi giorni di viaggio con te sono stati spossanti.»
«Lo stesso vale per me», ribatté Tungdil, sorridendo, senza specificare se la sua osservazione si riferisse a lei o ai fatti più recenti. Un nano li accompagnò nei loro alloggi. Il tragitto riempì Tungdil di stupore. Gli scalpellini avevano lavorato le pareti con estrema perizia, scolpendo paesaggi e incidendo parole nella pietra. I simboli ornamentali erano intarsiati di metalli preziosi che emanavano bagliori dorati, argentei e rossastri. Tungdil notò un altro particolare. Gli scalini ai quali era abituato erano lisci, semplici, rettangolari. In quel luogo invece nessun gradino era uguale agli altri. Erano tutti impreziositi da decorazioni, e le superfici verticali recavano sillabe incise nella roccia. Dapprima non ne comprese il significato ma, mentre saliva, si accorse che la successione delle lettere componeva una storia per ciascuna scala. Era così che i Secondi si addolcivano la fatica. Dallo sguardo incuriosito di Andôkai, Tungdil intuì che anche la maga aveva notato quel dettaglio e leggeva con interesse. I gradini narravano avventure dei tempi gloriosi del suo popolo, una più avvincente dell'altra. Tungdil salì con piacere tutte le scale che li condussero alle loro camere. La Burrascosa scomparve così in fretta oltre la sua porta che non riuscì a chiederle dei volumi. Forse aveva scoperto qualcosa o era vicina alla soluzione. Il nano non sapeva spiegarsi altrimenti il suo cambiamento d'umore. Magari Gundrabur sarà più persuasivo di me, si augurò, entrando stancamente nella sua stanza. *
*
*
«È bello essere tra amici. Non è necessario chiudere l'uscio», disse una voce cupa. Ancora assonnato, Tungdil si rizzò a sedere e riconobbe Bislipur, che stava in piedi accanto al suo letto. «Buongiorno, Tungdil», lo salutò l'altro in tono non proprio cordiale. «Più tardi ci rincontreremo nella sala del consiglio, ma ho pensato che prima fosse opportuno fare quattro chiacchiere. Che cosa ne dici?» «Mi cogli di sorpresa», confessò il nano, infastidito dall'intrusione inattesa del consigliere di Gandogar. Anzi: riflettendoci bene, lo giudicava un gesto molto sfrontato. La simpatia che prima aveva provato per il suo simile nonostante l'ostilità nella sala del trono diminuì sensibilmente. Bislipur sedette sul materasso e lo scrutò con attenzione. «Sostieni dunque di appartenere alla nostra stirpe?» chiese, beffardo. «Un trovatello cresciuto da uno stregone e, a quanto si mormora, di sangue reale. Nessuno lo ritiene possibile.» Si piegò in avanti. «Nemmeno io. Sei un imbroglione, te lo dico a viso aperto. Dove sono le prove della tua discendenza?» «Le vedrai al momento opportuno», rispose Tungdil con fermezza. Se non avesse parlato con Balendilín e con l'imperatore, avrebbe sicuramente chinato il capo e comunicato subito a Bislipur la sua intenzione di rinunciare al trono. Quando il sonno l'aveva sopraffatto non era ancora convinto di voler stare al gioco, ma il comportamento del suo interlocutore spazzò via ogni dubbio. «Nessuno ricorda che i Quarti abbiano smarrito un bambino.» «E tu conosci di persona migliaia di Quarti, sai con esattezza dove sono le loro dimore tra i monti e sei informato di ogni piccola tragedia che li riguarda?» lo rimbeccò Tungdil, alzandosi. Ebbe la netta sensazione che la lettura, le lunghe serate trascorse in biblioteca e le dispute con cui LotIonan l'aveva iniziato all'arte oratoria non fossero state inutili. Sentendosi nudo senza la cotta e l'ascia, indossò la maglia di ferro e la cintura con l'arma, ritrovando subito la sua sicurezza. «Aspetta di ascoltare quello che ho da dire e vedrai tutto con i tuoi occhi.» «Non ci credo. Che ne dici di rinunciare a comparire dinanzi al consiglio?» gli propose Bislipur. «Dimentica il tuo progetto e ti accoglieremo nella nostra stirpe. Ti daremo tutto ciò di cui hai bisogno, per tutta la vita. In cambio, appoggia Gandogar anziché contrastarlo.» «Altrimenti?» «Hai capito, dunque.» La manona di Bislipur si posò sulla testa dell'ascia. «Altrimenti vedrai che cosa significa opporsi al leader della
propria stirpe per un membro dei Quarti, sempre ammesso che tu lo sia. Nessuno di noi ti spalleggerà. Non sarai mai un vero imperatore.» Bislipur controllava a stento la voce, e Tungdil intuì che quelle del nano dalla barba brizzolata non erano promesse vuote. «Non spetta a te decidere, ma all'assemblea», ribatté, sforzandosi di assumere un contegno regale. «Vattene», gli ordinò. «Altrimenti?» fece il suo nerboruto nemico scimmiottandolo. «Hai capito benissimo. Altrimenti ti sbatto fuori. Ho sbaragliato albi e mezz'orchi, perciò posso liquidare anche un nano che si è intrufolato nella mia camera come un ladro e ha disturbato il mio riposo», sbraitò Tungdil. La simpatia si era trasformata in avversione manifesta. «Fuori!» Bislipur parve chiedersi se fosse il caso di cimentarsi in una prova di forza, ma, con sollievo di Tungdil, decise di lasciar perdere e uscì senza salutare. «Avresti dovuto ascoltarmi», urlò. «Ci sono tante cose che avrei dovuto fare nella mia vita.» Tungdil si mise le mani sui fianchi, piegò un poco il capo e osservò la propria immagine nello specchio accanto al letto. Assunse un'espressione risoluta, cercando di ricordare quali muscoli doveva contrarre, e si accinse a vestirsi, anche se avrebbe preferito infilarsi di nuovo sotto le coperte. Mentre si toglieva la camicia da notte, qualcuno bussò brevemente, e la porta si aprì. Una nana con una gonna e un corsetto di cuoio entrò portando una pila di biancheria pulita, che appoggiò sul comò di pietra. Vedendo che Tungdil restava impalato, ridacchiò. Che cosa faccio adesso? si domandò lui, disperato. Ma prima che riuscisse a spiccicare parola, l'altra si dileguò. «Non sono certo un rubacuori», disse Tungdil tra sé e sé, continuando a vestirsi e rimuginando su tutti i possibili sviluppi della sua situazione. L'incertezza sulle sue origini lo affliggeva. Si trovava in mezzo al suo popolo, ma era il nano più solo della Terra Nascosta. Tutto sommato, aveva vissuto giorni migliori persino tra gli uomini, perché era molto legato a Lot-Ionan e ai suoi allievi. Tra i Monti Blu, tuttavia, doveva spacciarsi per un Quarto e comportarsi come se fosse felice di avere ritrovato la sua stirpe. Si sentiva un duplice impostore sebbene perseguisse un fine nobile. Per distrarsi lesse la missiva del mago e cercò di imprimersi nella memoria ogni dettaglio riguardante la sua provenienza fasulla, per essere in grado di superare l'interrogatorio del consiglio. Quando ebbe finito, siccome non vi era nient'altro che lo trattenesse nella sua stanza, si
avventurò tra i corridoi finemente decorati, lo stomaco che gorgogliava. Si imbatté in numerosi nani che, a giudicare dall'aspetto e dai grembiuli di cuoio impolverati, dovevano essere operai delle cave di pietra. Lo salutarono con cortesia, e lui rispose con un cenno del capo. Un messaggero lo raggiunse per accompagnarlo a fare colazione. Tungdil si stupì, ma poco dopo, quando sedette di fronte a Balendilín, capì che stava per ricevere le ultime istruzioni prima di comparire dinanzi all'assemblea. «Non preoccuparti, abbiamo pensato a tutto», lo tranquillizzò il consigliere. Tungdil era affascinato dai fermagli di pietra che gli penzolavano dalla barba. «Abbiamo dalla nostra parte tre delegati ragionevoli dei Quarti, che fingeranno di aver sentito parlare di un bambino smarrito», gli rivelò Solbraccio. «Insieme alla lettera del tuo mago, questo dovrebbe bastare per darci un poco di credibilità, almeno per il momento. Terrai un discorso...» «Un discorso?» gli fece eco Tungdil, alzando lo sguardo dai formaggi aromatici, dai salami stagionati, dai funghi delle caverne sott'aceto e dal muschio di galleria arrostito. Il prosciutto scarseggiava, così come il pane e il cruschello, ma la notizia dell'orazione imminente gli tolse il poco appetito rimastogli. «Non dovrà essere lungo. Riassumi le tue esperienze e le tue conoscenze sulla Terra Estinta. Perderai la votazione, ma non importa. Dopo l'elezione di Gandogar passeremo alla fase successiva del nostro piano.» Balendilín gli fece l'occhiolino. «Non preoccuparti», ripeté. «Non preoccuparti, facile a dirsi», sospirò Tungdil, riempiendosi il piatto di legno con un po' di tutto e raccontandogli della visita e dell'offerta di Bislipur. «È nel suo stile», affermò Balendilín, per nulla meravigliato. «Sai che cosa significa? Se il Musone è venuto a trovarti, è un buon segno.» Tungdil la pensava un po' diversamente. Ricordava ancora molto bene che Balendilín gli aveva parlato di un attentato, e riteneva possibile che Bislipur compisse un gesto analogo nei suoi confronti. «Tra l'altro la maga se n'è andata con il suo guerriero», proseguì Solbraccio. «Che cosa?» si lasciò sfuggire Tungdil, inorridito. Si è arresa davvero e ha abbandonato la sua patria senza indugio! «Quando è partita?» «Questa mattina, subito dopo il sorgere del sole. Le abbiamo permesso di attraversare il ponte perché non avevamo alcun motivo di trattenerla. E
poi... come si potrebbe trattenere una maga?» «Impossibile.» Tungdil fece schioccare la lingua. Con Andôkai era svanita l'ultima speranza di opporre a Nôd'onn un degno avversario. Probabilmente la Burrascosa era giunta alla conclusione di non poter decifrare il segreto dei testi di Gorén e aveva preferito andarsene per vagare nel deserto alla ricerca di campi magici. Perché non sono sopravvissuti Maira o Lot-Ionan? Loro sarebbero rimasti e ci avrebbero aiutato contro il traditore, pensò, abbattuto. «Ora tocca a te scoprire il vero significato dei versi degli eruditi», lo incoraggiò Balendilín. «Le pergamene delle nostre raccolte sono a tua disposizione nel caso tu ne abbia bisogno.» «I vostri studiosi se la caveranno meglio di me», borbottò Tungdil. L'altro scrollò il capo. «Non capiscono la lingua degli stregoni. Nessuno conosce i maghi meglio di te.» Rivolse al nano disperato un'occhiata piena di comprensione. «Il fardello di cui ti graviamo è pesante, ma il ringraziamento sarà proporzionato. Siamo in debito con te già ora.» «Ci proverò», promise Tungdil, masticando con vigore e ruttando piano. Il formaggio gli era piaciuto, ma il suo stomaco impiegò qualche tempo ad abituarsi all'abbondanza di cibo. Bevve anche del latte acido, addolcendolo con un cucchiaio di miele. La cucina dei nani era di suo gusto. Lasciò Balendilín per tornare in camera sua; questa volta tenne gli occhi puntati sul pavimento, senza lanciare occhiate a destra o a sinistra per ammirare le meraviglie scolpite nella pietra. Preparò un discorso in cui ricapitolò tutto quello che l'aveva turbato nelle ultime settimane. *
*
*
Tungdil vuotò rapidamente il boccale di birra nera e forte e, dopo essersi pulito la bocca, si voltò verso gli inviati, che l'avevano ascoltato con pazienza mentre leggeva la missiva di Lot-Ionan e cercava di dimostrare la sua discendenza reale dalla stirpe dei Quarti. Come concordato, i complici di Balendilín rammentarono di avere sentito delle voci su un bimbo smarrito, al che Bislipur li definì subito bugiardi. «Volete sapere perché desidero far valere il mio diritto?» urlò Tungdil, soverchiando lo strepito. La birra gli aveva tolto sia il nervosismo sia gli scrupoli alla prospettiva di parlare al cospetto dei numerosi rappresentanti delle stirpi. «Perché conosco meglio di voi gli orrori della Terra Estinta, e perché so quanto è importante l'unità del nostro popolo, che non deve logorarsi con una guerra miope contro gli Orecchi appuntiti. Gli elfi sono rimasti in pochi, ma combattono ancora in maniera eccellente.» «Non abbiamo paura di loro!» interloquì Bislipur, adirato. «Allora periremo inutilmente. Andremo incontro a una morte certa», ribatté Tungdil con ardore. «Lottano da centinaia di cicli contro gli astutissimi albi. Credete che saremmo una minaccia per loro? Gli elfi sono i migliori arcieri della Terra Nascosta. Appena arriveremo a trecento passi di distanza, ci infilzeranno con le loro frecce.» «Non annunceremo certo la nostra visita», intervenne di nuovo Bislipur. «E credi che gli elfi non si accorgerebbero dell'arrivo di migliaia di nani? Questo conflitto si risolverebbe per noi in una sconfitta, clan!» ribadì. «La missione affidataci da Vraccas è quella di difendere la Terra Nascosta. Il male è penetrato a fondo nel cuore della nostra patria. Ora tocca a noi sbaragliare Nôd'onn, i mezz'orchi e tutte le altre creature al servizio del Terrore. Se è necessario, anche con l'aiuto degli uomini e degli Orecchi appuntiti!» «Io voglio sentire l'imperatore, non te», dichiarò Gandogar, sprezzante. «Ti hanno fatto imparare a memoria il discorso.» «La saggezza dimora in entrambe le nostre teste, ma nella tua l'ottusità si è messa comoda e ha spinto il senno fuori dalle orecchie», lo rimbeccò Tungdil, suscitando risatine soffocate. «Gli elfi vanno puniti», tuonò Bislipur, furibondo, ergendosi in tutta la sua statura. «Avete sentito anche voi il brano della lettera sulle bassezze compiute davanti alla Porta di Pietra. In passato gli Orecchi appuntiti si sono macchiati di un tradimento di cui ora possiamo finalmente vendicarci!»
«E poi Nôd'onn ci schiaccerà ancora più facilmente, perché le battaglie ci avranno fiaccati!» Tungdil sferrò un pugno a una colonna. «Vogliamo davvero semplificare le cose al traditore della Terra Nascosta? Perché non apriamo subito le porte alle sue orde? Dobbiamo forse invitarle a scendere in campo con noi contro gli elfi?» Attese che il cicaleccio si calmasse un poco. «Sono in possesso di libri appartenuti al mago che mi ha cresciuto. Le loro pagine spiegano come annientare il Terrore dal Nord», affermò, audace. «Devo soltanto tradurli, dopodiché la nostra gente sarà in grado di distruggere Nôd'onn! Pensate alla gloria che ci spetterebbe come salvatori della patria! La nostra valorosa impresa infliggerebbe agli elfi un'umiliazione molto più pesante di una sconfitta militare.» Un brusio percorse l'assemblea. Un'arma contro la Terra Estinta, questa sì che era una novità. «Tutto inventato di sana pianta!» sbraitò Bislipur. «La magia non ci ha mai aiutati, ha causato soltanto sventure. Senza la stregoneria, il mago non avrebbe mai acquisito tanto potere.» «Io propongo di combattere contro gli elfi e di ritirarci tra i monti finché gli uomini avranno risolto da soli la questione», aggiunse Gandogar dopo essere balzato in piedi. Si piazzò al centro del semicerchio per attirare su di sé gli sguardi dei delegati. «Non ascoltate il nano spuntato dal nulla, che conosce noi e le nostre usanze solo attraverso i libri! Come potrebbe capirci?» Rise forte. «Imperatore? Uno come lui? Ridicolo!» «Non può essere tanto ridicolo, altrimenti non ti agiteresti così», osservò Tungdil, sarcastico, suscitando altre risatine soffocate. Lot-Ionan sarebbe stato fiero di lui, anche se la birra gli aveva sciolto pericolosamente la lingua. Devo fare attenzione, pensò. Gundrabur aveva sentito abbastanza. Levò il martello, la cui estremità poderosa si abbatté con fragore sulle lastre di marmo. «Basta! Il consiglio ha ascoltato le sue parole e ora deve prendere una decisione. Chi vuole come mio successore Gandogar Barbadargento del clan dei Barbadargento, re dei Quarti, alzi l'ascia.» Tungdil sgranò gli occhi quando vide le armi sollevate. Il numero di sostenitori di Gandogar si era ridotto a due terzi, e durante la controprova si levarono molte più asce del previsto per il candidato sfavorito. Balendilín gli rivolse un cenno di approvazione. Il suo successo, tuttavia, non mutò l'esito della votazione: la maggioranza voleva Gandogar, e dunque la guerra. Bislipur si erse in tutta la sua statura. Era pienamente soddisfatto perché si sentiva vicino al
traguardo. «Re Gandogar sarebbe dunque il prossimo imperatore se io lo giudicassi adatto», dichiarò Gundrabur con fermezza. «Tuttavia, io, l'imperatore in carica, non lo reputo idoneo a causa della dissennatezza con cui intende condurre i clan e le stirpi verso la rovina. Propongo invece Tungdil come mio erede. Ho l'appoggio degli inviati?» Gandogar e Bislipur guardarono con sgomento le asce sollevate da un terzo del consiglio, che garantivano a Gundrabur il numero di voti necessario. L'imperatore batté di nuovo il martello contro il pavimento. «Allora stabilisco che i due candidati si cimentino in una gara affinché siano le loro doti a decidere. Ciascuno di loro sceglierà una prova. Altre due verranno determinate dall'assemblea e la quinta verrà estratta a sorte. Cominceranno tra sette rotazioni del sole», annunciò con solennità. «La riunione è conclusa.» Tungdil, stordito, vagava qua e là circondato dai nani, che gli davano pacche sulle spalle, gli auguravano buona fortuna e invocavano su di lui la benedizione di Vraccas. Facce, barbe e armature gli sbucavano davanti come emergendo dalla nebbia e svanivano, mentre la birra e lo stupore dovuto al suo trionfo sortivano il loro effetto. Era riuscito a convincere alcuni inviati che le sue richieste erano fondate, ma, nonostante la gioia, non poteva dimenticare che il suo successo si basava su una menzogna. Balendilín gli aveva promesso di far condurre un'indagine segreta sulle sue origini, anche se temeva che l'iniziativa avesse scarse probabilità di fornire un risultato affidabile. Sebbene il consigliere l'avesse taciuto, vi era ancora il sospetto che Tungdil potesse essere un figlio dei Terzi, un membro della stirpe di Lorimbur. Il diretto interessato aveva tuttavia contestato con veemenza quella tesi, perché si sentiva molto legato ai nani presenti nella fortezza e non provava alcuna diffidenza nei loro confronti. Ma di quello si sarebbero occupati più avanti. Adesso occorreva affinare le capacità belliche di Tungdil nell'eventualità che Gandogar proponesse un combattimento. Il nano non sapeva ancora quale disciplina scegliere. Il sorteggio della quinta competizione, che si sarebbe svolta per ultima, restava fonte di incertezza. Ciascun pretendente poteva scrivere e gettare
nel sacchetto quattro proposte, e la prova estratta sarebbe dipesa dalla mano di Vraccas... Quando Tungdil entrò in camera sua, i libri di Gorén giacevano sul letto insieme con il sacco aperto. Andôkai ha visto gli oggetti! Scorse i resti di due caraffe argentate e lesse le incisioni ornate di svolazzi. Che peccato! Dicevano che, se qualcuno avesse versato anche una sola goccia di liquido nei recipienti, quelli avrebbero continuato a riempirsi da soli. Tra i cocci scintillavano i frammenti di uno specchietto, che rifletterono l'immagine deformata del suo viso barbuto. Sette anni di disgrazie! Ne raccolse un pezzetto e sorrise amaramente. Come se potesse andare peggio di così... Esaminò quindi due pezzi di legno della lunghezza di un braccio, che emanavano un bagliore grigio e metallico, e non riuscì a comprenderne la natura. Le venature ingarbugliate correvano in tutte le direzioni. Bastoni? A che cosa servono? Li ributtò sul materasso con noncuranza. La maga gli aveva lasciato anche un biglietto. In un primo momento si rifiutò di leggerlo, perché avvertiva una violenta rabbia nei suoi confronti e interpretava come un tradimento il fatto che se ne fosse andata e che avesse ficcato il naso nel sacco. Poi, però, la curiosità lo spinse a prendere in mano il messaggio. L'enigma è in gran parte svelato. In effetti, i libri indicano che cosa si può fare contro Nôd'onn, ma è un'impresa impossibile. Ecco perché sono partita. Le annotazioni riguardanti la Terra dell'Aldilà narrano di esseri diabolici che abitano in una regione detta Terra Desolata ed entrano negli uomini per impossessarsene e infondere loro un potere inimmaginabile. Da quel momento l'individuo è animato dal desiderio di soggiogare ogni cosa e di annientare il bene appena riesce a impadronirsene. Le annotazioni dell'altro volume accennano a un'ascia, che fu forgiata dai «Sotterranei» per cacciare i demoni dagli esseri umani. La lama era dell'acciaio più puro e resistente, gli uncini all'altra estremità di pietra, il manico di legno di sigurdazia, le rune e gli intarsi di tutti i metalli nobili che si trovano tra le montagne, e il filo era tempestato di diamanti. Pare sia stata fabbricata tra le braci più roventi che una fucina sia mai riuscita a produrre, ed è chiamata Lama di Fuoco. Occorre usarla per uccidere l'uomo posseduto. Il filo della Lama di
Fuoco attraversa la carne e le ossa dell'essere umano per colpire e annientare il demone dentro di lui. Tutto il male che ha compiuto si tramuta in bene. Un passo del testo rimane oscuro ed è proprio questa ambiguità a togliere ogni speranza. Ora so perché Nôd'onn voleva recuperare il sacco con gli oggetti. Gli stavano a cuore i bastoni, perché sono di sigurdazia. Nella Terra Nascosta non esistono più sigurdazie. Il loro legno era troppo duro e pesante perché si potesse lavorare con gli utensili consueti. Credendo che gli dei l'avessero stregato, gli uomini lo usarono come combustibile sacro, per via del profumo intenso e delle fiamme rosso scuro, finché tutti gli alberi furono abbattuti. Una volta, nel mio regno, ne vidi ardere uno durante una festa in onore di Palandiell, e devono essere trascorsi già cento cicli. Anche se qualcuno forgiasse quest'arma miracolosa, nessuno riuscirebbe ad avvicinarsi abbastanza a Nôd'onn per ucciderlo. È impossibile, un sogno, una follia. Se i nani sono assennati, lasceranno le montagne e cercheranno una nuova patria nella Terra dell'Aldilà. Forse i «Sotterranei» li ospiteranno. Non c'è più nulla che mi trattenga. Tungdil dovette rileggere più volte il biglietto prima di rendersi conto che esisteva uno strumento efficace contro l'assassino di Lot-Ionan. È scritto tutto qui. Abbiamo persino il legno! Si precipitò nella stanza di Balendilín, rischiarata da piccole lampade a olio. Come nel resto della fortezza, tutto l'arredamento era stato accuratamente ricavato dalla pietra; meticolosi artigiani avevano scolpito nella roccia persino il letto e gli armadi, e pareva che il monte avesse plasmato una camera appositamente per il consigliere. Tungdil gli porse il foglietto. «Vi sono pergamene che parlano di parenti del nostro popolo al di là dei monti», mormorò il nano con aria meditabonda quando incappò nella parola «Sotterranei». «Sembra che abbiano più esperienza di noi con la Terra Estinta.» Tungdil sollevò la lettera. «Ora non mi meraviglia più che Nôd'onn volesse i libri e il sacco, ma ormai è troppo tardi. Balendilín, adesso sappiamo qual è il suo punto debole! Dobbiamo avvertire i regni degli uomini affinché riacquistino la speranza e tengano duro mentre noi
forgiamo la lama», disse, entusiasta. «Il loro esercito deve fermare il mago fino a quel momento.» L'altro lesse con espressione pensierosa il paragrafo riguardante la composizione dell'arma. «Ci servirà la collaborazione dei Quarti, i cui clan vantano i più abili intagliatori di diamanti. Il nostro popolo può mettere a disposizione gli scalpellini, ma ci mancano i fabbri migliori.» «Borengar?» «Esatto. Anche i Quinti eccellevano in quell'arte, ma non esistono più. I nove clan della stirpe dei Primi non si sono presentati alla riunione.» Balendilín si rabbuiò. «Questo non è l'unico ostacolo. La fucina più rovente che abbia mai brillato nella Terra Nascosta si trovava nel regno dei Quinti. Si chiamava Vapordrago e fondeva il metallo più duro. Ora, tuttavia, la Terra Estinta è l'unica sovrana di quelle regioni.» Si coprì il volto con le mani massicce. «La maga ha ragione. È un'impresa impossibile.» «No, io non mi arrendo. Convochiamo i delegati e lasciamo decidere a loro», propose Tungdil. «Dobbiamo almeno andare dai Primi e chiedere il loro aiuto. Poi...» Si interruppe. «Esaminerò le antiche pergamene, magari scoprirò qualcos'altro di utile.» «Buona fortuna.» Tungdil uscì dal locale per recarsi nella sala a volta in cui era custodito il sapere dei Secondi. L'ebbrezza della gioia cedette il posto alla dolorosa disillusione di non potersi opporre alla catastrofe, nonostante le nuove informazioni. No, io non mi arrendo! Fu proprio la situazione disperata in cui versavano a stimolare la sua ostinazione. Si apprestò a leggere gli scritti della stirpe con la tenacia e la caparbietà tipiche della sua gente, e giurò che avrebbe perseverato fino a trovare una via d'uscita. *
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Tungdil trascinò con diligenza i vecchi tomi, i rotoli di pergamena e le lastre di pietra attraverso la sala scolpita per ammonticchiarli su un tavolo dove avrebbe potuto studiarli in pace. Lot-Ionan deve aver intuito che un giorno avrei avuto bisogno di queste conoscenze. Alcuni documenti erano così malridotti che si sfaldavano al minimo tocco. Ecco perché preferiva le tavole di marmo, che duravano in eterno se nessuno le faceva cadere. Dopo aver letto per un po', trovò una conferma delle vaghe affermazioni di Balendilín. Anche dall'altra parte dei monti vivevano nani soprannominati «Sotterranei». Non sapeva se li avesse creati Vraccas, ma dovevano essere molto simili al suo popolo; anche loro erano fabbri magistrali e amavano le braci e la fucina. Alla quarta rotazione scoprì il segreto della fornace Vapordrago, e l'ottimismo che l'aveva sostenuto fino a quel momento svanì. I Quinti avevano rubato al Grande Drago Branbausíl, che un tempo viveva sui Monti Grigi, la sua fiamma bianca, e l'avevano usata per accendere la loro forgia prima di ucciderlo e conquistarne il rifugio. Argamas, moglie di Branbausíl, si era rifugiata nel Lago di Fuoco, una piccola distesa di lava gorgogliante nel cuore del regno, e da allora nessuno l'aveva più vista. Grazie a Vapordrago, i fabbri erano riusciti a produrre un calore di intensità straordinaria e a legare metalli che sembrava impossibile fondere. Persino il tionio nero creato dal dio Tion si era sottomesso, mescolandosi con il palandio puro e candido della dea Palandiell. In base ai resoconti successivi, la brace era scomparsa con il tramonto del regno dei Quinti; non sapendo che cosa farsene del singolare fuoco bianco, gli albi e le altre creature di Tion l'avevano spento. L'unica speranza di Tungdil si basava su Argamas, che era sfuggita alle asce dei Quinti. I nani avevano bisogno delle sue fiamme e di un fabbro dei Primi per realizzare la Lama di Fuoco. «Un altro viaggio», sospirò. Fino alle regioni dei Primi, e da lì direttamente nel regno perduto dei Quinti, al centro della Terra Estinta. Ma come ci arriverò? Pose quella domanda anche a Gundrabur e a Balendilín, con cui si incontrò nel salone davanti a un boccale di birra per aggiornarli sulle sue scoperte. I due nani si scambiarono una rapida occhiata. «Esiste una strada», gli rivelò l'imperatore. «È un segreto che è caduto nell'oblio con l'andare dei cicli e che mi fu confidato dal mio
predecessore.» Dopo essersi acceso una pipa, prese a fumarla schioccando le labbra. «Risale al glorioso passato del nostro popolo. In quei giorni felici si viaggiava senza difficoltà. I nani utilizzavano tunnel sotterranei che correvano in lungo e in largo attraverso la Terra Nascosta e collegavano i vari regni.» «Tunnel... Potremmo spostarci senza essere visti. Se ci procuriamo dei pony...» «Non ti servono i pony. Puoi usare altri mezzi.» Gundrabur si strinse nella veste e ordinò che gli portassero un'altra coperta per scaldarsi. Il fuoco della sua vita si affievoliva a poco a poco. Tungdil corrugò la fronte. «Non capisco...» «Hai presente i vagoncini che servono per trasportare il minerale fuori dalle gallerie e dalle miniere?» «Certo», rispose Tungdil con un cenno di assenso, comprendendo finalmente che cosa voleva dirgli l'imperatore. «È così che viaggiavano i nani?» Gundrabur sorrise. «Esatto. Procedevano lungo linee rette da Goïmdil a Borengar e ovunque volessero andare. Non vi erano paludi, deserti, pioggia o neve che intralciassero i loro spostamenti. Questo consentì loro di proteggere sempre le gole più importanti e i passaggi più strategici della Terra Nascosta con un numero sufficiente di truppe. Nel giro di qualche rotazione, interi eserciti si trasferivano da nord a sud nel sottosuolo all'insaputa di elfi, uomini e stregoni.» «I tunnel saranno la nostra salvezza», esclamò Tungdil, emozionato. «Se sono ancora più o meno intatti, riusciremo a forgiare l'ascia prima che il traditore sconfigga tutti i regni e gli eserciti umani.» «Non so se siano ancora praticabili», confessò Gundrabur. «Secondo gli antichi scritti dedicati a questo argomento, lunghi tratti dei cunicoli, in seguito a crolli, sono divenuti inutilizzabili. Balendilín, vai a prenderli, per favore.» «E per quale motivo nessuno vi è più entrato?» «Un giorno la zona antistante l'ingresso fu contaminata da vapori sulfurei e i nani si ritirarono. Cominciarono a evitare quella regione e alla fine se ne dimenticarono», rispose Gundrabur. Poco dopo Balendilín portò loro due vecchie mappe che mostravano le imboccature dei cunicoli nel regno dei Secondi e il loro percorso nelle viscere dei Monti Blu. Erano nascosti e ben protetti, e numerose trappole e dispositivi meccanici impedivano l'accesso agli intrusi. Ciò spiegava
perché il male non si insinuava in segreto sotto la Terra Nascosta, ma mirava a conquistarla in superficie. «In questo modo possiamo farcela», disse Tungdil agli altri due nani. «Sono pronto.» «Benissimo», si rallegrò Balendilín, versando dell'altra birra. «Ti lasceremo il merito di avere scoperto il sapere dimenticato: farà colpo sui clan.» Brindarono, e poi vuotarono i boccali. *
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«Vraccas mi ha fatto scoprire le conoscenze perdute affinché portiamo a termine la missione di liberare la Terra Nascosta dal male», dichiarò Tungdil al termine di un discorso appassionato. «Altrimenti perché avrebbe messo quegli oggetti proprio sul mio cammino?» «Ti sei imbattuto nelle testimonianze di un periodo glorioso», intervenne Gandogar. «Ma non credo che racchiudano una verità utile. Forgiare di nascosto una simile lama nel bel mezzo della Terra Estinta, in una forgia che deve essere accesa con il fuoco di un drago... È impossibile! È una fiaba, una leggenda finita per sbaglio tra le annotazioni storiche.» «Per queste informazioni sono morti moltissimi uomini», lo interruppe Tungdil. «Anch'io ho rischiato di essere ucciso per lo stesso motivo. Nôd'onn ne ha paura, quindi dev'essere tutto vero! Inviate una spedizione che faccia almeno un tentativo! Vraccas è dalla nostra parte», insistette, supplicando l'assemblea. «E non scordate di armarla come si deve. Sconfiggere un drago non è impresa da poco. Oppure intendi raccontargli la tua storia e farlo morire dal ridere?» lo canzonò Bislipur. Tungdil rinunciò alla votazione; le risate del consiglio gli comunicarono la certezza che la maggioranza sarebbe stata contraria. Come sempre, era molto difficile convincere con il ragionamento le teste dure dei delegati. «Siamo qui per scegliere l'erede dell'imperatore», rammentò loro Gandogar, spazientito. Scostò il mantello, e la sua armatura finemente lavorata luccicò. Il suo consigliere gli porse lo scudo e la scure, mentre un servitore gli allacciava l'elmo. «Inizio io, e propongo la prima prova. Sfido il mio rivale a duello. Conquisterà i primi punti colui che riuscirà ad atterrare l'avversario o a versarne il sangue.» Boïndil e Boëndal si materializzarono subito accanto a Tungdil e lo prepararono; in confronto alla corazza scintillante di Gandogar, la sua cotta di maglia era misera e anonima. «Fa' attenzione al suo scudo», gli sussurrò il Rabbioso. «Lo userà sicuramente come mazza». Strinse le mani a pugno. «Oh, se solo potessi essere al tuo posto. Spiaccicherei il Quarto sul marmo», borbottò. «Siete stati dei buoni maestri, sia durante il nostro pellegrinaggio sia negli ultimi giorni», li ringraziò Tungdil, sistemandosi la cinghia sotto il mento. «Se perdo, non sarà colpa vostra.» I due avversari entrarono nel semicerchio tra il trono e le tribune. Balendilín, che faceva da arbitro, lanciò un'occhiata d'intesa a Tungdil per tranquillizzarlo. «Combattete con vigoria e onore», raccomandò loro prima
di ritirarsi. L'arena era sgombra. Gandogar iniziò subito con una serie di affondi, tempestando di colpi lo scudo di Tungdil; il brillio dei diamanti sulla sua lama aumentava il nervosismo dell'avversario. Tungdil sbirciava oltre il bordo di metallo per vedere quale fosse il bersaglio del fendente successivo. Così facendo, indietreggiò fino a sbattere contro una colonna. Reagì a una nuova offensiva del re scostandosi e attaccando di sorpresa. La scure scivolò con un suono orribile oltre lo scudo sollevato frettolosamente dal sovrano e rimbalzò contro l'orlo inferiore del suo elmo. Stordito, Gandogar retrocesse di alcuni passi. «Non fermarti!» urlò Boïndil con voce febbrile, e Tungdil spiccò un deciso salto in avanti, incitato dal suo maestro e soddisfatto del vantaggio ottenuto. Giammai! Intuendo che le cose si stavano mettendo male per il suo pupillo, Bislipur entrò in azione. Urtò Swerd, che era in piedi accanto a lui, mandando la testa dello gnomo a cozzare contro il boccale di un nano. La birra traboccò, spandendosi sul pavimento. La pozza fu fatale a Tungdil. Nella fretta, non vide il liquido sparso sulle lastre di marmo, che si tramutarono in una superficie viscida. Il suo piede destro slittò di lato, e lui incespicò e mancò l'avversario. «Stupido gnomo!» Bislipur rimproverò subito Swerd per la sua sbadataggine, minacciando di picchiarlo e di stringere la morsa del collare. «L'ha fatto apposta!» si indignò Boëndal. «No, non è vero. Ma stai tranquillo, gliele suonerò di santa ragione», gli assicurò Bislipur, fingendosi dispiaciuto per il contrattempo. Ma questo non aiutò Tungdil. Gandogar ben presto si riprese e colpì nell'attimo in cui l'avversario gli sdrucciolava accanto. La sua pesante scure colpì con forza la schiena di Tungdil, facendogli perdere del tutto il controllo. Imprecando, il nano cadde e uscì sconfitto dalla prima prova. Alcuni clan della stirpe dei Quarti e altri sostenitori di Gandogar lanciarono grida di gioia e derisero Tungdil mentre si rialzava a fatica. Non era così che aveva immaginato lo scontro. «Tocca a me», urlò per soverchiare il frastuono. Lo strepito si placò all'istante. «In che cosa ci cimentiamo ora?» «Scriveremo un testo. Vince chi finisce per primo.» «Che cosa?» fece il suo rivale, esterrefatto. «Devo forse comporre una poesia sulla mia ascesa al trono?»
«No, è sufficiente che copi. Un bravo re deve possedere erudizione e una mano salda. Altrimenti come promulgherai le leggi?» replicò Tungdil con disinvoltura. «Ti offro l'opportunità di dimostrare che possiedi queste doti... oppure che hai soltanto un'ottima scure.» Senza aggiungere altro, sedette a uno scrittoio e attese che Gandogar lo imitasse. «E se mi rifiutassi?» «Perderesti questa prova, e sareste pari», rispose Balendilín. «Poi, le altre discipline permetterebbero di determinare il successore di Gundrabur.» «E non sarebbe indice di particolare coraggio», intervenne Boëndal, maligno. «Il Sapientone si è misurato con te nell'arte militare. Ora dimostraci di non avere paura di una cosa fragile e leggera come una penna, re dei Quarti.» Quel commento pungente e le risate che suscitò persuasero Gandogar a deporre l'elmo e lo scudo, a sedersi al tavolo accanto al suo avversario e ad accettare la sfida. L'arbitro fece portare delle pergamene e ne scelse una a caso dalla pila. «Cominciate.» Il Sapientone, come lo chiamava Boëndal in tono scherzoso, iniziò quasi subito a scrivere mentre Gandogar fissava le rune con espressione rabbiosa e scarabocchiava qualcosa sul suo foglio. Il tempo passò mentre i nani lavoravano con foga. «Finito», annunciò Tungdil per primo. Il testo venne verificato e giudicato privo di errori. Gandogar impiegò più tempo, e la sua accuratezza non si avvicinò nemmeno lontanamente a quella dello sfidante. Balendilín dichiarò Tungdil vincitore. I gemelli esultarono, contenti che il loro protetto avesse ottenuto un pareggio con uno stratagemma legittimo. «Ehi, Bislipur, il re ha fatto cilecca, eh?!» urlò Boïndil, allegro. Balendilín ordinò agli inviati dei clan di mettere per iscritto le loro proposte, quindi fece raccogliere i foglietti. Gandogar avrebbe estratto la prova successiva, poi sarebbe stato il turno di Tungdil. «Il prossimo compito», spiegò l'arbitro «consisterà nel forgiare un'ascia con il ferro più scadente che esista e nel colpire dieci volte uno scudo senza romperla.» L'ottimismo di Tungdil crebbe, perché non credeva che Gandogar fosse un fabbro migliore di lui; aveva lavorato troppo a lungo davanti all'incudine nella fucina di Lot-Ionan per farsi battere dal sovrano.
Balendilín stabilì un'interruzione per far preparare i focolari e gli attrezzi nella sala del consiglio, e ben presto il canto tintinnante delle mazze sul blocco d'acciaio riecheggiò nell'ampio locale. Tungdil si mise all'opera di buona lena; scandendo il ritmo con il martello, canticchiò una melodia dei nani insegnatagli dai gemelli. Gandogar soverchiò il suo canto, intonando un altro motivetto mentre il fragore delle sue martellate diveniva via via più intenso. «Oltre a forgiare, si sfidano anche a chi canta più forte», commentò Boëndal, sghignazzando e aggiustandosi la cintura. «Se Vraccas non è soddisfatto, non so proprio che cosa potrebbe compiacerlo.» «Tungdil ha la voce più bella», affermò suo fratello. «Vraccas lo aiuterà.» I concorrenti cantarono finché le asce furono pronte. Balendilín chiese loro di infilare le teste delle armi in due aste di ferro. Ciascuno, poi, prese l'accetta dell'altro e si posizionò davanti agli scudi. In tal modo, si garantiva che li avrebbero colpiti con tutte le energie rimaste. Al segnale si misero all'opera. «Adesso vedremo con quanta maestria forgia un monarca», disse Tungdil, sferrando un colpo deciso. La testa dell'ascia, che emanava ancora un debole bagliore, descrisse un luccicante semicerchio arancione scuro nella penombra del salone prima di schiantarsi contro l'ostacolo. Si levarono piccole scintille, ma il ferro tenne. «Senz'altro meglio di te», lo rimbeccò Gandogar. Il suo fendente non fu da meno, ma anche l'arma di Tungdil resistette all'impatto. Al settimo colpo Tungdil udì un lieve scricchiolio e intuì che l'ascia non avrebbe superato l'ottavo schianto. «Guarda che cosa faccio della tua opera», gridò al suo rivale. Il ferro si frantumò stridendo. Ansimando, Tungdil gettò il manico sul pavimento e allungò le dita verso la borraccia. Un mormorio attraversò il consiglio delle stirpi. Gandogar tese i muscoli e con tutto il suo peso diede la martellata successiva. Lo scudo rimbombò e cedette, ma la lama rimase intatta. «Urrà! Un vero e proprio mastro fabbro», esclamò il Rabbioso. «E siamo già due a uno per Tungdil. È stato il suo canto melodioso a rendere duttile il ferro.» Gandogar depose l'ascia per congratularsi con l'avversario. «Non pensavo che qualcuno potesse forgiare un'arma così robusta con un metallo tanto mediocre. Sei davvero un maestro, ma non salirai al trono. Sarò io a vincere la prossima gara.»
«Staremo a vedere.» Balendilín spiegò il secondo foglietto per non concedere loro neppure un attimo di respiro. «La quarta prova è una corsa. Ciascuno di voi riceverà un calice pieno di oro fuso e dovrà correre da qui al primo pascolo, arrivare fino alla grande porta e tornare indietro. Entrambi indosserete la cotta di maglia e porterete sulle spalle un sacco del peso di venti libbre. Vince chi torna per primo con l'oro senza averne versata nemmeno una goccia.» Mandò due osservatori al pascolo e altri due all'entrata per controllare che i nani raggiungessero davvero le due tappe con il loro carico bollente. Questa competizione è di mio gusto, pensò Tungdil, infilando le braccia nelle cinghie dello zaino. Era abituato al calore della fucina ed era lieto di portarsi dietro il metallo giallo sole. Durante il suo lungo peregrinare aveva trasportato un pesante fardello, perciò un paio di libbre sulla schiena non gli avrebbero causato alcuna difficoltà. Un nano porse loro i calici dalle spesse pareti di sabbia compressa, con un sottile rivestimento di ferro. La temperatura micidiale dell'oro colato raggiungeva centinaia di gradi: se fosse schizzato sulla pelle dei due concorrenti, avrebbe procurato loro gravi ustioni. «Via!» gridò Balendilín, e la gara ebbe inizio. Gandogar non degnò il calice nemmeno di uno sguardo, tenendo gli occhi puntati sulla strada davanti a sé. Tungdil adottò il metodo contrario, perché gli piaceva ammirare l'oro liquido; i suoi piedi sarebbero avanzati da soli, come avevano già fatto durante il lungo viaggio. Il re uscì dalla sala e passò ben presto in vantaggio, ma Tungdil lo seguì senza fretta. Balendilín aveva specificato che avrebbe vinto chi fosse tornato per primo senza spargere nemmeno una goccia. Il nano preferiva prendersela comoda e tagliare il traguardo con tutto il suo prezioso carico piuttosto che perderne una parte. Ogni volta che il calore diventava insopportabile e minacciava di scottargli la mano temprata dal mestiere di fabbro, posava il calice. Aveva appena svoltato nella valle, quando scorse Gandogar che gli veniva incontro. «Di questo passo non mi batterai, Tungdil», gli disse il sovrano in tono di sfida, passandogli accanto. Si sentiva un odore di pelle bruciata, perché il monarca non aveva mai depositato il calice per proteggersi le dita, e l'oro non era ancora traboccato. Una volta che fu all'aperto, Tungdil posò di nuovo il recipiente e si
lanciò all'inseguimento. Maledizione, ho dato per scontato che Gandogar commettesse un errore, inveì contro se stesso. A poco a poco le braccia cominciarono a tremargli. Il combattimento e la forgiatura dell'ascia l'avevano stremato, eppure non c'era niente da fare, doveva proseguire. Raggiunse il portone, ma Gandogar stava già rientrando, sudato e intento a imprecare. Il Quarto non aveva ancora versato nemmeno una goccia di metallo, e quando Tungdil lo guardò, sorrise con la sicurezza di avere già la vittoria in pugno. «Pareggerò. Sarà la prossima prova a decidere», promise il re. Quelle parole risvegliarono l'ambizione e la cocciutaggine del suo rivale. Vedremo, pensò Tungdil, allungando il passo per raggiungerlo. In quell'istante un'esserino minuscolo gli sfrecciò tra i piedi, facendolo incespicare. «Per Vraccas, che cosa...» L'oro si agitò, oscillando pericolosamente avanti e indietro, ma Tungdil non pensò nemmeno per un attimo di lasciar cadere la coppa. Quando una piccola onda superò il bordo e gli colò sul dorso della mano, strinse i denti e non emise neanche un gemito, sebbene il dolore fosse lancinante. Furibondo, si guardò intorno nel corridoio alla ricerca di chi gli aveva fatto lo sgambetto, ma non vide nessuno. A causa di quell'episodio entrò nella sala del consiglio per secondo; avendo perso un poco d'oro, era stato battuto in ogni caso. Gandogar pagò il suo trionfo con enormi vesciche su entrambe le mani, che una nana gli curò con acqua ghiacciata. Questa volta toccò a Tungdil complimentarsi con l'avversario, ma lo fece solo a parole, per riguardo alle dita ustionate del re. Quindi tuffò anche lui la mano scottata nell'acqua gelida. «Hai raggiunto il tuo obiettivo, come mi avevi promesso lungo il tragitto.» «Terrò fede anche al mio secondo impegno», replicò Gandogar, voltandogli le spalle. Tungdil si esaminò la ferita. Il metallo solidificato non voleva più staccarsi dalla pelle, dove formava una chiazza grande quanto una moneta. Boïndil notò che la destra dell'amico brillava alla luce del braciere. «Fratello, guarda che cosa ha combinato!» «Finalmente abbiamo un nome onorevole per il Sapientone», scherzò Boëndal. «Tungdil Manodoro non suona male, a mio avviso. Glielo proporremo più tardi.» «È sempre meglio di Bolofar», approvò il Rabbioso. «Ascoltate, clan e stirpi! Il risultato è ancora in sospeso», annunciò
Balendilín. «L'ultima competizione sarà dunque decisiva, sia per il pretendente al trono sia per il futuro del nostro popolo.» Ordinò ai due concorrenti di scrivere le loro proposte su alcuni foglietti. In che cosa potrei batterlo? Tungdil esitò e rifletté, quindi sorrise. Ma certo! Gli era venuta in mente una prova molto particolare. Dopo aver piegato i biglietti in maniera identica, li buttarono nel sacchetto di cuoio che il consigliere dell'imperatore tenne loro aperto. Quindi Balendilín chiuse la borsa con una cordicella, la agitò per mescolare i pezzi di carta e si diresse verso i delegati, fermandosi davanti a Bislipur. «Affinché non si dica che sia colpa mia se verrà sorteggiata una prova svantaggiosa per il tuo protetto, vorrei che fossi tu a estrarre, caro Bislipur.» Balendilín gli porse il contenitore. Con i soliti modi rozzi, l'altro glielo strappò di mano e allentò il laccio, tenendo gli occhi spietati fissi sul suo interlocutore. Senza sbirciare, infilò la mano nel sacchetto, mescolò ed estrasse un biglietto, che però gli scivolò tra le dita, costringendolo a pescare una seconda volta. Tese quindi il pezzetto di carta a Balendilín. Tungdil non riuscì a capire se si trattava di una delle sue proposte. «No, sei stato tu a estrarre, quindi tocca a te leggere», rifiutò l'arbitro. Solo allora Bislipur abbassò lo sguardo; spiegò il foglietto e diede una scorsa alle righe. «No, questa non è la prova che avevo sorteggiato per prima», asserì poi con disinvoltura, facendo per pescare ancora. «Attieniti alle regole.» Balendilín ritrasse la borsa. «Hai scelto, perciò leggi la quinta gara.» Bislipur strinse le labbra come per impedire alle parole di giungere alle orecchie dei clan. Inspirò, e il suo indugio infuse speranza in Tungdil. «Una spedizione. La prossima prova consiste nel guidare una spedizione che torni dai Monti Grigi con la Lama di Fuoco per ingaggiare la lotta contro Nôd'onn», dichiarò, furioso. Gundrabur trasse un sospiro di sollievo. Balendilín chiuse gli occhi, abbozzando un sorriso. Proprio Bislipur voleva frenare le ambizioni del suo pupillo. In quel momento divenne chiaro che quasi tutti avevano sottovalutato l'astuzia del secondo pretendente al trono. L'assemblea tacque, le lingue paralizzate dalla meraviglia. Prima che qualcuno prendesse la parola o protestasse energicamente, Tungdil si fece avanti. «Accetto la prova perché sono stato io a idearla»,
dichiarò, lanciando un'occhiata trepidante a Gandogar. Il re fremette. «Anch'io accetto la prova», ringhiò. «Fermi! Il sorteggio non è valido», interloquì Bislipur, cercando di evitare quell'impegnativa competizione che avrebbe impedito la guerra contro gli elfi. «Questo non è il primo foglietto che ho estratto. L'avete visto tutti!» Balendilín fu inflessibile. «Poiché né io né tu sappiamo quale fosse il biglietto che è ricaduto nella borsa, la decisione non muterà. I due candidati hanno accettato la sfida, e l'esito della gara permetterà di stabilire il successore di Gundrabur.» «Occorreranno molte rotazioni per avere un responso certo», si oppose ancora Bislipur. «Non sarà così se useremo i tunnel. Io farò in fretta», promise Tungdil, cortese, suscitando un'esplosione di risa. «E ora scusatemi, ma devo scegliere i miei compagni di viaggio per partire il prima possibile», si accomiatò. Rivolse un cenno a Boïndil e Boëndal affinché lo seguissero. «Sarei felice se potessi avvalermi delle vostre capacità», disse. «Mi avete portato sano e salvo fino alla fortezza. Ora conducetemi indenne fino ai Monti Grigi e ritorno.» «Oh, hai sentito, fratello? Il Sapientone ha parlato di nuovo.» Il Rabbioso scoppiò in una fragorosa risata. «Per noi sarà un piacere», acconsentì poi. «Ma solo se non ciancerai con tanta ampollosità lungo il cammino. Devo ancora rimediare a uno sbaglio che offusca il mio onore dalla notte nell'oasi», aggiunse piano e in tono un po' meno allegro. Tungdil posò una mano sulla spalla di entrambi. «Non preoccuparti, Boïndil. Sono sicuro che mi dovrai salvare più di una volta durante il viaggio.» L'altro sorrise, ma suo fratello si limitò ad annuire. «Tra parentesi, oggi ti sei guadagnato un nome.» Boëndal indicò lo strato luccicante che si era fuso con la pelle. «Tungdil Manodoro. Che cosa ne pensi?» «Manodoro», ripeté Tungdil, osservandosi la destra. «Sì, credo che mi piaccia.» Si sforzò di sorridere nonostante il dolore. Manodoro, un vero nome da nano. *
*
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Il consiglio si sciolse e Bislipur e Gandogar si precipitarono a fare i preparativi. Alla fine, Balendilín e l'imperatore rimasero soli nell'ampio salone. «Gliel'hai suggerito tu?» domandò Gundrabur, allungando le dita verso la pipa. Il consigliere ridacchiò. «No, certo che no. Un'idea così folle non mi sarebbe venuta in mente nemmeno nel peggiore degli incubi. Questo nano deve avercelo mandato Vraccas in persona.» Salì i gradini verso il trono e si posizionò accanto al sovrano supremo. «Tungdil ha davvero la stoffa del grande imperatore. La sua ingegnosità vale oro.» «La sua è stata una saggia decisione», convenne il vegliardo. «A prescindere da chi farà ritorno, il nostro popolo e la Terra Nascosta ne usciranno comunque vincitori. E nel frattempo noi due faremo in modo che non accada nulla di spiacevole nel nostro regno, caro amico.» «Sai che la fucina della tua vita dovrà risplendere ancora a lungo», affermò Balendilín, preoccupato. Gundrabur si alzò con un gemito, infilandosi la pipa tra i denti. «Vraccas sarà comprensivo e aspetterà ancora un poco prima di abbattere il suo martello su di me», disse con ottimismo, ritirandosi. Il consigliere lo seguì con lo sguardo, quindi sedette ai piedi dello scranno per esaminare il contenuto del sacchetto di cuoio e cercare il biglietto che Bislipur aveva estratto per primo. Balendilín sapeva bene quale fosse, perché il foglietto aveva un piccola piega sul lato superiore. Visto il comportamento di Bislipur dopo il secondo sorteggio, tuttavia, aveva preferito tacere. Ed era stata una scelta giusta, come aveva dimostrato la lettura della prova convalidata. Se le dita di Bislipur non si fossero aperte per errore, Tungdil avrebbe dovuto cimentarsi nella levigatura delle pietre preziose anziché intraprendere un viaggio. Avrebbe senza dubbio fallito, e il trono sarebbe andato a Gandogar. Quando spiegò gli altri pezzi di carta, non riuscì a trattenere una sonora risata. Gandogar aveva proposto per quattro volte la levigatura dei diamanti, e Tungdil aveva fatto altrettanto con la spedizione ai Monti Grigi. Evviva le mani tremanti di Bislipur, pensò Balendilín, sorridendo con sollievo.
XI Terra Nascosta, regno del Secondo, Beroïn, 6234° ciclo solare, autunno Durante i preparativi per il viaggio, Tungdil pregò il consigliere di cercargli il miglior scalpellino dei clan dei Secondi. Balendilín promise di effettuare una scelta preliminare e di mandargli i favoriti, ma preferì lasciare a lui la decisione definitiva. Di lì a poco, un nano guercio entrò nella stanza di Tungdil. Quest'ultimo sollevò la testa, meravigliato. «Vedo che Balendilín ha condotto una selezione molto rigorosa», commentò. «Così rigorosa che è rimasto un unico candidato.» «Sono Bavragor Pugnomartello del clan dei Pugnomartello, maestro della pietra da oltre duecento cicli solari», si presentò l'altro. Le sue mani, grandi come zampe, assomigliavano a quelle di Balendilín. La sua barba nera era rasata ad arte sul mento e sulle guance, mentre i capelli corvini gli ricadevano sciolti sulle spalle. «Nessuno eguaglia la mia bravura. Il mio occhio destro, con cui distinguo il più piccolo difetto nella roccia e nel lavoro, ci vede meglio di quattro occhi messi insieme.» Tungdil gli spiegò che avrebbe dovuto fabbricare gli uncini di granito per un'ascia. Avrebbe tuttavia potuto unire i pezzi soltanto nei Monti Grigi, dove l'arma sarebbe stata forgiata. «Insomma, dovrai accompagnarmi nella Terra Estinta. Solo gli dei sanno che cosa ci capiterà lungo la strada», aggiunse, concludendo la breve descrizione dell'impresa. Guardando il suo interlocutore dritto nell'occhio sano, notò che il marrone della pupilla si trasformava in rosso scuro lungo il bordo. Strano... «Per me va bene. Sono al tuo servizio», accettò Pugnomartello, tendendogli la destra. «La tua mano e la tua parola che sarò io il tuo unico scalpellino della stirpe dei Secondi.» Tungdil gliela strinse, Bavragor sorrise, e il pretendente al trono credette di cogliere in lui un certo sollievo. «Quando partiamo?» «Dopodomani, appena avrò trovato un levigatore di diamanti tra i clan dei Quarti», rispose. «Allora sceglierò i miei attrezzi migliori affinché la Lama di Fuoco riesca bene», replicò Bavragor, dileguandosi. Pur giudicando un poco bizzarra la breve visita dello scalpellino, Tungdil smise di rimuginarci perché doveva prepararsi al colloquio con
Gandogar. Poiché nessun Quarto si sarebbe schierato spontaneamente dalla sua parte, voleva pregare il re di prestargli uno dei suoi uomini. Era difficile che qualcosa andasse storto: com'era consuetudine, la delegazione comprendeva solo gli elementi migliori. L'orgoglio di Tungdil si ribellava all'idea di chiedere un favore all'avversario, ma il nano ricordò a se stesso che il suo obiettivo era salvare la Terra Nascosta, non lusingare la propria vanità. Quando uscì nel corridoio di roccia, gli si fecero incontro quattro nani che avevano tutta l'aria di voler parlare con lui. Si presentarono l'uno dopo l'altro. «Balendilín ci ha mandati perché tu scelga uno di noi», spiegò il primo. Tungdil guardò con stupore i visi barbuti che lo osservavano con impazienza. «Ho già fatto la mia scelta», dichiarò, rimpiangendo di essere stato tanto frettoloso. Il comportamento di Bavragor l'aveva indotto a credere che il candidato fosse soltanto uno. «Ho optato per Bavragor Pugnomartello.» «Pugnomartello? L'ubriacone canterino? Quello che ammorbidisce le pietre con la sua voce e il suo puzzo di birra? La tua scelta è ricaduta su di lui?» si lasciò sfuggire uno dei nuovi arrivati, inorridito. «È stato più veloce di voi.» «Non rientrava neppure nella selezione del consigliere! Devi licenziarlo! Già da parecchi cicli cerca di abbreviare la sua vita sbronzandosi», ribatté l'altro. «Le sue dita sono ferme solo dopo che ha bevuto quattro boccali.» «Impossibile. Gli ho dato la mia parola e gli ho stretto la mano.» Tungdil avvampò, infuriandosi perché era innegabile che Bavragor l'aveva ingannato. Gli domanderò di sciogliermi dal giuramento. Gli indicarono l'osteria in cui trovare l'impostore, e Tungdil percorse i corridoi a passo pesante per cantargliene quattro. Non tardò a trovare la bettola, un locale con la volta a botte. Alcune lampade pendevano dagli alti pilastri centrali, e al soffitto erano appese lanterne i cui vetri gialli diffondevano una luce dorata. All'estremità posteriore era collocato il bancone, dietro il quale quattro nane spillavano la birra da enormi botti scure prima di servirla agli avventori. Due cornamuti torti, un flauto a becco e un tamburo garantivano l'intrattenimento musicale, o meglio l'accompagnamento del coro. Pugnomartello sedeva con altri nani impolverati che avevano terminato la giornata di lavoro nella cava, e festeggiava il suo coinvolgimento nella
spedizione ai Monti Grigi come si conveniva a uno scalpellino: agitava il boccale e partecipava al coro cantando così forte da far tremare la roccia. La schiuma bianca traboccava, gocciolandogli sui pantaloni di cuoio. «Bavragor!» urlò Tungdil, aspro. «Ecco qui il futuro imperatore!» lo salutò l'altro, levando il bicchiere. «Viva Tungdil Manodoro!» I suoi amici lo imitarono; nuvole di polvere grigia si sollevavano nell'aria quando facevano movimenti troppo bruschi. Tungdil ribolliva di collera. Attraversò il locale a grandi passi, strappò il boccale dalla mano dello scalpellino e lo posò con veemenza sul tavolo. «Mi scioglierai dalla promessa perché mi hai ingannato! Non è stato Balendilín a mandarti da me.» «Attento alla birra, sarebbe un peccato versarla», replicò Pugnomartello con un sorriso innocente. «Ho forse detto che qualcuno mi aveva mandato da te?» Tungdil ammutolì, sconcertato. «No... ma...» Bavragor riprese il bicchiere. «Era un requisito indispensabile?» «No... o almeno...» «Ti dico com'è andata. Sono venuto in camera tua e ti ho chiesto di ingaggiarmi. Mi hai dato la tua parola e mi hai stretto la mano. Tutto qui.» Bevve una lunga sorsata. «Stai tranquillo, perché hai arruolato il miglior scalpellino del regno dei Secondi. Non è una bugia. Suppongo che tu abbia ammirato le mie capacità quando sei arrivato alla fortezza. Statue, iscrizioni... ho lavorato ovunque.» Alzò la destra. «Questa mano ha tenuto la tua al momento della promessa. Vai a cercare un levigatore di gemme tra i Quarti, cosicché possiamo metterci in marcia.» Voltandosi verso i suoi amici, intonò la canzone successiva. Mi ha gabbato! Tungdil si allontanò, sbuffando di rabbia. Era furibondo e non sapeva nemmeno con esattezza il perché. Poteva anche aver assunto lo scalpellino più abile, ma la sfacciataggine di Bavragor lo irritava. Mentre si recava da Gandogar, scoppiò a ridere all'improvviso. Il proverbio secondo cui la sfrontatezza trionfava sempre si era dimostrato vero ancora una volta. Vraccas aveva rifilato a lui, l'impostore, un ubriacone che si era assicurato la partecipazione alla missione grazie alla sua impudenza. Devo soltanto fare in modo di portare tra i Monti Grigi birra e acquavite sufficienti affinché le sue dita siano ferme. Mi accerterò inoltre di aver trovato davvero il migliore. Balendilín lo saprà. Finalmente, tenendo in mano uno dei due pezzi di sigurdazia, giunse davanti alla sala in cui doveva incontrare il re dei Quarti.
Gandogar lo aspettava, seduto al tavolo con cinque dei suoi accompagnatori. Le loro armature e le cotte di maglia erano molto più appariscenti di quelle dei Secondi; i Quarti utilizzavano infatti un maggior numero di pietre preziose e schegge di diamante per decorarle. «Non è mia abitudine costringere gli altri a mendicare. Puoi risparmiare il fiato, Tungdil. So che cosa vuoi.» Il sovrano accennò al suo seguito, che si alzò subito in piedi. «Scegline uno. Sono tutti maestri nel loro mestiere: levigano, tagliano e sfaccettano gemme, diamanti e pietre preziose come nessun altro.» Tungdil passò in rassegna i nani, osservando con attenzione i loro volti e cercando di ascoltare il suo istinto e la sua ispirazione. Si fermò proprio davanti al più gracile dei cinque artigiani, nessuno dei quali era particolarmente robusto. Il suo sesto senso gli suggeriva che era lui il candidato ideale. La sua barba ricciuta era costellata di granelli di diamante, che gli si erano depositati tra i peli durante il lavoro e brillavano come migliaia di stelline. Tungdil non andò oltre. «Si chiama Goïmgar Barbalustra», lo presentò Gandogar. «Ottima scelta», aggiunse. Il viso disorientato del levigatore sbiancò per la paura. Si girò verso il suo sovrano. «No, Gandogar, sire... Non chiedermi questo», supplicò con fervore. «Sai che...» «Gli ho promesso che avrebbe potuto scegliere uno qualsiasi di voi! Dovrei forse venir meno alla mia parola per causa tua?!» sbottò Gandogar, tagliente. «Andrai con lui, Goïmgar!» «Sire...», balbettò l'altro per l'ultima volta con voce flebile. «Non disonorarci. Obbedirai agli ordini di Tungdil, e se doveste giungere alla fucina prima di noi, levigherai le gemme come se lo facessi per me», gli ingiunse il monarca con durezza. «Vai e torna sano e salvo.» Alzatosi, Gandogar fece cenno ai quattro nani di seguirlo. Bloccandosi sulla soglia, guardò il suo rivale. «Non ti auguro nulla di male, Tungdil Manodoro, ma nemmeno nulla di buono. Il trono mi spetta e, con la mia vittoria, Vraccas dimostrerà ai clan che sei un imbroglione. Alla fine, tutti voteranno me.» «Conquista il titolo, re Gandogar», replicò Tungdil benevolo, tendendogli il legno di sigurdazia «ma poi proteggi la Terra Nascosta e la nostra gente da Nôd'onn.» Voltatosi, uscì senza aspettare una risposta. Il levigatore mingherlino lo seguì, abbattuto.
