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Italian Pages 752 Year 2011
LETTERATURA CRISTIANA ANTICA collana diretta da Enrico Norelli Nuova serie 24
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LORENZO PERRONE
La preghiera secondo Origene L’impossibilità donata
MORCELLIANA
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© 2011 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 - 25121 Brescia
Prima edizione: maggio 2011
In copertina: Figura di orante, V sec., San Pietro in Gallicantu, Gerusalemme
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ISBN 978-88-372-2494-3 Tipografia La Grafica s.n.c. - Vago di Lavagno (Vr)
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INTRODUZIONE
«La preghiera è uno degli argomenti più difficili sia per il filosofo che per il fedele» (Emmanuel Levinas)*
1. L’«offerta più grande» «Quale offerta più grande di una parola beneodorante di preghiera può innalzare a Dio l’essere razionale, allorché essa è presentata da una coscienza priva del cattivo odore che viene dal peccato?»1. Nel denso –––––––––––––––––– * Difficile liberté. Essais sur le judaïsme. Troisième éd. revue et corrigée, Paris 1983,
p. 345. 1 Orat II, 2 (300, 13-15): poi'on ga;r qew'/ dw'ron ajpo; tou' logikou' mei'zon ajnapevmpesqai duvnatai eujwvdou" lovgou eujch'", prosferomevnh" ajpo; suneidovto" mh; e[conto" dusw'de" ajpo; th'" aJmartiva"… CMtS 18 (33, 24-25) considera la preghiera, insieme a elemosina e digiuno, come una delle possibili «offerte votive» sull’altare del cuore, visto di per sé come l’elemento di maggior valore: «Ideo non potest honorabilius esse votum quam cor hominis, ex quo transmittitur votum». Messa in relazione all’intermediazione degli angeli, l’offerta di una preghiera diviene una liturgia celeste (cfr. Orat XI, 1 [321, 19-20]: ÔRafah;l me;n prosfevronto" peri; Twbh;t kai; SavrjrJa" logikh;n iJerourgivan tw'/ qew'/). Solo in Orat X, 2 (320, 20) l’immagine della preghiera come «offerta» è espressa con il termine prosforav : ajrciereu;" ga;r tw'n prosforw'n hJmw'n (sulla sua valenza eucaristica secondo Dial 4, cfr. nota 781). Il riconoscimento della preghiera come «offerta» si fonda, in particolare, su Ap 5, 8 (nota 2). Tuttavia, il tema dell’«offerta a Dio» può presentarsi in termini più generali, come ad esempio in HEx XIII, 2 (272, 10-11): «Omnia ergo haec offerantur Deo; et sensus offeratur Deo et sermo et vox» (cfr. anche HNm XXII, 1; XXVI, 2-3: l’offerta degna di Dio sono le opere e le virtù). Oppure può richiamare l’immagine dell’anima razionale come «santuario» nel quale si compiono sacrifici mortificando le passioni, come in FrLam 49 (257, 7-9): yuch'" de; qusiasthvrion to; ejn hJmi'n logikovn, di∆ ou|per iJerourgei'tai ta; pavqh nekrouvmena. Per HLv I, 2 l’offerta del genere umano, che non ha nulla di proprio da presentare a Dio, è quella mandata dal cielo nel sacrificio di Cristo: «et quid tam acceptum (cfr. Lv 1, 3) quam hostia Christi, qui se ipsum obtulit Deo (Eb 9, 14)?». Secondo HLv III, 5 l’intero regime dei sacrifici si compendia nell’unica offerta di Cristo (cfr. anche HLv IV, 8; V, 2). Rafforzano questa prospettiva HNm XII, 3; XXIII, 1 (211, 12-14): «Nemo suum aliquid offert Deo, sed quod offert, Domini est et non tam sua quis offert quam ipsi quae sua sunt reddit»; e XXIV , 2 (230, 4-5): «Quid ergo magnum faciet homo, si semet ipsum offerat Deo, cui ipse se prior obtulit (cfr. Eb 9, 14) Deus?». Si veda inoltre CIo X, 13, 76, dove «il Signore chiama doni suoi le offerte fatte a lui» (p. 398). Anche CRm II, 10 (14) (187, 224-230) sottolinea come ogni offerta dell’uomo sia un dono di Dio: «cogitavi et quaesivi apud me ipsum quid pro hoc quod mihi Dominus praestitit scientiam veritatis
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quanto vertiginoso prologo del Perì euchês (= Orat), mentre si sforza preliminarmente di distinguere le «parole» (oiJ lovgoi) dall’«atteggiamento» (hJ katavstasi") dell’orante, esemplificando quest’ultimo alla luce dell’invito di Gesù alla riconciliazione fraterna (Mt 5, 23-24), Origene è condotto a sottolineare l’importanza della preghiera con un riconoscimento deciso che non sembra trovare eguali nel resto dei suoi scritti. L’intraducibile gioco di parole con cui egli accosta l’orante come «essere razionale» (tou' logikou') e la «parola di preghiera» (lovgou eujch'") quale espressione più alta nel rapporto dell’uomo con Dio stride apparentemente con l’impossibilità sia di pregare «ciò che si deve» e «come si deve» (richiamata a lungo con l’aiuto di Rm 8, 26) sia di comprendere adeguatamente la preghiera, tema dominante dello stesso prologo fin dalle sue battute iniziali. Se è vero che il motivo del «profumo» è anche altrove associato alla preghiera dei santi, come per converso il «fetore» sta a connotare quella dei peccatori2, la condizione dell’uomo che prega, lungi dal configurarsi come ––––––––––––––––––
Domino responderem muneris; intellexi tamen quod natura illa aeterna et omnium domina nullius indiget. Unum ergo inveni solum, quod me offerre oporteret Deo, id est ut crederem de eo quod numquam possit ab homine aliquid accipere, sed semper dare». Sul martirio come l’«offerta» più grande che l’uomo possa fare di sé in risposta ai benefici ricevuti da Dio si veda EM 28 (nota 769) e CMt XVI, 6 (con analogo sfruttamento di Sal 115[116], 3-6). Sull’equazione preghiera = sacrificio, cfr. anche CC VIII, 21. In HNm XI, 5 (nota 2104) Origene esprime il desiderio che la sua esegesi sia offerta gradita al Sommo Sacerdote Gesù. Secondo Dibelius, l’Alessandrino opera una «Parallelisierung des Gebetes mit dem Opfer» (p. 40), laddove questa appare solo occasionalmente in Clemente. 2 Come vedremo in seguito (in part. pp. 438-443), l’associazione era suggerita dall’immagine biblica dell’«incenso» (qumivama) accostata alla preghiera in Sal 140(141), 2 (kateuqunqhvtw hJ proseuchv mou wJ" qumivama ejnwvpiovn sou, e[parsi" tw'n ceirw'n mou qusiva ejsperinhv) e Ap 5, 8 (oiJ ei[kosi tevssare" presbuvteroi e[pesan ejnwvpion tou' ajrnivou e[conte" e{kasto" kiqavran kai; fiavla" crusa'" gemouvsa" qumiamavtwn, ai{ eijsin aiJ proseucai; tw'n aJgivwn). In Orat XXXI, 4 la ritroviamo a partire da Mal 1, 11. Sull’equazione qumivama = proseuchv si sofferma, in particolare, HIer XVIII, 10 (nota 1101); cfr. anche CC VIII, 17 (nota 476) e HNm XXIII, 3, 2 (nota 531). HGn XI, 1, riprende un’etimologia di Filone per il nome di Chettura: qumivama interpretatur, quod est incensum vel bonus odor (cfr. infra, nota 586). In HLv IX, 8 però l’«incenso» più che essere rappresentato dalla «preghier» come tale si identifica con le «opere sante» in generale e con l’interpretazione spirituale della Scrittura. Si ricordi anche la trattazione relativa all’«odorato» nell’ambito della dottrina origeniana dei «sensi spirituali». L’immagine dell’«incenso» (qumivama), già attestata da Ireneo (Adv. Haer. IV, 17, 6, con citazione di Mal 1, 11 e Ap 5, 8), verrà ripresa da Evagrio Pontico (de orat. 1, 141, 147). Il motivo del «profumo di Cristo» è presente nella letteratura martirologica (cfr. Atti dei martiri di Lione in Eusebio di Cesarea, HE V, 1, 35), ma Origene lo ricollega anche a 2Cor 2, 15 («Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo fra quelli che si salvano e fra quelli che si perdono») – ad esempio in CIo XX, 44, 415; HGn III, 6; o FrCt 33 (210, 6-212,7) –, in rapporto alle buone opere e alla condotta del giusto, come per il discorso dei sensi spirituali in Dial 18 (13-16): kai; oJ e[sw a[nqrwpo" ajntilambavnetai eujwdiva" dikaiosuvnh" kai; duswdiva" aJmarthmavtwn a[lloi" mukth'rsin. Si noti anche il paragone con le «coppe di aroma» in FrCt 48 (228, 2-5) su Ct 5, 13a («Le sue guance sono come coppe di aroma che producono unguenti pro-
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rapporto di reciprocità con la divinità secondo il modello della preghiera greca basato sul «favore» che lega l’orante e il dio3 , è proposta semmai da Origene come quella di chi partecipa di un dono: più che «offrire» a Dio la «sua» preghiera, è dunque l’uomo ad essere reso capace di pregare ad opera di colui a cui egli si rivolge. Il paradosso della preghiera dunque si scioglie proprio se teniamo presente che il modello di preghiera elaborato da Origene non può mai prescindere dal sostegno divino all’orante, come egli ricava dal seguito del problematico passo paolino, grazie alla presenza dello Spirito che prega nei santi intercedendo per loro con «gemiti inenarrabili» (Rm 8, 26-27). Pertanto l’affermazione sull’«offerta più grande» dell’uomo, anziché contraddire tale modello, lo presume necessariamente nel concreto manifestarsi della preghiera. Al tempo stesso ci aiuta a capire, con una prospettiva solo a prima vista differente, come l’argomento tocchi anche agli occhi dell’Alessandrino il cuore e il cardine dell’esperienza religiosa dell’uomo. Né potrebbe essere diversamente per una figura dalla saldissima tempra spirituale, come Origene emerge con forza dall’insieme della sua opera, senza neppure il bisogno di rifarsi al ritratto “agiografico” di Eusebio nel VI libro della Storia ecclesiastica4 . In questo senso la preghiera ci appare come una dimensione costitutiva del suo profilo religioso, che lo accompagna lungo tutto il corso della vita5 . Come ha ben mostrato Henri Crouzel contro ogni tentativo vecchio e nuovo di semplificarne artificiosamente lo spessore, in Origene lo spirituale è inseparabile dall’esegeta e dal teologo6. Perciò la preghiera è chiamata a svolgere un ruolo fonda––––––––––––––––––
fumati»): Siagovna" Cristou' tou;" diakonoumevnou" lovgw/ qeou' kai; trofh/' pneumatikh/' nohtevon: dia; me;n th;n plhrovthta th'" eujwdiva" tw'n kalw'n e[rgwn kai; lovgwn, ejoikovta" fiavlai" tou' ajrwvmato". Cfr. inoltre FrLc 113 (273, 4), riguardo all’unzione della peccatrice in Lc 7, 37: doxavzetai ga;r oJ qeo;" dia; th'" eujwdiva" tou' bivou tw'n dikaivwn. 3 Per Pulleyn l’idea di cavri" come rapporto di reciprocità è fondamentale per la religione greca: «the feeling that the relationship between men and gods was essentially one of give-and-take through sacrifice and prayer is very clear from the frequent association in our surviving texts of the verbs quvein [...] and eu[cesqai» (p. 7), senza implicare peraltro un automatismo rigido del do ut des (ibi, pp. 12-13). Nella prospettiva origeniana la “gradevolezza” dell’offerta assume rilievo soprattutto come indicatore della condizione dell’orante. 4 Pur scontando l’interesse apologetico di Eusebio, si rammenti almeno l’aneddoto sul giovane Origene che si astiene dal pregare insieme all’eretico Paolo sotto il suo stesso tetto, sebbene costui fosse frequentato assiduamente da fedeli della chiesa alessandrina (HE VI , 2, 14). 5 Cfr. Schütz, 137: «Beten ist für ihn die wichtigste Äußerung des christlichen Glaubens. [...] Das Gebet ist nicht nur ein wichtiger Gegenstand seiner Verkündigung und Lehre, es ist eine Dimension seines ganzen Wirkens». Per una prima panoramica, si vedano Heither e Perrone 2000c. 6 La preghiera è un fattore determinante ai fini dell’esegesi e della riflessione teologica: «Le lieu propre de cette exégèse est la contemplation et la prière: de là elle redescend,
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mentale, che si manifesta sia nell’esperienza personale sia nella riflessione dell’Alessandrino. Non a caso egli la raccomanda, in particolare, come requisito indispensabile per la comprensione delle Scritture, l’attività nella quale si compendia peraltro tutto il suo sforzo intellettuale7 . Non solo Origene dedica ad essa il primo trattato autonomo fra gli autori cristiani di lingua greca ma il tema ritorna frequentemente nelle omelie e non è assente neppure nei commentari e nello stesso De principiis8 . Inoltre, data la centralità della preghiera fra le espressioni della vita religiosa, anch’essa offre motivo di confronto polemico con il filosofo pagano Celso nella grande apologia composta dall’Alessandrino per replicare al suo Alêthês logos9 . Né si deve dimenticare il fatto che Origene non si limita a riflettere sulla preghiera e ad invitare i suoi lettori o la comunità di Cesarea a pregare, ma lo fa lui stesso10. 2. La sfida di un’indagine complessa Si comprende allora come affrontare uno studio sulla preghiera in Origene esiga, in linea di principio, un’indagine difficile e complessa sul personaggio e la sua opera che sia capace ad un tempo d’illuminare l’indole spirituale dell’autore, tracciandone per quanto possibile il profilo di orante, e di dar conto in maniera adeguata della ricchezza di riflessioni sulla preghiera disperse nel vasto corpus origeniano, al di là dello specifico trattato consacrato all’argomento. Se il primo dei due aspetti solleva però non pochi interrogativi circa la possibilità di perseguire con successo l’obiettivo di ricostruire la personale esperienza religiosa dell’Alessandrino (basti solo accennare, per il momento, alla controversa questione della “mistica” di Origene)11, il secondo attira il rischio di sistematizzare più di ––––––––––––––––––
comme Moïse de sa montagne, maintenant que Jésus a fait disparaître le voile, dans les synthèses du théologien, l’enseignement du prédicateur et du professeur, les luttes de l’apologiste, et surtout la vie chrétienne de tous ceux qui en vivent» (Crouzel 1987, 84). 7 È questa la raccomandazione rivolta ad un discepolo in EpGr 4 (192-194): Mh; ajrkou' de; tw/' krouvein kai; zhtei'n: ajnagkaiotavth ga;r kai; hJ peri; tou' noei'n ta; qei'a eujchv: ejf∆ h}n protrevpwn oJ Swth;r ouj movnon ei\pe tov: krouvete, kai; ajnoighvsetai uJmi'n: kai; tov: zhtei'te, kai; euJrhvsete (Mt 7, 7): ajlla; kai; tov: aijtei'te, kai; doqhvsetai uJmi'n (Lc 11, 9). Cfr. anche HGn XI, 3 (nota 1165). 8 Prin II , 9, 4 (cfr. inoltre III, 5, 8; IV, 1, 7; IV , 3, 14; infra, pp. 251-253). Per un esempio nei commentari si veda CIo XX, 1, 1 (nota 861). 9 Perrone 2001d. 10 Ad esempio, cfr. HIs V, 2; Russell Christman. 11 Si veda, da un lato, la risposta negativa di Gessel 1980e, dall’altro, quella positiva di Crouzel 1987, 162-164, nonché gli interventi raccolti in Pizzolato-Rizzi. Senza anticipare qui la trattazione ad hoc (infra, pp. 189-193 alla luce della «confessione» autobiografica di Origene in HCt I , 7 risulta problematico il tentativo di negare in assoluto un connotato «mistico» all’esperienza religiosa dell’Alessandrino.
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quanto sia forse consentito un pensiero che ci si presenta come intrinsecamente dinamico 12. Le discussioni sviluppatesi nella seconda metà del Novecento intorno alla sua “sistematicità” o meno ci hanno resi cauti nell’intraprendere tentativi di ricostruzione organica. Appare invece più consigliabile tenere in considerazione le modalità con le quali Origene formula le sue idee: in effetti queste, pur senza volerne negare la coerenza ed omogeneità, possono assumere inflessioni diverse a seconda delle circostanze13. Altro è, per dire, il destinatario dei trattati – da Prin a CC –, identificabile normalmente con i lettori selezionati più prossimi all’auspicata condizione di “perfetti”; altro è il pubblico delle omelie, composto in prima istanza di fedeli “semplici” o tutt’al più di “progredienti”, per servirci sia pure in maniera non rigida di due categorie prodotte dall’Alessandrino. Ora, egli è chiaramente consapevole della necessità di rapportarsi in maniera distinta a pubblici diversi14. Vi è poi da considerare anche il contesto temporale, un elemento che si tende frequentemente a sottovalutare, ma che forse può aiutarci a capire punti di vista differenziati espressi da Origene presumibilmente anche a seguito di un’evoluzione personale15. Può essere che questa prospettiva “asistematica” non piaccia troppo, data anche la tradizione di studi che spesso insiste ancora nell’accostare senza problemi passi di opere e periodi diversi evitando così d’interrogarsi sull’effettiva continuità di pensiero. Da parte mia, mi sono lasciato guidare via via, almeno come ipotesi di lavoro, dall’idea di un Origene molto più ricco di polarità, se non di vere e proprie fratture, e pertanto molto meno sistematico di quanto a volte si vorrebbe. Questo schema, a mio avviso, rende meglio ragione di apparenti contraddizioni che emergono, ad esempio, proprio riguardo alla teologia origeniana della preghiera. Non a caso un interrogativo maggiore della ricerca concerne appunto il grado di rappresentatività, in generale, della visione espressa da Origene nel trattato sulla preghiera. C’è chi l’ha messa in dubbio restringendo la portata del –––––––––––––––––– 12 Ho esaminato le caratteristiche dell’argomentazione origeniana nella voce Metodo di OD (Perrone 2000a). 13 Un esempio può essere tratto dal modo in cui affronta la preghiera dei peccatori. Se per FrIer 71 (232, 25-27) le loro anime sono «come se non esistessero» (wJ" mhde; ou\sai) agli occhi di Dio e in FrLam 83 Origene applica alla preghiera dei peccatori Lam 3, 44 («Ti sei avvolto in una nube così che la supplica non giungesse fino a te»), in altri scritti troviamo una diversa apertura al riguardo (ad esempio, CIo XXVIII, 4-5 e H37Ps I, 5 [note 890, 1101]). È interessante che in Orat V, 5 l’argomento della preghiera di Giuda sia attribuito agli avversari. 14 Sulla fisionomia religiosa e sociale del pubblico delle omelie e il modo di rapportarsi ad esso del predicatore resta fondamentale Monaci Castagno. Una nuova discussione al riguardo è stata proposta da Markschies. D’altra parte, Junod 1980 ha mostrato la continuità delle omelie con il resto degli scritti relativamente alla dottrina del libero arbitrio. 15 Cfr. Monaci Castagno 2004, che ha rinnovato l’esame del rapporto fra biografia e opera letteraria a distanza di vari decenni dalla classica indagine di Nautin.
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discorso tanto problematico ed esigente di Origene alle circostanze e ai destinatari ravvicinati di Orat, ma altri hanno contestato questa conclusione insistendo viceversa sulla corrispondenza di idee, ad esempio, fra il trattato e le omelie16. Fra breve, ricostruendo la storia dell’indagine su Orat, vedremo come si dispongano tra loro i vari interventi degli studiosi in questo dibattito, ma fin da adesso è lecito giustificare la scelta di fondo da cui muove questo studio. Esso nasce da una lunga frequentazione del trattato sulla preghiera, uno scritto che continua ad apparirmi inesauribile per la ricchezza dei motivi addotti da Origene e per ciò stesso suscettibile di sempre nuovi approfondimenti, nonostante io me ne sia ormai occupato abbastanza regolarmente da più di un quindicennio17. Lo affianca peraltro il lavoro preparatorio per una nuova edizione critica, anch’essa impresa di notevole impegno e difficoltà in presenza dell’unico codice pervenutoci dalla tradizione manoscritta e come tale bisognoso di approfondite cure ecdotiche. L’attenzione rivolta in questo modo a Orat ha determinato di conseguenza l’interesse prioritario per le caratteristiche dello scritto e i temi che Origene vi tratta, riservando alla futura edizione l’approfondimento della trasmissione e ricezione del testo, la storia dell’edizione e le analisi di critica testuale. Da ciò deriva l’articolazione principale del mio studio che, nella Parte I, dopo una sommaria presentazione di Orat (Cap. 1) e una rassegna introduttiva sullo stato della ricerca (Cap. 2) si sofferma, a mo’ di ouverture, sull’ “armonica” del testo e la sua struttura (Cap. 3). Segue la ricostruzione dello sfondo filosofico entro cui emerge il «problema della preghiera» e del modo in cui Origene lo risolve, sfruttando in particolare il dato scritturistico, linfa vitale di tutta l’opera dell’Alessandrino (Cap. 4). Un’ulteriore tappa dell’indagine è rappresentata dallo sforzo di fare emergere globalmente l’ars orandi dalle riflessioni disseminate da Origene lungo tutto il trattato, dal momento che per l’Alessandrino il discorso non vuole restare meramente teorico ma rimanda ad una prassi ed anzi si propone di inculcarla precisamente tramite la sua opera (Cap. 5). Successivamente, ripercorrendo lo stesso andamento di Orat, verrà preso in esame il commento al Padrenostro quale “manifesto” della preghiera cristiana, analizzandolo nelle due sezioni principali in cui si distribuisce la «Preghiera del Signore» (Cap. 6). Giunti al termine dello studio su Orat, dovremmo allora essere in grado di stabilire, nella II Parte, un raffronto con la riflessione origeniana come ci è attestata dagli scritti restanti, riper–––––––––––––––––– 16 Per i due distinti approcci si vedano rispettivamente Völker e Lefeber (riassunto in Lefeber 1999). 17 Per tale ragione condivido largamente il giudizio espresso da Bertrand, 474, che insiste sulla diversità da EM notando che Orat «apparaît comme un écrit ambitieux: des très nombreux aspects de la théologie, pour ne pas dire tous, sont pris en compte dans ces pages. On est presque en droit d’y voir une sorte de condensé du PArch».
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correndoli per gruppi omogenei e distinti: trattati, commentari e omelie (Cap. 7). Dopo di ciò, invece di procedere ad una sistematizzazione delle idee dell’Alessandrino, tenteremo di mostrare quali sono i nuclei scritturistici che le ispirano e ne assicurano la continuità di fondo (Cap. 8). Concluderemo con un esame comparativo dei diversi approcci al tema della preghiera negli autori cristiani di lingua greca e latina fra II e V secolo, da Tertulliano ad Agostino, che mostrerà consonanze e diversità con la prospettiva dell’Alessandrino (Cap. 9). Infine, la conclusione generale si sforzerà di tracciare l’immagine di Origene come uomo di preghiera. Questo libro ha avuto una lunga gestazione, ma probabilmente non sarebbe mai stato scritto se non fossero intervenute due circostanze particolarmente fortunate. Nel maggio-luglio 2007 un soggiorno come Visiting professor nella Facoltà di Teologia dell’Università di Aarhus, su invito di Anders-Christian Jacobsen, mi ha permesso d’impostare il lavoro ed iniziare la stesura della prima parte. Oltre ad usufruire di una biblioteca ben fornita e accessibile in permanenza, grazie al seminario per i dottorandi tenuto insieme a Karla Pollmann ho ancora una volta riletto con loro Orat traendone utili indicazioni per il lavoro. Desidero dunque manifestare, in primo luogo, il mio vivo ringraziamento all’amico Anders-Christian Jacobsen nonché ai colleghi e ai dottorandi che hanno reso il mio soggiorno proficuo e stimolante, incoraggiandomi nell’impresa del libro. La seconda circostanza favorevole è stata decisiva per proseguire il lavoro, che languiva da vario tempo sommerso dai carichi abituali dell’insegnamento, e portarlo finalmente a termine. Dal settembre 2009 all’agosto 2010 ho potuto usufruire di un anno sabbatico all’Institute for Advanced Studies dell’Università Ebraica di Gerusalemme, in qualità di coordinatore di un gruppo di ricerca insieme a Brouria Bitton-Ashkelony. È stata un’esperienza unica, tra le più belle che uno studioso possa augurarsi di fare, e per di più in quella che fin dalla prima visita nel 1985 ho considerato la mia città d’elezione, dove del resto la preghiera fa parte dello scenario di vita come in pochi altri posti al mondo. L’ambiente dell’IAS ha offerto così il clima ideale per lavorare con assiduità e profitto, godendo di tutte le facilitazioni messe generosamente a disposizione dei ricercatori. Provo un sentimento di profonda gratitudine verso il direttore Eliezer Rabinovici, le direttrici aggiunte Pnina Feldman e Lea Prawer e tutto lo staff dell’Istituto, sempre disponibile ed efficiente. Il mio ringraziamento si estende ai colleghi del nostro gruppo di ricerca che mi hanno sostenuto nella mia fatica durante l’anno di permanenza, spesso prendendosi cura di me come uno di famiglia. In particolare, sento un enorme debito di riconoscenza verso Brouria Bitton-Ashkelony: condividendo i miei stessi temi di ricerca con un lavoro parallelo di vasto respiro sulla preghiera dal pensiero antico alla tradizione cristiana siriaca (che mi auguro possa
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vedere presto la luce), mi ha incoraggiato e stimolato non solo con innumerevoli indicazioni e suggerimenti ma soprattutto con la sua costante stima e fiducia. Vorrei anche ringraziare caldamente Aryeh Kofsky, che oltre a promuovere l’iniziativa del gruppo di ricerca insieme a Brouria, si è preso cura del mio ebraico rivelandosi anche in questo un maestro straordinariamente preparato quanto modesto e generoso. Insieme a loro ricordo il debito contratto, sia per l’apporto d’idee che per l’amicizia manifestatami giorno per giorno, con gli altri membri del gruppo Joëlle Beaucamp, Oded Irshai, Derek Krueger, Hillel Newman, István Perczel, Roger Scott nonché i colleghi Christian Julien Robin e Eugene Rogers. Ringrazio anche il nostro assistente Yonatan Livneh per l’aiuto sempre sollecito ed efficace. Debbo infine una lunga serie di ringraziamenti ai molti colleghi italiani e stranieri, agli allievi ed agli amici, che a Gerusalemme ed altrove, nella mia prima sede universitaria a Pisa come nella seconda a Bologna, ma specialmente da quasi un ventennio nell’ambito del «Gruppo Italiano di Ricerca su Origene e la Tradizione Alessandrina» e dei «Colloquia Origeniana», mi hanno stimolato ed incoraggiato aiutandomi in mille modi nel corso di tanti anni di frequentazione e di iniziative comuni. Senza poter menzionare tutti, vorrei almeno ricordare, con un pensiero particolare di riconoscenza per ciascuno di loro: Monique Alexandre, Daniel Attinger, Cordula Bandt, Harald Buchinger, Antonio Cacciari, Alberto Camplani, Francesca Cocchini, Matteo Crimella, Davide Dainese, Maria Ignazia Danieli, Leah Di Segni, Gilles Dorival, Gregor Emmenegger, Cristian Gas,par, Alain Le Boulluec, Leonardo Lugaresi, Nicolò Maldina, Christoph Markschies, Alberto Mello, Karin Metzler, Adele Monaci Castagno, Domenico Pazzini, Emanuela Prinzivalli, Marco Rizzi, Guy G. Stroumsa, Daniele Tripaldi, Andrea Villani, Martin Wallraff. Dedico questo libro a mia moglie Christiane Böhme e a nostro figlio Leonardo, che pure questa volta mi hanno sostenuto con il loro affetto e l’abituale discrezione, accettando di buon grado anche una lunga separazione dalla famiglia. Gerusalemme, 10 agosto 2010
PARTE PRIMA
Il trattato sulla preghiera
CAPITOLO PRIMO
IL CONTESTO DEL PERI EUCHES Lo sfondo remoto e l’occasione prossima «Il pregare è nella religione ciò che il pensiero è nella filosofia. Il senso religioso prega come l’organo del pensiero pensa» (Novalis)
1. Lo sfondo remoto: interrogativi filosofici e preoccupazioni catechetiche Per accostarsi a Orat con un itinerario di avvicinamento graduale che ci metta in grado di recepirne proficuamente il discorso e di cogliere così la sua originalità conviene dapprima tracciare il contesto del trattato origeniano, intendendo peraltro questo in un duplice senso: come scenario remoto e come occasione prossima. In sintesi possiamo dire che lo scritto sulla preghiera è la risultante, non solo in linea ideale ma anche come determinazione di fatto più o meno diretta, di due distinte traiettorie concettuali che in esso s’intrecciano: da un lato, l’interrogativo filosofico su legittimità e utilità della preghiera da un punto di vista prettamente teorico; dall’altro, la riflessione sviluppatasi nella prima letteratura cristiana sull’esperienza del pregare, in un’ottica prevalentemente spirituale e catechetica, che ha spinto a farla oggetto di ampie trattazioni, in qualche caso autonome, come avviene prima di Origene con Clemente Alessandrino e Tertulliano e successivamente con Cipriano. L’economia complessiva di Orat risente quindi in maniera strutturale dei due scenari appena evocati, dal momento che Origene dispone l’argomento – come osserveremo più avanti – secondo due scansioni principali, la prima delle quali verte sul «problema della preghiera», la seconda sulla spiegazione del Padrenostro come il modello per eccellenza a cui deve attenersi l’orante cristiano. In un certo senso, dunque, l’agenda tematica che l’Alessandrino si è proposto di affrontare era già precostituita dal retroterra speculativo e letterario dentro cui la sua opera si inserisce, ancorché nessun altro autore cristiano dei primi secoli abbia fatto della preghiera l’oggetto di riflessioni di così vasta portata18. Né va dimenticato il fatto che Origene, diversamente da Tertulliano e Cipriano, ed anche dallo stesso Clemente Alessandrino idealmente e –––––––––––––––––– 18
Simonetti 1997 mette in rilievo le due premesse per l’articolazione di Orat.
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storicamente più vicino a lui, ha saputo dare un’inedita configurazione unitaria a problematiche di natura molto diversa tra loro, alcune delle quali risultano sconosciute, in tutto o in parte, agli altri autori, incluso lo stesso «problema della preghiera», sia pure con l’eccezione di Clemente. Così, il De oratione di Tertulliano, il modello più antico di trattato eucologico (scritto fra 200 e 206), può sì essere accostato a Orat per la sua strutturazione, quantunque essa si presenti invertita rispetto allo scritto di Origene. Infatti, il Cartaginese commenta prima il Padrenostro e passa quindi ad esaminare la prassi della preghiera19. Ma è qui che la trattazione assume una piega nettamente diversa da quella dell’Alessandrino, perché essa è guidata soprattutto da considerazioni di carattere pratico e disciplinare, rispondenti peraltro alla condizione dei candidati al battesimo a cui il De oratione è diretto precipuamente20. Pur senza negare la presenza di certe affinità con Origene e la sua concezione della «preghiera spirituale», Tertulliano sembra ignorare del tutto la questione filosofica riguardo alla preghiera o almeno non dà a vedere di tenerne conto. Ancora più forte è la diversità con la prospettiva tracciata da Cipriano nel De dominica oratione (fine 251-inizio 252), tendenzialmente sulla stessa linea di Tertulliano, al quale si ispira certamente nel riproporre un commento del Padrenostro. Anche nel vescovo di Cartagine non mancano comunque dei punti di contatto con Orat – come avremo modo di osservare in seguito –, ma lo scritto di Cipriano neppure sfiora il problema della preghiera e, concentrandosi quasi esclusivamente sugli esempi scritturistici e, in particolar modo, sul paradigma rappresentato dalla preghiera del Signore, opera un’inflessione in senso fortemente comunitario dell’esperienza cristiana di preghiera21. Resta – come si è già detto – la maggiore vicinanza con Clemente (Stromati VII), sullo sfondo più ampio della comune dipendenza dalla tradizione alessandrina, che racchiude per entrambi sia l’eredità della Bibbia greca dei LXX, e con essa del giudaismo ellenistico, sia anche il confronto polemico con il fronte gnostico22. Questa affinità tra i due autori si può –––––––––––––––––– 19 Cfr. rispettivamente i capp. 2-9 e 10-27. Sulla struttura del De oratione tertullianeo si veda da ultimo Tertullian. De baptismo, De oratione. Von der Taufe, Vom Gebet, übers. u. eing. v. D. Schleyer, Turnhout 2006, 20-21. 20 Come notato da Jay, «Tertullian’s doctrine of prayer [...] is severely practical» (p. 2). Circa la sua destinazione catechetica, Schleyer osserva: «Für De oratione sind Tauf-Kandidaten als die zunächst gemeinten Adressaten indirekt zu erschließen» (p. 11). Per un confronto con Origene cfr. Crouzel 1975 e infra, pp. 518-530. 21 Secondo Simonetti 1997, il significato della preghiera si riassume nell’«esigenza dell’unità del corpo dei fedeli» (p. 84). Sulla visuale ciprianea si veda infra, pp. 545-554. 22 «Nella sistematica trattazione clementina [...] confluiscono, insieme a tutti i temi emersi nel giudaismo ellenistico, gli apporti innovativi anche in questo ambito della nuova letteratura cristiana, biblica e non biblica, in particolare di quella alessandrina a lui precedente o coeva, in buona parte perduta ma nella quale importante deve essere stato anche il
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cogliere anche dallo sforzo che Clemente fa per superare la tensione fra la preghiera dello «gnostico» e quella del cristiano comune. Se è vero che il suo ideale di preghiera è quello di un «colloquio» costante con Dio, e che pertanto il suo modello è segnato dalla preferenza riconosciuta alla preghiera di lode e di ringraziamento, egli non ignora la preghiera di domanda e cerca di mostrarne il posto anche nella vita del perfetto23. In tal modo, l’intera gamma dei quattro tipi di preghiera contemplati da Origene sulla scorta di 1Tm 2, 1 («domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti») ha la sua corrispondenza in Clemente. Ma in lui manca però l’approfondimento esegetico e dottrinale derivante in Origene dal commento del Padrenostro, mentre in generale la percezione del «problema della preghiera» appare più attutita. D’altra parte, a giudicare da alcuni raffronti significativi, è molto probabile che Origene conoscesse il VII libro degli Stromati, cosa che invece non si può affermare del trattato di Tertulliano e a fortiori di quello di Cipriano24. Se così fosse, risalterebbe in ogni caso ancor più l’autonomia letteraria e dottrinale di Origene, che ha dato vita ad un proprio modello distinto di trattato eucologico. 2. L’occasione prossima: la richiesta di Ambrogio Lo sfondo remoto, descritto qui in prima approssimazione, incide a diversi livelli sulla trattazione di Orat, come si potrà meglio rilevare in seguito, aggiungendo ulteriori precisazioni circa i diversi elementi che compongono lo scenario appena tracciato. Tuttavia, le circostanze prossime dello scritto sono da ricondurre ad una precisa richiesta rivolta ad Origene da Ambrogio25. Come appare dall’estratto riportato dall’Alessandrino, la lettera del suo patrono doveva riguardare soprattutto la pro––––––––––––––––––
ruolo svolto dalle correnti gnostiche, che su questo tema tornano a porre con forza il problema dell’utilità della preghiera, con l’esito in ambito ortodosso di uno stimolo all’approfondimento intellettuale della fede» (Vian, 81). 23 «La preghiera è un modo di comunicare con Dio, un Dio onnisciente e onnipresente, che perciò conosce benissimo ciò di cui l’orante ha bisogno, conosce in anticipo ciò di cui viene richiesto, e pure vuole essere richiesto con purità di cuore per potere esaudire» (Vian, 85). 24 Le Boulluec 2003 considera Orat come una risposta a Stromati VII . Il contrasto fra la visione “possibilistica” della preghiera in Clemente e il riconoscimento della sua “impossibilità” in Origene è tale che quest’ultimo deve averlo messo sul conto, quando ha composto Orat. Un riesame delle distinte prospettive dei due scritti si trova infra, pp. 530545. Quanto al rapporto con Tertulliano, non si vede su quali basi poggi l’idea secondo cui l’Alessandrino avrebbe conosciuto De orat., come sostenuto da Konstantinovksy, 175 («which Origen may have consulted»). 25 Orat V, 1 (308, 3-4) ne parla come di un «ordine»: Eij crh; toivnun meta; tau'ta, w{sper ejkeleuvsate, ejkqevsqai ta; piqana; prw'ton tw'n oijomevnwn mhde;n ajpo; tw'n eujcw'n ajnuvesqai.
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blematica di ordine speculativo in relazione alla preghiera. Essa prende forma in due obiezioni di andamento sillogistico che vertono rispettivamente sulla prescienza e sulla predeterminazione divine; alla luce di entrambe, la preghiera non può che risultare superflua26. Ma forse è eccessivo ridurre a ciò la portata dell’esigenza manifestata da Ambrogio, non solo perché lo conosciamo come persona di vasti interessi teologici ed esegetici, ma ancor più per il fatto che egli non figura quale unico destinatario dello scritto. Il trattato, infatti, è indirizzato in contemporanea ad una donna non altrimenti nota di nome Taziana. Non può trattarsi della moglie di Ambrogio, poiché da una lettera di Origene a Giulio Africano egli risulta sposato con una Marcella27. Si è allora supposto che abbiamo a che fare con un’altra persona, magari una sorella del patrono di Origene28. Sebbene questa presenza appaia abbastanza discreta – dopo il prologo (II, 1) Origene menziona ancora Taziana unicamente nel capitolo conclusivo (XXXIV) –, essa lascia comunque delle tracce significative nel discorso dell’Alessandrino. La problematica “al femminile”, che compare a varie riprese nel trattato, riflette chiaramente lo sforzo di Origene per commisurarsi più da vicino alla condizione e alle aspettative della sua destinataria, da presumere anch’essa come donna sposata 29. Se la relazione che Origene stabilisce con i destinatari lascia dunque intravedere, da entrambe le parti, un interesse spirituale più vasto per la preghiera come esperienza di vita, più delicata è la definizione della data di Orat, dal momento che la nostra fonte principale per accertare la cronologia delle opere di Origene – il VI libro della Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea – è al riguardo silenziosa. Possiamo però combinare le indicazioni temporali offerte da Eusebio su altri scritti coevi con gli accenni in proposito da parte dell’Alessandrino. Termine importante di comparazione è, nel nostro caso, il Commento a Genesi, iniziato secondo Eusebio ad Alessandria ed interrotto alla partenza dalla città, quando era giunto al libro VIII, ma ripreso da Origene dopo l’insediamento a Cesarea di Palestina (232-233), dove egli compose i libri IX -XII30. Se accettiamo la ricostruzione fornita da Nautin – che indubbiamente si presenta come –––––––––––––––––– 26 Orat V, 6 (311, 8-9): keivsqw de; ejn toi'" parou'sin aujtai'" levxesin a{per dia; tw'n prov" me grammavtwn e[taxa". 27 EpAfr 24. Sulla condizione di Ambrogio come uomo sposato, con moglie e figli, insiste particolarmente EM, invitandolo a superare gli ostacoli dei legami di sangue alla prova della testimonianza di fede. 28 È, ad esempio, l’ipotesi di Nautin, 181, nota 101. 29 Cfr. Orat II , 2; XXVIII, 4; XXXI, 4. Per Monaci Castagno 2003, 183, nota 97, «la menzione di Taziana non è un episodico atto di cortesia: è pensando a lei che Origene dedica un’attenzione particolare alla precettistica riguardante la preghiera delle donne e all’esaltazione di alcune figure femminili dell’Antico Testamento». 30 Eusebio, HE VI , 24, 2.
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ben argomentata e persuasiva –, la composizione di Orat dovrebbe collocarsi fra la redazione dei tomi X e XI del Commento a Genesi e la successiva stesura degli scolî su Esodo, vale a dire intorno al 234-235. A sostegno di ciò Nautin adduce, da un lato, Orat XXIII, 4, dove l’Alessandrino si richiama espressamente alla sua esegesi di Gn 3, 8-931, presumibilmente da assegnarsi a CGn X o XI , dato che – come ricaviamo peraltro dalla Storia ecclesiastica di Socrate – nel IX tomo Origene sviluppava il tema di Adamo ed Eva come figure di Cristo e della Chiesa, presumibilmente in rapporto a Gn 2, 2232. Quanto al terminus ante quem, in Orat III, 3 si rimanda l’esegesi approfondita di Es 9, 33 ad un futuro commentario33, un cenno – secondo Nautin – agli Scoli su Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio, che a suo giudizio sarebbero da datare agli anni 234-23534. 3. Uno scritto “singolare”? Se tale è la cornice cronologica del trattato, esso s’inserisce in un periodo oltremodo fitto di impegni per l’Alessandrino. Lo precede infatti di poco la stesura del VI libro del Commento a Giovanni, ricominciato da Origene ex novo dopo il suo trasferimento a Cesarea, non senza la fiduciosa consapevolezza di poter portare a termine in futuro quella che si sa–––––––––––––––––– 31 Orat XXIII, 4 (352, 7-8): peri; touvtwn de; ejpi; plei'on dieilhvfamen, ejxetavzonte" ta; eij" th;n Gevnesin. Un riferimento implicito a CGn si può forse ricavare anche dalla polemica con Taziano circa l’interpretazione con valore di ottativo delle forme verbali all’imperativo adoperate in Gn 1, 3 ss. (cfr. Orat XXIV, 5). 32 Il contesto della menzione in Socrate è dato dalla polemica antiapollinarista: ∆Wrigevnh" de; pantacou' me;n ejn toi'" feromevnoi" aujtou' biblivoi" e[myucon to;n ejnanqrwphvsanta oi\den, ijdikw'" de; oJ eij" th;n Gevnesin aujtw/' peponhmevno" e{nato" tovmo" to; peri; touvtou musthvrion ejfanevrwsen, e[nqa ∆Ada;m me;n to;n Cristovn, Eu[an de; th;n ejkklhsivan ei\nai platuvteron kateskeuvasen. mavrture" touvtwn ajxiovpistoi o{ te iJero;" Pavmfilo" kai; oJ ejx aujtou' crhmativzwn Eujsebio". a[mfw ga;r koinh/' to;n ∆Wrigevnou" paratiqevmenoi bivon kai; pro;" tou;" ejk prolhvyew" ajpecqanomevnou" pro;" to;n a[ndra ajpantw'nte" ejn o{loi" biblivoi" ajpologivan uJpe;r aujtou' poiouvmenoi ouj prw'ton ∆Wrigevnhn ejpi; tauvthn th;n pragmateivan ejlqei'n fasin, ajlla; th;n th'" ejkklhsiva" mustikh;n eJrmeneu'sai paravdosin (Socrate, HE III, 7, 7-10 Hansen, GCS.NF 1, 198, 3-12). Dal passo si ricava dunque che Socrate conosceva CGn IX non direttamente, bensì dall’Apologia di Panfilo e Eusebio. Heine 2003 parla in proposito di un’esegesi a Gn 2, 7, ma il riferimento alla coppia non può che rinviare a Gn 2, 22, come ha visto giustamente Nautin, 385. Sul profilo di CGn si veda inoltre Heine 2005; Danieli, 187. 33 Orat III, 3 (305, 20-22): dia; tiv de; oujk ei[rhtai kai; hu[xato wJ" ejpi; tw'n protevrwn ajll∆ ejxepevtase ta;" cei'ra" pro;" kuvrion, eujkairovteron ejn a[lloi" ejxetastevon. Origene conclude così la rassegna della terminologia della preghiera condotta sistematicamente su Es 7-9, dalla seconda fino alla settima piaga. 34 Heine 2003, 63, rifacendosi all’analisi di Koetschau (pp. LXXV-LXXVII), giunge a conclusioni analoghe: «the treatise On Prayer can be dated in 233 or 234». Sui problemi, ancora insoluti, posti dagli scholia origeniani si veda specialmente Junod 1995.
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rebbe rivelata come la sua costruzione più ambiziosa35. In aggiunta a ciò, oltre ad accompagnare Orat con diversi tomi del Commento a Genesi – un lavoro che, secondo Nautin, l’avrebbe attirato al momento ancor più del Commento a Giovanni36 – nel 235, allorché si scatena la persecuzione di Massimino il Trace, l’Alessandrino redige di propria iniziativa l’Esortazione al martirio, indirizzandola ad Ambrogio e al presbitero Protocteto. La semplice menzione di questa serie di opere coeve non soltanto segnala la fecondità letteraria di Origene nel suo nuovo ambiente – sia pure secondo un programma dettato ancora in grande parte da Ambrogio37 –, ma invita anche ad esplorare eventuali paralleli o echi fra il trattato e gli altri scritti più o meno contemporanei. Sorprendentemente, come ci apparirà esaminando i diversi aspetti di Orat, non ritroviamo analogie evidenti con gli scritti che lo affiancano, fatta eccezione per le affinità tematiche con CGn, anche se forse la ricerca di eventuali paralleli non ha sfruttato ancora tutti gli indizi ricavabili al riguardo38. Anzi, lo stesso profilo dell’Esortazione al martirio, l’opera che sulla carta sembra prestarsi meglio al confronto non solo per la vicinanza temporale ma soprattutto per il suo rilievo di ordine spirituale (Koetschau lo giudica come la testimonianza più intensa dell’ideale cristiano di Origene)39, risulta abbastanza diverso, come mostra già la semplice verifica delle citazioni scritturistiche presenti nelle due opere; né vi si constatano in apparenza tracce della riflessione origeniana sulla preghiera, benché il tema non sia affatto ignorato 40. Semmai sorprende la ripresa pressoché –––––––––––––––––– 35 La «torre» che s’innalza gradualmente verso il cielo nel prologo al VI libro (CIo 1, 1; 2, 6-8) ricorda non a caso il celebre faro di Alessandria, come ho suggerito in Perrone 2001a, 44-45 (cfr. anche il mio successivo contributo: Perrone 2005b, passim). 36 Nautin, Origène, 431-432. 37 Secondo Heine 2003, 67, la trattazione di CGn limitata ai soli primi quattro capitoli deve essere stata richiesta da Ambrogio, trattandosi di un testo importante nella prospettiva del suo passato di valentiniano. 38 Ad esempio, Nautin si è chiesto se Orat XV , 1 (334, 4-5: eij ga;r e{tero", wJ" ejn a[lloi" deivknutai, kat∆ oujsivan kai; uJpokeivmenovn ejstin oJ uiJo;" tou' patro;") contenga una allusione a CIo X, 37, 246: «Dans ce cas, le tome X sur Jean aurait été dicté dans la foulée du tome VI , car le De orat. est postérieur de très peu au tome VI. [...] Mais la référence peut aussi viser un autre passage où la question était exposée plus longuement» (p. 378, nota 45). Le affinità con CGn sono peraltro circoscritte al tema «provvidenza e libero arbitrio». 39 Koetschau, XIV-XV: «in keiner andern erhaltenen Schrift spiegelt sich so wie in dieser das innerste Leben des Origenes wieder». 40 A riprova di tali differenze si veda, ad esempio, il ricorso del termine oJmiliva – con ajnavbasi" una delle due definizioni tradizionali della preghiera (cfr. Méhat 1995) – in EM 3 (4, 29-5, 2): blevpwn o{ti dia; th'" oJmiliva" rJusqei;" ajpo; tou' swvmato" tou' qanavtou aJgivw" ajnafqevgxetai tov: cavri" tw'/ qew'/ dia; Cristou' ∆Ihsou' tou' kurivou hJmw'n. Con riferimento a Rm 7, 24-25, il primo dei due versetti paolini («Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?») è interpretato come una preghiera dell’Apostolo, alla quale fa seguito il suo ringraziamento. In Orat Origene non impiega mai il vocabolo oJmiliva, benché in generale la sua concezione della preghiera contempli anche l’idea VI,
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integrale – se scontiamo qualche piccola modifica e perfezionamento ulteriore della terminologia – della stessa trattazione sul libero arbitrio proposta dall’Alessandrino nel III libro dei Principi qualche anno prima (secondo Nautin verso il 229-230), allorché egli difende nuovamente questa dottrina in Orat VI collegandola adesso al discorso sulla preghiera41. È un tratto di “riscrittura”, a dire il vero, piuttosto insolito per l’Alessandrino, pur senza negare gli echi e le riprese di cui la sua opera è indubbiamente ricca e il sovrapporsi dei diversi progetti che lo vedevano impegnato, non solo all’epoca della composizione di Orat, ma anche prima e successivamente. Come vedremo, la sua riproposizione è dovuta al fatto che Origene fa proprio un dato dottrinale della tradizione filosofica riconducibile in sostanza alla fisica stoica. L’isolamento di Orat è in aggiunta aggravato non solo dalla perdita pressoché completa dei commenti dedicati da Origene alle pericopi evangeliche sul Padrenostro in Matteo e Luca, che non ci permette di accertare eventuali paralleli o modificazioni della sua esegesi, ma anche dal fatto che l’autore non rinvia mai a questo scritto. Se è vero che le autocitazioni dell’Alessandrino si riferiscono in prevalenza agli scritti esegetici, talora includono anche i trattati teologici, ragion per cui il suo silenzio non è forse privo di rilievo. Resta quindi, nell’insieme, l’impressione di una certa “singolarità” di Orat, che sollecita con ancora maggiore urgenza una sua valutazione distinta nel complesso del corpus origeniano.
4. Sfortune e fortuna di Orat: condanna, sopravvivenza ed edizione La “singolarità” di Orat sembra essere rafforzata dalle vicende della tradizione del testo. Sorprendentemente assente nel prospetto cronologico dell’attività letteraria fornitoci da Eusebio nel VI libro della Storia eccle––––––––––––––––––
del «colloquio» con Dio (come ho cercato di mettere in luce in Perrone 2001b); cfr. CMt XII , 39 (156, 11-12), a proposito della preghiera di Gesù al Padre: i{na de; ou{tw qew/' oJmilh/' kai; proseuvxhtai tw/' patriv. FrEph I , 3 (236) l’adopera invece in riferimento alla contemplazione: kai; th;n kardivan oujkevti e[cei ejpi; gh'" (Mt 6, 21), toutevstin ejn toi'" uJlikoi'" kai; swmatikoi'" ajll∆ ejn oujranw/' (Mt 6, 20), th/' nohth/' fuvsei ajei; aujth/' oJmilw'n. Prima di lui lo troviamo adoperato da Clemente Alessandrino, sia pure con qualche cautela, in Strom. VII, 7, 39, 6 (140): e[stin ou\n, wJ" ei\pei'n tolmhrovteron, oJmiliva pro;" to;n qeo;n hJ eujchv. Per l’uso del verbo oJmilevw ad indicare la preghiera silenziosa cfr. Atti dei martiri di Lione, in Eusebio di Cesarea, HE V, 1, 51: tou' me;n ∆Alexavndrou mhvte stenavxanto" mhvte gruvxantov" ti o{lw", ajlla; kata; kardivan oJmilou'nto" tw'/ qew/'. Alcuni studi contemporanei sulla preghiera nella tradizione ebraico-biblica, che tendono a respingere l’idea della «conversazione con Dio» dalla sua definizione (si veda, da ultimo, Jonquière, 20-23), sembrano ignorare la riflessione antica in proposito. 41 Si confronti Orat VI , 1 con Prin III, 1, 2. Circa il rapporto fra le due argomentazioni si veda Van der Ejik.
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siastica, il titolo non figura neppure nell’Epistola 33 di Gerolamo, con il suo catalogo generale degli scritti dell’Alessandrino. Come ha dimostrato Nautin, si tratta molto verosimilmente di un’omissione dovuta alla rielaborazione operata da Gerolamo sull’elenco degli scritti di Origene inserito da Eusebio nella perduta Vita di Panfilo42. Del resto, il vescovo di Cesarea menziona il nostro trattato nell’Apologia per Origene scritta insieme a Panfilo durante la detenzione di questi in carcere, nella persecuzione dioclezianea, e completata da Eusebio dopo la morte del suo maestro (310)43. È questa la prima traccia di un’opera destinata a diventare controversa, alla luce degli sviluppi della teologia trinitaria nel IV secolo, soprattutto per la tesi della «preghiera» (indicata da Origene con il termine scritturistico per lui più pregnante di proseuchv) da indirizzare unicamente al Padre, con esclusione del Figlio come destinatario 44. Nella menzione successiva, a circa un secolo di distanza, l’opera è già oggetto della condanna di Teofilo di Alessandria ed anche in seguito sembra riaffiorare nel contesto delle accuse di eresia rivolte ad Origene45. Così, nemmeno quell’ “arca di salvezza” per i testi dell’Origene greco che è rappresentata –––––––––––––––––– 42 Nautin ipotizza che la lista di Eusebio fosse disposta, in base al contenuto, in (1) scritti sul Nuovo Testamento, (2) sull’Antico Testamento, (3) di carattere miscellaneo. Gerolamo volle modificarla anticipando gli scritti sull’Antico Testamento, ma distrattosi iniziò a trascrivere di seguito gli scritti miscellanei, salvo interromperne l’elenco, allorché volle aggiungere più coerentemente le opere dedicate al Nuovo Testamento: «C’est aussi ce qui explique l’omission des trois traités De oratione, Contra Celsum et De naturis: ils étaient inscrits à la fin des Divers, mais quand Jérôme s’est aperçu qu’il copiait ce groupe à tort, il s’est arrêté au point où il en était et s’est mis à copier NT, en se proposant sans doute d’inscrire les derniers Divers plus loin; puis, le moment venu, il les a oubliés» (pp. 230-231). 43 «Denique in tam multis et tam diversis eius libris nusquam omnino invenitur ab eo liber proprie De anima conscriptus, sicut habet vel De martyrio, vel De oratione, vel De resurrectione» (Apologia pro Origene 161 [146]). Dal modo della menzione Prinzivalli ricava che «l’opera non era ancora al centro dell’attenzione, perché nessuna delle nove accuse della lista di Panfilo ne sfiora la tematica» (p. 144); né sembra aver suscitato discussioni durante la controversia ariana. 44 Orat XV, 1 (333, 26-28). Koetschau, LXXXII ricorda tra i passi controversi anche Orat XXXI, 3, dove compare l’idea di un corpo sferico degli esseri celesti. 45 La lettera del sinodo alessandrino del 400, convocato da Teofilo in occasione della prima crisi origenista, registra così la condanna delle tesi di Orat: «Et in alio libro qui De oratione scribitur: “Non debemus orare Filium, sed solum Patrem, nec Patrem cum Filio”, obturavimus aures nostras, et tam Origenem quam discipulos eius consona voce damnavimus» (Gerolamo, Ep. 92, 2; cfr. Nautin, 116, nota 43). Si veda anche Teofilo di Alessandria, Fr. 12 Richard (Lettera a Attico): ouj dei' proseuvcesqai tw/' Cristw/' oujde; tw/' Patri; meta; tou' Cristou' , e la Lettera festale del 401 (Gerolamo, Ep. 96, 2): (Origene) «ausus est dicere non esse orandum filium neque cum filio patrem». Occorre anche ricordare che la prima delle 15 accuse controbattute dall’anonima Apologia di Origene, di cui Fozio ci parla in Bibl., Cod. 117, riguarda proprio Orat: mh; proseuvcesqai tw/' uiJw/'. Sulla controversa ricezione del trattato in ambiente egiziano si veda Camplani (a proposito del Contra Origenistas di Shenute) e Graumann.
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dalla raccolta antologica della Filocalia si è data premura di conservarcene qualche pagina, come ha fatto invece per alcuni dei commentari e degli altri trattati dell’Alessandrino. Quanto alla “fortuna” sotterranea dello scritto origeniano nel monachesimo primitivo o presso i Padri di lingua greca che si sono occupati del tema della preghiera, come ad esempio Evagrio Pontico, Gregorio di Nissa o Massimo il Confessore, è arduo riuscire a metterla in luce con precisione, sebbene non manchino indizi per asserire una conoscenza più o meno influente di Orat ad opera di questi autori, come tenteremo di chiarire nel capitolo conclusivo46. Non ha dunque torto Koetschau a parlare di un «caso fortunato», se Orat è riuscito a sopravvivere nell’originale greco, benché questo ci sia giunto in pratica grazie all’attestazione di un unico manoscritto 47. Si tratta di un codice cartaceo, presumibilmente di origine costantinopolitana, da datarsi al XIV- XV secolo, appartenuto per breve tempo alla Biblioteca Reale di Stoccolma e perciò denominato Codex Holmiensis. Esso contiene anche parte del Commento a Matteo (CMt X-XVII), l’ultimo grande commentario esegetico al quale lavorò l’Alessandrino48. Attualmente il manoscritto è conservato presso il Trinity College di Cambridge, con la segnatura: Codex Cantabrigiensis Collegii S. Trinitatis B. 8. 10 (= T)49. Pierre –––––––––––––––––– 46 Già Koetschau, LXXXII avvertiva, a proposito di Gregorio Nisseno (ma anche del Confessore) che «eine direkte Benutzung einzelner Stellen ist nirgends bei ihm nachzuweisen». Per una nuova verifica sul Nisseno, cfr. Penati Bernardini e Lozza; su Massimo il Confessore, Cooper. Quanto ad Evagrio, tracce dell’influsso di Origene sono state messe in luce da Bertrand. Tuttavia Prinzivalli ammette «una fortuna» di Orat, «un’onda lunga di influenza pacata e avvolgente che stimolò la riflessione dei teologi, alimentò, direttamente o attraverso mediazioni, la vita interiore di generazioni di cristiani alla ricerca della perfezione, e condizionò la successiva produzione letteraria sull’argomento» (p. 139). Anche Konstantinovksy non nutre dubbi al riguardo: «Therein he proved immensely influential and was the originator of a distinguished Christian literary and spiritual tradition, counting among its exponents such as Gregory of Nyssa, Ambrose of Milan, Cyril of Jerusalem, John Chrysostom, and Maximus Confessor» (p. 175). 47 Sulla tradizione manoscritta e la storia dell’edizione si veda l’introduzione di Koetschau (pp. LXXXII-XC ). 48 Il codice, appartenuto originariamente alla biblioteca della cattedrale di Worms, fu portato in Svezia da Isaac Vossius (1616/1618-1689), umanista e teologo olandese. Questi, rispondendo a una lettera di Huet, ne ricostruì così la storia: egli lo aveva acquistato nel 1646 a L’Aja dal medico della regina Elisabetta di Boemia (1596-1662), che se l’era procurato dopo la distruzione della biblioteca di Worms. Presolo con sé in Svezia, lo depositò presso la Biblioteca reale, ma dopo l’abdicazione di Cristina (1654), il manoscritto fu portato ad Anversa con il resto della biblioteca. Successivamente Vossius, dopo esserne rientrato in possesso, lo mise a disposizione di Herbert Thorndike (1598-1672), che aveva in progetto un’edizione di Origene, e da questi restò in lascito al Trinity College di Cambridge. Sulla figura di Vossius e le circostanze qui rievocate cfr. Blok, 205-206. 49 Il testo di Orat è trascritto ai ff. 215r-252v. Il copista ha riprodotto un antigrafo corrotto in più punti, lasciando in bianco gli spazi delle lacune, con l’evidente speranza di poterle completare successivamente.
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Daniel Huet (1630-1721), benemerito studioso di Origene, che ci aiuta a ricostruire la storia del codice, ne effettuò una copia durante un soggiorno a Stoccolma (1652) poi depositata presso la Bibliothèque Nationale di Parigi come Codex Parisinus Suppl. Gr. Nr. 534 (= Hu) 50. Nella stessa biblioteca troviamo anche un secondo codice contenente la terza ed ultima sezione di Orat (XXXI, 1–XXXIII, 3), designato come Codex Parisinus Graecus 1788, olim Colbertinus 3607, del secolo XV (= Col), ma esso si è dimostrato essere di scarsa o nulla utilità nella constitutio textus, dal momento che sembra dipendere dal medesimo archetipo di T, se non addirittura da questo stesso manoscritto51. Purtroppo, T presenta numerose lacune che hanno dato parecchio filo da torcere ad editori e traduttori. Tuttavia, a compensare le sfortune della tradizione diretta (e soprattutto indiretta), Orat ha trovato fin dagli inizi della moderna ricerca su Origene studiosi appassionati e critici spesso acuti e brillanti, che si sono sforzati di migliorare il testo tradito con un lavorio durato all’incirca dal XVII secolo fino ai primi decenni del secolo scorso. Se l’editio princeps del 1686 pubblicata a Oxford (= Ox.) si limitava ancora a trascrivere il manoscritto non senza varie difficoltà di lettura 52, quella stampata pochi anni dopo a Basilea (1694) per la cura di J.R. Wetstein rappresentava già un piccolo miglioramento (= Wet.)53. Questo diviene sostanziale con l’edizione londinese di W. Reading nel 1728 (= Lond.)54, non tanto per i meriti in sé dell’editore quanto per le osservazioni critiche ed esegetiche di un anonimo studioso inglese (= Angl.), che le mise generosamente a sua disposizione. L’acribia filologica di cui lo sconosciuto critico dà prova, anche se le sue congetture non possono essere accolte in ogni caso, ha continuato a rappresentare un termine di riferimento indispensabile per il lavoro sul testo di Origene55. –––––––––––––––––– 50 Il testo di T vi è riprodotto alle pp. 1-87. Sull’importanza fondamentale di Huet nella storia della ricerca origeniana si veda Lettieri 2000a, 316. Il suo ruolo nella vita intellettuale del tempo è illuminato da Shelford (che tuttavia, a p. 36, segnala solo la trascrizione di CMt durante il viaggio a Stoccolma) e da Stroumsa 2010, 218 s.v. 51 È questa la conclusione a cui giunge Koetschau, LXXXV-LXXXVI: «Da aber Col nirgends mehr, sondern an zahlreichen Stellen weniger bietet als T, so hindert uns nichts, in T die Vorlage von Col zu sehen. [...] Der Schreiber von Col verfährt auch durchweg so flüchtig und willkürlich, dass man, um seine vielen Fehler zu erklären, nicht noch ein Zwischenglied zwischen T und Col einzuschieben braucht». 52 WRIGENOUS PERI EUCHS SUNTAGMA, editio princeps, ejn qeavtrw/ tou' SKHLDHNOU, Oxford 1686. 53 Origenis de oratione libellus..., ed. J.R. Wetstenius, Basileae 1694. 54 WRIGENOUS PERI EUCHS BIBLION. Origenis de oratione liber... recognitus et emendatus... a Guilielmo Reading, Londini 1728. 55 Secondo Jay, 73, l’Anonimo potrebbe essere Herbert Thorndike (supra, nota 48). Importante figura del Seicento inglese, egli fu tra l’altro collaboratore della Bibbia Poliglotta di B. Walton per i testi siriaci. Forse il silenzio sull’identità dell’anonimo si spiega con il conflitto sull’ortodossia dell’Alessandrino, che accompagna in Inghilterra la Orige-
Il contesto del Perì euchês
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Con analogo procedimento, Charles Delarue (1684-1740), pur riprendendo il testo di Wetstein nel primo volume degli Opera Omnia dell’Alessandrino, pubblicato a Parigi nel 1733 (= Del.) con l’aiuto del nipote Charles-Vincent (1707-1762), lo ha corredato con le intelligenti annotazioni critiche di un princeps philologorum come Richard Bentley (1662-1742), per quarant’anni Master del Trinity College a Cambridge (= Bent.)56. Anche l’edizione degli scritti di Origene curata da Carl Heinrich Eduard Lommatzsch († 1882) farà a sua volta tesoro delle annotazioni dell’Anonimo inglese riprodotte dal Reading (= Lomm.) 57. Da ultimo, Paul Koetschau, insegnante di liceo a Jena, produrrà nel 1899 per gli «Origenes-Werke», nella serie berlinese dei «Griechische Christliche Schriftsteller», la prima vera edizione critica di Orat (1899)58. Benché la vivace disputa filologica suscitata dal testo prodotto da Koetschau riguardasse principalmente la sua edizione del Contro Celso pubblicata nello stesso volume, l’editore non dovette essere lui stesso interamente soddisfatto del proprio risultato 59. Traducendo l’opera, a più di un venticinquennio di distanza per la «Bibliothek der Kirchenväter» (Des Origenes Schriften vom Gebet und Ermahnung zum Martyrium, 1926), egli ha rivisto in più punti il testo edito ed ha apportato revisioni e miglioramenti che spesso sono ancora ispirate dall’anonimo Anglus60. Nel secolo passato, in piena rifioritura degli studi di Origene, l’edizione di Koetschau è rimasta il testo di riferimento. Diversamente da altri scritti editi, che sono stati ripubblicati, a volte con revisioni dell’apparato testuale o perfino con nuove edizioni – come è avvenuto per ben due volte con il Contro Celso –, il testo di Orat ha continuato ad essere letto nella serie dei GCS, spesso senza tenere alcun conto delle modifiche apportate successivamente da Koetschau al suo lavoro. A parte le numerose traduzioni in varie lingue, nessuno si è più cimentato nell’impresa di una nuova edizione critica. Conformemente a ciò, se si eccettuano occasionali contri––––––––––––––––––
nes-Renaissance del XVII secolo, portata avanti specialmente dai Platonici di Cambridge (cfr. Lettieri 2000a, 316-318). 56 Origenis Opera Omnia, ed. C. Delarue, t. I, Parisiis 1733, 196-272 (ripresa in PG 11, 416-562). L’edizione, oltre a basarsi su una nuova collazione di terza mano su T, aggiungeva la testimonianza di Col. La traduzione che affiancava il testo era opera di Claude Fleury (1640-1723), su cui si veda Stroumsa 2010, 56-58. 57 Origenis Opera Omnia, ed. C.H.E. Lommatzsch, t. XVII, Berolini 1844, pp. 82-297. 58 Essa uscì in contemporanea con l’edizione di EM e CC: Origenes Werke I, Die Schrift vom Martyrium. Buch I-IV Gegen Celsus I , hrsg. v. P. Koetschau (GCS 2), Leipzig 1899; Origenes Werke II , Buch V -VIII Gegen Celsus, die Schrift vom Gebet, hrsg. v. P. Koetschau (GCS 3), Leipzig 1899. 59 Sulla storia dell’edizione degli «Origenes-Werke» e gli echi polemici suscitati dal lavoro di Koetschau come uno dei suoi editori principali, soprattutto da parte di Diels e Wilamowitz, si veda Markschies 2002 e Markschies 2005. 60 BKV (ristampato a cura di Gregor Emmenegger nel 2009).
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buti, anche la critica testuale ha evitato di applicarsi al trattato alessandrino, sebbene questo ne offra indubbiamente motivo61. Peraltro, singoli traduttori come Jay o Oulton, alle prese con un testo non di rado abbastanza ostico, non si sono astenuti dal proporre talora anche osservazioni di natura testuale di cui una futura edizione potrà utilmente giovarsi.
–––––––––––––––––– 61
Si veda, ad esempio, l’isolato intervento di Héring.
CAPITOLO SECONDO
PROSPETTIVE DELLA RICERCA Il discorso sulla preghiera fra vita spirituale e teologia «Una preghiera non è soltanto l’effusione di un’anima, il grido di un sentimento: è un frammento di religione dove si sente risuonare l’eco di un’immensa sequenza di formule» (Marcel Mauss)
1. Per un breve panorama storiografico: le indagini sulla storia della preghiera A giudizio di Marcel Mauss, il noto antropologo e sociologo delle religioni francese, autore agli inizi del Novecento di un’opera rimasta incompiuta dal titolo La prière et les rites oraux, poche letture si rivelano così utili come Orat per affrontare un discorso sulla preghiera 62. L’interesse di Mauss era diretto ad acquisire, in sostanza, una prospettiva metodologica per lo studio delle forme di preghiera, vista da lui eminentemente come un fatto sociale, passando dalle società primitive a quelle più evolute. Benché questo obiettivo sia rimasto allo stato di abbozzo, egli offre considerazioni molto stimolanti sulla tendenziale evoluzione storica dalla preghiera collettiva a quella individuale, che egli credeva di poter rintracciare anche nel mondo biblico e nel primo cristianesimo, senza comunque sposare l’idea di un meccanismo evolutivo a senso unico. D’altra parte, l’apprezzamento rivolto al trattato di Origene era accompagnato in generale da una critica a teologi e filosofi, accusati da Mauss di occuparsi non tanto della preghiera in sé quanto piuttosto dell’idea che essi se ne fanno. Non è fuori luogo partire da queste riflessioni per una breve panoramica storiografica degli studi su Orat, nell’intento di meglio orientare il cammino da percorrere in questa ricerca. È evidente infatti che l’opera di Origene rientra a pieno titolo in quella che si dovrebbe chiamare una «storia della preghiera cristiana», come si ricava del resto anche dai titoli di alcuni tra i primi lavori dedicati ad essa. Grazie al vasto spettro tematico che è oggetto del suo trattato, Origene non si limita a proporre un modello di preghiera in astratto, cioè da un mero punto di vista dottrinale o come elaborazione ideale, ma si richiama anche ad un’esperienza di pre–––––––––––––––––– 62
Cfr. Mauss, 18, nota 33.
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ghiera vissuta, sia quella praticata a livello individuale sia anche quella che si dà in forma comunitaria. In ogni caso, anticipando il tenore più specifico dello scritto, Orat è un testimone prezioso per illustrare le dinamiche di “spiritualizzazione” della preghiera apportate nella sua prassi concreta in seguito all’affermarsi del cristianesimo63. Come si è appena detto, tra gli studi del secolo passato che prendono in esame Orat figurano, in particolare, indagini sulla storia della preghiera agli albori del cristianesimo quali le opere di Eduard von der Goltz (Das Gebet in der ältesten Christenheit, 1901)64 e Otto Dibelius (Vaterunser. Umrisse zu einer Geschichte des Gebets in der Alten und Mittleren Kirche, 1903) 65, in apparenza più fiduciosi di Mauss nel ricostruire le vicende di un fenomeno che per la scarsa documentazione di cui disponiamo, ma soprattutto per la sua stessa natura elusiva – almeno nelle manifestazioni di carattere più individuale – tende a sottrarsi ad una ricognizione storica66. D’altronde, bisognerà aspettare parecchi decenni, per vedere riemergere in qualche articolo di dizionario dei tentativi parzialmente analoghi, cioè volti anch’essi a tracciare un profilo evolutivo della preghiera biblica e cristiana67. Nel contesto degli studi di primo Novecento, Orat è sfruttato, in particolare, da von der Goltz per ricavarne gli indizi di una divaricazione fra la prospettiva filosofica e quella religiosa, riconducendo in sintesi alla prima il discorso elaborato da Origene. Benché questo susciti l’ammirazione dello studioso per la profondità di pensiero –––––––––––––––––– 63 Per un primo orientamento storiografico si veda Berner, Origenes: dopo aver esaminato le interpretazioni sistematiche, egli tratta della ricerca su Origene come maestro di vita spirituale («“Nicht-systematische” oder “mystische” Origenes-Deutungen», pp. 68-84). La migliore sintesi sugli studi novecenteschi è offerta da Alexandre 2006, più specificamente sulla spiritualità origeniana da Kannengiesser. 64 Goltz, 266-278. 65 Dibelius, 23-45. 66 Pur con l’intensificarsi recente degli studi sulla preghiera, la diagnosi di Mauss non ha perso d’attualità: «Quanto alle religioni dell’antichità classica, la letteratura storica sulla preghiera è carente, probabilmente per il fatto che i documenti sono scarsi. Soltanto le religioni semitiche e il cristianesimo fanno eccezione, sia pure per poco. Sono state delle necessità pratiche e di esegesi, nonché dei problemi di rituale e teologia, a stimolare ricerche sulla liturgia ebraica, giudaica, cristiana, ma, per quanto importanti, esse rimangono sempre frammentarie» (pp. 17-18). Di tale consapevolezza metodologica non sembra esservi traccia in Hammerling 2008a (che del resto non cita neppure Mauss). Il curatore fiduciosamente afferma: «The content of prayers reveals the true hearts of the lives and theologies of those who pray. [...] Hence there is a naked honesty about prayer in that it must reveal the depth of the petitioners’ theological positions and religious world views» (p. 12). 67 Mi riferisco, in particolare, agli importanti contributi di Greeven-Herrmann, Severus e Méhat 1986a e 1986b. Non si può peraltro dimenticare il lavoro condotto nella prima metà del secolo scorso da Franz Joseph Dölger per esplorare diverse manifestazioni della preghiera protocristiana e pubblicato principalmente nelle due raccolte enciclopediche ICQUS e Antike und Christentum. Per un bilancio degli studi novecenteschi cfr. Hamman 1999; Freyburger-Pernot; Ostmeyer 2006, 1-29.
Prospettive della ricerca
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mostrata dall’Alessandrino, von der Goltz arriva ad accusarlo di professare un «idealismo» lontano dal semplice evangelo; in definitiva, però, deve ammettere che l’intento di rendere appetibile la preghiera da parte di un pubblico colto è stato pienamente raggiunto da Origene68. Quanto a Dibelius, egli sottolinea la dimensione ecclesiale della riflessione origeniana, che la renderebbe diversa da Clemente Alessandrino, come confermato peraltro dall’importanza assegnata alla preghiera di domanda. Tale riconoscimento rappresenta per Dibelius una concessione all’idea «volgare» di preghiera che urterebbe con lo sforzo di Origene per elaborare il suo paradigma della preghiera spirituale 69. Tende ad allinearsi in parte a questo approccio anche la prima indagine specifica dedicata alla riflessione dell’Alessandrino in quello stesso torno di anni, a cura di Daniel Genet (L’enseignement d’Origène sur la prière, 1903), sebbene tenti di approfondire anche l’esperienza spirituale di Origene, anticipando così l’impostazione di Walther Völker 70. Nella prima parte dell’indagine Genet, invece di ripercorrere l’argomentazione del trattato – uno scritto che considera composto «in fretta» –, si sforza di ricostruire in maniera sistematica la visuale origeniana dell’atto orante71. Affronta perciò i seguenti aspetti: 1. atteggiamento esteriore e disposizioni interiori, 2. oggetto, 3. destinatari, 4. direzione della preghiera, senza farsi scrupolo di utilizzare ugualmente altri scritti dell’Alessandrino al fine di completare l’immagine di Orat. In particolare, fra i diversi tipi di preghiera evocati dal trattato, Genet dedica maggiore attenzione alla «supplica» (e[nteuxi"), mentre tratta abbastanza fuggevolmente l’«orazione» –––––––––––––––––– 68 «Die Absicht des grossen Gelehrten, auch den Gebildeten das christliche Gebet nahezubringen und es ihnen zu einem heiligen und geschätzten Mittel zu machen, gottähnlicher zu werden und Gott näher zu kommen, ist für die Geistesrichtung jener Zeit erreicht und so dürfen wir sagen, dass trotz aller Mängel und Einseitigkeiten Origenes die theologische Aufgabe, die hier für ihn lag, trefflich gelöst hat. Wir sind auch heute in den wesentlichen Punkten noch nicht weiter, als Origenes damals gewesen ist, wenn wir auch eine andere Sprache reden» (Goltz, 278). 69 Dibelius, che rileva anche la preminenza della preghiera di richiesta nel ritratto di Gesù orante (p. 36), ritiene che Origene, al pari del suo maestro Clemente, non riesca a fondare adeguatamente la preghiera (p. 37). 70 Questo smilzo lavoro (una tesi presentata alla Faculté de Théologie Protestante de Paris) non pare aver lasciato molte tracce nella letteratura origeniana, se si esclude l’uso che ne ha fatto, in particolare, Völker. Ringrazio l’amico Harald Buchinger per avermene gentilmente procurato una fotocopia. 71 Per il giudizio sulle caratteristiche letterarie si veda Genet, 5-6: «Le livre du docteur alexandrin, assez court du reste, semble avoir été écrit à la hâte. Le style en est souvent relâché: les obscurités, les répétitions, les longueurs ne font pas défaut». Egli riconduce tali manchevolezze anche all’ “abuso” (!) delle citazioni scritturistiche: «cet emploi vraiment abusif de l’Écriture sainte vient encore ajouter à la lourdeur naturelle du style d’Origène et à l’obscurité de sa pensée» (pp. 66-67).
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(proseuchv)72. Nella seconda parte, poi, egli analizza nelle sue linee essenziali la teologia origeniana della preghiera. Procedendo nuovamente in maniera sistematica, Genet la ricollega alla concezione di Dio come essere trascendente, da ricondurre peraltro al patrimonio filosofico del suo tempo. Tale concezione permea la cornice tracciata da Origene per l’atto orante, laddove esso si esplica in linea di principio come ascensione dell’uomo a Dio. È anche a causa di ciò che Genet, nonostante l’ammirazione per l’Alessandrino, critica Origene per l’eccessivo «spiritualismo» determinato dalla matrice filosofica del suo pensiero73. Ma l’autore stesso sembra avvertire quanto tale conclusione risulti ingiusta nei confronti di Origene. Infatti, Genet completa la sua ricostruzione della visuale origeniana con il riferimento, da un lato, alla Bibbia e, dall’altro, alla pietà personale dell’Alessandrino. Grazie al radicamento nella Scrittura l’Alessandrino è sfuggito al rischio di disfarsi della preghiera di domanda, come sarebbe stato conforme ai suoi presupposti filosofici. A ciò va aggiunto il fatto che Origene era lui stesso un uomo di preghiera, come Genet illustra soprattutto a partire dalle preghiere che ricorrono nelle omelie. Del resto, la spiritualizzazione perseguita dall’Alessandrino va vista anche come reazione alla prassi di preghiera diffusa nelle comunità cristiane del tempo, senza che essa sfoci in una rottura completa con essa74. In tal modo, la breve dissertazione di Genet, non priva ancor oggi di motivi di interesse, disegna un ritratto abbastanza mosso, che colpisce proprio per la moltepli–––––––––––––––––– 72 Genet, 26-31. Pertanto, il privilegio accordato alla proseuchv rimane un po’ enigmatico per l’autore che, a proposito di Orat XIV , 2. 4, osserva: «Il y a donc dans cette prière un élément qui n’est pas une demande, la doxologie ne servant qu’à exalter les magnificences divines, à chanter les louanges du Très-Haut et à proclamer ses bienfaits. Origène insiste au chapitre 14, 4 sur ce caractère doxologique. Par là cette prière se rapproche de la prière d’adoration pure» (p. 26). Inoltre, egli relativizza ulteriormente l’importanza della proseuchv e la distinzione di quattro tipi di preghiera, sforzandosi di raccogliere le tracce di una «preghiera interiore»: «À côté des quatre formes de prières [...], à côté de la notion de la prière qui se confond avec les actes pieux, il y a chez Origène l’idée d’une prière intérieure suivant laquelle le croyant entre directement en communion avec Dieu, sans avoir besoin de lui exprimer verbalement ses désirs» (p. 36). Tuttavia, affrontando successivamente la questione dei destinatari, si sforza di ripensare la natura della proseuchv precisandola in questi termini: «au fond pour notre penseur la proseuchv seule est vraiment une prière, un acte purement religieux et qui ne peut s’adresser qu’à l’Être divin par excellence, à Dieu seul. Les autres prières sont bien au-dessous puisque, au besoin, elles peuvent s’adresser à de simples mortels» (pp. 45-46). 73 Genet, 64: «La notion de la prière a été entièrement transformée par un spiritualisme extrême. La prière a une tendance à devenir une élévation mystique vers un Dieu transcendant, la demande matérielle est exclue, l’exaucement réduit à l’exaucement spirituel s’accomplissant soit par l’ordre providentiel, soit par les êtres intermédiaires, la prière se confondant finalement avec les actes pieux et la méditation intérieure». 74 Genet, 80: «Origène veut rester en contact avec le christianisme populaire de son temps, sans aucune compromission, mais en l’élevant vers une notion plus haute de la prière».
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cità dei suoi contrasti. Pur senza influire direttamente sulle ricerche successive, l’autore anticipa alcuni dei problemi maggiori con cui la ricerca posteriore doveva confrontarsi. 2. Ideale di perfezione e preghiera in Origene secondo Walther Völker Il primo contributo di rilievo arriva quasi un trentennio più tardi con la classica indagine di Walther Völker sull’ideale di perfezione in Origene (Das Vollkommenheitsideal des Origenes. Eine Untersuchung zur Geschichte der Frömmigkeit und zu den Anfängen christlicher Mystik, 1931), ricostruito dall’autore – come è segnalato dal sottotitolo – nell’ambito di un più generale progetto di riscoperta della spiritualità o, per meglio dire, della tradizione mistica (patristica e ortodossa) al quale Völker ha continuato in seguito a lavorare75. Si è già intravisto il giudizio di Völker circa il rapporto fra Orat e i restanti scritti dell’Alessandrino, che concorre anch’esso a rafforzare l’impressione di una certa sua «singolarità» 76. Ma conviene anzitutto richiamare l’attenzione sul procedimento metodico suggerito dall’autore per poter apprezzare con maggior precisione il posto distinto del trattato nell’opera di Origene: uno studio adeguato dovrebbe partire da una conoscenza approfondita dell’insieme dei suoi scritti, capace di avvertire lo «spostamento di accenti» che, ad avviso di Völker, si sarebbe prodotto in Orat. Ugualmente, solo una familiarità con l’intima spiritualità che Origene racchiude dentro di sé permetterebbe di situare in maniera appropriata singole osservazioni che affiorano nel trattato77. Queste indicazioni sono sicuramente giuste in linea di principio e senz’altro condivisibili, ma non escludono – dal mio punto di vista – l’utilità di un approccio circoscritto preliminarmente allo studio di Orat. Del resto, le considerazioni che Völker formula in apertura circa gli esiti contraddittori della ricerca moderna su Origene non tendono di necessità a scoraggiare un’attenzione rivolta all’individualità dei suoi scritti, purché non si pretenda di far valere globalmente i risultati acquisiti attraverso indagini più settoriali78. Ma indubbiamente l’impostazione adottata da Völker intende –––––––––––––––––– 75 76
Un’ampia sintesi del volume si può trovare in Berner, Origenes, 70-74. Cfr. supra, nota 16. L’osservazione riguarda in primis il rapporto fra il trattato e le omelie. 77 Völker, 198: «Erst aus einer Kenntnis des gesamten origenistischen Schrifttums heraus erkennt man diese Akzentverteilung, und erst aus einer Vertrautheit mit dem, was Origenes als persönliche Frömmigkeit in sich geborgen hat, kann man vereinzelte Bemerkungen dieses kleinen Traktates einordnen, gewissermassen ihren geometrischen Ort bestimmen». 78 Il libro si apre con una rassegna storiografica di notevole interesse. Völker evidenzia i risultati contraddittori degli studi moderni, poiché da essi emergono profili e giudizi sull’Alessandrino assai diversi tra loro. Tale contrasto non si spiega solo con la
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sottrarsi a tali rischi, sfruttando a fondo l’opera di Origene nel suo complesso. Al tempo stesso egli cerca di disegnare il profilo del cristiano, senza sacrificare il filosofo, nella convinzione che la sua dottrina possa essere apprezzata più giustamente, solo nella misura in cui al di là di essa emerge l’esperienza religiosa vissuta dall’autore79. Ora, la via che secondo Völker permette di cogliere la personalità religiosa dell’Alessandrino, dentro o dietro l’opera, è quella di uno studio sull’«ideale di perfezione», in concreto sull’imitatio Christi. È a partire da tale prospettiva che Völker, avviandosi a concludere la sua indagine, tratta «l’ideale di perfezione e il suo riflesso nella preghiera e nella “sequela” di Cristo». La preghiera viene qui presentata come il «compendio della ricerca di perfezione»80, ma – diversamente dal modo di procedere di von der Goltz e Dibelius – il pensiero dell’Alessandrino non può essere approfondito adeguatamente, se non si prende in esame anche la persona di Origene come orante. Proprio sotto tale profilo Orat offre, a giudizio di Völker, una visione «tendenziosa» e parziale, dal momento che il trattato sarebbe troppo condizionato da una problematica filosofica 81. Muovendo dal suo spiccato interesse per la spiritualità di Origene e servendosi dei cenni al tema della preghiera contenuti nelle omelie e nei commentari, Völker illustra come prima tappa del cammino di perfezione, comune sia alla preghiera che all’ascesa mistica, la lotta contro il peccato 82. Secondo presupposto di un’autentica preghiera è la liberazione dalle «passioni» (pavqh), che l’Alessandrino illustra particolarmente alla luce di ––––––––––––––––––
diversità dei punti di vista, bensì rimanda alla particolarità degli scritti di Origene: «Die Gründe müssen in der Schwierigkeit der zu behandelnden Materie selbst zu suchen sein, in der Eigenart des origenistischen Schrifttums. [...] Diese Verschiedenheit der origenistischen Schriften hat man nicht immer genügend beachtet. Anstatt Gradunterschiede zu machen, hat man vielmehr alles auf einer Fläche aufgetragen, und hat es vornehmlich weithin an aller erforderlichen Quellenkritik fehlen lassen» (pp. 10-11). 79 Völker, 16: «Von entscheidender Bedeutung ist es nun [...] ob es möglich ist, die religiös-ethischen Triebkräfte zu ermitteln, die hinter jeder Lehrbildung stehen, ja diese überhaupt erst ermöglichen, ob es gelingt, das Innerste einer christlichen Persönlichkeit freizulegen, um sie in ihrer Eigenart zu erfassen und in den Gang der Frömmigkeitsgeschichte einzuordnen». 80 Völker, 197-215 («Das Gebet als Zusammenfassung des Strebens nach Vollkommenheit»). 81 Völker, 198 segnala così i limiti dei contributi di von der Goltz e Dibelius: «sie beschränken sich [...] in dem Abschnitt über Origenes auf eine Analyse von peri euchès, die aber niemals einen Einblick in die Eigenart des Beters Origenes gewähren kann, da sie als Schrift mit bestimmter Tendenz gewisse Gedanken in den Vordergrund schiebt, gewisse geflissentlich zurücktreten lässt». 82 Oltre alle indicazioni offerte al riguardo da Genet, 18, Völker dà risalto a CC VIII 17, ove troviamo l’equazione bwmoiv = hJgemonikovn (tradotto da Genet con «cœur», una resa che Völker giudica – a torto – come non corretta). Su questo punto egli vede la convergenza con Orat VIII, 1: non si dà preghiera «senza una purificazione» (cwri;" kaqareuvsew") preliminare.
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Mt 5, 22-2383, mentre il terzo requisito preliminare è rappresentato dalla concentrazione interiore84. Se tali sono le disposizioni spirituali richieste perché la preghiera arrivi ad essere esaudita da Dio, queste assicurano già di per sé, nella visuale di Origene, un beneficio all’orante, a prescindere dal fatto che la sua domanda sia accolta o meno. Infine, secondo l’intreccio fra libertà e grazia tipico della visione origeniana, a queste disposizioni preliminari, che sono compito dell’uomo, si affianca l’aiuto di Dio mediante il dono del suo Spirito. È questi infatti a pregare per l’uomo e a condurlo nella sua ascesa, come Völker sottolinea con riferimento a CC VII, 44. Se la preghiera è da mettere in rapporto con l’ascesi mistica, anch’essa dovrebbe conoscere una serie di gradi successivi, com’è stato messo in luce da Hugo Koch per lo Pseudo-Dionigi Areopagita85. Ma questa indagine è per Völker del tutto insufficiente, perché non si misura in maniera adeguata con i diversi tipi di preghiera illustrati da Origene86. Egli prende allora come punto di partenza Orat XIV, 2, accostandovi però l’interpretazione di 1Tm 2, 1 fornita dall’Alessandrino in un frammento su Sal 27(28)87. In questo passo, a differenza del trattato, compare una gerarchia ascendente dei diversi tipi di orazione che culmina nel «ringraziamento» (eujcaristiva). Völker respinge qui la tesi di Dibelius, per il quale Origene, diversamente da Clemente, avrebbe privilegiato la preghiera di domanda. Al contrario, tra i due autori vi sarebbero molti punti di convergenza e lo si può dimostrare anche con il fatto che Origene, seguendo in ciò il proprio «maestro», prende ugualmente le distanze dalla prassi di preghiera della comunità88. Quali debbano essere i contenuti della preghiera di ri–––––––––––––––––– 83 84
Völker rimanda qui a Orat IX, 1.3 e al motivo della ajmnhsikakiva. Völker, 201: «Es handelt sich dabei um ein Doppeltes, um das Schliessen der Augen vor dem Draussen, das Eingehen in das Kämmerlein und um das Ausschalten aller dem Gebete widerstrebenden Gedanken im eigenen Inneren». Al riguardo, egli respinge l’interpretazione di Dibelius su CC VII, 44: l’analogia con Celso (CC VII, 36) è solo nel metodo, mentre diversi sono il contenuto, il modo in cui giungere alla concentrazione e gli effetti. Il passo più ricco in Orat è XX , 2 (al quale Völker accosta FrPs 4, 4 [nota 1478]: th;n quvran tw'n aijsqhthrivwn ajpokleivsa"). 85 Secondo Koch 1905 si può parlare tutt’al più di abbozzi in tal senso presso l’Alessandrino (con riferimento a Orat IX , 2; X, 2). Nella sua precedente indagine sulla «teoria della preghiera» dello Pseudo-Dionigi (cfr. Koch), egli aveva segnalato il fatto che in Origene mancano «die bewusste Formulierung der Gebetsstufen, näherhin die Theorie von den drei Etappen, in denen nach Ps.-Dionysius das Gebet fortschreitet» (p. 595). 86 Völker, 202: «Es kommt auf ein möglichst präzises Erfassen der einzelnen Gebetsformen an, die Origenes unterscheidet, auf ihre Anordnung und auf ihre Parallelisierung mit dem mystischen Aufstieg». 87 FrPs 27 (28), 2 (PG 12, 1285A-C [nota 1353]). 88 A conferma del contrasto con le attese dei semplici fedeli, Völker, 204-205 cita HIer XVII, 6 (infra, nota 1112), dove Origene condanna la richiesta che sia prolungata la vita, perché estranea alla prospettiva dei beni spirituali: «Das Bittgebet hat also als Inhalt die Befreiung von der Welt oder – positiv ausgedruckt – den Erwerb himmlischer Güter».
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chiesta Origene lo precisa in un frammento delle Omelie su Luca, dove difende l’idea che la preghiera formulata correttamente verrà esaudita89. Analogamente a Clemente, l’oggetto proprio della preghiera è quindi per Origene l’acquisizione della gnw'si" e la crescita nelle virtù90. Un altro aspetto che segnala la diversità di Orat è dato per Völker dal fatto che tace riguardo alla preghiera silenziosa, oggetto invece di riflessione per Origene in altri scritti, a partire da 1Cor 14, 15 («Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelligenza; canterò con lo spirito, ma canterò anche con l’intelligenza»). Il «pregare con lo spirito» è interpretato dall’Alessandrino come la preghiera vocale, per l’edificazione degli altri, mentre il «pregare con l’intelligenza» rinvia alla preghiera silenziosa91. Senza tener conto della giustificazione paolina – che aiuta a comprendere come in Origene la preghiera silenziosa sia fondamentalmente quella nello Spirito –, Völker insiste eccessivamente sulla sua dipendenza, anche in questo caso, dal «maestro» Clemente e soprattutto sul fatto che ciò infirmerebbe nuovamente la rappresentatività di Orat: anziché prenderlo come un trattato sistematico sulla preghiera, esso va visto semmai come «uno scritto di occasione» 92. D’altra parte, l’insistenza di Völker sulla preghiera silenziosa si spiega in relazione all’idea che – come «preghiera del cuore» – essa rappresenta un gradino ulteriore verso l’esperienza mistica. Anzi quella conduce a questa, nella misura in cui la «preghiera del cuore», operando un trascendimento del corpo e della realtà sensibile, sfocia nell’unio mystica. A sostegno di ciò, dopo avere dapprima introdotto HNm XI , 9 e ancor più CC VII, 44, Völker non può non richiamarsi soprattutto a due luoghi di Orat ( IX, 2 e X, 2), nel secondo dei quali riconosce, in particolare, il vertice della «vita di preghiera» secondo Origene93 . A questo grado più elevato della preghiera viene –––––––––––––––––– 89 90 91
FrLc 183 su Lc 11, 9 (pp. 359-360 e note 1084-1086). Egli mette qui a confronto Strom. VII, 7, 38, 4 con CC III, 64. Völker si sofferma, in particolare, su HNm X , 3, 3 (nota 1113). Per altri passi Völker rimanda a FrPs 4, 4 (note 1477-1478); HNm XI, 9 (nota 1094); ma si veda anche HEz II, 3 (nota 1093). Anche su questo punto Origene avrebbe imparato dal suo maestro Clemente (cfr. Strom. VII, 7, 39, 6; 7, 43, 5). Occorre comunque notare che in Clemente la preghiera silenziosa non viene giustificata in riferimento a 1Cor 14, 15, mentre in Origene la preghiera è tale, perché è lo Spirito che parla nei santi, come opportunamente richiamato da Le Boulluec 2003, 402 (si veda anche infra, pp. 466-475). 92 Völker, 208, nota 1: «In peri euchès wird es [scil. la preghiera silenziosa] übrigens nicht erwähnt, bzw. undeutlich an zwei versteckten Stellen, ein Zeichen, wie wenig es dem Origenes in dieser Gelegenheitsschrift darauf ankam, eine systematische Darstellung seines Gebetslebens zu geben und wie vorsichtig man mit allen Urteilen sein muss, die sich nur auf diese Schrift stützen». 93 Völker, 209: «Wir haben es also hier mit einer hoechsten Aufgipfelung des origenistischen Gebetslebens zu tun, das Herzensgebet muendet in die unio mystica ein». Egli accosta ai due luoghi del trattato origeniano Clemente Alessandrino, Strom. VII , 49, 4 (166): Dia; touvtwn eJauto;n eJnopoiei' tw/' qeivw/ corw/', ejk th'" sunecou'" mnhvmh" eij" ajeivmnhston
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meno la preghiera di richiesta e si manifesta una preghiera di adorazione insieme alla visione di Dio. Völker accosta così a Orat IX, 2 – dove Origene commenta 2Cor 3, 18 («E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore») – il passo di CIo XXXII, 27, che introduce lo stesso versetto riferendolo analogamente alla visione deificante. Riunendo questi diversi aspetti in una considerazione conclusiva sulla prospettiva, ad un tempo, orante e mistica di Origene, Völker ritiene che egli abbia disegnato nei suoi tratti costitutivi un’esperienza religiosa di trascendimento del mondo, suscettibile di condurre, in questo senso, ad una vera e propria esperienza «estatica»94. Non sfugge la ricchezza dell’analisi proposta da Völker (che si sofferma ancora su altri aspetti, ad esempio il tema della «preghiera ininterrotta» in conformità al precetto paolino di 1Ts 5, 17)95. Essa risulta però troppo condizionata da un “pregiudizio” su Orat, salvo poi fare proprio del trattato il cardine dell’argomentazione a sostegno dell’esito «mistico» della preghiera, come sarebbe tracciata dalla prospettiva origeniana (benché ci si possa chiedere fino a che punto l’asserito sbocco mistico e «deifico» fuoriesca dai limiti della «mistica» neotestamentaria)96. Paradossalmente l’interpretazione di Völker, preoccupato originariamente di riscoprire la spiritualità specificamente cristiana di Origene, finisce, in un certo senso, per rendere l’Alessandrino più «filosofico» e speculativo di quanto forse egli desideri essere. Peraltro lo studioso tedesco non arriva a riconoscere ––––––––––––––––––
qewrivan ejntetagmevno"; ma in questo passo più che sull’unio mystica il discorso verte semmai sulla preghiera ininterrotta. 94 Völker, 210: «Aus dem allen folgt, dass Origenes im inneren Gebet einen Zustand andeuten wollte, in dem der Mensch, erhaben über den Leib und die störende Sinnenwelt, in völliger Konzentration auf das Göttliche, in schweigender Betrachtung der Gnosis teilhaftig wird und die umgestaltende Wirkung dieser Schau an sich erfährt. Der Gedanke, dass hier eine Parallele zur Ekstase vorliege, ist naheliegend, und er wird über den Bereich einer blossen Vermutung durch die Parallele von Joh. Comm. XXXII 27 und peri euchès 9, 2 hinausgehoben». 95 Secondo Völker, 218, Origene ha fornito al riguardo tre diverse spiegazioni: «Zunächst deutet er das ständige Gebet auf das innere, wortlose Gebet, auf die mystische Versenkung, sodann sieht er im übertragenen Sinne in den einzelnen Taten des Frommen Gebete, so dass dieser auf diese Art die Forderung des Paulus erfülle»; inoltre, «eine dritte Erklärung des ständigen Gebetes gibt Origenes ebenfalls in peri euchès, indem er eine Kombination von mündlichen Gebet und Tat fordert» (p. 213). In tal modo, se l’ideale origeniano di perfezione è caratterizzato dalla dualità di theòria e praxis, altrettanto va detto della sua vita di preghiera. 96 È rivelatrice la precisazione contenuta in FrLc 174 (300, 13-14), su Lc 11, 2, a proposito della condizione di «figli di Dio’ e della preghiera rivolta a lui come Padre: oujk eij" fuvsin hJma'" ajnavgwn qeou', ajlla; cavrito" metadidou;" kai; to; eJautou' ajxivwma hJmi'n carizovmeno".
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che gli elementi «filosofici» del trattato non sono dati unicamente dagli aspetti speculativi, bensì anche da quei tratti che si configurano, secondo studi più recenti, precisamente nella forma degli «esercizi spirituali» della filosofia antica. In ogni caso, si tratta di una ricostruzione che sembra attutire fortemente la dimensione «agonica», strettamente legata anche all’immagine della preghiera in Origene, assimilandolo eccessivamente anche a causa di ciò all’approccio distinto di Clemente Alessandrino. 3. Nuovi approfondimenti: preghiera e «immagine di Dio» L’indagine di Völker è rimasta un punto di riferimento per quanti come lui si sono sforzati di riproporre l’immagine di un Origene «mistico», ma essa ha suscitato anche reazioni e distinzioni di segno diverso97. Pochi anni dopo Aloisius Lieske dedicava a sua volta una monografia alla «mistica del Logos» nell’Alessandrino (Die Theologie der Logosmystik bei Origenes, 1938). A Völker egli riconosce il merito di aver fatto ricorso all’esperienza spirituale di Origene per illustrarne l’ideale di perfezione, ma gli rimprovera al tempo stesso di essere rimasto troppo condizionato da questo approccio sopravvalutando il dato esperienziale, senza includere così un’adeguata considerazione dell’orizzonte dogmatico dell’Alessandrino98. Lieske rivaluta a tal punto l’ottica teologico-dogmatica della comunione mistica con il Logos, in quanto espressione coerente della «teologia trinitaria della grazia», da mettere in dubbio che si possano supporre esperienze di natura estatica in Origene 99. La mistica del Logos è stretta–––––––––––––––––– 97 Kannengiesser, 14 le riassume così, tenendo soprattutto presente la questione su Origene “sistematico”: «Walter Völker’s remarkable essay [...] also reacted against de Faye and other proponents of Origen’s system, but with a notion of spiritual perfection filled with Lutheran piety and, as Urs von Balthasar would later observe, with a complete lack of ecclesiology. Against Völker’s loose collection of spiritual attitudes and themes, supposedly representing Origen’s thought, Hal Koch responded almost immediately in 1932 with his book, Pronoia und Paideusis, emphasizing Stoic and Middle Platonic structures in Origen’s systematic coherency. In 1949, Hans Jonas also responded to Völker with a vigorous article on Origen’s mysticism, Die origenistische Spekulation und die Mystik. In 1951, Endre von Ivanka added some complementary remarks, Zur geistesgeschichtlichen Einordnung des Origenismus; and finally, in 1966, Franz Heinrich Kettler, in a very original essay, claimed to have isolated the genuine principle of Origen’s thought, Der ursprüngliche Sinn der Dogmatik des Origenes». Sugli sviluppi successivi si veda anche Monaci Castagno 1997, 126-127. 98 Lieske, 9: «So überaus wertvoll nun Völkers Arbeit dadurch ist, daß sie Origenes’ Frömmigkeitsleben für die Beurteilung seiner Vollkommenheitslehre bewußt verwertet, so gerät doch auch seine Darstellung gerade dadurch in eine nicht geringe Krise, daß sie zu sehr beim Erlebnismäßigen stehenbleibt und vor lauter Zurückhaltung gegenüber allem Dogmatischen Origenes zu wenig innerhalb seiner eigenen dogmatischen Theologie wertet». 99 Berner, 75 ritiene che in tal modo Lieske si «sia spinto troppo in là».
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mente collegata in lui all’antropologia teologica e alla dottrina della grazia che sono entrambe contraddistinte dall’idea dell’immagine di Dio nell’uomo. Resta ad avviso di Lieske la tensione, se non la «crisi», del modello elaborato da Origene in rapporto alla dimensione sociale, ma nonostante questa polarità con la mistica individuale egli è disposto a riconoscere all’Alessandrino lo sforzo per integrare fra loro l’aspetto personale e quello comunitario. Coniugando in tal modo momento sistematico e prospettiva della frattura, il lavoro di Lieske sembra fare da ponte tra le due diverse impostazioni della ricerca origeniana, anticipando l’approccio «asistematico» che si è andata diffondendo nel secondo dopoguerra 100 . In effetti questa linea interpretativa è stata fatta propria dagli studiosi francesi impegnati nel ressourcement patristico, tra i quali emergono soprattutto Henri de Lubac e Henri Crouzel. Il primo, nel fondamentale lavoro sull’ermeneutica biblica origeniana (Histoire et Esprit. L’intelligence de l’Écriture d’après Origène, 1950), simpatizza con la reazione di Völker all’interpretazione intellettualistica e sistematica dell’Alessandrino, ma si avvicina maggiormente alle posizioni di Lieske, anche per effetto del suo legame con Hans Urs von Balthasar, teologo svizzero che ha concorso in maniera decisiva alla riappropriazione teologica ed ecclesiale di Origene nel corso del Novecento101 . Nell’approfondire a sua volta il rapporto tra fede e gnosi in Origene, Crouzel ha messo in luce la connotazione «mistica» della conoscenza nella quale la fede trova il suo perfezionamento102. Di fatto il suo discorso verte, con de Lubac, più sul senso –––––––––––––––––– 100 Pur vedendo in Lieske la «variante cattolica» di Völker, Berner, 75 apprezza la sua posizione di sintesi: «Mit seinem Insistieren auf den logischen und dogmatischen Zusammenhängen scheint Lieske der systematischen Origenes-Forschung näherzukommen. Durch seine Abwendung von de Faye und Koch, durch die Betonung der kirchlichen Bindung und die Berücksichtigung der Homilien bleibt er aber mit der Tendenz Völkers verbunden und ordnet sich in die “nicht-systematische” Forschungstradition ein. Mit den Begriffen der “Krise” und der “Spannung” hat Lieske Beschreibungskategorien gefunden, die vielleicht noch unausgeschöpfte Möglichkeiten implizieren, zugleich den hypothetisch-wissenschaftlichen Charakter des origeneischen Systems, also den Geist seiner Forschung, und seine ungebrochene Bindung an das kirchliche Christentum zu beschreiben». 101 Non a caso, tra i primi titoli di «Sources Chrétiennes», la collezione che sorregge il programma di “ritorno alle fonti” dei Padri, figurano le Omelie sulla Genesi di Origene. Nella Prefazione de Lubac vi ricostruiva, fra l’altro, le vicende della fortuna dell’Alessandrino fino all’età moderna (SC 7, 5-62). Sull’approccio di de Lubac, segnato dallo stretto rapporto di Origene con il mistero cristiano e dalla sua appartenenza ecclesiale, cfr. Berner, 77-80; più in generale, sul ruolo avuto dai protagonisti del ressourcement nella riscoperta di Origene, si veda Kannengiesser e Alexandre 2006. 102 Crouzel 1961, 450: «En quoi consiste donc la connaissance et en quoi est-elle un progrès sur la foi? Dans une évidence plus grande, dans la perception directe des réalités mystérieuses par les sens spirituels. L’âme sent la présence du Verbe et du Père en ellemême. Les rapports de la foi avec la connaissance ne se comprennent que si cette dernière est une véritable expérience de Dieu présent dans l’intelligence» (cfr. anche Crouzel). Berner, 80 riconosce in questi termini l’apporto di Crouzel: «Sein eigenster positiver Bei-
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del mistero cristiano e sulla sua centralità in Origene, mentre approfondendo l’approccio di Lieske considera il rapporto dell’uomo con Dio nella visione dell’Alessandrino come determinato essenzialmente dalla «teologia dell’immagine» 103 . Tuttavia, proprio a causa del nesso tra fede e gnosi si è preferito parlare, un po’ paradossalmente, a proposito di Origene – come ha fatto, ad esempio, Jean Daniélou –, di una «mistica della luce» o di una «mistica intellettuale»104 , laddove l’Idealtypus più vulgato dell’esperienza mistica indurrebbe semmai a pensare all’unione dell’anima con Dio come momento di «tenebra» o «oscuramento» dell’io. Ora, l’incongruenza nell’applicare categorie che si rivelano problematiche sotto questo o quell’aspetto ci invita a considerare piuttosto quegli apporti degli studi che si sono concentrati sull’analisi del nostro trattato. I nuovi approfondimenti sono venuti per lo più da singoli contributi circoscritti, fatta eccezione per la traduzione di Eric George Jay (Origen’s Treatise on Prayer, 1954) e la successiva monografia di Wilhelm Gessel (1975). Senza ripercorrere adesso nei dettagli la storia della ricerca più recente (a dire il vero, non troppo abbondante di studi per Orat o, in generale, sul tema della preghiera nell’Alessandrino), conviene menzionare almeno quei contributi che hanno introdotto nuovi spunti di analisi o suggerito piste di ricerca meritevoli di approfondimento. Abbiamo già avuto modo di osservare come il lavoro di traduzione si è spesso rivelato importante per comprendere un testo difficile quale è Orat. Fra le numerose versioni in inglese, ciò vale in special modo per la ––––––––––––––––––
trag zu der durch Völker eingeleiteten Forschungsrichtung ist in dem Werk über Origenes und die mystische Erkenntnis enthalten, in dem er die subjektiven Bedingungen des Erkennens, den moralischen und asketischen Aspekt beschreibt, nachdem er in seinem ersten großen Werk die Metaphysik des erkennenden Subjekts dargestellt hatte». Dillon 228-229 fa proprie le conclusioni di Crouzel, osservando che la visione di Dio, diversamente da Plotino, non è possibile all’uomo finché è in vita: «The term which best expresses the sort of direct intellectual contact envisaged by Origen for the beatific vision to be enjoyed by the saints after death is prosbolhv, but the significant thing here is that this same term is used by Plotinus, along with ejpibolhv and ejpafhv, for the sort of sopranoetic contact which is attainable in the nou'" while still in the body. [...] I think, that for theological reasons he denied that the human soul or mind, while still in the body, could achieve the equivalent, in Platonic terms, of looking directly at the sun». Tra i luoghi origeniani l’autore segnala Orat XXV , 2 (358, 11-12): oJ nou'" prosbavllei cwri;" aijsqhvsew" toi'" nohtoi'" (cfr. infra, nota 657). 103 Cfr. Berner, 82: «Die Einheit im origeneischen Werk findet er nicht in einem rationalen System, sondern in einer theologischen und spirituellen Synthese, zentriert um das Thema des Abbildes Gottes, einmal als Zentrum der Christologie, dann der Anthropologie». 104 Daniélou 1948, 287-301, in part. p. 291: «C’est plus une mystique spéculative de l’illumination de l’esprit par la gnose qu’une mystique expérimentale de la présence du Dieu caché saisi dans l’obscurité par le toucher de l’âme». La sua analisi si basa principalmente su HNm XXVII e CCt nonché sul confronto con Gregorio di Nissa come l’autore di derivazione origeniana che per primo ha fondato la teologia mistica. Cfr. anche Louth, 102-104; McGinn, 108-130.
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traduzione di Jay che è corredata da un ampio saggio introduttivo e da sostanziose note di commento. L’intento del traduttore, conformemente del resto alla tendenza sviluppatasi a partire da Völker, è stato di saldare fra loro i punti di vista differenti che spesso accompagnano il giudizio sul trattato facendo conoscere la figura di Origene come «uomo di preghiera» accanto al «filosofo» e al «teologo». Per realizzare il suo obiettivo, Jay rivisita anzitutto la vicenda storica della preghiera dalle origini del cristianesimo fino ad Origene105. In questo quadro sottolinea la continuità fra la visione dell’Alessandrino e il dato neotestamentario, soprattutto per quanto riguarda due aspetti caratteristici dell’esperienza e della riflessione primitive sulla preghiera: l’assistenza dello Spirito all’orante e l’intermediazione esercitata da Cristo 106 . Se all’interno del più ampio panorama dei primi secoli spicca il profilo particolare delle elaborazioni alessandrine sulla preghiera, grazie alle due trattatazioni di Clemente e Origene, Jay si premura anche, in maniera a dir vero felice, d’illustrare le loro premesse nella letteratura protocristiana. Ci aiuta così a ricollocare la riflessione di Origene in una tradizione di pensiero che vede, fra l’altro, prima di lui il significativo intervento di Giustino, il quale invita già a pregare, come poi insisterà l’Alessandrino, anzitutto per i beni celesti107. Ma più dell’apologista è Ireneo a proporre una dottrina che prospetta l’intera vita del cristiano nel segno di una preghiera ininterrotta, in quanto consapevole della presenza di Dio e della possibilità di comunione con lui. Anche le espressioni pubbliche del culto nei momenti liturgici, per il vescovo di Lione, –––––––––––––––––– 105 La traduzione è preceduta da due ampie sezioni: I . «La preghiera nella chiesa primitiva»; II. «Origene». Nel tracciare brevemente l’esperienza e la riflessione sulla preghiera nella chiesa primitiva Jay ricorda come il Nuovo Testamento «is the literature of a community for whom prayer was an essential part of life» (pp. 3-4). In questi scritti prevale comunque l’esperienza sulla riflessione, benché cominci a disegnarsi una teologia della preghiera. Paolo ne fornisce un elemento importante indicando la novità della preghiera cristiana in forza della cooperazione dello Spirito (cfr. Gal 4, 4-7; Rm 8, 26-27). A questo tema si aggiunge l’assistenza del Cristo risorto, un tema che la Lettera agli Ebrei sviluppa particolarmente con il motivo di Gesù Cristo come Sommo Sacerdote. 106 Jay, 6: «The secret, then, of the joyous and confident prayer of Christians of the first century is their faith that the Holy Spirit, the Spirit of Christ’s own Sonship, was in their hearts, prompting their words, and their knowledge that Jesus Christ, risen, ascended, glorified, was praying with them». 107 Anche presso gli Apologisti non mancano riferimenti all’importanza della preghiera. Per le sue stesse caratteristiche di calma e semplicità, la preghiera dei cristiani è presentata come superiore a quella delle altre religioni. Un ulteriore argomento apologetico è offerto dal fatto che i cristiani pregano per i propri persecutori. Secondo Jay la concezione più profonda della preghiera è espressa da Giustino, che conosce la preghiera di lode, ringraziamento, intercessione e petizione. Oltre ad indicare la necessità di pregare anzitutto per i beni celesti, egli intravede anche il tema della correlazione fra preghiere e opere. Tuttavia, Giustino non arriva a proporre una vera e propria dottrina della preghiera, diversamente da quanto avviene con Ireneo (cfr. al riguardo Perrone 2009b e infra, pp. 515-516).
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non fanno altro che rendere esplicita la struttura costitutiva della vita cristiana in unione con Dio, nell’intreccio costante fra la preghiera personale e la preghiera comunitaria108 . Quanto a Tertulliano, pur presentando lo stesso ventaglio dei tipi di preghiera sui quali si articolerà la riflessione di Origene, Jay sottolinea l’assenza di aperture mistiche paragonabili a quelle di Clemente e Origene109. La premessa più prossima a Orat nella prima letteratura cristiana è, come sappiamo, la trattazione di Clemente Alessandrino nel VII libro degli Stromati, che Jay considera la prima espressione organica di una dottrina cristiana della preghiera. Egli traccia dunque anzitutto il quadro generale dell’ideale cristiano di Clemente, caratterizzato da un forte intellettualismo. Nondimeno, la dinamica insita in esso previene un esito troppo rigido in tal senso, poiché il movimento dell’esistenza cristiana procede sì dalla «fede» (pivsti") alla «conoscenza» (gnw'si"), ma per culminare paolinamente nell’«amore» (ajgavph). Nella visione di Clemente la preghiera è in primo luogo la consapevolezza della «costante compagnia di Dio»110. Egli tradisce invero qualche difficoltà a raccordare le proprie idee circa la preghiera dello gnostico con quella del cristiano ordinario. Alcuni passi fanno pensare ad un’arroganza, ad un senso di superiorità del «perfetto», ma Clemente ritiene comunque che lo gnostico debba condividere le devozioni del cristiano comune, sia pure per spirito di condiscendenza. Approfondendo i tratti caratterizzanti la preghiera dello gnostico Jay vi osserva come sue note dominanti la lode e il ringraziamento, mentre sono pochi i cenni alla preghiera di confessione, un tratto peraltro scarsamente presente anche negli autori precedenti. Ciò dipende evidentemente dal presupposto che lo gnostico abbia già raggiunto un grado di perfezione tale da essere (per quanto è possibile nella carne) in uno stato di virtù. Quanto poi alla preghiera d’intercessione e di petizione, si potrebbe dubitare che una visione intellettualistica come quella di Clemente lasci ancora spazio alla richiesta. Al contrario, Clemente non avverte contraddizioni in pro–––––––––––––––––– 108 Jay, 17: «Irenaeus’s meaning appears to be that the offerings made by Christians at the altar in the Eucharist must be thought of as particular and explicit expressions of what is implicit in the whole Christian life, namely service of God, without intermission directed to Almighty God in heaven. The life of the true Christian is a life in which prayer and service are woven together, and in which specific acts of public worship, as in the Eucharist, complete the pattern». Sull’idea ireneana di preghiera, in relazione al Padrenostro, si veda adesso Prudhomme. 109 Jay, 25: «we find none of the mysticism which we are to meet in certain formes in the Christian Platonists of Alexandria». Per un riesame del rapporto con Origene, si veda infra, pp. 516-530. 110 Traendo spunto da Protr. X, 100, 3-4, Jay, 28 rileva, fra l’altro, il suo statuto di preghiera silenziosa: «true prayer [...], according to Clement, is a constant intercourse with God. But God is a God who knows and perceives all things, and thoughts as well as words. [...] Thus prayer is expressed in the Gnostic’s thoughts rather than by words».
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posito e le dedica ampio spazio. Se in ciò si avvicina alla preghiera tradizionale, egli se ne allontana nuovamente in seguito alla convinzione, giudicata da Jay un poco «ingenua», che la preghiera dello gnostico sia sempre esaudita111 . Peraltro Clemente si è posto anche il problema delle preghiere degli indegni, prendendo atto che talvolta esse vengono ascoltate da Dio. A chi gli obietta ciò replica, ricordando che queste preghiere non procurano reali vantaggi agli empi, o che esse vengono accolte a beneficio di altri. La conclusione di Jay smorza comunque ancora una volta l’accusa di «intellettualismo», avvicinando maggiormente l’esperienza di preghiera di Clemente a quella del comune cristiano112 . La successiva presentazione di Origene si commisura da vicino al ritratto di Clemente, sforzandosi di stabilire i punti di contatto e le distinzioni fra i due autori. Jay rileva preliminarmente due tratti caratteristici della dottrina origeniana: da un lato, Origene si presenta ai suoi occhi come il fedele continuatore di Clemente e al pari di questi fa professione di un misticismo intellettualistico; dall’altro lato, però, egli appare più attento alle esigenze del cristiano comune e in Orat vi è un buon numero di consigli che un principiante potrebbe trovare pratici e giovevoli per la sua vita di devozione. Anche Jay discute ampiamente in che misura sia possibile accettare la tesi di Völker sul misticismo di Origene, ricordando però con Daniélou come al terzo stadio della conoscenza, prefigurato dall’Alessandrino specialmente nel Commento al Cantico dei Cantici – vale a dire la theologia, dopo l’etica e la fisica –, manchi del tutto la componente dell’oscurità divina già presente in Filone e sviluppata ampiamente da Gregorio di Nissa, che sarebbe a suo giudizio il vero iniziatore della mistica cristiana. Origene resta insomma sempre legato alla prospettiva di un rapporto con Dio mai separabile dalla «gnosi». Coerente con questo atteggiamento è l’assenza di tratti panteistici o della quiete mistica: l’anima è sempre dotata del libero arbitrio e, come tale, può decidersi sia per il bene che per il male. La miglior conferma di ciò viene, del resto, dal testo di Orat, dove Origene si basa poco su temi mistici; anzi, Jay parla espressamente del «carattere non mistico» del trattato e ne apprezza le sue qualità pratiche che lo rendono come tale una preziosa guida all’ars orandi 113 . –––––––––––––––––– 111 Jay, 32: «The success which invariably attends the prayer of the true Gnostic depends on the refined nature of his prayer». 112 Jay, 34: «Enough has been said to show that in spite of the tendency towards an intellectual mysticism in Clement’s doctrine of prayer, he still regards it, for a great part of the time, as does the “average” Christian, as the converse of the soul with God, expressing its wonder at God’s greatness in praise, its gratitude for God’s goodness in thanksgiving, its sense of unworthiness in confession, and its needs in petition». Sulla dottrina eucologica di Clemente si veda infra, pp. 530-545. 113 Jay, 68: «This treatise is a thoroughly practical guide to the practice of prayer, setting forth instruction on the proper disposition of the mind in preparation, the division
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4. Retorica e teologia nell’interpretazione di Wilhelm Gessel L’accresciuto interesse per il trattato origeniano durante gli ultimi tre decenni è testimoniato anzitutto dalla bella monografia di Wilhelm Gessel (Die Theologie des Gebetes nach «De Oratione» von Origenes, 1975), il quale ha accompagnato questo primo studio organico, dopo l’operetta di Genet agli inizi del secolo, con altri contributi destinati a discutere singoli aspetti dello scritto114 . L’organicità dello studio di Gessel è conseguenza del suo sforzo di rintracciare a tutto campo la «teologia della preghiera» di Orat, con esclusione tendenziale dei restanti scritti di Origene, o meglio evitando di ricorrere specialmente alle omelie nella convinzione che Orat costituisca una «grandezza autonoma» 115 . Questa scelta – legittima ma, a mio avviso, non interamente sostenibile – è accompagnata da una importante dichiarazione di metodo che prefigura, per così dire, una riaggregazione sistematica del materiale sparso nello scritto origeniano ai fini di enuclearne la logica interna116 . Sebbene l’autore sia di formazione un teologo, egli offre nel primo capitolo un’analisi particolarmente interessante e innovativa circa gli aspetti «formali e letterari» dello scritto, dai quali trae peraltro una conferma cruciale per l’assunto dell’individualità di Orat. Tale approccio, meritorio anche solo per la rarità delle indagini a questo livello, ci aiuta a capire l’impegno particolare che Origene ha profuso nel comporre la sua opera. L’Alessandrino vi adotta tendenzialmente, secondo Gessel, un registro stilistico alto, reso evidente dalla maggiore ricercatezza formale dello scritto in tono con il suo contenuto difficile ed elevato e con le aspettative di un pubblico scelto. Più che i tratti di stile riconducibili al genere epistolare – che appaiono meno persuasivi, anche per il fatto che la «lettera» come genere rinvia ad una categoria inevitabilmente troppo vaga117 –, Gessel indica semmai una pista di ricerca su––––––––––––––––––
of prayer into praise, thanksgiving, confession, and intercession, the proper posture, place, and times for prayer, as well as a detailed commentary on the Lord’s Prayer». 114 Cfr. Gessel 1977; Gessel 1980; e Gessel 1981. 115 Gessel, 10: «Zur Rechtfertigung dieser Beschränkung auf den Gebetslogos sei zunächst darauf hingewiesen, daß das Gebetswerk eine eigenständige Größe darstellt, die nicht leichtfertig in die sonstigen Äußerungen des Origenes zum Thema Gebet und vor allem nicht in den Rahmen der zahlreich überlieferten origeneischen Gebete hineingepreßt werden sollte». 116 Gessel, 10: «Danach ist das Werk “Vom Gebet” sorgfältig zu sezieren. Die so eruierten Teile müssen gesammelt, nach logischen Gesichtspunkten geordnet und in ein System gebracht werden. Es muß dabei der Blick auf das Ganze des Autors und auf den Zusammenhang gerichtet sein, dem der Teil entstammt». 117 Lascia perplessi il fatto che l’indirizzo a Taziana con l’allusione a Gn 18, 11 (Orat II, 1) sia interpretato alla lettera (sic!) e venga così paragonato alla formula valetudinis della topica epistolare: «Gerade in der lebhaften Anteilnahme des Origenes am körperlichen Wohlsein der Adressatin, an den Dingen, die sie ganz persönlich betreffen, zeigt sich der philophronetische Charakter der formula valetudinis» (ibi, 74). Il suo significato
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scettibile di sviluppo con il suo tentativo di assegnare il trattato al genus deliberativum. Quantunque il modello del discorso politico davanti all’assemblea, secondo i dettami dell’antica retorica, possa a prima vista sconcertare, il suggerimento di Gessel si presta utilmente ad intendere Orat come «discorso protrettico»: infatti, se nel genus deliberativum si trattava di persuadere o sconsigliare da un’azione futura, in Orat l’Alessandrino cerca appunto d’inculcare la pratica della preghiera liberandosi così di un atteggiamento critico nei suoi confronti118 . Restando ancora sul piano dell’analisi letteraria, si deve apprezzare lo sforzo di Gessel per porre in luce la struttura del trattato, argomento che ha suscitato in genere molti interrogativi e attirato anche di recente vari interventi. Analogamente ad altri critici Gessel prende dapprima atto della natura apparentemente disordinata e composita del trattato, a prescindere dalle indicazioni fornite da Origene quanto alle sue intenzioni letterarie. In questo senso Orat offre l’impressione di due, se non tre, saggi distinti accorpati in un’unica opera. Tuttavia, la fisionomia unitaria dello scritto emerge con più chiarezza per via indiretta, nella misura in cui, oltrepassando le stesse indicazioni compositive dell’autore (che mostra comunque di voler realizzare, almeno in linea di principio, un’opera coerente e compatta), si arriva a cogliere il dinamismo concettuale che conferisce unità al trattato. Da questo punto di vista Gessel, introducendo nuovamente uno spunto di riflessione di notevole interesse, parla dell’argomentazione di Origene come di un procedimento condotto non tanto attraverso una costruzione sistematica bensì per associazione di idee che si polarizzano attorno a nuclei concettuali119. Egli giunge allora a proporre un profilo più ––––––––––––––––––
è ben illustrato da Monaci Castagno 1997, 118, nota 7: «Sullo sfondo della frase è presente quell’esegesi origeniana che vede in Sara la figura della virtù di cui l’uomo saggio deve ascoltare sempre i consigli (HGn VI, 1); in quanto virtuosa, Taziana si è spogliata degli elementi femminili e si è “virilizzata”». Cfr. anche HGn VIII, 10 (85, 18-20): «Si ergo deficiant muliebria fieri in anima tua, generas filium de coniuge tua, virtute et sapientia, gaudium ac laetitiam». 118 In proposito si veda Perrone 1997. È sorprendente come Gessel non avverta mai il bisogno di richiamare termini di confronto della tradizione filosofica, ma egli avrebbe potuto servirsi anche di scritti cristiani come l’Ad martyras di Tertulliano, che è ad un tempo una lettera e un protrettico. 119 Gessel, 45: «Freilich wäre es verfehlt, bei Origenes’ Ausführungen den strengen Maßstab und das klare Ordnungsprinzip der auf Aristoteles zurückgehenden und im 12. Jahrhundert entwickelten Methode der scholastischen Quaestio disputata voraussetzen zu wollen. Vielmehr schätzt Origenes die Assoziationsmethode, die dem entgegenkommt, der seine Gedanken in kurzer Zeit niederzulegen sich veranlaßt sieht». L’osservazione coglie indubbiamente nel segno, senza dimenticare però come Origene a volte dia prova di saper argomentare in maniera ben più strutturata dal punto di vista formale (si veda, ad esempio, Perrone 1992a). Del resto, basta mettere a confronto EM con Orat per capire dove effettivamente il «metodo associativo» lascia la sua impronta maggiore, come avviene precisamente nel primo dei due trattati.
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integrato ed armonico di Orat dando risalto alle «cristallizzazioni concettuali» che, in tale logica associativa, costituiscono l’ossatura dell’opera120 . Sono molti altri gli spunti di analisi che si potrebbero ancora ricavare dall’opera di Gessel e che avremo comunque modo di sfruttare ripetutamente in seguito. Essa è una prova di quante e svariate riflessioni possano scaturire dall’analisi approfondita condotta su un testo dalla densità concettuale di Orat. Vorrei solo menzionare, per concludere la sua presentazione, l’attenzione che l’autore dedica, da un lato, al nutrimento scritturistico della riflessione di Origene e, dall’altro, alla sua contestazione (ribadita anche in un articolo) dell’interpretazione mistica di Orat proposta da Völker e dai critici allineati sulla sua impostazione. Pur senza consacrare un esame specifico all’uso della Bibbia da parte dell’Alessandrino – tema che sarà affrontato successivamente, da un lato, da Ramòn Trevijano Etcheverria e Francesca Cocchini e, dall’altro, da Maria-Barbara von Stritzky con lo studio dell’interpretazione del Padrenostro121 –, Gessel coglie con molta finezza il criterio ultimo dell’auctoritas scritturistica in Origene, ancorché la sua lingua rimanga immune dal greco biblico della koinè122 . Quanto al secondo aspetto, egli s’interroga sulla forma della presenza di Dio nell’orante: se questa non può certo essere messa in dubbio per Origene, non implica però un’unione con Dio di natura estatica diversamente da quanto sostenuto da Völker, in particolar modo riguardo a Orat IX, 2 e X, 2. Il primo dei due passi, se ricondotto al suo contesto, non mira affatto a presentare il culmine mistico dell’esperienza di preghiera, bensì rispecchia il motivo del beneficio spirituale nella preparazione ad essa; inoltre, si presta ad essere letto sullo sfondo della dottrina origenia–––––––––––––––––– 120 Gessel, 48: «Um diese Gliederungskerne oder Kristallisationspunkte bewegen sich die einzelnen “Schalen” der Gedankenreihen. Dabei wirken die Gliederungskerne als Integrationszentren. Es wäre möglich, den Inhalt der Gliederungskerne in seiner integrierenden Funktion mit dem Inhalt von Wort- und Begriffsfeldern zu vergleichen. Als die hauptsächlichsten Kristallisationspunkte in sinngemäßer Abfolge können stichwortartig genannt werden: Absolute Prädestination und deren Widerlegung – freie Selbstbestimmung – göttliche Vorsehung – proseuchv – Nutzen des Gebetes – Gebet um das Himmlische und Große – praktische Ratschläge». Anche tenendo conto di ciò (e richiamando il modo più autonomo di procedere da parte di Jay nella sua traduzione) Gessel suggerisce di operare una revisione della divisione tradizionale in capitoli nel caso di una nuova edizione (p. 46, nota 142). 121 Cfr. rispettivamente Trevijano Etcheverria; Cocchini 1997b; e Stritzky. 122 Gessel, 77: «Origenes vertraut auf die unmittelbare Kraft des menschlichen Wortes. Höher aber steht das Wort der göttlichen Offenbarung. Sein ausgeprägtes Verantwortungsgefühl zeigt sich insbesondere in der Fülle der Zitate aus dem AT und NT . Nicht seine Autorität als Lehrender, sondern die Autorität der Hl. Schrift möchte er als die Legitimationsinstanz schlechthin in den Vordergrund stellen. Er tritt als wissenschaftlich Schaffender auf, der untersucht, darlegt und im Einklang mit der Autorität des geoffenbarten Wortes seine Ergebnisse vorträgt». Sulla mancata compenetrazione linguistica con il greco scritturistico, pur con l’altissimo tasso di citazioni, cfr. le pp. 21-22.
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na dell’«immagine di Dio» nell’uomo, assicurata dalla sua presenza nello hJgemonikovn. Ma in questo caso la categoria per indicare la presenza di Dio non è tanto l’unio mystica, bensì piuttosto quella di «partecipazione» (metochv)123 . Le formulazioni origeniane indicano qui nell’orante un processo di «spiritualizzazione» in atto, che include fra l’altro il perdono dei torti subiti124. Anche per Orat X , 2, se è lecito parlare in questo passo di una «divinizzazione», essa non comporta affatto il dissolversi dell’esistenza personale nell’unione con Dio, bensì l’elevazione dell’intelletto nella comunione di preghiera con lui. È dunque fuori luogo, per Gessel, ricercare nell’autore di Orat un «mistico della preghiera». È fuori dubbio che l’indagine di Gessel abbia contribuito a sviscerare a fondo i contenuti di Orat, benché gli echi di cui essa ha goduto siano forse stati inferiori a quanto si potrebbe immaginare. Il suo limite consiste ai miei occhi nel suo stesso punto di forza. L’ “anatomia” condotta dall’autore sul testo di Origene, in vista di estrapolarne un pensiero organico sulla preghiera, rischia di far perdere, pur non volendolo, il contatto più immediato con lo scritto e il suo profilo, come si vede già da una semplice scorsa dell’indice: Gessel non si è attenuto cioè alle grandi articolazioni del trattato, ma le ha rimescolate e ridisposte secondo quella che ha ritenuto essere la sua logica di fondo. Confrontando il libro con Orat, si direbbe che risulta difficile ritrovarvi in filigrana lo scritto di Origene, sebbene lo studioso abbia fatto tanto seriamente i conti con esso come nessun altro prima di lui 125 . In aggiunta a ciò, la decisione di prescindere dal materiale –––––––––––––––––– 123 Gessel, 208-209: «Die Relation zwischen Gott und dem Hegemonikon kann daher nicht mit dem Begriff einer unio im Sinne der unio mystica beschrieben werden, sondern muß unter dem Begriff der Metoche (participatio), der Anteilhabe bzw. Anteilnahme erfaßt werden. [...] Somit ist gesagt, der Ort der Gottbegegnung im Gebet ist das Hegemonikon, weil es von vornherein als Sitz der Gottebenbildlichkeit konzipiert ist. Im Verborgenen des Menschen, ein anderer Ausdruck für das Hegemonikon, sind auch die Gebete». Sul concetto di «partecipazione», imperniato sulla visione trinitaria, si veda la bella conclusione di EpGr 4 (194, 95-99): Eij d∆ eu\ e[cei ta; tetolmhmevna h] mhv, Qeo;" a]n eijdeivh, kai; oJ Cristo;" aujtou' kai; oJ metevcwn pneuvmato" Qeou' kai; pneuvmato" Cristou'. Metevcoi" de; suv, kai; ajei; aujxoi" th;n metochvn, i{na levgh/" ouj movnon tov: mevtocoi tou' Cristou' gegovnamen (Eb 3, 14), ajlla; kaiv: mevtocoi qeou' gegovnamen. 124 Gessel, 209-210: «Der in der Gebetsvorbereitung, bzw. während des Gebetsaktes erfolgende Chorismos der Seele vom Soma, bedeutet keineswegs eine ekstatische Eingrenzung der Seele, sondern eine Ausgrenzung und Abgrenzung des Hegemonikons, bzw. des Nus oder des Herzens, also des oberen Seelenteiles gegenüber dem belastenden somatischen Bereich der Seele. Das Geistigwerden der Seele, ihre Vergeistigung, die unter anderem die Verzeihung des erlittenene Bösen miteinschließt, ist an unserer Stelle nicht absolutes, für sich bestehendes Ziel, sondern benennt das Ergebnis eines Läuterungs- und Reinigungsvorganges, der die Gottebenbildlichkeit des Beters voll zur Wirkung bringt und so die Voraussetzung für eine ungetrübte und ungestörte Gottbegegnung durch das Gebet schafft». 125 Così, dopo gli aspetti letterari (1: «Der formal-literarische Charakter der Gebetsschrift»), tratta «i tipi di preghiera» (2), «Dio Padre» (3), «l’intercessione dello Spi-
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comparativo fornito dalle omelie non poteva non attirarsi critiche, com’è avvenuto soprattutto ad opera di P.S.A. Lefeber126. Tuttavia, l’interesse manifestato da Gessel per il modo dell’argomentazione e la sua configurazione formale trova un riscontro nell’esame condotto da Éric Junod (L’impossible et le possible. Étude de la déclaration préliminaire du De oratione, 1980) sul testo così impegnativo e problematico del prologo. Lo studioso svizzero lo ha confrontato con altre prefazioni di Origene (CPs 1-25, CGn, CIo e CC), rilevando anche sotto questo profilo la singolarità di Orat. Nel medesimo tempo ha notato anche delle affinità, nella misura in cui si può rilevare un dato comune ai vari prologhi: essi ruotano tutti intorno al problema se sia possibile scrivere delle cose divine, sondare i misteri di Dio127. Per Junod, comunque, la dichiarazione preliminare appare come una sorta di «blocco erratico», un poco enigmatico rispetto al resto del trattato, ma in realtà il prologo (come cercherò di mostrare nel prossimo capitolo) ne offre precisamente la chiave di lettura fondamentale128 . Due interventi degli ultimi anni hanno richiamato l’attenzione sul rapporto fra Orat e le omelie. Daniel Sheerin (The Role of Prayer in Origen’s Homilies, 1988), partendo dall’assunto che il trattato contenga una prospettiva distinta, se non propriamente «distorta», si è proposto di approfondire il posto della preghiera nelle omelie. Benché non arrivi a proporre una riflessione sull’asserita discrasia, l’articolo si rivela utile sia come inventario di materiali, sia anche come proposta di ulteriori piste di indagine, fra le quali l’autore segnala anche l’opportunità di analizzare se e come la teoria della preghiera esposta in Orat trovi conferma nelle omelie129. ––––––––––––––––––
rito» (4), «la preghiera come si conviene» (5), «preghiera e provvidenza» (6), «contenuti e scopo della preghiera di domanda» (7), «il giovamento della preghiera» (8), «l’esaudimento della preghiera» (9), «la “preghiera ininterrotta”» (10). 126 Lefeber, 14-18. 127 L’accento posto sulla grazia per risolvere l’antinomia impossibile/possibile comporta «une critique implicite de ceux qui croient que la raison humaine, livrée à ellemême, est en mesure d’appréhender ce qui n’appartient pas au monde des hommes» (Junod, 89). Anche Osborn sottolinea il legame fra la preghiera e la conoscenza di Dio. 128 Lo intende giustamente così anche Monaci Castagno 1997, 125: «se l’indagine non si limita al prologo, risulta evidente che impossibile non è soltanto la conoscenza di Dio, ma la preghiera in quanto conoscenza di Dio [...] e in quanto culto e forma di vita». Si noti comunque che Junod 2009 riconosce l’importanza del prologo come la chiave per intendere il «problema della preghiera». 129 Sheerin, 213: «I have been able to give only a brief account of the important role of prayer in these homilies and a sketchy catalogue of the kinds of prayer. Detailed study of these phenomena, both in their broader ramifications (relationship of theory of De oratione to practice of homilies, sacerdotal role of preacher, role of prayer in hermeneutics), and in the interactions within the homilies of prayers and calls-to prayer which have, in some case, been artificially sundered from one another in this treatment for the sake of classification, remains to be done, but it is hoped that this sketch may provide a first step in these directions».
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L’invito formulato da Sheerin ha trovato seguito nella dissertazione olandese di Pieter Sietze Adrianus Lefeber (Keuze en verlangen. Een onderzoek zin en functie van het gebed in Origenes’ preken en zijn tractaat Over het gebed, 1997), dedicata precisamente ad approfondire i rapporti delle omelie con il trattato mediante un confronto serrato130. Le sue conclusioni sono diametralmente opposte alle tesi di Völker e, in parte nella scia di questi, anche a quelle di Gessel, al quale Lefeber contesta fra l’altro il giudizio su Orat come scritto malamente strutturato. A l contrario, è possibile notare come le riflessioni esposte nella prima sezione abbiano una corrispondenza con la seconda, nel commento al Padrenostro131. Senza dunque isolare Orat e senza sistematizzare eccessivamente il trattato con l’obiettivo di ricostruire la «teologia della preghiera» dell’Alessandrino, l’approccio di Lefeber vuole invece caratterizzarsi per la ripresa delle idee stesse di Origene132 . Nel contempo egli dà significativamente rilievo, forse più di quanto si fosse fatto precedentemente, alla componente «agonica» che contraddistingue la visione della preghiera anche nelle omelie133 . Lefeber disegna così la situazione dell’orante a partire dalla condizione di fragilità e peccato dell'uomo. Se Völker non dava spazio nella sua visione di Origene alla preghiera del peccatore, al contrario Lefeber la vede come caratterizzante la stessa condizione esistenziale dell’uomo. A suo giudizio nemmeno Gessel è stato capace di tenerla adeguatamente in considerazio–––––––––––––––––– 130 Il titolo inglese recita: In Want for God. About the Meaning and Function of Prayer in Origen’s Sermons and His Treatise On Prayer. Oltre a riassumere i risultati alle pp. 196-200, l’autore li ha ricapitolati in Lefeber 1999. La dissertazione comprende due parti. La prima tratta la preghiera nelle omelie con i seguenti capitoli: 1. Preghiera e peccato («Gebed en zonde»); 2. Preghiera come appello all’azione di Dio («Het appel op het handelen van God»); 3. Preghiera e Scrittura («Gebed en Schrift»); 4. Preghiera come comunione ininterrotta con Dio («Bidden als voortdurende omgang met God»); 5. La forza della preghiera («De kracht van het gebed»). La seconda parte analizza Orat (6. «Het tractaat Over het gebed»). 131 Lefeber 1999, 34: «The ideas Origen developed in the first half of his treatise, come back in his explanation of the Lord’s Prayer, the most eminent prayer ever given. It puts man in the right position before God». Peraltro, il giudizio dell’autore si dimostra un poco semplicistico, allorché sostiene che a conclusione del suo lavoro Origene avrebbe espresso una valutazione senz’altro positiva – un punto di vista che non può certo essere suffragato dal tenore di Orat XXXIV! 132 Lefeber, 196: «Contrary to what earlier writers have done, this study does not aim to provide a “theology of prayer” in Origen. Such a theology would be a reconstruction of something not of his design, whereas this study aims to show how he himself wrote about prayer». 133 Lefeber, 197: «Man therefore finds himself caught between the goodness of God on the one hand and the danger of his inner temptation on the other, a situation in which he must consciously seek out the countenance of God. His longing for God is the driving force here, as his inclination towards temptation compels him to do so. This causes tension in his life of prayer, tension from which he cannot escape, however much progress he may make towards recovery during his earthly existence».
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ne, offrendo un’immagine troppo «armoniosa» della relazione fra Dio e l’uomo, che è invece insidiato perennemente dall’esperienza del peccato 134 . Consapevole di ciò, egli si rivolge a Dio preso dal rimorso della propria colpa e dal desiderio di espiarla. In tal modo dichiara di avere bisogno del sostegno di Dio per non cadere più nel peccato135. Inoltre, quanto più cresce lo stupore per la gloria di Dio, tanto più forte si fa il desiderio di ricevere il suo aiuto136. In sintesi, per Lefeber è proprio la costitutiva dimensione agonica a evidenziare la continuità di idee fra le omelie e il trattato: ambedue le prospettive convergono nel riconoscere che la preghiera si attua quando Dio fa dono all’uomo della sua grazia, grazie alla quale soltanto è in grado di superare il conflitto che lo lacera e ascendere così verso il mondo divino137. 5. Nuovi indirizzi di studio: il paradigma degli «esercizi spirituali» L’ultima fase degli studi è stata caratterizzata, in special modo, dall’apporto dei due convegni organizzati dal «Gruppo Italiano di Ricerca su Origene e la Tradizione Alessandrina», rispettivamente nel 1996 a Chieti e nel 1999 a Milano, essendo dedicato il primo appunto ad Orat e il secondo al tema strettamente correlato «Origene maestro di vita spirituale»138 . Dell’importanza di questi volumi si è già avuto un riflesso nell’esposizione precedente ed esso non mancherà di affiorare ampiamente in quella che segue. Non mi soffermerò naturalmente su un bilancio critico dei loro risultati, dal momento che come membro del Gruppo e come autore sono io stesso parte in causa. Nondimeno, anche alla luce di essi, mi sembra giusto prospettare alcune riflessioni conclusive sull’itinerario degli studi ripercorso in questo capitolo, sempre nell’intento di meglio orientare la direzione di marcia del presente lavoro. Ad una valutazione sommaria, il quadro odierno non sembra aver accantonato completamente i vecchi interrogativi, mentre se ne affacciano –––––––––––––––––– 134 Lefeber, 200: «Gessel is right to situate prayer within the broad framework of God’s divine providence but the way in which he does this is too colourless and too general to do justice to the intensity and to the existential suspense which is natural to prayer in Origen». 135 Lefeber, 198: «Prayer in Origen is above all characterised by a struggle to escape from this sinful existence to the reality of God. It is its very essence because in prayer willingness and unwillingness to turn to God are in mutual conflict». 136 Lefeber, 198: «The sinner yearns to be initiated into the great mysteries of Heaven; he loses interest in insignificant earthly matters». 137 Lefeber 1999, 38: «Only when God makes himself known to him in the fullness of grace so that man’s longing for God is aroused and only when man concentrates his entire attention on God and chooses communion with him, does he discover the way upward». 138 Si vedano rispettivamente Cocchini 1997a e Pizzolato-Rizzi.
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di nuovi sul tappeto. L’esigenza di esaminare a fondo i rapporti fra Orat e gli altri scritti di Origene – al di là del meritorio contributo di Lefeber, per quanto riguarda le omelie – sembra ancora lungi dall’essere stata soddisfatta. È sintomatico che, mentre si è sempre valorizzato il Commento al Cantico dei Cantici (con le Omelie) per ricostruire il profilo della «mistica» origeniana, si sia prestata poca attenzione alla figura di orante che è forse oggetto della descrizione più plastica in tutta l’opera dell’Alessandrino: la sposa che, secondo la sua originale «interpretazione drammatica» del Cantico, fa il suo ingresso in atteggiamento di preghiera nella prima scena di Ct 1, 2139. Se la storia della ricerca tende a suffragare in buona parte quella impressione di “singolarità” del trattato che abbiamo constatato in apertura, ciò non esime dallo sforzo di ricollocarlo nel più ampio contesto della produzione origeniana e della riflessione e prassi di preghiera dell’Alessandrino. Né d’altra parte l’individualità del trattato – pur con la sostanziosa proposta interpretativa di Gessel, che comunque pecca forse di un approccio un po’ unilaterale e schematico – è stata ancora riconosciuta, come sarebbe opportuno, sotto il profilo letterario e formale del testo. A parte l’analisi del prologo fatta da Junod, in generale si tratta di un’impostazione che ha avuto scarso seguito. Ma, come ha ricordato Bertrand con una metafora suggestiva, per ottenere un progresso nella conoscenza delle idee, bisogna saper «auscultare» le loro espressioni letterarie140 . Ora, proprio in questo campo c’è stato un certo rinnovamento nell’indagine origeniana, che ha riscoperto di recente l’importanza di riesaminare le forme e i modi dell’argomentazione dell’Alessandrino, quantunque partendo soprattutto dai prologhi ai commentari biblici, più facilmente utilizzabili come termini di comparazione con gli altri commentari antichi, in primis quelli filosofici141 . Al medesimo ambito della tradizione filosofica rinvia però, in maniera ben più ricca di conseguenze per il nostro testo, la nuova direzione d’indagine portata avanti soprattutto da Pierre Hadot con i suoi studi sugli «esercizi spirituali» nella filosofia antica142 . Egli si riallaccia così al tema della Seelenführung, la «direzione spirituale» – già affrontato da Paul Rabbow all’indomani della seconda guerra mondiale143 –, proponendo una ricostruzione complessiva della filosofia dell’antichità, specialmente nella sua fase tarda, come forma di vita che coniuga teoria e prassi in vista –––––––––––––––––– 139 140
Cfr. Perrone 2006 e infra, pp. 306-312. Bertrand 1999, 363: «Pour progresser dans la connaissance des idées, il est bon de passer par leur expression littéraire, à ausculter avec précision. Des chemins inédits peuvent alors s’offrir à l’interpretation». 141 A titolo esemplificativo, si veda soprattutto Hadot e Heine. 142 Cfr. Hadot 1993; Hadot 1997a; Hadot 1997b. 143 Seelenführung. Methodik der Exerzitien in der Antike (1954).
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di un perfezionamento morale dell’individuo. In particolare, Adele Monaci Castagno, sfruttando anche il tema della «cura del sé» approfondito da Michel Foucault, ha proposto una nuova lettura di Orat che innesta il trattato nel solco di questi «esercizi spirituali» di matrice prevalentemente stoica, quali ad esempio la praemeditatio mortis o il «ritirarsi» (ajnacwvrhsi") dal mondo sensibile per coltivare un’interiorità non più esposta alle passioni. In tal senso, Orat poteva essere recepito dai suoi destinatari come espressione di una «direzione spirituale» allo stesso modo dei Ricordi di Marco Aurelio o del Manuale di Epitteto per un pubblico pagano144. Questa tesi, che supera la distinzione e/o contrapposizione in Origene fra il «filosofo» e lo «spirituale» della ricerca anteriore, è argomentata mettendo in luce, da un lato, una serie di tecniche di concentrazione capaci di attuare una terapia dell’animo e propiziare la prassi di preghiera e, dall’altro lato, la sua rispondenza ai bisogni e alle aspettative spirituali di ambienti socialmente elevati145 . L’analogia suggerita in questo approccio non ignora le distinzioni fra la visione cristiana della preghiera in Origene e gli ideali del «perfezionamento spirituale» che circolavano presso le scuole filosofiche, anche se a volte sembra prevalere l’impressione di una assimilazione molto stretta fra i due orizzonti spirituali. Occorre tra l’altro ricordare come la concezione della preghiera in ambiente sia stoico ed epicureo che anche platonico sia in realtà profondamente diversa da quella espressa in Orat. Si tratta in ogni caso di un approccio innovativo e fecondo, come avremo modo di verificare più avanti ricostruendo l’ars orandi di Origene, anche se la categoria di «esercizio spirituale» rende solo in parte ragione della sua visuale della preghiera.
–––––––––––––––––– 144 Monaci Castagno 1997, 134: «La concezione origeniana della preghiera è, nella forma della katavstasi" richiesta all’orante, una cura del sé; un esercizio che deve essere sempre rinnovato e che, per quanto sostenuto e descritto con citazioni bibliche, rivela l’alta radice degli esercizi spirituali delle filosofie ellenistiche; sotto tale profilo, PE poteva essere recepito dai suoi destinatari come una vera e propria Seelenführung, come l’equivalente cristiano di scritti quali I Ricordi di Marco Aurelio, il Manuale di Epitteto e, nella generazione successiva, la Lettera a Marcella di Porfirio». 145 Monaci Castagno 2006, 221 nota la continuità del paradigma sino a Giovanni Crisostomo: «Sia Origene, sia Giovanni si rivolgono ad un segmento preciso della società tardo-imperiale: il ceto superiore costituito da persone che ricoprono o che sono destinate a ricoprire ruoli pubblici importanti e il cui cristianesimo si aggiunge ad una buona base di preparazione retorica e filosofica. Questo spiega il livello alto di questa direzione che, sia pure nella diversità delle situazioni, pone al centro esercizi che riguardano la lettura, la meditazione, il ragionamento mediante il quale è possibile salvaguardare la propria tranquillità interiore e neutralizzare l’urto della molteplice, contraddittoria, dolorosa, realtà contingente. In tutti i testi, per quanto declinata in modo diverso, è presente la tradizione degli esercizi spirituali».
CAPITOLO TERZO
IN ASCOLTO DEL TESTO Dall’ ouverture alla struttura armonica
«Stupenda per me la tua saggezza, troppo alta, e io non la comprendo» (Sal 138[139], 6) *
1. Il prologo come chiave di lettura La singolarità che connota in partenza Orat e la diversità dei punti di vista cui ha dato luogo negli studi impongono prima di tutto che ci si metta in attento ascolto del testo. L’esigenza non è nuova, ma essa ha trovato finora risposte o auspici di carattere vario e non sempre persuasivo, che sollecitano adesso una rilettura del trattato nel suo complesso. Non mi attira l’«anatomia» invocata da Gessel come percorso metodico in vista di una susseguente ricomposizione sistematica, perché temo che l’esito di tale approccio conduca ad un’estrapolazione troppo organica di contenuti, in ultima analisi svincolandoli forzosamente dal tessuto vivo del testo. Più convincente mi appare semmai la sua idea di «nuclei concettuali» che funzionano in Orat come momenti di aggregazione o come «cristallizzazioni» di un pensiero in movimento. Anche Bertrand si mostra sensibile a tale indicazione, invitando opportunamente ad «auscultare» il testo e suggerendo a sua volta di «scardinare» le articolazioni di fondo, indicate dallo stesso autore e recepite per lo più dalla critica, in modo da mettere in luce le grandi sequenze tematiche che sorreggono l’esposizione146. Entrambe le strade mi incoraggiano a percorrere, a mia volta, un itinerario di lettura che – per una consuetudine di lavoro con gli scritti dei Padri condizionata dall’impegno d’insegnamento – riflette piuttosto la preoccupazione di captare la «voce» che si esprime in un testo. So bene che questo punto di vista può invocare una sua giustificazione non secondaria nella stessa produzione dei testi nel mondo antico, per il diverso rapporto –––––––––––––––––– * Cfr. Sal 138, 6 LXX : ejqaumastwvqh hJ gnw'siv~ sou ejx ejmou': ejkrataiwvqh, ouj mh; duvnwmai pro;~ aujthvn, «Troppo mirabile è la tua scienza per me, / troppo elevata, non potrò raggiungerla» (tr. Mortari, 303). 146 Cfr. Bertrand. Egli vi si richiama negli stessi termini anche in Bertrand 1999, 233: «Rappelons que ces questions tournent autour de l’utilité de la prière, du lieu où se trouve Dieu, de la justification de l’homme à travers le combat spirituel, enfin de l’attitude corporelle de l’orant».
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fra orale e scritto che essa implicava. Origene era solito dettare i suoi scritti e l’impronta di questo modo di procedere – con le varie fasi che comportava fino all’edizione finale dei testi – si lascia certamente intravedere anche nel nostro trattato. Ma sono purtroppo assai pochi gli studi dedicati a investigare questo aspetto e volendolo approfondire adeguatamente in relazione a Orat, si richiederebbero interessi e competenze diverse da quelle che mi guidano147. Invece, l’idea che nel testo parli una «voce» mi porta ad associarlo (di nuovo per idiosincrasia personale, ma spero non troppo arbitraria) a un’espressione di tipo «musicale»: per usare un’immagine, che forse non è del tutto impropria, si potrebbe pensare a Orat come ad un’orchestrazione di temi prossima al «concerto» o alla «sinfonia» e in tal caso studiare quali siano le sue note o motivi dominanti e se da essi si arrivi a ricavare un’idea dell’«armonica» complessiva del testo. È ovvio che questo approccio non può non sfruttare a fondo quella che, non solo in metafora, è l’ouverture del trattato, cioè il prologo (Orat I-II). Questi due capitoli «vertiginosi» (non paia eccessivo definirli nuovamente così!) porgono indubbiamente la chiave di lettura fondamentale per il nostro scritto, anziché presentarsi come un’apertura un poco enigmatica e sorprendente148 . Chiaramente delimitato rispetto al resto dell’opera149 , anche se purtroppo costellato da fastidiose lacune, il prologo sembra voler sfruttare a fondo le possibilità offerte da una sede proemiale per istruire il lettore su contenuti e modi dell’esposizione che seguirà, quasi affastellando le indicazioni al riguardo 150 . Proprio l’abbondanza di tali segnali rischia di confondere il pubblico designato e non a caso l’autore stesso se ne mostra preoccupato interpellando direttamente i due destinatari, Ambrogio e Taziana ( II, 1)151. Egli lo fa dopo che ha già introdotto –––––––––––––––––– 147 Un tentativo di ripensare il problema, tenendo fra l’altro conto degli esigui studi sulla stenografia agli inizi del Novecento (in particolare E. Preuschen), è stato fatto da Pozzi (cfr. «Adamantius» 5[1999], pp. 162-166). 148 È la tesi sostenuta nell’analisi, peraltro pregevole, di Junod, 83: la dichiarazione preliminare «se présente comme une sorte de bloc erratique dont la présence au seuil du De oratione est quelque peu énigmatique» (cfr. anche supra, p. 46). Tuttavia Junod 2009 giunge, pur con diversa argomentazione, ad una conclusione analoga alla mia. Come si vedrà, porre il lettore dinanzi ad un “enigma” – anche nel senso profondo che il termine possiede nella sua ermeneutica biblica – sembra essere una tecnica voluta di Origene per rapportarsi al suo pubblico. 149 Si veda la conclusione in Orat II, 6 (304, 1-2): ajrktevon ou\n h[dh tou' peri; th'" eujch'" lovgou. 150 Troviamo lacune in ben tre passi: Orat I (298, 2-6); II , 1 (299, 3-8). 4 (302, 1618). Solo la prima di esse ha dato luogo a tentativi, tutto sommato, abbastanza soddisfacenti di ricostruzione testuale. Quanto ai materiali profusi in via introduttiva, basti ricordare la quantità di citazioni scritturistiche riguardanti il tema della preghiera (sia le “parole” che l’ “atteggiamento” dell’orante) che verranno riprese successivamente. 151 Orat II, 1 (298, 18-23): ∆All∆ eijko;", ∆Ambrovsie qeosebevstate kai; filoponwvtate kai; Tatianh; kosmiwtavth kai; ajndreiotavth [...] uJma'" ajporei'n tiv dhvpote, peri; eujch'"
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più di una «variazione» sul motivo iniziale del prologo, secondo cui ciò «che è impossibile agli uomini» – cioè «comprendere» (katalabei'n) le realtà trascendenti – «diventa possibile per grazia di Dio»152 . L’enunciato di partenza, che elabora retoricamente e dottrinalmente la dialettica fra impossibile e possibile – contrapponendo in maniera insistita l’umano al divino e vedendo quest’ultimo dentro un’ottica trinitaria articolata con precisione – viene infatti declinato per ben quattro volte, con ampio corredo di riferimenti scritturistici. Davanti a questa insistenza, non si può fare a meno di pensare che Origene abbia optato di proposito per un avvio «sconcertante», allo scopo di suscitare l’interrogativo dei suoi lettori sul senso dell’argomentazione e orientarli così fin dal principio verso la nota che più gli sta a cuore. A conforto di ciò si potrebbero addurre esempi da altri proemii dell’Alessandrino – non soltanto per riscontrarvi, quasi come una sorta di motivo unitario, l’interrogativo ricorrente sulla conoscenza delle cose divine153 –, ma anche per riflettere sulla modalità a prima vista «straniante» con cui l’autore si rapporta al suo lettore (primo fra tutti Ambrogio, ma non solo). Più che il parallelo con l’attacco dell’Esortazione al martirio, ––––––––––––––––––
prokeimevnou hJmi'n tou' lovgou, tau'ta ejn prooimivoi" peri; tw'n ajdunavtwn ajnqrwvpoi" dunatw'n cavriti qeou' ginomevnwn ei[rhtai. 152 Nella prima formulazione l’impossibilità dell’uomo a conoscere le cose di Dio è ribadita tre volte, quasi a fare da pendant con l’enunciazione trinitaria della sua possibilità, che si dà con l’effusione della grazia da Dio (Padre) tramite la mediazione di Gesù Cristo e la cooperazione dello Spirito. Cfr. Orat I (297, 1-6): Ta; dia; to; ei\nai mevgista kai; uJpe;r a[nqrwpon tugcavnein eij" uJperbolhvn te uJperavnw th'" ejpikhvrou fuvsew" hJmw'n ajduvnata tw'/ logikw'/ kai; qnhtw'/ gevnei katalabei'n ejn pollh'/ de; kai; ajmetrhvtw/ ejkceomevnh/ ajpo; qeou' eij" ajnqrwvpou" cavriti qeou' dia; tou' th'" ajnuperblhvtou eij" hJma'" cavrito" uJphrevtou ∆Ihsou' Cristou' kai; tou' sunergou' pneuvmato" boulhvsei qeou' dunata; givnetai. Da notare che la conclusione del prologo ripropone simmetricamente l’enunciato trinitario come il presupposto che solo abilita l’autore alla sua trattazione (Orat II, 6 [303, 17-20]: ejpei; toivnun thlikou'tovn ejsti to; peri; th'" eujch'" dialabei'n, wJ" dei'sqai tou' kai; eij" tou'to fwtivzonto" patro;" kai; aujtou' tou' prwtotovkou lovgou didavskonto" tou' te pneuvmato" ejnergou'nto" eij" to; noei'n kai; levgein ajxivw" tou' thlikouvtou problhvmato"). Qualche eco dell’inizio del prologo affiora in Phil 1, 28 (200, 1-7), dove Origene considera la conoscenza dei «doni di Dio» nella Scrittura come frutto della venuta del Logos nell’anima: w{sper de; pavnta ta; tou' qeou' dwrhvmata eij" uJperbolh;n meivzonav ejsti th'" qnhth'" uJpostavsew", ou{tw kai; oJ ajkribh;" lovgo" th'" peri; pavntwn touvtwn sofiva", para; tw/' qew/' tw/' kai; oijkonomhvsanti tau'ta grafh'nai tugcavnwn, qevlonto" tou' patro;" tou' lovgou, gevnoito a]n ejn th/' a[krw" meta; pavsh" filotimiva" kai; sunaisqhvsew" th'" ajnqrwpivnh" ajsqevneia" th'" peri; th;n katavlhyin th'" sofiva" kekaqarmevnh/ yuch/'. In Fr1Cor 49 (176) Origene offre un’interessante definizione di uJperbolhv (uJperbolh; toivnun ejstivn, wJ" kai; ”Ellhne" rivsanto, lovgo" ejmfavsew" e{neken uJperaivrwn th;n ajlhvqeian), mentre Fr1Cor 84 (206) accenna agli ajduvnata commentando il discorso sulla resurrezione in 1Cor 15, 20-23: Tiv ga;r wJ" ejn ajdunavtoi", i{n∆ ou{tw" ei[pw, ajdunatwvteron to; zwopoihqh'nai to; sw'ma h] oujrano;n ejx oujk o[ntwn genevsqai h} h{lion h[ ta; loipa; tw'n ktismavtwn… 153 Come ha notato giustamente Junod, 83 ss.
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quantunque non privo di analogie, si rivela pertinente il confronto con il proemio al I libro del Commento a Giovanni, contraddistinto anch’esso dall’ampia orchestrazione del motivo iniziale (qui tratto subito da una citazione biblica, come avviene anche in EM 1) e dall’interrogativo sul presumibile sconcerto del destinatario154. Come in Orat il testo opera un crescendo che focalizza l’attenzione del lettore sul tema, secondo il registro voluto dall’autore e sorretto dal riferimento vincolante all’auctoritas scritturistica155. Se nel Commento a Giovanni, al primato del quarto vangelo corrisponde da parte di Origene la priorità dell’impresa esegetica su di esso, in Orat egli vuole instillare la particolare difficoltà del compito a cui si accinge156. Questa difficoltà va ben oltre i dettami della retorica proemiale, con la convenzionale captatio benevolentiae in nome di un compito presentato come arduo, per insinuare piuttosto l’idea di un’impossibilità radicale dell’uomo, sì di tipo conoscitivo ma per ciò stesso anche «esistentiva», rispetto alla preghiera. Si tratta insomma non solo di una difficoltà di discorso, ma prima ancora di una difficoltà di esperienza. Questa stessa nota, variamente cadenzata, riecheggia dall’inizio fino alla conclusione del prologo (Orat II, 6), dove Origene ritrova l’articolazione trinitaria da cui aveva preso le mosse, sola condizione per sciogliere l’impossibilità di trattare adeguatamente il «discorso della preghiera» (tou' peri; th'" eujch'" lovgou). Senza l’ausilio dello Spirito, egli non sarebbe in grado di affrontarlo, come del resto non si dà autentica preghiera in assenza del suo soccorso all’orante. È questo l’unico momento, in un trattato dedicato interamente a tale tema, in cui Origene formula una preghiera in prima persona, anzi «pregando come uomo» (eujxavmeno" wJ" a[nqrwpo"), come dice con una formulazione a prima vista paradossale. Ma essa è ad un tempo confessione e richiesta: ammissione d’impotenza appunto «come uomo», che non è ancora divenuto uno «spirituale», e invocazione perciò del soccorso dello Spirito, perché gli sia donato «un discorso il più completo possibile, un discorso spirituale»157. Che si tratti di un’impresa dif–––––––––––––––––– 154 CIo I, 2, 9 (5, 9-11): Tiv dh; pavnta tau'q∆ hJmi'n bouvletai… ejrei'" ejntugcavnwn toi'" gravmmasin, ∆Ambrovsie, ajlhqw'" qeou' a[nqrwpe, kai; ejn Cristw'/ a[nqrwpe kai; speuvdwn ei\nai pneumatikov", oujkevti a[nqrwpo". 155 L’avvio mediante una citazione scritturistica, a prima vista enigmatica, caratterizza anche EM 1, ma Origene trapassa immediatamente dal passo citato (Is 28, 9-11) all’applicazione ai due destinatari Ambrogio e Protocteto. 156 Ho trattato del prologo di CIo I in Perrone 2005b; cfr. anche Bastit. 157 Orat II, 6 (303, 17-23): ejpei; toivnun thlikou'tovn ejsti to; peri; th'" eujch'" dialabei'n, wJ" dei'sqai tou' kai; eij" tou'to fwtivzonto" patro;" kai; aujtou' tou' prwtotovkou lovgou didavskonto" tou' te pneuvmato" ejnergou'nto" eij" to; noei'n kai; levgein ajxivw" tou' thlikouvtou problhvmato", eujxavmeno" wJ" a[nqrwpo" (ouj gavr pou ejmautw'/ divdwmi cwrei'n th;n proseuch;n) tou' pneuvmato" pro; tou' lovgou tucei'n th'" eujch'" ajxiw', i{na lovgo" plhrevstato" kai; pneumatiko;" hJmi'n dwrhqh'. Pregare «come uomo» significa ammettere di non essere ancora giunto alla condizione di «spirituale» (si veda CIo I, 2, 9 alla nota 154).
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ficile ed esigente è segnalato da una spia linguistica che appare significativa: nel dichiarare la sua incapacità, senza riserve (ouj gavr pou ejmautw'/ divdwmi cwrei'n th;n proseuch;n)158, Origene si serve di un verbo – cwrevw, «fare spazio a», «contenere», «essere capace di», «comprendere» – che ritorna, non a caso, nell’epilogo del trattato (Orat XXXIV), dove l’autore si mostra più che propenso ad un bilancio autocritico dei risultati raggiunti; al tempo stesso, egli non dispera, con l’aiuto delle preghiere di Ambrogio e Taziana, di poter «accogliere» in futuro «contenuti più abbondanti e più divini» dal «Dio che dona»159 . Nel linguaggio dell’Alessandrino poco sembra essere lasciato al caso e l’utilizzo, diremmo, “strategico” dello stesso verbo a chiusura del prologo come dell’epilogo è indice ancora una volta di quella nota che segna in profondità il trattato. Nutrito com’è della linfa vitale delle Scritture, l’impiego di cwrevw da parte di Origene richiama alla mente il suo uso biblico, in particolare nel Nuovo Testamento, dove non poteva sfuggire proprio quella stessa connessione problematica con lov g o" che compare i n Orat160 . Né sorprende che il termine lasci tracce significative nel Commento a Giovanni, non solo in relazione ai versetti che lo contemplano espressamente (Gv 8, 37 e 21, 25), ma anche perché esso viene adoperato per esprimere l’accoglienza o meno di Dio, del Cristo e dello Spirito da parte –––––––––––––––––– 158 Il passo ha procurato difficoltà ai traduttori, benché lo si possa comprendere se lo si legge come inciso, alla maniera di Koetschau. Egli lo rende così: «ein Mensch, der sich nicht wohl anmaßt, das Gebet zu begreifen» (BKV, 15). Invece Jay, 88 ne dà una versione un po’ diversa: «for it is not indeed to myself that I attribute my capacity for prayer». Egli non ha torto ad indicare l’incapacità umana di pregare autenticamente, anche se qui si tratta anzitutto dell’incapacità di esporre l’argomento della preghiera in maniera adeguata. Così intendono, ad esempio, con soluzioni più o meno felici, Oulton, 243 («for I do not hold that I am able of my own self to treat of prayer») e Greer, 86 («in no way attribute an understanding of prayer to myself») e Antoniono, 37 («poiché non mi riconosco il diritto di definire la preghiera»). 159 Orat XXXIV (403, 4-9): oujk ajpoginwvskw de;, toi'" e[mprosqen uJmw'n ejpekteinomevnwn kai; tw'n o[pisqen ejpilanqanomevnwn (cfr. Fil 3, 14) eujcomevnwn te ejn touvtoi" o[ntwn peri; hJmw'n, pleivona kai; qeiovtera eij" pavnta tau'ta dunhqh'nai cwrh'sai ajpo; tou' didovnto" qeou' kai; labw;n pavlin peri; tw'n aujtw'n dialabei'n megalofuevsteron kai; uJyhlovteron kai; tranovteron. Non mancano peraltro analogie con la chiusa dell’Esortazione al martirio (EM 51; cfr. infra, nota 774). 160 Si veda rispettivamente Mt 19, 11 con il significato di «comprendere» (ouj pavnte" cwrou'sin to;n lovgon ajll∆ oi|" devdotai) e G v 8, 37 con quello di «trovar posto, spazio» (oJ lovgo" oJ ejmo;" ouj cwrei' ejn uJmi'n). Al primo dei due luoghi sembra alludere Orat XXXIV (403, 7-8): cwrh'sai ajpo; tou' didovnto" qeou' . Nel significato di «contenere» il verbo figura ancora in Gv 21, 25, ripreso da CIo XIII, 5, 27 (230, 3-8): Kai; ga;r ta; kuriwvtera kai; qeiovtera tw`n musthrivwn tou` qeou` e[nia me;n ouj kecwvrhken grafhv, e[nia de; oujde; ajnqrwpivnh fwnh; kata; ta; sunhvqh tw`n shmainomevnwn h] glw`ssa ajnqrwpikhv: ∆Estin ga;r kai; a[lla pollav, a} ejpoivhsen oJ ∆Ihsou`~, a{tina eja;n gravfhtai kaq∆ e{n, oujde; aujto;n oi\mai to;n kovsmon cwrhvsein ta; grafovmena bibliva .
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dell’uomo161. Esso sembra dunque racchiudere in positivo la chance dell’apertura alle realtà divine come per converso, in negativo, la chiusura ad –––––––––––––––––– 161 Si vedano, senza pretesa di completezza, i seguenti luoghi di CIo (I , 7, 38 [12, 9]: toi'" mevllousi cwrei'n aujtou' th;n qeovthta ajnqrwvpoi" qeou'; I , 10, 62 [15, 26-28]: Ou|to" gavr ejstin oJ ajpo; tou' ajgaqou' patro;" to; ajgaqa; ei\nai labwvn, i{na e{kasto" o} cwrei' h] a} cwrei' dia; ∆Ihsou' labw;n ejn ajgaqoi'" tugcavnh/; I , 20, 124 [25, 16-20]: Kai; makavrioiv ge o{soi deovmenoi tou' uiJou' tou' qeou' toiou'toi gegovnasin, wJ" mhkevti aujtou' crhvz/ ein ijatrou' tou;" kakw'" e[conta" qerapeuvonto" mhde; poimevno" mhde; ajpolutrwvsew", ajlla; sofiva" kai; lovgou kai; dikaiosuvnh", h] ei[ ti a[llo toi'" dia; teleiovthta cwrei'n aujtou' ta; kavllista dunamevnoi"; I, 25, 166 [31, 25-28]: Toi'" de; mh; cwrou'si ta;" hJliaka;" Cristou' ajkti'na" oiJ a{gioi diakonou'nte" parevcousi fwtismo;n pollw'/ tou' proeirhmevnou ejlavttona, movgi" kai; tou'ton cwrei'n dunamevnoi" kai; uJp∆ aujtou' plhroumevnoi"; I, 34, 246 [43, 3033]: ”Ekasto" de; tw'n sofw'n kaq∆ o{son cwrei' sofiva", tosou'ton metevcei Cristou', kaq∆ o} sofiva ejstivn ; II, 3, 22 [55, 25-29]: ’O" ga;r ouj cwrei' tou'ton to;n lovgon, to;n ejn ajrch'/ pro;" to;n qeovn, h[toi aujtw'/ genomevnw/ sarki; prosevxei, h] meqevxei tw'n meteschkovtwn tino;" touvtou tou' lovgou, h] ajpopesw;n tou' metevcein tou' meteschkovto" ejn pavnth ajllotrivw/ tou' lovgou e[stai kaloumevnw/; II , 18, 127 [75, 25-26], detto dello Spirito: Eij de; maqhteuovmenon pavnta cwrei', a} ejnatenivzwn tw'/ patri; ajrcovmeno" oJ uiJo;" ginwvskei, ejpimelevsteron zhthtevon; VI, 3, 15 [109, 19-22]: Kai; to; ∆Ek tou' plhrwvmato" de; aujtou' hJmei'" pavnte" ejlavbomen kai; to; Cavrin ajnti; cavrito" (Gv 1, 16) [...] dhloi' kai; tou;" profhvta" ajpo; tou' plhrwvmato" Cristou' th;n dwrea;n kecwrhkevnai; VI, 42, 220 [151, 27–152, 2]: ∆Iordavnhn mevntoi ge nohtevon tou' qeou' lovgon to;n genovmenon savrka kai; skhnwvsanta ejn hJmi'n, ∆Ihsou'n de; to;n klhrodothvsanta o} ajneivlhfen ajnqrwvpinon, o{per ejsti;n kai; ajkrogwniai'o" livqo", o}" kai; aujto;" ejn th'/ qeovthti tou' uiJou' tou' qeou' genovmeno" tw'/ ajneilh'fqai uJp∆ aujtou' louvetai, kai; tovte cwrei' th;n ajkevraion kai; a[dolon peristera;n tou' pneuvmato", sundedemevnhn aujtw'/ kai; mhkevti ajpopth'nai dunamevnhn; VI, 43, 225 [152, 29-31]: eujtrepizevsqwsan pro;" to; dunhqh'nai dia; th'" proetoimasiva" cwrh'sai to;n pneumatiko;n lovgon ejgginovmenon dia; tou' fwtismou' tou' pneuvmato"; X, 6, 26 [176, 21-26]: ÔW" ga;r di∆ eJno;" ajnqrwvpou oJ qavnato", ou{tw" kai; di∆ eJno;" ajnqrwvpou hJ th'" zwh'" dikaivwsi": oujk a]n cwri;" tou' ajnqrwvpou cwrhsavntwn hJmw'n th;n ajpo; tou' lovgou wjfevleian, mevnonto" oJpoi'o" h\n th;n ajrch;n pro;" to;n patevra qeovn, kai; mh; ajnalabovnto" a[nqrwpon, to;n pavntwn prw'ton kai; pavntwn timiwvteron kai; pavntwn ma'llon kaqarwvteron aujto;n cwrh'sai dunavmenon; X, 8, 36 [178, 16-19]: Tiv" d∆ ou{tw" sofo;" kai; ejpi; tosou'ton iJkano;" wJ" pavnta to;n ∆Ihsou'n ajpo; tw'n tessavrwn eujaggelistw'n maqei'n, kai; e{kaston ijdiva/ cwrh'sai noh'sai, kai; pavsa" aujtou' ta;" kaq∆ e{kaston tovpon ijdei'n ejpidhmiva" kai; lovgou" kai; e[rga… XIII, 5, 27 (cfr. supra, nota 160); XX, 6, 40 [333, 29-31]: ∆Eoivkasin de; ou|toi, pro;" ou}" oJ lovgo", mh; cwrei'n to;n lovgon, ouj dunavmenon eij" aujtou;" di∆ uJperbolh;n megevqou" ijdivou tou' uJpe;r aujtou;" cwrei'n). Cfr. ancora VI, 18, 98; X, 15, 85; X, 29, 179; X, 41, 286; XIII, 18, 112; XIX , 10, 59; XIX, 12, 72. Per l’idea di un’incapacità o, al contrario, della capacità sul piano della prassi, cfr. rispettivamente VI, 19, 105 (128, 17-18): Au{th de; oJdo;" stenh; mevn, tw'n pollw'n ouj cwrouvntwn oJdeuvein aujth;n kai; megalosavrkwn; e VI, 44, 230 (153, 29-30): toi'" cwrou'sin th;n peri; aJgneiva" ejntolhvn. Invece, per la dinamica della conoscenza parziale ma sollecitata dinamicamente ad una partecipazione più grande, cfr. VI, 36, 183 (145, 20-22): ”Osa de; eja;n cwrhvswmen, e[ti uJpoleivpetai ta; mhdevpw nenohmevna, ejpei; ”Otan suntelevsh/ a[nqrwpo" tovte a[rcetai, kai; o{tan pauvshtai tovte ajporhqhvsetai (Sir 18, 6). Per esprimere la capacità di comprendere in senso spirituale, Origene si serve anche dell’aggettivo cwrhtov" (X, 41, 286 [219, 7-10]: th'" ejn musthrivw/ ajpokekrummevnh" deovmeqa sofiva", cwrhth'" tugcanouvsh" movnw/ tw'/ dunamevnw/ eijpei'n: ÔHmei'" de; nou'n Cristou' e[comen (1Cor 2, 16), i{na kata; to; bouvlhma tou' oijkonomhvsanto" tau'ta grafh'nai pneumatikw'" ejklavbwmen e{kaston tw'n eijrhmevnwn). Cfr. inoltre FrRe IV ad
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esse, ma dentro la prospettiva di un sostanziale dinamismo di partecipazione alle realtà divine che dalla Trinità si trasmette agli esseri razionali. Origene lo chiarisce bene nel prosieguo del trattato, con un terzo utilizzo strategico del verbo, all’inizio della seconda sezione di Orat (XVIII- XXX). Egli dichiara di aver argomentato «a sufficienza» la sua risposta al «problema della preghiera», nella misura in cui egli è stato in grado di «comprendere» (wJ" kecwrhvkamen) con l’ausilio della grazia donatagli da Dio mediante Cristo e, spera, anche dallo Spirito. Se sia avvenuto effettivamente così anche per quest’ultimo aspetto – cioè con una piena partecipazione al dinamismo trinitario –, lo lascia prudentemente al giudizio dei lettori162 . L’eco della nota iniziale può essere ancora colta, proprio nel trapasso dalla prima alla seconda sezione, tramite un ulteriore risvolto di natura lessicale, che ci fa capire nuovamente il senso d’inadeguatezza dichiarato in partenza e la sfida che il discorso sulla preghiera rappresenta per l’Alessandrino. Annunciando l’esposizione a cui si accinge, destinata a commentare il Padrenostro, egli la prefigura nei termini di un secondo «combattimento» (to;n eJxh'" a\qlon)163. Più che la metafora sportiva dell’atleta e della gara coronata dal premio, anche in questo uso singolare del vocabolo, privo cioè di riscontri nel resto degli scritti di Origene, si avverte semmai la costante consapevolezza di un arduo compito, affrontato non senza una tensione drammatica o, come spiegheremo meglio fra poco, «agonica». Di segno analogo è del resto il verbo che designa retrospettivamente lo sforzo intrapreso in quest’opera, quando concludendo il suo lavoro l’autore ribadisce l’idea di «essersi impegnato in un combattimento» (dihvqlhtai), senza per nulla tradire la consapevolezza di meritare il pre––––––––––––––––––
1Sam 15, 9-11 (296, 6-10): swmatikwvteron toi'" barutavtoi" th;n diavnoian e[dei peri; tou' qeou' tou;" profhvta" oJmilei'n, i{na cwrhqh/:' oiJ ga;r ajgavlmata a{per e[glufon kai; ejcwvneuon qeou;" nomivzonte", h[dh de; kai; a[loga, pw'" a]n ejcwvrhsan dia; pneumatikw'n nohmavtwn te kai; rJhmavtwn ta; peri; qeou' legovmena. Sul valore del termine nel lessico origeniano si veda Crouzel 1961, 468. 162 Orat XVIII, 1 (340, 3-6): Aujtavrkw" dh; ejn touvtoi", kata; th;n dedomevnhn cavrin, wJ" kecwrhvkamen, uJpo; qeou' dia; tou' Cristou' aujtou' (ajll∆ ei[qe kai; ejn aJgivw/ pneuvmati, o{per eij ou{tw" e[cei, krinei'te ejntugcavnonte" th'/ grafh'/) hJmi'n eijrhmevnoi", ejxetavsante" to; peri; eujch'" provblhma. Per le altre occorrenze in Orat, cfr. XVII, 2 (339, 10-11): to; ga;r kurivw" kavllo" sa;rx ouj cwrei', pa'sa tugcavnousa ai\sco"; XVII, 2 (339, 21-22): wJ" cwrei' oJ e[ti dedemevno" swvmati ajnqrwvpino" nou'" ; XXV, 2 (358, 8-9): ejk mevrou" ginwvskwn me;n o{sa pot∆ a]n cwrh'sai ejpi; tou' parovnto" dunhqh'/; XXVI , 3 (360, 26-28): eu[cesqai dei'n e{kaston tw'n ajpo; th'" ejkklhsiva" ou{tw cwrh'sai to; patriko;n qevlhma, o}n trovpon Cristo;" kecwvrhken; XXVII, 8 (368, 16): oJ ga;r sunw;n aujth'/ tovno" kai; di∆ o{lwn kecwrhkwv"; XXVII, 9 (369, 3-4): w{sper oJ swmatiko;" a[rto" ajnadidovmeno" eij" to; tou' trefomevnou sw'ma cwrei' aujtou' eij" th;n oujsivan; XXVIII, 8 (380, 9-11): wJ" cwrhvsa" to; pneu'ma to; a{gion kai; genovmeno" pneumatiko;" tw'/ uJpo; tou' pneuvmato" a[gesqai. 163 Orat XVIII, 1 (340, 9): h[dh kai; ejpi; to;n eJxh'" a\qlon ejleusovmeqa, th;n uJpografei'san uJpo; tou' kurivou proseuch;n, o{sh" dunavmew" peplhvrwtai, qewrh'sai boulovmenoi. Cfr. Junod 2009, 434, 436.
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mio che spetta a chi gareggia164 . Al contrario, come si è intravisto, egli fa trapelare un sentimento d’insoddisfazione per un esito che ritiene inevitabilmente inadeguato all’oggetto dell’impresa. 2. L’argomentazione della preghiera come paradosso Se la nota avvertita in apertura ci ha dato modo di scorgere provvisoriamente un’ “armonica” del testo compenetrata in profondità da essa, possiamo adesso tornare al prologo e ripercorrerne il profilo per trovare le risonanze più vicine a cui questa nota dà luogo. La struttura dei due capitoli si presenta abbastanza lineare: essa svolge in maniera, tutto sommato, ben concatenata lo spunto da cui trae avvio il discorso mostrandone le diverse implicazioni. Le esemplificazioni di ciò che è «impossibile» (ajduvnaton) all’uomo concernono successivamente: 1. Il «possesso della sapienza» (sofiva" kth'si", con il richiamo a Sal 103[104], 24). 2. La «conoscenza del piano di Dio» (boulh;n qeou', con citazione di Sap 9, 13). 3. La «conoscenza della mente del Signore» (tou` kurivou nou'n, con il richiamo a Rm 11, 34 e 1Cor 2, 16). 4. La «conoscenza delle cose di Dio» (ta; tou` qeou', con citazione di 1Cor 2, 11). In tutti e quattro i casi, diversamente dalla tesi esposta in principio, l’enunciazione dell’impossibilità è fatta con il ricorso ad uno o più passi –––––––––––––––––– 164 Orat XXXIV (403, 1-3): Tau'ta kata; duvnamin ejmh;n eij" to; th'" eujch'" provblhma kai; eij" th;n ejn toi'" eujaggelivoi" eujch;n tav te pro; aujth'" para; tw'/ Matqaivw/ eijrhmevna hJmi'n dihvqlhtai. Gessel, ignorando a\qlo", dà un’interpretazione di diaqlevw che non tiene troppo conto del lato «agonico», nel senso di drammatico e conflittuale, che contraddistingue lo sforzo di Origene. L’utilizzo del verbo «mag eine gewisse Übertreibung darstellen, zeigt aber den Ernst und die Energie, mit der Origenes das gestellte Problem abhandeln wollte» (p. 60). Si veda specialmente p. 76: «Vor dem geistigen Auge des Lesers ersteht mit dieser metaphorischen Behauptung der Athlet in der Arena, der angesichts eines kritischen Publikums inmitten der Schar der Mitkämpfer den Sieg zu erringen gewillt ist. Das Publikum erlebt den Sieg mit und belohnt diesen Sieg durch seinen Beifall. Ähnlich mag Origenes am Ende seines Werkes empfunden haben, da er nunmehr in der Lage ist, den Lesern die “erkämpften” Ergebnisse seiner Auseinandersetzung mit den angeschnittenen Problemen vorzulegen». Più che la performance riuscita, come intende Gessel, il verbo sembra voler ancora inculcare l’idea di una «lotta disperata». Cfr. LSJ 395, s.v.: «struggle desperately», «struggle through» (con riferimento a bivon e ajgw'na"). Ovviamente l’immagine dell’atleta non poteva mancare in Orat, come vediamo dalla spiegazione del Padrenostro, alla quarta domanda (XXVII, 4 [365, 13]: ajqlhtikh;n teleiotevroi" aJrmovzousan trofhvn; 9 [369, 9]: ajqlhtai'" aJrmozouvsh") e alla sesta (XXIX, 2 [382, 18]: wJ" diabebhkovsi kai; telewtevroi" ajqlhtai'" ; XXX , 2 [394, 20-21]: nenikhmevno" uJpo; tou' th'" ajreth'" ajqlhtou'; cfr. in proposito Rosa).
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scritturistici, ripresi esplicitamente o allusi, ai quali fanno da pendant le citazioni che corroborano il secondo polo della dialettica «impossibilepossibile»: l’impossibilità donata e risolta mediante l’aiuto della grazia. Forse si potrebbe ancor meglio distinguere questo secondo versante, con il notare che il dunatovn è indicato ora mediante il riferimento personale a Cristo165 , ora più genericamente con il rinvio alla grazia divina e al dono dello Spirito166 . Ma questo rinvio appare meno generico, se si osserva che nel secondo caso il testimone è Paolo, sia in quanto beneficiario lui stesso della grazia (2Cor 12, 2-4), sia in quanto colui che dà espressione al riconoscimento del dono di grazia per l’uomo. Nel mosaico di riferimenti scritturistici che orchestrano la coppia antitetica «impossibile-possibile» dominano non a caso i passi paolini e il riferimento paradigmatico all’esperienza spirituale dell’Apostolo. In tal modo Origene, a conclusione di Orat I, fa già emergere il “filo rosso” di Rm 8, 26-27, contraddistinto da una polarità non soltanto analoga, ma verosimilmente anche “archetipica” per il discorso dell’Alessandrino 167 . Questo luogo paolino comincia a governare l’esposizione a partire da Orat II, 1. Senza accennare dapprima all’intervento dello Spirito, che compensa l’umana debolezza, Origene adduce Rm 8, 26 nella sua formulazione in negativo, a testimonianza dell’impossibilità dell’uomo, che proprio alla luce dell’estratto citato si palesa come duplice: non è solo l’ajduvnaton rappresentato dal «discorso sulla preghiera» – quale è quello a cui Ambrogio ha sollecitato l’Alessandrino –, ma è anche in generale un’incapacità umana a pregare il «che» e il «come si conviene» 168 . Origene inoltre introduce l’auctoritas scritturistica in modo da intensificarne maggiormente la pointe paradossale, dal momento che la dichiarazione d’impotenza in Rm 8, 26 è fatta precedere ancora una volta dal richiamo proprio a quel Paolo che era stato «rapito fino al terzo cielo» (2Cor 12, 2) es–––––––––––––––––– 165 Orat I (297, 8-9): dunato;n ejx ajdunavtou givnetai dia; tou' kurivou hJmw'n ∆Ihsou' Cristou', seguito da 1Cor 1, 30, luogo importante perché racchiude tre delle ejpivnoiai di Cristo (sofiva, aJgiasmov", ajpoluvtrwsi"), di cui Origene aveva trattato abbondantemente in CIo I-II (per il loro impatto strutturale si veda Perrone 2005b, 74-75). 166 Orat I (297, 17-18): tou'to to; ajduvnaton th'/ uJperballouvsh/ cavriti tou' qeou' dunato;n givnetai. 167 Rm 8, 26-27: «26Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; 27 e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo Dio». Il passo è citato a più riprese: Rm 8, 26 in Orat II, 1 (299, 11) e II, 2 (300, 3); Rm 8, 26-27 in Orat II, 3 (301, 4) e XIV, 5 (332, 21). Per Junod 2009, 445 Rm 8, 26 «exprime le “problème relatif à la prière” qui se situe au cœur de la réflexion d’Origène». 168 Orat II , 1 (299, 11-13): o} ga;r dei' proseuvxasqai, fhsiv, kaqo; dei' oujk oi[damen. ajnagkai'on de; ouj to; proseuvcesqai movnon ajlla; kai; to; proseuvcesqai kaqo; dei' kai; proseuvcesqai o} dei'.
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sendo fatto oggetto di una «sovrabbondanza di rivelazioni» (2Cor 12, 7). In aggiunta a ciò, non sfugga neppure il modo in cui Origene estrapola dal passo, per così dire, un terzo motivo di paradossalità, poiché l’ignoranza o incapacità dell’uomo a pregare si manifesta, secondo l’Apostolo, in una doppia forma: rispetto sia alle «parole» (oiJ lovgoi) sia all’«atteggiamento» (katavstasi") della preghiera. La successiva elencazione di esempi delle prime e specialmente del secondo (Orat II, 2) sembrerebbe attenuare il peso dell’aporia che è andata emergendo, quasi fosse un excursus esplicativo non strettamente indispensabile. Ma, a parte il fatto che, per chiarire quali debbano essere i contenuti della preghiera, Origene inserisce un agraphon da vedersi anch’esso come un altro “filo nascosto” del trattato, in quanto raccomanda di chiedere unicamente «le cose grandi e celesti»169 , in pratica l’esemplificazione scritturistica risulta funzionale ad aggravare l’interrogativo paradossale suscitato dall’asserzione paolina. Non a caso, tra gli esempi del modo in cui bisogna pregare, si cita 1Tm 2, 8-10170 , luogo deputato nel pensiero dell’Alessandrino a sorreggere la sua riflessione sull’atto della preghiera; 1Cor 7, 5, dove Paolo dà istruzioni sulla preghiera nella vita matrimoniale (non senza cavarne spunti collaterali di riflessione, a beneficio della coppia dei destinatari); e infine 1Cor 11, 4-5, sulla preghiera a capo scoperto dell’uomo e quella della donna con il capo velato. L’accumulo di citazioni bibliche, in primis paoline, sfocia così nella riproposizione di Rm 8, 26: sebbene Paolo fosse a conoscenza di tutto ciò e sebbene fosse in grado di produrre molti altri passi analoghi «dalla Legge, dai Profeti e dalla pienezza evangelica» a sostegno di un discorso sulla preghiera, egli si lascia andare invece a confessare la propria impotenza (Orat II, 3). Ora, Paolo è notoriamente il testimone chiave dell’ermeneutica di Origene – come si può del resto sospettare già dalla sem–––––––––––––––––– 169 Orat II, 2 (299, 19-21: aijtei'te ta; megavla, kai; ta; mikra; uJmi'n prosteqhvsetai, kai; aijtei'te ta; ejpouravnia, kai; ta; ejpivgeia uJmi'n prosteqhvsetai (cfr. Resch, Agrapha, pp. 111-112 = nr. 86; Pesce, 326-329). Già attestato da Clemente Alessandrino nella prima parte (Strom. I, 24, 158, 2-159, 1; IV , 6, 34), esso ricompare come citazione esplicita in CMt XVI, 28 nonché in FrPs 4, 4 (PG 12, 1141C); e in forma allusiva nel cruciale passo sulla preghiera in CC VII, 44 (196, 4-6), dove Origene oppone la preghiera «spirituale» dei cristiani a quella dei pagani: l’orante cristiano ajnapevmpei ouj peri; tw'n tucovntwn th;n eujch;n tw'/ qew'/: e[maqe ga;r ajpo; tou' ∆Ihsou' mhde;n mikrovn, toutevstin aijsqhtovn, zhtei'n ajlla; movna ta; megavla kai; ajlhqw'" qei'a. In Orat è citato in II, 2; XIV, 1; XVI , 2; XVII, 2; XXI, 1; XXVII, 1; XXXIII, 1. Sull’importanza dell’agraphon per la visione origeniana della preghiera si veda Cocchini 1997b, 100-103. 170 1Tm 2, 8-10: «8 Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese. 9 Alla stessa maniera facciano le donne, con gli abiti decenti, adornandosi di pudore e riservatezza, non di trecce e ornamenti d’oro, di perle o di vesti sontuose, 10ma di opere buone, come conviene a donne che fanno professione di pietà».
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plice abbondanza di riferimenti tratti qui dal suo epistolario171 –; eppure l’Alessandrino arriva a sottolineare l’inadeguatezza di questa stessa interpretazione, nonostante la sua ricchezza e varietà (meta; poikilovthto" th'" eij" e{kaston dihghvsew"), davanti al compito «impossibile» che la preghiera sembra rappresentare ai suoi occhi, sia come esperienza che come riflessione172 . È vero che a questo punto Origene completa Rm 8, 26 con la citazione di 8, 27, sciogliendo in positivo la dialettica fra impossibile e possibile, ma neanche adesso viene meno la linea dell’argomentazione introdotta dall’inizio. Infatti l’azione dello Spirito in colui che prega, descritta anche con il ricorso a 1Cor 14, 15 (Orat II, 4), si staglia sullo sfondo della debolezza ed incapacità dell’uomo a pregare. Ed è proprio dalla coscienza di questa «umana debolezza» che nasce la richiesta rivolta a Gesù da un discepolo: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (Lc 11, 1)173. Anche in questo caso l’Alessandrino, senza accontentarsi di richiamare il contesto della versione lucana del Padrenostro, si preoccupa di fare emergere la dimensione aporetica del passo: è mai possibile che «un uomo allevato nell’istruzione legale e nell’ascolto dei profeti, e che certo non mancava di sinagoghe, non sapesse come pregare?» Ma egli, che pregava sì alla maniera giudaica, aveva in realtà bisogno di un nuovo modo di pregare, di una «scienza più grande riguardo al tema della preghiera», giungendo a quella «preghiera spirituale» di cui peraltro la Scrittura, a sviscerarne il senso profondo, è testimone (Orat II, 5)174. Con la prospettiva, al momento appena accennata, di alcune di queste «preghiere veramente spirituali» (eujcai; aiJ o[ntw" pneumatikaiv ) – che so–––––––––––––––––– 171 Sul modello paolino dell’ermeneutica origeniana si vedano de Lubac, 69-77 e Cocchini. Per una statistica delle citazioni scritturistiche in Orat, da cui risalta il peso del corpus Paulinum, cfr. Bertrand 1995. 172 Orat II, 3 (300, 30-301, 5): ajlla; tau'ta pavnta ejpistavmeno" Pau'lo" kai; touvtwn pollaplasivona ajpo; novmou kai; profhtw'n tou' te eujaggelikou' plhrwvmato" paraqevsqai dunavmeno", meta; poikilovthto" th'" eij" e{kaston dihghvsew", ajpo; diaqevsew" ouj metriazouvsh" movnon ajlla; kai; ajlhqeuouvsh" fhsivn (oJrw'n de; kai; meta; tau'ta pavnta o{son ajpoleivpetai tou' eijdevnai proseuvxasqai tiv dei' kaqo; dei'): to; de; o{ ti proseuvxasqai dei' kaqo; dei' oujk oi[damen. Ci si potrebbe interrogare se l’asserita duplice incapacità di pregare sia ridotta al «come si conviene», presupponendo il «che cosa conviene» in base agli esempi biblici appena riportati. Ma il contesto dell’argomentazione di Origene suggerisce che l’insufficienza è vista sia quanto ai contenuti che per il modo di pregare. 173 Orat II, 4 (302, 6-12): ejgw; de; oi[omai sunaisqovmenovn tina tw'n tou' ∆Ihsou' maqhtw'n th'" ajnqrwpivnh" ajsqeneiva", ajpoleipomevnh" tou' o}n trovpon eu[cesqai dei', kai; mavlista tou't∆ ejgnwkovta, o{te ejpisthmovnwn kai; megavlwn lovgwn h[kouen ajpaggellomevnwn uJpo; tou' swth'ro" ejn th'/ pro;" to;n patevra eujch'/, pausamevnw/ tou' proseuvcesqai tw'/ kurivw/ eijrhkevnai: kuvrie, divdaxon hJma'" proseuvcesqai, kaqw;" kai; ∆Iwavnnh" ejdivdaxe tou;" maqhta;" aujtou' . 174 Cfr. Orat II, 4 (302, 22-24): hu[ceto me;n ga;r kata; ta; ∆Ioudaivwn e[qh, eJwvra de; meivzono" ejpisthvmh" eJauto;n deovmenon eij" to;n peri; th'" eujch'" tovpon.
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no tali perché «lo Spirito prega nel cuore dei santi» –, il discorso sembra finalmente dischiudere un orizzonte diverso, che va oltre l’insistita problematicità caratteristica di tutto quanto il prologo. Ma, come si capirà dal successivo esame dei paradigmi biblici della preghiera, lo sviluppo positivo non è da intendersi come facile e scontato. Se tali preghiere sono ricolme della «sapienza di Dio» – conclude Origene – «quale è il sapiente che può comprenderle»? (Os 14, 10). 3. La motivazione antropologica: l’«umana debolezza» Aggiungiamo qualche corollario che aiuti ulteriormente a comprendere per quale ragione Origene sentisse il bisogno d’insistere tanto a lungo sulla dialettica antitetica «impossibile-possibile», anziché sviscerare rapidamente il suo superamento con un esito positivo. Traiamo di nuovo spunto da una spia linguistica che invita a disegnare lo sfondo antropologico dentro cui prende forma la visione della preghiera in Orat. Esso appare dominato dall’idea di una «debolezza» (ajsqevneia) costitutiva dell’uomo. Nel prologo il vocabolo ricorre due volte e in entrambi i casi il suo significato rinvia ad un limite della condizione umana come tale. In Orat II, 1 l’Alessandrino giustifica la martellante serie di ajduvnata nel primo capitolo, dichiarando che anche l’esporre «in maniera precisa e conforme a Dio il discorso sulla preghiera» rientra appunto fra tali impossibilità «in ragione della nostra debolezza»175 . Che Origene non pensi solo alla difficoltà del proprio compito, ma abbia in vista una situazione più generale, lo si capisce meglio, allorché lo stesso vocabolo è addotto a spiegare il motivo della richiesta del discepolo in Lc 11, 1 (Orat II, 4): egli interviene presso Gesù, perché si rende conto dell’«umana debolezza», la quale è ben «lungi dal sapere in quale modo bisogna pregare»176 . Non è forse irrilevante che le occorrenze successive del termine siano pressoché sempre accompagnate dal qualificativo ajnqrwpivnh, così da far pensare alla «fragilità dell’uomo» come ad un vero e proprio connotato ontologico 177 . Del –––––––––––––––––– 175 Orat II , 1 (298, 23-299, 1): e}n tw'n ajdunavtwn o{son ejpi; th'/ ajsqeneiva/ hJmw'n peivqomai tugcavnein tranw'sai to;n peri; th'" eujch'" ajkribw'" kai; qeoprepw'" pavnta lovgon. 176 Si veda supra, nota 173. 177 Cfr. Orat XI, 2 (322, 16-17): tou;" ejn th'/ ajnqrwpivnh/ ajsqeneiva/ tugcavnonta"; XXIX, 19 (393, 1): to; ga;r ejllei'pon dia; th;n ajnqrwpivnhn ajsqevneian. Che si tratti, in un certo senso, di un dato “originario”, lo si può ricavare in XXIX, 18 (392, 12-13) dall’esempio di Eva, della cui debolezza approfitta il serpente: tou' o[few" dia; tou'to aujth'/ proselhluqovto", ejpei; th'/ ijdiva/ fronimovthti ajntelavbeto th'" ajsqeneiva" aujth'". Cfr. anche XV, 4 (335, 22) con il rinvio a Cristo «sommo sacerdote» e «intercessore» di Eb 4, 15: dunamevnou sumpaqei'n tai'" ajsqeneivai" uJmw'n. Se per HNm XVI, 4 la «fragilità» contraddistingue l’uomo come essere mutevole rispetto a Dio immutabile, secondo H36Ps III, 8 (138, 3-5), l’umana debolezza è determinata dalla predisposizione a peccare: «Omnis au-
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resto, dietro questa parola è facile intravedere il suo utilizzo da parte di Paolo, non solo in 2Cor 12 (un passo richiamato più volte nel prologo), ma soprattutto nel testo chiave di Rm 8, 26, anche se in quella parte del versetto che Origene evita di citare, perché introduce già l’azione dello Spirito178 . Dalla spiegazione che leggiamo al riguardo nel Commento a Romani comprendiamo quale spessore semantico racchiuda per Origene il termine ajsqevneia, poiché egli collega l’infirmitas del passo paolino alle parole evangeliche sulla debolezza della carne (Mt 26, 41), insinuando la dimensione agonica dell’esistenza attraverso il suo conflitto con lo spirito 179 . ––––––––––––––––––
tem homo, quantum ad humanam fragilitatem spectat, et infirmus est et promptus ad lapsum». Cfr. anche H37Ps I , 1 (246, 1-4): «Creator humanorum corporum Deus sciebat quod talis esset fragilitas humani corporis, quae languores diversos posset recipere et vulneribus aliisque debilitatibus esset obnoxia». Ciò è ribadito anche da CMtS 81 (192, 26193, 4): «Qui autem nondum perfectus est, dubitat de se ipso quasi possit et cadere, secundum quam infirmitatem humanam scribens Corinthiis Paulus dicebat: Sed castigo corpus meum et in servitutem redigo, ne forte cum aliis praedicaverim ipse reprobus efficiar (1Cor 9, 27)». Per FrCt 84 su Ct 8, 9 («Se è un muro, costruiremo su di lei fortificazioni d’argento; se poi è una porta, disegneremo su di lei un’asse di cedro») lo Spirito sostiene la debolezza dell’uomo (th;n ajnqrwpivnhn ajsqevneian): «La porta significa una saldezza che viene disegnata non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente (2Cor 3, 3). Così essi dicono che sulla porta fisseranno anche un’asse, adattata a perfezionare la porta; e l’asse di cedro significa l’incorruttibile manto dello Spirito: questo infatti consolida la debolezza umana» (tr. Barbàra, 281). HLc XI, 3 (68) dichiara, con Mt 26, 41, la costitutiva debolezza dell’uomo che abbisogna dell’aiuto dello Spirito: ÔH ajnqrwpivnh fuvsi" ajsqenhv" ejsti kaiv, i{na gevnhtai ijscurav, creivan e[cei bohqeiva" kreivttono". Tivno" ou\n creiva, i{na krataiwqh/'… Pneuvmato". D’altra parte, CMt X, 24 (33, 23-25) distingue con 1Cor 11, 30 fra «deboli» e «malati»: OiJ me;n ga;r ojlisqhrw'" dia; th;n th'" yuch'" ajdunamivan pro;" to; oJtipotou'n aJmartavnein e[conte" [...] ajsqenei'" eijsi movnon. Secondo CMtS 72 (170, 14-15), Cristo nell’incarnazione fa propria la «debolezza dell’uomo»: «Ipse enim ex infirmitate est crucifixus (2Cor 13, 4) propter misericordiam, et ipse infirmitates nostras portat (Is 53, 4)». Al riguardo Prin II, 6, 2 (141, 5-7) osserva: «quaedam in eo ita videamus humana, ut nihil a communi mortalium fragilitate distare videantur». Cfr. anche Fr1Cor 33. 178 Rm 8, 26a: ÔWsauvtw" de; kai; to; pneu'ma sunantilambavnetai th/' ajsqeneiva/ hJmw'n. L’importanza del termine nel vocabolario paolino si percepisce specialmente in 2Cor 12, 5 (ouj kauchvsomai eij mh; ejn tai'" ajsqeneivai") e 12, 9 (hJ ga;r duvnami" ejn ajsqeneiva/ telei'tai). Il nesso fra 2Cor 12 e Rm 8, 26 è stabilito espressamente da CRm VII, 4 (578, 18-23), dove Origene rileva anzitutto l’incapacità dell’uomo a pregare come si conviene a causa della sua infirmitas: «Interdum enim, quae contraria saluti sunt, cupimus infirmitate cogente [...] ita et nos in huius vitae infirmitate languentes interdum a Deo petimus, quod non expedit nos». Poi egli introduce 2Cor 12, 9 come premessa dell’esegesi di Rm 8, 26 (579, 27-30): «et ideo quia nesciebam secundum quod oportet orare, non me audivit Dominus, sed dixit mihi: Sufficit tibi gratia mea, nam virtus in infirmitate perficitur. Sic ergo quid oremus, secundum quod oportet, nescimus; sed ipse spiritus interpellat». Secondo FrLc 129 (280, 1-2), ajsqevneia indica un «peccato dell’anima», distinto dal «peccato per la morte» (1Gv 5, 16) e dalla aJmartiva yuch'" zhmiva, con riferimento a 1Cor 3, 15. Invece HIud VI, 6 associa l’humana fragilitas all’aiuto divino, conformemente a Rm 8, 26. 179 CRm VII, 6 (580, 51-59): «Quae autem sit infirmitas nostra, ipse Dominus docet, cum dicit: Spiritus promptus, caro autem infirma. Igitur infirmitas nostra ex carnis infir-
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L’idea di questa «debolezza» è richiamata indirettamente anche con l’ampia citazione da Sap 9, 13-16 (Orat I)180. L’uomo – che Origene, avviando il suo discorso, definisce come «la stirpe razionale e mortale» (tw'/ logikw'/ kai; qnhtw'/ gevnei) – vi compare in tutta la sua precarietà ontologica di essere limitato, mortale e corruttibile, tanto più incapace di conoscere le realtà celesti quando riesce a stento a penetrare le cose che gli stanno vicine. Spicca in particolare il motivo della pesantezza del corpo che grava sull’anima, esemplificato dall’immagine della «tenda di argilla» (to; gew'de" skh'no"). Ad un attento lettore di Paolo – come era l’Alessandrino – non poteva certo sfuggire che questo passo, più precisamente Sap 9, 15, riecheggia in 2Cor 5, 4 (kai; ga;r oiJ o[nte" ejn tw/' skhvnei stenavzomen barouvmenoi). Peraltro, al motivo della pesantezza del corpo si aggiunge in Paolo quello del «gemito», che si rivela determinante in Origene per introdurre l’intercessione dello Spirito a partire da Rm 8, 26. È infatti la condizione di sofferenza manifestata con i loro «gemiti» da «coloro che sono nella tenda», che spinge lo Spirito ad intercedere per essi facendosene carico a sua volta con «gemiti inenarrabili»181 . Abbiamo così una saldatura fra l’orizzonte antropologico e la prospettiva del soccorso dello Spirito – secondo i due poli dialettici che sorreggono tutto il procedere del prologo –, ma intorno ai tre passi scritturistici appena richiamati Origene, con il suo ineguagliabile intarsio di citazioni e allusioni, ne raduna altri per confermare in sostanza l’accento tratto da Sap 9, 15. Se con Gal 4, 6 («lo Spirito che grida nei cuori dei beati “Abba, Padre”») egli può ancora ribadire l’azione dello Spirito che interviene a sostegno della debolezza dell’uomo, nel contempo sembra volere insistere, per contrasto, sulla condizione di sofferenza dell’anima nel corpo servendosi rispettivamente di Sal 43(44), 26 e Fil 3, 21: nel primo passo l’anima ci appare «umiliata nella polvere», nel secondo è «rinchiusa in un corpo ––––––––––––––––––
mitate descendit. Ipsa est enim, quae concupiscit adversus spiritum; et dum concupiscentias suas ingerit, puritatem spiritus impedit et sinceritatem orationis offuscat. Sed ubi viderit spiritus Dei laborare spiritum nostrum, in adversando carni et adhaerendo sibi, porrigit manum et adiuvat infirmitatem eius». 180 «13Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? 14I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, 15perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri. 16A stento ci raffiguriamo le cose terrene, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi può rintracciare le cose del cielo?» 181 Orat II, 3 (301, 10-19): to; de; ejn tai'" kardivai" tw'n makarivwn kra'zon ajbba oJ path;r pneu'ma (Gal 4, 6), ejpistavmenon ejpimelw'" tou;" ejn tw'/ skhvnei stenagmouv", ajxivou" tugcavnonta" eij" to; baru'nai tou;" peptwkovta" h] parabebhkovta", stenagmoi'" ajlalhvtoi" uJperentugcavnei tw'/ qew'/, tou;" hJmetevrou" dia; th;n pollh;n filanqrwpivan kai; sumpavqeian ajnadecovmenon stenagmouv": kata; de; th;n ejn aujtw'/ sofivan oJrw'n th;n tapeinwqei'san eij" cou'n (Sal 43[44], 26) yuch;n hJmw'n kai; ejn tw'/ swvmati th'" tapeinwvsew" (Fil 3, 21) kaqeirgmevnhn, ouj toi'" tucou'si stenagmoi'" crwvmenon uJperentugcavnei tw'/ qew'/ ajllav tisin ajlalhvtoi", ejcomevnoi" tw'n ajrrhvtwn lovgwn, w|n oujk e[stin ajnqrwvpw/ lalei'n.
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di umiliazione». Ci si può forse spingere oltre nell’analisi di questa formulazione così densa di implicazioni, coll’osservare il paradossale accostamento fra i «beati» (makarivwn), nei cui cuori lo Spirito prega invocando il Padre e i lamenti che nascono da «coloro che sono caduti o hanno trasgredito» (tou;" peptwkovta" h] parabebhkovta"): è dunque assicurata per essi la prospettiva di una trasformazione in positivo, grazie all’«amore per l’uomo e alla compassione» (dia; th;n pollh;n filanqrwpivan kai; sumpavqeian) dello Spirito, ma la sorte degli uomini si presenta in partenza come segnata dalla condizione di esseri peccatori. Come troviamo più chiaramente espresso nel Commento a Romani, dove Origene interpreta Rm 6, 5-7 con un corredo di luoghi scritturistici, includendovi in posizione centrale i nostri due, nessun uomo è fin dalla nascita esente dal peccato182 . Che l’immagine del corpo come «tenda», associata in special modo ai passi paolini appena indicati, fosse particolarmente cara ad Origene è evidente anche dal richiamo ad essa in due passi della pressoché contemporanea Esortazione al martirio. In EM 3 coloro che sono gravati dal peso del «corpo di umiliazione» (Fil 3, 21) e gemono sotto di esso (2Cor 5, 4) anelano ad esserne liberati facendo proprie le parole dell’Apostolo in Rm 7, 24: «Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?»183 . È –––––––––––––––––– 182 I due passi, posti entrambi significativamente in relazione alla «Sapienza divina», sono accostati anche in CRm V, 9 (439, 146-157) per ben due volte di seguito: «Sic ergo Paulus per ineffabilem Dei sapientiam, quae data est ei, arcanum nescio quid intuens et reconditum corpus nostrum “corpus peccati” et “corpus mortis” et “corpus humilitatis” appellat. Sed et David eodem spiritu secretorum caelestium gnarus dicebat de corpore: Et in pulverem mortis deduxisti me (Sal 21[22], 16), et iterum: Humiliata est in pulvere anima nostra (Sal 43[44], 26). Hieremias quoque similis mysterii per Dei spiritum conscius in Lamentationibus suis dicit, quia vincti terrae sint omnes homines corporis scilicet causa et ait: ut humiliet sub pedibus eius omnes vinctos terrae, quia declinaverunt iudicium viri in conspectu Altissimi et condemnaverunt hominem in iudicando (Lam 3, 34-36)». Su questa base Origene arriva a giustificare anche la prassi ecclesiastica del battesimo degli infanti, poiché nemmeno essi sono immuni dalle sordes peccati (440, 169-177): «Sciebant enim illi, quibus mysteriorum secreta commissa sunt divinorum, quia essent in omnibus genuinae sordes peccati, quae per aquam et spiritum ablui deberent, propter quas etiam corpus ipsum corpus peccati nominatur, non [...] pro his, quae in alio corpore posita anima deliquerit, sed pro hoc ipso, quod in corpore peccati et corpore mortis atque humilitatis effecta sit; et sicut ille dixit, quia humiliasti in pulverem animam nostram (Sal 43[44], 26)». Anche CRm VII, 4 ripropone la connessione fra i due luoghi biblici, mentre HLc XIV, 3 (86, 1-2) distingue le sordes dai peccata, in rapporto a Gb 14, 4 («nemo mundus a sorde, nec si unius quidem diei fuerit vita eius»), confermando su tale base la prassi del battesimo degli infanti: ejrruvpwtai ou\n pa'sa yuch; ejndedumevnh sw'ma ajnqrwvpinon. 183 EM 3 (4, 19-5, 1): ”Olh/ de; yuch'/ nomivzw ajgapa'sqai to;n qeo;n uJpo; tw'n ajpospwvntwn kai; dii>stavntwn aujth;n dia; pollh;n th;n pro;" to; koinwnh'sai tw'/ qew'/ proqumivan ouj movnon ajpo; tou' ghi?nou swvmato" ajlla; kai; ajpo; panto;" swvmato": oi|" oujde; meta; perispasmou' kai; perielkusmou' tino" givnetai to; ajpoqevsqai «to; » «th'" tapeinwvsew~» «sw'ma» (cfr. Fil 3, 21), o{tan kairo;" didw'/ dia; tou' nomizomevnou qanavtou ejkduvsasqai to; sw'ma «tou' qanavtou» kai; ejpakousqh'nai ajpostolikw'" eujxavmenon kai; eijpovnta: talaiv-
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interessante notare come questa citazione sia assente in Orat e ciò appare tanto più sorprendente, se teniamo presente che nell’Esortazione al martirio Origene invita a trasformare il «gemito di coloro che sono nella tenda» in una «preghiera», proprio sull’esempio di Rm 7, 24. Infatti, la domanda di Paolo è intesa dall’Alessandrino come una «supplica», cui segue però immediatamente – quasi più per distinzione logica che non per effettiva successione temporale – il «ringraziamento» di Rm 7, 25: «Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!». Condizionato dalla particolare situazione parenetica di EM, Origene tende a conferire un accento diverso alle sofferenze dell’uomo nella carne rispetto ad Orat, insistendo soprattutto sul trapasso ad un atteggiamento di preghiera che – nel caso esemplare dell’Apostolo – giunge senza soluzione di continuità dalla supplica al ringraziamento, a seguito proprio del suo «colloquio» (oJmiliva) orante con Dio. La diversità di tono fra i due scritti è rafforzata inoltre proprio dall’assenza di quest’ultimo termine nel discorso sulla preghiera184. Di tenore analogo è il secondo passo in EM 47: Origene avviandosi a concludere esorta Ambrogio e Protocteto a non esitare a disfarsi del corpo, questa volta descritto direttamente con l’ausilio di Sap 9, 15, ma riproposto in un contesto che ci appare ripieno dell’anelito paolino a morire per essere con Cristo185 .
––––––––––––––––––
pwro" ejgw; a[nqrwpo": tiv" me rJuvsetai ejk tou' swvmato" tou' qanavtou touvtou (Rm 7, 24)… tiv" ga;r tw'n «ejn tw'/ skhvnei» (2Cor 5, 4) stenazovntwn dia; to; barei'sqai uJpo; tou' fqartou' swvmato" oujci; kai; eujcaristhvsei provteron eijpwvn: tiv" me rJuvsetai ejk tou' swvmato" tou' qanavtou touvtou… blevpwn o{ti dia; th'" oJmiliva" rJusqei;" ajpo; «tou' swvmato" tou' qanavtou» aJgivw" ajnafqevgxetai tov: cavri" tw'/ qew'/ dia; Cristou' ∆Ihsou' tou' kurivou hJmw'n (Rm 7, 25). 184 Cfr. supra, nota 40. Un’analoga combinazione di Sap 9, 15 e 2Cor 5, 4 figura in CC V , 19, allorché Origene respinge il paragone di Celso sugli uomini come «vermi»: noei' hJ memelethkui'a th;n sofivan kata; to; stovma dikaivou melethvsei sofivan diafora;n ejpigeivou oijkiva", ejn h|/ ejsti to; skh'no", kataluomevnh" kai; skhvnou", ejn w|/ oiJ o[nte" divkaioi stenavzousi barouvmenoi. Si veda anche CC VII, 32, dove Origene considera il motivo della «tenda» dell’anima nella prospettiva della dottrina della resurrezione; CIo I, 26, 177 (33, 8): oiJ o[nte" ejn tw'/ skhvnei stenavzousin. In CIo VI, 42, 217 (151, 17-18) la «tenda d’argilla» ritorna a proposito delle «figlie degli uomini» (Gn 6, 1-2), considerate da alcuni (cioè, Filone Alessandrino) come simbolo dei corpi unite alle «anime» (to; ghvi>non skh'no" levgesqai uJpeilhfovte"). FrLam 10 (239, 18-22) riprende 2Cor 5, 4 interpretando il lamento di Lam 1, 2 in nesso con Lc 6, 21 («Beati voi che ora piangete, perché riderete»): oJ toivnun stenavzwn dia; to; ei\nai ejn tw/' skhvnei, w{sper oJ ajpovstolo" dedhvlwken eijpwvn: kai; ga;r oiJ o[nte" ejn tw/' skhvnei stenavzomen barouvmenoi, to;n ejn ejpaggeliva/ gevlwta poqw'n kai; th;n qeivan iJlarovthta, klauqmo;n klaivei trofimwvtaton kai; wjfelou'nta th;n yuchvn. 185 EM 47 (43, 8-12): tiv toivnun ojknou'men kai; distavzomen ajpoqevmenoi to; ejmpodivzon «fqarto;n sw'ma», baru'non yuch;n, bri'qon «nou'n polufrovntida» «gew'de" skh'no"», ajpoluqh'nai tw'n desmw'n kai; ajnalu'sai ajpo; tw'n meta; sarko;" kai; ai{mato" kumavtwn… i{na su;n Cristw'/ ∆Ihsou' th;n oijkeivan th'/ makariovthti ajnavpausin ajnapauswvmeqa.
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4. Nell’agone del mondo: fra libertà e responsabilità Accanto all’idea della costitutiva «debolezza» dell’uomo e del legame conflittuale con il «corpo terrestre» come fattore determinante di essa, Origene può ancora insinuare in altri modi il pensiero di una distanza incolmabile con Dio che risulta inibente ai fini della preghiera. A dire il vero, l’espressione più nitida dell’inferiorità ontologica dell’uomo, che si rende esplicita proprio nell’atto di pregare, viene posta in bocca agli avversari della preghiera, quale giustificazione speciosa dell’invito a non rivolgere suppliche a Dio: gli uomini non saprebbero infatti cosa e come pregare, perché «sono lontani da Dio ben più di bambini in piccolissima età dalla mente di coloro che li hanno generati» (Orat V, 2)186. Ma con ciò Origene, pur opponendosi al paternalismo implicito nella posizione degli avversari, non fa altro che attribuire loro una riflessione di cui egli per primo è consapevole. Lo testimoniano non solo l’invito a domandare le «cose grandi e celesti» (secondo il criterio regolativo della preghiera frequentemente riproposto), ma specialmente l’analogo modo di esprimere la richiesta fatta dal discepolo a Gesù in Lc 11, 1187 . Tuttavia, più che insistere direttamente su tale motivo, l’Alessandrino fa riecheggiare la nota “drammatica” del prologo nella più ampia trama del trattato soprattutto con l’inculcare la dimensione agonica dell’esistenza umana, strettamente connessa alla visione della sua precarietà ontologica. La prospettiva antropologica trapassa allora in quella etica e soteriologica, illuminando nuovamente da questi diversi punti di vista il paradosso e la sfida della preghiera. Come illustra ampiamente la spiegazione del Padrenostro, in particolare nel commento alla quinta e alla sesta petizione, l’intera vita dell’uomo è segnata agli occhi di Origene dal peso della sua responsabilità morale, che si dispiega nella miriade di «doveri» (kaqhvkonta) di cui è intessuto il suo “quotidiano”, e al tempo stesso dal continuo vaglio della prova a cui egli è sottomesso per tutto il tempo dell’esistenza terrena. Quanto tali aspetti pesino nella visione della preghiera sviluppata dall’Alessandrino in Orat lo si può misurare anche solo in base al loro rilievo quantitativo. –––––––––––––––––– 186 Orat V, 2 (309, 10-11): ajpoleipovmeqa de; oiJ a[nqrwpoi plei'on tou' qeou' h[per ta; komidh'/ paidiva tou' nou' tw'n gegennhkovtwn. Con il medesimo verbo CC IV, 29 (298, 18-20) designa la distanza ontologica degli uomini in rapporto agli angeli, ma essa può essere colmata dallo sforzo virtuoso dell’uomo che lo porta ad assimilarsi ad essi: kai; oJrw'men o{ti polu; touvtwn hJmei'" oiJ a[nqrwpoi ajpoleipovmenoi ejlpivda" e[comen ejk tou' kalw'" biou'n kai; pavnta pravttein kata; to;n lovgon ajnabaivnein ejpi; th;n touvtwn pavntwn ejxomoivwsin. In HIer XIX, 15 (174, 5-6) Origene assimila in generale ai «bambini» la condizione degli uomini dinanzi a Dio: pavnte" ejsme;n paidiva tw/' qew/' kai; deovmeqa ajgwgh'" paidivwn. 187 Cfr. Orat II, 4 (supra, nota 173).
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Non è certo casuale che proprio alle petizioni che mettono in luce la condizione dell’uomo del mondo – dopo le tre che riguardano più da vicino il rapporto con Dio e la sua iniziativa di salvezza – l’Alessandrino dedichi uno spazio tanto abbondante. In tal modo, la vicenda dell’uomo si compie nell’orizzonte di bisogni, di obblighi e responsabilità, di colpe e prove188. Nel tracciare questo scenario teso ed impegnativo Origene, da un lato, è incline a presentare l’uomo come «debitore» al cospetto dell’intero cosmo più che soffermarsi a considerarlo anche come «creditore», per riequilibrare in un certo senso la sua prospettiva drammatica con la reciprocità dei doveri; dall’altro, generalizza l’esperienza della prova richiamando ad ampio raggio le varie modalità in cui essa può manifestarsi come a voler sottolineare la necessità di restare sempre in allerta. L’intensità radicale dell’agone nel quale l’uomo è chiamato a realizzare la propria vocazione spirituale viene ulteriormente sottolineata dallo sfondo cosmico entro cui questo impegno s’inserisce. Fra l’altro, Origene, richiamandosi espressamente all’immagine paolina di 1Cor 4, 9, secondo cui gli Apostoli «come condannati a morte [...] sono diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini», raffigura la preghiera come un atto che si dispiega sulla scena di un “teatro” ben più vasto dello stesso mondo. Infatti, anche nel chiuso della sua «cameretta» (Mt 6, 6), l’orante è considerato alla stregua di un attore che deve assicurare la sua performance al meglio di sé, pena il rischio di scontentare i propri spettatori189 . Ora, questo pubblico è composto di uomini, angeli e demoni, diversamente partecipi della sua sorte di salvezza, anche se sotto lo sguardo amoroso ed esigente dello spettatore divino. Aggiungendo così un’ulteriore polarità alle molte di cui è permeato il trattato, mentre esso esalta la responsabilità dell’individuo, con la convinta difesa del libero arbitrio di cui anche la preghiera è espressione (Orat VI -VII), al tempo stesso insiste sul suo rapportarsi agli altri come un tratto inscindibile e in qualche modo vincolante. In aggiunta a ciò, il mondo terreno, visto questa volta sotto l’ottica della sua consistenza metafisica, tende a presentarsi in Orat come una parvenza della vera realtà, essendo in sostanza contraddistinto dalla frammentazione dei «molti» rispetto all’«uno» divino, come troviamo espresso, in particolar modo, nell’introduzione al commento del Padrenostro. È in questa luce che l’Alessandrino spiega la messa in guardia evangelica contro il moltiplicare le parole nella preghiera: per Origene non v’è realtà –––––––––––––––––– 188 Cfr. Orat XXVII-XXX. Diversamente da Bertrand, 477 – che ricollega il cap. XXVII alla prima parte del commento origeniano sotto il titolo «La preghiera al Padre», mentre accomuna XXVIII-XXX nel tema «La giustificazione dell’uomo» –, questi capitoli vertono tutti sulla vita nel mondo nel segno di Dio. Si veda Perrone 2002b, in part. le pp. 282 ss. 189 Si veda rispettivamente Orat XXVIII, 3 (377, 11): ejn qeavtrw/ ejsme;n kovsmou kai; ajggevlwn kai; ajnqrwvpwn; e XX, 2 (344, 18-19): ejn tw'/ panto;" tou' proeirhmevnou qeavtrou kaq∆ uJperbolh;n meivzoni. In proposito, cfr. Lugaresi 2003b; Lugaresi 2008, 514-518.