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I gemelli, Bavragor e Barbalustra sedevano nella sala centrale della biblioteca, sovrastata da una gigantesca volta con nervature a crociera, disseminata di numerosi specchi e lampade che diffondevano luce sufficiente alla lettura e al lavoro. Tutt'intorno giacevano le pergamene e il sapere accumulato nel corso di molti secoli. Circondati dal passato, discutevano di come salvare il futuro. Tungdil srotolò una mappa che riproduceva per intero la Terra Nascosta. «Cercheremo l'ingresso del tunnel», spiegò. «Con un pizzico di fortuna e l'aiuto di Vraccas, ci muoveremo rapidamente verso ovest attraverso i corridoi sotterranei...» «Verso sud», lo corresse il nerboruto Bavragor, piegandosi in avanti e indicando i Monti Grigi. «Dobbiamo spostarci verso sud.» «Dopo. All'inizio andremo a ovest per rintracciare la stirpe dei Primi», disse Tungdil per giustificare la deviazione. «Hanno sempre vantato i migliori fabbri del nostro popolo, perciò solo loro saranno in grado di fabbricare la Lama di Fuoco.» «È quello che credi tu», ribatté Bavragor, scrutandolo con l'unico occhio rimastogli. «Chi ci assicura che esistano ancora? Forse i mezz'orchi li hanno sterminati da tempo.» Afferrò il boccale. «Dovremmo ingaggiare un fabbro qui e puntare direttamente verso i Monti Grigi.» «Oh! Sentite, abbiamo un nuovo capo», gridò Boëndal. «Vuoi forse avanzare qualche pretesa sul trono, caro Bavragor?» «Buona idea. Così potrei proibire ai pazzi come tuo fratello di circolare liberamente!» lo rimbeccò lo scalpellino, gelido. Boïndil strizzò gli occhi, posando le dita sul manico della scure con un gesto quasi automatico. «Attento, Occhiosolo, altrimenti presto ti chiamerai Nessunocchio.» Boëndal si rivolse a Tungdil. «Non si sono mai piaciuti, e dopo la questione della sorella di Pugnomartello le cose non sono certo migliorate», sussurrò. Tungdil sospirò, prevedendo che avrebbe dovuto superare numerose difficoltà durante il viaggio. «Che cosa c'entra sua sorella?» Te lo spiegherò un'altra volta, quando quei due non saranno nei paraggi», rispose Boëndal. «Altrimenti scoppierà una zuffa. O qualcosa di peggio.» «Abbiamo un piano per raggiungere il fuoco del drago?» chiese Goïmgar, che era robusto solo la metà dei gemelli e di Pugnomartello. «Sono già un po' preoccupato. Albi, draghi, mezz'orchi, la Terra Estinta...»
Deglutì nervosamente. «Si tratta di parecchie... sfide.» «A me sembra divertente», ruggì il Rabbioso, allegro, dandogli una pacca sulla spalla con tanta energia da fargli storcere la bocca. «Uccidere i Maialini è sempre una gioia per un nano, vero?» La luce delle candele rivelava il motivo del soprannome di Goïmgar: la sua barba scintillava. «Forse per te, ma io preferisco il mio laboratorio.» Boïndil lo guardò con aria critica. «Dimmi, sai usare l'ascia? Sembri più una donnicciola piagnucolosa che un figlio del Fabbro.» Balzando in piedi, gli lanciò una delle sue scuri. «Avanti! Dimostrami che sai combattere!» L'arma cadde tintinnando sulla lastra di pietra davanti a Barbalustra. Il Quarto non la toccò, agguantando invece l'elsa del suo spadino. «Preferisco questo e il mio scudo», disse, seccato e offeso dalle frecciate del guerriero. «Uno spadino? Pensavo che fosse un coltello per il pane! Sei forse uno gnomo, per lottare con una lama così piccola?» lo derise il gemello, incredulo. «Per Vraccas! Il nostro dio deve averti scolpito in una pietra particolarmente morbida.» Scuotendo la testa, tornò a sedersi, e Bavragor vuotò il bicchiere, ridendo a singulti e ruttando forte. Quando si trattava di dare contro a Goïmgar, pareva che andassero d'accordo. Boëndal tornò a concentrarsi sulla mappa. «Da Borengar, dunque. Se non altro, fin lì la Terra Estinta non ci metterà i bastoni tra le ruote. Sono curioso di vedere in che stato sono i tunnel e di verificare se siano percorribili.» «Lo sapremo quando un vagoncino deraglierà e noi precipiteremo verso una morte certa», interloquì Goïmgar, preoccupato. «Nessuno si avventura laggiù già da molte rotazioni. È quasi un miracolo se i...» «Adesso capisco perché Gandogar ci ha prestato questo pappamolle», asserì il Rabbioso, sprezzante. «Non ho sentito tanti piagnistei nemmeno ai funerali.» «Avresti dovuto sentire mia madre quando...» si intromise subito Bavragor. «Zitti!» sbraitò Tungdil. Cominciava ad avere seri dubbi sulla possibilità di tenere unito quel gruppo di brontoloni. Vraccas, dammi la forza! «Sono forse attorniato da bambini?! Si direbbe che sia io l'unico adulto», li rimproverò. «Partiamo per salvare la Terra Nascosta. Questa non è una gita per visitare una miniera d'oro o una cava di sale.» «Credevo che avremmo messo in gioco la nostra vita per aiutarti a conquistare il trono», intervenne Goïmgar, sarcastico. Bavragor capovolse
il boccale con espressione dispiaciuta e, dopo aver acchiappato le ultime gocce, le leccò dall'incavo della mano. Tungdil sorrise al levigatore di diamanti. «No, Goïmgar. Hai frainteso. Voglio forgiare l'arma contro Nôd'onn affinché abbiamo la possibilità di fare qualcosa contro il male. Senza la Lama di Fuoco, nessuno fermerà il mago.» Omise di proposito che non era riuscito a tradurre un passo del testo. «Ed è così che vuoi convincere il miglior fabbro dei clan dei Primi ad accompagnarci fino ai Monti Grigi?» domandò lo scalpellino. «Probabilmente non hanno mai sentito parlare dello stregone e della Terra Estinta.» Gli occhi di Tungdil guizzavano da Bavragor a Goïmgar. «Perché vi preoccupate ancor prima di mettervi in cammino?» chiese apertamente. Bavragor si strofinò la barba. «Non è affar mio, ma ti garantisco che la benedizione di Vraccas non ci basterà per tornare alla fortezza con l'ascia.» «Allora parti dal presupposto che avremo altre risorse a nostra disposizione», replicò Tungdil. «Durante il viaggio per giungere qui sono sopravvissuto a tante avventure che non dubito neppure per un secondo del nostro successo. Per la nostra gente e per la Terra Nascosta, Bavragor, non per me.» Ma per Lot-Ionan, Frala, Sunja e Ikana, aggiunse tra sé e sé. «E troveremo sicuramente anche dell'oro.» «In quello mi imbatterei volentieri.» Bavragor si alzò. «Ma prima devo andare a prendere un po' di birra.» Tungdil si rivolse a Barbalustra. «Mi credi, Goïmgar?» «Sì. Per la nostra patria», fu la risposta dello scalpellino, così fiacca da suonare assai poco convincente. Goïmgar distolse lo sguardo ed esaminò gli scaffali, che arrivavano fino al soffitto. Bavragor tornò di lì a poco con un enorme boccale che, strada facendo, aveva già bevuto per metà. «Brindo alle speranze del nostro nuovo re», dichiarò ad alta voce, senza specificare se si riferiva a Tungdil o a Gandogar. «Che diventino realtà!» Tracannò la birra. «Non fa altro che trincare», osservò il Rabbioso. «Deve avere in corpo un mare in cui si riversa tutto quell'alcol.» Pugnomartello si pulì la schiuma dalla barba nera. «Il boccale è di nuovo vuoto», disse, facendo per allontanarsi un'altra volta. «Fermo lì», gli ordinò Tungdil in tono garbato ma risoluto. «Berrai quando avremo discusso del nostro progetto.» Bavragor sedette malvolentieri, scagliando il boccale sul pavimento con noncuranza.
«Dapprima andremo ai Monti Rossi per avvertire i Primi del pericolo imminente, nel caso non ne avessero ancora avuto notizia. Li convinceremo a darci il loro miglior fabbro e raggiungeremo i Monti Grigi attraverso i tunnel.» Tungdil prese una seconda mappa e la distese davanti ai quattro nani. «Questa è una vecchia carta, risalente al 5329° ciclo solare del regno dei Quinti, che indica la strada principale.» «Questo è il Lago di Fuoco», affermò Boëndal, molto interessato agli schizzi ingialliti. «Là dentro troveremo senza dubbio il drago cui alludono gli scritti antichi.» «E poi?» domandò Goïmgar, intimorito. Tungdil si appoggiò allo schienale della sedia. «Non intendo combattere contro il drago. A noi interessa solo il suo fuoco. Boïndil lo stuzzicherà e gli saltellerà sulla coda finché ci sputerà addosso. A quel punto sbucheremo fuori e useremo delle fiaccole per catturare le fiamme con cui accendere la forgia.» «Devo soltanto stuzzicarlo o posso anche farlo fuori?» chiese il Rabbioso, pregustando quel momento e attirandosi un'occhiataccia da parte di Goïmgar. «Se proprio vuoi ucciderlo, aspetta almeno che abbia sputato il fuoco», gli ordinò suo fratello. «Non ci servirà più a niente se tirerà le cuoia senza sbuffare nemmeno fumo dalle narici.» «La fucina si trova vicino all'entrata della vostra fortezza.» Tungdil rivolse a Boïndil uno sguardo particolarmente penetrante. «So che vuoi ammazzare i mezz'orchi, ma laggiù sono così numerosi che non potremo uscire vincitori dallo scontro. Sii ragionevole.» «Come vuoi», bofonchiò l'altro, incrociando le braccia sul petto e assumendo un'espressione un po' riluttante. «Lasciamo ai Musi di porco la loro vita puzzolente finché li rincontreremo sul campo di battaglia.» Si guardò intorno. «Tanto per essere chiari: se, lungo il tragitto, ci imbattiamo in una banda di mezz'orchi o di altre bestie, i primi dieci sono miei. Voi potete occuparvi degli altri.» «Neanche per sogno», si lasciò sfuggire Goïmgar, con voce così sommessa che solo Tungdil riuscì a sentirlo. «Nell'eventualità che dobbiamo uscire dai tunnel, qualcuno di voi è già stato in superficie oppure tra gli uomini per un periodo prolungato?» domandò Tungdil agli altri, che scrollarono subito il capo. «Bene. Durante il viaggio vi darò ancora un paio di suggerimenti cui attenervi quando
dialogate con i Lunghi o vi imbattete in uno di loro. E ora riposatevi, domani si parte.» Bavragor e Goïmgar si alzarono per ritirarsi nei loro alloggi. «E noi che cosa facciamo?» chiese Boëndal. «Andiamo in ricognizione.» Tungdil e i gemelli scesero i gradini che li condussero nelle viscere del massiccio montuoso, apprestandosi a cercare l'imboccatura degli antichi cunicoli grazie ai quali i figli del Fabbro erano riusciti a coprire distanze lunghissime nel giro di pochi giorni. Seguendo Tungdil, che aveva portato con sé una copia della mappa, Boïndil e Boëndal restarono a bocca aperta quando entrarono in zone della loro patria di cui non avevano mai sentito parlare. La regione dei Monti Blu era abbandonata da centinaia di cicli per via dei gas sulfurei. L'aria, più stantia che nelle zone abitate, sapeva di muffa, ma non di zolfo. Di tanto in tanto incapparono in scheletri di capre e pecore che si erano smarrite tornando alla stalla e si stavano tramutando in misera polvere. Scesero gli scalini per ore e ore. Attraversarono larghi ponti di pietra sospesi su gole vertiginose, il cui fondo emanava un misterioso bagliore giallo scuro; percorsero saloni sostenuti da pilastri che, per le loro dimensioni, non avevano nulla da invidiare alla sala del consiglio, e oltrepassarono possenti cascate. Non osando fiatare, si limitarono ad ascoltare con attenzione il silenzio, rotto solo dai loro passi e dallo scroscio dell'acqua. Ben presto ripresero a camminare in salita. «Questi corridoi sono sempre esistiti», osservò infine il Rabbioso ad alta voce. «È quello che capita alle cose quando nessuno le utilizza», replicò suo fratello. «Vengono dimenticate. Probabilmente i vapori venefici si sono dissolti già da tempo.» «Giusto», confermò Tungdil, indicando un portale largo quattro passi e alto tre, su cui erano incise rune dorate nella lingua dei nani. Alla luce delle lampade a olio, ripulirono il più possibile i caratteri dalla sporcizia dei secoli. I costruttori della porta avevano usato un antico dialetto, e Tungdil impiegò un po' di tempo per riuscire a cogliere il significato delle parole e a tradurle. Viaggia per giungere dagli amici, viaggia per annientare i nemici, viaggia con la benedizione di Vraccas
e torna sano e salvo. Appena Tungdil tacque, i battenti si aprirono con un cigolio, dando libero accesso ai tre nani. Entrarono in una stanza gigantesca, dove si trovarono dinanzi a un intrico di ruote dentate di vario genere, coperte di una patina di ruggine o verderame e incastrate l'una nell'altra in posizione orizzontale e verticale; altre aste univano il meccanismo a una serie di calderoni panciuti: sopra di essi si innalzavano camini grandi e piccoli, e sotto si trovavano diverse valvole di accensione. Boëndal si guardò intorno con attenzione. «Abbiamo riportato in vita un sapere quasi perduto.» «Non del tutto.» Tungdil si avvicinò alle caldaie, cui erano collegati tubicini di vetro contenenti sfere di piombo. Il vetro era attraversato da venature, e le rune sul calderone formavano la parola «acqua». Chinandosi per esaminare il recipiente vuoto, notò delle tracce di cenere. «Bavragor concluderebbe che è una distilleria», rise, bussando sulla lamiera. «Ma io direi che è un motore.» «E come funziona, Sapientone?» domandò Boëndal. Tungdil rammentò alcuni disegni analoghi che aveva visto nei libri della biblioteca di Lot-Ionan. «Come in un mulino, ma non è un mulino», ridacchiò. «Le ruote dentate girano e azionano qualcosa.» «Ehi», riecheggiò la voce del Rabbioso. «Venite! Qui c'è dell'altro.» Lo raggiunsero. Al centro del locale correvano otto larghe rotaie di ferro in lieve pendenza, che conducevano diritte a otto porte chiuse. Alla fine di quattro tracciati si ergevano barricate di legno da cui pendevano i resti marciti di alcuni sacchi di paglia. «I vagoncini vanno collocati lassù», dedusse Boëndal, ottenendo un cenno di assenso da Tungdil. «Viaggiare non potrebbe essere più sicuro: si corre sulle rotaie.» «Questo tranquillizzerà Goïmgar», sogghignò Boëndal. Tungdil guardò nella direzione di Boïndil, all'altra estremità della sala, dove si trovava un centinaio di vagoncini. «Diamo un'occhiata a quelli.» I veicoli avevano varie forme. Alcuni erano forniti di dieci anguste panche montate l'una dietro l'altra, altri avevano un unico posto a sedere e servivano per il trasporto del carico. All'estremità anteriore di ciascun carrello vi era una lunga manopola.
Tungdil ne scosse una con prudenza, e dal basso si levò uno stridore. Il nano si chinò per guardare. «Freni», annunciò, «per regolare la velocità lungo il tragitto. Se eliminiamo la ruggine, dovrebbero funzionare.» «Ma come mettiamo i vagoncini sulle rotaie, Sapientone?» Boëndal diede un'occhiata alle rampe di partenza oblique, il cui punto più alto si trovava a due passi dal pavimento di roccia. «Li issiamo a mano? Sono troppo pesanti.» «No, guarda», disse Tungdil, additando il soffitto. Dispositivi di sollevamento! «Ecco la soluzione. Afferravano i vagoncini con gli artigli, poi li alzavano e li depositavano sulle rampe. Venite, vediamo che cosa succede se li mettiamo in funzione.» Trovarono alcuni pezzi di carbone vegetale, cui diedero fuoco con le lampade a olio. Dal bacino di una cascata raccolsero l'acqua necessaria per riempire almeno un calderone. «E ora?» domandò Boïndil, impaziente. «Aspettiamo», rispose Tungdil. Sonnecchiarono un po' per riprendersi dalla fatica. Il Rabbioso afferrò Tungdil per il braccio all'improvviso. «Laggiù! La pallina di piombo nel tubo si è mossa!» Tungdil si alzò. La sfera grigia saltellava davvero al centro del tubicino. Da due valvole fuoriusciva vapore acqueo bollente. «Che cosa succede adesso?» mormorò Boëndal, curioso. Il sistema di aste girò lentamente intorno al proprio asse e mise in movimento la prima delle innumerevoli ruote dentate che, cigolando, compì una mezza rotazione. Una terza valvola si aprì. L'aria ne uscì sibilando forte. «La pressione del vapore, naturalmente!» esclamò Tungdil, ammirando i nani ingegneri che avevano progettato quel meccanismo migliaia di cicli prima. «Il vapore aziona le ruote al posto della forza idraulica!» I gemelli lo guardarono, confusi. «Non avete mai provato a tenere fermo il coperchio di una pentola in ebollizione?» «Mi hai scambiato per un cuoco?» si indignò Boïndil. «Ho capito», intervenne suo fratello, annuendo. «Le ruote dentate girano grazie al vapore. Così è possibile muovere i paranchi e collocare i vagoncini sulle rotaie senza sforzo.» Osservò l'intreccio di aste. «La pressione di un calderone non sarà certo sufficiente ad azionare il dispositivo.» «Non importa», lo rassicurò Tungdil. «Tanto partiamo solo domani ed entro allora...»
Il Rabbioso si voltò di scatto, lanciando un'occhiata diffidente all'ingresso. «C'era qualcosa laggiù», ringhiò; il suo istinto bellico si risvegliava. «Sicuramente un mezz'orco», lo canzonò Tungdil. «Vai a controllare.» «Puoi starne certo», assentì l'altro, precipitandosi verso l'entrata, dove si guardò intorno con attenzione. Raccolse un sasso, lo soppesò nella mano e si girò verso destra, per poi voltarsi dall'altra parte all'improvviso e scagliare il proiettile nell'oscurità. In effetti qualcosa lanciò un grido stridulo tra le tenebre prima di allontanarsi trotterellando. Una piccola sagoma, stranamente familiare a Tungdil, sgusciò fuori dalla porta e sfuggì a Boïndil, che aveva già estratto le scuri ed era pronto a combattere. «Che cosa sarà stato?» domandò Tungdil. «Hai visto qualche cosa?» «No. Ma dal momento che non ci ha attaccati, non può essere nulla di cattivo», rispose Boëndal, mentre suo fratello tornava sui suoi passi con un'espressione delusa. «Non era un mezz'orco», si lamentò. «Una bestiaccia che correva troppo in fretta per farla fuori.» «Vediamo che cosa si cela dietro quelle porte e poi torniamo indietro», decise Tungdil. «Per oggi basta così.» «Che cosa vuoi che ci sia? Rotaie, probabilmente. Lo so persino io», ribatté Boïndil, di cattivo umore perché non era incappato in alcun nemico contro cui affilare le sue scuri. Tungdil abbassò la leva che sporgeva dal pavimento accanto alla prima rotaia, e i battenti si spalancarono. Oltre la soglia, il tracciato conduceva verso un buco nero. «Oh, questa sì che sarà una bella passeggiata», fece il Rabbioso. «Più buio del sedere di un troll. Non si vede a un palmo dal naso.» «Tu ci vedi bene quanto me nell'oscurità», replicò suo fratello, divertito, pur riconoscendo che le tenebre della galleria mettevano a dura prova persino i suoi occhi. Non riusciva a vedere a più di dieci passi. «I Lunghi avranno dovuto usare le fiaccole», aggiunse. «Le porteremo anche noi e le accenderemo», suggerì Tungdil «altrimenti ci abitueremo troppo al buio e resteremo accecati appena verremo colpiti dal più piccolo raggio di luce lungo il tragitto. Una fessura nei monti basterebbe ad abbagliarci.» Frattanto Boïndil dimostrò di possedere un notevole spirito di ricerca, avventurandosi per qualche passo nel tunnel, mentre Tungdil leggeva
l'iscrizione polverosa scolpita nella parete accanto al cunicolo. «Questa è la via verso il regno dei Primi», tradusse ad alta voce per gli altri due, immaginando come dovevano essere andate le cose nel salone in passato. Partivano su queste rotaie, e i vagoncini rientravano dal loro viaggio là in fondo, dove ci sono le pareti di legno. Le barricate imbottite di sacchi di paglia servivano sicuramente a bloccare i carrelli in caso di guasto ai freni. Rimuginando, giunse alla quarta porta passando in rassegna i binari. «Guardate, questi conducono alla stirpe di Lorimbur!» gridò. Che i rapporti fossero migliori un tempo? Oppure vi era un altro motivo per mantenere i contatti con i Terzi? «Li avranno utilizzati certamente per andare in guerra contro di loro», riecheggiò la voce del Rabbioso dal cunicolo in cui era scomparso. «Questo tunnel è maledettamente stretto. Quando i carrelli sono all'interno, nemmeno un nano riesce a passare.» Tungdil per tutta risposta disse: «Vieni, andiamo», senza commentare l'allusione a un conflitto contro i Terzi. «Oh, sono arrivato in fondo e qui... qui la strada scende quasi a picco. Non dobbiamo assolutamente raccontarlo a Goïmgar, altrimenti non vorrà salire.» La risata cupa e sorda di Boïndil rimbombò all'esterno e divenne più forte a mano a mano che si avvicinava all'uscita. «Guardate come mi sono ridotto!» Era coperto di ragnatele, e i resti rinsecchiti di numerosi insetti gli si erano impigliati nella barba. Boëndal gli ripulì la cotta e gli staccò la sporcizia dai peli. «A giudicare da come sei conciato, ci sono altri esseri che vivono sotto le montagne», affermò Tungdil, azionando il dispositivo per chiudere il primo passaggio. «Niente di cui avere paura», disse Boïndil, scrollando il capo. «E se i ragni sono più grossi della testa di un nano, lasciateli a me.» Risero con lui. Quindi spensero il fuoco sotto il calderone, sbarrarono la porta recitando la formula magica e si apprestarono a ridiscendere le centinaia di gradini. Senza il sole, Tungdil non era riuscito a calcolare quanto tempo avevano impiegato per passare dalla parte popolata a quella disabitata del regno dei nani, ma a giudicare dalla fame dovevano essere stati via per un bel pezzo. Sudati e sfiniti, giunsero nella grande sala in cui gli inviati consumavano i pasti e sedettero a un tavolo, ignorando di proposito le occhiate curiose dei presenti.
«Soltanto domani mostreremo loro dove si trovano i cunicoli», spiegò Tungdil ai gemelli. «Non voglio che Gandogar parta prima di noi, conquistando così un vantaggio. Sarà già abbastanza difficile battere sul tempo lui e il suo gruppo.» «I guerrieri più valorosi sono comunque dalla tua parte», sghignazzò il Rabbioso, tagliando da un fungo gigantesco una fetta grande quanto il palmo della sua mano e ricoprendola di formaggio aromatico. «Che cosa può fermarti?! Ti assicuro che Nôd'onn ha i giorni contati.» «Condivido l'opinione di mio fratello», concordò Boëndal. «Ma mi è venuta in mente un'altra cosa. Non riesco a dimenticare la descrizione della Lama di Fuoco.» «Che cosa vuoi dire?» «L'acciaio più puro e resistente, l'impugnatura e gli uncini di pietra, le rune e gli intarsi di tutti i metalli pregiati, il filo tempestato di diamanti», elencò il nano. «Ci porteremo dietro una scorta di tutto», disse Tungdil, indovinando i suoi pensieri. «Ho pregato Balendilín di procurarci una quantità sufficiente dei materiali necessari. Secondo lui il tesoro dei Secondi è abbastanza grande da poter subire una piccola diminuzione per una causa così importante.» «Oro, tionio, argento, palandio, vraccasio e, per finire, una manciata di diamanti?» insistette Boëndal. «Per il Fabbro divino, così saremo il bottino più grasso che un bandito o un usuraio potrà mai incrociare!» «Mettici anche il ferro, il granito e i viveri», aggiunse Boïndil. «Le nostre gambe sono forti, ma nemmeno un orco riuscirebbe a trascinarsi dietro quello che vuoi portare tu.» «Se andrà tutto bene, useremo i cunicoli e non dovremo preoccuparci di nulla. Altrimenti compreremo un pony che trasporti il nostro prezioso carico. È semplice.» I gemelli tacquero, concentrandosi sul cibo, ma da quel silenzio Tungdil dedusse che non erano d'accordo con il suo piano. «Avete un'idea migliore, o forse volete scavare le vecchie miniere dei Quinti nei Monti Grigi alla ricerca di metalli e minerali?» sospirò, infilandosi un pezzetto di formaggio in bocca. «Potremmo munirci di un numero sufficiente di diamanti e acquistare il resto strada facendo», propose Boëndal. «Prima di attraversare i confini della Terra Estinta. O ancora meglio, potremmo rifornirci dei metalli una volta arrivati laggiù.»
«Troppo rischioso», obiettò Tungdil. «Ci ritroveremmo senza tionio, un elemento essenziale per la Lama di Fuoco.» Accostatosi il quarto boccale alle labbra, lo vuotò d'un fiato. «È deciso, ci portiamo dietro tutto quello che ci serve.» Alzatosi, avvertì l'effetto della birra, perché l'aveva bevuta troppo in fretta. «Ce la faremo», li incoraggiò prima di voltarsi verso l'uscita e tornare barcollando in camera sua, dove crollò sul letto, sazio e un po' brillo. Non riusciva tuttavia a dimenticare la piccola sagoma che avevano spaventato vicino al portale. L'aveva già vista. Ce la faremo davvero? In che cosa sono andato a impegolarmi? si domandò prima di essere sopraffatto dalla stanchezza dovuta alla marcia e di addormentarsi così com'era. *
*
*
Qualcuno riscosse bruscamente Tungdil dai suoi sogni. Assonnato, si rizzò a sedere e gemette quando sentì la testa pulsargli. Credevo che la birra dei nani non avesse queste conseguenze. «Sono partiti!» urlò Balendilín. «Hai sentito, Tungdil?! Sono partiti.» Aprì gli occhi. Il consigliere era davanti al letto, e alle sue spalle erano raggruppati i gemelli, Bavragor e Goïmgar, che indossavano le cotte di maglia e sembravano pronti per il viaggio. «Sciocchezze, sono dietro di te», borbottò Tungdil con la lingua impastata. «No, non loro. Gandogar e il suo gruppo, sono partiti», ripeté Balendilín, questa volta con voce un po' più alta e aspra. «Dovete avviarvi subito, o il vantaggio diventerà irrecuperabile.» Tungdil scivolò giù dal materasso. Il suo corpo e la sua mente non erano abbastanza riposati per imbarcarsi in un'avventura tra gallerie e cunicoli bui. «Impiegheranno parecchio tempo per arrivare ai Monti Grigi», obiettò Balendilín. «Chiedi a Barbalustra quanto hanno messo i Quarti per giungere fin qui.» «Ma non vanno a piedi», interloquì Boëndal. «Sono scomparsi tutti a eccezione di Bislipur, e nessuno sa dove siano andati.» «Non hanno senz'altro superato il portale», si immischiò Boïndil. All'improvviso Tungdil ebbe una illuminazione. Quello che abbiamo visto là sotto non era un animale. Il nano si svegliò di colpo. «Swerd!» La sera prima era stato lo gnomo di Bislipur a seguirli e a origliare le loro conversazioni accanto ai vagoncini prima che Boïndil lo scacciasse con il suo sasso. Così Gandogar sa con esattezza dove guidare i carrelli. Pian piano aveva imparato a detestare Swerd quanto il suo padrone. Tungdil indossò il farsetto in tutta fretta, si buttò addosso la cotta e si infilò i pantaloni e gli stivali per apprestarsi a partire di lì a poco. Intanto ordinò ai gemelli, a Bavragor e a Goïmgar di recarsi nella zona dimenticata del Secondo Regno e di accendere i calderoni. «Al mio arrivo i vagoncini devono essere sulle rotaie. Nel frattempo scambierò due chiacchiere con Bislipur», affermò, pregando Balendilín di accompagnarlo. «Vedo che hai scelto Bavragor come scalpellino», osservò il consigliere strada facendo. «No, non è del tutto vero. Si è scelto da solo, e io gli ho promesso avventatamente di portarlo con me», sospirò Tungdil. «Non posso infrangere il giuramento. Ma che cos'ha di tanto negativo da indurre gli altri a sconsigliarmelo? La sua sete è davvero così insaziabile?»
Balendilín inspirò. «È un nano amareggiato quando è sobrio, e un mattacchione quando ha in corpo un bel po' di birra. I suoi tempi gloriosi da scalpellino sono finiti.» «Non è il migliore?» «Sì che lo è. Tutte le opere magistrali sulle mura della fortezza, nei saloni e nei corridoi celebrano la sua arte, ma non tocca più lo scalpello da dieci cicli o più, perché non sempre le sue mani obbediscono alle istruzioni del cervello a causa dell'ebbrezza costante. A tutt'oggi nessun artista è riuscito a superare i suoi capolavori. Rimane il migliore di cui dispongano i clan dei Secondi.» Balendilín serrò le labbra. «Non volevo che lo portassi con te: è volubile, e nessuno sa fino a che punto sia ancora abile. Ma ormai non è più possibile cambiare le cose.» Trovarono il mentore di Gandogar seduto nella sala da pranzo, intento a fare colazione e a parlottare con numerosi nani dei Quarti. I suoi uomini gli indicarono i due visitatori. «Siete in ritardo», li salutò Bislipur, fingendosi sorpreso. «Solo il fabbro mattiniero porta a termine il suo lavoro in tempo.» «Ci sarebbe piaciuto partire con Gandogar. Come mai se n'è già andato?» lo interrogò Tungdil, reprimendo la rabbia. «E come faceva a sapere dov'erano i tunnel?» Gli occhi scuri di Bislipur lo fissarono con indifferenza. «Abbiamo effettuato delle ricerche», rispose con disinvoltura. «Inoltre, non avevate stabilito di avviarvi insieme. Il mio re ha riunito il suo gruppo e si è messo in cammino per tornare con la Lama di Fuoco.» Arricciò il naso. «Non è colpa sua se tu hai preferito alzare il gomito e poltrire. Mi sembra che tu ti sia adeguato alle abitudini di Pugnomartello.» «Sono ben contento di affrontare il viaggio fino ai clan dei Primi alla ricerca del fabbro più capace. Il suo vantaggio non è poi così irrecuperabile.» Bislipur levò il suo bicchiere di latte caldo. «Coraggio, vai dai Primi. Hai la mia benedizione.» I nani intorno al tavolo risero sommessamente. «Dov'è il tuo gnomo?» domandò Balendilín, secco. «Sta forse spiando qualcun altro per tuo conto? O tramando qualche cattiveria ai danni di Tungdil?» Bislipur balzò in piedi, ergendosi nella sua robusta corporatura con fare minaccioso. «Anch'io ho la mia dignità! Se avessi due braccia, Balendilín Solbraccio, ti sfiderei a duello», sbraitò. «Accetterei volentieri se mi proponessi una corsa», ribatté l'altro, pacato.
«La competizione per il trono dell'imperatore deve svolgersi correttamente, è l'unica cosa che voglio sentire da te.» Bislipur si mise le mani sui fianchi. «Giuro su Vraccas di non intromettermi. Proprio per questo motivo sono rimasto alla fortezza, perché tutti possano vedere che non mi immischio.» «Vale anche per il tuo piccolo servo?» insistette Balendilín. «Certo», rispose l'altro, condiscendente. «Finché so dove si nasconde. Talvolta svanisce semplicemente nel nulla.» Tungdil non credeva a una sola parola. Sarà ancora più importante tenere gli occhi bene aperti durante il viaggio. Dopo un brusco commiato, uscì dalla sala per affrettarsi verso i vagoncini. «Qual è la vera ragione per cui sei rimasto qui?» chiese Balendilín a Bislipur sottovoce. Il nano scoppiò in una risata rabbiosa. «Ti ho già spiegato una delle mie motivazioni. Inoltre voglio evitare che, qualora l'imperatore muoia all'improvviso, tu decida il destino del nostro popolo da solo. Qualcuno deve pur fare in modo che i clan dei Secondi non si impadroniscano del potere mentre il successore legittimo è lontano.» Reclinò il capo. «E non mi riferisco al tuo burattino, Solbraccio. Quel nano non è un Quarto.» «Sì, invece, è uno di voi. Hai visto e sentito le prove», ribadì il consigliere. Bislipur avanzò di un passo. «Ti rivelerò dov'è andato il mio gnomo», gli sussurrò. «È diretto nel nostro regno per condurre alcune ricerche nei nostri archivi e parlare con coloro che dovrebbero sapere del bastardo.» I suoi occhi assunsero un'espressione dura e ostile. «La storia di Tungdil è ingiuriosa, un'offesa nei confronti del nostro vecchio sovrano, che non ha mai frequentato altre nane. Swerd tornerà con le prove e potrà smascherare la falsità, l'arroganza e la calunnia di Tungdil, te lo giuro, Solbraccio. Lo trascinerò in giudizio personalmente. Il sogno di quell'impostore andrà in pezzi come il cranio di un mezz'orco sotto la mia ascia, caro Balendilín. Quindi toccherà a tutti coloro che sono coinvolti in questo vile gioco. Anche questo è un giuramento.» Balendilín colse la minaccia insita in quelle parole. Bislipur gli sembrava fin troppo sicuro di riuscire a smascherare l'inganno. Se Tungdil fosse tornato, avrebbero dovuto proteggerlo in ogni caso fino all'annientamento di Nôd'onn. La campagna militare contro il male aveva la precedenza su tutto il resto. «Ho ascoltato con gioia il tuo discorso perché sono onesto quanto te e
non temo la verità», replicò, cordiale. «Aspettiamo di vedere chi dei due rientrerà vincitore dai Monti Grigi. Poi controllerò la veridicità delle tue parole e verificherò se un tempo gli elfi si sono davvero macchiati di un tradimento contro i Quinti. Se le righe che hai presentato risulteranno false, saprò chi le avrà scritte.» Lasciò la sala con un rapido cenno del capo. Bislipur sedette, seguendo con lo sguardo Solbraccio che scompariva oltre la soglia. «E a differenza di te, io so chi salirà al trono», mormorò. Sebbene la farsa del Quarto fasullo intralciasse i suoi ambiziosi progetti, non aveva ancora intenzione di arrendersi. Nei cicli passati ho organizzato tutto troppo meticolosamente per gettare la spugna. La guerra contro gli elfi avrà luogo! Aveva tuttavia in serbo un piano nell'eventualità che i figli del Fabbro cambiassero idea. Si voltò per prendere qualcosa da mangiare. Mentre affettava il prosciutto e osservava la carne con le sottili venature bianche, ebbe un'ispirazione. I nemici dei miei nemici sono miei amici. È sempre stato così. *
*
*
Dopo aver preparato l'occorrente in tutta fretta, Tungdil percorse ad andatura spedita la strada che conduceva ai vagoncini. Aveva rivelato prontamente a Balendilín e a Gundrabur che cosa si celava nel Giogonero, affinché informassero i nani degli altri clan e tutti venissero a conoscenza del segreto. Quando giunse a destinazione, i suoi quattro compagni lo accolsero con musi lunghi quanto quelli degli elfi. Nell'ampia sala l'aria era calda e umida, e il sudore iniziò a uscirgli da tutti i pori. «Qualcuno ha preso delle precauzioni per farci rallentare il più possibile», gli spiegò Boëndal, rabbuiato. «Guarda tu stesso.» La rotaia che fungeva da rampa di partenza verso il regno dei Primi era stata piegata e in parte strappata dai suoi supporti. L'afa era dovuta al vapore che fuoriusciva dai calderoni bucherellati. Anche se fossero riusciti a riparare il tracciato alla meno peggio, non avrebbero potuto spostare i pesanti vagoncini. «A quanto pare, Gandogar non vuole che vinca il migliore», continuò Boëndal, irritato. «È un buon segno, significa che ha paura di te.» «Farei volentieri a meno di simili segni. Inoltre, non sono sicuro che il responsabile sia Gandogar», replicò Tungdil, meditabondo, chinandosi a esaminare scrupolosamente il ferro. Qualcuno l'aveva sollevato dal suo sostegno utilizzando il paranco appeso al soffitto. «A mio parere, Bislipur ha voluto dare una mano al suo allievo.» Che cosa faccio adesso? Goïmgar rimase in disparte, fingendo indifferenza. Appoggiandosi a uno dei calderoni forati, Bavragor bevve un sorso da una borraccia. Dopo avere schioccato le labbra con soddisfazione, richiuse il recipiente con un turacciolo e si avvicinò per valutare i danni. «Basta scambiare le rotaie», disse allegro, indicando il binario lì accanto, il punto d'arrivo dei vagoncini provenienti dal regno dei Primi. «Hai bevuto», lo accusò Boëndal. «Sì, e allora? Tu hai mangiato, per me è la stessa cosa», ribatté l'altro, spiccio, senza degnarlo di uno sguardo. Le sue manone callose bussarono sul ferro. «Se mandiamo a chiamare uno dei nostri fabbri, dovrebbe riuscire a staccare le barre.» Il suo occhio destro studiò i calderoni distrutti. «E di quelli si occuperà il conciabrocche che vive nella stazione commerciale. Non che la nostra stirpe non sia in grado di ripararli, ma lui è senz'altro più esperto. Faremo venire anche le nane che fabbricano la birra. Loro se ne intendono, di pentoloni.» Tungdil guardò con stupore il guercio, che a un tratto traboccava di
orgoglio e dinamismo. Balendilín non si era sbagliato nel definirlo volubile. «Sono ottime proposte», lo elogiò. «Lo so.» Lo scalpellino si raddrizzò sorridendo e si concesse un'altra sorsata. Con il suo aiuto le nane e il conciabrocche riuscirono a rappezzare i calderoni in modo che resistessero alla pressione del vapore almeno per un breve periodo. Occorsero tuttavia altre due rotazioni solari prima che tutto fosse pronto per la partenza. I calderoni vennero riempiti d'acqua e riscaldati, le ruote dentate girarono come previsto e il paranco fece il suo dovere. Nel pomeriggio della terza rotazione, il vagoncino si trovava finalmente su una nuova rotaia ed era pronto per il viaggio verso l'ignoto. Tungdil e il Rabbioso sedettero davanti, seguiti da Bavragor e Goïmgar, e infine da Boëndal sull'ultima panca. Distribuirono uniformemente ai loro piedi i bagagli, che comprendevano i viveri e i materiali grezzi necessari per la fabbricazione della Lama di Fuoco. Voltatosi verso gli altri, Tungdil scrutò i loro visi. Nessuno di loro sapeva che cosa li aspettasse dopo la ripida discesa né quanto Gandogar si fosse già spinto verso ovest. Anche i suoi compagni di viaggio avevano un'espressione seria. «Le nostre vite sono nelle mani di Vraccas», disse prima di girarsi, gli occhi puntati sulla porta. Con la sinistra tirò all'indietro la leva accanto alla rotaia: i battenti si spalancarono, e furono inghiottiti dall'oscurità. «Salviamo la Terra Nascosta.» Quando Tungdil mollò i freni, il veicolo si incanalò verso la rampa scoscesa: davanti a loro la voragine. «Che cosa succede se Gandogar ha piegato le rotaie?» domandò Goïmgar, impaurito. «O se siamo troppo pesanti e deragliamo?» «Lo sapremo se capiterà», rise Boïndil, che aspettava di raggiungere la pendenza con una scintilla folle negli occhi. «Perbacco, com'è divertente!» Il vagoncino acquistò velocità e toccò il punto in cui il tracciato cominciava a scendere. Si inclinò piano in avanti, e i passeggeri si tennero forte ai sostegni, quindi sfrecciò verso l'abisso con un gran frastuono. Il Rabbioso lanciò un grido selvaggio, Boëndal si aggrappò al sedile senza fiatare, Bavragor intonò un motivetto vivace, Goïmgar pregò Vraccas ad alta voce e Tungdil si chiese come gli fosse venuto in mente di mettersi in viaggio con quel branco di pazzi.
XII Terra Nascosta, da qualche parte nelle viscere della terra, 6234° ciclo solare, tardo autunno Il vento soffiava in faccia ai nani, facendo fluttuare i capelli e le lunghe barbe, mentre il vagoncino sferragliava sui binari precipitando come un fulmine. La velocità premeva con violenza i passeggeri contro i sedili, e Tungdil si sentiva in balia di forze sconosciute. Bavragor aveva smesso di cantare dopo aver inghiottito per sbaglio qualcosa di piccolo che gli era volato in bocca; soltanto Boïndil continuava a urlare e a godersela mentre l'aria gli entrava vorticosamente nello stomaco. Goïmgar teneva gli occhi ben chiusi e pregava Vraccas a mezza voce di vegliare su di loro. Evidentemente pensava che il suo protettore fosse capace di compiere atti malvagi, altrimenti non ne avrebbe avuto tanta paura. Le pareti di pietra abilmente scolpite sfrecciavano loro accanto con tanta rapidità che i nani non ebbero neppure il tempo di osservarle con maggiore attenzione. Di lì a poco il tunnel si allargò tanto che il veicolo vi sarebbe passato anche di traverso. «Taci, Boïndil!» ordinò Boëndal a suo fratello. «Mi spacchi i timpani, perché il vento trasporta la tua voce qui dietro con intensità raddoppiata.» Il Rabbioso rise, spavaldo. «Questo sì che è un viaggio! Un pony è una lumaca in confronto a questo aggeggio», gridò a squarciagola. «I nostri avi sapevano come spostarsi in fretta.» «Ma intanto non posso bere», si lamentò Bavragor, strizzando le palpebre e asciugandosi l'acquavite dagli occhi. «Avrebbero anche potuto pensarci!» Tungdil non riuscì a trattenere un sorriso. Gli piaceva la compagnia dei nani; nonostante tutte le avversità che aveva incontrato fino ad allora, non voleva rinunciare a ricongiungersi con il suo popolo, anche se questo significava affrontare un nuovo pellegrinaggio. Questa volta almeno non era solo, e ciò lo tranquillizzava. «Senza quella maledetta discordia sarebbe ancora più bello», mormorò. «Come?» strillò Boïndil. «Che cosa hai detto?» Il pretendente al trono scrollò il capo. La pendenza terminò all'improvviso; il carrello frenò la corsa e avanzò a
una velocità gradevole, salendo dolcemente e poi riprendendo a scendere piano. Rumoreggiando, il vagoncino superò due biforcazioni senza staccarsi dalle rotaie. «Spero che la direzione sia ancora quella giusta, Sapientone», affermò Boëndal. «Qualcuno ha visto un'indicazione o qualcosa di simile?» «Poco prima di ogni scambio c'era una leva», rispose Tungdil. «Ma erano entrambe impolverate e coperte di licheni. È impossibile che qualcuno le abbia utilizzate.» O almeno si augurava che fosse così. Ora il tunnel smise di allargarsi; il panorama appariva molto monotono nei punti in cui nani riuscivano finalmente a distinguere qualcosa. Sulla roccia levigata con cura crescevano soltanto radi muschi e licheni; il vagoncino spezzò due stalagmiti che spuntavano in mezzo ai binari. «Allora Gandogar non è passato di qui», dedusse Bavragor, stappando la borraccia e approfittando della velocità ridotta per ingollare un paio di sorsi prima del declivio successivo. «Che gli scambi siano stati...» «No, erano intatti», insistette Tungdil. Quale strada avranno imboccato? si domandò. «Forse hanno preso una scorciatoia e poi sollevato a mano i vagoncini affinché non ce ne accorgessimo...» azzardò il Rabbioso. «Può darsi», concesse Tungdil, ma nel frattempo stava già formulando una nuova teoria. Potrebbero aver usato un altro tunnel per arrivare più velocemente dai Primi. Forse esisteva una mappa che non indicava soltanto gli ingressi e le uscite. Nella peggiore delle ipotesi, il loro rivale era stato così abile da manomettere le leve e mandarli fuori strada mentre lui correva a tutta birra verso ovest. Preferì tuttavia tenere per sé le sue riflessioni. Come se non avesse fatto altro negli ultimi cento cicli, il carrello ronzò lungo il tracciato finché la galleria si allargò di colpo ed entrarono in una grande sala in cui sfociavano altre tre rotaie. Il vagoncino rallentò fino ad arrestarsi. Tungdil saltò fuori, le gambe irrigidite. «Coraggio, vediamo come si prosegue da qui», gridò, contento di poter fare un po' di movimento dopo essere stato seduto tanto a lungo. I nani esaminarono il locale, dotato di paranchi e calderoni simili a quelli che avevano scoperto nel regno dei Secondi. «Qui venivano sicuramente spostati i carrelli», rifletté Boëndal ad alta voce, mettendosi l'azza in spalla e guardandosi intorno: voleva evitare di
farsi cogliere di sorpresa da qualunque creatura vivesse nel sottosuolo e non fosse un nano. «Ehi, Barbalustra!» disse Boïndil a un tratto. «Che cosa stai combinando?» L'altro trasalì con aria colpevole, allontanandosi dalla tavola. Quest'ultima, alta e larga quanto uno gnomo, era scolpita nel granito e fissata alla parete mediante chiodi di ferro ormai arrugginiti. «Volevo... spolverarla», rispose, caparbio. «Per leggere che cosa c'è scritto.» «Sembra una mappa», asserì Tungdil, avvicinandosi per studiarla. «Ben fatto, Goïmgar! Hai la vista lunga.» Tungdil l'aveva lodato di proposito, pur essendosi accorto che il levigatore aveva tentato di cancellare le linee sottili incise nella roccia con il suo pugnale per renderle incomprensibili e dare un vantaggio a Gandogar. Non avendo però prove certe, non palesò il suo sospetto e copiò la pianta. D'ora in avanti sarò più diffidente. «Siamo sulla strada giusta», dichiarò Bavrogar, allegro. «Lo vedo con estrema chiarezza.» «Se lo dice il guercio», interloquì Goïmgar in tono sprezzante e a voce abbastanza alta affinché lo sentisse anche Pugnomartello. Lo scalpellino si girò, sbuffando; con l'enorme mano destra afferrò il Quarto per la barba arruffata e lo tirò verso di sé. «Vieni qui, mezzo nano, così ti racconto una cosa», sbraitò. Con l'altra mano scostò la benda, che celava quel che rimaneva di un bulbo oculare rinsecchito, in cui era ben visibile una scheggia di pietra. «Un giorno, la roccia che lavoravo ha preteso il suo tributo. Mentre trasformavo un blocco informe in un'opera d'arte, un frammento di granito sottile quanto un ago mi è volato nell'occhio, privandomi della vista. Ma Vraccas ha compensato la perdita benedicendo l'altro e rendendolo dieci volte più acuto. Dieci volte più acuto, capito?!» Liberò il mingherlino con una risata cupa. «Noto la più lieve irregolarità nella roccia, vedo i pori della tua pelle e leggo la paura nei tuoi occhi, Barbalustra. Che cos'hai da dire adesso?» Goïmgar si sottrasse in fretta a quelle mani simili a zampe, strofinandosi il mento. Aveva stretto le labbra per il terrore, ma a quel punto sfogò la collera per quel trattamento indegno con una minaccia. «Te ne pentirai, Pugnomartello! Appena Gandogar diventerà imperatore, escogiterò qualcosa di molto speciale per te.» «Davvero? Oltre che smidollato, sei anche un codardo?» lo schernì Bavragor.
«Basta! Vi siete insultati a sufficienza», li richiamò all'ordine Tungdil. «Nessuno dei due si è comportato in modo particolarmente garbato, perciò metteteci una pietra sopra. Nessuno di voi deve niente all'altro.» Le parole di Goïmgar non gli lasciavano dubbi sul suo atteggiamento nei confronti della spedizione. «Si riparte.» Tornò al vagoncino e gli altri quattro lo seguirono senza fiatare. La tensione nell'aria si tagliava con il coltello, e quelli non erano certo i presupposti migliori per il successo della missione. Spero che continueranno ad ascoltarmi, altrimenti l'intera impresa si risolverà in una catastrofe. Tungdil ricordò con raccapriccio che anche Bavragor e il Rabbioso non si sopportavano; soltanto il calmo e assennato Boëndal andava d'accordo con tutti. Per ora, rimuginò, turbato. Vraccas, dammi la forza. Non sono abituato a ricoprire un ruolo di guida. Boïndil, che si era diretto verso la porta successiva alla ricerca di eventuali nemici, aprì i battenti e scrutò la galleria. «Qui si scende di nuovo», annunciò. «Basterà che spingiamo un poco il carrello: la discesa farà il resto.» Unendo le forze, lo trasferirono sul binario in discesa e vi saltarono dentro tutti a eccezione di Boëndal, che diede l'ultima spinta. La seconda parte del viaggio era iniziata. Cigolando e sferragliando, il vagoncino riprese la sua marcia verso ovest, portandoli sempre più vicini al regno dei Primi.
Terra Nascosta, regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, tardo autunno Gli informatori tornarono dalla ricognizione riferendo che Porista appariva tranquilla, come se non temesse i quarantamila soldati che, sotto la guida dei migliori guerrieri umani della Terra Nascosta, marciavano nella sua direzione da due lati. Il sole autunnale illuminava i prati verdi e le scintillanti foglie variopinte degli alberi e dei cespugli, che sfoggiavano ancora una volta tutto il loro splendore prima dell'arrivo dell'inverno. Tilogorn e Lotario ricevettero gli esploratori davanti alla tenda delle riunioni, allestita a protezione dal vento sempre più pungente. Il messaggero che avevano inviato da Nôd'onn alcune rotazioni solari prima per condurre le trattative era rientrato con richieste inaccettabili, e una volta appresa anche la notizia della morte degli stregoni, avevano avuto la conferma della necessità di dover innanzitutto annientare il mago. Era lui a costituire la minaccia principale. Sorseggiando una tazza di tè bollente, i due sovrani esaminarono la mappa con le annotazioni riguardanti le opere difensive della città e si domandarono quanta resistenza avrebbero potuto opporre a un eventuale aggressore. Un unico bastione proteggeva Porista dagli assalti nemici. Tilogorn, protetto da una corazza semplice ma robusta, si rallegrò che le mura fossero facilmente espugnabili. Anche i più piccoli villaggi dell'Idoslân possedevano difese migliori della capitale del regno incantato. «Sarà un assedio breve se Nôd'onn non scaglierà troppi attacchi con i suoi poteri magici. Fortunatamente abbiamo riunito un primo esercito.» «Basterà per uccidere quel pazzo assassino. Poiché non può essere in due posti contemporaneamente, un lato cadrà, e a quel punto il mago sarà nostro», affermò Lotario, sistemandosi la leggera armatura di cuoio. I modelli delle corazze rispecchiavano le strategie belliche dei diversi regni. Nell'Idoslân, Tilogorn doveva affrontare mezz'orchi armati e molto nerboruti, perciò i militari di quelle regioni avevano optato per una solida protezione dalle asce e dalle scuri. Lotario, invece, veniva dal Paese dei laghi e delle montagne. Un'armatura di ferro avrebbe significato un peso considerevole, una scarsa libertà di movimento e la morte sicura in caso di passi falsi sugli angusti sentieri montani. L'esercito era ancora più variegato dei suoi comandanti. Tutti i re e le regine avevano mandato contingenti a Porista, affidando il governo di
quelle truppe eterogenee a Tilogorn e Lotario. I rinforzi in arrivo, rappresentati da altri quarantamila militari, avrebbero invaso lo Dsôn Balsur. Con le loro corazze inconsistenti e il loro abbigliamento poco adatto al clima, i soldati di Umilante sedevano dunque accanto ai guerrieri di Wey IV, addestrati per i combattimenti navali, e a quelli della regina Isika, esperti negli scontri tra i boschi. Nessuno di loro aveva mai preso d'assalto una città. La cavalleria leggera del Tabaîn e i reggimenti di Lotario e Tilogorn costituivano la spina dorsale in cui gli altri trovavano guida e sostegno. Per fortuna non ci siamo ancora dovuti battere contro i mostri di Tion. Gli uomini devono prima affiatarsi. Il biondo monarca dell'Urgon indicò le porte della capitale. «Tilogorn, voi occupatevi dell'ingresso settentrionale, io penserò a quello meridionale. Le scale sono state costruite, e le catapulte montate.» Alzò la testa. «Inizio io, e voi tenete pronti i vostri ventimila uomini. Appena i miei portaordini vi raggiungono, correte dall'altra parte verso il rifugio di Nôd'onn.» «D'accordo», disse Tilogorn, assentendo e allungando la mano verso l'elmo. «Liberiamo la Terra Nascosta dal primo malvagio, poi toccherà agli albi e ai mezz'orchi. Che Palandiell sia con noi.» «Ci assisterà, non ho dubbi.» Dopo essersi scambiati una stretta di mano, uscirono dalla tenda, montarono in sella e cavalcarono fino alle loro unità, posizionate a tre miglia dalle porte di Porista. A un segnale della fanfara, si levò un mare di vessilli. Come concordato, i reparti di Lotario sferrarono il primo attacco contro la porta meridionale. Durante l'assalto si nascosero dietro spesse pareti di legno installate su ruote, che offrivano loro una sorta di scudo mobile. Quando furono a tiro, però, la capitale del Lios Nudin sfoderò gli artigli. Sciami di frecce oscurarono il cielo, e i proiettili sibilarono attraverso l'aria, abbattendosi sulle truppe. I fanti si accovacciarono in tutta fretta dietro le tavole robuste. I dardi mieterono solo poche vittime tra gli aggressori. Gli arcieri contrattaccarono e gli uomini avanzarono al riparo delle pareti mobili. Giunti ai piedi delle mura e davanti alla porta, le sollevarono in posizione orizzontale e le adagiarono su pali per difendere i militari che manovravano gli arieti dai sassi e da altri proiettili provenienti dall'alto; le scale d'assalto vennero appoggiate alla cinta. In quell'istante, Nôd'onn diede loro un primo assaggio del suo potere.
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Tilogorn era in sella a poca distanza dagli scontri e osservava la fanteria che si approssimava all'ingresso settentrionale. La difesa su quel lato era trascurabile, perché avevano fatto credere agli abitanti di Porista che l'aggressione principale sarebbe arrivata dalla direzione opposta. I portali sarebbero rimasti aperti a lungo prima che si spargesse la voce del secondo attacco contro i difensori meridionali. «Non ci vorrà ancora molto», fu la previsione che il re formulò sottovoce. «Poi sarà il nostro turno.» Un esercito contro la magia. L'idea non gli piaceva. Ma quale alternativa abbiamo? Aveva deciso di guidare i cinquemila componenti della cavalleria attraverso i vicoli della città e di invadere il palazzo dello stregone, conquistandolo con un colpo di mano. La velocità e l'effetto sorpresa erano fondamentali se volevano uscire vivi dalla lotta contro il mago. Due cavalieri si avvicinarono alla loro guarnigione percorrendo una strada più lunga e, dopo avere piantato i vessilli, diedero il segnale convenuto. «Che Palandiell ci aiuti!» Tilogorn controllò la posizione delle sue armi e verificò di poter afferrare rapidamente il pugnale e lo spadino; fece cenno quindi alla fanfara di ordinare l'offensiva. La prima ondata di ottomila militari si lanciò contro la porta, adottando la medesima tattica seguita da Lotario a meno di due miglia di distanza. Le truppe incontrarono scarsissima resistenza e non subirono quasi perdite perché le frecce scoccate da dietro i merli furono poche. I soldati appoggiarono le scale alle mura con la rapidità del fulmine. Poco dopo, i primi guerrieri si trovavano sui bastioni, impegnati nel combattimento ravvicinato con il manipolo di valorosi assegnati alla difesa dell'ingresso settentrionale. Guardando la sommità delle mura, dove sventolava già il vessillo dell'Idoslân, Tilogorn si infilò l'elmo e abbassò la visiera con veemenza. «Per la Terra Nascosta!» gridò, avventandosi con i cinquemila cavalieri sulla porta che si spalancava. *
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La pietra più alta del merlo si staccò dal suo letto di malta e atterrò tra gli assalitori come se fosse stata scaraventata con una catapulta. Il blocco squadrato, i cui lati erano lunghi quanto avambracci, colpì la gabbia toracica di un soldato, schiacciandola come se fosse un nido d'api. Quello fu l'inizio di una terribile gragnola. Nessuno dei guerrieri ne aveva mai viste di simili, e la maggior parte di essi non ne avrebbe più viste altre. Le mura di Porista crollarono pietra dopo pietra. I massi piombavano al suolo, schiantandosi tra le file dei nemici con una furia tale da distruggere tutte le difese. Le pareti mobili vennero sfondate, ribaltate o fracassate, mentre le truppe retrostanti riportarono gravi ferite a causa della pioggia di schegge. Tutti i proiettili centrarono i bersagli. I tonfi sordi, gli schiocchi delle ossa e il tintinnio delle armature sembravano non voler mai finire; le esclamazioni di terrore si tramutarono in richieste di aiuto e in urla di morte. Le poche scale d'assalto rimaste in piedi caddero perché prive del loro sostegno. «Indietro!» ordinò Lotario, girando il cavallo. In quel momento, un blocco colpì la testa dello stallone, che rovinò subito a terra e morì con un sussulto. Il re cadde con violenza e impiegò parecchio tempo per sgusciare fuori da sotto il corpo dell'animale. Con una gamba rotta, non riusciva a camminare. Due soldati si accorsero delle sue condizioni e si affrettarono ad aiutarlo, stendendolo in un fossato accanto alla strada per Porista. Quello era il luogo più sicuro finché le pietre avessero continuato a volare qua e là. «Maledetto mago!» imprecò Lotario, stringendo i denti quando una fitta di dolore gli attraversò l'arto fratturato. Lo stregone aveva fatto appello alla tanto temuta magia, mietendo moltissime vittime nell'esercito alleato. Il monarca preferiva non calcolare il numero delle pietre da cui era costituito quel lato delle mura, e dunque delle munizioni a disposizione di Nôd'onn. Quando il fragore cessò, il re osò sbirciare oltre il bordo del fossato. La spianata davanti alla porta era ingombra di massi grandi e piccoli; persino i blocchi delle fondamenta, alti quanto un uomo adulto, avevano lasciato la loro sede originaria ed erano stati sparsi tutt'intorno dalle forze invisibili dello stregone. Membra, lance spezzate, scudi deformati e giavellotti piegati spuntavano qua e là tra le macerie, indicando in maniera grottesca il punto in cui era caduto ogni soldato.
Oltre le rovine, Lotario scorse le vie e le case di Porista, che, caduta la cinta di mura, si stendevano indifese davanti al sovrano dell'Urgon. Solo le due torri che fiancheggiavano la porta erano ancora al loro posto. «È questo il momento giusto», gemette, sofferente. «Dobbiamo attaccare.» Con l'aiuto dei due guerrieri, uscì dalla fossa per spronare le truppe a una nuova offensiva. Le pietre avevano risparmiato tremila militari su ventimila, e gran parte dei sopravvissuti fuggiva dalle forze malefiche. Non posso dar loro torto! Vedendolo, gli uomini si fecero animo. Una schiera di cinquecento elementi si riunì, apprestandosi a invadere la capitale e a penetrare nel palazzo. In quell'istante i massi ricominciarono a muoversi. I più grandi si sollevarono per primi, tornando uno dopo l'altro nelle posizioni che occupavano prima della gragnola; i più piccoli li imitarono, depositandosi l'uno sull'altro finché il muro, intatto, torreggiò ancora davanti agli aggressori inorriditi. Questa volta era imbrattato di un liquido che emanava un luccichio rosso. Il coraggio e l'ottimismo che avevano sostenuto Lotario nel suo tentativo di opporsi a Nôd'onn si dileguarono; si accasciò nell'erba umida e intrisa del sangue dei suoi uomini, fissando il baluardo che non avrebbero mai superato. Sul muro riconobbe pezzi di metallo, resti di armi e membra umane che, esposti come trofei, dileggiavano gli assalitori per sfidarli a un secondo, vano tentativo. Che cosa posso fare, dei? I guerrieri lo circondavano con le armi in pugno. Lotario sperava ancora in un'ispirazione, quando la voce del mago riecheggiò sopra di loro. «Siete venuto a portarmi un esercito, re Lotario?» «Godetevi la vostra cruenta soddisfazione, Nôd'onn», replicò il monarca con ira. «Non durerà a lungo.» Lo stregone, avvolto in una veste verde scuro, si accostò a una feritoia, e il sovrano riconobbe l'ovale largo e bianco del suo volto gonfio. «Avete creduto di colpire una città vulnerabile. Non è l'unica trappola in cui siete cascato. L'occhio umano è facile da ingannare.» Le sue mani compirono uno strano movimento. «Vi auguro molto successo per la vostra ultima battaglia, sire. Vi assicuro che non combatterete contro fantasmi, bensì contro veri avversari.» Così dicendo, svanì tra le ombre dei merli. Lotario si guardò intorno, e il ribrezzo lo paralizzò. L'erba verde tra le sue dita si tinse di grigio, gli alberi persero sia la bellezza sia il tripudio di colori e abbassarono i rami, le cui foglie giacevano a terra già da tempo. Il
mago aveva attirato l'esercito nelle regioni della Terra Estinta e aveva creato la simulazione di un mondo intatto per cullarli nell'illusione della sicurezza. Lotario intuì quale destino sarebbe toccato a lui e ai cinquecento superstiti. Ciò che perisce sulla Terra Estinta non muore, pensò, rammentando i racconti sul potere sinistro che avanzava dal Nord, e fu sopraffatto dalla paura di quanto stava per accadere. Dopo aver chiuso gli occhi, pregò con fervore Palandiell e le altre divinità benevole affinché accorressero in loro aiuto. Le sue riflessioni pie e disperate vennero disturbate da centinaia di lievi gemiti che risuonarono su tutto il campo di battaglia. I morti si rialzarono con goffaggine, uscendo dai crateri lasciati dai massi più grandi e scivolando fuori da sotto le macerie. A seconda della gravità delle lesioni, strisciavano, zoppicavano o barcollavano verso i sopravvissuti; altri si muovevano invece come vivi, e nessuno sarebbe riuscito a distinguerli se non fossero stati deturpati dalle ferite letali. Ai primi cento che si avvicinarono loro con lance, spade e altre armi si unirono ben presto molti altri nemici. «Com'è possibile? Che cosa facciamo, re Lotario?» urlò uno degli ufficiali, terrorizzato. «Tentiamo una sortita verso sud», decise. «Via di qui, altrimenti finiremo come questi soldati, un tempo valorosi, e diventeremo schiavi della Terra Estinta!» I suoi due aiutanti lo presero subito sotto braccio, e una decina di guerrieri formò la guardia del corpo per il monarca ferito. «Svelti! Che Palandiell sia con noi.» Iniziò così il loro tentativo di fuga dal cerchio dei semimorti con cui fino a poco prima avevano combattuto fianco a fianco. *
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I cavalieri sfrecciarono nelle vie deserte di Porista senza avere riguardo né per sé né per gli animali. Imboccando le curve, alcuni cavalli sdrucciolavano sul selciato liscio e rimbalzavano contro i muri degli edifici. Quelli che li seguivano li scavalcavano e continuavano a galoppare. Il bersaglio si ergeva davanti a loro in tutta la sua maestosità. Il palazzo in cui un tempo si riuniva il consiglio dei maghi si stagliava contro il cielo, indicando loro la strada. Tilogorn era contento che la popolazione non si opponesse agli aggressori. I suoi uomini avevano sbaragliato senza difficoltà i pochi difensori davanti alla porta. Ora il loro attacco era diretto contro Nôd'onn in persona. Il re non riusciva a credere che esistesse uno stregone capace di contrastare un tale numero di avversari, e faceva pieno affidamento su quella certezza. Qualsiasi altra riflessione avrebbe disorientato le truppe, e i dubbi favorivano sempre il trionfo del nemico. La cavalleria correva come acqua luccicante tra le vie, che canalizzavano l'avanzata e conducevano direttamente al muro di cinta della residenza. I militari giunsero da tre lati sulla piazza del mercato davanti all'ingresso della costruzione. Le unità di Tilogorn si trovarono di fronte una moltitudine che si raccoglieva davanti all'entrata con atteggiamento protettivo. A giudicare dall'abbigliamento, si trattava di semplici abitanti della città, donne e bambini che li accoglievano pacificamente e senza armi. Uno di loro si staccò dal gruppo di circa trecento persone e si avvicinò ai guerrieri con le mani alzate. «Lasciate stare il nostro signore, uomini dell'Est», urlò. «Non vi ha fatto nulla e non intende nuocervi.» Il principe Mallen, che indossava l'armatura degli Ido, si affiancò a Tilogorn, chinandosi verso di lui. «Sono sotto l'influsso di Nôd'onn», sussurrò. «Dobbiamo disperderli, altrimenti il vantaggio della nostra offensiva fulminea svanirà.» Guardò nervosamente le finestre delle torri. «Gli stiamo offrendo un bersaglio fisso.» «Principe Mallen? Non dovevate aiutare Lotario...» «L'attacco a sud è fallito. Voi e i vostri uomini siete l'ultima speranza della Terra Nascosta.» L'avevo immaginato. Maledetta magia! Tilogorn si raddrizzò sulla sella. «Mettetevi da parte, gente! Non vogliamo farvi del male. Ci interessa soltanto il mago.»