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appartenente alla materia e ai corpi che non vada soggetta a separarsi e dividersi, mentre il bene e la verità sono «uno» (Orat XXI, 2). Pertanto, l’inveramento della preghiera sollecita come una reductio ad unum, che si identifica con il pensare secondo il «concetto di Dio», sola garanzia di autentica preghiera. Ma lo sguardo umano sembra lasciarsi attrarre soprattutto dai beni terreni che nella migliore delle ipotesi sono solo l’«ombra» dei beni celesti. Per questo motivo la prima petizione del Padrenostro trova la sua giustificazione nella necessità di pregare perché le nostre nozioni su Dio, affatto deboli e imperfette, si conformino al «santo pensiero» su di lui (Orat XXIV , 2). 5. La costruzione del trattato: dal provblhma al lovgo" Se Origene, dunque, ha conferito alla sua esposizione un accento inconfondibile, tale da manifestare la preghiera come un atto ben più problematico ed esigente, se non quasi come gesto “estremo”, di quanto appaia dalla sua prassi e consapevolezza diffuse, una causa non secondaria di ciò va ricercata nelle stesse circostanze della composizione di Orat. Come sappiamo, l’Alessandrino redasse il trattato in risposta ad una richiesta di Ambrogio che – secondo l’estratto della lettera di questi riportato in Orat V, 6 – conteneva fondamentali obiezioni destinate a togliere qualunque legittimità alla preghiera come domanda a Dio per ottenere benefici, in ragione della prescienza e predeterminazione divine190. Nella costruzione complessiva la trattazione della quaestio occupa all’apparenza solo tre capitoli (Orat V-VII ), ma è lecito interrogarsi se il suo peso non sia da valutare come assai più rilevante e rivesta così un carattere strutturale. A sostegno di ciò possiamo fare riferimento ai modi in cui l’autore designa la propria opera e chiarisce le intenzioni che lo muovono, a volte con indicazioni abbastanza circoscritte riguardo all’articolazione dello scritto. Affrontiamo così la dibattuta questione della struttura di Orat, che vede i critici disputare sul suo profilo unitario o meno, spesso approdando alla conclusione che si tratti di un’opera eterogenea o comunque dall’impianto miscellaneo. Origene peraltro non ha mancato di segnalare al lettore il contenuto e la struttura intenzionale di Orat, in particolare fornendo tali indicazioni in alcuni momenti “strategici” della sua composizione: 1. al termine del prologo (II, 6); 2. all’inizio della seconda sezione ( XVIII, 1); 3. all’inizio della terza sezione (XXXI , 1); 4. a conclusione dell’opera (XXXIV). È in sostanza grazie a queste precisazioni che possiamo distinguere le parti principali, disegnando così la sua griglia essenziale, anche se essa è lungi –––––––––––––––––– 190
Si veda supra, p. 17 e le note 25-26.
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dal soddisfare gli interrogativi suscitati dall’organizzazione e dai contenuti dello scritto. In ogni caso, si può partire preliminarmente da questo dato, strutturando il trattato come segue: – Prologo ( I-II) – Prima sezione: il «problema della preghiera» (III- XVII) – Seconda sezione: il commento del Padrenostro (XVIII- XXX) – Terza sezione: supplemento al «problema della preghiera» (XXXI -XXXIII) – Epilogo (XXXIV) 191 Ripercorrendo le “dichiarazioni programmatiche” dell’autore si nota, in particolare, la frequenza di due termini che sembrano, sia pure a titolo diverso, ricapitolare il contenuto di Orat e designarne il profilo letterario: provblhma e lovgo". La precedenza di provblhma nell’elencazione è giustificata dal fatto che questo vocabolo ricorre con maggiore frequenza, essendo attestato in tutti e quattro i passi di interesse strutturale. I due termini compaiono insieme a conclusione del proemio, dove peraltro Origene sembrerebbe voler distinguere, oltre a provblhma e lovgo" della preghiera in generale, l’illustrazione delle preghiere riportate nei vangeli (intendendo evidentemente le due versioni del Padrenostro, secondo Mt e Lc)192. In tal modo s’insinua provvisoriamente l’idea di una bipartizione del trattato, laddove la prima parte si configura tendenzialmente come un’esposizione più o meno organica (lovgo") che si sviluppa a partire da un nucleo problematico (provblhma), mentre la seconda parte si presenta come una trattazione esegetica sulle «preghiere dei vangeli» (aiJ ejn toi'" eujaggelivoi" ajnagegrammevnai [...] eujcaiv). Pertanto nel prologo lovgo" si propone, almeno in apparenza, come Oberbegriff rispetto a provblhma, anche a giudicare dalla frequenza non accidentale del termine nel pronunciamento conclusivo e dalla sua associazione esplicita con eujchv ripetuta per ben due volte: rispettivamente pro; tou' lovgou [...] th'" eujch'" e tou' peri; th'" eujch'" lovgou193. All’inizio della seconda sezione (Orat XVIII, 1) Origene accenna retrospettivamente alla prima come un esame del «problema riguardo alla preghiera» (to; peri; eujch'" provblhma), mentre annuncia la successiva –––––––––––––––––– 191 192
Cfr. Koetschau, LXXVIII ss.; Gessel, 35 ss.; Junod 2009. Orat II, 6 (303, 17-304, 2): ejpei; toivnun thlikou'tovn ejsti to; peri; th'" eujch'" dialabei'n, wJ" dei'sqai tou' kai; eij" tou'to fwtivzonto" patro;" kai; aujtou' tou' prwtotovkou lovgou didavskonto" tou' te pneuvmato" ejnergou'nto" eij" to; noei'n kai; levgein ajxivw" tou' thlikouvtou problhvmato", eujxavmeno" wJ" a[nqrwpo" (ouj gavr pou ejmautw'/ divdwmi cwrei'n th;n proseuch;n) tou' pneuvmato" pro; tou' lovgou tucei'n th'" eujch'" ajxiw', i{na lovgo" plhrevstato" kai; pneumatiko;" hJmi'n dwrhqh'/, kai; aiJ ejn toi'" eujaggelivoi" ajnagegrammevnai safhnisqw'sin eujcaiv. ajrktevon ou\n h[dh tou' peri; th'" eujch'" lovgou. 193 La stessa espressione compare del resto già in Orat II, 1 (298, 21): peri; eujch'" prokeimevnou hJmi'n tou' lovgou.
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analisi sulla «preghiera-modello del Signore» (th;n uJpografei'san uJpo; tou' kurivou proseuch;n)194 . L’espressione adoperata per designare la prima parte di Orat tende adesso ad assimilare in pratica il termine provblhma a lovgo". In ogni caso si comprende che il significato del primo dei due vocaboli ha una portata più vasta dei tre capitoli dedicati alla quaestio sulla preghiera ed investe la totalità dell’esposizione di carattere generale. D’altro canto, la preferenza accordata d’ora in avanti a provblhma su lovgo" invita a chiedersi se Origene se ne serva proprio con l’intento di sottolineare precisamente quegli aspetti “problematici” che caratterizzano in maniera decisiva la sua visione della preghiera. Questa conclusione tende ad imporsi, se si guarda alle due successive precisazioni strutturali. In Orat XXXI, 1 la terza sezione è presentata come un «complemento» della prima, indicata nuovamente da Origene mediante l’espressione «il problema riguardo alla preghiera» (to; peri; th'" eujch'" provblhma)195 . Ora, il contenuto della terza sezione consiste, per esplicita ammissione dell’autore, in un breviario essenziale circa l’ars orandi. Da questo punto di vista si riallaccia ad un passo del prologo (Orat II, 1), ma in quel caso i contenuti concreti dell’ars orandi sembrerebbero, per così dire, essere oggetto di una distinzione concettuale rispetto al «discorso sulla preghiera» in senso stretto, inteso alla stregua di «problema della preghiera»196. Tuttavia, proprio questo luogo ci aiuta a capire meglio la generalizzazione dell’uso di provblhma, dal momento che Origene riconduce alla categoria di ajduvnaton non soltanto una trattazione della preghiera che sia «esatta e conforme a Dio», ma pure le istruzioni pratiche riguardo ai modi e ai tempi del pregare. Del resto, anche l’epilogo (Orat XXXIV) attribuisce a provblhma il valore di categoria riassuntiva per tutto ciò che concerne l’esposizione generale (to; th'" eujch'" provblhma), con esclusione della trattazione esegetica a commento della «preghiera nei vangeli» e dell’introduzione al Padrenostro in Mt 6 197 . Considerando l’insieme dei passi programmatici sembra dunque imporsi l’idea che agli occhi di Origene il trattato si presentasse in sostanza come un dittico composto di due parti: a) il «problema della preghiera»; –––––––––––––––––– 194 Orat XVIII, 1 (340, 6-9): ejxetavsante" to; peri; eujch'" provblhma, h[dh kai; ejpi; to;n eJxh'" a\qlon ejleusovmeqa, th;n uJpografei'san uJpo; tou' kurivou proseuch;n, o{sh" dunavmew" peplhvrwtai, qewrh'sai boulovmenoi. 195 Orat XXXI, 1 (395, 13-14): Dokei' dev moi meta; tau'ta oujk a[topon ei\nai uJpe;r tou' plhrwqh'nai to; peri; th'" eujch'" provblhma. 196 Cfr. Orat II , 1 (298, 23-299, 3): e}n tw'n ajdunavtwn o{son ejpi; th'/ ajsqeneiva/ hJmw'n peivqomai tugcavnein tranw'sai to;n peri; th'" eujch'" ajkribw'" kai; qeoprepw'" pavnta lovgon kai; to;n peri; tou' tivna trovpon eu[cesqai dei', kai; tivna ejpi; th'" eujch'" levgein pro;" qeo;n, kai; poi'oi kairoi; poivwn kairw'n pro;" th;n eujchvn eijsin ejpithdeiovteroi. 197 Orat XXXIV (403, 1-3): Tau'ta kata; duvnamin ejmh;n eij" to; th'" eujch'" provblhma kai; eij" th;n ejn toi'" eujaggelivoi" eujch;n tav te pro; aujth'" para; tw'/ Matqaivw/ eijrhmevna hJmi'n dihvqlhtai.
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b) il commento di Mt 6 e Lc 11. In ogni caso, la seconda era di fatto inquadrata, al dire dell’autore, in una trattazione in due tempi dedicata precisamente al «problema della preghiera», rispettivamente da un punto di vista «teorico» ed uno «pratico». Sembra insomma inevitabile dedurne, come si è già messo in risalto, la preoccupazione di sottolineare la dimensione «problematica» rispetto al vocabolo alternativo e, in un certo senso, più onnicomprensivo e neutrale, di lovgo". La preferenza accordata dall’Alessandrino a provblhma può risultare ancora più significativa, se teniamo presente che nei Frammenti su Luca egli designa l’insegnamento rispettivo di Matteo e Luca sulla preghiera precisamente con il termine lovgo"198. In questo testo è evidente la preoccupazione di estrapolare dal Vangelo di Luca, in positivo, una «dottrina» (didaskaliva) sulla preghiera e di mostrare la sua conformità con quella consegnata in Mt 6, 5-13199. Ora, la trattazione matteana è presentata come il «discorso sulla preghiera» (to;n peri; th'" proseuch'" lovgon) che segue a quello delle Beatitudini200 . Diversamente dal primo vangelo, dove tale insegnamento è impartito alla folla dei presenti, in Lc 11 è diretto ai discepoli, ai quali dunque Gesù stesso chiarisce anche in questo caso il «discorso sulla preghiera» (to;n th'" eujch'" lovgon) 201 . La distinzione terminologica non è dunque priva di interesse, ma concorre a sostenere da parte sua quella caratterizzazione del trattato che abbiamo ricavato in precedenza da una pluralità di altri indizi202. –––––––––––––––––– 198 Cfr. FrLc 174 (300, 18.22) su Lc 11, 2: to;n peri; th'" proseuch'" lovgon [...] to;n th'" eujch'" lovgon. 199 Si veda l’introduzione al commento di Lc 11, 1 in FrLc 172 (299, 1-6): Ei\ta i{na deivxh/ e[ti aujto;n protrevpein ejpi; th;n peri; th'" eujch'" didaskalivan, toiauvthn prosfevrei ajxivwsin, o{ti kai; ∆Iwavnnh", peri; ou| hJma'" ejdivdaxa", o{ti meivzwn ejn gennhtoi'" gunaikw'n aujtou' oujdeiv" ejstin (Lc 7, 28), th'" peri; th;n eujch;n oujk hjmevlei didaskaliva": kai; o{ti: to; pw'" proseuvxasqai, kaqo; dei', oujk oi[damen (Rm 8, 26): kai; o{ti: ejneteivlw hJmi'n aijtei'n ta; megavla kai; ta; aijwvnia: povqen ou\n hJmi'n ejstin eijdevnai tau'ta h] ajpo; sou' tou' qeou' kai; swth'ro" hJmw'n… 200 FrLc 174 (300, 15-18): ei\ta Matqai'o" me;n ejpifevrei tw'/: pavter hJmw'n tov: ej n toi'" oujranoi'", a{te peri; basileiva" dialegovmeno" oujranw'n kai; pavnta" tou;" parovnta" didavskein dihgouvmeno" to;n swth'ra meta; tou;" makarismou;" kai; to;n peri; th'" proseuch'" lovgon. 201 FrLc 174 (300, 18-22): Louka'" de; peri; basileiva" didavskwn qeou' ejn o{lw/ tw'/ kat∆ aujto;n eujaggelivw/ ejsiwvphse to; ejn toi'" oujranoi'", wJ" uJyhlovteron kai; tovpou krei'tton to; qei'on ei\nai didavskwn kai; ijdiva/ toi'" maqhtai'" wJ" uJyhlotevroi" tw'n loipw'n to;n Cristo;n uJfhgouvmenon to;n th'" eujch'" lovgon. 202 Per un approfondimento di tale aspetto rimando al mio contributo in Perrone 1994b. La conclusione Gessel, 59, secondo cui «die Überschrift des Werkes muß also gelautet haben: oJ peri; (th'") eujch'" lovgo"» non tiene conto di questi elementi che richiedono un giudizio più sfumato. Pur con qualche semplificazione, si può invece convenire con Löhr 1999, 90, per il quale la discussione del «problema della preghiera» sta al centro di Orat, in risposta alle due domande su «che» e «come» pregare: «die Widerlegung der christlichen Gebetsgegner ist für Origenes kein bloß preliminärer oder nebensächlicher
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Pur contraddistinto in maniera strutturale dalla sua natura di provblhma, Orat suscita tra gli studiosi l’impressione di essere una composizione disordinata ed eterogena. Nonostante le grandi articolazioni indicate dall’autore, e ammesse in generale dalla critica, il trattato risulterebbe privo di unità203 . Origene si sarebbe lasciato guidare dal proposito di una panoramica ad ampio raggio, inseguendo un po’ confusamente diverse tematiche, ma di fatto senza riuscire ad imprimere al proprio discorso una configurazione unitaria204 . Giudizi come questi richiamano alla mente analoghe valutazioni critiche sulle manchevolezze della composizione in taluni autori e scritti della tarda antichità (l’esempio maggiore in questo senso è notoriamente Agostino). Nel caso di Origene, forse si è tenuto poco conto, in via preliminare, delle condizioni di produzione della sua opera, che sappiamo essere stata caratterizzata da una fecondità creativa senza eguali. Inoltre, solo negli ultimi anni si è dato il giusto riconoscimento all’impatto dell’ambiente scolastico al cui interno Origene operava non solo come maestro a contatto con i discepoli, ma anche come autore 205 . In questa cornice, pur tenendo in debito conto la singolarità di Orat accertata in precedenza, una valutazione contestuale può aiutarci a cogliere meglio sia la consapevolezza “autoriale” sia l’esito effettivo delle intenzioni letterarie dichiarate. Se l’impronta della “scuola” non pare avvertirsi direttamente in questo testo, la sua stesura è stata accompagnata dalla redazione di un grande commentario come il Commento a Giovanni e seguita, probabilmente a ruota, da uno scritto breve come l’Esortazione al martirio. Nel caso del capolavoro esegetico di Origene, un’analisi attenta al profilo letterario, pur nella varietà di circostanze e modalità di composizione, fa risaltare il proposito di una costruzione il più possibile organica, preoccupazione tanto più significativa dato il genere del commentario esegetico atto invece di per sé a determinare un’inevitabile frammentazione del discorso, anche in relazione allo Sitz im Leben scolastico206. Quanto all’Esortazione al martirio, è evidente la difficoltà di discernere una qualche strutturazione del testo: Origene sembrerebbe procedere per associazione di idee, o prima ancora per dossiers successivi di cita––––––––––––––––––
Gedankengang, sondern sie wird von ihm so vorgenommen, daß sie ins Zentrum seiner Gebetslehre führt, die auf eben diese beiden Hauptfragen zentriert ist». 203 È sintomatico il giudizio di Méhat 1986b, 2255, secondo cui Orat «est assez confus et manque d’unité. Il porte la marque d’une époque de transition: antérieur à la fixation des dogmes comme à l’essor de la grande liturgie d’un coté, du monachisme de l’autre, il a été presque effacé de la mémoire par la postérité». 204 Per Junod, 86-87, l’autore si rivela incapace di trovare un “filo di Arianna” con cui legare fra loro i diversi temi, specialmente nella prima parte. Quanto a Gessel, 44, Orat sembra consistere di due, se non tre saggi distinti, riuniti in un’unica opera. 205 Questo aspetto, segnalato a più riprese da M. Simonetti, è stato approfondito in particolare da Bendinelli. 206 Ho argomentato questa tesi in Perrone 2005b.
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zioni bibliche. I tentativi di estrapolare un piano dell’opera si arrestano praticamente al prologo ed all’epilogo come entità più chiaramente circoscrivibili sul piano formale, mentre l’articolazione del corpo di EM appare assai labile. Si è tentati di concludere che ci troviamo di fronte a una serie di “variazioni sul tema”, probabilmente scritte di getto e in ogni caso senza un piano prestabilito. Ben diverso è dunque l’impegno che riscontriamo in Orat sotto il profilo formale e letterario, già a partire dal piano della lingua e dello stile207. Verosimilmente neppure qui è da escludere che la configurazione finale risenta dell’occasionalità, determinando un assemblaggio di temi e prospettive variegate, frutto, per così dire, dalla messa a punto in corso d’opera. Forse Origene è partito originariamente dal provblhma “commissionatogli” per inquadrarlo successivamente in un lovgo" e sfociare in tal modo in un’esposizione “in positivo” sulla preghiera. Considerando che per lui la piattaforma dell’argomentazione non può mai prescindere dalla Scrittura, questo lovgo" doveva come tale integrare la «dottrina» sulla preghiera attraverso il confronto esegetico con le testimonianze evangeliche sul Padrenostro e gli insegnamenti connessi ad esso. Sembra insomma lecito supporre che Origene, nel rispondere ad Ambrogio, abbia voluto estrapolare le diverse implicazioni dello spunto iniziale offrendo peraltro la risposta che appare più consona al suo profilo caratterizzante di interprete della Scrittura, cioè con uno specifico apporto esegetico sul tema. Fornendo al lettore delle indicazioni compositive negli snodi principali della trattazione, ed esplicitando così l’agenda tematica prescelta, l’autore ha voluto aiutarlo a ricuperare un profilo unitario dell’opera. Da questo punto di vista, le dichiarazioni programmatiche non possono essere ignorate o scardinate, come ha fatto Bertrand, in vista di ricavare una diversa organizzazione tematica che rifletterebbe meglio la dinamica del pensiero di Origene208. Senza disarticolare la ripartizione indicata espressamente dall’autore, è infatti possibile mettere in luce l’ispirazione unitaria del trattato anche attraverso altri indizi. Se la prima sezione (Orat III- XVII) soffre a prima di vista di una certa eterogeneità, anche qui Origene sembra prefigurare un’esposizione strutturata metodicamente: non a caso avvia il discorso preliminarmente (prw'ton) da un’analisi del vocabolario della preghiera nella Bibbia209 , alla luce dei due termini principali euchv e proseu–––––––––––––––––– 207 208
Come rilevato attentamente da Gessel, 44. Lo schema alternativo del trattato è così ricostruito da Bertrand, 477: I-II : prologo; III-XXI: utilità della preghiera; XXII-XXVII: la preghiera al Padre; XXVIII-XXX: la giustificazione dell’uomo; XXXI-XXXIII : il ruolo del corpo; XXXIV: congedo. 209 Più che dall’inizio di Orat III, 1 (304, 3-4: Prw'ton dh; to; o[noma th'" eujch'" o{son ejpi; parathrhvsei th'/ ejmh'/ euJrivskw keivmenon), il prw'ton dell’indagine sulla semantica biblica della preghiera è dichiarato da IV, 1 (307, 4-5: Oujk a[logon dhv moi ejfavnh to; kata; ta;" grafa;" shmainovmenon prw'ton diasteivlasqai).
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chv (Orat III- IV), per introdurre successivamente (meta; tau'ta) la quaestio sulla preghiera (Orat V-VII )210, marcando peraltro più indistintamente il passaggio alla parte residua della prima sezione (Orat VIII- XVII)211. Ciò però invita a pensare che Origene la consideri alla stregua di un ampio e variegato “corollario” del motivo emerso in positivo dalla confutazione delle obiezioni sulla preghiera: la necessità di rivolgere preghiere a Dio, in quanto estrinsecazione fondamentale del rapporto di libertà che l’uomo intrattiene con Lui. Relativamente poi al legame fra la prima e la seconda sezione (Orat XVIII- XXX), anche qui si può forse rintracciare un legame non meramente esterno, sia pure di natura dialettica. Una volta giustificata la legittimità dell’atto del pregare e dimostrate le sue condizioni di possibilità ed i suoi vantaggi – il che è appunto il tema della prima sezione –, l’esegesi delle pericopi evangeliche di Mt e Lc nella seconda ha lo scopo di sviscerare il significato del Padrenostro come paradigma normativo della preghiera e per ciò stesso come manifesto di una vita spirituale. Si istituirebbe in tal modo fra le due sezioni una correlazione analoga a quella che osserviamo nel «Trattato di ermeneutica biblica», rispettivamente fra Prin IV, 1 (dimostrazione del carattere ispirato della Scrittura) e IV , 2-3 (attuazione di un procedimento ermeneutico conforme alla natura ispirata del testo sacro)212 . Quanto poi alla terza sezione (XXXIXXXIII), benché a prima vista sia più difficile recuperare un filo unitario (e del resto Origene parla espressamente di un «complemento» alla prima), si potrebbe comunque invocare uno schema “consequenziale” dettato dal riferimento esemplare a Rm 8, 26. Se Origene, nell’introduzione programmatica del prologo, estrapola dal passo paolino la duplice difficoltà del pregare, in ordine rispettivamente sia alle «parole» (lovgoi = o} dei') che all’«atteggiamento» (katavstasi" = kaqo; dei'), la sua risposta quanto allo o} dei' si dà nell’esegesi del Padrenostro e per il kaqo; dei' si completa nel supplemento finale, quantunque alcuni aspetti cruciali relativi alle disposizioni interiori siano, a dire il vero, già anticipati nella prima sezione213. Infine, si dovrebbe ancora discutere la questione dell’unitarietà dello scritto in rapporto alle finalità espresse dall’autore. Globalmente è lecito –––––––––––––––––– 210 Orat V, 1 (308, 3-5): Eij crh; toivnun meta; tau'ta, w{sper ejkeleuvsate, ejkqevsqai ta; piqana; prw'ton tw'n oijomevnwn mhde;n ajpo; tw'n eujcw'n ajnuvesqai kai; dia; tou'to faskovntwn perisso;n ei\nai to; eu[cesqai. 211 Cfr. Orat VIII, 1 (316, 20-22): “Eti de; oujk a[logon kai; toiouvtw/ tini; paradeivgmati crhvsasqai pro;" to; protrevyasqai ejpi; to; eu[xasqai kai; ajpotrevyasqai tou' ajmelei'n th'" eujch'". 212 Per un approfondimento su questo punto di vista, cfr. Perrone. 213 Ad esempio, cfr. i numerosi riferimenti al trovpo" della preghiera in Orat VIII, 2 (317, 5-6): wjfevleian de; ejggivnesqai tw'/ o}n dei' trovpon eujcomevnw/ h] ejpi; tou'to kata; to; dunato;n ejpeigomevnw/ pollacw'" hJgou'mai sumbaivnein; XIII, 2 (326, 12-13): tou;" dia; tou' o}n dei' trovpon proseuvxasqai; XVI, 1 (336, 6-7): mhde; peri; tou' trovpou th'" eujch'" scizovmenoi.
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definirle, per comodità, come intenzioni di natura “protrettica” (anche senza voler risolvere con ciò la questione del genere letterario), anche perché è Origene stesso a servirsi in più occasioni di tale terminologia. In uno dei passi più espliciti al riguardo egli mostra come la trattazione che sta sviluppando in merito all’utilità della preghiera sia sorretta dall’obiettivo di «esortare a pregare e dissuadere dal trascurare di pregare»214 . Ma tale obiettivo può, ai suoi occhi, essere realizzato pienamente solo se la prassi orante si dà nel rispetto del modello della «preghiera spirituale» da lui tracciato lungo tutto lo scritto. Motivo conduttore al riguardo è l’agraphon già ricordato, che invita a «domandare le cose grandi e celesti»215. Rivolgendosi direttamente ai futuri lettori Origene considera il suo compito come “dissuasivo” da una prassi di preghiera “in tono minore” in vista di pervenire ad un traguardo spirituale più alto: la «vita spirituale» in Cristo216 . In questo passo le due dimensioni dello scritto – per semplificazione, quella “critica” e quella “propositiva” – vengono chiaramente indicate e intrecciate fra di loro (ajpotrevponti [...] kai; parakalou'nti) a testimonianza dell’ispirazione di fondo del trattato che si può ben riepilogare nei termini di un «invito alla vita perfetta«217 . Sempre nel solco dello stesso agraphon, questa duplice intenzione è richiamata in via riepilogativa a conclusione della prima sezione, con l’esortazione, ripetuta enfaticamente due volte, a «pregare», cioè a «pregare per le cose che sono in via –––––––––––––––––– 214 È significativo che Origene lo dichiari in Orat VIII, 1 (316, 21-22), cioè nel trapasso dalla quaestio sulla preghiera alla parte restante della prima sezione: pro;" to; protrevyasqai ejpi; to; eu[xasqai kai; ajpotrevyasqai tou' ajmelei'n th'" eujch'". Si veda l’analoga formulazione in Fr1Cor 39 (156) su 1Cor 7, 25-28a: ou{tw" ou\n kai; ejnqavde ajpevtreye me;n tou' luvein to;n gavmon, protrevpetai de; pavlin kaqareuvein. 215 Cfr. supra, nota 169. 216 Orat XIII, 4 (328, 3-7): tau'ta dev moi ajnagkaiovtata meta; to;n katavlogon tw'n wjfelhqevntwn dia; proseuch'" eijrh'sqai nomivzw, ajpotrevponti th;n pneumatikh;n kai; th;n ejn Cristw'/ zwh;n poqou'nta" ajpo; tou' peri; tw'n mikrw'n kai; ejpigeivwn eu[cesqai kai; parakalou'nti ejpi; ta; mustika;, w|n tuvpoi h\san ta; proeirhmevna moi, tou;" ejntucovnta" th'/de th'/ grafh'/. Si noti l’espressione «vita spirituale»: il termine zwhv è molto frequente, ma solo qui è caratterizzato dall’aggettivo pneumatikov", che assume grande rilievo nel linguaggio di Orat, e dal legame con Cristo. In EM 11 (11, 15-18) la «vita in Dio» e in comunione con il Cristo rappresenta l’orizzonte del cristiano che è pronto a testimoniare la propria fede nella rinuncia totale alle cose del mondo: o{la tau'ta ajpostrafevnte" o{loi genoivmeqa tou' qeou' kai; th'" met∆ aujtou' kai; par∆ aujtw'/ zwh'" wJ" koinwnhvsonte" tw'/ monogenei' aujtou' kai; toi'" metovcoi" aujtou'. In CIo zwhv riveste un’importanza essenziale fra le ejpivnoiai di Cristo, ma non è attestato il nesso con pneumatikov". 217 Secondo la formula proposta da Monaci Castagno 1997. Del resto, il carattere integrale della «pietà» richiamato dall’autrice per la prospettiva di EM vale anche per Orat, senza operare una riduzione “intellettualistica” del pregare, come vorrebbe Bertrand 1999, che focalizza la sua attenzione sul ruolo del nou'". Come vediamo da CC II, 51 (nota 1441), Origene arriva addirittura a riconoscere un ruolo del sw'ma nell’atto del pregare, coinvolto anch’esso nel dinamismo spirituale che conduce yuchv e pneu'ma alla comunione con Dio. Cfr. anche Volp, 498-501.
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eminente e veritiera grandi e celesti»218. È anche il preludio opportuno per la sezione che seguirà, dove l’alternativa fra il pregare per i «beni celesti» o i «beni terreni» sarà illustrata nuovamente alla luce del Padrenostro, modello per eccellenza della preghiera dei cristiani219 . Ancora una volta, dunque, pur nella ricchezza di motivi sviluppata da Origene, non mancano gli spunti per ricuperare la sostanziale caratterizzazione unitaria del trattato, sia pure nella dialettica attuantesi fra le sue diverse parti.
–––––––––––––––––– 218 Orat XVII, 2 (339, 28-340, 2): eujktevon toivnun, eujktevon peri; tw'n prohgoumevnw" kai; ajlhqw'" megavlwn kai; ejpouranivwn, kai; ta; peri; tw'n ejpakolouqousw'n skiw'n toi'" prohgoumevnoi" qew'/ ejpitreptevon, tw'/ ejpistamevnw/ w|n creivan dia; to; ejpivkhron sw'ma e[comen pro; tou' hJma'" aijth'sai aujtovn (Mt 6, 8). Si noti, da un lato, la riappropriazione del versetto matteano da parte di Origene, laddove esso in V, 2 fondava la critica degli avversari della preghiera; dall’altro, l’integrazione della visione antropologica sulla precarietà ontologica dell’uomo (to; ejpivkhron sw'ma), con l’utilizzo dello stesso aggettivo adottato in apertura per enfatizzarla (cfr. Orat I, supra, nota 152). 219 Presupposto per una «preghiera spirituale» è, come vedremo analizzando in seguito il commento del Padrenostro, la trasformazione in senso spirituale delle nozioni su Dio (cfr. Orat XXIII , 1-2).
CAPITOLO QUARTO
LA CRITICA DELLA PREGHIERA Quaestio e solutio
«Non importuno Iddio con le mie piccole preoccupazioni, i particolari non mi affannano, ho gli occhi fissi soltanto sul mio amore, la cui fiamma virginale io serbo pura e luminosa; la fede è sicura che Iddio si prende cura delle minime cose» (Søren Kierkegaard)*
1. Le aporie filosofiche: esperienza orante e riflessione critica Il discorso di Origene sulla preghiera è cresciuto attorno ad un nucleo originario – le aporie sottoposte da Ambrogio al proprio protetto ed amico –, senza mai perdere interamente quel connotato “problematico” del suo particolare avvio (come ho cercato di dimostrare nel capitolo precedente). La formulazione rigorosamente speculativa delle aporie, sorretta dalla stringenza logica dell’argomentazione sillogistica, farebbe pensare, in prima istanza, ad un retroterra filosofico quale loro presumibile Sitz im Leben. Le obiezioni vertono su due temi strettamente collegati fra loro, ma distinti in due enunciati successivi che riguardano rispettivamente: 1. la prescienza di Dio; 2. la sua predeterminazione. Secondo la prima aporia, se Dio conosce in anticipo il futuro ed esso deve attuarsi, la preghiera è vana. La seconda giunge alla medesima conclusione partendo dalla premessa che tutto avviene secondo la volontà di Dio, ragion per cui – essendo i suoi voleri fermi ed immutabili – anche sotto questo punto di vista la preghiera non può che risultare inutile220 . In entrambi i casi, dunque, la critica della preghiera muove dall’assunto che l’azione di Dio, sia in quanto egli preconosce sia in quanto predetermina l’ordine delle cose, –––––––––––––––––– * «Jeg besværer ikke Gud med mine Smaa-Sorger, det Enkelte bekymrer mig ikke,
jeg stirrer kun paa min Kjœrlighed, og holder dens jomfruelige Flamme reen og klar; Troen er overbevist om, at Gud bekymrer sig om det Mindste» (S. Kierkegaard, Frygt og Bœven, in Samlede Vœrker, III, Kjøbenhavn 1901, p. 85). 220 Orat V , 6 (311, 8-13: keivsqw de; ejn toi'" parou'sin aujtai'" levxesin a{per dia; tw'n prov" me grammavtwn e[taxa", ou{tw" e[conta: «prw'ton: eij prognwvsth" ejsti;n oJ qeo;" tw'n mellovntwn, kai; dei' aujta; givnesqai, mataiva hJ proseuchv. deuvteron: eij pavnta kata; bouvlhsin qeou' givnetai, kai; ajrarovta aujtou' ejsti ta; bouleuvmata, kai; oujde;n traph'nai w|n bouvletai duvnatai, mataiva hJ proseuchv».
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Parte prima, Capitolo quarto
sopprima la necessità di domandargli ciò che sa in anticipo o che ha già prestabilito. L’una e l’altra aporia sembrano compendiare interrogativi radicali sulla preghiera che possiamo considerare come ricorrenti nella storia del pensiero. In parte li ha riproposti di recente, fra gli altri, il grande esegeta e teologo riformato Oscar Cullmann (1902-1999). Nel suo ultimo libro La preghiera nel Nuovo Testamento (1994) – che, come dichiara il sottotitolo, vorrebbe essere «un tentativo di rispondere alle questioni odierne» sulla base dei dati neotestamentari – riassume anch’egli le obiezioni alla preghiera in due ordini di problemi: 1. a che scopo pregare, se le preghiere non vengono esaudite?; 2. perché pregare, se Dio conosce tutto in anticipo?221 Andando a ritroso nel tempo, prima di analizzare le critiche antiche, si potrebbe ancora ricordare come la filosofia moderna, in particolare con il Kant de La religione nei limiti della semplice ragione, si sia spesso espressa in termini critici nei confronti della preghiera di domanda attirando nella sua scia anche la riflessione teologica222. È in tale prospettiva, ad esempio, che il teologo liberale Albrecht Ritschl (1822-1889) guarda al Padrenostro non più come preghiera di domanda, bensì unicamente di lode e ringraziamento. A sua volta Gerhard Ebeling (1912-2001), uno dei più noti teologi contemporanei, denunciando la «crisi della preghiera» ai nostri giorni, ha osservato come il fenomeno della preghiera sia stato tradizionalmente uno dei «territori di caccia» più ricchi per la critica della religione, laddove la debolezza intellettuale che accompagna la prassi del pregare costituirebbe un fattore essenziale per tale crisi 223 . Non meno determinante è però il sospetto, non nuovo ma avvertito con particolare urgenza dalla modernità, che la preghiera sia un alibi per astenersi dall’azione e dalla conseguente assunzione di responsabilità personale. A discapito di tali riserve ed interrogativi, anche il pensiero filosofico in un modo o nell’altro è costretto a prendere atto di un fatto ineludibile: nessun’altra esperienza religiosa può pretendere al pari della preghiera di collocarsi al centro stesso del rapporto dell’uomo con Dio, mettendo così a nudo la sua situazione fondamentale di creatura bisognosa di aiuto224. Nonostante la grande varietà di forme con cui gli uomini hanno sperimentato ed espresso il loro legame con il sacro, solo la preghiera ha costituito storicamente, in connessione o meno con il sacrificio, l’elemento fonda–––––––––––––––––– 221 222
Cullmann, 8-23. Heiler ricorda fin dalla prefazione alla prima edizione l’antitesi kantiana fra preghiera ed etica: «Derjenige, welcher schon Fortschritte im Guten gemacht hat, hört auf zu beten» (p. VII). 223 Cfr. Ebeling. 224 La preghiera «è una situazione in cui» l’uomo «si incontra con la sua situazione fondamentale. Soltanto così egli entra veramente nella propria situazione – il pregare mette spesso in luce dove e come propriamente ci si trovi» (tr. it. Ebeling, 37).
La critica della preghiera
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mentale o – come si esprime Friedrich Heiler nella sua classica opera Das Gebet (1918) – il «focolaio» stesso dell’esperienza religiosa 225 . Nell’ottica dell’uomo antico Omero dà voce all’imprescindibilità della preghiera per il mondo greco, allorché afferma che «gli uomini han tutti bisogno dei numi»226. Ora, le riserve di natura filosofica espresse nell’antichità riguardo alla preghiera, intesa specialmente come richiesta di aiuto alla divinità, preludono certo alle obiezioni moderne; ma al pari di queste, esse affiancano criticamente un fenomeno che non ne risulta scalfito in maniera sostanziale. Anche in considerazione di ciò il pensiero antico, eccezion fatta per alcune posizioni radicali di rifiuto, si sforza in generale di elaborare piuttosto un proprio ideale di preghiera concepito come paradigma normativo 227 . Se l’esperienza orante in ambito ellenico è sorretta originariamente dalla consapevolezza che l’aiuto degli dèi può modificare il destino dell’uomo e garantirne la salvezza, quantunque all’apparenza con un’incidenza non estendibile a tutte le sfere di vita228, in seguito con il diffon–––––––––––––––––– 225 «Religiöse Menschen und Religionsforscher, Theologen aller Konfessionen und Richtungen stimmen in dem Gedanken überein, daß das Gebet das zentrale Phänomen der Religion, der Feuerherd aller Frömmigkeit sei» (Heiler, 1). La sua definizione è stata ripresa da Severus, 1135, che segnala però il mutevole impatto della preghiera in relazione ai diversi contesti storico-religiosi: «Mit der Entwicklung kosmologischer, politischer und sozialer Ordnungssysteme und der ihnen entsprechenden Riten und sakralrechtlichen Normen kann das Gebet in der Verflechtung religiöser Erscheinungen stärker hervortreten und immer mehr zum “zentralen Phänomen der Religion, dem Feuerherd aller Frömmigkeit” werden oder aber zurücktreten [...] ohne jedoch jemals völlig zu verschwinden». Se nella religione greca la preghiera è associata tendenzialmente al sacrificio, nella tradizione biblica il nesso preghiera-sacrificio sembra essersi determinato secondariamente rispetto alla Torah (Jonquière, 36; 45: «The practice of praying during the sacrifice was still unknown at the time of the final redaction of Torah, but by beginning of the second century BCE it appears to have become a regular part of the rite»; cfr. anche Pulleyn, 7-8). 226 Pavnte" de; qew'n catevous∆ a[nqrwpoi (Od. III, 48), citato in Greeven-Herrmann, 1218 e commentato da Chapot-Laurot, 57-58. Severus, 1140 mostra come con Omero emergano ormai precise esigenze di carattere etico per l’orante, senza che ci si accontenti più dei soli requisiti rituali: «den Betenden darf nicht nur kein Verbrechen und keine Blutschuld belasten, sondern er muß darüber hinaus in Gehorsam zur Gottheit stehen». 227 La critica alla prassi di preghiera tradizionale si manifesta già con Senofane ed Eraclito (cfr. Severus, 1145-1147; Des Places). Si veda, ad esempio, Eraclito, fr. 5 (DielsKranz): kai; toi'" ajgavlmasi de; toutevoisin eu[contai, oJkoi'on ei[ ti" dovmoisi lhschneuvoito, ou[ ti ginwvskwn qeou;" oujd∆ h[rwa" oi{tinev" eijsi. 228 Per ricostruire l’immagine della preghiera nel periodo delle origini bisogna rifarsi a Omero, testimone delle «prime preghiere formulate con una certa compiutezza» (Greeven-Herrmann, 1218). Pur senza escludere il loro uso come mezzo stilistico, «esse danno tuttavia un quadro vivido del significato, dei motivi, del contenuto della preghiera» (1218-1219). Gli eroi omerici, consapevoli di «dipendere totalmente dagli dèi» (1219), si rivolgono ad essi alla stregua di «principi possenti». L’oggetto della preghiera riguarda in genere «un intervento benigno che liberi da una data difficoltà», quasi sempre nell’ambito del successo bellico e della sorte degli uomini (ibidem). È raro invece che s’invochi l’azio-
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dersi dell’idea sempre più pervasiva di un «fato» onniavvolgente (eiJmarmevnh), lo spazio per la preghiera come domanda di soccorso divino tenderà a farsi più problematico229 . Con l’epoca classica assistiamo ad un “perfezionamento” in senso spirituale della preghiera, che porta a far emergere maggiormente come suo contenuto appropriato la richiesta di beni morali e spirituali230 . Insieme al ritegno nell’assillare gli dèi con le proprie domande si manifesta a tratti un senso di fiducioso abbandono al volere imperscrutabile della divinità231 . È soprattutto nella riflessione filosofica che questa “spiritualizzazione” della preghiera giunge al culmine – come vediamo specialmente dalla preghiera conclusiva del Fedro in Platone232 –, ––––––––––––––––––
ne della divinità sul cuore umano. Dal tipo di benefici richiesti nelle preghiere dagli eroi omerici si comprende come vi siano ancora ambiti della vita sottratti all’azione degli dèi. Cfr. inoltre Des Places 1967. 229 Greeven-Herrmann, 1220: «Quanto più, procedendo nella storia, la vita intera veniva sottoposta sempre più integralmente al concetto di Fato, l’eiJmarmevnh soppianta in modo sempre più deciso gli dèi dell’Olimpo che si compiacciono di sacrifici». 230 Greeven-Herrmann, 1222-1223: «Nella Medea di Euripide il coro definisce la swfrosuvnh come il dono più bello degli dèi, e le donne pregano di essere preservate dalla penosa passione della gelosia [Eur., Med. 635 ss.]. L’intercessione delle Danaidi per l’ospite Argo non concerne soltanto pace e ricchezza, ma anche onorabilità e timor di Dio, che figurano fra i doni invocati dagli dèi [Aesch., Suppl. 625 ss.]. Sussiste, naturalmente, pure la preghiera che invoca vendetta, ma si tratta sempre di vendetta meritata, giusta. [...] Un’intima familiarità con la divinità spira da queste parole di Ippolito: soi; kai; xuvneimi kai; lovgoi" ajmeivbomai,/ kluvwn me;n aujdhvn, o[mma dæ oujc oJrw`n to; sovn “vivo e converso con te, e, se anche non scorgo il tuo volto, percepisco la tua voce” [Eur., Hipp. 85-86]». Su questi testi si veda anche Chapot-Laurot, 103-106, 125-130. 231 L’esempio più calzante è indicato da Greeven nella chiusa delle Supplici di Eschilo: «i cori, che si alternano rispondendosi, contrappongono all’imperscrutabilità del volere degli dèi l’invito: mevtrion nu`n e[po" eu[cou – tivna kairovn me didavskei"… – ta; qew`n mhde;n ajgavzein – “Preghiera tu innalzi di sensi modesti –, Quale norma di questa misura m’insegni? – Non indagare profondo entro il volere dei Numi” (tr. Untersteiner). In questa fiduciosa umiltà la preghiera trova la sua forma più congeniale; anche nei rapporti fra l’uomo e la divinità la compiuta perfezione è metrivw" eu[cein [cfr. Plat., Phaedr. 279c: ejmoi; me;n ga;r metrivw" hu\ktai]» (Greeven-Herrmann, 1223-1224). 232 Phaedr. 279b-c (cfr. Gaiser e Chapot-Laurot, 163-165). Al termine del dialogo Socrate chiede a Pan e agli dèi del luogo di ricevere la sapienza, il vero bene che dà la felicità. Clemente Alessandrino (Strom. V, 14, 97, 2-5) collega alla preghiera del Fedro passi del Protagora e della Repubblica, in cui «la sapienza o virtù dell’anima» è definita «come vera bellezza» (Gaiser, 36). La preghiera di Socrate è un riconoscimento dell’inadeguatezza umana: «Già il fatto che Socrate, alla fine, prega gli dèi, indica che il filosofo non crede di poter raggiungere da se medesimo, in maniera autonoma, la verità, ma che è consapevole di dipendere dalla benevolenza di forze che stanno più in alto di lui» (Gaiser, 59). Jackson 1971, 30 sottolinea l’articolazione delle domande e con esse lo statuto paradigmatico del buon modo di pregare: «The prayer divides into a petition concerning the inner man, for beauty, and three petitions concerning the outer man, first in relation to his inward self, for harmony, second in relation to other persons, for veneration of the wise, and third in relation to possessions, for temperance. The speeches earlier in the dialogue are meant to illustrate good speaking. We may infer that the prayer to Pan illus-
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benché una tendenza del genere rischi di creare alla lunga una certa discrasia con il vissuto religioso, che continua a sperimentare una diversa immediatezza nel rapporto con i Numi, rispetto all’ideale filosofico di preghiera233. Insieme all’impulso paradigmatico verso una preghiera impegnata a richiedere benefici d’ordine spirituale si fa strada un orientamento più rigidamente normativo della prassi orante come vediamo dall’atteggiamento che la tradizione attribuisce a Pitagora: questi, essendo consapevole della difficoltà dell’uomo a domandare ciò che è il vero bene agli occhi della divinità, avrebbe sconsigliato di pregare per se stessi e raccomandato di chiedere genericamente solo «le cose buone»234 . In età ellenistica, con la messa in discussione degli dèi tradizionali e l’affermarsi di una religiosità più personale ispirata dalle religioni misteriche, anche la preghiera conosce nuove espressioni, ma il pensiero filosofico tende sempre più a prendere le distanze dalle forme del vissuto orante. Se già Aristotele nel suo perduto scritto Peri; eujch'" aveva messo in discussione l’utilità della preghiera di domanda indirizzata ad un Dio che è pensato come «motore immobile» 235 , la critica si fa più acuta prima ––––––––––––––––––
trates good praying, in form as well as content». Per Dorival 2000, 92, Socrate attesta la persistenza della preghiera di domanda, sia pure trasformata in senso spirituale. 233 Tale è almeno l’opinione di Greeven: «Naturalmente in questo modo la preghiera perde gradualmente la sua immediatezza, vivacità e freschezza; si va svuotando, fino ad annullarsi» (Greeven-Herrmann, 1225). Nonostante la loro componente di letterarietà, ciò non sembra essere ancora il caso delle preghiere di Platone, a giudicare da quanto osserva Jackson 1971, 36: «for him the primary motive of prayer is not gratitude, awe, or praise, but need. Platonic prayers do not, however, express need in the language of struggle and uncertainty as, for example, do the prayers of Jeremiah». Tuttavia, secondo ChapotLaurot, 17, «chez Platon, la moralisation ira de pair avec l’intellectualisation». Fra i numerosi luoghi platonici dedicati alla preghiera, Severus, 1147 segnala, in particolare, Leg. IV, 716d. Des Places, 254, oltre a Leg. X 887d-e, menziona Epinom. 986c5–d4 come testimonianza «dans les dernières œuvres surtout, pour une élévation du cœur vers Dieu, une adoration, une contemplation intime». Cfr. anche Motte. 234 Secondo Diogene Laerzio (Vit. VIII, 9), Pitagora avrebbe proibito di pregare per sé, perché non sappiamo ciò che ci è utile (oujk eja/` eu[cesqai uJpe;r auJtw`n dia; to; mh; eijdevnai to; sumfevron), mentre per Diodoro Siculo (Bibl. X, 9, 8) avrebbe raccomandato di «pregare semplicemente per buone cose» (aJplw'" eu[cesqai tajgaqav), ciò peraltro di cui solo i «saggi» (frovnimoi) sono capaci. Greeven, proseguendo nella sua valutazione critica dell’ideale filosofico della preghiera (affine peraltro alle riserve manifestate da Heiler), accusa anche Pitagora di promuovere una versione fredda e astratta della prassi orante: «Frequente è il consiglio di pregare per il bene; al tempo stesso si nota che l’esaudimento di questa richiesta implica il non-esaudimento di altri, stolti desideri. Pitagora avrebbe appunto indicato come compito dei savi il pregare per il bene, in favore degli stolti che non lo conoscono. In tal modo siamo già passati dalla preghiera viva alla fredda sfera della meditazione filosofica sulla preghiera; ma ci troviamo pure nella sfera della skepsis, che da Senofane in poi non è più mancata» (Greeven-Herrmann, 1225-1226). 235 Fr. 49 Rose (cfr. Laurenti, II , 696-740). Severus, 1148-1149 osserva in proposito: «Das einzige Fragment seiner verlorenen Schrift “Über das Gebet” [...] belehrt uns, dass Gott reiner nous (Geist) oder sogar epekeina ti tou nou (etwas, was sogar noch jen-
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con i Cirenaici (del cui rigetto della preghiera ci ha conservato il ricordo Clemente Alessandrino)236 e poi in linea di principio con lo stoicismo, sia per la visione fatalistica di questa scuola filosofica sia per la stessa enfasi posta ciononostante sull’agire morale con l’obiettivo di assecondare la provvidenzialità del fato stesso237 . Per Seneca, ad esempio, neppure la forma superiore di preghiera rivolta ad ottenere beni etici e spirituali sembra più avere ragion d’essere, ma essa rimanda piuttosto alla responsabilità dell’individuo e, quale sua radice, all’azione provvidenziale del Logos divino nell’ordine collettivo come in quello personale238. Tuttavia, questo modello filosofico neanche per Seneca riesce ad assorbire interamente la preghiera tradizionale, né egli può ignorare le forme diffuse di culto, come del resto anche Platone aveva fatto a suo tempo 239 . Egli anzi si sforza di elaborare una visione in cui, pur senza mettere in discussione la nozione ––––––––––––––––––
seits des Geistes ist) sei. Damit vermittelt nur die reine noetische Tätigkeit des Menschen, jedoch kein irgendwie geartetes Handeln und auch kein Bitten oder Fordern den Zugang zum Göttlichen». Per Rist, 202 «Aristotle’s God, as described in the Metaphysics, is unconcerned with mortals altogether – he affects the world solely as a final cause, as the object of desire, and there would certainly be no point in praying to him!». 236 Strom. VII, 7, 41, 2 (infra, nota 263); Aristippo, fr. 132 (Giannantoni, 235): kaqovlou to; eu[cesqai ta; ajgaqa; kai; ajpaitei'n ti para; tou' qeou' e[fh geloi'on ei\nai: ouj ga;r tou;" ijatrou;" o{tan a[rrwsto" aijth/' ti brwto;n h] potovn, tovte didovnai, ajll∆ o{tan aujtoi'" dokhvsh/ sumfevrein. Cfr. Pépin; Dorival 2000, 89. 237 Greeven ricorda che «l’impossibilità di ottenere qualcosa con la preghiera viene formalmente provata da Seneca nel de nat. qu. II , 35 ss. Non si può insomma parlare più di preghiera vera e propria, poiché il suo solo contenuto diventa l’ “abbandono al Fato”» (Greeven-Herrmann, 1228). A riprova di ciò cita il verso di Cleante, ripreso da Epitteto: a[gou dev m∆, w\ Zeu`, kai; suv g∆ hJ Peprwmevnh, o{poi poq∆ uJmi`n eijmi diatetagmevno", «conducimi, o Zeus, e tu anche, o Destino, là dov’è il fine che m’avete assegnato» – dove Zeus equivale al Fato. 238 Greeven-Herrmann, 1227: «Poiché l’idea di Dio resta, in ultima analisi, impersonale, anche la preghiera è priva di tratti personali, che presuppongano un essere personale al quale si rivolga colui che prega. Salta agli occhi che allo stoico è impossibile una vera e propria supplica. [...]. Che una preghiera di questo genere non sia più una vera supplica, traspare da una frase di Seneca, il quale afferma che è da stolto chiedere in preghiera rettitudine di sentimenti, se la si può raggiungere da soli; che bisogno c’è di levare le mani al cielo, accostarsi alle immagini degli dèi? “Dio ti è vicino, è accanto a te, è in te!” [Sen. E p. 41, 1]». Rifacendosi allo stesso passo senecano Stritzky, 72-73 nota: «Daher ist es auch nicht notwendig, der Gottheit Tempel aus Stein zu errichten, denn schließlich ist die von den Göttern durchwaltete Welt ein Tempel, dessen wahre Götterbilder, Weisheit und Erkenntnis, sie dem Geist schauen läßt». 239 Se da un lato l’uomo attivando il Logos – l’elemento divino presente in sé – può giungere alla beatitudine, dall’altro Seneca non nega del tutto il diritto delle forme tradizionali di culto, ma le fa proprie in forma più spiritualizzata: «Der cultus deorum äußert sich, wie Seneca zusammenfassend sagt, im Glauben an die Götter, der in dem Wissen um ihre durch Güte bestimmte Lenkung der Welt und des Menschen besteht» (Stritzky, 74). La seconda forma del culto a Dio consiste nella imitatio Dei, dottrina sviluppata originariamente da Platone e ripresa da Seneca attraverso Posidonio.
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di «fato», ci sia comunque ancora spazio per una preghiera di richiesta, anche se in un ambito di contingenza limitato e previsto come tale dal destino provvidenziale240 . D’altronde, quanto la stessa tradizione stoica fosse suscettibile di dare luogo ad un’esperienza autentica di preghiera possiamo vederlo dall’atteggiamento religioso di Epitteto, improntato – si direbbe – ad una spiritualità «eucaristica»: agendo nella profonda convinzione di una provvidenzialità che investe sia il cosmo che l’individuo, egli si preoccupa soprattutto di lodare e ringraziare la divinità per i beni della vita e in special modo per il dono della ragione241 . In questa prospettiva l’orante si dispone fondamentalmente alla resa incondizionata al volere divino242 . A sua volta, l’imperatore-filosofo Marco Aurelio (121-180), discepolo di Epitteto, si riallaccia al proprio maestro, riconoscendo lo spazio per una preghiera di richiesta espressa in forma semplice e immediata, anche se non mancano spunti di segno diverso tendenti piuttosto a configurare la preghiera alla stregua di una meditazione interiore243. –––––––––––––––––– 240 Secondo Stritzky, 76, mentre in Nat. quaest. II, 35, Seneca si attiene al concetto più rigoristico di eiJmarmevnh, in II, 38 si sforza di riconoscere il diritto d’esistenza alla preghiera di domanda: «Die Lösung dieses Problems ergibt sich aus der stoischen Philosophie, die heimarmenê (Kausalnexus) und pronoia als zwei Wirkweisen der Gottheit betrachtet, die einander nicht ausschließen. So kann Seneca behaupten, daß die Götter einiges in der Schwebe gelassen haben, das nur auf die Gebete der Menschen hin eintritt». 241 Stritzky, 79: «Mit der Eindringlichkeit, mit der er zum ständigen Gebet als der gebührenden Antwort des Menschen auf die in allen Dingen spürbare Güte Gottes auffordert, will er deutlich machen, daß der Mensch erst zum Menschen wird, d.h. seiner Natur als geistbegabtem Wesen gerecht wird, wenn er erkennt, daß er sich nicht selbst, sondern der Gottheit verdankt. Aus dieser Erkenntnis erwächst die Verehrung Gottes, die zum Menschen ebenso gehören sollte, wie der jeweils der Nachtigall oder dem Schwan eigene Gesang, der ihr Wesensmerkmal darstellt». L’autrice ricorda inoltre che Epitteto è convinto fautore del culto tradizionale e della preghiera, purché accompagnati da genuine disposizioni di spirito; in caso contrario, questi gesti ed atti rischiano la profanazione. Il suo atteggiamento è conforme alla spiritualità apollinea di Delfi, secondo la quale «derjenige, der sich dem Gott naht, seiner würdig sein muß, d.h. daß der Mensch in seinem Innern ethisch wie intellektuell dem Gott ähnlich werden muß, so daß auf dieser Ebene eine suggevneia zwischen Gott und Mensch herrscht. So kann nur der sittlich Gute ohne Widerspruch zu sich selbst den Kult der Götter ausüben» (p. 78). 242 Heiler, 206 vede Epitteto come l’esponente più eccelso dell’ideale filosofico di preghiera: «Das Anheimstellen aller Einzelwuensche an Gott leitet zu jener Form des philosophischen Gebets über, die in der Stoa ihre höchste Vollendung erreichte: zur Aussprache der vollen Wunschlosigkeit und Gelassenheit, der restlosen Ergebung in die Hände des Schicksals». 243 Si veda I ricordi V , 7: «“Piovi, piovi, amico Zeus, sui campi e sui prati degli Ateniesi”. O non bisogna pregare affatto, o solamente così: con semplicità e franchezza». Ma da un altro passo (IX, 40) si vede che respinge una richiesta del genere, mentre apprezza la «richiesta di progresso interiore, come la sola che si addica al savio» (Greeven-Herrmann, 1229). Per Stritzky, 80, «dabei gerät er in Konflikt mit dem stoischen Schuldogma, nach dem der Mensch seinen sittlichen Fortschritt seiner eigenen Leistung verdankt. So
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Le riserve che il pensiero filosofico greco era andato esprimendo verso le forme tradizionali della preghiera e, alla radice, verso l’idea stessa di una domanda rivolta alla divinità, specialmente nella prospettiva, da un lato, della scuola peripatetica (e, con diverso accento, di quella epicurea), dall’altro della tradizione stoica, trovano una sintesi nel retore-filosofo medioplatonico Massimo di Tiro (ca. 125-185 d.C.), autore di un’orazione dall’eloquente titolo Eij dei' eu[cesqai244 . La storia del re Mida – che prima prega perché la terra si trasformi in oro e poi si pente di averlo fatto, chiedendo aiuto agli dèi in senso contrario – è assunta da Massimo come parabola iniziale dell’inutilità della preghiera, riproponendo dapprima l’argomento tradizionale dell’incapacità dell’uomo a domandare i veri beni. Infatti, quelli per i quali Mida prega sono «frutti del caso»; non rappresentano cioè i beni autentici, quei beni di cui Dio soltanto fa dono all’uomo245 . Il fatto di pregare poi rinvia ad una nozione errata della divinità, dato che essa non cambia idea né si pente, analogamente al modo in cui si comporta il saggio nelle alterne vicissitudini della vita. Massimo espone quindi un sofisma (non troppo remoto dal linguaggio delle aporie trasmesse da Ambrogio ad Origene) per cui o colui che prega è degno di ricevere, e allora riceverà comunque, anche se non prega; oppure non è degno, e allora è inutile che si sforzi di pregare246. Così Dio non darà a chi prega, se l’esaudimento della richiesta contrasta con il requisito della dignità, ma neppure eviterà di dare a chi non prega, se egli è degno di ottenere. Dopo queste precisazioni preliminari Massimo argomenta più in generale la sua critica alla preghiera di domanda. Tutto ciò per cui l’uomo prega rientra nell’ambito di alcuni fattori essenziali che influenzano la vita degli uomini: a) la provvidenza (provnoia); b) il destino (eiJmarmevnh); c) la sorte (tuvch); d) l’arte (tevcnh). Per ciascuno di questi ambiti è possibile dimostrare come sia inutile pregare. Infatti, relativamente al primo fatto––––––––––––––––––
gibt Marc Aurel seiner Überzeugung Ausdruck, daß das Gebet selbst bei den Dingen sinnvoll ist, die in unserer Macht stehen. Einwänden gegen diese Meinung begegnet er mit dem Hinweis, die Mithilfe der Götter werde dann sichtbar, wenn der Mensch anfange, darum zu beten». A proposito di IX , 40, Des Places, 240 parla di un “ideale di libertà”: «il ne s’agit pas de solliciter tel bien ou la délivrance de tel mal, mais l’état d’âme qui nous rendra indépendant de ces besoins; les dieux ne demandent qu’à nous aider (IX 40, 5); seulement, il faut nous rendre dignes de leur secours (XII 14, 3)». Dorival 2000, 95 sostiene che l’aporia stoica di libertà e destino può essere riconciliata, se il saggio fa proprio il punto di vista degli dèi. 244 Massimo di Tiro, Diss. 5 (Eij dei` eu[cesqai), ed. Trapp, 37-45. Cfr. Van der Horst 1996 e Förster 2007, 286-291. 245 Massimo di Tiro, Diss. 5, 1 (38, 23-24): oujde;n ga;r tw`n mh; kalw`n divdwsin qeov", ajll∆ e[stin tau`ta dwrea; tuvch". 246 Massimo di Tiro, Diss. 5, 3 (39, 60-40, 2): kai; ga;r h[toi oJ eujcovmeno" a[xio" tucei`n w\vn hu[xato, h] oujk a[xio": eij me;n ou\n a[xio", teuvxetai kai; mh; eujxavmeno": eij de; oujk a[xio", ouj teuvxetai, oujde; eujxavmeno".
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re, ciò vale sia che la provvidenza si limiti all’ordine generale del cosmo sia anche quando si estende fino all’individuo. Nel caso di una provvidenza generale, per analogia con il rapporto fra il corpo e le membra, le sofferenze dei singoli non vanno a scapito del bene del tutto e Dio, a somiglianza di un medico, si preoccupa in questa evenienza del benessere del tutto sacrificando all’occorrenza il membro malato. Quando invece la provvidenza si interessa del singolo, a fortiori Dio-medico provvederà lui stesso il farmaco di cui l’uomo ha bisogno senza che questi glielo richieda247. Ancor più assurdo è pregare per ciò che è di dominio del destino: non si può pensare di convincere un tiranno248. Stesso discorso va fatto per quanto riguarda la tuvch: è impossibile dialogare con un «despota sciocco», essendo la sorte del tutto imprevedibile. Infine, non si prega per ciò che concerne la tevcnh, poiché chi ne è dotato non ne ha bisogno e chi non ce l’ha deve procurarsela da sé. In conclusione Massimo respinge un’obiezione derivante dalla preghiera dei filosofi (Socrate, Pitagora, Platone): non si trattava per loro di una richiesta di qualcosa che mancava, bensì di un «colloquio e dialogo con gli dèi» riguardo a beni presenti e una «dimostrazione di virtù»249 . –––––––––––––––––– 247 Stritzky, 86 nota che la visione della provvidenza in Massimo fonde elementi platonici (dal Timeo e dalle Leggi) con quelli stoici, che tuttavia sembrano prevalere, come lascia intendere lo stesso paragone del medico che amputa l’arto avendo in vista il bene di tutto il corpo, già presente in Seneca e in Epitteto: «Aus der eklektischen Argumentation resultiert für Maximos, daß Vorsehung und Gebet einander ausschließende Gegensätze sind. Da er aber an der Vorsehung als wesentlicher Wirkweise Gottes festhält, muß er das Gebet ablehnen». 248 Massimo di Tiro, Diss. V , 5 (41, 113-42, 114): turanniko;n de; hJ eiJmarmevnh, kai; ajdevspoton, kai; ajmetavstrepton. È evidente l’affinità con la visuale stoica di Seneca, Nat. quaest. II, 35: «Fata aliter ius suum peragunt nec ulla commoventur prece. Non misericordia flecti, non gratia sciunt». Cfr. Van der Horst 1996, 332. 249 Massimo di Tiro, Diss. V, 8 (44, 188–45, 190): ajlla; su; me;n hJgei` th;n tou` filosovfou eujch;n ai[thsin ei\nai tw`n ouj parovntwn, ejgw; de; oJmilivan kai; diavlekton pro;" tou;" qeou;" peri; tw`n parovntwn kai; ejpivdeixin th`" ajreth`". Stritzky, 88 commenta: «Das Gebet des Sokrates erfleht keine äußeren Güter [...], sondern erbittet von den Göttern das, was der Mensch mit ihrer Zustimmung durch sich selbst erlangen kann, Werte wie Tugend, ein untadeliges Leben und einen Tod ohne Hoffnungslosigkeit. Diese Werte sind wirklich als Geschenke der Götter zu betrachten». A giudizio di Van der Horst 1996, 336, la definizione di Massimo, ispirata da Platone, Symp. 203a3, «has striking parallels in the writings of his Christian contemporary, Clement of Alexandria, who has a number of similar or almost identical definitions of prayer in the 7th book of his Stromateis. [...] There are also some strong agreements with Origen’s treatise» (egli si basa qui sulla pista suggerita da Daniélou). Per Förster 2007, 290-291 l’elemento decisivo, che differenzia Massimo dalla prospettiva cristiana della preghiera di domanda è l’idea per cui Dio è immutabile, laddove ad esempio in Luca è proposto come Padre: «Ein solches Gottesbild schließt es daher sogar ausdrücklich als Grundbestimmung des göttlichen Wesens ein, daß Gott sich zum Wohl der Menschen umstimmen läßt. Der Mensch soll ihn sogar eindringlich und unnachgiebig bitten, wie es die Witwe tut» (p. 291, con riferimento a Lc 18, 1-8). Per
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L’esito negativo del discorso di Massimo sulla preghiera sembrerebbe suggerire di individuare proprio in questo ambiente platonico, ma con forti elementi stoicheggianti, il retroterra filosofico più prossimo delle aporie dibattute da Origene. Del resto, anche guardando al seguito di questa stessa tradizione, con il neoplatonismo, non è difficile avvertire alcune consonanze con le posizioni degli avversari della preghiera combattuti dall’Alessandrino250. È interessante, ad esempio, riscontrare che il suo contemporaneo Plotino esautora la preghiera quale richiesta assimilandola in certo senso alla magia, mentre nega la collaborazione degli astri alle preghiere degli uomini – tema sul quale Origene, come risulterà fra breve, è invece molto sensibile. Al contrario dell’Alessandrino, che esalta il libero arbitrio degli astri a servizio del piano provvidenziale di Dio, per Plotino i corpi celesti non partecipano di memoria e percezione; pertanto, ciò che può apparire come un esaudimento delle richieste degli uomini ad opera di essi, è piuttosto frutto di quella simpatia cosmica che si dà nell’azione di una parte su un’altra251 . Più ampia è l’attestazione del tema in Porfirio, con il quale riscontriamo nuovamente punti di confronto meritevoli d’attenzione. Nella Lettera ad Anebo il filosofo di Tiro introduce una serie di obiezioni in merito alla possibilità che gli dèi ascoltino le preghiere degli uomini, con un approccio critico che non può non richiamare l’argomentazione aporetica di Orat252 . Ampie riserve verso le sup––––––––––––––––––
Dorival 2000, la posizione di Massimo resta ambigua: egli finisce per seguire l’esempio di Socrate «qui demandait aux dieux des biens spirituels» (p. 96). 250 Si veda Des Places e specialmente Bendinelli 1997. Cfr. anche Löhr 1999, 91 ss. 251 Plotino, Enn. IV, 4, 30; IV, 4, 41. Questi capitoli, secondo Rist, 207, «strengthen the impression that prayer is on the same level as magic». Cfr. anche Förster 2007, 292293: «Das Gebet wurzelt folglich in dem Wissen um die Sympathiegesetze der Natur und wirkt nicht etwa durch die Gnade Gottes, sondern durch die magischen Manipulationen der Menschen». Anche per Severus, 1152 la posizione di Plotino si distacca dagli altri esponenti della sua stessa scuola: «Plotin versteht dagegen das Gebet als Vorbereitung für die philosophische Reflexion auf das Wesen Gottes (5, 1, 6) und betont, daß es den Weltlauf nicht ändern kann». Hadot 1997a, 35 ha parlato di una «prière naturelle» in Plotino, utilizzando un’espressione di Malebranche per designare la “conversione dell’attenzione” nel pensatore neoplatonico. Anche sotto questo profilo risalta la diversità dalla prospettiva origeniana messa in luce da Crouzel 1992, 112. Non manca però in Plotino – analogamente a quel che vediamo in Origene – l’invocazione a Dio preliminare alla trattazione di una questione; cfr. Enn. V , 1, 6, 9-10: »Wde ou\n legevsqw qeo;n aujto;n ejpikalesamevnoi" ouj lovgw/ gegwnw/', ajlla; th/' yuch/' ejkteivnasin eJautou;" eij" eujch;n pro;" ejkei'non, eu[cesqai tou'ton to;n trovpon dunamevnou" movnou" pro;" movnon. Al riguardo Penati Bernardini, 175 osserva che questo «è forse l’unico indizio di una concezione spirituale della preghiera in Plotino»; ma Rist, 212 sottolinea la continuità con la preghiera comune: «The higher prayer, like the lower, is a recognition by man of what the universe is like. The One is always turned towards us; in the highest act of prayer we turn again towards him». 252 Ep. ad Aneb. 1.2c.3 (4, 11-5, 3): eij de; oiJ me;n ajpaqei`~, oiJ de; ejmpaqei`~ [...], mavtaiai aiJ qew`n klhvsei~ e[sontai, prosklhvsei~ aujtw`n ejpaggellovmenai kai; mhvnido~ ejxilavsei~ kai; ejkquvsei~, kai; e[ti ma`llon aiJ legovmenai ajnavgkai qew`n. ajkhvlhton ga;r kai;
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pliche alle divinità come verso i sacrifici compaiono poi nella Lettera a Marcella, qualora non siano accompagnati dalla consapevolezza filosofica che contraddistingue il saggio: solo questi è in grado di pregare autenticamente, secondo il modello riconducibile all’ideale pitagorico della preghiera253. Come aveva indicato Platone, solo la preghiera «accompagnata da buone azioni» è accetta a Dio254 . Anche un frammento del Commento al Timeo introduce spunti di natura diversa, distinguendo tra i filosofi dell’antichità le posizioni di coloro che hanno respinto la preghiera da quelle di quanti l’hanno accolta. La caratterizzazione dei critici della preghiera – gli “atei” tout court, i negatori della provvidenza, i sostenitori del fato – lascia di nuovo intravedere significativi contatti con le tesi combattute da Origene. Collocandosi nel secondo gruppo, Porfirio accoglie da un lato la nozione di provvidenza, dall’altro annette alla preghiera il valore di un apporto positivo in vista di acquisire la virtù255 . ––––––––––––––––––
ajbivaston kai; ajkatanavgkaston to; ajpaqev~, «Ma se alcuni [degli dèi] sono impassibili, altri passibili [...] vane saranno le preghiere agli dèi, le invocazioni rivolte ad essi, le propiziazioni della loro ira e i riti espiatori e vieppiù [vane saranno] le cosiddette necessità degli dèi. Infatti, inflessibile, inviolabile e non soggetto ad alcuna violenza [è] l’impassibile». 253 L’influsso della tradizione pitagorica, non senza echi di Massimo di Tiro, è avvertibile in Ep. ad Marc. 12 (58, 16-60, 5): «eujktevon qew/` ta; a[xia qeou`». kai; «aijtwvmeqa, a} mh; lavboimen a]n par∆ eJtevrou»: kai; «w\n hJgemovne~ oiJ met∆ ajreth`~ povnoi, tau`ta eujcwvmeqa genevsqai meta; tou;~ povnou~»: «eujch; ga;r rJa/quvmou mavtaio~ lovgo~». «a} de; kthsavmeno" ouj kaqevxei~, mh; aijtou` para; qeou`: dw`ron ga;r qeou` pa`n ajnafaivreton: w{ste ouj dwvsei, o} mh; kaqevxei~». «w\n dh; tou` swvmato~ ajpallagei`sa ouj dehqhvsh/, ejkeivnwn katafrovnei: kai; w\n a]n ajpallagei`sa devh/ eij" tau`ta su; ajskoumevnh to;n qeo;n parakavlei genevsqai sullhvptora». ou[koun «dehvsh/ oujdenov~, w\n kai; hJ tuvch dou`sa pollavki~ pavlin ajfairei`tai». Si veda anche il cap. 16 (64, 14): «a[nqrwpo~ de; ajmaqh;~ kai; eujcovmeno~ kai; quvwn miaivnei to; qei`on. movno~ ou\n iJereu;~ oJ sofov~, movno~ qeofilhv~, movno~ eijdw;~ eu[xasqai». Per l’analisi di questi ed altri passi (ad esempio 19 e 21) cfr. Sodano (Porfirio. Vangelo di un pagano), in part. p. 97, nota 62. In relazione specialmente alla pratica dei sacrifici, «la concezione della preghiera, come mezzo per piegare la volontà dell’eterno, mostra [...] tutta la sua assurdità, in quanto rappresenterebbe un atto di ingiustizia» (Bendinelli 1997, 29-30). Per Des Places, 269 la lettera propone «l’idéal moral d’une âme étroitement unie à la divinité». 254 Ep. ad Marc. 24 (74, 2-4): eujch; hJ me;n meta; fauvlwn e[rgwn ajkavqarto~ kai; dia; tou`to ajprovsdekto~ uJpo; qeou`: hJ de; meta; kalw`n e[rgwn kaqarav te oJmou` kai; eujprovsdekto~. Jackson 1971, 26 commentando la seconda preghiera del Fedro (257a-b), ricorda che Platone (nella Repubblica e nelle Leggi) non accoglie la domanda di perdono, dal momento che la preghiera è ammessa solo per coloro che sono buoni. 255 Bendinelli 1997, 40: «Al secondo gruppo appartengono coloro che “affermano l’esistenza degli dèi e che questi sono provvidenti e che tra gli eventi che si producono ve ne è un gran numero di contingenti” (CTim 208, 3-5). Da parte di costoro è riconosciuta la sua validità, soprattutto in vista del riordinamento morale (aj n orqou' n) dell’esistenza umana. In questo senso essa viene quindi intesa in stretta connessione con la crescita morale e conviene massimamente [...] all’uomo virtuoso». Secondo Löhr 1999, 95, «anders als für Origenes ist für Porphyrios das Problem der Providenz Gottes nicht das systematische Zentrum; hier begnügt er sich mit der Minimallösung, die besagt, daß die Providenz
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Se in Porfirio permangono così elementi di contraddizione, nei successivi autori neoplatonici come Giamblico e Proclo il problema filosofico della preghiera troverà una soluzione più coerentemente convinta, anche perché la prassi orante è adesso caratterizzata dalla sua dimensione teurgica, teorizzata in particolar modo da Giamblico nel De Mysteriis256. Quanto a Proclo, la preghiera dà attuazione alla virtù della pietà religiosa nei confronti degli dèi e concorre al ritorno dell’anima a Dio, le cui tappe successive scandiscono un articolato itinerario di avvicinamento. Siamo, da questo punto di vista, ormai lontani da Origene che – come si è intravisto precedentemente – non ha elaborato una dottrina dei gradi della preghiera 257 . 2. Gli echi cristiani del dibattito filosofico e gli avversari di Origene La parabola storica dei rapporti tra pensiero filosofico e preghiera, per quanto descritta succintamente, ci aiuta a comprendere meglio i termini della problematica discussa da Origene in Orat V -VII. Si deve però aggiungere subito che, stando anche all’esplicita testimonianza dell’Alessandrino, essa li rispecchia solo in parte. Ai motivi di critica formulati dalla filosofia antica vanno aggiunti gli sviluppi in atto nella riflessione cristiana, ai quali Origene accenna di proposito, sia pure genericamente, nel preambolo introduttivo alla trattazione della quaestio (Orat V , 1). Prima di esaminare le sue affermazioni può essere utile ricuperare le tracce del dibattito in corso presso pensatori cristiani di varia estrazione dottrinale. Non è un caso che il «problema della preghiera» si annunci per la prima volta nella storia del pensiero cristiano con l’apologista Giustino. Sebbene il passo compaia nel Dialogo con Trifone, uno scritto destinato ––––––––––––––––––
Gottes zulassen muß, daß die Dinge in der Welt auch anders sein könnten, wenn das Gebet nicht sinnlos sein soll». Invece Förster 2007, 293-294 ignora le polarità del pensiero porfiriano sulla preghiera, mentre dà risalto alla giustificazione della domanda sulla falsariga del rapporto tra figli e genitori. 256 Riallacciandosi alla Lettera ad Anebo di Porfirio, Giamblico vi riprende sistematicamente le aporie sulla preghiera all’interno di uno scritto che appartiene al genere delle quaestiones et responsiones. Alla domanda su come sia possibile che la divinità ascolti le richieste dell’uomo Giamblico risponde che «la preghiera non si configura [...] come dialogo di una persona nei confronti di un’altra, bensì come colloquio che si compie all’interno del divino» (Bendinelli 1997, 43). In questo caso si tratta in primis della preghiera del filosofo che per syngeneia partecipa in sé della divinità. 257 Per Des Places, 272, la dottrina procliana sulla preghiera si ricollega direttamente a Platone. Ancor più di Porfirio egli conserva uno spazio per la preghiera di domanda, restando in tal modo fedele allo spirito delle Leggi: «L’origine divine de toutes choses, la sympathie universelle [...], la procession et conversion ou retour à Dieu, voilà le fondement théologique de la prière, “ouvrière de persuasion divine, qui unit ceux qui prient à ceux qu’ils prient”». Cfr. anche Dorival 2000, 97.
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al confronto polemico con il giudaismo, il celebre esordio di questa stessa opera ci introduce la figura dell’autore nella prospettiva tipica della ricerca filosofica. È attraverso il confronto con le diverse scuole di pensiero che Giustino, dopo l’ultimo stadio provvisorio rappresentato dall’adesione al platonismo, approderà infine al cristianesimo. Parte di questo confronto intellettuale con le varie tradizioni filosofiche è anche la disputa in merito alla provvidenza e al rapporto fra questa e la preghiera. In particolare, Giustino critica la posizione della scuola aristotelica, che afferma la provvidenza generale, mentre nega quella individuale e paradossalmente ne trae la prova dal fatto che l’uomo si rivolga giorno e notte alla divinità chiedendole aiuto: gli aristotelici, infatti, «si sforzano di convincerci che Dio si prende sì cura dell’universo e dei vari generi e specie, ma non di me e di te e di ognuno in particolare, altrimenti non lo pregheremmo notte e giorno»258 . Se in tal modo troviamo già una prima enunciazione del dilemma su come conciliare provvidenza e preghiera che Origene sarà chiamato a risolvere in Orat, anche nell’Apologia Giustino lascia intravedere una consapevolezza delle tematiche suscitate dal pensiero filosofico intorno alla preghiera. Si tratta di una serie di spunti che tradiscono affinità piuttosto evidenti con l’ideale di preghiera elaborato specialmente in sede filosofica. Proseguendo nella stessa linea dell’Apologia di Aristide, che aveva proposto un modello di preghiera caratterizzato come suo tratto dominante dalla lode e dal ringraziamento, laddove la richiesta doveva vertere su cose convenienti da domandare per l’uomo e da concedere per Dio259, Giustino sviluppa ulteriormente il paradigma della preghiera cristiana come «preghiera spirituale». Anch’egli insiste sull’idea della preghiera come lode a Dio e ringraziamento per i benefici concessi all’umanità. Nel contempo ribadisce la preghiera di domanda a partire da un atteggiamento di fede e la colloca su di un piano tendenzialmente ancor più elevato di quanto avesse fatto Aristide, dal momento che egli indica come suo oggetto la richiesta dell’«incorruttibilità» 260 . L’Apologista sembrerebbe dunque condividere la preoccupazione di indirizzare la preghiera preferenzialmente verso l’ottenimento dei beni celesti, demandando invece all’iniziativa provvidenziale di Dio la concessione dei beni terreni – un’esigenza che anche Origene si sforzerà d’inculcare ripetutamente. –––––––––––––––––– 258 Giustino, Dial. 1, 4 (186): ajlla; kai; hJma`~ ejpiceirou`si peivqein wJ~ tou` me;n suvmpanto~ kai; aujtw`n tw`n genw`n kai; eijdw`n ejpimelei`tai qeov~, ejmou` de; kai; sou` oujk e[ti kai; tou` kaq∆ e{kasta, ejpei; oujd∆ a]n hujcovmeqa aujtw/` di∆ o{lh~ nukto;~ kai; hJmevra~ (tr. it. Visonà, 87). Si veda l’approfondita analisi di Pépin. 259 Aristide, Apol. 15, 8-9; 16, 1 (cfr. infra, pp. 515-516). 260 Giustino, I Apol. 13, 2 (nota 1617). Munier, 160, nota 1 ad loc. segnala affinità con il pensiero stoico, in particolare con l’Inno a Zeus di Cleante.
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Gli orientamenti presenti in forma ancora episodica nella riflessione degli Apologisti si configurano in una dottrina più organica, capace di tenere insieme le manifestazioni del culto, la preghiera e la vita del cristiano nell’Adversus Haereses di Ireneo261. Tuttavia, nella grande opera eresiologica del vescovo di Lione non troviamo indizi di una messa in discussione della preghiera come quella che ci attesta Clemente Alessandrino negli Stromati agli inizi del III secolo. Nel VII libro egli evoca en passant la tesi sostenuta da un gruppo ereticale che si autodefinisce come «gnostico», guidato da un maestro di nome Prodico, fautore della tesi che «non si deve pregare» (peri; tou' mh; dei'n eu[cesqai) 262 . Se la “parola d’ordine” riferitaci da Clemente assimila di fatto la setta all’esito negativo di Massimo di Tiro, nulla sappiamo circa le motivazioni a suo sostegno. Clemente si limita a ricordare che non si tratta affatto di un’idea nuova, poiché era già sostenuta dai filosofi della scuola cirenaica263 . Abbiamo comunque un’asserita parentela filosofica – anche se dichiaratamente di natura polemica e in ogni caso diversa dal nostro riferimento contemporaneo più immediato –, ma dopo aver messo in luce tale affinità compromettente Clemente rimanda ad altro momento una discussione approfondita: si tratta di un compito «non da poco», al dire dell’autore degli Stromati, che è restio ad una digressione così impegnativa, mentre nel proprio «trattato sulla preghiera» mira a dimostrare come solo lo gnostico che si attiene al «canone ecclesiastico» possa considerarsi «pio» e come egli sia dedito ad una «richiesta secondo il volere di Dio»264 . Leggendo questa –––––––––––––––––– 261 262
Si veda, in particolare, Ireneo, Adv. Haer. IV, 17; e supra, nota 108. Clemente Alessandrino, Strom. VII, 7, 41, 1 (144): ∆Entau'qa genovmeno" uJpemnhvsqhn tw'n peri; tou' mh; dei'n eu[cesqai prov" tinwn eJterodovxwn, toutevstin tw'n ajmfiv th;n Prodivkou ai{resin, pareisagomevnwn dogmavtwn. Clemente accenna a questa setta anche in Strom. III, 4, 29, 3-32, 2. Secondo Le Boulluec (p. 144, nota 3), le «rejet de la prière trouve une semi-confirmation dans certains textes gnostiques de Nag-Hammadi». Gessel, 151-152 rimanda a Vangelo di Filippo 7 e Vangelo di Tommaso 14 (cfr. infra, nota 274). Per Segelberg 55, aderendo Prodico presumibilmente alla dottrina delle nature fisse, egli avrebbe soppresso il bisogno di pregare; resta comunque problematico asserire una piena coincidenza di vedute fra Prodico e i due vangeli gnostici (p. 68). 263 Strom. VII, 7, 41, 2 (144): ”Ina ou\n mhde; ejpi; tauvth/ aujtw'n th/' ajqevw/ sofiva/ wJ" xevnh/ ojgkuvllwntai aiJrevsei, maqhvtwsan proeilh'fqai me;n uJpo; tw'n Kurhnai>kw'n legomevnwn filosovfwn. Löhr 1999, 89-90, ricollegandosi alle altre notizie fornite da Clemente sulla scuola di Prodico ne traccia così l’ipotetico profilo: «Vielleicht meinten die Prodikianer, daß sie als die natürlichen Söhne Gottes und als “königliche Kinder” kein Bittgebet an ihn, den Vater, richten sollten. Stimmt diese Vermutung, so unterschiede sich die Gebetskritik der Prodikianer charakteristisch von der von Origenes rekonstruierten christlichen Gebetskritik, die gerade den Abstand zwischen den Menschen und Gott den Vater betont». Per gli antecedenti «cirenaici» si veda Roukema, 57, nota 37, che richiama in particolare Teodoro (Diogene Laerzio, Vit. II, 86; 97). 264 Strom. VII, 7, 41, 3 (143-144): ajntirrhvsew" d∆ o{mw" teuvxetai kata; kairo;n hJ tw'n yeudwnuvmwn touvtwn ajnovsio" gnw'si", wJ" mh; nu'n pareisduomevnh to; uJpovmnhma, oujk ojlivgh ou\sa hJ touvtwn katadromh; diakovpth/ to;n ejn cersi; lovgon, deiknuvntwn hJmw'n movnon
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dichiarazione e tenendo presente le modalità del rapporto un poco “elusivo” che Origene intrattiene con il suo predecessore, non si può fare a meno di pensare che l’ “agenda” di Orat contempli anche il compito lasciato inevaso da Clemente. Ne fosse o meno consapevole Ambrogio, Origene si è ispirato al trattato in vari punti e il rigetto della preghiera ad opera di Prodico non può certo essergli passato inosservato265. Origene precisa così nel preambolo alla discussione delle aporie (Orat V, 1) che egli «non esiterà» ad esporre le obiezioni degli avversari – sia pure assecondando la richiesta di Ambrogio e Taziana –, mentre rintraccia il loro contesto dottrinale invertendo, per così dire, l’ordine di Clemente. In un primo tempo, infatti, ricorda che si tratta di un problema tipico della tradizione filosofica, ma successivamente aggiunge che la critica della preghiera ha contagiato anche gli ambienti cristiani, sia pure in una variante ereticale. Il retroterra della filosofia è alluso rapidamente secondo un essenziale approccio dossografico alle diverse posizioni, senza fare qui menzione di scuole distinte. Origene afferma dunque che in generale, tra i filosofi, quanti ammettono l’esistenza di Dio e la provvidenza accettano anche la preghiera, mentre il suo rifiuto è professato viceversa da coloro che negano la divinità o la riconoscono in pratica soltanto di nome, cioè privandola della sua azione provvidenziale266 . Questa messa a punto del contesto, viziata peraltro da una lacuna nella parte iniziale, suscita di primo acchito perplessità quanto alla definizione dei «fautori» della preghiera, poiché anche coloro che accolgono Dio e la sua provvidenza possono respingere la preghiera di domanda, come si è visto per lo stoicismo e per il medioplatonico Massimo di Tiro. È vero che Origene è disposto a riconoscere delle eccezioni, ma esse sarebbero pressoché inesistenti e inoltre mancherebbero di esponenti «degni di rilievo». Può essere che l’enunciazione sia viziata polemicamente, anche perché gli avversari effettivi con i quali l’Alessandrino si misurerà di seguito (Orat V, 2-6) sono proprio coloro che si oppongono alla preghiera ––––––––––––––––––
o[ntw" o{sion kai; qeosebh' to;n tw/' o[nti kata; to;n ejkklhsiastiko;n kanovna gnwstikovn, w/| movnw/ hJ ai[thsi" kata; th;n tou' qeou' bouvlhsin ajponenemevnh givnetai kai; aijthvsanti kai; ejnnohqevnti. 265 Le Boulluec 2003, 397 si è sforzato di provare come «en répondant aux questions d’Ambroise et de Tatiana, Origène se réfère à l’exposé de Clément». Ciò vale anche per l’enunciazione delle aporie: «sa réfutation cependant identifie les adversaires d’une façon qui fait écho à la manière dont Clément introduit la difficulté» (p. 398). 266 Orat V, 1 (308, 10-15): ou{tw dh; oJ lovgo" ejsti;n a[doxo" kai; mh; tucw;n ejpishvmwn tw'n proi>stamevnwn aujtou', w{ste mhde; pavnu euJrivskesqai, o{sti" pote; tw'n provnoian paradexamevnwn kai; qeo;n ejpisthsavntwn toi'" o{loi" eujch;n mh; prosivetai. e[sti ga;r to; dovgma h[toi tw'n pavnth/ ajqevwn kai; th;n oujsivan tou' qeou' ajrnoumevnwn h] tw'n mevcri" ojnovmato" tiqevntwn qeovn, th;n provnoian de; aujtou' ajposterouvntwn. Da notare l’espressione analoga, per i fautori delle credenze astrologiche, in CGn III = Phil 23, 1 (136, 41-42): oiJ tw'n gennaivwn proi>stavmenoi touvtwn lovgwn (Origène. Philocalie 21-27, Sur le libre arbitre).
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in nome della provvidenza divina267 . Più trasparente è semmai la caratterizzazione degli avversari più consueti della preghiera: il cenno a coloro che negano l’esistenza di Dio rinvia chiaramente agli epicurei, la scuola che l’antichità cristiana (e non solo) taccia abitualmente di “ateismo”, come vediamo bene in Origene dalla sua polemica con Celso 268 . Riguardo poi a quelli che affermano Dio a parole, perché lo privano della provvidenza, si tratta di un’allusione agli aristotelici, per i quali l’azione provvidenziale non si estendeva alla sfera sublunare. La distinzione e il collegamento tra queste due scuole trovano un parallelo nel Contro Celso (CC II, 13), sebbene qui il rimprovero mosso agli epicurei tocchi la loro negazione della provvidenza e quello rivolto agli aristotelici la denuncia dell’inutilità di preghiere e sacrifici 269 . In Orat Origene menziona le loro tesi per completezza dossografica – dato che poi non ingaggerà un dibattito con essi – oppure per aggravare l’accusa nei confronti dei suoi più diretti interlocutori associandoli a due posizioni notoriamente compromettenti270 . Del resto la denuncia della perniciosità di tale dottrina la riconduce all’iniziativa della potenza dell’Avversario, nel momento in cui Origene trapassa dal contesto filosofico all’ambiente cristiano. La forza demoniaca, che tenta sempre di stravolgere l’«insegnamento del Figlio di Dio» attorniandolo con «le dottrine più empie» è riuscita a persuadere anche alcuni cristiani che non si deve pregare. Neanche in questo caso ci vengono dati dei nomi, ma l’Alessandrino si sforza almeno di caratterizzare con qualche dettaglio il volto di questi eretici, affermando che essi rigettano qualunque elemento sensibile, evidentemente nell’esercizio del culto, poiché – come si precisa di seguito – non fanno uso né del battesimo né del–––––––––––––––––– 267 Orat V, 2 (308, 23-25): ei\en d∆ a]n oiJ lovgoi tw'n ajqetouvntwn ta;" eujca;" ou|toi (dhlonovti qeo;n ejfistavntwn toi'" o{loi" kai; provnoian ei\nai legovntwn: ouj ga;r provkeitai nu'n ejxetavzein ta; legovmena uJpo; tw'n pavnth/ ajnairouvntwn qeo;n h] provnoian). 268 Cfr. Cacitti; Markschies 2000. Diversamente dallo stereotipo negativo dei polemisti cristiani Des Places, 259 osserva che l’attaccamento alla religione tradizionale manifestato da Platone lo si ritrova anche in Epicuro; testimonianza della sua devozione agli dèi è il fr. 13 Usener: «En effet, dit-il, prier est propre à la sagesse, non que les dieux doivent s’irriter si nous ne le faisons pas, mais parce que nous percevons combien la nature des dieux l’emporte sur nous en puissance et en excellence». Si veda anche Festugière, 98-99; e Hadot 1995, 190: «Pour les sages, le bien le plus haut, c’est de contempler la splendeur des dieux. Ils n’ont rien à leur demander, et pourtant ils les prient d’une prière de louange». 269 CC II, 13 (142, 7-9): ∆Epikoureivou", tou;" pavnth/ provnoian ajnairou'nta", ajlla; kai; tou;" ajpo; tou' Peripavtou, mhde;n favskonta" ajnuvein eujca;" kai; ta;" wJ" pro;" to; qei'on qusiva". CRm III, 1 (200, 182–202, 202) ripropone la critica all’epicureismo e all’aristotelismo, ma senza accennare alla visuale dei secondi riguardo alla preghiera. 270 Le Boulluec 2003, 398-399: «Ce renvoi d’une partie des philosophes, les athées au sens plein et les épicuriens, peut être perçu comme une généralisation et une diversification du grief formulé par Clément». L’accostamento con CC II, 13 suggerisce di identificare in Orat V, 1-2 lo stesso abbinamento.
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l’eucarestia. A suffragare il rifiuto della preghiera concorre un’interpretazione “mistificatrice“ delle Scritture, che agli occhi di tali eretici avrebbero inteso dire qualcosa di diverso, quando parlano di «pregare»271 . Pur con tali precisazioni non è facile identificare il gruppo che Origene ha in mente, anche se dobbiamo naturalmente pensare che si tratti nuovamente di esponenti di qualche setta gnostica. Dal modo in cui l’Alessandrino ne parla si direbbe che non ricavi questo contesto direttamente dalla lettera di Ambrogio, ma ne estrapoli semmai le diverse implicazioni filosofiche e teologiche alla luce dello sfondo più vasto al quale vuole ricondurre il problema 272 . In ogni caso, sfruttando la testimonianza di Ireneo, si è proposto di identificare gli eretici qui evocati con un gruppo appartenente alla gnosi marcosiana, anche se ciò sembrerebbe contraddetto dalle notizie sulla prassi cultuale di questa scuola conservateci nell’Adversus haereses273. Tuttavia, i tentativi per accertare il profilo degli eretici combattuti da Origene devono prendere atto che l’Alessandrino mette in scena un dibattito in cui intervengono entrambe le prospettive disegnate fin qui: il riferimento alla tradizione filosofica ed una sua ricezione e distinta formulazione cristiana274 . Nello stesso tempo l’Alessandrino imposta la discussione secondo i termini dettati in buona parte dai riferimenti scritturistici, con il ricorso ad una serie di passi che – come possiamo verificare anche in altre circostanze analoghe (ad esempio, nel «Trattato sul libero arbitrio» di Prin III, 1) – non necessariamente doveva trarre dagli argo–––––––––––––––––– 271 Orat V, 1 (308, 15-22): h[dh mevntoi ge hJ ajntikeimevnh ejnevrgeia, ta; ajsebevstata tw'n dogmavtwn peritiqevnai qevlousa tw'/ ojnovmati tou' Cristou' kai; th'/ didaskaliva/ tou' uiJou' tou' qeou', kai; peri; tou' mh; dei'n eu[cesqai deduvnhtai pei'saiv tina": h|" gnwvmh" proi?stantai oiJ ta; aijsqhta; pavnth/ ajnairou'nte" kai; mhvte baptivsmati mhvte eujcaristiva/ crwvmenoi, sukofantou'nte" ta;" grafav", wJ" kai; to; eu[cesqai tou'to ouj boulomevna" ajll∆ e{terovn ti shmainovmenon para; tou'to didaskouvsa". 272 È di questo avviso anche Le Boulluec 2003, 399. L’allargamento della visuale polemica (filosofi ed eretici) va visto anch’esso come indizio della modificazione apportata da Origene all’impostazione clementina. 273 Cfr. Ireneo, Adv. Haer. I , 21, 4 (SC 264, 303): a[lloi de; tau'ta pavnta paraithsavmenoi favskousi mh; dei'n to; th'" ajrrhvtou kai; ajoravtou Dunavmew" musthvrion di∆ oJratw'n kai; fqartw'n ejpitelei'sqai ktismavtwn, kai; tw'n ajnennohvtwn kai; ajswmavtwn di∆ aijsqhtw'n kai; swmatikw'n. Sulle dottrine di questo gruppo si veda Förster, 7-13, che propone piuttosto di vedervi il riferimento ad un altro gruppo valentiniano, distinto dai marcosiani veri e propri, che al contrario praticano forme rituali (si veda Adv. Haer. I, 13, 2-4). 274 Per Gessel, 151, «diese Häretiker dürften in den Reihen derer zu suchen sein, die man allgemein als Gnostiker bezeichnen kann, wie z.B. Prodikos und die Cyrenaiker (sic!), Doketen, Askodruten, Archontiker, Markioniten, Valentinianer, aber auch solche Gruppen, denen das koptisch-gnostische Thomasevangelium und das Philippusevangelium Grundlage ihrer Religiosität war». Da parte sua Pépin riscontra analogie con le posizioni di Massimo di Tiro, anche se gli avversari di Origene sono cristiani, più precisamente degli gnostici marcosiani. Anche per Trevijano Etcheverria, 117, si tratterebbe di eretici gnosticizzanti. Punta invece alla matrice della tradizione filosofica (con Massimo come suo testimone principale e in seguito Porfirio) Stritzky, 112-113.
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menti prodotti dai suoi avversari275 . Occorre insomma riconoscere che Origene si appropria in maniera organica e sostanzialmente originale dello spunto offertogli da Ambrogio con le sue aporie, sviluppando la propria replica su un piano che intreccia strettamente gli aspetti più propriamente speculativi (filosofici e teologici), i riferimenti scritturistici e il richiamo all’esperienza (psicologica e morale). 3. La replica alle aporie: un esercizio di quaestiones et responsiones La compattezza della trattazione origeniana è assicurata dalla precisa cornice letteraria che s’ispira ad un procedimento metodico altamente formalizzato, e al quale Origene si attiene anche in altri scritti. In Orat V-VII ci troviamo infatti davanti ad un esercizio di quaestiones et responsiones ben articolato nelle sue due parti principali: 1. l’elaborazione delle aporie (Orat V); 2. la soluzione di esse (Orat VI-VII). Con l’argomentazione sviluppata in questo tratto l’Alessandrino assume così i panni dello zhthtikov", cui compete l’enunciazione approfondita del problema, e nello stesso tempo quelli del lutikov", che sfoggia a sua volta la propria acribia nel rispondere punto per punto alle questioni sollevate. Benché Origene non ci abbia lasciato opere appartenenti al genere letterario delle quaestiones et responsiones – che in pratica fa il suo ingresso nella letteratura cristiana antica soltanto con le Quaestiones Evangelicae di Eusebio di Cesarea276 –, egli conosce molto bene la tecnica e la pratica in più di uno scritto277. Anzi, si è fatto notare come in generale l’impresa esegetica di Origene sui singoli testi biblici sia sorretta abitualmente dall’introduzione di una quaestio278. Applicato principalmente in sede filologica ed esegetica, il metodo delle quaestiones et responsiones si è esteso ad una pluralità di ambiti, incluso ovviamente quello filosofico (dove peraltro Aristotele fornisce per tempo una sistematizzazione della topica di quaestiones et responsiones sul testo di classici come Omero)279 . Pertanto già nella storia del pensiero antico, senza dover giungere fino ad un Tommaso d’Aquino, la riflessione filo–––––––––––––––––– 275 Si veda il dossier dei luoghi biblici addotti contro il libero arbitrio in Prin III, 1 e la mia analisi in proposito (Perrone 1992b). 276 Cfr. l’introduzione di Zamagni alla nuova edizione (Eusèbe de Césarée. Questions évangéliques), 33-64. 277 Ne ho tracciato una panoramica in Perrone 1994c. 278 È l’indicazione, come sempre meditata e autorevole, di Manlio Simonetti (ad esempio, in Simonetti 2004b, 179: «Procedimento prediletto per operare questo approfondimento [...] è, analogamente a quanto si faceva nelle scuole di filosofia, l’utilizzazione della quaestio, che [...] scaturisce per lo più dall’accostare al passo in esame uno o più altri di significato in qualche modo affine, per esaminarne somiglianze e, soprattutto, divergenze»). 279 Aristotele, Poetica 25.
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sofica si enuclea assai spesso a partire da un elemento aporetico, come vediamo ben esemplificato – in fedeltà alla tradizione originaria della scuola – dal neoplatonico Plotino. Ma nella trattazione di Origene dobbiamo considerare l’adozione del metodo di quaestio et responsio anche alla luce della prassi retorica. L’immedesimazione aporetica di cui l’Alessandrino dà prova nella pars destruens della sua argomentazione, alla quale in un secondo momento si contrappone simmetricamente la pars construens, richiama da vicino anche l’esercizio di ajnaskeuhv e kataskeuhv in uso nelle scuole di retorica. Questa affinità è suggerita, fra l’altro, dal cenno iniziale di Origene alla necessità di esporre preliminarmente ta; piqanav dei critici della preghiera (Orat V, 1)280. Ora, l’esercizio retorico consisteva per l’appunto nel verificare dapprima criticamente o «distruggere» (ajnaskeuhv) la piqanovth", cioè la «verosimiglianza» di un mito o di una storia, per poi dimostrarla o «ricostruirla» (kataskeuhv) susseguentemente281 . Origene si serve di questo stesso metodo nell’argomentazione di natura “storico-critica“ condotta sui testi biblici282 . Tale metodo, come si può ricavare anche dall’applicazione che egli ne fa, doveva rispettare determinati requisiti; in particolare, l’ajnaskeuhv era tenuta a provare la mancanza di piqanovth" con il mettere in luce gli aspetti problematici, vuoi per la loro «impossibilità» o «oscurità», vuoi per la mancanza di «consequenzialità» (ajkolouqiva)283. È evidente qui la contiguità fra il metodo retorico e la tecnica delle quaestiones et responsiones che verteva anch’essa, a partire dalla teorizzazione aristotelica, sugli elementi del testo individuabili come «impossibili» (ajduvnata), «assurdi» (a[topa), «irragionevoli» (a[loga) o «disdicevoli» (ajpreph'). A rafforzare ulteriormente la componente retorica dell’esercizio origeniano di quaestio et responsio concorre nella solutio l’abbondante ricorso al metodo della «prosopopea» (Orat VI, 4-5). Sebbene la teorizzazione al riguardo nei manuali antichi di retorica presenti difficoltà, quanto alla sua esatta definizione (sovrapponendosi spesso con l’«etopea»), Origene si serve largamente di questa tecnica della «personificazione», per tradurre un discorso impersonale di principio o un’argomentazione astratta in un intervento diretto e personale conferendogli così un’immediatezza collo–––––––––––––––––– 280 281
Cfr. supra, nota 210. Quintiliano, Inst. or. II , 4, 18 lo ricorda tra i primi esercizi della scuola di retorica: «Narrationibus non inutiliter subjungitur opus destruendi confirmandique eas, quod ajnaskeuhv et kataskeuhv vocatur. Id porro non tantum in fabulosis et carmine traditis fieri potest, verum etiam in ipsis annalium monumentis» (Rahn, I, 180-182). Cfr. Neuschäfer, 28. 282 Grant, 40-49, 50-78. 283 Neuschäfer, 243: «Der Unwahrscheinlichkeitserweis eines Mythos (ajnaskeuhv) erfolgt unter mindestens drei Gesichtspunkten: ejk tou' ajdunavtou, ejk tou' ajsafou'", ejk tou' ajnakolouvqou». Come esempio di applicazione del metodo segnala l’esegesi della purificazione del tempio (Gv 2, 12-22) in CIo X.
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quiale particolarmente efficace284 . Con notevole «audacia» l’Alessandrino fa intervenire la prosopopea ragionando ex parte Dei: Dio stesso, dunque, argomenta in prima persona la soluzione esposta teoricamente da Origene per conciliare libero arbitrio e preghiera dell’uomo con la prescienza e provvidenza divine 285 . La percezione di una porzione di testo così strutturata sotto il profilo formale non è sfuggita ai lettori antichi di Orat. Nel margine del codice T – in corrispondenza con ogni successiva argomentazione aporetica della quaestio a partire da Orat V, 2 (e con la sola eccezione di V, 5) – troviamo una nota che segnala la presenza di un ejpiceivrhma286 . Come il termine piqanav , anche ejpiceivrhma ha una sua configurazione logico-formale. Aristotele lo definisce nei Topici come un «sillogismo dialettico», distinguendone il rilievo argomentativo rispetto al «sillogismo apodittico» (filosovfhma), nonché al «sillogismo contenzioso» (sovfisma) e al «sillogismo aporetico» (ajpovrhma)287 . Ci si potrebbe domandare perché le obiezioni di Orat V, 2-5 siano state indicate con il termine ejpiceivrhma anziché con ajpovrhma. Ma s’intuisce che le elaborazioni aporetiche, in quanto fanno parte di un percorso argomentativo finalizzato a provare la tesi, contestata solo in via provvisoria, siano state qualificate non a torto come ejpiceirhvmata proprio per la loro funzione dialettica “in positivo”. Origene non adopera il vocabolo in Orat, preferendogli piqanav come categoria riassuntiva delle obiezioni (Orat V, 1), ma esso compare in altre opere. Di particolare interesse è il –––––––––––––––––– 284 L’uso della proswpopoiiva, attestato in numerosi scritti, è particolarmente significativo nel dibattito con Celso. Il filosofo pagano se ne serve per argomentare la sua polemica con i cristiani, affidando inizialmente il suo attacco alla prosopopea di un Ebreo, e Origene gli obietta di non applicare correttamente tale tecnica. In proposito, oltre a Pichler e Neuschäfer, si veda specialmente Villani. 285 Löhr 1999, 95: «Der kühne Gebrauch der Prosopopoië zeigt, daß Origenes – nachdem er in einem ersten Schritt die spezifische Freiheit rationaler Wesen skizziert hat – das Problem konsequent von dem Gott her durchdenkt, der die Welt als eine Schule freier rationaler Wesen eingerichtet hat und an jedem einzelnen dieser Wesen bis in die Verästelungen der jeweiligen Biographie hinein wirkt». 286 Nel primo caso, in Orat V, 2, la lezione del ms. (f. 218v), di difficile lettura, è stata così ricostruita da Koetschau: eivrhma tw'n ouvntwn to; . La nota ricompare due volte in V, 3; una in V, 4. Analoghe indicazioni figurano nel cod. H (XIV secolo) a margine di CMt XII , 15. 23 (GCS 40, pp. 103, 120) ove troviamo segnalate rispettivamente ajporiva e luvsi". 287 Aristotele, Top. VIII, 11: “Esti de; filosovfhma me;n sullogismo;" ajpodeiktikov", ejpiceivrhma de; sullogismo;" dialektikov", sovfisma de; sullogismo;" ejristikov", ajpovrhma de; sullogismo;" dialektiko;" ajntifavsew", «A philosopheme is a demonstrative inference, an epichereme is a dialectical inference, a sophism a contentious inference, and an aporeme is a contentious inference of contradiction» (Aristotle, Topica, by E.S. Forster, LCL, Cambridge-London 1966, p. 725). Cfr. LSJ 672, s.v.: «in the logic of Aristotle, attempted, i.e. dialectical proof, opp. a demonstrative syllogism (filosovfhma)».
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suo utilizzo nel Contro Celso, dove l’Alessandrino lo applica alle «obiezioni di poco conto» prodotte dal filosofo pagano nel suo attacco al cristianesimo, assegnandogli apparentemente il semplice valore “distruttivo” che corrisponderebbe ad ajpovrhma nella classificazione aristotelica288. Più ampio è però il ricorso a vocaboli come l’aggettivo piqanovn, il sostantivo piqanovth" o l’avverbio piqanw'", che in generale sembrano rinviare ad argomentazioni speciose, ma dotate di un’apparenza di verità o credibilità. Nel prologo del Contro Celso Origene introduce piqanav, a commento di Col 2, 8 («Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con i vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo»), per denunciare con l’Apostolo l’«inganno» della filosofia, che spesso ammanta i suoi sofismi con una sembianza di vero289. In altri luoghi dell’apologia piqanov" o piqanovth" può rinviare ad una «plausibilità» non contraffatta o, per così dire, ragionevole290. Tuttavia, nel corso del lungo confronto con il filosofo pagano Origene designa con il vocabolo piqanav le critiche pretestuose di Celso alle quali egli si sforza di replicare291 . A tale significato sembra avvicinarsi l’uso del termine in Orat V, 1, che è confermato indirettamente dalle altre occorrenze dello stesso gruppo di vocaboli292 . Ciò non toglie che Origene si cali con grande intensità nell’orizzonte degli avversari della preghiera fornendo loro, almeno temporaneamente, un aspetto di rigore logico e di persuasività293. –––––––––––––––––– 288 CC II, 20 (148, 18-20): Kai; pro;" tau'ta dev, ejpei; bouvlei kai; toi'" ejmoi; fainomevnoi" eujtelevsi tou' Kevlsou ejpiceirhvmasin ajpanta'n, toiau'ta fhvsomen. Cfr. anche II , 53 (177, 18-19): Pleivona d∆ eij" taujto;n levgwn, i{na dovxh/ au[xein to; ejpiceivrhma. D’altra parte, in CGn III = Phil. 23 (184), 16 ejpiceivrhma equivale invece ad «argomento» (a favore) di una tesi: “Idwmen kai; deuvteron ejpiceivrhma, pw'" ouj duvnantai oiJ ajstevre" ei\nai poihtikoiv, ajll∆ eij a[ra shmantikoiv (Metzler, 95 ad loc.: «in einem zweiten Argumentationsgang»). 289 CC Prol. 5 (54, 9-11): ÔO me;n ou\n Pau'lo" sunidw;n o{ti e[stin ejn filosofiva/ eJllhnikh'/ oujk eujkatafrovnhta toi'" polloi'" piqanav, paristavnta to; yeu'do" wJ" ajlhvqeian. 290 In questi casi Origene sembra servirsene nell’accezione originaria (cfr. LSJ 1403, s.v.: «“persuasive, plausible” especially of popular speakers») testimoniata, ad esempio, da Aristotele, Rhet. 1395b 27: piqanwvteroi oiJ ajpaivdeutoi tw'n pepaideumevnwn ejn toi'" o[cloi". 291 CC IV, 89 (361, 6-8): Ou{tw ga;r a]n pro;" ta; piqana; aujtou', ejpideixamevnou filovsofon peri; tw'n thlikouvtwn e{xin, kata; to; dunato;n hJmi'n ejnevsthmen. Cfr. anche V, 1 (2, 4-5): ta; piqana; tou' Kevlsou kata; to; dunato;n hJmi'n lu'sai. Da notare in CC anche l’uso dei contrari ajpivqano" e ajpiqanovth". 292 Cfr. Orat VI, 2 (312, 18), dove ci si appella per contrasto al criterio dell’esperienza: ka]n muriavki" evmeno" o{ti ejgw; thvkw kai; xhraivnw (212, 1-2).