«Non cederemo», replicò il portavoce dei cittadini. «Dovrete massacrarci se volete varcare la soglia.» Voltatosi, tornò tra la folla, che si strinse ancora di più affinché i cavalli non potessero farsi largo con facilità. Tilogorn ordinò a trecento cavalieri di avanzare in fila verso il portone e disperdere la folla. I corpi corazzati dei quadrupedi agirono come un muro, allontanando i primi abitanti di Porista, mentre un secondo reparto badava che non si schierassero più davanti all'ingresso del palazzo. A un tratto un soldato gridò, si tenne la gamba e scivolò dalla sella, su cui si lanciò prontamente uno dei cittadini. La sua mazza chiodata centrò in piena faccia il militare disorientato alla sua sinistra, prima che il guerriero alla sua destra lo liquidasse con un fendente. Mentre cadeva, i suoi vestiti si tramutarono in una armatura, e lo sconosciuto divenne un mezz'orco che morì grugnendo dopo essere stramazzato al suolo. L'incantesimo si spezzò e i cittadini si trasformarono in mostri corazzati. Chi avesse avuto ancora bisogno di una dimostrazione che Nôd'onn si era coalizzato con le creature di Tion, e dunque con il male, l'avrebbe ottenuta in quel momento. «Trucidateli!» ordinò Tilogorn senza indugio. «Trucidateli tutti! Non fidatevi più dei vostri occhi!» Gli abitanti di Porista, che fino ad allora erano parsi inermi, aggredirono subito la cavalleria con asce, mazze e spade tozze, e l'attacco inaspettato costò la vita a decine di soldati. I cavalieri si ripresero dallo spavento iniziale e tentarono di evitare il combattimento ravvicinato, perché la calca impediva loro di sferrare colpi mirati contro i nemici dalla pelle verde. Ma i mezz'orchi li inseguirono, percuotendo i fianchi e le zampe posteriori degli animali e azzannandoli come cani rabbiosi fino a indurli a scappare per la paura e il dolore. I quadrupedi terrorizzati si lanciarono verso le divisioni in attesa, aumentando la confusione. I mezz'orchi, che parevano essere dappertutto, colpivano urlando e svanivano. I cavalli giravano su se stessi, travolgendo amici e nemici, nitrendo e sbuffando, finché obbedivano al loro impulso naturale e fuggivano. Neppure i cavalieri più esperti riuscivano a fermarli; l'istinto era più forte di redini e speroni. Mallen e Tilogorn impiegarono parecchio tempo per radunare le unità e tornare sulla piazza. I fanti accorsero a dar loro manforte per sgomberare
l'accesso alla residenza. I mezz'orchi scomparvero all'improvviso; soltanto i morti e i feriti indicavano che poco prima era scoppiata una sanguinosa battaglia. Senza chiedersi dove fossero finiti i loro avversari, il re e il principe fecero scassinare il portale. Trecento cavalieri si accalcarono nell'atrio dell'edificio. Mallen e Tilogorn si divisero i reparti e cominciarono a perquisire il palazzo alla ricerca di Nôd'onn. I gradini erano così larghi e bassi che i cavalli raggiunsero senza fatica sale e saloni; gli aggressori aspettarono invano i difensori o i mezz'orchi. «Voi cercatelo quaggiù.» Il re dell'Idoslân scelse la torre più alta perché era convinto che Nôd'onn vi si fosse rintanato. «Io vado di sopra.» Smontò da cavallo con trecento soldati e si inerpicò su per gli scalini sempre più ripidi e angusti, sollevandosi la visiera per respirare meglio. Nella prima stanza, dalle ampie finestre affacciate sulla parte meridionale di Porista, vide altri guerrieri che si facevano strada verso l'edificio. Le bandiere dell'Urgon e degli altri alleati svolazzavano al vento. «Guardate, principe Mallen!» esclamò con sollievo. «Re Lotario è riuscito a espugnare la porta. Lo stregone è spacciato!» L'Ido biondo era esterrefatto. «Ho visto con i miei occhi che...» Ammutolì e seguì il monarca. Procedettero con rinnovato coraggio e una ritrovata energia fino a raggiungere un enorme portale che aprirono con la forza. La loro audacia fu premiata. Venti passi più in là, una sagoma alta e pingue, avvolta in una veste color malachite, dava loro le spalle e osservava gli avvenimenti ai piedi della torre e intorno al palazzo. Il mago non si degnò neppure di voltarsi. Tilogorn non ebbe nemmeno bisogno di parlare. I suoi uomini si disposero a ventaglio e, senza preavviso, gli arcieri scoccarono le loro frecce verso lo stregone, ma i dardi mancarono quel facile bersaglio. Più si avvicinavano alla sua schiena e più diventavano porosi; il metallo delle punte si corrodeva e le asticciole si sbriciolavano, lasciandosi dietro una scia di pulviscolo e dileguandosi nel nulla. Una finissima limatura di ferro si depositò tintinnando sulle lastre di pietra. «Benvenuto.» Nôd'onn continuò a restare immobile. «Benvenuto nel Lios Nôd'onn, re Tilogorn. Qual è il vostro desiderio?» «Il bene della Terra Nascosta», rispose il sovrano deciso, sfoderando la spada e preparandosi alla lotta. «Voi lo intralciate.»
«Avete invaso il mio regno, avete attaccato la mia città e volete uccidermi. Non è legittimo che mi preoccupi per l'incolumità del mio Paese?» «Abbiamo appreso che siete un traditore e un pluriomicida.» «Un omicida, sì. Ma per un valido motivo, perché voglio proteggere la patria, proprio come Voi. Sulla Terra Nascosta incombe un pericolo da cui solo io e la mia amica possiamo salvarla, e a questo scopo è necessario che detenga il potere su tutti i regni. Gli stregoni e i sovrani degli elfi, dei nani e degli uomini devono obbedire tutti o perire perché trionfi il bene.» Finalmente si girò, e i suoi occhi verdi e offuscati assunsero un'espressione mesta. «Alcuni sono già morti, e ne sono molto addolorato. Volete allearvi con me almeno voi?» Avanzò di un passo, tendendogli la mano. «Mai!» A un cenno di Tilogorn, una decina di soldati si avventò sul mago per catturarlo. Tuttavia le armi, i vestiti, le corazze e infine gli uomini fecero la stessa fine delle frecce. Le forze invisibili furono così fulminee da non lasciare loro nemmeno il tempo di ritrarsi dalla sfera d'azione di Nôd'onn. I loro resti polverizzati si depositarono al suolo a quattro passi da lui, vorticando nel vento autunnale. Gli altri guerrieri indietreggiarono, intimoriti. «Avete commesso il fatale errore di sottovalutare il mio potere, re Tilogorn», biascicò il mago. «Avete respinto la mano che vi avevo teso. Ora i vostri uomini pagano il prezzo della vostra arroganza.» La brezza fresca portò il fragore di un'altra battaglia, attirando l'attenzione del monarca. «Pensavate che il combattimento fosse terminato?» Nôd'onn indicò la finestra. «Guardate che cosa è accaduto all'esercito di Lotario e allo stesso re.» Senza staccare gli occhi dallo stregone, Tilogorn ordinò a un soldato di affacciarsi e riferirgli che cosa vedeva. «Combattono contro la nostra gente, sire», lo informò l'altro, sbigottito. «Scorgo con chiarezza i vessilli dell'Urgon, i soldati... aiutano i mezz'orchi!» Si zittì. «Per Palandiell! Si rialzano... Si rialzano anche se sono stati feriti a morte!» Nôd'onn rise. «Vi trovate da tempo in un'area che appartiene alla Terra Estinta. I miei poteri magici vi hanno fatto credere qualcos'altro affinché mi portaste l'esercito di cui ho assoluto bisogno...» Stava per aggiungere qualcosa, ma fu scosso da un attacco di tosse. Con il sangue che gli colava dal naso e da un angolo della bocca, cadde in
ginocchio con un gemito, e altro sangue gli uscì a fiotti dalle labbra, macchiando il pavimento immacolato. «Adesso o mai più!» urlò Tilogorn, lanciandosi in avanti. «Per la Terra Nascosta!» I militari lo seguirono. Quasi tutti quegli uomini valorosi vennero polverizzati, ma qua e là l'effetto della magia fu attenuato dalla debolezza di Nôd'onn. Trenta soldati, tra cui anche il re, riuscirono a sfondare la barriera e ad avvicinarsi al mago. Un arciere scoccò tre o quattro dardi verso il corpo congestionato, quindi i guerrieri si avventarono contro lo stregone sfinito. A un tratto anche il principe Mallen si materializzò al suo fianco. La paura di cadere vittime di un incantesimo all'ultimo momento infuse agli uomini una forza incontenibile. Le lame trapassavano e colpivano con rapidità e decisione sempre maggiori. La pietra si tinse del sangue che fuoriusciva dalle membra straziate. Il tanfo era insopportabile. Tilogorn credette di distinguere un movimento all'interno delle ferite aperte. Qualcosa vive dentro di lui, pensò, rabbrividendo per il ribrezzo. Si accanì senza pietà contro il mago. «Muori una volta per tutte!» «No!» urlò Nôd'onn. Una raffica di vento spinse indietro gli assalitori, sollevandoli in aria. «Devo proteggere la Terra Nascosta!» L'onice sul suo bastone emise una rete di lampi neri. Alcuni militari furono inceneriti dai fasci luminosi insieme con le loro armature. «Non arrendetevi!» Il re spiccò un balzo in avanti, levando la spada. «Dobbiamo fare l'impossibile», gridò senza fiato, tendendo la destra contro lo stregone. «Io...» Un fulmine sibilante perforò il cuoio e si fece strada fino al cuore. Tilogorn si accasciò con un gemito, e le sue dita lasciarono l'impugnatura della spada, che scomparve nell'intreccio di gambe e scarpe. Ho fallito... «Congratulazioni, principe Mallen», riprese Nôd'onn, beffardo. «Siete appena diventato re, il nuovo sovrano dell'Idoslân.» Tese di nuovo la mano. «Vi pongo una domanda: volete seguire me oppure preferite schierarvi con Tilogorn e perdere il titolo con la stessa velocità con lui l'avete ottenuto?» L'Ido non esitò; si chinò a raccogliere la spada e sollevò il ferito. «Vi porto via di qui, questo non è il momento di sconfiggerlo», disse a Tilogorn, trascinandolo verso l'uscita. I soldati fecero loro scudo. Nôd'onn gli lanciò un'occhiata sbalordita. «Anche voi?» «Siete il male, il nemico dell'Idoslân. Come potrei stringere un patto con voi?» Sorreggendo Tilogorn, Mallen scese la scala zoppicando, ma
Nôd'onn li seguì a grandi passi. «Allora morite insieme!» sbraitò con voce stridula. «Non mi serve nessuno dei due!» Quando i primi fulmini penetrarono tra le file degli ultimi guerrieri, Mallen si sistemò Tilogorn sulla spalla e si lanciò giù per i gradini. «Non so se ce la faremo, ma non vi lascerò certo alla mercé di quell'essere», ansimò mentre correva. «Mallen, governate l'Idoslân meglio di quanto abbiano fatto i vostri antenati», bisbigliò il moribondo. Il sangue che gli usciva dalla bocca colava sulla spalla corazzata del principe. «Ascoltate, riunite i rinforzi a distanza di sicurezza da Porista, salvate i feriti e bruciate i cadaveri, altrimenti vi scontrerete con una massa di semimorti che niente e nessuno potrà sbaragliare. Non dovrete mai fornire a Nôd'onn un esercito imbattibile!» «Vivrete e mi aiuterete ad attuare la vendetta. Avete più esperienza di me, Tilogorn», ribatté il principe, spossato. Le gambe gli si piegavano sotto il peso del monarca. «Fate uno sforzo, signore! Volete forse cedere a un Ido il trono del vostro Paese?» chiese, cercando di fomentare Tira del re per tenerlo in vita. «Promettetemelo! Siate più saggio di vostro nonno! Non frazionate il regno!» «Ve lo prometto.» «Bruciate i morti», ripeté Tilogorn con un filo di voce. «Salvate la nostra patria. Che Palandiell sia con...» Il suo corpo si afflosciò. No! Non ho mai voluto ottenere il trono in questo modo. Giunto ai piedi della torre, Mallen adagiò delicatamente il cadavere per terra. Manterrò la promessa, Tilogorn! Dopo avergli tolto la spada, il bracciale e l'anello con il sigillo, scappò. Lui e i pochi soldati rimasti si aprirono a fatica un varco tra l'orda di semimorti. Durante la ritirata diedero fuoco a Porista, appiccando un incendio che nessuna magia al mondo avrebbe potuto spegnere. Neppure la pioggia evocata da Nôd'onn impedì alle fiamme di divorare la città, compresi il palazzo e i muri di fondazione. In quell'inferno bruciarono anche re Tilogorn e re Lotario.
XIII Terra Nascosta, da qualche parte nelle viscere della terra, 6234° ciclo solare, tardo autunno Frattanto i cinque nani calcolarono approssimativamente la distanza che li separava dalla loro meta. Non avevano notato subito che la roccia recava un segno ogni venticinque miglia. In breve coprirono ben duecento miglia. Quando rallentarono davanti alla rampa successiva e si arrestarono in un'ampia sala, decisero di riposarsi lì per un paio d'ore. Non avevano dovuto affrontare una marcia faticosa, ma le curve, le salite, le discese e la posizione scomoda avevano messo a dura prova i loro muscoli, e anche lo sferragliare monotono del vagoncino li aveva sfibrati. Boïndil si arrampicò sul bordo del veicolo per scrutare il pavimento ricoperto di sudiciume, alla ricerca di orme. «Nessuno viene qui da un bel pezzo», annunciò, saltando a terra in una nuvola di polvere. «Oppure si sono tutti decomposti.» «Anche i binari davanti a noi sono sporchi. Gandogar deve aver preso un'altra strada», dedusse suo fratello. Tungdil spiegò lo schema dei tunnel che aveva preparato durante la loro ultima sosta. «Sarebbe possibile», osservò. «Speriamo che il soffitto gli crolli addosso», borbottò il Rabbioso, raccogliendo qualche pezzo di legno per accendere un fuoco. Appena le sue dita sfioravano i resti delle travi, tuttavia, quelli si sbriciolavano in segatura e minuscoli frammenti. I viaggiatori dovettero pertanto rinunciare alle fette di fungo arrostite con il formaggio fuso. Mangiarono in silenzio, ciascuno assorto nei suoi pensieri. Bavragor bevve in abbondanza e intonò le sue canzoni senza curarsi delle proteste. La sua voce tonante riecheggiò nel locale, propagandosi nei cunicoli. «Insomma, vuoi tacere una buona volta? Altrimenti tutti gli esseri viventi del sottosuolo sapranno che qui ci sono dei nani», si lamentò Goïmgar. «Con il baccano che ha fatto lungo il tragitto, ormai se ne saranno accorti da un bel po'», sghignazzò Boëndal. «Il nostro piccolo Barbalustra ha ancora paura, eh?!» lo punzecchiò Boïndil, posandosi le scuri in grembo e affilandole con una mola. «Non preoccuparti, ci siamo io e mio fratello con te.» Fece scorrere il pollice sulla lama. «Non beve il sangue dei mezz'orchi da parecchio tempo. È
impaziente quanto me.» «Credi che quaggiù ce ne siano?» domandò Goïmgar, intimorito. «In queste gallerie potrebbe esserci qualsiasi cosa», replicò l'altro con una scintilla di follia negli occhi. Boëndal e Tungdil capirono subito che voleva burlarsi del levigatore di diamanti per spaventarlo ancora di più. «Sono rimaste inutilizzate per centinaia di cicli. Magari ci imbatteremo in bestie che si sono messe a loro agio qui sotto.» Batté tra loro i lati piatti delle scuri, che tintinnarono forte. «Oh, dovremo dichiarare loro guerra e buttarle fuori.» «Basta, prode guerriero», lo richiamò Tungdil. Ma Boïndil scoppiò in una fragorosa risata; quei discorsi avevano risvegliato il suo temperamento bellicoso. «Venite, orchi, troll, mezz'orchi e tutte le ributtanti creature di Tion! I figli del Fabbro vi aspettano per sterminarvi!» gridò per soverchiare il canto dello scalpellino. «Venite, così vi ammazzo!» «Sssh, per favore, stai zitto!» lo supplicò Goïmgar, strisciando all'indietro finché sentì la parete rassicurante contro la schiena. «Non sfidarli!» «Ho sentito parlare di esseri che Tion ha creato appositamente per essere nemici dei nani, proprio come gli albi sono gli acerrimi nemici degli elfi», si immischiò Bavrogar, lubrificandosi la gola con un'altra sorsata dalla borraccia misteriosa. «E io ho sentito parlare di esseri che sono morti tra mille tormenti dopo aver udito il tuo canto», sogghignò Boëndal. «Se i mezz'orchi vengono a farci visita, chiudi subito il becco. Altrimenti li metterai in fuga», rincarò Boïndil. Dopo avergli rivolto un gesto volgare, Bavragor intonò una nuova melodia, ma Tungdil gli ordinò di fare silenzio. «Dobbiamo sentire se qualcuno ci si avvicina di soppiatto», spiegò, ottenendo l'approvazione sia dei due gemelli, sia di Goïmgar. «Come vuoi.» Bavragor prese a canticchiare a bocca chiusa, preparandosi un giaciglio e cominciando ben presto a russare quasi più forte di quanto avesse cantato. Anche i gemelli si sdraiarono, mentre Goïmgar non si mosse più dal suo posto. Tungdil dovette allungargli la coperta, perché aveva intenzione di dormire seduto. «So che cosa hai tentato di fare prima», gli bisbigliò dopo qualche istante, quando fu sicuro che gli altri tre si erano addormentati. «Non capisco...»
«Prima, nell'altra sala», gli rammentò Tungdil. «Volevi danneggiare la pianta perché non servisse più a nulla. Come mai?» Il nano mingherlino lo fulminò con un'occhiata caparbia. «Volevo togliere la polvere.» «Con il pugnale?» Tungdil lo scrutò in volto, cercando il suo sguardo. «Vorrei convincerti che non sono tuo nemico.» «Mio nemico? No, non sei mio nemico. Non sei niente, nemmeno un Quarto», ribatté l'altro, scorbutico. «Vraccas saprà anche da dove vieni, ma di sicuro non appartieni alla nostra stirpe. Uno sconosciuto vuole impossessarsi del trono che non gli spetta. Ma non ci riuscirai. Anche se il mio re mi ha ordinato di obbedire a tutti i tuoi ordini, troverò il modo di impedire la tua ascesa e di aiutare Gandogar a ottenere quanto gli spetta di diritto.» «È questa la ragione per cui non volevi venire?» «Forse. Ma detesto anche viaggiare, combattere e vivere esperienze che non mi vanno. L'idea di andare dai Secondi non mi è piaciuta sin dall'inizio. E adesso metto a repentaglio la mia vita per un impostore!» «Non mi importa del titolo di imperatore, Goïmgar», asserì Tungdil, conciliante. «A essere sincero, mi è del tutto indifferente.» L'altro lo guardò stupito. «Allora qual è il motivo della gara?» «Voglio che fabbrichiamo la Lama di Fuoco per contrastare e sconfiggere Nôd'onn», spiegò Tungdil in tono incalzante. «Se le cose si metteranno male per la Terra Nascosta, noi nani saremo gli unici in grado di fermare il mago impazzito. È questo che mi interessa, non il trono.» «Al tuo posto, farei marmi falsi pur di raggiungere il mio obiettivo. Come faccio a sapere che dici la verità? E che cosa succederà se torneremo per primi ai Monti Blu? Diventerai imperatore anche se affermi di non volerlo? È per questo che abbiamo tanta fretta?» Tungdil capì che quella sera non sarebbe riuscito a convincerlo della sua sincerità; il levigatore era troppo diffidente. Inoltre era rimasto colpito dall'allusione alle sue origini, ancora avvolte nel mistero. Naturalmente doveva fingere e salvare le apparenze a tutti i costi, ma in cuor suo si sentiva incerto, solo. Soltanto il ricordo della triste sorte toccata a Lot-Ionan e alla sua cara amica Frala gli dava la forza di portare avanti la messinscena per condurre il gruppo nel regno perduto dei Quinti. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per sottrarre il potere e la vita al mago traditore. «Lasciamo perdere», tagliò corto, turbato. «Riposati, io monto la
guardia.» Tungdil si avvolse la coperta intorno alle spalle per proteggersi dal freddo della galleria. In quel momento risuonò un tonfo simile a una martellata contro la roccia. Goïmgar, che si stava mettendo comodo, si irrigidì. «Orchi?» sussurrò, impaurito. «Oppure gli spiriti dei nani che sono morti durante la costruzione dei tunnel?» Potrebbe trattarsi di qualsiasi cosa. Tungdil non gli rispose, ma afferrò l'ascia e tese le orecchie nel buio. Il suono non si ripeté. «Una pietra», disse piano, rilassandosi. «Una pietra sarà caduta dal soffitto e avrà centrato un altro masso. Non c'è ragione di preoccuparsi.» «Non dovremmo svegliare i gemelli? Hanno certamente più esperienza di te.» «No. Non è niente», ribadì Tungdil. «Dormi e dimentica il rumore.» Dopo essersi tirato la coperta fino alla barba, il levigatore si posò lo scudo davanti al busto, e Tungdil lo udì sfoderare lo spadino. Solo allora Goïmgar chiuse le palpebre. Che cosa sarà stato? Tungdil si alzò piano, vagando qua e là per cogliere passi o altri suoni nei cunicoli. Niente. Le gallerie erano immerse nel silenzio. Aveva tuttavia un brutto presentimento. Non è impossibile che altre creature si considerino padrone dei tunnel dopo tutto questo tempo senza nani. Forse le frasi provocatorie di Boïndil erano state più efficaci di quanto avessero voluto. *
*
*
Quando il quintetto si apprestò a proseguire, Tungdil raccontò agli altri del tonfo che lui e Goïmgar avevano sentito. Il Rabbioso si rallegrò per le difficoltà imminenti, ma si infuriò perché non l'avevano avvertito, perciò fece l'offeso e non rivolse loro la parola per un bel po'. Il vagoncino filava lungo il tracciato, ora veloce, ora lento, ora in salita, ora in discesa. In due occasioni lo slancio non bastò per portarli fino alla pendenza successiva, e i cinque passeggeri dovettero spingere il carrello alla bell'e meglio. Naturalmente Bavragor ne approfittò per intonare una melodia che avrebbe dovuto incitarli durante la sfacchinata, e quando, alla fine, scelse una canzone d'amore, Boïndil andò in bestia. Lo provoca di proposito. Tungdil, inoltre, aveva l'impressione che il robusto Guercio non impiegasse tutta la sua forza nel lavoro, per fare in modo che gran parte della fatica toccasse al Rabbioso. Durante una pausa, lo prese in disparte e lo interrogò. «Certo che lo faccio apposta», ammise l'altro con schiettezza. «Lo farò soffrire per tutto il viaggio.» «Così non va», affermò Tungdil in tono di rimprovero. Bavragor fece spallucce con aria indifferente. «Il motivo di tutto questo è tua sorella?» Tungdil guardò i due nani: Boëndal allungava la borraccia al fratello, sudato e sfinito. «Sì», rispose lo scalpellino, strascicando le parole e stappando la sua fiaschetta, che sprigionò subito un intenso odore di acquavite. Pugnomartello bevve un sorso e si asciugò le gocce dalla barba nera. «Sì», mormorò ancora con espressione assente, abbassando lo sguardo. «Che cosa è successo tra lei e Boïndil?» indagò Tungdil con cautela. Bavragor alzò la testa. Le sue mascelle si contrassero e un'unica lacrima gli filtrò da sotto la benda. Non riuscendo a parlare, si accostò di nuovo la borraccia alle labbra. «Vuoi morire alcolizzato per lei?» Bavragor si fermò. «No. Bevo per dimenticare quanto ero bravo un tempo», rispose con mestizia. «Ma non ci riesco. Le mie opere sono in ogni angolo del Secondo Regno, mi guardano e dileggiano le mie mani ormai inette.» Si appoggiò alla parete di roccia, osservando la sala. «Sai perché mi sono unito a questa spedizione?» chiese all'improvviso, e Tungdil scrollò il capo. «Per non tornare», spiegò lo scalpellino con voce roca e con la gravità dell'ubriaco. «Non tollero più gli sguardi
compassionevoli dei nani. Vorrei essere ricordato come Bavragor Pugnomartello, l'insuperabile maestro della pietra che ha fabbricato la Lama di Fuoco e ha dato la vita per i nani... non come il beone Pugnomartello, le cui dita tremano tanto intorno allo scalpello da incidere le rocce a casaccio.» Guardò Tungdil, abbozzando un sorriso. «Darò il mio contributo per proteggere la Terra Nascosta e il nostro popolo, ma resterò nel regno dei Quinti.» A suggello del suo discorso, tracannò un'altra sorsata di acquavite. Le sue parole avevano turbato Tungdil. Si era fatto un'idea molto diversa di lui, considerandolo un nano chiassoso, talvolta rozzo, ma bonario, un tipo che non era facile far uscire dagli schemi. «No, devi rientrare con noi», ribatté, giudicando insulso quell'incoraggiamento dopo una confessione così sincera. «Abbiamo bisogno dei tuoi pugni poderosi contro le truppe di Nôd'onn!» Bavragor gli posò una mano sull'avambraccio. «Ti servono elementi come i gemelli, che sappiano combattere e non conoscano l'incertezza.» Lasciò la presa. «Stai tranquillo. Avrò abbastanza autocontrollo per creare gli uncini di granito più belli e resistenti che il regno dei nani abbia mai visto. E ora lasciami solo con la mia borraccia. Ti racconterò un'altra volta che cosa è capitato a mia sorella.» Alzatosi, Tungdil si diresse verso i guerrieri, intenti a gustare prosciutto e formaggio. Che tristezza! Boëndal aveva assistito alla conversazione da lontano senza capire che cosa si dicevano, ma non domandò nulla per non attirare l'attenzione di suo fratello. Porse a Tungdil un pezzo di formaggio di capra aromatico. «Se il tracciato non ci pianta in asso, saremo tra i Primi già dopodomani, Sapientone», annunciò. «Allora Gandogar dovrebbe essere già arrivato», asserì Tungdil, di malumore. «Sempre che non si sia smarrito», rise il Rabbioso, tergendosi il sudore dagli occhi. «Spero che la sua scorciatoia l'abbia condotto dritto dritto in una buca profonda.» Goïmgar gli lanciò un'occhiataccia. «Sì, guardami pure. Il sovrano di tutte le stirpi siede tra noi», disse Boïndil, irritato, rispondendo alla provocazione inespressa. «Il tuo re, invece, è un guerrafondaio, uno smidollato che...» «Basta, Boïndil», lo richiamò Tungdil. «So che preferisci combattere piuttosto che stare seduto a oziare, ma dovrai tenere a freno la tua irascibilità.» Borbottando, l'altro si mise tranquillo. «Andiamo. Dobbiamo
raggiungere la nostra prima tappa il più presto possibile», aggiunse Tungdil, alzandosi. Gli altri quattro interpretarono questa frase come un'esortazione a tornare sui duri sedili del vagoncino. Regnerà mai la pace in questo gruppo? si chiese Tungdil, preoccupato. «Chissà come vivono quei nani», disse Boëndal a mezza voce, apprestandosi a spingere il carrello. «Si racconta che siano i migliori fabbri della nostra gente. Li pregherò di forgiarmi una nuova arma che sia più efficace della mia azza.» «Oh, questa sì che è una buona idea, fratello!» esclamò il Rabbioso. «Non che le mie scuri siano disprezzabili, ma se il clan dei Primi offre qualcosa di meglio, ne approfitterò.» Lentamente si rimisero in cammino. Quando la discesa si avvicinò, Boëndal saltò sulla panca, e il viaggio proseguì.
Terra Nascosta, regno del Secondo, Beroïn, 6234° ciclo solare, autunno «Ho accettato il tuo invito, Gundrabur, ma non credere di farmi cambiare idea», dichiarò Bislipur, rialzandosi dopo essersi inginocchiato davanti all'imperatore. Il tono della sua voce, che tradiva caparbietà e disapprovazione, fece capire al sovrano di tutte le stirpi e al suo consigliere che si sarebbero potuti risparmiare la conversazione privata nel salone deserto. Ma forse Vraccas avrebbe operato un miracolo e all'improvviso gli avrebbe conficcato nel cranio un poco di assennatezza con il suo martello. Gundrabur indicò la poltrona su cui il nano nerboruto poteva accomodarsi. Peggiora a vista d'occhio. Gli tremano le dita, non riesce più a tenere diritto il braccio, notò Bislipur con soddisfazione. La sua età è dalla mia parte. «Scegliamo la strada che avremmo dovuto imboccare sin dall'inizio anziché tramare intrighi», esordì Balendilín, sedendo accanto al suo signore. «Non è nostra abitudine risolvere le divergenze di opinioni come coboldi disonesti, vero, Bislipur?» «Intrighi è senza dubbio la parola sbagliata. Io mi cerco degli alleati per cogliere un'occasione che si presenterà una sola volta al nostro popolo», obiettò. «Io e l'imperatore ci domandiamo quale sia la tua vera motivazione», confessò Balendilín con franchezza. «Non capiamo perché vuoi coinvolgere i figli del Fabbro in una guerra contro gli elfi quando incombe una battaglia molto più importante.» Bislipur assunse un'espressione annoiata; ormai non si infuriava nemmeno più. «Imperatore, congedami. Non comprendo il vostro desiderio come voi non comprendete il mio, dunque questa conversazione è inutile. È soltanto una perdita di tempo.» «Tempo che ti serve per fare cosa?» interloquì Balendilín. «Per riflettere», rispose Bislipur, burbero. Si alzò senza aspettare il permesso e si avviò zoppicando verso la porta. «Vuoi riflettere?» chiese Gundrabur. «Bene, allora rifletti su questo: nessuno della tua delegazione conosce la tua famiglia, Bislipur.» Pur paralizzandosi, il nano non si voltò. «Che cosa vuoi insinuare, imperatore?» «Non voglio insinuare alcunché, mi limito solo a richiamare la tua
attenzione su questo dato di fatto», rispose Gundrabur. Balendilín venne in aiuto al suo debole signore. «Dubiti delle origini di Tungdil, d'accordo. Un antico proverbio dice tuttavia: "Chi getta fuoco sugli altri, dovrebbe essere il primo ad accertarsi di non temere il calore".» Bislipur tornò al suo posto, i pugni serrati. «Mi sembra che voi due siate più abili dei coboldi a tramare intrighi», sbraitò. «Che cosa state macchinando?» «Niente. Ma daremo voce ai nostri dubbi rivelando che le tue origini sono discutibili quanto quelle del nostro successore favorito», rispose il consigliere, serio. «E che il testo sulla responsabilità degli elfi nella distruzione dei Quinti in realtà è un falso.» «È una calunnia!» Le mani di Bislipur colpirono il tavolo con tanta veemenza che la pietra scricchiolò. «Guardati. Sei più alto degli altri Quarti, nessuno ti ha mai visto levigare una gemma o fabbricare un monile, e i mezz'orchi temono la tua forza e la tua abilità bellica», ribatté Balendilín con freddezza. «L'ho saputo chiedendo un poco in giro. I tuoi nemici potrebbero supporre che appartieni alla stirpe di Lorimbur.» «Come osi sbattermi in faccia una simile offesa?! Giuro sulla mia barba che, se non fossi storpio, ti sfiderei subito a duello per difendere il mio onore!» Balendilín esultò tra sé e sé. L'ho colpito davvero con le mie illazioni! «Ti proponiamo uno scambio. Tu ti comporti bene finché uno dei due gruppi torna dai Monti Grigi e annunci che la colpa degli elfi nell'annientamento dei Quinti non è stata dimostrata e che quel documento è un falso. Noi ti promettiamo che non diffonderemo la voce sulle tue dubbie origini.» «Lascia che sia l'esito della competizione, e nient'altro, a decidere chi sarà il prossimo imperatore», lo pregò il canuto Gundrabur. Bislipur accettò digrignando i denti. «Dovremmo brindare al nostro armistizio», affermò Balendilín. Bislipur si girò bruscamente per andarsene. «Bevete, se ne avete voglia. Io ho ancora molte cose da fare», si accomiatò, sforzandosi di sorridere. «Non dovete preoccuparvi. Manterrò la parola e per il momento sospenderò i miei colloqui, ma devo chiedere l'autorizzazione per indire una riunione dei nostri clan.» Uscì senza porgere i suoi omaggi al sovrano di tutti i nani. Vedrete... Non me ne importa un fico secco della mia promessa. Dovrò solo essere più prudente.
Allontanandosi, scorse un nano che portava una brocca e tre boccali. La birra per l'imperatore? Non posso lasciarmi sfuggire questa opportunità. Quando si incrociarono, incespicò e urtò il servitore, che perse l'equilibrio e cadde. Bislipur ebbe la presenza di spirito necessaria per afferrare il grosso recipiente e due bicchieri, mentre il terzo si fracassò sulle lastre di marmo. «Perdonami, sono scivolato sul pavimento liscio. Talvolta maledico la mia gamba zoppa», si scusò. «La birra e due boccali sono salvi.» L'altro impiegò qualche istante per riprendersi dallo stordimento e rialzarsi. Guardò i vetri rotti. «Quello era il tuo bicchiere. Vado subito a prenderne un...» «Non ha importanza, tanto non avevo voglia di bere. Limitati a raccogliere i cocci», rifiutò Bislipur, e il servitore si concentrò sui frammenti, che raccolse nel suo grembiule. «Puoi restituirmi la brocca e i boccali.» Bislipur agitò la caraffa, osservando la schiuma chiara e compatta che galleggiava sopra la birra scura senza mescolarsi al resto del liquido. «È un bel contrasto», notò, meditabondo. «Il bianco sta sopra il nero.» Porse gli oggetti al suo interlocutore. «Speriamo che accada anche nella Terra Nascosta e che il bene trionfi sul male. Ora vai. Il tuo signore ha sete.» Il nano si avviò mentre Bislipur, canticchiando, si recava a colloquio con i clan della sua stirpe.
Terra Nascosta, da qualche parte nelle viscere della terra, 6234° ciclo solare, tardo autunno L'ultima pendenza aveva regalato loro un'accelerazione vertiginosa, e ora filavano come schegge lungo le rotaie, finché Tungdil tirò per la prima volta la leva del freno. Se acquisteremo ancora velocità, ci capovolgeremo. Alcune scintille si sollevarono dietro il veicolo, e il cigolio riecheggiò acuto, mettendo a dura prova i loro timpani. «È peggio del canto di Bavragor», commentò Boïndil ad alta voce per soverchiare il rumore del vento. Lo scalpellino aggravò subito la tortura intonando una melodia. Il guerriero alzò gli occhi al cielo. Schizzando fuori dal tunnel, attraversarono una grotta naturale e sfrecciarono su un gigantesco ponte scolpito nella pietra, sotto il quale scorreva un fiume gigantesco. Lo scroscio e il rombo superavano persino lo stridio dei freni. Passando tra gli spruzzi, imboccarono il cunicolo successivo. «Avete visto?» chiese Tungdil, colpito. «Purtroppo sì», sussurrò Goïmgar, terrorizzato. «Saremmo potuti precipitare e annegare.» Ma Tungdil era addirittura entusiasta dello spettacolo. «Bavragor, hai mai visto una simile costruzione? Come hanno fatto i nostri antenati a erigerla?» Pugnomartello avrebbe preferito tornare indietro per esaminare meglio la struttura. «Possono averla creata solo i clan dei Secondi», rispose con orgoglio. «Nessun'altra stirpe ne sarebbe stata capace.» Nessuno obiettò. «Ci bevo sopra.» A un tratto il carrello iniziò a traballare e sobbalzare. «Tienilo fermo, prima che io versi qualcosa o che il levigatore stia male e capiti un'altra catastrofe», urlò. Tungdil non era altrettanto in vena di scherzi. «Ci sono dei sassolini sui binari», annunciò. «Potremmo...» Dopo un colpo vigoroso, il veicolo deragliò verso destra e si mise in diagonale, minacciando di ribaltarsi. Lingue di fuoco arancione si levarono fino al soffitto. I nani, tuttavia, non ebbero più il tempo di guardare, perché il vagoncino si rovesciò, rotolò più volte e infine cozzò contro la massiccia parete di roccia, sbucata quasi dal nulla. Tungdil si librò nell'aria e si raggomitolò, sperando di riportare poche
lesioni. Cadde con violenza sul pavimento, e la pietra gli escoriò la pelle in un punto del viso, quindi il suo elmo rimbalzò contro qualcosa di massiccio. Prima o poi doveva succedere! Stordito, si rizzò a sedere, cercando con lo sguardo i suoi accompagnatori. I gemelli erano già in piedi, con i pantaloni di cuoio strappati e tagliati qua e là come i suoi, ma non sembravano feriti. Bavragor si alzò con un gemito, tenendosi il fianco. Solo Goïmgar giaceva immobile accanto al carrello ammaccato, il petto che si sollevava e si abbassava debolmente. «Maledizione!» imprecò Tungdil ad alta voce, barcollando verso di lui per controllarne le condizioni. Dopo un esame accurato, il Rabbioso e Boëndal stabilirono, tra il sollievo generale, che all'apparenza Goïmgar non aveva nulla di rotto. «Siamo illesi anche noi», affermò Bavragor, facendo inghiottire al levigatore un sorso dalla sua borraccia. «Mi auguro che sappia apprezzare il mio sacrificio.» Il nano mingherlino si risvegliò sputando, perché non era certo abituato a una grappa così forte. Urlando, si tenne la spalla destra con il viso stravolto dal terrore. «Mi brucia! È fratturata!» Boëndal fece per esaminarla ancora, ma Goïmgar lo fermò. «No! Peggioreresti solo le cose.» «Ci penso io a peggiorarle», ringhiò Boïndil in tono minaccioso. «Lascia che mio fratello ti guardi la ferita!» «Goïmgar, per favore», lo supplicò Tungdil. «È un guerriero, se ne intende di queste cose.» «Di ferite da taglio, forse, ma non di fratture», si rifiutò Goïmgar. Si alzò con un gemito, la destra che gli pendeva inerte lungo il corpo. «Mi sono rotto la spalla», piagnucolò. «Non riesco più a muoverla.» «Prendi! Bevi per lenire il dolore.» Bavragor gli gettò la borraccia. Goïmgar la agguantò di riflesso. Gli altri quattro lo guardarono con riprovazione. «Volevi forse rifilarci una piccola commedia, pappamolle?» gracchiò il Rabbioso, adirato. «Mi sono sbagliato», si affrettò ad assicurargli Goïmgar. «Era solo... slogata. Il movimento ha fatto tornare l'articolazione al suo posto. Avete sentito anche voi uno schiocco?» Provò a muovere il braccio, simulando qualche lieve disturbo. «Mi duole ancora un poco, ma va meglio.» Restituì l'acquavite a Bavragor. «Bevi il tuo intruglio da solo. Ha un sapore
disgustoso.» «Se cerchi di imbrogliarci ancora, recita meglio», gli consigliò Boïndil, furibondo, «oppure prenderai una tale dose di legnate che il tuo sederino brucerà come una forgia.» Ho sbagliato nella scelta. Mi sono messo una palla al piede. Tungdil era in collera. Le pacate reazioni di Gandogar avrebbero dovuto dissuaderlo dall'arruolare Barbalustra, che andava trasformandosi in un problema sempre più grosso. Non gli crederò più. Vi erano tuttavia cose più importanti da fare. Si guardò intorno e studiò il tunnel, che terminava in quel punto, interrotto da una frana. I materiali necessari per fabbricare la Lama di Fuoco erano sparpagliati dappertutto. Chiamò Bavragor. «È un crollo di vecchia data o recente?» Il Guercio scrutò i massi, vi si arrampicò sopra e ne tastò i bordi con le dita prima di tornare dagli altri. «È recente. Si capisce dai punti di rottura luccicanti. La polvere sulle pietre viene dal soffitto, non si è accumulata con il passare del tempo.» Vacillò accanto alla fiancata malconcia del vagoncino. «Se il carrello non fosse andato a sbattere, ci saremmo schiantati direttamente contro il mucchio di sassi.» «Qualcuno ha fatto in modo che la galleria crollasse?» Bavragor si pulì la sporcizia dall'occhio. «Non posso dirlo con certezza, ma è possibile.» Posò una mano sulla parete. «Il tunnel doveva cedere proprio ora, dopo tutti questi cicli? Non ci credo.» «È stato sicuramente il tuo canto», dichiarò Goïmgar, prepotente. «Il tuo canto e le urla del pazzo.» «Oppure sei stato tu ad ammorbidire le pietre con i tuoi piagnucolii», ribatté lo scalpellino. «Oppure si sono sbellicate dalle risa a causa della tua statura», interloquì Boïndil, che non voleva essere da meno. Prima che Goïmgar potesse replicare, Tungdil ordinò loro di raccogliere i tesori e di nasconderli dietro i massi. «Saliremo in superficie», decise. «Poco lontano da qui vi è un'uscita. Lasceremo il tunnel, cercheremo una fattoria o una città e compreremo un pony.» Spiegò la mappa. «La prossima entrata dovrebbe essere qui. Dista ottanta miglia.» «Speriamo che ci sia un veicolo ad aspettarci, Sapientone», intervenne Boëndal. «E se così non fosse?» «Compreremo altri pony e cavalcheremo per le restanti duecento miglia.» Tungdil arrotolò la carta e aiutò gli altri ad ammucchiare i pesanti lingotti di metallo pregiato. Portò con sé soltanto il pezzo di legno.
Lo sguardo gli cadde sui quattro compagni di viaggio. I loro continui battibecchi non accennano a diminuire. Devo fare in modo che la coesione cresca, altrimenti il gruppo si sfascerà. Vraccas, dammi la forza! Dopo una breve preghiera di ringraziamento a Vraccas, che nonostante tutto li aveva tenuti in vita, si avviarono lungo il cunicolo finché raggiunsero una scala ripida e angusta che saliva a zigzag. «Dove siamo?» volle sapere Goïmgar prima di seguire Bavragor. «Secondo la mappa, nell'Omeira, il Paese della Guardiana», rispose Tungdil. «O meglio, in ciò in cui Nôd'onn l'ha trasformato.» «Una delle terre del mago», commentò Boïndil, seccato, le dita posate sui manici delle scuri. «Speriamo che ci mandi un paio di Musi di porco da fare a pezzettini. Ma farei volentieri a meno della sua maledetta stregoneria.» Gli altri quattro manifestarono il loro assenso rimanendo in silenzio. *
*
*
I cinque nani tennero pronte le armi quando, dopo una marcia lunga e faticosa, aprirono una porta decorata di rune che avrebbe dovuto condurli all'aperto. Giunsero in una grotta alta quattro passi e larga sette. Li accolse lo scroscio di una cascata. La massa d'acqua sfiorava l'apertura della caverna e si riversava rombando nell'abisso. Gli spruzzi ripulirono gli elmi, le cotte e i vestiti dalla polvere. Una luce cupa filtrava dall'alto, disegnando macchie chiare sul pavimento bagnato. «Non lo sopporto», sbraitò Boïndil per soverchiare il fragore dell'acqua. «Quando voglio lavarmi, lo faccio da solo.» «Il che non capita molto spesso», lo schernì suo fratello. Individuarono uno stretto sentiero che si snodava dietro la cortina d'acqua e sbucava su un pianoro di roccia. Un ottimo punto di osservazione, pensò Tungdil. «Andate», ordinò agli altri. «Vediamo dove siamo finiti.» Avanzarono con prudenza per non scivolare sulla pietra sdrucciolevole. Attraversarono la massa d'acqua uno dopo l'altro, sottoponendosi a un lavaggio involontario. Ci mancò poco che Goïmgar venisse travolto. Doveva essere più o meno mezzogiorno. Come per magia, il sole autunnale produceva un arcobaleno sui veli d'acqua e l'aria era fresca e umida. Raggiunsero l'altopiano sassoso che scendeva a picco cinquanta passi davanti a loro. Le cime scure dei pini silvestri e degli abeti bianchi e rossi si protendevano nella loro direzione come giavellotti. Le nubi grigie che andavano addensandosi minacciavano un acquazzone. I nani scorsero dei luccichii a occidente, in lontananza. Da quella parte si stendeva un grande lago, mentre a nord si profilavano le mura e le case di una città degli uomini che confinava quasi con il bosco e che, per il resto, era circondata da campi ormai mietuti. Ci basterà una rotazione solare per arrivarci. «Vraccas ci ha assistiti», affermò Tungdil, soddisfatto. «Presto avremo il nostro pony.» «Una città piena di Lunghi», sbottò Goïmgar, meno entusiasta. «Chissà se riescono a sopportarci.» «Smettila di frignare, altrimenti la roccia ci si sgretola sotto i piedi», lo rimbrottò il Rabbioso. «I Lunghi sono lunghi e basta. Ce ne libereremo in fretta.» «Lasciate che sia io a parlare», raccomandò Tungdil, in preda a brutti presentimenti. «Conosco gli uomini meglio di tutti voi.» Gli altri annuirono. Andarono tutti insieme alla ricerca di un punto
adatto alla discesa e trovarono un angusto sentiero che si insinuava serpeggiando nella fitta foresta. Gli ampi rami delle conifere attenuavano i raggi del sole. Fra i tronchi aleggiava una lieve bruma autunnale che, all'altezza delle cosce, era addirittura impenetrabile e assomigliava ad acqua lattiginosa. La penombra aiutò i nani ad abituarsi alla luce. «Allora questi sono i boschi in cui Maira ha offerto agli unicorni un rifugio per sfuggire alla persecuzione», disse Tungdil, felice di poter vedere con i suoi occhi quanto aveva letto nei libri. «Se saremo fortunati, magari li incontreremo.» «E che cosa me ne faccio?» domandò Boïndil, perplesso. «Sicuramente non potrò cavalcarli.» «Limitati ad ammirarli. Non ne esistono più molti da quando gli albi danno loro la caccia.» «È possibile che una foresta sia silenziosa quanto una galleria abbandonata?» interloquì Bavragor. «Potrei cantare un motivetto affinché quelle bestiacce capiscano che siamo qui e si avvicinino per farsi guardare.» «Gli unicorni sono animali timidi. Il canto...» «... il suo canto, Sapientone», lo corresse Boëndal sottovoce. «... li spaventa. Pare che si accostino soltanto alle vergini», spiegò Tungdil. «Allora chi fa da esca?» replicò Bavragor, e Tungdil non poté fare a meno di arrossire. A un tratto Boïndil incespicò in un oggetto nascosto tra la nebbia. «Che cos'è?» si domandò, usando una delle scuri per schiacciare il morbido ostacolo che continuava a rimanere invisibile. La lama si tinse di scarlatto. Chiese lo scudo a Goïmgar e se ne servì per dissipare il vapore e vedere di che cosa si trattasse. «Un cavallo?» fece Bavragor, distinguendo il corpo dal mantello candido. «Oppure... è un unicorno?» Tungdil si inginocchiò accanto al cadavere, che mostrava i morsi di una belva. La gola era dilaniata e il prezioso corno era stato strappato dal cranio con brutalità. «Era un unicorno», confermò con mestizia, accarezzando il pelo immacolato. I libri di Lot-Ionan descrivevano con ammirazione quegli esseri, definendoli puri, buoni e lontani da ogni bassezza, il che, tuttavia, non impediva al male di ucciderli. «Le orde di Nôd'onn devono essere
passate di qui.» «Vuoi dire che forse sono ancora nei paraggi e stanno in agguato tra gli alberi?» chiese Boïndil, speranzoso, al che Goïmgar retrocesse di un paio di passi dalla carcassa, ruzzolando subito a terra. Cadendo all'indietro scomparve tra la bruma, per sbucarne fuori urlando poco dopo e correre a rifugiarsi tra gli altri. Le sue mani grondavano sangue. «Laggiù ce n'è un altro», strillò inorridito. «Restituiscimi subito il mio scudo!» Il Rabbioso si avvicinò al punto in cui era inciampato il Quarto, disperdendo la caligine bianca; una leggera brezza soffiò attraverso il bosco, contribuendo a dissolvere la foschia. Uno spettacolo raccapricciante tolse loro il respiro. Una decina di unicorni e una trentina di mezz'orchi giacevano inerti. I mostri erano caduti vittime dei calci e delle corna dei quadrupedi che, a loro volta, erano segnati da profondi squarci e trafitti in più punti da lunghe frecce. I nani distinsero a malapena alcune barricate di tronchi, che erano state fatali alle creature della luce. «Hanno organizzato una battuta di caccia contro gli unicorni», dedusse Bavragor, scosso. «Quanti hai detto che ne sono rimasti?» domandò a Tungdil. «Poco più di una decina», rispose l'altro, non meno inorridito. Persino ora che erano morti, riusciva a immaginare la dignità, la gentilezza e la natura pacifica che avevano dovuto possedere prima di essere sterminati dai mostri più vili. «Tutti quelli che erano sopravvissuti nella Terra Nascosta.» «Le cose si mettono male per la nostra patria», osservò Boëndal, amareggiato. «Forza, corriamo in città, procuriamoci un pony e proseguiamo. Prima iniziamo la lotta contro Nôd'onn e più vite riusciremo a salvare.» Soffocando i propri sentimenti, scavalcarono le palizzate e procedettero attraverso la foresta. I massacri non avranno mai fine? Il dolore di Tungdil per la perdita di Lot-Ionan, di Frala e delle sue figlie si riacutizzò. Boïndil teneva le scuri a portata di mano, augurandosi come sempre che davanti alle lame gli sfrecciasse un mezz'orco su cui sfogare l'ira repressa. All'improvviso nei suoi occhi balenò una strana espressione e un ghigno gli si allargò sulla faccia. Suo fratello non gli chiese nulla, limitandosi ad afferrare l'azza. «Sento il loro odore», bisbigliò il Rabbioso, emozionato. «Bene, bene,
bene!» Di lì a poco, anche Tungdil percepì il grasso rancido delle loro armature, che non aveva nulla a che vedere con la gradevole fragranza di muschio fresco, terra umida e aghi di pino. «Muoviamoci, dobbiamo raggiungere la città.» «Sciocchezze, dobbiamo spaccare la testa a quelle bestiacce!» lo contraddisse apertamente Boïndil. La sete di battaglia, soffocata per tutto quel tempo, si era impadronita di lui, e a guidarlo era il bollore del suo sangue. «Dove siete, Maialini? Venite, il vostro macellaio vi aspetta!» urlò, rovesciando il capo ed emettendo un lungo grugnito. Da qualche parte, tra i fitti tronchi, qualcosa rispose al suo verso. Goïmgar si rannicchiò dietro lo scudo al punto da scomparire del tutto. «Taci, pazzo!» gli intimò, impaurito. «Sono...» Il tintinnio e lo sferragliare delle corazze si avvicinarono. Il Rabbioso chiuse gli occhi con aria beata. «Sono appena saltati oltre il recinto», disse, interpretando i rumori per gli altri. «Devono essere venti o più.» Le sue mani agitavano le scuri con impazienza. «Si sono accorti di noi, adesso arrivano di corsa.» Aprì gli occhi di colpo, strillando: «Accomodatevi, accomodatevi!» Boëndal seguì Tungdil dopo avergli lanciato un'occhiata di scusa. Poco dopo, l'acciaio incrociò l'acciaio, e il fragore riecheggiò forte nella foresta. Non riesco a crederci! Un giorno o l'altro la fucina della sua vita gli brucerà il senno. Tungdil era scoraggiato. «Vogliamo lasciarli combattere da soli?» domandò Bavragor, incredulo, estraendo il martello da guerra. «Sì», rispose Goïmgar, intimorito. «Sono stati loro a cominciare. Saranno loro a vedere come va a finire.» «No, gli daremo una mano, e poi via verso le mura della città», ordinò Tungdil, che stringeva l'ascia tra le dita già da tempo. I tre nani corsero in aiuto dei gemelli. Lo scalpellino si scagliò in avanti, avventandosi sul primo mezz'orco che gli capitò a tiro. I mostri, che tentavano di accerchiare i guerrieri, furono sorpresi dalla comparsa inaspettata degli altri avversari. La loro difesa risultò quindi inefficace. Ben presto una ventina di bestie giaceva a terra, trucidata, sebbene Goïmgar si fosse limitato a nascondersi dietro Bavragor e a evitare ogni tipo di scontro con i Pelleverde. Il Rabbioso aveva compiuto la maggior parte di quell'impresa cruenta, ma anche Boëndal e Pugnomartello avevano lottato con tanta sagacia che
Tungdil non era quasi entrato in azione. «Questi non ammazzeranno più nessun unicorno», rise Boïndil, tergendosi il sudore dalla fronte con il dorso della mano. «Ah, cari Maialini!» Si avvicinò a uno dei cadaveri. «Ti do anche una bella pedata. Prendila e portala a Tion quando lo vedi nell'aldilà.» «Ehi. Avete sentito? Ce ne sono altri», gridò Goïmgar, tremante, sollevando lo scudo fino a lasciare scoperti soltanto gli occhi. Il Rabbioso diede una gomitata a suo fratello. «Guarda, sembra uno scudo con due piedi», lo canzonò, voltandosi verso i nuovi aggressori. «Oggi è il mio giorno fortunato, prezioso quanto l'oro zecchino», sghignazzò. Ascoltò ancora i rumori prodotti dai mezz'orchi per calcolarne il numero approssimativo. «Uno, due, tre...», rallentò, mentre l'espressione del suo viso si faceva sempre più pensierosa. «... quattro, cinque... Uno, due...» Aprendo gli occhi, chinò la testa con determinazione. «Questa sì che sarà una sfida degna dei nani.» Si sentiva già il fracasso delle armature. «Allora, quanti sono?» volle sapere Tungdil, allarmato. Se il Rabbioso parlava di una «sfida», non potevano essere pochi. «Cinque e due», rispose l'altro, laconico. «Stanno arrivando soprattutto davanti a noi, ma anche dal fianco destro.» «Sette?» chiese Goïmgar, traendo un sospiro di sollievo e facendosi ancora più piccino dietro lo scudo. «Cinque decine e due cavalieri», specificò Boëndal. Tungdil afferrò il Rabbioso per la spalla. «Questa non è una sfida, è una pazzia. Dirigiamoci subito verso la città», decise. Il levigatore girò sui tacchi e si mise a correre. «No!» «Questa volta obbedirai! Hai avuto il tuo divertimento, Boïndil. Pensa alla nostra missione.» Il guerriero si voltò, frustrato. «D'accordo, i Maialini hanno avuto più fortuna che intelligenza», cedette. «Ma se ci raggiungono, li concio per le feste.» Il suo indice si levò verso Bavragor. «E tu tieni il tuo martello lontano dai miei avversari, Guercio. Se avrò bisogno del tuo aiuto, te lo farò sapere.» «Non ho aiutato te, bensì tuo fratello. Sarei stato felicissimo se un mezz'orco ti avesse rasato la treccia e la nuca con la sua spada», lo rimbeccò l'altro, malevolo. «Non ora! Venite!» li esortò Tungdil, cominciando a correre.
Sfrecciarono tra gli alberi, spezzando rami e ramoscelli per sfuggire all'orda che stava alle loro calcagna. Goïmgar era già scomparso fra i tronchi. Gli squilli dei corni risuonarono dietro di loro. I mostri stavano organizzando la caccia, ma i nani avevano il grande vantaggio di non impigliarsi negli arbusti, perché la statura ridotta permetteva loro di infilarsi anche negli spazi più ridotti. I cinque fuggiaschi si avvicinavano già al limitare del bosco, dove la vegetazione si diradava. Ansimando, Tungdil lanciò un'occhiata dietro di sé e distinse i contorni dei mostri con maggiore chiarezza che all'inizio della fuga. Dobbiamo sbrigarci! Dopo essere usciti dalla foresta, si lanciarono in un trotto leggero. Le mura della salvezza si ergevano a poco più di mezzo miglio di distanza, e Goïmgar aveva già percorso metà della strada. Che cosa significa tutto questo? In un primo momento Tungdil credette che i suoi occhi gli avessero giocato un brutto scherzo e l'avessero tratto in inganno. Vedendo il margine buio del bosco che avanzava a destra e a sinistra e udendo il tintinnio delle cotte e lo sferragliare delle corazze, capì. Siamo nel bel mezzo di un assedio! Un'orda di mezz'orchi era spuntata tra gli alberi proprio dietro di loro. Tungdil ne contò un migliaio, se non di più. Avanzando, formavano una linea nera che si dirigeva verso il grande centro abitato come se fosse viva; nuovi mostri sbucarono dalle altre parti, trasformando la linea in un cerchio che si chiudeva inesorabilmente. Pareva che la città e i nani non avessero via di scampo. «Correte!» incitò i suoi compagni. «Correte più svelti che potete!»
Terra Nascosta, regno incantato di Oremaira, 6234° ciclo solare, tardo autunno Goïmgar tempestò di pugni la porta chiusa che conduceva in salvo dentro la cerchia di mura della città sconosciuta. «Fatemi entrare!» strillò verso l'alto, dove distinse alcuni visi dietro i merli. «Per favore, per Vraccas il Fabbro, salvatemi dalle orde!» «Credo che dovrebbe pregare per tutti noi», ansimò Bavragor poco più indietro. Una porticina si socchiuse. Goïmgar si infilò dentro lo spiraglio e il battente fu sprangato di nuovo. Quando arrivarono gli altri quattro, restò chiuso. «Ehi! Ci siamo anche noi!» urlò Bavragor. L'ha fatto ancora, pensò Tungdil, deluso. Non posso fidarmi di Goïmgar. Nel frattempo i mezz'orchi si avvicinavano, implacabili. Alcune frecce volarono nella loro direzione, mancandoli. Boïndil si voltò verso gli aggressori, serrando le scuri tra le mani. «Nonostante tutto, ingaggerò la mia piccola battaglia», rise, sbattendo tra loro i dorsi delle armi con un sonoro tintinnio. «Fatevi sotto!» disse, schernendo le orde. «Ehilà! Noi siamo con l'altro nano!» supplicò Tungdil. «Aprite la porta! Siamo nani, stiamo dalla vostra parte!» Non accadde nulla. I mezz'orchi più veloci li assalirono all'improvviso, ricevendo una sanguinosa accoglienza da parte del Rabbioso. Le loro grida stridule allarmarono gli altri mostri, che accelerarono per fare la pelle ai nani. Boïndil e Boëndal picchiarono a destra e a manca. Il sangue verdastro delle bestie schizzava ovunque, e nessuna di esse riuscì ad avanzare fino a Tungdil e Bavragor. Il Rabbioso si immobilizzò solo quando una freccia gli si conficcò in una gamba, ma, sghignazzando, continuò a eliminare un avversario dietro l'altro. L'ingresso si aprì soltanto quando una decina di creature giacque morta lì davanti. L'accanimento con cui Boïndil si occupava dei nemici era tale che i suoi compagni dovettero agguantarlo per la collottola e trascinarlo dall'altra parte delle mura con la forza. Boëndal gli parlò con pacatezza finché la scintilla di follia scomparve dai suoi occhi.
Bavragor rivolse a Tungdil un cenno d'intesa. «Non te l'avevo detto? È pazzo, imprevedibile e pericoloso.» Tungdil tacque. Sull'altro lato erano schierati trenta uomini corazzati e armati fino ai denti, che squadrarono i nuovi arrivati con sospetto. Non si fidavano ancora del tutto. Goïmgar aspettava dietro la porta, pallido come un cencio. Il capitano si fece avanti. «Chi siete e che cosa volete, Cavernicoli?» li interrogò, brusco. Tungdil li presentò uno alla volta. «Siamo nani, e ci siamo messi in viaggio per stanare e attaccare le orde di mezz'orchi, come ci ha ordinato Vraccas», rispose, cercando di giustificare la loro comparsa. «Abbiamo appreso che il male si aggira più che mai per la Terra Nascosta, dunque abbiamo deciso di aiutare gli uomini.» «Con successo, come avete avuto modo di constatare», aggiunse il Rabbioso, allegro. «Sarei rimasto fuori per staccare ai Maialini le setole dalla pelle, ma questi qui non hanno voluto misurarsi con una forza leggermente superiore.» Boëndal gli si inginocchiò accanto per esaminare i danni provocati dalla freccia. Poiché si trattava di una ferita superficiale, si limitò a spezzare l'asticella e a estrarre il frammento rimasto dall'altra parte. Suo fratello non fece neppure una smorfia di dolore, storcendo il viso solo quando gli venne applicata una benda con qualche erba essiccata per arrestare l'emorragia. Il capitano rimase visibilmente colpito dalla perizia di Boëndal. «Allora siate i benvenuti a Mifurdania», disse. «Avete scelto un bel momento per le vostre faccende, ma è un brutto momento per la nostra città. Presto avrete parecchio da fare. Venite da me quando sarete pronti a combattere al nostro fianco.» Si voltò. Dieci dei suoi guerrieri restarono accanto alla porta e la rinforzarono con una lastra di ferro aggiuntiva, che fissarono di sbieco sul legno con l'ausilio di lunghi bulloni. Dall'altra parte, i mezz'orchi premevano per infilarsi attraverso l'angusto passaggio, ma il metallo era troppo robusto. Alla fine i mostri batterono in ritirata. «Per un pelo. Perché avete aspettato tanto prima di aprirci?» domandò Bavragor a una guardia. L'uomo guardò Goïmgar, che, pallido come un morto, non osava avventurarsi fuori del suo cantuccio. «Quello ci ha detto di sprangare la
porta», rispose con indifferenza. «Chiedilo a lui.» I soldati non si occuparono oltre dei nani, ma applicarono altri rinforzi al rivestimento di ferro affinché resistesse ai vigorosi scossoni. Una vera e propria selva di puntelli garantì una controspinta sufficiente a rintuzzare l'attacco di un ariete. «Non è vero», balbettò il nano. «Ho detto loro di sprangarla appena foste entrati.» Indietreggiò davanti alla figura minacciosa di Pugnomartello, uscendo dalla torre sulla piazza davanti alla porta, per avere la possibilità di fuggire tra i vicoli di Mifurdania. «Non ti credo!» sbraitò Bavragor. «Da quando siamo partiti, non hai tramato altro che bassezze.» Agitò i grossi pugni. «Vieni qui, che ti do una bella dose di legnate.» «E quando avrà finito lui, sarà il mio turno», si intromise il Rabbioso. «Ti raderò quella barba ridicola con le mie scuri.» Era troppo per il levigatore. Immaginando le torture cui l'avrebbero sottoposto, girò sui tacchi e si rifugiò nel dedalo delle viuzze. «Aspetta!» lo chiamò Tungdil, ma l'altro non si fermò. Prima o poi doveva succedere. Guardò Bavragor e Boïndil con aria di rimprovero. «Siete stati davvero bravissimi», li lodò con sarcasmo pungente. «Siamo circondati dai mezz'orchi, dobbiamo portare a termine un compito importantissimo, e voi spaventate Goïmgar con le vostre chiacchiere infantili, così dobbiamo anche giocare a nascondino con lui. Abbiamo ben altre preoccupazioni, vero?» Non si sforzò di reprimere l'ira. Vedessero pure che era stizzito. Gli altri due abbassarono lo sguardo, imbarazzati. «Ma ci ha traditi», si difese Bavragor. «Non l'hai neppure lasciato finire», lo rimproverò Tungdil aspro. «Hai ascoltato le parole della guardia e gli sei saltato subito addosso.» «E a quel punto se l'è data a gambe», interloquì il Rabbioso. «Per me, questo è un comportamento da colpevole.» «All'improvviso andate d'accordo! Lo cercheremo e chiariremo la faccenda. Con calma», raccomandò. Scorse una locanda lungo la strada sottostante. «Entrate là dentro», ordinò «sedetevi a un tavolo e restate lì finché io e Boëndal torniamo. Niente grane! E ricordate quanto vi ho detto riguardo agli uomini.» Bavragor si grattò la barba. «Che cosa farete intanto?» «Che cosa vuoi che facciamo? Cerchiamo Goïmgar», sibilò Tungdil. «Se vi vedesse, avrebbe paura e andrebbe subito a rintanarsi di nuovo.»