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L’utilizzo sistematico di questo espediente retorico (segnalato in grassetto per il verbo riferito al soggetto divino), a scapito di un approccio più teorico, risponde alla “situazione dialogica” che è insita costitutivamente nell’esperienza della preghiera. Ma, con impostazione originale, Origene considera il rapporto fra orante e Dio proprio dalla prospettiva che non è immediatamente accessibile a chi prega ed è tuttavia necessariamente presupposta nell’atto di pregare. L’orante, infatti, s’immagina un Dio che ascolta e risponde a lui nel momento in cui l’invoca 358 . Per tale motivo la finalità esplicativa di questa modalità colloquiale è senza dubbio animata anche da un intento pedagogico ed esortativo, conforme alle preoccupazioni protrettiche del trattato. Ma sarebbe riduttivo intendere la personificazione origeniana soprattutto come un espediente retorico e strumentale, poiché essa riflette meglio delle affermazioni teoriche la visione di un Dio provvidente, Padre amorevole di tutte le creature, prospettiva alla quale secondo Origene deve guardare anche l’orante. Inoltre, si dovrebbe tenere presente che forse più ancora della prassi retorica tout court la tecnica della prosopopea può essere vista anche come un calco o una riscrittura del linguaggio della Bibbia. Come Dio parla in prima persona attraverso i profeti, così l’interprete delle Scritture lo fa parlare nella sua esegesi dei passi biblici che implicano un intervento divino diretto nei confronti dell’uomo359. L’Alessandrino non ricade insomma inevitabilmente nell’immagine di un Dio “troppo umano”, perché con la sua argomentazione asseconda semmai la manifestazione di un Dio che chiama l’uomo alla salvezza e instaura il suo colloquio con lui senza mai deresponsabilizzarlo. Ne abbiamo la prova evidente nei contenuti dei discorsi messi in bocca a Dio da parte di Origene che riguardano tutti la condotta di colui che si accosta a Dio nella preghiera. Ripercorrendo le successive “personificazioni” si nota l’insistenza sull’ethos degli oranti, con le loro scelte e condotte di vita, nel bene e nel male. Vi si può ricavare in un certo senso anche un compendio dell’ars orandi, riguardante sia le condizioni o l’atteggiamento di chi prega (il kaqo; dei'), sia i contenuti (lo o} dei') della preghiera. Dio è detto infatti accogliere la preghiera di colui che prega «con intelligenza» (sunetw'" ), mentre non esaudisce la richiesta di chi è «indegno» (ajnavxion) di ricevere o gli chiede cose che non giovano all’orante né si addice a Dio concedere. Con ciò Origene non prefigura un automa–––––––––––––––––– 358 Apprezzando come «classica» la «profonda apologia» della preghiera rappresentata da Orat, Heiler, 217 osserva: «Seine Lösung will einerseits die Unveränderlichkeit Gottes unangetastet lassen, andererseits den dem naiven Beten zugrundeliegenden Glauben an eine reale Einwirkung auf Gott festhalten». 359 La continuità fra la prosopopea e il linguaggio biblico è ben evidenziata da CGn III = Phil. 23, 10, dove Origene commenta le parole divine trasmesse dal profeta: i[sw" ajkouvsontai kai; metanohvsousin (Ger 33, 3).
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tismo di scambio fra richiesta e dono, poiché Dio può decidere di concedere liberalmente i suoi benefici ben più di quanto gli venga domandato. Oppure può assecondare l’agire dell’uomo con il sostegno dei suoi angeli, commisurando l’aiuto prestato al diverso stato spirituale del singolo, ma può anche privarlo di tale ausilio se egli si volga al male, lasciandolo allora preda della potenza avversa che ha attirato verso di sé nel peccare. Anche i tre personaggi biblici, nei quali Origene riunisce i luoghi scritturistici addotti dagli avversari dalla preghiera rispecchiano la situazione morale dell’uomo posto dinanzi alla scelta fra il male e il bene. Giosia e Giuda prendono strade opposte, pur essendo possibile ad entrambi di vivere da kaloi; kai; ajgaqoiv, come si esprime l’Alessandrino, facendo proprio l’ideale morale della paideia greca dentro l’orizzonte biblico360. Infine Origene presenta in Paolo il modello più complesso dell’interazione fra libero arbitrio dell’uomo e iniziativa di salvezza, riunificando nella prosopopea più sviluppata i diversi passi sfruttati dagli avversari ed ora composti in un magnifico intarsio a caratterizzare la personalità morale dell’Apostolo. La sua elezione avviene in mente Dei «prima della creazione del mondo», con un’eco sia di Ef 1, 4 sia di un’analoga formulazione di carattere generale circa la prescienza divina nel Commento a Genesi361. La predestinazione, conseguente a prescienza ed elezione e menzionata con Gal 1, 15, è contraddistinta anche dall’attribuzione a Paolo di «potenze che cooperano alla salvezza degli uomini». Questo aiuto non lo preserva però dall’agire come persecutore della chiesa (assistendo all’uccisione di Stefano secondo At 7, 58), prima di volgersi nuovamente al bene con l’aiuto della grazia divina. In compenso, l’esperienza giovanile lo impedirà di vantarsi delle rivelazioni di cui egli è stato fatto oggetto in abbondanza (2Cor 12, 7)362 . Non è un caso che questo ritratto dell’Apostolo fatto di luci ed ombre segni in pratica la conclusione del serrato confronto con i critici della preghiera, almeno per quanto riguarda la prospettiva dell’uomo orante, dotato –––––––––––––––––– 360 Orat VI , 5 fa così da pendant a Orat V, 5, alludendo nel succinto ritratto di Giosia, re giusto e fedele, a 2Re 21, 24; 22, 2; 23, 4-25. Riguardo a Giuda, Origene associa a Dio anche il Figlio di Dio nella prescienza dei misteri riguardo all’apostolo traditore, preannunciando profeticamente la sua sorte con Sal 108(109), 1: w{ste meta; katalhvyew" aujto;n, kai; pri;n genevsqai to;n ∆Iouvdan, dia; tou' Daui÷d eijrhkevnai: oJ qeo;", th;n ai[nesivn mou mh; parasiwphvsh/" kai; ta; eJxh'" (315, 8-10). 361 Si confronti Orat VI, 5 ([315, 11-12] pri;n ktivsai to;n kovsmon ejpiballovmeno" th'/ ajrch'/ th'" kosmopoii?a") con CGn III = Phil. 23, 8 ([154, 1-2] ejpibavllwn oJ qeo;" th/' ajrch/' th'" kosmopoii?a" [Origène. Philocalie 21-27, Sur le libre arbitre). 362 Orat VI, 5 (315, 21-26): kai; aijsqovmeno" th'" ejsomevnh" mou eij" aujto;n eujergesiva" meta; ta; ejn neovthti profavsei qeosebeiva" ptaivsmata ei[ph/: cavriti de; qeou' eijmi o{ eijmi (1Cor 15, 10): kai; kwluovmeno" de; uJpo; tou' suneidovto" dia; ta; uJpo; neanivou aujtou' e[ti tugcavnonto" pepragmevna kata; Cristou' oujc uJpereparqhvsetai th'/ uJperbolh'/ tw'n ejp∆ eujergesiva/ fanerwqhsomevnwn aujtw'/ ajpokaluvyewn (2Cor 12, 7).
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del libero arbitrio (aspetto che – come sappiamo – viene esteso in Orat VII ai corpi celesti, intenti pure essi alla preghiera)363. Con l’immagine di Paolo tracciata qui da Origene l’accento etico che predominava nelle precedenti personificazioni trapassa in una consapevolezza più acuta della vicenda umana come segnata drammaticamente dall’esperienza del peccato, sia pure in un protagonista vittorioso, quale è appunto l’Apostolo. I doni di grazia di cui Dio lo ricolma non gli fanno perdere di vista le colpe precedenti, mentre lo aiutano a riconoscere la trasformazione della sua vita come conseguenza dell’intervento divino. In filigrana, anche nel ritratto di colui che è fin da principio il testimone-chiave per il discorso origeniano sulla preghiera si può ritrovare la nota drammatica che lo percorre intimamente e che al tempo stesso determina la sua concreta attuazione in un’esperienza orante. Anche per tale percezione questa esperienza risulta ben diversa dallo stesso modello proposto dall’ideale filosofico della preghiera364. Risolte le aporie sulla preghiera, nel seguito del trattato, fino al termine della prima sezione (Orat XVII), Origene si sforzerà di riflettere sui modi in cui può darsi precisamente la sua prassi effettiva.
–––––––––––––––––– 363 Il riconoscimento del libero arbitrio negli astri, in stretto legame con la preghiera, è motivato a partire dall’invito rivolto loro a lodare Dio in Sal 148, 3. Cfr. Orat VII (316, 9-10): kai; eij peri; tou' ejf∆ hJmi'n eJtevrou mh; mavthn eu[comai, pollw'/ plevon peri; tou' ejf∆ hJmi'n tw'n ejn oujranw'/ swthrivw" tw'/ panti; coreuovntwn ajstevrwn. 364 Heiler, 208 ne riepiloga così contenuti e limiti: «Die Bitte um das sittlich Gute, die Ergebung ins Schicksal, die Anbetung der Grösse Gottes. [...] Und doch ist dieses Gebet dem Philosophen nicht eine Notwendigkeit wie dem Frommen, der ohne Gebet nicht leben kann, sondern etwas entbehrliches. Das sittliche Ideal laesst sich auch verwirklichen, ohne dass man im Gebet den Gnadenbeistand Gottes erfleht».
CAPITOLO QUINTO
L’ATTO DELLA PREGHIERA Abbozzi di un’ ars orandi
«Ora, mio caro, dammi il tuo cuore e il tuo pensiero e ascolta la forza della preghiera pura e guarda come i nostri padri giusti antichi si siano resi illustri con la loro preghiera davanti a Dio e come essa fu per loro un’offerta pura» (Afraate)
1. Uno sguardo prospettico: dal fondamento scritturistico alla prassi orante Sarebbe ingenuo pensare di estrarre dal discorso di Origene un “breviario” dell’ars orandi, sebbene la parola fosse “nell’aria” già con Tertulliano ed egli stesso non abbia esitato a servirsi di espressioni analoghe nel giustificare il supplemento di riflessione sul «problema della preghiera» (Orat XXXI-XXXIII)365 : questa sezione conclusiva circa le disposizioni interiori, l’atteggiamento esteriore, i tempi e i luoghi della preghiera, al dire dell’autore, vuole infatti procedere «in maniera più sommaria» o «manualistica» (eijsagwgikwvteron)366 . L’Alessandrino dunque non era per principio refrattario all’idea di un “compendio introduttivo”, ma bisogna riconoscere che solo nel complemento finale si è dato premura di procedere in maniera sistematica e, per così dire, “enciclopedica”, senza peraltro attenervisi rigorosamente367 . Nel resto del trattato le cose sono molto più complicate e non è facile cogliere con precisione un ordine tematico o uno sviluppo organico di pensiero, anche per la grande varietà e la profondità degli spunti enunciati via via. Ciò non toglie che, sciolto il nodo teorico della critica della preghiera, l’argomento unificante sia in fin dei conti proprio l’atto del pregare nella più ampia articolazione delle sue espressioni, –––––––––––––––––– 365 Per Tertulliano, De orat. 1, 6, il Padrenostro è un breviarium totius evangelii (cfr. infra, nota 1640). 366 Orat XXXI, 1 (395, 13-17): Dokei' dev moi meta; tau'ta oujk a[topon ei\nai uJpe;r tou' plhrwqh'nai to; peri; th'" eujch'" provblhma dialabei'n eijsagwgikwvteron peri; th'" katastavsew" kai; tou' schvmato" [...] kai; tovpou [...] kai; klivmato" [...] kai; crovnou. Cfr. supra, p. 71. Per l’intenzione “enciclopedica” si veda Perrone 2007 (in part. p. 57 e nota 35 sull’uso del termine eijsagwgikov"). 367 Manca, infatti, la preannunciata trattazione dei tempi della preghiera (Orat XXXI, 1 [395, 17]: crovnou eij" eujch;n ejpithdeivou kai; ejxairevtou).
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dai modelli biblici cui s’ispira fino ai molteplici fattori che l’accompagnano, in positivo e in negativo, e alle modalità che rendono possibile il suo compimento nella forma più piena. Pertanto, pur procedendo in gran parte sul filo del testo – secondo l’opzione originaria di questa indagine –, occorre guadagnare uno sguardo prospettico che componga insieme i diversi elementi senza disconoscere nel contempo la loro natura di “abbozzi”. Per tracciare il nostro quadro dobbiamo in ogni caso unire nella presentazione la prima sezione (Orat III-XVII) alla terza (Orat XXXI-XXXIII). Ciò darà modo di approfondire inizialmente il linguaggio biblico della preghiera, quindi i paradigmi di oranti nelle Scritture, per passare da ultimo ad esaminare l’atto orante nei suoi vari aspetti. È scontato che la presentazione si avvii con l’analisi della terminologia della preghiera nella Bibbia, non solo perché questa è l’indicazione che ci viene direttamente dal testo – già con i due capitoli preliminari all’esame della quaestio e aventi per oggetto la sua semantica biblica (Orat III- IV), senza considerare al momento il modello del Padrenostro commentato nella seconda sezione (Orat XVIII-XXX) –, ma soprattutto perché il riferimento al testo ispirato possiede sempre un valore essenziale per Origene: dalle Scritture egli trae la fonte principale, il fondamento e la norma del suo pensiero. Non è diverso per il discorso sulla preghiera, ma si potrebbe ancora aggiungere che nella riflessione dell’Alessandrino al riguardo c’è una profonda corrispondenza “simmetrica” fra la lettura della Bibbia e l’esperienza della preghiera368. L’una e l’altra si presentano come due operazioni contrassegnate da un medesimo dinamismo spirituale: la prima coll’impegno a passare dalla «lettera» del testo biblico allo «spirito», cioè al suo significato nascosto e conforme alla natura di uno scritto divinamente ispirato; la seconda con l’invito a non domandare a Dio le «cose piccole e terrene» bensì le «cose grandi e celesti», attenendosi alle parole stesse di Gesù369. Questa corrispondenza fra l’intelligenza della Scrittura e la prassi orante risulta specialmente evidente nella spiegazione in senso spirituale dei benefici ottenuti dagli oranti dell’Antico Testamento370, ma essa ricompare nell’interpretazione del Padrenostro, dove la preghiera per la «santificazione del nome» di Dio segna nuova–––––––––––––––––– 368 Sull’importanza della Bibbia in Orat si vedano Trevijano Etcheverría e Cocchini 1997b. Cfr. anche Perrone 1997, 17-21 («Un discorso dalla Bibbia e sulla Bibbia: argomentazione scritturistica e operazione esegetica»). Sulla corrispondenza fra esegesi biblica e interpretazione della preghiera e/o del rito si veda Studer. 369 Si ricordi l’agraphon assunto da Origene come indicazione normativa (cfr. supra, nota 169). 370 Orat XIV, 1 (330, 6-11): Touvtwn de; hJmi'n eJrmhneuqevntwn eij" ta;" dia; tw'n proseucw'n gegenhmevna" toi'" aJgivoi" eujergesiva", katanohvswmen to; aijtei'te ta; megavla, kai; ta; mikra; uJmi'n prosteqhvsetai: kai; aijtei'te ta; ejpouravnia, kai; ta; ejpivgeia uJmi'n prosteqhvsetai. pavnta ge ta; sumbolika; kai; tupika; sugkrivsei tw'n ajlhqinw'n kai; nohtw'n mikrav ejsti kai; ejpivgeia. Da ricordare anche XIII, 4 (cfr. infra, nota 449).
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mente l’incontro fra le due prospettive: la prima petizione ha infatti per oggetto proprio l’acquisizione di quel concetto di Dio che meglio compete alla sua realtà di essere spirituale e trascendente371 . Di conseguenza, l’autentica preghiera, in tutto corrispondente alla «lettura spirituale» della Bibbia, non può essere altro che questo tipo di domanda, definibile anch’essa per analogia come la «preghiera spirituale», secondo un’espressione che del resto è adoperata dallo stesso Alessandrino372. 2. L’indagine sulla terminologia biblica: il primato della proseuchv Dalla terminologia scritturistica Origene ha cercato di trarre il termine più calzante per qualificare il proprio modello di preghiera nel suo profilo distinto e conferirgli così un rilievo esemplare. Fin dalla rassegna introduttiva sul vocabolario della preghiera (Orat III-IV) egli mostra di voler privilegiare l’espressione proseuchv, che ai suoi occhi designa nella Bibbia la «preghiera» in senso pregnante, distinta dal termine eujchv, la cui accezione primaria corrisponde per Origene a «voto»373 . In realtà, egli è –––––––––––––––––– 371 In Orat XXIII, 3 (351, 18-19) Origene prende posizione contro quanti intendono alla lettera le espressioni spaziali riferite a Dio: pro;" tou;" eij" tou;" qhsaurou;" th'" levxew" ejlqei'n mh; boulomevnou". L’indicazione ermeneutica, che fa da pendant alla norma della preghiera spirituale, è formulata in XXIII, 1 (350, 1-4): kai; kaqolikw'" ta;" o{son ejpi; tw'/ rJhtw'/ levxei", ta;" nomizomevna" toi'" aJploustevroi" ejn tovpw/ favskein ei\nai to;n qeo;n, metalhptevon prepovntw" tai'" megavlai" kai; pneumatikai'" ejnnoivai" peri; qeou'. Cfr. anche XXIII, 5 (353, 6-9): uJpe;r tou' pavntoqen kata; th;n didomevnhn hJmi'n duvnamin pei'sai to;n ejntugcavnonta uJyhlovteron kai; pneumatikwvteron ajkouvein th'" qeiva" grafh'", o{tan dokh'/ ejn tovpw/ didavskein ei\nai to;n qeovn. 372 Cfr. supra, p. 76 e nota 384. La stessa qualificazione è adottata da Tertulliano e Cipriano con la loro idea di una spiritalis oratio (cfr. infra). 373 La preferenza accordata da Origene a proseuchv combacia peraltro con le indicazioni della lessicografia neotestamentaria: se nel greco extrabiblico eu[comai ed eujchv indicano «l’invocazione alla divinità», sia nel significato generale di «chiedere, pregare», sia nell’accezione specifica di «promettere, far voto» (Greeven-Herrmann, 1210), nella Bibbia greca i due termini «cedono sensibilmente terreno a proseuvcomai, proseuchv, che divengono i termini principali per designare la preghiera; nel Nuovo Testamento rari sono i residui del termine semplice» (col. 1211). Mentre il verbo proseuvcomai è attestato ripetutamente a partire da Orat II , 1, la prima occorrenza del sostantivo proseuchv figura in II, 2 nella citazione di 1Cor 7, 5 (i{na scolavshte th'/ proseuch')/ . In II, 5 (303, 3. 12-16), sempre a mo’ di citazione, Origene menziona i titoli di tre salmi – Sal 16(17), 1 (p. tou' Daui÷d); 89(90), 1 (p. tw'/ Mwu>sei'); 101(102), 1 (p. tw'/ ptwcw'/) –, specificandoli come «preghiere veramente spirituali»: ai{tine" proseucai;, ejpei; ajlhqw'" h\san proseucai; ginovmenai pneuvmati legovmenaiv te, kai; tw'n dogmavtwn th'" tou' qeou' sofiva" peplhvrwntai, w{ste eijpei'n a[n tina peri; tw'n ejn aujtai'" ejpaggellomevnwn: tiv" sofo;", kai; sunhvsei tauvta"… kai; suneto;", kai; ejpignwvsetai aujtav" … (Os 14, 10). Dopo questi passi, estratti tutti dalle Scritture, la conclusione del Prologo (II, 6 [303, 21]) dichiara l’impossibilità di una genuina esperienza di preghiera e comprensione di essa, a meno che intervenga il dono dello Spirito: ouj gavr pou ejmautw'/ divdwmi cwrei'n th;n p. In seguito, Origene traccia in III, 2 distin-
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costretto a prendere atto che la distinzione tracciata fra i due termini non regge interamente, dal momento che, mentre eujchv può assumere l’accezione generica di «preghiera», a sua volta anche proseuchv acquista occa––––––––––––––––––
zione e sovrapposizione fra eujchv e proseuchv, dedicando più specificamente a quest’ultima IV . In V, 5 l’elaborazione biblica dell’aporia sulla preghiera richiama, fra i vari esempi, la p. di Giuda (cfr. Sal 108[109], 7), ma la stessa parola compare per due volte nei piqanav sottoposti da Ambrogio (V, 6 [311, 10–11. 13]: mataiva hJ p.). Altre occorrenze figurano in VIII, 1 (316, 27–317, 2), a proposito delle disposizioni di spirito con cui accostarsi alla preghiera: oujde; meta; ojrgh'" kai; tetaragmevnwn logismw'n ejpi; th;n p. ejlqetevon, ajll∆ oujde; cwri;" kaqareuvsew" e[stin ejpinoh'sai ginomevnhn th'/ proseuch'/ scolhvn (con nuova allusione a 1Cor 7, 5). In XI , 1 (321, 20–322, 2) il vocabolo ritorna in tre citazioni da Tb: eijshkouvsqh, fhsi;n hJ grafh;, p. ajmfotevrwn ejnwvpion th'" dovxh" tou' megavlou ÔRafah;l [...] ejgw; proshvgagon to; mnhmovsunon th'" p. uJmw'n ejnwvpion tou' aJgivou (Tb 12, 12); ejgwv eijmi ÔRafah;l, ei|" tw'n eJpta; ajggevlwn, oi} prosanafevrousi sh'" katevnanti kurivou) perché Dio non rivolga la sua ira sul popolo di Israele per il vitello d’oro. Anche Dt 9, 18 contiene una supplica di Mosè per il popolo a causa dei suoi peccati. Infine, Est 4, 17a k introducono rispettivamente la preghiera di Mardocheo (17a-i) e di Ester (17l-z), l’una e l’altra da considerarsi – analogamente a quelle di Mosè – come una supplica. Peraltro, specialmente nella preghiera di Mardocheo, è difficile negare quel carattere megalofuevsteron che per Origene è proprio della proseuchv.
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ed Ester – ai quali Origene attribuisce un valore paradigmatico in quanto testimoni per eccellenza dell’efficacia della preghiera. D’altra parte, l’esemplificazione solleva interrogativi quanto alla possibilità di distinguere una tipologia precisa della devhsi". Abbiamo infatti a che fare quasi interamente con preghiere di intercessione, a beneficio soprattutto del popolo d’Israele. Né si deve dimenticare che Origene riconosce proprio a Mosè quella qualità di «libertà» o «franchezza di parola» (parjrJhsiva) nel rapporto con Dio, identificata nella sua classificazione terminologica come un proprium dell’e[nteuxi"381. Inoltre, si potrebbe ancora obiettare che non mancano tratti positivamente “magniloquenti” in queste suppliche, tali da farle semmai avvicinare alla definizione della proseuchv con la sua grandezza di contenuti e disposizioni di spirito. Anche per la proseuchv compaiono cinque esempi scritturistici (Orat XIV, 4), tutti tratti dall’Antico Testamento, senza rilevarvi peraltro un ordine determinato. L’indizio lessicale è dato nuovamente dal verbo (proseuvcomai), fatta eccezione per la «preghiera di Abacuc» (proseuch; ∆Abbakouvm ). L’elenco comprende: Dn 3, 25; Tb 3, 1-2; 1Sam 1, 10-11; Ab 3, 1-2; Gio 2, 2-4382 . Due dei cinque luoghi biblici suscitano problemi come testi autorevoli di riferimento: da un lato, Dn 3, 25 non trova riscontro nell’ebraico, offrendo con ciò un indizio debole, perché suscettibile di essere messo in discussione quale fonte attendibile; dall’altro lato, ciò vale a fortiori per Tb 3, 1-2, poiché tratto da un libro che gli ebrei respingono come non-canonico. Perciò Origene aggiunge gli altri tre esempi ricavati tutti da scritti canonici. Ma anche in questo caso (includendo gli stessi esempi extracanonici) non è facile circoscrivere esattamente la tipologia di preghiera che l’Alessandrino designa con il termine proseuchv. Lui stesso, del resto, sembra avvertire le perplessità del lettore, se ci tiene a segnalargli che la preghiera di Abacuc evidenzia molto bene il proprium della proseuchv, dato che «è innalzata con rendimento di lode»383 . La –––––––––––––––––– 381 382
Sul motivo della parrhesia di Mosè cfr. Perrone 1992b. Con Dn 3, 25 Origene riporta l’introduzione alla preghiera di Azaria (Dn 3, 2645). Tb 3, 1-2 è la preghiera del giusto sofferente Tobi, che invoca da Dio la propria morte «con una preghiera di lamento» (Tb 3, 1: kai; proshuxavmhn met∆ ojduvnh" levgwn), mentre con 1Sam 1, 10-11 Origene introduce la figura di Anna, tra le più note figure di oranti veterotestamentari. Si capisce che egli si lascia nuovamente guidare dall’indizio lessicale a menzionare la prima preghiera anziché il cantico di Anna (1Sam 2, 1-10): kai; proshuvxato pro;" kuvrion kai; klauqmw'/ e[klause. In ogni caso si tratta chiaramente di una preghiera di voto. Ab 3, 1-2 è l’introduzione al cantico di Abacuc, presentato da Ab 3, 1 LXX come proseuch; ∆Abbakou;m tou' profhvtou meta; wj/dh'". L’ultimo passo (Gio 2, 2-4) riporta l’introduzione e l’inizio del cantico di Giona «dal ventre del pesce». 383 Orat XIV, 4: sfovdra de; au{th ejmfaivnei to; kata; to;n o{ron th'" proseuch'", o{ti meta; doxologiva" tw'/ proseucomevnw/ ajnapevmpetai. D’altra parte, nel cantico di Abacuc non compare la richiesta di qualcosa, contrariamente alla definizione data, come nota Oulton, 344: «Hab., ch. 3 [...] is an example of the wider use of the term “prayer” in the Old
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precisazione sembrerebbe dettata, in particolare, dal fatto che la preghiera di Anna in 1Sam 1, 10-11 si presenta piuttosto come un «voto», cioè una eujchv, seguendo la distinzione introdotta in precedenza nella rassegna del vocabolario biblico (Orat III- IV). Ora, se a conclusione del Prologo è menzionata espressamente tra le «preghiere realmente spirituali» (eujcai; aiJ o[ntw" pneumatikaiv ), pur riconoscendo che è stata trascritta solo «in parte»384, successivamente Origene richiama la preghiera di Anna a testimonianza del fatto che anche il termine proseuchv può assumere l’accezione secondaria di «voto» (= eujchv )385. In pratica, egli arriva a considerare la preghiera di Anna come esempio ad un tempo sia della proseuchv (1Sam 1, 10) che dell’eujchv (1Sam 1, 11)386. Tuttavia, l’inserimento di Anna nel catalogo dei grandi oranti veterotestamentari (Orat XIII, 2) predispone il suo particolare riconoscimento come tipo della proseuchv, anche qui giocando sulla distinzione terminologica fra 1Sam 1, 10 e 1Sam 1, 11387 . La preoccupazione di differenziare la proseuchv emerge in primo piano anche dall’elencazione dei luoghi scritturistici per l’e[nteuxi", «supplica» o «intercessione», di cui si ribadisce la nota specifica della «franchezza» (parjrJhsiva ) con il rinvio, come primo esempio, all’intercessione dello Spirito in Rm 8, 26-27388 . Questo è notoriamente un altro testo––––––––––––––––––
Testament as an elevation of the mind to God which does not necessarily include petition». Sull’interpretazione di Ab 3, 2 LXX, in riferimento al Figlio e allo Spirito, cfr. Prin I, 3, 4. 384 Orat II, 5 (303, 6): aiJ toiau'tai de; eujcai; aiJ o[ntw" pneumatikaiv, proseucomevnou ejn th'/ kardiva/ tw'n aJgivwn tou' pneuvmato", ajnegravfhsan, peplhrwmevnai ajporrhvtwn kai; qaumasivwn dogmavtwn: ejn me;n ga;r th'/ prwvth/ tw'n Basileiw'n ejk mevrou" hJ th'" “Annh". Qui Origene cita 1Sam 1, 12. 385 Cfr. Orat IV, 1 (307, 3-9) con citazione di 1Sam 1, 1. 9-11: Oujk a[logon dhv moi ejfavnh to; kata; ta;" grafa;" shmainovmenon prw'ton diasteivlasqai th'" eujch'" duvo shmainouvsh", oJmoivw" de; kai; th'" proseuch'": kai; ga;r tou'to to; o[noma, pro;" tw'/ koinw'/ kai; sunhvqei pollacou' keimevnw/, tevtaktai kai; ejpi; th'" kata; to; suvnhqe" hJmi'n shmainovmenon [th'"] eujch'" ejn toi'" peri; th'" “Annh" legomevnoi" ejn th'/ prwvth/ tw'n Basileiw'n. Il testo biblico qui citato da Origene si distacca dalla LXX e si avvicina all’ebraico; cfr. Papaconstantinou, 231. 386 Orat IV, 2 (307, 17-22): duvnatai mevntoi ge ti;" oujk ajpiqavnw" ejntau'qa, ejpisthvsa" tw'/ proshuvxato pro;" kuvrion (1Sam 1, 10) kai; hu[xato eujch;n (1Sam 1, 11), eijpei'n o{ti, eij ta; duvo pepoivhke, toutevsti proshuvxato pro;" kuvrion kai; hu[xato eujch;n , mhv pote to; me;n proshuvxato ejpi; th'" sunhvqw" hJmi'n ojnomazomevnh" tevtaktai eujch'", to; de; hu[xato eujch;n ejpi; tou' ejn Leui>tikw/' kai; ∆Ariqmoi'" tetagmevnou shmainomevnou. Anche il commento sul cantico di Anna in HReL (nota 1096) manifesta la difficoltà di inquadrare con precisione la preghiera di 1Re 2, 1-10, che, seppure presentata come oratio dalla Scrittura, si distacca a giudizio di Origene dall’orationis ordo. 387 Orat XIII, 2 (326, 15-16): “Anna ga;r uJphrevthse th'/ genevsei Samouh;l, tw'/ Mwu>sei' sunariqmhqevnto", ejpei; mh; tivktousa pisteuvsasa proshuvxato pro;" kuvrion (1Sam 1, 10). 388 Orat XIV, 5 (332, 18-25): tou' de; trivtou para; tw'/ ajpostovlw/, eujlovgw" th;n me;n proseuch;n ejf∆ hJmw'n tavttonti th;n de; e[nteuxin ejpi; tou' pneuvmato", wJ" kreivttono" o[nto" kai; parjrJhsivan e[conto" pro;" to;n, w|/ ejntugcavnei: to; ga;r tiv proseuxwvmeqa, fhsi;, kaqo;
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chiave per la visione origeniana del pregare, ma proprio il fatto che si tratti in primis della preghiera dello Spirito solleva comunque l’interrogativo sul rapporto con la proseuchv, in quanto secondo l’Alessandrino essa stessa è una preghiera animata alla radice dal soccorso dello Spirito389. Inoltre, dopo aver asserito con decisione che l’e[nteuxi" è propria dello Spirito, mentre agli uomini compete la proseuchv, Origene riporta ancora due esempi legati a personaggi dell’Antico Testamento: la supplica di Giosuè in Gs 10, 12 e quella di Sansone in Gdc 16, 30390 . A parte il fatto che in entrambi i casi – variando il criterio seguito in prevalenza fin qui – l’Alessandrino deve ammettere che non c’è un supporto terminologico ad hoc (pur configurandosi, a suo avviso, entrambe le preghiere secondo la tipologia individuata), in nessuna delle due si delinea a prima vista un qualche ruolo dello Spirito 391 . Anche questa classificazione risulta insomma poco persuasiva392 . Più breve, perché più immediatamente comprensibile, è la fondazione scritturistica di eujcaristiva, proposta con un solo esempio, che Origene prende significativamente dall’«inno di giubilo» di Gesù (Mt 11, 25; Lc 10, 21). Anche qui però l’indizio lessicale non va assunto quale criterio esclusivo, dato che Origene ricorda come il verbo ejxomologou'mai equivalga in ogni caso a eujcaristw', segnalando così implicitamente la contiguità semantica (se non la sovrapposizione formale) fra la preghiera ––––––––––––––––––
dei' oujk oi[damen, ajlla; aujto; to; pneu'ma stenagmoi'" ajlalhvtoi" uJperentugcavnei tw'/ qew'/. oJ de; ejreunw'n ta;" kardiva" oi\de tiv to; frovnhma tou' pneuvmato", o{ti kata; qeo;n ejntugcavnei uJpe;r aJgivwn: uJperentugcavnei ga;r kai; ejntugcavnei to; pneu'ma, hJmei'" de; proseucovmeqa. 389 Cfr. Orat II, 5 (supra, nota 384). 390 In Gs 10, 12 Giosuè supplica Dio durante la battaglia contro gli Amorrei: «Giosuè disse al Signore sotto gli occhi di Israele: “Sole, fermati in Gabaon e tu, luna, sulla valle di Aialon”» (dall’esegesi del passo in HIos I, 5 si comprende il rilievo particolare dell’e[nteuxi" di Giosuè alla luce della tipologia Giosuè-Gesù: «Il mio Gesù dunque ha fatto fermare il sole, non solo allora, ma molto di più ora nel suo avvento» [tr. it., 57]. In HIos XI, 1 Origene ne parla come di «una preghiera inaudita, sorprendente»). Quanto a Sansone, l’Alessandrino intende alla stregua di una preghiera la celebre espressione che prelude alla sua morte: «che la mia anima muoia con i Filistei» (Gdc 16, 30). Secondo HIer X, 8 (nota 1172), la parjrJhsiva ci è data per supplicare Dio confessando le colpe (cfr. anche infra, nota 1102). 391 Orat XIV, 5: eij kai; mh; kei'tai de; o{ti ejntetuchvkasin ajll∆ o{ti eijrhvkasin oJ ∆Ihsou'" kai; oJ Samyw;n, oJ lovgo" aujtw'n e[oiken ei\nai e[nteuxi": h{ti" eJtevra para; th;n proseuch;n, eij kurivw" ajkouvoimen tw'n ojnomavtwn, ei\nai hJmi'n nomivzetai. 392 Lo rileva, fra gli altri, Jay, 124-125, che ricorda anche la critica di Anglus per l’identificazione di Gdc 16, 30 come e[nteuxi": «Anglus thinks that Samson should rather be said to “pray” than to “intercede”, since his request is on his own behalf. One must agree. Origen is not at his best in this chapter, in which he is seeking to impose on the four words descriptive of prayer in 1 Tim. 2. 1 a sharp distinction which they were not intended to convey» (p. 125, nota 1). Si noti ancora che in Orat XXVII, 1 (364, 2) la quarta domanda del Padrenostro è designata come e[nteuxi": peri; ejpigeivou kai; mikrou' e[nteuxin ajnafevrein tw'/ patriv.
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di lode o benedizione (eujlogiva o ejxomolovghsi") e il ringraziamento (eujcaristiva )393. Come si è visto per quasi tutti i termini, la classificazione tipologica estratta da 1Tm 2, 1 solleva non pochi problemi ed è giusto domandarsi fino a che punto Origene sia riuscito a tracciare delle distinzioni effettive (senza tuttavia dimenticare, in generale, la relativa fluidità degli approcci terminologici nell’Alessandrino)394 . Né le precisazioni che seguono l’esemplificazione scritturistica dei tipi di preghiera (Orat XIV, 6) aiutano a superare tali perplessità, ma servono semmai a predisporre il più decisivo riconoscimento della proseuchv come la preghiera indirizzata unicamente al Padre (Orat XV). Si tratta, in prima istanza, di un corollario terminologico, limitato a tre dei quattro vocaboli paolini: devhsi", e[nteuxi" ed eujcaristiva. Essi non concernono solo il rapporto orante dell’uomo con Dio, ma sono suscettibili di riferirsi anche alle relazioni tra gli uomini. Il passaggio non è esente da incertezze testuali, ma si può dire che dentro questa esperienza generalizzata di «preghiera» Origene opera due differenziazioni: in primo luogo, distingue fra i destinatari della preghiera (gli «uomini» in generale o i «santi»); in secondo luogo, circoscrive la prassi della devhsi", almeno in linea di principio, ai destinatari che sono santi395 . Dal–––––––––––––––––– 393 Cfr. Van Winden. Negli autori giudeoellenisti troviamo l’analoga assimilazione semantica fra eujlogei'n e eujcaristei'n, attestata da Filone di Alessandria e Flavio Giuseppe (cfr. Tomson, 44-46). Ciò è del resto conforme, almeno in larga parte, all’uso paolino: «In Paul’s own day-to-day language, the term for praising God tends to be eujcaristei'n tw/' qew/' » (p. 49). Peraltro Origene usa il sostantivo ejxomolovghsi" nel significato prevalente di «confessione» (delle colpe), rispetto a quello di «lode» (o «ringraziamento»), su cui vedi infra, p. 157, nota 482. 394 «Die vier Wendungen aus 1 Tim 2, 1 bleiben trotz des Versuches, ihren Rahmen differenziert auszugrenzen, mehr oder weniger Synonime» (Gessel, 91; cfr. anche pp. 9495). È sintomatico dell’assenza di sistematicità specialmente l’uso della terminologia esegetica (cfr. Simonetti 1987). Per un esempio di terminologia interscambiabile prima di Origene, cfr. Ireneo, AH II, 48, 2, con l’uso sinonimico di proseuchv, litaneiva ed eujchv. 395 Orat XIV, 6 (333, 11-19): devhsin me;n ou\n kai; e[nteuxin kai; eujcaristivan oujk a[topon kai; ajnqrwvpoi" uJpo; qeou' didovmenon), rispose: Non tutti possono capire questo discorso, ma solo coloro ai quali è stato concesso (Mt 19, 11)» (tr. Scognamiglio, 175); «il buon dono dunque, cioè l’assoluta purezza nel vivere il celibato e la castità, Dio lo darà a quelli che con tutta l’anima (Mc 12, 30), con fede e incessantemente (1Ts 5, 17) glielo avranno chiesto con preghiere (ejn proseucai'")» (ibi, 177). In questo contesto Origene approfondisce anche il tema delle disposizioni di fede per l’esaudimento, in relazione a Mt 7, 7-8 («Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto»), laddove nel trattato vi accenna più rapidamente (Orat X , 2). Si noti che Mt 18, 19 non figura tra le citazioni di Orat, anche se il motivo della sumfwniva nella preghiera non è del tutto assente. Cfr. ad esempio Orat XXIV, 4 (355, 11-13), con riferimento a Sal 33(34), 4 («Esaltiamo il suo nome tutti insieme»): prostavssonto" tou' profhvtou meta; pavsh" sumfwniva" ejn tw'/ aujtw'/ noi÷ kai; ejn th'/ aujth'/ gnwvmh/ fqavsai ejpi; th;n ajlhqh' kai; uJyhlh;n gnw'sin th'" ijdiovthto" tou' qeou'. Si veda inoltre II, 4 (302, 3): sumfwvnw" uJmnh'sai to;n patevra ejn Cristw'/. CMtS 89 lascia a sua volta intravedere le implicazioni penitenziali ed ecclesiologiche della «sinfonia» nella preghiera. 534 CMtS 89 (204, 14-22): «Conveniebat autem et, priusquam proderetur, orare et orandi eligere locum mundum ad orationem; sciebat enim quoniam, sicut differt aër ab
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«puro» per la propria preghiera e sia andato di conseguenza in cerca di solitudine, va preso semmai come invito, nell’atto di pregare, a separarsi dai malvagi ed unirsi ai buoni, o a pregare piuttosto in tutta solitudine, dal momento che nessun luogo può essere considerato «puro» per se stesso535 . Conviene allora tener presente anche tale sfondo nell’esaminare il successivo sviluppo sullo spazio dell’orante, dove l’Alessandrino si sofferma sulla comunità cristiana come luogo di preghiera (Orat XXXI, 5-7). Dato però che questo tratto segna un trapasso dall’orazione individuale – la visuale pressoché dominante in tutto il trattato – alla preghiera comunitaria, è preferibile anticipare brevemente la trattazione dedicata da Origene alla direzione di preghiera (Orat XXXII), che del resto concerne essa pure il nostro argomento con una «identificazione» spaziale per certi versi non meno sorprendente di quella manifestata dal cenno sul talamo nuziale. Si resta invero assai colpiti dal fatto che Origene unisca tanto strettamente l’orazione al sorgere del sole, cioè in direzione dell’oriente, senza che egli si mostri disposto a qualche concessione in proposito, come sarebbe invece affatto comprensibile e giustificabile. Lui stesso, a dire il vero, ricorda possibili casi di eccezione, come la mancanza di un’apertura ad est nella casa, sicché v’è chi preferisce pregare piuttosto verso la porta aperta, adducendo il motivo che «la vista del cielo esercita un certo richiamo più che il rivolgersi guardando verso la parete»536. Origene però si dice contrario nel nome di un principio che di primo acchito appare poco comprensibile a causa della sua astrattezza: egli preferisce «anteporre quello ––––––––––––––––––
aëre mundiore, sic terra sancti loci et sanctioris, sicut scriptum est: Locus in quo tu stas, terra sancta est (Es 3, 5). Et quaeres si praeter adfectum orantis etiam ex loco orationis, in quo quis orat, fit oratio mundior et magis acceptabilior, secundum quod scriptum est: Domus mea domus orationis vocabitur (Is 56, 7), de qua et alibi dicitur: Et exaudivit de templo sancto suo vocem meam (Sal 17[18], 7). 535 CMtS 89 (204, 23-26): «Qui autem propter Christi doctrinam recessit a Iudaicis fabulis (Tit 1, 14) et ab omnibus, quae corporaliter ab eis intelleguntur, dicet non propter locum fieri orationem distantem ab oratione, sed quia melius est cum nullo orare quam cum malis orare». Cfr. Bendinelli 2009, 415, nonostante la sua conclusione problematica: «concretamente questo luogo adatto alla preghiera altro non è che l’assemblea del culto cristiano». 536 È da notare che la succinta trattazione di Orat XXXII è priva di riferimenti scritturistici espliciti, a differenza di quanto la precede, ma fa appello a considerazioni pratiche e ragioni simboliche, per così dire, in astratto. Origene avrebbe potuto, ad esempio, confrontarsi con la preghiera di Sara (Tb 3, 11: «In quel momento stese le mani verso la finestra e pregò»), che ha appena ricordato in Orat XXXI, 5 (cfr. infra, nota 544). Peraltro, l’implicazione scritturistica e cristologica della preghiera verso oriente pone l’interrogativo sul destinatario della proseuchv che – come già sappiamo – è il Padre. L’idea è dunque da intendere in riferimento alla mediazione del Figlio. La distinzione fra Padre e Figlio in rapporto alla «vera luce» è invece presente in CC V, 11 (11, 19-22): Ouj crh; de; oujd∆ aujto; proskunei'sqai uJpo; tou' blevponto" kai; sunievnto" to; ajlhqino;n fw'", ou| metoch'/ kai; tau't∆ eij a[ra pefwvtistai, oujd∆ uJpo; tou' blevponto" to;n patevra tou' ajlhqinou' fwto;" qeovn.
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che è per natura a quello conforme ad una convenzione», cioè attenersi in ogni caso alla direzione verso oriente. Anziché spiegare questa mancanza di flessibilità con un rigore inatteso, poco conforme all’intero andamento delle istruzioni origeniane riguardo l’atto del pregare, la si può forse ricondurre al fatto che il valore simbolico del gesto esteriore può darsi solo nel rispetto del “dato naturale”: ora, secondo l’Alessandrino, delle quattro parti del cielo l’oriente è «all’evidenza» da preferire, perché soltanto volgendosi all’esterno verso oriente si può simboleggiare adeguatamente quanto avviene nell’anima, cioè com’essa si volga al «sorgere della vera luce» di Cristo 537 . In Orat non trapela alcuna preoccupazione di distinguere l’uso cristiano dalla prassi eliolatrica pagana, diversamente da altri scritti di Origene e da quanto notiamo in Tertulliano, ma non rileviamo neppure una sua interpretatio christiana, come ci si presenta invece in Clemente Alessandrino538 . 10. Dall’orazione individuale a quella comunitaria: pregare nella chiesa Il correttivo più consistente della tendenza ad una spiritualizzazione astratta ed individualistica della preghiera è offerto, in ultima istanza, dai –––––––––––––––––– 537 Orat XXXII (400, 22-26): tessavrwn de; o[ntwn klimavtwn, tou' te pro;" a[rkton kai; meshmbrivan kai; tou' pro;" duvsin kai; ajnatolh;n, tiv" oujk a]n aujtovqen oJmologhvsai to; pro;" ajnatolh;n ejnargw'" ejmfaivnein to; dei'n ejkei' neuvonta" sumbolikw'", wJ" th'" yuch'" ejnorwvsh" th'/ tou' ajlhqinou' fwto;" ajnatolh'/, poiei'sqai ta;" eujcav"… Wallraff 2001, 64 rinvia a Zc 6, 12 LXX («Questo dice il Signore onnipotente: “Ecco un uomo, Oriente è il suo nome, sorgerà da sé e ricostruirà la casa del Signore”») quale fondazione cristologica dell’usanza (cfr. anche Wallraff). Ma la distinzione e/o opposizione fuvsi"/qevsi" fa pensare piuttosto al discorso origeniano sul valore reale o simbolico dei nomi. Per i luoghi paralleli Wallraff rimanda a HLv IX, 10; XIII, 12; HNm XV, 1; HIud VIII , 1; CMt XVI, 3; CIo XXXII, 24, 316. Si tratta di passi d’interesse cristologico, senza nesso con la prassi di preghiera. Come appare da HLv IX , 10, lo spettro dei luoghi scritturistici è molto articolato: «Il fatto che asperga dal lato di Oriente (Lv 16, 14), non prenderlo come superfluo. Dall’Oriente viene a te la propiziazione; poiché di là è l’uomo il cui nome è Oriente (Zc 6, 12) e che è stato fatto mediatore fra Dio e gli uomini (1Tm 2, 5). Questo dunque ti invita a guardare sempre a Oriente (Bar 4, 36), donde nasce per te il Sole di giustizia (Ml 4, 2), donde per te nasce la luce» (tr. Danieli, 230). Si ricordi ancora l’attribuzione per sorte delle città levitiche in HIos XXV, 3 (455, 2-4): «In quattuor orbis partibus certum est orientalem plagam nobiliorem videri, in qua et nobilior omnium reliquarum Iudae tribus habebatur». 538 Come ha notato Wallraff 2001, il culto eliolatrico del paganesimo, senza determinare in sé l’uso cristiano, ha svolto un ruolo nella sua interpretazione teologica. Tertulliano reagisce contro la pretesa somiglianza ribadendo l’opposizione fra cristianesimo e paganesimo. Clemente Alessandrino adotta un modello d’integrazione senza fornire motivi specificamente cristiani. Origene a sua volta perviene ad una ricezione critica dell’usanza pagana, mentre ribadisce la superiorità del cristianesimo (cfr. CC V, 6. 11). Ovviamente non è casuale che queste riflessioni su una pratica consolidatasi già da tempo prendano corpo nel contesto delle tendenze eliolatriche del paganesimo nel III secolo Sulla riflessione clementina si veda infra, pp. 540-541.
L’atto della preghiera
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paragrafi dedicati al pregare nella chiesa (Orat XXXI, 5-7). La loro importanza non consiste soltanto nel fatto che adesso la preghiera collettiva è messa a tema, mentre fin qui si è parlato quasi esclusivamente di preghiera personale, peraltro in conformità con lo spirito delle istruzioni premesse al Padrenostro (Mt 6, 5-8) nella lettura che ne dà l’Alessandrino: esse, come vedremo nel capitolo successivo, privilegiano sì il «nascondimento» dell’esistenza cristiana, a garanzia della sua autenticità, ma non ignorano per nulla la sua realtà comunionale539. Se è vero dunque che assistiamo ad una svolta nel discorso di Orat, è anche possibile dimostrare come in realtà vi sia una profonda corrispondenza strutturale fra l’una e l’altra forma di preghiera, poiché entrambe coinvolgono, per così dire, gli stessi fattori e protagonisti. Benché nel passo in esame l’attenzione sia rivolta a sottolineare la particolare utilità dell’orazione nel luogo e nel momento ecclesiale dei cristiani, questi paragrafi ci aiutano, a loro volta, a completare l’immagine dell’atto orante in Origene, considerato nella sua cornice più ampia e lontano da qualunque intimismo540 . La trattazione sulla preghiera comunitaria è inquadrata dal riconoscimento in linea di principio della sua particolare utilità, senza che da ciò sia lecito ricavare l’idea di un vantaggio preferenziale del luogo dell’assemblea ecclesiale, tale cioè da collocare necessariamente la preghiera individuale ad un gradino più basso541. Una tale conclusione finirebbe per con–––––––––––––––––– 539 Un accenno isolato al pregare «nelle chiese» in opposizione al pregare «nelle sinagoghe», condizionato dalla ripresa di Mt 6, 5, figura in Orat XX, 1, ma senza apportare un’effettiva considerazione dei risvolti ecclesiali. La dimensione nascosta dell’esistenza cristiana è inculcata, fra l’altro, da HEx II, 3 (158, 28-159, 5), nella spiegazione di Es 1, 22 («Gettate nel fiume ogni maschio che sia nato agli ebrei, ma lasciate in vita tutte le femmine»), contro il rischio che la sua autenticità sia vanificata dall’esibizione mondana: «Vide, si non propterea nobis praecipitur ne bonos actus in publico geramus, ne iustitiam nostram coram hominibus faciamus (Mt 6, 1), sed ut clauso ostio oremus patrem in occulto (Mt 6, 6) et quod facit dextera nostra, ut nesciat sinistra (Mt 6, 3). Nisi enim in occulto fuerit, diripietur ab Aegyptiis, invadetur, in flumen iactabitur, undis et fluctibus submergetur». 540 La distinta accezione di «chiesa» come edificio e luogo di riunione della comunità è attestata, ad esempio, da HEx II, 2 (157, 17-19): «Sin autem videas quomodo scripturae novi ac veteris testamenti timorem Dei docentes domos ecclesiae faciant et universum orbem terrae orationum domibus repleant»; HEx XII, 2 (264, 5-8): «Alii ne hoc ipsum quidem patienter exspectant, usque dum lectiones in ecclesia recitentur. Alii vero nec si recitentur sciunt, sed in remotioribus dominicae domus locis saecularibus fabulis occupantur». A questi passi si può accostare anche la spiegazione dell’episodio di Gesù e i dottori nel Tempio; cfr. HLc XIX, 5 (117, 18-21): «Si quando et tu quaesieris Filium Dei, quaere primum templum, illuc propera, ibi Christum, sermonem atque sapientiam, id est Filium Dei, reperie»s. Come ha messo in luce Stroumsa, 94, non si può parlare di una «privatized religion» in Origene, se non «in the sense that religion is first and foremost the domain of the individual, and of all individuals, irrespective of social, economic, ethnic background, or even gender, but not in the sense that there are no social or political direct implications of religious belief and practice». 541 Si vedano le considerazioni conclusive in Orat XXXI, 7 (400, 17-20): tau'ta dev
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traddire il ductus generale delle riflessioni di Origene sullo spazio della preghiera, mentre la sua preoccupazione ancora una volta non è di natura astratta bensì concreta, come lo era anche nel caso della camera nuziale. Si tratta per lui di chiarire quali vantaggi specifici derivino dal pregare insieme alla comunità, nel suo luogo di riunione, senza alcuna idea di eccellenza “gerarchica”, ma anzi sottolineando nuovamente come tali benefici siano garantiti unicamente dalla condizione di santità dei fedeli riuniti (pena la perdita dell’ejpiskophv divina, analogamente a quanto avviene per lo spazio dell’orante individuale)542. Semmai l’insistenza con la quale Origene raccomanda per ben tre volte l’utilità precipua della preghiera nella chiesa tradisce la preoccupazione che essa possa essere trascurata a vantaggio di quella personale543 . Ma, come mostra bene il parallelo fra la pre––––––––––––––––––
moi ajnagkaivw" eijrh'sqai faivnetai, tovpon eujch'" ejxetavzonti kai; to; ejxaivreton wJ" ejn tovpw/ paristavnti ejpi; th'" tw'n aJgivwn kai; eujlabevsteron ejpi; to; aujto; th'/ ejkklhsiva/ ginomevnwn suneleuvsew", «Queste cose mi è parso necessario di dire, trattando del luogo della preghiera e mostrando la particolare efficacia che ha la preghiera in quel luogo dove si riuniscono in assemblea i santi con la dovuta pietà» (Antoniono, 185). Il passo mette nuovamente alla prova i traduttori che oscillano fra il riconoscimento dei “vantaggi” propri del luogo di culto della comunità o l’affermazione della sua eccellenza. Optando per la prima idea, Koetschau, 144 rende: «Vorzüge, welche – soweit es den Ort betrifft – die Zusammenkunft der frommen und gottesfürchtig sich an derselben Stelle mit der Gemeinde versammelnden Christen mit sich bringt». Invece Jay, 215 vi legge una chiara indicazione di preferenza: «These things I think it has been necessary to say in considering the place of prayer, and suggesting that it is preferable in the place where the saints also come together, who with due piety gather together with the Church». Oulton, 327 parla apertamente di «the superiority of the place where the saints meet when they assemble devoutly together in church». 542 Orat XXXI, 5 (398, 14-19): “Ecei dev ti ejpivcari eij" wjfevleian tovpo" eujch'", to; cwrivon th'" ejpi; to; aujto; tw'n pisteuovntwn suneleuvsew", wJ" eijko;" kai; ajggelikw'n dunavmewn ejfistamevnwn toi'" ajqroivsmasi tw'n pisteuovntwn kai; aujtou' tou' kurivou kai; swth'ro" hJmw'n dunavmew" (cfr. 1Cor 5, 4) h[dh de; kai; pneumavtwn aJgivwn, oi\mai de; o{ti kai; prokekoimhmevnwn, safe;" de; o{ti kai; ejn tw'/ bivw/ periovntwn, eij kai; to; pw'" oujk eujcere;" eijpei'n. L’espressione ejpivcari, «piacevole», è un hapax legomenon in Origene, diversamente dall’uso assai frequente di carivei" e carievntw", specialmente per qualificare risultati esegetici. Si deve forse intendere qui la parola nel significato di una testimonianza papiracea (PStud. Pal. 22.58.5, II-III secolo), cioè come «compenso aggiuntivo» (cfr. Montanari, 831 s.v.)? Jay, 213 traduce: «But a place of prayer possesses something of joy in addition to the benefit it bestows». Quanto al termine sunevleusi" per l’assemblea ecclesiale, è utilizzato solo in Orat (XXXI , 5. 7). A parere di Schütz, 138, «wimmelt der ganze Abschnitt von gottesdienstlichen Bezeichnungen: sunevleusi", ajqroivsmata tw'n pisteuovntwn, duvnami" tou' Kurivou, pleiovnwn sunelhluqovtwn». Tuttavia, la caratterizzazione liturgica della preghiera comunitaria – come mostrano gli esempi addotti – non è legata ad una terminologia definita (Markschies 2007a, 166-167). Per l’uso dell’espressione a[qroisma in riferimento alla fisionomia sociologicamente condizionata della chiesa, cfr. Orat XXXI, 7 (400, 13) e Sgherri 2000, 72. 543 Orat XXXI , 5 (399, 11-13): diovper ouj katafronhtevon tw'n ejn aujtai'" [scil. ejkklhsivai"] eujcw'n, wJ" ejxaivretovn ti ejcousw'n tw'/ gnhsivw" sunercomevnw/ aujtw'n.
L’atto della preghiera
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ghiera individuale di Tobi e Sara e la preghiera della comunità riunita, non si deve pensare ad una differenza qualitativa tra le due forme544 . Di certo, come effetto finale, la preghiera in comune dei fedeli possiede, per così dire, un’efficacia quantitativa, ma la dinamica che è posta in atto nella preghiera di un individuo non è fondamentalmente diversa. Secondo quanto attesta il passo parallelo di Orat XI, la persona che prega «in maniera autentica» (gnhsivw")545 , sperimenta ugualmente la mediazione del Signore in quanto «sommo sacerdote» non meno che la collaborazione degli angeli e dei santi (sia defunti che viventi) alla sua preghiera546 . Pertanto, sia la preghiera individuale che la preghiera comunitaria vengono a situarsi nell’orizzonte della communio sanctorum. Sebbene Origene –––––––––––––––––– 544 Oltre a Tb 12, 12 (kai; nu'n o{te proseuvxw su; kai; hJ nuvmfh sou Sarra [proseuvxw kai; Sarra S], ejgw; proshvgagon to; mnhmovsunon th'" proseuch'" uJmw'n ejnwvpion tou' aJgivou [ejnwvpion th'" dovxh" kurivou S]), Koetschau rimanda a Tb 3, 16-17 (Kai; eijshkouvsqh [ejn aujtw/' tw/' kairw/' eijshkouvsqh S] hJ proseuch; ajmfotevrwn ejnwvpion th'" dovxh" tou' megavlou Rafahl, kai; ajpestavlh ijavsasqai tou;" duvo, tou' Twbit lepivsai ta; leukwvmata kai; Savrran th;n tou' Ragouhl dou'nai Twbia tw/' uiJw/' Twbit gunai'ka). Per Jay, 214, nota 1, l’argomentazione di Origene suscita difficoltà: «Origen’s argument seems to me that as Sarah shared the benefits of the angel’s ministry by virtue of her kinship with Tobit, it may be expected that those who are made one family in Christ will enjoy an even greater ministry of angels. There is no hint in the LXX of Tobit of Sarah’s prayers being brought by Raphael before God in virtue of her kinship with Tobit». Ma qui non si tratta della “parentela” di Sara, bensì di una preghiera “concorde” (Tb 3, 16: «la preghiera di tutti e due»), che avviene «nello stesso giorno» (Tb 3, 7; cfr. anche 3, 10) e viene esaudita «in quel medesimo momento» (Tb 3, 16 S) (si veda infra, nota 546). Origene commenta peraltro questa espressione in Orat XI, 5 (324, 3-5), dove si dice di Dio: aJrmonivw" sunagagovnto" para; to;n kairo;n th'" eujch'" to;n uJphrevthn ejsovmenon tw'/ deomevnw/ th'" eujpoii?a" th'" ajp∆ aujtou' eijsakouvonta, tw'/ pistw'" dedehmevnw/. Ciò che importa è dunque la preghiera contemporanea dei due (Tobi: Tb 3, 2-6; Sara: Tb 3, 7-17). Si ricordi che secondo Orat XIV , 4 la preghiera di Tobi rappresenta uno dei paradigmi biblici della proseuchv (cfr. supra, p. 144). 545 Questo avverbio prediletto (48 occorrenze in totale) ricorre sei volte in Orat, tre delle quali concernono la preghiera comunitaria (Orat XXXI, 5-6). 546 Orat XI, 1 (321, 15-26): Ouj movno" de; oJ ajrciereu;" toi'" gnhsivw" eujcomevnoi" suneuvcetai ajlla; kai; oiJ ejn oujranw'/ caivronte" a[ggeloi ejpi; eJni; aJmartwlw'/ metanoou'nti h] ejpi; ejnenhvkonta ejnneva dikaivoi", oi} ouj creivan e[cousi metanoiva" (Lc 15, 7), ai{ te tw'n prokekoimhmevnwn aJgivwn yucaiv. a{tina dhlou'tai, ÔRafah;l me;n prosfevronto" peri; Twbh;t kai; SavrjrJa" logikh;n iJerourgivan tw'/ qew'/ – meta; ga;r th;n eujch;n ajmfotevrwn eijshkouvsqh, fhsi;n hJ grafh;, proseuch; ajmfotevrwn ejnwvpion th'" dovxh" tou' megavlou ÔRafah;l, kai; ajpestavlh ijavsasqai tou;" duvo (Tb 3, 16-17): kai; aujto;" de; oJ ÔRafah;l, fanerw'n eJautou' wJ" ajggevlou th;n kata; provstagma tou' qeou' pro;" ajmfotevrou" oijkonomivan, fhsiv: kai; nu'n o{te proshuvxw su; kai; hJ nuvmfh sou SavrjrJa, ejgw; proshvgagon to; mnhmovsunon th'" proseuch'" uJmw'n ejnwvpion tou' aJgivou (Tb 12, 12), kai; met∆ ojlivga: ejgwv eijmi ÔRafah;l, ei|" tw'n eJpta; ajggevlwn, oi} prosanafevrousi ).
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(filodoxiva)609, il quale guarda solo al tornaconto individuale anziché alla «comunità» o meglio alla «comunione con Dio», e vi contrappone le parole di Gv 5, 44 («E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?»). Per un paradosso solo apparente, secondo Origene, l’esibizionismo orante nega in partenza la natura autentica di questo atto con la sua vocazione di comunione610 . Alludendo nel Commento a Giovanni allo stesso luogo del quarto vangelo, l’Alessandrino rileva il contrasto fra un simile atteggiamento e la preghiera al Padre: «E come può onorare il Padre chi ricerca la gloria umana o il denaro o la ricchezza terrena o la bellezza che viene dalla carne e dal sangue e, in una parola, tutto ciò che appartiene alla materia e alla corruzione?»611. In sottofondo si può cogliere nuovamente il motivo della «gloria di Dio», la sola ad essere vera ed effettiva, che è intimamente connesso alla trasformazione spirituale a «immagine di Dio» indicata già prima come la mèta dell’atto orante e sviscerata ampiamente poco dopo nel commento alle prime tre petizioni612 . Qui però l’interpretazione del seguito di Mt 6, 5, restando molto aderente al testo ed intrecciando con esso Mt 6, 1-2.4 per il motivo della «ricompensa» (misqov") della preghiera, risente –––––––––––––––––– 609 Origene si serve di un termine della LXX (Sap 14, 14; 4Mac 2, 15; 8, 19), che adopera molto più raramente di kenodoxiva, «vanagloria» (tre occorrenze a fronte di quindici), vocabolo di uso neotestamentario (Fil 2, 3) e terminus technicus nella dottrina cristiana sui vizi. In CMt XV , 18, secondo una spiegazione dell’episodio del giovane ricco (Mt 19, 16-30), la filodoxiva figura tra le «realtà cattive» quali «l’amore della ricchezza, l’amore della gloria ed altre realtà terrene che gli riempiono l’anima di ricchezza riprovevole» (tr. Scognamiglio, 229). In Orat XXIX, 8 Origene denuncia la tentazione racchiusa nell’esperienza di gloria mondana, mentre CMt XI, 15 fa i conti con essa nell’ambito della vita ecclesiale. 610 Si noti il problema testuale in Orat. XIX , 2 (341, 30-31): uJpokritw'n ga;r e[rgon ejsti; to; toi'" ajnqrwvpoi" ejnabruvnesqai ejp∆ eujsebeiva/ qevlein h] tw'/ koinwnikw/' [koinwnei'n T]. Mi sembra preferibile emendare con Anglus h] qew/' koinwnei'n o h] tw/' qew/' koinwnei'n (cfr. Jay, 139, nota 1). Nel testo di Koetschau viene infatti meno l’alternativa uomini-Dio insinuata immediatamente dopo da Gv 5, 44. Si noti l’uso del verbo ejnabruvnomai, hapax nelle opere tràdite, ma usato più frequentemente da Eusebio e Didimo il Cieco, che lo riprende in nesso con Mt 6, 5 (CZc 5, 107, 2). Per la ripresa di Gv 5, 44 nel commento della sesta domanda del Padrenostro, si veda Orat XXIX, 8. Sull’uso del termine «ipocriti» si veda anche CMtS 19 (35, 18-20) su Mt 23, 23 («Guai a voi, scribi e farisei ipocriti»): «Et bene eos hypocritas appellat; volentes enim religiositatem adquirere coram hominibus, nolunt suscipere religiositatem illam quam Deus iustificavit». 611 CIo XX, 36, 337 (tr. Corsini, 671). Da notare che in CIo XIII, 45, 298 Origene ricorda come avesse spiegato la «ricompensa» di Mt 6, 4 («il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà») nel III libro degli Stromati, un’opera perduta, interpretandola come il «beneficio che deriva» per l’intelletto «dalla contemplazione stessa» (tr. Corsini, 524). 612 Cfr. supra, p. 191. In HIer XII, 11 (97, 14-16), a commento di Ger 13, 16 («date gloria al Signore nostro Dio»), Origene spiega che non è tanto con le parole che si dà gloria a Dio quanto con le azioni: oujk ejn fwnai'" kai; lexidivoi" zhtw' to; didovnai kurivw/ tw'/ qew/' hJmw'n dovxan, ajll∆ ejn pravxesin oJ didou;" dovxan kurivw/ tw/' qew/' divdwsi dovxan aujtw/'.
La «Preghiera del Signore» vita del cristiano
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l’influsso della parabola di Lazzaro e del ricco epulone in Lc 16, 25 («Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita»): al pari di chi compie la giustizia per essere visto dagli uomini o fa l’elemosina per autopromuoversi, colui che ostenta l’esercizio della preghiera agli occhi del mondo subirà la stessa sorte del ricco e non avrà ricompensa da Dio nella vita eterna. La sorte di condanna è segnalata anche dal richiamo a Gal 6, 8 («Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna»), che mostra come un orante siffatto rimanga nell’ottica della “vita secondo la carne”; in tal senso la sua condizione è assimilabile a quella del “pagano” che moltiplica le parole in vista di ottenere benefici di ordine materiale (Mt 6, 7). Distinguendosi dagli «ipocriti» come dai «gentili», il cristiano è chiamato ad inoltrarsi sulla «via stretta» (cfr. Mt 7, 13-14) della preghiera spirituale, quella preghiera che – come Origene ha chiarito in precedenza – domanda a Dio i beni della salvezza, rimettendo in sostanza a Lui tutto quanto riguarda i benefici esteriori. Invece coloro che si trattengono a pregare «negli angoli delle piazze» (Mt 6, 5) sono l’immagine di quanti si danno ai piaceri delle più diverse specie, anziché abbracciare la «via angusta e tribolata» indicata da Gesù Cristo e priva di qualunque svolta o tortuosità 613 . Ora, la «via larga», che conduce alla perdizione (Mt 7, 13), è quella apprezzata dagli «uomini» che, privati della loro filialità divina e ricondotti perciò all’orizzonte mortale, manifestano la loro approvazione per una «pietà» solo apparente614 . Dopo aver alluso per un attimo alla dot–––––––––––––––––– 613 Cfr. Orat XIX , 3. In HEx V, 3 (187, 1-6) la «via stretta» è associata alla visuale del progresso spirituale, inteso come ascesa ricca di strettoie e tortuosità: «Non enim proclive iter est quo tenditur ad virtutes, sed adscenditur, et anguste ac difficulter adscenditur. Audi etiam Dominum in evangelio dicentem quam arcta et angusta via est, quae ducit ad vitam. Vide ergo quantum consonat evangelium cum lege. In lege ostenditur virtutis via adscensio tortuosa; in evangeliis dicitur arcta et angusta via quae ducit ad vitam». In HIer IV, 3 (25, 25-26, 1) l’immagine richiama nostalgicamente il fervore del tempo della persecuzione: tovte h\san pistoi; ojlivgoi me;n pistoi; de; ajlhqw'", th;n stenh;n kai; teqlimmevnhn oJdeuvonte" oJdo;n th;n ajpavgousan eij" th;n zwhvn (Mt 7, 14). Cfr. anche il passaggio dalla «via larga» alla «via stretta», in nesso con le «invocazioni» di Ger 20, 8 («Ribellione e miseria invocherò») e Rm 7, 24 («Misero me uomo!»), in HIer XX, 7, per colui che ha compreso che deve abbandonare «la vita dalla via larga e spaziosa» ed entrare «in quella stretta e angusta per diventare miserabile come Paolo» (tr. Mortari, 272). In HGn X, 1 (94, 1012) il predicatore la rammenta così alla sua distratta comunità: «Miror, si nondum vobis innotuit via Christi; si nec hoc quidem audistis quod non est lata et spatiosa, sed arta et angusta via est, quae ducit ad vitam». Per H36Ps V, 7 (240, 23-25), l’immagine evangelica riassume le tribolazioni presenti: «Quod est tempus tribulationis, nisi hoc in quo sumus, cum per artam et angustam viam incedimus quae ducit ad vitam?». In CIo X, 44, 311, coloro che «credono in Gesù» – e non soltanto «nel suo nome» (cfr. Gv 2, 23) – sono quei pochi che abbracciano la «via stretta e tribolata». 614 Orat XIX, 3 (343, 3-6): ejn ai|" oiJ wJ" a[nqrwpoi (cfr. Sal 81[82], 7) ajpoqnhv/skonte" dia; to; th'" qeovthto" ajpopeptwkevnai tugcavnousi doxavzonte" kai; makarivzonte" tou;" ejn tai'" plateivai" eujsebei'n [ajsebei'n T, Koetschau] aujtoi'" nenomismevnou". In BKV, 68
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trina della caduta delle anime o anche, più direttamente, al motivo della deificazione, l’Alessandrino sembra introdurre qualcosa di più di uno stereotipo polemico, allorché ricorda che non pochi attendono alle preghiere nel bel mezzo di simposi, mentre sono preda degli effetti del vino615. Ma il rapido cenno ad un possibile sfondo concreto è subito oltrepassato dalle ulteriori “variazioni esegetiche” suscitate sul testo di Mt 6, 5, dove la menzione delle «sinagoghe» induce Origene ad introdurre il motivo dell’antitesi fra la sunagwghv e l’ejkklhsiva, non tanto in opposizione al giudaismo ma avendo presente l’immagine ideale della «chiesa in senso proprio», cioè quella che è «santa ed immacolata»616 . Più che al luogo fisico, o al––––––––––––––––––
n. 4, Koetschau ha opportunamente emendato il testo in eujsebei'n, come suggerito da editori precedenti. L’allusione a Sal 81[82], 7 rimanda al motivo della “deificazione”. Si veda, ad esempio, CIo XX, 27, 242: «Infatti se c’è qualcuno che non è più menzognero (cfr. Sal 115[116], 2) oppure è rimasto nella verità (Gv 8, 44), questi non è un uomo, tanto che Dio può dire a lui e a chi è simile a lui: Io dico: Voi siete dèi e tutti figli dell’Altissimo (Sal 81[82], 6); e non si riferiranno più a lui quelle parole: Eppure morirete come uomini (Sal 81[82], 7)» (tr. Corsini, 653). Cfr. anche l’ulteriore richiamo in CIo XXXII, 5, 59, con uno spunto polemico verso le osservanze esteriori, mentre in CIo XXXII, 18, 233-234, riproponendo entrambi i versetti Origene lascia intravedere la dottrina della preesistenza: «Quanto poi all’espressione come uno (Gn 3, 22), unitamente a quell’altro passo: Voi, certo, come uomini morrete (Sal 81[82], 7), mi sembra coincidere con quel versetto: Come uno dei principi cadrete (Sal 81[82], 7). Infatti, pur essendo i principi parecchi, uno solo cadde: similmente, quelli che peccano cadono, imitando la sua caduta. Al pari di lui che, essendo nella divinità, cadde, anche coloro ai quali è rivolta quella parola: Ho detto: Voi siete dèi, e figli dell’Altissimo tutti quanti (Sal 81[82], 6), una volta decaduti dalla beatitudine, pur non essendo originariamente uomini, come uomini tuttavia muoiono e come uno dei principi cadono» (tr. Corsini, 779). CMt XVI , 29 (573, 29-574, 3) mette nuovamente a tema la deificazione come la mèta del cristiano: «Dio vuole che colui che accede alla sua Parola, sia al di sopra della natura umana e ne esige opere straordinarie, e – mi si consenta l’espressione – opere da Dio più che da uomo. Proprio perciò dichiara a tutti quelli che chiama alla beatitudine: Io dissi: voi siete dèi e siete tutti figli dell’Altissimo (Sal 81[82], 6); biasimando però quelli che non vogliono essere divinizzati (ajpoqewqh'nai) e divenire figli dell’Altissimo, dice: Ma come uomini voi morirete (Sal 81[82], 7)» (tr. Scognamiglio, 121-122). La duplice citazione figura anche in CMt XVII, 19 in relazione al regno dei cieli e al venire meno del peccato. Cfr. anche H37Ps II , 3. 615 Orat XIX , 3 (343, 6-11): polloi; de; ajei; oiJ fainovmenoi ejn tw'/ proseuvcesqai filhvdonoi ma'llon h] filovqeoi (2Tm 3, 4), ejn mevsoi" toi'" sumposivoi" kai; para; tai'" mevqai" ejmparoinou'nte" th'/ proseuch'/, ajlhqw'" ejn tai'" gwnivai" tw'n plateiw'n eJstw'te" kai; proseucovmenoi: pa'" ga;r oJ kata; th;n hJdonh;n biou;", to; eujruvcwron ajgaphvsa" ejkpevptwke th'" stenh'" kai; teqlimmevnh" oJdou' ∆Ihsou' Cristou'. 616 Orat XX, 1 (si confronti qui [343, 13] th'" me;n kurivw" ejkklhsiva" con l’idea di bellezza spirituale in XVII, 2 [339, 10-11]: to; ga;r kurivw" kavllo" sa;rx ouj cwrei', pa'sa tugcavnousa ai\sco"). Sgherri, 331-333, rilevata la difficoltà di interpretare il passo, mantiene in pratica la pointe antigiudaica con l’osservare che «per appartenere veramente alla Chiesa è richiesta una strettezza (santità di vita ed estradizione dei peccatori) molto più rigorosa di quanto bastava per appartenere alla Sinagoga caratterizzata dalla sua larghezza. Se questo non fosse il sottofondo di idee, ci sembrerebbe incomprensibile il rimando a Deut. 23, 1-8 con il quale inizia il nostro passo» (p. 333). Ma Sgherri non tiene
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l’ambito istituzionale e sociologico, la riflessione dell’Alessandrino punta insomma ancora una volta alla comunità di santi che trascende il quadro della storia e si colloca già nella prospettiva del regno di Dio. Il modello dell’orante, riproposto alla luce di Mt 6, 5, è dunque nuovamente quello del «santo», che s’impegna sulla «via angusta e tribolata» e, invece di ricercare una visibilità mondana, si cura di apparire al cospetto di Dio617 . Il primato delle realtà spirituali ed invisibili è ribadito, fra l’altro, con due suggestive riflessioni dal tenore metafisico, indotte rispettivamente dalle espressioni di Mt 6, 5 («per essere visti dagli uomini») e 6, 7 (le «molte parole»): la prima richiama la natura ingannevole dell’apparenza fenomenica, immagine parziale ed illusoria della vera bellezza del tutto sottratta alla rappresentazione sensoriale618 ; la seconda gioca sul contrasto fra l’ “Uno“ e i “molti“ come opposizione fra la realtà spirituale, unica e compatta, e la materia frammentata e corruttibile, fra l’essere autentico e le sue contraffazioni619 . Tra l’una e l’altra riflessione Origene, proseguendo nell’interpretazione del preambolo matteano, inserisce una delle raffigurazioni più incisive dell’intima dinamica che deve connotare l’atto orante come «esercizio spirituale», sfruttando l’ambivalenza semantica del termine uJpokrithv", inteso quale sinonimo di «attore»: colui che prega in obbedienza alle istruzioni del Signore è chiamato a deporre ogni inautenticità, abbandonando la scena tutto sommato piccola e modesta del mondo esteriore, per ritrarsi nella propria «cameretta» (Mt 6, 6) interiore, ––––––––––––––––––
conto, a mio avviso, dell’argomentazione ad intra sviluppata dall’Alessandrino, anche se ammette che qui il termine «sinagoga» sarebbe passibile anche di un significato «puramente simbolico» (ibi, nota 308). 617 Orat XX, 1 (344, 1-6): ajll∆ oujc oJ a{gio" toiou'to": ouj filei' ga;r proseuvcesqai ajlla; ajgapa',/ kai; oujk ejn sunagwgai'" ajll∆ ejn ejkklhsivai", kai; oujk ejn gwnivai" plateiw'n ajll∆ ejn th'/ eujquvthti th'" stenh'" kai; teqlimmevnh" oJdou', ajlla; kai; oujc i{na fanh'/ toi'" ajnqrwvpoi" ajll∆ i{n∆ ojfqh'/ ejnwvpion kurivou tou' qeou' (Dt 16, 16). La citazione dello stesso versetto («Tre volte all’anno ogni tuo maschio si presenterà davanti al Signore tuo Dio») ritorna nel discorso sul tempo in Orat XXVII, 16. Sull’apparire al cospetto di Dio, senza curarsi della gloria umana, come costitutivo dell’esistenza cristiana, si veda CMtS 12 (23, 13-15): «Christi autem discipulus sustinet et adhuc intercedit et omnia facit ut videatur a Deo, gloriam contemnens humanam.» 618 Orat XX, 2 (344, 9-11): ejpimelw'" de; ajkoustevon tou' fanw'sin, ejpei; oujde;n fainovmenon kalovn ejstin, oiJonei; dokhvsei o]n kai; oujk ajlhqw'" kai; th;n fantasivan planw'n ajll∆ oujk ajkribw'" kai; ajlhqw'" ejktupou'n. Il motivo traspare già in XVII, 2 (supra, nota 616) a proposito della bellezza del corpo. 619 Orat XXI , 2 (345, 17-24): oujde;n ga;r e}n th'" u{lh" kai; tw'n swmavtwn, ajll∆ e{kaston tw'n nomizomevnwn e}n e[scistai kai; diakevkoptai kai; dihv/rhtai eij" pleivona th;n e{nwsin ajpolwlekov" [ajpolwlekovta BKV, 71 n. 3]: e}n ga;r to; ajgaqo;n polla; de; ta; aijscra;, kai; e}n hJ ajlhvqeia polla; de; ta; yeudh', kai; e}n hJ ajlhqh;" dikaiosuvnh, pollai; de; e{xei" tauvthn uJpokrivnontai, kai; e}n hJ tou' qeou' sofiva, pollai; de; aiJ katargouvmenai tou' aijw'no" touvtou kai; tw'n ajrcovntwn tou' aijwn' o" touvtou (1Cor 2, 6) kai; ei|" me;n oJ tou' qeou' lovgo", polloi; de; oiJ ajllovtrioi tou' qeou'. Si veda il luogo parallelo in XXIII, 3 (351, 7): pa'n ga;r sw'ma diairetovn ejsti kai; uJliko;n kai; fqartovn.
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teatro incomparabilmente più grande per l’incontro a tu per tu con Dio (Orat XX, 2) 620 . Avanzando nell’interpretazione delle parole evangeliche Origene trapassa ad una considerazione più profonda che ci riporta all’idea, intravista ripetutamente, della preghiera come «atto di conoscenza»621. La genuinità della preghiera è per lui compromessa non solo dall’ostentazione esteriore e dalla ritualizzazione pubblica ma anche dalla negazione pratica della sua dimensione spirituale attraverso la richiesta di beni materiali. Una preghiera che s’indirizzi a Dio domandandogli benefici di tal fatta è viziata alla radice dalla mancata comprensione della natura divina e di ciò che compete veramente ad essa. Accennando ad un motivo che sarà ripreso da Evagrio, l’Alessandrino oppone dunque al battologei'n condannato da Mt 6, 7 – la «chiacchiera» vana di chi moltiplica inutilmente le parole – la preghiera come esercizio controllato di «teologia» (qeologei'n), discorso su e con Dio622. È l’invito ad operare un discernimento spirituale nell’atto di presentare a Dio la propria «offerta» di preghiera, illustrato da Origene mediante un’espressione di uso abbastanza raro ma fortemente espressiva che richiama, nel suo significato originario, l’ispezione preliminare attuata dai sacerdoti sulle vittime da offrire in sacrificio623. Mentre ritroviamo così l’associazione fra preghiera e sacrificio (o meglio ancora la sostituzione del secondo con la prima, nella prospettiva cristiana ormai attuata della «fine del sacrificio»)624 , osserviamo anche l’invito ad esaminare con cura se stessi e a vagliare le proprie parole nell’atto di pregare, affinché il loro contenuto non comporti alcunché di estraneo all’«incorruttibilità» –––––––––––––––––– 620 621 622
Cfr. supra, p. 181. Ne ho trattato anche in Perrone 2001b e Perrone 2001d. Orat XXI, 1 (345, 3-7): ∆Alla; proseucovmenoi mh; battologhvswmen ajlla; qeologhvswmen. battologou'men de;, o{te mh; mwmoskopou'nte" eJautou;" h] tou;" ajnapempomevnou" th'" eujch'" lovgou" levgomen ta; diefqarmevna e[rga h] lovgou" h] nohvmata, tapeina; tugcavnonta kai; ejpivlhpta, th'" ajfqarsiva" ajllovtria tou' kurivou. Delle 12 occorrenze di battologevw solo una non figura nel trattato: cfr. FrPs 141 (142), 2 (PG 12, 1665C). Da notare l’intreccio fra Mt 6, 7, l’agraphon sui beni celesti (cfr. supra, nota 169) e 1Tm 2, 8 in Orat VIII, 1 (nota 462). Per un confronto con Evagrio si veda Bettiolo (infra, nota 1894). 623 Il verbo mwmoskopevw, hapax in Origene, figura prima di lui, in senso proprio, in 1Clem 41, 2: ouj pantacou', ajdelfoiv, prosfevrontai qusivai ejndelecismou' h] eujcw'n h] peri; aJmartiva" kai; plhmmeleiva", ajll∆ ejn ÔIerousalh;m movnh/: kajkei' de; oujk ejn panti; tovpw/ prosfevretai, ajll∆ e[mprosqen tou' naou' pro;" to; qusiasthvrion, mwmoskophqe;n to; prosferovmenon dia; tou' ajrcierevw" kai; tw'n proeirhmevnwn leitourgw'n. Interessante è l’uso traslato che ne fa Policarpo, Ad Phil. 4, 3, 4, riferendosi alla condotta delle vedove: ginwskouvsa", o{ti eijsi; qusiasthvrion qeou' kai; o{ti pavnta mwmoskopei'tai, kai; levlhqen aujto;n oujde;n ou[te logismw'n ou[te ejnnoiw'n ou[te ti tw'n kruptw'n th'" kardiva" (cfr. 1Cor 14, 25). 624 Cfr. Stroumsa 2006, che giustamente ricorda come il fenomeno non sia solo del cristianesimo. Sull’equazione preghiera = sacrificio, già operante nel giudaismo ellenistico, si veda supra, nota 2.
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divina. Se a conclusione del trattato l’Alessandrino arriva a prospettare alcune indicazioni esemplificative (tovpoi) per una “retorica” della preghiera che sia conforme alla sua visuale di un atto eminentemente spirituale (Orat XXXIII), qui il richiamo all’«autoispezione» prelude alla necessità di pregare secondo il giusto concetto di Dio: solo chi non si rende conto dell’essere trascendente di Dio, il quale sovrasta dall’altezza dei cieli metafisici le piccole cose di quaggiù, può pensare di importunarlo per delle preoccupazioni terrene625 . Su questa nota termina la spiegazione della premessa di Matteo al Padrenostro, a commento di Mt 6, 8 («Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate»). Ora, se l’ignoranza di Dio comporta anche quella dei veri beni, Origene esorta adesso a riconoscere ciò di cui abbiamo veramente bisogno per la nostra salvezza e che solo Dio è in grado di donarci626 . In tal modo l’Alessandrino, all’opposto degli avversari della preghiera che sfruttavano proprio questo passo per negarne la necessità, ricava da esso quella giustificazione dell’atto orante che è imperniata, da un lato, sulla nozione della provvidenza paterna di Dio e, dall’altro sul bisogno di salvezza dell’uomo627. 4. La vocazione alla santità dei figli di Dio Non è facile riassumere la grande ricchezza di spunti esegetici, teologici e spirituali racchiusi nell’interpretazione origeniana del Padrenostro. Si può comunque rilevare una maggiore compattezza del commento alle prime tre petizioni (Orat XXII-XXVI), rispetto alle tre (o quattro) successive (Orat XXVII-XXX), anche perché vertono su un complesso di temi che possiamo compendiare nel motivo unificante della chiamata alla santità per i figli di Dio. Ne abbiamo del resto un preciso indizio formale nel suggerimento avanzato da Origene (e, in parte, riconosciuto valido anche dai critici odierni) di considerare l’espressione «come in cielo così in terra» (Mt 6, 10) riferita non semplicemente alla terza domanda del Padrenostro bensì all’insieme delle tre petizioni iniziali628. È una proposta interpreta–––––––––––––––––– 625 Orat XXI, 1 (345, 13-15): ejqnikw'/ ou\n battologou'nti oJmoiou'tai oJ ta; kavtw ajpo; tou' ejn oujranoi'" kai; uJpe;r ta; u{yh tw'n oujranw'n katoikou'nto" kurivou aijtw'n. 626 Orat XXI, 2 (cfr. supra, nota 299). 627 Sullo sfruttamento di Mt 6, 8, a sostegno della tesi “negazionista”, si veda supra, p. 101. 628 Orat XXVI, 2 (360, 3-13): duvnatai mevntoi ge kata; movnon to;n Matqai'on ajpo; koinou' to; wJ" ejn oujranw'/ kai; ejpi; gh'" (Mt 6, 10c) lambavnesqai, i{n∆ h\/ toiou'ton to; prostassovmenon hJmi'n ejn th'/ eujch'/ levgein: aJgiasqhvtw to; o[nomav sou (Mt 6, 9c) wJ" ejn oujranw'/ kai; ejpi; gh'" : ejlqevtw hJ basileiva sou (Mt 6, 10a) wJ" ejn oujranw'/ kai; ejpi; gh'": genhqhvtw to; qevlhmav sou (Mt 6, 10b) wJ" ejn oujranw'/ kai; ejpi; gh'" : tov te ga;r o[noma tou' qeou' hJgiavsqh para; toi'" ejn oujranw'/, kai; ejnevsth aujtoi'" hJ tou' qeou' basileiva, gegevnhtaiv te ejn
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tiva che non fa che confermare la nota “dinamica” insita per l’Alessandrino nella Preghiera del Signore fin dall’invocazione di apertura, indicando nella dialettica fra «cielo» e «terra» – intesi allegoricamente, secondo la spiegazione più ricorrente, l’uno come simbolo della santità, l’altra del peccato – la trama costitutiva dell’esistenza cristiana, continuamente sollecitata a «trasformare in cielo», cioè a santificare, la condizione terrena629. Per meglio rendere la sua idea, Origene non ha esitato a farsi “inventore di parole”, creando arditamente il neologismo oujranopoivhsi", un hapax che egli adopera esclusivamente nel nostro scritto630 . Con esso designa la finalità per la quale i «giusti», pur essendo essi già divenuti «cielo», continuano a pregare chiedendo a Dio la salvezza dei peccatori (che sono ancora «terra») e la loro trasformazione in santi. L’appello alla santità è già contenuto per Origene nell’invocazione iniziale con la quale interpelliamo Dio come «Padre» (Mt 6, 9 par. Lc 11, 2), frutto della nuova «libertà» di figli (parjrJhsiva) che ci è stata donata mediante l’effusione dello Spirito, fonte di rigenerazione (Orat XXII, 1). A differenza della filialità ancora “instabile” che connotava il rapporto di Israele con Dio – che pure, alla luce dei molti luoghi biblici, non lo ignorava affatto come «Padre» per i «figli» del popolo eletto –, è solo in forza del dono dello Spirito che possiamo rivolgerci al Padre in un genuino atteggiamento filiale631 . L’Alessandrino ha ribadito più ampiamente questa ––––––––––––––––––
aujtoi'" to; qevlhma tou' qeou': a{per pavnta hJmi'n leivpei toi'" ejpi; gh'", dunavmena hJmi'n uJparcqh'nai ejn tw'/ ajxivou" eJautou;" kataskeuavzein ejphkovou peri; touvtwn pavntwn tou' qeou' tucei'n. Cfr. anche HIs I, 2, dove Origene sembrerebbe fondere la prima e la seconda petizione con la terza. Per Philonenko, 115, «cette exégèse a pour effet de lier fermement les trois premières demandes et de leur donner une conclusion commune». Analogo il giudizio di Cullmann, 68-69: «das im Himmel sich vollziehende Geschehen (Heiligung, Königsherrschaft) soll auf der Erde verwirklicht werden. Dann ist aber der Vorschlag des Origenes [...] nicht a priori abzuwenden, den Zusatz “wie im Himmel also auch auf Erden” auf alle drei Bitten zu beziehen [...]. Wenn die These des Origenes richtig ist, dann entsprächen sich die drei Bitten nicht nur inhaltlich, sondern auch in der kurzgefaßten Struktur». 629 Nel contesto di Orat la bivalenza di «terra» dal punto di vista allegorico, rilevata in generale da Simonetti (Omelie sull’Esodo, 181, nota 35), si risolve qui in senso negativo (= peccato, come ad esempio in HEx VI , 6), peraltro in conformità con l’uso più frequente (cfr. ad esempio FrIer 36), mentre in Orat XXVI, 3 troviamo l’equivalenza terra = Chiesa. 630 Orat XXVI, 6 (363, 6-11): ei[te mh; gh' ajll∆ oujrano;" h[dh lelogivsmeqa tw'/ qew'/, ajxiwvswmen, i{na kai; ejpi; th'" gh'" oJmoivw" tw'/ oujranw'/, levgw de; ejpi; tw'n ceirovnwn, plhrwqh'/ to; qevlhma tou' qeou' eij" th;n, i{n∆ ou{tw" ei[pw, oujranopoivhsin aujth'", w{ste mhkevti pote; ei\nai gh'n ajlla; pavnta genevsqai oujranovn. A conferma dell’ “inventiva linguistica”, sia pure intesa essenzialmente come esercizio d’intertestualità scritturistica, si veda Simonetti 2003 (in riferimento a HLv XVI, 4, dove Origene si difende dalla critica di essere un euJrhsilovgo"). Ma la creatività di Origene sotto il profilo del lessico resta in gran parte da esplorare, come suggerito a suo tempo da Quacquarelli. 631 Origene non nega la nozione di Dio come «Padre» nell’Antico Testamento, ma ne constata l’assenza nelle espressioni della preghiera. Cfr. Orat XXII, 1 (346, 15-19): ouj tou'to dev famen, o{ti oJ qeo;" path;r oujk ei[rhtai, h] oiJ pepisteukevnai nomizovmenoi qew'/
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idea a commento di Gv 8, 19 («Voi non conoscete né me né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio»), osservando che «in nessuna delle infinite preghiere, sparse non soltanto nei Salmi e nei profeti ma anche nei libri della Legge, si trova mai l’appellativo di “Padre”, rivolto da qualcuno a Dio nella sua preghiera, forse perché il Padre non lo conobbero. Lo pregano come Dio, come Signore, in attesa di colui che effonde lo Spirito dei figli adottivi» 632 . In Orat non troviamo l’idea di una conoscenza «segreta» del Padre anche per i santi dell’Antico Testamento, che avrebbero già sperimentato la venuta intelligibile di Cristo, come Origene afferma di seguito nello stesso passo del Commento a Giovanni, sia pure insistendo sull’economia dello Spirito, che si dà pienamente solo con la grazia effusa da Gesù e la sua Chiesa633 . A questo stesso schema si rifà anche il nostro trattato (Orat XXII, 2), rilevando l’infedeltà dei «figli» nell’Antica Alleanza e la loro condizione di «servitù» o «minorità» fino all’avvento di Cristo, mentre per converso la Nuova Alleanza apporta l’«adozione a figli», testimoniata da Rm 8, 15 («Non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”») e da Gv ––––––––––––––––––
uiJoi; oujk wjnomavsqhsan qeou', ajll∆ o{ti ejn proseuch'/ th;n ajpo; tou' swth'ro" kathggelmevnhn parjrJhsivan peri; tou' ojnomavsai to;n qeo;n patevra oujc eu{romevn pw. A riprova della “paternità” divina e al tempo stesso della “filialità” di Israele adduce un ampio dossier di luoghi veterotestamentari comprendente Dt 32, 18 («Hai abbandonato il Dio che ti ha generato e ti sei dimenticato del Dio che ti ha nutrito»); 32, 6 («Non è questi il Padre tuo che ti ha posseduto, ti ha fatto e ti ha creato?»); 32, 20 («figli nei quali non c’è fede»); Is 1, 2 («Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me»); Mal 1, 6 («Il figlio onora suo padre e il servo rispetta il suo padrone. Se io sono padre, dov’è l’onore che mi spetta? Se sono il padrone, dov’è il timore di me?» – testo ripreso nell’esegesi di Rm 8, 15 in CRm VII, 2; cfr. inoltre HLv XI, 3). A giudizio di Schleyer (Tertullian. De baptismo, De oratione, 116, nota 491), Origene trova conferme nell’esegesi contemporanea, mentre secondo Müller K., 166-167, occorre ridimensionare l’unicum della concezione gesuana non solo a motivo della designazione di Zeus come pathvr nel mondo greco, ma anche per l’uso del vocativo «Padre!» nel giudaismo del Secondo Tempio. 632 CIo XIX, 5, 28 (tr. Corsini, 570). In questo contesto però, anche per rintuzzare la critica gnostico-marcionita dell’Antico Testamento, Origene si sofferma sull’ejpidhmiva intelligibile di Cristo presso i santi veterotestamentari, che avrebbe anche comportato lo «Spirito dei figli adottivi». Si veda infra, p. 292. 633 Secondo Corsini, 572, nota 8, anche in questo caso non si deve equiparare Antico e Nuovo Testamento: tra le «verità oltre la Scrittura c’è la rivelazione della paternità divina e, di conseguenza, l’effusione dello Spirito Santo», ma la venuta intelligibile del Logos sarebbe presentata «in via puramente ipotetica», il che mi sembra riduttivo, considerando anche CMt XVII, 36: «Io penso però che anche ad Abramo, ad Isacco e a Giacobbe, allora Dio facesse dono di non essere più soltanto il loro Dio, ma di essere ormai anche il loro Padre» (tr. Scognamiglio, 260). L’interpretazione di Mt 6, 9 alla luce di Rm 8, 15 figura anche in CMtS 2 (3, 22-26): «Sic et omnis qui dicit: Pater noster qui es in caelis, non debet habere spiritum servitutis in timore, sed spiritum adoptionis filiorum. Qui autem non spiritum adoptionis filiorum habet et dicit Pater noster qui es in caelis, mentitur, cum non sit filius Dei, Deum patrem suum appellans».
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1, 12 («A quanti l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome»), con un implicito riferimento alla grazia battesimale634 . L’allusione alla sua forza rigeneratrice per la vita del fedele è suggerita anche dalla citazione seguente tratta da 1Gv 3, 9 («Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui, e non può peccare perché è nato da Dio»), con la quale Origene introduce il motivo centrale delle prime tre petizioni: l’esigenza di una condotta conforme al dono dell’adozione a figli di Dio 635 . Se prendiamo sul serio l’espressione iniziale della Preghiera del Signore – che l’Alessandrino riporta adesso nell’esortazione introduttiva secondo la versione di Lc 11, 2 («Quando pregate, dite: “Padre”»)636 –, dobbiamo chiederci quanto il nostro agire concreto corrisponda a tale condizione. Per invocare Dio legittimamente come «Padre», occorre vivere una figliolanza effettiva, attraverso una vita segnata dall’azione della grazia divina e aliena dal peccato. Soltanto così diremo il Padrenostro non unicamente a parole ma anche con gli atti (Orat –––––––––––––––––– 634 L’allusione mi sembra abbastanza trasparente, anche se resta implicita e va comunque considerata nella prospettiva del «battesimo di Spirito santo» che in parte relativizza la dimensione sacramentale (Gramaglia 2000a, 46; cfr. anche Ledegang 2004). D’altronde il Padrenostro dovette rientrare per tempo nella catechesi legata al battesimo, come sembrano indicare gli scritti di Tertulliano e Cipriano (cfr. Hamman 1989, XIV; Bradshaw 2003, 30-31). In aggiunta a ciò si veda l’esegesi di Rm 8, 15 in CRm VII, 2: «Questo dunque è quanto Paolo insegna: dopo che siamo morti insieme con Cristo (cfr. Rm 6, 5) e il suo Spirito è venuto in noi, non abbiamo di nuovo ricevuto lo spirito di servitù per essere nel timore, cioè non siamo diventati di nuovo piccoli e tali da ricevere i primi rudimenti, ma, come perfetti, abbiamo già ricevuto una volta per sempre lo Spirito di adozione» (tr. Cocchini I, 364). 635 1Gv 3, 9 figura anche nel dossier scritturistico di FrLc 174 (299, 7-8), a commento di Lc 11, 2: kai; gennwvmeno" levgoi a]n spevrma ejn eJautw/' tou' qeou' labwvn, dia; to; mhkevti duvnasqai aJmartavnein, to; pavter. In HIer IX, 4 (70, 24-27) Origene sfrutta 1Gv 3, 8 in contrappunto con la visione del rapporto di generazione continua tra Padre e Figlio (infra, nota 1280). 636 Orat XXII, 3 (347, 17-20): eij mevntoi nohvsaimen, tiv ejsti to; o{tan proseuvchsqe, levgete: pavter (Lc 11, 2), o{per para; tw'/ Louka'/ gevgraptai, ojknhvsomen mh; genovmenoi uiJoi; gnhvsioi proenevgkasqai tauvthn th;n fwnh;n aujtw'/, mhv pote pro;" toi'" a[lloi" hJmw'n aJmarthvmasi kai; ajsebeiva" ejgklhvmati e[nocoi genwvmeqa. CMtS 12 (23, 26-31) oppone la paternità acquisita da coloro che si comportano genuinamente da figli di Dio ad ogni paternità terrena: «Sed et qui superna nativitate non solum ex aqua, sed etiam de spiritu (cfr. Gv 3, 3.5) natus est, et spiritum adoptionis accepit, ut dicatur de eo, quia non ex carne, neque ex voluntate viri sed ex Deo natus est (Gv 1, 13), nullius eorum qui in terris habentur et deorsum filius adhuc existens, non vocat patrem in terris, quasi qui per omnem actum secundum Deum inpletum dicit: Pater noster qui es in caelis (Mt 6, 9)». Per CMtS 73 (174, 7-11) solo chi si fa imitatore di Cristo può pronunciare con autenticità la preghiera al Padre: «Nam abusive quidem omnes credentes in Christo fratres sunt Christi, revera autem fratres eius sunt, qui perfecti sunt et imitatores sunt eius, sicut ille qui dixit: Imitatores mei estote, sicut et ego Christi (1Cor 11, 1), qui possunt dicere: Pater noster qui es in caelis (Mt 6, 9)».
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XXII, 3). Questa esigenza di integralità è rafforzata da un’argomentazione che ribadisce l’invito alla coerenza tra parole e opere in due momenti: dapprima, in base a 1Cor 12, 3 («nessuno può dire: “Gesù è Signore” se non nello Spirito santo, e nessuno che parli nello Spirito di Dio può dire: “Gesù è anatema”»)637, sostiene che l’elemento decisivo è rappresentato dalla convinzione interiore, unitamente ad una condotta di vita coerente, poiché «molti ipocriti ed eretici, talora anche dei demoni» hanno sulla loro bocca il nome di Gesù638 ; quindi, a rafforzare l’accordo fra l’azione e i sentimenti interiori, mette in guardia da una riduzione della preghiera alla mera prassi, richiamando stavolta l’importanza del coinvolgimento del «cuore» secondo Rm 10, 10 («Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza») realizzando un accordo armonico fra la mente, le parole e le opere639 . Origene sembra così voler procedere dall’idea di dono a quella di un impegno totale per muovere successivamente all’esito di questo processo spirituale (Orat XXII, 4): la figliolanza divina, vissuta integralmente in pensieri, parole ed opere con l’aiuto dello Spirito, ha come suo risultato la conformazione sempre più piena all’immagine di Dio in Cristo, cioè al Logos 640 . L’Alessandrino intreccia alcuni dei luoghi paolini “canonici” per la sua dottrina dell’immagine – in particolare, Col 1, 15 («Egli è immagine del Dio invisibile»); 3, 10 («a immagine del suo creatore»); 1Cor 15, 49 («l’immagine dell’uomo celeste») – con Mt 5, 45, associazione su–––––––––––––––––– 637 638
Origene inverte l’ordine dei due membri di 1Cor 12, 3; cfr. Hannah, 118-119. Orat XXII , 3 (348, 1-4): diovper oujd∆ a]n deicqei'en levgein kuvrion ∆Ihsou'n, movnwn tw'n ajpo; diaqevsew" [ BKV, 74 n. 2] legovntwn ejn tw'/ douleuvein tw'/ lovgw/ tou' qeou' kai; mhdevna para; tou'ton ejn tw'/ o{ ti pot∆ ou\n pravttein ajnagoreuovntwn kuvrion tov [o{ti BKV, ibidem]: kuvrio" ∆Ihsou'". In HIer X, 5 Origene denuncia i seguaci di Marcione, Basilide e Valentino, perché «nominano il nome di Gesù ma non hanno Gesù, perché non lo confessano come bisogna» (tr. Mortari, 128). Cfr. anche CIo XXVIII, 15, 123-129; XXXII, 11, 128-130: «Chiunque [...] è veramente servo del Logos è in grado di dire bene: “Gesù Signore”; e analogamente chiunque è veramente discepolo è in grado di dire al Salvatore: “Maestro”. A questi il Logos può rispondere: “Lo sono”, mentre non lo dirà a chi è servo del peccato e discepolo della menzogna» (tr. Corsini, 760). 639 Orat XXII, 3 (348, 14-17): i{na de; mh; ejx hJmivsou" levgwsi to; pavter hJmw'n oiJ toiou'toi, meta; tw'n e[rgwn kai; hJ kardiva, hJ tw'n kalw'n e[rgwn phgh; kai; ajrch;, pisteuvei eij" dikaiosuvnhn, oi|" sumfwvnw" to; stovma oJmologei' eij" swthrivan. L’allusione è da estendere a Rm 10, 9-10, per affinità tematica con 1Cor 12, 3. 640 Orat XXII, 4 (348, 18-349, 2): pa'n ou\n e[rgon aujtoi'" kai; lovgo" kai; novhma, uJpo; tou' monogenou'" lovgou memorfwmevna kat∆ aujto;n, memivmhtai th;n eijkovna tou' qeou' tou' ajoravtou (Col 1, 15) kai; gevgone kat∆ eijkovna tou' ktivsanto" (Col 3, 10), ajnatevllonto" to;n h{lion ejpi; ponhrou;" kai; ajgaqou;" kai; brevconto" ejpi; dikaivou" kai; ajdivkou" (Mt 5, 45), wJ" ei\nai ejn aujtoi'" th;n eijkovna tou' ejpouranivou (1Cor 15, 49), kai; aujtou' o[nto" eijkovno" qeou'. eijkw;n ou\n eijkovno" oiJ a{gioi tugcavnonte", th'" eijkovno" ou[sh" uiJou', ajpomavttontai uiJovthta, ouj movnw/ tw'/ swvmati th'" dovxh" (Fil 3, 21) tou' Cristou' ginovmenoi suvmmorfoi ajlla; kai; o[nti ejn tw'/ swvmati. Si noti l’uso del verbo ajpomavttesqai, «imitare», «modellarsi», hapax in Origene (in CC VIII, 2 è ripreso da Celso).
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scitata in Col 3, 10 dal motivo del Dio creatore, cioè il «Padre celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti». Nella spiegazione del Padrenostro in Luca Origene si servirà nuovamente di questo versetto, ma preceduto da 5, 44 («ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori») per inculcare la condotta di vita ispirata all’amore benefico del Padre. In Orat, il richiamo solo a 5, 45 è dettato più direttamente dall’interesse a sviluppare il motivo dell’assimilazione all’immagine di Dio 641 . Ma l’«immagine del celeste» si contrappone all’«immagine del terrestre» (1Cor 15, 49), e di conseguenza il conformarsi dell’uomo all’immagine di Dio si esplica anche nella forma di un combattimento spirituale con le potenze maligne: l’alternativa fra diventare «figli di Dio» e «figli di Satana» segnala il contesto agonico che sottende tutta la spiegazione origeniana del Padrenostro. Il conflitto tra i due modi di vita resta sempre davanti allo sguardo dell’Alessandrino, sia quando descrive più da vicino il rapporto di Dio con gli uomini nelle prime tre petizioni (Orat XXIII- XXVI), sia quando si volge ad esaminare la condizione degli uomini nell’orizzonte del mondo, con i loro bisogni, doveri e responsabilità, colpe e ostacoli come avviene con le restanti petizioni (XXVII -XXX). Ciò conferisce all’interpretazione origeniana una nota insieme dinamica e drammatica, perché l’obiettivo della «deificazione» mediante la figliolanza divina si misura costantemente, in forma palese o meno, con il pericolo di tradire l’essenziale vocazione cristiana. 5. «Come in cielo, così in terra»: le prime tre petizioni Il motivo dominante della santità rimane al centro della spiegazione che Origene offre della prima domanda: «Sia santificato il tuo nome» (Mt 6, 9b). La «santificazione del nome» consiste nell’ottenere da Dio una «nozione» (e[nnoia) sempre più pura e degna di Lui (Orat XXIV, 2). Come già sappiamo, lo sforzo di spiritualizzazione innerva l’intero trattato, ma commentando la prima petizione emerge in modo manifesto il suo presupposto essenziale: il cristiano è esortato alla «preghiera spirituale», proprio perché soltanto essa può corrispondere alla vera natura di Dio. Predisposta dalle critiche alla visione ingenuamente materialistica di un Dio che sta localmente «nei cieli», secondo l’invocazione iniziale del Padrenostro matteano (Mt 6, 9a) – «cieli» che sono invece figura dei «santi», rivestiti dell’«immagine del celeste» (1Cor 15, 49), in cui Dio prende dimora (Orat XXIII, 4-5) –, questa interpretazione rinvia ad un aspetto decisivo per una prassi di preghiera che voglia essere autentica: non si dà vero incontro con Dio, se permane lo schermo di un concetto falso o ina–––––––––––––––––– 641
Su questo tema cfr. Crouzel; Sfameni Gasparro.