Dopo avere rivolto un cenno a Boëndal, si incamminò. Obbedienti, gli altri due si diressero verso la taverna, entrarono e si cercarono un tavolo. Essendo affamati, chiesero qualcosa da mangiare e un boccale di birra per rendere più sopportabile l'attesa. Gli uomini riuniti nel locale fissarono con curiosità i nani imbrattati del sangue secco dei mostri. Loro, però, si limitarono a guardarli con rabbia, masticando in silenzio. Boïndil vuotò il bicchiere d'un fiato e tentò di regolare i conti in sospeso. «Ascolta, quella volta, riguardo a...» Pugnomartello, tuttavia, levò la mano aperta. «No, non voglio parlarne», lo interruppe subito. «Mia sorella non avrebbe mai dovuto impegolarsi con te, ma non ha voluto seguire il mio consiglio. Non ti libererai mai della tua colpa e, comunque, non ti perdonerò. Se vuoi il mio parere, la coscienza dovrebbe rimorderti fino alla fine dei tuoi giorni.» Allungando le dita verso il boccale, tracannò la birra, quindi ruttò forte. «Più ci penso e meno ho voglia di sedere a un tavolo con te.» Alzatosi, si incamminò verso l'uscita. «Quando Tungdil torna, digli che sono andato a comprare un pony.» Boïndil serrò le labbra. L'oste gli posò davanti un altro bicchiere senza proferire parola. *
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Gli altri due si divisero per perlustrare le vie e i vicoli di Mifurdania. Dopo essersi arrampicato su un cammino di ronda delle mura, Tungdil contemplò un panorama scoraggiante. Gli edifici erano numerosissimi; i tetti si affastellavano gli uni accanto agli altri, e la distesa quasi continua di paglia e tegole si interrompeva soltanto in corrispondenza di chiese e piazze. Un nano ansioso di sfuggire alle bastonate e a una rasatura indesiderata aveva migliaia di nascondigli a disposizione. Sospirare non serviva a nulla. Occorreva trovarlo e riportarlo dagli altri. Prima di addentrarsi di nuovo nel labirinto di viuzze, Tungdil lanciò un'occhiata alle strutture difensive per controllare la posizione dei mezz'orchi, che si erano ritirati nel bosco ed erano impegnati ad accamparsi. Evidentemente intendevano accerchiare la città. Siamo in trappola? Tungdil percorse la stradina verso cui si era diretto Goïmgar e lo chiamò più volte ad alta voce finché gli abitanti lo guardarono con stupore, inducendolo a proseguire le ricerche in silenzio. La scomparsa del levigatore era il triste risultato dei dissidi all'interno del gruppo. Vraccas, aiutami a rintracciarlo! pregò, sbirciando in ogni vicoletto e in ogni minuscolo cortile senza trovare traccia del compagno. In un'ampia piazza incappò in un imbonitore che, vestito con indumenti variopinti e coperto di campanelli, stava in piedi su un alto podio e richiamava i passanti ad alta voce. «Venite, gentili spettatori, venite a vedere la verità riguardo a Nudin il Sapiente, che, in orribili circostanze, si è tramutato in Nôd'onn il Duplice, provocando la rovina della Terra Nascosta!» cianciava, infervorato. «Il teatro "Curiosum" con le sue straordinarie rappresentazioni, l'Incredibile Rodario e il magister technicus Furgas, vi condurranno in un mondo in cui tutto finisce bene!» L'uomo bevve un sorso da una bottiglietta e, afferrata una fiaccola, scagliò un getto di fuoco sopra le teste dei cittadini. «Proponiamo ai gentili spettatori un intrattenimento unico nel nostro magnifico teatro, e tutto questo per tre misere monetine!» continuò. «Oggi offriamo un prezzo speciale, stimati spettatori, perché i mezz'orchi sono appostati davanti alle mura, e chissà se domani andremo ancora in scena. Senza testa, magari?!» Il banditore fece una smorfia, qualcuno rise. «Sbrigatevi, dunque, e non indugiate oltre.» Indicò l'ingresso dell'edificio. «Il palco è pronto, gli attori aspettano! Svelti, svelti! Lasciatevi distrarre dai vostri crucci!»
In effetti, numerosi passanti superarono le ampie porte: desideravano un momento di evasione. Tungdil si arrampicò sul podio. «Perdonatemi, avete per caso visto uno come me?» «Uno come te?» rise l'uomo. «Oh, me ne ricorderei...» Alzò gli occhi al cielo, divenne strabico per un istante, quindi tornò del tutto normale. «Ah, certo! Un po' più magro? Con una barba un po' più lunga?» Il nano assentì. «Il piccoletto è corso dritto nel "Curiosum"», affermò l'altro, e Tungdil saltò giù e si mise in fila per acquistare un biglietto. Scelse un posto in una delle gallerie per avere una visuale migliore. Non capiva che cosa ci facesse Goïmgar in un teatro proprio in quel momento. Forse spera di passare inosservato tra la folla e di sottrarsi alle percosse di Bavragor e Boïndil. Entrò nella sala, la cui pianta circolare permetteva di vedere il palco e seguire la rappresentazione da tutti i lati. Il teatro era interamente in legno. Le assi e le travi scricchiolarono sotto il peso del pubblico, ma resistettero alla sollecitazione. Sudore e profumi combatterono un'accanita battaglia nelle narici di Tungdil, unendosi all'odore dei lumi a petrolio che, appesi ai sostegni, facevano un po' di luce nel locale buio e privo di finestre. Le conversazioni degli spettatori si mescolarono in un forte schiamazzo che rammentava quello delle oche. Dove si sarà cacciato? Tungdil cercò una galleria. Era un assito con sottili pareti laterali e una panca dura, così bassa che, sedendosi, il nano non riusciva a vedere l'enorme palcoscenico, perciò si sistemò sullo schienale e appoggiò i piedi sul cuscino. I suoi occhi cercarono il volto familiare del compagno scomparso, ma non lo distinsero in mezzo alla calca. Dove sei, Goïmgar? Gli restava tuttavia ancora una speranza. Non vedeva una parte della sala, perché le lunghe tende vermiglie che pendevano dal soffitto tutt'intorno al palcoscenico gli toglievano la visuale, finché il sipario si alzò e lo spettacolo ebbe inizio. Tungdil attese pazientemente. Le lampade si spensero di colpo, il cicaleccio del pubblico si trasformò in un brusio e si smorzò del tutto, la tensione crebbe. Un'orchestra nascosta esordì con note sommesse, preparando gli spettatori a quanto stava per accadere. Gli argani assolsero la loro funzione cigolando e i drappi si sollevarono mostrando il palco, dove il fondale
imitava un desolato paesaggio della steppa. Tungdil si meravigliò, perché l'erba sembrava vera. Credette persino di percepire il fruscio del vento e l'odore della terra. Sopra le teste degli spettatori, il sole sorse quando gli inservienti del «Curiosum» rimossero le coperture dai vetri sul tetto. Le lastre erano disposte in modo che la luce cadesse soltanto sul grande podio centrale, illuminando la scena. L'auditorio e le quinte rimasero immersi in una penombra crepuscolare. Gli occhi del nano, abituati al buio, non furono disturbati dalla semioscurità; finalmente poteva scorgere l'altro lato della stanza e rintracciare il Quarto. Intanto lo spettacolo ebbe inizio, anche se Tungdil lo seguì soltanto di sfuggita. Non era certamente dell'umore più adatto per prestare attenzione ad alcuni uomini travestiti che si dedicavano a un'occupazione infantile. Si concentrò sulla ricerca di Goïmgar, ma invano. Allora devo continuare a cercare fuori. Alzatosi, fece per girarsi, quando sul palcoscenico una figura con una lunga veste beige attirò la sua attenzione. Gli mancò il fiato. Com'è possibile? Il vecchio con la barba bianca, che sedeva con aria sfinita su una pietra e recitava un monologo, era Lot-Ionan. E la donna bionda con l'armatura che gli si affiancò posandogli una mano sulla spalla in atteggiamento incoraggiante era identica ad Andôkai. Tungdil tese le orecchie per controllare se anche la voce del mago era quella che ricordava. Non prestò attenzione alla trama, dimenticando il motivo della sua presenza lì. Gli attori erano così bravi da illuderlo che i personaggi reali fossero a pochi passi di distanza, sebbene sapesse con esattezza che il suo padre adottivo era morto e che la maga vagava da qualche parte nella Terra Nascosta. «Alzati, Lot-Ionan», disse la Burrascosa. «Questo non è il momento di essere pazienti...»
INTERMEZZO «... bensì il momento di lottare contro la Terra Estinta.» «Ancora una volta senza riuscire a respingerla», sospirò lo stregone, accarezzando l'erba verde con il palmo della mano. A solo mezzo miglio di distanza, gli steli si tingevano di un grigio lugubre, perché la Terra Estinta non consentiva la presenza di alcuna forma di vita all'interno dei suoi confini. «Ne fermiamo l'avanzata, ma niente di più.» Andôkai non replicò, preferendo salire la dolce altura dove gli altri stregoni li aspettavano. Lot-Ionan la seguì, appoggiandosi al bastone. I maghi e le maghe della Terra Nascosta si riunirono così sul pianoro erboso in dolce declivio per guardare in faccia i loro nemici. Il pendio dinanzi ai loro occhi scendeva ripido, e il vento si divertiva a gonfiare i vestiti e a trasportare nella loro direzione gli orribili versi delle creature di Tion. Si erano radunate a una notevole distanza dal loro punto di osservazione, dietro la barriera invisibile intessuta dai maghi, e sbavavano, grugnivano e strepitavano, ansiose di passare finalmente dall'altra parte. Dall'alto i mostri assomigliavano a una scura massa in movimento. Mezz'orchi dalle pesanti corazze si mescolavano agli orchi, agli orrendi troll e ad altri esseri sconosciuti, formando un'accozzaglia caotica. Le creature del Terrore, giunte fin lì dalla loro patria settentrionale varcando la Porta di Pietra, scalpitavano per piombare come locuste su villaggi e centri abitati, seminando morte e distruzione. Una volta, un esercito umano aveva tentato di opporsi alle orde ed era stato sopraffatto con facilità. Da allora i Sei si erano assunti il compito di arrestare gli invasori e la Terra Estinta. «Lasciate che si avvicinino», ordinò Andôkai agli altri. «Aspettate che siano giunti in prossimità delle porte del villaggio prima di attaccarli.» Maira guardò le casupole che sorgevano ai piedi della montagna e sembravano addossarsi intimorite al pendio, come se la roccia potesse proteggerle dagli aggressori. «Chissà che paura avranno gli abitanti delle capanne», mormorò in tono compassionevole. «Pensano senz'altro di essere spacciati.» «Saranno ancora più contenti se li salveremo», osservò Turgur, abbigliato come per andare a una festa anziché in guerra. Nudin il Sapiente scrutò le file degli avversari, lieto di vedere tante cose nuove e insolite. Avrebbe cercato di risparmiare alcune bestie per parlare con loro dopo la battaglia e saperne di più sul loro conto. Naturalmente, lo
farò in segreto, altrimenti mi accuseranno di averle trattate con troppa indulgenza. Maira aveva indovinato i suoi pensieri. «Uccidili tutti, Nudin», lo esortò. «Il male non deve penetrare nella Terra Nascosta!» Nudin annuì e si concentrò sulla lotta imminente, il cui esito sarebbe stato deciso dall'intervento tempestivo degli stregoni. Era stato proprio lui a individuare i punti deboli dello sbarramento con l'ausilio del fulcro di malachite e a convocare il consiglio dove le bestie credevano di essere al sicuro dai maghi. Un sonoro crepitio riempì l'aria. La Terra Estinta attaccò la barriera e la sfondò. Le creature di Tion si precipitarono urlando verso il villaggio. Gli orchi e i troll superarono i mezz'orchi, mentre i piccoli bogglin restarono indietro, manifestando il loro scontento con strilli acuti. Andôkai scatenò un temporale. Nel giro di pochi secondi il cielo sopra la collina si oscurò e i fulmini si caricarono di elettricità tra le nubi sempre più fitte, prima che la Burrascosa scagliasse le saette contro le prime file. Il suo attacco segnalò il momento giusto per aggredire i servi della Terra Estinta. I maghi e le maghe unirono le loro energie distruttrici contro il male. Palle infuocate attraversarono l'aria, e dal suolo si levarono esseri di pietra e polvere che si avventarono contro i mezz'orchi. Altrove il pavimento si spalancò, inghiottendo troll e orchi. L'offensiva delle bestie si interruppe; le creature più piccole arretrarono per prime e cercarono rifugio nei possedimenti apparentemente sicuri della Terra Estinta. Senza lo sbarramento, i proiettili magici colpirono tuttavia i difensori sull'altro lato, disintegrandone gran parte. Gli stregoni si sbarazzarono subito dei cadaveri perché l'entità malefica non potesse impossessarsene. I corpi furono divorati dal fuoco e dai lampi, si polverizzarono oppure esplosero in minuscoli frammenti. Andôkai suscitò un vento impetuoso che travolse gli ultimi valorosi, rispedendoli entro i confini della Terra Estinta. Intanto gli altri si accinsero a costruire nuove barriere più resistenti. A un cenno di Lot-Ionan, numerosi apprendisti comparvero portando il cristallo di malachite che immagazzinava le loro energie. Il laborioso rituale riuscì e il fulcro alimentò la barriera, proteggendo la Terra Nascosta. Gli uomini tornarono ad avventurarsi ancora fuori delle abitazioni, acclamando i maghi. Per quanto questi ultimi si sentissero sollevati, il successo lasciò loro
l'amaro in bocca. Il male reclamava infatti la regione in cui erano entrati i mostri, la Terra Estinta aveva esteso il suo potere verso sud, e il villaggio appena salvato sorgeva proprio davanti allo sbarramento invisibile. Turgur accennò ai paesani. «Dovremmo scendere e permettere loro di festeggiarci un poco», dichiarò, affascinato. «Guardate come sono felici quegli ingenui.» «E guardate come Turgur è lusingato da quegli ingenui», scherzò Nudin, spossato. «Si potrebbe pensare che il suo ardente desiderio sia quello di gettarsi tra le loro braccia da quassù.» Gli altri risero sommessamente. «Andiamo nelle tende e riposiamoci davanti a un bicchiere di vino», propose Maira. «Fate pure, io vengo più tardi. Ora vado al villaggio e raccomando alla gente di allontanarsi», affermò Nudin. «Gli uomini potrebbero essere in pericolo nel caso di una nuova avanzata.» Pur scoccandogli un'occhiata eloquente, Andôkai non commentò. Nudin percorse l'angusto sentiero che conduceva dal colle al centro abitato. Appena fece il suo ingresso, i paesani lo colmarono di modesti doni, offrendogli pane, vino e frutta in segno di gratitudine. Il mago bevve un sorso di vino per dimostrare che apprezzava l'ospitalità e descrisse con gravità la loro situazione. «Vi invierò degli uomini che vi aiutino a trasferirvi», li tranquillizzò. «Vi troverò un posto più sicuro in cui vivere.» Dopo aver agguantato una mela, se ne andò attraversando il fronte del campo di battaglia, che non era stato conquistato dal Terrore. In alcuni punti la terra fumava e le energie tramutavano la sabbia in vetro, facevano evaporare il suolo oppure scavavano solchi e crateri. Un tanfo di morte aleggiava dappertutto. Un lieve rantolo gli fece battere forte il cuore. Nudin si paralizzò per tendere le orecchie nel silenzio e individuare la bestia ferita. Il gemito straziato si ripeté e lo stregone si avviò nella direzione da cui proveniva. Scavalcò i cadaveri con prudenza, frugando nel mucchio con il bastone finché la creatura emise un lamento. Era un bogglin, rimasto incastrato sotto il tronco gigantesco di un troll, che non riusciva a liberarsi da solo. Assomigliava a un mezz'orco poco cresciuto. «Non avere paura. Non ti farò niente», disse Nudin nella lingua dei mostri. Il bogglin gli fece una linguaccia, tentando di afferrare l'impugnatura della sua spada.
«Ti propongo uno scambio», proseguì Nudin. «Io ti aiuto a uscire da là sotto se prima tu mi racconti tutto di te e dei tuoi simili. Da dove vieni, come vivete e che cosa fate quando non attaccate noialtri.» Estrasse dalla tasca del mantello un rotolo di pergamena e un calamaio da viaggio. «Un incantesimo farà sì che tu dica la verità.» I freddi occhi da predatore si socchiusero, straniti. Il bogglin non sapeva che cosa pensare del folle che non intendeva ammazzarlo né liberarlo. Prima che riuscisse a dire qualcosa, una lunga freccia nera gli trapassò la gola, inchiodandolo al corpo del troll. «Andôkai?» Girandosi, Nudin vide avvicinarsi un gruppo di quattro albi. No, peggio! Sorpreso, guardò l'ultimo essere che attraversava la barriera. La resistenza magica non li disturbava affatto. Il leader incoccò di nuovo l'arco, questa volta intenzionato a colpire il mago. Non ci riuscirete! Nudin si affrettò a lanciare un incantesimo difensivo che deviò il dardo facendolo tornare verso l'arciere. Quest'ultimo morì con un'espressione stupita negli occhi color della notte. Nudin eliminò altri due albi con violenti lampi magici che fuoriuscirono dalla sua mano sinistra. Si limitò a stordire il quarto perché desiderava interrogarlo. Quando studiò i lineamenti delicati del suo avversario, non poté fare a meno di domandarsi quanto Turgur invidiasse la bellezza e la perfezione dei parenti degli elfi, che vivevano nel Gwandalur e sulla Pianura d'Oro. Lo sguardo gli cadde sugli amuleti di cristallo che pendevano dai loro colli. Rune protettive, pensò, impossessandosene. Ciò spiegava come gli albi avessero fatto ad attraversare indenni lo sbarramento. A quanto pare, la Terra Estinta ha trovato il modo di mandare i suoi servi più pericolosi oltre la nostra barriera, concluse turbato. Devo assolutamente informare il consiglio. Fece rinvenire l'albo con una formula magica. Le palpebre dell'essere si dischiusero; poiché era giorno fatto, il mago vide soltanto due buchi neri al posto delle sclere e delle pupille. Gli pose gli amuleti davanti alla faccia. «Chi ve li ha dati?» L'altro lo guardò con espressione vacua. Nudin pronunciò un incantesimo della verità, e l'albo gli rivelò il segreto, ma parlò nella sua lingua, e lo stregone non lo comprese. Pur essendo elegante e melodioso come l'elfico, quell'idioma suonava molto più sinistro.
Accorgendosi di non aver fatto alcun progresso, Nudin si alzò e si allontanò di un paio di passi, quindi lasciò che la creatura scomparisse in una nuvola di fuoco. Fece lo stesso con i cadaveri degli altri albi e del bogglin. «Una vittoria effimera», mormorò, afflitto. Riferirò agli altri degli amuleti domani a colazione. Questa sera non voglio guastare il loro buonumore. Dopo aver raccomandato alle guardie di prestare particolare attenzione, si coricò. *
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La notte regalò a Nudin un sogno bizzarro. La nebbia avviluppava completamente la tenda, filtrando attraverso il tessuto e sfiorando il suo giaciglio. In quel vapore opaco guizzarono in rapida sequenza bagliori neri, rossi e argentei. Dopo aver avvolto furtivamente i piedi del letto, la foschia si avvicinò allo stregone, alzandosi fino al bordo. Sembrava che Nudin fluttuasse su una candida nuvola luccicante. Un velo di bruma simile a un dito gli tastò la mano, destando il mago con il suo tocco lieve e vellutato. «Non temere. Non ti farò niente», gli assicurò una voce fioca. Nudin si rizzò a sedere con cautela, osservando la caligine scintillante. «Mi chiamano il Sapiente, non il Pauroso», replicò, pacato. «Che cosa sei?» «Sono l'anima della Terra Estinta», bisbigliò la nebbia. «Sono venuta a trovarti per obbligarti a scegliere.» «Per obbligarmi a scegliere cosa? O sono tuo amico, o sono tuo nemico e mi uccidi, vero?» La foschia si sollevò ancora un poco, circondandogli i piedi e strisciandogli piano lungo le gambe. Era calda e morbida. «No, devi scegliere tra salvare la Terra Estinta o trascinarla in rovina insieme con gli altri stregoni.» «Ma noi proteggiamo la nostra patria da te. Sei tu la sua rovina», ribatté Nudin, aspro. «No, sono venuta per difendere i regni e gli uomini, gli elfi e i nani mediante il mio potere», mormorò la bruma. «Volevo essere più rapida della sventura.» Al suo interno si formò un viso umano che muoveva le labbra. «Ma la vostra magia mi ostacola. Il male raggiungerà presto la Porta di Pietra o l'entrata occidentale dei Monti Rossi e si riverserà nella Terra Nascosta, per poi spazzarmi via e annientare tutto ciò che è racchiuso nella cinta di monti.» «Non ti credo. Che razza di anima è quella che vive di altre anime?» «Un'anima molto grande, che non divora nulla, ma che accoglie e protegge ogni cosa dentro di sé», sussurrò la nebbia. «Quando il pericolo verrà allontanato dalla Terra Nascosta, le libererò tutte affinché raggiungano gli dei dell'aldilà. Ma fino ad allora mi serve la loro forza.» «Vattene!» ordinò Nudin. «Vattene, non ti credo!» Il velo bianco divenne trasparente. «Ascolta almeno la mia proposta», bisbigliò. «Prestami il tuo corpo per un breve periodo affinché io abbia una
forma. Grazie a me acquisterai capacità e conoscenze che non hai mai sognato di possedere perché non sapevi che esistessero. Conosco formule magiche di Paesi lontani, ideate dai maghi più esperti; so cose sulla vita, sulle stelle, sugli uomini, sulla natura e sugli animali che non sono scritte in alcun libro. Sarai lo stregone più saggio e potente che sia mai vissuto nella Terra Nascosta, e il tuo nome sarà Nudin l'Onnisciente.» La foschia si dissolse. «L'Onnisciente...» L'Onnisciente! Nudin si svegliò di soprassalto e si guardò intorno senza notare nulla di insolito. Dandosi del pazzo, tornò a sdraiarsi. Il mattino successivo, quando sedette a colazione con gli altri maghi, mangiò in silenzio, assorto nei suoi pensieri, mentre gli altri si consultavano sul da farsi. Tenne tuttavia per sé il suo incontro con gli albi e la nebbia, come pure la scoperta degli amuleti. *
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Nudin fu scoraggiato dal messaggio che ricevette poco prima di coricarsi. Il Lesinteïl, il regno degli elfi settentrionali, era caduto nelle mani degli albi, che dovevano essere riusciti chissà come a sfondare lo sbarramento e a piombare sugli ignari abitanti. La lettera riferiva che i primi insediamenti erano stati invasi nel giro di pochi giorni. Quando gli elfi avevano finalmente organizzato la resistenza costituendo un esercito, gli albi penetrati nei loro territori erano così numerosi che la sconfitta era parsa subito inevitabile. La Terra Estinta si insinuava ora nel Lesinteïl, distruggendo la fiorente civiltà che gli elfi avevano creato con tanta fatica e che avevano portato alla massima perfezione. Abbattuto, il mago gettò la pergamena sul pavimento e sprofondò tra i cuscini. Il consiglio sarebbe stato convocato di lì a due giorni per innalzare le barriere intorno al regno elfico caduto. Secondo la comunicazione, gli albi si diffondevano con la velocità del vento dai territori appena conquistati verso il Gauragar, l'Idoslân e l'Urgon per occupare altre zone in nome della Terra Estinta. A Nudin cominciò a rimordere la coscienza, perché lo stregone credeva di sapere come gli albi erano riusciti a superare lo sbarramento: con l'aiuto degli amuleti. D'altronde, anche se avesse informato gli altri della sua scoperta, non avrebbe concluso nulla. Al contrario! Avreste potuto studiare le rune magiche e creare una barriera contro quei caratteri, lo rimproverò una voce interiore. L'invasione è stata possibile solo grazie al tuo silenzio! «No!» Sei responsabile della caduta del Lesinteïl! Hai ingannato sia gli elfi sia i maghi! Nudin si tirò la coperta sopra la testa, cercando di addormentarsi in fretta per non dover più sopportare quella prepotente della sua coscienza. Ma le cose peggiorarono, perché quella notte sognò di nuovo la nebbia suadente, l'anima della Terra Estinta, che non voleva lasciarlo in pace. «Hai riflettuto sulle mie parole? Desideri diventare Nudin l'Onnisciente e il salvatore della Terra Nascosta?» mormorò la bruma nei suoi pensieri. «Come hai fatto a scavalcare lo sbarramento nei pressi del Lesinteïl?» «Se fossi Nudin l'Onnisciente, non avresti bisogno di pormi questa domanda», bisbigliò la caligine luccicante, infilandosi sotto le lenzuola e regalandogli una piacevole sensazione di calore. «Il primo regno elfico è
mio. Poi mi impadronirò dell'Âlandur senza che possiate farci nulla. La mia potenza protettrice si estenderà sempre più verso sud, ma il tempo stringe.» «Se vuoi difenderci, perché occupi i Paesi con la forza?» obiettò Nudin. «Chi gode della libertà non vi rinuncia mai volentieri, neppure se la privazione dura soltanto un battito di ciglia nel grande disegno della storia. Re e popoli assomigliano a bambini piccoli, e io sono la madre che vuole tutelarli da mali peggiori.» La foschia assunse di nuovo i tratti di un viso. «Quando la mamma prende in braccio i suoi piccini per evitare che un cane li morsichi, loro non ne capiscono il motivo. Si rifiutano di sottomettersi, si dimenano e vogliono giocare, anche se l'animale attende soltanto di affondare le sue zanne nella loro carne. Non lo comprendono», rispose la nebbia. «La donna depone il figlio a terra e gli permette di fare di testa sua soltanto dopo aver cacciato la bestiaccia. Anni dopo, quando il bimbo ormai diventato adulto ripenserà a quel giorno, capirà perché sua madre ha agito in quel modo e sarà lieto di avere subito quell'amorevole imposizione.» Quella spiegazione illuminò Nudin, soffocando i moniti della sua voce interiore, che lo metteva in guardia da quelle parole melliflue e flautate. «Perché non lo spieghi ai potenti come l'hai spiegato a me? E perché hai scelto gli albi, i mezz'orchi e tutte le altre ripugnanti creature che gli uomini temono e per cui gli elfi e i nani nutrono un odio profondo?» La nebbia lo avviluppò completamente, avvolgendolo e togliendogli la visuale. Gli sembrava che migliaia di mani lo accarezzassero e vezzeggiassero. «Il tempo non è propizio alla Terra Nascosta. Non ho potuto protrarre la ricerca degli alleati e ho preso quello che mi è capitato. I miei servi riportano rapide vittorie, e in tal modo posso proteggere la tua patria.» «Hai affrontato il Terrore già molte volte?» domandò lo stregone, insonnolito e distratto. «Moltissime, ma finora non sono riuscita a sconfiggerlo. L'Orrore è forte, veloce e versatile, e la liberazione avrà luogo solo se il vantaggio sarà sufficiente.» Le carezze divennero più delicate. «Dammi una forma, Nudin. Consentimi di entrare in te, e acquisirai un sapere che nessun mortale ha mai posseduto. Non indugiare oltre», bisbigliò la caligine tutt'intorno. «Quando avremo sbaragliato il nostro nemico comune, abbandonerò il tuo corpo. E se lo desidererai, potrai cacciarmi via in qualsiasi momento.»
«Come faccio a essere certo che le tue conoscenze siano vaste come sostieni?» «Aspetta, te le mostro.» La bruma si addensò intorno alle sue tempie, e i bagliori neri, argentei e rossastri si intensificarono. Il mago sgranò gli occhi quando l'anima della Terra Estinta gli lasciò intravedere in sogno tutto quello che sarebbe potuto essere suo. Caratteri sconosciuti gli fluttuarono davanti, udì lingue straniere e riconobbe frammenti di formule magiche, scorse i profili di paesaggi splendidi e spaventosi che si stendevano oltre le montagne, città e palazzi di cui non avrebbe mai ritenuto possibile la costruzione. La sua mente curiosa assorbì con avidità tutti i particolari, chiedendone altri e ottenendoli. La sequenza di immagini pareva non voler finire mai, e lo stregone vi nuotò dentro, immergendosi nel sapere e bevendolo finché la caligine non mise fine alle visioni. «No, continua!» supplicò Nudin con cupidigia. «Mi lascerai entrare dentro di te?» «Io...» Le rune lampeggiarono e impallidirono, le lingue misteriose riecheggiarono in lontananza, una pianura dalla bellezza mozzafiato si oscurò e svanì, le pile torreggianti di libri vacillarono, le rilegature che racchiudevano le formule e gli incantesimi si sfasciarono e si polverizzarono. «Vuoi salvare la Terra Nascosta nei panni dell'Onnisciente? Aiuta la madre a difendere il bambino dal cane feroce, Nudin», sussurrò la nebbia, vincendo l'ultima resistenza del mago. «Sì», rispose Nudin con voce roca, fissandola. «Sì, voglio aiutarti.» A convincerlo, oltre alle promesse, era stata l'idea di poter controllare il potere insinuatosi in lui. Se l'Orrore annunciato non verrà, gli ordinerò di ritirare le truppe dai regni degli elfi, dei nani e degli uomini e di scomparire oltre il Passo Settentrionale. In un modo o nell'altro, la Terra Nascosta avrebbe trionfato. «Che cosa devo fare?» La caligine scintillò con maggiore intensità e irrequietezza. «Niente. Resta fermo e non opporre resistenza. Svuota la mente, non pensare a nulla e apri la bocca. Quando sarò dentro di te, te ne accorgerai.» Nudin si stese e obbedì. Le prime propaggini della bruma serpeggiarono verso le sue labbra da tre direzioni, come osservatori che esplorano la zona prima di dare agli altri il segnale di seguirli.
Poi accadde tutto molto in fretta. La nebbia si compresse e gli si infilò nella gola. Nudin ebbe la sensazione che le mascelle gli si allargassero tanto da spezzarsi e udì un forte schiocco nelle orecchie. Le sue mani artigliarono i cuscini, lacerandone la stoffa. Una volta penetrata nel suo corpo, la foschia si aprì un varco senza riguardo, dilatandogli la gola e rubandogli l'aria dai polmoni al punto che Nudin credette di soffocare. Il sangue gli scorreva nelle vene a una velocità quadruplicata. Un liquido scarlatto gli sgorgò all'improvviso dal naso e dagli occhi, e lo stregone inorridì ancor più quando intuì che si trattava del suo stesso sangue. Sanguinava da ogni poro della pelle e le goccioline confluivano in rivoli che inzuppavano le lenzuola. Emettendo gorgoglii inintelligibili, si alzò e cadde con violenza sul pavimento nel tentativo di raggiungere la porta. Le gambe si rifiutavano di obbedirgli, come del resto tutte le altre membra; persino il cervello sfuggì al suo controllo, e il mago farfugliò confusamente, rise, ansimò e urlò di paura e dolore, si rotolò sul pavimento e strisciò carponi attraverso la camera, lasciandosi dietro una scia rossa. Avvertì con esattezza la nebbia che si espandeva in ogni fibra del suo essere, spingeva e premeva contro la sua carne, scavandogli nelle viscere e torturandogli il membro virile senza concedergli un attimo di tregua da quello strazio. Poi le sue sofferenze cessarono di colpo. Nudin giacque ansante sul marmo freddo, cercando di riprendere fiato. Lo stordimento fu sostituito da una chiarezza e da una lucidità mentale insolite. Si rialzò a fatica. Era imbrattato di sangue e percepiva un puzzo di escrementi. In preda al disgusto di se stesso, si precipitò lungo i corridoi del palazzo e si tuffò nella prima fontana in cui si imbatté per liberarsi del sudiciume. L'acqua gelida gli restituì gli spiriti vitali, e il mago si sentì sveglio e rinfrescato. È giunto il momento di fare una prova. Tentò di ricordarsi la formula di prima. Riuscì subito a rammentarla, e non solo: sapeva a che cosa serviva, conosceva l'intonazione esatta, ogni singola sillaba e tutti i movimenti necessari delle mani, sebbene li evocasse alla memoria per la prima volta. A dire il vero, non attingeva dalla sua memoria o dal suo sapere, ma ciò non lo infastidiva.
In uno stato simile all'ebbrezza, ripensò a quanto aveva visto, e lo rivide, lo assaporò, lo annusò. La pianura acquisì un profumo familiare, e lui seppe quali canzoni intonavano gli uccelli laggiù, ricordò che quella regione idilliaca si chiamava Pajula e ne rammentò la posizione sulla carta, una carta che dovette prima disegnare, perché il bassopiano si stendeva lontano dai confini della Terra Nascosta. Entusiasta, Nudin rise e sguazzò nell'acqua. Sei soddisfatto? sussurrò una voce nella sua testa. Ti ho forse promesso troppo poco? «No...» rispose lo stregone ad alta voce prima di ammutolire. No, pensò poi. A quanto pare, hai detto la verità per quanto riguarda il sapere. Si risolse a condurre l'esperimento decisivo. Vorrei che tu lasciassi di nuovo il mio corpo. Avvertì subito uno sgradevole bruciore, una sorta di gelo, e un senso di solitudine e abbandono si impossessò di lui. La bruma si apprestava a uscire, e Nudin temette di dover rivivere le pene di prima. No, si affrettò a pensare, rimani. Volevo soltanto accertarmi di potermi fidare di te anche su questo punto. Dovrai fidarti di me, come io dovrò mettere a tua disposizione la mia esperienza e le mie conoscenze. Da due siamo diventati uno. «Da due siamo diventati uno», ripeté lo stregone, emergendo dalla fontana per cercare uno specchio. Il suo riflesso non gli mostrò nulla di nuovo. Il suo aspetto esteriore non era mutato, ma la camicia che aveva estratto da uno dei suoi armadi era un poco stretta, e le maniche un po' troppo corte. Ho scelto bene, disse l'anima della Terra Estinta, altrettanto contenta di quell'immagine. No, non preoccuparti. Non ti tradirò. Leggi i miei pensieri? le domandò, stupito, perché nutriva ancora un'ultima ombra di sospetto. Siamo una cosa sola. Allora perché io non sento i tuoi? Sii paziente. Ci vuole pratica, e la farai, Nudin l'Onnisciente. Manterremo il segreto riguardo al nostro patto finché giungerà il momento di palesarci agli altri. Il tuo compito consisterà nel concedermi il tempo necessario per diventare la madre di tutti i regni. Occupati dei preparativi, lavora di nascosto e fai finta di nulla, perché, se gli altri sapessero, ti considererebbero un traditore, cosa che non sei, amico mio, mio unico amico, mio caro amico. Il sussurro si spense, lasciandolo solo.
Accostatosi alla finestra, Nudin ammirò la capitale addormentata, su cui ben presto sarebbe sorto il sole, quindi si voltò a contemplare i dorsi degli innumerevoli libri che custodiva nella sua stanza. La sua testa conteneva più nozioni di tutti quei tomi, quei testi e quei compendi messi insieme, e lo stregone si sentiva felice, appagato, sapiente. Qualunque domanda si ponesse, la sua mente aveva la risposta pronta e placava la sua curiosità risparmiandogli la fatica di condurre ricerche, sfogliare volumi, intraprendere viaggi o eseguire esperimenti. A un tratto la noia lo sopraffece, perché non aveva più nulla da fare. L'unica sfida che mi è rimasta è il salvataggio della mia patria. Non permetterò a nessuno di portarmela via. *
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Ossessionato dalla sua missione, Nudin si diede a ordire alcuni piani e giunse alla conclusione di non poter lasciare che la sua amica, fonte di magnifici ricordi, proteggesse da sola i regni della Terra Nascosta. Anche lui voleva dare un contributo e ingaggiare la lotta contro l'orrore che, nella sua immaginazione, faceva irruzione da ogni lato del massiccio montuoso intorno al Paese. Le nuove formule e i nuovi incantesimi che aveva imparato erano senz'altro utili, ma non sufficienti. Per mettere in pratica quelle conoscenze gli occorreva il potere, ancora più potere. Il mago sapeva come ottenere quell'energia, come raccoglierla e accumularla dentro di sé. Durante uno dei successivi rituali finalizzati a rinnovare i vincoli magici intorno alla Terra Estinta, si sarebbe impossessato di quella forza e avrebbe obbligato gli altri stregoni a sostenerlo o a non intralciarlo più. Non pensava ad altro, rintanandosi nei suoi laboratori e selezionando gli apprendisti che gli erano devoti; sarebbero stati il suo seguito. Gli albi gli facevano visita in segreto, descrivendogli le loro ricognizioni tra i monti dell'Urgon, le pianure del Gauragar e le dolci colline dell'Idoslân e narrandogli dei mezz'orchi nel regno di Tilogorn, pronti a seguirlo se solo gliel'avesse chiesto. Nudin temeva che qualcuno potesse tradire la sua causa, e quindi la Terra Nascosta. Qualsiasi forma di resistenza non andava tollerata, bensì stroncata sul nascere per non mettere a repentaglio l'impresa. In rarissimi momenti, si domandava se fare tutto da solo o se obbedire agli ordini silenziosi dell'essere dentro di lui. Le preoccupazioni svanivano tuttavia con la stessa inspiegabile velocità con cui l'avevano assalito. Di tanto in tanto la sua amica gli parlava, consigliandolo e dandogli nuovi suggerimenti utili cui non aveva pensato durante l'ideazione del piano. Siamo una cosa sola, pensò, riconoscente. Garantiamo la sicurezza degli uomini. Eppure sei stato ingannato, sussurrò la voce. Come? Heltor, il tuo apprendista, ha parlato con un tale di nome Gorén, un ex studente di Lot-Ionan. I miei amici li hanno uditi quando si sono incontrati davanti alle porte del palazzo durante la seduta del consiglio. Gorén ha intuito tutto e crede di sapere come fare per separarci. Separarci? Giammai! Come può essere? si chiese Nudin, stupito. Devo
impedirlo. Dietro questa faccenda non si cela soltanto lui, lo avvertì la nebbia. Agirà per conto del suo mago. Lot-Ionan gli ha dato alcuni libri in cui si parla del nostro segreto. Quei due mirano al tuo potere e alle tue conoscenze. Non permettere che ci dividano. Siamo una cosa sola, Nôd'onn! Gli sguinzaglierò dietro gli albi. Mi porteranno i volumi e lo puniranno, decise, tramando la morte dell'apprendista. La sua scomparsa allarmerà gli altri. Annientali tutti, mormorò la bruma. No, si oppose Nudin. Prima parlerò con loro come tu hai parlato con me. Spero che siano comprensivi, perché se possedessimo il potere dei Sei, potremmo essere in più luoghi contemporaneamente e aiutare i nostri alleati a riportare una vittoria più rapida. L'entità che si era impossessata di lui non la trovava una buona idea, ma non disse nulla, temendo che lo stregone si stancasse delle sue continue obiezioni e volesse liberarsi del suo influsso. Capirai che ti sbagli sul loro conto, mio unico vero amico. «Mi auguro di non dovermi ricredere», disse Nudin piano, concentrandosi su un libro che conosceva già e che avrebbe potuto recitare a memoria, perché nella sua biblioteca non vi era più nulla di nuovo che lo stimolasse. Una goccia di sangue cadde sulla pagina aperta, coprendo quattro caratteri e rendendoli illeggibili. Il liquido gli sgorgò dal naso e dagli occhi, prima lentamente, poi in un fiotto inarrestabile. Nôd'onn sapeva che cosa lo aspettava. Si alzò in tutta fretta per raggiungere il letto. Le sue ossa pulsarono, il cranio crocchiò e scricchiolò e la pelle si tese dolorosamente quando il suo corpo si allungò ancora un poco. Urlando e lamentandosi, si morse le labbra a sangue e si rotolò tanto da cadere dal materasso e perdere i sensi. Quando si risvegliò, di quello strazio non restava traccia, e come sempre avvertì il bisogno di un pasto abbondante. A causa di quell'appetito insaziabile era aumentato notevolmente di peso, tanto che i sarti dovevano rifargli il guardaroba ogni settimana. Quando smetterà di fare male? chiese alla sua amica, pulendosi le mani e il viso insanguinati. Presto, bisbigliò l'anima della Terra Estinta. Il tuo sapere è troppo
grande e cerca di farsi spazio nel tuo corpicino umano. Non preoccuparti, non morirai. Siamo una cosa sola. Affamato, lo stregone andò nella sala da pranzo e ordinò ai servitori di portargli il cibo, che venne posato sul lungo tavolo in quantità sufficiente a sfamare un'intera famiglia. Ma per Nudin non bastò, e il cuoco dovette arrostire altri due coniglietti croccanti prima che il suo padrone fosse sazio. Uscendo, il mago si accorse che le maniche della veste erano di nuovo troppo corte. Un'alba entrò nel locale tenendo in mano un messaggio per lui...
PARTE SECONDA I Terra Nascosta, regno incantato di Oremaira, 6234° ciclo solare, tardo autunno Tungdil era completamente assorbito dallo spettacolo. Non avrebbe nemmeno saputo dire che cosa fosse frutto della sua fantasia e che cosa stesse davvero accadendo sul palco sotto di lui. Venne tuttavia distratto da una mano che, lesta, si infilò tra le tende della galleria, afferrò il suo zaino per le cinghie e lo tirò a sé con prudenza. Naturalmente Tungdil non vide tutto questo, ma udì un fruscio alle sue spalle quando il ladro, mosso da un'eccessiva avidità, diede uno strattone anche al lembo di cuoio. Voltandosi, il nano vide il braccio del mascalzone che scompariva tra i tendaggi con la borsa. «Ehi! Fermati!» gridò, adirato. «Al ladro! Acciuffatelo!» Agguantando l'ascia, uscì di corsa, le dure suole chiodate degli stivali che rimbombavano sulle assi del corridoio. «Ti ficcherò nel cranio il rispetto per la proprietà altrui!» Se la sua voce tonante non fosse stata sufficiente a lacerare il velo dell'illusione teatrale, l'avrebbero fatto i suoi passi pesanti. Si levarono urla indignate, all'indirizzo della vittima più che del delinquente. Vorrei tanto avere le loro preoccupazioni... Tungdil li ignorò, inseguendo la figura vestita di scuro. Le sue gambette si alzavano e si abbassavano in fretta, producendo un gran chiasso. «Lo stimato spettatore sarebbe così gentile da camminare un po' più piano?» gridò il finto Nôd'onn, in tono sdegnato. L'alba fece una smorfia, posandosi le mani sui fianchi snelli sopra la nera armatura. A differenza dello stregone fasullo, lei continuava a sembrare autentica, nonostante fosse ormai chiaro che si trattava soltanto di una recita. «Con il vostro permesso, il mio compito sarebbe quello di intrattenere il resto del pubblico.» «Un ladro!» ripeté il nano, senza fermarsi. «C'è un ladro nel vostro elegante teatro!» «Certo. E siete voi, mio piccolo amico. State rubando il mio tempo prezioso e approfittando della mia impagabile pazienza», lo rimbeccò l'attore, pungente. «Giacché ormai ve ne siete impadronito, andatevene con
il vostro bottino e, come si conviene, consentitemi di condurre lo spettacolo verso il lieto fine per gli estimatori dell'arte.» L'uditorio lo applaudì, ridendo. L'uomo si inchinò. Buffone! Tungdil era già nel vicolo, immobile davanti all'ingresso del «Curiosum» per cercare di individuare il briccone impertinente. Lo scorse mentre svoltava l'angolo più vicino. Si era buttato il sacco sulle spalle per avere le mani libere. «Fermo! Restituiscimelo!» gli intimò il nano, lanciandosi da quella parte. Riuscì a inseguirlo lungo tre strade, ma dopo la quarta viuzza, e forse il decimo cambiamento di direzione, lo perse di vista e, perplesso, si arrestò davanti alla piazza del mercato gremita. I passanti formavano un muro dietro cui la sua borsa scomparve. Il pezzo di sigurdazia! Fu colto da un'intensa sensazione di calore. Era proprio quello che non sarebbe dovuto accadere. Non sono arrivato fin qui per farmi derubare da un comune furfante, disse a se stesso, pieno di collera. Con una mano afferrò l'ascia e con l'altra spinse e scostò le persone fino a giungere davanti a un'alta bancarella ingombra di cesti di vimini e ad arrampicarvisi sopra. Ma non servì a nulla. Senza l'aiuto delle guardie locali sarebbe stato impossibile recuperare quanto gli apparteneva. A causa dei mezz'orchi appostati davanti alle porte, la sua richiesta non avrebbe tuttavia trovato ascolto. Come avrebbe potuto convincere i soldati dell'importanza di quello che gli era stato rubato? Scusate, ma ho perso un pezzo di legno con cui posso salvare la città e il Paese dalla Terra Estinta... Chi mi crederebbe? Mentre ritornava sui suoi passi per raggiungere la locanda in cui sperava che lo aspettassero Bavragor e Boïndil, si rese conto, per giunta, di essersi smarrito nelle vie di Mifurdania. Tungdil non conosceva neppure il nome dell'osteria in cui aveva spedito gli altri due. La porta era il suo unico punto di riferimento. Siamo arrivati dall'ingresso settentrionale oppure da un'altra entrata? Borbottando, si incamminò, orizzontandosi grazie alle torri poco distanti, che, di tanto in tanto, spuntavano dalla cinta di mura, tra gli abbaini. A un tratto, passando accanto a una viuzza mal illuminata, udì un gorgoglio soffocato. Si arrestò subito, stringendo l'ascia con entrambe le mani e imboccando
il vicolo. Svoltò un angolo con prudenza e scorse una figura alta e snella, il cui abbigliamento era nascosto da un mantello grigio scuro. Ai suoi piedi giaceva il tizio che l'aveva rapinato. Il sangue gli colava sull'acciottolato da una decina di ferite, e colui che l'aveva atterrato rovistava con curiosità nel sacco. Il nano si sentì venir meno. La sua statura era inconsueta per un essere umano, ma forse non per un albo. Vraccas, aiutami in questa prova, pregò sottovoce. Il nuovo proprietario della borsa la richiuse, agguantò le cinghie con la mano sinistra e nascose l'oggetto sotto il mantello per portarselo via, mentre il ladro si rotolava sulla schiena gemendo e contorcendosi per il dolore. La sagoma si avviò lungo la stradina come se non fosse responsabile delle sue sofferenze. «Perdonatemi, quello è il mio zaino», gridò Tungdil. Quando lo sconosciuto si girò, il mantello si alzò svolazzando e nascondendogli il volto, quindi il nano avvertì due violenti colpi al petto. I coltelli rimbalzarono contro la sua fitta cotta di maglia e caddero tintinnando sul selciato. Mentre Tungdil si riprendeva dalla sorpresa, il perfido aggressore si precipitò lungo la strada e sparì alla prima svolta. Il nano non riuscì a stare dietro alle sue lunghe gambe e, dopo avere superato la curva, non ne vide più traccia. Ansimando, si appoggiò a un muro immerso nell'ombra per riprendere fiato. La fortuna mi pianta in asso troppo spesso. Ho forse suscitato l'ira di Vraccas? In quell'istante, un braccio gli cinse il collo da dietro. Un coltello sottile gli luccicò davanti agli occhi, sfiorandogli la gola scoperta. «È tuo lo zaino, nano? Allora devi essere Tungdil», gli disse qualcuno con voce attutita. «Pensavamo che fossi in tutt'altro posto. Il mio amico è impaziente di rintracciarti da quando sei stato a Grünhain e hai ucciso la sua compagna.» Tungdil cercò di sollevare il braccio, ma la lama gli premette più forte contro la carne. «No, sta' fermo. Adesso risponderai a un paio di domande», continuò l'altro. «No», si rifiutò Tungdil con decisione, sicuro di essersi imbattuto in uno degli albi di Nôd'onn. «No? Vedremo!» L'aggressore lo trascinò all'indietro verso un andito
che dava accesso a un'abitazione, sotto il quale regnavano le tenebre. «Dove volevi andare con quella roba?» Il nano tacque, caparbio. «Vuoi morire?» «Mi ucciderai comunque, albo. Perché dovrei informarti sulla mia missione?» ribatté. «Perché in cambio otterresti una morte rapida invece di una fine straziante», rise l'assalitore. «Proviamo ancora. Sei in viaggio da solo?» Udirono dei passi che si avvicinavano e il tintinnio di alcune cotte di maglia. Due persone percorsero la viuzza, e l'albo ammutolì. Il destino doveva essere in vena di scherzi crudeli, perché aveva indotto Goïmgar e Boëndal a passare accanto al nascondiglio buio proprio in quel momento delicato. Boëndal parlava al levigatore in tono conciliante, spiegandogli che Boïndil e Bavragor non l'avevano minacciato sul serio e che, in caso di necessità, lui l'avrebbe difeso dalla loro irruenza. Scomparvero quindi dietro l'angolo. «Siete in cinque, quindi», gli sussurrò l'albo nell'orecchio. «Cinque nani diretti dove?» «A fermare te, i tuoi simili e il vostro padrone», rispose Tungdil ad alta voce, decidendo di scrollarsi di dosso il nemico al più presto. Gli afferrò il braccio che reggeva il coltello e si lanciò con energia all'indietro per scagliare l'altro contro il muro, ma l'avversario si scansò, e il nano rimbalzò contro le pietre e dovette lottare strenuamente contro la forza della mano armata. Il fracasso bastò ad attirare l'attenzione dei suoi due amici, che tornarono sui loro passi in tutta fretta. «Sapientone? Sei tu?» Il guerriero era immobile con le gambe divaricate davanti alla nicchia, l'azza pronta per l'uso. Goïmgar si tenne in disparte, facendo tutt'uno con lo scudo. Il ginocchio dell'albo colpì Tungdil in piena faccia. L'elmo gli calò con violenza sul naso, facendolo lacrimare. Ricevette un'altra stoccata prima che l'altro tentasse di fuggire. Questo rimane qui! Tungdil ebbe la presenza di spirito di agguantare lo zaino. Grugnendo, vi si aggrappò con vigore, mirando alla mano dell'albo. La sua ascia colpì a vuoto. Il ladro aveva scartato di lato, ma in compenso la lama squarciò la borsa, il cuoio si lacerò e il nano cadde a terra.
«Ho quello che volevo.» Accorgendosi che la situazione si era fatta critica, l'albo preferì la fuga. Voleva sfrecciare accanto a Boëndal, ma l'esperto guerriero non si lasciò ingannare dalla sua finta e gli vibrò un colpo. La punta devastante dell'arma perforò l'armatura di pelle, penetrando in profondità nella carne. L'aggressore incespicò, pronunciò un'imprecazione incomprensibile e fu illuminato da un raggio di sole che tramutò i suoi occhi blu scuro in due buchi neri. L'albo subì una trasformazione ancora più sinistra. Linee sottili e delicate comparvero sul suo volto pallido. All'improvviso il viso e il collo gli si riempirono di solchi irregolari simili a crepe. Premendosi la mano contro la ferita, scappò lungo il vicolo, lo zaino che gli sobbalzava sulla schiena. «Ti prendo!» Il gemello voleva lanciarsi all'inseguimento, ma Tungdil lo richiamò. «No, lascia stare. Può darsi che voglia attirarci in una trappola.» «Ma ha preso lo zaino!» Tungdil si asciugò il sangue da sotto il naso, mostrandogli con orgoglio il pezzo di sigurdazia. «Questa è l'unica cosa importante. E l'ho recuperata.» «Come hai fatto a perdere la borsa, Sapientone?» domandò Boëndal. «Ve lo racconto strada facendo.» Rivolse un cenno a Goïmgar. «Sta' tranquillo: quei due musoni non ti torceranno un capello.» «Eppure avevo detto alle guardie di chiudere la porta solo dopo che foste entrati», mormorò l'altro. «Mettiamoci una pietra sopra», affermò Tungdil, anche se non era molto convinto. Non fidandosi di lui, si ripromise di non lasciarlo mai più solo finché avesse compreso l'importanza del loro viaggio. «Dovremmo informare le guardie che entro le mura di Mifurdania si aggira almeno un albo», osservò Boëndal. «Macchinerà un tradimento per facilitare la conquista della città da parte dei mezz'orchi.» «E sa che noi siamo qui», aggiunse Goïmgar, titubante. «Ora ci daranno la caccia?» «Ce la danno sin dall'inizio», rispose Tungdil con sincerità. «Purtroppo hanno scoperto dove siamo. Dobbiamo tornare nei tunnel al più presto. Finché gli albi restano all'oscuro della loro esistenza, non corriamo pericoli.» Attraversarono le strade ad andatura spedita finché raggiunsero la porta
meridionale poco distante, dove Tungdil riferì al soldato di essersi imbattuto in un albo. Si incamminarono quindi verso la locanda: speravano di riunirsi con Bavragor e Boïndil. *
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Avvicinandosi alla bettola, udirono le grida furibonde del Rabbioso. Agli schianti del legno che andava in pezzi si univano le urla agitate degli uomini. «Per Vraccas! Gli albi li hanno trovati!» strillò Boëndal, furioso, mettendosi a correre per aiutare il fratello. In quell'istante un tizio volò attraverso la finestra chiusa, disegnando ampi cerchi e atterrando sul selciato in una pioggia di vetri. Il suo vicino cadde sulla strada insieme con la porta scardinata e, dopo essersi rialzato a fatica, tagliò la corda. I tre nani fecero irruzione nell'osteria, su cui sembrava essersi abbattuto un uragano. Niente era più al suo posto. I tavoli e le panche erano capovolti o distrutti, e gli avventori ansanti giacevano tutt'intorno, più o meno malconci. Al centro della stanza, Boïndil, simile a un piccolo dio della vendetta, strappava la barba a un tale un pelo alla volta. Non vi era traccia di Bavragor. «Che cosa stai combinando?» gli domandò Boëndal, contemplando quel disordine con perplessità. «Sei stato tu?» Il Rabbioso si voltò per mostrargli la sua barba malconcia. «Oh, lo credo bene», balbettò. «Mi hanno dato fuoco, così hanno fatto la conoscenza dei miei pugni.» Ridacchiando, staccò un altro pelo alla sua vittima. «È stato il Lungo a iniziare, incendiandomi la barba, e quando ho tentato di punirlo, gli altri sono venuti in suo soccorso. L'ho trovato molto educato da parte loro. Così ho avuto più da fare.» «Per favore, ditegli che mi dispiace e che deve lasciarmi andare», piagnucolò l'uomo. «È stato un incidente, volevo soltanto offrirgli una fiammella per la sua pipa!» Boïndil lo prese per le orecchie, guardandolo con occhi cupi. «Non darai mai più fuoco all'onor del mento di un altro rappresentante del nostro popolo?» sibilò. «Mai più!» farfugliò l'altro. «Lo giuri?» Il malcapitato obbedì, e il guerriero lo liberò. «Bene. Vattene, Lungo.» Per accomiatarsi, gli strappò un intero ciuffo di peli e gli diede un calcio nel sedere. Ridendo, si lasciò cadere sul tavolo con un tonfo, allungò la mano verso il boccale e sorseggiò rumorosamente. «Era da tanto che non mi divertivo così», ruttò. Lo sguardo gli cadde su Goïmgar. «Ah, ecco qui la nostra fanciulla smorfiosa!» «È ubriaco fradicio», constatò suo fratello, serrando le labbra.
«Dov'è Bavragor?» chiese Tungdil, burbero. È peggio che accudire un'orda di pulci! «Dobbiamo andare a cercare anche lui?» «Quello? Ah, tornerà presto. Il Guercio è andato a comprare un pony per trasportare i nostri tesori...» «Boïndil! Sta' zitto!» lo rimproverò Boëndal, ripulendosi le labbra e trascinandolo via dal tavolo. «Che cosa ti salta in mente? Siamo accerchiati dai nemici, e tu ti comporti come lo scalpellino!» «Come sarebbe a dire? È stato anche lui al mercato per acquistare dei pony?» chiese qualcuno dalla soglia in tono offeso. «Se non altro, io ho fatto qualcosa di utile anziché azzuffarmi con i Lunghi.» «Ecco il Guercio!» gridò il Rabbioso, allegro, strappando il boccale a Boëndal e vuotandolo d'un fiato. «Fatto. Così non potrai più portarmelo via», disse con un rutto e un largo sorriso. «Mezz'orchi!» strillò qualcuno fuori, quindi una guardia fece irruzione nella locanda. «I mezz'orchi sono nei vicoli! Alle armi! La porta meridionale è stata aperta! Salvate Mifurdania! Sbrigatevi, cittadini!» Lo sguardo gli cadde sugli uomini malridotti. «Che cosa diavolo è...» «Alle armi!» ripeté Boïndil, esultante. «Bene, bene, bene! Venite, andiamo ad ammazzare i Maialini!» Dopo aver estratto le scuri, barcollò verso l'uscita. Suo fratello lo fermò e cercò di calmarlo. «Perdonalo. Non dice sul serio», raccomandò Tungdil a Bavragor per evitare un altro litigio. «Potrebbe anche dire sul serio, e avrebbe ragione nella maggior parte dei casi», replicò l'altro, pacato. «Fuori ci aspettano due pony che ho comprato a poco prezzo. Ci renderanno un buon servigio.» «Dobbiamo andarcene subito di qui», ordinò Tungdil, che aveva deciso di raccontare agli altri gli avvenimenti del «Curiosum» appena fossero fuggiti dalla città. Ma come faremo? «Gli albi sanno dove siamo. Ci daranno la caccia.» «Che cosa facciamo?» chiese lo scalpellino. «Ce la caveremo, Sapientone», intervenne Boëndal. «Scoppierà una battaglia davanti alle porte. Ci serve un passaggio laterale nelle mura. Taglieremo la corda da lì e ci faremo strada lottando ai margini della mischia.» Lanciò un'occhiata a Boïndil, che si era fatto improvvisamente silenzioso e cominciava a russare. «Anche se, date le circostanze, non sarà semplice», aggiunse con un sospiro. Goïmgar sbiancò. «Lottando?» gli fece eco. Immaginava già gli sciami di frecce, le spade sfoderate, le lance e i giavellotti, i grugniti dei
mezz'orchi, le urla dei bogglin e gli albi sinistri e silenziosi, tutti intenti a corrergli dietro. «Dobbiamo proprio?» «Sai volare? Senza catapulta, intendo» ribatté Bavragor. Goïmgar rispose di no. «Allora non abbiamo alternative.» Si udì un sonoro tonfo quando Boïndil, rigido come un'asse, crollò sul pavimento e non si mosse più. Ma il suo russare dimostrava che il martello di Vraccas non si era abbattuto su di lui. «Bel guerriero», commentò Goïmgar in tono di rimprovero. «Adesso che abbiamo bisogno di lui e che potrebbe trucidare decine di mezz'orchi, la birra lo mette fuori gioco.» «Non capisco», intervenne Bavragor, afferrando il nano insieme con Boëndal e stendendolo di traverso sul dorso di un pony. «La birra dei Lunghi non fa alcun effetto. Com'è possibile che sia così sbronzo?» «Ne hai bevuti cinque boccali anche tu?» domandò Goïmgar. «No. Sette. E altri due al mercato», disse l'altro, strizzandogli l'occhio e infilandogli in mano le redini. «Tieni. Questo è il compito adatto a te.» Stringendo il suo enorme martello da guerra, si posizionò dietro gli altri per coprire loro le spalle. Tungdil e Boëndal costituirono l'avanguardia. Udirono i clangori delle armi, ma ogni volta deviarono appena in tempo per schivare il pericolo, cosa che Goïmgar apprezzò molto. Gli abitanti di Mifurdania correvano tutt'intorno. Alcuni, intenzionati a difendere la patria, passavano loro accanto con le armi; altri stringevano a sé averi e bambini e cercavano rifugio nella parte ancora sicura del centro abitato. Un'altra città va incontro alla rovina... Ricordando la tragica fine di Gutenauen, Tungdil sapeva che cosa sarebbe accaduto, e dovette farsi forza per non infischiarsene della missione e correre in aiuto di quegli uomini, che avevano certamente bisogno di un'ascia affilata in più. Era lì lì per proporlo agli altri. Ma se uno di noi morisse? Senza la Lama di Fuoco, la Terra Nascosta sarebbe perduta. Sia pur combattuto, decise infine che, per quanto gli riuscisse difficile, doveva restare indifferente di fronte al destino di Mifurdania. Che gli dei ci assistano! Boëndal gli posò una mano sulla spalla. Il suo sguardo rivelava lo stesso tormento. Raggiunto il muro orientale, scorsero una porta laterale sorvegliata da due guardie che, sentendo il richiamo di un corno, afferrarono i giavellotti e si precipitarono verso l'ingresso settentrionale. Il fragore del
combattimento, che si levava da piazze e vicoli, divenne ancora più forte. I mezz'orchi respingevano i difensori. La porta dinanzi a loro era sprangata da quattro catenacci fissati da lucchetti e spesse catene, che solo una persona autorizzata avrebbe potuto rimuovere. «Che cosa abbiamo qui? Cinque birilli con le gambe? Ts, ts, ts, e vogliono scappare?» disse una voce in tono di biasimo. Un uomo con il pizzetto, i lineamenti aristocratici e raffinati abiti variopinti sbucò da una viuzza. Lo seguivano una donna alta e snella con un'armatura di cuoio e una lunga chioma corvina seminascosta da un fazzoletto vermiglio, e un altro tizio con i baffetti, i capelli neri, gli occhi grigioverdi e un abbigliamento modesto. Portavano ciascuno un sacco da marinaio. «Voi giganti poco cresciuti non sapete che è vietato utilizzare questa porta?» chiese Pizzetto. «Siete ladri?» ringhiò Bavragor, posando le mani simili a zampe sull'impugnatura del martello. Lo sconosciuto scoppiò in una fragorosa risata. «Gente, avete sentito? Buffi, i piccoletti», gridò all'indirizzo dei suoi accompagnatori. «Ebbene, mio barbuto amico senza un occhio, noi non facciamo neppure parte del popolo ordinario. Dunque come potremmo appartenere alla risma dei comuni criminali?» Le urla dei mezz'orchi si facevano sempre più forti e vicine. «Fatevi da parte», ordinò la donna senza indugio, passando tra i cinque nani stupiti senza sfiorarne nemmeno uno. Dopo avere staccato una borsa di cuoio dalla larga cintura, scelse alcuni pezzettini di ferro aguzzi, ricurvi e lunghi quanto dita, con cui si affaccendò intorno ai lucchetti. Di lì a poco si sentì uno scatto. «Ladri, allora», concluse lo scalpellino, compiaciuto. «Niente affatto, egregio signore», lo contraddisse Pizzetto. «Furgas è il miglior magister technicus da...» Agitò la mano nell'aria perché non gli veniva in mente da quanto tempo. «A... memoria d'uomo.» Indicò la donna. «Inoltre, ho l'immenso piacere di presentarvi l'affascinante Narmora, la cui bellezza fa avvizzire d'invidia le rose nel giardino del sindaco, e io sono...» «L'Incredibile Rodario!» esclamò Tungdil, che aveva riconosciuto la voce dell'attore. L'espressione dell'uomo si fece un po' più cordiale. «Un appassionato
della mia arte? Chi l'avrebbe mai detto? Vi ho sottovalutato...» Si interruppe. «Che il cielo mi fulmini! Voi siete il tipo che si è messo a correre, profanando la mia scena e distruggendo l'abile rete di illusioni in cui avevo intrappolato gli spettatori!» Con fare accusatorio, puntò gli occhi scuri sugli stivali di Tungdil. «Sì, ecco i malfattori! Quegli stivali e i vostri maledetti strilli hanno vanificato la mia bravura!» Si udì un altro scatto. Narmora aprì i lucchetti e sfilò le catene dagli anelli, gettandole a terra con un tintinnio. «Andate!» «E tu?» domandò Furgas, preoccupato. Narmora gli sorrise, dandogli un lungo bacio sulla bocca. «Richiudo e scavalco il muro. Non voglio si dica che abbiamo causato la devastazione della città spalancando la porta laterale ai mezz'orchi.» I nani uscirono per primi, seguiti da Rodario e Furgas. Notarono che i reparti degli aggressori erano accampati davanti agli ingressi principali e non si curavano dei lati di Mifurdania. Dai cammini di ronda, due soldati intimarono loro di fermarsi e farsi identificare, ma li ignorarono. Soltanto l'attore fece loro l'occhiolino. «Abbiate cura del mio teatro! Torneremo quando la battaglia sarà terminata. Vi auguro buona fortuna!» gridò, allegro. «Questa non è la scena di un dramma, Rodario», lo rabbuffò Furgas, rammentandogli la gravità della situazione. «Ma potrebbe esserlo», replicò l'attore. «Potrei trasformarla in uno spettacolo. Ottima idea, mio buon Furgas.» Si mise in una posa eroica, le mani sui fianchi. «Io nella parte di una guardia prode e impavida che avvista i mezz'orchi e ingaggia un combattimento contro... Anzi, no, che ne sconfigge cinque o sei e salva la città dalla distruzione.» A un tratto una corda penzolò dal muro. Narmora si calò velocemente e li raggiunse, mentre i soldati urlanti correvano a recuperare la fune prima che i mostri la vedessero. Il gruppo di Tungdil si affrettò a rifugiarsi nel bosco e i tre attori lo seguirono con determinazione. «In due parole, amici dell'oro e dei tesori, avreste qualcosa in contrario se vi accompagnassimo per un poco nella vostra gita sotterranea?» domandò l'Incredibile Rodario, con un luccichio accattivante negli occhi e l'aria del pescivendolo che si aspetta di ricavare parecchi soldi dalla sua merce scadente. «I tempi sono incerti e, se mi consentite, voi sembrate in grado di togliere di mezzo qualsiasi pericolo verde. Noi, invece, siamo
soltanto deboli attori.» Abbassando lo sguardo, mostrò le braccia gracili che spuntavano come manici di scopa dalle vesti costose. «Guardate, due uomini larghi quanto betulle di un anno, e una donna avvenente ma incapace di difendersi, che indossa l'armatura solo per vanità. Se le zampe delle bestie dovessero toccarla, solo gli dei sanno che cosa...» «Potete aggregarvi a noi. Nessuna obiezione», concesse Tungdil. Poiché Boïndil era ancora sbronzo, non avrebbero potuto contare sulle sue scuri durante un eventuale scontro. Il chiacchierone e i suoi due compagni sarebbero dunque potuti servire a distrarre una banda di mezz'orchi mentre Tungdil e i suoi amici attaccavano i mostri. «Non aveva detto: "In due parole"?» commentò Goïmgar alla fine di quello sproloquio. «Gli uomini cianciano molto quando hanno paura», osservò Bavrogar. «E quello se la starà facendo sotto. Avete visto le loro ridicole barbette? Io non avevo così pochi peli nemmeno quando ero un poppante», li schernì. Tungdil imboccò il sentiero verso la montagna, dove avrebbero dovuto caricare i loro preziosi tesori. Era lieto che lo scalpellino e il levigatore avessero parlato nella lingua dei nani e che gli uomini non avessero compreso gli insulti. Impiegheremo parecchio tempo per trasportare i lingotti su per le scale e dietro la cascata fino ai pony. Quell'intoppo avrebbe provocato un notevole ritardo, tanto più che, a suo parere, era stato creato di proposito per intralciarli. Non osava neppure pensare a dove dovevano essere Gandogar e la sua squadra, e imprecò perché non poteva fare a meno di chiederselo. Con fermezza, si costrinse a concentrarsi sulla strada e sui rumori della foresta. «Oh, ometto che sembrate essere il capo di questa piccola comitiva», lo apostrofò Rodario, materializzandosi al suo fianco senza rendersi conto che i rami secchi gli scricchiolavano sotto i piedi e che la sua voce riecheggiava nel bosco. «I Cavernicoli...» «I nani», lo corresse Tungdil meccanicamente. «D'accordo, l'occhio umano non vede tutti i giorni nani come voi, perciò mi chiedevo che cosa cercaste voi cinque fuori del sottosuolo. Siete forse stati scacciati dalla vostra gente?» «Non vi riguarda, signor Rodario.» «Ben detto, non mi riguarda. Ma avreste per caso un po' di tempo per vagabondare con me e i miei amici e partecipare a uno spettacolo teatrale?» domandò l'altro, sorridendo. «Con il vostro consenso, vorrei
scrivere un'opera che ruoti intorno a cinque nani. Saremmo così originali che tutti gli abitanti della Terra Nascosta ci vorrebbero vedere e ci coprirebbero di monete.» «No, signor Rodario. Abbiamo altro da fare.» «Altro da fare? Che cosa sarà mai?» L'Incredibile aggrottò le sopracciglia. «Siete alla ricerca di tesori?» «No, della Lama di Fuoco!» biascicò il Rabbioso dal dorso del pony, esprimendosi nella lingua comune. «Siamo diretti verso i Monti Grigi per forgiare l'arma contro Nôd'onn, con la quale squarceremo la sua pancia lardosa...» «Taci, ubriacone!» ordinò Boëndal, brusco. «Se proprio devi spiattellare tutto, parla nella nostra lingua.» «Non dategli retta», disse Tungdil all'attore, dal cui viso trapelava una curiosità pericolosa. Il nano si sforzò di apparire calmo per non rafforzare il sospetto che le affermazioni di Boïndil contenessero un briciolo di verità. «È sbronzo e vaneggia.» «Lasciate che vaneggi, io sono un ascoltatore attento. Gli artisti sfruttano ogni ispirazione», ribatté Rodario con disinvoltura. «E la storia suona bene, lo ammetto con franchezza. È questo che il popolo vuole vedere e sentire sul palcoscenico. Solo che... dove trovo degli uomini così piccoli? Bambini? Gnomi o coboldi con le barbe finte?» Alzò le braccia al cielo. «Ah, sarebbe tutto inutile! Perché sembri tutto vero, mi servono dei tipi robusti come voi Cavernicoli. Non preferireste venire con noi?» «Siamo nani, non Cavernicoli. Ricordatelo.» Boëndal gli lanciò un'occhiataccia. «Sta' zitto una buona volta, o vuoi trarre l'ispirazione dalle spade dei mezz'orchi piantate nella tua pancia?» L'uomo scosse i lunghi capelli castani e, tornato dai suoi due amici, cominciò a confabulare con loro. «Attori...», sospirò Boëndal. «Vedo già il Lungo che divulga la nostra storia nella piazza di ogni villaggio ancor prima che raggiungiamo i Monti Grigi. Se Nôd'onn venisse a conoscenza delle nostre intenzioni in questo modo...» Lasciò la frase in sospeso. «Prima che abbia finito di scrivere il copione, avremo sconfitto Nôd'onn già da tempo.» Tungdil gli diede una pacca sulla spalla per tranquillizzarlo. Tuttavia, quando vide che l'Incredibile Rodario aveva al collo un taccuino da viaggio e riempiva i primi fogli di appunti, non ne fu più così sicuro. «Li porteremo con noi.» «Vuoi scherzare!»
«No, li porteremo con noi nel regno dei Primi. L'attore non si lascerà sfuggire questa occasione. Li alloggeremo lì finché il nostro vantaggio sarà sufficiente o finché avremo compiuto la missione», spiegò Tungdil. «I Primi avranno senza dubbio camere comode ma a prova di fuga, in cui quei tre potranno godere dell'ospitalità del nostro popolo per molte rotazioni solari.» «Sempre ammesso che accettino di accompagnarci.» Tungdil gli fece l'occhiolino, sempre più compiaciuto della sua trovata. «Accetteranno. Farò credere a Rodario cose tanto stupefacenti sul regno dei nani che le vorrà vedere con i suoi occhi.» Boëndal borbottò qualcosa tra la barba. «Informo gli altri, perché non si meraviglino.» Con il debole pretesto di controllare l'assetto delle armature, Tungdil si accostò prima a Goïmgar e poi a Bavragor per rivelare loro il suo piano. Attraversando il bosco, tornarono a imbattersi nei cadaveri degli unicorni; Rodario annotò subito qualcosa e fece qualche schizzo di quelle creature, un tempo magnifiche e mansuete. Avremo fatto bene a fuggire? Rivedendo quel triste spettacolo, Tungdil fu tormentato ancora dal rimorso di aver piantato in asso Mifurdania, e dunque gli ultimi due unicorni conosciuti della Terra Nascosta. Dei, voi sapete che non avevamo altra scelta. Il gruppo arrivò ai piedi dell'altopiano, proprio dove un angusto sentiero nascosto conduceva all'elevato pianoro. «Attenti!» Boëndal tese i muscoli e levò l'azza. Lo scalpellino afferrò il martello da guerra e Goïmgar interpretò quel richiamo come un'esortazione a rintanarsi dietro il suo scudo. «Attenti? Attenti a che cosa? Brava gente, che cosa intendete fare?» domandò Rodario, mentre anche Narmora estraeva le armi. Una di esse dava l'impressione che l'artigiano che l'aveva realizzata avesse attaccato le due estremità arcuate di una falce ai lati di un corto mozzo centrale; l'altra presentava due lame diritte. A giudicare dal loro scintillio, erano state levigate sia all'interno sia all'esterno. Le dita della donna erano protette da guanti metallici. L'attore si voltò verso di lei. «Che cosa hai in mente, splendido fiore della Terra Nascosta?» Se le ultime settimane avevano insegnato qualcosa a Tungdil, aveva imparato a fidarsi dell'istinto dei suoi amici. Anche lui si tenne dunque pronto a fronteggiare una minaccia. Di lì a poco fiutò gli avversari invisibili. Sebbene le loro esalazioni
fossero più aspre e dolciastre di quelle dei mezz'orchi, percepì anche il tanfo di grasso rancido nel vento lieve. Ed eccoli che sbucarono dal sottobosco. Un'orda di bogglin chiassosi si scagliò contro di loro. Dai cespugli alle spalle dei mostriciattoli uscirono due mezz'orchi che, sferzandoli con fruste coperte di limatura di ferro, li aizzavano contro i nani e gli uomini. I bogglin, di per sé codardi, maneggiavano spadini pieni di scalfitture, imbrattati del sangue delle loro ultime vittime. Gesticolavano e saltellavano come scimmie, emettendo contemporaneamente urla di odio e paura e vibrando fendenti e stoccate a casaccio. Nella maggior parte dei casi annientavano i nemici solo grazie alla loro superiorità numerica, certamente non con il loro valore. Appena un bogglin cadeva, altri tre si affrettavano infatti a sostituirlo, picchiando, mordendo, graffiando o saltando addosso ai rivali e facendoli ruzzolare a terra. «In cerchio!» ordinò Boëndal, sbrigativo, trascinandosi dietro Goïmgar, che questa volta non poté far altro che schierarsi in prima linea. Rodario si dileguò all'improvviso, mentre Furgas e Narmora si unirono agli altri. I nani sferravano colpi implacabili, frantumando ossa e crani. Dovevano tuttavia badare che nessuno di quei lesti aggressori finisse loro tra le braccia. Goïmgar si trincerò dietro lo scudo, lo spadino che spuntava come un piccolo fulmine argenteo e trapassava i corpi protetti da inconsistenti armature di cuoio. Il suo usbergo grondava di sangue verdastro simile a pus. In combattimento Narmora era tre volte più agile di Tungdil e degli altri; le sue armi leggere ma incredibilmente affilate la rendevano superiore ai bogglin. Ben presto la battaglia volse a favore dei nani e degli uomini, finché i mezz'orchi frustarono con tanto vigore i loro parenti più piccoli che questi ultimi, terrorizzati, si avventarono contro il gruppo. Il loro massiccio attacco costrinse il cerchio dei difensori a stringersi. I nani si ostacolavano a vicenda quando alzavano le braccia, inoltre la lunga punta dell'azza e il manico del martello da guerra si impigliavano tra loro, e Bavragor perse la sua arma. Due o tre creature gli balzarono subito addosso, atterrandolo. Altri approfittarono della breccia, mettendo Tungdil in serie difficoltà. In quel momento risuonò un forte sibilo, e una nuvola di fumo verde brillante si levò tra due alberi, ululando e scoppiettando. Dalla nebbia emerse la sagoma indistinta di un gigantesco mostro con due teste. Lanciò un grido tonante, sputando fiamme luminose contro i bogglin dai denti
aguzzi. Due bestie caddero vittime del fuoco, le altre si irrigidirono per lo spavento. Il diversivo permise a Bavragor di recuperare il martello e spappolare i pochi bogglin che erano penetrati nel cerchio. Anche Tungdil e Boëndal passarono all'offensiva. «Mi sbarazzo io di quel bestione se viene da questa parte», dichiarò il guerriero. «Finché si occupa dei mostriciattoli, lasciamolo in pace.» Narmora si allontanò, scomparendo tra gli arbusti più vicini e riemergendo alle spalle di uno dei mezz'orchi. Le lame ricurve penetrarono nella robusta nuca della creatura, che si accasciò con un sussulto. La donna schivò con agilità la frusta del secondo avversario. Spiccando un balzo, gli atterrò davanti e, piegandosi, gli conficcò l'altra arma nel ventre con un fendente orizzontale. Le punte sottili perforarono gli anelli della cotta e la pelle, raggiungendo le viscere e uccidendo la bestia. Intimiditi dal mostro sconosciuto e dalla sconfitta dei loro alleati più grandi, i bogglin si diedero alla fuga, disperdendosi in tutte le direzioni e lasciandosi dietro trenta cadaveri. «Adesso tocca a te, ripugnante figlio di Tion», ringhiò Boëndal, chinando il capo e attaccando lo Sputafuoco, che si ritirò in tutta fretta nella nebbia sempre più rada. «Fermo», strillò Furgas al nano. «Quello è Rodario!» «Che cosa?!» Bavragor, che aveva levato il martello e si apprestava a prendere lo slancio ruotando su se stesso, strizzò gli occhi. Dopo un intenso fruscio, riecheggiò una fragorosa risata. «Forse sono scappati», gridò l'attore prima di riemergere dalla bruma con un vestito di cuoio troppo lungo. Nella destra teneva le teste enormi, nella sinistra i due trampoli pieghevoli che gli avevano consentito di diventare più alto. «Ho pensato che vi sarei stato più utile come mostro che come guerriero. Le mie conoscenze belliche danno qualche frutto solo quando sono sul palcoscenico o quando voglio divertire i miei avversari. Perciò ho recuperato in tutta fretta un paio di utensili per mostrare alle bestie in miniatura qualcosa di cui avere rispetto. L'alchimia è una cosa meravigliosa.» «Stavo per ammazzarti!» esclamò Bavragor, allibito. «Allora sembravo vero?» gracchiò Rodario, prendendolo come un complimento e facendo un profondo inchino. «Ebbene, egregi spettatori? Niente applausi?» chiese, deluso, poiché i nani si limitavano a fissarlo increduli.
«Gli uomini sono folli», commentò Bavragor, asciutto. «Ho sempre pensato che Boïndil fosse insuperabile, ma questo qui batte qualunque manifestazione di pazzia io abbia mai visto.» «Ma la sua pazzia ci ha reso un grande servigio», gli fece notare Tungdil. «Senza di essa probabilmente saresti morto, Bavragor. Una bestia di carta e stoffa, e noi ci siamo cascati...» Non riuscì a trattenere una risata e, dopo l'esitazione iniziale, gli altri nani lo imitarono. L'attore si inchinò di nuovo, questa volta con un largo sorriso. «Grazie, grazie. Va bene anche così, perché il vostro vivace battimani indica che avete gradito la rappresentazione.» Pensando che fosse il momento giusto, Tungdil chiamò i tre esseri umani. «Mi sono consultato con i miei amici», confessò con l'espressione di chi ha un importante segreto da rivelare. «Giacché vi siete dimostrati degni di fiducia, meritate di conoscere la verità sul nostro conto. Siamo diretti nel regno dei Primi, tra i clan che proteggono il passaggio occidentale dagli invasori.» «Capisco. Vi riunite per opporvi a Nôd'onn?» chiese Rodario, entusiasta. «Allora le ciance sulla Lama di Fuoco non erano vaneggiamenti?» Si frugava già nelle tasche alla ricerca della penna. «Ecco la nostra proposta: ci accompagnerete dai Primi per ammirare lo splendore del loro regno. Questo e alcune monete d'oro saranno la ricompensa per il vostro aiuto.» Accorgendosi che fino ad allora le sue parole avevano sortito un effetto solo su quel bellimbusto di Rodario, si dilungò sullo sfarzo di quelle terre pur non avendole mai viste di persona, inventando le costruzioni più stupefacenti per attirare Furgas e blaterando di monili e armature nella speranza di suscitare la curiosità della donna. Al termine del suo lungo discorso, attese la risposta con impazienza. Notò con orrore che Bavragor posava le mani sull'impugnatura del martello insanguinato e aveva tutta l'aria di volerli aggredire in caso di rifiuto. Boëndal non sembrava meno agguerrito. «Potrei aprire un nuovo teatro», meditò Rodario, strofinandosi il pizzetto. «Furgas, immagina i progressi che potremmo fare sul piano tecnico! Vedremo cose che nessun uomo ha mai visto prima di noi.» «D'accordo», acconsentì il magister technicus; soltanto Narmora pareva tutt'altro che entusiasta. Furgas la baciò e le accarezzò la testa con affetto, ma lei storse la bocca. «Accetterai anche tu, vero?!» Tungdil la osservò con molta attenzione. Era l'attrice che aveva impersonato l'alba al «Curiosum». Il suo viso tuttavia non è abbastanza
elfico. È una donna che, grazie a un caso fortunato, ha ricevuto in dono una bellezza superiore a quella di molte altre rappresentanti della sua razza. «Posso domandarvi dove avete imparato a combattere in quel modo?» le chiese con noncuranza. Sollevando il braccio, indicò le armi che le pendevano dalla larga cintura, infilate in sottili foderi di cuoio. «Come si chiamano? Non ne ho mai viste di simili.» «Si chiamano Mezzaluna e Raggio di sole. Le ho inventate io stessa.» «Voi?» Furgas la baciò ancora. «Recita la parte dell'alba nel nostro dramma, e abbiamo pensato che dovevamo dare agli albi armi inconsuete», spiegò, radioso e fiero della fantasia della sua compagna. «Abbiamo impiegato parecchio tempo per trovare un fabbro in grado di forgiarle.» «Non stento a credervi», concesse Tungdil, senza insistere. Indicò il ripido sentiero. «Saliamo lassù prima che i bogglin ritrovino il coraggio.» Fece tuttavia alcune considerazioni tra sé e sé. Simili armi non si inventano, e men che meno si impara a maneggiarle con tanta destrezza... Dai volti di Boëndal e Bavragor capì che anche loro la pensavano così. Quella donna era un'autentica ed eccellente guerriera che, per qualche motivo, preferiva il palcoscenico al campo di battaglia. Il nano scorse la tenerezza negli occhi di Furgas quando l'uomo abbracciò Narmora. Che abbia voltato le spalle alla guerra per amor suo? ipotizzò. Gliel'avrebbe chiesto alla prima occasione. Sebbene sembri ancora molto giovane, è stata senza dubbio un soldato nell'Idoslân o nei domini della regina Umilante. Furgas e Narmora aiutarono Rodario a togliersi i pantaloni troppo lunghi. Goïmgar si occupò dei pony spaventati che, strano a dirsi, non erano scappati durante il combattimento. Boïndil russava ancora sul dorso del cavallino e smaltiva la sbornia dormendo. «Sentitelo!» fece Bavragor. «Fa tremare i rami degli alberi.» «Sono ansioso di vedere la sua faccia quando gli diremo che si è perso una scaramuccia», osservò Boëndal con gioia maligna. «Non toccherà più una goccia di birra per il dispiacere.» La piccola processione si inerpicò fino al pianoro, da cui si vedevano Mifurdania e dintorni. Un denso fumo si stendeva sulla città, e tanti puntini neri le vorticavano intorno. Nulla indicava che i difensori avrebbero riportato una vittoria sulle orde di Nôd'onn. Lo spettacolo scoraggiante guastò persino il buonumore di Rodano. Narmora, indifferente, rimase sul
bordo dell'altopiano e scrutò con attenzione il bosco più in basso, mentre Furgas si avvicinò all'acqua con i nani per ripulirsi le mani dal sangue dei bogglin. «Dove andiamo adesso?» domandò, accorgendosi che lassù non vi erano altre strade. «Di nuovo sottoterra, appena avremo caricato alcune cose», rispose Tungdil. «Prima di avviarci verso Mifurdania, abbiamo nascosto i doni per i Primi. Sono in una piccola grotta dietro la cascata.» «Avete bisogno di aiuto?» si offrì Furgas. «No, non è necessario», rifiutò il nano per evitare che scoprissero il segreto delle gallerie. «Ora riposate un po': monterete la guardia più tardi, quando noi dormiremo.» Rivolgendo loro un cenno del capo, tornò nel pozzo insieme con Goïmgar, Bavragor e Boëndal. Fu una vera faticaccia. Sgobbarono ore e ore finché ebbero portato fuori tutti i lingotti d'oro, argento, palandio, vraccasio e nonio. Gli sforzi della battaglia e della sfacchinata fecero sì che, al calare delle tenebre, i nani si adossassero alla roccia e si addormentassero, sfiniti. Boïndil si era svegliato da poco e si vergognava molto, non di aver alzato il gomito, ma di non aver saputo reggere l'alcol, come gli fece notare prontamente Bavragor. Studiò i tre attori con profonda diffidenza, preferendo scambiare solo poche parole con loro. Non avendo partecipato al combattimento contro i bogglin, non poteva valutare le capacità belliche dei tre esseri umani, e finché non l'avessero convinto come avevano convinto gli altri, si riservava di essere scorbutico. Lo charme di Rodario non sortì alcun effetto su di lui.
Terra Nascosta, regno del Secondo, Beroïn, 6234° ciclo solare, autunno «Il tuo regno ci appartiene, Gundrabur», affermò l'albo, in piedi accanto al letto dell'imperatore. L'oscurità lo avviluppava, rendendolo quasi invisibile. «Lo prenderemo e basta, proprio come abbiamo già conquistato quello dei Quinti.» «E tu non potrai farci niente.» Un secondo albo si materializzò tra le tenebre della stanza, guardandolo. Sul suo volto spiccavano alcuni tatuaggi neri che ne mettevano maggiormente in risalto il pallore, conferendogli un aspetto che incuteva paura. «Morirai e te ne starai seduto piagnucolando nella fucina eterna del tuo Vraccas.» «Tutti ti dimenticheranno, vecchio nano malaticcio», profetizzò un terzo albo, che era sbucato dal buio senza fare rumore e si era fermato ai suoi piedi. «Sei l'imperatore che nei suoi ultimi giorni ha preteso molto ma non ha ottenuto alcunché.» Tese le orecchie, gli occhi viola rivolti al soffitto. Riecheggiarono alcuni colpi distinti: era uno scalpello che batteva contro la roccia. «Lo senti, Gundrabur? Sono i clan dei Secondi. Cancellano il tuo nome perché sei stato un sovrano inetto.» A un tratto gli scalpelli divennero migliaia, e il loro martellio penetrò nella testa di Gundrabur. «Di te non rimarrà più traccia e il periodo del tuo regno, segnato dallo smacco della sconfitta, si chiamerà Epoca senza nome. Per colpa tua, nano. Per...» «Gundrabur! Gundrabur!» Gli albi si voltarono verso la porta, che si spalancò. Una luce intensa inondò la camera. «Ci rivedremo presto», si accomiatarono i tre esseri all'unisono, prima di scomparire in un'oscurità così fitta che neppure i suoi occhi riuscirono a sondare. «Gundrabur!» Tremando, l'imperatore si riscosse dal sogno con il cuore che gli batteva all'impazzata e impiegò parecchio tempo per ritornare alla realtà. Gemendo, si passò la mano sulla faccia. Balendilín sedeva sul suo letto, impegnato a tergergli il sudore freddo dalla fronte e a strizzarlo in una piccola ciotola che, posata sul suo ventre, vacillò pericolosamente. «Hai avuto un incubo», lo rassicurò il consigliere, stringendogli la mano. «Mi aspettano», sussurrò Gundrabur, spaventato, e sembrava più
vecchio del solito, un nano decrepito che rischiava di svanire tra le lenzuola. «E hanno ragione.» Rapidamente, ma con voce rotta, gli raccontò la visione. «Non mi alzerò più da questo letto, Balendilín», sospirò. «Avrei preferito morire lottando contro Nôd'onn o spaccare il cranio almeno a un mezz'orco in vita mia.» Rise e tossì al tempo stesso. «I demoni sanno da dove scaturisce questa debolezza.» Anche Balendilín credeva di conoscere bene la causa dello stato di Gundrabur. Dopo aver bevuto la birra con cui avevano brindato al termine del colloquio con Bislipur, l'imperatore si era sentito male per tre giorni. Gli era venuta la febbre e il suo stomaco aveva rifiutato qualsiasi cibo o bevanda. Quello che il consigliere era riuscito a sopportare grazie alla sua robusta costituzione si era rivelato devastante per il vecchio nano. Nel frattempo Balendilín aveva scoperto che il servitore incaricato di portare i boccali aveva incontrato Bislipur lungo il tragitto. Il mentore di Gandogar si intendeva di intrighi come se avesse preso lezioni dai coboldi, ma non era possibile accusarlo di nulla. Con questo avvelenamento ha compiuto un gesto che lo tramuterà in un assassino, nell'assassino del sovrano supremo del nostro popolo. Balendilín giurò a se stesso di denunciarlo appena avesse avuto la minima prova delle sue azioni scellerate e di farlo processare e giustiziare. E se il suo avversario non avesse commesso un errore entro breve, lui stesso l'avrebbe spinto a fare un passo falso. «Non ho discendenti, perciò ti ho nominato mio successore», aggiunse Gundrabur con un filo di voce. «Guiderai i clan dei Secondi e sarai un re migliore di quanto lo sia stato io.» Balendilín gli tamponò le gocce di sudore dall'alta fronte. «Sei stato un buon sovrano», lo contraddisse. «E lo sei ancora.» Gli occhi di Gundrabur si inumidirono. «Voglio andare fino alla Porta Alta, dove ho combattuto le mie battaglie più gloriose.» «Non è una buona idea. Nelle tue condizioni, lo sforzo potrebbe ucciderti.» «Allora che sia fatta la volontà di Vraccas e che il posto si liberi per te!» Scostata la scodella, Gundrabur si alzò. «La mia ascia, la mia armatura» ordinò, riacquistando almeno in parte l'antica imponenza a mano a mano che indossava le varie parti della corazza: un farsetto di cuoio, una leggera cotta lunga fino alle ginocchia e rinforzi di metallo tempestati di gemme per il collo, le spalle e il petto, cui si aggiunsero l'elmo e i guanti, gli stivali con la suola di ferro e i pantaloni di pelle. Infine, afferrò l'ascia, il cui
manico gli arrivava fino all'anca, e si avviò verso l'uscita. Le parole supplichevoli del consigliere non servirono a nulla. L'imperatore aveva preso una decisione e, con la testardaggine tipica dei nani, non si sarebbe lasciato dissuadere. Percorsero insieme i corridoi del regno. Balendilín sorresse Gundrabur lungo il cammino e durante tutte le brevi pause che dovettero concedersi dopo ogni rampa di scale. Finalmente giunsero sul terrapieno che i loro antenati avevano eretto contro l'ondata dei mezz'orchi e delle altre bestie, e salirono sul cammino di ronda più alto. Ansimando, Gundrabur sedette sul blocco di pietra più basso tra due merli. Sebbene il sudore gli imperlasse il volto, e le mani e le braccia gli tremassero, aveva un'aria felice. Quando il vento proveniente da sud giocherellò con i suoi capelli candidi, trasparenti come lana sottile, chiuse gli occhi. «Bislipur ha versato nella birra qualcosa che mi indebolisce. Sono sicuro che lo pensi», disse. «E credo che tu abbia ragione. Ma anche se Bislipur lotta con tutti i mezzi, non diventare come lui per sconfiggerlo, Balendilín, altrimenti sarai altrettanto perfido e abietto.» Balendilín gli si affiancò, scrutandolo attentamente. «Allora che cosa posso fare contro di lui? Il fuoco non si combatte forse con il fuoco?» «Si tradirà, e tu dovrai essere pronto a smascherare la sua falsità davanti a tutti, cosicché persino i suoi migliori amici lo abbandonino. Ma per ora mantieni il silenzio, altrimenti i clan dei Quarti diranno che lo temi. L'acqua non solo spegne le fiamme, ma non lascia bruciature, cosa che invece accadrebbe se si usasse altro fuoco.» Gli occhi annebbiati di Gundrabur lo fissarono. «Questa volta sii come l'acqua, Balendilín, per il bene dei nani.» Il suo sguardo spaziò verso l'ampio fossato in cui giacevano i resti putrefatti di innumerevoli bestie. «Durante la mia reggenza, nessun mezz'orco è riuscito ad arrivare da questa parte», mormorò con una sfumatura di orgoglio nella voce. «Abbiamo protetto la Terra Nascosta dalla genia di Tion. Ora la salveremo dalla minaccia che viene dall'interno.» Tacque per un istante, contemplando le rocce maestose e aspirando con aria circospetta l'aria della sera. «Sei stato tu a mandarmeli, mio caro amico?» bisbigliò, riconoscente. «Volevi offrirmi l'opportunità di morire da guerriero?» Sollevando l'ascia, ne controllò la lama affilata con il pollice. In quel momento, le guardie sugli spalti lanciarono l'allarme: avevano
avvistato i mostri in avvicinamento. I corni tonanti chiamarono i nani alle armi, le porte della fortezza si spalancarono, i soldati di stanza sul bastione lasciarono i loro alloggi e scesero di corsa le scale verso i cammini di ronda. Balendilín osservò il volto sempre più ringiovanito del suo sovrano. L'odore degli odiosi mezz'orchi aveva riacceso il fuoco nella fucina della sua vita, rendendone limpidi gli occhi e ferma la mano intorno all'impugnatura dell'arma. Un miracolo! «Abbassate il ponte», ordinò Gundrabur, balzando in piedi. Le gambe, che fino a poco prima avevano tremato sotto il peso della cotta, lo sostenevano con facilità, e il sovrano pareva addirittura più alto. «Voglio vedere se i mezz'orchi sono incapaci come ai bei tempi e se un vecchio nano riesce a metterli in fuga.» Quando la porta si sollevò, i pilastri di sostegno si staccarono dal fondo del fossato e le prime lastre di pietra si unirono in una passerella che si stendeva sopra il burrone; cinquecento nani formarono una scorta per l'imperatore. Balendilín fece un ultimo tentativo. «Morirai, Gundrabur. Ti prego...» L'altro gli posò la mano sulla spalla, al che Balendilín alzò la sua e gliela strinse con vigore. «Voglio morire, mio fedele amico, prima di spegnermi lentamente a causa del veleno. Non darò a Bislipur la soddisfazione di uccidermi con i suoi subdoli trucchi», gli sussurrò, abbracciandolo a lungo. «La mia morte sarà gloriosa, degna di un membro del nostro popolo. La gente la ricorderà con rispetto.» Si staccò dal suo consigliere. «I primi dieci mezz'orchi che cadranno per mano mia saranno per il tuo braccio perduto. Addio, Balendilín. Ci rivedremo nella fucina di Vraccas», disse e, sorridendo, si voltò. «Guerrieri della stirpe di Beroïn!» chiamò forte. I muri della fortezza riverberarono la sua voce, portandola lontano. «Combattete con me e difendete il regno e la Terra Nascosta!» I nani lanciarono grida di gioia, felici che l'imperatore scendesse in campo al loro fianco, perché non sapevano nulla del perfido attentato alla sua vita. Ci rivedremo! A Balendilín si serrò la gola quando, seguendo il suo signore con lo sguardo, vide con quale solennità varcava la porta e percorreva il ponte, al riparo dal fuoco delle balestre e delle catapulte, finché lui e i suoi uomini si scontrarono con le prime file di bestie e ingaggiarono un combattimento ravvicinato. Trascorse molto tempo prima che si diffondesse la terribile notizia della
fine di Gundrabur. In quell'istante Balendilín decise di essere fuoco e di ammazzare Bislipur nonostante il consiglio dell'amico. Non è nella nostra natura essere acqua, pensò con rabbia. Noi amiamo il fuoco. *
*
*
Il quinto giorno dopo la scomparsa dell'imperatore, gli affari erano ancora sospesi nel regno dei Secondi. I nani di tutti i clan si radunarono a migliaia nell'immensa camera ardente, le cui colonne parevano innalzarsi senza fine. Al centro vi era il sarcofago di pietra che gli scalpellini più abili della stirpe avevano realizzato e decorato con le incisioni più belle per commemorare le gesta di Gundrabur e, soprattutto, l'ultima, vittoriosa battaglia contro i mezz'orchi davanti alla Porta Alta. Sul coperchio era scolpito il ritratto del nano, fedelissimo anche se un po' troppo giovanile, un Gundrabur di marmo con la sua armatura più bella, le dita posate intorno al manico dell'ascia. La bara era stata posizionata in alto affinché fosse visibile anche dalle ultime file e da molto lontano. Sottili raggi di sole filtravano attraverso le fessure della montagna da tutti e quattro i punti cardinali, ammantandola di uno splendore ultraterreno. Il momento dell'addio... Un Balendilín dall'espressione seria salì i gradini fino al feretro e si fermò ai suoi piedi. Inginocchiatosi, abbassò la fronte per porgere i dovuti rispetti al defunto. Poi si rialzò e guardò la moltitudine di nani di cui ora sarebbe diventato il sovrano. «Ha fiutato i mostri davanti alla Porta Alta ancor prima che le guardie li avvistassero. Ha sempre riconosciuto i nostri nemici prima di tutti gli altri e ci ha protetti da loro», dichiarò con voce stentorea. Senza volerlo, guardò Bislipur, che era fermo ai margini dell'assemblea con i clan dei Quarti, ma non si era potuto permettere di mancare alle esequie. «Il nostro signore si è spento prima di realizzare il sogno di una solida alleanza tra le stirpi della nostra gente, ma ha cominciato qualcosa di nuovo, qualcosa di grandioso. Giuro su Vraccas, il Fabbro divino, che ora i suoi obiettivi saranno i miei e che non troverò pace finché li avrò raggiunti.» I presenti manifestarono il loro consenso battendo i manici delle asce contro il pavimento. Un rimbombo si propagò nelle viscere del monte. Balendilín non riuscì ad aggiungere altro, perché la tristezza gli serrava la gola. Si avvicinò dunque all'altra estremità del sarcofago, dove baciò il ritratto in fronte, si inginocchiò ancora una volta e scese. Cinquanta portabara si affrettarono a infilare lunghe barre nelle asole nascoste del feretro e, a un ordine, lo sollevarono. In silenzio portarono il loro carico giù per i gradini e attraverso il salone, cosicché i nani potessero inchinarsi per l'ultima volta davanti al sovrano prima che venisse trasferito nella sala dei re.
Balendilín, che avrebbe vegliato da solo la salma per tutta la notte, seguì la bara. L'indomani, quando fosse tornato dalla camera sepolcrale, avrebbe indossato la corona dei Secondi e, un giorno, avrebbe riposato accanto a Gundrabur. Con la coda dell'occhio notò che Bislipur si faceva largo fino alla prima fila. Il suo nemico lo scrutava come se volesse leggergli nel pensiero per scoprire che cosa lo minacciava. Fai bene a temermi, Bislipur. Non sfuggirai alla giusta vendetta. Balendilín guardò dritto davanti a sé, fingendo di non aver visto il nano nerboruto. I portabara entrarono nella sala dei re e adagiarono il sarcofago sull'apposita pedana di basalto. Più in alto era stato praticato un nuovo foro nelle pareti della montagna, perché il sole della Terra Nascosta potesse rischiarare il volto di pietra dell'imperatore. I nani lasciarono l'ampio locale in cui si trovavano le spoglie mortali dei sovrani della stirpe, ventisei in tutto. Dopo essersi spostato verso l'angolo più lontano, Balendilín posò l'ascia sul pavimento con l'impugnatura in avanti e appoggiò la destra sulla testa dell'arma, fissando i lineamenti del suo amico e signore. Addio, Gundrabur! Irrigiditosi come il marmo, non percepì più il trascorrere del tempo. I suoi pensieri si persero nel nulla davanti al feretro, e la sua mente si svuotò del tutto, abbandonandosi al dolore. Di quando in quando credette di udire alcune voci, gli spiriti degli altri defunti, che sussurravano al suo indirizzo, ma non ne comprese le parole. Secondo le leggende dei Secondi, le anime degli imperatori morti tornavano dalla fucina di Vraccas ed esaminavano con cura i loro successori, perché si riservavano di rifiutare i futuri sovrani in base a criteri ben precisi. Alcuni pretendenti al trono erano rimasti prigionieri della sala e non erano più ricomparsi. Quel destino gli fu risparmiato. Quando, il mattino dopo, uscì dalla stanza stanco, spossato e con le ossa rotte, fu accolto dalla medesima moltitudine di nani con un inchino e il frastuono dei manici delle asce. I presenti salutarono il nuovo monarca e gli porsero pane, prosciutto e birra al malto affinché riprendesse presto le forze. Balendilín mangiò alcuni bocconi, li inghiottì con la birra e si arrampicò sulla pedana su cui in precedenza era stata esposta la bara di Gundrabur. «Non desideravo questa carica», esordì con voce chiara e forte. «Avrei preferito vedere Gundrabur sul trono per altri cento cicli o più e servirlo
con fedeltà, ma le cose sono andate diversamente. Il martello di Vraccas ha colpito il nostro signore dopo che aveva massacrato quattordici mezz'orchi ed era stato trapassato da quattro frecce.» Abbracciò la folla con lo sguardo. «Mi ha tuttavia nominato suo successore, dunque vi chiedo: "Mi volete come nuovo sovrano?".» Un sonoro «Sì» riecheggiò da ogni parte, il legno batté ancora sulla pietra, quindi tutti gridarono il suo nome e Balendilín fu percorso da un brivido di commozione. «Avete votato. Non dimenticate mai Gundrabur e realizzate il suo sogno», urlò. «La difesa della Terra Nascosta è il nostro compito comune, a prescindere dalla stirpe o dal clan cui apparteniamo.» Cercò Bislipur tra la calca e lo individuò dove l'aveva scorto il giorno prima. «Vieni da me!» lo pregò, invitandolo con un gesto della mano. Sbalordito, l'altro si incamminò, si arrampicò sulla pedana zoppicando e lo salutò con un cenno del capo. I suoi freddi occhi scuri assunsero un'espressione disorientata. «Le nostre stirpi non hanno più un monarca, e i due nani candidati a occupare questa posizione sono impegnati nella loro ultima prova. Non è un segreto che io e Bislipur abbiamo aspirazioni diverse. Fintanto uno dei due pretendenti non sarà tornato, prometto solennemente di porre fine al nostro dissidio, affinché il rapporto tra le nostre stirpi non si deteriori e non rischi di trasformarsi addirittura in inimicizia.» Assunse una postura ancora più solenne. «Riflettete: la discordia tra noi nani rafforza il male. Pertanto, qualunque cosa ordini il futuro sovrano, gli obbediremo e lo seguiremo fedelmente.» Balendilín tese la mano aperta al suo interlocutore. «Sei anche tu dello stesso parere?» Bislipur non poté far altro che stringergliela, ma non apparve per nulla scoraggiato o furibondo, cosa che insospettì l'ex consigliere. «Giuro che, come te, non cercherò di convincere delle mie ragioni il consiglio delle stirpi fino al rientro di uno dei due candidati», ripeté con chiarezza. «Vogliamo cose diverse, ma abbiamo lo stesso nemico: il male. In qualunque forma si presenti, il suo annientamento è sempre stato e sempre sarà la missione del nostro popolo.» L'assemblea li acclamò mentre si stringevano la mano e si guardavano negli occhi con fermezza. Nessuno notò che con lo sguardo si giuravano odio eterno. «Per dimostrarvi che intendo mantenere la mia promessa, propongo di iniziare subito la lotta contro il male», continuò Bislipur. «Possiamo forse
permettere che i mezz'orchi si diano alle stragi e ai saccheggi davanti alle porte di Orcomorto?» Si rivolse ai nani. «Io dico di no!» Le grida entusiastiche gli diedero ragione, confermandogli che i presenti la pensavano come lui. «Ho inviato nel Nord una delegazione che, attraverso i tunnel, raggiungerà i clan dei Quarti e tornerà con cinquemila dei nostri migliori guerrieri», rivelò ai suoi ascoltatori e a un Balendilín esterrefatto. «I clan dei Quarti e dei Secondi scacceranno i mezz'orchi da questa regione. Insieme!» Alzando le braccia, sollevò l'ascia bipenne, che rifletté la luce del sole con uno scintillio. «Realizziamo parte del sogno di Gundrabur creando un esercito unito dei nani!» Quella frase fu accolta da urla di approvazione e da rimbombi così violenti da far tremare il granito. Bastardo! Balendilín fece buon viso a cattivo gioco. So che cosa hai in mente, pensò, scrutando il volto duro di Bislipur. Hai chiamato il tuo esercito per premunirti contro di me. Oppure ora ambisci al trono imperiale per condurre la guerra contro gli elfi? Bislipur si rivolse al suo avversario con occhi gelidi e spietati. «La caccia si aprirà tra breve, re Balendilín», dichiarò prima di scendere gli scalini. Non specificò quale fosse la preda.
II Terra Nascosta, regno incantato di Oremaira, 6234° ciclo solare, tardo autunno Dopo una notte così fredda da sembrare invernale, l'indomani mattina caricarono i lingotti sui pony e si avviarono verso ovest. Dalla città non salivano più nubi di fumo; le case erano state abbandonate e i puntini scuri giacevano immobili davanti alle mura. Ciascuna macchia corrispondeva a un cadavere, e la pianura intorno a Mifurdania si era tinta di nero. Tungdil odiava più che mai i mezz'orchi e Nôd'onn. Gutenauen, Mifurdania, innumerevoli borghi, villaggi e fattorie, mezza Terra Nascosta è in fiamme. In lontananza, verso nord-ovest, si levava una nuvola di polvere. L'esercito delle bestie doveva essere diretto da quella parte. Non mi arrenderò mai! Strada facendo mangiarono un po' di pane e frutta essiccata. I nani inghiottirono quel cibo controvoglia, ma non avevano altro. Nella fretta avevano scordato di acquistare nuove provviste in città, e nessuno voleva tornare indietro. Se non altro Goïmgar raccolse un paio di funghi che lui e i suoi amici consumarono crudi. «Dobbiamo davvero portarli con noi nei cunicoli?» Boïndil si guardò alle spalle accennando ai tre esseri umani. «Aspettiamo di vedere che cosa troviamo tra ottanta miglia», rispose Tungdil. «Magari l'ingresso non esiste più, e dovremo continuare a camminare.» «Allora propongo di comprare pony per tutti», si intromise Goïmgar. «Non ti fa male usare le tue esili gambette», replicò il Rabbioso, sprezzante. «Persino la donna è più forte di te. Impegnati e comportati come un figlio del Fabbro.» Dopo due rotazioni solari sotto la pioggia torrenziale raggiunsero una pianura delimitata da montagne a settentrione. Secondo la mappa di Tungdil, quei rilievi si chiamavano Pietre dei Re, e ai loro piedi si stendeva la città di Königsstein. Il nano ricordava di aver letto del suo sfarzo nei libri di Lot-Ionan. Quasi tutta la piccola nobiltà del regno di Weyurn vi teneva palazzetti e dimore lussuose, non perché l'aria fosse particolarmente salubre, ma per via dei balli e del prestigio. «Acquistiamo i pony e proseguiamo», decise Tungdil mentre procedevano verso le porte di Königsstein. «Ma non ci spingeremo fino al
centro della città, dove si trovano le case dei ricchi. Dovremmo trovare viveri e cavalli nei quartieri più modesti.» «Estremamente deplorevole», affermò Rodario con voce nasale, imitando il tono altezzoso di un aristocratico. «Abitavamo poco distante dai ricconi e non abbiamo mai avuto occasione di fare una scappata a Königsstein.» La vista delle mura massicce e dei numerosi soldati lo tranquillizzò. Quei bastioni offrivano una protezione sufficiente dai Pelleverde e dai Pellenera. «Potremmo organizzare una breve recita improvvisata», disse, rivolgendosi ai suoi due accompagnatori con gli occhi che gli brillavano. «Un teatro estemporaneo, che cosa ne pensate? Riempiremo le borse vuote con i nostri guadagni, sia pur esigui, acciocché non dobbiamo più patire la fame.» «Sai parlare anche normalmente?» abbaiò il Rabbioso, tastandosi i lati ispidi della testa, che avevano assoluto bisogno di una rasatura. «Io parlo come mi pare, signor nano», ribatté l'attore, offeso. «Esistono esseri che possiedono altre capacità espressive oltre ai rutti, ai ringhi e ai borbottii. Perché dovrei celare la mia istruzione, quando voi non fate mistero di esserne privo?» «Sono impaziente di vedere a che cosa ti serviranno le chiacchiere contro un Muso di porco», bofonchiò il guerriero, astioso. Boëndal, invece, domandò a Rodario come avesse fatto a emettere il getto di fiamme contro i bogglin. L'altro sfoderò un sorriso radioso. «L'ha inventato Furgas. Si tratta di un tubicino colmo di semi di erba strega facilmente infiammabili che soffio sopra uno stoppino acceso attraverso la testa finta, sputando così il fuoco.» Si arrotolò la manica. «Dispongo anche di una variante meno appariscente per quando vesto i panni del mago. Mi fisso il tubicino all'avambraccio. L'estremità munita di una piccola pietra focaia va posizionata davanti, all'altro capo vi è un sacchettino di cuoio pieno di aria e semi.» Gesticolava con foga per rendere più vivida la sua descrizione. «Quando premo il sacchetto, i semi schizzano fuori. La pressione aziona contemporaneamente una cordicella, la pietra focaia viene tirata all'indietro e ne scaturisce una scintilla che incendia i semi.» Le sue mani imitarono i movimenti di una palla infuocata. «Il trucco finisce e il fuoco magico sparisce nel nulla.» Dopo averlo ascoltato con attenzione, Boëndal guardò Furgas con aria ammirata. «Un'invenzione geniale.» Il magister technicus lo ringraziò con un cenno del capo.
Davanti alla porta erano ammassati i carri e i carretti dei mercanti e dei fuggiaschi scappati dall'inferno di Mifurdania. Le guardie ispezionavano i carichi e registravano con accuratezza le merci trasportate da venditori e contadini, quindi esigevano il dazio. Neppure i nani furono esentati dal pagamento e dovettero consegnare alcune monete ai funzionari. Essendo forestieri, avrebbero inoltre potuto accedere solo ai quartieri dei meno abbienti e ricevettero precise istruzioni per il pernottamento. Imboccarono così una viuzza ripida e svoltarono in un vicolo in cui un uomo sarebbe passato a malapena. I piani superiori delle case a traliccio erano così vicini che i muri si sfioravano. La luce del giorno illuminava il selciato irregolare solo qua e là. I nani ebbero l'impressione di trovarsi in una galleria, con la differenza che nel sottosuolo non aleggiava quel puzzo di feci e acque di scarico. Dal muro al centro della stradina sporgeva un'insegna che raffigurava un pony ballerino; avevano trovato la locanda. Disgustato, Rodario si frugò nelle tasche del tabarro umido e ne estrasse un fazzoletto che si mise davanti al naso e alla bocca. «Con tutto il rispetto, non intendo certo alloggiare qui», annunciò, e il ribrezzo trapelò anche dai volti di Furgas e Narmora. «Ecco che cosa faremo: noi ci cercheremo una sistemazione più consona, e ci rincontreremo tutti domattina presto davanti alla porta della città, d'accordo? Fino ad allora ognuno di noi può andare per la sua strada. Io e i miei compagni allestiremo uno spettacolo in un'osteria. È una proposta accettabile?» Il Rabbioso annuì senza indugio, perché era contento di sbarazzarsi di quel chiacchierone. L'attore girò sui tacchi. I suoi luccicanti indumenti multicolori svolazzavano nel vento e, se non fosse stato per il sacco da marinaio, si sarebbe potuto scambiarlo per un nobile. Narmora e Furgas lo seguirono, battendo i piedi per liberare gli stivali dal fango maleodorante del vicolo. «A essere sincero, nemmeno io la trovo particolarmente invitante», dichiarò Goïmgar, scrutando la viuzza. «Hai sentito la guardia. Dobbiamo fermarci qui.» Boëndal prese i pony e li condusse nella stalla, mentre gli altri si incamminavano verso l'entrata. «Mi occuperò io di loro e dei lingotti. Suppongo che nella stalla siano più al sicuro che in camera. Se sentite il mio corno, venite ad aiutarmi.» «D'accordo. Ti faremo portare qualcosa da mangiare.» Dopo avere spinto il battente, Tungdil si ritrovò in un locale in cui il fumo del camino
e delle pipe formava una cortina quasi impenetrabile; evidentemente il fumaiolo non tirava come avrebbe dovuto. Dopo aver oltrepassato gli avventori, sedettero a un tavolo accanto al fuoco e allungarono le scarpe inzuppate verso le fiamme. «Se non altro abbiamo un tetto sopra la testa», commentò Goïmgar, un po' meno contrariato. Gli altri annuirono in silenzio, perché nei loro regni pietrosi si bagnavano solo se lo volevano, cosa che accadeva abbastanza di rado. «Se fosse solo un po' più accogliente...» A Tungdil non importava, purché la pioggia non filtrasse dal tetto. Dopo qualche istante avvertì il calore che penetrava piano nel cuoio, chiuse gli occhi e trasse un sospiro soddisfatto. I suoni tutt'intorno si facevano sempre più indistinti a mano a mano che la stanchezza aveva la meglio sulla sua mente. «Avete una camera per noi che sia calda e asciutta?» chiese all'oste quando l'uomo servì loro la birra e le pietanze ordinate da Bavragor. «Certo», rispose l'altro, annuendo. «Seguitemi.» Li precedette, e i nani raccolsero i bagagli e il cibo rimasto, rinunciando volentieri alla compagnia degli altri avventori dall'aria infida. Il locandiere li guidò in una soffitta attraverso la quale passava la canna fumaria. Il muro emanava un intenso calore che si propagava in tutta la stanza. «Un'altra birra?» Bavragor assentì. Appesero i vestiti fradici a una corda intorno al camino. Boïndil si gettò la cotta di maglia sopra il busto nudo e arrancò verso la porta per dare il cambio a suo fratello. Dopo che Boëndal li ebbe raggiunti, Tungdil appoggiò gli stivali al muro caldo, si arrampicò sul letto modesto e si coprì. «Dopo il pisolino pomeridiano esplorerò la città e chiederò notizie sui clan dei Primi», disse. «Abbiamo bisogno di tutte le informazioni possibili per sapere che cosa ci aspetta.» «Questo lungo periodo di silenzio può significare qualsiasi cosa», osservò Bavragor, inclinando il boccale e guardando la birra che ondeggiava. «Chissà se esistono ancora.» «Saranno dei musoni come te», interloquì Boëndal, facendogli l'occhiolino e sprofondando tra i guanciali con addosso la cotta e la biancheria. Lo scalpellino bevve la sua birra, ruttò e mangiò le ultime briciole lasciate nel piatto dal gemello. «Sono molto curioso», confessò, riempiendosi la pipa. «Prego Vraccas che i Primi stiano bene.»
Tungdil fissò le crepe sulle travi del soffitto. Le linee sottili gli rammentarono l'incontro con l'albo e le incrinature che gli erano comparse sul volto. «Conosceva il mio nome.» «Che cosa, Sapientone?» domandò Boëndal, mezzo addormentato. «L'albo conosceva il mio nome» ripeté Tungdil, turbato. Senza rendersene conto, toccò il fazzoletto di Frala, che gli infondeva coraggio e rappresentava qualcosa di buono e familiare. «Sono più famoso di quanto credessi.» «Il male ha paura di un nano», intervenne Bavragor, ridacchiando e accendendosi la pipa. Ben presto la camera fu invasa dall'odore del tabacco, che, mescolato con il tenue sentore di acquavite, risultava piuttosto gradevole. «Buono a sapersi.» «Capisco la tua inquietudine. Anch'io mi preoccuperei se scoprissi che gli albi mi cercano e sanno con esattezza che faccia ho», affermò Goïmgar, compassionevole. «Ma tu sei un codardo», si lasciò sfuggire Bavragor prima di mordersi la lingua. «Coricati prima di dire altre stupidaggini», lo rimbrottò Tungdil. Non vogliono proprio che nel nostro gruppo regni la pace. Goïmgar gli lanciò una rapida occhiata prima di afferrare lo scudo e lo spadino e di sedersi sul letto in modo da tenere d'occhio contemporaneamente l'uscio e la finestra. Il pretendente al trono si chiese se il levigatore si fosse offerto di montare la guardia per primo allo scopo di proteggere tutti o soltanto se stesso, e si addormentò mentre la sua mente rimuginava ancora quell'interrogativo. *
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Era già buio quando Tungdil si svegliò. I suoi indumenti e i suoi stivali erano asciutti come non capitava da tempo. Gli altri tre nani dormivano; Goïmgar russava con la testa appoggiata alla parete e con lo scudo che lo copriva fino alla punta del naso. Dopo aver deciso di procurarsi i pony e i viveri, Tungdil scivolò nei vestiti e nel cuoio ancora tiepidi, si gettò addosso la cotta e si infilò l'ascia nella cintola. Questa volta lasciò nella stanza il prezioso bastone di sigurdazia. Scese quindi le scale, pregò l'oste di riferire ai suoi amici che sarebbe stato di ritorno entro un paio d'ore e uscì. Pioveva ancora. Il vento freddo e maleodorante soffiava nei vicoli stretti. La misera città bassa non recava traccia del fasto che prevaleva più in alto. Sopra si rintanano i ricchi, sotto tirano a campare i poveri, ammirando e detestando chi troneggia lassù e può permettersi ogni cosa. Dovette difendersi più volte dall'invadenza dei mendicanti; due vecchie prostitute malconce si fecero beffe di lui, domandandogli se fosse così piccolo e peloso dappertutto. Tungdil le ignorò, perché deturpavano l'immagine dell'amore romantico che aveva scoperto grazie ai libri e al rapporto tra Frala e suo marito. Toccò il fazzoletto, ripensando alla serva. La certezza che non avrebbe mai più rivisto lei e le sue figliocce lo addolorava più della morte di Lot-Ionan. Avrebbe tanto desiderato prendersi cura di Sunja e Ikana. Si rattristò, e la pioggia, le nuvole grigie e lo squallore di Königsstein non contribuirono certo a risollevargli il morale. Lontano dal loro equivoco alloggio, si imbatté in un commerciante di cavalli che voleva vendergli il numero necessario di pony, ma il nano gli disse che sarebbe ripassato l'indomani. In una bottega acquistò i viveri per il seguito del viaggio e una torta dall'aspetto irresistibile. I pezzettini di frutta che spuntavano dalla pasta lievitata gli fecero venire l'acquolina in bocca. Qua e là, nel sottile strato giallo oro della glassa alla cannella, si erano formati piccoli grumi deliziosi, e i chicchi di uvetta al rum risaltavano come puntini scuri. Deglutendo, Tungdil la comprò tutta intera per portarla alla locanda. Forse il dolce sarebbe riuscito a scacciare i suoi foschi pensieri. Quando le tenebre calarono sulla città, il nano si mise sulla via del ritorno con la leccornia ben impacchettata. I suoi stivali sguazzavavano nel fango e nel sudiciume producendo un risucchio ripugnante. La pioggia aveva tramutato il tratto sterrato della strada in un pantano viscido. Come si può scegliere di vivere in un luogo simile? Com'era prevedibile,
sdrucciolò. Il suo piede destro scivolò su un mucchio di letame fradicio, e lui incespicò e si sorresse con una mano per non ruzzolare nella fanghiglia. La torta si salvò per un pelo. Preferisco mille volte una galleria o una montagna! Una raffica pungente gli passò accanto alla testa sibilando e sfiorandogli il lobo dell'orecchio destro. Una puntura urticante gli strappò un urlo di sorpresa e dolore. Tastandosi, sentì il sangue caldo che gli colava sul collo. Si voltò, l'ascia che gli volava nella mano libera. «Non mi porterete via il dolce e il denaro...» Ammutolì. Ci hanno trovati! All'estremità della viuzza riconobbe l'albo che l'aveva quasi sgozzato a Mifurdania, il mantello che gli svolazzava tra le folate puzzolenti. Aveva già incoccato di nuovo il grande arco e scagliò il dardo proprio in quell'istante. Qualcosa di enorme si materializzò al fianco di Tungdil. Il nano distinse un brillio violaceo e un muso d'argento scintillante, quindi ricevette uno spintone così violento da cadere a capofitto nel vicolo successivo. Piombò nella melma e slittò per quattro passi, lasciandosi dietro una larga scia. Che cosa... Stordito, si rotolò sulla schiena, estrasse l'ascia e immaginò che l'albo l'avrebbe seguito per ucciderlo, ma non andò così. Si rialzò con un gemito. La poltiglia brunastra gli si era conficcata anche nell'anello più minuscolo della cotta. Sembrava un maiale che si fosse voltolato nel fango. Svoltò l'angolo con cautela. La stradina era deserta; al suolo rimaneva soltanto la torta, e le poche tracce erano state cancellate dalla pioggia battente. Non trovò nient'altro che una freccia nera e uno strano liquido giallo sgargiante che si mescolava con l'acqua. Come mai mi ha risparmiato? Il lobo dell'orecchio gli bruciava. E chi mi ha salvato? L'essere che mi ha trascinato via sembrava una torre. Si sforzò di ricordare meglio. Se non sapessi che Djerůn... Con un certo rammarico per il dolce finito nel fango, tornò in tutta fretta alla taverna, tenendo gli occhi ben aperti per evitare di cadere ancora vittima dell'attacco di un albo. Si precipitò nella bettola e corse al piano di sopra, dove Boëndal si stava vestendo e preparando a uscire. «Che cos'è successo, Sapientone?» domandò subito. «Hai avuto una serata avventurosa, vedo.» «Ne avrei fatto volentieri a meno.» Tungdil gli raccontò brevemente dell'incontro con l'albo e del misterioso salvataggio. «Dobbiamo levare le tende domani.» Boëndal assunse un'aria molto
preoccupata. «Come ti è saltato in mente di gironzolare da solo per una città sconosciuta, Sapientone? Credi forse che la tua ascia e le tue conoscenze bastino a proteggerti?» Rifletté. «Dunque gli albi non cercano più il pezzo di legno. Nôd'onn ce li ha sguinzagliati dietro per ammazzarci perché conosciamo il suo segreto.» Svegliò Bavragor e Goïmgar per metterli al corrente, quindi raggiunse suo fratello per montare la guardia con lui. Ormai dormire era fuori discussione. E se fosse stato davvero Djerůn? rimuginò Tungdil, scartando subito quell'ipotesi. Il guerriero era nella Terra dell'Aldilà con Andôkai, la sua signora. Come concordato, allo spuntar del giorno l'Incredibile Rodano, Narmora e Furgas li aspettavano davanti alla porta della città. L'attore, che si guardava intorno in preda al nervosismo, sembrava essersi vestito in tutta fretta. Narmora indossava un mantello di cuoio e il solito fazzoletto rosso, da cui sembrava non volersi separare. Furgas si proteggeva dalla pioggerella con un tabarro da cocchiere. I nani giunsero con i pony e le provviste. «Gli albi?» domandò subito Boïndil. «Avete visto gli albi?» «Il mio amico teme l'arrivo di due mariti», rispose il magister technicus, il cui tono indicava che in passato aveva già assistito più volte a quella scena. «Dopo il nostro breve spettacolo, l'Incredibile ha organizzato una rappresentazione speciale per la moglie dell'oste e sua figlia.» «Taci! Vuoi che tutta la città lo sappia e mi dia la caccia?» sibilò Rodario, girando la testa qua e là per individuare, tra la folla, i volti da cui scappare. «Mi avevano giurato entrambe di essere separate.» «Come no, ha sempre la scusa pronta», sghignazzò Narmora. «Peccato che non ti servirà granché con i due consorti cornuti.» «Madre e figlia?» rise il Rabbioso. «Trentaquattro e sedici anni. L'estate e la primavera in un unico letto con il re delle stagioni», si vantò l'attore. «È un agricoltore smanioso, quello che lavora ogni solco in cui si imbatte», lo smontò Narmora. «Non occorre aggiungere che quasi tutti i solchi gli sono molto riconoscenti, perché vengono arati di rado dal loro contadino. O provano addirittura compassione per il suo piccolo vomere», continuò a punzecchiarlo. Distratto da quelle osservazioni, Rodario si voltò verso di lei per raccogliere la sfida oratoria. «Lo so, carissima Narmora, avresti senz'altro
voluto provare il mio enorme aratro, ma io cerco soltanto campi selezionati. Lascio volentieri agli altri i pascoli aridi che procurano soltanto lividi a chi ci si sdraia sopra.» Sorrise a Furgas per ridiventare serio di colpo. «Gli albi? Sono in città? Come mai...» «Ecco il seduttore!» urlò un tizio, agitando un forcone. L'attore corse a gambe levate verso la porta e si volatilizzò con agilità tra i carri in attesa. Poco dopo, quattro persone sfrecciarono loro accanto, lanciandosi all'inseguimento. Bavragor e Boïndil si sbellicarono dalle risate, Boëndal si limitò a crollare il capo, mentre Goïmgar si aggrappò allo scudo e si tenne pronto a usarlo come protezione qualora gli uomini avessero deciso di sfogare l'ira sul resto del gruppo. Ma i mariti cornificati e i loro amici non ci pensarono nemmeno e concentrarono tutta la loro attenzione sulla cattura di Rodano, che riuscì a sgattaiolare via inosservato, lasciando i vendicatori sotto la pioggia. I nani, Narmora e Furgas abbandonarono Königsstein in maniera meno precipitosa. «Gli albi?» riprese la donna. «Dove?» «Ieri», rispose Tungdil. «Uno solo. Voi non ne avete visti?» Provava una lieve avversione per Narmora, forse a causa dei suoi tratti vagamente elfici. È un'attrice, rammentò a se stesso. Nient'altro. Lei scosse la testa. «No, nessuno ci ha aggrediti. Ma hai fatto bene ad avvertirci.» Posò la destra sulla sua arma a forma di mezzaluna. Di lì a poco incapparono nel casanova, che si riparava dalla pioggia aspettandoli sotto un imponente abete a oltre un miglio di distanza dalla città. «Almeno è valsa la pena di provocare tutto questo trambusto?» chiese Bavragor senza riuscire a trattenersi. Rodario assunse un'espressione sognante, molto soddisfatta. «Oh, sì, anche se ho avuto la sensazione di non essere stato proprio il primo a ricevere tante attenzioni nelle camere delle due signore.» Trotterellava accanto ai pony. «Ma ormai è acqua passata! Adesso andiamo nel regno dei Primi, dove ammireremo la magnificenza che nessun essere umano ha mai visto.» Il rumore del fango sotto le sue suole rovinò un poco l'effetto di quelle parole magniloquenti, ma come esploratore faceva una discreta figura. Tungdil associava impressioni tutt'altro che gradevoli alla fiera Königsstein. Senza voltarsi indietro nemmeno una volta, accelerò il passo
per lasciarsi alle spalle l'orgoglio del Weyurn. Per quanto fossero meravigliosi i vessilli che garrivano al vento, e splendido lo scintillio dei tetti e delle cupole rivestiti di tegole, il nano pensava soltanto agli occhi dell'albo assassino. Spero che il salvatore sconosciuto l'abbia ucciso!