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deguato su di Lui642 . L’atto orante – come verrà ulteriormente esplicitato sul finire del IV secolo da Evagrio Pontico, creativo protagonista della tradizione origeniana – è anche un atto «teologico»643 . Non a caso Origene, invitando a riconoscere l’essere trascendente di Dio, aggiunge che chi è in comunione con Lui partecipa di un «effluvio della divinità» (ajporjrJoh; th'" qeovthto"), segno dell’illuminazione operata dalla grazia sulla mente in preghiera (Orat XXIII, 5)644. Ma l’uomo non può certo sperare di correggere e adeguare sempre più le proprie idee su Dio, la sua persona e la sua opera (biblicamente compendiate dal «nome»)645 , senza che Egli intervenga in suo aiuto646 . In–––––––––––––––––– 642 È compito dell’ermeneutica spirituale delle Scritture favorire la retta intelligenza delle espressioni antropomorfiche che si riferiscono a Dio. Perciò, Origene tratta ampiamente in forma di quaestio l’espressione «che sei nei cieli» (Mt 6, 9), onde allontanare ogni nozione di “spazialità” dall’essere divino (Orat XXIII, 1-5). Egli adduce dapprima alcuni luoghi giovannei sul “passaggio” del Figlio dal mondo al Padre (Gv 13, 1.3; 14, 28; 16, 5), il cui significato è suggerito dalla dimora in senso spirituale di Gv 14, 23 («Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui»). Ad essi accosta passi della Genesi – che dichiara di aver trattato più ampiamente nel Commento a Genesi (Orat XXIII, 4) – come Gn 3, 8, dove Adamo ed Eva si nascondono agli occhi di Dio, «che passeggia nel giardino». Anche in questo caso non si deve prende alla lettera il testo e la solutio viene ricavata da una pretesa citazione di Dt (23, 14?), ma che in realtà si basa su 2Cor 6, 16 (cfr. Orat XXIII, 4 [352, 11-14]: oJpoi'o" ga;r aujtou' oJ perivpato" ejn toi'" aJgivoi", toiou'tov" ti" kai; oJ ejn tw'/ paradeivsw/, kruptomevnou qeo;n kai; feuvgonto" th;n ejpiskoph;n aujtou' kai; ajfistamevnou th'" parjrJhsiva" panto;" tou' aJmartavnonto"). In HGn I, 2 (3, 6-8) troviamo l’equazione fra il «cielo» di Gn 1, 1 e le creature spirituali nel loro stato primigenio: «ante omnia coelum dicitur factum, id est omnis spiritalis substantia, super quam velut in throno quodam et sede Deus requiescit»; in I , 13 (16, 2-3. 12-14) l’idea della dimora di Dio nei santi, a vari livelli di intensità («sedere», «abitare», «camminare»): «in his, quorum in coelis est conversatio, Deus requiescit et residet [...] Si vero tantus quis effici potest ut possit dicere: aut documentum quaeritis eius, qui in me loquitur Christus? (2Cor 13, 3), in hoc non solum inhabitat Deus, sed etiam inambulat». Sull’interpretazione di Mt 6, 9 in Prin II, 4, 1, cfr. infra, nota 747. 643 Cfr. nota 622. Per l’interpretazione evagriana del Padrenostro si veda infra, pp. 575-577. 644 Cfr. anche Orat XXIV, 4 (ajporjrJoh'" qeovthto"). Come ricordato in precedenza, il referente scritturistico del termine è 2Cor 3, 18 (cfr. supra, pp. 191-192), ma esso conta su una precisa ascendenza platonica messa in luce da Stritzky, 144: Plat., Phaedr. 251b (dexavmeno" ga;r tou' kavllou" th;n ajporjrJoh;n dia; tw'n ojmmavtwn). Per l’uso del termine equivalente ajpovrjrJoia (cfr. supra, nota 581), in relazione al problema della conoscenza di Dio, si veda Clemente Alessandrino, Protr. VI, 68, 2 (133): pa'sin ga;r aJpaxaplw'" ajnqrwvpoi", mavlista de; toi'" peri; lovgou" ejndiatrivbousin ejnevstaktaiv ti" ajpovrjrJoia qei>khv (la stessa espressione ricorre in Strom. V, 87, 4-88, 3). 645 È degna di nota, anche dal punto di vista lessicale, la definizione di «nome» fornita da Orat XXIV, 2 (353, 22-354, 3): o[noma toivnun ejsti; kefalaiwvdh" proshgoriva th'" ijdiva" poiovthto" tou' ojnomazomevnou parastatikhv: oi|ovn ejsti ti;" ijdiva poiovth" Pauvlou tou' ajpostovlou, hJ mevn ti" th'" yuch'", kaq∆ h}n toiavde ejsti;n, hJ dev ti" tou' nou', kaq∆ h}n toiw'ndev ejsti qewrhtikov", hJ dev ti" tou' swvmato" aujtou', kaq∆ h}n toiovnde ejstiv. to; toivnun touvtwn tw'n poiothvtwn i[dion kai; ajsuntrovcaston pro;" e{teron (a[llo" gavr ti" ajparavl-
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fatti, solo un numero estremamente esiguo di individui è capace di andare al di là delle proprie incerte elucubrazioni su Dio (Orat XXIV, 2), laddove questa «conoscenza» è per l’Alessandrino – con evidente eco platonica – più frutto di un’«anamnesi» che di un «apprendimento»647. I più corrono dunque il rischio di «usare invano il nome del Signore» (Es 20, 7), poiché si fanno di Lui un concetto che è difforme dalla sua vera natura. Diversamente dagli uomini, i quali sono suscettibili di cambiare nome in relazione al mutamento delle loro condizioni spirituali (come avviene, secondo la Bibbia, con Abramo, Pietro o Paolo), l’essere di Dio trova espressione nelle sue caratteristiche immutabili con l’autodesignazione trasmessaci da Es 3, 14 («Io sono colui che sono»)648 . Ecco dunque il senso della preghiera «Sia santificato il tuo nome» (Mt 6, 9b): domandiamo a Dio che ci aiuti a riconoscere sempre meglio le dimensioni insondabili della sua santità, cioè della sua natura di essere costitutivamente buono e immutabile – nella creazione, nell’opera della provvidenza, nel giudizio, nell’elezione e nella punizione, come Origene formula efficacemente, riassumendo così in termini essenziali l’estrinsecarsi dell’agire divino nei confronti dell’uomo649 . La prima domanda del Padrenostro diviene allora la preghiera per leggere il significato della storia del mondo e delle vicende personali con gli occhi di Dio, cioè come la manifestazione del suo piano di salvezza per tutte le creature650 . In tal senso, quando si arriva ad intendere ––––––––––––––––––
lakto" Pauvlou ejn toi'" ou\sin oujk e[sti) dhlou'tai dia; th'" «Pau'lo"» ojnomasiva". Si osservi, fra l’altro, un termine raro come ajsuntrovcaston, «che non concorda», «incompatibile» (solo 4 attestazioni nel TLG), di cui Origene è il primo testimone. Quanto all’esempio del nome di Paolo, si veda la trattazione di segno diverso (presumibilmente riassunta e modificata da Rufino) in CRm I , 2 (42-44); cfr. Cocchini, 30-32. 646 Per Cullmann, 59, Origene ha ben colto la pregnanza del nome nel linguaggio biblico, in quanto riepilogativo delle caratteristiche essenziali di una persona (cfr. Orat XXIV, 9). La dottrina sul nome è un tema importante per Origene, che respinge la tesi della sua convenzionalità. Si veda EM 46: «Se [...] i nomi non sono per convenzione, non si deve chiamare il Dio supremo con nessun altro nome se non con quelli con cui il servo , i profeti e lo stesso Salvatore e Signore nostro lo chiamano, come: Sabaoth, Adonai, Saddai, o ancora: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Questo, infatti afferma, è il nome eterno con cui sarò ricordato di generazione in generazione (Es 3, 15)» (tr. Noce, 152). 647 Orat XXIV, 3 (cfr. supra, nota 500). L’affermazione rinvia implicitamente alla dottrina della preesistenza, ma il tema meriterebbe un approfondimento ulteriore. 648 Orat XXIV, 2 (354, 8-11): ejpi; de; qeou', o{sti" aujtov" ejstin a[trepto" kai; ajnalloivwto" ajei; tugcavnwn, e{n ejstin ajei; to; oiJonei; kai; ejp∆ aujtou' o[noma, to; w]n (Es 3, 14) ejn th'/ ∆Exovdw/ eijrhmevnon h[ ti ou{tw" [h] toiouvtw" BKV, 83 n. 2] a]n lecqhsovmenon. 649 Non mancano accenti affini nella visione che Karl Barth ha del rapporto preghiera-teologia: «Pregare è cominciare a cercare una nuova chiarezza del fatto che Dio è colui che governa» (Barth, 173). 650 Orat XXIV, 2 (354, 11-18): ejpei; ou\n peri; qeou' pavnte" me;n uJpolambavnomevn ti, ejnnoou'nte" a{tina dhv pote peri; aujtou', ouj pavnte" de; o{ ejsti (spavnioi ga;r kaiv, eij crh; levgein, tw'n spanivwn spaniwvteroi oiJ th;n ejn pa'sin aJgiovthta katalambavnonte" aujtou'),
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rettamente il «nome di Dio», si è anche messi in condizione di fecondare spiritualmente gli altri e quindi di «innalzare il suo nome» (Sal 33[34], 4), cioè di giungere ad una conoscenza unanime della vera natura di Dio. Ma tutto ciò è possibile unicamente per il dono d’intelligenza che chiediamo a Dio con la prima petizione e che ci aiuta a costruire nella nostra mente una «dimora», un «tempio» per Lui651. La spiegazione della seconda domanda del Padrenostro, che invoca l’avvento del «regno di Dio» (Mt 6, 10a par. Lc 11, 2c), è come un ulteriore corollario del discorso sulla santità sviluppato sin qui. Si chiede cioè a Dio di attuare la sua sovranità nell’anima del «santo» che, quand’è governata da Lui, è trasformata in una «città ben amministrata»652 . Nonostante questa associazione di idee con l’ambito politico, l’interpretazione orige––––––––––––––––––
eujlovgw" didaskovmeqa th;n ejn hJmi'n e[nnoian peri; qeou' aJgivan [ BKV, 124 n. 5] eij" to; peirasqh'nai pavnta kairo;n [ BKV, 124 n. 5] peirasmou' ei\nai toi'" ajnqrwvpoi" kai; tau'ta. 712 Orat XXIX, 8 (385, 9-14): kai; tiv me dei' katalevgein ta; tw'n nomizomevnwn eujgenw'n ejn uJperhfaniva/ ptaivsmata kai; tw'n legomevnwn dusgenw'n dia; to; ajnepivsthmon th;n pro;" tou;" uJperevcein nomizomevnou" uJpovptwsin qwpeutikh;n, ajfista'san qeou' tou;" gnh-
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siamo liberati dalla tentazione, bensì per non soccombere in essa, Ora, cominciando a mettere in luce l’economia divina di prova e peccato, Origene dichiara: «Colui che soccombe nella tentazione, vi entra, penso, avvolto nelle sue reti in cui, per la salvezza di quelli che erano già caduti, entrò il Salvatore osservando tra le grate (Ct 2, 9), come è detto nel Cantico dei Cantici. E si rivolge a quelli che sono caduti e sono entrati in tentazione, e dice loro, come alla sua sposa: Levati, amica mia, bella mia, colomba mia (Ct 2, 10)» (Orat XXIX, 9)713.
Non è casuale che Origene accenni adesso all’esegesi del Cantico, che – come sappiamo – rappresenta una delle pagine più alte ed emblematiche di tutta la sua opera. Infatti attraverso il tema della «prova» arriviamo a cogliere un nodo assolutamente centrale nella sua visione dei rapporti fra Dio e uomo. Fedele anche in questo alla prospettiva biblica, Origene afferma che le prove a cui gli uomini vengono sottoposti sono volute da Dio per la loro maturazione e salvezza. Egli non abbandona nessuno al proprio destino, specialmente coloro che, «entrati in tentazione», non sono stati capaci di reggere ad essa, conformemente all’esortazione di Gesù in Lc 22, 40 (Mt 26, 41): «Pregate, per non entrare in tentazione»714 . Né si deve pensare che quanti non vengono esauditi da Dio nella loro preghiera, siano da Lui “consegnati” direttamente al male, come sembrerebbe insinuare una lettura errata di Rm 1, 28 («E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno»), evocata in polemica con gnostici e marcioniti715 . Invece, anche per costoro continua a dispiegarsi ––––––––––––––––––
sivan me;n filivan oujk e[conta" to; de; kavlliston tw'n ejn ajnqrwvpoi", th;n ajgavphn, uJpokrinomevnou"… 713 Sull’interpretazione di Ct 2, 9-10 si veda CCt III, 14, 27-34, in particolare 28, (222, 3-7): «laquei ergo tentationum et decipulae insidiarum diaboli retia appellantur. Et quoniam haec retia ubique tetenderat inimicus atque in ipsis paene omnes involverat, necessarium fuit adesse aliquem qui fortior et eminentior his fieret et contereret ea, ut sequentibus se viam possit aperire»; HCt II, 12 (98, 30-35): «Eminet igitur sponsus per retia; viam tibi fecit Iesus, descendit ad terras, subiecit se retibus mundi; videns magnum hominum gregem retibus impeditum nec ea ab alio nisi a se posse conscindi, venit ad retia, assumens corpus humanum quod inimicarum fortitudinum laqueis tenebatur, ea tibi dirupit». 714 È questo l’unico passo di Orat in cui si accenna, sia pure indirettamente, alla preghiera nel Getsemani, trattata invece ampiamente in CC e CMt. Sull’esegesi di Mt 26, 41 (Lc 22, 40) si veda CMtS 93 (211, 14-20): «Ut ne intretis in temptationem: hoc (secundum quod multi intellegunt) tale est ac si dicat: ut non temptemini; si autem sic placuerit Deo, adquiescite Deo, sicut me audistis orantem. Considera autem, si possibile est sic intellegere magis, quoniam vita nostra ipsa temptatio est secundum Iob; “intrare” autem in temptationem aut “venire” in temptationem est cadere in temptationem et vinci ab ea». 715 Dall’accostamento fra Lc 22, 40 (Mt 26, 41) e Rm 1, 22-28 Origene enuclea ampiamente la quaestio in funzione antivalentiniana ed antimarcionita, riepilogandola in Orat XXIX, 12. Si noti la terminologia tecnica dell’esercizio zetetico che ricorre in più
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l’azione benefica di Dio, Padre provvidente, buon «economo» e pedagogo amorevole per tutte le sue creature, senza peraltro che venga mai intaccata la libertà degli uomini716 . Origene riassume nei seguenti termini quello che possiamo a ragione definire il suo “credo” essenziale: «Io ritengo che Dio si prenda cura di ogni anima razionale avendo di mira la sua vita eterna; essa ha sempre il libero arbitrio e può per propria causa trovarsi nella condizione di progredire fino al vertice del bene o discendere in vario modo, a causa della negligenza, a questo o quell’abisso di male» (Orat XXIX, 13).
Ora, se Dio sembra lasciare che l’uomo cada nella perdizione, Egli lo fa con un intento preciso. Come mostrano le guarigioni troppo repentine, che danno invece luogo a ricadute ancor più gravi, l’esperienza stessa del male, nell’apparente abbandono di Dio, si tramuta in una battuta d’arresto temporanea, preludio a una rinascita nel bene; il peccatore, lasciato a se stesso, giungerà prima o poi ad avere nausea del male e a desiderare nuovamente il bene. Per illustrare questa idea “terapeutica” della prova, che tradisce un evidente ottimismo soteriologico, Origene si serve di esempi biblici, in particolare l’episodio delle carni di cui Dio nutre il popolo di Israele nel deserto, dopo le sue lamentele, finché esse gli vengono a nausea (Nm 11), o il racconto dell’Esodo ove si narra l’indurimento del cuore del Faraone ad opera di Dio (Orat XXIX, 15-16)717 . L’uno e l’altro esempio servono a giustificare la necessità di pregare, secondo il Padrenostro, affinché non agiamo in alcun modo per «entrare in tentazione»718. ––––––––––––––––––
passi (XXIX , 13 [387, 25-26]: qewrhtevon eij kai; hJmei'" euJrivskomen ajxiolovgou" tw'n ajpemfavsewn luvsei"; XXIX, 14 [388, 29-31]: i[dwmen ou\n th;n iJstorivan, eij crhsivmw" uJmi'n parebavlomen aujth;n pro;" luvsin tou' ajpemfaivnonto" ejn tw'/ mh; eijsenevgkh/" hJma'" eij" peirasmo;n kai; ejn tai'" ajpostolikai'" levxesin). 716 Sull’idea origeniana di provvidenza, si veda Perrone 2000d, con la bibliografia ivi indicata. 717 Riguardo al secondo tema, già ampiamente trattato in Prin III, 1, si veda Il cuore indurito del Faraone. Origene e il problema del libero arbitrio (= Perrone 1992a). L’interpretazione di Nm 11 in Orat XXIX, 14 offre il modello più generale di spiegazione, che si applica anche a 1 Rm 1, 28 (Orat XXIX, 15). Sul valore formativo delle tentazioni, per chi pure si è già inoltrato sul cammino di perfezione, insiste HNm XXVII, 12 (274, 14-19): «Quid est hoc, quod quamvis grandes habeat anima profectus, tamen tentationes ab ea non auferuntur? Unde apparet quia velut custodia quaedam et munimen ei tentationes adhibentur. Sicut enim caro, si sale non adspergatur, quamvis sit magna et praecipua, corrumpitur, ita et anima, nisi tentationibus assiduis quodammodo saliatur, continuo resolvitur ac relaxatur». 718 Orat XXIX , 16 (391, 17-23): eujcwvmeqa mhde;n a[xion poih'sai tou' uJpo; th'" dikaiva" krivsew" tou' qeou' eijsenecqh'nai eij" to;n peirasmovn (cfr. Mt 6, 13; Lc 11, 4), eijsferomevnou pantov" te tou' paradidomevnou uJpo; tou' qeou' ejn tai'" ejpiqumivai" th'" kardiva" eJautou' eij" ajkaqarsivan (cfr. Rm 1, 24) kai; panto;" tou' paradidomevnou eij" pavqh ajtimiva" (cfr. Rm 1, 26) kai; panto;" tou', kaqw;" oujk ejdokivmase to;n qeo;n e[cein ejn eJautw',/ paradidomevnou eij" ajdovkimon nou'n, poiei'n ta; mh; kaqhvkonta (Rm 1, 28).
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Parte prima, Capitolo sesto
Ma vi è anche una seconda spiegazione in positivo della tentazione: oltre alla finalità medicinale essa riveste anche un valore diagnostico (Orat XXIX, 17). La prova è l’occasione perché vengano allo scoperto le ricchezze e i limiti della nostra anima, i doni accumulati dentro di essa grazie all’aiuto di Dio e la malvagità che vi si è annidata a poco a poco, senza che ce ne rendessimo conto. Se tutto ciò è noto a Dio, lo diventa anche a noi per il tramite della tentazione, che ci pone dinanzi a noi stessi, nel bene e nel male719 . Anche sotto questo profilo Origene riequilibra il registro drammatico dell’«agone» nel mondo, leggendolo nuovamente come espressione del rapporto di amore di Dio verso l’uomo. Ne consegue un’esortazione a essere sì vigilanti ma anche fiduciosi nella lotta, che pure non dà tregua, con le potenze del male: «Perciò nelle pause della serie di tentazioni ergiamoci contro il pericolo che ci sovrasta e siamo preparati a tutto quello che può accadere, affinché, qualunque cosa accada, non veniamo trovati impreparati, ma ci mostriamo addestrati perfettamente; quello, poi, che ci manca a causa dell’umana debolezza, dopo che avremo fatto tutto ciò che dipende da noi, lo compirà Dio che volge tutte le cose al bene di quelli che lo amano (Rm 8, 28) e li vede nella sua verace preveggenza come saranno in futuro» (Orat XXIX, 19).
Potremmo concludere con questa esortazione l’analisi dell’interpretazione origeniana del Padrenostro, ma l’Alessandrino ha proseguito la sua spiegazione della sesta petizione anche sulla seconda parte di Mt 6, 13b: «ma liberaci dal Maligno» (Orat XXX)720 . Il senso di questa invocazione non può certo consistere nel domandare al Padre di essere sottratti alla prova, bensì nel chiedergli aiuto e forza per gareggiare vittoriosamente con le forze del male, sull’esempio di Cristo che – ancor più di Giobbe – non è mai venuto meno nelle tentazioni721 . Per chi, pregando nello Spirito –––––––––––––––––– 719 Come sempre Origene argomenta la sua tesi in riferimento alla Scrittura, adducendo gli esempi della facilità di Eva a lasciarsi ingannare o della malvagità di Caino, vizi che erano già operanti in loro prima che si manifestassero. Altri esempi a conferma del valore diagnostico della tentazione sono ricavati dalle storie di Caino, Esaù e Giuseppe (Orat XXIX, 18). Sul risultato conoscitivo della prova, mancata o superata che sia, si veda anche HLc XXVI, 4 (278, 18-24): «Cum enim anima tua fuerit aliqua tentatione superata, non tentatio te vertit in paleas, sed cum esses palea, levis videlicet et incredulus, ostendit te esse tentatio, quod latebas. E contrario autem cum fortiter tentamenta toleras, non te facit fidelem tentatio atque patientem, sed virtutem, quae in te erat patientiae et fortitudinis, sed latebat, profert in medium». 720 L’interpretazione in chiave personale di tou' ponhrou' (anziché «dal male») trova conferma in H36Ps II, 4 (88, 8-11): «Sed et Dominus in Evangelio diabolum non dixit peccatorem tantummodo, sed malignum vel malum et cum docet in oratione vel dicit: sed libera nos a malo». 721 La superiorità di Cristo è indicata dalla triplice tentazione sostenuta vittoriosamente, laddove Giobbe ne ha sostenuto con successo due. Cfr. Orat XXX, 2 (394, 23-27): duvo de; palaivsmata palaivsa" oJ ∆Iw;b kai; nikhvsa" trivton oujk ajgwnivzetai thlikou'ton
La «Preghiera del Signore» vita del cristiano
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la «Preghiera del Signore», si affida al sostegno del Padre, resta la certezza che prove ed ostacoli non intralceranno il cammino, per quanto arduo e faticoso, dei figli di Dio verso la santità. Assimilati sempre più all’immagine del Verbo, essi estinguono le frecce infuocate lanciate su di loro dal Maligno «poiché hanno in se stessi fiumi di acqua zampillante per la vita eterna (Gv 4, 14; 7, 38) 722 , e non lasciano che i dardi del Maligno (Ef 6, 16) s’infittiscano ma facilmente li disperdono con il diluvio dei divini e salutari pensieri impressi dalla contemplazione della verità nell’anima di chi si sforza d’essere spirituale» (Orat XXX, 3).
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ajgw'na: e[dei ga;r th;n peri; tw'n triw'n pavlhn thrhqh'nai tw'/ swth'ri, h{ti" ejn toi'" trisi;n eujaggelivoi" ajnagevgraptai, ta; triva nikhvsanto" tou' kata; to;n a[nqrwpon swth'ro" hJmw'n nooumevnou to;n ejcqrovn. In H36Ps V, 7 (242, 59-61) la petizione è collegata alla minaccia di essere requisiti dal diavolo e dagli spiriti peccatori al momento del giudizio: «et forte propterea iubemur cum quodam mysterio etiam in oratione petere, dicentes: et libera nos a malo». Per HLc XXXV, 5 (350, 27-29; 352, 8-12) l’uomo non può mai sfuggire alla compagnia dell’Avversario: «Semper nobiscum est adversarius (cfr. Lc 12, 58): infelices nos atque miserabiles! [...] Semper nobiscum adversarius graditur, nunquam nos deserit, quaerit occasionem insidiarum, si quomodo nos subvertere queat et in principali cordis nostri malam subiciat cogitationem». 722 Per l’interpretazione dei due passi giovannei si veda, ad esempio, HGn I , 2 (3, 24–4, 4): «Studeat ergo unusquisque vestrum divisor effici aquae eius quae est supra et quae est subtus, quo scilicet spiritalis aquae intellectum et participium capiens eius quae est supra firmamentum, flumina de ventre suo educat aquae vivae, salientis in vitam aeternam, segregatus sine dubio et separatus ab ea aqua quae subtus est, id est aqua abyssi, in qua tenebrae esse dicuntur, in qua princeps huius mundi et adversarius draco et angeli eius habitant».
PARTE SECONDA
Il discorso origeniano sulla preghiera e le trattazioni eucologiche del primo cristianesimo (II-V secolo)
CAPITOLO SETTIMO
«COME INCENSO AL TUO COSPETTO» (SAL 140[141], 2) L’immagine della preghiera nell’opera di Origene
«L’uomo non è fatto per delle opere di misericordia esteriore, è fatto per adorare anzitutto nel suo cuore l’Ospite divino, nell’istante presente» (Louis Massignon)
1. Un tentativo di sintesi: fra rassegna e ricostruzione organica Il trattato sulla preghiera, pur con la straordinaria ricchezza di pensiero che lo contraddistingue, non esaurisce la riflessione di Origene sull’argomento. Né si può dire che la riassuma a pieno titolo, dal momento che l’Alessandrino non solo ritorna più volte sul nostro tema nei diversi scritti, ma in essi introduce anche prospettive nuove ed originali che non erano contemplate, neppure implicitamente, in Orat. Di conseguenza, come ho ricordato all’avvio della mia indagine, perdura tuttora nella ricerca l’interrogativo sul grado di rappresentatività che il “modello alto” di preghiera, elaborato da Origene nel trattato, è suscettibile di rivestire più in generale proprio alla luce di queste posizioni distinte723 . Una risposta a tale domanda può venire soltanto dopo aver proceduto ad un inventario dei passi in cui l’Alessandrino tocca il tema della preghiera nel resto della sua opera e ad un loro esame comparativo, evitando di procedere con troppa fretta ad una ricostruzione sistematica ed omogenea della teologia origeniana sulla preghiera. Il caveat che grava al riguardo, volenti o nolenti, sugli sforzi degli studiosi contemporanei e li rende più restii che in passato a sciogliere le tensioni emergenti nell’opera di Origene, non può insomma non far sentire i suoi effetti anche sulla mia esposizione. Tuttavia, ritengo possibile contemperare il rispetto verso la fisionomia molteplice e diversificata del pensiero dell’Alessandrino, lungo l’arco della sua estesissima produzione – com’essa si esprime attraverso opere dal profilo letterario e dal pubblico distinti –, ed insieme la messa in luce di quei nodi concettuali che tramano più o meno costantemente la sua riflessione, a partire dai loro riferimenti scritturistici più consueti. Così, se in passato ho preferito optare prudentemente per una presentazione del discorso di Origene sulla preghiera accostando di seguito ad Orat le te–––––––––––––––––– 723
Rimando alle considerazioni introduttive nonché al Cap. 2 (in part., pp. 46-48).
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Parte seconda, Capitolo settimo
stimonianze contenute rispettivamente nelle omelie, nei commentari e nel Contro Celso, oggi sono convinto che sia giusto tentare di compiere un passo ulteriore dando spazio ad un tentativo di sintesi più organica, sia pure alla luce della principale fonte d’ispirazione dell’Alessandrino724 . Si può certo fare tesoro delle riserve contro una sistematizzazione arbitraria del suo pensiero, che attenua differenze e polarità risultanti dalle sue diverse espressioni (vuoi per il medium comunicativo prescelto vuoi per i destinatari differenziati) e rischia inoltre di ignorare l’eventuale condizionamento operante su di esse a causa dei contesti e dei tempi diversi. Ma si farebbe torto ad Origene se non si cercasse di corrispondere alle sue molteplici sollecitazioni concettuali tracciando anche un quadro che operi al loro interno una ricostruzione tematica più organica725. Senza offrire qui una rassegna esaustiva di tutti i passi attinenti il tema della preghiera al di fuori di Orat – che dilaterebbe oltre misura le dimensioni del mio lavoro, tra l’altro con un inevitabile fardello di riprese e ripetizioni –, esaminato il profilo particolare delle nostre fonti, vorrei piuttosto tracciare una mappa dei luoghi principali, prima di passare, nel capitolo successivo, a riaggregare concettualmente i dati dispersi nell’insieme degli scritti attraverso un esame dei loro nuclei scritturistici. 2. Il profilo distinto delle fonti e la loro utilizzazione La consapevolezza del diverso profilo assunto dalle fonti, nella frequentazione dell’opera e del pensiero di Origene, appare già presente fra i lettori antichi dell’Alessandrino, che non mancano così di trarne indicazioni in merito al rilievo particolare da assegnare ad un testo rispetto ad un altro. Il più esplicito è senz’altro Gerolamo, che parlando della sua varia produzione esegetica, nella celebre prefazione alla traduzione latina delle Omelie su Ezechiele, tende a rimarcare le distinzioni fra i commentari, le omelie e gli scolî o excerpta726 . Secondo lui, se nei grandi commentari bi–––––––––––––––––– 724 725
Si veda la mia voce Preghiera (Perrone 2000c). Negli studi odierni il modello più coerente e rigoroso di un’indagine che tiene conto di ambedue i criteri è costituito, a mio avviso, da Buchinger 2005. Egli ha suddiviso la sua monografia in due parti, la prima delle quali offre una «presentazione diacronica» della concezione della Pasqua in Origene (vol. 1), mentre la seconda (vol. 2) ne ricostruisce gli «aspetti sistematici». 726 Cfr. SC 352 (30, 16-32, 24): «Origenis opuscula in omnem Scripturam esse triplicia: primum eius opus excerpta, quae Graece scovlia nuncupantur, in quibus ea, quae sibi videbantur obscura atque habere aliquid difficultatis, summatim breviterque perstrinxit; secundum homileticum genus, de quo et praesens interpretatio eius est; tertium quod ipse inscripsit tovmou", nos volumina possumus nuncupare, in quo opere tota ingenii sui vela spirantibus ventis dedit et recedens a terra in medium pelagus aufugit». Sui problemi sollevati dal passo in rapporto all’opera pervenutaci si veda Nautin, 372-375; Junod 1995; Le Boulluec.
«Come incenso al tuo cospetto»
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blici (tovmoi) Origene ha dato fondo a tutte le risorse della propria arte esegetica, questa tende invece a presentarsi in forma più succinta ed incompleta non solo negli scolî ma soprattutto nelle omelie. In questo senso, stando sempre a Gerolamo, si possono opporre fra loro il Commento e le Omelie sul Cantico dei Cantici 727 , mentre in altri casi – come le Omelie sul Vangelo di Luca – occorre riconoscere ancor più manifestamente il loro carattere elementare, di gran lunga inferiore all’eccellenza di cui Origene dà prova nelle sue opere mature e più impegnative728. Gli apprezzamenti di Gerolamo, sebbene limitati agli scritti esegetici, hanno continuato ad influenzare anche i lettori moderni dell’opera di Origene. Solo gradualmente essi sono pervenuti ad una valutazione più autonoma e complessa degli scritti dell’Alessandrino, fra l’altro ponendoli maggiormente in rapporto con le forme espressive della letteratura coeva oppure recuperando la percezione già propria degli antichi circa le loro modalità argomentative729 . Restando adesso nell’ottica dei generi letterari, se si attribuisce ancora qualche valore alla distinzione proposta da Gerolamo fra commentari e omelie, e con essa si assume l’idea di uno scarto sia quantitativo che qualitativo fra l’uno e l’altro genere, ciò può determinare conseguenze significative anche per il nostro discorso. In tal caso, a chi obietta la scarsa rappresentatività del trattato a fronte, per esempio, del modo in cui Origene tocca il tema della preghiera nelle omelie, si potrebbe replicare che il livello della riflessione condotta in queste ultime, per la loro stessa natura, non era tale da poter competere con quello ben più specifico sviluppato nel trattato. Pertanto, l’uditorio meno qualificato del predicatore avrebbe imposto ad Origene di volare più basso, riservando ai lettori del trattato un discorso meglio approfondito e più impe–––––––––––––––––– 727 La lettera a papa Damaso, premessa alla versione latina di HCt (16, 10-16), sottolinea l’opposizione magna (= CCt)-parva (= HCt), in relazione al pubblico dei «principianti» cui sono rivolte le omelie: «Itaque illo opere praetermisso, quia ingentis est otii laboris et sumptuum tantas res tam digne in latinum transferre sermonem, hos duos tractatus, quos in morem cotidiani eloquii parvulis adhuc lactantibusque composuit, fideliter magis quam ornate interpretatus sum, gustum tibi sensuum eius, non cibum offerens, ut animadvertas quanti sint illa aestimanda quae magna sunt, cum sic possint placere quae parva sunt». 728 Nella Praefatio a HLc (1, 10-11), indirizzata a Paola ed Eustochio, Gerolamo dichiara di accogliere, sia pure con disagio, la loro richiesta di tradurre le 39 Omelie sul Vangelo di Luca, «quia sublimiora non poscitis», come sarebbe invece nel caso dei 26 tomi del Commento a Matteo, dei 5 del Commento a Luca o dei 32 del Commento a Giovanni. La menzione dei grandi commentari serve ad enfatizzare l’antitesi con il profilo modesto di HLc, derivante anche dal fatto che non sono un’opera degna della maturità esegetica dell’Alessandrino (2, 1-3): «Fateor itaque [...] in his Origenem tractatibus quasi puerum talis ludere. Alia sunt virilia eius et senectutis seria». 729 Ciò vale, in generale, più per i commentari o i trattati (come Prin e CC) che non per le omelie. Quanto al distinto rilievo formale dell’argomentazione, ne ho discusso specialmente in Perrone 1999a.
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Parte seconda, Capitolo settimo
gnativo, analogamente a quanto avviene per il pubblico dei commentari rispetto all’uditorio dei sermoni. In realtà, si tratta di una risposta troppo facile perché le cose non sono affatto così semplici. Da un lato, infatti, verrebbe da obiettare che a prima vista neppure i commentari rispecchiano troppo da vicino le idee del trattato sulla preghiera (un’impressione che, come vedremo in seguito, necessita comunque di importanti correzioni); dall’altro, occorre più in generale tenere presente che né per i «commentari» né per le «omelie» si deve partire dall’idea di un genere, per così dire, “monolitico”. Come mostra il confronto fra le Omelie sul Cantico dei Cantici e le Omelie su Luca, un unico genere può dare luogo a risultati abbastanza diversi sul piano della forma e dei contenuti, anche rispetto allo schema suggerito dalle osservazioni di Gerolamo730 . Del resto, le stesse Omelie sul Cantico dei Cantici sono tutt’altro che la versione abbreviata del più ampio Commento, poiché, pur spiegando lo stesso testo, a volte danno luogo a sviluppi diversi; questi, poi, più che essere indizio della diversità di genere, attestano semmai gli elementi innovativi dell’operazione esegetica in quanto tale e spingono ad interrogarsi su quella dimensione diacronica che spesso appare così sfuggente nell’opera di Origene, non fosse per le informazioni di Eusebio e qualche indizio – retrospettivo o prospettico – fornitoci dall’Alessandrino731 . Quanto ai commentari considerati in se stessi, l’acribia e l’ampiezza interpretative che perlopiù li caratterizzano non possono nascondere anche certe modalità e accentuazioni distinte nei loro procedimenti esegetici, come riscontriamo soprattutto dal confronto tra il Commento a Giovanni e il Commento a Matteo732 . Se queste considerazioni tendono a ridimensionare la distinzione dei generi letterari e a scomporre semmai il singolo genere in una varietà di prodotti, ragionando ulteriormente sul profilo delle fonti, potremmo osservare che perfino Origene sembra incoraggiare una relativa “omologazione” fra commentari e omelie, quando egli si esime dall’esegesi approfondita di questo o quel passo rimandando espressamente il lettore dei commen–––––––––––––––––– 730 Sotto il profilo della forma, data anche la limitata tradizione greca, basterà accennare all’inconsueta perizia retorica esibilita da Origene commentando a Gerusalemme 1Sam 28 (HReG V , 3), ma anche alla parenesi finale di Dial 27-28 (108, 9-110, 2). Probabilmente l’impressione risulterebbe un po’ diversa, se potessimo disporre più ampiamente del corpus omiletico originale, come ho potuto osservare a proposito di HIer (Perrone 2001c, 91). 731 Per un raffronto fra CCt e HCt sotto tale profilo, cfr. Perrone 2006. 732 La diversità dell’approccio esegetico di CMt rispetto a CIo e ad altri commentari è stata evidenziata da Vogt (Origenes. Der Kommentar zum Evangelium nach Matthäus, I, 51): «Man wird [...] festhalten dürfen, daß Origenes in seinem Matthäus-Kommentar noch weniger als in anderen Kommentaren mit einem Autoritätsanspruch vor den Leser hintritt, sondern sich sowohl der Begrenztheit der eigenen Einsicht als auch der beschränkten Ausdrucksmöglichkeiten immer bewußt bleibt». Ho ripreso questa analisi in Perrone 2001a.
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tari alle omelie specificamente dedicate al testo biblico corrispondente. È singolare peraltro che lo faccia proprio in relazione a quelle Omelie su Luca tanto bistrattate da Gerolamo733 ! D’altronde, rivolgendosi ai suoi uditori nella comunità di Cesarea, Origene spesso non si trattiene dal richiamare le esegesi che ha fornito in altre occasioni, presumibilmente evocando a un tempo sia precedenti omelie sia anche commentari già redatti734 . Non intendo ovviamente sostenere l’idea di una sovrapposizione o addirittura di un’assimilazione di fatto tra omelie, commentari e trattati, tale da obliterare le differenze di genere letterario e contenuti, ma piuttosto insistere sugli elementi che concorrono ad illuminarne una loro «equivalenza» parziale e che sono dati del resto, per quanto riguarda le omelie, dalla natura fondamentalmente «didascalica» della predicazione origeniana735. Analisi approfondite condotte su temi centrali del pensiero di Origene – quali, ad esempio, la dottrina del libero arbitrio – hanno posto in luce la continuità sostanziale fra le omelie e gli altri scritti dell’Alessandrino dal punto di vista dottrinale736. Ed anche chi si è interrogato sul rapporto comunicativo instaurato dalla peculiare situazione omiletica è pervenuto alla conclusione che l’Origene predicatore rappresenti l’ “intero Origene”: sebbene egli, nei confronti della comunità, non ricalchi totalmente la prassi della sua scuola, risparmiandole così un’esposizione magistrale troppo dettagliata ed esigente, l’esperienza del maestro che spiega la Bibbia si proietta coerentemente in quella dell’omileta, senza compromettere comunque la pertinenza e l’efficacia della predicazione737 . –––––––––––––––––– 733 Si vedano, ad esempio, i rinvii a HLc contenuti rispettivamente in CIo XXXII, 2, 5 ([9-11] ejn tai'" eij" to; kata; Louka'n oJmilivai" sunekrivnamen ajllhvlai" ta;" parabolav", kai; ejzhthvsamen tiv me;n shmaivnei to; kata; ta;" qeiva" grafa;" a[riston, tiv de; parivsthsin to; kat∆ aujta;" dei'pnon) e in CMt XIII, 29 ([261, 16-24] ta; de; peri; tw'n eJkato;n probavtwn e[cei" eij" ta;" kata; Louka'n ÔOmiliva"). 734 Tra i vari rimandi, cfr. HLv XIII, 2 (469, 21-24): «Memini tamen dudum nos, cum centesimi octavi decimi psalmi exponeremus illum versiculum, in quo scriptum est: lucerna pedibus meis lex tua, Domine, et lumen semitis meis (Sal 118[119], 105), diversitatem lucernae et lucis pro viribus ostendisse»; HIos III, 4 (305, 5 ss.): «Scio me aliquando in quadam ecclesia disputantem de duabus meretricibus, de quibus scriptum est in tertio libro Regnorum, quae ad iudicium venerant Salomonis, quarum una vivum, alia mortuum habebat infantem, discussisse diligentius»; HIos XV, 6 (391, 15-18): «Memini autem similia me dixisse etiam in his locis, in quibus exponebamus versiculum psalmi, in quo scriptum est: in matutinis interficiebam omnes peccatores terrae, ut disperdam de civitate Domini omnes, qui operabantur iniquitatem (Sal 100[101], 8)». 735 In questo senso Nautin ha mostrato come i procedimenti grammaticali tipici del commentatore ricorrano anche in HIer (Origène. Homélies sur Jérémie, 132-136). Da parte mia ho cercato di provare come CC sia strutturalmente l’«apologia di un esegeta» (Perrone 2005a, in part. le pp. 119-129). 736 In particolare, cfr. Junod 1980; Junod 1993. 737 Markschies, 61-62: «Wirklich “für die Gemeinde im Grossen und Ganzen [...] nicht geeignet” wären die Homilien des Origenes gewesen, wenn man in ihnen – im Sinne Hansons – den “ganzen Origenes” hätte hören können. Da wären dann tatsächlich sozusa-
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La natura particolare delle omelie sembra consistere anche nel fatto che l’operazione esegetica tende in esse a collocarsi più immediatamente dentro un contesto orante. Ciò rafforza l’interesse peculiare dei sermoni origeniani per il nostro tema, benché il nesso fra esegesi e preghiera sia da assumere come una dimensione costitutiva per tutta l’impresa ermeneutica dell’Alessandrino, pur essendo declinata da lui con diversa incidenza a seconda delle opere (e senza fare eccezione, come vedremo fra breve, per le stesse omelie). Proprio la finalità dell’edificazione della comunità, assicurata dalla lettura spirituale della Bibbia, attira le diverse manifestazioni oranti che precedono, accompagnano e seguono l’atto esegetico del predicatore impegnato nel commento del relativo testo biblico. È anzitutto in questa luce che vanno comprese le indicazioni le quali tendono a giustificare il carattere, per così dire, limitato delle omelie, distinguendole a volte espressamente dai commentari. Nella X Omelia su Genesi troviamo, ad esempio, un inciso che accentua tale distinzione più di quanto avvenga in generale nella prassi omiletica: «adesso non è il tempo di fare un commentario ma di edificare la Chiesa di Dio e di scuotere gli ascoltatori più pigri e oziosi con esempi di santi e interpretazioni spirituali» 738 .
La distinzione fra «commentare» e «edificare» si riflette perlopiù nella dichiarazione di «brevità» voluta dell’esposizione, fra l’altro onde non affaticare troppo l’uditorio impegnandolo per un tempo ritenuto eccessivo739. Non di rado si tratta di una praeteritio che rassomiglia da vi––––––––––––––––––
gen wissenschaftliches Katheder und gottesdienstliche Kathedra verwechselt gewesen. Origenes legt zunächst auf die Gemeinde bezogen Texte aus, macht biblische Texte verständlich zur oijkodomhv der Gemeinde. [...] In diesem leidenschaftlichen Bemühen um die Auferbauung einer konkreten Ortsgemeinde durch eine gründliche Auslegung der Schrift ejp∆ eujsebeiva/ haben wir es eben doch zu tun mit “dem vollständigen, dem ganzen Origenes”». 738 HGn X, 5 (99, 6-8): «Neque enim commentandi nunc tempus est, sed aedificandi ecclesiam Dei et pigriores ac desides auditores exemplis sanctorum et mysticis explanationibus provocandi» (tr. Danieli, 278-279). Anche HNm XIV, 1 (120, 4-8) ribadisce lo stesso punto di vista: «quoniam est temporalis tractatus, qui in ecclesia aedificandi gratia habetur, non habuit tantum spatii ut possemus singula quaeque Scripturae verba proponere ita, ut nihil omnino indiscussum remaneret, et explanationem singulis adhibere, quoniamquidem huiusmodi stilus commentariorum magis est». Cfr. inoltre HLv VII , 1. Tuttavia, come Simonetti osserva a proposito di HGn X, 5, «la contrapposizione, che qui è teorizzata in termini forti, nella pratica lo è molto di meno, perché la componente didascalica nell’omelia origeniana appare prevalente» (Origene. Omelie sulla Genesi, 278, nota 49). 739 Richiamo alcuni luoghi a titolo illustrativo. Come mostra HEx II, 4 (159, 26-28), il predicatore non può eccedere un certo spazio di tempo: «Singula haec immensa repleta mysteriis tempus exigunt grande, et totius diei spatium si in his consumamus, vix fortasse sufficiat. Breviter tamen aliqua pro ecclesiae aedificatione pulsanda sunt». La stessa preoccupazione affiora in HReG (283, 20-21): tou;" dunamevnou" ejxetavzein dunavmena ajscolh'sai w{ra" ouj mia'" sunavxew" ajlla; kai; pleiovnwn. Cfr. anche la premessa all’interpretazio-
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cino, ed anzi spesso converge, con le professioni di «modestia zetetica» caratteristiche dell’impostazione esegetica di Origene, ma che non per questo lo costringono necessariamente al silenzio740 . Ciò tende ad assimilare in pratica il compito del predicatore e quello del didascalo alle prese con l’interpretazione della Bibbia più di quanto si sarebbe indotti a pensare alla luce dell’occasionale distinzione insinuata fra «omileta» e «maestro». Proprio la modestia zetetica introduce un orizzonte di comprensione all’interno del quale l’interprete si affaccia sul mistero della Parola ispirata, sotto l’urgenza della sua grandezza e con la consapevolezza della propria pochezza. Sotto questo profilo, sia per Origene predicatore sia per l’esegeta tout court si mette in moto una dinamica spirituale che è essenzialmente identica e che spesso attira una disposizione orante, nell’interprete come d’altra parte nel lettore e/o nella comunità in ascolto. Sono queste le occasioni in cui l’Alessandrino sembra voler riflettere sulla portata e sui limiti del suo ruolo di predicatore e interprete. Tra le confessioni più rivelatrici, abbiamo alcune dichiarazioni contenute nelle Omelie su Levitico: «Per me, oggi, benché sia peccatore, tuttavia, poiché mi è stata affidata la dispensazione della parola del Signore, ritengo di avere ricevuto in custodia le cose sante di Dio. E non è ora per la prima volta, ma già più volte e da gran tempo, che mi adopero in questa dispensazione presso di voi. [...] Nello spiegare mi accorgo che la grandezza dei misteri sorpassa le nostre forze. E anche se non siamo in grado di estenderci su tutto, ci accorgiamo bene che tutto è pieno di misteri. Perciò basti l’aver dato a tutti quelli che hanno zelo delle indicazioni, mossi dalle quali giungano a maggiore elevatezza e profondità» (HLv III, 7-8). «Anche noi, se avessimo una intelligenza tale da poter discernere con una interpretazione spirituale i singoli punti scritti nella Legge, e da portare alla luce di una scienza più acuta il mistero velato di ciascuna delle parole; se potessimo ammaestrare la Chiesa in modo che nulla delle cose lette restasse ambiguo, nulla perma––––––––––––––––––
ne delle tappe dell’esodo in HNm XXVII, 12 (272, 24-28): «Longum est, si velimus ire per singulas mansiones et ex unaquaque, si qua ex nominum contemplatione suggeruntur, aperire; strictim tamen et breviter percurremus, ut non tam plenam vobis expositionem, quia minime id tempus indulget, sed occasiones intelligentiae praebeamus»; e quella sul Cantico di Debora in HIud VI, 1 (498, 21-24): «quoniam per singula discutere cuncta temporis non est – brevitatem namque auditores ecclesiae diligunt – pauca tamen vel de principiis eius vel sparsim ex eo flosculos eligentes consolationis aliquid auditoribus afferre temptabimus». 740 Spesso dichiarazioni di modestia zetetica connotano significativamente l’esercizio della quaestio. In HNm XIII , 7 (116, 29-117, 4), ne abbiamo un esempio che tiene conto della particolare situazione omiletica: «Altior hic exoritur quaestio et nescio utrum conveniat rem tam profundi mysterii denudare et proferre ad turbas et eas turbas, quae ad auditorium verbi Dei non nisi paucis diebus adveniunt et continuo discedunt nec in meditatione verbi Dei diutius immorantur; tamen pro his, qui studiosi sunt et sitiunt audire possuntque capere spiritalem sensum, pauca aliqua dicemus ex multis».
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nesse oscuro, allora forse anche di noi si potrebbe dire che abbiamo toccato le carni sante del Verbo di Dio e siamo stati santificati» (HLv IV, 8)741 .
Si tratta inoltre di reazioni che accomunano la condizione dell’interprete-predicatore a quella della comunità e come tali ingaggiano l’uno e l’altra in un percorso di perfezionamento spirituale che deve sfociare in una partecipazione più profonda al senso del mistero racchiuso nelle Scritture742 . Il predicatore-maestro si trasforma così in discepolo, seguendo insieme alla comunità le tracce di chi come Paolo ha offerto il modello dell’interpretazione spirituale743 . In ultimo, mediante il proprio servizio alla comunità, come ci attesta un passo assai suggestivo della Omelia XX su Giosuè, il predicatore s’inserisce a pieno titolo nella trafila di coloro che «fanno parlare» la littera del testo sacro, dopo la rivelazione apportata da Cristo, a partire dagli apostoli fino ai maestri, i «dottori delle chiese»744. Sembra dunque lecito concludere queste osservazioni sul profilo delle fonti e le modalità della loro utilizzazione riconoscendo una relativa equiparazione fra di esse, che ne giustifica l’impiego unitario ai fini di una presentazione globale del pensiero di Origene sulla preghiera. Come abbiamo visto, questa giustificazione di metodo trova il fondamento principale nelle modalità costitutive della stessa operazione esegetica. A sua volta, quest’ultima illumina uno spazio di atteggiamenti e riflessioni che attirano una dimensione orante, pur con un’incidenza da valutare in maniera differenziata a seconda delle circostanze. Atto esegetico e atto orante sono insomma strettamente collegati fra loro, anche se il discorso di Origene sulla preghiera si alimenta in partenza nei testi biblici commentati, specie dove l’argomento è già posto a tema. Per tale ragione, le tappe –––––––––––––––––– 741 742
Tr. Danieli, 73, 75-76; 93-94. Come appare da HNm III, 1 (14, 15-17), anche il predicatore si pone, al pari della comunità, in ascolto della Parola e delle esigenze spirituali scaturenti da essa: «Haec ergo ad correptionem mei ipsius loquor, non solum auditorum. Unus enim et ego sum ex iis qui audiunt verbum Dei». 743 Cfr. HNm III, 1 (16, 31-17, 4): «Sed ego non audeo illuc solus adscendere, non audeo me in hos tam secretos mysteriorum recessus sine auctoritate magni alicuius doctoris immergere. Non possum illuc adscendere nisi praecedat me Paulus et ipse mihi viam novi huius et ardui itineris ostendat»; HIos VII, 3 (330, 13-16): «Volo ego ipse, qui doceo vos, vobiscum pariter discere, Paulum nobis communiter adhibeamus magistrum; ipse est enim symmystes Christi, qui nobis possit indicare, quomodo Christus vicerit mundum». 744 HIos XX, 5 (424, 10-19): «Igitur civitatem litterarum intellige omne Testamenti veteris instrumentum, id est et hanc ipsam, quam nunc disserere conamur scripturam, intelligamus esse civitatem litterarum, quae postmodum efficitur Dabir, quod est loquela. Haec etenim, quae prius in litteris erat et secundum litteram intelligebatur, modo in ecclesiis Christi, revelante Domino, loquela effecta est, loquentibus de ea et disserentibus primo sanctis Apostolis et removentibus superficiem litterae, proferentibus vero de ea spiritalem loquelam. Sed et singuli quique doctores ecclesiarum litteram legis loquelam et disputationem evangelicam faciunt». Su tutti questi aspetti della predicazione origeniana si veda l’approfondita analisi di Monaci Castagno.
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successive della mia esposizione affronteranno, in un primo momento, la mappa dei luoghi più significativi della riflessione origeniana e, in un secondo, cercheranno di tracciare il reticolo delle citazioni scritturistiche di cui essa si sostanzia. 3. La mappa dei luoghi sulla preghiera Sebbene il tema della preghiera compaia in una nutrita serie di passi sparsi in tutta l’opera di Origene, sono relativamente poche le trattazioni che potremmo designare come specifiche o caratterizzanti. Con ciò mi riferisco a quei luoghi che non si configurano principalmente come osservazioni occasionali, ancorché significative per un motivo o l’altro e pertanto meritevoli di attenzione, ma si presentano piuttosto come trattazioni tematiche di ampiezza più o meno grande, frutto di una riflessione di portata più generale sull’esperienza della preghiera. Per isolare questi testi è utile ripercorrere dapprima l’insieme degli scritti seguendo la cornice dei «generi letterari» (trattati, commentari e omelie), pur senza dimenticare la consapevolezza acquisita precedentemente al riguardo, in modo da rilevare a grandi linee la presenza del nostro tema all’interno delle singole opere. Nel rivisitare rapidamente questo insieme terrò presente, per quanto possibile, la successione cronologica. 3.1. I trattati Per comodità espositiva conviene rifarsi inizialmente ai «trattati», cioè a quel tipo di scritti che dal punto di vista della forma s’avvicina più direttamente al profilo letterario di Orat, se non altro perché il trattato sulla preghiera non è, almeno nel suo complesso, uno scritto esegetico vero e proprio. La definizione “in negativo” ci serve soprattutto per distinguere così alcuni scritti di Origene rispetto ai commentari e alle omelie, anche se in qualche caso – come preciserò di seguito – la nostra classificazione è più che problematica745 . 3.1.1. I Principi Cominciando dal Perì archôn, che Nautin ha definito con suggestiva approssimazione «opera di gioventù» – essendo stata scritta ancora ad –––––––––––––––––– 745 Ai testi da me esaminati si potrebbero aggiungere i due scritti sulla Pasqua, qualora si accolga la loro caratterizzazione come trattati (si veda l’esemplare discussione di Sgherri in Origene. Sulla Pasqua, 25-42), ma essi offrono comunque poca materia per il nostro argomento.
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Alessandria presumibilmente intorno al 229-230 –, dobbiamo constatare il fatto che la summa dogmatica di Origene non mette espressamente a tema la preghiera746. Non mancano singoli spunti di qualche interesse, dei quali conviene comunque tenere conto nella nostra rassegna: in particolare, oltre ad un sintetico cenno al significato del Padrenostro (Mt 6, 9) e ai richiami alla prassi orante di Gesù e dei suoi seguaci747, o ancora le tre dossologie (Prin III, 5, 8; IV, 1, 17; IV , 3, 14)748 , meritano attenzione gli occasionali pronunciamenti sulla necessità dell’illuminazione divina per poter affrontare adeguatamente singoli punti, che trovano riscontri – come vedremo in seguito – nell’«esegesi orante» dei commentari749 . Peraltro –––––––––––––––––– 746 Per l’ambientazione temporale di Prin e Orat, cfr. supra, pp. 18-19. Per Simonetti 2000, 371, Prin fu «composto ad Alessandria, in una data imprecisata, ma comunque anteriore alla definitiva partenza dell’Alessandrino per Cesarea nel 231». 747 Prin II, 4, 1 (127, 20-22): «Quod autem dicit quia orantes oporteat dicere: Pater noster, qui in caelis es (Mt 6, 9), quid aliud videtur ostendere, nisi deum in melioribus mundi, id est creaturae suae, partibus requirendum?». La preghiera di Gesù al Padre, in qualità d’intercessore, ritorna nella spiegazione del termine paracletus di 1Gv 2, 1-2 in Prin II, 7, 4 (152, 4-5): «deprecari enim patrem pro peccatis nostris dicitur». Si veda inoltre Prin III, 6, 1 (280, 22-24), dove la preghiera di Gv 17 è vista come intercessione perché gli uomini attuino la somiglianza con Dio: «Ipse quoque Dominus in evangelio haec eadem non solum futura, verum etiam sui intercessione futura designat» (cfr. anche infra, nota 1522). A sua volta Prin II, 4, 2 (128, 18-22) accenna alla prassi di preghiera della comunità primitiva: «Contingemus tamen breviter etiam de Actibus apostolorum, ubi Stephanus et apostoli preces suas dirigunt ad eum deum, “qui fecit caelum et terram” et “qui locutus est per os sanctorum prophetarum” suorum, ipsum dicentes “deum Abraham, Isaac et Iacob”, deum “qui duxit” populum suum “de terra Aegypti”». Cfr. inoltre Prin II, 5, 4 (nota 1528). 748 Il rilievo di tali dossologie per la struttura di Prin (in particolare, Prin III, 5, 8) è controverso tra gli studiosi. Si veda da ultimo la critica di Dorival 2001 all’edizione catalana di Prin ad opera di J. Rius-Camps (1998): a suo avviso, analogamente a quanto avviene in 1Clem, «ces doxologies ne servent pas à indiquer la fin d’un développement, mais veulent proclamer la gloire de Dieu» (p. 360). Di particolare interesse – come vedremo più avanti (nota 1415) – è Prin IV, 1, 7 (304, 9): l’espressione tw/' ejpavranti tou;" ojfqalmouv" , alla luce di quel che segue fino alla fine del paragrafo, allude al trapasso del discorso ad una vera e propria formulazione orante, conclusa non a caso dalla dossologia. 749 Cfr. Prin I, 8, 1 (94, 18-19), dove l’arcangelo Michele è detto «mortalium preces supplicationesque curare», senza che vi si faccia menzione dell’analogo ruolo di Raffaele (cfr. supra, p. 185), cui viene invece assegnato «curandi et medendi opus», mentre a Gabriele spetta la «bellorum providentia»; oppure Prin II, 9, 4, un passo che contiene un’impetrazione per l’intelligenza spirituale citato supra alla nota 519. Il nesso fra preghiera e intelligenza spirituale è indicato dal trattatello de anima in Prin II , 8, 2 (154, 30-155, 6): «hac fortasse de causa evidentius nos Paulus docere volens, quid sit per quod “ea quae sunt spiritus”, id est spiritalia, intellegere possimus, mentem magis quam animam spiritui sancto coniungit et sociat. Haec enim eum puto ostendere cum dicit: Orabo spiritu, orabo et mente; psalmum dicam spiritu, psalmum dicam et mente (1Cor 14, 15). Et non dicit quia “anima orabo”, sed “spiritu et mente”; et non dicit: “anima psallam”, sed “spiritu psallam et mente”». Per gli spunti prossimi all’ “esegesi orante” nei commenti si veda, ad esempio, Prin I, 5, 4 (73, 12-13): «tum deinde etiam de ceteris investigabimus, secundum
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sappiamo già della contiguità di pensiero fra Prin e Orat, relativamente alla questione cruciale del libero arbitrio, ma senza che lo scritto dogmatico istituisca un nesso esplicito con il «problema della preghiera»750. In sintesi, l’apporto di Prin al discorso eucologico di Origene appare abbastanza ridotto, se non pressoché inesistente, molto probabilmente perché l’impostazione dello scritto alessandrino rimane ancora troppo debitrice del modello filosofico dei trattati di fisica e dà quindi poco spazio all’approfondimento dell’esperienza di vita cristiana o alla realtà ecclesiale751 . 3.1.2. Esortazione al martirio Ben maggiore è il rilievo del nostro tema nell’Esortazione al martirio, scritta – come già sappiamo – nel 235, in concomitanza con la persecuzione di Massimino il Trace752 . La prossimità con Orat non è solo di carattere temporale, ma è – per così dire – nell’ordine delle cose, dal momento che EM concerne la manifestazione più alta della fedeltà alla vita cristiana. In questo modo la prospettiva del martirio s’interseca e s’affianca all’ideale di perfezione spirituale proposto nel trattato sulla preghiera 753 . Di tale convergenza abbiamo un indizio eloquente in EM 18, dove Origene riprendendo 1Cor 4, 9 («siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini») introduce nuovamente l’immagine del theatrum mundi, dinanzi al quale si svolge adesso l’agone dei martiri754: è l’analogia più ravvicinata con l’esperienza di preghiera quale ci viene presentata da Orat, poiché troviamo qui una corrispondenza strutturale fra la testimonianza del martire e l’atto orante indotta in ambedue i casi da un protagonismo spirituale e da uno scenario cosmico equivalenti755 . Non mancano d’altronde punti di contatto anche per l’elaborazione scritturistica del tema della preghiera, in special modo per il ricorso dei paradigmi veterotestamentari di oranti, quantunque l’utilizzo dei materiali biblici lasci in––––––––––––––––––
quod dominus nos fuerit inluminare dignatus»; II, 2, 2 (113, 9-10): «“sancto spiritu demonstrante” (cfr. Eb 9, 8) his, qui digni sunt». 750 Si veda supra, il cap. 4. 751 «Der zweite Teil von PA behandelt mögliche und faktische Mißverständnisse der kirchlichen Bekenntnissätze, bleibt aber ganz im Problemkreis des klassischen Traktates der “Physik”. Es ist interessant, daß Origenes dort nichts über Sakramente, über Kirche, Gebet, etc. sagt» (Lies, 10). 752 Cfr. supra, p. 20. 753 In precedenza ho rilevato affinità tematiche e accenti diversi fra i due scritti, anche quando utilizzano materiali comuni (pp. 20, 54, 65, 73-74, 145). 754 EM 18 (17, 3-6): o{lo" ou\n oJ kovsmo" kai; pavnte" oiJ a[ggeloi dexioi; kai; ajristeroi; kai; pavnte" a[nqrwpoi, oi{ te ajpo; th'" tou' qeou' merivdo" kai; oiJ ajpo; tw'n loipw'n, ajkouvsontai hJmw'n ajgwnizomevnwn to;n peri; cristianismou' ajgw'na. Sull’uso della metafora agonistica si veda Lugaresi 2003b, 665-669. 755 Cfr. Orat XX, 2; XXVIII, 3.
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travedere sviluppi nuovi, che saranno più ampiamente sfruttati nel discorso e nella prassi di preghiera successivamente ad Origene. Dei «paradigmi di salvezza» rappresentati dalle preghiere esaudite di oranti dell’Antico Testamento EM richiama i Tre Giovani nella fornace – Anania, Azaria e Misaele –, Mardocheo e Daniele, insistendo però sull’appropriazione in senso personale e spirituale della condotta e dei benefici goduti dagli oranti più che sull’atto in sé di pregare756. Ma EM considera ancora l’esemplarità della preghiera di Paolo e soprattutto di quella di Gesù 757 . In particolare, Origene si sofferma sull’orazione al Getsemani, una scena evangelica che egli non aveva preso in considerazione nel trattato sulla preghiera e che approfondirà in maniera ben più estesa e in parte diversa, sul finire della vita, sia nel Commento a Matteo sia nel Contro Celso. Come in questi scritti tardi, la spiegazione trae le mosse dal problema posto da Mt 26, 39a («Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice»), che nell’ottica di un protrettico al martirio viene ad essere formulato così: «se Gesù ha avuto paura [...] chi è capace di essere forte per sempre?»758 . Senza lasciarsi condizionare in chiave apologetica (come avverrà soprattutto in CC), Origene si sforza di riconoscere pieno valore al modello di Gesù come martire proprio grazie all’esemplificazione della sua prassi di preghiera. Egli risponde all’interrogativo domandandosi se Gesù con il supplicare il Padre nell’orto degli ulivi non sia stato all’altezza di colui che prega in Sal 26(27), 1-3, rivolgendosi a Dio con parole piene di fiducia: «Il Signore è mia luce e mio salvatore, chi temerò? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò timore?...». Ma per l’Alessandrino l’orante del salmo non è altri che il Cristo stesso, come egli spiega di seguito parafrasandone il contenuto759 . Poi l’attenzione di Origene si –––––––––––––––––– 756 EM 33 (28, 19-22. 24-25): ajll∆ hJmei'" i{na drovsou oujranivou peiraqw'men sbennuouvsh" pa'n pu'r ajf∆ hJmw'n kai; katayucouvsh" hJmw'n to; hJgemonikovn, tou;" iJerou;" ejkeivnou" mimhswvmeqa, mhv pote kai; nu'n oJ ∆Ama;n qevlh/ tou;" Mardocaivou" uJma'" proskunh'sai aujtw/' [...] kai; to;n dravkonta meta; tou' Danih;l ajpokteivnwmen. Su queste figure di oranti si veda supra, pp. 143 ss. 757 Così EM 3 inculca la disposizione eroica dell’anima a disfarsi del corpo, interpretando Rm 7, 24-25 («Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?») come preghiera di domanda che, essendo esaudita, è subito seguita dal ringraziamento (cfr. supra, nota 40). Si veda anche il richiamo alla preghiera ejn pneuvmati di Ef 6, 18 (EM 38). Diversa è l’interpretazione che Origene dà di Rm 7, 24-25 in CRm VI, 9 (515, 177-516, 183), dove distingue il provswpon levgon fra colui che ha «accolto l’inizio della conversione» (v. 24) e l’autorità apostolica (v. 25). In HIs IV, 3 Rm 7, 24 è sfruttato come invito alla confessione delle colpe. 758 EM 29 (25, 6): ejkeivnou de; deiliavsanto", ei[poi ti" a[n, o{ti tiv" gennai'o" eij" ajeiv… (tr. Noce, 130). 759 EM 29 (25, 13-16): tavca de; oujde; a[llou tinov" ejsti tau'ta ejn tw/' profhvth/ legovmena ta; rJhvmata h] tou' swth'ro" dia; to;n ajpo; tou' patro;" fwtismo;n kai; th;n ajp∆ aujtou' swthrivan oujdevna fobouvmenon. Anche Prin III, 2, 5 (253, 21 ss.) assegna implicitamente le parole del salmo a Cristo: «sed cum senserit praesentem in se dominum et inhabitantem,
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volge al dimostrativo «questo», riferito al «calice» come simbolo della morte dei martiri e attestato in tutti e tre i Sinottici (cfr. Lc 22, 42; Mc 14, 36), per chiarire come Gesù «abbia rifiutato, del martirio, questa specie di morte e ne abbia implorato, forse in silenzio, una più dolorosa, per così procurare per mezzo di quest’altro calice, un beneficio più universale ed esteso a un numero più grande di uomini»760 . Torneremo più avanti sull’interpretazione della scena del Getsemani, nel contesto delle altre spiegazioni, ma qui mi preme osservare come EM sfrutti ampiamente il ricorso ai Salmi, proponendoli come forma di preghiera da compiersi secondo «la mente di Cristo»761. Guardando con più precisione all’uso suggerito da Origene, si deve riconoscere che egli anticipa la pratica antirretica teorizzata nel IV secolo da Evagrio Pontico. Non solo il Sal 41(42) istituisce, nella lettura dell’Alessandrino, un dialogo fra l’«anima» (yuchv) e l’«intelletto» (nou'") – termine adoperato anche per indicare lo pneuma dell’uomo nella visione tricotomica dell’antropologia origeniana – abbastanza simile all’impiego evagriano dello stesso salmo che prefigura una partizione terapeutica fra l’anima turbata da consolare e l’anima consolatrice762. Oltre a ciò, sfruttando ancora i salmi ma pure altri luoghi biblici, Origene introduce di fatto il metodo dell’«antirresi», poiché a più riprese offre l’arma della Scrittura come risposta di preghiera al momento della prova. In EM 8 l’Alessandrino raccomanda ai candidati al martirio di replicare così ai «profeti di iniquità»: «Ma noi, quando il peccatore si ergerà contro di noi (Sal 38[39], 2), diremo: Io come un sordo non ascoltavo, come un muto che non apre la propria bocca; sono diventato come un uomo che non ode (Sal 37[38], 14-15)»763 . Come appare ––––––––––––––––––
confidentia divini adiutorii dicet: Dominus inluminatio mea et salvator meus, quem timebo?... (Sal 26[27], 1-3)». Cfr. anche infra, nota 954. 760 EM 29 (tr. Noce, 131). Per altre spiegazioni dell’episodio evangelico si veda CIo XIII, 38, 249; CIo XXXII, 23, 295; CMt XVI, 6; CMtS 89-95; H37Ps I, 2; CC II, 24-25. Niculescu, in part. pp. 11-16, sottolinea la distinzione origeniana fra bouvlhma del Figlio e qevlhma del Padre (EM 29 [26, 10-13]: o{per oujdevpw h\n qevlhma tou' patro;" genevsqai, sofwvteron para; to; bouvlhma tou' uiJou' kai; par∆ o} eJwvra oJ swth;r oJdw'/ kai; tavxei oijkonomou'nto" ta; pravgmata (cfr. anche EM 39 [infra, nota 775]). 761 È in questo spirito che Origene introduce la parafrasi di Sal 41(42), 2-7 in EM 4 (5, 17-20): eij de; kaiv pote aijsqavnoisqe sustolh'" peri; th;n yuch;n uJmw'n, eijpavtw aujth'/ oJ ejn hJmi'n Cristou' nou'" qelouvsh/ to; o{son ejf∆ eJauth'/ kai; aujto;n sugcei'n: i{na tiv perivlupo" ei\ yuchv… kai; i{na tiv suntaravssei" me… e[lpison ejpi; to;n qeo;n, o{ti ejxomologhvsomai aujtw/'. 762 Evagrio, Pratico, 27: «Qualora noi si cada sul demone dell’accidia, allora, divisa l’anima in lacrime, facciamo che l’una [parte] consoli, l’altra sia consolata (th;n yuch;n meta; dakruvwn merivsante" th;n me;n parakalou'san th;n de; parakaloumevnhn poihvswmen), seminando in noi stessi buone speranze (cfr. 2Ts 2, 16...) e incantandoci con il [canto] del beato David: Perché sei triste anima mia, e perché mi conturbi? Spera in Dio, perché lo confesserò: salvezza del mio volto e mio Dio (Sal 41, 6)» (tr. Bettiolo, 199). 763 EM 8 (tr. Noce, 110). Sulla genesi del metodo antirretico e il suo utilizzo nel primo monachesimo e in Evagrio si veda Bernardini.
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anche da altri passi, si tratta di un vero e proprio «esercizio spirituale» che istruisce e sostiene colui che è impegnato nella lotta per la testimonianza facendo memoria di testi della Scrittura764 . In questa situazione agonica il Salterio si presta particolarmente ad essere fruito come libro di preghiera. Lo vediamo dalla bella esemplificazione di EM 19-20, dove Origene riprende “antirreticamente”, con intento protrettico e parenetico, un’ampia porzione di Sal 43(44): «È probabile che saremo insultati dai vicini e scherniti da coloro che ci circondano e che scuotono il capo nei nostri riguardi, come a dei pazzi (Sal 43[44], 14-15; 21 [22], 8). Qualora accada questo diciamo al Signore (levgwmen pro;" qeovn): “Ci hai reso ludibrio per i nostri vicini; scherno e riso per quelli che ci circondano. Ci hai reso una favola tra le genti; scuotimento di capo tra i popoli. Tutto il giorno la mia ignominia mi è presente ed il rossore della mia faccia mi ricopre, per la voce di chi insulta ed oltraggia, per la presenza del nemico e del persecutore” (Sal 43[44], 14-17). Beato chi, in tutti questi avvenimenti, rivolge liberamente a Dio, applicandola a questa situazione, la parola del profeta (th;n ajpo; parjrJhsiva" tou' profhvtou ejpiferomevnhn aujtoi'" fwnh;n eijpei'n tw'/ qew'/) : “Tutto questo ci è venuto addosso, eppure non ti abbiamo dimenticato, né abbiamo violato la tua alleanza, né il nostro cuore si è voltato indietro” (Sal 43[44], 18-19)». «Ricordiamoci (Mnhmoneuvwmen), mentre siamo in questa vita e riflettiamo sulle strade che sono fuori della vita, di dire a Dio (tw'/ qew'/ famen tov): “Hai deviato i nostri passi dalla tua via (Sal 43[44], 19)”. Ora è il momento di rammentarci (ajnamimnhvskesqai) che questa terra, nella quale siamo umiliati, è luogo di afflizione per l’anima affinché possiamo dire nella preghiera (i{na eujcovmenoi levgwmen tov): “Ci hai umiliati in un luogo di afflizione, e ci ha avvolto un’ombra di morte” (Sal 43[44], 20). Con coraggio diciamo anche questo: “Se abbiamo dimenticato il nome del nostro Dio, e se abbiamo teso le nostre mani verso un dio straniero, forse Dio non ne chiederà conto? (Sal 43[44], 21-22)”»765 .
La lectio divina condotta in un atteggiamento di preghiera (intendendo così l’«antirresi» scritturistica dell’Alessandrino in tutta la sua portata spirituale) non si limita al Salterio, poiché per Origene è applicabile ugualmente all’Antico e al Nuovo Testamento. Forse più di altri suoi scritti, EM ci testimonia dunque in Origene l’esperienza del pregare con la Scrittura, soprattutto nel momento della difficoltà e della lotta, privilegiando in via –––––––––––––––––– 764 Il vocabolario della memoria è particolarmente nutrito (cfr. EM 2 [3, 16]: uJpomimnhskwvmeqa; 4 [5, 12-13]: memnhmevnou", [6, 1-2] memnh'sqai; 7 [8, 15.21]: mnhmoneutevon [2 volte]; 20 [18, 26]: mnhmoneuvwmen, [19, 2] ajnamimnhvskesqai; 30 [26, 20]: uJpomnhsqw'men; 31 [27, 25]: mevmnhsqe; 35 [32, 13]: uJpomimnhskevsqw; 37 [35, 11]: mevmnhso; 38 [35, 26]: uJpomimnhvskou; 39 [37, 9]: uJpomnhsqw'men). La sua frequenza, proporzionalmente più rilevante che in Orat (si veda supra, note 493-494), tradisce forti affinità con la prassi degli esercizi spirituali. 765 EM 19-20 (18, 13-19, 8 [tr. Noce, 122]).
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quasi esclusiva l’aspetto psicologico-morale dell’applicazione ad hominem rispetto allo stesso approccio esegetico766. In tale cornice non sorprende il fatto che EM contenga numerose tracce dell’esperienza di preghiera, in positivo ma anche in negativo: preghiere effettive o virtuali, preghiere messe in atto dai martiri a beneficio dei fedeli, preghiere attese dai destinatari oppure espresse dallo stesso Origene. In negativo, si può ricordare la messa in guardia di EM 7 contro la preghiera diretta agli astri, ed in particolare al sole, che lascia trasparire la polemica cristiana contro il culto eliolatrico: non si devono adorare le creature, bensì Dio solo, ed indirizzarsi a Lui «che elargisce il necessario e previene la preghiera di tutti», senza bisogno di creature che fungano da intermediari767 . In positivo, acquista particolare rilievo l’intercessione dei –––––––––––––––––– 766 La meditazione su Sal 43(44) prosegue in EM 21 (19, 9-21), che riprende di seguito Sal 43(44), 22 e 23, ma vi unisce con le stesse modalità un passo paolino ed uno tratto dai Proverbi: «Combattiamo non solo per conseguire in modo perfetto il martirio pubblico ma anche quello segreto. Così anche noi come l’apostolo potremo esclamare (i{na kai; aujtoi; ajpostolikw'" ajnafqegxwvmeqa tov ): Questo, infatti, è il nostro vanto: la testimonianza della nostra coscienza, poiché ci siamo comportati nel mondo con la santità e la sincerità di Dio (2Cor 1, 12). Alla parola dell’apostolo aggiungiamo quella del profeta (sunavptwmen de; tw'/ ajpostolikw'/ to; profhtiko;n tov ): Egli stesso conosce i segreti del cuore (Sal 43[44], 22) nostro. Soprattutto se siamo condotti a morte, allora diremo ciò che viene ripetuto a Dio dai soli martiri (tovte [Wet.; o{te Koetschau] fhvsomen to; uJpo; movnwn martuvrwn legovmenon tw'/ qew'/ tov): Per te siamo messi a morte tutto il giorno, siamo stati stimati come pecore da macello (Sal 43[44], 23). Se mai la sapienza della carne (cfr. Rm 8, 6-7) ci insinua la paura dei giudici che ci minacciano la morte, allora ripeteremo loro ciò che è detto dai Proverbi: Figlio, onora il Signore e sarai forte; al di fuori di lui, non temere nessun altro (Pr 7, 1a LXX )» (tr. Noce, 123). Si veda inoltre EM 23 (21, 22-25), che ripercorre 2Mac 7, 1-6 fino a concludere con l’esortazione: «È opportuno che anche noi, trovandoci in tali situazioni, ripetiamo a noi stessi le parole che si dicevano a vicenda e che così suonano (eu[kairon d∆ a]n ei[h kai; hJma'" ejn toiouvtoi" genomevnou" eijpei'n tou;" ejkeivnwn lovgou" pro;" eJautouv"): Il Signore Dio vede dall’alto e si consola in noi delle verità (2Mac 7, 6)» (ibi, 126). Altri detti scritturistici che occorre fare propri nell’imminenza del martirio figurano in EM 35 (32, 6-7): Tiv" d∆ a]n logisavmeno" ta; toiau'ta oujk ejpifqevgxetai to; ajpostoliko;n ejkei'no [= Rm 8, 18: «Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che si dovrà rivelare in noi»]); 38 (36, 8-9): ajna; stovma nu'n e[ce to;... kai; tov [= Mt 10, 37: «Chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me»; Mt 10, 39: «Chi ha trovato la sua anima la perderà, e chi ha perduto la propria anima per causa mia, la troverà»]); 39 (tovte ajnalavbete tov... [= Gv 15, 19: «Per questo il mondo vi odia, perché non siete di questo mondo. Se infatti foste di questo mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo»]). I lemmi introduttivi alle citazioni scritturistiche, pur senza essere esclusivi di questo scritto, tendono a confermare l’impressione del “prontuario” antirretico, come esemplificato dall’omonima opera di Evagrio (cfr. Evagrio Pontico. Contro i pensieri malvagi. Antirrhetikos). Per altri esempi del metodo antirretico si veda HEx I , 5 (nota 1231). 767 EM 7 (8, 24-9, 3): ajll∆ eijko;" o{ti qelhvsei hJma'" katasofivsasqai di∆ w|n a]n duvnhtai oJ ejcqro;" pro;" to; proskunh'sai tw'/ hJlivw/ h] th'/ selhvnh/ h] panti; tw'/ kovsmw/ tw'n ejk tou' oujranou' (Dt 17, 3). ajll∆ hJmei'" ejrou'men o{ti oJ tou' qeou' lovgo" tau'ta ouj prosevtaxen (cfr. Dt 18, 20). oujdamw'" ga;r proskunhtevon ta; ktivsmata parovnto" tou' ktivsanto" (cfr.
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martiri (EM 30), i quali assistendo alla liturgia celeste si fanno tramiti delle preghiere dei fedeli ancora impegnati nell’agone terreno. Essi, in forza del sacrificio della loro vita ad immagine del sacrificio di Cristo sommo sacerdote, diventano ministri della remissione dei peccati concessa da Dio: «Infatti come quelli che, secondo la legge di Mosè, prestavano servizio all’altare sembravano procurare la remissione dei peccati per mezzo del sangue di tori e di capri (Eb 9, 13; 10, 4; cfr. Is 1, 11; Lv 16, 3), così le anime di coloro che sono stati decapitati (Ap 20, 4) per la testimonianza di Gesù (cfr. Ap 6, 9), non prestano invano servizio all’altare (cfr. 1Cor 9, 13) del cielo, ma procurano a coloro che pregano la remissione dei peccati. Sappiamo anche che come il sommo sacerdote, Gesù il Cristo, ha offerto se stesso in sacrificio, così i sacerdoti, dei quali egli è il sommo sacerdote, offrono se stessi in sacrificio (cfr. Eb 5, 1; 8, 3; 10, 12); per questo si vedono presso l’altare (cfr. Ap 6, 9), come nel luogo loro proprio»768 .
Se EM presenta espressamente il martirio come l’offerta più grande che il santo possa fare a Dio (ridimensionando così, in parte, il rilievo della preghiera quale sostituto del sacrificio)769, colui che segue l’esempio dei martiri, partecipa della stessa «libertà di parola» e può dunque intercedere efficamente per moglie, figli, fratelli e sorelle (EM 37-38). Ambro––––––––––––––––––
Rm 1, 25) kai; diarkou'nto" kai; fqavnonto" pro;" th;n pavntwn eujchvn (tr. Noce, 109-110). Di seguito Origene, adottando come in Orat la tecnica della prosopopea (cfr. Orat XV, 4 e supra, pp. 139-140), fa parlare il sole come essere «creato»: «Anch’io sono stato creato: perché vuoi adorare colui che adora (genhtov" eijmi kajgwv: tiv bouvlei proskunei'n to;n proskunou'nta…)? Anch’io, infatti, adoro e servo Dio, il Padre» (9, 9-10 [tr. Noce, 110]). 768 EM 30 (27, 1-9): wJ" ga;r oiJ tw'/ kata; to;n Mwu>sevw" novmon qusiasthrivw/ prosedreuvonte" diakonei'n ejdovkoun di∆ ai{mato" travgwn kai; tauvrwn a[fesin aJmarthmavtwn ejkeivnoi", ou{tw" aiJ yucai; tw'n pepelekismevnwn e{neken th'" marturiva" ∆Ihsou', mh; mavthn tw'/ ejn oujranoi'" qusiasthrivw/ paredreuvousai, diakonou'si toi'" eujcomevnoi" a[fesin aJmarthmavtwn. a{ma de; kai; ginwvskomen o{ti, w{sper oJ ajrciereu;" qusivan eJauto;n proshvnegken ∆Ihsou'" oJ Cristo;", ou{tw" oiJ iJerei'", w|n ejstin ajrciereu;", qusivan eJautou;" prosfevrousi: di∆ h}n wJ" para; oijkeivw/ tovpw/ oJrw'ntai tw'/ qusiasthrivw/ (tr. Noce, 132-133). Nel commento ad loc. Noce osserva: «due gli aspetti messi in evidenza: la forza espiatrice del martirio in sé, in quanto sacrificio cruento “per i peccati del popolo”, funzione illustrata con l’immagine dei martiri che presso l’altare celeste pregano per il popolo. In quanto sacrificio il martirio consegue la remissione dei peccati per il confessore e per coloro “per i quali prega”» (p. 175, nota 62; cfr. anche HNm X, 2 e Rordorf, 402, per il quale «tous les aspects de la “diaconie” des martyrs dont Origène fait état sont issus de la tradition judéochrétienne»). 769 Cfr. EM 28 (24, 8-13), dove la morte del martire è vista come il «calice della salvezza» di Sal 115, 3-4 (116, 13): «Il santo, che è un uomo d’onore e desidera ricambiare i benefici dei quali Dio lo ha colmato, cerca cosa potrebbe fare per il Signore “per tutto ciò” che da lui ha ricevuto e scopre che da un uomo di buona volontà nient’altro può essere reso a Dio, come equivalente ai benefici ricevuti (oujde;n a[llo euJrivskei oiJonei; ijsovrJrJon tai'" eujergesivai" dunavmenon ajpo; ajnqrwvpou eujproairevtou ajpodoqh'nai qew'/), che la morte nel martirio» (tr. Noce, 129). Si veda anche CRm II, 14 (nota 1).
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gio, costantemente sollecitato dall’amico ad abbracciare fino in fondo la strada del martirio e ad offrire in tal modo alla sua famiglia l’esempio di una condotta evangelica, potrà allora fare propria la preghiera «nello spirito» (cfr. Ef 6, 18) di Sal 78(79), 11: «Salva i figli dei condannati a morte», amando «con maggiore cognizione» e pregando per loro Dio «con più intelletto»770. Origene stesso vorrebbe poter condividere la sorte del suo patrono, lasciando dietro di sé – come peraltro solo Ambrogio è in grado di fare – tutti i beni in suo possesso e arrivando ad abbandonare insieme ai poderi e alle case anche moglie e figli in fedeltà radicale all’appello del Vangelo e alla sua promessa di ricompensa (cfr. Mt 19, 27-29)771. Questo auspicio di Origene è una preghiera che sottolinea lo svantaggio della sua condizione, sfruttando protretticamente anche tale motivo per poter meglio convincere l’amico. Al di là del paradosso, il desiderio manifestato dall’Alessandrino ci fa vedere per la prima volta una preghiera formulata da Origene in prima persona, secondo un modulo espressivo che – come osserveremo in seguito – è attestato specialmente nelle omelie: «Per questo, se fossi martire, vorrei lasciare figli, con campi e case, affinché presso Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale prende nome ogni paternità nei cieli e sulla terra (Ef 3, 15), sia chiamato padre di figli, molto più numerosi e più santi, o per dirla più precisamente, centuplicati»772 .
Riflette ancora da vicino l’esperienza orante di Origene l’auspiciopreghiera di EM 22 rivolto ad ambedue i destinatari, perché Ambrogio e Protocteto si immedesimino con l’atteggiamento di Eleazaro, il quale mentre subiva la tortura prima di morire si affidava fiducioso alla visita di Dio nella sua anima (2Mac 6, 30-31) 773 . –––––––––––––––––– 770 EM 38 (36, 5-7): tovte ga;r kai; ejpisthmonikwvteron aujta; ajgaphvsei" kai; sunetwvteron peri; aujtw'n eu[xh/, eja;n mavqh/" o{ti tevkna sou ejsti; kai; ouj spevrma movnon (tr. Noce, 129). 771 EM 14 (14, 16-21): «A motivo di queste parole, io bramerei (hujxavmhn) possedere sulla terra tanti beni quanti ne hai tu o anche di maggiori e così essere martire per Dio in Cristo, affinché possa ricevere molto di più (Mt 19, 29) o, come dice Marco, il centuplo (Mc 10, 30), il che è di molto superiore alle poche cose che lasceremo, se siamo chiamati al martirio, poiché è centuplicato» (tr. Noce, 117). 772 EM 14 (14, 22-26): touvtou de; e{neken eij marturw', ejboulovmhn kai; tevkna katalipei'n meta; ajgrw'n kai; oijkiw'n, i{na kai; para; tw'/ qew'/ kai; patri; tou' kurivou hJmw'n ∆Ihsou' Cristou', ejx ou| pa'ça patria; ejn oujranoi'" kai; ejpi; gh'" ojnomavzetai, pollaplasiovnwn kai; aJgiwtevrwn tevknwn crhmativsw path;r h], i{n∆ wJrismevnw" ei[pw, eJkatontaplasiovnwn (tr. Noce, 117). 773 EM 22 (20, 13-19): «Supplico (eu[comai) voi che state alle porte della morte o, meglio, della libertà, soprattutto se sarete sottoposti alla tortura (non si può infatti perdere la speranza che voi non soffriate per volontà delle potenze nemiche) di ripetere questo: Al Signore, cui appartiene la santa scienza, è manifesto che potendo sfuggire alla morte, soffro nel corpo atroci tormenti mentre sono flagellato, e che nell’anima sopporto tutto que-
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È proprio questa unione intima con Dio la condizione come anche la mèta finale del passaggio tribolato del martirio. Se Origene la lascia intravedere con accenti toccanti ex parte hominis, allorché rievoca il martirio della madre dei sette fratelli Maccabei, vittoriosa sul tormentoso «fuoco dell’amore materno» con «la rugiada della pietà e lo spirito della santità»774, egli la precisa da ultimo ex parte Dei in chiave trinitaria come oggetto della preghiera di Gesù per i «suoi» in Gv 17: «divenite degni di essere una cosa sola con il Figlio, il Padre e lo Spirito santo, conformemente alla preghiera del Salvatore che dice: “Come io e tu siamo una cosa sola che anch’essi siano una cosa sola in noi (Gv 17, 21)”»775 . 3.1.3. Dialogo con Eraclide Il Dialogo con Eraclide (riconducibile, secondo la cronologia di Nautin, agli anni fra il 239 e il 244, secondo altri al periodo fra il 244 e il 249) non è un trattato in senso stretto, bensì la trascrizione di una disputa dottrinale condotta con un vescovo della provincia di Arabia dalle idee controverse, ma anche con altri interlocutori, nel corso di una riunione a ––––––––––––––––––
sto volentieri per il suo timore (2Mac 6, 30)» (tr. Noce, 124). Un altro auspicio-preghiera figura nell’epilogo (EM 51 [47, 7-16]), dove incontriamo l’uso caratteristico di ei[qe (cfr. ad esempio le note 162, 1005, 1258, 1260): Tau'tav moi kata; to; dunato;n, wJ" oi|ovn te h\n, pro;" uJma'" uJphgovreutai, a{per eu[comai uJmi'n genevsqai pro;" to;n parovnta ajgw'na crhvsima. eij d∆ uJmei'" mavlista nu'n wJ" a[xioi pleivona blevpein tw'n tou' qeou' musthrivwn meivzona kai; plousiwvtera katalambavnonte" kai; pro;" to; prokeivmenon ajnusimwvtera touvtwn wJ" paidikw'n kai; eujtelw'n katafronhvsete, kajgw; a]n to; toiou'ton peri; uJmw'n eujxaivmhn. provkeitai ga;r uJmi'n ouj to; di∆ hJmw'n ajnusqh'nai ta; kaq∆ uJma'" ajlla; to; o{pw" pote; ajnusqh'nai. kai; ei[qe ge ajnusqeivh dia; qeiotevrwn kai; sunetwtevrwn kai; uJperecovntwn pa'san ajnqrwpivnhn fuvsin lovgwn kai; sofiva". 774 EM 27 (23, 20-24, 6): «Si poteva allora vedere la madre di tali figli sopportare coraggiosamente, per la speranza che riponeva in Dio, i tormenti e la morte dei figli. Infatti la rugiada della pietà e lo spirito della santità non permettevano che si accendesse nelle sue viscere il fuoco dell’amore materno che infiamma molte madri come fuoco tra i più dolorosi. Penso che questi fatti, che ho desunto compendiandoli dalla sacra Scrittura, siano molto utili al presente scopo, perché ci rendiamo conto quanto può la pietà e l’amore di Dio, che è molto più forte di ogni altro affetto (eujsevbeia kai; to; pro;" qeo;n fivltron panto;" fivltrou kaq∆ uJperbolh;n plei'on dunavmenon), contro i supplizi più crudeli e i tormenti più atroci. La debolezza umana infatti non può coesistere con questo amore di Dio (touvtw/ de; tw'/ pro;" qeo;n fivltrw/ ajnqrwpivnh ajsqevneia ouj sumpoliteuvetai), ma è scacciata totalmente dall’anima ed è impotente ad agire, dove c’è chi può dire: Il Signore è mia forza e mia lode (Sal 117[118], 14), e Tutto posso in colui che mi dà forza, Gesù Cristo, nostro Signore (Fil 4, 13; 1Tm 1, 12)» (tr. Noce, 128-129). 775 EM 39 (37, 2-5): mh; ou\n ajgapa'te ta; paragovmena, ajlla; poiou'nte" to; qevlhma tou' qeou' a[xioi givnesqe tou' e}n genevsqai a{ma uiJw'/ kai; patri; kai; aJgivw/ pneuvmati kata; th;n tou' swth'ro" eujch;n levgonto": wJ" ejgw; kai; su; e{n ejsmen. i{na kai; aujtoi; ejn hJmi'n e}n w\si (Gv 17, 21)» (tr. Noce, 145).
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carattere sinodale776 . Si tratta, in particolare, della professione di monarchianesimo che portava Eraclide a mettere in dubbio la distinzione ipostatica fra il Padre e il Figlio, atteggiamento contrastato apertamente da Origene all’avvio del confronto. Con abilità dialettica egli conduce il suo interlocutore al riconoscimento di due «dèi», peraltro subito precisato e corretto dall’Alessandrino, anche a beneficio degli ascoltatori, nel senso di affermare sia la distinzione personale che l’unità «sostanziale» di Padre e Figlio777 . La discussione sulla lex credendi è da mettere in stretto rapporto con la lex orandi: anzi, probabilmente la controversia era sorta a seguito delle forme e del significato da attribuire alla prassi ecclesiale di preghiera778. In questo senso, l’apporto di Dial al discorso origeniano sulla preghiera risulta complementare alla testimonianza di Orat, se non più diretto ed esplicito per i suoi immediati addentellati cultuali. Come si è visto, nel trattato la dimensione ecclesiale e sacramentale rimane piuttosto elusiva, anche se il passo contestato di Orat XV, 1 (che prescrive come destinatario della proseuchv il Padre) lascia già trapelare il contesto delle usanze comunitarie di preghiera, confermato del resto dal tenore «liturgico» del modello «topico» di orazione proposto in Orat XXXIII 779 . Ora, per Origene il modo di pregare della Chiesa implicava, da un lato, la distinzione tra Padre e Figlio (contro il monarchianesimo) e dall’altro la loro unità in quanto l’uno e l’altro sono Dio (contro l’adozionismo)780 . A riprova di tale contenuto dottrinale, e con ciò del suo palese nesso ecclesiale, l’Alessandrino rinvia alla celebrazione eucaristica come argomento principe a sostegno delle sue tesi dottrinali nonché come paradigma vincolante per la maniera di pregare dei fedeli: l’«offerta» o «sacrificio» (prosforav) dell’eucaristia ha sempre come destinatario il Padre, per il tramite di Gesù Cristo. Di conseguenza, come Origene si affretta a raccomandare espressa–––––––––––––––––– 776 Nautin, 387-389, 411 associa l’episodio al sinodo di Bostra, convocato per il caso del vescovo Berillo (p. 387: «Aussi est-on porté à placer les deux conciles à l’époque où Origène était un prédicateur de renom à Césarée et à Jérusalem, c’est-à-dire [...] dans les années comprises entre 239 et 244»). Clausi, 110 propende per la datazione bassa, anche a causa delle «affinità contenutistiche ed espressive con opere posteriori al 244, come CRm e CC». 777 Dial 2 (58, 26-31). 778 L’origine della controversia nella prassi eucologica è insinuata soprattutto da Dial 4 (62, 18-24): Pollavki" gravfousin uJpogravyai, kai; to;n ejpivskopon uJpogravyai kai; tou;" uJponooumevnou" kai; uJpogravyai ejpi; tou' laou' pantov", i{na mhkevti peri; touvtou gevnhtai stavsi" h] zhvthsiv" ti". ∆Epitrevponto" ou\n tou' Qeou', deuvteron kai; tw'n ejpiskovpwn, trivton tw'n presbutevrwn kai; tou' laou' dev, to; kinou'n me pavlin eij" to;n tovpon ejrw`. Questa dichiarazione, infatti, è il preludio alla prescrizione sulla prosforav (si veda infra, nota 781). 779 Si veda pp. 135, 157. Cfr. anche infra, nota 1333 e Perrone 2007, 70-71. 780 Dial 4 (60, 2-62, 9). Cfr. supra, pp. 135-166 e nota 406.
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mente, l’offerta non deve mai avvenire due volte, bensì una volta sola: «a Dio mediante Dio»781 . La formula conclusiva di Origene, sintetica ed efficace quanto a prima vista paradossale, sembra anche rappresentare, in un certo senso, un’accentuazione o sviluppo ulteriore rispetto a Orat XV, 1, almeno per il fatto che la si può intendere anche come una replica implicita all’accusa di subordinazionismo782. L’esperienza di preghiera affiora in Dial anche al di là di queste manifestazioni liturgiche. Origene la richiama alla luce delle Scritture, quando in un tratto successivo della disputa argomenta la dottrina dell’immortalità dell’anima distinguendo fra diversi tipi di «morte» (la morte al peccato, la morte a Dio, la morte fisica). Nel chiarire il primo tipo egli si sovviene della preghiera di Balaam, figura controversa e non certo esemplare, dal momento che si tratta di un indovino pagano. L’Alessandrino se ne è occupato diverse volte, in special modo nelle Omelie sui Numeri, anche dietro richiesta del suo uditorio783 . Forse non è privo di coincidenze il fatto che trovandosi in Arabia rammenti un personaggio che la storia biblica collocava proprio in quella regione, ma la ragione più cogente è il contenuto della preghiera di Nm 23, 10: «Possa morire la mia anima tra le anime dei giusti!». La conclusione della prima benedizione di Balaam (Nm 23, 7-10), fatta in luogo della maledizione d’Israele richiestagli da Balak, è vista da Origene con Nm 23, 7a LXX («E venne lo spirito di Dio su di lui») come la manifestazione di un’attività profetica ispirata784. L’auspicio –––––––––––––––––– 781 Dial 4 (63, 24-28): ∆Aei; prosfora; givnetai Qew/' pantokravtori dia; ∆Ihsou' Cristou', wJ" prosfovrou tw/' Patri; th;n qeovthta aujtou': mh; di;" ajlla; Qew/' dia; Qeou' prosfora; ginevsqw. Tolmhro;n dovxw levgein, eujcovmenoi ejmmevnein tai'" sunqhvkai". Scherer traduce wJ" prosfovrou tw/' Patri; th;n qeovthta aujtou' con «en tant qu’il communique avec le Père par sa divinité» (p. 63), ma la traduzione non convince (come anche PGL, 1185 s.v., che rende analogamente «related to, resembling»). Segue il tribolatissimo passo sulle «convenzioni» o «patti» (sunqh'kai): secondo Scherer contra Capelle non sarebbe da intendere come un richiamo alla rivolta contro il vescovo, bensì come appello al rispetto dei ruoli di tutti nella preghiera collettiva (p. 64, nota 1). 782 Cfr. Fédou 1995, 294: «Ainsi, le fait que toute prière authentique s’adresse en fin de compte au Père ne signifie nullement l’infériorité du Fils par rapport à Dieu; c’est bien plutôt en raison même de sa divinité que le Fils apparaît comme le parfait et l’unique Médiateur, comme celui qui transmet au Père la supplication des hommes et qui sans cesse intercède en leur faveur». 783 Origene vi dedica i sermoni HNm XIII -XIX. Cfr. Baskin; Ferrari Toniolo; Simonetti 2004a. Come attesta HNm XV, 1 (128, 17-21), Origene in un caso non si attiene alle letture fatte, onde commentare il testo per desiderio degli uditori: «Licet nos ordo lectionum, quae recitantur, de illis dicere magis exigat, quae lector explicuit, tamen quoniam nonnulli fratrum deposcunt ea potius, quae de prophetia Balaam scripta sunt, ad sermonem disputationis adduci, non ita ordini lectionum satisfacere aequum credidi, ut desideriis auditorum». 784 Dial 26 (104, 11-106, 16): Peri; touvtou tou' qanavtou Balaa;m profhteuvwn e[legen eujcovmeno" ejn pneuvmati qeivw/: ∆Apoqavnoi hJ yuchv ªmouº ejn yucai'" dikaivwn (Nm 23,
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espresso dall’indovino (che troverà conferma in Nm 31, 8, con la sua morte ad opera degli Israeliti) si configura come una preghiera «nello Spirito» e in quanto tale esemplifica anch’essa la «preghiera spirituale», secondo il modello proposto da Orat. Balaam, infatti, per l’azione dello Spirito formula la richiesta per un contenuto da vedersi alla stregua dei «beni grandi e celesti» raccomandati nel trattato come l’oggetto proprio della preghiera spirituale: morire al peccato e vivere per Dio. La vita in Dio è anche il motivo della conclusione parenetica di Dial con la sua dossologia finale. Troviamo qui per la prima volta una modalità ricorrente delle omelie: l’esortazione che al termine del sermone trapassa in una supplica a Dio per la comunità, conclusa dalla professione di lode. Da questo punto di vista il nostro «trattato» può senz’altro essere assimilato alla situazione omiletica, dove l’istanza esterna rappresentata dall’uditorio interviene a vario titolo nelle manifestazioni di una prassi orante, in particolare – come vedremo più avanti – all’inizio e alla fine del sermone, ma a volte anche all’interno di esso. Elaborando qui con accuratezza retorica la chiusa del suo discorso, sul motivo della «vita» – in Dio e in Cristo –, opposta alla «morte», Origene arriva a pregare «perché diventiamo una sola cosa con il Dio dell’universo e contempliamo il suo Figlio unigenito [...] in Gesù Cristo, al quale è la gloria e la potenza per i secoli dei secoli»785 . Ma l’uditorio di Dial era già stato coinvolto e sollecitato a una prassi orante in un altro frangente memorabile della disputa, segnato dall’urgenza emotiva di uno sfogo appassionato del dottore-predicatore in nome dell’interpretazione spirituale della Scrittura. Prima di risolvere la questione sollevata dal vescovo Dionigi, un altro dei partecipanti al sinodo («Forse che l’anima è il sangue?»), Origene promette d’impegnarsi a rispondere «con l’aiuto di Dio» (qeou' didovnto"), in conformità all’«auspicio» o «richiesta» (kata; th;n eujch;n uJmw'n) che gli è stata rivolta786 . Quest’ultima ––––––––––––––––––
10a). Peri; touvtou tou' qanavtou pªaºradovxw" ejprofhvteusen oJ Balaavm, kai; eJautw/' ejn lovgw/ qeou' ta; kavllista hu[ceto: hu[ceto ga;r th/' aJmartiva/ ajpoqanei'n i{na zh/vsh/ tw/' qew/'. 785 Dial 28 (108, 8-110, 17): ∆Epi; tauvthn th;n zwh;n speuvswmen, stenavzonte", lupouvmenoi o{ti ejsme;n ejn tw/' skhnwvmati, o{ti ejndhmou'men ejn tw/' swvmati. O { son ejndhmou'men ejn tw/' swvmati, ejkªdºhmou'men ajpo; tou' Kurivou (2Cor 5, 6). ∆Eªpipºoqhvswmen ejkdhmh'sai ajpo; toªu' swvºmªato" kºai; ejndhmh'sai pro;" to;n ªKuvrionº (2Cor 5, 8), i{n∆ ejªndºhmou'nteª"º aujtw/' genwvªmeºqa e}n pro;" to;n Qeo;n tw'n o{lwn ªkai;º to;n monogenh' aujtou' UiJo;n ªoJrw'menº pro;" pavnta swzovmenoi kai; makavriªoi gºinovmenoi, ejn ∆Ihsou' Cristw/' w|/ hJ dovxa kai; to; kravto" eij" tou;" aijwvna" tw'n aijwvnwn. ∆Amªhvºn. L’integrazione della lacuna nel papiro con ªoJrw'menº è stata introdotta da Scherer a partire da Ambrogio, In Lucam VII , 38. Forse c’è un’eco di Gv 17, 21, come vediamo anche dal confronto con EM 39 (cfr. supra, nota 775), che farebbe eventualmente propendere per l’idea di «essere uno» con il Padre e con il suo Figlio Unigenito. 786 Dial 11 (78, 4-6): Ta; rJhta; uJf∆ w|n perispw'ntai, mhv tiv me lavqh/ aujtw'n, prw'ton ejkqhvsomai, kai; pro;" e{kaston, Qeou' didovnto", kata; th;n eujch;n uJmw'n ajpokrinouvmeqa.
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locuzione lascia un’incertezza terminologica, riguardo alla valenza di «auspicio» o «voto» o piuttosto quello di «preghiera», ma poco oltre troviamo un appello al sostegno orante che sembra implicare anche il concorso della comunità: per Origene, l’interprete della Scrittura non può fare a meno di «essere aiutato nella lettura delle parole divine» e se tale aiuto, in ultima analisi, non può venire da altri che da Dio e dal suo dono di grazia, la preghiera della comunità sostiene anch’essa gli sforzi del maestrocommentatore invocando per lui l’ausilio divino787 . Questo nesso fra preghiera e esegesi della Scrittura rinvia – come vedremo ancora in seguito – al contesto più frequente e consueto per la manifestazione di una prassi orante in Origene stesso e nei suoi ascoltatori e/o lettori. 3.1.4. Contro Celso Anche il Contro Celso, da datarsi presumibilmente intorno al 248249, si lascia inquadrare con difficoltà come vero e proprio trattato, essendo un’opera polemico-apologetica in risposta all’ ∆Alhqh;" lovgo" del filosofo medioplatonico, scritto circa settant’anni prima della replica di Origene che ne riporta numerosi estratti788. Si sa che CC, pur sfruttando ampiamente come argomento apologetico la condotta di vita esemplare dei cristiani, solo in piccola parte consente di cogliere aspetti significativi della loro prassi religiosa. L’interesse dell’autore mira prevalentemente a sottolineare la qualità dell’ethos proprio dei seguaci di Cristo, come rivendicazione della loro superiorità sui pagani, mentre il discorso sulle «opere» tende, in ultima analisi, a focalizzarsi sull’unica vera e grande «opera» – l’azione salvifica di Gesù Cristo a beneficio degli uomini 789 . Nondimeno, un tema d’importanza primaria per il profilo religioso dell’individuo e della comunità, com’è appunto la preghiera, era destinato a lasciare tracce importanti nel dibattito con l’avversario pagano. Dato il contesto, ad un tempo apologetico e filosofico, e l’incidenza modesta delle esperienze di vita, è quasi inevitabile che il modello di preghiera proposto da CC tenda ad avvicinarsi maggiormente alla prassi degli esercizi spirituali della filosofia antica, specie nel passo giustamente celebre di CC VII, 44. Tuttavia, ––––––––––––––––––
L’inciso Qeou' didovnto" compare frequentemente nei testi di Origene, nei commentari ma specialmente nelle omelie, a testimonianza del fatto che l’esegesi della Scrittura è sempre dono di Dio (cfr. note 313, 867). 787 Dial 11 (78, 14-16): ∆Egw; de; kata; ta; ejma; mevrh, eujcovmeno" bohqei'sqai ejn tw/' ajnaginwvskein ta; qei'a (bohqeiva" ga;r deovmeqa i{na mh; a[llo ti para; th;n ajlhvqeian fronhvswmen)... 788 Cfr. Nautin, 375-376. Sul problema del genere letterario si veda Dorival; Le Boulluec, 185; Perrone 2005a. 789 Ne ho discusso in Perrone 2009a, rilevando fra l’altro l’immagine più ricca di spunti concreti che ricaviamo invece dalla letteratura apologetica di II-III secolo.
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anche nell’apologia di Origene sarebbe riduttivo assumere la categoria di «esercizio spirituale» come rappresentativa in toto del suo discorso sulla preghiera: non solo l’immagine dell’atto orante è più squisitamente biblica e cristiana di quanto farebbe supporre, a prima vista, l’associazione con l’idea platonica del «volo dell’anima», ma essa si sostanzia anche di vari spunti che arricchiscono la prospettiva globale sulla preghiera ricavabile dagli scritti dell’Alessandrino790. 3.1.4.1. Esperienze di preghiera: l’incidenza del paradigma di Orat Passando in rassegna le sue diverse manifestazioni, notiamo dapprima come la preghiera prenda soprattutto la forma di un’invocazione per la conoscenza di Dio e per il progresso spirituale rivolto a tale mèta, cominciando dall’esperienza personale dell’autore. Non è che s’ignorino le richieste più concrete di benefici materiali, che accomunano esteriormente i cristiani ai pagani, ma in generale l’illustrazione della prassi orante tende sempre a rispecchiare il suo modello esemplare791 . Non a caso anche in CC il criterio regolativo risulta essere l’agraphon sulle «cose grandi e celesti», che abbiamo incontrato come principio-guida nel trattato sulla preghiera 792 . Quantunque pagani e cristiani preghino indistintamente per ricevere dei beni terreni, secondo Origene lo scopo autentico della pre–––––––––––––––––– 790 Pur tenendo conto dei miei studi successivi su CC, riprendo in larga misura l’analisi già tracciata in Perrone 2001d, peraltro carente quanto agli aspetti politici della preghiera. 791 Origene non nega il diritto di richiedere beni materiali, come fanno cristiani e pagani senza distinzione, allorché pregano, ad esempio, per avere dei figli. Ciò che li differenzia è il fatto che i cristiani fanno appello al Creatore dell’universo, mentre i pagani invocano i demoni. Cfr. CC VIII, 46 (261, 12-22), che richiama gli esempi di Abramo e Sara, di Ezechia e di Eliseo: Eij de; kai; peri; ajpaidiva" dei' levgein, ejf∆ h|/ dusforou'ntev" tine" gegovnasi patevre" h] mhtevre", ta;" peri; touvtou eujca;" ajnapevmyante" tw'/ tw'n o{lwn dhmiourgw',/ ajnagnwvtw ti" ta; peri; tou' ∆Abraa;m kai; th'" Savrra" [...] ajnagnwvtw de; kai; ta; peri; ∆Iezekivou [...] Kai; ejn th'/ tetavrth/ de; tw'n Basileiw'n hJ uJpodexamevnh to;n ∆Elissai'on, cavriti qeou' profhteuvsanta peri; genevsew" paidov", kata; ta;" eujca;" tou' ∆Elissaivou gevgone mhvthr. Si ricorderà come in Orat tali paradigmi biblici siano valorizzati nell’ottica dell’ermeneutica spirituale, non senza tensioni con il dato scritturistico di partenza (cfr. supra, pp. 142 ss.). L’analogia solo esteriore con altre tradizioni religiose, quanto ai riti ed ai contenuti della preghiera, è ribadita da CC V, 47 (51, 10-15): To; d∆ ai[tion th'" ∆Ioudaivwn peritomh'" ouj taujtovn ejsti tw'/ aijtivw/ th'" Aijguptivwn peritomh'" h] Kovlcwn: dio; oujc hJ aujth; nomisqeivh a]n peritomhv. Kai; w{sper oJ quvwn ouj tw'/ aujtw'/ quvei, eij kai; oJmoivw" quvein dokei', kai; oJ eujcovmeno" ouj tw'/ aujtw'/ eu[cetai, eij kai; ta; aujta; ejn tai'" eujcai'" ajxioi'. 792 L’agraphon è alluso da CC VII , 44 (196, 5-8), mediante l’antitesi fra beni «piccoli e materiali» e beni «grandi e divini»: e[maqe ga;r ajpo; tou' ∆Ihsou' mhde;n mikrovn, toutevstin aijsqhtovn, zhtei'n ajlla; movna ta; megavla kai; ajlhqw'" qei'a, o{sa sumbavlletai didovmena uJpo; tou' qeou' pro;" to; oJdeu'sai ejpi; th;n par∆ aujtw'/ dia; tou' uiJou' aujtou' lovgou o[nto" qeou' makariovthta. Sull’impiego dell’agraphon in Orat, cfr. supra, nota 169.
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ghiera consiste nell’ottenere una «vita migliore» di quella fisica: anziché pregare per la loro salute, i cristiani debbono rivolgersi alle cure dei medici, attendendosi invece da Dio una forma più alta di esistenza, propiziata da una pietà genuina e dalle preghiere indirizzate a Lui793 . In questo stesso spirito, analogamente a quanto constateremo ripetutamente sia nei commentari sia nelle omelie, Origene si rivolge a Dio per ottenere il dono dell’intelligenza spirituale – cioè la conoscenza dei misteri divini – e poter dunque rintuzzare efficacemente le accuse del filosofo pagano alla fede dei cristiani. Ciò avviene di solito in apertura di libro, anche se non è così in tutti i casi 794 . Il prologo del libro IV si presta bene all’esemplificazione, perché consiste in sostanza di una lunga «preghiera» tramata biblicamente su Ger 1, 9-10 (e intrecciata con altri luoghi scritturistici, secondo un modulo tipico della «retorica» orante di Origene), che rispecchia i due motivi strutturali dell’opera: confutare e distruggere le tesi dell’avversario, piantare e costruire le fondamenta della fede. «Dopo avere esposto dettagliatamente nei tre libri precedenti, o devoto Ambrogio, quello che noi abbiamo pensato in risposta al trattato di Celso e dopo avere pregato Dio attraverso Cristo (eujxavmenoi dia; Cristou' tw'/ qew')/ , componiamone un quarto in risposta a ciò che segue. Ci siano concesse le parole (doqei'en d∆ hJmi'n lovgoi) di cui è stato scritto in Geremia, quando il Signore disse al profeta: Ecco, io ho messo le mie parole sulla tua bocca, come fuoco. Ecco, oggi ti ho stabilito sopra popoli e regni, per sradicare e per demolire, per distruggere e per abbattere e per edificare e costruire (Ger 1, 9-10). Infatti, noi abbiamo bisogno (crhv/zomen) adesso di parole che sradichino le concezioni contrarie alla verità da ogni anima danneggiata dal trattato di Celso o dai pensieri simili ai suoi. Ed abbiamo bisogno (deovmeqa) anche di pensieri che abbattano gli edifici di ogni falsa opinione e l’edificio costruito da Celso nel suo trattato, simile all’edificio di coloro che hanno detto: Orsù, costruiamo per noi una città e una torre, la cui cima sia fino al cielo (Gn 11, 4). Ma abbiamo bisogno (crhvz/ omen) anche di una saggezza che abbatta tutte le altezze, che si innalzano contro la conoscenza di Dio (2Cor 10, 5) e l’altezza dell’arroganza di Celso, che si innalza contro di noi. Inoltre, poiché noi non dobbiamo fermarci a sradicare e ad abbattere le cose dette in precedenza, ma dobbiamo piantare, al posto delle cose abbattute, un edificio di Dio e un tempio della gloria di Dio, anche per questo dobbiamo pregare il Signore, che ha concesso le cose scritte da Geremia (hJmi'n eujktevon ejsti; tw'/ dedwkovti kurivw/ ta; ejn tw'/ ÔIeremiva/ gegrammevna), affinché conceda anche a noi parole per edificare l’edificio di Cristo e per seminare la legge spirituale e le parole profetiche come le sue»795 . –––––––––––––––––– 793 CC VIII, 60 (276, 35-277, 2): ajlla; crh; th;n qerapeivan tw'n swmavtwn, eij me;n aJplouvsteron bouvloitov ti" zh'n kai; koinovteron, ejfovdw/ ijatrikh'/ qerapeuvein, eij de; bevltion para; tou;" pollouv", eujsebeiva/ th'/ eij" to;n ejpi; pa'si qeo;n kai; tai'" pro;" ejkei'non eujcai'". Cfr. infra, nota 804. 794 Cfr. CC IV , 1; V, 1; VII , 1; VIII, 1. 795 CC IV, 1 (tr. Ressa, 287). L’aspetto di preghiera del prologo, oltre alla terminologia più univoca, è rafforzato dall’uso di un verbo come devomai, sia pure in variatio con
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In questo come in altri prologhi Origene, preoccupato di estirpare i germi maligni deposti per lui dalle critiche di Celso nelle anime più deboli dei credenti, prega di ricevere da Dio la conoscenza della verità e la capacità di farsene tramite presso i destinatari della sua opera. All’inizio del V libro, collocandosi in una linea di continuità che dall’apologeta risale al commentatore della Bibbia per giungere da ultimo al profeta ispirato, l’Alessandrino chiede nuovamente di partecipare dell’ispirazione divina nel pensiero e nella parola796 , mentre nel prologo del VII domanda di poter ricevere da Dio, in quanto è «Verità», l’illuminazione del cuore capace di aiutarlo a respingere efficamente le menzogne di Celso797. L’assimilazione insinuata da questi passi fra il compito dell’apologista e l’attività profetica lascia intravedere, attraverso l’esperienza orante, l’auspicio di un impatto sui lettori analogo a quella che può suscitare la «potenza» (duvnami") del testo sacro, in quanto Parola divinamente ispirata, su chi si accosti ad esso con zelo e devozione 798 . Se queste preghiere introduttive rispecchiano pienamente, per forma e contenuto, il modello della «preghiera spirituale» proposto da Orat, anche altri passi di CC si conformano ad esso, contenendo preghiere dettate ugualmente dalla richiesta di comprendere i misteri nascosti di Dio. Origene si rifà, in particolar modo, alla supplica di Sal 118(119), 18: «Togli il velo dai miei occhi e apprenderò le tue meraviglie dalla tua legge»799, ––––––––––––––––––
crhv/zw. La costruzione retorica amplifica il motivo tratto da Ger 1, 9-10, focalizzandolo all’acquisizione di lovgo" (lovgoi) e sofiva (si veda lo stesso binomio nella chiusa di EM 51: supra, nota 773). 796 CC V, 1 (2, 8-18): Qeo;" de; dwv/h mh; yilw'/ kai; gumnw'/ qeiovthto" tw'/ hJmetevrw/ nw'/ kai; lovgw/ sevw" novmo" mhde;n ei\cen ejggegrammevnon di∆ uJponoiw'n dhlouvmenon, oujk a]n oJ profhvth" eujcovmeno" e[lege tw'/ qew'/: ∆Apokavluyon tou;" ojfqalmouv" mou, kai; katanohvsw ta; qaumavsiav sou ejk tou' novmou sou (Sal 118[119], 18). Nuni; de; h[/dei o{ti ejstiv ti kavlumma ajgnoiva" ejn th'/ kardiva/ tw'n ajnaginwskovntwn kai; mh; sunievntwn ta; tropologouvmena ejpikeivmenon: o{per kavlumma periairei'tai (2Cor 3, 15-16) tou' qeou' dwroumevnou, ejpa;n ejpakouvsh/ tw'/ par∆ eJauto;n pavnta poihvsanti kai; dia; th;n e{xin ta; aijsqhthvria gumnavsanti pro;" diavkrisin kalou' kai; kakou' kai; ejn th'/ eujch'/ sunecevstata fhvsanti: ∆Apokavluyon tou;" ojfqalmouv" mou, kai; katanohvsw ta; qaumavsiav sou ejk tou' novmou sou (Sal 118[119], 18) (tr. Ressa, 330). Anche nell’esortazione introduttiva di HGn XII , 1 (106, 20-22) Origene fa ricorso a Sal 118(119), 18 come intenzione di preghiera: «Per singulas quasque lectiones cum legitur Moyses, orandus nobis est pater verbi, ut impleat etiam in nobis illud quod in Psalmis scriptum est: revela oculos meos, et considerabo mirabilia de lege tua». Cfr. inoltre HLv I, 1 (nota 1153). 801 Cfr. CC IV, 95 (368, 18-22): Eujcovmeqa de; lavmyai ejn tai'" kardivai" hJmw'n to;n fwtismo;n th'" gnwvsew" th'" dovxh" tou' qeou' (2Cor 4, 6), ejpidhmou'nto" hJmw'n tw'/ fantastikw'/ pneuvmato" qeou' kai; fantavzonto" hJma'" ta; tou' qeou': ejpei; ”Osoi pneuvmati qeou' a[gontai, ou|toi uiJoiv eijsi qeou' (Rm 8, 14).