III Terra Nascosta, regno di Weyurn, 6234° ciclo solare, inverno Alla prima occasione, i viaggiatori acquistarono un piccolo carro per i bagagli e due cavalli, uno dei quali veniva utilizzato a turno da Narmora e Furgas. Procedettero quindi verso ovest a una velocità molto maggiore. Era soprattutto Rodario a insistere affinché avanzassero ad andatura spedita, perché continuava a temere la vendetta dei due mariti cornuti, cosa che, lungo il tragitto, non gli impedì di fare nuove conquiste grazie al suo charme e alla sua eloquenza. Il vento settentrionale portò le prime nevicate sul Paese, e i fiocchi si depositarono sul terreno gelato, formando uno strato candido. Quell'inverno sembrava volersi abbattere sul Paese e sui suoi abitanti con maggiore rapidità e durezza del solito. Ora il gruppo si accampava in luoghi protetti dalle intemperie e riposava sotto alberi e spuntoni di roccia, oppure tra le rovine di case e fortezze abbandonate. Gli immensi laghi che coprivano oltre tre quarti del Weyurn scintillavano sotto una coltre ghiacciata. Le nuvole producevano magnifici giochi di luce e ombra sulle loro superfici, che i gemelli guardavano con un brivido. Non volevano correre il rischio di venire trascinati negli abissi e si rifiutavano persino di accompagnare Furgas e Rodario durante le battute di pesca. «Il ghiaccio e l'acqua sono entrambi infidi», spiegò loro il Rabbioso mentre accendeva il fuoco nel tempio abbandonato in cui si erano rifugiati. «Ti attirano, e quando meno te l'aspetti, ci scompari dentro per sempre.» «È come con il matrimonio. Dapprima le donne ti ammaliano, ma se rimani buono buono tra le loro braccia, la vita termina troppo presto», dichiarò Rodario. «Un uomo come me è fatto per...» «Cornificare gli altri uomini, venire bastonato e, un giorno, morire di una dolorosa malattia venerea», lo interruppe Narmora, sorridendo. «La tua invidia è la mia gioia.» Mostrando i denti, Rodario seguì Furgas verso la riva del lago poco distante. «Mi ricorda un caprone che avevamo una volta», commentò Boïndil. «Quella bestiaccia montava tutto quello che non si scansava in tempo.» «E che fine ha fatto?» «Si è accoppiato con una capra vicino a un precipizio. Nella foga, sono
precipitati entrambi tra i massi.» Il nano si apprestava a radersi i capelli ispidi ai lati del cranio per valorizzare la treccia nera. «Vuoi dire che Rodario ruzzolerà giù dal letto durante una delle sue avventure e si spezzerà l'osso del collo?» sghignazzò Tungdil. «Oppure dalla finestra», interloquì Boëndal, ridendo, perché trovava troppo buffa l'idea di una fine così ingloriosa. «Immaginate che atterri nudo sull'acciottolato, con le vergogne coperte soltanto da un fazzoletto e l'intera città lì intorno», sbuffò Boïndil, arrampicandosi in cima a un cumulo di macerie da cui riusciva a sorvegliare meglio i dintorni. Giunto a destinazione, sedette e si accese la pipa. Suo fratello gli lanciò qualcosa da mangiare. «Sarebbe comunque una sorte degna di quel chiacchierone», fu la sua ultima osservazione prima di avventarsi sul formaggio. Goïmgar non prese parte alla conversazione. Sembrava addormentato: si era avvolto in due coperte, chiudendo gli occhi e adagiando lo scudo sopra di sé a mo' di terza coltre. Le ombre danzavano sulle pareti coperte di muschio. Le pitture erano sbiadite nel corso dei cicli e le scrostature dell'intonaco avevano lasciato ampi squarci in corrispondenza delle raffigurazioni di alcune divinità umane che i nani non conoscevano. Per loro esisteva soltanto Vraccas, e tutto il resto sarebbe dovuto sparire. Ben presto il grande fuoco diffuse un gradevole tepore nella stanza, e la luce soffusa sembrò dare vita alle statue crepate e malridotte. Tungdil non poté fare a meno di pensare allo spettacolo al «Curiosum», dove aveva assistito a molti eventi senza capire se si fossero davvero svolti sul palcoscenico o se fossero stati frutto della sua immaginazione. Pareva tutto così vero... Bavragor tornò dopo aver ispezionato le stanze fatiscenti. Borbottando, esaminò le sculture. «Erano artigiani abili, ma non abbastanza da misurarsi con i nani», fu il suo giudizio. Tungdil gli porse pane e prosciutto. «Ti posso chiedere una cosa?» Bavragor accettò il cibo. «Sembra una faccenda seria.» «Mi assilla senza sosta. La questione di tua sorella...» «Smeralda.» Bavragor posò il suo magro pasto sulla pietra vicino alle fiamme perché si scaldasse e le carni diventassero più saporite. «Non lo perdonerò mai», disse con amarezza dopo aver bevuto un lungo sorso di acquavite. Tungdil non insistette. Aveva la sensazione che quella sera avrebbe
appreso che cos'era accaduto, e aveva ragione. «Smeralda era una giovane di quaranta cicli solari appena compiuti quando quello le mise addosso i suoi occhi folli e decise che doveva essere sua. Era agguerrita quasi quanto lui, si esercitava nell'uso dell'ascia e sognava di combattere al suo fianco», iniziò Bavragor, stringendo i pugni mentre la memoria riportava in vita il passato. «Le proibimmo di vederlo perché temevamo che le facesse del male, pazzo com'era. Ma lei si ribellò a nostro padre e continuò a frequentarlo. Un giorno, quando volle aiutarlo nella lotta davanti alla Porta Alta...» Si coprì l'occhio sano con la sinistra, utilizzando la destra per accostarsi la borraccia alle labbra. «La uccise. Accecato dalla foga della battaglia, non la riconobbe e la scambiò per un mostro.» Tungdil deglutì per sciogliere il nodo che gli serrava la gola. «Smeralda, un mostro... In seguito si parlò di una tragedia e di un'orribile sventura, e lui affermò di non ricordare niente. Ma per me non fa differenza, Tungdil. Ha ammazzato mia sorella. Perdoneresti a qualcuno un simile gesto? Io no.» Tungdil non sapeva che cosa rispondere. Il racconto l'aveva commosso profondamente. Posò una mano compassionevole sul braccio di Bavragor. «Perdonami per averti assillato tanto», disse, lasciando cadere l'argomento. Il ricordo della perdita di Lot-Ionan e Frala, alla quale aveva voluto bene come a una sorella, tornò ad assalirlo. In parte, lo capisco. «Non importa.» Bavragor inspirò a fondo, annegando il proprio dolore nell'alcol. Quella sera non toccò più cibo. Tungdil alzò la testa per guardare Boïndil, che sedeva al suo posto con la pipa tra le labbra, intento a vegliare sulla loro sicurezza. Gli anelli di fumo azzurro salivano verso il cielo, e Tungdil credette di udire uno sfrigolio quando un fiocco di neve incontrò il tabacco bollente. «La fucina rovente della sua vita è una maledizione», osservò Boëndal con mestizia. «Non sa ancora che cosa accadde quel giorno sul ponte e rammenta soltanto di aver visto Smeralda morta ai suoi piedi. Pensò che i mezz'orchi gli avessero portato via il suo amore, ma quando seppe da Bavragor e dagli altri che era stato lui ad ammazzarla...» «E tu dov'eri?» «Ero ferito, e Vraccas sa che maledico ancora quel giorno. Immagino che sarebbe ancora viva se fossi stato al fianco di mio fratello.» Grattò un punto arrugginito dell'armatura e lo lubrificò con l'olio. «Talvolta grida il suo nome nel sonno. Soffre almeno quanto Bavragor, te lo posso
assicurare, ma non lo ammetterebbe mai, Sapientone.» Dopo avere riempito una seconda pipa, la fumarono a turno, ciascuno assorto nei propri pensieri. Attraverso i buchi nelle finestre Tungdil vide che la nevicata si intensificava. Quando Furgas e Rodario rientrarono, assomigliavano a pupazzi di neve ambulanti. Il technicus aveva preso all'amo due carpe, mentre l'attore stava squamando una piccola tinca con espressione imbronciata. «Un aratore davanti agli dei, ma senza la più pallida idea di come si pesca», lo canzonò Bavragor per distrarsi dai ricordi opprimenti. «Già, gli dei», si limitò a dire Rodario, guardando gli affreschi scoloriti e danneggiati dall'umidità. «Guardate che ne è di loro se nessuno se ne cura. Sbiadiscono e scompaiono perché, senza i mortali, non hanno motivo di esistere.» «Vraccas non ha certo bisogno di motivi per esistere», replicò Boëndal con convinzione. «Creò anche se stesso perché ne aveva voglia, non perché qualcuno l'abbia generato.» «Conosco le leggende sulle origini, grazie tante, e non ho certo bisogno del tuo aiuto, caro mio», protestò l'attore, continuando ad affaccendarsi attorno al pesce. «In passato le abbiamo trasposte sul palcoscenico riscuotendo notevole successo. Non mi stancherò mai di ripeterlo: i temi antichi sono quasi sempre i migliori, anche se la nostra rappresentazione su Nôd'onn è stata accolta molto bene a causa dei recenti episodi.» Quelle parole rammentarono a Tungdil che finalmente poteva chiedere lumi sui trucchi che i tre esseri umani avevano utilizzato al «Curiosum» per intessere illusioni tanto realistiche. «Vuoi sapere come funziona?» Rodario indicò Furgas con il coltello sporco. «Domandalo al nostro magister technicus.» Furgas aveva già messo mano alla seconda carpa mentre il suo amico, più che squamare la tinca, la maltrattava. «Mi sono occupato molto di alchimia. La usiamo per produrre tutto il fumo che ci serve», spiegò. «Posso renderlo leggero o pesante, ora rosso, ora nero. La teoria degli elementi è affascinante.» Tungdil sapeva che Lot-Ionan aveva insegnato alchimia, e conosceva diversi ingredienti perché li aveva trascinati qua e là per la galleria. «Ma come hanno fatto tutte le candele a spegnersi di colpo?» «Magia», sussurrò Rodario con una smorfia. «In realtà, io sono l'ultimo stregone vivente della Terra Nascosta.» Avvicinatosi al nano, gli armeggiò intorno all'orecchio e gli mostrò una moneta d'oro sul palmo della mano.
«Che cosa mi dici adesso?» «È mia», rispose Tungdil, agguantandola. Gli bastò tuttavia un piccolo morso per smascherare l'inganno. «Piombo rivestito di una foglia d'oro di qualità scadente», asserì, restituendogliela. «Il tuo incantesimo non vale granché.» «È un prestigiatore, niente di più», rise Boëndal, indicando l'attore con il bocchino della pipa. Rodario levò l'indice. «Ma l'essenziale è che il pubblico ci caschi. E ci sono cascati persino i piccoli, odiosi bogglin. A mio parere, questo è un successo.» «Allora i vostri trucchi sono la destrezza, la rapidità e l'alchimia?» ricapitolò Tungdil. Furgas annuì, lanciando un'occhiata fugace alla sua altissima compagna. «E i belletti», aggiunse. «Narmora fa sembrare vere molte illusioni e sa trasformarsi in un'elfa così verosimile che i più piccini per la paura corrono a rifugiarsi dai genitori.» Rise. «E naturalmente, siamo felici quando ciò accade.» «Ritenetevi fortunati che quel pazzo non sia entrato nel vostro teatro», intervenne Bavragor, cupo. «Avrebbe preso d'assalto il palco.» «Narmora assomiglia davvero a un'Orecchia appuntita», asserì Boëndal con aria distratta. «La natura non è stata benevola con lei.» Questa osservazione gli valse alcune occhiatacce da parte di Narmora e qualche sghignazzo da parte dei due uomini. Tungdil e Bavragor scoppiarono in una risata così fragorosa che Goïmgar per lo spavento si rifugiò dietro lo scudo. «Oh, perdonami, non dicevo sul serio» si affrettò a scusarsi Boëndal, in evidente imbarazzo. «Forse sono davvero un'alba e questa notte vi tormenterò con un incubo», replicò l'attrice con una scintilla di collera negli occhi quasi neri. «Non meravigliatevi se vi sveglierete strillando.» Alzatasi, si raddrizzò il fazzoletto e lasciò il tempio, sparendo subito nell'oscurità. «Perbacco, com'è brava nel suo ruolo!» esclamò Rodario, rapito. «Recita la parte in maniera eccellente, non trovate? Ma non glielo direi mai, perché poi pretenderebbe un compenso maggiore.» Entusiasta, si voltò verso i nani, che manifestarono il loro assenso con il silenzio. Boëndal cominciò a preoccuparsi seriamente di che cosa gli sarebbe capitato durante il sonno. Gli uomini continuarono a occuparsi delle loro prede, e ben presto il rudere si riempì dell'odore del pesce arrostito. I viaggiatori si servirono con
voracità. «Vorrei sapere un'altra cosa. Come avete fatto a riprodurre tutto sul palcoscenico?», chiese Tungdil a Furgas. «Il bosco, il palazzo... Pareva tutto così vero.» «Lo terrai per te?» «Sì.» «Mi devo fidare?» «Certo!» «Lo giuri sulla tua ascia?» Tungdil giurò. «Allora?» «Magia», disse Furgas, socchiudendo gli occhi con espressione sorniona e pulendosi i baffi. «Oh...» fece il nano, deluso, infuriandosi per esserci cascato. *
*
*
Quando Boëndal, terrorizzato, si svegliò dal suo sogno, si sforzò di non urlare. Allo stesso tempo, era contento di essere sfuggito alle sue confuse fantasticherie notturne. Non sapeva che di lì a poco si sarebbe preso un altro spavento. Quando, per sicurezza, fece per toccare l'azza, scoprì che l'arma era scomparsa, e al suo posto incontrò una mano dalla forma delicata, che strinse forte la sua. Voltatosi, il nano vide il viso scarno e spietato di un'alba che, accovacciata accanto a lui con indosso l'armatura, lo fissava con gelidi occhi neri. Non può essere! Sto ancora sognando! «Che ti serva di lezione», bisbigliò lei in tono minaccioso, e le palpebre del guerriero si chiusero senza che lui potesse opporsi. Quando si ridestò molto tempo dopo, balzò in piedi ansimando e guardandosi intorno. Questa volta trovò subito l'azza e si affrettò a recuperarla. Narmora era raggomitolata tra le braccia di Furgas, mentre Rodario si era accoccolato accanto al fuoco che ardeva debolmente, con la faccia tra le squame della tinca. Pur osservandoli con particolare attenzione, Boëndal non notò nulla che facesse pensare a uno scherzo. Il suo cuore batteva all'impazzata, ma poi si riprese pian piano dalla paura e giurò che non avrebbe mai più fatto osservazioni sprezzanti sul conto della donna. Guardò Goïmgar, che avrebbe dovuto fare la guardia seduto sul mucchio di macerie. La sua postazione rialzata era vuota, e alcune orme si dirigevano verso l'esterno, ma i pony e i cavalli erano ancora dove li avevano legati. Non sarà così svitato da fuggire nel bel mezzo della tormenta? Mosse qualche passo all'aperto, ma i fiocchi di neve quasi lo travolsero. Scorse una figura sul terreno imbiancato. «Goïmgar!» chiamò, affrettandosi in quella direzione, ma il nano mingherlino restò immobile. Il sangue gli colava da una lieve ferita sulla fronte. Dopo averlo portato dentro, Boëndal lo adagiò accanto al fuoco, in cui gettò due ceppi. «Sono... caduto», farfugliò l'altro, battendo i denti. Il gemello lo avvolse in due coperte. È uscito per pisciare e poco ci mancava che morisse assiderato, pensò, ma preferì tenere per sé quella riflessione per non umiliarlo ancora di più. Non comprendeva perché Tungdil avesse arruolato proprio quell'esile levigatore pur avendo avuto
una possibilità di scelta così vasta. Vraccas avrà in mente qualcosa, concluse, guardando il poveretto che si riscaldava a poco a poco. Il ghiaccio e la neve, sciogliendosi, gli colavano dalla barba, dai capelli e dalle sopracciglia. Boëndal si protese verso di lui. «Goïmgar, volevi forse morire là fuori?» «No», rispose l'altro con lentezza. «Abbi più cura di te. Sei importante per la nostra missione.» «Importante perché l'impostore salga al trono che non gli spetta», ribatté con astio il nano tremante. Boëndal risparmiò il fiato. Goïmgar non aveva ancora capito che non era in gioco soltanto la carica di imperatore, e questo nonostante tutte le benevole prediche di Tungdil. Com'è irragionevole! È così ostinato da non avere alcun riguardo per la responsabilità che grava su di noi. Goïmgar aveva smesso di tremare e scrutava il fondo della sala, dove erano collocate le statue. Deglutì. «Quante?» sussurrò. «Che cosa?» «Quante statue c'erano quando siamo arrivati?» L'altro rifletté. «Sette. Tre piccole e quattro grandi.» Goïmgar chiuse gli occhi. «Sono otto, di cui cinque grandi», mormorò. «Che cosa facciamo adesso?» «Qual è quella nuova?» Boëndal strinse il manico dell'azza e il suo corpo si irrigidì. «Dovrebbe essere la terza da destra...» «Io la aggredisco subito e grido forte per svegliare gli altri. Tu prendi lo scudo e mi aiuti fintanto che non interviene Boïndil.» «Io?» «Chi altri?» Boëndal sollevò la pesante arma all'improvviso, descrivendo un semicerchio e mirando poco sopra il fianco del bersaglio. In quel punto non vi erano ossa che potessero bloccare la lunga punta, e la ferita sarebbe stata profonda e mortale. La treccia accompagnò i suoi movimenti oscillando come una bandiera sottile. «Vraccas!» rimbombò il suo urlo di guerra. La statua si fracassò con un tintinnio sotto la violenza del lancio. L'arma si conficcò nella pietra ormai porosa come un piccone, mandandola in frantumi. L'opera d'arte, che un antico scultore aveva creato in onore di un dio umano, si spaccò in tanti piccoli frammenti. «No, dalla mia destra», si corresse Goïmgar, abbattuto, ma ormai era
troppo tardi. L'enorme figura immobile si ridestò alla vita. Dietro la visiera luccicavano due occhi viola. «Idiota!» inveì Boëndal prima di prepararsi a un altro attacco. Ma il suo titanico avversario non glielo consentì. Si avvicinò più in fretta di quanto il nano avesse ritenuto possibile data la mole. Le manone del nemico si chiusero intorno alle sue braccia e lo sollevarono ad almeno due passi dal pavimento. L'arma rimbalzò tintinnando sulle lastre crepate. Boïndil, che si era già alzato dal suo giaciglio, comprese subito la situazione. «Lascialo!» Levò le scuri e stava per scagliarsi contro il gigantesco aggressore, quando una luce brillante lo accecò, costringendolo a voltarsi. «Indietro, Boïndil!» ordinò una voce femminile. I raggi abbaglianti si ridussero a un fioco tremolio appena sufficiente a illuminare la stanza. Una donna con un mantello scarlatto su cui si scioglievano gli ultimi fiocchi di neve uscì da dietro una statua e si posizionò al fianco del gigante, tenendo in mano una sfera luminosa. «Puoi metterlo giù, Djerůn. Penso che abbiano capito chi siamo.» «Andôkai?» urlò Tungdil, stupito, abbassando l'ascia. «Che ci fai qui?» Lei spinse indietro il cappuccio per mostrare il volto. «La Burrascosa?» si intromise Rodario, ignaro di non avere un bell'aspetto a causa delle squame di pesce incollate alla guancia. «Andôkai la Burrascosa? La maga? Pensavo fosse morta.» La squadrò da capo a piedi senza ritegno. «E invece è viva. È viva! Maledizione!» Si rivolse a Furgas e Narmora. «Dobbiamo riscrivere il copione.» «Copione?» Andôkai si accostò al fuoco, fece scomparire la sfera di luce e tese le mani verso le fiamme mentre il suo accompagnatore deponeva il nano. «Di che cosa sta parlando? E soprattutto, chi è?» «Un attore», rispose Tungdil in tono di scusa, trattenendosi a fatica dal subissarla di domande. «Oh! Allora sono già diventata protagonista di uno spettacolo? Spero sia una recita prestigiosa...» Rodario si accinse a fornire una spiegazione lusinghiera, ma gli altri glielo impedirono senza tante cerimonie. «Che cosa è saltato in mente al tuo mostro?» chiese Boëndal, agitato. «Perché ci spiava? Non l'ho ucciso per un pelo!» «Non vi spiava, stava in agguato. E di sicuro non l'avresti ucciso», precisò la maga, sprezzante, sfilandosi il mantello per lasciarsi avvolgere
dal calore del fuoco. Sotto, portava l'armatura, pesanti indumenti invernali e la spada. Tutta quella roba la faceva sembrare più robusta di quanto già non fosse. «Gli ho ordinato di precedermi per catturare gli albi che vi seguono da Mifurdania.» «Lo sapevo», affermò Goïmgar, mesto. Il Rabbioso rise. «Ci manca solo che una bestia ci salvi da altre bestie.» Le sue dita accarezzarono i corti manici delle scuri. «Possiamo sistemarli anche da soli.» «Se non li avete notati finora, non li avreste sentiti neppure se fossero entrati nel vostro rifugio», replicò la maga, seria. «Djerůn ne ha eliminati due a tre miglia da qui, altri due sono fuggiti.. Ipotizzando che non si sarebbero limitati a lungo all'inseguimento, gli ho chiesto di andare avanti.» «Lo sapevo! È stato lui a salvarmi dalla freccia a Königsstein», disse Tungdil. Andôkai annuì. «Purtroppo l'albo è scappato.» «Io non mi sarei lasciato sfuggire gli Orecchi appuntiti», borbottò Boïndil. «A me non sfuggono gli avversari, anche se devo corrergli dietro.» «L'albo l'ha ingannato.» La donna gli lanciò un'occhiata compassionevole. «Se corri dietro a chiunque, è facile attirarti in una trappola.» «Io non mi faccio attirare in nessuna trappola», replicò il nano, cocciuto, arrampicandosi sul pilastro crollato per riprendere la sua posizione di guardia. Arrivato in cima, si ritrovò alla stessa altezza della testa del gigante. Sbirciò con curiosità nell'elmo, ansioso di sondare l'oscurità là dentro, ma nemmeno i suoi occhi abituati alle tenebre distinsero qualcosa. Era come se il metallo celasse un abisso senza fondo. Gli altri sedettero in cerchio intorno al fuoco. Gli esseri umani erano completamente svegli. Rodario prese in mano il suo taccuino per poi constatare che l'inchiostro era gelato. Narmora aveva già rinfoderato le sue armi miracolose. Djerůn si ritirò nella penombra della parte posteriore del tempio e si trasformò nuovamente in una statua. «Che cosa vi ha fatto cambiare idea, maga?» chiese finalmente Tungdil quando si fu calmato. «Come ci avete trovati?» «Posso parlare liberamente davanti ai vostri nuovi compagni di viaggio?»
«Ci hanno aiutati, potete fidarvi.» «Non ci giurerei», mugugnò il Rabbioso dall'alto. «Eccome se ci si può fidare di noi», urlò Rodario, incaricandosi di presentare il resto del terzetto nel suo stile inimitabile. «Sappiamo della Lama di Fuoco e abbiamo soccorso gli eroi in erba e i protagonisti delle epopee future in un momento di estremo bisogno per salvarli dalle spade e dagli artigli dei bogglin, venerabile maga», concluse, gesticolando. «Siamo accompagnatori fedeli.» Di solito il suo sorriso scioglieva il ghiaccio più spesso e ammorbidiva le pietre, ma in quel caso fallì. La maga rimase impassibile. «La colpa è tua.» I suoi occhi azzurri fissarono Tungdil. «Non riuscivo a dimenticare il tuo discorso. Continuavo a ripensare alle tue parole sulla responsabilità verso il mio regno. Non c'era modo di mettere a tacere la mia coscienza. E Nôd'onn merita la morte per centinaia di motivi.» Le fiamme guizzanti toglievano al suo viso una parte della consueta durezza, rendendo i tratti più morbidi e femminili. Rodario non le staccava gli occhi di dosso e pendeva dalle sue labbra. Il fascino severo e la scontrosità della maga parevano sfidare il seduttore che era in lui. «Così sono tornata dai Secondi e ho analizzato il passo che all'inizio non ero riuscita a tradurre. Ricordi l'ultima incertezza nel vostro piano?» chiese, fissando il fuoco. A un gesto della sua mano, le scintille vorticanti formarono alcune lettere nella lingua comune. I vocaboli balenarono un attimo per scomparire subito dopo. «La Lama di Fuoco, forgiata dai Sotterranei, sortirà il suo effetto contro il male solo se verrà maneggiata dal nemico dei Sotterranei», lesse Rodario ad alta voce. Allungò la mano verso le fiamme, dove giaceva un pezzettino di legno carbonizzato, e scarabocchiò qualche appunto. «Devo annotarlo. Mi prenderei a schiaffi se dimenticassi tutto.» «Prenderti a schiaffi? Ti aiuto volentieri», si offrì Bavragor. «Che gli dei mi salvino da quelle zampe», esclamò l'attore. «Questa sarà la migliore rappresentazione che sia mai stata allestita nella Terra Nascosta», si vantò, scribacchiando con il carbone sulla carta. «I teatri saranno gremiti...» Furgas gli diede una gomitata per segnalargli che doveva tacere. «Il nemico dei Sotterranei», mormorò Tungdil, senza riuscire a dissimulare la nota di delusione nella sua voce. Che cosa vorrà dire? «Abbiamo nemici in abbondanza», affermò Boëndal, perplesso. «Mezz'orchi, orchi», elencò, lanciando una rapida occhiata a Djerůn,
«bogglin e tutto ciò che Tion ha creato contro i nani, gli elfi e gli uomini. Non ti viene in mente nulla, Sapientone? Finalmente le tue nozioni servirebbero davvero a qualcosa», aggiunse in tono quasi beffardo. Bavragor prese la borraccia. «Sarà divertente. Dobbiamo catturare un mezz'orco e ammaestrarlo affinché si lanci contro il mago? Oppure dobbiamo pregare un orco di suonargliele con la nostra arma?» «Era proprio quello che ci voleva per la spedizione», commentò Goïmgar, riassumendo con pessimismo il significato del passo tradotto da Andôkai. «Il mio re! Lui non lo sa!» Tungdil espirò forte. «Siete certa riguardo alla traduzione?» chiese, esitante. La maga assentì. «Purtroppo sì. L'ho studiata troppo a lungo per commettere errori.» «Avete qualche suggerimento?» Il nano guardò Djerůn. Andôkai sorrise. «Djerůn non è un mostro, stanne certo. Non c'entra niente.» Tungdil si grattò la barba, ormai diventata lunga. «Allora abbiamo un grosso problema.» Scrutò i volti dei suoi amici e degli esseri umani. «Non mi viene in mente nulla.» Sdraiatosi, si tirò su la coperta. «Forse Vraccas mi manderà un'ispirazione durante il sonno. Riposatevi, dobbiamo essere in forze.» I suoi compagni si stesero intorno al fuoco mentre Djerůn vegliava su di loro. Devo trovare una soluzione, sono io il capo. Irrequieto, Tungdil si girò e si rigirò. Se non gli fosse venuta un'idea, la Terra Nascosta sarebbe andata incontro a un avvenire tutt'altro che roseo. Quella consapevolezza non lo aiutò ad addormentarsi. *
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Partirono di buon'ora senza che Tungdil avesse ricevuto l'illuminazione sperata. Decisero tuttavia di cavalcare fino ai Monti Rossi, sperando di riuscire a escogitare qualcosa lungo il tragitto o insieme con i Primi. Ce la faremo, pensò Tungdil, risoluto, indossando la cotta lucidata e lubrificata sopra il farsetto di cuoio. Andôkai cavalcava con Rodario. Se l'attore si era rallegrato al pensiero di avere la maga seduta davanti a sé per poterla toccare e sorreggere con atteggiamento eroico, accadde il contrario. La Burrascosa tolse la sella per avere più posto e gli ingiunse di sedere davanti mentre lei teneva le redini, cosa che gli valse diverse osservazioni beffarde da parte di Furgas. Durante la notte era caduto un metro e mezzo di neve, e i cavalli dovevano aprire la strada per i pony. I viaggiatori trottavano in fila indiana, e in coda arrancava Djerůn. Guardandolo si sarebbe detto che una delle statue del tempio avesse preso vita e li avesse seguiti perché il soggiorno nel rudere abbandonato era diventato troppo noioso. La singolare comitiva procedeva con difficoltà sempre maggiori. L'inverno le impediva di procedere speditamente e Tungdil rimpianse di non potersi servire dei tunnel con le loro rotaie leggere per spostarsi con rapidità dal regno dei Primi ai Monti Grigi. A piedi o a cavallo, il cammino avrebbe richiesto troppo tempo. Con i vagoncini avrebbero percorso il tratto di duecento miglia in una o due rotazioni solari anziché in una settimana. Quando, nel pomeriggio, concessero una sosta agli animali, Tungdil chiese ancora alla maga come li avesse rintracciati. «Non è stato poi così difficile», rispose Andôkai. «Sono tornata dalla Terra dell'Aldilà, ho trattato con i nani e ho usato lo stesso tunnel che avete percorso voi. Sono uscita nei pressi di Mifurdania, Djerůn ha trovato le vostre tracce, e il resto è stato un gioco da ragazzi. Un gruppo di nani dà nell'occhio, vale a dire che gli albi possono trovarvi con facilità.» Tungdil guardò Narmora, che aiutava Furgas a spalare la neve per scioglierla sul fuoco. La maga spostò lo sguardo su Rodario. «Questi attori... come li avete conosciuti?» Tungdil glielo raccontò. «Ah, Narmora è dunque una donna dai molti talenti», ridacchiò la Burrascosa dopo aver appreso che l'attrice sapeva scassinare le serrature. «Hai visto la recita?» «Oh, sì. Si intitola La verità riguardo a Nudin il Sapiente, che, in orribili circostanze, si è tramutato in Nôd'onn il Duplice, provocando la rovina della Terra Nascosta. Tra l'altro, al "Curiosum" era tutto esaurito.»
«Un titolo piuttosto lungo», sorrise Andôkai. Tungdil vide per la prima volta gli angoli della sua bocca piegarsi all'insù e pensò che la gentilezza le donava molto più della sua consueta espressione accigliata. Rodario la guardò proprio in quell'istante e ricambiò il sorriso, supponendo che quello della maga fosse rivolto a lui. «Quello laggiù è la stella dello spettacolo per eccellenza, l'Incredibile Rodario. Il soprannome gli calza a pennello. Credo che abbia un amoretto in ogni città», spiegò il nano. «Gli si addice. Chi rappresentava me?» «Non l'ho visto. Ho dovuto inseguire un ladro, venerabile maga.» Accennò a Rodario. «Possiamo chiederlo a lui.» L'uomo si avvicinò immediatamente, e la donna lo interrogò. «Abbiamo i migliori attori del Teatro Nascosto, venerabile maga, perciò Narmora ha interpretato la vostra persona, giacché le sue capacità belliche sono sufficienti a simulare le vostre.» Su esortazione di Andôkai, le descrisse il dramma finché lei lo interruppe. «Come ti è venuta l'idea di raccontare in quel modo l'avanzata della Terra Estinta e la trasformazione di Nudin?» gli chiese. «Ne ho sentito parlare molto, ho consultato le antiche leggende e ho mescolato il tutto con molta libertà artistica», rispose Rodario, raggiante. «È di vostro gradimento?» «È sorprendentemente fedele alla realtà, almeno per quanto concerne la metamorfosi di Nudin», osservò Tungdil. «Oh», fece Rodario, sinceramente sbalordito. «Allora l'arte ha dimostrato ancora una volta di contenere un fondo di verità, giusto?» «Grazie, puoi tornare al tuo fuoco», lo liquidò Andôkai, brusca. «E non dimenticare di riscrivere il copione, perché sono ancora viva.» «Viva e splendida, venerabile maga», replicò l'uomo, zuccheroso, guardandola negli occhi azzurri per conquistare il suo cuore. «Colui che...» «Vai», ordinò lei, voltandosi verso Tungdil. Il magnifico sorriso di Rodario scomparve all'improvviso. Sembrava quasi che il pizzetto pendesse mesto verso terra. «Solo perché insistete», ribatté senza alcuna soavità nella voce. «Aha, il pavone rifiutato se ne va con le penne arruffate», rise Bavragor, che aveva assistito alla scena. «Con quella, l'attore ci si romperà le corna.» Allungò la mano verso la borraccia, canticchiando una melodia. «Non succederà», affermò Furgas, ottimista, lasciandosi cadere all'indietro. «Quando Rodario vuole una donna, si arrende di rado.
L'ostilità della Burrascosa non fa altro che stuzzicarlo ancora di più.» Diede un bacio a Narmora, stringendosi forte a lei. «Un giorno smetterà di giocare con le signore.» «Sempre ammesso che i mariti furibondi non lo ammazzino prima», esclamò Boïndil. «Non sapendo combattere, deve essere un bravo corridore.» Dopo una breve sosta si prepararono a riprendere il viaggio. Anche Tungdil e la maga interruppero la loro conversazione. Djerůn si avvicinò ad Andôkai e, piegatosi su un ginocchio, la prese tra le mani giunte. Rodario non ne fu contento, perché ora cavalcava di nuovo da solo. Nei giorni successivi procedettero tra i cumuli di neve del Weyurn, faticando a trovare una strada sicura. Nei punti in cui i cavalli affondavano fino alla pancia, i pony non riuscivano ad avanzare. Djerůn portava la sua signora, e il peso di entrambi lo faceva sprofondare fino ai fianchi nella fredda coltre candida. Anche se dovettero tornare indietro più di una volta per cercare un sentiero migliore, i Monti Rossi si stagliavano ormai all'orizzonte. I pendii cremisi indicavano loro il cammino e, nei rari momenti in cui il sole invernale faceva capolino tra le nubi grigie, brillavano come se fossero in fiamme. Finalmente individuarono l'imbocco di un'angusta valle racchiusa tra versanti color porpora. All'ingresso e a tutti e cinque i livelli della conca si ergevano delle mura. I nemici non le avrebbero valicate con tanta facilità. I nani della stirpe di Borengar erano prudenti. «Ce l'abbiamo fatta», si rallegrò Tungdil. Spossato, si strofinò la barba, e il ghiaccio sottile che gli si era formato tra i peli sotto il naso si staccò. Aveva la pelle gelata, non sentiva quasi più i piedi e, se avesse posato la mano nuda sulla cotta, le dita gli sarebbero rimaste appiccicate al metallo. Una buona birra scaccerà il freddo dal mio corpo. «L'entrata è lì davanti!» gridò. I gemelli guardarono con aria scettica i sei ostacoli da superare. «Mi domando perché abbiano preso tutte queste precauzioni», disse Boëndal, esprimendo il suo disagio di fronte a quelle mura. Si era avvolto la treccia intorno al collo a mo' di sciarpa per proteggersi dal gelo. «Si potrebbe pensare che le creature di Tion cerchino di penetrare da questa parte, e non da ovest.» «Possiamo rifletterci quando saremo al caldo?» supplicò Rodario, battendo i denti. «Non riesco più a muovere le dita dei piedi e temo che mi
si congelino.» Piccoli ghiaccioli gli pendevano anche dal naso. «Gli attori sono come le femminucce», affermò Bavragor, sprezzante, «o come Barbalustra. Che poi è la stessa cosa.» «Bevi ancora un po' di acquavite, così cadrai e creperai tra la neve», sibilò Goïmgar, furente. «Le tue mani tremanti non riusciranno a fabbricare neppure un uncino per la Lama, me lo sento.» «Quello che senti è una pressione tra le chiappe perché te la fai sempre addosso, piccolo mio» lo rimbeccò lo scalpellino, senza degnarlo nemmeno di uno sguardo. Boëndal ordinò agli altri di cavalcare in cerchio. Attraversarono la valle con molta prudenza e con le armi sfoderate, approssimandosi finalmente al primo baluardo eroso dalle intemperie, che si innalzava verso il cielo a quaranta passi di distanza. Una porta di ferro ornata di rune sbarrava loro il passo. I Primi non si erano preoccupati granché della decorazione delle pietre, ma si erano limitati ad accatastare l'uno sull'altro semplici blocchi squadrati. Appena Tungdil ebbe letto gli antichi simboli ad alta voce, il portale lampeggiò e i battenti si aprirono, consentendo loro l'accesso. «Se tutto fosse facile come leggere e forgiare...» Il gruppo si mise in movimento. «È facile per te. Talvolta vale la pena aver studiato, Sapientone», asserì Boëndal, sorridendo e coprendo loro le spalle. «Tu ne sei la dimostrazione vivente. Senza di te...» Gli anelli della sua cotta tintinnarono piano. Ammutolì di colpo, strabuzzando gli occhi. «Per Vraccas, che cosa...», balbettò, tastandosi la schiena. Una freccia nera gli sporgeva dal dorso, e una seconda, che volava già verso di lui sibilando, gli trapassò la mano e l'armatura, trafiggendolo. Il dardo era stato scoccato con tanta violenza che la punta gli sbucò fuori dal petto. Boëndal scivolò dalla sella con un gemito. «Fermi!» gridò Rodario, terrorizzato, per richiamare l'attenzione degli altri prima di tirare le redini. Udì qualcosa di pericoloso che gli schizzava accanto al collo e colpiva, anziché lui, la nuca del suo cavallo. L'animale crollò a terra con un nitrito, e l'attore sparì in una nuvola di neve farinosa. Djerůn si girò e fu colpito a sua volta. Con un rumore singolare, la lunga freccia gli si conficcò nell'armatura a un soffio dal petto di Andôkai, ma dall'elmo non uscì un suono neppure in quel momento. Il gigante si voltò subito per proteggere la sua signora dalla gragnuola di proiettili. La maga imprecò ad alta voce e lanciò un incantesimo. «Che cosa succede?» urlò Furgas, girandosi come tutti gli altri.
«Laggiù!» rispose Narmora, indicando una figura altissima dai lunghi capelli biondi all'imboccatura della valle. L'albo stava incoccando il suo grande arco per la terza volta e mirava proprio a Tungdil. Il nano avrebbe voluto balzare dalla sella per sfuggire alla morte piumata, ma si impigliò nelle staffe e non riuscì a scostarsi in tempo. Lo strale si avvicinò con un lieve ronzio, per poi arrestarsi nell'aria a un dito di distanza, la punta proprio all'altezza del cuore. Tungdil rabbrividì. «Presto, prendete Boëndal e andiamocene», ansimò la maga. «L'incantesimo non durerà a lungo.» «Maledetto albo!» imprecò Boïndil con un lampo di furore negli occhi, incitando il pony. «Eccone un altro! Lasciateli a me!» «No!» lo trattenne Tungdil, guardando avanti. In effetti, due albi aspettavano, uno accanto all'altro, che l'incantesimo protettivo svanisse. «Ti allontaneresti dalla barriera di Andôkai e verresti trafitto dalle frecce. Tuo fratello è più importante di una vendetta insensata.» Afferrò le briglie. «Via!» Il Rabbioso lo fissò senza riconoscerlo. Una scure si levò, pronta ad attaccare. Boëndal si raddrizzò, sanguinando. «Fratello mio, no! Non permettere che accada ancora», gemette, cercando di rimettersi in piedi con l'aiuto dell'ascia, ma invano. Uno dei dardi gli aveva inchiodato una mano dietro la schiena. Tacque, gli occhi colmi di lacrime per l'acuto dolore, e si accasciò. «No! Vraccas, non farlo morire!» Boïndil smontò con un balzo e si inginocchiò accanto al suo gemello. «Il cuore batte ancora.» Dopo aver tagliato in tutta fretta le asticciole degli strali, lo sollevò. «Dobbiamo portarlo nella fortezza.» Issarono Boëndal sul pony e trainarono l'animale, imbizzarrito per lo strepito, fino alla porta successiva. Tungdil avvertì un brivido di orrore quando scorse il sangue dell'amico nella neve fresca. La spedizione miete le sue vittime anche tra i guerrieri. Lanciò un'occhiata agli aggressori, credendo di riconoscere Sinthoras nell'albo biondo. Maledetta bestia! Dev'essere sopravvissuto all'attacco di Djerůn nell'oasi. Era tornato per vendicare se stesso e la sua compagna, trucidata a Grünhain. Sinthoras si strappò il fazzoletto dal collo e, dopo averlo avvolto intorno a una freccia, prese la mira. Li separava una distanza di duecentocinquanta passi, ma Tungdil non dubitava che il micidiale proiettile sarebbe arrivato a destinazione. La corda dell'arco scattò in avanti, e poco dopo anche
l'accompagnatore di Sinthoras scoccò un dardo. «Attenti!» gridò Tungdil per avvertire gli altri, perdendo di vista la saetta. Erano troppo veloci perché fosse possibile seguirne il volo con lo sguardo. Lo scudo magico eretto da Andôkai tremolò quando il primo strale lo passò da parte a parte. Il secondo si conficcò nella schiena di Djerůn, perforando il metallo. Questa volta un lamento sordo riecheggiò dall'elmo del guerriero, e dalla ferita sgorgò un liquido giallo sgargiante, come se la punta avesse centrato una vescica turgida. A Königsstein Tungdil aveva visto quella sostanza galleggiare nella pozzanghera poco dopo il suo salvataggio. Allora era rimasto davvero ferito! Il guerriero vacillò, scosse la testa e, stordito, riprese a camminare, questa volta molto più adagio. «Non fermatevi!» Si precipitarono verso la seconda porta, chi a piedi, chi a cavallo. Tungdil la aprì, e quando il portale si richiuse alle loro spalle, si sentirono abbastanza al sicuro. «Più svelti!» li esortò Boïndil mentre il sangue di suo fratello inzuppava il fianco del pony. Il liquido che usciva dalla ferita di Djerůn da giallastro si era fatto verde scuro, e il gigante avanzava ormai sempre più lentamente. Gambe e zampe sprofondavano nella neve alta mentre i nani, gli esseri umani e gli animali scendevano il dolce pendio verso l'ingresso successivo. Guardando la china, Tungdil ricordò il leggero declivio vicino alla galleria nello Ionandar, su cui andava in slitta con Frala e Sunja durante l'inverno. Senza indugio, si impossessò dello scudo di Goïmgar e lo capovolse. «Stendeteci sopra Boëndal. Lasciamoci scivolare giù, faremo prima.» Dopo che ebbero depositato il gemello sulla superficie metallica, il Rabbioso si accovacciò sopra di lui, e sfrecciarono sulla coltre immacolata, puntando dritti verso il terzo accesso, che si spalancò tra la sorpresa generale. Il liscio lato inferiore dello scudo correva sempre più in fretta sulla neve, e Boïndil non poteva frenare né cambiare direzione: stava per piombare sul gruppo di nani che, armato di asce, si era appostato dietro il portale per attendere i nuovi arrivati. Tungdil si portò le mani alla bocca. «Per Vraccas, siamo nani della stirpe dei Secondi», urlò ai difensori, il fiato che formava una nuvola
bianca nell'aria gelida. «Mettete giù le armi!» I Primi riconobbero appena in tempo gli amici in avvicinamento e si fecero da parte per lasciar passare l'insolito veicolo, che sfrecciò tra le loro file circondato da spruzzi di neve scintillanti. Fu un miracolo che restassero tutti illesi. Gli altri viaggiatori accorsero ansimando, e le guardie, di cui si intravedevano soltanto gli occhi per via delle armature e delle pellicce, li guardarono con sospetto. Una foresta di asce, azze e lunghi giavellotti si parò loro di fronte. «La benedizione di Vraccas, il nostro creatore, sia con voi! Che il fuoco della Fucina della vita non si spenga mai. Mi chiamo Tungdil Manodoro», si presentò Tungdil, ansando e lanciando un'occhiata dietro le spalle in direzione degli albi. «Questi sono i miei amici e accompagnatori. Dobbiamo parlare con il vostro re. Il consiglio dei nani ci ha mandati qui per discutere con voi la maniera di salvare la Terra Nascosta.» La selva di ferro e acciaio si diradò. Si fece avanti un nano che indossava una cotta di maglia, pantaloni di cuoio e un mantello di pelliccia bianca di ottima fattura. «Non abbiamo notizie degli altri clan e delle altre stirpi già da molti cicli, e ora che la Terra Estinta si è risvegliata, riceviamo una pittoresca comitiva di nani e Lunghi?» La voce era inconsueta per un individuo di sesso maschile. «Come osi rivolgerti a noi con questo tono, nano senza nome?!» sbottò Bavragor, facendo un passo avanti. Sovrastava il suo interlocutore dell'intera testa. «Sono Bavragor Pugnomartello del clan dei Pugnomartello, un figlio del Fabbro della stirpe di Beroïn e un tuo pari. È questa l'ospitalità dei Primi?» «Solo un nano sa sbraitare in questo modo», ribatté l'altro, abbassandosi la sciarpa per mostrare il viso. Tungdil rimase senza parole, ritrovandosi di fronte il volto di una nana. I lineamenti delicati erano inconfondibili, e al posto della barba aveva una leggera peluria castana che diventava più folta e scura sulle guance. «Sono Balyndis Ditadiferro del clan dei Ditadiferro. Sorveglio la porta principale dei Primi ed è quindi mio dovere osservare bene gli ospiti prima di farli entrare», aggiunse, per nulla intimorita.
IV Terra Nascosta, regno del Primo, Borengar, 6234° ciclo solare, inverno «Sei una donna», disse Bavragor, allibito. «Indovinato, Bavragor Pugnomartello del clan dei Pugnomartello», replicò Balyndis con un sorriso e una sfumatura di ironia. «Il tuo occhio è acuto.» Diede quindi istruzioni affinché qualcuno si prendesse cura di Boëndal. Quattro nani sollevarono lo scudo su cui era disteso e lo trasportarono verso la quarta porta. Dopo che Tungdil gli ebbe dato il permesso di allontanarsi con un breve cenno del capo, Boïndil non si staccò dal fianco del fratello. «Vi accompagniamo nella sala grande, dove incontrerete la nostra regina.» Balyndis scrutò Tungdil con curiosità, poi si voltò, e i nuovi arrivati la seguirono. Quando Tungdil la avvisò degli albi, la nana ordinò ai soldati di schierarsi sulle mura del terzo bastione, su cui erano collocate enormi fionde e catapulte per giavellotti. «A che cosa vi servono?» chiese Tungdil. «Molti cicli fa dovemmo combattere contro i troll che Tion ci aveva sguinzagliato contro. I nostri antenati eressero i baluardi per proteggersi dai loro attacchi, e alla fine le bestie furono sconfitte.» Balyndis guardò in alto. Una guardia le segnalò che era tutto tranquillo. «Pare che gli albi si siano ritirati. Che cosa volevano da voi?» «Perdonami, ma preferisco parlarne con la tua regina», rispose Tungdil, evitando il suo sguardo indagatore. «Questo è molto interessante», commentò Rodario, emozionato. «Sembra che qui siano le donne a portare i pantaloni. Una rivolta delle nane! Se solo quel maledetto inchiostro non fosse ghiacciato», piagnucolò. «Non riuscirò mai a ricordare tutto!» «Una rivolta?» Balyndis rise. «No, nessuna rivolta. Non è normale che l'uomo e la donna si dividano i compiti?» Dopo aver deposto Andôkai, Djerůn barcollò alle loro spalle fino ad arrestarsi sotto l'arco dell'ultima porta, dove si appoggiò a un pilastro. Sta molto male, pensò Tungdil. Si sentiva responsabile, perché Djerůn era già rimasto ferito a Königsstein per colpa sua. «Ancora qualche passo», assicurò la nana, «poi i nostri guaritori si occuperanno di lui.» Non sembrava preoccupata all'idea che la statura di
Djerůn non corrispondesse a quella di un uomo normale. «No, non è necessario. Potete andare avanti, devo occuparmi di lui personalmente», intervenne Andôkai. Djerůn scivolò piano lungo il muro di pietra e si accasciò nella neve. «Noi arriviamo tra un po'. La vostra arte non basta a curare le sue ferite; soltanto la mia magia può aiutarlo.» Ignorando la propria debolezza, si inginocchiò accanto al guerriero e raccolse le sue ultime riserve di energia interiore. «Andate!» ordinò con asprezza, e gli altri obbedirono senza discutere. Questa è dunque la patria dei Primi! Tungdil osservò i pendii rossi della montagna. Ai suoi piedi i nani avevano costruito una fortezza con nove torri vertiginose. Lo stile architettonico era diverso da quello dei Secondi, meno duro e spigoloso, più arcuato, ma non meno solido e resistente. I Primi avevano rinunciato del tutto agli ornamenti elaborati. Il gruppo lasciò indietro i cavalli e si inerpicò su una piattaforma di legno alla base di una torre. «Non muovetevi e state tranquilli. La prima volta fa un certo effetto.» Balyndis abbassò una leva, e schizzarono verso l'alto, volando accanto a scale a chiocciola strette e ripide. Tungdil udì lo sferragliare di alcune catene che si svolgevano e si avvolgevano. Un paranco per le persone... «Eravate stanchi di salire le scale?» chiese alla nana. Balyndis sorrise e i suoi lineamenti divennero ancora più graziosi. «Semplifica la vita.» Raggiunta la cima della torre più alta, attraversarono un cammino di ronda e si diressero verso l'entrata passando su un ampio ponte ad arco. Ai suoi lati si apriva un abisso di duecento passi. Taccole e cornacchie svolazzavano loro intorno, e il vento soffiava più gelido che mai. Narmora badò che il fazzoletto vermiglio non le volasse via. Gli enormi portali, larghi oltre dieci passi e alti quindici, restarono chiusi. Balyndis aprì invece una porta che dava accesso alla sala grande. Bavragor assunse un'espressione compiaciuta. «Ne ero certo», mormorò, e non ebbe bisogno di aggiungere altro, perché tutti sapevano che aveva appena espresso un giudizio critico sul valore artistico delle sculture dei Primi. Ciò che non aveva colpito particolarmente lo scalpellino suscitò invece profondo stupore ed entusiasmo in Furgas, Rodario e Narmora. «Pur avendone sentito parlare, non avrei mai creduto che si potessero scavare simili saloni nella roccia», confessò Furgas, ammirato, abbassando la voce.
«Abbiamo assoluto bisogno di un nuovo teatro», decise l'attore. «Dovrà essere ancora più spazioso per poter trasmettere agli spettatori l'impressione di questa magnificenza.» Accarezzò la pietra con le dita. «In effetti, è tutto autentico. Niente cartone. Leggendario, anzi favoloso.» Contemplarono le statue e le sculture di rame e bronzo, la cui ricchezza di particolari fu apprezzata soprattutto dai nani. Le opere rappresentavano le battaglie contro le creature di Tion, ma anche singoli personaggi, per esempio il patriarca dei Quinti, oppure illustri guerrieri e guerriere dei Primi. «Da questa parte», disse la loro guida, che li aveva preceduti di alcuni passi e già indicava la meraviglia successiva. Questa volta Bavragor dovette almeno ammettere che nessuno eguagliava gli ingegneri dei Primi. Dove la pietra non era bastata a costruire un ponte sulle gole senza fondo, avevano infilato lastre d'acciaio luccicanti negli spazi vuoti e le avevano impreziosite con magnifici parapetti in ferro battuto e decorazioni d'argento. Sull'ultima passerella gli stivali chiodati produssero suoni incantevoli, e ogni lastra riecheggiò in modo differente. Il tintinnio si propagò nell'alta caverna e le note si mescolarono in un concerto semplice ma incantevole. «Mi arrendo», dichiarò Rodario, scoraggiato da quanto vedeva. «Accantoniamo il progetto e mettiamo in scena una stupida farsa. Nemmeno la migliore delle illusioni può riprodurre tutto questo.» «No, ce la faremo», lo contraddisse Furgas, ottimista. «Sarà solo costoso.» Gli ultimi frammenti di ghiaccio e i fiocchi di neve si sciolsero. I viandanti si sentivano meglio, nonostante la spossatezza. Balyndis si fermò davanti a una grande porta e bussò. Un baluginio dorato filtrò attraverso la fessura, regalando agli ospiti un'anticipazione dello sfarzo che li attendeva all'interno. La sala rettangolare era tutta rivestita d'oro in foglie. Le pareti riflettevano la luce calda delle candele e dei lampadari; tutte le statue erano d'oro, d'argento, di vraccasio e d'altri metalli pregiati che i clan dei Primi avevano estratto dalle viscere del monte. Le sculture erano decorate di monili che potevano essere sostituiti a piacere. La regina sedeva a venti passi di distanza, su un trono d'acciaio puro. Alcuni nani e nane dalle armature dorate vegliavano su di lei. Magnifici mosaici realizzati con tessere d'oro, d'argento e di vraccasio scintillavano sopra di loro.
«Ho detto costoso?» bisbigliò Furgas a Rodario. «Volevo dire molto costoso.» «Avvicinatevi e siate i benvenuti nel regno dei Primi», esordì la sovrana. Tungdil si mise alla testa del piccolo corteo. Si inchinò con garbo, piegandosi su un ginocchio. Gli altri nani lo imitarono, mentre gli esseri umani si accontentarono di una profonda riverenza. Poi Tungdil li presentò a uno a uno, senza dimenticare di citare anche la maga e i gemelli. «E io sono Tungdil Manodoro della stirpe dei Quarti», concluse il suo breve discorso, sperando di avere seguito correttamente il cerimoniale. «Un'importante richiesta ci ha condotti fino a te attraverso l'intera Terra Nascosta.» «Molto bene, Tungdil Manodoro. Io sono la regina Xamtys II Frontealta del clan dei Frontealta, signora dei Monti Rossi da trentadue cicli. La vostra visita mi sorprende, poiché è da parecchio che non ricevo notizie dai regni dei miei fratelli.» Aveva un'armatura di anelli d'oro, una clava a quattro denti a mo' di scettro e occhi scuri dall'espressione insieme curiosa e gentile. Furono serviti loro boccali da cui saliva un vapore bollente. Rodario sorseggiò la bevanda con un sospiro soddisfatto e apprezzò il calore che si diffondeva dentro di lui dopo tanto tempo. «E qual è l'importante richiesta che conduce te e i tuoi amici nei miei domini?» domandò Xamtys. «Purtroppo non è nulla di buono.» Tungdil iniziò il suo racconto, descrivendo i mutamenti della Terra Nascosta e la morte dei maghi e delle maghe, come pure la controversia riguardante il nuovo imperatore. Le parlò infine della Lama di Fuoco. «E per fabbricarla abbiamo bisogno del miglior fabbro che il tuo regno possa offrire. Dev'essere in grado di forgiare l'arma contro Nôd'onn», spiegò, supplichevole. «Aiutaci, e salva così anche le tue terre, regina.» Xamtys lo scrutò con i suoi occhi castani, giocherellando con un ciuffo della folta peluria bionda. «Quanto mi hai riferito è preoccupante, Tungdil», affermò, meditabonda. «L'altro candidato, Gandogar, non è ancora giunto tra noi, il che mi fa temere il peggio. Forse Vraccas non l'ha assistito contro gli albi quanto ha assistito voi.» «No!» protestò Goïmgar. «Vraccas lo protegge! È l'unico pretendente al trono legittimo!» «Non sono io a doverlo giudicare», replicò Xamtys, cordiale, prima di rivolgersi a Tungdil. «Soddisfo volentieri il tuo desiderio. Potrebbe esserci
momento migliore per resuscitare la vecchia solidarietà tra le stirpi?» Indicò Balyndis con la clava. «Sarà lei ad accompagnarvi. Non solo è la mia più valorosa guerriera, ma anche il miglior fabbro.» «Perdonate se mi intrometto, nobile sovrana, ma come è accaduto che una nana sia salita al trono?» chiese Rodario, curioso. «Ho sempre pensato che fossero i maschi...» «Un Lungo avido di sapere, si direbbe. Ebbene, te lo spiegherò. Cominciò tutto con un litigio. Mio padre, Boragil, teneva in gran conto i consigli di mia madre, ma si rifiutava di riconoscerle la capacità di guidare il regno. Infuriata, lei pretese la controprova. Alla fine concordarono che avrebbe deciso le sorti dei Primi per quattordici rotazioni. I troll sferrarono il loro attacco proprio in quel periodo, ma mia madre non pensò neppure per un secondo di rinunciare alla carica. Affrontò i mostri a capo di un esercito e li mise in fuga con la forza e l'astuzia, dimostrando così di saper regnare persino meglio di mio padre. Quando quest'ultimo pretese la restituzione del trono allo scadere del tempo, lei si oppose e i clan la seguirono.» Si alzò. «Quando mia madre morì, trentadue cicli fa, le succedetti.» «Molte grazie, grande regina. Avrete un ruolo di spicco nella mia opera.» Una messaggera entrò nella sala, riferendo che Boëndal era in gravissime condizioni anche se la maga era con lui e stava cercando di aiutarlo. La preoccupazione dei nani crebbe. «Vi farò preparare un alloggio per la notte dove possiate riprendervi dalla fatica. Poi vi farò confezionare vestiti e mantelli di pelliccia contro il freddo», continuò Xamtys. «Suppongo che intendiate ripartire già domani. Quando vi sarete riposati, vi farò mostrare gli ingressi dei tunnel.» «Conosci il segreto?» domandò Tungdil, stupito, soffocando uno sbadiglio. «E i Primi non hanno mai utilizzato i cunicoli?» «Mia madre temeva che le altre stirpi avrebbero visto di cattivo occhio la sua ascesa al trono. Per evitare dissidi, ha mantenuto il silenzio, e io ho fatto lo stesso..» «Allora ti prego, in nome del consiglio delle stirpi, di inviare ai Monti Blu almeno una delegazione dei tuoi clan che partecipi alle adunanze.» Tungdil pronunciò quella frase con molta enfasi. «Prima hai accennato alla solidarietà tra le stirpi. Contribuisci alla sua rinascita.» «Tungdil non ha certo esagerato con i suoi racconti sulla Terra Estinta, grande regina», confermò Rodario. «Abbiamo visto di che cosa sono
capaci i mezz'orchi. Nôd'onn li spinge avanti, e solo il vostro popolo può fermarli. Parlate con i sovrani e i capoclan dei Quarti e dei Secondi e non temete la loro risposta. Non è il momento di tentennare.» Tungdil gli lanciò un'occhiata riconoscente. Chi l'avrebbe mai detto? Xamtys li guardò con espressione benevola. «Appena vi metterete in marcia verso i Monti Grigi, io e i miei clan rivedremo i nostri fratelli e sorelle dopo tanti lunghi cicli.» La regina, con aria decisa, colpì il trono con la clava. «Avete ragione, questa faccenda non può più aspettare.» *
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«È molto gentile da parte tua», gemette Boëndal, in preda al dolore, «ma non voglio il tuo aiuto. Guarirò senza la tua magia.» Dopo averlo trasferito in una camera ben riscaldata, i servi gli avevano sfilato la cotta e scoperto le profonde ferite affinché potessero essere medicate. Le prime bende erano inzuppate di sangue e il guerriero era in attesa che gliene applicassero di nuove. Andôkai, non meno pallida di lui, sedeva accanto al letto, esaminando le lesioni. Il corpo del nano lottava contro gli effetti delle frecce: alcuni organi interni erano stati danneggiati dalle punte, e a questo si aggiungeva una copiosa emorragia. «Mi intendo di ferite, e quello che vedo mi induce a dubitare delle tue parole», affermò la Burrascosa con franchezza, gli occhi azzurri che esprimevano la sua preoccupazione. «Metti da parte l'orgoglio e pensa che dobbiamo proseguire.» «Non si tratta di orgoglio», intervenne suo fratello che, adirato, in piedi dall'altra parte del capezzale, controllava tutto meticolosamente. Non aveva neppure mangiato, limitandosi a togliersi il tabarro. «Non vogliamo la tua magia, è una magia cattiva. Tu adori Samusin e potresti instillare il male nel mio gemello.» «Sciocchezze», ribatté la donna. Boëndal chiuse gli occhi, e la sua respirazione divenne più difficoltosa. «Non... voglio...» «Senza la tua robusta tempra da nano e la tua testa dura saresti morto già da tempo», commentò la Burrascosa con freddezza. «Per quanto intendi giocare con la tua vita? Permettimi di aiutarti finché ne sono ancora in grado. Anche le mie forze si stanno riducendo.» Ma il guerriero non rispose. Boïndil le indicò la porta. «Cura il tuo ferito, stregona, e lascia che i nani badino ai loro.» La maga si alzò, una mano posata sull'impugnatura della spada, e si avviò verso l'uscio senza replicare. «Non dice sul serio», sussurrò Boëndal. «Ti ringrazio per la tua offerta, ma Vraccas farà sì che io sopravviva.» Andôkai si gettò il mantello sulle spalle. «Ti auguro che il tuo dio ti ascolti.» La porta sbatté e il silenzio calò sulla stanza. «Non sono più tanto sicuro...», riprese Boëndal dopo qualche istante. «Sta' tranquillo, fratello», lo interruppe Boïndil. «Vraccas ti ha visto e ti donerà una vita lunghissima. Se c'è qualcuno che merita di morire, quello sono io. Non crucciarti, dunque.» Gli diede un altro sorso d'acqua e lasciò il locale per andare a sollecitare i servi incaricati di portare le bende pulite.
«Che Vraccas lo aiuti!» Aveva l'impressione che l'armatura fosse mille volte più pesante del solito, le gambe gli tremavano come se sorreggessero un carico di varie tonnellate, e i suoi pensieri orbitavano soltanto intorno a Boëndal. Il suo colorito cereo lo spaventava: le ferite l'avevano portato a un passo dalla Fucina Eterna. La maga non si era sbagliata quando aveva menzionato la gagliardia del suo popolo. Un uomo non poteva sopravvivere a simili lesioni, e solo le rotazioni successive avrebbero dimostrato se un nano ne era capace oppure no. Nel corridoio si imbatté in Tungdil, intenzionato a far visita a Boëndal. «Come sta?» gli chiese l'amico, inquieto. «Dorme. Le bende sono insanguinate: gliene servono di nuove con urgenza», rispose Boïndil, distratto. La scintilla folle dei suoi occhi aveva ceduto il posto a un'ansia profonda. «Credevo che Andôkai volesse curarlo. La sua magia non è servita a nulla?» domandò Tungdil. «Non vogliamo che ci aiuti», rispose il Rabbioso. «La magia non è niente, non vale niente. Non vogliamo avere nulla a che fare con Samusin.» Dopo averlo oltrepassato, chiamò i servi guaritori, che arrivarono di corsa con le bende. Tungdil sapeva che litigare con i gemelli riguardo alla stregoneria sarebbe stato inutile. La convinzione e la testardaggine erano parenti strette. Boëndal preferirebbe morire piuttosto che salvarsi grazie alla maga. Entrò nella camera senza far rumore e osservò il nano che giaceva come morto tra i cuscini, il volto emaciato, il petto che si alzava e si abbassava a malapena. I guaritori lavarono via il sangue rappreso con meticolosità e ricucirono gli squarci aperti. Applicarono infine dei muschi ammorbiditi la cui linfa alleviava il dolore. «Dovremo proseguire senza di lui», bisbigliò Tungdil al Rabbioso. «In queste condizioni, morirebbe dopo meno di cento passi.» «No... ce la faccio, Sapientone», protestò Boëndal con voce flebile ma decisa. Guardandolo con occhi supplichevoli, gli afferrò la mano. «Tra due rotazioni starò meglio. Non è che un graffio.» Tungdil lanciò un'occhiata interrogativa a uno dei cerusici, che scrollò il capo. «No, non se ne parla nemmeno. Il problema non sono le ferite esterne, ma le lesioni interne. Ogni movimento aggrava la situazione. Si spegnerebbe tra mille tormenti. Non può viaggiare.» «Resta qui e riprenditi, Boëndal. Ci rincontreremo in tempo per la
battaglia decisiva contro Nôd'onn», disse Tungdil a malincuore. «Hai fatto la tua parte.» «Vengo anch'io! Dove c'è uno di noi due, c'è anche l'altro. È la più grande impresa che il nostro popolo abbia mai...» Avrebbe voluto rizzarsi a sedere, ma appena tentò di sollevare il busto, gemette forte, e una macchia rosso scuro comparve sulla nuova fasciatura. «A quanto pare, hai ragione tu, Sapientone», ringhiò a denti stretti, guardando il fratello. «Dovrai proteggere da solo lui e gli altri.» Boïndil rimase impalato accanto al letto senza sapere che cosa dire. «Saremo divisi per la prima volta in vita nostra», dichiarò con voce rotta, stringendo la mano di Boëndal. «Mi mancherai durante i combattimenti. I primi cento Musi di porco saranno per te.» «Hai dei progetti ambiziosi», commentò il ferito, abbozzando un sorriso. «Ma non strafare. Non sarò lì a guardarti le spalle.» Si abbracciarono e le lacrime rigarono le loro guance barbute. Non si erano mai separati per tanto tempo. «E frena la tua furia, fratello. Dovrai dominare la tua ira più del solito. Promettimelo.» «Te lo prometto», giurò il Rabbioso con solennità. «Ma ora riposati.» Uscì con Tungdil. «Quando partiamo?» «Appena possibile», rispose Tungdil. «Andôkai ha rimesso in sesto Djerůn con i suoi poteri magici. Adesso sta abbastanza bene da viaggiare, anche se non so ancora con esattezza come faremo a infilarlo in un vagoncino.» «Ce ne serviranno tanti in ogni caso», osservò Boïndil. «Pugnomartello, Barbalustra, i tre attori, i metalli, la maga e il suo prezioso guerriero. Non basterebbe nemmeno un carro.» «E Balyndis», aggiunse Tungdil. «Chi?» «La nana che forgerà la Lama di Fuoco.» «Una donna, dunque.» «Sembri entusiasta quanto Bavragor», lo punzecchiò Tungdil. «Oh, io sono l'ultimo che disprezza le donne. Mi piacciono le nane benfatte da stringere tra le braccia per scaldarsi, con il seno prosperoso e il viso pieno, ma...» «Tra i clan dei Secondi vi sono anche alcune nane esperte dell'arte della fucina. E, a quanto ho sentito, Smeralda sapeva combattere come...» Maledizione!