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reso capace di vedere Dio, attuando così la promessa fatta ai «puri di cuore» in Mt 5, 8802. 3.1.4.2. La preghiera di Gesù nel Getsemani Il quadro illustrato finora pare essere in contrasto con la scena della preghiera di Gesù nel Getsemani (Mt 26, 37-38; Mc 14, 35-36; Lc 22, 4145). Origene torna ad occuparsene dopo l’Esortazione al martirio, spintovi adesso dalle critiche dell’Ebreo, un personaggio fittizio che Celso mette polemicamente in scena nei primi due libri come interlocutore virtuale di Gesù. L’accusa nasce dal fatto che egli supplica il Padre di liberarlo dalla morte, manifestando turbamento e timore per la fine imminente, laddove essendo un dio dovrebbe restarne immune803 . Quale ulteriore motivo di critica si potrebbe aggiungere che – nell’ottica dell’umanità del Figlio di Dio e insieme del discorso eucologico dell’Alessandrino – supplicare per essere liberato dalla morte fisica non può considerarsi un oggetto all’altezza di quei beni «grandi e celesti» per i quali Origene raccomanda ai cristiani di pregare 804 . Ora, la replica a Celso, partendo dalla contestazione di metodo sul piano esegetico, sfocia nella piena riaffermazione del modello della «preghiera spirituale» sia per le disposizioni interiori che per i contenuti, non diversamente da quanto avveniva già in EM. Invece di riportare parzialmente le parole di Gesù e ricavarne così un’impressione distorta, Celso avrebbe dovuto includere anche la conclusione della sua supplica: «Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26, 39). Da una parte, quindi, il modo in cui Gesù prega il Padre esprime adeguata–––––––––––––––––– 802 Il motivo del «cuore» (= mente) come organo della vista interiore compare a più riprese in CC. Si veda, in particolare, VII, 33 (184, 10-13), che teorizza la necessità della preghiera per acquisire la facoltà di contemplare Dio, poiché questa può essere concessa solo da Lui: ∆Epei; d∆ oujk aujtavrkh" hJ hJmetevra proaivresi" pro;" to; pavnth/ kaqara;n e[cein th;n kardivan, ajlla; qeou' hJmi'n dei', ktivzonto" aujth;n toiauvthn, dia; tou'to levgetai uJpo; tou' ejpisthmovnw" eujcomevnou: Kardivan kaqara;n ktivson ejn ejmoi; oJ qeov" (Sal 50[51], 10). 803 CC II , 24 (= fr. II , 24 Bader): «Pertanto, per quale motivo grida, si lamenta e prega di sfuggire al timore della morte, dicendo press’a poco così: “O Padre, se questo calice potesse allontanarsi?”» (tr. Ressa, 184). Mentre Origene, replicando a Celso (CC II, 25), insisterà sulla distinzione fra le nature divina e umana, il filosofo obietta adesso in nome della divinità di Cristo: «Gewiss hat Kelsos nicht vergessen, was er in 2, 16 c über das Festhalten der Großkirche am wahren Leiden Jesu geschrieben hat, diesmal aber, weil das Anliegen seiner Argumentation ein anderes ist, folgt er der Logik einer doketischen Christologie. Er will nämlich zeigen, dass das an sich unvorstellbare Leiden eines Gottes, für das er selbst sich entschieden hat, unvereinbar mit der Reaktion und mit den Äußerungen Jesu ist, als er von diesem Leiden direkt betroffen wurde» (Lona, Die «Wahre Lehre» des Kelsos, 137). 804 Cfr. Orat XVI, 2. In HIer XVII , 6 (infra, nota 1112) Origene critica i fedeli che, in caso di malattia e di morte imminente, supplicano Dio di rimanere in vita.
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mente la sua sottomissione al piano divino di salvezza e in quanto tale rappresenta un modello per i cristiani chiamati ad abbandonarsi anch’essi alla volontà di Dio805 ; dall’altra parte, questo modello corrisponde totalmente alla condizione dell’uomo in cammino verso la perfezione, dal momento che la preghiera emerge nel mezzo del conflitto tra lo «spirito» e la «carne». Così, la supplica di Gesù attesta la sua umanità ed indica la strada della preghiera tra la «debolezza» della carne e la «prontezza» dello spirito: «alcune parole di Gesù sono del primogenito di ogni creatura presente in Lui, come: Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14, 6) e altre simili a queste, mentre altre sono dell’uomo che s’intende presente in Lui, come: Adesso voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità che ha ascoltato dal Padre (Gv 8, 40). Anche qui dunque egli descrive, nella sua natura umana, sia la debolezza della carne umana, sia il coraggio dello spirito (to; th'" ajnqrwpivnh" sarko;" ajsqene;" kai; to; tou' pneuvmato" provqumon) – la debolezza nella frase: Padre, se è possibile si allontani questo calice; il coraggio dello spirito in quella: Tuttavia, non come voglio io, ma come vuoi tu (Mt 26, 39). Se poi si deve osservare anche l’ordine delle parole, bada al fatto che per prima è stata detta quell’unica cosa che, come si potrebbe dire, è secondo la debolezza della carne, ed in seguito le numerose cose che sono secondo il coraggio dello spirito (kata; th;n ajsqevneian th'" sarko;" e}n tugcavnon, u{steron de; ta; kata; th;n proqumivan tou' pneuvmato" o[nta pleivona). Infatti, una volta sola dice: Padre, se è possibile, si allontani da me questo calice, numerose volte invece: Non come voglio io, ma come vuoi tu, e: Padre mio, se non è possibile che si allontani da me questo calice senza che io lo beva, si compia la tua volontà. Ma si deve osservare anche che non è stato detto: “Si allontani questo calice”, ma che invece è stata espressa con devozione e con riverenza (eujsebw'" kai; meq∆ uJpotimhvsew") tutta questa affermazione: Padre, se è possibile, si allontani questo calice»806 .
La spiegazione della scena del Getsemani in CC richiama alla memoria la nota paradossale del prologo al trattato sulla preghiera, che insisteva –––––––––––––––––– 805 Circa le disposizioni spirituali della preghiera di Gesù si veda CC II, 24 (153, 18-20): th;n pro;" to;n patevra eujsevbeian aujtou' kai; megaloyucivan, «la sua devozione verso il Padre e la sua grandezza d’animo» (tr. Ressa, 184); (ll. 20-22) th;n pro;" to; bouvlhma tou' patro;" peri; tw'n kekrimevnwn aujto;n paqei'n eujpeivqeian tou' ∆Ihsou', «la sua obbedienza dinanzi alla volontà del Padre, riguardo alle cose che era stato condannato a soffrire» (ibi); (154, 10-11) th;n ∆Ihsou' pro;" to; pavqo" paraskeuh;n kai; eujtonivan, «la preparazione e la fermezza di Gesù di fronte alla sofferenza» (ibi, 185). È un insieme di disposizioni virtuose che si attaglia pienamente alle caratteristiche della «preghiera spirituale», come sono riassunte dalla definizione della proseuchv in PE XIV, 2 (cfr. supra, nota 378). 806 CC II, 25 (154, 16-155, 6 [tr. Ressa, 185-186]). Per la tensione carne – spirito come tratto peculiare della condizione umana, che emerge specialmente al momento della preghiera, si veda Orat XIII, 4 (328, 8-10): pa'sa ga;r hJ peri; tw'n proparateqevntwn hJmi'n pneumatikw'n kai; mustikw'n eujch; ajei; uJpo; tou' mh; kata; savrka strateuomevnou ajlla; pneuvmati ta;" pravxei" tou' swvmato" (Rm 8, 13) qanatou'nto" ejpitelei'tai.
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drammaticamente sulla «fragilità» (ajsqevneia) della condizione umana, scarto incommensurabile rispetto alla conoscenza di Dio, mettendo in dubbio la stessa possibilità di pregarLo, a causa del «corpo corruttibile» e della «tenda terrestre che grava sulla mente» (Sap 9, 15)807 . Essa non è l’unica, perché Origene – come aveva accennato anche in EM – ne offre una seconda: Gesù avrebbe formulato la sua supplica in previsione delle sofferenze destinate a colpire Gerusalemme e i Giudei a seguito della sua morte 808 . A differenza di EM, dove si formula più genericamente l’ipotesi di «un altro calice» diverso dal «questo» del testo evangelico, suscettibile eventualmente di apportare benefici maggiori, l’Alessandrino enuclea adesso un risvolto storico-salvifico più esplicito, in base a considerazioni provvidenzialistiche che sviluppa più ampiamente nel Commento a Matteo809. In tal modo, la preghiera nel Getsemani verrebbe ad assumere il valore di un’intercessione a vantaggio del popolo giudaico. Tuttavia, Origene conclude la sua spiegazione sulla stessa linea argomentativa dell’inizio: contrariamente all’accusa di Celso, secondo cui Gesù avrebbe patito solo in apparenza, la sua supplica in quanto Logos fatto carne ispira la condotta dei martiri; essi seguono il suo esempio testimoniando anch’essi la vittoria dello spirito sulla carne810. 3.1.4.3. La preghiera nel confronto tra paganesimo e cristianesimo Dopo aver riscontrato numerosi elementi di continuità con Orat, la conferma più eloquente ci viene dalla parte finale dell’apologia, dove la preghiera diventa motivo diretto di confronto tra paganesimo e cristiane–––––––––––––––––– 807 808
Cfr. Orat I , 1 e supra, pp. 62 ss. CC II, 25 (155, 6-15): Oi\da dev tina kai; toiauvthn eij" to;n tovpon dihvghsin, o{ti oJrw'n oJ swth;r oi|a oJ lao;" kai; ÔIerousalh;m peivsetai ejpi; th'/ ejkdikhvsei tw'n kat∆ aujtou' tetolmhmevnwn uJpo; ∆Ioudaivwn, ouj di∆ a[llo ti h] dia; to; pro;" ejkeivnou" filavnqrwpon qevlwn mh; paqei'n to;n lao;n a} e[melle pavscein fhsi; to; Pavter, eij dunatovn ejsti, parelqevtw ajp∆ ejmou' to; pothvrion tou'to (Mt 26, 39): wJ" eij e[legen: ejpei; ejk tou' me piei'n touti; to; th'" kolavsew" pothvrion o{lon e[qno" uJpo; sou' ejgkataleifqhvsetai, eu[comai, eij dunatovn ejsti, parelqei'n ajp∆ ejmou' to; pothvrion tou'to, i{na mh; hJ meriv" sou tolmhvsasa kat∆ ejmou' pavnth/ uJpo; sou' ejgkataleifqh'/. 809 Cfr. CMtS 92 (infra, pp. 344-345); Sgherri, 90-92. 810 CC II, 25 (155, 15-19): ∆Alla; kai; eij, w{" fhsin oJ Kevlso", mhvt∆ ajlgeinovn ti mhvt∆ ajniaro;n tw'/ ∆Ihsou' kata; to;n kairo;n tou'ton ejgivneto, pw'" a]n oiJ meta; tau'ta paradeivgmati tou' uJpomevnein ta; di∆ eujsevbeian ejpivpona ejduvnanto crhvsasqai ∆Ihsou', mh; paqovnti me;n ta; ajnqrwvpina movnon de; dovxanti peponqevnai… Origene riprende la spiegazione della preghiera di Gesù in CC VII, 55 (205, 18-23): o{ra eij mh; meta; th'" pro;" to;n qeo;n eujsebeiva" kai; hJ eujch; ei[rhtai, panto;" ouJtinosou'n to; peristatiko;n ouj prohgouvmenon ei\nai nomivzonto", ajll∆ uJpomevnonto" to; mh; prohgoumevnw" sumbai'non, o{tan kairo;" kalh'/. ∆Alla; kai; oujk ejndedwkovto" h\n hJ fwnhv, eujarestoumevnou de; toi'" sumbaivnousi kai; protimw'nto" ta; ajpo; pronoiva" peristatika; hJ levgousa fwnhv: Plh;n ouj tiv ejgw; qevlw.
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simo. Infatti Celso, a conclusione dell’ ∆Alhqh;" lovgo", affronta la questione del culto tradizionale degli dèi, rimproverando i cristiani per il rifiuto di associarsi ad esso. Nella visuale del filosofo, gli dèi sono demoni a cui il dio trascendente affida il governo dell’universo e pertanto si è tenuti ad onorarne le statue, ad offrirgli sacrifici e rivolgergli preghiere, affinché si mostrino ben disposti verso gli uomini811 . Al contrario, per Origene destinatario della preghiera non può essere altri che Dio, mentre solo una devozione genuina e la pratica della virtù sono in grado di attirare la sua benevolenza sull’uomo812. Per essere esaudita, la preghiera va indirizzata al destinatario giusto, cioè a Dio Padre, come ha insegnato Gesù Cristo, che si è rifiutato di prostrarsi davanti al diavolo813. Ne deriva che per l’Alessandrino la preghiera dei cristiani non è assimilabile a quella dei pagani, neppure quando a formularla sono quei fedeli «semplici» che attirano gli strali di Celso per la loro fede «irrazionale»814. Di fatto Dio accetta le loro richieste fatte con fede come quelle formulate dai «più intelligenti», che sono capaci di coniugare eujsevbeia e lovgo" e di accompagnare le proprie suppliche al Padre, tramite Cristo, con l’espressione del ringraziamento815. Accanto alla continuità della strutturazione “teologica” della preghiera, imperniata costantemente sul ruolo del Figlio come intermediario verso il Padre, si noti il cenno alla eujcaristiva come tratto che accompagna la preghiera dei fedeli più maturi816. Origene, pur inculcando nuovamente l’idea di un dinamismo spirituale che punta sempre ad un livello più alto, insiste dunque nel difendere l’esperienza orante dei fedeli «semplici» contro le accuse di Celso, poiché anche essi s’impegnano con una condotta di vita virtuosa nell’ascendere a Dio817 . La preghiera esprime allora la purezza della vita cristiana sotto–––––––––––––––––– 811 Cfr. VIII, 24 (= fr. VIII, 24 Bader). Fédou, 358-359 sottolinea l’importanza della preghiera nelle manifestazioni del culto pagano. 812 CC VIII, 64 (280, 1-2): ”Ena ou\n to;n ejpi; pa'si qeo;n hJmi'n ejxeumenistevon kai; tou'ton i{lew eujktevon ejxeumenizovmenon eujsebeiva/ kai; pavsh/ ajreth'/. 813 CC VIII, 56 (273, 4-9): oujde; ajpodivdomen ta;" nomizomevna" proshvkein tima;" oi|" levgei Kevlso" ta; th'/de ejpitetravfqai. Kuvrion ga;r to;n qeo;n hJmw'n proskunou'men kai; aujtw'/ movnw/ latreuvomen, eujcovmenoi mimhtai; Cristou' givnesqai, o}" tw'/ eijpovnti aujtw'/ diabovlw/: Tau'tav soi pavnta dwvsw, eja;n pesw;n proskunhvsh/" moi ei\pe tov: Kuvrion to;n qeovn sou proskunhvsei" kai; aujtw'/ movnw/ latreuvsei" (Mt 4, 9-10). 814 Su questo tema si veda Perrone 1998b. 815 CC VII, 46 (197, 12-22): oiJ me;n dialoidorouvmenoi toi'" kata; duvnamin eij" to;n tw'n o{lwn qeo;n eujsebei'n qevlousin, ajpodecovmenon ijdiwtw'n th;n eij" aujto;n pivstin kai; sunetwtevrwn th;n meta; lovgou eij" aujto;n eujsevbeian, met∆ eujcaristiva" ejnapempovntwn eujca;" tw'/ dhmiourgw'/ tou' panto;" kai; ajnapempovntwn aujta;" wJ" di∆ ajrcierevw" tou' th;n eijlikrinh' qeosevbeian ajnqrwvpoi" parasthvsanto". 816 Sull’eujcaristiva come preghiera cfr. supra, pp. 127-128, 131-132, 139. 817 CC VII, 46 (197, 27-28): ajnqrwvpou", eujcomevnou" ei\nai qeou'; (198, 17-20) Kai; oujc i{stantaiv ge ajnabavnte" ajpo; tw'n tou' kovsmou ktismavtwn ejn toi'" ajoravtoi" tou' qeou':
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messa al Logos: i seguaci di Cristo, quando pregano, allontanano dalla loro mente ogni passione o desiderio per offrire il proprio culto a Dio818. E allorché si sforzano di essere puri e interamente dediti a Lui, la preghiera giunge ad attuare il coinvolgimento armonioso di tutte le componenti dell’uomo, così che questi prega non solo con lo «spirito» e con l’«anima», ma anche con il «corpo» e questo stato di profonda coesione interiore è ricompensato dall’aiuto di Dio mediante il dono dello Spirito819 . Per questa via, la preghiera non solo diviene secondo Origene una prova decisiva del discorso apologetico sul cristianesimo in quanto vera religione, ma essa ricapitola anche lo scopo fondamentale della vita cristiana: la «familiarità» con Dio e l’unione con Lui attraverso il Logos820 . 3.1.4.4. La dimensione politica della preghiera Di fronte all’appello finale di Celso, che sollecita il lealismo dei sudditi cristiani perché combattano in difesa di un impero minacciato dai suoi nemici, l’Alessandrino risponde che le sole «armi», che i fedeli di Cristo sono in grado di offrire a sostegno dello stato, sono le loro preghiere, frutto di una vita virtuosa. Se si esclude il frequente richiamo all’esempio di Mosè che grazie alla sua intercessione assicura il successo delle armate di Israele contro Amalek (Es 17, 8-16)821 , esempio peraltro utilizzato solitamente in chiave spirituale, Origene solo in CC introduce espressamente una riflessione sul «problema politico della preghiera», verso il quale la letteratura apologetica fra II e III secolo si era mostrata assai attenta. Prima di richiamare il paradigma veterotestamentario più consueto, egli rinvia a Es 14, 14 («Il Signore combatterà per voi e voi starete in silenzio»), a commento della promessa di Mt 18, 19 («Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà»), altro luogo significativo della riflessione eucologica dell’Alessandrino: la preghiera concorde dei cristiani, garanzia dell’esaudimento ad opera di Dio, dovrebbe così diventare un modello per i Romani, ––––––––––––––––––
ajlla; ga;r iJkanw'" ejkeivnoi" ejggumnasavmenoi kai; sunievnte" aujta; ajnabaivnousin ejpi; th;n aji?dion duvnamin tou' qeou' kai; aJpaxaplw'" th;n qeovthta aujtou'. Secondo CC VIII, 53, i cristiani sono coloro che disprezzano gli idoli in modo da ascendere a Dio coll’intelletto. 818 CC VII, 48 (199, 22-25), con riferimento all’ascesi continente di molti cristiani: e[sti d∆ ejn Cristianoi'" ijdei'n a[ndra" mh; dehqevnta" kwneivou, i{na to; qei'on kaqarw'" qerapeuvswsin, ajll∆ ajrkoumevnou" lovgw/ ajnti; kwneivou, wJ" pa'san ejpiqumivan ajpo; th'" dianoiva" aujtw'n ejxelavsante" to; qei'on eujcai'" qerapeuvwsi; cfr. VIII, 73. 819 CC II, 51 (cfr. note 497, 1441). 820 CC VIII , 64 (280, 19-21): panti; de; trovpw/ lovgwn kai; pravxewn speuvdonta oijkeiou'sqai kai; eJnou'sqai tw'/ ejpi; pa'si qew'/ dia; tou' kataluvsanto" murivou" daivmona" ∆Ihsou'. 821 Cfr. supra, pp. 144, 166.
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che, se convertiti al cristianesimo, otterrebbero anch’essi la vittoria sui nemici al pari di Mosè. «Noi diciamo che “se due fra di noi sulla terra si mettono d’accordo su una qualunque cosa da richiedere, essa sarà fatta per loro dal Padre dei giusti che è nei cieli” (cfr. Mt 18, 19). Dio, infatti, si compiace dell’accordo fra gli esseri razionali e condanna il disaccordo (caivrei ga;r sumfwniva/ tw'n logikw'n zwv/wn oJ qeo;" kai; ejktrevpetai th;n diafwnivan). E che cosa bisogna credere che accadrebbe, se fossero d’accordo tra di loro non soltanto, come adesso, pochissimi, ma tutti gli abitanti dell’impero dei Romani? Essi pregherebbero il Logos, che disse un tempo, agli Ebrei inseguiti dagli Egiziani (eu[xontai ga;r tw'/ kai; provteron eijpovnti pro;" tou;" ÔEbraivou" katadiwkomevnou" uJpo; Aijguptivwn Lovgw/): Il Signore combatterà per voi, e voi starete in silenzio (Es 14, 14), e, dopo aver pregato in completo accordo (meta; pavsh" sumfwniva" eujxavmenoi), potrebbero abbattere molti più nemici che li inseguono di quelli che distrusse la preghiera di Mosè e di quelli che erano con lui, quando lanciavano le loro grida a Dio (hJ Mwu>sevw" pro;" to;n qeo;n bow'nto" kai; tw'n su;n aujtw'/ eujchv)»822.
In seguito l’Alessandrino si rifà al passo già ampiamente sfruttato di 1Tm 2, ma citando per la prima volta anche il secondo versetto (1Tm 2, 1-2: «Dunque vi raccomando in primo luogo di fare richieste, preghiere, intercessioni e rendimenti di grazie per tutti gli uomini, per i re e per coloro che hanno l’autorità»), a riprova dell’«aiuto divino» che i cristiani sanno fornire agli imperatori al momento opportuno823 . «E quanto più si è devoti, tanto più si è rapidi nell’aiutare i re, a differenza dei soldati che vanno in battaglia e uccidono quanti più nemici possono»824. Ma Origene si spinge più avanti nel rivendicare la rilevanza politica della preghiera dei cristiani, perché fonda l’esenzione dal servizio militare nella loro condizione di «popolo sacerdotale» che non deve essere macchiato dal sangue per continuare ad offrire sacrifici puri, come avviene nei riguardi dei sacerdoti pagani, liberati a causa di ciò da obblighi bellici: «Ma certamente, quando sopraggiunge una guerra, voi non arruolate i sacerdoti. Se dunque questo è ragionevole, quanto più è ragionevole il fatto che i cristiani, mentre gli altri combattono come soldati, combattano come sacerdoti e servitori di Dio (wJ" iJerei'" tou' qeou' kai; qerapeutaiv), conservando pure le destre e combattendo attraverso le preghiere a Dio (ajgwnizovmenoi de; dia; tw'n pro;" qeo;n eujcw'n), in favore di quelli che combattono giustamente e di colui che regna giustamente, perché tutto ciò che si oppone ed è ostile a coloro che agiscono giustamente –––––––––––––––––– 822 CC VIII, 69 (286, 13-23 [tr. Ressa, 620]). Si noti l’occasionale menzione del Logos, come destinatario della preghiera, presumibilmente a seguito dell’interpretazione di Es 14, 14 quale teofania del Verbo. 823 CC VIII, 73. È significativo che neppure Orat citi 1Tm 2, 2. 824 CC VIII, 73 (290, 23-26): Kai; o{sw/ gev ti" eujsebevsterov" ejsti, tosouvtw/ ajnutikwvtero" ejn tw'/ ajrhvgein toi'" basileuvousi para; tou;" eij" ta;" paratavxei" ejxiovnta" stratiwvta" kai; ajnairou'nta" ou}" a]n duvnwntai tw'n polemivwn (tr. Ressa, 623-624).
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venga distrutto? Noi, distruggendo con le preghiere tutti i demoni che suscitano le guerre, violano i giuramenti e sconvolgono la pace (tai'" eujcai'" pavnta" daivmona", tou;" ejgeivronta" ta; polemika; kai; o{rkou" sugcevonta" kai; th;n eijrhvnhn taravssonta", kaqairou'nte"), aiutiamo gli imperatori molto di più di quelli che si vede che combattono. Inoltre noi, offrendo con giustizia le nostre preghiere (oiJ meta; dikaiosuvnh" ajnafevronte" proseucav"), insieme agli esercizi e alle pratiche che insegnano a disprezzare i piaceri e a non essere guidati da essi, collaboriamo agli affari comuni. E noi combattiamo per l’imperatore anche più di altri; non militiamo con lui, anche se lo pretende, ma combattiamo per lui formando uno speciale esercito della devozione attraverso le intercessioni che domandiamo a Dio (strateuovmeqa de; uJpe;r aujtou' i[dion stratovpedon eujsebeiva" sugkrotou'nte" dia; tw'n pro;" to; qei'on ejnteuvxewn)»825 .
Origene sfrutta il motivo dei cristiani come «popolo sacerdotale», anche senza citare espressamente 1Pt 2, 9826. È interessante osservare come si sforzi di tradurre il modello di preghiera, applicato tendenzialmente all’esperienza individuale dell’orante, dentro una dimensione collettiva, più immediatamente ecclesiale, come si evidenzia nel seguito della riflessione origeniana in CC VIII, 75. Nonostante ciò, l’influsso predominante della dimensione individuale si fa ancora sentire nel pronunciamento che rivendica con più forza il ruolo determinante dell’«anima» cristiana nel «corpo» della patria o città – per richiamare un’analogia non troppo remota con la Lettera a Diogneto: «Infatti, in segreto, all’interno del nostro spirito (kat∆ aujto; to; hJgemoniko;n) facciamo le nostre preghiere, inviate come da dei sacerdoti in favore degli uomini della nostra patria. I cristiani poi recano più benefici alla loro patria di tutti gli altri uomini, in quanto educano i cittadini, insegnano loro la devozione verso Dio, guardiano della città, e innalzano ad una città divina e celeste quelli che sono vissuti onestamente anche nelle città piccolissime»827 .
Benché Origene insista sul ruolo educativo che i cristiani esercitano nei confronti dei cittadini, l’atto orante è espressione di un sacerdozio in–––––––––––––––––– 825 CC VIII, 73 (290, 29-291, 16 [tr. Ressa, 624]). Su questo passo, nel contesto della riflessione politica di Origene, si veda Mazzucco; Rizzi, 187-188. Il “pacifismo” di Origene emerge soprattutto dal confronto con la «costituzione» (politeiva) dei Giudei (cfr. CC VII, 26 e Perrone 2003b). 826 In proposito cfr. Hermans, 30-34. 827 CC VIII, 74 (291, 17-25 [tr. Ressa, 624]): Eij de; bouvletai hJma'" oJ Kevlso" kai; strathgei'n patrivdo", i[stw o{ti kai; tau'ta poiou'men, ouj pro;" to; blevpesqai uJpo; tw'n ajnqrwvpwn kai; kenodoxei'n ejp∆ aujtw'n tau'ta pravttonte": ejn ga;r tw'/ kruptw'/ hJmw'n kat∆ aujto; to; hJgemoniko;n eujcaiv eijsin, ajnapempovmenai wJ" ajpo; iJerevwn uJpe;r tw'n ejn th'/ patrivdi hJmw'n. Cristianoi; de; ma'llon eujergetou'si ta;" patrivda" h] oiJ loipoi; tw'n ajnqrwvpwn, paideuvonte" tou;" polivta" kai; eujsebei'n didavskonte" eij" to;n polieva qeovn, ajnalambavnonte" eij" qeivan tina; kai; ejpouravnion povlin tou;" ejn tai'" ejlacivstai" povlesi kalw'" biwvsanta".
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teriore, attuato «nel nascondimento» (secondo il precetto di Mt 6, 6) e imperniato, in ultima analisi, sulla mente (hJgemonikovn) del fedele e sulla sua ascensione a Dio. 3.1.4.5. La preghiera come ascensione della mente in Dio Benché la dialettica apologetica indotta dal confronto con Celso porti Origene a valorizzare le dimensioni sociali e politiche della preghiera, la raffigurazione più vivida dell’atto orante in tutto il CC interviene in forma individuale e in risposta al cruciale interrogativo filosofico sulle vie per conoscere Dio828 . Da adepto convinto della tradizione platonica, Celso rammenta con il Timeo (28c) la difficoltà di «trovare il creatore e il padre dell’universo» e, dopo averlo trovato, di comunicarlo a tutti gli uomini. Nonostante ciò, egli non si esime dal proporre una serie di procedimenti razionali che, a suo parere, sarebbero in grado di condurre alla conoscenza di Dio, sia pure per quei pochi saggi in grado di servirsene, non senza escludere in aggiunta la possibilità di intuizioni di natura estatica (CC VII, 42) 829 . Dunque, per il filosofo pagano la mèta ultima degli sforzi dell’intelletto è la visione di Dio, conformemente all’obiettivo perseguito in generale dal pensiero filosofico della tarda antichità. È ovvio che anche Origene lo faccia suo, ma opponendo alle vie prefigurate da Celso, per loro natura difficili ed elitarie, un itinerario affatto diverso che, proprio per la sua immediatezza, si colloca secondo lui alla portata di tutti, sia per il semplice cristiano che per il sapiente. Questo itinerario alla conoscenza di Dio è offerto dalla preghiera intesa quale «ascensione» (ajnavbasi"), elevazione dal mondo sensibile verso il «mondo iperuranio». L’idea, oltre a ricollegarsi implicitamente ad una delle due classiche definizioni della preghiera, affiora già a più riprese nel lungo “dialogo tra sordi” inscenato dall’apologia di Origene, tanto che l’ascensus mentis in Deum giunge a connotare sia il punto di vista avversario sia la stessa esperienza religiosa del giudaismo e del cristianesimo: nel primo caso impropriamente, nel secondo come quintessenza della vocazione religiosa830. E proprio a tale idea l’Alessandrino si rifà nel IV libro, in uno –––––––––––––––––– 828 829 830
CC VII, 42 ss. Cfr. Sfameni Gasparro 1995, 295-296; Magris, 54 ss. Cfr. Méhat 1995, che peraltro ne attribuisce la paternità ad Evagrio riconducendo l’idea della preghiera come oJmiliva al perduto trattato aristotelico Peri; eujch'". Benché Orat non adotti il termine né sviluppi espressamente l’idea della preghiera come ascensus a Dio, ne offre l’esempio riferendosi all’«ascensione» intellettuale del Figlio al Padre (Orat XXIII, 2 [350, 29-32]: th'" ajnabavsew" pro;" to;n patevra [Gv 20, 17] tou' uiJou' qeoprepevsteron meta; aJgiva" tranovthto" hJmi'n nooumevnh", h{ntina ajnavbasin nou'" ma'llon ajnabaivnei swvmato"). A sua volta CC II, 51 (175, 1-3), nel richiamare la religione d’Israele, rivendica il trascendimento del sensibile addirittura per un intero popolo: Oujk a]n ga;r
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dei momenti forti della disputa, difendendo ugualmente giudei e cristiani dagli attacchi di Celso per l’impegno, comune agli uni e agli altri, di vivere sotto lo sguardo di Dio una volta innalzatisi dalle creature a Lui: «E sono invece uomini e, se possibile, qualcosa di più prezioso degli uomini quelli che hanno potuto, seguendo il Logos, innalzarsi (ajnabh'nai) dalle pietre e dal legno ed anche dalla materia considerata più preziosa, cioè l’argento e l’oro, e, dopo essersi innalzati (ajnabavnte") dalle bellezze del mondo verso il Creatore dell’universo, si sono affidati a Lui. E, poiché Lui solo è capace di giungere a tutto quello che esiste, di osservare i pensieri di tutti e di ascoltare la preghiera di tutti, essi gli inviano le preghiere (ta;" eujca;" ejkeivnw/ ajnapevmponte"), compiono ogni azione tenendo presente che il suo sguardo è su ciò che accade e badano, tenendo presente che Dio ascolta ciò che viene detto, a non dire niente che, quando viene riferito a Dio, gli torna sgradito» 831 .
In questo brano, ed in altri ancora, la concezione dell’ascensus a Dio, anche per il tramite della preghiera, pare risolversi sul piano etico-spirituale nel motivo della condotta virtuosa, ispirata costantemente dal pensiero ––––––––––––––––––
ponhriva kai; magganeiva o{lon e[qno" sunevsthsan, uJperba;n me;n ouj movnon ajgavlmata kai; ta; uJp∆ ajnqrwvpwn iJdrumevna ajlla; kai; pa'san genhth;n fuvsin, ajnabai'non de; pro;" th;n ajgevnhton tou' qeou' tw'n o{lwn ajrchvn. Lo stesso tema figura in CC IV, 38 (311, 1-3): to; ou{tw" megalofuevstata dedidagmevnon ajnabaivnein ejpi; th;n ajgevnhton tou' qeou' fuvsin kajkeivnw/ movnw/ ejnora'n kai; ta;" ajp∆ aujtou' movnou ejlpivda" prosdoka'n. Ancora in polemica con Celso, CC III, 80 (270, 17-22), contrappone «la dottrina della vita beata e della comunione con Dio (tw'/ peri; th'" makariva" zwh'" lovgw/ kai; tw'/ peri; th'" pro;" to; qei'on koinwniva")» alla «dottrina di Pitagora e di Platone sull’anima, che per natura sale verso la volta del cielo ed osserva nella regione iperurania le cose viste dai beati spettatori (pefukuiva" ajnabaivnein ejpi; th;n aJyi'da tou' oujranou' kai; ejn tw'/ uJperouranivw/ tovpw/ qewrei'n ta; tw'n eujdaimovnwn qeatw'n qeavmata)» (tr. Ressa, 284). Essa è presa nuovamente di mira, secondo un’accusa topica, per il compromesso con la religione tradizionale, in CC VI, 4 (73, 2125): kai; ta; ajovrata tou' qeou' kai; ta;" ijdeva" fantasqevnte" ajpo; th'" ktivsew" tou' kovsmou kai; tw'n aijsqhtw'n, ajf∆ w|n ajnabaivnousin ejpi; ta; noouvmena, thvn te aji?dion aujtou' duvnamin kai; qeiovthta oujk ajgennw'" ijdovnte~ oujde;n h|tton ejmataiwvqhsan ejn toi'" dialogismoi'" aujtw'n (Rm 1, 20, passo che ricorre anche in CC VII, 37 in concomitanza con il tema dell’anabasi a Dio). 831 CC IV, 26 (295, 6-15 [tr. Ressa, 306]). Altri spunti rinviano alla dottrina del progresso spirituale (cfr. CC IV , 29 (298, 18-20), sulla possibilità per gli uomini di divenire come gli angeli: oJrw'men o{ti polu; touvtwn hJmei'" oiJ a[nqrwpoi ajpoleipovmenoi ejlpivda" e[comen ejk tou' kalw'" biou'n kai; pavnta pravttein kata; to;n lovgon ajnabaivnein ejpi; th;n touvtwn pavntwn ejxomoivwsin). In CC V, 53 (57, 10-13), Origene riassume lo scopo dell’insegnamento di Gesù nell’«innalzarsi» a Dio: h[ggelle ga;r ajnqrwvpoi" th;n megavlhn tou' qeou' kai; patro;" tw'n o{lwn peri; aujtw'n boulhvn, eijkovntwn me;n tw'/ biou'n ejn kaqara'/ qeosebeiva/ wJ" ajnabainovntwn dia; tw'n megavlwn pravxewn pro;" to;n qeovn. Anche CC VI, 44 (115, 5-7) designa così la meta beata della perfezione: a[xioi fanevnte" th'" eij" ta; qei'a ajnabavsew" ajnimhqw'sin uJpo; tou' lovgou ejpi; th;n ajnwtavtw pavntwn makariovthta kaiv, i{n∆ ou{tw" ojnomavsw, ajkrwvreian tw'n ajgaqw'n. La sequela del Logos richiama peraltro il motivo dell’ascensione di Cristo, Sommo Sacerdote, «al di là di tutta la creazione [...] fino [...] al Dio e Padre dell’universo» (HLv XII, 1; tr. Danieli, 251).
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di Dio. Ma, come mostrano le importanti analogie nella filosofia antica, vi è un nesso fra il progresso morale del sapiente e la sua ascesa «fino alla volta del cielo», di cui Origene è ben consapevole832. In CC VII, 44, questo sfondo concettuale diviene ancora più esplicito e contraddistingue strutturalmente la visione dell’atto orante, ora descritto nei termini più prossimi agli «esercizi spirituali» della filosofia antica. «Ma anche un cristiano semplice è convinto che ogni luogo del mondo è parte del tutto, poiché tutto il mondo è tempio di Dio. E pregando in ogni luogo (1Tm 2, 8) il cristiano, dopo avere chiuso gli occhi dei sensi e risvegliato quelli dell’anima, trascende il mondo intero. E neppure si ferma alla volta del cielo, ma, giunto con il pensiero nel luogo iperuranio, guidato dallo spirito di Dio e come trovandosi fuori dal mondo, invia a Dio la preghiera che non riguarda le cose più banali. Infatti egli ha imparato da Gesù a non ricercare niente di piccolo, cioè di sensibile, ma solo le cose grandi e veramente divine, tutte quelle che, concesse da Dio, contribuiscono a guidarlo, attraverso suo Figlio, il Logos che è Dio, alla beatitudine che è presso di lui»833 .
Origene pone inizialmente l’accento sull’ajnacwvrhsi" come processo di distacco dai sensi e di concentrazione interiore (secondo una prospettiva già abbozzata anche in Orat), grazie al quale s’innesca l’ascesa dell’anima verso Dio (che, a sua volta, ricorda da vicino il viaggio dell’anima nel Fedro di Platone)834 . Da questo punto di vista, non si può negare la fon–––––––––––––––––– 832 Cfr. Platone, Phaedr. 247b e CC V, 2 (3, 19-20): tw'n ejn ajnqrwvpoi" sofw'n kai; ejpi; th;n aJyi'da tou' oujranou' dia; th;n ajreth;n ajnabainovntwn. Poco dopo, in CC V , 4 (4, 15-17), sono gli angeli a salire «recando le richieste degli uomini nelle regioni celesti, le più pure del mondo, o anche in quelle iperuranie, che sono ancora più pure di queste (prosavgonta" ta;" tw'n ajnqrwvpwn ejnteuvxei" ejn toi'" kaqarwtavtoi" tou' kovsmou cwrivoi" ejpouranivoi" h] kai; toi'" touvtwn kaqarwtevroi" uJperouranivoi")» (tr. Ressa, 375). Secondo CC VI, 61 (131, 18-23), il riposo del settimo giorno significa che «in quel giorno, coloro che hanno compiuto tutte le loro opere nei sei giorni festeggerano insieme con Dio e, per non avere trascurato nulla di ciò che ad essi si addice, si innalzano alla contemplazione (ajnabaivnonte" ejpi; th;n qewrivan) ed alla festa dei giusti e dei beati» (ibi, 485). 833 CC VII, 44 (195, 27-196, 8): Cristiano;" de; kai; oJ ijdiwvth" pavnta me;n tovpon tou' kovsmou pevpeistai ei\nai mevro" tou' o{lou, naou' tou' qeou' o[nto" tou' panto;" kovsmou: ejn panti; de; tovpw/ eujcovmeno", muvsa" tou;" th'" aijsqhvsew" ojfqalmou;" kai; ejgeivra" tou;" th'" yuch'", uJperanabaivnei to;n o{lon kovsmon. Kai; oujd∆ ejpi; th;n aJyi'da i{statai tou' oujranou', ajll∆ eij" to;n uJperouravnion genovmeno" th'/ dianoiva/ tovpon, oJdhgouvmeno" uJpo; tou' qeivou pneuvmato" kai; wJsperei; e[xw tou' kovsmou tugcavnwn ajnapevmpei ouj peri; tw'n tucovntwn th;n eujch;n tw'/ qew'/: e[maqe ga;r ajpo; tou' ∆Ihsou' mhde;n mikrovn, toutevstin aijsqhtovn, zhtei'n ajlla; movna ta; megavla kai; ajlhqw'" qei'a, o{sa sumbavlletai didovmena uJpo; tou' qeou' pro;" to; oJdeu'sai ejpi; th;n par∆ aujtw'/ dia; tou' uiJou' aujtou' lovgou o[nto" qeou' makariovthta (tr. Ressa, 542-543, in parte modificata). 834 Si confronti CC VII, 44 (195, 29-196, 1) con AL VII, 36 (186, 18-21): eja;n aijsqhvsei muvsante" ajnablevyhte nw'/ kai; sarko;" ajpostrafevnte" yuch'" ojfqalmou;" ejgeivrhte, movnw" ou{tw" to;n qeo;n o[yesqe. Per l’influsso del Fedro (in particolare, 247a-c; 248b) sugli esercizi spirituali, cfr. ad esempio Hadot 1997a, 38. Quanto ad Origene, si veda Méhat,
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damentale affinità di linguaggio ed immagini tra i due contendenti, ma sarebbe riduttivo assimilare la preghiera cristiana nella visuale di Origene ad un concentrato di topoi platonici. In realtà, sia nel contesto ravvicinato del passo in esame sia nella cornice più ampia dell’intera apologia, l’Alessandrino mostra chiaramente di pensare a qualcosa di diverso. D’altronde lo si può intuire anche dal nesso, per certi versi sorprendente nel quadro di una discussione prettamente filosofica, che egli stabilisce fra preghiera e conoscenza di Dio. Tale collegamento, che in pratica fa dell’atto orante l’equivalente se non il sostituto del procedimento razionale auspicato dal filosofo pagano, non poteva non risultare anomalo. In un’ottica filosofica – se pensiamo, ad esempio, al contemporaneo Plotino, senza riandare adesso al pensiero filosofico anteriore – la preghiera non pare essere contemplata quale elemento decisivo nel cammino che porta l’uomo a conoscere Dio. Al contrario, Origene le assegna proprio questo ruolo, mentre la conferma significativamente anche in CC nel suo statuto fondamentale di ai[thsi", che già conosciamo da Orat, cioè senza ridurla alla sola oJmiliva con Dio e nemmeno all’ajnavbasi" verso di Lui 835 . Conformemente a ciò, gli sforzi che l’uomo compie per potere accedere alla conoscenza di Dio, ovviamente intendendo con essi l’insieme costituito dalla condotta virtuosa e dall’esercizio intellettuale, vengono coronati da successo unicamente se Dio stesso interviene a suo sostegno, in risposta a una preghiera che riconosce appunto l’indispensabile necessità dell’aiuto divino836. Anche nello scenario prettamente platonico entro il quale la preghiera si dispiega come ajnavbasi" mentale fin oltre la volta del cielo, la «visione di Dio» rimane propria, biblicamente, dei «puri di cuore», i quali invocano da Dio – come si è visto in precedenza – quell’organo purificato dell’intelletto che solo Lui è in grado di creare837. Pertanto l’atto orante non fa che sottolineare la natura non-autarchica del processo ––––––––––––––––––
282-294, in part. pp. 283 ss. Riguardo al processo di ajnacwvrhsi" sensoriale in Orat, si veda supra, pp. 50, 159, 162, 190. 835 Per Bendinelli 1997, in Plotino l’ascensione mistica dell’anima è frutto degli sforzi ascetici: «La preghiera, di conseguenza, come richiesta di aiuto e di soccorso, risulta completamente esautorata di significato agli occhi del filosofo, quando non apertamente criticata. Nei pochi accenni ad essa – rintracciabili nelle Enneadi –, tale pratica è menzionata assieme alla magia, e quindi assimilata a questa» (p. 35). Anche Crouzel 1992, 112 si mostra perplesso sullo spazio riservato da Plotino alla preghiera (si veda anche supra, nota 251). 836 CC VII, 42 (193, 16-22): hJmei'" de; ajpofainovmeqa o{ti oujk aujtavrkh" hJ ajnqrwpivnh fuvsi" oJpwspotanou'n zhth'sai to;n qeo;n kai; euJrei'n aujto;n kaqarw'", mh; bohqhqei'sa uJpo; tou' zhtoumevnou, euJriskomevnou toi'" oJmologou'si meta; to; par∆ aujtou;" poiei'n o{ti devontai aujtou', ejmfanivzonto" eJauto;n oi|" a]n krivnh/ eu[logon ei\nai ojfqh'nai, wJ" pevfuke qeo;" me;n ajnqrwvpw/ ginwvskesqai ajnqrwvpou de; yuch; e[ti ou\sa ejn swvmati ginwvskein to;n qeovn. 837 CC VII, 33 (cfr. supra, nota 802).
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conoscitivo che sfocia nella contemplazione di Dio, al di là di ogni prospettiva di autorealizzazione personale (com’è semmai nella prassi degli esercizi spirituali della filosofia). Alla luce di queste considerazioni, l’impressionante descrizione della preghiera come ascensione a Dio in CC VII , 44 – che ha spinto André Méhat a vedervi un’anticipazione della visione di Agostino ad Ostia, nel IX libro delle Confessioni – ci appare pienamente conforme al pensiero espresso da Origene in Orat e in altri scritti, sia pure scontando una parziale “giustapposizione” con l’orizzonte spirituale di Celso838 . Pertanto, l’ajnavbasi" dell’orante realizza sì mentalmente un trascendimento dell’intero ordine cosmico fino alla dimora di Dio, ma sotto la guida dello Spirito, mentre egli prega Dio di ricevere «le cose grandi e celesti», le sole che sono veramente degne del Padre e capaci di condurre alla beatitudine in Lui, attraverso l’intermediazione del Figlio. A rafforzare la sostanza biblica e cristiana riaffiora anche qui la dimensione trinitaria, che già in Orat ci era apparsa come fattore decisivo per l’espressione autentica della preghiera. Non solo Origene ricorda più volte che i cristiani indirizzano le loro preghiere a Dio per il tramite di Cristo, Sommo Sacerdote che intercede per loro, essendo egli compartecipe e sensibile all’umana debolezza839 , ma a tratti egli sembra perfino voler associare in forma ancora più stretta, se non addirittura “paritaria”, il Figlio al Padre come destinatario della preghiera840 . Inoltre, la fragilità dell’uomo, costantemente sottomes–––––––––––––––––– 838 Cfr. Méhat, 294. Per cogliere la tonalità diversa dell’anabasi orante in CC VII , 44, si può accostarvi rispettivamente Massimo di Tiro, Or. XI, 10 e Clemente Alessandrino, Strom. VII, 13, 82, 5, che propone un’atmosfera spirituale assai più vicina all’autore pagano. 839 Cfr. CC III, 34 (231, 4-10): teqhvpamen to;n ∆Ihsou'n to;n nou'n hJmw'n metaqevnta ajpo; panto;" aijsqhtou', wJ" ouj movnon fqartou' ajlla; kai; fqarhsomevnou, kai; ajnavgonta ejpi; th;n meta; ojrqou' bivou pro;" to;n ejpi; pa'si qeo;n timh;n met∆ eujcw'n, a}" prosavgomen aujtw'/ dia; tw'/ ejpikhvrw/ hJmw'n gevnei kaiv, i{n∆ ou{tw" ei[pw, sunagwniw'sai di∆ ou}" oJrw'sin ajntistrateuomevnou" kai; ajntagwnizomevnou" daivmona" th'/ swthriva/ mavlista tw'n eJautou;" ajnatiqevntwn qew'/ kai; mh; frontizovntwn th'" tw'n daimovnwn e[cqra". 842 Sull’uso “strategico” di ejpivkhron, in apertura e chiusura della prima sezione di Orat, si veda supra, nota 218. 843 Insiste a ragione su tale punto Stroumsa, 92-93: «The Christian conception of piety stands at the antipodes of the traditional conception accepted by Celsus. Origen’s conception of piety is essentially dynamic; whereas religious change was feared or despised by Celsus, it is encouraged by Origen».
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in precedenza, acquisti rilievo diverso a seconda delle opere. Ciò vale anche rispetto all’interrogativo sulla continuità o meno con il paradigma di Orat, che può dar luogo a risposte distinte, più o meno conformi, in relazione appunto ai diversi scritti. Di questi prenderemo in esame, secondo l’ordine cronologico desumibile con maggiore o minore certezza, il Commento a Giovanni, il Commento al Cantico dei Cantici, il Commento a Romani e il Commento a Matteo. Di altri commentari che contengono a loro volta materiali significativi per il nostro argomento – come, ad esempio, i frammenti del Commento a Genesi e quelli del Commento a Lamentazioni – si è in parte detto in precedenza o se ne terrà conto nella trattazione sui nuclei scritturistici844. Nel caso particolare del Commento al Cantico dei Cantici accosteremo ad esso anche le Omelie, mentre per i frammenti dei commentari origeniani sui salmi (di cui non si può evidentemente sottovalutare la particolare importanza per il nostro tema), data anche l’incertezza sulla trasmissione dei testi, dobbiamo in sostanza affidarci alla testimonianza delle Omelie sui Salmi, per quanto limitata essa sia845. 3.2.1. Commento a Giovanni Le incertezze cronologiche sull’arco di tempo entro cui si distende la lunga redazione dei 32 libri del Commento a Giovanni nulla tolgono al fatto che si tratta di un’opera iniziata fin dal periodo alessandrino e perciò del più antico fra i nostri quattro commentari. Le datazioni proposte dagli studiosi oscillano fra il 218 e il 235, se non addirittura il 248, come possibile termine ultimo846. Altrove ho cercato di approfondire l’impronta del tempo e dell’ambiente sul profilo letterario del commentario origeniano, constatando uno “scarto” di qualche rilievo nel XIII libro rispetto comunque ad un’impostazione e ad una fisionomia complessive che si presentano sostanzialmente analoghe847 . Quanto alla presenza del nostro tema, precisando meglio l’impressione ancora generica di una sua minore incidenza, soprattutto a confronto –––––––––––––––––– 844 Su CGn, importante per individuare il contesto ravvicinato di Orat, cfr. supra, pp. 18-19, 100, 106, 116-117, 120. Riguardo a FrLam, si veda Nautin, 250-251 (nr. 33). 845 Cfr. Prinzivalli 2000b, che raccomanda peraltro cautela nell’uso dei Tractatus in Psalmos di Gerolamo come fonte per l’esegesi origeniana. 846 Secondo Corsini, 88, l’inizio «è da fissare intorno al 224-225. [...] Poiché nel libro XXXII sembra esserci un’allusione alla persecuzione di Massimino (235-238), si è d’accordo nel fissarne la data di composizione dopo il 235». Ma C. Blanc (SC 120, p. 8) ed altri hanno proposto il 218 come terminus post quem. Invece Nautin, 377-380 situa l’inizio poco prima del 231 e la conclusione fra 235 e 248, mantenendo l’indicazione di Eusebio, HE VI, 28, secondo cui Origene avrebbe alluso alla persecuzione di Massimino in CIo XXII, da situarsi quindi vari anni dopo il 238 (p. 379). McGuckin, 449 si allinea a Nautin. 847 Perrone 2005b, 54-59.
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del ben più ricco CMt, dobbiamo riconoscere che Origene ci offre in CIo vari spunti interessanti di riflessione, alcuni dei quali innovano significativamente la prospettiva disegnata nel trattato. Mi riferisco, in particolare, al motivo della preghiera del peccatore, di cui abbiamo notato riflessi tutto sommato piuttosto marginali in Orat, dove la figura dell’orante tende ad identificarsi con la condizione di santo848 . L’apporto di CIo al discorso eucologico dell’Alessandrino è inoltre arricchito dai frammenti origeniani sul quarto vangelo pervenuti in tradizione catenaria. 3.2.1.1. L’invocazione a Dio per la venuta del Logos come «maestro dei misteri» A prima vista CIo sembrerebbe deludere l’attesa di ritrovarvi tracce cospicue dell’esegesi orante che altrove Origene sviluppa di frequente davanti al mistero racchiuso per lui nella Parola ispirata. È abbastanza raro che egli avvii un nuovo libro invocando l’aiuto divino, quasi a voler confermare indirettamente quella certa “sicurezza di sé” che secondo alcuni si fa notare come tratto distintivo dell’esegeta specialmente nel commento al quarto vangelo849. Tuttavia, anche in esso troviamo passi che ripropongono l’immagine tracciata sin qui: proprio l’incontro con il mistero del Logos trasmesso dalle Scritture spinge in primo luogo Origene ad un atteggiamento di preghiera, sia esso espresso in forma diretta o solo implicitamente. È ciò che avviene fin dall’invocazione iniziale che conclude l’ampio prolegomenon sul termine «vangelo» nel I libro e precede l’avvio del commento vero e proprio con l’esegesi di Gv 1, 1: «Chiediamo piuttosto, a questo punto, a Dio per mezzo di Cristo nello Spirito santo di aiutarci nella spiegazione del senso mistico, deposto come un tesoro nella lettera»850 .
In realtà, il concorso della grazia, richiesto con una formulazione trinitaria che ricorda da vicino il prologo di Orat e l’accesso intravisto lì alla conoscenza delle realtà divine, è sempre necessario all’esegeta e la coscienza di ciò non viene mai meno, anche se egli non l’esprime mani–––––––––––––––––– 848 Cfr. supra, p. 156. Si noti il diverso accento di Cipriano, che in De dom. or. 22 (414-415) ricorda come la recita quotidiana del Padrenostro instilli ogni giorno la coscienza della condizione di peccatori: «instruitur et docetur peccare se cotidie, dum cotidie pro peccatis iubetur orare». 849 È il giudizio di Vogt, riportato supra, nota 732. Prologhi con orazioni figurano in CIo I, VI, XX, XXVIII, XXXII. 850 CIo I, 15, 89 (19, 32-34): “Hdh de; qeo;n aijtwvmeqa sunergh'sai dia; Cristou' hJmi'n ejn aJgivw/ pneuvmati pro;" ajnavptuxin tou' ejn tai'" levxesin ejnapoteqhsaurismevnou mustikou' nou' (tr. Corsini, 142).
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festamente 851 . Così, all’inizio del VI libro l’Alessandrino può dichiarare di «aver riposto la sua fiducia in Dio, che arricchisce di ogni dottrina e scienza», riconoscendo ad un tempo la propria inadeguatezza e il dono di comprensione che viene all’interprete dall’assistenza divina852 , e poco dopo supplicare apertamente Dio perché lo sostenga nell’impresa del commento, «facendo risuonare» in lui la sua «voce di maestro»853 . È vero che la richiesta non concerne in recto l’intelligenza spirituale delle Scritture in quanto tale bensì il compimento dell’opera letteraria, interrotta forzatamente alla partenza da Alessandria e ripresa una seconda volta dal VI libro a Cesarea, ma è chiaro che lo scopo del commento è precisamente quello di pervenire a tale intelligenza grazie all’illuminazione di Dio854. Pertanto, anche se in CIo il riconoscimento del mistero non è assecondato molto spesso da un atteggiamento orante, Origene non manca d’inculcare a più riprese l’idea dell’inadeguatezza umana che pesa sull’interprete e con essa la consapevolezza che ogni dono spirituale ci viene da Dio. Ad esempio, commentando Gv 1, 29 («E dice: “Ecco l’agnello di Dio, che prende su di sé il peccato del mondo”»), l’Alessandrino osserva che spiegare le «prescrizioni relative ai sacrifici» è «un compito che supera di gran lunga la natura umana e può essere attuato unicamente da chi –––––––––––––––––– 851 Sull’analoga strutturazione trinitaria nel prologo di Orat (I e II, 6) si veda supra, pp. 53-54 (note 152, 157). 852 CIo VI, 2, 7 (107, 15-20): «E dopo aver calcolato ben bene, ho capito bensì di non avere a disposizione ciò che occorre per la costruzione dell’edificio, ma ho riposto la mia fiducia in Dio, che arricchisce di ogni dottrina e scienza (tw'/ qew'/ de; pepisteuvkamen tw'/ ploutivzonti ejn panti; lovgw/ kai; pavsh/ gnwvsei), sicuro che arricchirà anche me che lotto per osservare le [sue] leggi spirituali. In questo modo, partendo da ciò che egli mi elargisce e progredendo nella costruzione (ejk tw'n ejpicorhgoumevnwn uJp∆ aujtou' prokovptonte" ejn tw'/ oijkodomei'n), giungerò anche a cingere in alto l’edificio di una corona di protezione» (tr. Corsini, 288). 853 CIo VI , 2, 10-11 (108, 10-16): oujkevti uJpertiqevmenoi uJpagoreuvein ta; ajkovlouqa boulovmeqa, qeo;n didavskalon uJphcou'nta ejn tw'/ ajduvtw/ th'" yuch'" hJmw'n parei'nai eujcovmenoi, i{na tevlo" lavbh/ hJ th'" dihghvsew" tou' kata; ∆Iwavnnhn eujaggelivou oijkodomhv. Gevnoito d∆ oJ qeo;" ejphvkoo" hJmw'n th'/ eujch'/, eij" to; sunavyai dunhqh'nai to; sw'ma tou' o{lou lovgou, mhkevti mesolabouvsh" peristavsew" diakoph;n tou' eiJrmou' th'" grafh'" oJpoivan dhvpote ejnergavsasqai dunamevnh", «ho deciso di non rimandare più oltre la dettatura della parte di commento che deve seguire, supplicando Dio di far risuonare la sua voce di maestro nell’intimo della mia anima, in modo che l’edificio del Commento al Vangelo di Giovanni possa giungere a compimento. Ascolti il Signore la mia preghiera, in modo che il corpo di tutta l’opera possa collegarsi insieme, senza che venga più a frapporsi alcuna circostanza avversa capace di operare una soluzione di continuità nella mia opera» (tr. Corsini, 289-290). Anche a fronte della traduzione di Corsini («il Signore» per oJ qeov"!), viene da chiedersi se in entrambi i passi il destinatario non sia da intendere in ogni caso come Dio Padre. 854 Per McGuckin, 453, il motivo unificante di CIo «is the Son’s fundamental role in salvific revelation that concerns Origen throughout the Commentary, namely how the Son leads the receptive soul into deeper comprehension of, and communion with, God».
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è perfetto» 855 . All’inizio del libro X, pur senza formulare una preghiera introduttiva, Origene invita Ambrogio a votarsi insieme ancor più pienamente a Dio, propiziando in tal modo quei doni di intelligenza spirituale del vangelo che solo Lui può concedere856 . Si noti come in tale prologo le attese riposte dall’amico e patrono nei confronti dell’esegeta vengano ricondotte da questi al loro vero termine, mentre l’Alessandrino ribadisce una convergenza di dinamiche spirituali fra l’offerta di sé a Dio e il dono all’uomo frutto della bontà divina, circoscrivendo così anche la prospettiva caratteristica della preghiera. Infatti – come Origene premette, in questo stesso libro, alla propria spiegazione del «disaccordo» (diafwniva) tra i vangeli riguardo ai viaggi di Gesù a Gerusalemme –, Dio «dà a chi chiede e a chi si sforza di cercare con acume, e bussando perché ci siano aperti i segreti della Scrittura con le chiavi della conoscenza»857 . In questa occasione (analogamente a quanto constateremo con maggior frequenza in CMt nell’eventualità di una diafwniva evangelica) la domanda dell’aiuto divino, sia pure con una formulazione orante non particolarmente caratterizzata, si unisce al riconoscimento del mistero. Ma il caso prevalente tende a rimanere quello dell’ammissione di un’insufficienza bisognosa del soccorso della grazia, come avviene sempre nel X libro con il seguente preambolo alla spiegazione anagogica dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme: –––––––––––––––––– 855 CIo VI, 51, 267 (160, 24-26): To; de; kaq∆ e}n dunhqh'nai touvtwn euJrovnta ejklabei'n th;n dia; ∆Ihsou' Cristou' gegenhmevnhn tou' pneumatikou' novmou ajlhvqeian, sfovdra mei'zon tugcavnon th'" ajnqrwpivnh" fuvsew", oujdeno;" a[llou e[rgon h] tou' teleivou ejstivn (tr. Corsini, 367). Dello stesso tenore è il passo in CIo X, 15, 85 (185, 24-31): «Spiegare però in che modo noi celebreremo le festività nelle cose celesti (di cui c’era un’ombra presso i Giudei corporei), dopo esser stati educati in precedenza da pedagoghi sotto la vera legge, sottostando a tutori e amministratori fino a che giungesse la pienezza del tempo, e in che modo noi potremo accogliere la perfezione del Figlio di Dio, questo è compito di quella sapienza avvolta nel mistero (e[rgon sofiva" th'" ejn musthrivw/ ajpokekrummevnh" ejsti;n fanerw'sai), a cui spetta pure di contemplare le prescrizioni relative ai cibi, meri simboli di quelli che dovranno nutrire e corroborare la nostra anima» (tr. Corsini, 400). 856 CIo X, 1, 2 (171, 6-): «Quanto a me, ti ho parlato di queste cose all’inizio del libro decimo, appunto perché ho notato spesso come nella Scrittura il numero dieci goda di un privilegio superiore [agli altri], come puoi renderti conto da solo se fai attenzione, tu che ora speri di ricevere da Dio qualcosa di più anche per questo libro. E perché questo avvenga, tentiamo per quanto è possibile di offrirci a Dio, che desidera donare le cose più belle (kata; duvnamin ejmparevcein eJautou;" tw'/ dwrei'sqai ta; kavllista boulomevnw/ qew'/ peirwvmeqa)» (tr. Corsini, 380). L’«offerta di sé» a Dio figura già in CIo I, 2, 10, dove Origene dichiara che vero «culto di Dio» e sacerdozio autentico è quello di coloro «che si consacrano al Logos divino» (ibi, 118). 857 CIo X, 23, 131 (194, 24-28): Ta; de; kinou'nta hJma'" eij" th;n peri; touvtwn sumfwnivan, aijthvsante" to;n didovnta panti; tw'/ aijtou'nti kai; ojxevw" zhtei'n ajgwnizomevnw/, krouvontev" te uJpe;r tou' ajnoicqh'nai hJmi'n tai'" th'" gnwvsew" kleisi;n ta; kekrummevna th'" grafh'", to;n aujto;n kata; th;n didomevnhn hJmi'n duvnamin ejkqhsovmeqa trovpon (tr. Corsini, 411-412).
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«Noi siamo persuasi che il sapere come stanno queste cose, essendo proprio di quell’intelligenza che è data (nou' ajlhqou'" tou' doqevnto") a coloro che affermano: Noi abbiamo la mentalità di Cristo, per conoscere i doni che Dio ci ha elargito (1Cor 2, 16. 12), sia superiore alle nostre possibilità. Infatti la parte dominante (to; hJgemonikovn) della nostra anima non è pura, né i nostri occhi sono quali dovrebbero essere gli occhi della sposa bella di Cristo, di cui lo sposo dice: I tuoi occhi [son] come colombe (Ct 1, 15), volendo forse con questo alludere alla capacità di distinguere le cose spirituali: il che è suffragato dal fatto che appunto anche lo Spirito santo è venuto sul Signore Gesù e sul Signore che è in ciascuno [dei fedeli] (ejpi; to;n kuvrion ejkqwvmeqa th;n parabolhvn.
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l’apporto specifico di CRm sullo Spirito come maestro di preghiera, mentre il ruolo di Cristo è ancora una volta identificato con quello di «Mediatore tra Dio e gli uomini», che «offre al Padre quanti credono in Lui». Infine, la professione della condizione filiale acquisita dai perfetti per il Cristo e nello Spirito è nuovamente l’invocazione raccomandata dalla Preghiera del Signore: «Abbà, Padre». È evidente allora da questo sviluppo di riflessione che segue a ruota il passo a prima vista contraddittorio come il paradigma normativo che Origene ha stabilito in Orat non sia affatto rimesso in discussione. Semmai, la precisazione sull’uguaglianza di onore tra Padre e Figlio può rispondere – analogamente a ciò che avviene in Dial – all’esigenza di prevenire un fraintendimento in senso troppo “subordinazionistico” della mediazione del Figlio987 . 3.2.4. Commento a Matteo Dei quattro grandi commentari di Origene che ci sono giunti, il Commento a Matteo è in assoluto il più ricco e interessante in tema di preghiera. Fortunatamente, dal punto di vista testuale siamo più avvantaggiati, perché disponiamo ancora di una discreta porzione del testo greco (i libri X-XVII), mentre la vetus interpretatio o Commentariorum Series, un’antica traduzione latina di cui non conosciamo l’autore, ci ha conservato una testimonianza oltremodo preziosa dell’esegesi origeniana del primo vangelo. Essa si affianca infatti al greco da CMt XII, 9 fino alla conclusione del commentario, arrivando così a coprire circa la metà dei venticinque tomi originari. Né manca, in aggiunta, il conforto di qualche frammento dell’originale conservatoci nella Filocalia o nelle catene988 . Quest’opera imponente, paragonabile per le sue dimensioni al Commento a Giovanni, anche se certo più snella e, a differenza di quella, felicemente portata a termine, rappresenta il frutto della maturità esegetica dell’Alessandrino989 . Egli l’ha composta sul finire della vita, più o meno in contemporanea con il Contro Celso, cioè intorno agli anni 244-249990 . Quanto al profilo letterario ed esegetico, sebbene CMt condivida con CIo un’allure tendenzialmente sistematica, analogamente a CRm dà spazio all’istanza di un «let–––––––––––––––––– 987 Si vedano le mie osservazioni a proposito dell’espressione Qew/' dia; Qeou' in Dial 4 (supra, p. 262 e nota 781). 988 CMt X-XVII comprende l’esegesi di Mt 13, 36-22, 33, mentre CMtS giunge fino a Mt 27, 63. Cfr. Danieli-Scognamiglio. 989 Fondamentali al riguardo i lavori di Vogt (Origenes. Der Kommentar zum Evangelium nach Matthäus; Vogt 1999). 990 Secondo la cronologia indicata da Eusebio, HE VI , 34, che situa CMt sotto il regno di Filippo l’Arabo (244-249). Girod (SC 162, p. 8) suggerisce la data del 246, collocando CRm nel 244 e CC nel 248. Invece per Nautin, 376, CMt e CC sono stati scritti insieme, nel 248 o 249.
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tore collaborativo»; anzi, andando oltre lo stesso commentario paolino, in qualche caso formula questioni alle quali non dà risposta. In tal modo, Origene rimanda la soluzione del problema all’intelligenza attiva e responsabile dei futuri lettori e fa del suo commentario, entro certi limiti, un’«opera aperta»991 . Non è facile dar conto della varietà e ricchezza degli spunti tematici contenuti in CMt riguardo alla preghiera992. Né serve prendere da principio come riferimento-guida le posizioni elaborate in Orat, sebbene anche in questo caso si possano trovare diverse conferme ad alcuni dei punti di forza sviluppati da Origene nel trattato. In realtà, il testo evangelico che è l’oggetto del commento, propone già di per sé numerose occasioni di riflettere sul nostro argomento, e questo in misura ben più cospicua che nel quarto vangelo (basti pensare alle istruzioni sulla preghiera e al testo del Padrenostro in Mt 6, sulla cui rinnovata esegesi in CMt non siamo purtroppo documentati)993. Riflette dunque da vicino il contenuto del primo vangelo il fatto che l’Alessandrino focalizzi una buona parte della sua riflessione sul modello di Gesù orante. In particolare, per Origene, con la scena del Getsemani e le ultime parole di Gesù sulla croce, la preghiera prelude e conclude il racconto della Passione. Alla luce di questo paradigma esemplare prende forma anche la preghiera dei seguaci di Cristo: a livello personale e nella dimensione comunitaria. CMt racchiude anch’esso tracce significative di un’«esegesi orante», nel senso che la spiegazione del testo evangelico è sorretta dall’invocazione a Dio per l’intelligenza spirituale, cioè per il dono del Logos e dello Spirito all’interprete (e ai lettori). Né viene trascurata la consapevolezza, più volte ribadita in altri scritti, che preghiera autentica si dà solo con il concorso dello Spirito, grazie al quale la nostra richiesta arriva ad indirizzarsi verso i «beni grandi e celesti», i soli che si confanno alla dignità di Dio e alla sua bontà. Ma CMt è attento anche ai risvolti ecclesiali della preghiera, più di quanto non avvenisse precedentemente, a parte occasionali interventi. A questo fine considera il luogo e le circostanze della preghiera, invitando alla separazione fra «santi» e «peccatori» al momento dell’orazione comunitaria, sia pure con il riguardo pastorale dovuto alla condizione di questi ultimi. Inoltre, sottolinea la centralità della preghiera nella vita della chiesa, se essa vuole davvero essere «casa di orazione» (Is 56, 7). Perché poi tale orazione consegua la richiesta ch’essa rivolge a Dio, essa deve nascere da uno spirito di concordia e pacificazione, a livello sia per–––––––––––––––––– 991 Bendinelli ha ricondotto tali caratteristiche all’esperienza della scuola. Per un diverso approccio si veda Bastit-Kalinowska e Perrone 2001a. 992 Per due rassegne essenziali si veda l’introduzione di Bendinelli, rispettivamente in Origene. Commento a Matteo/1: Libri X e XI, 61-62; Origene. Commento a Matteo: Series/1, Roma 2004, 72-73. Cfr. anche Bendinelli 2009. 993 Cfr. Severus, 1172 ss.; Cullmann, 24 ss.
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sonale che comunitario. Se l’«unanimità» è dunque garanzia di esaudimento, in molte altre forme CMt ci mostra l’utilità e l’efficacia del pregare. 3.2.4.1. «Esegesi orante»: la conoscenza del mistero e i limiti dell’interprete Come si è detto, l’esegesi di Origene in CMt è animata dialetticamente dalla tensione fra l’istanza dell’interpretazione sistematica e la sua apertura ermeneutica in direzione del lettore. In tale tensione s’inserisce per larga parte anche la testimonianza di un’«esegesi orante», dalla quale conviene adesso iniziare la nostra panoramica, anche perché offre subito un interessante termine di confronto. In CMt ne abbiamo infatti una documentazione più cospicua rispetto ai commentari esaminati in precedenza, sebbene esso non faccia differenza nelle convinzioni che sorreggono strutturalmente la pratica esegetica: in sostanza, il commento del testo sacro è visto sempre da Origene come frutto del dono dello Spirito, per il quale all’occorrenza l’autore invoca Dio espressamente. Questo atteggiamento spirituale è ben illustrato da una serie di pronunciamenti ermeneutici, fino all’esternazione orante vera e propria – la prima con la quale abbiamo a che fare nel nostro testo –, che accompagnano l’esegesi della parabola del servo impietoso in Mt 18, 21-35 (CMt XIV, 5-13). Commentando dapprima Mt 18, 21-22 (la domanda di Pietro sul fatto di perdonare «fino a sette volte» e la risposta di Gesù che invita a farlo «settanta volte sette»), Origene ne respinge l’accezione letterale e avvia la spiegazione mediante il richiamo al parallelo di Gn 4, 23-24 su Caino e Lamech, da vendicarsi rispettivamente «sette» e «settantasette volte». L’associazione numerologica con il luogo veterotestamentario aggrava a prima vista l’incertezza sul senso profondo del passo matteano e spinge l’Alessandrino a professare apertamente il mistero e l’accesso di conoscenza garantito solo a chi è «ammaestrato dallo Spirito» di Gesù: «Il loro senso vero, nel quale le avrebbe spiegate lo stesso Gesù, uno potrà saperlo se sarà divenuto amico di Gesù sì da essere ammaestrato nel suo Spirito: questi illumina la ragione di chi è progredito fino a tal punto, a seconda del suo merito. Quanto a noi, che siamo tanto lontani dalla grandezza di un’amicizia verso Gesù, ci contentiamo di poter dire appena qualcosa, sia pur in breve, sul senso di questo passo»994. –––––––––––––––––– 994 CMt XIV , 5 (282, 25-283, 3): to;n me;n ou\n ajlhqh' kai; wJ" aujto;" a]n ejsafhvnisen oJ ∆Ihsou'" eij" tau'ta lovgon, ei[ ti" h[dh fivlo" gevgone tw/' ∆Ihsou', wJ" maqhteuvesqai tw/' pneuvmati aujtou' fwtivzonti to; hJgemoniko;n tou' ejpi; tosovnde proelhluqovto" kat∆ ajxivan, eijdeivh a[n. hJmei'" dev, oiJ tou' filikou' pro;" to;n ∆Ihsou'n megevqou" ajpoleipovmenoi, ajgaphtovn, eij ka]n perilalh'sai ejpi; bracu; duvnameqa ta; kata; to;n tovpon (tr. Scognamiglio II, 114-115).
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La professione di modestia zetetica, dichiarata in termini che fanno venire in mente CIo, soprattutto per il motivo dell’«amicizia verso Gesù», dà luogo in effetti ad una spiegazione succinta, peraltro in tono con l’impostazione generale del commentario 995 . Poco oltre, però, dopo aver tracciato una rassegna cumulativa dei problemi interpretativi posti dalla parabola, Origene torna a ribadire il bisogno dello Spirito di Cristo come condizione per la spiegazione del suo significato profondo: «Chi ne è partecipe, non solo in quanto è Spirito di Cristo ma Spirito di Cristo come Sapienza e Logos potrà ben contemplare ciò che gli si viene rivelando in questo passo»996 . L’auspicato binomio di «Sapienza e Logos», come si verifica in altre esternazioni oranti dell’interprete, a questo punto ispira direttamente ad Origene un’invocazione di preghiera: «Riguardo poi alla spiegazione più sublime non vogliamo certo far promesse, ma nemmeno abbandonare la speranza di cogliere le realtà indicate nella parabola con l’aiuto di Cristo, che è Sapienza di Dio. Avvenga o no che ci vengano dettate cose simili su questo passo, ci suggerisca Dio, in Cristo, di fare ciò che gli è gradito, purché ci sia largita a tal fine la parola di sapienza data da Dio per –––––––––––––––––– 995 Il noto requisito ermeneutico della «mentalità di Cristo» (nou'" Cristou' ), derivato da 1Cor 2, 16 e riformulato anche come «intenzione di Gesù» (bouvlhma tou' ∆Ihsou'), è ribadito più avanti nella spiegazione della stessa parabola; cfr. CMt XIV, 11 (302, 17-29): «Quale dunque sia il vero senso di questi fatti, riconosco che nessuno potrebbe spiegarlo, se Gesù, che in privato, ai suoi discepoli spiega ogni cosa (Mc 4, 34), non prende dimora nella loro mente (ejpidhmhvsanto" aujtou' tw/' hJgemonikw/'), dischiude tutti i tesori oscuri, nascosti (cfr. Col 2, 3) e invisibili delle parabole ed offre certezza, con chiare indicazioni, a chi vuole illuminare con la luce della conoscenza (o}n bouvletai fwtivsai tw/' fwti; th'" gnwvsew") di questa parabola» (tr. Scognamiglio II, 132). Considerando proprio l’incapacità per l’interprete di cogliere appieno l’intentio auctoris, Origene professa quindi nuovamente la sua inadeguatezza (303, 6-21): «È infatti iniziativa della sapienza di Dio esporre quel che è stato profetizzato in qualsivoglia modo e scritto dallo Spirito divino riguardo alle singole qualità e agli atti compiuti a seconda di queste (sia tra potenze invisibili che tra esseri umani). Ma siccome non abbiamo ancora ricevuto una mente idonea, capace di impregnarsi del pensiero di Cristo (1Cor 2, 16) (to;n dunavmenon ajnakraqh'nai tw/' Cristou' nw/)' , di penetrare così grandi realtà, e con lo Spirito scrutare ogni cosa, anche le profondità di Dio (1Cor 2, 10), crediamo che sul senso di questo passo ci possiamo fare appena una vaga idea» (ibi, 133). 996 CMt XIV, 6 (288, 5-25): «Ma è probabile che un ricercatore più attento possa aggiungere altri elementi alla considerazione, elementi superiori, credo, alla spiegazione e all’interpretazione che è secondo l’uomo (cfr. Gal 1, 11), per i quali occorre lo Spirito di Cristo che ha detto queste cose (deomevnhn pneuvmato" Cristou' tou' eijpovnto" aujtav), in maniera da intenderle così come le disse il Cristo. Come infatti nessun uomo può conoscere i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui, e nessuno può conoscere i segreti di Dio se non lo Spirito di Dio (1Cor 2, 11), così nessuno può conoscere (dopo Dio) gli insegnamenti che Cristo ha detto in proverbi e parabole, se non lo Spirito di Cristo. Chi ne è partecipe, non solo in quanto è Spirito ma Spirito di Cristo come Sapienza e Logos potrà ben contemplare ciò che gli si viene rivelando in questo passo» (tr. Scognamiglio II, 118-119).
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mezzo dello Spirito e la parola di conoscenza concessa secondo lo Spirito (cfr. 1Cor 12, 8)»997.
L’auspicio così formulato non solo contiene un’implicazione trinitaria sostanzialmente in linea con gli esempi già visti (quantunque con una strutturazione meno formalizzata dell’abituale “sequenza”: da Dio – per Cristo – nello Spirito) indicando nel Padre la fonte del dono di grazia, ma soprattutto esso mette in pratica il modello prefigurato in Orat XXV, 2. L’Alessandrino vi affermava infatti che «colui che prega per ottenere la parola di sapienza e di conoscenza (cfr. 1Cor 12, 8), giustamente pregherà sempre per questi doni»998 . Egli fa dunque propria ancora una volta questa indicazione, che rinvia alla sua visione del perfezionamento spirituale come progresso conoscitivo sempre più grande. Ora, nell’economia complessiva della spiegazione della parabola, neppure questa preghiera pone termine al succedersi di affermazioni che inculcano ripetutamente il senso del mistero – solo Gesù potrebbe scioglierlo – e pertanto l’inadeguatezza dell’interprete, suscettibile di cogliere i significati reconditi unicamente «per grazia di Dio» e «per virtù del suo intelletto» che risponde all’iniziativa divina999 . –––––––––––––––––– 997 CMt XIV, 6 (288, 30-289, 6): povteron de; w{ste kai; uJpagoreuqh'nai ta; toiau'ta th/'de th/' grafh/' h] mhv, qeo;" a]n uJpobavloi ejn Cristw/' poih'sai to; ajresto;n aujtw/', movnon i{na doqh/' kai; peri; touvtwn oJ dia; tou' pneuvmato" didovmeno" lovgo" sofiva" ajpo; tou' qeou' kai; oJ kata; to; pneu'ma ejpicorhgouvmeno" lovgo" gnwvsew" (tr. Scognamiglio II, 119). 998 Cfr. supra, nota 656. Per testi analoghi che includono come qui il rinvio a 1Cor 12, 8, si veda note 908, 937, 1156. 999 In CMt XIV, 12 (304, 8-27) l’Alessandrino, mentre problematizza l’esegesi della parabola, fa valere in generale per esse il procedimento dell’allegorizzazione e la sua particolare difficoltà: «Ma così bisogna pensare generalmente di qualsiasi parabola, la cui interpretazione non è stata riportata dagli evangelisti, che Gesù spiegava ogni cosa ai propri discepoli in disparte (Mc 4, 34), e i redattori dei vangeli tennero nascosta la chiara spiegazione delle parabole per questa ragione, perché le cose significate da essa superavano la natura delle parole, e ciascuna spiegazione e chiarificazione di tali parabole era tale che neppure il mondo avrebbe potuto contenere i libri scritti (Gv 21, 25) riguardo a queste parabole. Ma avvenga di trovare un cuore idoneo e capace, per la sua purezza, dell’intelligenza letterale della spiegazione delle parabole, in modo che s’iscriva in esso nello Spirito di Dio vivente (2Cor 3, 3) (gevnoito d∆ ajneureqh'nai kardivan ejpithdeivan kai; dia; th;n kaqarovthta cwrou'san ta; gravmmata th'" safhneiva" tw'n parabolw'n, w{ste ejn aujth/' grafh'nai pneuvmati qeou' zw'nto")» (tr. Scognamiglio II , 134, trad. con modifiche). A questo auspicio (gevnoito!) fa da riscontro la cautela dell’esegeta nell’avanzare la propria spiegazione (305, 3-15): «quanto a noi, riconosciamo di essere ben lungi dal potere giungere al senso profondo di questi testi, anche se, in certa misura, otteniamo una conoscenza globale più modesta (tina; bracutevran perinoivan) del senso di questo passo; asseriremo che, alcune di quelle cose che, a mezzo di molta indagine e ricerca ci sembra di scoprire, sia per grazia di Dio sia per virtù del nostro intelletto (ei[te cavriti qeou' ei[te tou' ejn hJmi'n nou' ), non osiamo consegnarle allo scritto; mentre altre le proporremo in qualche misura, per esercitazione nostra e dei nostri lettori» (ibi, 135).
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L’arduo impegno richiesto per Origene dalla spiegazione delle parabole nel testo del primo vangelo attira nuovamente una manifestazione orante nel commento di Mt 20, 1-16, con la successiva parabola dei lavoratori a giornata (CMt XV, 27-37). Il modo di procedere è pressoché analogo al caso precedente, anche se l’avvio dell’esegesi è connotato immediatamente da una preghiera a valore proemiale, che non ha nulla di casuale nella sua formulazione, dato che l’Alessandrino vi riprende una modalità d’orazione presente – come abbiamo visto – anche in CRm, ed anzi “teorizzata” in questo stesso tomo paolino: «Dopo che avremo pregato Dio (Qew/' de; eujxavmenoi) e invocato il nome del Signore nostro Gesù (cfr. 1Cor 1, 2), mettiamoci ad esporre la parabola e consideriamo quali cose ci sia dato (doqhvsetai!) di esaminare e asserire, o anche solo di suggerire a suo riguardo»1000.
Sulle prime il parallelo con CRm potrebbe indurre a pensare che Origene allinei qui il Padre e Cristo come destinatari, per così dire, “paritari” della preghiera, ma ciò contrasterebbe con il passo precedente nel libro XIV, che era del tutto conforme alla sua impostazione più caratteristica. Del resto, l’uso di 1Cor 1, 2 senza ulteriori specificazioni tende semmai a riservare al Padre il vocabolario della «preghiera» in senso proprio (eujxavmenoi), mentre l’«invocazione del nome del Signore» insinua soprattutto l’idea della partecipazione alla «mente di Cristo», richiamata a più riprese come requisito ermeneutico necessario per l’intelligenza spirituale delle parabole. Né deve suscitare interrogativi la mancata menzione dello Spirito, dal momento che l’intero contesto della spiegazione è segnato dall’imprescindibile richiamo ad esso. Infatti, alla consueta problematizzazione del testo a titolo preliminare, l’Alessandrino fa seguire immediatamente il riconoscimento per cui soltanto chi è ammaestrato dallo Spirito è in grado d’intendere la parabola: «Vorrei quindi garantire che la presente parabola ammette questi e altri simili quesiti che uno potrebbe porre. Ma devo decisamente mettere in chiaro anche questo: non c’è alcun altro che possa parlare in modo adeguato di questa parabola se non chi ha affermato con verità: Ora noi abbiamo il pensiero di Cristo (1Cor 2, 16). Ma chi è che ha riconosciuto il pensiero di Cristo (cfr. 1Cor 2, 16) che è in questa parabola, se non colui che si è affidato al Paraclito (oJ ejmparascw;n eJauto;n tw/' Paraklhvtw/), del quale il Salvatore dice: egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto (Gv 14, 26)? Se non è infatti il Paraclito a –––––––––––––––––– 1000 CMt XV, 27 (tr. Scognamiglio II, 259). Nella “retorica orante” di Origene questa preghiera assolve la stessa funzione proemiale di Orat II , 6 e CC IV, 1 (cfr. supra, pp. 54, 266). Per il parallelo con CRm VIII, 5 si veda supra, p. 327. Peraltro, Origene adopera senza problemi il verbo ejpikalei'sqai anche in relazione al Padre (cfr. ad esempio note 797, 861, 1010).
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insegnare tutto quello che disse Gesù, compresa questa parabola, nulla si potrà dire di essa che sia degno di Gesù»1001.
Siamo ancora ai preamboli dell’interpretazione vera e propria, che Origene avvia per una seconda volta con un’intenzione formulare di preghiera: «Suvvia, noi che siamo ben lungi dalla profondità delle realtà espresse e ben poco possiamo immaginare a riguardo, mettiamoci con preghiera a spiegarne parzialmente alcuni punti (ph' me;n met∆ eujch'" tina ejk mevrou" ajpodw'men), a mostrarne un poco altri che vengono alla luce e così andiamo avanti, dopo aver parlato convenientemente riguardo alla parabola ed al suo seguito»1002. Come si può notare anche da questo secondo esempio, l’esegesi orante dell’Alessandrino è accompagnata costantemente dalla professione del mistero racchiuso nelle Scritture ispirate, che richiede un interprete partecipe anch’egli di quello stesso Spirito, ed insieme dall’insistita ammissione dell’insufficienza del commentatore. Nella preghiera, formulata o accennata, i due motivi vengono a saldarsi, così da propiziare il compito che attende l’esegeta. Tuttavia, a conclusione della spiegazione, ritorna, per così dire, la disgiunzione dei due aspetti, nel riconoscere i limiti dei risultati raggiunti prefigurando al tempo stesso un interprete più riccamente dotato dei doni dello Spirito: «È probabile che qualcuno, più sapiente di noi e da Dio reso meritevole di un più splendido carisma di linguaggio di sapienza per mezzo dello Spirito di Dio, più ricco del dono del linguaggio di scienza secondo lo Spirito, con ogni comprensione trovi nella parabola significati più elevati e superiori, abbondi di prove e riceva per esse parole più geniali. Per quanto ci riguarda, abbiamo esposto il senso della parabola nei limiti della nostra comprensione. Ai lettori chiediamo indulgenza se non siamo stati in grado di cogliere in maniera adeguata l’intenzione delle cose scritte in questo testo»1003.
Questi due esempi ci hanno già chiarito che l’atto esegetico è, per così dire, in nuce un atto orante, nel senso che la preghiera prelude o accompagna l’esposizione del commentatore. Se in essi la giustificazione più cogente proveniva dalle difficoltà peculiari del linguaggio parabolico e della sua allegorizzazione, anche fatti narrati da Matteo possono determinare il medesimo atteggiamento. È il caso dell’episodio dei due ciechi di Gerico in Mt 20, 29-34, commentato al libro XVI (CMt XVI, 9-13). La loro preghiera a Gesù – «Signore, abbi pietà di noi, figlio di Davide» (Mt –––––––––––––––––– 1001 CMt XV, 30 ( II, 265). Cfr. anche CMt XV, 31 (444, 27-445, 1): «In realtà però, cercando l’una giornata della presente parabola, e avendo ritenuto che questa si identifichi con l’eone presente, ci siamo addentrati nascostamente nelle profondità di Dio, ed abbiamo bisogno dello Spirito (deovmenoi pneuvmato") che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio (1Cor 2, 10)» (tr. Scognamiglio II, 268). 1002 CMt XV, 31 (tr. Scognamiglio II , 266-267). 1003 CMt XV, 37 (tr. Scognamiglio II , 284-285).
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20, 30) – viene dapprima riletta in chiave storica con intensa partecipazione di Origene che ricollega la supplica e la testimonianza di fede racchiusa in essa alla misericordia di Cristo. Poi il commento trapassa all’interpretazione allegorica e questa transizione è segnata dall’invocazione per l’intelligenza spirituale, all’insegna del binomio «credere e comprendere», già insinuato dal richiamo a Is 7, 9 («Se non crederete non comprendete»): «Dato che noi, se non crediamo non comprendiamo neppure l’intenzione di ciò che si dice, mentre è in base al credere che la comprendiamo, per questo esporremo secondo le nostre capacità ciò che su questo passo ci verrà in mente, dopo aver pregato colui che ci preserva dal rischio che il Vangelo ci rimanga velato (eujxavmenoi tw/' rJuomevnw/ hJma'" ajpo; tou' kekaluvfqai hJmi'n to; eujaggevlion) (cfr. 2Cor 4, 3)»1004.
Origene cambia per la terza volta la formulazione della preghiera, accennando con una perifrasi al suo destinatario; ma dal seguito della spiegazione emerge con chiarezza che si rivolge a Gesù, rafforzando così l’impressione – contrariamente a quanto rilevato poc’anzi per il secondo esempio – che l’Alessandrino non solo giustapponga Padre e Figlio come coloro a cui indirizzare la preghiera, ma indichi anche semplicemente in Cristo il suo destinatario. Tuttavia, considerando di nuovo l’insieme della spiegazione dell’episodio evangelico, con il susseguirsi di apostrofi o pronunciamenti oranti che la contraddistinguono, dobbiamo evidenziare soprattutto la flessibilità dei moduli espressivi, senza che la preghiera a Gesù acquisti uno statuto formale preciso. C’è ancora un’altra considerazione da fare riguardo alla modalità di tali esternazioni oranti: esse riflettono un registro omiletico-parenetico, molto prossimo a quello delle omelie, che porta a coinvolgere i lettori nelle intenzioni di preghiera e a riscrivere per loro il passo evangelico parafrasandolo e attualizzandone il contenuto sul piano morale e spirituale. Dunque, dopo aver sviluppato l’esegesi spirituale dei due ciechi come figura di Israele e Giuda, l’Alessandrino formula un primo auspicio di preghiera e ne introduce poco dopo un secondo, mirato anch’esso ad ottenere l’immedesimazione (di interprete e lettori) con la richiesta di salvezza dei due ciechi: «Voglia il cielo (wJ" ei[qe) che Gesù chiami anche noi che abbiamo gridato a lui: Signore, abbi pietà di noi, figlio di Davide, cominciando con il dire: Figlio di Davide, e, fermandosi, ci chiami, perché fa attenzione alla nostra richiesta!»1005 –––––––––––––––––– 1004 1005
CMt XVI, 9 (503, 1-7 [tr. Scognamiglio III, 53, con leggere modifiche]). CMt XVI, 11 (507, 23-28): wJ" ei[qe kai; hJmw'n pro;" aujto;n kekragovtwn kai; legovntwn: ejlevhson hJma'", kuvrie, fwnhvsai hJma'" ajrcomevnou" ajpo; tou' uiJo;" Daui?d, kai; stav" ge fwnhvsai hJma'" wJ" prosevcwn hJmw'n th/' ajxiwvsei (III, 57). Sull’uso del termine ajxivwsi" per la preghiera di domanda si veda supra, nota 404. Quanto alle formulazioni con ei[qe si veda supra, nota 773.
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«Voglia il cielo (wJ" ei[qe) che pure noi, rendendoci conto di ciò che ci rende ciechi e non ci fa vedere, sedendo presso la strada delle Scritture e sentendo dire che passa Gesù (Mt 20, 30), con la nostra richiesta (dia; th'" hJmetevra" ajxiwvsew") riusciamo a farlo fermare e gli diciamo: Signore, che i nostri occhi si aprano! Se lo diciamo mossi da intenzione e desiderio di vedere ciò che egli concede di vedere toccando gli occhi dell’anima, il nostro Salvatore avrà compassione, ed in quanto Potenza, Parola, Sapienza e tutte quante le realtà che la Scrittura riferisce che egli è, e toccherà i nostri occhi che prima di lui non ci vedevano, ed al suo tocco si allontanerà la tenebra e l’ignoranza, e subito non soltanto recupereremo la vista, ma ci metteremo persino al suo seguito, e il nostro recuperare la vista concorre a che non facciamo altra cosa che seguire colui che ci ha fatto vedere di nuovo, affinché essendo continuamente al suo seguito, sia lui a guidarci verso Dio (pro;" to;n qeovn) e con i nostri occhi che, grazie a lui, hanno ripreso a vedere, contempliamo Dio (to;n qeovn) con quelli proclamati beati perché puri di cuore (cfr. Mt 5, 8)»1006.
In ambedue le esternazioni oranti la supplica indirizzata a Gesù, in realtà, fa emergere di nuovo il suo ruolo come mediatore al Padre, mèta ultima della visione di Dio che il Logos dona agli «occhi dell’anima» liberandola dalla sua cecità tramite l’illuminazione interiore. Sarebbe dunque fuori luogo contrapporre la duplice invocazione a Gesù al paradigma della proseuchv per il solo Padre, non solo perché Origene riscrive pareneticamente il passo matteano, ma anche perché insiste nel variare in continuazione le sue formule, come osserviamo pure qui dal seguito dell’esegesi. Il raffronto sinottico con le versioni dello stesso episodio fornite da Marco e Luca porta infatti l’Alessandrino a ribadire la necessità del Logos per un’interpretazione esaustiva1007. Alla fine della sua spiegazione, poi, a rimarcare ulteriormente l’insufficienza dell’esegesi, Origene formula, a beneficio soprattutto dei lettori, una preghiera per una comprensione più profonda: «Ecco quello che abbiamo notato, per il momento, sui passi , sia per assunzione di altri. Dio conceda a chi vuole un linguaggio di sa–––––––––––––––––– 1006 1007
CMt XVI, 11 (508, 18-509, 14 [III, 58-59]). CMt XVI, 12 (513, 31-514, 4): «Io credo che neppure un iota o un apice (Mt 5, 18) dei divini insegnamenti siano scevri di significato, anzi ritengo che chi riesce a interpretare abbia gran bisogno del Logos, a motivo della difficoltà di interpretazione della realtà (to; de; ejpitugcavnein eJrmhneuvonta hJgou'mai pollou' dei'sqai lovgou dia; to; dusermhvneuton tw'n pragmavtwn)» (tr. Scognamiglio III, 63, con il commento di Danieli, ad loc.). Questo passo è da accostare a CMt XVI, 16: «In rapporto [...] al Logos-in-sé e alla grandezza di Dio, noi non siamo che bestie; e non soltanto noi, ma anche quegli esseri che sono ben più di noi dotati di logos e di sapienza; così pure, in rapporto alla razionalità del Pastore, non siamo che pecore, per il fatto che anche la ragione degli uomini più perfetti, confrontata al Logos-in-sé, è molto più distante da esso di quanto lo sia l’anima di un asino, di un puledro o di una pecora, rispetto all’uomo» (tr. Scognamiglio III, 77 – da confrontare con Orat V, 2; supra, nota 186).
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pienza più abbondante ed un linguaggio di scienza (cfr. 1Cor 12, 8) più fulgido, affinché queste cose (che diciamo), paragonate a quelle che vengono da tali carismi, risultino come una lampada a confronto del sole»1008.
A questi esempi più organici possiamo affiancarne altri che presentano anch’essi le medesime caratteristiche, per cui in tutti i casi si ripropone il nesso fra atto dell’interpretazione e atto della preghiera. Così, se la conclusione dell’esegesi sinottica sull’asina e il puledro con cui Gesù farà il suo ingresso a Gerusalemme, in Mt 21, 1-5, non immette nel testo del commentario un momento di preghiera vera e propria, ne riafferma però l’esigenza con l’esortazione a «fare spazio ad una grazia maggiore riguardo a questo passo» 1009. Invece, la spiegazione dell’episodio della cacciata dei mercanti dal Tempio (CMt XVI, 20-25) – che era già stato oggetto di commento in CIo, come ricorda lo stesso Alessandrino –, è introdotta espressamente dall’invocazione al Padre della sapienza1010. Ora, sviscerando le implicazioni ecclesiali del passo di Is 56, 7 («La mia casa è casa di preghiera»), ripreso da Mt 21, 13, Origene si riappropria del luogo matteano e lo parafrasa nella forma di un auspicio di preghiera: «Voglia il cielo (ajll∆ ei[qe) che Gesù, entrando nel tempio del Padre, la Chiesa, che è casa di preghiera, rovesci i tavoli dei cambiavalute e della gente attaccata al denaro»1011. Infine, anche per l’interpretazione della parabola dei vignaioli omicidi in Mt 21, 33-46 (CMt XVII, 6-14) si riafferma l’idea che un approfondimento esegetico effettivo può darsi soltanto tramite il ricorso orante a Dio: «Ora, come abbiamo detto, questa è una spiegazione di carattere piuttosto complessivo e non basata sui singoli termini. Ma se uno che è spirituale e capace di discernere ogni cosa (cfr. 1Cor 2, 15), ponesse ad essa molte questioni e bussando alla sua oscurità cioè alla porta chiusa (cfr. Mt 25, 10; Lc 13, 25.27) dei –––––––––––––––––– 1008 CMt XVI, 13 (518, 19-26): tau'ta me;n ejpi; tou' parovnto" hJmei'" eij" tou;" tovpou" th'" aijscuvnh" e[rgwn eij" sunaivsqhsin e[rcesqai, i{na aijscunqevnte" dunhqw'sin ajnalw'sai tou;" movcqou" kai; ta; aJmarthvmata aujtw'n. Cfr. inoltre FrLam 29 (248, 26): eujch; para; th'" ÔIerousalhvm to; i[de, kuvrie, th;n ejmh;n ajtimivan (Lam 1, 11). 1179 HReL I, 9 (14, 20-24): «Sed videamus, quali eum prece Anna, id est gratia, consecrat Deo. Novum quippe aliquid in ipsis principiis observabimus. Ait enim: Et oravit Anna et dixit (1Sam 2, 1a). Et nusquam eam quasi ad Deum orantem invenio vel loquentem, nisi per duo tantum verba, ubi dicit: Laetata sum in salutari tuo (1Sam 2, 1 e), et aliud: Quia non est praeter te (1Sam 2, 2 c)». Il testo si attiene alla recensio del Codex Alexandrinus in 1Sam 2, 1a: Kai; proseuvxato Anna kai; ei\pen. Ma a 1Sam 2, 2c Origene doveva leggere: oujk e[stin plh;n sou' invece di oujk e[stin a{gio" plh;n sou' (LXX). Infatti in HReL I , 11 egli commenta così: «Si dixisset: Non est Deus praeter te, vel: Non est creator praeter te, aut tale aliquid addidisset, nihil requirendum videbatur; nunc autem, quia dicit: Non est praeter te, mihi hoc videtur in loco designari: nihil eorum, quae sunt, hoc ipsum, quod sunt, naturaliter habent; tu solus es, cui, quod es, a nullo datum est». 1180 HReL I, 9 (14, 25-15, 5): «Initium autem sic habet: Exsultavit cor meum in Domino (1Sam 2, 1b ), non dixit: Exsultavit cor meum in te; si enim esset oratio, ita dici consequens erat: Exsultavit cor meum in te. Et iterum in sequenti versu dicit: Exaltatum est cornu meum in Deo (1Sam 2, 1c), non dixit: Exaltatum est cornu meum in te, sed in Deo. Dilatatum est super inimicos meos os meum, laetata sum in salutari tuo (1Sam 2, 1d-e).
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eucologica del cantico non è mossa unicamente dall’idea dialogica della preghiera come oJmiliva , espressione del resto non particolarmente caldeggiata da Origene, perché egli aggiunge un’osservazione su quale dovrebbe essere l’orationis ordo. Infatti, a suo giudizio, il testo del cantico si allontana ulteriormente dal genere della «preghiera», intesa adesso come «supplica», poiché inserisce elementi di natura estranea, ascrivibili piuttosto alle «esortazioni» o «raccomandazioni» di carattere morale1181. È evidente che qui Origene si rifà indirettamente al modello della preghiera di domanda raccomandato in Orat, sottolineando nel contempo la sua costitutiva dimensione colloquiale nel rapporto fra l’orante e il Tu divino. L’analisi del cantico di Anna sub specie orationis si arresta un po’ bruscamente in maniera aporetica a 1Sam 2, 3. Dopo aver illustrato la difficoltà a classificarlo in senso proprio come «preghiera», l’Alessandrino ritiene che l’unico modo per intenderlo alla stregua di un’orazione venga dal ricorso alla prospettiva dell’oratio continua. Solo dopo aver precisato che la vita del giusto, intrecciando parole di preghiera e azioni virtuose, è da vedersi come una continua preghiera, Origene potrà passare all’esegesi del brano1182. L’interpretazione del cantico di Anna in chiave spirituale permetterà allora al fedele di farlo proprio quale «preghiera» personale, sollecitandolo a partecipare della medesima condotta di vita 1183. Un’ulteriore testimonianza dell’interesse di Origene per il linguaggio della preghiera nel corpus omiletico sono le critiche che egli rivolge nella XIV Omelia su Geremia al modo di formulare suppliche da parte dei fedeli. In questo passo troviamo, in un certo senso, la risposta orante della comunità alle letture dell’Antico e del Nuovo Testamento, sia pure in una forma considerata erronea dall’Alessandrino. Infatti i fedeli chiedono a Dio di essere resi partecipi della sorte dei «profeti» e degli «apostoli», ma senza che essi siano realmente consapevoli di ciò per cui supplicano. In realtà, chi invoca Dio in questo modo, gli domanda di poter condividere anche lui il destino di persecuzione e sofferenza che ha segnato la vita di profeti e apostoli. Ma chi può davvero augurarsi di sperimentare ciò? Respingendo un atteggiamento che Origene giudica temerario, oltre alle preoccupa––––––––––––––––––
Unus, ut dixi, sermo continet: Laetata sum in salutari tuo, et in consequentibus non dicit: Quia non est sanctus nisi tu, sed: Non est, inquit, sanctus nisi Dominus (1Sam 2, 2b )». 1181 HReL I, 9 (15, 5-10): «Et Non est praeter te (1Sam 2, 2c); hic sermo videtur servasse orationis ordinem; in novissimis autem longe a supplicationis specie etiam commonitiones quasdam introducit dicens: Nolite multiplicare loqui mala, neque exeat magniloquacitas de ore vestro, quia fortis in scientia Dominus (1Sam 2, 3), in quo iam nec videtur ad Dominum loqui». 1182 HReL I, 9 (15, 19-22): «Si enim oratio hoc solum intelligatur, quod communiter scimus, neque Anna in his verbis orasse videbitur neque ullus iustorum secundum apostoli mandatum sine intermissione orare docebitur». Cfr. anche supra, note 1096-1097. 1183 HReL I, 10 (17, 6-7): «Videamus ergo, quid sibi vult ratio ista orationis Annae, quam si didicerimus, similiter fortassis et nos orare poterimus».
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zioni di natura pastorale qui ben percepibili, egli fa valere un’istanza critica nei confronti delle espressioni di preghiera; di conseguenza, invita la comunità ad articolarle in un linguaggio più consapevole e controllato1184. Anche se la “retorica” orante non può non trarre ispirazione e alimento dalle Scritture, come noteremo in seguito anche dalle manifestazioni personali di preghiera dell’Alessandrino, ciò deve sempre trovare corrispondenza in una condizione spirituale che ne assicuri l’autenticità1185. È questo il significato delle immagini più ricorrenti sulla preghiera, che permeano di riferimenti biblici la riflessione origeniana. Le abbiamo già evocate a più riprese e torneremo a richiamarle nell’esame dei nuclei scritturistici. Tali immagini convergono in sostanza nell’inculcare l’idea che la preghiera è il sostituto del «sacrificio» o meglio la sua piena attuazione sul piano delle realtà spirituali, rispetto alla prefigurazione simbolica contenuta nel regime dei sacrifici dell’antica alleanza. «Altare», «vittime» e soprattutto «incenso» nei testi vetero- e neotestamentari sono dunque intesi come equivalenze simboliche dell’esperienza di preghiera. Così, nella IX Omelia su Giosuè Origene interpreta l’altare edificato da Giosuè e i sacrifici offerti su di esso come immagine di quello costruito dal novello Giosuè, cioè Gesù, con le «pietre vive» dei fedeli che, sempre intenti alla preghiera, innalzano a Dio giorno e notte le preghiere e i «sacrifici delle loro suppliche»1186. È questo stesso «sacrificio di preghiere», secondo la spiegazione contenuta nella II Omelia su Levitico, che la chiesa ha offerto fin dal giorno di Pentecoste1187. L’anima del fedele deve dunque possedere in se stessa un «altare» su cui offrire quali «vittime» le proprie –––––––––––––––––– 1184 HIer XIV, 14 (119, 9-19): eij qevlomen meta; tw'n profhtw'n e[cein ajnavpausin, ta; e[rga tw'n profhtw'n zhlwvswmen. o} de; levgw toiou'tovn ejsti: pollavki" ejn tai'" eujcai'" levgomen: qee; pantokravtor, th;n merivda hJmw'n meta; tw'n profhtw'n dov", th;n merivda hJmw'n meta; tw'n ajpostovlwn tou' Cristou' sou dov", i{na euJreqw'men kai; met∆ aujtou' tou' Cristou'. tau'ta de; levgonte" oujk aijsqanovmeqa tiv eujcovmeqa: dunavmei ga;r tou'tov famen: do;" hJma'" paqei'n a} pepovnqasin oiJ profh'tai, do;" kai; hJma'" mishqh'nai wJ" ejmishvqhsan oiJ profh'tai, lovgou" toiouvtou" do;" ejf∆ oi|" mishqhsovmeqa, do;" tosauvtai" peristavsesi peripesei'n ai" oiJ ajpovstoloi. to; ga;r levgein: dov" moi merivda meta; tw'n profhtw'n, mh; paqovnta ta; tw'n profhtw'n mhde; paqei'n qevlonta a[dikovn ejsti. Il prologo di HIer XV, 1 (125, 11-17) riprende lo spunto della precedente omelia: OiJ makarivzonte" tou;" profhvta" kai; tw/' makarivzein aujtou;" eujcovmenoi th;n merivda e[cein meta; tw'n profhtw'n sunagagovntwn ajpo; tw'n lovgwn tw'n profhtikw'n ta; ejxaivreta th'" profhteiva" aujtw'n: zhtou'nte" ou\n peisqei'en , a]n kata; ta; aujta; biwvswsin (eij kai; sklhro;n aujtoi'" ajpanthvsetai ejn tw/' bivw/ touvtw/ mimei'sqai to;n bivon to;n profhtikovn), o{ti teuvxontai th'" ajnapauvsew" kai; th'" makariovthto" meta; tw'n profhtw'n. 1185 Cfr. un rilievo analogo in CMtS 18 (supra, nota 1072). 1186 HIos IX, 1 (347, 3-6): «Unde ego arbitror quod quicumque ex vobis lapidibus vivis apti sunt in hoc et prompti, ut orationibus vacent, ut die noctuque obsecrationes offerant Deo et supplicationum victimas immolent, ipsi sunt ex quibus Iesus aedificat altare». 1187 HLv II, 2 (291, 26–292, 1): «In die enim Pentecostes oblato orationum sacrificio primitias advenientis sancti Spiritus (cfr. At 2, 4) Apostolorum suscepit Ecclesia».
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preghiere, come raccomanda la IX Omelia su Esodo, individuando lo hJgemonikovn come il luogo in cui esercitare tale «sacerdozio» (pontificatus) spirituale1188. A sua volta, l’XI Omelia su Numeri intende anch’essa come vera «immolazione spirituale» l’offerta di lode a Dio e i sacrifici delle preghiere1189. Quanto all’associazione simbolica fra «incenso» e «preghiera»1190, Origene la sfrutta soprattutto nella XVIII Omelia su Geremia. Riallacciandosi a un precedente commento su Sal 140(141), 2, egli contrappone alla preghiera del peccatore – che offre «incenso» inutilmente – la preghiera del giusto: essa s’innalza «leggera» da un cuore che non è «ispessito» e appesantito dal peccato1191. Il passo frammentario non permette di sviscerare meglio il contrasto istituito qui alla luce dell’immagine dell’«incenso» fra il peccatore e il giusto in atto di pregare, ma – come sembrerebbe suggerire anche l’uso del verbo «ispessire» (pacuvnw) in Orat XXIX, 15 – a Origene preme mostrare l’antitesi con l’«orazione nello spirito» in chi a causa del peccato tende, per così dire, a coagulare «anima» e «spirito» nell’elemento inferiore della «carne»1192. All’immagine dell’«incenso», non di rado sviluppando tale significato per antitesi con il «cattivo odore» della preghiera del peccatore, l’Alessandrino associa il «buon odore» o –––––––––––––––––– 1188 HEx IX, 4 (241, 15-22): «Habeat adhuc in se anima ista, quae non dederit somnum oculis suis nec palpebris suis dormitationem nec requiem temporibus suis, donec inveniat locum Domini, tabernaculum Deo Iacob; habeat – inquam – in se defixum et altare, in quo orationum hostias et misericordiae victimas offerat Deo, in quo continentiae cultro superbiam quasi taurum immolet, iracundiam quasi arietem iugulet, luxuriam omnemque libidinem tamquam hircos et haedos litet» (circa il pontificatus dello hJgemonikovn inculcato da questa stessa omelia, cfr. supra, nota 577). Sui due «altari» della preghiera, interiore ed esteriore, in HNm X, 3 si veda supra, nota 1092. 1189 HNm XI , 9 (92, 24-26): «Immolatio spiritalis est illa, quam legimus: immola Deo sacrificium laudis, et redde Altissimo vota tua (Sal 49[50], 14). Laudare ergo Deum et vota orationis offerre immolare est Deo». In HLv V, 7 il «sacrificio di lode» è la condotta retta che ridonda a lode di Dio. 1190 Cfr. ad esempio HEz VII, 3 (infra, nota 1371); HEz XI , 5 (431, 27–432, 1): «Venit ad istum Libanum, hoc est ecclesiam, ubi hostiae Dei, ubi incensum orationum (cfr. Sal 140[141], 2) eius celebratur». 1191 HIer XVIII, 10 (164, 14-22): ta; prwvhn eijrhmevna eij" to;n Yalmo;n eja;n ajnalavbwmen, nohvsomen tiv ejsti to; eij" keno;n ejqumivasan. h\n de; ejn tw/' Yalmw/' toiou'tovn ti eijrhmevnon: genhqhvtw hJ proseuchv mou wJ" qumivama ejnwvpiovn sou (Sal 140[141], 2). oujkou'n hJ proseuchv mou suvnqeto" [...] lepth'" kardiva", o{te mh; pacuvnetai hJ kardiva hJmw'n, ajnapempomevnh givnetai wJ" qumivama ejnwvpion tou' qeou'. eij ou\n hJ tou' dikaivou proseuch; qumivamav ejstin ejnwvpion tou' qeou', hJ tou' ajdivkou proseuch; qumivama mevn, toiou'ton de; qumivama w{st∆ a]n lecqh'nai peri; aujtou' kai; tou' eujcomevnou ajdivkou: eij" keno;n ejqumivasan (Ger 18, 15). 1192 Cfr. Orat XXIX, 15 (390, 10-12): uJpo; th'" sarko;" pacuvnontai, oiJonei; oujkevti e[conte" tovte yuch;n oujde; nou'n ajll∆ o{loi ginovmenoi savrke". Si veda anche FrPr 26 (PG 17, 240A): ta;" pacunqeivsa" yuca;" ajpo; th'" kakiva", savrka" ajfrovnwn wjnovmasen: ou{tw kai; oJ Kuvriov" fhsin: Ouj mh; katameivnh/ to; pneu'mav mou ejn toi'" ajnqrwvpoi", dia; to; ei\nai aujtou;" savrka" (Gn 6, 3).
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«profumo» di una preghiera che si innalza da un «cuore puro e una coscienza buona», come vediamo ancora nella XIII Omelia su Levitico1193. Grazie a tali immagini il corpus omiletico amplia indubbiamente la prospettiva più sobria offerta da Origene nel trattato, mentre per quanto riguarda i paradigmi di oranti – così rilevanti nell’argomentazione di Orat a sostegno dell’efficacia della preghiera –, il loro ricorso vi appare meno organico e più circoscritto. Tuttavia, le omelie richiamano spesso una figura esemplare di orante che sorprendentemente non compariva, almeno in maniera esplicita, fra quelle elencate da Orat: si tratta di Mosè, la cui preminenza assoluta tra i paradigmi di oranti veterotestamentari non è compromessa dall’occasionale associazione con Aronne1194. Il richiamo a Mosè è propiziato soprattutto dal racconto della battaglia d’Israele contro Amalek e del decisivo concorso orante assicurato dal profeta per il suo successo sui nemici: quando egli tiene le braccia alzate per pregare, gli israeliti vincono, ma quando le abbassa, essi perdono (Es 17, 8-16) – un’immagine che l’Alessandrino ha sfruttato soprattutto per inculcare l’accordo fra preghiera e vita1195. Tuttavia, l’esemplarità della preghiera di Mosè non si riduce a quel singolo episodio, anche se esso è il più frequentemente menzionato, né la sua interpretazione si fissa unicamente sul motivo dell’oratio continua. Tra i vari luoghi che evocano il paradigma di Mosè orante, il più significativo è forse quello che compare nella XIII Omelia su Numeri. Origene, commentando i timori del re di Moab all’avanzare d’Israele sul cammino verso la terra promessa, non solo riprende il motivo del sostegno di Mosè alla vittoria ma ne ricava anche un’indicazione più generale sulla preghiera come la vera «arma» dell’antico Israele, analogamente a quanto avviene, con impegno ancor più esclusivo, per il nuovo Israele: infatti i cristiani – come abbiamo visto analizzando il Contro Celso – assicurano il loro sostegno leale all’impero mediante la preghiera1196. A conferma –––––––––––––––––– 1193 HLv XIII, 5 (476, 7-8): «Sed hoc est tus quod Deus ab hominibus sibi quaerit offerri, ex quo capit odorem suavitatis, orationes ex corde puro et conscientia bona» (cfr. anche nota 1091). 1194 Sull’assenza di Mosè nell’elenco dei paradigmi, si veda supra, p. 144. 1195 Cfr. HLv VI, 6. 1196 HNm XIII, 4 (113, 26-114, 1. 6-11): «Sed et amplius aliquid puto, quod moverit regem; videtur enim audisse quia filii Istrahel solent hostes vincere oratione, non armis, nec tam ferro quam precibus. Nulla enim Istrahel adversum Pharaonem arma commovit, sed dictum est ei: Dominus pugnabit pro vobis, et vos tacebitis (Es 14, 14). Sed nec contra Amalechitas quidem tantum vis armorum quantum Moyseis valuit oratio. Ut enim elevasset Moyses manus ad Deum, vincebatur Amalech; remissae vero et deiectae vinci faciebant Istrahel. [...] Audierat ergo rex Moab quia populus hic orationibus vincit et pugnat adversum hostes ore, non gladio et ob hoc sine dubio apud semet ipsum cogitavit dicens: quoniamquidem orationibus populi huius et precibus nulla possunt arma conferri, ideo etiam mihi tales aliquae preces et talia requirenda sunt arma verborum et orationes tales,
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della visuale apologetica sul “pacifismo” d’Israele disegnata dall’Alessandrino in risposta al filosofo platonico come uno degli elementi qualificanti la politeia giudaica e la sua eccellenza comparativa1197, nella XXV Omelia su Numeri egli ribadisce che le vittorie di Israele sono il frutto della pietà e della giustizia, piuttosto che delle armi, tanto che la preghiera di un solo santo è molto più efficace di un’intera armata di peccatori1198. Allo stesso modo, nella comunità cristiana, coloro che si sono consacrati a Dio lottano mediante le loro virtù a sostegno di essa1199. Come precisa ancora la IX Omelia su Giudici, associando metafore che avranno particolare fortuna nella storia dell’orazione cristiana, i fedeli «cercano la loro vittoria non con le lance di ferro ma con i dardi delle preghiere»1200. Occasionalmente l’Alessandrino associa la figura di Aronne al paradigma di Mosè orante: la IX Omelia su Numeri sembrerebbe dapprima voler distinguere la funzione orante come specifica di Aronne, ma unendo successivamente con un’interpretazione di tipo allegorico la «legge» (= Mosè), intesa quale invito alla conversione, alla «supplica» per la liberazione dal peccato, arriva a proporre l’immagine convergente di Mosè ed Aronne quali intercessori per la salvezza del popolo1201. Anzi, secondo questa stessa omelia, piuttosto che osservare la legge entrambi attuano anticipatamente la raccomandazione evangelica di pregare per i nemici ––––––––––––––––––
quae superare possint orationes istorum». Sul rapporto fra preghiera e politica in CC, si veda supra, pp. 273-276. 1197 Cfr. Perrone 2003b. 1198 In HNm XXV, 2 (234, 11-13. 15-17) Origene svolge una considerazione parallela circa i 12.000 israeliti mandati a combattere i madianiti (Nm 31, 5): «ut scias quia non in multitudine nec in numero militum vincit Istrahel, sed iustitia est et pietas in iis, quae vincit... Vides ergo quia multo plus valet unus sanctus orando quam peccatores innumeri proeliando. Oratio sancti penetrat coelum (cfr. Sir 32, 21): quomodo non et hostem vincat in terris?». 1199 HNm XXV, 4 (238, 9-10): «Pugnant autem isti orationibus et ieiuniis, iustitia et pietate, mansuetudine et castitate cunctisque continentiae virtutibus tamquam armis bellicis communiti». 1200 HIud IX, 1 (518, 18-21): «Sic ergo in his, qui militant veritati, sed et qui militant Deo, non corporis, sed animi fortitudo requiritur, quia non iaculis ferreis, sed orationum telis victoria quaeritur, et fides est, quae in certamine tolerantiam praebet». 1201 HNm IX, 3 (57, 23-58, 3): «Ego arbitror quod in Moyse lex significetur, quae docet homines scientiam et amorem Dei, in Aaron supplicandi Deo et obsecrandi eum forma consistat. Si ergo accidat aliquando indignari nobis vel universo populo Deum et si iam sententia ultionis procedat a Domino, redeat autem lex Dei in cor nostrum commonens nos et docens converti ad poenitentiam, satisfacere pro delictis, supplicare pro culpis: cessabit continuo iracundia, indignatio conquiescet, propitiabitur Dominus, quasi Moyse et Aaron intercedentibus pro nobis et pro universo populo supplicantibus». Da notare che in HNm XXVII, 6 il paradigma di Aronne, introdotto in rapporto al regime dei sacrifici, si risolve nell’acquisto delle virtù nel corso del combattimento spirituale.
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(Mt 5, 44), nel momento in cui invocano il perdono di Dio su coloro che si erano ribellati contro di loro (Nm 16, 22)1202. L’intercessione di Mosè è legata all’intimità del suo rapporto privilegiato con Dio, come mostra il commento di Origene all’episodio della lebbra di Miriam (Nm 12, 13) nella VII Omelia su Numeri. Chi altri potrebbe intercedere per la salvezza del popolo se non lui? – si chiede l’Alessandrino e, riconoscendo ulteriormente il privilegio di Mosè, osserva che forse nella scena della Trasfigurazione egli dialoga con Gesù (Mc 9, 4 parr.) per fungere ancora una volta da intercessore in vista della salvezza finale di Israele1203. L’immagine di Mosè che si intrattiene con Dio ritorna nelle Omelie su Luca, dove Origene suggerisce che anche Giovanni Battista abbia goduto della stessa condizione durante la sua permanenza nel deserto, così da propiziare la risposta immediata di Dio alle proprie preghiere. L’allusione a Is 58, 9 – passo che Origene sfrutta regolarmente per indicare l’esaudimento divino nei confronti di colui che è «giusto» o «santo» – sottolinea l’esperienza della preghiera in entrambi i personaggi biblici1204. Mosè orante esemplifica e ricapitola in se stesso il sostegno di preghiera da parte dei santi dell’Antico Testamento, i quali aiutano i fedeli ad affrontare le lotte del combattimento spirituale: nella III Omelia su Giosuè Origene ricorda espressamente i profeti Isaia, Geremia, Daniele, Ezechiele e Osea1205. Qui l’accento verte però piuttosto sull’illuminazione e –––––––––––––––––– 1202 HNm IX, 3 (58, 21-24): «magis evangelii discipuli quam legis, et ideo diligunt etiam inimicos suos atque orant pro persecutoribus suis. Illis enim venientibus, ut interficerent eos, isti procidunt in faciem suam super terram». Cfr. anche HNm IX, 4: «Ecce diligit Moyses inimicos et orat pro persecutoribus suis, quod utique Christus fieri in evangeliis docet. Audite enim, quomodo cadentes in faciem super terram orant pro illis, qui ad interficiendos eos insurrexerant». 1203 HNm VII, 4 (43, 28-44, 1): «Et proclamavit Moyses ad Dominum dicens: Deus, precor te, sana eam (Nm 12, 13). Et quem oportebat orare ad Dominum pro sanitate populi illius nisi Moysen? Orat Moyses pro illis. Et forte hoc erat, quod cum Domino Iesu colloquebatur, cum in monte transformatus est, petens ab eo, ut, cum plenitudo gentium introisset, tunc omnis Istrael salvus fieret» (Rm 11, 25-26). 1204 HLc XI, 4 (69, 17-23): «abiit in deserta, ubi purior aër est et caelum apertius et familiarior Deus, ut quia necdum sacramentum baptismi nec praedicationis tempus advenerat, vacaret orationibus et cum angelis conversaretur, appellaret Dominum et illum audiret respondentem atque dicentem: ecce adsum (Is 58, 9). Sicut enim Moyses loquebatur et Deus respondebat ei (Es 19, 19), sic puto, quod Ioannes locutus fuerit in deserto e Dominus responderit ei». 1205 HIos III, 1 (300, 19–301, 12): «Vide, mihi hodie laboranti in agone vitae huius et habenti certamen adversum inimicos, id est contrarias potestates, quomodo in auxilium veniunt illi, qui ante adventum Iesu Christi Domini mei in lege iustificati sunt. Vide, quomodo Esaias mihi praestat auxilium, cum me sermonibus suae lectionis illuminat. Vide accinctum et expeditum venientem Hieremiam ad auxilium nostrum et voluminis sui iaculis hostes acerrimos, cordis mei tenebras, effugantem. Accingitur et Daniel ad auxilium nostrum, cum nos de Christi praesentia ac regno et de Antichristi futura fraude instruit et praemonet. Adest et Ezechiel sacramenta nobis coelestia in quadriformibus rotarum cir-
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sull’istruzione spirituale assicurate dai loro scritti, mentre altrove si citano gli esempi di preghiere ad opera di Giosuè, Samuele, Elia ed Eliseo1206, o l’intercessione del giusto Daniele e dei Tre Giovani (Dn 3, 24 ss. LXX) nel mezzo di un popolo condannato all’esilio perché peccatore1207. Tuttavia, per nessuna di queste figure bibliche si può parlare, come nel caso di Mosè, di veri e propri “paradigmi oranti”. Invece è sempre il modello del profeta che interviene nuovamente, quando si tratta di trovare un termine di confronto con Gesù, l’unico esempio di orante che le omelie tendono a mettere in rilievo nel Nuovo Testamento. Proprio la comparazione fra il profeta e il Salvatore serve ad evidenziare, nell’VIII Omelia su Numeri, l’efficacia incomparabilmente maggiore di Gesù quale «avvocato» che intercede presso il Padre per il perdono dei peccati1208. In questa omelia l’Alessandrino insiste sul fatto che nel racconto biblico le manifestazioni dell’ira divina verso i peccatori vengono descritte anche al fine di dare spazio alla supplica per il perdono1209. Soprattutto nelle Omelie su Levitico Origene conferisce risalto alla figura di Gesù come «avvocato» e intercessore per la propiziazione, riallacciandosi in particolare al motivo del «Paraclito» in 1Gv 2, 1-2, che aveva sfruttato anche in Orat1210. Ma nella VII Omelia su Levitico egli lo intreccia ––––––––––––––––––
culis signans et rotam concludens in rota. Ducit et Osee bis senas prophetici agminis turbas et procedunt omnes succincti lumbos in veritate, quam praedicant ad auxilium fratrum suorum, ut eorum voluminibus instructi diabolicas non ignoremus astutias. Isti ergo qui viri fortes sunt, armati et praecincti lumbos in veritate exeunt in auxilium nostrum et pugnant nobiscum». 1206 Sulla preghiera di Giosuè in Gs 10, 12-17, cfr. HIos XI, 1 (362, 13-16): «Tunc vero Iesus videns divinam secum dexteram proeliantem et prosperis successibus cuncta procedens, novam quandam et miram orationem extollit ad coelum»; su Samuele ed Elia: H37Ps II, 3; su Eliseo: HLc XXIII, 9. 1207 HEz I, 2 (320, 21-24): «Daniel non peccavit, Ananias, Azarias, Misael a peccato immunes fuerunt et tamen captivi effecti sunt, ut ibi positi captivum populum consolarentur et per exhortationem vocis suae paenitentes in Hierusalem restituerent castigatos pro tempore». 1208 HNm VIII, 1 (53, 6-12): «statim enim ut conversus ingemueris, salvus eris (cfr. Is 45, 22). Invenies enim advocatum, qui pro te interpellat patrem, Dominum Jesum, multo praestantiorem quam fuit Moyses, qui tamen oravit pro populo illo et exauditus est. Et fortasse propterea Moyses scribitur intervenisse pro peccatis populi prioris et impetrasse veniam, ut multo magis nos confidamus quod advocatus noster Iesus indubitatam nobis veniam praestabit a patre». 1209 HNm VIII, 1 (49, 18-22): «Scribitur enim irasci Deus et comminari interitum populo, quo doceatur homo tantum sibi esse apud Deum loci tantumque fiduciae, ut, etiamsi sit aliqua in Deo indignatio, obsecrationibus mitigetur humanis, tantumque de eo impetrare posse hominem, ut et propria statuta convertat». 1210 Cfr. supra, nota 416. Pastorelli non tiene conto di questi passi. Sul ruolo di Cristo come intercessore si veda inoltre HIer XIV, 11 (115, 27-116, 1): safw'" ejn tw/' kairw/' th'" e[cqra" ejkeivnou th'" kata; tw'n ajnqrwvpwn parevsth tw/' Patri; oJ swth;r hJmw'n kai; ejdehvqh peri; th'" hJmetevra" aijcmalwsiva", i{na lutrwqw'men kai; rJusqw'men ajpo; tou' ejcqrou'.
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con altri luoghi scritturistici (Mt 26, 29; Eb 9, 24; Fil 2, 6-7) per formulare l’idea che Cristo, in quanto Filius caritatis (cfr. Col 1, 13), non può ancora partecipare della gioia piena del regno ma si trova in sofferenza fino a quando egli dovrà piangere per i peccati degli uomini e intercedere per la loro salvezza 1211. La grandezza del ruolo di Gesù come intercessore presso il Padre viene ad essere evidenziata anche dal confronto con l’esempio di Paolo, il quale piange per la sorte dei peccatori e invoca Dio perché essi si salvino: come nel caso di Mosè e di Paolo, vale a fortiori per Cristo il fatto che la compassione lo solleciti a supplicare il Padre, ma la sua supplica è accompagnata dai santi dell’Antico e del Nuovo Testamento, profeti e apostoli, che condividono anch’essi la medesima attesa per la salvezza universale1212. Quanto intensa sia la riflessione dell’Alessandrino sulla propiziazione ad opera di Gesù, ci appare anche dal richiamo alla «preghiera sacerdotale» di Gv 17: «Per questo forse effondeva la preghiera al Padre dicendo: Padre santo, glorifica me con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse (Gv 17, 5). Dunque non vuole ricevere la sua gloria perfetta senza di te, cioè senza il suo popolo, che è il suo corpo e che sono le sue membra»1213.
L’ampia e suggestiva riflessione su Gesù intercessore di salvezza suscitata dalla spiegazione dell’ingresso del pontefice nel santuario non rimane isolata, perché Origene vi si sofferma nuovamente nella IX Omelia su Levitico, dove commenta i riti del giorno dell’espiazione1214. L’inveramento spirituale della ritualità giudaica è rappresentato ai suoi occhi dalla propiziazione conseguente alla morte del Salvatore, alla sua discesa agli –––––––––––––––––– 1211 HLv VII, 2 (374, 19–375, 2): «Salvator meus luget etiam nunc peccata mea. Salvator meus laetari non potest, donec ego in iniquitate permaneo. Quare non potest? Quia ipse est advocatus pro peccatis nostris apud Patrem, sicut Iohannes symmista eius pronuntiat dicens quia et si quis peccaverit, advocatum habemus apud Patrem Iesum Christum iustum; et ipse est repropitiatio pro peccatis nostris (1Gv 2, 1-2). Quomodo ergo potest ille, qui advocatus est pro peccatis meis, bibere vinum laetitiae, quem ego peccando contristo? Quomodo potest iste, qui accedit ad altare (cfr. Lv 10, 9), ut repropitiet me peccatorem, esse in laetitia, ad quem peccatorum meorum maeror semper adscendit?». 1212 HLv VII, 2 (375, 19-27): «Pro his ergo omnibus adsistit nunc vultui Dei interpellans pro nobis (cfr. Eb 9, 24), adsistit altari, ut repropitiationem pro nobis offerat Deo; et ideo dicebat tamquam accessurus ad istud altare: Quia iam non bibam de generatione vitis huius, donec bibam illud vobiscum novum (cfr. Mt 26, 29). Exspectat ergo, ut convertamur, ut ipsius imitemur exemplum, ut sequamur vestigia eius et laetetur nobiscum et bibat vinum nobiscum in regno Patris sui. Nunc enim quia misericors est et miserator Dominus (cfr. Sal 102, 8), maiore affectu ipse quam Apostolus suus flet cum flentibus et cupit gaudere cum gaudentibus (cfr. Rm 12, 15)». 1213 HLv VII, 2 (tr. Danieli, 156-157). 1214 L’interpretazione origeniana, nel quadro dell’esegesi giudaica e cristiana antica, è stata analizzata da Stökl Ben Ezra, 261-269. Sulle pratiche giudaizzanti in occasione della Pasqua, della celebrazione del sabato o dello Yom Kippur si veda, in particolare, HIer XII, 13.
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inferi ad immagine del capro emissario e alla sua ascensione finale presso il Padre, al quale offre come vittima sull’altare celeste la nostra carne purificata. Reinterpretando in chiave cristiana Lv 16, l’Alessandrino spiega l’ingresso del sommo sacerdote nel Santo dei santi una sola volta l’anno, nella festa di Yom Kippur, come l’accesso di Gesù presso il Padre, dopo aver compiuto l’economia della salvezza, al fine di intercedere per tutti coloro che credono in lui. La durata della festa ebraica fino al tramonto è, a sua volta, intesa simbolicamente quale il segno dell’attesa orante del popolo dei fedeli, mentre il sommo sacerdote Gesù prega il Padre nel santuario celeste intercedendo per loro: «una sola volta in questo anno, nel giorno della propiziazione, entra nel Santo dei Santi (cfr. Es 30, 10): cioè quando, compiuta l’economia, penetra i cieli (Eb 4, 14) ed entra nel Padre (intrat ad Patrem), per renderlo propizio al genere umano e per pregare per tutti quelli che credono in lui (ut eum propitium humano generi faciat et exoret pro omnibus credentibus in se). [...] Il giorno della propiziazione rimane per noi fino a che tramonti il sole (cfr. Lv 11, 25), cioè fino a che il mondo finisca. Giacché noi stiamo davanti alle porte (cfr. Gc 5, 9) aspettando il nostro pontefice che indugia nel Santo dei Santi, cioè presso il Padre (cfr. 1Gv 2, 1-2), e prega per i peccati di coloro che lo attendono (cfr. Eb 9, 28), non prega per i peccati di tutti [...] prega soltanto per coloro che sono la sorte del Signore»1215.
Sviluppando ulteriormente il tema della propiziazione nella XIII Omelia su Levitico, a commento delle prescrizioni sui «pani della proposizione» (Lv 24, 5-9) – interpretati tipologicamente come forma di «preghiera e supplica» (exoratio quaedam et supplicatio) a Dio da parte delle tribù di Israele –, Origene riafferma l’unicità della propiziazione assicurata da Gesù con la sua opera di salvezza. Solo lui può realizzare efficacemente quella intercessione di cui i «pani» sono il tipo, e che si rinnova nel «memoriale» (commemoratio) eucaristico 1216. Come dichiara la conclusione –––––––––––––––––– 1215 HLv IX, 5 (427, 9-428, 2 [tr. Danieli, 215-216]). La propiziazione attuata da Gesù viene illustrata alla luce sia di 1Gv 2, 1-2 che di Rm 3, 25. 1216 HLv XIII, 3 (471, 12-27): «Secundum ea, quae scripta sunt, in duodecim panibus duodecim tribuum Istrahel videtur commemoratio ante Dominum fieri et praeceptum dari, ut sine cessatione isti duodecim panes in conspectu Domini proponantur; ut et memoria duodecim tribuum apud eum semper habeatur, quo veluti exoratio quaedam et supplicatio per haec pro singulis fieri videatur. Sed parva satis et tenuis est huiuscemodi intercessio. Quantum enim proficit ad repropitiandum, ubi uniuscuiusque tribus per panem fructus, per fructus opera consideranda sunt? Sed si referantur haec ad mysterii magnitudinem, invenies commemorationem istam habere ingentis repropitiationis effectum. Si redeas ad illum panem, qui de caelo descendit et dat huic mundo vitam (cfr. Gv 6, 33), illum panem propositionis, quem proposuit Deus propitiatorem per fidem in sanguine eius (cfr. Rm 3, 25), et si respicias illam commemorationem, de qua dicit Dominus: Hoc facite in meam commemorationem (1Cor 11, 25), invenies quod ista est commemoratio (cfr. Lv 24, 7) sola, quae propitium facit hominibus Deum».
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della I Omelia su Isaia, richiamando all’assemblea l’immediatezza di tale aspetto nel vissuto comunitario, «Gesù Cristo è presente, e assiste, ed è pronto – rivestito della dignità di sommo sacerdote – ad offrire al Padre le suppliche» dei fedeli 1217. 3.3.4. Dimensione comunitaria e aspetti individuali: la preghiera e il combattimento spirituale In un passo della II Omelia su Esodo Origene osserva che le Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, insegnando agli uomini il timore di Dio, hanno fatto sorgere le chiese e riempito l’intera ecumene di luoghi di preghiera 1218. Se consideriamo il contesto ravvicinato delle omelie, è dunque comprensibile che i modelli di oranti approfonditi dall’Alessandrino nella sua predicazione siano finalizzati a illuminare le dimensioni ecclesiali della preghiera (in riferimento sia alla chiesa celeste sia alla chiesa terrena) forse ancor più che le sue espressioni individuali, sebbene ad uno sguardo più attento queste ultime siano intrecciate ineludibilmente con le prime. Si spiega così – come abbiamo visto emergere nelle Omelie su Levitico – l’insistenza particolare sul compito dei sacerdoti come intercessori, ad imitazione non solo di Mosè ed Aronne ma anche di Gesù, «sommo sacerdote» e nostro «avvocato» presso il Padre1219. Anche le Omelie su Numeri lo ribadiscono in diverse occasioni, richiamando l’ufficio orante a cui i presbiteri sono tenuti nella cornice ideale della communio sanctorum. Come tale, esso è ispirato dalla solidarietà spirituale e dalla compassione dei santi per i traviamenti dei peccatori, che li spinge a impegnarsi continuamente nella preghiera a loro beneficio1220. Alla pre–––––––––––––––––– 1217 HIs I, 5 (infra, nota 1309). Anche HLc XXXII, 6 prospetta ai fedeli la visione del Figlio di Dio come presente tra loro: «Et nunc, si vultis, in hac synagoga coetuque possunt oculi vestri attendere Salvatorem. Cum enim principale cordis tui direxeris aciem ad sapientiam et veritatem Deique Unigenitum contemplandum, oculi tui intuentur Iesum. Beata congregatio, de qua scriptura testatur, quod omnium oculi erant attendentes in eum (Lc 4, 20)! Quam vellem istum coetum simile habere testimonium, ut omnium oculi, et catechumenorum et fidelium, et mulierum et virorum et infantium, non corporis oculi, sed animae aspicerent Iesum! Cum enim respexeritis ad eum, de lumine eius et intuitu clariores vestri vultus erunt et dicere poteritis: Signatum est super nos lumen vultus tui, Domine (Sal 4, 7): cui est gloria etc.». 1218 HEx II, 2 (nota 540). 1219 Secondo HLv VI, 6 (369, 21-24), i compiti del sacerdote sono da un lato pregare e meditare sulle Scritture, dall’altro ammaestrare il popolo: «Haec duo sunt pontificis opera, ut aut a Deo discat legendo scripturas divinas et saepius meditando aut populum doceat. Sed illa doceat, quae ipse a Deo didicerit, non ex proprio corde (cfr. Ez 13, 2), vel ex humano sensu, sed quae Spiritus docet». Cfr. anche HLv VII , 1 (supra, nota 1168). 1220 HNm V, 3 (29, 9–11.13-16): «Alii sint altare incensi, quicumque orationibus et ieiuniis die ac nocte vacant in templo Dei, orantes non solum pro semet ipsis, sed et pro
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ghiera dei sacerdoti nella chiesa terrena corrisponde, infatti, nella chiesa celeste quella dei santi che sostengono con le loro orazioni, il loro esempio e i loro scritti – come è il caso di profeti e apostoli – il combattimento spirituale dei fedeli nell’agone dell’esistenza terrena1221. Ai santi defunti si affiancano inoltre gli angeli, che completano l’immagine della chiesa celeste conformemente alla trattazione già sviluppata da Origene specialmente in Orat e CC: stanto alla XXIII Omelia su Luca, egli individua con chiarezza l’esistenza di una «duplice chiesa», formata rispettivamente di uomini e di angeli, mentre la XX Omelia su Numeri sviluppa la dottrina dell’«angelo custode» per ogni fedele, che si fa interprete presso Dio delle sue richieste di perdono 1222. Nella XVI Omelia su Giosuè, rifacendosi all’esegesi fornita presumibilmente da un maestro giudeocristiano su Nm 22, 4 («Ora questa moltitudine divorerà quanto è intorno a noi, come il bue divora l’erba dei campi»), Origene presenta come dottrina tradizionale l’idea dell’assistenza orante della chiesa celeste alla chiesa terrena, nella persona dei «padri» che ci hanno preceduto nella fede, grazie alla quale i fedeli ricevono aiuto nelle loro lotte contro le forze del male1223. Vale an––––––––––––––––––
universo populo. [...] Porro qui cum omni fiducia per hostias precum supplicationumque victimas Deum hominibus repropitiant et pro delictis populi interveniunt, propitiatorium nominentur»; HNm X, 2 (72, 1-2): «sacerdotis autem officium est pro populi supplicare peccatis». 1221 HNm XXVI, 6 (253, 26-254, 3): «Quis enim dubitat quod sancti quoque patrum et orationibus nos iuvent et gestorum suorum confirment atque hortentur exemplis, sed et voluminibus suis per ea, quae nobis ad memoriam scripta reliquerunt, docentes nos et instruentes, quomodo adversum inimicas potestates dimicandum sit et quomodo agonum toleranda certamina?». Possiamo richiamare qui anche FrCt 75 su Ct 8, 4, secondo cui «la sposa scongiura le anime dei santi di intercedere per noi peccatori, finché Dio non ci abbia accolti» (tr. Barbàra, 269). 1222 HNm XX, 3 (194, 11-14): «Adest unicuique nostrum, etiam minimis qui sunt in ecclesia Dei, angelus bonus, angelus Domini, qui regat, qui moneat, qui gubernet, qui pro actibus nostris corrigendis et miserationibus exposcendis cotidie videat faciem patris, qui in coelis est». Per il passo di HLc XXIII , 8 cfr. supra, nota 548. Anche HIud III, 6 assicura agli oranti l’ausilio degli angeli. 1223 HIos XVI, 5 (399, 14-400,4): «Ego sic arbitror quod omnes illi, qui dormierunt ante nos patres, pugnent nobiscum et adiuvent nos orationibus suis. Ita namque etiam quendam de senioribus magistris audivi dicentem in eo loco in quo scriptum est in Numeris quia: ablinget synagoga illa hanc synagogam, sicut ablinget vitulus herbam viridem de campo (Nm 22, 4). Dicebat: quare huiusmodi similitudo assumpta est, nisi quia hoc est, quod intelligendum est in loco, quod synagoga Domini, quae nos praecessit in sanctis, ore et lingua consumet adversariam synagogam, id est orationibus et precibus adversarios nostros absumet? Non ergo in armis pugnandus est nobis adversum hostes nostros invisibiles, sed orationibus et verbi Dei meditationibus et operibus ac sensibus rectis. Sic enim armabantur et patres fide et operibus vincentes». Si veda anche HEx XI, 4 (256, 5-7.1011.13-18): «si vis vincere, si vis obtinere, eleva manus, eleva actus tuos et conversatio tua non sit in terris. [...] Eleva et tu manus ad Deum, imple mandatum quod Apostolus dicit: Sine intermissione orare (1Ts 5, 17). [...] Per quod, ut a maioribus accepimus, indicari dicitur quia populus Dei non tam manu et armis quam voce et lingua pugnabat, id est ora-
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che per questa azione di preghiera dei presbiteri l’avvertenza che essa non sia contraffatta e deturpata da preoccupazioni e condotte estranee, come l’esercizio di un culto sacerdotale viziato da ambizioni di potere. A sua volta, la III Omelia su Giudici mette in guardia contro tali insidie, riproponendo l’immagine del contrasto fra il «profumo» che viene dal sacrificio di preghiere del giusto e il «fetore» di chi prega per il peccato1224. Se lo sfondo della communio sanctorum dona all’orante la certezza consolatrice di non essere mai solo nella sua lotta, Origene comunque raccomanda sempre di non venire meno all’impegno di preghiera, sia comunitario sia individuale, dal quale dipende in maniera decisiva l’esito della salvezza. Tale convinzione lo induce a respingere con fermezza, nella IV Omelia su Ezechiele, la pretesa dei confessores, i quali rivendicano al potere di intercessione delle loro preghiere la forza di strappare chiunque alla geenna. In realtà, a nulla serve avere un padre martire – come l’Alessandrino dichiara con un trasparente richiamo autobiografico –, se non si vive in maniera degna della sua testimonianza di fede1225. Fra i pochi spunti delle omelie ascrivibili più direttamente a quella che oggi chiameremmo una “pastorale della preghiera” troviamo il rimprovero rivolto a coloro che frequentano la chiesa soltanto nei giorni di festa: come pensano di osservare il precetto dell’Apostolo, che raccomanda di «pregare senza posa» (1Ts 5, 17), o di sfuggire alle cadute nelle tentazioni, dal momento che fanno così poco conto dell’ammonimento di Gesù: «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione» (Mc 14, 38)?1226 La raccomandazione a pre––––––––––––––––––
tionem fundens ad Deum prosternebat inimicis. Ita ergo et tu si vis vincere inimicos, eleva actus tuos, clama ad Deum, ut dicit Apostolus: Orationi instantes et vigilantes in ea (Col 4, 2)». Cfr. inoltre HNm XIII, 5; FrNm 22, 4. Come osservato da Dorival, Les Nombres, 419, si tratta di un’esegesi trasmessa ad Origene dal suo maestro giudeocristiano. Per i riferimenti alla corrispondente tradizione midrashica si veda Krauss, 153. 1224 HIud III, 2 (481, 20–482, 1): «Nonnumquam autem morbus iste superbiae penetrat non solum pauperes plebis, verum etiam ipsum sacerdotalem et Leviticum ordinem pulsat. Invenias interdum etiam in nobis aliquos, qui ad exemplum humilitatis positi sumus et in altaris circulo velut specula quaedam intuentibus collocati, in quibus arrogantiae vitium foetet, et de altari Domini, quod deberent incensi suavitate flagrare, odor taeterrimus superbiae et elationis renidet». 1225 HEz IV, 8 (368, 25–369, 3): «ob nonnullorum insipientiam qui sensum animi sui Dei esse adserunt veritatem, et frequenter dicunt “futurum est ut unusquisque nostrum precibus suis eripiat quoscumque voluerit de gehenna”. [...] Nihil mihi conducit martyr pater, si non bene vixero et ornavero nobilitatem generis mei, hoc est testimonium eius et confessionem qua illustratus est in Christo». 1226 HGn X, 1 (94, 16-22): «Sine intermissione orandum (cfr. 1Ts 5, 17) apostolus praecipit; vos, qui ad orationes non convenitis, quomodo completis sine intermissione quod semper omittitis? Sed et Dominus praecipit: vigilate et orate, ne intretis in tentationem (Mc 14, 38). Quodsi illi vigilantes et orantes et semper verbo Dei adhaerentes tentationem tamen nequaquam fugerunt, quid faciunt hi qui diebus tantum sollemnibus ad ecclesiam veniunt?» Cfr. anche supra, note 589, 613.
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gare per reggere alle prove del combattimento spirituale è un motivo dominante nella predicazione di Origene, che scaturisce dalla sua viva consapevolezza dell’imprescindibile orizzonte agonico dell’esistenza terrena1227. La supplica a Dio è tanto più urgente e necessaria per chi abbia offuscato l’immagine divina che reca in sé: insistendo nella supplica, l’aiuto della grazia farà sì che l’immagine ricuperi i suoi colori e torni a risplendere1228. Come Gesù ha mostrato con il suo stesso esempio, colui che unisce digiuno e preghiera riesce a trionfare sugli assalti del nemico 1229. Persistendo saldamente nell’invocare il sostegno divino, schiacceremo con più rapidità le potenze nemiche che non ci danno tregua1230. Potremo inoltre rintuzzare il loro attacco, che insinua nella mente pensieri e desideri malvagi, anche con il ricorso «antirretico» alle parole della Scrittura sull’esempio stesso di Cristo, secondo il modello di risposta o reazione all’Avversario già prefigurato dall’Alessandrino nell’Esortazione al martirio e ampiamente sviluppato poi da Evagrio1231. In una preghiera introdotta dalla I Omelia su Giudici quale risvolto orante dell’esegesi in atto, i fedeli sono esortati a non smettere di pregare, affinché i loro giorni siano sempre illuminati dalla luce di Cristo e non sorga su di loro la luce oscura di Satana1232. –––––––––––––––––– 1227 H36Ps II, 1 (78, 88–80, 95): «Propterea ergo videntes quia omnis vita nostra agonem quendam obaudientiae gerit, sive Christi, sive huius qui contrarius est Christi, conemur per orationis, per eruditionis religiosam institutionem hoc agere, ne umquam diabolo vel malitiae eius oboedire inveniamur, sed omnis actus noster et omnis sermo atque omnis cogitatio inveniatur in subiectione Christi». 1228 HGn XIII, 4 (120, 5-9): «Propterea ergo deprecandus est nobis ille qui dicit per prophetam: ecce ego deleo sicut nubem iniquitates tuas, et sicut caliginem peccata tua (Is 44, 22). Et cum deleverit omnes istos in te colores qui ex fucis malitiae sumpti sunt, tunc resplendet in te imago illa quae a Deo creata est». 1229 HEx II, 3 (158, 17-19): «Sed propterea Christus superavit et vicit, ut tibi vincendi iter aperiret. Propterea ieiunans vicit, ut et tu scias huiusmodi genus daemoniorum ieiuniis et orationibus superandum (Mc 9, 29)». 1230 HEx III, 3 (170, 9-10.14-17): «Stamus autem confidenter, si Dominum deprecemur, ut statuat pedes nostros super petram (Sal 39[40], 3). [...] Si enim fortiter steterimus, consequitur et illud quod orat Paulus pro discipulis dicens quia: Deus conteret Satanae sub pedibus vestris velociter (Rm 16, 20)». 1231 HEx I, 5 (153, 4-8): «Si cum mihi cogitationem inicit malas et concupiscentias pessimas, ego non suscipiam, sed iacula eius ignita scuto fidei repellam (Ef 6, 16), si in omnibus quaecumque suggerit menti meae, ego memor Christi mei Domini dicam: Vade retro, Satana etc. (Mt 4, 10 [Dt 6, 13])». Sull’uso “antirretico” della Scrittura in EM, cfr. supra, pp. 255-256. 1232 HIud I, 1 (467, 13-22): «Oremus ergo, ut semper in nobis Christus, qui est lux vera, faciat dies bonos nec umquam Zabulo nos illuminante habeamus in nobis dies malos, de quibus dicit Apostolus: redimentes tempus, quoniam dies mali sunt (Ef 5, 16). Dies enim malos habemus, quando carnalia pro spiritalibus quaerimus, terrena pro caelestibus, pro aeternis caduca, praesentia pro futuris. Si quando ergo huiuscemodi in te desideria videris exoriri, scito te in diebus malis et pessimis positum; et ideo insiste orationibus, ut libereris a die malo et, sicut dicit Apostolus, eripiaris de praesenti saeculo malo».
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L’immagine demoniaca del «leone» che minaccia di distruggere e divorare il fedele offre un’altra occasione all’Alessandrino, nella V Omelia su Geremia, per esortare la comunità a convertirsi, a far penitenza ed invocare Dio nella preghiera onde sfuggire alla sua bocca vorace1233. L’insidia delle forze del male può manifestarsi specialmente con le prove delle persecuzioni. Origene vi accenna, in particolare, nella VII Omelia su Giudici, raccomandando, nel caso si sia consegnati nelle mani delle potenze nemiche per l’imperscrutabile volere divino, di implorare da Dio la forza di resistere nella prova 1234. Ma si può essere preda dei demoni anche in altro modo, come avviene a quanti sono tribolati da essi nel corpo e nella mente: in tal caso, si dovrà ricorrere alle invocazioni degli esorcismi con molte preghiere e molti digiuni, anche se l’esito positivo non è sempre garantito 1235. Consapevole della sua costitutiva debolezza, il fedele posto davanti all’alternativa tra sottomettersi a Cristo o sottomettersi a Satana – come inculcano ripetutamente le Omelie su Salmo 36 – è sollecitato a domandare l’aiuto di Dio perché in ogni circostanza di vita diriga i suoi passi sulla via di Cristo1236. –––––––––––––––––– 1233 HIer V, 17 (47, 5-9): ejpei; ou\n ajnevbh levwn kai; ajpeilei' soi levwn kai; bouvletaiv sou ajfanivsai th;n gh'n, perivzwsai savkkon, klai'e kai; pevnqei, dia; tw'n eujcw'n parakavlei to;n qeovn, i{na tou'ton to;n levonta ejxoloqrevush/ ajpo; sou kai; mh; ejmpevsh/" aujtou' eij" to; stovma. Cfr. anche FrIer 28 (213, 12-15), su Ger 27, 17: ajll∆ wJ" Dabi;d labw;n tou' pwvgono" to;n levonta e[pnixen, ou{tw to;n pneumatiko;n Dabivd, to;n Cristovn, ejxaithvswmen labovnta to;n levonta kai; pa'n to; tw'n qhrivwn sunevdrion ajnelei'n. 1234 HIud VII, 2 (506, 22-507, 3): «Propterea ergo, fratres, deprecemur Dominum confitentes ei infirmitatem nostram, ne nos tradat in manus Madian (Sal 73[74], 19), ne tradat bestiis animam confitentem sibi, ne nos tradat in potestatem eorum, qui dicunt: quando veniet tempus, ut detur nobis potestas adversus Christianos, quando tradentur in manus nostras isti, qui se dicunt habere vel nosse Deum? Quod et si tradamur et acceperint potestatem nostri, oremus accipere a Deo virtutem, ut sustinere possimus, ut fides nostra in pressuris et tribulationibus clarior fiat, ut per patientiam nostram illorum superetur impudentia et, sicut dixit Dominus, in nostra patientia acquiramus animas nostras». Questo passo merita di essere considerato anche nella prospettiva di «preghiera e martirio», poiché subito dopo Origene afferma la superiorità del «battesimo di sangue» per la remissione dei peccati sul battesimo di acqua. 1235 HIos XXIV, 1 (448, 12-18): «si inimica virtus daemonis ex amaritudinis turma veniens obsideat alicuius corpus, perturbet ac sopiat mentem, adhibeantur autem multae orationes, multa ieiunia, multae exorcistarum invocationes et ad haec omnia surdus daemon in obsesso corpore permaneat et persistat, tolerabilius ferens exorcistarum poenas et adhibita sibi ex Dei nominis invocatione tormenta quam discedere ab homine, quem impudenter obsidet et nequiter». 1236 H36Ps IV, 2 (178, 60-67): «Nos ergo deprecemur Dominum ut dirigat gressus nostros et custodiat vias nostras, uti ne supplantentur gressus nostri; ut in via quam incedimus, hoc est in Christo Domino nostro, quasi supra petram stabilem vestigia nostra firmentur, ne quoquo modo supplantari possimus; per illum scilicet cuius nos caput observamus et ille nostrum observat calcaneum». Anche CMt XIII, 7 (198, 16-27) accenna al ricorso alla preghiera per scacciare i demoni dagli ossessi, in relazione a Mt 17, 20: i{n∆ ei[ pote devoi peri; qerapeivan ajscolei'sqai hJma'" toiou'tovn ti peponqovto" tinov", mh; oJrkivzomen
«Come incenso al tuo cospetto»
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3.3.5. La preghiera del peccatore e la confessione di colpa Si è già ricordato come fra gli apporti specifici del corpus omiletico vada annoverato anche l’ulteriore approfondimento della preghiera del peccatore e con essa della confessione di colpa. Entrambi i temi, sebbene non del tutto ignorati nel trattato, vi occupano di fatto poco spazio, perché – come sappiamo – il modello prefigurato da esso ha come ideale interlocutore il «santo». Invece, nel corso della sua predicazione Origene ha modo di tornare spesso sulla condizione del peccatore che prega, tanto più che pochi, o per meglio dire nessuno, possono considerarsi veramente «giusti» agli occhi di Dio. Né mancano del resto coloro che – come ricorda la X Omelia su Numeri –, pur essendosi votati a Dio, cadono nel peccato e avvertono quindi la necessità della purificazione e della penitenza1237. La III Omelia su Giudici esorta colui che ha peccato a pregare, inculcando la necessità di un pentimento che sia realmente sentito e come tale si manifesti nell’intimo dell’animo, prima ancora che con le parole della bocca, mentre esso propizia il dono delle lacrime: solo a queste condizioni, il peccatore pentito può sperare nell’ausilio divino1238. A quel che afferma la II Omelia su Salmo 38, il pentimento accompagnato dalle lacrime attira l’esaudimento immediato della richiesta di perdono1239. In ogni caso, chi ––––––––––––––––––
mhde; ejperwtw'men mhde; lalw'men wJ" ajkouvonti tw/' ajkaqavrtw/ pneuvmati, ajlla; scolavzonte" proseuch/' (1Cor 7, 5) kai; nhsteiva/ ejpituvcwmen proseucovmenoi peri; tou' peponqovto" tikw'/ gevgraptai, o{ti ejxavra" ta;" cei'ra" aujtou' ejpi; to;n lao;n hujloghsen aujtouv" (Lv 9, 22). uJpolambavnw de; ejnqavde aijnivssesqai to;n lovgon, o{ti dei' to;n eujlogou'ntav tina kekosmh'sqai ejn e[rgoi" diafevrousi kai; ejphrmevnoi" para; tou;" pollouv": aiJ ga;r cei're" ∆Aarw;n a[nw ejxaivrontai, o{te mevllei eujlogei'n to;n laovn. Fra le
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al massimo la condizione di santità, tanto da dichiarare che investe perfino gli abiti di colui che è santo, mentre appare del tutto normale che l’orazione del santo sia fonte di santificazione1345. ––––––––––––––––––
possibili spigolature al riguardo si veda CRm I, 10 (8) (64, 9-10), per cui la benedizione dell’Apostolo in Rm 1, 7 non è inferiore alle benedizioni di Noè per Sem e Iafet, di Melchisedek per Abramo, di Isacco per Giacobbe, di Giacobbe per i dodici patriarchi («Non ergo his omnibus inferiorem duco hanc apostoli benedictionem, qua benedixit ecclesias Christi»). Per FrEph I, 3 (236), la condizione di coloro che sono benedetti da Dio è quella di chi conversa costantemente con le realtà spirituali (Kai; o{ra ei[ duvnatai to; ejn toi'" ejpouranivoi" ei\nai ajnti; tou' ejn toi'" nohtoi'" kai; e[xw aijsqhvsewn: ou{tw ga;r kai; qhsaurivzei ti" ejn oujranoi'", kai; th;n kardivan oujkevti e[cei ejpi; gh'", toutevstin ejn toi'" uJlikoi'" kai; swmatikoi'", ajll∆ ejn oujranw'/, th/' nohth/' fuvsei ajei; oJmilw'n). A loro volta, riprendono formule di benedizione le dossologie di HNm XIX , 4 (supra, nota 1329); HNm XXVIII, 4 ([285, 14-19] «Beati qui ad hanc pervenient beatitudinis summam; beati qui ad ista conscenderunt fastigia meritorum, et benedictus Deus noster, qui haec promisit diligentibus se. Hi sunt ipsi vere sacris numeris numerati apud Deum, immo ipsi sunt, quorum etiam capilli capitis numerati sunt per Iesum Christum Dominum nostrum, cui est gloria etc.»); HIos IX, 9 («Illo etenim duce semper vincent milites sui, ita ut et nos dicamus, sicut in Esdra scriptum est, quia: a te, Domine, est victoria, et ego tuus servus; benedictus es Deus veritatis [1Esd 4, 59-60]. Quem semper et nos invocemus, ut det nobis victoriam in Christo Iesu Domino nostro, cui est gloria etc.)»; HIos XX, 6 («Hoc ergo est accepisse in benedictione Gonetlam superiorem et Gonetlam inferiorem. Quam benedictionem oremus ut et nos consequi mereamur per Christum Dominum nostrum, cui est gloria etc.»); H36Ps III, 12 ([162, 34-41] «Propterea ergo contineamus linguam nostram et servos Domini admiremur et benedicamus iustos et nunquam detrahamus de eis, nec aperiamus os nostrum ad male loquendum, ne forte exterminemur, sed benedicamus, ut et nos benedictionem consequamur per Christum Dominum nostrum, cui est gloria etc.»); HLc XII, 6 (supra, nota 1271). Cfr. inoltre CCt III, 14, 2; HNm XXVII, 12 (nota 1592); HIs V, 2 ([265, 6-7] «Timeo enim, ne me fugiat, ne benedictionem quoque meam dedignetur»). Se si esclude la contiguità semantica fra la preghiera di lode o benedizione e il ringraziamento in Orat XIV, 5 (su cui si veda supra, p. 132 e nota 393), la benedizione non pare divenire oggetto di una specifica riflessione eucologica, a parte i temi esegetici, su cui si vedano, ad esempio, Orat XVI , 3 (nota 451) e HIer XII, 3 ([89, 24-26] wJ" pavlin eujlogivai tinev" eijsin iJeratikaiv, peri; w|n qeou' didovnto" ouj makravn, ajlla; meta; th;n ejxevtasin tou' lovgou tou' profhtikou' eijsovmeqa ajnaginwskomevnwn tw'n ∆Ariqmw'n). Non bisogna comunque dimenticare i cenni al rapporto fra eujcaristiva ed eujlogiva in CMt X, 15 (20, 4), a commento del racconto della moltiplicazione (ejsqivomen ga;r ejn eujlogiva/ ta; palaiav, tou;" profhtikou;" lovgou" ktl.); CMt X , 25 ([34, 13] tou;" th'" eujlogiva" a[rtou"); CMt XI, 2 ([36, 22-23] tw/' lovgw/ kai; th/' eujlogiva/ au[xwn kai; plhquvnwn aujtouv"); CMt XI, 19 ([68, 28-29] Kreivttou" dev eijsin, oi\mai, oiJ fagovnte" ajpo; tw'n eJpta; eujcaristhqevntwn a[rtwn tw'n fagovntwn ajpo; tw'n pevnte eujloghqevntwn). Di particolare interesse è la riflessione di Origene sulle condizioni per partecipare del pane eucaristico «santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera» (1Tm 4, 5) in CMt XI , 14 (57, 21), senza che si soffermi peraltro sul termine e[nteuxi" contenuto nel passo paolino. Cfr. anche CRm X, 3: «Quando dunque tutti i gentili sono mondati dalla contaminazione mediante la conoscenza della fede, allora anche ogni cibo viene purificato dalla parola del Signore e dalla preghiera» (tr. Cocchini II, 160). In HNm XIII, 4, dopo aver messo in guardia da un’accezione magica della preghiera, Origene osserva che l’arte magica è incapace di benedire, ma sa solo maledire. 1345 L’estrapolazione risulta più facilmente comprensibile, se tiene presente quanto Origene sostiene in HNm II, 1, 2 con riferimento proprio a 1Tm 2, 9.
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Parte seconda, Capitolo ottavo
Quanto poi all’associazione simbolica delle mani levate in preghiera con la figura di Cristo in croce – suscitata peraltro anche dall’immagine di Mosè orante contro Amalek –, essa appare limitata alle Omelie su Esodo, senza che si possa riscontrare un nesso diretto con la pratica del segno di croce. Tuttavia, il gesto di alzare le braccia per pregare configura certamente l’orante sull’immagine del Cristo crocifisso e richiama la forza vittoriosa che promana dalla croce1346. Invece, in HNm XXVI, 2 Origene torna a privilegiare il discorso sulla prassi di vita, inculcando con l’appoggio del luogo paolino la necessità della concordia ecclesiale quale condizione per vincere le forze del male. Nondimeno, il nesso con la preghiera è suggerito indirettamente dall’abbinamento con Mt 5, 23-24 («Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono»), per cui solo una disposizione d’animo nel segno della riconciliazione fraterna può presiedere all’atto orante, benché l’Alessandrino non utilizzi quasi mai il passo matteano per il suo discorso sulla preghiera1347. L’abbinamento più occasionale di 1Tm 2, 8 con 2, 9(-10) rafforza anch’esso l’applicazione del passo paolino prevalentemente agli aspetti morali e spirituali più che all’universalità del luogo di preghiera o all’atteggiamento esteriore dell’orante, come attestano sia Orat sia il Commento al Cantico dei Cantici. A sua volta HNm II, 1, 2 sfrutta la raccomandazione dell’Apostolo alle donne perché si adornino con un «abito ordinato» (ejn katastolh/' kosmivw/) con l’intento di rafforzare l’idea di un «ordine» nella chiesa, che si estende fino alle vesti del cristiano1348. In conclusione, Origene trae da questo riferimento un nucleo tematico che orienta ripetutamente la sua riflessione sulla preghiera cristiana – spesso, –––––––––––––––––– 1346 HEx III, 3 (170, 19-25): «Et vere illud impletur in nobis in quo Moyses dedit figuram: cum enim ipse elevaret manus, vincebatur Amalech; si vero velut lassas eas deiceret et bracchia infirma deponeret, invalescebat Amalech (Es 17, 11). Ita ergo etiam nos in virtute crucis Christi extollamus bracchia et elevemus in oratione sanctas manus in omni loco sine ira et disceptatione (1Tm 2, 8), ut Domini mereamur auxilium». Cfr. anche HEx XI, 4, dove tuttavia il richiamo alle braccia del Crocifisso sottolinea lo scarto con il tipo di Mosè orante, mentre riconduce il discorso alla prassi di una vita retta (note 507, 589, 1223); FrLc 257 (nota 1406). 1347 HNm XXVI, 2, 2 (244, 23-245, 1) sui combattenti di Nm 31, 49-50: «Istos puto esse secundum Evangelium, qui praeceptum illud diligenter observant, quod mandat Dominus et Salvator: Si autem offers munus tuum ad altare et rememoratus fueris, quia frater tuus habet aliquid adversum te, relinque ibi munus tuus ad altare, et vade prius reconciliari fratri tuo, et tunc veniens offeres munus tuum (Mt 5, 23-24), quo scilicet leuent manus suas ad Deum sine ira et dissensione (1Tm 2, 8)». Mt 5, 23-24 è citato altrimenti solo in Orat II, 2. 1348 HNm II, 1, 2 (9, 15-17): «Paulus vero, tamquam evangelii minister, non solum in actibus sed in ipso habitu ordinatum vult esse christianum, et idem dicit: Mulieres similiter in habitu ordinato (1Tm 2, 9)».
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come constateremo nuovamente fra breve, in combinazione con le altre citazioni paradigmatiche – nel senso di mettere in luce il suo profilo di «preghiera spirituale». L’ampio sfruttamento di 1Tm 2, 8-9(10) rappresenta inoltre un elemento distintivo dell’Alessandrino, che valorizza il testo dell’Apostolo ben aldilà di quanto avesse fatto Clemente nel VII libro degli Stromati, anche perché egli è il primo a citarlo in extenso1349. L’importanza del riferimento paolino per il discorso sulla preghiera troverà invece conferma in Evagrio Pontico: sebbene egli non se ne serva con altrettanta frequenza e in maniera così marcata, l’impostazione abbozzata dall’Alessandrino a partire da 1Tm 2, 8-9 sembra influenzare anche la sua visione della preghiera e della vita spirituale1350. 2.2. 1Tm 2, 1(-2): tipi di preghiere e loro gerarchia Vi è un altro luogo della stessa lettera paolina che, seppure utilizzato più raramente, ha tuttavia offerto ad Origene spunti importanti per articolare la visione della preghiera: 1Tm 2, 1, occasionalmente associato con il v. 21351. In Orat l’Alessandrino basa su di esso il tentativo, non pienamente riuscito, di fissare con precisione una tipologia delle preghiere. In ogni modo, egli ha certamente visto in questo passo la fonte più ricca per la terminologia della preghiera, richiamandosi di conseguenza ad essa anche altrove come semplice catalogo delle orazioni da indirizzare a Dio (ad esempio, in HNm XI, 9). Peraltro questa ripresa si rivela non priva di polarità, anche assai forti, sotto un duplice profilo: da un lato, l’individuazione dei destinatari dei quattro tipi di preghiere indicati dall’Apostolo («domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti») e, dall’altro, la loro gerarchizzazione. Così, a differenza di Orat XV, 1, che riservava nettamente la proseuchv solo al Padre, CC V , 4 e ancor più apertamente CRm VIII, 5 tendono ad equiparare il Figlio al Padre come destinatario. Se non è giusto vedervi una vera e propria retractatio delle posizioni espresse in Orat, abbiamo comunque un indizio significativo di ripensamento o aggiustamento da parte dell’Alessandrino 1352. –––––––––––––––––– 1349 1350
Sull’uso più limitato in Clemente, cfr. Le Boulluec 2003, 147 (supra, nota 467). Cfr. Evagrio, De cogit. 5, 25; 32, 8 (supra, nota 971). Anche De orat. 9 (PG 79, 1169, 18) potrebbe contenere un’eco del nostro passo: Sth'qi ejmpovnw", kai; proseuvcou eujtovnw", kai; ajpostrevfou ta;" tw'n frontivdwn kai; dialogismw'n ejpiteuvxei". 1351 Le occorrenze di 1Tm 2, 1 attestate da BP sono: Orat XIV, 2 (nota 377); CC V, 4 (nota 410); HNm XI, 9 (nota 1094); FrPs 27 (28) (nota 1353); ?PsCat A (117 B6). Più che una citazione esplicita, Orat XVI, 1 ([336, 10-12] proseucwvmeqa toivnun wJ" qew'/ ejntugcavnwmen de; wJ" patri; dewvmeqa de; wJ" kurivou eujcaristw'men de; wJ" qew'/ kai; patri; kai; kurivw/) e CRm VIII, 5 (p. 138 e nota 411) contengono un’allusione. A sua volta CC VIII, 73 (p. 274) cita 1Tm 2, 1-2, mentre CRm IX , 29 (nota 1357) rinvia a 1Tm 2, 2. 1352 Cfr. supra, pp. 133 ss.
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Quanto alla gerarchizzazione dei quattro tipi di preghiera, il frammento catenario di un commento a Sal 27(28) risulta metterla in discussione, dal momento che grazie ad una rilettura in scala ascendente di 1Tm 2, 1 attribuisce il primato non più alla proseuchv bensì alla eujcaristiva1353. In questo caso la gerarchizzazione non è più dettata in primo luogo dalla considerazione del destinatario, come avveniva in Orat, per cui essendo la proseuchv indirizzata al Padre, in quanto espressione della «preghiera spirituale» per eccellenza, essa era collocata al primo posto. Qui interviene in misura altrettanto determinante la considerazione dell’orante: alla prospettiva ex parte Dei si affianca quella ex parte hominis. Infatti, il ringraziamento è dichiarato essere la preghiera di colui che è divenuto ormai da tempo «amico di Dio». Indubbiamente l’accento è cambiato rispetto al trattato, pur senza che si possa parlare di una revisione radicale del suo punto di vista (come vorrebbe Völker, il quale sostiene l’idea della preghiera di mera adorazione come il vertice perseguito da Origene)1354. È vero che a prima vista risulta problematica l’affermazione per cui la e[nteuxi" viene ad essere «più grande» della proseuchv, se messa a confronto con la definizione che ne dà Orat XIV, 5. Eppure, proprio qui Origene ne ha fornito la prima giustificazione dichiarando che l’e[nteuxi" è propria dello Spirito, in quanto egli «è migliore» dell’uomo (wJ" kreivttono" o[nto")1355. Inoltre, le tracce delle caratteristiche assegnate dall’Alessandrino alla proseuchv si ritrovano anche nel frammento: essa, infatti, continua ad essere la preghiera di domanda per eccellenza, quella che si confà più adeguatamente alla “dignità di Dio” nel momento in cui mi rivolgo a lui per chiedergli qualcosa di cui ho bisogno. Se dunque vi è mutamento di orizzonte, esso è indicato dal possibile superamento del “regime della richiesta”. Ma l’accenno sommario alla condizione di colui che è «amico di Dio» e si dispone in quanto tale a far propria una “disciplina eucaristica” è troppo rapido ed elusivo per poterne dedurre una svolta radicale, anche considerando quanto l’idea del combattimento spirituale rimanga determinante per l’Alessandrino in tutta la sua opera. Ora, colui che è in lotta, ha sempre bisogno di domandare l’aiuto divino. D’altra parte, l’intera vita dell’uomo non può non essere sempre situata nel segno del rin–––––––––––––––––– 1353 FrPs 27 (28), 6 (PG 12, 1285A-B): ∆Emoi; dokei' diafevrein eujch; dehvsew", kai; dokei' moi oJ ∆Apovstolo" pleivona ojnovmata eij" tauvthn th;n diafora;n diaqevsqai levgwn: Parakalw' prw'ton pavntwn poiei'sqai dehvsei" proseucav" ejnteuvxei" eujcaristiva" uJpe;r pavntwn ajnqrwvpwn (1Tm 2, 1), meivzona levgwn wJ" ejmoi; dokei' th'" dehvsew" th;n proseuchvn, kai; touvtwn th;n e[nteuxin, pavntwn de; th;n eujcaristivan. Ei[poim∆ a]n ou\n, o{ti tou' e[ti ejndeou'", kai; oi|" ejndei' tina, touvtwn ejsti;n hJ devhsi". ”Ote de; to; ajxivwma tou' Qeou' nohvsa" aijtw' ti para; tou' Qeou', tovte proseuvcomai: o{te de; fivlo" ejpi; plei'on gevnwmai, tovte eujcaristw' tw/' Qew/'. 1354 Si veda supra, p. 33. 1355 Orat XIV, 5 (supra, nota 388).
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graziamento verso Colui che – come ricorda un magnifico frammento del Commento a Efesini – lo ha chiamato «dal non essere all’essere» e gli «ha fatto dono della somiglianza e dell’immagine» di sé1356. L’aggiunta del v. 2 a 1Tm 2, 1 in CC VIII, 73 o la sua citazione isolata in CRm IX, 29 concorrono – come si è visto a proposito del Contro Celso – ad argomentare la posizione di Origene in merito al problema politico della preghiera1357. Il rilievo testimoniale del luogo paolino appare minore, rispetto non solo agli altri versetti della medesima lettera, ma anche al paradigma di Mosè orante in Es 17, 8-16, che – come vedremo fra breve – doveva prestarsi meglio per sviscerare all’occorrenza le conseguenze politiche dell’orazione cristiana1358. In ogni caso, il fatto che 1Tm 2, 2 non compaia per nulla nel trattato è indice della rilevanza, tutto sommato, ridotta che la dimensione politica della preghiera dovette assumere agli occhi di Origene. Certo il dibattito con Celso l’ha reso più consapevole di tale aspetto, ma in generale la sua attenzione appare rivolta piuttosto alle dimensioni personali ed ecclesiali dell’atto di pregare. C’è da dire inoltre che l’Alessandrino, pur avendo ben presente la preghiera d’intercessione (a cominciare, come è ovvio, dallo stesso testo di 1Tm 2, 1 con la corrispondente trattazione sull’e[nteuxi" in Orat), non l’ha fatta oggetto di una riflessione più organica. Anziché appuntarsi sui contenuti – il che avrebbe determinato anche un interesse più specifico per il bene della politeia romana –, egli sembra guardare soprattutto alle persone degli intercessori1359 : in primis Gesù Cristo e lo Spirito santo (cui spetta, in un certo senso, per eccellenza la preghiera di e[nteuxi"), in subordine Mosè e gli altri santi dell’Antico Testamento, ai quali si aggiungono la chiesa celeste e terrena, con gli angeli, gli apostoli (primo fra tutti Paolo)1360, i martiri e i confessori. In particolare l’Alessandrino si mostra sensibile alle moda–––––––––––––––––– 1356 FrEph I, 2 (232): ∆Ea;n gavr ti" meteschkw;" tou' ei\nai, ejpilaqovmeno" th'" metoch'", eJautw'/ katacarivshtai th;n tou' ei\nai aivtivan, kai; mh; th;n pa'san eujcaristivan ajnafevrh/ ejpi; to;n ejk tou' mh; ei\nai to; ei\nai aujtw'/ o{moion kai; kat∆ eijkovna carisavmenon, tovte katargei'tai to; o[n. 1357 Cfr. supra, pp. 274-275. Del resto CRm IX, 29 (752, 3–753, 6) su Rm 13, 5-6 guarda a tale questione nell’ottica della pax ecclesiae: «Ordinat quidem per haec Paulus ecclesiam Dei, ut nihil adversi principibus et potestatibus saeculi gerens per quietem et tranquillitatem vitae (cfr. 1Tm 2, 2), opus iustitiae et pietatis exerceat». 1358 Oltre a CC VIII, 73, troviamo tale implicazione anche in HNm XIII , 4 (nota 1196). Cfr. la trattazione su Es 17, 8-16 (pp. 451-453). 1359 Del resto, la stessa apologia della politeia giudaica in CC non valorizza specificamente la forza della preghiera di Israele in chiave politica (cfr. Perrone 2003b). 1360 Sulla preghiera d’intercessione di Paolo si veda, ad esempio, HEz IX, 5 (414, 32-415, 2) a commento di 2Cor 12, 7-9: «Tantus vir Apostolus Paulus necessarium habuit colaphum angeli Satanae, ut eum colaphizaret, ne elevaretur multum, quia orans et deprecans Deum impetravit pro multis saepe quod petiit». Fra gli angeli, la figura preminente dell’intercessore risulta essere Michele (cfr. supra, nota 749; infra, nota 1385). In CC VIII, 13 si ricordano Gabriele e Michele come «ministri di Dio».
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lità di esercizio ecclesiale del potere d’intercessione, che è prerogativa dei santi, mentre il pensiero sull’oggetto di intercessione risulta essenzialmente diretto all’obiettivo della salvezza spirituale 1361. 2.3. Sal 140(141), 2: preghiera come offerta di una vita santa Spesso abbinato con 1Tm 2, 8, il riferimento a Sal 140(141), 2 si presenta anch’esso come particolarmente rilevante, non solo sotto il profilo quantitativo ma anche per i risvolti tematici1362. Il luogo veterotestamentario sostiene, infatti, l’idea della preghiera in Origene, poiché concorre egualmente ad illustrarne gli aspetti esteriori e le dimensioni interiori. In particolare, esso fornisce all’Alessandrino il corredo più ricco di immagini per identificare l’atto orante secondo il modello da lui auspicato: l’incenso (v. 2a), l’elevazione delle mani e il sacrificio vespertino (v. 2b). Tuttavia, il rilievo testimoniale del nostro salmo sembrerebbe emergere solo gradualmente nella riflessione origeniana. Infatti, nel trattato si cita unicamente Sal 140(141), 2b, per corroborare prima la consuetudine della preghiera serale (Orat XII, 2) e poi l’atteggiamento esteriore di preghiera (Orat XXXI, 1), senza quindi sfruttarlo al fine d’esemplificare le disposi–––––––––––––––––– 1361 Sulle figure degli intercessori si veda supra, pp. 271, 339 (Gesù Cristo); 326 (lo Spirito); 394 (Mosè); 301, 354 (santi dell’Antico Testamento); 356 (la chiesa); 257 (martiri); 400 (confessori). 1362 Origene cita abitualmente Sal 140(141), 2 nella seguente forma: genhqhvtw (kateuqunqevtw Rahlfs) hJ proseuchv mou wJ" qumivama ejnwvpion sou, e[parsi" tw'n ceirw'n mou qusiva ejsperinhv. Solo in FrPs 140 (141), 2 (PG 12, 1665A), peraltro restituito da Rondeau a Evagrio Pontico (infra, nota 1842), troviamo kateuqunqevtw ktl. I riferimenti compaiono in Orat XII, 2; Orat XXXI, 1 (nota 1338); Dial 20 (nota 506); CC III, 60 (nota 1340); CC VIII, 17 (nota 476); CIo XXVIII, 5, 36-37 (nota 896); HGn XI, 2 (nota 590); HEx XI, 4 (nota 507); HLv IX, 8 (nota 1090); HLv XIII, 5 (nota 1091); HNm XXIII, 3 (note 531, 1561); HReL I, 9 (nota 1098); HIer XVIII, 10 (nota 1191); FrIer 11 ([203, 4-10] w|n hJ proseuch; wJ" qumivama kai; hJ e[parsi" tw'n ceirw'n qusiva eJsperinhv. oi} kai; prosfevrousi livbanon, o{per eJrmhneuvetai Leukasmov", pa'san ajpobavllonte" zofwvdh diavqesin, wJ" aJrmovttein aujtoi'" to; tiv" au{th hJ ajnabaivnousa leleukanqismevnh [Ct 8, 5]: ou{tw ga;r kai; th;n ai[nesin dunhvsontai fevrein eij" oi\kon kurivou, mh; e[conte" spi'lon h] rJutivda h[ ti tw'n toiouvtwn [Ef 5, 27] prostribomevnwn th'/ tou' Cristou' ejkklhsiva)/ ; FrIer 68 (nota 1100); HEz XI, 5 (nota 1190); FrPs 17 (18), 21 ([PG 12, 1232C] ÔO ejpaivrwn oJsivou" cei'ra", kai; qarjrJw'n eijpei'n: “Eparsi" tw'n ceirw'n mou qusiva ejsperinh;, kai; kaqarovthta ceirw'n oJmologhvsei e[cein); FrPs 133 (134), 2 (nota 1336). BP registra inoltre: Fr 29 (34, 1); ?Ps.Cat B (482, 3). FrPs 118 (119), 48 Harl (SC 189, p. 268, 4-7) riprende il motivo delle «mani» = «azioni», senza riferimento al nostro salmo. Si veda infine FrLc 165 (nota 1411). Contra Bradshaw, 48-49, 62-64, Phillips ritiene che Sal 140(141), 2 sia da collegare alla preghiera dell’ora nona: «Origen was acquainted with the works of Josephus and may well have known that the hour of the evening sacrifice was three o’clock in the afternoon. Therefore, even if Origen construed the third day hour to be evening prayer, he could still have connected it to the ninth hour of the day» (p. 42). L’A. nota anche il suo uso successivo come «the standard psalm for the evening service, at least in the eastern churches» (p. 48).
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zioni interiori dell’orante. Diversamente da ciò che avviene successivamente in altri scritti, Origene non vi utilizza l’immagine dell’incenso né trae dall’equivalenza «sacrificio» = «preghiera» l’implicazione relativa al «cuore» dell’orante quale «altare» su cui offrire come «vittime» le proprie preghiere, che invece svilupperà nel Contro Celso e (sebbene indipendentemente dal nostro salmo) nel Commento a Matteo1363. L’importanza paradigmatica di Sal 140(141), 2b, in relazione all’«elevare le mani», è ribadita da Dial, sia pure esplicando l’equivalenza simbolica con le «buone azioni» sul piano della condotta morale, cioè senza ricollegare il gesto più direttamente alla prassi di preghiera. Al contrario, il contesto orante emerge espressamente in un passo del Commento a Giovanni (CIo XXVIII, 5, 36-37) che raccoglie, per così dire, il «canone» essenziale dei luoghi scritturistici nel discorso origeniano sulla preghiera: introdotto rispettivamente da 1Tm 2, 8 e dal richiamo alla figura di Mosè orante contro gli Amaleciti (Es 17, 11), Sal 140(141), 2b viene a confermare, come terzo riferimento normativo, l’idea di un orante impegnato sul cammino del perfezionamento spirituale. La combinazione con 1Tm 2, 8 tende a diventare topica, come mostra fra l’altro HLv XIII, 5. Ma essa si dà questa volta con Sal 140(141), 2a, suscitata dall’immagine dell’incenso che diventerà lo spunto dominante anche in altre citazioni del salmo. L’ordine delle idee però non cambia perché concerne sempre anzitutto il requisito della vita morale pienamente virtuosa o, per meglio dire, santa, entro la quale soltanto può nascere una preghiera autentica. Così per HLv IX, 8 l’incenso sono le «opere sante» compiute da Gesù il quale, proprio in forza di esse, ha potuto fare della sua vita quell’offerta purissima d’«incenso» prefigurata da Lv 16, 12 («Poi prenderà l’incensiere pieno di brace tolta dall’altare davanti al Signore e due manciate di incenso odoroso polverizzato») e attestata anche dalle parole del salmo. Analogamente, solo chi ha «un cuore puro e una buona coscienza» può innalzare come «incenso» la propria preghiera, secondo quanto dichiara HLv XIII , 51364. Anche CC VIII, 17 si richiama all’immagine dell’incenso in Sal 140(141), 2a – insieme a Ap 5, 8 – per inculcare l’idea che il vero tempio del cristiano è la «coscienza pura» da cui si innalzano a Dio le preghiere, come su un altare. Benché la I Omelia su I Regni sembri manifestare l’esigenza di sviscerare una diversa comprensione della preghiera e dei suoi riferimenti scritturistici – fra l’altro, anche alla luce di Sal 140(141), 2a –, solo con il commento del libro di Geremia Origene si rifà all’immagine dell’«in–––––––––––––––––– 1363 Cfr. supra, nota 476. Sul complesso di motivi legati alle immagini dell’«incenso» e del «sacrificio» si veda, in particolare, nota 2 (l’uso di qumivama in Orat XXXI, 4 deriva dalla citazione di Mal 1, 11). 1364 Anche CC III, 60 ricava tale significato (supra, nota 1340).
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censo» in una prospettiva tendenzialmente diversa. Da un lato, FrIer 68, uno dei luoghi sicuramente più significativi al di fuori del trattato, non solo l’approfondisce positivamente in relazione a Ap 5, 8, di nuovo citato per presentare l’incenso come la «preghiera del santo», ma la caratterizza anche in rapporto a Sal 108(109), 7, che illustra per l’Alessandrino il modello negativo della preghiera del peccatore. Inoltre, in HIer XVIII, 10, spiegando Ger 18, 15 («Poiché il mio popolo si è dimenticato di me, mi hanno offerto incenso invano»), egli sviscera ancora una volta le implicazioni del simbolismo che l’immagine racchiude: non più solo il «buon odore» dell’incenso contrapposto al «fetore» del peccato, ma anche il motivo del fumo che si innalza verso il cielo e della sua leggerezza per accennare all’elevazione spirituale dell’anima orante. Colui che prega in tali condizioni di spirito è capace di comporre «una preghiera sottile di concetti sottili» che si innalzano da un «cuore sottile». La formulazione retoricamente insistita lascia trasparire una diversa attenzione, intesa a meglio caratterizzare l’applicazione dell’immagine alla «preghiera spirituale». Ma proprio l’uso singolare dell’aggettivo leptov", ripetuto per ben tre volte, riconduce questo passo all’interpretazione di HLv IX , 8 su Lv 16, 12 LXX, con l’immagine delle «mani riempite di una composizione sottile di incenso» (plhvsei ta;" ceivra" qumiavmato" sunqevsew" lepth'"). Benché il testo trádito di HIer XVIII, 10 non citi tale versetto, è evidente che Origene si è ispirato ad esso per associazioni di idee, ridisegnando in un certo senso l’atto orante alla luce del linguaggio di Lv 16, 12, pur senza anticipare i motivi che avrebbe poi sviluppato in HLv IX, 8-9: la «composizione» delle virtù e la «sottigliezza» dell’interpretazione spirituale1365. Oppure l’Alessandrino si è sovvenuto di Es 30, 7 LXX (kai; qumiavsei ejp∆ aujtou' Aarwn qumivama suvnqeton leptovn), in cui compaiono egualmente i tre termini in questione, ma il passo non figura nell’elenco delle sue citazioni1366. –––––––––––––––––– 1365 Da notare che il termine leptov" è assente nel vocabolario di Orat, mentre secondo BP Origene cita Lv 16, 12 unicamente in HLv IX . Peraltro, in HLv IX, 8 (433, 7-13) il motivo della «composizione» rimanda alla varietà delle opere virtuose, mentre l’«incenso minuto» indica la comprensione spirituale delle Scritture: «Quare autem compositionis incensum dicitur? Quia non est una species operum, sed ex iustitia et ex pietate, ex continentia, ex prudentia et ex omnibus huiuscemodi virtutibus componitur hoc quod placetur Deo. Sed et minutum quod addidit, non otiose intelligimus. Non enim vult eum, qui ad perfectionem tendit, verbum Dei crasse et carnaliter intelligere, sed minutum in his sensum subtilemque perquirere». Cfr. anche HLv IX, 9 (437, 11-14): «Beatus, in cuius corde invenerit tam subtilem, tam minutum tamque spiritalem sensum et ita diversa virtutum suavitate compositum, ut replere dignetur ex eo manus suas Deoque Patri suavem odorem intelligentiae eius offerre». 1366 Che la reminiscenza riguardi Lv 16, 12 LXX più che Es 30, 7 LXX sembrerebbe rafforzato dal fatto che Origene non cita i paralleli come Es 30, 37 (qumivama kata; th;n suvnqesin tauvthn); 31, 11 (to; qumivama th'" sunqevsew" tou' aJgivou); 35, 19 (to; qumivama th'" sunqevsew"); 38, 25 (th;n suvnqesin tou' qumiavmato"); 39, 15 (to; qumivama th'" sunqev-
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Il rilievo particolare di Sal 140(141), 2 per la concezione e la prassi della preghiera nell’Alessandrino traspare anche dalla distinta applicazione esegetica di HNm XXIII, 31367. In questo caso, infatti, la sua interpretazione è condizionata dal riferimento, da un lato, a 1Ts 5, 17, con la raccomandazione a «pregare senza interruzione», e dall’altro all’astensione dalla preghiera prevista in 1Cor 7, 5 per le coppie sposate che assolvono i loro doveri coniugali. Il tema della preghiera nel matrimonio, sulla scorta del luogo paolino, è stato affrontato da Origene in svariati scritti – come avremo modo di verificare più avanti –, ma nell’omelia in esame l’immagine del «sacrificio», suggerita dal nostro salmo, ha spinto l’Alessandrino ad interrogarsi sulla possibilità che i coniugi offrano un «sacrificio ininterrotto», con l’offerta ad un tempo dell’oratio continua e di una vita santa. La risposta è negativa: soltanto chi si vota ad una vita continente e casta può offrire a Dio un «sacrificio ininterrotto». Il diverso contesto esegetico che richiama qui la citazione di Sal 140(141), 2 ne ribadisce in ogni caso la valenza primaria per la riflessione di Origene sulla preghiera: l’uso del salmo è sempre finalizzato a ribadire idealmente l’identificazione più piena ed adeguata della figura dell’orante con colui che conduce una vita santa, pur non ignorando mai i limiti della condizione terrena. Non a caso, nel seguito della riflessione in HNm XXIII si lascia intendere che forse solo post mortem diverrà realmente possibile compiere un «sacrificio ininterrotto»1368. 2.4. Ap 5, 8: postilla sulla preghiera come «profumo dei santi» Come si è appena visto, l’immagine dell’«incenso» (qumivama) in Sal 140(141), 2b attira in alcune occasioni la combinazione con Ap 5, 8, dove si parla di «coppe d’oro colme di profumi, che sono le preghiere dei santi (fiavla" crusa'" gemouvsa" qumiamavtwn, ai{ eijsin aiJ proseucai; tw'n aJgivwn)». L’analogia di vocabolario non poteva sfuggire a un attentissimo conoscitore della Bibbia come era Origene, anche se egli non ha attribuito al passo lo stesso valore testimoniale che contraddistingue l’uso ben più rilevante di Sal 140(141), 2b (come, del resto, non l’ha assegnato nemmeno a Mal 1, 11, che contiene anch’esso il termine qumivama e compare in ––––––––––––––––––
sew"); Es 40, 27 (kai; ejqumivase ejp∆ aujtou' to; qumivama th'" sunqevsew"). Solo HEx XIII, 7 (279, 3-5) rimanda a Es 35, 28, ma senza accennare alla «sottigliezza» dell’incenso: «Sed et incensi compositionem (Es 35, 28) principes offerunt, quae componatur per Moysen in odorem suavitatis Domino (Es 29, 41), ut et ipsi dicant quia Christi bonus odor sumus (2Cor 2, 15)». Per l’uso dell’immagine in Clemente Alessandrino, Strom. VII, 6, 34, 2 si veda infra, nota 1699. 1367 Cfr. supra, nota 531. 1368 HNm XXIII, 3 (nota 531).
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Orat XXXI , 4)1369. Lo conferma implicitamente anche la sua mancata citazione in Orat, diversamente dai luoghi scritturistici che abbiamo passato in rassegna finora. Ciò non toglie che l’Alessandrino abbia ritenuto importante citarlo nel contesto di taluni passaggi significativi della sua riflessione sulla preghiera. In tal modo, egli dà l’impressione di aver voluto arricchire un dossier di riferimenti biblici che, in buona parte, tende a rimanere identico ed abbastanza ristretto1370. In FrIer 68 la citazione è addotta a commento di Ger 51, 21 LXX («Non dell’incenso, che avete incensato nelle città di Giuda e fuori Gerusalemme voi e i vostri padri e i vostri re e i vostri capi e il popolo della terra, si è ricordato il Signore»), dove l’«incenso» di cui parla il profeta è quello offerto dagli Israeliti agli idoli. Ora, anche se l’Alessandrino è disposto ad ammettere l’offerta a Dio dell’incenso secondo la lettera, purché sia accompagnata dal «buon profumo» nell’intimo dell’animo, egli ricorda nondimeno che per il cristiano il regime dei sacrifici è definitivamente superato. Sono i demoni a rallegrarsi del sangue e del fumo delle vittime, mentre Dio si compiace «della giustizia e della perfezione». Ritorna dunque la prospettiva dell’offerta di un sacrificio spirituale, esemplificata con il richiamo ad intendere allegoricamente (eij" nou'n) l’immagine dell’incenso in Sal 140(141), 2a, alla luce appunto di Ap 5, 8, che ne offre la chiave ermeneutica. Stabilita così l’equivalenza simbolica «incenso» = «preghiera», Origene le contrappone la preghiera del peccatore come offerta di «cattivo odore» servendosi della citazione per lui topica di Sal 108(109), 7, cui aggiunge per una volta Is 1, 13 («l’incenso è un abominio per me»). Il nesso concettuale, per opposizione, con l’incenso offerto agli idoli riappare in HEz VII , 3, a commento di Ez 16, 18 («davanti a quelle immagini presentasti il mio olio e i miei profumi»)1371. Qui, a modo di definizione riepilogativa, le «preghiere dei santi» secondo Ap 5, 8 sono quelle –––––––––––––––––– 1369 Cfr. supra, nota 2, p. 171 e nota 523. Mal 1, 11 («Poiché dall’oriente all’occidente grande è il mio nome fra le genti e in ogni luogo è offerto incenso al mio nome e una oblazione pura, perché grande è il mio nome fra le genti, dice il Signore degli eserciti») si ritrova ancora in HGn XIII, 3 ([118, 7-9] «Aperuit ergo puteos et docuit nos, ut non in loco aliquo quaeramus Deum, sed sciamus quia in omni terra offertur sacrificium nomini eius») e ?Fr 29 (35, 1). 1370 Ap 5, 8 figura in CC VIII, 17 (nota 476); HEz VII , 3 (nota 1371); FrIer 68 (note 1100, 1170). BP riporta ancora due passi dall’autenticità controversa: ?Fr 29 (34, 17-18); ?Fr 29 (34, 6). 1371 HEz VII, 3 (394, 16-22): «Scriptura docente didicimus quia sanctorum oratio sit incensum; ait enim: Incensum autem orationes sanctorum sunt (Ap 5, 8). Si ergo instituti ad orationem, cum illam Deo debeamus offerre, id est Deo legis et prophetarum, Deo Abraham, Deo Isaac, Deo Iacob, et Patri Iesu Christi, offerimus his quae ipsi confinximus, in tantum ut incensum Dei proponamus idolis, facimus id quod dicitur in praesenti: Oleum meum et incensum meum posuisti ante faciem eorum (Ez 16, 18)».
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indirizzate al Dio dei patriarchi, della legge e dei profeti, nonché Padre di Gesù Cristo. Anche CC VIII, 17 se ne serve con un intento analogo – unitamente a Sal 140(141), 2 – onde ribattere a Celso che il vero altare per i cristiani è «l’organo direttivo (hJgemonikovn) dei giusti», sul quale si offrono gli incensi davvero profumati, che sono da intendersi in senso spirituale (nohtw'") e corrispondono alle preghiere di Ap 5, 8. Come si vede anche da questi altri due passi, il riferimento scritturistico non gode di vita propria, ma interagisce con un complesso di luoghi biblici e di temi convergenti. In questo senso, non è forse fuori luogo vedervi una “postilla” che Origene ha aggiunto al dossier su incensi e profumi come espressione simbolica della santità e la preghiera come offerta a Dio di una vita integralmente virtuosa, nelle parole e nelle opere. 2.5. 1Ts 5, 17: vita come preghiera continua Con 1Ts 5, 17 torniamo ad un luogo scritturistico che ricopre un’incidenza strutturale per il pensiero di Origene. L’invito dell’Apostolo a «pregare senza interruzione» gli ha fornito ripetutamente materia di riflessione, dal trattato al resto degli scritti1372. Per Orat XII, 1-2 l’esortazione di Paolo conferma l’insegnamento di Gesù sulla preghiera come tratto costitutivo dell’esistenza cristiana, contrastando così qualunque tentativo di ridimensionarla o trascurarla. Da questo punto di vista, il Padrenostro è presentato da Origene come il modello di preghiera che risponde pienamente alle esigenze dell’oratio continua in quanto esso è il programma di vita per coloro che vogliono essere «figli di Dio». La preghiera ininterrotta può infatti essere realizzata solo se preghiere e azioni si combinano fra loro, venendo ad intrecciare in pratica un’«unica grande preghiera»1373. Tale prospettiva finisce per ricomprendere anche le ore di preghiera, che –––––––––––––––––– 1372 Per una prima rassegna sull’uso origeniano di 1Ts 5, 17 si veda supra, nota 589. BP elenca i seguenti passi: Orat XII, 1 (nota 1458); Orat XII, 2 (nota 595); Orat XXII, 5 (nota 596); Orat XXV, 2 (nota 1375); CRm I, 11 (nota 961); CMt XIV, 25 ([347, 3-9] crh; de; to;n aijtou'nta poiei'n pavnta ta; par∆ aujtw/', i{na proseuvchtai pneuvmati, proseuvcetai de; kai; tw/' noi? [1Cor 14, 15], kai; na, oujk a]n ajnuvsai boulovmeno" eujlogei'n tina, w{sper oujde; kavtw keivmenai aiJ Mwusevw" cei're" wjfevloun to;n laovn, a[ll∆ o{te ejphvronto. touvtou suvmbolon h\n kai; hJ e[parsi" tw'n ceirw'n tou' swth'ro": tai'" ga;r uJpe;r a[nqrwpon pravxesin u{ywsen aujtou' ta;" cei'ra" kai; e[swse tou;" pisteuvonta". tavca toivnun pa'" oJ tai'" pravxesin ejphrmevno" ejstauvrwtai). Inoltre, il nostro versetto compare in citazioni cumulative, come Es 17, 8-16 in HEx XI, 3; Es 17, 8-13 in HNm I , 2 e HNm XXVII, 4; Es 17, 9-11 in HNm XIX, 1 (nota 1116); Es 17, 10-13 in HNm XIX, 1 (178, 24–179, 1), Ps.Cat E 118,47 (109,4) e FrLc 165 (infra, nota 1411); Es 17, 11-13 in HLv VI, 6 (nota 1168).
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Più di quanto non avvenisse fin qui con i luoghi scritturistici che abbiamo passato in rassegna, sembrerebbe dunque trattarsi di uno sviluppo specialmente caro al predicatore. In effetti, la maggior parte delle citazioni compaiono proprio nel corpus omiletico, anche se spesso risultano accompagnate dai riferimenti più costanti, a riprova della sostanziale stabilità del dossier scritturistico principale (l’esempio più completo al riguardo è – come si è visto prima – FrIer 68)1407. C’è anche un altro aspetto che si fa luce nell’applicazione origeniana di Es 17, 11: egli lo riprende da una tradizione esegetica anteriore che l’aveva sfruttato soprattutto per indicare nella figura di Mosè orante a braccia levate il «tipo», o figura anticipata, del Cristo in croce (laddove Giosuè è, a sua volta, anticipazione di Gesù che sconfigge la potenza del male)1408. Tuttavia, come abbiamo visto a proposito della I Omelia su Regni, l’Alessandrino tende a prendere le distanze dalla lettura tipologica tradizionale: anche se egli non la respinge come inadeguata, non l’assume però come elemento rilevante della propria interpretazione. In pratica, il nesso fra il gesto orante di Mosè e la crocifissione rimane per lui, tutto sommato, un motivo secondario. Anzi, occasionalmente Origene si spinge fino a ridimensionare ulteriormente la sua portata cristologica per rilevare lo scarto che esiste fra Mosè e il gesto di Cristo sulla croce: questi non solleva semplicemente le mani come fa il profeta, bensì le distende aprendole quasi ad abbracciare il mondo (HEx XI, 4)1409. Predomina invece, nella ripresa di Es 17, 11, l’interferenza simbolica con il gesto delle mani alzate – attestato congiuntamente da 1Tm 2, 8 e Sal 140(141), 2 –, per cui l’accezione privilegiata dall’Alessandrino riporta sempre al discorso sul perfezionamento spirituale: si tratta cioè di innalzare la propria condotta di vita con le opere delle virtù, sola condizione che può aiutare a sconfiggere le potenze nemiche. L’accento risulta dunque simile a quello che emergeva nell’uso di 1Tm 2, 8 e Sal 140(141), 2, ma con la differenza che il riferimento a Es 17, 11 fa intravedere più chiaramente lo scenario del combattimento spirituale. Così, l’Alessandrino in un frammento catenario su Sal 27(28), mentre ammette di aver già parlato ripetutamente dell’«elevazione delle mani» e cita ancora una volta i due luoghi paralleli più prossimi, ricollega questo gesto più direttamente alla battaglia con Amalek1410. A sua volta, un frammento su Lc – che pure rimanda –––––––––––––––––– 1407 1408
Cfr. supra, nota 1100. Si veda supra, nota 508. Anche Origene riprende la collaudata tipologia di Giosuè = Gesù, sviluppandola soprattutto in HIos; nel contesto del nostro passo si veda HEx XI, 3 (255, 6-9): «ipse est qui confligit cum Amalech. Ipse est enim qui intrat in domum fortis et alligat fortem et vasa eius diripit (cfr. Mt 12, 29)». 1409 Cfr. supra, p. 166 e nota 509. Il legame più esplicito con la croce si ritrova in HEx III, 3. 1410 FrPs 27(28), 2 (PG 12, 1285B-C): Pollavki" ejlevgomen peri; th'" ejpavrsew" tw'n ceirw'n. ∆Eph're Mwu>sh'" ta;" cei'ra", kai; kativscusen oJ ∆Israhvl: o{te de; kaqh'ke ta;"
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anch’esso al parallelo con Sal 140(141), 2 – identifica tout court l’«elevazione delle mani» con la «sconfitta di Amalek» 1411. L’esemplificazione più organica dell’utilizzo di Es 17, 11 in chiave soprattutto morale e spirituale è data da un passo del Commento a Giovanni: anche qui le citazioni convergenti di 1Tm 2, 8 e Sal 140(141), 2 sono funzionali a dare risalto al paradigma di Mosè come orante vittorioso per la sconfitta dei nemici spirituali1412. Molto più marginale è lo sfruttamento di Es 17, 11 in rapporto al discorso politico della preghiera, anche se proprio questo episodio biblico si prestava indubbiamente per essere valorizzato in tal senso. Tuttavia, Origene ne ha fatto un uso abbastanza moderato, limitandosi ad alludere al nostro passo in CC VIII , 69, a rinforzo di Es 14, 14 e Mt 18, 19. Qui, del resto, preme all’Alessandrino rimarcare soprattutto l’efficacia della concordia orante, che è una premessa indispensabile per l’esaudimento divino di una richiesta collettiva: ora, nel caso della comunità cristiana, tale efficacia risulta per lui tanto più grande di quella che Mosè potè assicurarsi con la sua preghiera per il popolo d’Israele1413. Anche in HNm XIII, 4 la ripresa di Es 17, 11 è affiancata da Es 14, 14, ma in questo caso Origene dà maggiore risalto alla forza della preghiera come lo specifico del popolo di Dio, antico e nuovo, in alternativa alla forza delle armi1414. In conclusione, anche dall’esame dell’interpretazione di questo luogo scritturistico emerge nuovamente la compattezza della prospettiva origeniana sulla preghiera, sempre focalizzata su una costellazione di testimonia abbastanza circoscritti, i quali rinviano ad alcuni assi di pensiero chiaramente individuabili nella loro portata strutturale. ––––––––––––––––––
cei'ra", kativscusen oJ ∆Amalhvk: kai;, ∆Epaivronte" oJsivou" cei'ra" cwri;" ojrgh'" kai; dialogismou' (1Tm 2, 8) kai;, “Eparsi" tw'n ceirw'n mou qusiva ejsperinhv (Sal 140[141], 2). Ei[poimi a]n ou\n, o{ti aiJ cei're" hJmw'n eijsin aiJ kata; qeosevbeian pravxei". ∆Ea;n qhsaurivzwmen ejn oujranoi'", e[comen ta;" cei'ra" ejphrmevna" pro;" to;n Qeo;n, kai; nikw'men to;n ejcqrovn: o{tan de; hJmw'n aiJ cei're" kavtw gevnwntai, ajnavgkh hJma'" nika'sqai. ”Otan ou\n ejpaivrw ta;" ceirav" mou pro;" to;n Qeovn, kai; dia; tw'n ceirw'n th'" yuch'" uJyw'mai pro;" aujtovn, nika'tai uJp∆ ejmou' oJ ∆Amalh;k kai; oujdamou' ejstin. Oujkou'n dei' ejpaivrein cei'ra" pro;" nao;n a{gion tou' Qeou'. ÔO nao;" de; tou' Qeou' dovxa ejsti;n tou' Qeou'. 1411 FrLc 165 (294, 18-21): pw'" de; ouj makavrioi kai; oiJ povde" oiJ mh; proskovyante" mhde; saleuqevnte", ajll∆ wJrai'oi tw'n eujaggelizomevnwn ta; ajgaqav (Is 52, 7): kai; makavriai aiJ cei're", w|n hJ e[parsi" qusiva ejsperinhv (Sal 140[141], 2), kai; w|n hJ e[parsi" nivkh me;n tou' ∆Israhvl, h\tta de; tou' ∆Amalhvk. 1412 Cfr. CIo XXVIII, 5, 36-37 (nota 896). 1413 CC VIII, 69 (286, 18-23): Eu[xontai ga;r tw'/ kai; provteron eijpovnti pro;" tou;" ÔEbraivou" katadiwkomevnou" uJpo; Aijguptivwn lovgw/: Kuvrio" polemhvsei uJpe;r uJmw'n, kai; uJmei'" sighvsesqe (Es 14, 14), kai; meta; pavsh" sumfwniva" eujxavmenoi pollw'/ pleivona" dunhvsontai katalu'sai ejcqrou;" ejpidiwvkonta", h] ou}" kaqei'len hJ Mwu>sevw" pro;" to;n qeo;n bow'nto" kai; tw'n su;n aujtw'/ eujchv. 1414 Cfr. supra, nota 1196. In HIos I, 2 Origene richiama l’episodio nel contesto della riflessione su Mosè e Giosuè (Gesù), senza nesso con la preghiera.
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3. Le citazioni collaterali: complementi di riflessione su modalità e significato della preghiera Circoscritta in tal modo la costellazione dei passi biblici che ispirano più direttamente e costantemente la riflessione di Origene sulla preghiera, possiamo adesso tentare di approfondire la vasta “nebulosa” dei suoi riferimenti scritturistici più occasionali e sporadici. Anche in questo secondo gruppo si lasciano isolare alcune citazioni più significative, senza dover passare in rassegna tutti gli obiter dicta. Si tratta di riferimenti che vengono a completare, per così dire, il discorso su modalità e significato dell’atto orante, sia pure in via subordinata e collaterale rispetto alle coordinate bibliche più frequenti, a volte affiancandosi a queste e in ogni caso arricchendo il dossier più consueto. La visuale della preghiera secondo l’Alessandrino non risulta modificata da tali riferimenti, bensì viene ad essere ulteriormente ampliata e completata nelle sue linee fondamentali che abbiamo già tracciato in precedenza. 3.1. Sal 122(123), 1: gli occhi del corpo e gli occhi dell’anima Conviene in primo luogo considerare due citazioni che concorrono ad approfondire il discorso su gesti esteriori e disposizioni interiori della preghiera: Sal 122(123), 1 e Sal 24(25), 1. Origene le abbina occasionalmente in Orat IX, un passo peraltro cruciale per l’esito contemplativo, se non in ipotesi “mistico”, dell’orazione nel trattato, sebbene altrove ricorra di preferenza alla prima che gli porgeva l’immagine degli «occhi» rivolti in alto 1415. Entrambe gli offrono comunque non solo la possibilità di completare l’immagine esterna dell’orante – dopo che si è soffermato principalmente sul gesto di braccia e mani levate in alto –, ma soprattutto di passare dagli –––––––––––––––––– 1415 Sal 122(123), 1 compare in: Orat IX , 2 (note 490 e nota 574); Orat XXIII , 4 ([352, 15-17] wJ" ou\n ejn toi'" aJgivoi" ejnoikei', ou{tw" kai; ejn oujranw'/, h[toi panti; aJgivw/ kai; forou'nti th;n eijkovna tou' ejpouranivou h] tw'/ Cristw'/, ejn w|/ eijsi pavnte" oiJ sw/zovmenoi «fwsth're"» kai; ajstevre" tou' oujranou', h] kai; dia; tou;" ejn oujranw'/ aJgivou" katoikei'
kai; to;n ejn eJkavstw/ kuvrion: ajll∆ o{mw" kai; ou{tw" e[conte" oujk ajpoknhvsomen, yhlafw'nte" tou;" eijrhmevnou" th'" zwh'" lovgou", peiraqh'nai labevsqai aujtw'n th'" ajporreouvsh" eij" to;n meta; pivstew" aJyavmenon dunavmew". 1426 Cfr. CIo XXVIII, 4, 25 (supra, nota 879).
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per l’Alessandrino. Egli stabilisce infatti un confronto tra l’atteggiamento di Gesù orante e quello del pubblicano (Lc 18, 13), che non osa alzare gli occhi, riportando il discorso – come in HIs V, 3 – sulle condizioni spirituali di colui che prega. Di nuovo, anche se il paradigma ideale non viene meno, la sua esemplarità effettiva deve essere commisurata ai singoli individui oranti con le loro diverse dinamiche di crescita spirituale. Si può dunque riconsiderare conclusivamente il rilievo specifico dei riferimenti scritturistici al gesto di levare gli occhi. Fatta eccezione per Orat IX, 2, né Sal 122(123), 1 né tanto meno Sal 24(25), 1 godono di uno statuto paragonabile a quello osservato in precedenza per le citazioni più costanti. Il motivo è attestato più ampiamente nel testo biblico, anche a prescindere da essi; di conseguenza, Origene lo ha richiamato spesso alla luce di altri passi. Senza nulla togliere al significato fondamentale che il tema della vista interiore riveste nella dottrina spirituale dell’Alessandrino, il suo discorso sulla preghiera lo sfrutta assai meno di quel che ci si potrebbe aspettare. In tal senso, nessun altro scritto presenta una prospettiva che sia direttamente paragonabile a Orat IX, 2, dove i nostri due versetti sorreggono lo sviluppo più significativo ed originale della riflessione origeniana sul rapporto fra preghiera e “mistica”. D’altra parte, neppure la rilettura filosofica dell’orazione in CC VII, 44 si richiama espressamente ad essi. Si è dunque tentati di constatare a prima vista una diversità di accenti fra il trattato e il resto delle testimonianze sulla preghiera nell’opera dell’Alessandrino. In realtà, il più ridotto ancoraggio scritturistico del gesto degli occhi levati induce a pensare che, proprio in forza della sua accezione filosofica più pregnante, si prestasse solo in parte a illustrare le modalità e il significato dell’atto orante. Questo eccede invece di per sé la configurazione esclusiva di un esercizio spirituale tout court, anche se ne assume le forme, come Origene lascia intendere nel suo riepilogo in Orat XXXI, 2 coniugando ancora una volta istanze filosofiche e motivi scritturistici alla luce dei passi evangelici sulla riconciliazione fraterna1427. 3.2. At 10, 9: la preghiera come “ascesa” – nell’unione di corpo, anima e spirito Fra i testimonia scritturistici a cui Origene attinge per il suo discorso sulla preghiera, At 10, 9 («Pietro salì verso mezzogiorno sulla terrazza a pregare») si è prestato a focalizzazioni diversificate. Esse investono sia il tempo e il luogo destinati all’orazione, sia soprattutto – sulla scorta dell’indicazione locale – le disposizioni interiori con cui essa si attua. Sebbene la scena di Pietro orante, susseguente alla visione di Cornelio (del –––––––––––––––––– 1427
Si veda supra, nota 468.
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quale HNm XI, 3 ricorda con At 10, 4 le preghiere esaudite)1428, non rappresenti che il proemio ad un passo di ben altra rilevanza esegetica e dottrinale, proprio la sua connessione con esso non poteva non metterla in evidenza nel complesso dei luoghi neotestamentari che descrivono l’esperienza di preghiera della comunità primitiva. La consapevolezza dell’Alessandrino al riguardo traspare dal fatto che l’ha inserito nel dossier delle sue citazioni, pur facendone un uso contenuto 1429. Nel trattato Origene se ne serve unicamente per stabilire su base scritturistica l’usanza di pregare a mezzogiorno, quale preghiera «intermedia» nel ritmo giornaliero dei tre tempi destinati all’orazione (Orat XII, 2)1430, mentre sfrutta più diffusamente l’episodio di Giaffa (At 10, 1-15) nell’argomentazione sui cibi spirituali a commento della quarta domanda del Padrenostro (Orat XXVII, 12). Nel secondo caso la scena della visione di Pietro è posta in relazione con l’imminente incontro con Cornelio, senza tuttavia evocare la sua premessa orante nell’apostolo, come avviene del resto anche in CC II, 1, dove prova il definitivo superamento dell’economia della «lettera» in contrapposizione con il giudeocristianesimo1431. Analizzando il trattato, abbiamo visto come l’Alessandrino nutra un interesse moderato per la questione dei momenti consacrati alla preghiera nel ciclo quotidiano, sebbene la sua testimonianza aiuti anch’essa ad illuminare lo sviluppo della «liturgia delle ore» nel primo cristianesimo1432. Quando egli torna ad occuparsi di un argomento affine nella polemica con Celso (CC VIII, 22), si preoccupa di prendere le distanze dalla ritualità pagana ridimensionando l’importanza delle feste cristiane sia per il ciclo settimanale sia per le stesse cele–––––––––––––––––– 1428 HNm XI, 3 (81, 13-16): «Denique invenimus ipsum Cornelium, antequam doctrinam verbi Dei vel gratiam baptismi susciperet a Petro, audisse ab angelo quia orationes eius et eleemosynae adscendissent ad Deum (At 10, 4), unde et per ipsum angelum videtur Deo primitiae oblatus esse Cornelius». Cfr. anche HNm III, 1. 1429 BP riporta le seguenti occorrenze di At 10, 9: Orat XII, 2 (nota 594); HLv VII, 5 (nota 497); HIer XIX, 13 (nota 1140). Rimanda altresì a CC II , 1 per At 10, 9-15. Origene alterna la lezione uJperw/von invece di dw'ma (ajnevbh Pevtro" ejpi; to; dw'ma proseuvxasqai peri; w{ran e{kthn) in CC II, 1. 1430 Orat XII, 2 (325, 7-10): kai; oJ Pevtro" de; ajnabaivnwn eij" to; dw'ma th;n e{kthn proseuvxasqai, o{te kai; eJwvra to; ejx oujranou' kaqievmenon skeu'o", tevtrasin ajrcai'" kaqievmenon, parivsthsi th;n mevshn tw'n triw'n eujch;n. Anche Tertulliano, De orat. 25 si serve del passo come testimonium per la preghiera di mezzogiorno. 1431 Orat XXVII, 12 (371, 12-15): koinwnei'n gou'n tw'/ eJkatontavrcw/ Kornhlivw/ kai; toi'" a{ma sunacqei'sin ejn th'/ Kaisareiva/ oJ Pevtro" mevllwn meta; de; tau'ta kai; toi'" e[qnesi metadwvsein tw'n lovgwn tou' qeou', oJra'/ to; tevttarsin ajrcai'" kaqievmenon oujranovqen skeu'o" (At 10, 11). Si veda anche CC II, 1 (127, 2-5): Kai; oJ Pevtro" de; mevcri pollou' faivnetai ta; kata; to;n Mwu>sevw" novmon ijoudai>ka; e[qh tethrhkevnai, wJ" mhdevpw ajpo; tou' ∆Ihsou' maqw;n ajnabaivnein ajpo; tou' kata; to; gravmma novmou ejpi; to;n kata; to; pneu'ma. 1432 Cfr. supra, nota 594. Per Phillips, 38-39, che si basa sia su Clemente Alessandrino (Strom. VII, 7, 40, 3) che su Origene, le tre ore di preghiera rifletterebbero la consuetudine in uso nella chiesa di Alessandria.
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brazioni di Pasqua e Pentecoste, onde ribadire il principio, molto prossimo alla prospettiva di un Clemente Alessandrino, che il «perfetto» vive perennemente nello spirito della festa1433; proprio per questa via egli è in grado di attuare quell’oratio continua che rappresenta il vero sacrificio (CC VIII, 21)1434. Una visuale siffatta spiega le ragioni per cui i successivi ricorsi di At 10, 9 si premurano di mettere in luce altri aspetti, senza più considerare le circostanze temporali. Essi s’imperniano piuttosto sull’idea dell’«ascesa» di Pietro per pregare in un «luogo elevato», cioè la «terrazza» (dw'ma) di cui parla il nostro passo, scambiando peraltro questo termine con l’espressione analoga «il piano superiore» (uJperw'/on) nella precedente scena di At 1, 13-14 («13Entrati in città salirono al piano superiore dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelòta e Giuda di Giacomo. 14Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui»), dove si descrive l’assiduità e la concordia oranti della prima comunità di Gerusalemme in attesa della discesa dello Spirito1435. L’Alessandrino dà qui risalto all’unanimità della preghiera della chiesa primitiva, ma non perde di vista l’ambientazione locale, che lo porta a ripensare l’orazione –––––––––––––––––– 1433 CC VIII, 22 (239, 11-240, 2): ∆Ea;n dev ti" pro;" tau'ta ajnqupofevrh/ ta; peri; tw'n par∆ hJmi'n kuriakw'n h] paraskeuw'n h] tou' Pavsca h] th'" Penthkosth'" di∆ hJmerw'n ginovmena, lektevon kai; pro;" tou'to o{ti oJ me;n tevleio", ajei; ejn toi'" lovgoi" w]n kai; toi'" e[rgoi" kai; toi'" dianohvmasi tou' th'/ fuvsei kurivou lovgou qeou', ajeiv ejstin aujtou' ejn tai'" hJmevrai" kai; ajei; a[gei kuriaka;" hJmevra": ajlla; kai; ajei; paraskeuavzwn eJauto;n pro;" to; ajlhqinw'" zh'n kai; ajpecovmeno" tw'n tou' bivou hJdevwn kai; tou;" pollou;" ajpatwvntwn kai; mh; trevfwn to; frovnhma th'" sarko;" (Rm 8, 6) ajll∆ uJpwpiavzwn auJtou' to; sw'ma kai; doulagwgw'n ajei; a[gei ta;" paraskeuav". “Eti de; oJ nohvsa" o{ti to; pavsca hJmw'n ejtuvqh Cristov" (1Cor 5, 7), kai; crh; eJortavzein ejsqivonta th'" sarko;" tou' lovgou, oujk e[stin o{te ouj poiei' to; pavsca, o{per eJrmhneuvetai diabathvria, diabaivnwn ajei; tw'/ logismw'/ kai; panti; lovgw/ kai; pavsh/ pravxei ajpo; tw'n tou' bivou pragmavtwn ejpi; to;n qeovn, kai; ejpi; th;n povlin aujtou' speuvdwn. Pro;" touvtoi" de; oJ dunavmeno" met∆ ajlhqeiva" levgein: Sunanevsthmen tw'/ Cristw'/ ajlla; kai; tov: Sunhvgeire kai; sunekavqisen hJma'" ejn toi'" ejpouranivoi" ejn Cristw'/ ajeiv ejstin ejn tai'" th'" Penthkosth'" hJmevrai", kai; mavlista o{te kai; eij" to; uJperw'/on wJ" oiJ ajpovstoloi tou' ∆Ihsou' ajnaba;" scolavzei th'/ dehvsei kai; th'/ proseuch'/ (At 1, 14), wJ" a[xio" genevsqai th'" feromevnh" pnoh'" biaiva" ejx oujranou', biazomevnh" ejxafanivsai th;n ejn ajnqrwvpoi" kakivan kai; ta; ajp∆ aujth'", a[xio" de; kaiv tino" merismou' glwvssh" ajpo; qeou' purivnh". In proposito si veda Buchinger 2005, 353-356: «Wie alle ihm bekannten Feiern im Rhythmus der Zeit, unterzieht Origenes auch das Pascha einer spiritualisierenden Universalierung: durch seine moralische Praxis realisiere der Vollkommene die überkommenen Festinhalte ohne zeitliche Einschränkung» (p. 355). 1434 CC VIII, 21 (239, 5-7): eJortavzei ge kata; ajlhvqeian oJ ta; devonta pravttwn, ajei; eujcovmeno", dia; panto;" quvwn ta;" ajnaimavktou" ejn tai'" pro;" to; qei'on eujcai'" qusiva". 1435 Riferimenti a At 1, 13-14 figurano in CC VIII, 22 (supra, nota 1433); HIer XIX, 13; CRm X , 7 (806, 27-30). A loro volta, CMtS 121 rimanda ad At 1, 13, mentre HIos VII, 2 (nota 1540) e HIos IX, 2 (nota 1095) citano At 1, 14.