Boïndil si irrigidì quando udì il nome del suo amore perduto. «Che venga pure. Sono stanco.» Si avviò a passo strascicato verso la sua stanza. Preoccupato, Tungdil lo seguì con lo sguardo. Che stupido sono stato! Una brutta gaffe, si infuriò con se stesso. «Credimi, me la cavo benissimo con l'incudine e il martello», lo fece trasalire una voce femminile alle sue spalle. «Perdonami, non volevo spaventarti.» Voltatosi, si trovò davanti Balyndis. Indossava ancora la cotta, e i lunghi capelli castani le incorniciavano il volto rotondo. «Volevo soltanto dirti che sono impaziente di partire con voi.» Il cuore di Tungdil accelerò un poco, e il pensiero di trascorrere le rotazioni successive attraversando la Terra Nascosta con lei lo allietò tanto da attenuare l'ansia per Boëndal. Ammaliato, guardò i suoi occhi scuri senza proferire parola. «Maneggio l'ascia con la stessa abilità e sicurezza con cui uso il martello.» Tungdil sorrise, e la voce gli mancò di nuovo. Balyndis fraintese il suo comportamento. «Mi credi, oppure vuoi assistere a un combattimento di prova per...» «No, per Vraccas!» esclamò Tungdil, alzando le braccia. «Ti credo! So che le nane sanno lottare.» Anche se non intendeva offenderla, lei se ne ebbe a male. «Be', Tungdil, adesso sono io a insistere per fare una prova», dichiarò, estraendo l'ascia. I muscoli del petto e delle braccia le guizzarono. «No, dicevo sul serio», farfugliò Tungdil. «Temo solo che... potrei... ferirti.» «Davvero? Credi che riusciresti a ferirmi?» Travisa qualunque cosa dica. «Soprattutto per sbadataggine», balbettò, cercando di salvare la situazione, mentre Balyndis roteava qua e là il manico dell'arma con fare bellicoso. «Ti credo, Balyndis...» «Io no», si immischiò Bavragor con la sua profonda voce baritonale, dirigendosi verso la nana con la destra stretta intorno al martello. «Voglio vedere se ci intralcerà durante gli scontri o se combatte come il piccolo Goïmgar.» Balyndis chinò il capo. «Vedrai subito le stelle con l'occhio che ti è rimasto», lo sfidò, e Tungdil spiccò un balzo all'indietro appena in tempo per non finire tra ascia e martello. Le armi si incrociarono con un tintinnio. Bavragor emise un grugnito di approvazione e si trovò ben presto in difficoltà perché non aveva
immaginato che la guerriera possedesse tanta forza e destrezza. Lo attaccava sempre sul lato cieco, costringendolo a girare la testa. Mentre lo scalpellino respingeva l'ascia, Balyndis levò all'improvviso l'estremità del manico e lo colpì con precisione sull'elmo. Stordito, barcollò verso la parete e cadde a sedere. Stupefatto, guardò la nana sorridente, quindi si tastò il cranio, incredulo. Le spalle gli tremarono, prima piano, poi sempre più forte, finché una risata gli eruppe dalla gola e risuonò nel corridoio. «Ben mi sta», sghignazzò, rialzandosi e tendendole la mano ruvida e callosa, che lei strinse volentieri. «Questa sì che è una donna. Promossa a pieni voti.» «Dopo avere chiarito la questione e appurato che sai combattere molto bene, dovremmo andare a letto per riposare in vista della partenza di domani.» Tungdil le rivolse un cenno del capo, contento di non avere dovuto lottare con lei. Balyndis sorrise e stava per voltarsi, quando Bavragor la prese per il braccio. «Ho un'idea più brillante. Che cosa ne dici di indicarmi la migliore osteria dei Monti Rossi e di farmi assaggiare la birra dei Primi? In cambio ti canto una serenata.» La nana accettò senza indugio e si allontanò con lui nell'altra direzione. «Vieni anche tu, Tungdil?» chiese poco prima di svoltare l'angolo. «No, non viene. È il nostro capo, dovrà sicuramente consultare le mappe e verificare lo stato dei cunicoli», dichiarò Bavragor, in tono per metà serio e per metà scherzoso. «Non esagerare con la birra», gli raccomandò Tungdil. «I tunnel hanno molte curve brusche.» Dopo averli salutati agitando la mano, si recò nella sua stanza per meditare sull'accaduto. Per quanto l'idea fosse allettante, un'infatuazione per Balyndis era fuori questione. L'avrebbe soltanto distratto. Nella sua camera ardeva un unico lume a olio che rischiarava appena le pareti di pietra. L'atmosfera invitava a rilassarsi prima del grande viaggio. «Tungdil?» Udendo la voce alle sue spalle, sussultò, indietreggiò con un balzo e agguantò l'ascia per difendersi. Spiò con diffidenza la nicchia buia accanto alla porta. «Narmora?!» La donna indossava un'armatura di cuoio nero e aveva un'aria vagamente sinistra. Senza volerlo, Tungdil pensò a Sinthoras. Non staccò la mano dall'arma, sentendo aumentare la sua avversione
latente per l'attrice. Sono tutte stupidaggini. È un essere umano. «Che cosa posso fare per te?» domandò, sforzandosi di sorridere. «Ho riflettuto sulle parole che Andôkai ci ha mostrato nel fuoco», iniziò la donna, titubante. «Quelle secondo cui sono i nemici dei nani a dover maneggiare la Lama?» Tungdil era tutto orecchi. «Hai trovato una soluzione?» «Gli albi», rispose Narmora, prudente. «Tra i vostri nemici ci sono anche gli albi, giusto?» «Quelli veri, non quelli finti», precisò Tungdil. «Il tuo suggerimento ti fa onore.» L'attrice si tolse il fazzoletto che le nascondeva le orecchie a punta. Tungdil indietreggiò, stringendo l'ascia ancora più forte. «Sei un'alba? Non può essere», disse quando ritrovò la voce dopo un lungo silenzio inorridito. «Ma i tuoi occhi non diventano neri durante il giorno.» Rise, sollevato. «Per un attimo ti ho creduto.» Narmora tese il braccio verso la lampada, il palmo della mano rivolto verso l'alto, e mormorò qualcosa di incomprensibile. La fiamma si ridusse finché restò acceso soltanto lo stoppino. Che cosa ha fatto? Alchimia? Sorpreso, Tungdil guardò la luce che si smorzava. Quando si voltò, Narmora era sparita. «Dove...?» All'improvviso lei si materializzò alle sue spalle. «Per metà essere umano, per metà alba», gli sussurrò nell'orecchio con voce roca. «Mia madre mi ha lasciato in eredità le sue doti e le sue armi. Da mio padre non ho ricevuto granché, ma i suoi occhi mi sono utili.» In men che non si dica, l'aura sinistra svanì, e Narmora si raddrizzò e riaccese il lume con un soffio lievissimo. «Perdonami per averti spaventato. Adesso mi credi?» Tungdil si riprese dallo sbalordimento. Questo spiega la mia antipatia nei suoi confronti. «Altroché se ti credo», annuì. «Così sappiamo chi maneggerà la Lama di Fuoco.» La guardò con ammirazione. «Sei stata coraggiosa a palesarti. E inoltre dovrai compiere una grande impresa.» Narmora ricambiò l'occhiata; la crudeltà e l'aspetto minaccioso erano scomparsi. «Chi altri potrebbe farlo? Di sicuro non i mezz'orchi e i veri albi.» Posò le mani sull'impugnatura delle armi. «Uno di voi nani dovrà tuttavia insegnarmi a usare l'ascia, altrimenti non farò bella figura quando combatterò contro il mago.» «Dovremmo dirlo agli altri.» Narmora rifletté. «Sì, certo. Sono curiosa di vedere come la prenderanno.» Si riferiva soprattutto a Boïndil.
Tungdil le rivolse un sorriso incoraggiante. «Non ti succederà niente, te lo giuro.» Lei sfoderò un ghigno malevolo, e un'ombra albica le offuscò i lineamenti. Si affrettarono a chiamare i loro compagni, che si riunirono tutti nella stanza di Tungdil. Il nano riferì loro la novità. «Riusciremo a sconfiggere Nôd'onn», concluse, attendendo con impazienza la loro reazione. «In realtà, dovrei ucciderla», affermò il Rabbioso, meditabondo, anche se nulla indicava che intendeva attuare quel proposito. «No, in realtà dovresti ucciderne metà. Ma in quale metà si nasconde la sua natura albica? In quella destra o in quella sinistra? Sopra o sotto? Vraccas ci perdonerà se salveremo i regni con il suo aiuto», replicò Tungdil. «Non abbiamo alternative.» Furgas abbracciava Narmora e aveva un'espressione inquieta: il nano lo capiva molto bene. La sua amata avrebbe affrontato il mago che tutti consideravano imbattibile. Indicò Rodario e Furgas: «Voi due potete restare tra i clan dei Primi e aspettare il nostro ritorno...» «Non la lascerò mai sola», dichiarò Furgas con determinazione. «Lungo il tragitto avrete sicuramente bisogno di un tecnico.» «E anche di un attore eccezionale», si affrettò ad aggiungere Rodario, pur accorgendosi subito di non saper spiegare l'utilità della sua presenza ai fini della missione. Optò dunque per un sorriso accattivante sul volto dai tratti delicati. «Giusto», confermò inaspettatamente Boïndil. «Distrarrà gli avversari con i suoi sproloqui.» I nani ridacchiarono, solo Goïmgar rimase serio finché non riuscì più a trattenersi. «Senza dubbio Gandogar è già arrivato ai Monti Grigi», sibilò dall'angolo in cui si era rintanato. «Forgerà la Lama di Fuoco per primo e diventerà imperatore, e voi non potrete fare nulla per impedirlo.» Lanciò un'occhiata sprezzante a Narmora. «Con lei non funzionerà mai. È un'alba solo per metà.» Così dicendo, si alzò e uscì. «Allora ucciderà Nôd'onn solo per metà», borbottò Bavragor nel silenzio generale, bevendo un sorso dal boccale che si era portato dietro. «Al resto penseremo noi.» La battuta allentò la tensione, e tutti risero di sollievo. Il mattino dopo, insieme con la regina Xamtys e la sua delegazione,
attraversarono i corridoi dei Monti Rossi su ponti luccicanti che non erano tanto diversi da quelli dei Secondi. Bavragor non smetteva di tastare le pareti con le dita, battendo qua e bussando là. «Non male, anche se ho visto di meglio» fu il suo giudizio stranamente diplomatico. Ben presto si ritrovarono davanti a una massiccia porta di acciaio su cui brillavano varie rune dorate scritte nella lingua dei nani. La sovrana lesse le parole magiche e i battenti si aprirono. La sala era tale e quale quella da cui Tungdil e i suoi accompagnatori avevano iniziato la loro avventura. Anche lì si trovavano calderoni, ruote dentate e otto rotaie. Gli ingegneri misero in moto il macchinario, e poco dopo si udirono fischi, crepitii e gorgoglii, e l'odore di grasso e metallo rovente riempì il locale. «I Primi hanno mantenuto il sistema di cunicoli in buone condizioni», osservò Furgas. «Niente ruggine, niente polvere. Suppongo che in passato fossero pronti a partire in qualsiasi momento.» «È stato un errore non imitarli», osservò Xamtys, ordinando di preparare e caricare i vagoncini per sé e per il resto della spedizione. Un carrello era destinato a Djerůn, che non recava più traccia della ferita. I fabbri avevano riparato i punti danneggiati della sua armatura durante la notte, e un occhio inesperto avrebbe faticato a notare la differenza. I servi smontarono le file di panche del suo veicolo affinché potesse sdraiarsi all'interno. Temevano che altrimenti potesse incastrarsi con la testa da qualche parte e rimanere decapitato. I nani trovarono posto in un altro vagoncino, mentre l'ultimo carrello ospitò gli attori, Andôkai e l'occorrente per la fabbricazione della Lama di Fuoco. La maga ha l'aria stanca. Tungdil le si accostò. «Come state voi e le vostre forze? Avevate detto di essere sfinita.» La donna si legò i capelli biondi con un laccio di cuoio preparandosi al viaggio imminente. «Vuoi sapere la verità o preferisci che menta?» «La verità.» Seduta sul bordo di un veicolo, osservò tutto quel trambusto. «Presto i miei poteri si esauriranno del tutto. Da troppo tempo non frequento zone dotate di campi magici da cui trarre nuova energia.» «È per questo che i maghi non lasciano mai i regni?» Gli occhi di Andôkai fissarono il suo viso barbuto. «Sì, questo è il segreto degli stregoni. Naturalmente, possiamo usare la magia anche al di fuori dei campi magici, ma le energie che portiamo dentro di noi si
disperdono in fretta e si consumano ancora più in fretta. Puoi paragonarle a una borraccia bucherellata. Perde acqua anche se non bevi. Un paio di incantesimi potenti, e la forza svanisce.» Guardò Djerůn. «Ecco perché ho imparato a combattere e non mi allontano mai da lui. Non voglio certo ritrovarmi indifesa nel momento in cui i poteri magici svaniscono.» Tungdil rifletté. «È forse un modo per sconfiggere Nôd'onn?» La Burrascosa scrollò il capo. «Non ci conterei. L'essere che dimora in lui gli ha conferito un potere ignoto.» Guardando Narmora, il nano rammentò quello che aveva fatto con la lampada. «Lei domina la magia...» «No, no di certo. So parecchie cose sul suo popolo, ma le capacità che possiede non possono essere particolarmente forti. Credo che si tratti di caratteristiche innate... Evocare l'oscurità, spegnere il fuoco, modificare i sogni. Piccolezze che pietrificano gli esseri umani per l'orrore e alimentano tutte le leggende sugli albi.» «Nient'altro? Sinthoras ha perforato il vostro scudo magico.» «Quella era astuzia, non magia. Ricordi che abbiamo trovato dei cristalli addosso agli albi morti?» Tungdil annuì. «Li hanno ricevuti da Nôd'onn per proteggersi dalla magia degli stregoni. Sinthoras ne ha legato uno intorno alla freccia, vanificando così il mio incantesimo.» Andôkai si alzò. «È tutto pronto. Possiamo andare.» I preparativi erano terminati, e anche il vagoncino della regina venne issato sui binari. «Pensaci, Tungdil. Io risparmierò le forze, ma non illudetevi che possa intervenire sempre.» «Lo dirò agli altri.» Ce la faremo anche senza la magia. Tornarono alle rampe, dove Xamtys era impegnata a ispezionare i carrelli. «Sono impaziente di conoscere l'esito di questo viaggio.» Si accarezzò la peluria chiara. «E sono ansiosa di vedere le facce degli uomini.» Saltò sul sedile e sbloccò i freni. «Vi aspettiamo insieme con la Lama di Fuoco. Che Vraccas sia con voi.» Si avviarono, scomparendo nel tunnel. «E con te», gridò Tungdil, incamminandosi verso la rampa successiva per accomodarsi nel suo vagoncino. Si infilò sotto la cotta la mappa con i collegamenti tra i cunicoli fornitagli dalla sovrana. Boïndil prese posto accanto a lui; dietro, Bavragor e Balyndis ridevano tra loro. «Zitti!» sibilò il Rabbioso rivolto al loro indirizzo. Era proprio di pessimo umore; senza il fratello, si sentiva irritato e a disagio. Rodario si affrettò a scribacchiare le ultime righe e tappò con cura l'inchiostro scongelato affinché non traboccasse durante la corsa e non gli
imbrattasse i vestiti. «Sarà divertente!» esclamò. «Anche noi dovremmo costruire qualcosa del genere, Furgas. Gli spettatori potrebbero godersi un'avventura come quella degli eroi del nostro spettacolo.» «No, non è divertente», lo contraddisse Goïmgar, acido. «Lo stomaco ti si chiude, la barba ti vola in faccia e ti viene da vomitare.» «Via, non può essere così tremendo! Sono abituato a certe cose», replicò l'attore, cercando di legarsi la fune di sicurezza intorno alla vita. Quando il vagoncino accelerò e precipitò quasi in verticale, Rodario manifestò la sua paura con uno strillo acuto e lottò contro i conati di vomito. Un largo sorriso si disegnò finalmente sul volto di Goïmgar.
Terra Nascosta, regno del Secondo, Beroïn, 6234° ciclo solare, inverno Nel suo alloggio Balendilín soppesò l'ascia da guerra con espressione attenta e sferrò qualche colpo di prova finché ebbe la certezza di riuscire a maneggiare l'arma abbastanza in fretta anche con un braccio solo. «Sono sempre più numerosi, mio sovrano», si udì riecheggiare dall'esterno. «Vieni e guarda con i tuoi occhi.» Si potrebbe pensare che il discorso di Bislipur li abbia attirati. Dopo essere uscito, passò accanto alle interminabili file di guerrieri dei Secondi e dei Quarti, finché dalla terrazza più alta di Orcomorto scorse l'area antistante le porte. Lo spazio brulicava di quelle creature, migliaia di punti neri piccoli e grandi che si muovevano qua e là. L'aria puzzava di grasso rancido e delle esalazioni dei mezz'orchi, che si erano accampati a un miglio di distanza e si accingevano all'offensiva. Seppur attutite, le loro grida giungevano fino a lui. In lontananza Balendilín distinse gigantesche torri d'assalto, alte quaranta passi e più, che venivano spinte senza tregua verso la fortezza. In questo modo riusciranno a raggiungere i merli del primo bastione! Le odiose costruzioni di legno erano sghembe, il che non disturbava le bestie purché le strutture servissero al loro scopo e li aiutassero a superare il primo ostacolo sulla strada verso il cuore del regno dei Secondi. I mostri le avevano rivestite di pelle umana per proteggerle dai proiettili incendiari; appena l'attacco fosse iniziato, le avrebbero bagnate affinché non bruciassero troppo in fretta. «Non avrei mai creduto che prendessero di mira i nostri regni tanto presto», affermò Bislipur, che si era materializzato lì accanto e osservava la scena. Indossava l'armatura completa ed era l'immagine vivente del nano guerriero. «Saranno almeno diecimila. Per fortuna ho fatto arrivare i rinforzi dalla mia patria.» Attese invano un elogio dell'imperatore. «Bogglin, mezz'orchi, un manipolo di orchi, troll e qualche albo», elencò Balendilín. «Tungdil non ha mentito quando ci ha anticipato le intenzioni di Nôd'onn.» Guardò i nani che occupavano il primo anello difensivo e si preparavano a resistere all'aggressione. Se lo stregone ci ha mandato un tale numero dei suoi servi, significa che è sicuro di conquistare i regni umani. Non mi piace per niente. «Quando gli anelli difensivi cadranno, ci ritireremo nelle viscere dei
monti.» «E poi?» «Se ci seguiranno fin lì, saranno perduti. Laggiù ci orientiamo meglio di loro.» «Pensi che non riusciremo a difendere le mura?» chiese Bislipur, sorpreso. «I miei e i tuoi cinquemila soldati dovrebbero bastare per proteggere la fortezza per l'eternità.» «Mi aspetto il peggio da quando il male ha preso il sopravvento nella Terra Nascosta.» Balendilín ordinò ai suoi soldati più valorosi di andare ad aiutare le guardie agli ingressi dei tunnel. Il peggio... Si recò quindi sul cammino di ronda, dove ebbe modo di valutare le dimensioni dell'intera orda: un'accozzaglia caotica e variopinta dei rifiuti della creazione di Tion, che sbavava per l'impazienza di sterminare i nani e aprire la Porta Alta ai loro parenti. Fino a poco tempo fa le armature dei bogglin e dei mezz'orchi appartenevano ai mercenari della regina Umilante, che non sono riusciti a sconfiggere i mostri. Balendilín notò che le bestie si riunivano in gruppi disordinati per partecipare al primo assalto e vedere come i nani le avrebbero contrastate. «Duemila guerrieri dietro la porta grande!» ordinò con determinazione. «Tenetevi pronti.» Quando i mezz'orchi si avvicinarono grugnendo e sbuffando, fece aprire il portale per una sortita. Guardò con compiacimento le asce della sua stirpe infuriare tra i nemici, che non avevano previsto un contrattacco così violento e cercarono scampo nella fuga prima di essere spinti indietro dai troll. A quel punto, tuttavia, i nani erano già tornati al riparo delle robuste mura di Orcomorto e contavano solo una trentina di feriti lievi. Parecchie centinaia di mostri giacevano invece morte o mutilate nella terra polverosa davanti agli ingressi. L'esultanza dell'esercito unito dei nani fu enorme. «Vedete che cosa riusciamo a fare quando combattiamo insieme?!» gridò con orgoglio Balendilín dall'alto, e si guardò intorno alla ricerca di Bislipur, pensando che anche lui volesse dire qualcosa ai suoi uomini. Ma non lo vide da nessuna parte.
Terra Nascosta, sotto il regno di Weyurn, 6234° ciclo solare, inverno I vagoncini sfrecciavano lungo i cunicoli, lacerando le ragnatele e facendo turbinare la polvere accumulatasi nel corso dei secoli. Di tanto in tanto una grossa ombra, spaventata dal chiasso e dallo sferragliare dei veicoli, fuggiva davanti al bagliore delle fiaccole e si rifugiava nell'oscurità dei corridoi laterali, dimostrando loro che il sottosuolo della Terra Nascosta brulicava di vita. Doveva tuttavia trattarsi di una vita innocua e paurosa, perché il viaggio si svolse senza contrattempi. Si avvicinavano al Quinto regno dei nani da ovest. Tungdil contò i segni sulle pareti e, alla fine del primo giorno, calcolò che avevano percorso oltre duecentocinquanta miglia. «Di questo passo, arriveremo dai Quinti tra quattro rotazioni», annunciò ai suoi amici durante una sosta accanto al fuoco. «Avanziamo in fretta.» Si erano fermati in una grande sala attraversata da due tracciati, che fungeva da snodo principale. Archi in muratura e colonne di pietra sostenevano il soffitto, e le rune sulle pareti e sui pilastri non lasciavano dubbi sull'identità dei costruttori. Il legno che li riscaldava crepitando proveniva dai resti di travi inutilizzate. «Non credo che il drago si lascerà gabbare da noi», disse Goïmgar, abbattuto. «Ci brucerà con il suo soffio.» «Macché. Gli ficchiamo il Lungo in gola, così non gli esce più niente dalle fauci», replicò Boïndil, masticando. «È ottimo, Balyndis. I Primi se ne intendono, di salatura e affumicatura», si complimentò. Staccò con curiosità i pezzetti di erbe che formavano una crosta sopra il prosciutto. Bavragor prese da parte Tungdil. «Guardala! Non è una nana mozzafiato?» La sua pupilla orlata di rosso brillava di felicità. «La cotta di maglia e le rotaie di ferro sono lavori magistrali.» «Da quando sei un esperto di lavorazione dei metalli?» Tungdil gli rivolse un largo sorriso, attestando in silenzio il pregio dei manufatti. «Ti ho sempre sentito parlare in tutt'altro tono.» «Prima del duello», ridacchiò lo scalpellino. «Poi quella nana mi ha colpito dritto al cuore.» Puoi dirlo forte! Tungdil doveva riconoscere che, da quando Balyndis aveva sconfitto Bavragor, pareva che il loro affiatamento aumentasse di ora in ora. «Non ti aveva colpito alla testa?» «Non parlate così in fretta. Non riesco quasi a starvi dietro.» Rodario
sedeva vicinissimo al fuoco e, avendo ascoltato la loro conversazione sommessa, scriveva con foga. «Voglio che il copione sia il più fedele possibile.» Nel frattempo Furgas esaminò il tracciato e Narmora montò la guardia lì accanto. Djerůn era accovacciato in disparte sul pavimento, immobile come sempre e con l'arsenale in bella vista. «Avrebbe anche potuto colpirlo più forte», interloquì Goïmgar, a voce tanto bassa che lo udì soltanto Tungdil. «Se non amassi tanto il mio re, dovrei detestarlo per avermi mandato qui con voi.» Come quasi tutte le sere, fu il primo a infilarsi sotto la coperta e a chiudere gli occhi. Bavragor rise e notò che, come sempre, l'attore non si era separato dal suo sacco di costumi e lo teneva a portata di mano. «Quello, non avremmo dovuto lasciarlo dai Primi?» Rodario gli lanciò un'occhiataccia. «Mai! Il suo contenuto è troppo prezioso, e chissà che i travestimenti non ci servano.» Un tonfo sonoro attirò la loro attenzione. Simile a un secco colpo di martello contro la pietra, rimbombò lungo i corridoi e si spense. Tutti girarono la testa per guardare Furgas, che ispezionava le rotaie di metallo. «Non sono stato io», si difese subito. «Veniva dal tunnel lì davanti.» Goïmgar raddrizzò la schiena. «L'ho già sentito una volta!» Impaurito, allungò la mano verso lo scudo. «Sono gli spiriti degli operai morti», bisbigliò, facendosi piccolo piccolo dietro la sua protezione. «Che Vraccas ci assista.» Lo ricordava anche Tungdil. «L'abbiamo udito poco prima di Mifurdania», sussurrò. «Il suono era lo stesso.» Un segnale? Per chi e per quale motivo? «Fate piano.» Gli istinti bellici di Boïndil si risvegliarono. Alzatosi, si precipitò verso l'imboccatura del tunnel, mentre Narmora teneva d'occhio l'altro lato. Il nano tese le orecchie nelle tenebre. Sembrava che tutti trattenessero il respiro. Solo Andôkai, impassibile, vuotò la pipa, la riempì e la accese con un tizzone. Balyndis le rivolse un largo sorriso, seguendo il suo esempio. Imperturbabile, afferrò un pezzettino di brace con il guanto per dare fuoco al tabacco. I loro volti, così diversi, sparirono in una nuvola di fumo. Finalmente il Rabbioso tornò. «Non c'era niente. Non ho fiutato né udito nulla.» «Dobbiamo stare attenti. L'ultima volta che ho sentito quel rumore è
crollato il soffitto», li avvertì Tungdil, apprestandosi a coricarsi. Furgas e la mezz'alba ricomparvero. «Può darsi che non siamo gli unici a usare i cunicoli», dichiarò l'uomo. «Sulle rotaie lì davanti non c'è traccia di ruggine o di polvere.» «Ciò conferma l'ipotesi secondo cui i vagoncini vi scivolano sopra a intervalli regolari.» «Volevo che lo sapessi.» «Grazie, Furgas. Tienilo per te, per favore. Non voglio che Barbalustra muoia di paura», lo pregò Tungdil.
Terra Nascosta, regno del Secondo, Beroïn, 6234° ciclo solare, inverno «Posso aiutarti, Bislipur?» domandò con cortesia la guardia di destra, vedendo lo zoppo che si avvicinava a lui e all'ingresso dei tunnel. «Sì, potresti morire senza fiatare», rispose l'altro, altrettanto gentile. La sua ascia si era già levata e abbattuta di sbieco sul collo scoperto del soldato. Non vi era modo di bloccare quel colpo a due mani, e il militare si spense con un rantolo soffocato. L'altro guerriero riuscì a posare la destra sul corno e la sinistra sull'impugnatura della mazza, ma la lama insanguinata gli squarciò la gola, attraversandogli l'elmo fino al cervello. È stato facile! Bislipur si ripulì il viso dal sangue e, voltatosi, emise un breve fischio, al che duecento dei suoi uomini più fedeli sbucarono dal corridoio. «Sapete come comportarvi», affermò in tono spiccio, prima di recitare la formula necessaria per aprire l'accesso alla sala sotterranea che conduceva ai binari. «Nessuna pietà per i traditori di Gandogar, perché voi non ne ricevereste alcuna da loro.»
Terra Nascosta, sotto il regno di Weyurn, 6234° ciclo solare, inverno Accadde quando abbandonarono il cunicolo e imboccarono un ponte angusto, dopo aver raggiunto il segno del trecentesimo miglio. Sotto di loro, solo aria e tenebre impenetrabili. Il primo vagoncino, che trasportava i nani, cominciò a sobbalzare mentre sfrecciava alla massima velocità, e due ruote si staccarono dalla guida e si sganciarono. Sprizzando scintille, il veicolo continuò a procedere finché, nonostante tutti gli sforzi dei suoi occupanti, si capovolse e ruotò una volta su se stesso. I carrelli successivi frenarono appena in tempo per non investirlo. Tungdil, Balyndis e Boïndil furono fortunati, perché atterrarono sul ponte e rotolarono più volte prima di arrestarsi, ma i guanti e le armature li protessero. Tungdil cadde per ultimo accanto alla nana, cosa che lo mise in imbarazzo, facendolo arrossire. La guardò negli occhi e avrebbe voluto dire qualcosa, ma lei rimase immobile a fissarlo. In quell'istante gli giunsero alle orecchie le urla inconsolabili di Goïmgar. «Perdonami», si scusò, impacciato, alzandosi per raggiungere il levigatore. Il nano mingherlino piagnucolava penzolando dalla sommità del muro. Le sue mani cercavano disperatamente un appiglio sulla superficie piatta, ma il peso dello zaino e dell'armatura lo trascinava inesorabilmente verso il basso. «Fate qualcosa! Sto cadendo!» Tungdil si mise a correre. Bavragor, che giaceva sul parapetto a pochi passi da Goïmgar, si alzò borbottando e tenendosi la testa. «Un orco deve avermi dato un calcio da dietro.» Solo allora si rese conto della situazione del compagno e si lanciò in avanti per afferrargli il braccio. Troppo tardi! Il volto atterrito di Goïmgar sparì, e gli altri udirono il suo urlo stridulo che si affievoliva in lontananza. «Per Vraccas!» fu l'unico commento dello scalpellino. Boïndil, Tungdil e Balyndis accorsero, per poi restare impotenti davanti alla sagoma che rimpiccioliva sempre più mentre veniva inghiottita dall'oscurità. «Spostatevi!» A un tratto Andôkai sfrecciò loro accanto, atterrò sul muro con un salto vigoroso e prese lo slancio con energia, le braccia allargate come quelle di un tuffatore. Il mantello scarlatto le sventolò come
uno stendardo dietro le spalle, quindi anche la maga scomparve nel buio. I nani sentirono il fruscio del tessuto che si tendeva e si agitava, ma non vi era nulla che potessero fare e, anche se Rodario accese una fiaccola, il bagliore non bastò a rischiarare un poco l'ambiente circostante. Dopo parecchio tempo, una minuscola scintilla azzurra brillò tra le tenebre sotto di loro. «Si è sfracellata e ci ha rimesso le penne?» domandò Boïndil. «Quel baluginio è forse la sua anima?» Tungdil guardò Djerůn che, al solito, era immobile come una statua. A giudicare dal suo comportamento, non era preoccupato per la sua signora, e questa constatazione restituì la speranza al nano. Penso che la Burrascosa sappia quello che fa. «La luce si avvicina!» esclamò Balyndis, emozionata. «Vola verso l'alto!» Un vento impetuoso salì dall'abisso, portando con sé due figure. Andôkai e Goïmgar cavalcavano sulla raffica, che si placò dopo averli depositati con delicatezza sul ponte. I lunghi capelli biondi ricadevano arruffati sul volto della donna, e pareva che un branco di topi affamati si fosse aperto un varco nella barba luccicante del levigatore. Goïmgar aveva un colorito cadaverico, ma per il resto era illeso. «È stato... indescrivibile», osservò Rodario. «Non me ne capacito, venerabile maga. È stato molto altruista e coraggioso mettere a repentaglio la vostra preziosa vita per salvarlo.» Rivolse a Goïmgar uno sguardo di scusa. «Naturalmente, ciò non significa che la tua esistenza valga meno della sua.» «Dovresti dare un'occhiata al vagoncino», disse Andôkai a Furgas come se niente fosse, aggiustandosi il mantello e intrecciandosi di nuovo i capelli. «Puoi ripararlo?» L'uomo si diresse verso il veicolo, scrollando il capo già da lontano. «Le ruote sono deformate e non corrono più diritte.» Si chinò. «Il tracciato è stato manomesso. È una fortuna che non siamo finiti fuori strada anche noi.» «L'oro e il tionio!» gridò il Rabbioso, ribaltando il carrello per controllare il carico. «Sono scomparsi!» Bavragor fissò la voragine con espressione burbera. «Indovina dove sono finiti? Saranno laggiù, da qualche parte, e continueranno a cadere fino all'altro capo del mondo.» Rivolse lo sguardo alla maga.
«No», rispose la donna al suo muto quesito. «Dovremo escogitare qualcos'altro.» Tacquero. Ora mancavano loro due materiali indispensabili per la fabbricazione dell'arma magica. «Sapevo che avremmo fallito», affermò Goïmgar in tono lamentoso, ma senza soddisfazione. «Eccolo che ricomincia con la solita lagna. Anzi, possiamo anche ributtarlo di sotto», ringhiò Boïndil. «Adesso che non abbiamo più i lingotti, non ci serve neppure un levigatore frignone.» «Suvvia», interloquì Tungdil cercando di risollevare il morale agli altri. «Nessuno mi convincerà che, in un regno dei nani, non riusciremo a trovare abbastanza oro e tionio per costruire la Lama di Fuoco.» «Abbiamo già la soluzione», confermò Andôkai, rivolgendogli un cenno del capo e sistemandosi l'armatura di cuoio con un ultimo gesto della mano. «Benissimo. Lo spavento è superato, proseguiamo. Riprendete posto nei vagoncini», ordinò Tungdil, sentendosi sempre più a suo agio nel ruolo di capo. «Spingeremo i carrelli a turno fino alla prossima discesa.» «Non occorrerà», dichiarò la Burrascosa, indicando Djerůn.
Terra Nascosta, regno del Secondo, Beroïn, 6234° ciclo solare, inverno Questa volta l'esercito di Nôd'onn avanzò da entrambi i lati. Quando le torri d'assedio si furono avvicinate, i proiettili dei nani perforarono le pelli umane inumidite e l'intelaiatura di legno, oppure strapparono pezzi di travi, ma senza riuscire a farle crollare tutte. Alla fine tre di quelle costruzioni arrivarono davanti ai merli. Le rampe d'assalto si aprirono e i mezz'orchi uscirono correndo dal ventre delle strutture, ma i loro sforzi non valsero a nulla contro i nani inferociti. Balendilín comandò i difensori con abilità sufficiente a impedire ai nemici di sfondarne le file. «Alla torre, presto, e versate il petrolio sul legno», ordinò quando la prima ondata di aggressori si fu esaurita e le bestie successive ebbero iniziato ad arrampicarsi. Il suo piano fu efficace. Ben presto le costruzioni arsero tra fiammate luminose, il legno resinoso bruciò come una manciata di fiammiferi, le funi si spezzarono e le strutture rovinarono rumorosamente al suolo. I nemici si ritirarono strillando. Questa volta, tuttavia, i nani registrarono delle perdite. Quattordici guerrieri erano stati abbattuti dalle frecce di un tiratore scelto degli albi, che si era nascosto sulla piattaforma dell'ultima torre d'assedio. Per nulla intimorito dalle vampe guizzanti, continuò a scagliare i suoi dardi contro gli avversari persino quando gli si incendiò la veste. La pioggia di saette cessò solo quando le fiamme raggiunsero la corda dell'arco. Il morale dei nani era alto nonostante i morti. Nulla lasciava supporre che Orcomorto avrebbe ceduto. «Avete combattuto bene», li lodò Balendilín. «Non dimenticheremo mai i nostri fratelli caduti e scriveremo i loro nomi in oro sulla parete della sala del consiglio.» Il suo sguardo spaziò sulla moltitudine di soldati barbuti che, pur essendo madidi di sudore, apparivano soddisfatti e per nulla stanchi. «Vraccas ci ha...» «Mezz'orchi!» lo interruppe il grido di un nano che si trovava sulla torre d'osservazione e si era voltato per un attimo. «I mezz'orchi sono all'interno delle nostre mura!» Erano centinaia, e si scagliavano ruggendo contro qualsiasi resistenza. Di lì a poco occuparono tutto il primo terrapieno, agitando le asce, gli scudi, le lance e le spade per schernire gli avversari.
I tunnel! Sono arrivati passando per i tunnel! «Dobbiamo annientarli prima che aprano la Porta Alta! Forza, figli del Fabbro!» urlò Balendilín, riscuotendo i suoi guerrieri dalla paura che li aveva paralizzati. «Nessun mezz'orco dovrà sopravvivere a questa giornata!» Un fremito attraversò l'esercito dei nani, che si inerpicarono su per il pendio, gettandosi contro i nemici secolari del loro popolo. L'imperatore dal braccio mutilato restò con le sue truppe, dando loro un esempio di valore. In quel momento un orco uscì dal salone, portò alle labbra un enorme corno ed emise un richiamo lacerante, cui risposero ululati di giubilo dall'altra parte della fortezza. Iniziò così il secondo attacco degli assedianti.
V Terra Nascosta, regno del Secondo, Beroïn, 6234° ciclo solare, inverno Com'è potuto accadere? I tunnel erano sorvegliati! Balendilín non aveva tempo di controllare l'ingresso perché era impegnato a guidare i suoi uomini contro la fiumana inesauribile di orchi, bogglin e mezz'orchi. Per ogni nemico abbattuto, altri due si paravano davanti al sovrano, che colpiva un avversario ogni volta che vibrava un colpo alla cieca con l'ascia. Lui e i suoi guerrieri riuscirono tuttavia a ricacciare gli assalitori inaspettati nelle gallerie. Durante una cruenta battaglia in cui persero la vita parecchi nani, i difensori costrinsero i mostri a indietreggiare fino all'atrio da cui si dipartivano i cunicoli, ma non oltre. Sono troppi! Balendilín inorridì quando vide la massa degli aggressori in attesa, che i nani avevano intrappolato ma che non riuscivano a sopraffare. Dai tunnel continuavano a sbucare nuovi mezz'orchi. Lo raggiunse un messaggero che gli portò un'altra notizia spaventosa. «Le bestie ti hanno circondato», ansimò. «Ci hanno aggrediti alle spalle, le porte di Orcomorto sono aperte, il primo e il secondo anello difensivo sono caduti.» Balendilín subodorò un tradimento. «Allagate le pianure con l'olio bollente. In questo modo...» «È impossibile. Hanno distrutto i dispositivi.» Distrutto? Il suo ottimismo riguardo all'esito del combattimento cominciò a vacillare. Allora qualcuno deve aver detto loro dove si trovavano gli impianti. «Ordina ai nostri di ritirarsi e di chiudere l'entrata. Cederemo la fortezza esterna e difenderemo il nostro regno dall'interno.» Lo incitò con una pacca sulla spalla. «Svelto!» L'altro annuì e corse via. L'imperatore era certo che l'accaduto non dipendesse da una serie di circostanze sfortunate. Prima i mezz'orchi erano arrivati attraversando gallerie della cui esistenza erano all'oscuro da centinaia di cicli, poi avevano messo fuori uso i meccanismi di difesa per i terrazzamenti esterni della fortezza, infine avevano accerchiato i nani. Si sanno orientare benissimo. Qualcuno li aveva preparati per quell'impresa rivelando loro ogni dettaglio sui Secondi. Quale nano
compirebbe un gesto tanto abietto? Non gli veniva in mente nessuno che potesse allearsi volontariamente con i mezz'orchi. Nôd'onn! Forse ha stregato uno di noi con un incantesimo! Prese una decisione in tutta fretta, perché ogni istante era vitale. «Duecento vengano con me, gli altri tengano in scacco le bestie qui», ordinò, percorrendo di slancio il corridoio. La sua destinazione era la Porta Alta. Intendeva demolire il ponte sopra il fossato prima che i mezz'orchi lo raggiungessero e lo abbassassero per consentire l'accesso alle creature della Terra dell'Aldilà. In lui l'ira e l'odio verso Nôd'onn crescevano a ogni passo.
Terra Nascosta, regno di Weyurn, 6234° ciclo solare, inverno «Non ha bisogno di una pausa?» chiese Rodario ad Andôkai con curiosità. «Ormai è da un bel pezzo che spinge i due vagoncini.» «A differenza di te, Djerůn è abituato alla fatica», replicò la Burrascosa, acida. L'attore assunse un'espressione indignata e sollevò il mento. «Che cosa ho fatto alla venerabile maga per meritare queste continue...» La donna si voltò. «Sali, Djerůn, tra poco inizia una discesa.» Obbediente, il guerriero corazzato balzò nel veicolo posteriore, rimpicciolendosi il più possibile per non ferire nessuno e non restare con la testa incastrata nel soffitto. «Cercate pure di ignorarmi», continuò Rodario con ostinazione. «Non vi servirà a nulla. Tenete presente che il vostro atteggiamento potrebbe fare una cattiva impressione su di me, l'autore dell'opera in cui verrete rappresentata. Capito?» Gli occhi della maga fissarono i suoi. «Manderò Djerůn ad assistere allo spettacolo. Indovinerai dal suo comportamento se ho gradito la recita oppure no. Se dovesse estrarre l'ascia, mettiti a correre.» Rodario sostenne il suo sguardo, invano. «Non ho nulla contro di te, ma non tollero i tuoi modi. Sei troppo affettato, e questo non mi piace.» L'altro storse gli angoli della bocca e la sua baldanza svanì. «Dite pure che non mi considerate un vero uomo. Ai vostri occhi un uomo deve saper maneggiare la spada, avere i muscoli ed essere in grado di usare la magia.» «Ti chiedo scusa», ribatté Andôkai, beffarda. «Mi capisci meglio di quanto potessi pensare. Come vedi, non soddisfi nessuno dei tre requisiti, perciò puoi risparmiarti tutti questi sforzi per conquistare il mio favore. Sono fastidiosi sia per me sia per gli altri.» Come sempre, la donna non ritenne opportuno abbassare la sua voce squillante. Rodario, rosso in viso, stava per ribattere, quando il veicolo si inclinò in avanti di colpo e accelerò. Il contenuto del calamaio traboccò, spargendosi sul foglio e sui suoi vestiti. L'attore tacque, offeso. Tungdil, che aveva posato la mano sul freno, scrutava l'oscurità nella speranza di scorgere eventuali ostacoli e, all'occorrenza, fermare il carrello in tempo, anche se non si illudeva di riuscire a vedere una rotaia piegata. Boïndil, seduto lì accanto, teneva gli occhi puntati davanti a sé con altrettanta concentrazione.
I vagoncini procedettero a notevole distanza l'uno dall'altro, raggiungendo ben presto la massima velocità. L'aria divenne rarefatta, e i passeggeri avvertirono un pungente fetore di uova marce. «Laggiù c'è una luce!» urlò il Rabbioso all'improvviso. «Una luce arancione.» Sbucando dal tunnel, sfrecciarono su un altro ponte che, sorretto da pilastri di basalto, si librava su un enorme lago il cui fondo emanava un intenso scintillio. La lava scorreva sul terreno, l'acqua limpida gorgogliava e ribolliva, e il vapore riscaldava l'aria, producendo un'afa opprimente che li coprì di sudore. Ai viaggiatori mancò il respiro, e il puzzo di zolfo non semplificò le cose. La lava incandescente rischiarava le pareti della grotta dalla forma irregolare, che aveva un diametro di due miglia abbondanti e un'altezza di cinquecento passi buoni dal lago al soffitto. Schizzarono sul lungo ponte. Per quanto la vista dall'alto sia incantevole, sono lieto di tornare nel tunnel, pensò Tungdil. Poi udirono di nuovo il tonfo. Iniziò con un unico colpo, un suono penetrante che sovrastò il lieve gorgoglio dell'acqua. In preda all'agitazione, Goïmgar tentava di individuare la fonte del rumore girando la testa qua e là con frenesia. «Sono gli spiriti dei nostri antenati», bisbigliò. «Ricordo le leggende che mi narrava la mia bisnonna, storie di nani che, dopo la morte, non erano potuti entrare nella fucina di Vraccas perché non avevano osservato le sue leggi. Sono condannati a vivere nelle gallerie e si appostano in attesa dei vivi per vendicarsi dei loro tormenti.» «Ti sei bevuto anche le storie dei mezz'orchi che divorano gli uomini?» lo schernì Bavragor. «Posso confermare che sono vere», bofonchiò Boïndil davanti a lui, e Goïmgar si fece così piccolo che i suoi occhi emergevano appena dal bordo del vagoncino. «Forse la mia bisnonna aveva ragione anche riguardo ai fantasmi.» «Smettetela», ordinò Tungdil, e in quell'istante un secondo tonfo rimbombò nella caverna inondata di luce rossastra. Ma la cosa non finì lì. I colpi si intensificarono, diventando più rapidi, e il martellio tintinnante si tramutò in un rumore ritmato. Il fragore bastò a far cadere le pietre più instabili dalla volta della caverna. I frammenti più piccoli si distaccarono,
mancando il ponte di pochi passi e precipitando nel lago bollente. «Laggiù!» strillò Goïmgar, fuori di sé per la paura. «Per Vraccas! Gli spettri! Vengono a prenderci per trascinarci verso la rovina!» Seguendo il suo dito, gli altri distinsero gli esseri che erano spuntati tra le rocce e li guardavano dall'alto. Tungdil ne conto più di trecento. Diventavano sempre più numerosi. Non c'era dubbio, assomigliavano ai nani. Alcuni indossavano armature, altri abiti normali, altri ancora quasi nulla a parte un grembiule di cuoio. Fabbri, guerrieri, artigiani. I loro volti pallidi li sbirciavano con espressione accusatoria e il rumore non accennava a diminuire. Alzarono le braccia tutti insieme, indicando la direzione contraria a quella in cui viaggiavano i veicoli. «Vogliono che ce ne andiamo», sussurrò Goïmgar. «Torniamo indietro, per carità. Giuro che attraverserò a piedi tutta la Terra Nascosta e combatterò contro i mezz'orchi.» Spettri! Tungdil sentì un brivido gelido corrergli lungo la schiena quando vide gli sguardi vacui di quelle creature. Il bagliore rossastro della lava faceva assumere ai loro visi smunti una sfumatura color sangue. Il nano aveva letto dell'esistenza degli spiriti nei libri di Lot-Ionan, e ora li vedeva con i suoi occhi. Ma non riuscirete a fermarmi... La visione si dissolse all'improvviso e il gruppo imboccò il tunnel successivo, lasciandosi dietro la grotta con il lago e i fantasmi. Finalmente si placò anche l'angoscioso martellio.
Terra Nascosta, regno del Secondo, Beroïn, 6234° ciclo solare, inverno I più foschi timori di Balendilín furono confermati. Quando l'imperatore e i suoi guerrieri raggiunsero il baluardo accanto alla Porta Alta, trovarono i primi soldati morti a terra, il sangue che scorreva sul pavimento grigio. Non avevano neppure avuto il tempo di estrarre le armi e di opporre resistenza, il che faceva supporre che fossero stati uccisi da un amico. Un amico che Nôd'onn ha stregato e trasformato in traditore. Maledetta magia! Fiutarono il tanfo dei mezz'orchi e udirono lo strepito delle ruote dentate e il fracasso delle lastre di pietra che si univano pian piano. Il traditore era stato più svelto di loro. «Correte!» gridò Balendilín. Non dovette aggiungere altro, perché ciascuno dei suoi accompagnatori sapeva a che cosa si riferiva. Si precipitarono su per le scale della fortezza, verso la sala in cui si metteva in funzione il meccanismo del ponte. Nelle loro orecchie riecheggiavano le urla impazienti dei mostri che, dall'altra parte del fossato, osservavano la formazione della passerella. A un tratto si ritrovarono dinanzi cento mezz'orchi, bestie forti, nerborute e armate fino ai denti, con cui dovettero ingaggiare una violenta battaglia per avanzare fino alla meta decisiva. I due schieramenti lottarono con immensa determinazione, perché ciascuno desiderava più che mai la morte dell'altro. Schizzò sangue rosso e verde, zanne e membra volarono nell'aria, e lo strepito assordante del combattimento si mescolò alle grida delle orde in attesa al di là della gola, la cui cupidigia continuava ad aumentare. Il braccio di Balendilín diveniva via via più pesante, perché i continui fendenti lo stavano indebolendo, ma la sua caparbietà trionfò sul suo corpo esausto. «Uccideteli!» urlò. «Dobbiamo smantellare il ponte, altrimenti tutto sarà perduto!» «È già tutto perduto, Balendilín», replicò Bislipur per nulla dispiaciuto. «I clan dei Secondi cadranno insieme con i migliori difensori dei Quarti. Un gioco da ragazzi, ora che i mezz'orchi hanno scoperto l'esistenza dei tunnel.» «Sei stato tu?» Il sovrano vibrò l'ascia contro il muso ripugnante di un aggressore: alcune ossa si spezzarono, la faccia della bestia si tramutò in una massa sanguinolenta, e il mezz'orco si accasciò. L'ingresso era libero e
i nani si lanciarono nel locale, dove li aspettava un'ultima decina di mostri, intenti a difendere il meccanismo con accanimento. Balendilín restò indietro, ansando. «Perché?» «Avevo ben altri progetti, ma la tua farsa riguardo al falso pretendente ha mandato a monte i miei piani. Tu e l'imperatore mi avete costretto a improvvisare. Ma funzionerà comunque. Ciò che sarebbe riuscito agli albi nella guerra contro di voi, lo stanno facendo ora i mezz'orchi. Forse è persino meglio così.» Balendilín cercò di individuare la posizione di Bislipur, ma l'eco era ingannevole. «Ti ammazzerò con le mie stesse mani per questo tradimento!» giurò, colmo d'odio. Per tutta risposta ricevette una risata malevola. «Ho sentito queste parole già tante volte, ma nessuno è riuscito ad attuare la sua minaccia. Non ci riuscirai nemmeno tu, Balendilín: presto sarai un monarca senza regno e senza popolo.» Senza occuparsi oltre del traditore, Balendilín si precipitò nell'altra sala per aiutare i soldati superstiti. Finalmente osò sbirciare fuori della feritoia. Il ponte si era già abbassato per due terzi, e le prime bestie scalpitanti tentavano di balzarci sopra. Alcune caddero nel burrone, altre riuscirono ad aggrapparsi al bordo, ma finirono per scivolare anch'esse nella voragine. No, non devono farcela! Balendilín si avventò con un urlo contro l'ultimo mezz'orco, conficcandogli l'ascia nel fianco con tutta la sua forza. La lama sfondò l'armatura ingrassata, e il sangue verde scuro ne zampillò, disegnando ampi cerchi. L'imperatore estrasse l'arma dalla ferita e, dopo aver parato il fendente dell'avversario, lo colpì ancora nel medesimo punto. L'altro traballò sotto l'impeto del terzo colpo e morì. Solo allora Balendilín vide le leve piegate e le manopole divelte che, in condizioni normali, servivano a manovrare il ponte. «Si è abbassato», gli riferì un nano. «Le bestie invadono il Paese, sire.» Paralizzato, Balendilín fissò le apparecchiature distrutte che avrebbero deciso il destino della sua stirpe e della Terra Nascosta. A nulla servirono tutti i suoi tentativi di azionare il meccanismo: la leva principale non si mosse. «Vraccas, non puoi permetterlo!» esclamò Balendilín in preda alla disperazione, premendo la leva con tutta la sua energia. Finalmente la spezzò e, conficcata l'ascia nella fessura con un gesto rabbioso, se ne servì. Quindi guardò fuori.
Ce l'aveva fatta! I pilastri di sostegno si spostarono e la parte centrale della costruzione cedette. Il cigolio e lo scricchiolio delle lastre di pietra che si staccavano giunsero fino a loro, mescolandosi alle grida spaventate delle creature che, sulla passerella, intuirono che sarebbero ruzzolate nell'abisso. Poi la struttura si spalancò definitivamente, trascinando i mostri verso la morte. Erano rimaste indietro centinaia di mezz'orchi che, assiepati davanti al fossato della Porta Alta, emisero alte grida di delusione. «Sei ferito, sire», osservò un guerriero, e Balendilín si accorse del sangue che gli colava dal fianco sinistro. Nella cotta di maglia si apriva un largo squarcio, dovuto alla stoccata di un avversario. «Non è niente», ringhiò, recuperando l'ascia. «Sterminiamo le bestie che hanno attraversato il ponte e torniamo dagli altri», ordinò. «Poi daremo la caccia a quel traditore di Bislipur.» Rientrando, constatarono che i Monti Blu non offrivano più un riparo sicuro. In ogni corridoio, in ogni galleria, in ogni sala si imbatterono in gruppi più o meno numerosi di bogglin e mezz'orchi che ingaggiavano scaramucce con i nani. Per quanto tempo riusciremo ancora a resistere? si domandò Balendilín. Vraccas, aiutaci! Approssimandosi all'atrio dei tunnel, udì i gemiti e i versi animaleschi dei mezz'orchi abbattuti. «Maledizione! Avevo detto di fare attenzione, non di assalirli. Sono troppi per uno scontro diretto.» Affrettandosi con i suoi uomini per dare manforte alle guardie rimaste indietro, scoprì qualcosa di assolutamente inspiegabile. Una truppa di nani si faceva largo dall'altro lato tra le file dei mezz'orchi, colti di sorpresa dai nemici inattesi. I suoi soldati erano passati all'offensiva per chiudere i mostri tra due fronti. Dopo aver ordinato ai suoi accompagnatori di attaccare, Balendilín si gettò nella mischia. Ben presto i due gruppi di nani si incontrarono al centro e gli ultimi aggressori vennero trucidati dalle asce scintillanti. «Mi piace arrivare puntuale alle battaglie», lo salutò un nano con una cotta di eccellente fattura. La voce era un poco stridula, la barba molto fine e, in due punti del busto, l'armatura presentava rigonfiamenti insoliti. Lo sconosciuto stringeva nella destra una clava dorata, imbrattata del sangue dei mostri. «Sono Xamtys II Frontealta del clan dei Frontealta, regina dei Primi
della stirpe di Borengar.» Capovolse un cadavere con lo stivale. «Volevo partecipare a una riunione del consiglio, e che cosa vedo? Mezz'orchi. Sono stati invitati anche loro per alleggerire la tensione tra una disputa e l'altra?» Balendilín non tardò a riprendersi dallo stupore. «Sono lieto che i Primi si siano ricordati della solidarietà tra le nostre stirpi in questo momento delicato e che ci abbiano offerto un sostegno assolutamente indispensabile. Io sono Balendilín Solbraccio del clan dei Fortidita, re dei Secondi. Chi è giunto da voi? Tungdil o Gandogar?» Pregò tra sé che la sua interlocutrice facesse il nome di Tungdil. «Ho parlato con Tungdil e lui mi ha persuasa a rompere il silenzio.» Gli tese la mano e Balendilín gliela strinse. «Che cosa è successo qui?» Le riassunse gli avvenimenti di Orcomorto e il tradimento perpetrato da un nano ai danni della sua gente. Nel frattempo ricevettero la notizia che gli assedianti esterni stavano per prendere la grande porta. «Dovete lasciare i monti», suggerì Xamtys. «Se siete stati traditi, conoscono qualunque minuscolo corridoio in cui possiate opporre resistenza.» Gli posò la mano sulla spalla. «Venite con noi. Vi ospiteremo finché avremo sconfitto Nôd'onn e scacciato i mostri dalla vostra patria.» «No», rifiutò Balendilín senza esitare. «Re Balendilín, questo non è il momento di essere testardi. Tu e la tua stirpe verrete decimati dalle orde, e poi? Io e i Primi dovremo faticare il doppio per salvare la Terra Nascosta», replicò la sovrana con gentilezza. «Imbocchiamo i cunicoli e rientriamo nei nostri domini. I messaggeri informeranno Tungdil e Gandogar della nuova situazione.» Notò con sollievo che, in cuor suo, l'altro aveva già accettato la proposta. «Che portino qui le donne e i bambini e ne stipino il maggior numero possibile nei carrelli», ordinò Balendilín. «Quelli che non possiamo più raggiungere dovranno tenere duro finché torneremo a liberarli. Le miniere sono abbastanza ampie da offrire un nascondiglio a tutti. Che smantellino anche i ponti più importanti. I mezz'orchi non li scoveranno tanto in fretta.» Considerava la ritirata un'amara sconfitta, ma non vedeva altre soluzioni per sfuggire alla rovina imminente. Senza Bislipur non saremmo mai arrivati a questo punto, pensò, pieno d'astio. Organizzò la fuga senza esitazione, scegliendo i volontari che si sarebbero recati nelle regioni più sperdute del regno per avvertire le famiglie dei clan e prepararle al peggio. «Dite loro che dovranno resistere
solo per un breve periodo», raccomandò. «Torneremo tra qualche settimana e ammazzeremo i mezz'orchi. È una promessa.» Andò quindi nella sala del consiglio per prendere il martello cerimoniale e salvarlo da eventuali profanazioni. I nemici non avrebbero mai trovato il tesoro della sua stirpe, perché soltanto lui e Gundrabur conoscevano le rune che vi davano accesso. Afferrando il martello decorato accanto al trono solitario, udì i rimbombi degli arieti con cui gli assedianti cercavano di sfondare la grande porta. Quel fragore gli raggelò il sangue nelle vene, annunciando la tragedia che incombeva sul regno dei Secondi, come se fosse il fato stesso a bussare al portone con vigore. Contemplò con malinconia il trono, le tribune di pietra, le stele con le leggi della sua stirpe, le colonne del salone e le scene abilmente scolpite sulle pareti, che i raggi dorati del sole, filtrando dai fori, ammantavano di una luce incantevole. Chissà se ci saranno ancora al mio ritorno... «Il monarca non vorrà mica andarsene?» «Bislipur!» Voltatosi, Balendilín guardò le tavole. Il traditore si era nascosto dietro una lastra, i fermagli della barba che si urtavano tintinnando piano. «Aspettavo di incontrarti da solo, senza i tuoi zelanti servi. Hai mandato all'aria i miei piani sul ponte. Peccato che tu sia riuscito a rovinarli.» Estratta l'ascia, colpì la stele che si crepò, spaccandosi in grossi frammenti. «Ma sono un nano paziente. Cadrete contro i mezz'orchi come le leggi dei Secondi si sono sbriciolate sotto la mia lama.» L'imperatore scese i gradini. «Ciò che distruggi sono soltanto lastre di pietra con alcune parole scritte sopra. Possiamo inciderle di nuovo. Fallirai! I nani hanno trovato una nuova solidarietà. I clan dei Primi sono arrivati e hanno annientato gran parte dei tuoi alleati. Lo sapevi?» «Non sono miei alleati, ma ciechi esecutori di ordini, strumenti della mia vendetta», replicò Bislipur, pacato, finendo di fracassare la tavola. «Festeggiate pure il vostro piccolo successo! Ma non resisterete a lungo a Nôd'onn. È troppo potente e troppo folle.» Si stava già accanendo contro la seconda tavola; il lucido granito cadde sul pavimento e si ruppe. «Basta così!» Balendilín, ai piedi della scala che conduceva al trono, si avvicinò al traditore. Mentre avanzava, depose il martello cerimoniale ed estrasse l'ascia dalla cintola, pur sapendo che lo zoppo gli era superiore in termini di forza; in compenso, lasciava a desiderare in quanto a destrezza. «Dimmi perché l'hai fatto!»
«Questo sì che è un combattimento», rise Bislipur. «Due storpi che si sfidano.» «Questa volta, tuttavia, non a parole», aggiunse il monarca con collera. Bislipur sorrise. «I clan dei Secondi dovranno scegliere ancora un altro re.» Attaccò senza preavviso, ma l'imperatore piegandosi schivò l'ascia del rivale e sfruttò lo slancio per colpire a sua volta. Imprecando, Bislipur spiccò un balzo all'indietro, ma l'estremità acuminata del manico lo colpì nella gamba scoperta. Il cuoio e il tessuto si lacerarono e il sangue sgorgò dalla ferita. «Perché ci hai traditi?» chiese ancora Balendilín. «Perché il tuo pupillo non è diventato imperatore e non abbiamo dichiarato guerra agli elfi, è questo il motivo? Ti stava così a cuore?» Bislipur spiccò un balzo aggredendolo con una serie di stoccate, ma Balendilín intuì le finte, indietreggiò e aspettò con attenzione il vero fendente. Avevano attraversato l'ampia sala e lottavano lungo un corridoio che conduceva su un ponte sotto cui si spalancava un abisso profondo venti passi. «Mi è indifferente chi salirà al trono», rispose Bislipur. «Volevo soltanto la guerra. Gli elfi vi avrebbero sbaragliati.» Il suo fendente fu così violento che l'altro non riuscì a pararlo. Balendilín deviò la lama, ma per poco non perse la sua arma. «Continuo a non capire, Bislipur. Nôd'onn ti ha stregato? Altrimenti, per quale ragione ti schieri contro la tua stirpe?» «La mia stirpe? No, i Quarti non sono certo la mia stirpe. Ci eri andato così vicino che ho temuto di essere stato smascherato.» La sua ascia fendette ancora l'aria con un sibilo. Balendilín la bloccò con un contraccolpo, ma l'impatto e le vibrazioni gli fecero perdere forza. «L'hai detto tu stesso, Solbraccio. Sono troppo robusto e troppo abile nei combattimenti per essere un rappresentante dei gracili Quarti.» Quando Bislipur attaccò di nuovo, le dita del monarca si aprirono e l'ascia tintinnò sul ponte. «Appartengo alla schiatta di Lorimbur, e la storia mi ricorderà come colui che annunciò il tramonto delle altre stirpi», borbottò Bislipur in tono lugubre. «Ho portato a termine un'impresa che in passato nessuno è riuscito a compiere.» Balendilín si avventò contro il suo braccio destro e parò il fendente successivo, ma il traditore lo colpì al volto con una testata. L'imperatore arretrò, una foschia rossastra e centinaia di stelle gli danzarono davanti agli occhi, la risata trionfante del suo avversario nelle orecchie.
«Peccato che Tungdil sia un Terzo, altrimenti potrebbe candidarsi alla tua successione una volta rientrato. Oh, piangerà quando vedrà le macerie di Orcomorto. Magari mi nasconderò nei paraggi per ammazzare lui e gli altri in un'imboscata. Sarebbe divertente.» «Tungdil, un membro della stirpe di Lorimbur? Impossibile!» Balendilín si reggeva a stento sulle gambe. «Riconosco uno dei nostri quando lo vedo. Abbiamo un sesto senso per queste cose. E credimi, il tuo candidato favorito è un discendente della mia stirpe, un assassino di nani. È vero come è vero che ti ucciderò e starò a guardare mentre i mezz'orchi divoreranno le tue viscere calde.» «Stai mentendo!» Il re si appoggiò al parapetto, le gambe gli cedettero. Bislipur lo colpì con un sorriso maligno. «Può darsi. Ma ormai non devi più preoccupartene.» Balendilín percepì soltanto l'ombra guizzante dell'ascia che si abbatteva su di lui.
Terra Nascosta, regno di Tabaîn. 6234° ciclo solare, inverno Il fragore dello scontro con una massa rocciosa si fece sentire appena in tempo perché Tungdil potesse azionare il freno. L'impatto del vagoncino contro il mucchio di pietre fu tuttavia abbastanza violento da sbatacchiarli l'uno contro l'altro e da sollevare il veicolo dai binari. «I fantasmi si sono sbagliati di poco», affermò Bavragor, ripulendosi la faccia dalla polvere. Diede quindi una mano a Balyndis, che gli permise di aiutarla. «Per miracolo non siamo rimasti sepolti sotto i calcinacci.» Afferrò la borraccia e bevve un sorso di acquavite. «Oh, è soltanto un piccolo crollo», intervenne Rodario, saltando fuori del carrello. «Il buon Djerůn sgobberà per qualche ora, dopodiché potremo rimetterci in viaggio. Oppure la venerabile maga ha ancora un poco di vento in tasca per sgomberare il cunicolo?» Il suo tono era diventato molto più impertinente. Il rimprovero con cui la donna l'aveva umiliato davanti a tutti l'aveva offeso, e non intendeva farne mistero. Goïmgar, sbiancato per la paura, rimase dov'era, preferendo fissare il soffitto con diffidenza. Andôkai si avvicinò alle macerie e ordinò al suo accompagnatore di toglierle di mezzo, ma ben presto fu evidente che i detriti lungo il percorso erano troppi. «Immagino che sia franato l'intero tunnel», disse Bavragor, arrampicandosi sul cumulo di sassi ed esaminando le pareti. «Sembra che qualcuno l'abbia fatto apposta.» Furgas, che si affrettò a raggiungerlo, tastò e osservò la roccia da vicino, quindi gli rivolse un cenno di assenso. «Lo penso anch'io. Qualcuno ha praticato dei fori con un piccone in modo che bastasse togliere le travi di sostegno per far crollare tutto.» «Gli spettri hanno spezzato il legno», bisbigliò Goïmgar con voce tremante. «Volevano sterminarci perché abbiamo ignorato il loro avvertimento.» «Non avrei mai pensato di arrivare a dire una cosa simile, ma preferisco mille volte il canto dell'ubriacone ai tuoi continui piagnucolii», lo apostrofò il Rabbioso con durezza. Il suo sangue caldo, che da tempo non aveva occasione di sfogarsi a piacimento, cominciava a rifarsi sentire. «Boïndil, frena la tua ira», lo supplicò Tungdil. «So che ti risulta sempre più difficile, ma devi tenerla a bada.» Prese il suo zaino per cercare la mappa che gli aveva dato Xamtys e la studiò. «Torniamo indietro. A un
miglio da qui c'è un'uscita.» Guardò Goïmgar. «Pare che gli spiriti abbiano esaudito il tuo desiderio e ti abbiano offerto l'opportunità di fare una passeggiata in superficie.» «Dove siamo?» domandò Andôkai. «Secondo i miei calcoli, ci troviamo nella parte sudorientale del regno di Tabaîn», rispose Tungdil. «Il tragitto fino alla prossima entrata non dovrebbe essere difficoltoso. Questa regione si chiama anche Terra Piatta perché si stende come una pianura ininterrotta.» «Magnifico», borbottò Bavragor con scarso entusiasmo. «Appena il frignone esprime un desiderio, questo si avvera. Non sono fatto per camminare in superficie e non amo particolarmente il sole. Per me la cavalcata è stata più che sufficiente.» «Ci si fa l'abitudine», lo rimbeccò Boïndil. «Se avessi montato la guardia più spesso davanti alla Porta Alta, sapresti che il suo calore sulla pelle può anche essere piacevole.» «Era troppo pericoloso starti vicino», ribatté l'altro, caustico. «Non volevo fare la fine di mia sorella.» Balyndis rizzò gli orecchi. La tensione nata all'improvviso tra i due la indusse a piazzarsi davanti a Bavragor per evitare uno scontro fisico, ma lo scalpellino le afferrò un braccio e la spinse da parte. «Stai attenta. Non voltargli mai le spalle quando è in preda all'odio e alla collera», la avvisò. «Non sta tanto a riflettere: uccide e basta.» I muscoli del Rabbioso si tesero, e le sue mani si posarono sulle impugnature delle scuri. «Ah, è così, Guercio?!» sbraitò, chinando il capo con fare agguerrito. «Basta! Chiudete il becco tutti e due», li interruppe Tungdil. «Per sfogare le vostre energie, trasporterete i lingotti di metallo finché non ce la farete più e Djerůn dovrà darvi il cambio.» Obbedirono controvoglia. «La vittoria della ragionevolezza è ostacolata dal dolore nell'uno e dalla rabbia nell'altro», spiegò Tungdil a Balyndis dopo essersi messo al suo fianco. Le riassunse i motivi dell'inimicizia che covava tra i due nani. «È molto triste», commentò la guerriera, e il suo viso rotondo espresse compassione. «Triste per entrambi.» «Anche se non me lo auguro proprio, la cosa migliore sarebbe che incappassimo in qualche avversario su cui Boïndil potesse sfogarsi», le sussurrò, percependo il suo profumo celestiale di olio fresco e acciaio pulito. «Vieni?» gridò Goïmgar, uscendo dal vagoncino e seguendo gli altri. «I
capi devono camminare sempre in testa, o sbaglio?» «No, non sbagli.» Tungdil lo oltrepassò per raggiungere Boïndil e Bavragor, che trascinavano il loro carico in silenzio. Nessuno dei due voleva mostrarsi più debole dell'altro e cedere il suo carico a Djerůn. A un tratto udirono un gran fracasso davanti a sé. Un carrello senza conducente sfrecciò lungo il tracciato, e riuscirono a schivarlo per un pelo. Djerůn spiccò un balzo di lato, estraendo l'ascia e prendendo lo slancio per colpire, al che il veicolo deragliò e cozzò contro la parete di roccia. Il guerriero si precipitò subito in quella direzione, sollevò il vagoncino e vi guardò dentro per acciuffare eventuali passeggeri. Era vuoto. «Forse era in un corridoio laterale e si è sganciato», ipotizzò Rodario. «Per fortuna ho i riflessi di un gatto, altrimenti mi avrebbe spiaccicato sulle rotaie.» Furgas gli lanciò un'occhiata eloquente. «Sono stati i fantasmi», insistette Goïmgar a bassa voce. «Volevano ucciderci.» «Come no!» Boïndil posò i lingotti, si avvicinò e annusò l'aria. «Di sicuro qui dentro non c'erano dei mezz'orchi. Vedrei e fiuterei il grasso delle loro armature.» Strisciò qua e là all'interno del veicolo e non si diede pace finché non ebbe trovato qualcosa. «La fibbia di una scarpa», annunciò, sollevandola. «Argento laminato da quattro soldi. Non è vecchia, ma sembra molto consumata. Graffi, sporcizia.» Se la infilò in tasca. L'ho già vista da qualche parte... «In questo modo non risolveremo il mistero», decise Tungdil. «Proseguiamo.» Il Rabbioso si piegò subito sotto il suo fardello e il gruppo si mise in marcia.
Terra Nascosta, regno del Secondo, Tabaïn, 6234° ciclo solare, inverno Balendilín si lasciò cadere all'ultimo momento. La lama gli sibilò accanto e urtò il parapetto di pietra con un tintinnio. Dopo avere sferrato un calcio nei genitali a Bislipur, l'imperatore sfoderò lo stiletto e glielo conficcò nella punta dello stivale. Il gemito del traditore si tramutò subito in un urlo assordante. Il velo davanti agli occhi di Balendilín si dissipò e il sovrano vide di nuovo Bislipur con chiarezza, appena in tempo per schivare uno dei suoi colpi furiosi. Rotolò verso destra e l'ascia si abbatté sul pavimento senza neppure sfiorarlo. Questa volta Bislipur, che aveva previsto la mossa del re, gli si avventò contro brandendo l'arma come una clava dal basso verso l'alto. La lama attraversò le maglie della cotta e gli si conficcò dolorosamente nel fianco ferito; la punta rimase impigliata tra gli anelli. «Ti ho preso! Vola, Solbraccio», rise Bislipur, afferrando l'impugnatura con entrambe le mani, trascinandosi dietro il nemico e scagliandolo con forza contro la balaustra. Balendilín scivolò sulle pietre e a un tratto vide la voragine sotto di sé. «Oh, avevo dimenticato che ti risulta difficile agitare le braccia.» «Mostrami se un Terzo sa volare bene quanto un Secondo», gridò il monarca, prendendo lo slancio per colpire l'altro con il pugnale e piantandoglielo nell'avambraccio. Quindi precipitò oltre il bordo. Aggrappandosi al manico del coltello, si tirò dietro un Bislipur urlante. Per il tuo tradimento, morirai con me. Con sua grande sorpresa, il volo terminò dopo due passi su una superficie solida. Lo stiletto fuoriuscì dal braccio del suo avversario. Balendilín era finito sui resti di un arco di pietra che un tempo si trovava sotto il ponte a scopo ornamentale e in seguito era stato demolito a causa della sua instabilità. Bislipur gli passò accanto, abbandonando istintivamente l'impugnatura dell'ascia per aggrapparsi al bordo anteriore dell'arco, mossa che gli riuscì. Poteva tuttavia usare solo la destra, perché il pugnale gli aveva squarciato l'altro braccio dal gomito al polso. «Non è ancora finita», ansimò per il dolore e lo sforzo, issandosi con una mano. Nei suoi occhi ardeva l'odio. «Mi bastano cinque dita per strangolarti, Balendilín.» Strisciò piano lungo lo spuntone.
L'imperatore si strappò l'ascia dalla cotta con un grido acuto. «E invece è finita», urlò, sfondandogli l'elmo con la lama e affondandogliela nel cranio. Le ossa scricchiolarono e stridettero, quindi il sangue cominciò a colare sulla fronte di Bislipur. «Ho promesso che ti avrei ammazzato, e mantengo sempre le promesse.» Dopo aver mollato il manico, sferrò un calcio in faccia al suo nemico, rispedendolo oltre il bordo. Il corpo precipitò nel vuoto, sfracellandosi tra le rocce con un tonfo sordo dopo una caduta di oltre venti passi. Vraccas, brucia la sua anima nella tua fucina! Balendilín chiuse gli occhi e si appoggiò all'arco, perdendo i sensi per il dolore. Proprio quando, in stato di semincoscienza, rischiava di scivolare da quel precario appoggio, lo trovarono e lo portarono nei tunnel. Il suo vagoncino fu l'ultimo a partire.
Terra Nascosta, regno di Tabaîn, 6234° ciclo solare, inverno Il sole tramontava all'orizzonte, facendo brillare ancora per un po' la neve prima che calasse il crepuscolo. Migliaia di minuscoli diamanti scintillavano sulla distesa immacolata. Al centro della pianura incontaminata, un masso isolato si mosse. Si spostò di lato sollevando una nuvola di neve, e una figura femminile spuntò dalla buca lì sotto. Le sue orme guastarono il candore. «Per Samusin!» esclamò Andôkai, raddrizzandosi e scrutando il pianoro uniforme. Colonne di fumo salivano verso il cielo in corrispondenza di ogni puntino che segnalava un centro abitato in lontananza. La donna si inginocchiò per essere meno visibile, stringendosi nel mantello per proteggersi dal gelo. «I mezz'orchi sono già qui. Devono essere arrivati dal Nord.» L'aria pura e pungente le entrò nei polmoni, facendola tossire. Qua e là distingueva macchie scure che avanzavano adagio, spostandosi verso una città, una fattoria o un villaggio ancora intatti. Chiuse gli occhi, concentrandosi. Avvertì subito le avvisaglie di un debole campo di energia nel terreno, che però era diventato nel frattempo proprietà del male sotto l'influsso di Nôd'onn. «Ci troviamo sui resti del regno incantato di Turguria», annunciò. «Un tempo la terra sotto i nostri piedi era ricca di magia. Ora però riesco a malapena a percepirla.» Colse tuttavia l'occasione per ricaricare le sue riserve interiori, il viso stravolto dal dolore. Dall'apertura sbucarono l'elmo di un nano e due vigili occhi scuri che sbirciavano qua e là. «Svigniamocela subito», bofonchiò Boïndil, imbronciato, issandosi fuori. Anche gli altri si inerpicarono su per gli ultimi gradini della scala. «Adesso capisco perché mi sono sentito così a disagio per tutto il tempo. Stregoneria, puah. Non è niente, non serve a niente.» Scrollandosi, rimise al suo posto il blocco di pietra che nascondeva l'accesso ai cunicoli. «Andiamo.» «Aspetta.» Tungdil seguì lo sguardo di Andôkai. Rabbrividì; il suo respiro si tramutò in nuvolette bianche e i peli della barba gli si rivestirono di una bruma ghiacciata. «Avete ragione: devono venire dalle regioni della Terra Estinta. Le bande del Toboribor non sarebbero giunte qui così in fretta.» «Tanto peggio per noi», interloquì Goïmgar, brontolando come al solito. «Io...»
«Stai zitto o te la vedrai con me», sbraitò Boïndil, minaccioso. «Stiamo riflettendo.» «Tu? Solo perché...» Il Rabbioso si girò e gli si scagliò contro urlando. Goïmgar si affrettò a levare lo scudo, chiamando aiuto. «No, Boïndil!» Ma il nano non sentì. Lo farà a pezzi! Imitato da Bavragor, Tungdil si gettò senza esitazione su Boïndil e i tre scomparvero in una nube di neve da cui uscirono colpi, gemiti e imprecazioni. Djerůn li divise. Come per miracolo il Rabbioso aveva rinunciato a estrarre le sue armi, che avrebbero senz'altro avuto conseguenze devastanti sugli altri. I lividi sulle loro teste e il sangue sotto i loro nasi dimostravano la forza del guerriero. «Mi dispiace», sbuffò Boïndil. «È il mio sangue caldo», si giustificò, recuperando l'elmo. «Quello mi ha irritato e...» «Basta così.» Tungdil evitò di fargli un predicozzo. La metà destra della sua faccia pulsava e si era fatta bollente. «Presto incapperemo in parecchi mezz'orchi contro cui potrai combattere da solo.» Balyndis si occupò delle ferite, preparando palle di neve con cui rinfrescare i punti colpiti. I viaggiatori si avviarono in silenzio verso nordest. Andôkai si affiancò a Tungdil. «Davanti a noi non si vedono colonne di fumo. Su ordine di Nôd'onn i mezz'orchi hanno senz'altro soffocato le ultime sacche di resistenza nei regni incantati prima di accingersi a conquistare i domini terreni.» Indicò verso est. «Laggiù, nel territorio del Tabaîn, sorge una città fortificata. Dovremmo pernottare lì. La temperatura scenderà bruscamente e non siamo attrezzati per dormire all'aperto. Ci saranno riconoscenti per l'aiuto che potremo dare nella difesa della loro città.» Tungdil acconsentì, e fu così che, molto tempo dopo il calare delle tenebre, entrarono nella città di Grüschacker.
Terra Nascosta, regno del Secondo, Beroïn, 6234° ciclo solare, inverno Lungo il tragitto i nani incontrarono una nuova difficoltà: le truppe di Nôd'onn avevano cominciato a occupare i tunnel e a interrompere i collegamenti tra le rotaie. I viaggiatori travolsero il primo sbarramento, ma in corrispondenza del secondo un gruppo di orchi, troll e mezz'orchi li accolse con una sassaiola. Perdettero così quattro vagoncini. Per fortuna riuscirono a deviare su uno scambio, dirigendosi verso nord anziché verso ovest. Alla rampa successiva, Xamtys diede il segnale di fermarsi per potersi consultare con Balendilín. «La strada verso il mio regno è bloccata», disse, digrignando i denti e accostandosi al carrello del re. «È troppo pericoloso continuare a usare i tunnel. Il prossimo tracciato potrebbe essere stato manomesso dai mezz'orchi e condurci diritti in un burrone.» «Bislipur deve avere raccontato loro dei cunicoli già da tempo», affermò Balendilín, mentre i suoi accompagnatori approfittavano della sosta per sostituirgli la benda. È terribile! L'invenzione del nostro popolo, creata per proteggere il Paese, viene ora utilizzata dai mostri di Tion per conquistarlo più in fretta. Rifletté. «Manderemo degli esploratori in superficie.» «Non possiamo andare a piedi, Balendilín.» Xamtys guardò le sue ferite, scrollando il capo. «È inverno, lungo il cammino non troveremo cibo a sufficienza, e men che meno siamo preparati per una marcia tra la neve e il ghiaccio. La metà di noi morirebbe di fame e di freddo.» Si tolse l'elmo, e le due trecce le ricaddero sulle spalle. «Dobbiamo farci venire in mente qualcos'altro. I Monti Rossi...» «No, Xamtys.» Il dolore gli tolse il respiro. La sua manona strinse il bordo del vagoncino finché i servi non ebbero finito. «Non intendo andare ai Monti Rossi.» Dopo aver estratto una carta, Balendilín indicò un punto quasi al centro della Terra Nascosta. «Ci dirigeremo qui, anche se l'idea non mi piace. È un luogo maledetto, con un passato equivoco, ma è l'unico rifugio sicuro.» «Come mai?» La regina si passò una mano sul viso come per scacciare la stanchezza e i pensieri negativi. «Perché non è collegato con i tunnel e con altre gallerie. Dovremo percorrere soltanto poche miglia in superficie, e le donne e i bambini non correranno rischi. Siccome l'area circostante è piatta, sarà facile orientarsi.
Saremo al sicuro e resisteremo finché Tungdil o Gandogar ci troveranno.» Maledisse Bislipur per la ferita, che limitava molto la sua libertà di movimento e lo indeboliva ancora di più. «La Terra Nascosta è grande, e inviare laggiù dei messaggeri è sconsigliabile.» Xamtys studiò la regione verso cui il re dei Secondi aveva puntato l'indice. «Non ne ho mai sentito parlare.» «Non abbiamo bisogno di messaggeri. Dovremo fare in modo che tutti sappiano dove si è ritirato l'esercito dei nani, così i due pretendenti lo apprenderanno strada facendo. Senza dubbio si accorgeranno ben presto che i mezz'orchi hanno invaso i tunnel e faranno delle ricerche.» «Mmmh...» La nana non pareva del tutto convinta. «Ma così attireremo anche le bestie.» «È proprio questa la mia intenzione», annuì Balendilín, guardandola con espressione grave. «Voglio che Nôd'onn in persona guidi il suo esercito fino a noi.» Xamtys lo fissò come se avesse perso il lume della ragione. «Non credo che lo farà. E se lo farà, saremo spacciati, Balendilín. Desideri una sconfitta rapida? Allora che senso ha fuggire? Saremmo potuti rimanere sui Monti Blu.» «No, Xamtys. È lui che deve venire da noi. Se ci crederà in possesso dei libri e degli oggetti che desidera così disperatamente, mobiliterà tutte le orde.» «Il motivo, Balendilín», disse la regina in tono supplichevole, appoggiandosi al vagoncino. «Spiegami il motivo per cui dovrei condurre i miei guerrieri verso una disfatta sicura.» Il nano sostenne il suo sguardo preoccupato. «Nôd'onn deve trovarsi vicino a noi. Solo così Gandogar e Tungdil avranno l'opportunità di usare la Lama di Fuoco contro di lui. Altrimenti resterà rintanato da qualche parte della Terra Nascosta, introvabile e inavvicinabile.» La sovrana comprese il suo piano. «Faremo da esca. Il guaio è che non sappiamo quando arriverà uno dei due candidati.» «O se arriverà», aggiunse Balendilín con franchezza, chiudendo gli occhi per un istante. Gli girava la testa, e l'emorragia lo fiaccava. «Eppure è l'unica possibilità.» «D'accordo.» Xamtys staccò le dita dal carrello. «Ma prima devo avvertire i clan dei Primi.» «È troppo tardi. I mezz'orchi conoscono i tunnel. Ormai saranno senz'altro giunti nel tuo regno. Al loro posto, l'avrei fatto anch'io.» Posò la
mano su quella di Xamtys. «Consideraci pure l'ultimo esercito del nostro popolo, regina. Annientare Nôd'onn diventa ancora più importante.» Traendo un profondo sospiro, Xamtys osservò le sue dita screpolate. «È atroce immaginare che cosa sta accadendo tra i Monti Rossi e non poter fare nulla per cambiare la sorte.» Una lacrima le rotolò tra la peluria morbida. «Vendicheremo i nostri morti mille volte, Balendilín. I campi della Terra Nascosta saranno intrisi del sangue delle bestie, e la mia clava non avrà pace finché non si sarà fracassata contro il cranio di un orco.» Il re sapeva che quell'arma non si sarebbe mai spezzata. Lo sguardo di Xamtys divenne incerto. «Che cosa succederà se Nôd'onn ci sconfiggerà prima che uno dei due pretendenti torni con la Lama di Fuoco?» Balendilín le sorrise, cercando di sembrare più ottimista di quanto fosse in realtà. «Non dovremo farci sconfiggere fino ad allora.» Xamtys alzò il capo, gli occhi che scrutavano i veicoli e i volti impauriti e ostinati. I neonati vagivano, le armi e le cotte tintinnavano piano perché i proprietari vagavano irrequieti qua e là. L'aria della galleria era viziata. «Va bene, Balendilín. Ti seguirò.» Dopo avergli teso la mano, tornò al suo vagoncino. La notizia della nuova destinazione si propagò con la rapidità del fulmine. Fino a quel momento, i nani avevano viaggiato in preda all'inquietudine, ma il luogo in cui Balendilín voleva condurli ora suscitò incredulità in quasi tutti coloro che ne avevano sentito parlare, orrore in alcuni e paura bell'e buona in altri.
Terra Nascosta, regno di Tabaîn, Grüschacker, 6234° ciclo solare, inverno Ancora una volta, le guardie lasciarono passare la comitiva a dir poco singolare senza porre nemmeno una domanda diffidente riguardo alle insolite dimensioni di Djerůn. La città era gigantesca. Tungdil ricordava di aver letto la cifra di settantamila abitanti in uno dei libri di Lot-Ionan, e all'epoca il volume era già antiquato. «Oh, non mi meraviglia che i mezz'orchi tengano giù le zampe da questa metropoli», commentò Boïndil. «Se i cittadini prendessero le armi, i Musi di porco si ritroverebbero davanti trentamila avversari.» «Non passerà molto tempo prima che si riunisca un numero altrettanto alto di mostri o che gli albi tentino l'impresa con l'astuzia», replicò Andôkai. Mifurdania aveva dimostrato che ormai nessuna città era più sicura. «All'occorrenza Nôd'onn può incaricare uno dei suoi apprendisti di abbattere le mura per facilitare i mezz'orchi. Una volta che sono dentro l'abitato, è impossibile fermarli. Combattono con troppo accanimento.» Indicò una locanda in cui brillava ancora una luce. «Entriamo?» «Non potrei mai vivere in una pianura come questa», disse Bavragor a Balyndis. «Non c'è ombra, e l'aspetto peggiore è che vi batte sempre il sole. Farà senz'altro caldo come in un forno.» «Non ho nulla contro il caldo purché provenga dalla mia fucina», affermò la nana, cedendogli il passo. «Già. Nulla è più piacevole che far danzare il martello sul ferro rovente e fargli cantare melodie sempre nuove», confermò Tungdil. «Ho tanta nostalgia della mia forgia.» «Tu? Pensavo che fossi un Quarto», si meravigliò la guerriera. «Voi non siete forse i levigatori di gemme?» «Oh», si intromise Goïmgar, prepotente. «Quelli siamo noi. Lui non è neppure un...» «Sì, sono un Quarto, ma mi sento più portato per altre forme di artigianato», ammise Tungdil. «Non è un Quarto», continuò Goïmgar, sprezzante. «È un trovatello, ed è cresciuto tra i Lunghi finché qualcuno gli ha messo la pulce nell'orecchio, raccontandogli che era uno di noi e che poteva contendere il titolo a Gandogar.» «Aha», fece lei, confusa. «Ed è tra gli uomini che hai scoperto il
mestiere di fabbro?!» «Non riesco a immaginare quasi niente di più bello, anche se il sudore ti irrita gli occhi, le braccia ti diventano pesanti come piombo e le scintille ti bruciacchiano i capelli», confessò Tungdil. Balyndis rise, illuminandosi. «Sì, so a che cosa ti riferisci.» Dopo avere sollevato la cotta sul braccio destro, gli mostrò una bruciatura. «Guarda, me la sono procurata quando ho voluto forgiare una spada. Vraccas non ha gradito che volessi trasformare il ferro in qualcosa di diverso da un'ascia o da una clava e mi ha inviato questo messaggio di fuoco. Da allora non ho più tentato di fabbricare una spada.» Pieno di entusiasmo, Tungdil si sfilò il guanto sinistro e le indicò una linea rosso cupo che gli attraversava il palmo. «Ecco qui, colpa di un ferro di cavallo», spiegò. «Stava per cadere nel fango e l'ho agguantato senza pensarci troppo. Era il migliore che avessi mai creato, e non volevo rovinare il mio lavoro.» Il suo ardore inatteso contagiò la nana. Iniziarono a parlare della loro arte, dimenticando tutto il resto finché Andôkai li interruppe schiarendosi la voce. «Potrete chiacchierare dopo, prima cerchiamo un posto dove dormire», propose. Tungdil si accorse solo allora che si trovavano in un ampio locale gremito di persone intente a fissarli con curiosità. L'enorme Djerůn sembrava una statua fuori posto, più adatta alla piazza del mercato che all'osteria di una locanda. L'oste assegnò loro lo spazioso dormitorio comune, in cui pernottavano di solito i venditori ambulanti. A causa della situazione instabile nella Terra Nascosta, quasi tutti gli scambi commerciali languivano, così i viaggiatori poterono mettersi comodi per pochi spiccioli. Ordinarono la cena in camera perché nessuno di loro aveva molta voglia di dialogare con gli altri clienti. Rendendosi conto di essere stato escluso rapidamente dalla conversazione sull'arte di forgiare i metalli, Bavragor cercò di suscitare l'interesse di Balyndis per la scultura, ma con scarso successo. Quando intonò un canto tradizionale dei Pugnomartello, Tungdil estrasse il pezzo di sigurdazia per esaminarlo meglio. Vedendolo, Balyndis lo interrogò con curiosità. Bavragor chiuse la bocca e borbottò qualcosa di incomprensibile tra sé e sé. «È un metallo?» La nana corrugò la fronte, gli occhi che le brillavano,
affascinati. «Non l'avevo mai visto. Nei Monti Rossi non esiste niente del genere.» Tungdil le descrisse in breve l'utilità del legno e glielo porse. «E poiché non vi sono più alberi, questo è l'ultimo pezzo. Senza di esso non potremmo fabbricare la Lama di Fuoco. Solo Gandogar ne possiede un altro.» Ammirata, Balyndis accarezzò il bastone per prendere dimestichezza con il materiale. Bavragor li fissava con invidia. «Guardate, il Guercio sta per perdere anche l'altro occhio.» Goïmgar esplose in una fragorosa risata. «Non l'hai capito? La stai annoiando. Sei uno scalpellino, non hai niente a che vedere con la fucina», sghignazzò, malevolo. «Non possiedi la dote adatta per conquistarla.» Dopo essersi riempito la pipa, agitò il bocchino verso Tungdil. «È quello che capita con gli impostori. Ottengono spesso ciò che non gli spetta.» Tungdil avvampò, in parte per la vergogna, in parte per la collera. «Ne ho abbastanza della tua lingua velenosa, Goïmgar!» sbottò. «Non ti accorgi che ti procura soltanto insoddisfazione?» «Al contrario, sono contentissimo», lo rimbeccò l'altro. «Dopotutto, anche voi continuate a criticare me.» «Non hai ancora capito che la posta in gioco è la salvezza della Terra Nascosta, non il titolo di imperatore», gli rispiegò Tungdil. Poi decise di cantargliene quattro. «Anzi, non vuoi capirlo! Il tuo ruolo ti piace!» «Le mie convinzioni sono affari miei. Non ho scelto liberamente di accompagnarvi ed è un piacere rammentarvelo in continuazione. È nel mio diritto.» «No, adesso basta, Goïmgar! Se sento ancora una maldicenza uscire dalla tua bocca, un'unica parola, un'osservazione maligna, ti cucio personalmente le labbra con un filo arroventato», minacciò Tungdil. «Ci servono le tue mani e la tua arte, non le tue cattiverie.» Si rivolse a Bavragor e Boïndil con gli occhi che fiammeggiavano. «E voi due lo lascerete in pace. Basta frecciate, basta punzecchiature.» Goïmgar fumava a grandi sbuffi, le nuvole azzurre che salivano verso il soffitto, quindi si alzò e si diresse verso l'uscio. «Non preoccuparti, non scapperò più», dichiarò in tono sdegnoso, notando l'espressione inquieta di Tungdil. «Camminerò su e giù lungo la strada, snocciolando maldicenze, cattiverie e osservazioni maligne, e nessuno di voi me lo impedirà.» Uscì sbattendo la porta. «Qualcuno desidera questo squisito pezzo di salsiccia?» chiese Rodario
con prudenza rompendo il silenzio carico di tensione. «Ho ancora fame, ma volevo essere così cortese da chiedere prima il parere degli...» Poiché nessuno accennava a rispondergli, si interruppe, interpretando l'indifferenza degli altri come un invito a servirsi e a finire gli avanzi. Quindi si lavò con il sapone e l'acqua calda che l'oste aveva portato loro. Boïndil lo fissò sbalordito. Sospirò piano, manifestando con chiarezza la sua opinione in merito. Alzò poi lo sguardo verso Djerůn, che si era seduto sul pavimento, mentre Andôkai scrutava fuori della finestra e chiudeva le tende ruvide. Si era tolta il mantello. «Di' un po', Lungo, anche tu hai voglia di ammazzare una decina di Musi di porco?» domandò Boïndil al guerriero. «Se ne dovessimo incontrare qualcuno tra poco, ricorda che i primi dieci sono miei.» Come sempre, l'altro non replicò. Facendo spallucce, il Rabbioso aprì i vetri e si arrampicò fuori per tenere d'occhio Goïmgar dal tetto. «Cammina davvero su e giù lungo il vicolo», riferì agli altri. «Chiamalo», lo pregò Tungdil, chino sulla mappa. Non si fidava della presunta sicurezza delle mura cittadine. Gli albi ci hanno dimostrato già in un paio di occasioni che simili precauzioni non servono a fermarli. Se avevano inviato i loro esploratori nei paraggi o addirittura in città, probabilmente sapevano già da tempo che un gruppo bizzarro era giunto a Grüschacker. Verranno e non si daranno pace finché avranno portato a termine il loro compito. «Non vuole rientrare», annunciò il gemello attraverso la finestra. «Digli che hai visto un albo, e arriverà in men che non si dica», suggerì Bavragor, impegnato a dividere una fetta di autentico formaggio dei nani con Balyndis. Andôkai percepì l'aroma acre e fece una smorfia di disgusto, ma non fiatò. Dopo qualche istante udirono il levigatore che correva su per la scala. Si precipitò nella camera e chiuse la porta, sprangandola subito con il robusto paletto di quercia. Boïndil abbandonò il suo punto d'osservazione. La sua cotta tintinnò piano quando saltò sul pavimento. «Sei stato fortunato», affermò con estrema serietà, arrotolandosi la lunga treccia a mo' di cuscino. «Era proprio dietro di te.» Goïmgar divenne cinereo.
Terra Nascosta, regno di Tabaîn, Grüschacker, 6234° ciclo solare, inverno Udendo un lieve grattare metallico, Tungdil si destò e aprì gli occhi. Djerůn si era alzato e si era piazzato davanti all'entrata. Nella destra teneva la sua enorme spada con l'estremità puntata orizzontalmente in avanti, la lama rivolta verso la porta. Andôkai era sdraiata sul letto. Anche lei era sveglia e guardò Tungdil per intimargli con un cenno sbrigativo di fingersi ancora addormentato. Un sottile pezzo di legno si infilò in una stretta fessura dell'uscio, quindi si spostò verso l'alto, spingendo adagio il paletto fuori del suo sostegno e rimuovendo il fermo. La porta si aprì a poco a poco. Un baluginio fioco filtrò all'interno, disegnando un'ombra tarchiata sul pavimento. Come Tungdil notò in controluce, la figura, che aveva le dimensioni di un nano, portava l'elmo e aveva una barba molto crespa e cespugliosa. Nella sinistra teneva un piccolo sacco. L'intruso si spaventò alla vista di Djerůn, e la maga impartì un ordine al guerriero. Questi tese la mano libera per acciuffare l'intruso, ma la sua rapidità sovrumana non bastò. Il nano gli sfuggì a testa bassa nella camera invece di scappare nella direzione opposta. «Non così in fretta!» Balzando fuori del letto, Tungdil si parò davanti allo sconosciuto per bloccarlo, ma anche lui ne sottovalutò l'agilità. Con suo grande stupore, si ritrovò in mano solo un ciuffo di peli ispidi. Il nano saltò sul davanzale gettandosi la borsa dietro le spalle prima di fuggire sul tetto. Il sacco colpì Tungdil e il suo contenuto si sparpagliò tintinnando sulle rozze assi del pavimento. Il baccano bastò a svegliare gli altri. Boïndil corse qua e là per la stanza, estraendo le scuri e invitando i mezz'orchi ad accomodarsi. Tutti gli altri afferrarono le armi. Balyndis, in camicia da notte, in piedi sul letto, brandiva l'ascia con entrambe le mani. La luce della luna che penetrava attraverso lo spiraglio delle tende faceva trasparire i contorni del suo corpo sotto la stoffa. Tungdil pensò di distinguere più di quanto lei avrebbe forse voluto, e le rotondità che intravide gli piacquero molto. «Che cosa è stato?» chiese il Rabbioso, agguerrito. «Un visitatore inatteso», rispose la Burrascosa, guardando fuori della finestra per vedere dove si fosse cacciato. «Un nano che, per quanto possa sembrare bizzarro, ha resistito al mio incantesimo. Si è dileguato.»
«Oro», disse Tungdil, sorpreso, vedendo i dischi gialli sul pavimento. Si chinò per raccoglierli. Alcuni erano appiccicosi e gli imbrattarono le dita. «E un pugnale», aggiunse Goïmgar, accovacciato in un angolo. Boïndil raccolse il coltello per esaminarlo. «È stato fabbricato dai nani», affermò, porgendolo a Balyndis. «Che cosa ne dici?» Uno scalpiccio di pesanti stivali che salivano i gradini risuonò nella stanza. Alcune guardie armate fecero irruzione nel locale, le alabarde spianate con aria minacciosa. «Luce!» sbraitò una voce. Qualcuno portò delle lampade e altri soldati si stiparono nella camera. Dobbiamo sbarazzarci di questa roba. Tungdil avrebbe voluto buttare l'oro fuori della finestra e ordinare a Boïndil di far sparire l'arma, ma ormai era troppo tardi per arrischiare quella manovra segreta. Al bagliore delle lampade si accorse che le dita gli si erano tinte di rosso. Le monete e la lama erano imbrattate del sangue di un estraneo. «Per Palandiell, questa sì che è sfacciataggine!» tuonò il capitano della guardia, un tipo nerboruto di una quarantina di cicli con una cicatrice sulla guancia sinistra. «Ecco qui i furfanti sprovveduti che si consultano sfacciatamente su come spartirsi il bottino.» Lo sguardo gli cadde sullo stiletto nella mano del gemello. «Ed ecco qui l'arma!» Fece un cenno ai suoi uomini. «Arrestateli. Tutti. Anche lo spilungone e gli altri. L'interrogatorio appurerà se sono coinvolti in questa faccenda.» «Quale faccenda, tutore della sicurezza cittadina?» domandò Rodario nel suo tono sollecito e cortese, come se lui e il militare stessero chiacchierando del più e del meno. Si sistemò la biancheria intima con movenze che sarebbero state degne di un aristocratico. «Sareste così gentile da fornirci qualche delucidazione?» «Mi riferisco alla rapina e all'uccisione del patrizio Darolano, perpetrate poco fa a soli tre vicoli da qui.» Guardò Boïndil. «Sei stato sfortunato. Ti abbiamo visto e seguito.» Si rivolse a un sottufficiale. «Pare trattarsi di un'intera banda. Forse lo fanno di mestiere.» «È un grosso equivoco», protestò Tungdil, raccontando che cosa era accaduto nella camera prima che arrivassero le guardie. A conferma delle sue parole, tese loro il riccio, che, a un esame più attento, si rivelò essere un pezzo di lana non filata. Il capitano gli rise in faccia. «Come no, Cavernicolo. Pensi che mi beva queste stupidaggini?» «Riconosco che sembra strano...»
«Sembra ridicolo. Tu e i tuoi complici siete in arresto, in nome del re», decise l'altro. «Scopriremo chi di voi è l'omicida. Finora la tortura ha fatto cantare qualsiasi assassino.» «Come ho già accennato, noi non abbiamo nulla a che fare con i nani», insistette Rodario con la sua consueta disinvoltura, strizzando brevemente l'occhio a Tungdil. «Siamo gli accompagnatori della signora, il suo seguito, e abbiamo incontrato i...» «Lo chiariremo nella cittadella», lo interruppe il capitano con asprezza. La sua espressione, burbera fino a un attimo prima, divenne di colpo più cordiale. «D'altro canto... le prove della vostra innocenza sono evidenti.» Prese il finto riccio di barba, si girò e indicò la porta. «In marcia. Siamo stati menati per il naso. Il colpevole dev'essere ancora là fuori.» «Capitano?!» interloquì il sottufficiale senza dissimulare il suo stupore. «Abbiamo visto il nano che entrava nell'osteria...» «Lo cercheremo fuori», ribadì l'altro. «Sbrighiamoci. Altrimenti il vero assassino ci sfuggirà.» Poiché nessuna obiezione riuscì a dissuaderlo, i suoi sottoposti esterrefatti obbedirono e tornarono sulla strada. Di lì a poco il tintinnio delle loro armature si udì dalla finestra aperta. «Ci è mancato poco. Per fortuna è tornato in sé», osservò Rodano con un sospiro di sollievo. «Ci rimettiamo a dormire?» Andôkai raccolse la sua roba. «Dobbiamo tagliare la corda. Il mio incantesimo non durerà in eterno. Tra poco quello rinsavirà.» Boïndil si grattò la barba. «Alludi all'attore?» «No, allude al capitano», si intromise Tungdil, senza riuscire a trattenere un sorriso. Ora sapeva anche perché nessuno faceva caso a Djerůn. A quanto pareva, la maga riusciva a influenzare i pensieri. «L'ha stregato, altrimenti perché si sarebbe comportato così?» Studiò con aria meditabonda un brandello di lana ruvida che gli era rimasto tra le dita. Qualcuno voleva tenderci una trappola che per poco non è scattata. «Una dannata trappola.» «Oh, e l'abbiamo evitata per un soffio! L'omicida si è camuffato da nano», asserì il Rabbioso, preparando i bagagli. «Se mi capita tra le mani, lo faccio a fettine.» «Non poteva essere un bambino, era troppo svelto», intervenne Balyndis, rivestendosi anche lei. «Uno gnomo o un coboldo...» Tungdil si diede una manata sulla fronte. «Swerd! Il tirapiedi di Bislipur! È uno gnomo!» Continuò a parlare affrettandosi con gli altri verso la porta e giù per la scala. «Deve averci seguito per ordine del suo
padrone e ha aspettato il momento giusto per metterci in serie difficoltà.» «Merdosissima canaglia», sbottò Bavragor, legando lo zaino. «Deve avere un fiuto maledettamente buono.» «Sciocchezze, pedinarci è stato facile», lo contraddisse Boïndil, ispezionando l'osteria con lo sguardo. «Non del tutto! Dev'essersi intrufolato in qualche modo nel regno dei Primi e poi è giunto fino ai nostri tunnel», commentò Balyndis, turbata. «Ricordate il vagoncino vuoto con la fibbia della scarpa?» Tungdil si avvicinò alla porta con cautela. «La fibbia mi è parsa subito familiare.» Sbirciò fuori, con Boïndil al suo fianco. «Potete venire. Ci stanno cercando in un altro vicolo», li chiamò. «E non metterti a correre», raccomandò il Rabbioso a Goïmgar. «Chi corre durante la notte ha un'aria sospetta.» Percorsero le vie di Grüschacker come se non avessero nulla di meglio da fare, parlottando e cercando di non dare a eventuali osservatori un'impressione sospetta. Djerůn si tenne nell'ombra per essere il meno appariscente possibile. Poco distante dalla porta venne loro incontro un reparto di guardie impegnate nella loro solita ronda. «Non perdere la calma», sussurrò Boïndil. «Più glielo ripeti e più lo rendi nervoso», sibilò Balyndis, cui non era sfuggito il tremito di Goïmgar. I due gruppi si avvicinarono l'uno all'altro e, quando si incrociarono, una vocetta strillò: «Fermateli! Sono ricercati per omicidio! Fermateli! Guardie, venite! Eccoli là!» «Torcerò a Swerd il suo piccolo collo», abbaiò il Rabbioso, estraendo le scuri per difendersi dai soldati che, confusi, guardavano il loro superiore. In quel momento comparve il capitano del primo drappello, che ordinò di arrestarli tutti. Le candele tremolarono dietro le finestre affacciate sulla via, le persiane si aprirono e la città si svegliò nel cuore della notte. «Non abbiamo tempo di spiegare loro la situazione», decise Andôkai, sfoderando la spada. «Non ci crederebbero e ci lascerebbero marcire in prigione.» «Che cosa facciamo?» chiese Bavragor, stringendo il manico del martello e preparandosi ad aprirsi un varco verso la salvezza. «Mi separo da voi per confonderli. Ci rivediamo dall'altra parte delle mura», si congedò Rodario in tutta fretta, afferrando il prezioso sacco da marinaio con i costumi e gli accessori di scena e imboccando una viuzza
prima che i militari li accerchiassero del tutto. «Tanto vi sono solo d'intralcio.» «Attori...» sospirò Narmora, sorridendo e tirando fuori le armi. «Uccideteli soltanto se non avete altra scelta», raccomandò Tungdil agli altri, levando l'ascia con il lato piatto rivolto all'esterno. «Lasceremo Grüschacker con o senza permesso.» Tungdil si accorse che le guardie non erano molto esperte di combattimenti. Chi inseguiva ladri o rinchiudeva ubriaconi tutti i giorni non aveva la più pallida idea di che cosa significasse affrontare una maga, una mezz'alba, un guerriero gigantesco o dei nani agguerriti. Definire Furgas un combattente sarebbe stato un po' eccessivo, ma si dava un gran daffare, almeno per distrarre gli avversari quanto bastava perché Narmora vibrasse i suoi colpi senza impedimenti. Goïmgar fu incaricato di sorvegliare i lingotti rimasti. Dopo una lotta piuttosto breve giunsero davanti alla porta, dove Rodario era intento a chiacchierare animatamente con un soldato. Quest'ultimo era così assorto nella conversazione che il gruppo riuscì ad avvicinarsi senza che l'uomo desse l'allarme, e quando la maga si materializzò accanto a lui, ormai era troppo tardi. «Ci lascerai uscire e non dirai a nessuno di averci visti», gli ordinò Andôkai con voce cupa, al che il militare si accinse ad aprire loro l'uscita come se fosse sotto l'effetto dell'alcol. «Be', come sono andato? Non l'ho forse irretito con le mie parole al punto di offrirvi l'opportunità di avvicinarvi senza dare nell'occhio? La magia è una cosa assai pratica», osservò Rodario. «Se magari poteste lanciare qualche incantesimo durante la nostra rappresentazione, lo spettacolo sarebbe inimitabile. Sareste interessata a...» «Chiudi il becco», gli suggerì Furgas, scrollando il capo. «Non c'è niente di male a chiedere. Mi preoccupo solo per quello che accadrà dopo la nostra grande avventura.» Bavragor rise. «Sempre ammesso che tu ne esca vivo.» I cigolii prodotti dall'argano destarono altre guardie, contro cui Boïndil si avventò con ardore. Sebbene il gemello colpisse soltanto con le parti smussate delle sue scuri, Tungdil udì più di uno schiocco. Si trattiene a stento. Guardò con inquietudine il viso sanguinolento e stranamente deformato di un militare che si era accasciato con un sussulto dopo un fendente del Rabbioso.
Vi era dunque almeno un morto, e loro erano ricercati per omicidio. Frattanto la recinzione si aprì, ma Swerd li spiava di nascosto, pronto a mettere ancora i soldati alle loro calcagna. «Qui, davanti alla porta! Eccoli! Gli assassini fuggono!» urlò dall'ombra di una viuzza. I suoi strilli svegliarono l'ultima guardia, che chiamò chiunque avesse due gambe e sapesse maneggiare un'arma, cosicché i primi coraggiosi membri della difesa cittadina si riversarono in strada dopo essersi vestiti in tutta fretta. «Maga, vi prego, fate qualcosa!» implorò Tungdil, temendo una carneficina senza pari se la furia di Boïndil si fosse abbattuta sugli abitanti di Grüschacker e sulle loro armi rudimentali. «Sono troppi!» Questa volta la Burrascosa non ricorse a un incantesimo. «Djerůn», disse, aggiungendo alcune sillabe incomprensibili. Il guerriero si fece avanti. Le fiaccole guizzanti degli uomini rischiararono la sua corazza, facendo apparire vivo il ceffo sinistro scolpito sulla visiera. Dall'interno dell'elmo provenne un suono che Tungdil non aveva mai udito prima. Era una via di mezzo tra il soffio di un rettile e il rimbombo sordo e profondo di un terremoto, carico di aggressività e di pericolo, un monito a non avvicinarsi. Il nano sentì i capelli che gli si rizzavano e la paura che si impossessava del suo corpo; senza volerlo, indietreggiò. Lo scintillio viola dietro la fessura della maschera si intensificò, tramutandosi in una luce che eclissava persino quella delle fiaccole. I volti inorriditi degli abitanti furono inondati da un chiarore verdastro che divenne tanto abbagliante da ferire gli occhi. Djerůn ripeté il suo verso, che riecheggiò ancora più forte e spaventoso: non solo i cittadini, ma persino le guardie fuggirono in preda al terrore, correndo a rifugiarsi nelle vie e nei vicoli. L'apertura della recinzione era ormai abbastanza larga. «Andiamo», ordinò Tungdil, ancora turbato dal timbro della voce di Djerůn. Sempre ammesso che sia una voce... Uscirono nella notte, imboccando il sentiero innevato e accertandosi di continuo che nessuno li pedinasse. L'intervento del gigante doveva aver indotto i loro inseguitori a desistere. Tungdil sentì risvegliarsi la curiosità di sapere che cosa si celava dietro l'involucro di ferro e acciaio, sebbene non fosse più tanto sicuro di volerlo scoprire. Se non altro, si può escludere che là dentro si nasconda un uomo.
Percorsero in silenzio la strada imbiancata. A un certo punto Bavragor, che trottava dietro Goïmgar, scrutò la schiena del levigatore di gemme. «Dov'è il sacco con i lingotti?» ansimò, senza ottenere risposta. «Ehi, dico a te!» L'altro allungò il passo per aumentare la distanza prima di rispondere. «Una guardia me l'ha strappato di mano e nel parapiglia non sono più riuscito a recuperarlo. Mi dispiace», confessò in tono lamentoso. «Non l'ho fatto apposta.» «Non l'hai fatto...?! Invece io farò apposta quello che sto per farti», tuonò Bavragor, ma Tungdil lo trattenne con una presa vigorosa. «Lascia perdere.» Lo scalpellino non riusciva a capacitarsi dell'accaduto, l'occhio rossastro che fiammeggiava per la collera. «Ma non possiamo più tornare a prendere i lingotti! Come faremo a...» «Andremo nel regno dei Quinti, lì troveremo qualcosa», lo interruppe Tungdil, la voce ferma e sicura del capo. «Prima di partire hai detto tu stesso di non voler fare affidamento su quella possibilità», gli rammentò Bavragor, ostinato. «E ora...» «... non possiamo farci nulla. Rassegnati», replicò Tungdil. Dopo avergli lasciato il braccio, gli diede un'incoraggiante pacca sulla spalla. «Qualunque cosa ci capiti, non ci perderemo d'animo, perché non possiamo permettercelo. Siamo i salvatori della Terra Nascosta, e chi altri potrebbe portare a termine la nostra missione, Bavragor?» «Quello rende tutto più difficile», bofonchiò l'altro, accennando a Goïmgar. «Senza di lui ci saremmo risparmiati un sacco di arrabbiature.» «Vraccas avrà avuto i suoi motivi per indurmi a sceglierlo. E ora taci e prendi un bel respiro, altrimenti ti verrà una fitta al fianco. Se non altro; Goïmgar corre più veloce di te.» «I codardi corrono sempre veloci», fu l'ultima osservazione di Bavragor prima che riecheggiasse un tintinnio e lo scalpellino si irrigidisse di colpo. Piegò le gambe e si accasciò tra la neve; si levò una nuvola luccicante, i cui cristalli si depositarono sul nano, avvolgendolo in un sottile strato farinoso. Dalla nuca gli spuntava l'asticciola della freccia di una balestra. Tranne Djerůn, tutti si buttarono subito a terra per non essere centrati dai dardi. Andôkai impartì un altro ordine incomprensibile al guerriero, che scrutò la pianura e si mise a correre all'improvviso. Non sono stati gli albi. A differenza di Djerůn, Tungdil non riusciva a distinguere il perfido aggressore. Le guardie, forse? Ma dovremmo
vederne le fiaccole. La maga strisciò nella neve per accostarsi a Bavragor e dare un'occhiata alla ferita. Balyndis la imitò. «La punta ha mancato di poco la spina dorsale», spiegò la Burrascosa dopo un primo esame. «Il mantello e il cuoio rivestito di ferro sulla parte posteriore dell'elmo hanno attutito la violenza della saetta.» Senza indugio afferrò l'asticciola di legno ed estrasse il dardo. Posò quindi la mano sullo squarcio da cui zampillava il sangue. «Credo che mi perdonerà se userò la magia di Samusin per salvargli la vita», affermò, chiudendo gli occhi per concentrarsi meglio. «La guarigione dei nani non è tra le discipline che padroneggio meglio. Spero di riuscirci.» Lo spero anch'io! Qualcosa fischiò accanto alla testa di Tungdil, e un terzo strale rimbalzò contro lo scudo di Goïmgar, poi risuonò un urlo acuto e assordante che si spense di colpo. Djerůn aveva stanato il tiratore. Tornò con il suo piccolo bottino e lo gettò sulla neve. La coltre immacolata si tinse di verde e giallo nel punto in cui atterrò il fagotto. La testa con le lunghe orecchie appuntite ruzzolò lì accanto. Goïmgar inorridì. «Swerd!» Era proprio il galoppino di Bislipur. Rabbrividendo, il levigatore guardò prima il cadavere e poi il punto d'impatto sul suo scudo, dove il segno della freccia era chiaramente visibile. «Perché ha tentato di...» Ammutolì subito. «Ucciderti?» Tungdil terminò la frase al suo posto, osservando gli occhi spenti dello gnomo. Anche lui avrebbe voluto conoscere la risposta a quella domanda, ma la spietatezza con cui il guerriero aveva eliminato la minaccia gliene aveva tolto la possibilità per sempre. «Avrà pensato che stessi viaggiando con il pretendente sbagliato.» Si chinò per impossessarsi del collare, ormai diventato inutile. La schiavitù di Swerd era finita in maniera diversa da come quest'ultimo aveva sognato. Tungdil ripose l'oggetto con aria meditabonda per mostrarlo come prova a Bislipur quando si fossero rivisti. Così facendo, notò una scintillante macchia gialla come il burro sul collo dello gnomo. Oro! Era stato davvero Swerd a fargli lo sgambetto durante la corsa contro Gandogar. «Quello zoppo è uno schifoso», sbottò puntualmente Boïndil, scrollandosi la neve dalla barba e dai pesanti vestiti. «Ci sguinzaglia dietro il suo lacchè per ammazzarci. I nani non uccidono di proposito i loro simili: è il crimine più efferato di cui ci si possa macchiare.» «Non sarebbe stato lui ad ammazzarci», lo contraddisse Tungdil,
continuando a riflettere. «Lo gnomo faceva il lavoro sporco. Bislipur avrebbe sicuramente avuto una scusa pronta anche questa volta.» «Vraccas, ti prego, facci incontrare Gandogar affinché possa suonargliele di santa ragione», supplicò il gemello con fervore. Goïmgar scosse la testa con espressione distratta, cercando di dominarsi. «No, Gandogar non ci avrebbe mai giocato un simile tiro, incaricando Bislipur di farci fuori. Bislipur è così folle che deve aver agito di sua iniziativa. Lui...» Ammutolì, impotente. La sua fiducia aveva subito uno scossone. «Anche tu vuoi che Gandogar salga al trono, vero?» sibilò Boïndil, minaccioso. «Certo, non ne ho fatto mistero sin dall'inizio. Ma uccidere un membro del nostro popolo?» Goïmgar rabbrividì di nuovo. «Bislipur è uscito di senno», ribadì, guardando Bavragor, che giaceva ancora immobile. «La sua mente è accecata dal desiderio di vedere Gandogar imperatore. È l'unica spiegazione possibile.» Balyndis teneva la mano dello scalpellino per fargli capire che qualcuno si prendeva cura di lui. Il foro sulla nuca si rimarginò fino a tramutarsi in una minuscola cicatrice. Sfinita, Andôkai si abbandonò nella neve, rinfrescandosi il viso. «Ho guarito la ferita», disse con un filo di voce. «Dovrebbe svegliarsi da un momento...» «Magia di Samusin», borbottò Bavragor, insonnolito. «Ho cambiato idea. Serve a qualcosa.» Un po' stordito, ma con una espressione assolutamente seria, rivolse un cenno del capo alla maga spossata. Non ebbe bisogno di altre parole per esprimere la sua gratitudine. *
*
*
«Una domanda, comandante della nostra gloriosa truppa.» Allo spuntar del sole, un Rodario tremante si affiancò a Tungdil, trascinandosi dietro come sempre il sacco con i costumi e indicando di nascosto Djerůn. Gli avvenimenti della notte precedente avevano rammentato a lui e a tutti gli altri che, in realtà, il soldato non era solo un uomo più alto del normale. «Che cos'è quello?» Le sue parole erano quasi incomprensibili, perché si era arrotolato più volte la sciarpa intorno alla faccia. «Non ne ho idea», rispose Tungdil con sincerità, senza smettere di camminare. Com'era sua abitudine, Rodario non desistette. «No? Ma ho saputo che viaggi con lui da parecchio tempo.» «La maga ci ha assicurato che non è un mostro.» Suo malgrado, ripensò alla notte nell'oasi, quando aveva creduto di intuire che cosa si celava dietro la visiera a forma di muso, e fu assalito dalla nausea. L'attore si alitò sulle dita bluastre nel tentativo di riscaldarle. «Ebbene? Non è un mostro? Allora che cos'è? Non conosco esseri umani con occhi capaci di illuminare un vicolo buio. Se è un trucco, devo impararlo a tutti i costi per riprodurlo nel nostro teatro.» Tungdil si limitò a tacere, augurandosi che Rodario se ne andasse. Arrancò con energia nella neve, studiando la mappa per orientarsi. «Bene, allora suppongo che sia una creatura di Tion.» Con espressione molto compiaciuta, Rodario tornò a infilarsi le mani nelle tasche del mantello di pelliccia. «Questo dettaglio conferisce all'opera ulteriore drammaticità. Santo cielo, sarà magnifica, ineguagliabile! Tutta la Terra Nascosta verrà a vedere la nostra rappresentazione.» Imprecò ad alta voce. «Se solo non facesse così freddo da gelare l'inchiostro... Dimenticherò tutto prima di tornare a casa.» «Mettiti il calamaio a contatto con il corpo», suggerì il nano. «Così lo terrai al caldo e riuscirai a scrivere.» Rodario gli diede una spinta scherzosa. «Sotto tutti quei capelli si cela una mente brillante, mio piccolo amico. Non che non ci fossi arrivato da solo, ma ti ringrazio di cuore.» Percorrevano un sentiero innevato su cui non appariva neppure un'orma. L'inverno e i mezz'orchi avevano costretto gli abitanti del Tabaîn a barricarsi in casa. Su quel territorio piatto, le sentinelle avvistavano gli aggressori da enormi distanze. Quando la visibilità era buona, lo sguardo spaziava per cento miglia dalla cima delle torri di guardia, ma in quel caso il preallarme
non era servito a nulla. Contro i mezz'orchi del Nord erano efficaci soltanto le spade maneggiate con abilità, che ormai scarseggiavano ovunque. Tungdil individuò la loro posizione sulla carta. Erano sempre più vicini al vecchio confine della Terra Estinta. Si sarà senz'altro spinta in avanti. L'inverno ci impedisce di vedere fin dove si estende la sua influenza. «Mezz'orchi», urlò Boïndil da sopra la spalla. «Circa venti miglia a ovest. Fanno dietrofront e ripiegano verso est», annunciò. «Avanzano in fretta. Ma dove sono diretti? Cercano noi?» Bavragor indicò la fattoria che sorgeva sul percorso originario dei mostri. Un altro non l'avrebbe notata, ma il nano aveva la vista acuta. «Di sicuro sarebbe stata il loro prossimo obiettivo. Non l'hanno toccata.» Si asciugò il sudore dalla fronte; aveva le guance molto arrossate. «Stai bene?» gli domandò Balyndis. «Sembra che tu abbia la febbre.» «Cancrena», la corresse il Rabbioso. «Può essere che la stregoneria non abbia funzionato come doveva?» Andôkai ignorò la frecciata. Accostatasi allo scalpellino, lo pregò di chinare il capo perché potesse esaminare la ferita. Boïndil fu subito al suo fianco. Giunsero entrambi alla medesima conclusione. «Si è rimarginata bene», riconobbe il nano. «Nulla da ridire.» «Sarà colpa dell'emorragia», azzardò Bavragor nel tentativo di porre fine alle loro premure indesiderate, ma la nana si sfilò un guanto con risolutezza e gli posò la sinistra sulla fronte. «Per Vraccas! Scotta tanto che ci potrei forgiare un ferro di cavallo!» esclamò, preoccupata. «Vista la sua testa dura, ci riusciresti», scherzò Tungdil. «Il nostro Pugnomartello non si lascia mettere fuori gioco così facilmente.» «Ha la febbre. La febbre alta. Può anche essere una bronchite», insistette Balyndis. «Dobbiamo cercare un riparo e fargliela scendere, altrimenti la sua vita potrebbe essere in pericolo.» «Sciocchezze», si oppose Bavragor. «Sto...» Iniziò a tossire quasi senza sosta. L'attacco lo scosse al punto da costringerlo a piegarsi. Tungdil lo sorresse per impedirgli di cadere nella neve. «Certo, un raffreddore...» Balyndis si guardò intorno. «Dobbiamo trovargli un posto caldo.» Tungdil annuì. «Ci fermeremo alla prossima fattoria. Da morto non ci servi a niente, vecchio scalpellino.» «Un raffreddore», sghignazzò Goïmgar con gioia maligna. «Chi di noi è
il più fiacco ora? Forse non sarò robusto come te, ma sopporto meglio la fatica.» Tutti colsero la sua soddisfazione all'idea di non essere, una volta tanto, inferiore agli altri. Passò accanto al malato a testa alta e con un sorrisetto sulle labbra, un atteggiamento tanto insopportabile che Furgas gli lanciò una palla di neve in faccia. Rimasero delusi. Lungo la strada verso i Monti Grigi non vi erano fattorie né villaggi, e Bavragor si rifiutò di fare una deviazione. Perciò non fecero più soste, ma continuarono a procedere senza fermarsi per raggiungere rapidamente il successivo accesso ai tunnel. Quando finalmente arrivarono a destinazione, li attendeva una brutta sorpresa. Il pozzo si era trasformato in un laghetto ghiacciato. «Non importa, faremo il resto del cammino a piedi», dichiarò Bavragor, che si sforzava di ignorare la debolezza e di apparire vispo nonostante le sue gravi condizioni. Venne tuttavia smentito dalle guance arrossate e dalle gocce di sudore che, nonostante il freddo, gli stillavano dal bordo dell'elmo. «Riesco già a vedere i Monti Grigi.» «Li vediamo da quando siamo nel Tabaîn», ribatté Goïmgar, meno entusiasta di dover proseguire il viaggio in superficie. «Di questo passo, il riflesso della neve ci accecherà tutti quanti.» Si rimise in cammino di malumore e gli altri lo seguirono finché, verso sera, si imbatterono in un fienile abbandonato in cui un contadino conservava la sua paglia. Dopo essersi messi comodi, accesero un fuoco con cautela. Adagiarono Bavragor lì accanto, seppellendolo sotto tre coperte affinché sudasse e smaltisse così la febbre e l'infreddatura. Anche Rodario si accostò alle fiamme. Soltanto Djerůn montò la guardia davanti all'entrata, permettendo agli altri di sedersi intorno al malato e occuparsi di lui. «Non è niente.» Lo scalpellino tossì e sputò un grumo di sangue. Emetteva un fischio a ogni respiro, ansimava, e il suo stato si aggravava a vista d'occhio. Il caldo contribuì solo a peggiorare la situazione. «Datemi un sorso di acquavite, poi starò bene.» «Questo non è un raffreddore», dichiarò Boïndil con sicurezza, alzandosi. «Dev'essere cancrena. Si può diffondere sotto la pelle anche se la piaga è guarita da tempo.» «No, ho fatto in modo che la ferita si rimarginasse bene», protestò Andôkai, irritata. Tungdil fu assalito da un brutto presentimento. Alzatosi a sua volta, si avvicinò a Goïmgar e gli prese lo scudo per esaminare con attenzione il
punto d'impatto del dardo. Tutt'intorno notò chiazze di un liquido trasparente congelato che prima era sfuggito sia a lui sia al levigatore. Quella scoperta non preludeva a nulla di buono. Qualunque sostanza fosse stata spalmata sulla freccia, era rimasta appiccicata al metallo ed era ghiacciata. Vraccas, proteggilo tu! «La vostra magia può fare qualcosa contro il veleno?» chiese ad Andôkai con voce roca. «A mio parere, Swerd non faceva affidamento soltanto sulla propria mira.» «Veleno», tossì Bavragor, sforzandosi di sorridere. Tutti videro il sangue che gli imbrattava i denti colando dalle gengive. «Vedete?! Niente raffreddore. Goïmgar, quanto scommettiamo che tu saresti morto già da un pezzo? La birra e l'acquavite mi hanno irrobustito.» La maga chiuse gli occhi. «No, non posso fare nulla contro il veleno. Non è... il mio campo», rispose piano, in tono di scusa. «Tanto più che la sua guarigione mi ha privata delle ultime forze. Le mie riserve di magia sono quasi esaurite.» Un silenzio lugubre calò sul gruppo. Tutti intuirono le implicazioni di quelle parole per la sorte del nano. Balyndis gli prese la mano callosa e screpolata e gliela strinse con un gesto incoraggiante, ma la preoccupazione le serrava la gola. «Potete tranquillamente dire che il vecchio ubriacone canterino non è al massimo della forma», gracchiò Bavragor dopo qualche istante. «Tanto non avevo in programma di tornare nel regno dei Secondi.» Guardò Tungdil. «Ma volevo arrivare ai Monti Grigi e portare a termine il mio compito per avere una morte gloriosa. E invece mi spengo qui, in un misero fienile, lontanissimo dalle mie amate montagne.» Cominciarono ad affiorargli sulla pelle minuscole gocce di sangue; di lì a poco divennero così numerose da trasformarsi in rivoli che, cadendo, intrisero i fili di paglia. I suoi vestiti ne erano zuppi. «Non morirai», lo tranquillizzò Tungdil, ma il sorriso, che avrebbe dovuto esprimere ottimismo, gli si tramutò in una smorfia. Afferrò l'altra mano dello scalpellino. «Non puoi morire», aggiunse, disperato. «Senza di te non potremo fabbricare la Lama di Fuoco! Sei il migliore della tua stirpe.» Bavragor inghiottì il sangue per riuscire a parlare. «Invece ce la farete. E io sarò con voi.» Guardò la porta. «Portatemi nei domini della Terra Estinta. Solo così potrò esservi utile dopo la morte.» «Diventeresti... un semimorto», osservò Boïndil, inorridito. «La tua
anima...» «Potrò compiere la mia missione, è solo questo che conta», sbraitò Bavragor, pagando tanta foga con un nuovo accesso di tosse. «Ma chi ci garantisce che non ci ingannerai e non tenterai di ammazzarci o divorarci come hanno fatto gli altri?» Guardandosi intorno, il Rabbioso studiò i volti dei suoi compagni, in parte imbarazzati e in parte commossi. «Legatemi bene e aspettate», consigliò loro Bavragor. «La mia caparbietà sarà più forte del desiderio di commettere azioni malvagie. Un nano non si piega mai al male.» Batté le palpebre. «Credo che dobbiate sbrigarvi...» ansimò, rigettando il contenuto sanguinolento dello stomaco che gli colò sulla barba curata. «Djerůn!» gridò Andôkai, impartendogli alcuni ordini. Il guerriero raccolse il moribondo con la delicatezza e la dolcezza di una madre che prende in braccio un bimbo addormentato, quindi lasciò il fienile, e gli altri lo udirono allontanarsi. Le sue lunghe gambe instancabili portarono Bavragor verso nord, dove ormai la Terra Estinta regnava incontrastata e chiunque moriva rinasceva a una vita di sventura. Il resto della comitiva fece i bagagli e seguì il guerriero con la velocità consentita dalla neve fonda e dalle corte gambe dei nani. Alzando gli occhi verso le stelle, Tungdil versò lacrime silenziose per Bavragor, che aveva sacrificato il suo bene più prezioso per la creazione dell'arma capace di liberare la Terra Nascosta. Gli si era affezionato nonostante i suoi strepiti e le sue bizzarrie. Sentendo Balyndis singhiozzare lì accanto, si girò verso di lei. La nana gli sorrise con gli occhi lucidi, tendendogli la mano. Quel gesto gli restituì il coraggio che aveva quasi perduto nel fienile. Erano successe molte cose, anzi troppe. L'avventura iniziale si era tramutata in un'impresa immane per tutti. L'aveva compreso persino Rodario, che prima si dava un sacco di arie e ora si asteneva dalle battute e rimuginava in silenzio sull'accaduto. «Spero che gli abitanti della Terra Nascosta meritino questo sacrificio, Vraccas», mormorò Tungdil, fissando il firmamento scintillante. «Quando sarà tutto finito, farò in modo che le nostre stirpi si riconcilino e non vivano più nell'isolamento delle montagne.» Balyndis gli strinse ancora la mano, ma Tungdil si staccò da lei e si affrettò a raggiungere Boïndil, in testa al gruppo. Non era il momento di pensare all'amore: bisognava fabbricare la Lama di Fuoco.
«Quella ti piace», commentò il gemello, guardando dritto davanti a sé. «Mi mancava solo di discuterne con te.» «Ammettilo. È molto carina, e per uno come te, che ha avuto pochi contatti con le donne, deve assomigliare a una figlia di Vraccas.» «Ci penserò dopo che avremo sconfitto Nôd'onn. La Terra Nascosta ha la precedenza.» «Ah, prima il Sapientone deve pensarci su.» Il Rabbioso continuò a camminare senza guardare l'interlocutore. Pareva che parlasse con la neve e le orme di Djerůn. «Se trovi qualcosa che ti sta a cuore, fai il possibile per conquistarla, perché certe cose cambiano più in fretta di quanto l'ascia faccia a pezzi un mezz'orco, e poi resti a mani vuote.» «Perché mi dici questo?» «Così, tanto per parlare.» Boïndil strizzò gli occhi. «L'uomo di ferro è lì davanti.» Estrasse le scuri. «Vedremo subito se la volontà dell'ubriacone canterino avrà la meglio sul potere della Terra Estinta.» Se così non fosse stato, le armi che stringeva tra le mani sarebbero entrate in azione. La maga gridò qualcosa a Djerůn. Per tutta risposta, il guerriero levò il braccio e le fece segno di avvicinarsi. Bavragor era al suo fianco, le braccia che gli pendevano lungo il corpo, gli occhi inespressivi che fissavano i Monti Grigi. «Bavragor?» lo chiamò Tungdil con cautela, scrutando il viso emaciato nel tentativo di cogliere qualche emozione. I tratti apparivano cerei, invecchiati, senza vita. «Non sento... niente», disse l'altro adagio, come se gli costasse una fatica immensa aprire la bocca e proferir parola. «Non sento le membra, la mia testa