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secondo lo schema concettuale dell’«elevazione» interiore. Così in HIer XIX, 13 sfrutta la coincidenza lessicale riscontrata fra At 1, 13 e Ger 20, 2 LXX – dove il profeta è «messo in ceppi nella prigione che si trovava presso la porta superiore di Beniamino, nel tempio del Signore (ejn th/' puvlh/ Beniami;n tou' uJperw/vou ejn oi[kw/ kurivou)» –, per chiarire appunto il significato spirituale di uJperw'/on, associandolo nel contempo a dw'ma come suo sinonimo. Egli dichiara che il termine è da intendere alla stregua di «mente innalzata e sollevata» e corrobora tale equivalenza con l’ausilio di vari passi scritturistici, fra i quali le due scene di preghiera che compaiono in At 1 e At 101436. Essere sulla «terrazza» o nel «piano superiore» significa allora per l’Alessandrino partecipare di una condizione spirituale «elevata» dalla quale non bisogna «scendere», attenendosi al modello degli apostoli, che in At 1, 14 si dedicano alla preghiera e alla Parola di Dio e in tal modo pongono i presupposti spirituali per ricevere il dono dello Spirito; altrettanto fa Pietro in At 10, 9, prima di fruire della visione riguardo ai cibi. L’esegesi proposta dal predicatore, pur nutrita di numerosi riferimenti alle Scritture, si appunta in sostanza sull’invito parenetico ad innalzarsi, attirando a conclusione di questi spunti, anche l’immagine degli occhi sollevati in alto, collegata all’allusione decontestualizzata a Is 37, 23 («Chi hai insultato e schernito? Contro chi hai alzato la voce e hai elevato, superbo, gli occhi tuoi? Contro il Santo di Israele!»), quale ulteriore manifestazione dell’ascesa interiore1437. Anche se Origene evita nuovamente di servirsi del termine ajnavbasi" per designare l’atto orante, egli rimanda implicitamente a tale designazione attraverso l’uso ripetuto del verbo ajnabaivnw1438. Ritornando su At 10, 9 in HLv VII, 3 la riflessione dell’Alessandrino fa un ulteriore passo in avanti, poiché mette meglio a fuoco la dinamica spirituale della preghiera e va perciò oltre la sua generica riproposizione in senso parenetico-morale come «elevazione». Conviene rammentare il contesto dell’omelia, tra le più ricche di riflessioni interessanti il nostro –––––––––––––––––– 1436 HIer XIX, 13 (168, 31-169, 1): uJperw/'on de; to;n nou'n to;n uJyhlo;n kai; ejphrmevnon deivxw th'" grafh'", o{te marturei' toi'" aJgivoi" o{ti eij" ta; uJperw/'a tou;" profhvta" uJpedevxanto. 1437 HIer XIX, 13 (169, 11-17): Kalo;n ou\n ejn uJperw/voi" ei\nai, kalo;n ejn dwvmasin ei\nai kai; a[nw pou tugcavnein. kai; oiJ qaumavsioi de; ajpovstoloi, wJ" ejn tai'" Pravxesin ajnagevgraptai aujtw'n, hJnivka ejpi; to; aujto; o[ntwn aujtw'n ejscovlazon tai'" eujcai'" kai; tw/' lovgw/ tou' qeou', ejn uJperw/'w/ h\san. kai; ejpei; h\san ejn uJperw/'w/ oujk h\san kavtw. dia; tou'to w[fqhsan aujtoi'" diamerizovmenai glw'ssai wjsei; purov" (At 2, 3). ajlla; kai; Pevtro", hJnivka ajnevpempe th;n eujch;n tw/' qew/', ajnevbh eij" to; dw'ma (At 10, 9). 1438 HIer XIX, 13 (169, 33-170, 3): Dia; tou'to parakalou'men uJma'": ajnabaivnete eij" u{yo" (cfr. Is 37, 24; 40, 9), ai{rete eij" u{yo" tou;" ojfqalmou;" (cfr. Is 37, 23) uJmw'n. Kajmoi; dev, eja;n didavskw to;n qei'on lovgon, fhsi;n oJ lovgo": ∆Ep∆ o[ro" uJyhlo;n ajnavbhqi, oJ eujaggelizovmeno" Siwvn: u{ywson th/' ijscuvi> th;n fwnhvn sou, oJ eujaggelizovmeno" ÔIerousalhvm: uJywvsate, mh; fobei'sqe (Is 40, 9).
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tema in tutto quanto il corpus dei sermoni. Il riferimento alla preghiera di Pietro sulla «terrazza» interviene infatti dopo una serie di considerazioni che riguardano dapprima il ruolo dei sacerdoti come intermediari delle preghiere dei fedeli e intercessori per i peccatori (HLv VII, 1), quindi la funzione unica spettante a Gesù in qualità di sommo sacerdote e mediatore, sia pure nell’ambito della communio sanctorum che è attestata dall’assistenza solidale dei santi, anch’essi partecipi nel dolore e nella gioia delle sorti dei peccatori (HLv VII, 2). La scena di Giaffa interviene allora come corollario sulla preghiera dei santi (HLv VII , 3). Origene si riallaccia alla precedente riflessione sul luogo in cui Pietro prega, per osservare che l’Apostolo non l’ha scelto a caso, bensì perché egli vive nello spirito della Pasqua e come tale «ricerca le cose che sono in alto» (Col 3, 1-2). L’argomentazione sembrerebbe ripercorrere la linea che già conosciamo, riecheggiando accenti riscontrabili anche in CC VIII, 221439, ma l’Alessandrino ci riserva una sorpresa. Non ritorna infatti semplicemente alla nozione della preghiera come «elevazione», ma la caratterizza questa volta come un’anabasi integrale, per cui l’ascensione orante di Pietro coinvolge corpo, anima e spirito1440. Sappiamo del ruolo riconosciuto al corpo per l’attuazione di una prassi orante nel trattato e in altri scritti, ma solo in questo passo e in CC II, 51 Origene mette espressamente in gioco la sua visuale antropologica per illustrare la manifestazione più compiuta della preghiera. In entrambi i casi l’introduce nella forma di un’interrogativa retorica, come se volesse evitare di disegnare in recto questa prospettiva. Del resto, la contiguità di HLv VII, 3 con CC II, 51 è suggerita principalmente dalla coordinata spaziale, perché nell’apologia l’affermazione che qui ci interessa cade nel contesto di una discussione sulla magia che oppone la pratica pagana a quella cristiana, sostenuta appunto dal ricorso alla preghiera. Ma gli accenti sono, per così dire invertiti: mentre in HLv VII, 3 il coinvolgimento del corpo è dato per scontato e si tratta di sottolineare la partecipazione dell’anima e dello spirito, in CC II, 51 l’elemento del corpo si aggiunge al «presupposto» di anima e spirito1441. In entrambi i casi, –––––––––––––––––– 1439 1440
Cfr. supra, nota 1433. HLv VII, 4 (nota 497): «Non volle pregare in luoghi inferiori, ma salì in un luogo alto... (At 10, 9). Giacché la volontà di un così grande apostolo non scelse un luogo alto per la preghiera in maniera superflua, ma, per come penso io, per mostrare che Pietro, in quanto era morto con Cristo, cercava le cose dell’alto... (Col 3, 1-2). Non ti sembra che Pietro sia salito nel luogo alto non solo con il corpo, ma anche con l’anima e lo spirito?» (tr. Danieli, 162-163). 1441 CC II, 51: tiv" d∆ ejn cwvra/ kaqara'/ kai; aJgiva/ genovmeno" kata; th;n yuch;n eJautou' kai; to; pneu'ma, oi\mai de; kai; to; sw'ma, tw'/ qew'/, paradexavmeno" qei'ovn ti pneu'ma ta; toiau'ta eij" wjfevleian ajnqrwvpwn kai; protroph;n th;n ejpi; to; pisteuvein qew'/ ajlhqinw'/ pravttei… Per l’interpretazione di questo passo si veda Fédou, 361-362 (nota 497); Sfameni Gasparro 2003. Cfr. anche supra, nota 1344 (con riferimento a HNm XIII, 4) sui rapporti fra preghiera e magia.
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dunque, le formulazioni oblique lasciano intravedere l’elaborazione parziale di un motivo che, pur essendo indubbiamente compreso nella visuale origeniana dell’atto orante, non dispiega appieno le sue potenzialità. Senza voler rilevare, per così dire, un punctum dolens del suo discorso sulla preghiera, ne ricaviamo piuttosto ancora una volta la constatazione che il pensiero di Origene riflette altre priorità, per cui all’interno di una antropologia tricotomica il binomio anima-corpo ha senz’altro il sopravvento. L’interpretazione di At 10, 9 corregge il tiro, ma non modifica l’impostazione predominante. 3.3. 1Gv 2, 1(-2): Gesù Cristo come intercessore presso il Padre Insieme alla dimensione antropologica, il discorso di Origene tiene sempre presente l’«orizzonte celeste» dell’orante con gli interlocutori che lo animano: non solo per quanto riguarda la persona del Padre come destinatario primo della preghiera, pur con le distinzioni apportate nel corso della nostra esposizione; accanto a lui, la riflessione eucologica dell’Alessandrino considera egualmente la figura del Figlio come, per altro verso, mette in gioco l’azione dello Spirito e, in subordine, di angeli e santi. Ognuno di questi aspetti trova giustificazioni scritturistiche a vario titolo, ma è specialmente la mediazione di Gesù Cristo come sommo sacerdote e intercessore presso il Padre che è oggetto di riprese e sviluppi passando dal trattato al resto degli scritti. Essi traggono spunto specialmente dal richiamo a 1Gv 2, 1(-2) («Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. 2Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo»), sebbene la figura di Cristo come sommo sacerdote sia illustrata dall’Alessandrino anche alla luce della Lettera agli Ebrei, come vediamo da Orat X, 21442. –––––––––––––––––– 1442 1Gv 2, 1(-2) è citato o alluso in Orat X , 2 (nota 559); Orat XV, 4 (nota 416); Prin II, 7, 4 (nota 1444); CC VIII, 13 (note 412, 840); CIo I, 22, 138 (27, 23-26): ∆En de; th'/ kaqolikh'/ ejpistolh'/ oJ ∆Iwavnnh" paravklhton peri; tw'n yucw'n hJmw'n pro;" to;n patevra fhsi;n aujto;n ei\nai levgwn; CIo I, 33, 240 (42, 28–43, 1): Oujde;n de; tw'n proeirhmevnwn ojnomavtwn th;n peri; hJmw'n pro;" to;n patevra prostasivan aujtou' dhloi', parakalou'nto" uJpe;r th'" ajnqrwvpwn fuvsew" kai; iJlaskomevnou, wJ" oJ paravklhto" kai; iJlasmo;" kai; to; iJlasthvrion: oJ me;n paravklhto" ejn th'/ ∆Iwavnnou legovmeno" ejpistolh'/: ∆Ea;n gavr ti" aJmavrth/, paravklhton e[comen pro;" to;n patevra ∆Ihsou'n Cristo;n divkaion, kai; ou|to" iJlasmov" ejsti peri; tw'n aJmartiw'n hJmw'n (1Gv 2, 1-2); CIo I, 33, 241; CIo I, 35, 255 (45, 13-18): to;" dh; oJ ta; tosau'ta tugcavnwn, oJ paravklhto", oJ iJlasmov", to; iJlasthvrion, sumpaqhvsa" tai'" ajsqeneivai" hJmw'n tw'/ pepeira'sqai kata; pavnta ta; ajnqrwvpina kaq∆ oJmoiovthta cwri;" aJmartiva", mevga" ejsti;n ajrciereuv", oujc uJpe;r ajnqrwvpwn movnwn ajlla; kai; panto;" logikou' th;n a{pax qusivan prosenecqei'san eJauto;n ajnenegkwvn ; CIo I, 37, 267; CIo II , 34, 209 (92, 34-93, 4): ÔW" ga;r hJ qeosevbeia kekovsmhtai tw'n dia; mesivtou kai; ajrcierevw" kai; paraklhvtou kai; ejpisthmonikw'" prosercomevnwn tw'/ tw'n o{lwn qew'/, skavzousa a]n eij mh;
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Tuttavia, già in questo passo – come farà poco più avanti in Orat XV, 4 – egli collega fra loro i due titoli di ajrciereuv" («sommo sacerdote») e paravklhto" («avvocato» o «difensore»), fondendo così la prospettiva di Eb con 1Gv 2, 1(-2); lo stesso fa anche nel Commento a Giovanni, dove tratta ripetutamente della designazione del Figlio quale paravklhto", precisando che questa epinoia «illustra il suo patrocinio presso il Padre in nostro favore, la sua intercessione»1443. A sua volta, Prin II, 7, 4 stabilisce il diverso significato del termine, qualora venga applicato a Cristo o allo Spirito, intendendolo nel primo caso con l’accezione di «avvocato» e nel secondo di «consolatore»1444. Nel nostro contesto non ci interessa la problematica cristologica vera e propria (e neppure quella pneumatologica), bensì la sua rilevanza per il discorso sulla preghiera, come appare implicitamente dal richiamo alla necessità della mediazione di Cristo «sommo sacerdote e difensore» per il «culto di Dio» nel commentario giovanneo (CIo II, 34, 209) 1445, ma soprattutto dall’uso ad hoc di 1Gv 2, 1(-2) nel trattato. Nel primo dei due passi (Orat X, 2) l’interesse di Origene sembra rivolto soprattutto a sviscerare le implicazioni del titolo di paravklhto" attribuito al Figlio di Dio insistendo sull’idea che la sua mediazione orante implica il coinvolgimento attivo di coloro che pregano. Si profila così una sinergia tra l’intermediario presso il Padre e la persona dell’oran––––––––––––––––––
dia; th'" quvra" ti" eijsivoi pro;" to;n patevra, ou{tw" kai; hJ tw'n pavlai qeosevbeia th'/ nohvsei kai; pivstei kai; prosdokiva/ Cristou' iJera; h\n kai; para; qew'/ ajpodekthv; CIo VI, 55, 285; CIo VI, 59, 305; CCt III, 1, 12 (infra, nota 1444); CRm II, 5 (infra, nota 1452); CRm VII, 4 (infra, nota 1450); CRm VII, 8 (infra, nota 1450); HLv VII, 2 (nota 1211); HLv IX, 5 (p. 397 e nota 1215); HNm VIII, 1 (nota 1208); HNm IX, 4 (nota 1202); FrIob 35, 5-6 (PG 17, 96B): ∆Ea;n ajnablevyh/" eij" to;n oujrano;n kai; katanohvsh/" ta; nevfh, nohvsei" tiv h{marte". Tiv se pra'xai dei'… Prosevrcesqai tw/' ajrcierei' kai; parakalei'n, i{na oJ ajrciereu;" prosagavgh/ qusivan peri; sou'. 1443 CIo I, 33, 240 (supra, nota 1442 [Corsini, 184]). In CIo I , 35, 255 Origene raccorda con paravklhto" l’epinoia ajrciereuv", sottolineando però l’aspetto sacrificale (Eb 9, 28) insieme alla compartecipazione alle infermità degli uomini (Eb 4, 15); cfr. anche CIo VI, 55, 285 e CIo VI, 59, 304. 1444 Prin II , 7, 4 (151, 25–152, 7): «Consideremus ne forte aliud significet haec appellatio “paracleti” de salvatore, aliud de spiritu sancto. Videtur enim de salvatore “paracletus” dici “deprecator”, utrumque enim significat in graeco “paracletus”, et “consolator” et “deprecator”. Propter eum ergo qui subsequitur sermonem, quo ait quia ipse est repropitiatio pro peccatis nostris (1Gv 2, 2), magis in salvatore nomen “paracleti” pro “deprecatore” intelligendum videtur; deprecari enim patrem pro peccatis nostris dicitur. De spiritu vero sancto “paracletus” “consolator” debet intellegi, pro eo quod consolationem praestat animabus, quibus aperit et revelat sensum scientiae spiritalis». Si veda ugualmente CCt III, 1, 12 (174, 15-19): «Et ne mireris, si columbae simul dicantur, cum uterque similiter advocatus dicatur, sicut Iohannes evangelista declarat Spiritum quidem sanctum dicens Paracletum (cfr. Gv 14, 16-17), quod est advocatus; et de Iesu Christo nihilominus in epistola sua dicit quia ipse sit advocatus apud Patrem (1Gv 2, 1) pro peccatis nostris». Sull’importanza della distinzione di Origene per l’esegesi patristica, cfr. Pastorelli 2006a; Pastorelli 2006b, 91-94. 1445 Cfr. supra, nota 1442.
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te, corroborata dalla parabola sulla vedova e il giudice iniquo che contiene il pressante invito a non venir meno nella preghiera (Lc 18, 1)1446. Se le offerte presentate da Gesù al Padre come «sommo sacerdote» sono le preghiere dei fedeli, il suo ruolo di «avvocato» e intercessore rafforza anch’esso la necessità che i fedeli preghino. È evidente dunque come il ricorso di 1Gv 2, 1(-2) calzi qui perfettamente con la preoccupazione centrale del trattato circa l’utilità della preghiera, grazie anche al supporto aggiuntivo di Lc 18, 1, che rientra – come sappiamo – fra i testimonia relativi all’efficacia della preghiera1447. Invece, nel secondo luogo del trattato (Orat XV, 4) il nuovo rinvio all’intermediazione orante del Figlio quale «sommo sacerdote» e «avvocato» sostiene adesso la raccomandazione a non indirizzare la preghiera a lui bensì al Padre, in quanto anche il Figlio lo prega come un «fratello» insieme a noi e per noi 1448. A distanza di anni, Origene ritornerà sull’argomento in CC VIII, 13, riproponendo l’idea dell’ineludibile intermediazione di Cristo per le preghiere rivolte dai fedeli a Dio, in quanto egli è «sommo sacerdote» e «propiziazione» per i peccati (1Gv 2, 2), ancorché senza designarlo espressamente come «avvocato»1449. Pur operando la suddetta distinzione semantica nel significato di paravklhto" con la relativa ripartizione di ruoli fra Cristo come «avvocato» e lo Spirito come «consolatore», l’Alessandrino non ignora certo il ruolo di intercessore che anche lo Spirito può assumere, soprattutto alla luce del fondamentale passo di Rm 8, 26. Non a caso nel Commento a Romani egli mette tale funzione dello Spirito direttamente in relazione a 1Gv 2, 1(-2), sostenendo appunto che egli «intercede per noi» allo stesso modo di Gesù1450. Tuttavia, nel commentario paolino Origene avverte che l’intercessione dell’«avvocato» giova nella misura in cui il fedele l’asseconda con la propria condotta di vita, ricordando nel contempo come Cristo riunisca in sé i ruoli, da un lato, di «vittima» e «sacerdote», dall’altro di «av–––––––––––––––––– 1446 Orat X , 2 (320, 20-26): ajrciereu;" ga;r tw'n prosforw'n hJmw'n kai; pro;" to;n patevra paravklhtov" ejstin oJ uiJo;" tou' qeou', eujcovmeno" uJpe;r tw'n eujcomevnwn kai; sumparakalw'n toi'" parakalou'sin, oujk a]n wJ" uJpe;r oijkeivwn eujxovmeno" tw'n mh; di∆ aujtou' sunecevsteron eujcomevnwn oujd∆ a]n wJ" uJpe;r h[dh ijdivwn paravklhto" ejsovmeno" pro;" to;n qeo;n tw'n mh; peiqomevnwn tai'" eij" to; dei'n pavntote proseuvceçqai kai; mh; ejkkakei'n didaskalivai" (Lc 18, 1). 1447 Sull’utilizzo di Lc 18, 1 si veda supra, pp. 352, 445. 1448 Orat XV, 4 (336, 1-4): ajdelfw'/ de; proseuvcesqai tou;" kathxiwmevnou" eJno;" aujtw'n patro;" oujk e[stin eu[logon: movnw/ ga;r tw'/ patri; met∆ ejmou' kai; di∆ ejmou' ajnapemptevon ejsti;n uJmi'n proseuchvn. 1449 Cfr. supra, nota 840. 1450 CRm VII, 4 (579, 45-47): «Sed videamus quid est quod dicit: ipse spiritus pro nobis interpellat (Rm 8, 26). Hoc enim et Iohanes Iesum facere designat cum dicit: filioli etc.». Anche CRm VII, 8 (598, 15-17), discutendo l’azione di Cristo come advocatus mette in parallelo l’intercessione dello Spirito e quella del Figlio: «In superioribus Sanctus Spiritus interpellat inquit pro nobis gemitibus inenarrabilibus; hic Christus Iesus qui mortuus est et resurrexit ipse interpellat pro nobis».
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vocato» e «giudice»1451. È vero comunque che proprio 1Gv 2, 1(-2) attesta come a nessuno degli stessi credenti in Cristo sia possibile sfuggire al peccato 1452; di conseguenza, tutti sono rinviati al suo patrocinio di intercessore. Di esso l’Alessandrino ha parlato con accenti inediti e toccanti nelle Omelie su Levitico, sviscerando le implicazioni della “compartecipazione” assicurata dal sommo sacerdote privo di colpa alle infermità degli uomini peccatori (secondo le indicazioni della Lettera agli Ebrei), di cui si fa «avvocato» e «difensore». Al tempo stesso egli ha rivisitato il patrocinio di «propiziazione» ad opera di Cristo attraverso l’interpretazione del rituale del giorno dell’espiazione1453. 4. Nuovi affondi: prospettive inedite su dottrina e prassi della preghiera Oltre ai luoghi scritturistici che per Origene rappresentano dei punti di riferimento permanenti e a quelli che vi si affiancano e li integrano anch’essi in forma strutturale, nel corso della sua opera egli ha acquisito nuova ispirazione per l’immagine della preghiera da altri nuclei biblici che ricorrono in forma più marginale e meno significativa in Orat oppure vi sono del tutto assenti. Benché alcuni di tali passi siano trattati in maniera occasionale, spesso sul filo del testo che è oggetto dell’esegesi immediata dell’Alessandrino, per loro tramite egli arriva a mettere in luce aspetti inediti o poco consueti nella sua riflessione sulla preghiera. In ogni caso, più che con ripensamenti o revisioni della visuale elaborata nel trattato, abbiamo a che fare con ulteriori approfondimenti che non solo arricchiscono ancor più il ventaglio della nostra problematica, ma soprattutto confermano le caratteristiche fondamentali del suo pensiero: anche riguardo alla preghiera esso coniuga un modello ben definito nei suoi lineamenti essenziali con un dinamismo concettuale che rimane sempre aperto a nuove idee. 4.1. 1Cor 14, 15: preghiera vocale, preghiera silenziosa Ci si potrebbe chiedere se 1Cor 14, 15 non sia piuttosto da annoverare fra le citazioni collaterali, considerando anche l’entità del suo ricorso –––––––––––––––––– 1451 CRm VII, 8 (599, 38-42): «sicut ipse est hostia et sacerdos, et ipse est in forma servi et in forma Dei, sic ipse est et advocatus et iudex». 1452 CRm II, 5 (130, 349-355): «Quotus enim quisque invenietur in terris, qui ita vitam suam libret, ut in nullo penitus delinquat? Sed et Iohanes apostolus in epistula sua evidenter etiam opinionem huiusmodi notat, cum dicit: Si quis dicit, quia peccatum non habet, hic mendax est, et veritas in eo non est. Si autem confiteamur peccata nostra, habemus advocatum apud patrem Iesum iustum, qui exorat pro peccatis nostris (1Gv 2, 1). 1453 Cfr. supra, pp. 395-398.
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in varî scritti e la concomitanza con taluni dei rinvii più costanti, ma Völker ha enfatizzato la diversità della dottrina sulla preghiera in Orat, specialmente rispetto alle omelie, basandosi fra l’altro sulla distinta interpretazione che Origene vi avrebbe dato del nostro passo1454. Ora, è innegabile che le attestazioni di 1Cor 14, (14-)15 nel corpus omiletico concorrano a sviscerare il tema della preghiera silenziosa meglio di quanto egli avesse fatto in precedenza 1455. Eppure non sarebbe corretto sostenere che tale aspetto fosse ignorato dal trattato, come si può notare ad un esame approfondito dei due luoghi in cui troviamo citato il versetto paolino1456. In Orat II, 4 il riferimento è inquadrato significativamente da Rm 8, 26 e mira così a ribadire l’indispensabilità del soccorso dello Spirito perché possa darsi la «preghiera spirituale», cioè l’orazione nella sua forma più alta ed autentica. Se è vero che qui l’Alessandrino approfondisce essenzialmente l’iniziativa dello Spirito nell’orante, non manca però di notare come essa sia finalizzata a far sì che anche la «mente» (nou'") preghi. Indicando, sia pure en passant, l’organo della preghiera nella «mente», Origene pare rimandare implicitamente alla preghiera silenziosa, di cui del resto è il primo interprete proprio lo Spirito1457. L’implicazione risulta forse più –––––––––––––––––– 1454 1455
Si veda supra, p. 34 e note 91-92. Conviene considerare insieme 1Cor 14, 14-15: «14 Quando infatti prego con il dono delle lingue, il mio spirito prega, ma la mia intelligenza rimane senza frutto. 15 Che fare dunque? Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelligenza; canterò con lo spirito, ma canterò anche con l’intelligenza». Completando le indicazioni di BP si possono raccogliere i seguenti riferimenti a 1Cor 14, 15, non tutti rilevanti ai fini del nostro tema: Orat II, 4 (nota 1457); Orat XII, 1 (nota 1458); Prin II , 8, 2 (nota 749); CRm VII, 6 (pp. 325-326 e nota 978); RomCat B 46; HNm X, 3 (p. 363 e nota 1092); HNm XI , 9 (p. 364 e nota 1094); HEz II, 3 (nota 1093); FrIer 15 (nota 1463); FrEz 13, 3 (nota 1462); FrPs 29 (30), 5 (PG 12, 1293B); ?PsCat (1304 C 8); ?PsCat (1437 B 6); PsCat C (136, 15); Fr1Cor 61; Fr1Cor 62; FrEph II, 43 (infra, nota 1459); FrEph III, 87. Troviamo invece riferimenti a 1Cor 14, 14 in HLv V , 8 (349, 11-13); HIos XX , 1 = Phil 12 ([390, 24-30] “Estin ou\n plh'qov" ti ejn hJmi'n dunavmewn keklhrwmevnwn hJmw'n ta;" yuca;" kai; ta; swvmata: ai{tine", eja;n w\sin a{giai, th'" grafh'" ajnagignwskomevnh" wjfelou'ntai kai; givnontai ijscurovterai, ka]n nou'" hJmw'n ovnti ejk stovmato" aujtou' uJpekluvein dunavmei qeou' to;n ejnievmenon nohto;n ijo;n ajpo; tw'n ajntikeimevnwn dunavmewn tw'/ hJgemonikw'/ tw'n ajmelouvntwn tou' eu[cesqai kai; to; ajdialeivptw" proseuvcesqe (1Ts 5, 17) ajkolouvqw" tai'" tou' ∆Ihsou' protropai'" eijrhmevnon para; tw'/ Pauvlw/ mh; fulattovntwn. 1459 Prin II, 8, 2 (154, 30–155, 4): «hac fortasse de causa evidentius nos Paulus docere volens, quid sit per quod “ea, quae sunt spiritus”, id est spiritalia, intellegere possimus, mentem magis quam animam spiritui sancto coniungit et sociat. Haec enim eum puto ostendere cum dicit: Orabo spiritu, orabo et mente; psalmum dicam spiritu, psalmum dicam et mente». È interessante la quaestio sollevata dal confronto tra il passo paolino e 1Pt 1, 9: «si anima cum spiritu nec orat nec psallit, quomodo sperabit “salutem”» (II , 8, 3 [155, 10-11]). La relativa flessibilità dell’antropologia tricotomica è attestata anche da FrEph II, 43 (310), dove a commento di Ef 4, 23 («dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente») si formula una quaestio sullo «spirito della mente» accostandovi 1Cor 14, 15 come luogo parallelo: ∆Episthvsei" ou\n eij, w{sper e[sti polla; pneuvmata kai; e{kastovn tini wj/keivwtai, ou{tw" e[stin ti pneu'ma w/jkeiwmevnon hJmw'n tw/' noi?, o{per tou' noo;" hJmw'n ajpokaqairomevnou kai; pa'san ajpobalovnto" ajclu;n wj/keiwmevnon aujtw/' ajnaneoi' hJma'".
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orante: se in Prin l’«anima» rinvia etimologicamente e ontologicamente alla condizione originaria di «intelletto» o «mente», dalla quale essa è decaduta per la colpa antemondana, in Orat IX, 2 l’«anima» è chiamata ad innalzarsi e unirsi allo «pneuma», anzi a trasformarsi essa stessa in «pneuma»1460. Benché Origene non citi 1Cor 14, 15 nel contesto di questo passo, i due concetti-chiave del luogo paolino – «pneuma» e «mente» – non potevano non evocare per lui lo scenario antropologico connesso al processo di trasformazione spirituale ad immagine del Figlio, che egli illustra soprattutto alla luce di 2Cor 3, 18. La medesima prospettiva riappare in CRm VII, 6, sebbene essa vi si esplichi con un’accentuazione più forte del mistero che si compie nell’anima orante per l’intervento dello Spirito, com’è indicato dall’Apostolo in Rm 8, 26-271461. Anche HEz II, 3 rimane in sostanza sulla stessa lunghezza d’onda, quantunque vi si possa intravedere un accenno alla preghiera nell’intimità del «cuore» («qui sensus habet in corde habitaculum») da parte di un orante che è «santo», analogamente alla prospettiva già abbozzata dal trattato. D’altra parte, in questa omelia l’Alessandrino ricollega di preferenza il passo alle problematiche dell’intelligenza spirituale, con la comprensione del mistero divino nella sequela dello Spirito, a cui anche il predicatore si augura di poter partecipare1462. Lo stesso dicasi dell’utilizzo di 1Cor 14, 15 in FrIer 15, che argomenta analogamente la verità della rivelazione profetica con il rinvio al passo paolino, o di FrEph III, 87, secondo cui la «parola che risana scorre dallo Spirito divino» e aiuta «coloro che “in ogni occasione pregano” (Ef 6, 18) e pregano nello Spirito»1463. –––––––––––––––––– 1460 1461 1462
Cfr. supra, pp. 189-193. CRm VII, 6 (p. 325 e nota 978). HEz II, 3 (supra, nota 1093). Si veda anche FrEz 13, 3 (PG 13, 804, 46): Oujai; toi'" profhteuvousin ajpo; kardiva" aujtw'n. ÔO poreuovmeno" ojpivsw tou' pneuvmato" aujtou' toi'" qelhvmasi th'" yuch'" ajkolouqei': oJ poreuovmeno" ojpivsw tou' aJgivou pneuvmato", ojpivsw Kurivou tou' Qeou', poiw'n aujtou' ta; qelhvmata. [...] Toi'" poreuomevnoi" ojpivsw tou' pneuvmato" aujtw'n oJ ∆Apovstolo" levgei: Proseuvxomai ktl. 1463 FrIer 15 (205, 22-28): nou'" ga;r ejpibavllwn pravgmasi cwri;" qeou' bohqeiva" o{rasin kardiva" oujk ajpo; stovmato" lalei' tou' corhgou'nto" eijpei'n kai; fwtivzonto". e[sti de; o{te suntrevcei kardiva" o{rasi" kai stovmato" kurivou lovgo": o{qen oujk ajplw'" yevgei th;n o{rasin th'" kardiva", a[ll∆ o{tan mh; prosh/' to; e{teron. suntrevcei de; para; tw/' levgonti: proseuvcomai ktl. Quanto a FrEph III, 87 (362), a quanto pare, è l’unico passo in cui ricorre Ef 6, 18 («Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi»), che Origene associa a Eb 4, 12, per cui la Parola di Dio tevmnei te kai; diairei', ajnuvwn kai; dia; th'" proseuch'" kai; dehvsew" toi'" ejn panti; kairw/' proseucomevnoi" kai; proseucomevnoi" pneuvmati kata; to; proseuvxomai pneuvmati (1Cor 14, 15). kai; ajnuvei toi'" uJpe;r tou' plouth'sai ejn rJhvmati qeou' (Eb 4, 12) ajgrupnou'si, kai; proskartepou'si th/' touvtou kthvsei, ejpi; tw/' kai; a[llou" wjfelh'sai kai; toi'" wfelou'si dia; tw'n eujcw'n ejnergh'sai. Nessun acquisto diretto per il nostro tema ci viene invece da Fr1Cor 61-62, che vertono entrambi sulla dimensione ecclesiale e l’intelligenza spirituale delle Scritture.
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È dunque solo con le Omelie su Numeri che Origene sente il bisogno di soffermarsi espressamente sulla distinzione fra preghiera silenziosa e preghiera vocale, benché la sua riflessione avesse posto altre premesse per questo ulteriore sviluppo, sia pure – come vedremo fra breve – senza passare necessariamente per il nostro luogo paolino1464. In HNm X, 3, 3, stabilendo un collegamento fra l’immagine dei due altari (Es 20, 24; 27, 1) e la «cameretta» di Mt 6, 6, egli adduce 1Cor 14, 15 a conferma di due distinte manifestazioni oranti: l’una esteriore e vocale, l’altra interiore e silenziosa. Nel contesto di questa omelia non traspare però alcun giudizio di valore implicante una gerarchizzazione a favore dell’orazione in silenzio, né lo si avverte nella successiva (HNm XI, 9), dove l’Alessandrino ripropone alla comunità l’intima dinamica dell’atto orante. Adesso il richiamo alla preghiera silenziosa serve soprattutto a far in modo che la preghiera dei fedeli, da intendersi evidentemente come l’espressione vocale che si realizzerà a conclusione dell’omelia, giunga ad attuarsi con una piena concentrazione interiore1465. In sostanza, più che immaginare una preghiera silenziosa concepita in forma autonoma, cogliamo semmai l’invito a realizzare l’accordo fra preghiera della bocca e preghiera del cuore. Nessuno dei due passi tende dunque a privilegiare apertamente la preghiera fatta nel silenzio e tanto meno a conferirle una valenza “mistica” particolare. In realtà, l’importanza dell’orazione silenziosa quale espressione forte della «preghiera dei santi» emerge in Origene entro diversi contesti, ma senza che egli la riconduca unicamente all’interpretazione di 1Cor 14, 15. Infatti l’ha evocata specialmente grazie al richiamo a Rm 8, 26-27 e attraverso le figure esemplari di oranti, da Gesù ai santi dell’Antico Testamento, in primo luogo Mosè. Commentando, ad esempio, in EM 29 le parole pronunciate da Gesù nell’orto del Getsemani secondo Mt 26, 39 («Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!»), l’Alessandrino suppone che Gesù «abbia rifiutato, del martirio, questa specie di morte e ne abbia implorato, forse in silenzio, una più dolorosa, per così procurare per mezzo di quest’altro calice, un beneficio più universale ed esteso a un numero più grande di uomini»1466. Si potrebbe pensare che anche nella scena della resurrezione di Lazzaro il Salvatore formuli comunque una preghiera silenziosa (secondo lo schema che prevede l’esaudimento nell’atto stesso della sua formulazione per –––––––––––––––––– 1464 1465 1466
HNm X, 3, 3 (nota 1092). HNm XI, 9 (nota 1094). EM 29 (26, 5-10): kai; provsce" eij dunato;n ejnorw'nta to;n swth'ra toi'" ei[desin, i{n∆ ou{tw" ojnomavsw, tw'n pothrivwn kai; toi'" di∆ e{kaston genomevnoi" a]n, kai; katalambavnonta metav tino" baqutavth" sofiva" ta;" diafora;" tovde to; ei\do" th'" ejxovdou paraitei'sqai tou' marturivou a[llo de; tavca baruvteron aijtei'n lelhqovtw", i{na kaqolikwvterovn ti kai; ejpi; pleivou" fqavnon eujergevthma ajnusqh'/ di∆ eJtevrou pothrivou.
I nuclei scritturistici della riflessione origeniana sulla preghiera
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l’orante che sia giusto o santo)1467, se non fosse che Origene insiste espressamente sulla prerogativa di Cristo rispetto ai «santi», in forza della quale è esaudito dal Padre senza neppure aver bisogno di formulare la sua richiesta1468. D’altronde, l’Alessandrino sottolinea sia nel Commento a Giovanni sia nel Commento a Matteo la forza della parola di Gesù, mettendola piuttosto a confronto con il suo silenzio autoimposto, il quale non dà luogo come tale al manifestarsi della sua potenza divina1469. L’apparente contrasto tra le due preghiere di Cristo in croce – il grido di derelizione in Mt 27, 46 e la vox magna del Crocifisso prima di morire in Mt 27, 50 – e la preghiera silenziosa dei santi ai quali lo Spirito, secondo Origene, dà voce nel silenzio, forse potrebbe essere risolto intendendo la duplice preghiera di Gesù crocifisso con 1Cor 14, 15, cioè quale preghiera vocale a beneficio degli astanti, e più in generale degli uomini chiamati alla salvezza, e come espressione del ruolo sacerdotale che Cristo assume nel suo sacrificio. Nondimeno, come si è già accennato, il modello della «preghiera dei santi» quale preghiera silenziosa rimanda piuttosto a Rm 8, 26-27 associandovi all’occorrenza altri luoghi scritturistici, tra cui Es 14, 14 («Il Signore combatterà per voi e voi starete in silenzio»), che l’Alessandrino sfrutta principalmente – come si è visto in precedenza – per mettere in luce la rilevanza politica della preghiera1470. Fin dal VI libro del Commento a Giovanni, e pertanto più o meno in contemporanea con la stesura del trattato, egli attua già la distinzione fra preghiera vocale e preghiera silenziosa mettendola in rapporto con la figura di Mosè e la sua intercessione presso Dio a beneficio d’Israele, con il conforto di Es 14, 15 («Il Signore disse a Mosè: “Perché gridi verso di me? Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino”»). Ora, non si deve pensare che Mosè gridasse verso Dio con uno «strepito sensibile», dal momento che faceva ricorso alla «voce intelligibile di coloro che pregano», «quella voce che può essere –––––––––––––––––– 1467 È il modello contemplato, ad esempio, dal testo attribuito a Origene in FrPs 3, 5 (PG 12, 1124A-B), dove si chiede perché l’esaudimento preceda la preghiera? L’aporia è risolta in due possibili modi: a) è l’annuncio della preghiera avvenuta, secondo una dinamica «preghiera silenziosa – esaudimento» che richiede di anticipare il «ringraziamento» alla «narrazione» (Oujci; eujchv ejsti to; legovmenon ejnqavde, ajll∆ ajpaggeliva peri; tou' th;n eujch;n gegonevnai. ∆Epei; ga;r eujch; kata; to; siwpwvmenon gevgone, kai; a{ma tw/' eu[xasqai ejpevtuce, labw;n o} ejbouvleto oJ th;n e[nteuxin tw/' Qew/' prosagagw;n kalw'" protavssei th;n pro;" Qeo;n eujcaristivan th;n pro;" ajnqrwvpou" dihghvsew" peri; tou' tivna eu[xato); b) l’inizio del salmo contiene di fatto una preghiera e di seguito un ringraziamento, che è la spiegazione ritenuta migliore. Cfr. anche FrPs 16 (17), 6 (nota 1476). 1468 Si veda supra, pp. 296-298. 1469 Cfr. rispettivamente CIo XIX, 10, 60 (supra, nota 1041) e CMtS 135 e CMtS 138 (supra, pp. 346-349). 1470 Si veda supra, pp. 274, 453. Es 14, 14 compare in CC VIII, 69 (nota 822); Ep.Fir (250,9-10); HEx XI , 3; HNm XIII, 4 (nota 1196); HIud VI , 2; ?Ps.Cat C (45,19).
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udita da Dio solo»1471. Anche in HEx V , 4 il profeta offre il paradigma della preghiera silenziosa, ma in questo caso Origene va al di là dell’alternativa sensibile/intelligibile per mettere in evidenza il protagonismo dello Spirito con il rinvio sia a Gal 4, 6 («E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!») sia a Rm 8, 26-27: quando lo Spirito intercede in tal modo presso Dio, «si ascolta il suo clamore attraverso il silenzio dei santi»1472. È significativo che l’Alessandrino riprenda qui Gal 4, 6, un passo paolino sfruttato da lui assai meno di quanto ci si potrebbe aspettare, ma che compariva fin da Orat II, 3 unitamente alla citazione di Rm 8, 26-271473. Dunque, il motivo della presenza dello Spirito che anima la preghiera nei cuori dei santi era ben radicato anche nel trattato, sebbene Origene non l’abbia enucleato allora come avrebbe fatto in seguito. Il motivo è assai frequente nei frammenti sui Salmi, a cominciare da FrPs 3, dove Origene commentando il v. 5 («Al Signore ho gridato con la mia voce e mi ha ascoltato dal suo monte santo») richiama due suoi luoghi chiave a sostegno dell’idea che «spesso la preghiera dei santi a Dio si attua mediante un grido». Infatti, con il primo di essi rimanda all’esempio di Gesù in Gv 7, 37 («Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: “Chi ha sete venga a me e beva”»), su cui l’Alessandrino si è soffermato nel Commento a Giovanni, ricollegando all’«alta voce» del Salvatore anche la preghiera di Mosè1474. Nell’introdurre pure qui l’implicazione insita nel «grido» di preghiera, che rinvia alla «voce intelligibile» quale «voce dell’anima», il testo prosegue con un’affermazione di carattere generale basata sul secondo testimonium scritturistico: è lo Spirito che grida nei cuori dei santi, secondo quel che attesta Paolo in Gal 4, 6; è lo Spirito, dunque, che parla nel loro hJgemonikovn. Coloro che gridano a Dio con questa «voce intelligibile» hanno la garanzia dell’esaudimento, anche se questo rimane sempre a discrezione del volere divino 1475. Come appare già da FrPs 3, la «voce» –––––––––––––––––– 1471 CIo VI, 18, 101 (127, 14-21 [tr. Corsini, 318]): ∆Ea;n de; mh; pantelw'" h\/ hJ nohth; tw'n eujcomevnwn fwnh; megavlh kai; ouj bracei'a, oujde; a]n aujxhvswsi th;n boh;n kai; th;n kraugh;n ajkouvei tw'n ou{tw" eujcomevnwn oJ qeo;" oJ levgwn pro;" Mwseva: Tiv boa'/" pro;" mev (Es 14, 15) oujk aijsqhtw'" bebohkovta < ouj ga;r ajnagevgraptai tou'to ejn th'/ ∆Exovdw/ kw'", ajlla; telwnikw'" proseuvcou ejn tw/' iJerw/' tovpw/ th'" proseuch'", i{na kai; su; dikaiwqh/'" uJpo; Kurivou. Evagrio risulta essere il primo ad avere usato l’avverbio telwnikw'", adoperato poi solo in epoca medievale. 1873 Mt 5, 23 è citato in De orat. 21 (PG 79, 1172B): “Afe" sou to; dw'ron, fhsivn, e[mprosqen tou' qusiasthrivou, kai; ajpelqw;n provteron diallavghqi tw/' ajdelfw/' sou, kai; tovte proseuvxh/ ajtaravcw": hJ ga;r mnhsikakiva ajmauroi' to; hJgemoniko;n tou' proseucomevnou kai; skotivzei touvtou ta;" proseucav". Cfr. anche De orat. 147 (1197D). 1874 Cfr. supra, nota 1852. 1875 De cogit. 5 (166, 17–168, 19): ∆All∆ ejgw; to;n toiou'ton makra;n kaqara'" proseuch'" peivqomai ei\nai, lumew'na to;n qumo;n th'" toiauvth" eujch'" ejpistavmeno".
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della sua concezione della preghiera. Né la selezione operata apparentemente da Evagrio rispetto all’ampio fascio di coordinate scritturistiche attestate nel discorso origeniano si rivela inadeguata a cogliere pienamente la portata delle premesse bibliche. Riandando all’indicazione del cap. 59 riguardo alla necessità di Dio stesso onde attuare la preghiera spirituale, possiamo ancora osservare come l’invocazione del dono dello Spirito, oltre ad appoggiarsi alla variante lucana della seconda domanda del Pater, si riallacci poco oltre (cap. 63) a Rm 8, 26-27, luogo decisivo – come s’è visto – per tutta l’impostazione di Origene. Con l’Alessandrino, anche il Pontico riconosce il concorso dello Spirito, «che compatisce la nostra debolezza»: anche «quando siamo impuri», egli sovviene all’intelletto che si sforza di pregarlo in modo veritiero liberandolo dall’assedio di «pensieri» e «rappresentazioni» e guidandolo così alla «preghiera spirituale»1876. D’altra parte, bisogna supporre che il Pontico sfrutti il rinvio al luogo paolino senza porsi in contraddizione con se stesso, dal momento che la sua concezione è imperniata costitutivamente proprio sulla «necessità della purezza assoluta per l’orazione e la contemplazione». Pertanto è lecito pensare con Hausherr che Evagrio abbia in mente qui la condizione di un intelletto che non acconsente più al male, ma rimane ancora preda del turbamento dei «pensieri»1877. Sebbene una tale idea non contrasti di certo con la visuale «sinergica» dell’Alessandrino sul rapporto fra sforzo umano e sostegno divino all’orazione alla luce del nesso fra virtù e preghiera, l’appropriazione evagriana di Rm 8, 26-27 non sembra rivestire quel rilievo fondamentale che ha per Origene, soprattutto per la nota drammatica che accompagna la sua ripresa nel trattato, se non forse in un passo degli Scolii all’Ecclesiaste dove il Pontico accenna all’incapacità umana –––––––––––––––––– 1876 De orat. 63 (PG 79, 1180C): To; a{gion Pneu'ma sumpavscon th/' hJmetevra/ ajsqeneiva/, kai; ajkaqavrtoi" ou\sin ejpifoita/' hJmi'n, kai; eij eu{roi to;n nou'n hJmw'n filalhvqw" aujtw/' proseucovmenon, ejpibaivnei aujtw/' kai; a{pasan th;n kuklou'san aujto;n tw'n logismw'n h] tw'n nohmavtwn favlagga ejxafanivzei, protrepovmenon aujto;n eij" e[rga pneumatikh'" proseuch'". Bettiolo (Evagrio Pontico. Per conoscere lui, 178, nota 2) accosta a questo capitolo De orat. 70 (PG 79, 1181C) identificando «colui che compatisce» nello Spirito anziché in Cristo come sommo sacerdote: Sth'qi ejpi; th'" fulakh'" sou fulavttwn to;n nou'n sou ajpo; nohmavtwn kata; to;n kairo;n th'" proseuch'", sth'nai ejpi; th/' oijkeiva/ hjremiva,/ i{na oJ sumpavscwn toi'" ajgnoou'si (Eb 5, 2), kai; soi ejpifoithvsh/, kai; tovte lhvyh/ dw'ron proseuch'" eujkleevstaton. 1877 Hausherr 1960, 88 commenta così: «C’est ici peut-être le chapitre le plus difficile à interpréter. Il semble en effet renverser tout le système, dont c’est une des maîtresses pièces que la nécessité de la pureté absolue pour l’oraison et la contemplation. Bien entendu, nous sommes loin de la doctrine messalienne affirmant la possibilité d’une présence simultanée dans l’âme du Saint-Esprit et du démon ou du péché. L’impureté dont il s’agit ici c’est [...] la simple existence de pensées troublantes dans une âme déjà libre de tout consentement au mal, mais encore en butte aux harcèlements intérieurs qui empêchent l’ “état paisible” requis pour la prière véritable».
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di «parlare con Dio» (qeologei'n)1878. Inoltre Evagrio, a differenza di Origene, non pare disposto ad ammettere uno spazio per la preghiera del peccatore che è ancora irretito in qualche modo nella propria colpa1879. Sotto entrambi gli aspetti riscontriamo quindi ancora una volta la dipendenza ed insieme l’autonomia del Pontico rispetto all’Alessandrino. Senza soffermarci adesso su prerequisiti e condizioni della preghiera, se non per notare di passaggio che la dottrina di Evagrio affina e arricchisce l’insegnamento tradizionale con dovizia di considerazioni psicologiche e ascetiche tratte specialmente dell’esperienza monastica (quali, ad esempio, l’importanza della preghiera delle lacrime, d’altronde già avvertita da Origene, e il ruolo distinto riconosciuto alla salmodia)1880, conviene piuttosto esaminare la messa in luce dell’orizzonte agonico della preghiera che rappresenta uno dei suoi contributi più peculiari. Infatti, se è vero che già Origene aveva descritto l’atto orante sullo sfondo di uno scenario cosmico in cui si fronteggiano angeli e demoni, Evagrio ne approfondisce particolarmente la componente demonologica sforzandosi di mettere in luce come le potenze malvage tentino di sabotare in tutti i modi la ricerca della «preghiera pura». Si tratta per lui di un tema ricorrente, come prova il fatto che lo accenni concludendo con un’esortazione –––––––––––––––––– 1878 Sch. in Eccl. 35 (116, 1-6) ad Qo 5, 1-2 («Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferir parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra; perciò le tue parole siano parche, poiché dalle molte preoccupazioni vengono i sogni e dalle molte chiacchiere il discorso dello stolto»): To; ga;r tiv proseuxwvmeqa kaqo; dei' oujk oi[damen (Rm 8, 26). ‘H tavca nu'n ouj tou'to bouvletai levgein, prostavssei de; mh; ajperiskevptw" qeologei'n: ouj ga;r dunato;n to;n ejn aijsqhtoi'" o[nta kai; ajpo; touvtwn lambavnonta ta; nohvmata peri; tou' o[nto" ejn toi'" nohtoi'" qeou' kai; pa'san diafeuvgousan ai[sqhsin ajptaivstw" dialecqh'nai. La seconda citazione di Rm 8, 26-27 compare in Ad Eul. 30 (nota 1890). 1879 Si veda, ad esempio, in De orat. 145 (PG 79, 1197C) la singolare esegesi di 1Cor 11, 10 («Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli»), inteso come rimprovero per colui che voglia accostarsi alla preghiera essendo ancora preso dai propri peccati (oJ ejn aJmartivai" ejnecovmeno"). 1880 Anche per lui una vita virtuosa rappresenta la precondizione necessaria per una preghiera che voglia essere autentica. Ciò implica, fra l’altro, rammentare costantemente i propri peccati e piangere per essi (De orat. 5-8). Sotto tale profilo Evagrio si fa interprete dei temi del pevnqo" e delle lacrime, nello spirito del monachesimo primitivo, ma mettendo anche in guardia dagli eccessi (8). Sul pregare con lacrime si veda, in particolare, De orat. 6 (PG 79, 1169A): Kevcrhso toi'" davkrusi pro;" panto;" aijthvmato" katovrqwsin: livan ga;r caivrei sou oJ Despovth" ejn davkrusi proseuch;n decovmeno"; cfr. anche 78 e Ad virg. 25 (148): Davkrusin ejn nukti; parakavlei to;n kuvrion, kai; mhdei;" ai[sqhtai proseucomevnh" sou kai; euJrhvsei" cavrin. Evagrio inculca così un atteggiamento di umiltà nell’orante con la confessione delle colpe (De orat. 43) e il costante ricordo di esse (144). Quanto alla salmodia, che per Evagrio si affianca alla preghiera vera e propria come espressione dotata di sue caratteristiche, si veda Dysinger. Un posto a sé l’occupa infine la preghiera «antirretica», di cui Evagrio è il teorizzatore per eccellenza con l’Antirretico, come mostra Bernardini.
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alla preghiera lo scritto programmatico che s’intitola Basi della vita monastica: «prega in timore, tremore, fatica, sobrietà e veglia. Così si deve pregare, soprattutto a motivo dei nemici invisibili, dai mali modi e dalle male occupazioni, che [proprio] in quest’[ora] ci vogliono ingiuriare. Infatti, quando costoro ci vedono dediti alla preghiera, allora essi pure ci attaccano con sollecitudine, suggerendo all’intelletto quel che non si deve pensare né considerare, per condurre via prigioniero il nostro intelletto e rendere oziose, vane e inutili l’invocazione e la supplica che procedono dalla preghiera. Realmente vane e inutili sono infatti la preghiera, l’invocazione e la supplica, quando non sono portate a termine in timore e tremore, in sobrietà e veglia, come si è detto. Se uno, accostandosi a un uomo [che sia] re, lo invoca così – in timore, tremore e sobrietà –, non ci si deve presentare in modo simile tanto più a Dio, il Padrone di tutto, e al Cristo, re di quanti regnano e principe dei principi, e fare così la nostra invocazione e supplica?»1881.
Se qui l’ostacolo dei demoni si frappone alla preghiera vista soprattutto come componente di una «pratica» monastica ancora agli inizi, il loro obiettivo rimane lo stesso anche negli stadi più alti dell’ascesi, quelli cioè che predispongono più direttamente all’attuazione della «preghiera pura». Nell’uno e nell’altro caso i demoni compiono un’azione di disturbo, per impedire che l’orazione corrisponda alla sua vera natura di «colloquio» (oJmiliva) e «ascensione» (ajnavbasi") dell’intelletto a Dio, conformemente al modello evagriano della preghiera spirituale. Tenendo conto dello schema degli «otto vizi» e della centralità della preghiera per l’itinerario «pratico» e «gnostico» del monaco, Evagrio ha scrutato le modalità diverse con cui le passioni attizzate dai demoni intervengono «al momento della preghiera» (kata; to;n kairo;n th'" proseuch'") 1882, mostrando fra l’altro come la maggiore intensità perturbatrice derivi dal vizio dell’«ira» (ojrghv o qumov"), riflesso per eccellenza della natura irascibile propria della psiche –––––––––––––––––– 1881 Rer. mon. rat. 11 (1264, B-C): proseuvcou de; ejmfovbw", ejntrovmw", ejmpovnw", nhfalivw" te kai; ejgrhgorovtw". Ou{tw proseuvcesqai dei', mavlista dia; tou;" kakotrovpou" kai; kakoscovlou", ejphreavzein hJma'" qevlonta" ejn touvtw/ tou;" ajoravtou" hJmw'n ejcqrouv". ÔOphnivka ou|toi i[dwsin hJma'" proseuch/' paristamevnou", tovte dh; kai; aujtoi; spoudaivw" ejfivstantai hJmi'n, ejkei'na hJmi'n tw/' nw/' uJpobavllonte", a} mh; dei' ejn kairw/' tou' proseuvcesqai ejnqumei'sqai h] ejnnoei'n, i{na ai[cmavlwton hJmw'n to;n nou'n ajpavgagwsi, kai; ajrgh;n kai; mavtaion kai; ajnwfelh' th;n ajpo; th'" proseuch'" devhsivn te kai; iJkethrivan (cfr. Eb 5, 7) poihvswsi. Mavtaio" ga;r o[ntw" kai; ajnwfelh;" hJ proseuch; kai; hJ devhsi" kai; hJ iJkethriva tugcavnei, o{tan mhv, wJ" proeivrhtai, ejn fovbw/ kai; ejn trovmw/ nhfalivw" te kai; ejgrhgorovtw" diatelh'tai. Ei\ta ajnqrwvpw/ me;n basilei' prosercovmenov" ti", meta; fovbou kai; trovmou kai; nhvyew", ou{tw" th;n devhsin ajpotelei': ouj pollw/' ma'llon Qew/' tw/' Despovth/ tw'n o{lwn, kai; Cristw/' Basilei' tw'n basileuovntwn kai; “Arconti tw'n ajrcovntwn oJmoivw" parivstasqai dei', kai; wJsauvtw" th;n devhsin kai; iJkethrivan poiei'sqai… (tr. it. in Evagrio Pontico. Per conoscere lui, 174-175). 1882 Questa espressione o altre consimili ricorrono innumerevoli volte negli scritti di Evagrio (cfr. ad esempio le note 1876, 1886).
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demoniaca e intralcio principale sulla via della «gnosi»1883. In ogni caso, ciascuno dei vizi incide negativamente sull’esperienza di preghiera come per converso ogni virtù la favorisce, secondo quel che vediamo anche dal singolare scritto in forma di catalogo I vizi opposti alle virtù1884. Ora, l’azione dei demoni contrasta, per così dire, diametralmente l’attuazione della «preghiera pura»: se questa è chiamata a un processo di anacoresi sensoriale che la svuoti completamente di ogni «immagine» (ei[dwlon), «rappresentazione» (novhma) o «ricordo» (mnhvmh) di persone e cose, al contrario l’effetto dell’azione demoniaca consiste proprio nell’insinuare immagini, rappresentazioni e ricordi che si affollano nell’intelletto dell’orante, fino ad arrivare all’attacco fisico e alla fantasmagoria demoniaca illustrati dal Pontico con particolari sconcertanti soprattutto nell’Antirretico1885. Ma «colui che desidera vedere il volto del Padre che è nei cieli (Mt 6, 9)» – ammonisce Evagrio nei Capitoli sulla preghiera – «non cerchi affatto di accogliere in sé forma o figura al momento della preghiera»1886. Questa insidia della «rappresentazione» arriva a minare tramite il vizio della vanagloria (kenodoxiva) perfino le espressioni più alte della «preghiera pura», «imprimendo all’intelletto la forma che vuole»1887. D’altra –––––––––––––––––– 1883 Gnost. 5 (94): Pa'sai tw/' gnwstikw/' oJdopoiou'sin aiJ ajretaiv: uJpe;r de; pavsa" hJ ajorghsiva. ÔO ga;r gnwvsew" ejfayavmeno" kai; pro;" ojrgh;n rJadivw" kinouvmeno", o{moiov" ejsti tw/' sidhra/' perovnh/ tou;" eJautou' ojfqalmou;" katanuvttonti. Per un maggiore approfondimento si veda Perrone 2010. 1884 Ad esempio, la lussuria (porneiva) è designata come «disonore della preghiera» (eujch'" ejntrophv ), mentre la virtù contraria della castità (swfrosuvnh) è definita un «proponimento di preghiera» (eujch'" gnwvmh). Si vedano anche gli effetti dell’ira, della concupiscenza e della gola in Lettere 4, 2: «Siimi dunque un messaggero dell’astinenza e dell’umiltà e un distruttore di pensieri e di ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Cristo (2Cor 10, 4-5), affinché, al momento della preghiera, l’intelletto di coloro che sono dotati di queste cose abbia franchezza, non si sottometta e non si pieghi, né quando è scosso dall’ira, né quando è trascinato dalla concupiscenza. Queste cose accadono agli iracondi e agli ingordi che non si trattengono di giorno e non sfuggono alle brutte immaginazioni della notte» (Evagrio Pontico. Lettere dal deserto, 22). 1885 Specie per il demone della «tristezza» (luvph). Cfr. ad esempio Antirrh. IV, 53, 56 (Evagrio Pontico. Contro i pensieri malvagi. Antirrhetikos, 108-109). 1886 De orat. 114 (PG 79, 1192D): ∆Epipoqw'n ijdei'n to; provswpon tou' Patro;" tou' ejn oujranoi'" , mh; zhvtei pantelw'" morfh;n h] sch'ma devcesqai ejn tw/' th'" proseuch'" kairw/'. Si veda inoltre De orat. 117 (1193A): ∆Egw; to; ejmovn, tou'to ejrw' o} kai; ejn eJtevroi" ei[rhka: Makavrio" oJ nou'", o}" kata; to;n kairo;n th'" proseuch'" teleivan ajmorfivan ejkthvsato (per la forma del testo si veda Hausherr 1960, 150-153). 1887 Ant. VII, 31 (534): «Contro il pensiero della vanagloria che si manifesta a noi nello stato della preghiera pura, imprimendo all’intelletto la forma che vuole, nel momento in cui questo è privo di rappresentazioni e di immagini e dandogli l’impressione di essere in preghiera davanti alla divinità – capita così alla mente che è affetta dalla passione della vanagloria e, nel tempo della preghiera, è condotta da quel demone là dove può essere vista dai giovani e da molta gente» (Contro i pensieri malvagi. Antirrhetikos, 150). Cfr. anche De orat. 116 (PG 79, 1193A): ∆Arch; plavnh", nou' kenodoxiva, ejx h|" kinouvmeno" oJ nou'", ejn schvmati kai; morfai'" perigravfein peira'tai to; qei'on.
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parte, l’orazione può essere compromessa in maniera ancor più radicale, allorché il vizio della superbia (uJperhfaniva) insinua nel cuore del monaco che egli è capace di raggiungere da sé la mèta della perfezione, senza aver bisogno di chiedere l’aiuto della grazia divina o il soccorso degli angeli1888. In realtà, non solo il successo della condotta ascetica ma la preghiera stessa è un dono di Dio e ciò è tanto più vero quanto più ci si avvicina allo stato della «preghiera pura»1889: dal punto di vista umano essa è impossibile, ma diviene tale se Dio giunge in aiuto dell’uomo e questi coopera con lui – secondo la bella espressione del trattato Ad Eulogio – «appendendo la propria anima a Colui che dona l’orazione»1890. In questa stessa luce si comprende l’importanza assegnata da Evagrio all’assistenza degli angeli all’orante che mostra senza dubbio una linea di continuità diretta con Origene, forse più di quanto avvenga con il suo ampio discorso demonologico. Secondo i Capitoli sulla preghiera, «quando interviene un angelo, si dileguano immantinente tutti coloro che ci tribolano»1891. Del resto, è proprio attraverso la «preghiera pura» che il monaco diventa «uguale agli angeli»1892, in quanto arriva anch’egli a partecipare della «gnosi» che contraddistingue la loro natura razionale1893. –––––––––––––––––– 1888 Prat. 46 (604) enuncia così l’effetto inibente dell’orgoglio: skopo;" de; touvtw/ tw/' daivmoni pau'sai hJma'" th'" proseuch'", i{na mh; stw'men ejnantivon Kurivou tou' Qeou' hJmw'n, mhde; ta;" ceivra" ejktei'nai tolmhvswmen. Si osservi qui il cenno occasionale al gesto delle mani alzate. 1889 L’indispensabilità della grazia è affermata nettamente dal Pontico in De vitiis 1 (1140B): to; de; pa'n hJ cavri" a[nwqen, hJ kai; toi'" ajmartwloi'" uJpodeiknuvousa ta;" tw'n frenapatw'n ejpiboulav", hJ kai; ajsfalizomevnh kai; levgousa: tiv ga;r e[cei" a} oujk e[labe"… (1Cor, 4, 7). Si veda anche De octo spir. 18 (PG 79, 1164B): Eij" u{yo" ajnevbh" politeiva", ajll∆ ejkei'no" wJdhvghsen: katovrqwsa" ajrethvn, ajll∆ ejkei'no" ejnhvrghsen. 1890 Ad Eul. 29 (PG 79, 1132C): tw'/ th'" eujch'" doth'ri th;n yuch;n ajpokrhmnw'n. Evagrio si riferisce al comportamento adottato da un fratello che durante la notte provava delle fantasie demoniache molto penose. Anche Ad Eul. 30 (PG 79, 1133C) invita a riconoscere il dono della grazia per la «preghiera pura»: “Estin o{te biazovmeqa kaqara;n th;n eujch;n poih'sai, kai; i[sw" ouj dunavmeqa. “Esti de; kai; pavlin o{te, ouj biazomevnwn hJmw'n, kaqara/' th/' proseuch/' hJ yuch; ejggivnetai, o{ti to; me;n th'" hJmw'n ajsqeneiva", to; de; th'" a[nwqen cavrito" ejkkaloumevnh" hJma'" ejpanelqei'n eij" th;n th'" yuch'" kaqarovthta, a{ma de; kai; di∆ ajmfotevrwn paideuouvsh" hJma'" mh; eJautoi'" ajpodidovnai ejn tw/' proseuvcesqai, ajll∆ ejpiginwvskein to;n dwrouvmenon. To; ga;r tiv proseuxovmeqa kaq∆o} dei', oujk oi[damen (Rm 8, 26). 1891 De orat. 30 (PG 79, 1173B): ∆Epistavnto" ajggevlou ajqrovon a{pante" ajfivstantai oiJ ejnoclou'nte" hJmi'n, kai; euJrivsketai oJ nou'" ejn pollh/' ajnevsei, uJgiw'" proseucovmeno". 1892 De orat. 113 (PG 79, 1191D): ∆Isavggelo" givnetai monaco;" dia; th'" ajlhqou'" proseuch'". Si noti l’affinità d’idee con Clemente Alessandrino, Strom. VII, 12, 78, 6 (nota 1697). 1893 Cfr. De orat. 76 (nota 1844); 80 (nota 1853). Questo punto è sviscerato da Hausherr 1960, 48-49 con l’appoggio di numerosi luoghi dei Keph. Gnost.: «les Anges sont des natures raisonnables en qui il y a une surabondance de gnose, comme dans les démons un excès de colère, et dans les hommes une prédominance de désir [KG I, 68]. Leur rôle sera donc d’aider les hommes sur le chemin de la vertu et de la contemplation
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In tal modo torniamo ad intravedere l’elemento più significativo della dottrina di Evagrio sulla preghiera, quello che di primo acchito tende a distinguerlo nettamente dai suoi predecessori: superati tutti gli ostacoli sul cammino spirituale, l’orazione nella sua forma più alta è un atto di conoscenza o meglio, per usare una calzante formulazione del Pontico, è un atto eminentemente «teologico» 1894. Il suo scopo supremo è infatti la visione di Dio mediante la pura contemplazione di lui, oltrepassando la gnosi inferiore – che si applica ancora al mondo degli esseri creati, visti però nella luce della sapienza divina – per indirizzarsi a Dio stesso, alla Trinità, attraverso lo specchio senza figura e senza forma dell’intelletto, sia pure illuminato dalla luce divina al momento della preghiera. Non è fuori luogo parlare a questo proposito di una «mistica intellettualistica», aliena come in Origene da ogni deriva estatica, quale esito finale dell’orazione, senza però ignorare la cornice del pensiero eucologico di Evagrio che abbiamo abbozzato sommariamente. Se la si tiene presente in tutta la sua complessità, si arriva a comprendere come la sua visuale si nutra di radici bibliche e monastiche perfino nel momento in cui sembra essere più esposta ad una considerazione «filosofica». In effetti, il trascendimento sensoriale che si cura di fare il vuoto di ogni rappresentazione perviene allo svelamento dell’intelletto e al recupero della sua vocazione «naturale» alla conoscenza di Dio. Come abbiamo detto all’inizio, è vero che con ciò Evagrio elabora una nuova concettualità, a partire da uno schema di pensiero che è marcato in profondità dall’ipotesi origenista della preesistenza degli intelletti. Ma nella stessa prospettiva del Pontico sull’intelletto orante non si può trascurare il fatto che con essa, al pari di Origene, si sforza di declinare speculativamente l’insegnamento biblico sull’uomo in quanto «immagine di Dio». Come nell’Alessandrino, dunque, la natura razionale partecipa in se stessa del Logos divino ed è per questo tramite che essa giunge a conoscere Dio1895. Benché si possa discutere sull’effet––––––––––––––––––
[KG III, 46]. Et ils le peuvent excellemment, parce que cette contemplation est leur nourriture continuelle [KG III, 4], et qu’ils connaissent bien tous ceux auxquels s’étend leur ministère [KG II , 30]». 1894 De orat. 61 (PG 79, 1179B): Eij qeolovgo" ei\, proseuvxh/ ajlhqw'", kai; eij ajlhqw'" proseuvxh/, qeolovgo" ei\. Peraltro, Evagrio in De orat. 18 (1172A) esorta anche ad essere «filosofo per la preghiera» (uJpe;r proseuch'" filosovfei). Si veda il commento di Bettiolo, 56: «Divenuto filosofo, amico della Sapienza, di quella Sapienza che è e genera amicizia; posto nell’amicizia di tutti, allora il credente è dedito alla preghiera, prega». Cfr. anche de Andia. 1895 Secondo Hausherr 1960, 145-146, l’intelletto è organo della conoscenza di Dio in quanto «deificato»: «Voir Dieu, non plus dans les êtres inférieurs, marqués au sceau de la sagesse divine, mais dans l’être-image de la nature divine elle-même: l’intellect déifié. [...] Image de Dieu, temple de Dieu, lieu de Dieu, dieu par grâce, l’intellect pur est tout cela. Devenu voyant de lui-même, de son état propre, il est du même coup contemplateur de Dieu».
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tiva articolazione trinitaria di questa mistica della preghiera1896, anche l’esperienza della luce – che secondo Evagrio si manifesta all’intelletto nello stato della «preghiera pura» come espressione della presenza divina – rimanda sia a paradigmi scritturistici sia alla prassi orante del monachesimo del deserto, in alcuni dei suoi protagonisti che Evagrio aveva conosciuto personalmente1897. Al termine di questa presentazione della dottrina evagriana, constatiamo che la nostra analisi si è sviluppata per gran parte in un continuo contrappunto fra il Pontico e l’Alessandrino. Esso dovrebbe aver dimostrato a sufficienza, sebbene in maniera necessariamente rapida, la sostanziale continuità di Evagrio con Origene su una serie di aspetti importanti, ridimensionando le impressioni di strade diversificate percorse dai due autori. Nonostante ciò essi si distinguono nettamente l’uno dall’altro, nel senso che ciascuno descrive un’immagine fortemente connotata della preghiera, in relazione alla diversa fisionomia intellettuale ed ai rispettivi orizzonti spirituali. Questo implica anche che la singolare grandezza di Evagrio rifulge di luce propria. Egli ha saputo elaborare la sua visione peculiare, facendo tesoro anche di altri maestri ed eredità dottrinali, pur mantenendo un dialogo più o meno sotterraneo con Origene. All’accento intensamente biblico del discorso dell’Alessandrino subentra così nel Pontico un di–––––––––––––––––– 1896 A giudizio di Hausherr 1960, 98 non si può parlare di un dinamismo trinitario nell’ascesa dell’intelletto a Dio: «ni le Père en tant que Père, ni le Fils en tant que Fils, ni surtout le Saint-Esprit ne jouent un rôle appréciable dans la montée de l’intellect. “Sainte Trinité” n’est que l’appellation chrétienne de la Divinité, de la “Monade”. Le De oratione, par là encore, garde la marque de son auteur. Malgré la théologie qui en est le but suprême, la mystique évagrienne reste plus philosophique que théologique, au moins au sens trinitaire». Invece per Fagerberg, 121, «participation in the life of the Trinity is the ultimate goal of ascetical prayer. This is not knowledge about God, it is experiential knowledge of the Trinity made possible by the Son’s revelation of the Father and made available by the Holy Spirit’s indwelling in us as God’s temple». Ma questo schema interpretativo appare poco aderente ai testi di Evagrio. Più equilibrata è l’interpretazione di Stewart 2001, 192, che ricapitola così l’iniziativa divina e angelica a sostegno della «preghiera pura»: «God draws near to accompany the one who prays and provides the gift of prayer, enlightening the mind with God’s own noêma. Angels protect the one who prays while teaching true prayer. The Holy Spirit comes upon the mind in an act of divine visitation (ejpifoitavw) to banish the crowd of thoughts and depictions, and to stir an erôs for spiritual prayer. That same erôs takes the one purified of disordered passion (ajpaqhv") to the “heights” of prayer, for pure prayer is fueled by desire». 1897 Stewart 2001, 195, nota la matrice biblica (Es e Ez) del motivo evagriano del «luogo di Dio», riferito allo stato della «preghiera pura» e della visione in essa della luce. Su quest’ultimo motivo, che riveste cruciale importanza per la mistica evagriana, si veda la finissima analisi di Bettiolo (Evagrio Pontico. Per conoscere lui, 228-235): «La luce dell’intelletto è quindi la luce del Cristo, che è a sua volta, a motivo del Verbo che è in lui, luce della Divinità stessa, luce di quel Padre che abita la luce inaccessibile, che il Verbo fatto carne e lo Spirito da lui donato fanno risplendere nell’intelletto, che ne è capace» (pp. 233-234).
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scorso ascetico, che è espresso mediante un nuovo linguaggio maturato da un ricco corredo filosofico e teologico a contatto con l’assoluta novità dell’esperienza monastica. Monaco, esegeta, filosofo, teologo, direttore spirituale: tutte queste diverse sfaccettature dell’eccezionale personalità di Evagrio hanno concorso in lui a disegnare lo statuto della preghiera come esperienza «pratica» e «gnostica», legando così la prassi orante nella vita quotidiana dei monaci ai suoi traguardi contemplativi più alti e problematici. Anche in forza di tale sintesi, il suo modello della «preghiera pura» sarà destinato ad una ricca fortuna: in occidente con Cassiano ed in oriente con gli autori spirituali siriaci oltre che nel mondo bizantino sotto le mentite spoglie di Nilo di Ancira. 7. Gregorio di Nissa: la preghiera come confessione della creaturalità e memoria della patria celeste Gregorio di Nissa (ca. 335-394) offre a sua volta un importante termine di confronto, non solo per essere stato fra gli esponenti più autorevoli della tradizione origeniana nell’ambiente greco di fine IV secolo, ma soprattutto in quanto è autore di cinque Omelie sul Padrenostro che si possono accostare alla spiegazione dell’Alessandrino1898. Va subito aggiunto però che anche nel suo caso, come in Evagrio, la continuità con Origene si manifesta entro una piena autonomia di linguaggio e di concetti, che conduce il Nisseno a risultati sensibilmente diversi. Tale diversità è determinata non solo dal genere letterario del sermone, che sembra rinviare ad un uditorio dal profilo religioso non particolarmente elevato, almeno a giudicare dalle condotte di vita rievocate ripetutamente da Gregorio e oggetto della sua vigorosa denuncia1899. Oltre a ciò, si deve pren–––––––––––––––––– 1898 PG 44, 1120-1193; Gregorii Nysseni De oratione dominica, ed. Callahan. La datazione è incerta: Rordorf 1977, 198, le colloca intorno al 371; invece Alexandre 2008 tende a porle prima del concilio del 381, se non subito dopo, basandosi sulla polemica con gli pneumatochi nell’esegesi della seconda petizione: «On pourrait donc inscrire ce passage et les Homélies dans leur ensemble, plutôt que dans les premiers débats, vers 374377, entre Basile et Eustathe de Sébaste, dans la période qui a précédé et suivi le Concile de Constantinople de 381, parmi les petits traités trinitaires, dans l’élaboration du Contre Eunome et de la Réfutation de la profession de foi d’Eunome» (p. 181; cfr. anche Lozza, 211, nota 2). Propendono per il 385 Caldarelli, Gregorio di Nissa. La preghiera del Signore, 17 e Ayroulet, 199. 1899 Un tentativo per metterlo in luce è stato fatto da Brown 2008, che propende per un pubblico composto dal ceto medio: «Such rhetoric would not be suitable for a congregation of peasants, since their material interests could have scarcely gone beyond that of subsistence. By contrast, it would not have been suitable as well for a congregation of elites, for whom material acquisition was not such an overt preoccupation. Gregory’s comments appear most appropriate to that “middling” group, merchants and the like, whose livelihood depended most directly on one’s own initiative» (p. 104).
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dere atto che il Nisseno – conformemente alla tendenza del suo origenismo moderato – stempera a tratti lo spiritualismo del modello di orazione elaborato dall’Alessandrino, sia pure introducendo di suo altri elementi di riflessione che concorrono ugualmente a sostenere il paradigma della «preghiera spirituale»1900. La nostra analisi, più che indirizzarsi all’interpretazione delle singole petizioni del Padrenostro, prenderà in considerazione principalmente questi nuclei di pensiero, per mostrare come Gregorio di Nissa pervenga anch’egli a tracciare un’immagine alta della preghiera, della sua ragion d’essere e delle sue modalità, andando ben al di là delle aspettative a prima vista assai più limitate del suo pubblico. L’urgenza da cui muove la riflessione del Nisseno è anzitutto di natura pastorale: non si tratta per lui di giustificare la preghiera in rapporto a difficoltà teoriche come quelle con cui Origene si misura nel trattato, bensì d’inculcare la sua indispensabilità per quanti la trascurano, considerandola un’opera superflua o una perdita di tempo, incalzati come sono dalle loro attività alla ricerca di un benessere meramente materiale. Criticando tali comportamenti, Gregorio suggerisce dapprima l’idea della preghiera come «concorso» o «sostegno» divino (summaciva) nello sforzo richiesto per il successo delle proprie azioni1901. Potrebbe sembrare una concezione utilitaristica della preghiera (anche se ovviamente il Nisseno non può non condividere l’idea della sua efficacia), ma in realtà il richiamo alla necessità della preghiera poggia sulla convinzione che solo mediante essa l’uomo prende coscienza della sua posizione nel mondo. Ricorrere alla preghiera nell’agire quotidiano gli rammenta infatti la propria condizione di creatura, dipendente dall’iniziativa divina che gli ha fatto dono della vita terrena e lo assiste con la sua provvidenza. Mai forse come nel Nisseno vediamo profilarsi con più lucidità la prospettiva della preghiera come confessione della creaturalità1902, tanto più che questa – come appare dalla spiegazione della seconda domanda del Padrenostro – è segnata –––––––––––––––––– 1900 Sui limiti dell’origenismo di Gregorio alla luce di De or. dom. si veda, in particolare, Meredith. Quanto alla variante marcionita di Lc 11, 2 (ejlqevtw to; pneu'ma sou to; a{gion kai; kaqarisavtw hJma'") in De or. dom. III, condivisa anche da Evagrio, si veda supra, nota 1859. 1901 De or. dom. I (6, 19-23): Oi[etai ga;r oJ me;n th;n tevcnhn metiw;n ajrgovn ti crh'ma kai; a[prakton ei\nai th;n qeivan pro;" to; prokeivmenon summacivan: dio; katalipw;n th;n eujch;n ejn tai'" cersi; ta;" ejlpivda" tivqetai, ajmnhmonw'n tou' dedwkovto" ta;" cei'ra". Sul concetto di summaciva, associato a quello di sunergiva, per significare il sostegno divino, cfr. anche De or. dom. III (33, 27), dove Gregorio risolve un’obiezione fittizia, secondo cui le parole dei Salmi sarebbero meglio indicate del Padrenostro per chi è alle prese con il combattimento spirituale. 1902 Questo tema è messo in luce da Penati Bernardini, 174: «l’eujchv è “memoria di Dio” (or. I, p. 8,1) e perciò memoria dell’uomo e della sua verità; la necessità del pregare è, innanzi tutto, la necessità per l’essere umano di riconoscere la sua povertà ontologica radicale, la sua dipendenza totale dal Creatore e, per questo, il suo stato di mendicanza».
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dalle conseguenze del peccato di Adamo, il quale ha reso la natura umana «debole rispetto al bene»1903. Astenersi dal pregare significa staccarsi dalla comunione con Dio, venendo meno così alla verità ontologica dell’essere creatura sempre bisognosa del suo aiuto; al contrario, il fatto di pregare riporta la «memoria» di Dio nel cuore dell’esistenza e l’allontana dalla presa del Maligno1904. Abbattendo la pretesa di autosufficienza dell’uomo, la preghiera lo apre al riconoscimento dei doni di Dio che si esprime nel ringraziamento per la sua bontà. Se per Gregorio l’uomo è costitutivamente un animal orans, il rendimento di grazie è l’estrinsecazione più naturale della sua vocazione orante: davanti all’opera della provvidenza e della redenzione, per chi sa guardare al creato e alla storia del mondo nella luce di Dio, tutta la vita dell’uomo dovrebbe manifestare un continuo ringraziamento, pur non potendo esso mai compensare adeguatamente i benefici ricevuti1905. Ciò non significa che la preghiera si risolva per il Nisseno nel ringraziamento, perché lungo tutto il suo discorso egli mostra di voler operare con una nozione che ne focalizza con Origene il senso primario nella «domanda», privilegiando anche lui il termine proseuchv rispetto ad eujchv, inteso analogamente all’Alessandrino nel significato di «voto»1906. Semmai si diversifica da questi per il fatto che la richiesta rappresentata dalla proseuchv (e assimilata non solo con ai[thsi" ma anche con e[nteuxi") deve raccordarsi secondo Gregorio con l’eujchv quale sua necessaria premessa. In tal modo l’atto orante viene ad essere scandito, per così dire, in –––––––––––––––––– 1903 De or. dom. IV (47, 15): Dia; tiv de; th;n para; tou' Qeou' genevsqai th;n ajgaqh;n hJmi'n proaivresin ejpeucovmeqa… o{ti ajsqenh;" hJ ajnqrwpivnh fuvsi" pro;" to; ajgaqovn ejstin, a{pax dia; kakiva" ejkneurisqei'sa. Il motivo della «fragilità» costitutiva dell’uomo richiama naturalmente l’elaborazione origeniana in chiave agonica del tema dell’ajsqevneia (supra, pp. 62-66). 1904 De or. dom. I (8, 13-18): Cwrivzetai de; tou' Qeou' oJ mh; sunavptwn eJauto;n dia; proseuch'" tw/' Qew/'. [...] ∆Ek ga;r tou' proseuvcesqai perigivnetai to; meta; Qeou' ei\nai. ÔO de; meta; Qeou' w]n tou' ajntikeimevnou kecwvristai. 1905 Anche unendo preghiera e ringraziamento tutta la vita, non potremmo ricambiare adeguatamente il dono di Dio (De or. dom. I [9, 20-21]): pavsh/ th/' zwh/' th;n pro;" to;n Qeo;n oJmilivan sumparateivnwmen eujcaristou'nte" kai; proseucovmenoi). Tanto più grave appare l’inadeguatezza del «ricordo di Dio» nella vita quotidiana (10, 11-14): ÔHmei'" de; tosou'ton th'" kata; duvnamin eujcaristiva" ajpoleipovmenoi, oujde; peri; to; dunato;n eujgnwmonou'men, ouj levgw pa'san hJmevran, ajll∆ oujde; pollosto;n th'" hJmevra" th/' kata; qeo;n ajpoklhrou'nte" scolh/'. Come interpreta finemente Penati Bernardini, 176, «la preghiera come eujcaristiva è per Gregorio liberazione del tempo dell’uomo dal “desiderio del più” che aliena la memoria e la speranza, presenti nell’istante, nella cura delle realtà sensibili, fonti di inesauribile frustrazione. È la preghiera come ringraziamento che instaura la memoria di Dio nel cuore dell’uomo». 1906 De or. dom. II (21, 19-22): Tiv" de; hJ tw'n ojnomavtwn diaforav… ”Oti eujch; mevn ejstin ejpaggeliva tino;" tw'n kat∆ eujsevbeian ajfieroumevnwn: proseuch; de; ai[thsi" ajgaqw'n meta; iJkethriva" prosagomevnh qew/'.
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due tempi: un impegno personale preventivo (con «oblazione» conseguente) e la domanda vera e propria. Ciò avviene presumibilmente nell’intento di rafforzare la «franchezza» (parjrJhsiva) dell’orante nella formulazione della sua domanda a Dio1907. Questa impressione sembra confermata dall’ardita interpretazione della quinta petizione, dove il Nisseno arriva a dire che partecipando con il perdono delle offese di una facoltà propria di Dio – il solo che può rimettere i peccati –, ci è dato con ciò anche il potere di «vincolare» lui nei nostri riguardi1908. Infatti, dopo avere mostrato nei fatti la sua condotta conforme al volere di Dio, l’orante ha titolo a formulare l’audace preghiera: «Imita il tuo servo, o Signore, il povero e il misero, o Sovrano dell’universo»1909. In ogni caso, nella prima omelia che funge da introduzione alla spiegazione del Padrenostro, la proseuchv così concepita è oggetto di un vero e proprio encomio, che mostra le più svariate applicazioni della preghiera ad attestazione del fatto che «nulla è più eccelso dell’orazione fra le cose della vita meritevoli di onore»1910. L’elogio, costruito con un abile accumulo retorico di definizioni, è imperniato sull’idea dell’efficacia delle domande rivolte a Dio nelle più diverse situazioni, a riprova del valore universale della preghiera nella vita degli uomini, non senza richiamare alla mente le lodi della preghiera che abbiamo incontrato in Tertulliano o in Afraate se non, sotto il profilo letterario, le definizioni contenute nei cataloghi di vizi e virtù in Evagrio1911. Con quest’ultimo il Nisseno sembra –––––––––––––––––– 1907 De or. dom. II (22, 2-6): Kai; pollacou' th'" Grafh'" th;n toiauvthn e[stin ijdei'n th'" eujch'" shmasivan, w{ste gnw'nai hJma'", o{ti eujch; mevn ejsti, kaqw;" ei[rhtai, caristhvrio" dwroforiva" ejpaggeliva: hJ de; proseuch;, th;n meta; th;n ejkplhvrwsin th'" ejpaggeliva" tw/' qew/' ginomevnhn provsodon diermhneuvei. Per l’assimilazione con e[nteuxi" cfr. ibi (22, 13-15): ÔW" ou\n oujk ejsomevnh" ejn parjrh J siva/ th'" ejnteuvxew", eij mh; ejpi; prolhfqeivsh/ eujch/' tini kai; dwroforiva/ hJ provsodo" gevnoito, ajnagkaivw" hJ eujch; th'" proseuch'" prohghvsetai. Meredith, 347 constata il raccordo senza chiedersi il perché di tale nesso. Secondo Ayroulet, 212 la parjrJhsiva è per il Nisseno la sintesi dello spirito del Padrenostro. 1908 De or. dom. V (59, 11-13): Tiv ou\n didavskei oJ lovgo"… prw'ton dia; tw'n e[rgwn th;n parjrJhsivan labei'n kai; ou{tw" ajmnhstivan uJpe;r tw'n tovte plhmmelhqevntwn aijtei'n. 1909 De or. dom. V (61, 20-24): kaqavper ejn hJmi'n to; ajgaqo;n ejpitelei'tai th/' pro;" to; qei'on mimhvsei, ou{tw" ejlpivsai mimei'sqai to;n qeo;n ta; hJmevtera, o{tan ti tw'n ajgaqw'n katorqwvswmen, i{na ei[ph/" kai; su; tw/' qew/' o{ti, ’O ejgw; pepoivhka kai; su; poivhson: mivmhsai to;n dou'lon oJ kuvrio", to;n ptwco;n kai; pevnhta oJ tou' panto;" basileuvwn. 1910 De or. dom. I (9, 10-13): Kai; muriva pro;" touvtoi" e[stin euJrei'n ejk tw'n h[dh gegenhmevnwn ta; uJpodievgmata di∆ w|n fanero;n givnetai to; mhde;n th'" proseuch'" ei\nai tw'n kata; th;n zwh;n timivwn ajnwvteron. 1911 Esso si dispone, per così dire, in sei strofe, l’ultima delle quali richiama i paradigmi biblici (De or. dom. I [8, 18-9, 10]):
Proseuch; swfrosuvnh" ejsti; fulakthvrion, fqovnou kaqaivresi", qumou' paidagwgiva, ajdikiva" ajnaivresi", tuvfou katastolhv, ajsebeiva" ejpanovrqwsi". mnhsikakiva" kaqavrsion,
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voler condividere, in particolare, il tema della rilevanza «pratica» dell’orazione nel frenare le passioni e attuare le virtù, mentre guardando oltre gli effetti della preghiera nella vita personale e collettiva lascia intravedere anch’egli il suo esito contemplativo definendo la proseuchv come «visione delle realtà invisibili» (tw'n ajoravtwn qewriva). Ciò avviene sull’onda del suo riconoscimento come oJmiliva, che accomuna Gregorio a Clemente Alessandrino e ad Evagrio1912. D’altra parte, come chiarisce fin dal primo sermone l’interpretazione della vana «chiacchiera» (battologevw ) condannata da Mt 6, 7, Gregorio mette in guardia da un uso deformato della preghiera di domanda, questa volta sì riflesso di un concetto grettamente utilitaristico, che la piega a ottenere da Dio vantaggi di ordine materiale o addirittura il danno dei propri nemici. Anche se la Scrittura contiene preghiere che a prima vista auspicano la rovina degli avversari, la loro interpretazione corretta fa comprendere che Dio non persegue mai l’estinzione dei malvagi, bensì la distruzione del male. Quanto al fatto che egli esaudisce richieste di piccoli beni materiali, ciò avviene sempre all’interno di un disegno pedagogico, per cui l’uomo è chiamato ad innalzarsi gradualmente a beni più elevati rivol––––––––––––––––––
Proseuch; swmavtwn ejsti;n ijscuv", oijkiva" eujqhniva, povlew" eujnomiva, basileiva" kravto", polevmou trovpaion, eijrhvnh" ajsfavleia, tw'n diestwvtwn sunagwghv, tw'n sunestwvtwn diamonhv. Proseuch; parqeniva" ejsti; sfragiv", gavmou pivsti", oJdoipovrwn o{plon, koimwmevnwn fuvlax, ejgrhgorovtwn qavrso", gewrgw'n eujforiva, nautillomevnwn swthriva. Proseuch; krinomevnwn sunhvgoro", dedemevnwn a[nesi", kekmhkovtwn ajnavpausi", lupoumevnwn paramuqiva, cairovntwn qumhdiva, penqouvntwn paravklhsi", gamouvntwn stevfano", geneqlivwn eJorthv, ajpoqnhskovntwn ejntavfion. 1912
Proseuch; qeou' oJmiliva, tw'n ajoravtwn qewriva, tw'n ejpiqumoumevnwn plhroforiva, tw'n ajggevlwn oJmotimiva, tw'n kalw'n prokophv, tw'n kakw'n ajpotrophv, tw'n aJmartanomevnwn diovrqwsi", tw'n parovntwn ajpovlausi", tw'n ejlpizomevnwn uJpovstasi". Proseuch; tw/' me;n ∆Iwna'/ to; kh'to" oi\kon ejpoivhse (Gio 2): to;n de; ÔEzekivan ejk tw'n pulw'n tou' qanavtou pro;" th;n zwh;n ejpanhvgagen (Is 38; 2Re 20, 5-6): toi'" de; trisi; nevoi" eij" pneu'ma drosw'de" th;n flovga e[treyen (Dn 3, 50): kai; toi'" ∆Israhlivtai" kata; tw'n ∆Amalekitw'n ajnevsthse trovpaion (Es 17, 11): kai; ta;" eJkato;n ojgdohvkonta kai; pevnte tw'n ∆Assurivwn ciliavda" mia/' nukti; th/' ajoravtw/ rJomfaiva/ katevstwsen (2Re 19, 35).
De or. dom. I [8, 30]: proseuch; qeou' oJmiliva.
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gendo a Dio domande di tal fatta 1913. Non è casuale che il Nisseno rafforzi questa indicazione introducendo nella seconda omelia, all’inizio della spiegazione del Padrenostro, il motivo della preghiera come «ascensione» (ajnavbasi") a Dio, dopo averla già profilata come «colloquio» (oJmiliva) con lui, secondo le due definizioni più ricorrenti nel pensiero antico e attestate ugualmente da Evagrio1914. Un’«anabasi» siffatta sarebbe comunque richiesta per poter pronunciare con cognizione di causa il nome «Padre», muovendo con un itinerarium mentis in Deum dall’ordine del creato e dai nomi divini che manifestano le operazioni benefiche di Dio in esso fino alla gloria della sua natura trascendente ed immutabile1915. In altri termini, riallacciandosi autonomamente ad un’esigenza espressa da Origene, Gregorio ritiene necessario un «atto teologico» come condizione preventiva per comprendere la portata della Preghiera del Signore: prima di recitare le parole del Padrenostro, occorre acquisire la giusta nozione di Dio. Come non è possibile pronunciare l’invocazione «Padre» partendo da una precomprensione falsa del suo essere, allo stesso modo è impensabile farlo se la nostra condotta contraddice la condizione di suoi «figli» autentici. Così Gregorio, analogamente ad Origene, trapassa all’implicazione morale contenuta nella preghiera di Gesù, che ci chiama a vivere una vita eticamente e spiritualmente impegnata1916. Ma il Nisseno non si accontenta di questa spiegazione largamente attestata nei commentatori precedenti oltre che nell’Alessandrino; si sforza perciò di offrire un’interpretazione «più profonda» che fa emergere la seconda idea-guida della sua riflessione1917. Sollecitato dall’invocazione al «Padre» che è «nei cieli», egli associa alla preghiera di Gesù la parabola –––––––––––––––––– 1913 De or. dom. I (18, 2-5): kat∆ ojlivgon ejn tai'" mikrotevrai" tw'n aijthvsewn to; ejpakouvein to;n Qeo;n tw'n iJkesiw'n th/' peivra/ manqavnonte" ajnevlqoimevn pote pro;" th;n tw'n uJyhlw'n te kai; qeoprepw'n dwrhmavtwn ejpiqumivan. 1914 De or. dom. II (21, 11-14): Au{th ga;r tw'n rJhmavtwn hJ duvnami", di∆ w|n oujci; fwnav" tina" ejn sullabai'" ejkfwnoumevna" manqavnomen ajll∆ ejpivnoian th'" pro;" to;n qeo;n ajnabavsew" di∆ uJyhlh'" politeiva" katwrqwmevnhn. L’idea è già insinuata dal proemio della seconda omelia, dove Gregorio interpreta allegoricamente l’ascensione di Mosè sul Sinai e la “mistagogia” a cui il profeta introduce il popolo d’Israele. Quanto al motivo della preghiera come oJmiliva (cfr. nota 1912), esso ritorna nel terzo sermone (De or. dom. III [31, 18]: oujc e{na tou' panto;" ajpokrivna" movnon eij" oJmilivan a[gei Qew/'). Per l’affinità con Evagrio, cfr. supra, p. 568. 1915 In orat. dom. II (23, 6-11): w{ste pavntwn tw'n ajlloioumevnwn te kai; meqistamevnwn povrrw th'/ dianoiva/ genovmenon ejn ajtrevptw/ te kai; ajklinei' th/' th'" yuch'" katastavsei to;n a[treptovn te kai; ajnalloivwton dia; th'" gnwvmh" provteron oijkeiwvsasqai, eijq∆ ou{tw th/' oijkeiotavth/ proshgoriva/ ejpikalevsasqai kai; eijpei'n, Pavter. 1916 In orat. dom. II (25, 9-11): ”Otan toivnun Patevra to;n Qeo;n levgein hJma'" ejn th/' proseuch/' didavskh/ oJ Kuvrio", oujde;n e{terovn moi dokei' poiei'n, h] to;n uJyhlovn te kai; ejphrmevnon nomoqetei'n bivon. 1917 Gregorio insiste più volte sulla necessità di un’ermeneutica spirituale, anche per evitare il rischio di recitare una preghiera trita. Cfr. In orat. dom. II (26, 20-22): ∆All∆
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evangelica del figliol prodigo, letta come raffigurazione emblematica della condizione dell’uomo nella vita terrena. In tal modo la preghiera diviene anamnesi della patria celeste, perduta in seguito al peccato di Adamo, e ritorno anticipato alla casa del Padre, di cui il Padrenostro alimenta la nostalgia e il desiderio1918. È evidente qui l’affinità ideale con la visuale di Agostino, come avremo occasione di verificare tra breve, che si spiega bene in entrambi gli autori a partire dalle comuni premesse del platonismo cristiano, senza che Gregorio debba dipendere qui dalla dottrina “origenista” della preesistenza1919. Ora, il richiamo alla patria celeste contiene per il Nisseno anche l’indicazione della via attraverso la quale ritornare al Padre: mediante l’abbandono del male e l’«assimilazione» a lui, che restaura l’immagine divina nell’uomo attuando pienamente la sua «somiglianza» con Dio1920. Si coglie qui il cuore dell’esegesi della Preghiera nel Signore, che si preciserà con maggior nettezza nel commento della quinta petizione. Prima di esso Gregorio fornisce una spiegazione letterale della quarta petizione, che tuttavia ha per lui un valore dinamico: la richiesta del solo pane quotidiano traduce lo sforzo di attuare, per quanto possibile, nella vita terrena una condizione simile a quella delle creature angeliche immuni dal condizionamento dei moti passionali. Pertanto, il fatto che il Nisseno adottando un’interpretazione letterale del pane ejpiouvsio" si discosti apertamente da Origene, non comporta affatto il ridimensionamento del modello di preghiera spirituale tracciato da Gregorio in notevole misura sullo sfondo di quello elaborato dall’Alessandrino1921. Se solo la mimèsi ––––––––––––––––––
ajkouvswmen pavlin tw'n th'" proseuch'" rJhmavtwn, ei[ ti" a{ra gevnoito hJmi'n tw'n krufivwn tou' nou' katanovhsi" dia; th'" sunecestevra" ejpanalhvyew". 1918 In orat. dom. II (27, 27–28, 2): ou{tw kai; ejntau'qa dokei' moi didavskwn oJ Kuvrio" to;n ejn toi'" oujranoi'" ejpikalei'sqai Patevra, mnhvmhn soi poiei'n th'" ajgaqh'" patrivdo", wJ" a]n ejpiqumivan sfodrotevran tw'n kalw'n ejmpoihvsa", ejpisthvseiev se th/' oJdw/' th/' pro;" th;n patrivda pavlin ejpanagouvsh/. 1919 Sull’impronta platonica e plotiniana si veda Penati Bernardini, 177: «Gregorio non fa che accogliere e far propria la saggezza della tradizione platonica tanto che l’interpretazione della parabola del figliol prodigo, che illustra la dinamica della vita virtuosa, risulta impregnata di echi platonici e, soprattutto, plotiniani». Meno convincente è l’interpretazione di Meredith, 348, per il quale da un lato Gregorio si distaccherebbe da Origene offrendo «an unusual non-Origenist [...] application» della parabola in nesso con il Padrenostro, dall’altro «Gregory’s treatment also raises the intriguing possibility that despite his disclaimers elsewhere he may have believed in the pre-existence of souls». 1920 In orat. dom. II (28, 23-29, 1): Prostavxa" toivnun ejn th/' proseuch/' levgein Patevra eJautou' to;n Qeovn, oujde;n e{teron h] oJmoiou'sqaiv se th/' qeoprepei' politeiva/ tw/' oujranivw/ keleuvei Patriv. 1921 Secondo Penati Bernardini, 178-179, «l’interpretazione del “pane quotidiano” è uno dei pochi punti su cui Gregorio si dissocia dall’esegesi di Origene, che intende l’aggettivo ejpiouvsio" come derivante da oujsiva e che ritiene l’interpretazione del pane in senso letterale un “errore da confutare”. La scelta esegetica del Nisseno non mi pare possa essere ricondotta semplicemente all’intento pastorale dell’opera. Per il Nisseno, inoltre, proprio l’interpretazione letterale del “pane quotidiano”, ribadita anche a proposito del-
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di Dio è la manifestazione di una genuina figliolanza con lui, che dà quindi titolo a pronunciare le parole del Padrenostro, lo scopo ultimo della Preghiera del Signore è la nostra deificazione: Gesù vuole che «coloro che si accostano a Dio divengano dio essi stessi»1922. Come abbiamo visto prima, l’assimilazione a Dio che si attua con la pratica della virtù, si esprime in particolare nell’esercizio del perdono. Tuttavia, Gregorio controbilancia questa visuale esaltante del potenziale spirituale racchiuso nel Padrenostro con il richiamo conclusivo che riecheggia anche il motivo iniziale della creaturalità: la richiesta del perdono da parte di Dio ci mette davanti alla condizione fondamentale di «debitori» nei suoi confronti e ci aiuta a comprendere come nessun uomo possa presumere di essere innocente ai suoi occhi, per quanto si sforzi di non commettere peccato1923. Con un’ulteriore anticipazione di Agostino, il Nisseno argomenta ciò ricordando, fra l’altro, che chi è partecipe della natura di Adamo, partecipa anche della sua caduta1924. Con i suoi sermoni sul Padrenostro Gregorio di Nissa s’inserisce pienamente in una tradizione esegetica e dottrinale di cui abbiamo ripercorso alcune delle voci più significative. Le corrispondenze con Evagrio o con Agostino che sono affiorate nel corso dell’analisi non possono modificare l’impressione essenziale: cioè, la consonanza profonda con il discorso origeniano sulla preghiera, aldilà del fatto che l’interpretazione del Padrenostro segua a tratti un’impostazione diversa. Ciò che unisce il Nisseno all’Alessandrino è fondamentalmente la convergenza del paradigma della preghiera, intesa da entrambi come richiesta a Dio, rivelatrice della condizione di bisogno dell’uomo e della necessità del soccorso divino. Certo Gregorio è stato prima dello Pseudo-Dionigi Areopagita l’autore mistico per eccellenza del cristianesimo antico, ma ciò non gli ha impedito di considerare la concretezza e l’immediatezza dell’orazione di domanda con ––––––––––––––––––
l’ “oggi” (shvmeron) della quarta petizione, inteso come tempo presente a cui solo appartiene la vita dell’uomo nel corpo, illumina l’ “ampio insegnamento filosofico” contenuto in queste parole della preghiera: è l’indicazione della metriopatia, l’esser parchi e misurati nella risposta al bisogno naturale e che ha come modello l’apatia divina». Anche Giovanni Crisostomo richiama il valore spirituale della richiesta del mero pane dell’oggi; cfr. Hom. in Matth. XIX, 11 (PG 57, 280): Su; dev moi skovpei pw'" kai; ejn toi'" swmatikoi'" polu; to; pneumatikovn. 1922 In orat. dom. V (60, 17-21): ÔOra'" eij" o{son mevgeqo" uJyoi' tou;" ajkouvonta" dia; tw'n th'" proseuch'" rJhmavtwn oJ Kuvrio", meqistw;n trovpon tina; th;n ajnqrwpivnhn fuvsin pro;" to; qeiovteron kai; qeou;" genevsqai tou;" tw/' Qew/' prosiovnta" nomoqetw'n… 1923 In orat. dom. V (63, 19-22): dia; tou'tov moi dokei' paideuvein hJma'" th/' didaskaliva/ th'" proseuch'" oJ lovgo" mhdamw'" ejn th/' pro;" Qeo;n ejnteuvxei wJ" ejpi; kaqarw/' tw/' suneidovti parrhsiavzesqai, ka]n o{ti mavlista tw'n ajnqrwpivnwn plhmmelhmavtwn cecwrismevno" ti" h\/. 1924 In orat. dom. V (66, 11-12): oJ koinwnw'n me;n th'" fuvsew" tou' ∆Ada;m, koinwnw'n de; kai; th'" ejkptwvsew".
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un’intensità che lo pone nella scia di Origene. Al tempo stesso, non diversamente dall’Alessandrino, egli ne ha fatto la chiave di volta per proporre – grazie al Padrenostro inteso come «preghiera spirituale» – un programma di perfezionamento spirituale che culmina nella «deificazione». Anche sotto questo profilo, pur con tutte le specificità di Gregorio per linguaggio e stile teologico, è innegabile la sua continuità con Origene1925. 8. Cassiano: la trasformazione monastica del paradigma della preghiera spirituale Dopo Evagrio, l’impatto dell’esperienza monastica nel discorso cristiano sulla preghiera torna a farsi sentire con forza in Giovanni Cassiano (360/65-435). Figura singolare di mediatore culturale fra Oriente e Occidente, testimone e promotore del monachesimo egiziano e orientale nella Gallia d’inizio V secolo con le sue classiche opere sul monachesimo cenobitico e anacoretico (il De institutis coenobiorum e le Conlationes), destinate ad influenzare profondamente gli ideali monastici del cristianesimo occidentale, Cassiano ci appare oggi sempre di più come l’artefice di una sintesi originale fra tradizioni diverse1926. La sua riflessione sulla preghiera ne offre una testimonianza emblematica, che giustifica il suo inserimento nella nostra panoramica. Anticipando il contenuto della nostra presentazione, diremo che l’interesse particolare di Cassiano consiste precisamente nel fatto ch’egli documenta l’avvenuta trasformazione in chiave monastica del paradigma della preghiera spirituale, conferendogli un’inflessione peculiare tramite la sua apertura, da un lato, alla formula «monologica» per l’oratio continua e, dall’altro, alla «preghiera di fuoco» o preghiera estatica. Alimenta il suo pensiero una conoscenza diretta delle molteplici forme di esperienza orante presso i monaci con i quali Cassiano è stato a contatto durante i suoi viaggi in Oriente, con una particolare attenzione alle manifestazioni via via più strutturate dell’ufficio monastico. Alla familiarità con la prassi monastica si accompagna una conoscenza della letteratura teologica ed ascetica, specialmente di tradizione alessandrina, con letture di Origene ed Evagrio, ma che sembra estendersi aldilà di questa –––––––––––––––––– 1925 Al contrario secondo Meredith, 355, «neither in thought nor in vocabulary or use of Scripture is there very much in common between the two writers. Even if Gregory knew Origen’s treatment of The Lord’s Prayer, he made very little use of it; and the probability is that he was ignorant of it». Ma la sua analisi procede con la logica dei paralleli diretti o meno, laddove egli trascura il confronto tra i due autori sulla dottrina della preghiera. Per un diverso punto di vista cfr. Penati Bernardini e Lozza, che fra l’altro segnala «l’uso di parole chiave come i sostantivi ajpokatastasiva, ajpokatavstasi", e il verbo corrispondente ajpokaqivsthmi» (p. 217). 1926 Si veda il ritratto a tutto tondo tracciato da Stewart. Cfr. anche Badilita-Jakab; Alciati.
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fino ad includere gli scritti ascetici di ambiente siriaco (soprattutto lo Pseudo-Macario)1927. Di conseguenza Cassiano, pur ponendosi in linea di continuità con la visuale ascetica di Evagrio, specie nei suoi scritti “pratici”, si differenzia sensibilmente dall’esito più “intellettualistico” del Pontico, restio (come già Origene) ad incoraggiare una visuale “estatica” della preghiera, diversamente da quanto avviene nel monaco di Marsiglia. Dando seguito alla promessa fatta nel secondo libro delle Institutiones, Cassiano ha raccolto il clou della sua riflessione sulla preghiera nella nona e decima conferenza delle Conlationes, dove fa parlare lungamente abba Isacco, interrotto di tanto in tanto dalle domande di abba Germano1928. Può sembrare perciò, a prima vista, un discorso poco strutturato e non privo di ripetizioni, tanto più che all’inizio della decima conferenza fa spazio ad un ampio excursus sul conflitto riguardo alle concezioni antropomorfe della visione di Dio esploso nel monachesimo egiziano tra IV e V secolo, apparentemente senza un nesso troppo ravvicinato con l’argomento trattato 1929. In realtà, una lettura attenta fa emergere i lineamenti di una riflessione assai robusta che si caratterizza ad un tempo per il suo aspetto tradizionale e per le profonde innovazioni apportate da Cassiano al paradigma ereditato dal pensiero eucologico antecedente. In sintesi, egli ripercorre dapprima (Conl. IX ) l’agenda tematica di un «trattato sulla preghiera» (laddove il nostro termine di comparazione ideale resta sempre, in primo luogo, Orat), affrontando pertanto alcune delle problematiche più consuete, a cominciare dalle disposizioni interiori con cui l’orante deve accostarsi alla preghiera. La natura “tradizionale” dell’esposizione, pur connotata dagli interrogativi suscitati dalla condizione monastica, può essere messa in evidenza anche grazie alla trama essenziale di riferimenti scritturistici, che provano fra l’altro come Cassiano riconduca il proprio pensiero sull’orazione alla meditazione della Bibbia. Troviamo, infatti, non pochi riscontri nel trattato dell’Alessandrino, pur non potendo competere con questo per frequenza e rilievo, a cominciare dal luogo paolino che imposta anche per Cassiano la problematica dell’oratio perpetua: 1Ts –––––––––––––––––– 1927 Stewart 2003 ha messo in luce, fra l’altro, la sua conoscenza di Prin: «Origen’s work likely provided the thematic infrastructure for Cassian’s own reflections» (p. 215). 1928 Conl. IX, 1 (250, 6-9): «De perpetua orationis atque incessabili iugitate quod in secundo Institutionum libro promissum est, conlationes senis huius quem nunc in medium proferemus, id est abbatis Isaac domino favente conplebunt». Sul preannuncio della trattazione cfr. Inst. II, 1; 9, 1. 1929 Sul più ampio contesto di tale dibattito si veda adesso Bumazhnov. Secondo Stewart 2003, 208, lo stile argomentativo di Cassiano sarebbe affine ad Origene: «His discursive style reinforces the message through repetition and variation rather than through the highly economical and sometimes gnomic packaging of the Evagrian kephalaia. Cassian’s approach allowed more room for elaboration, biblical citations, and edifying stories. He wrote, in fact, much more like Origen than like Evagrius». Tale giudizio sottovaluta però la ratio esegetica che sorregge strutturalmente la scrittura di Origene.
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5, 17. Nella IX conferenza la riflessione nasce proprio dalla domanda su come mettere in pratica il precetto dell’Apostolo di pregare senza interruzione. Come vedremo, la risposta innovativa di natura più prettamente biblico-monastica verrà data nella X conferenza, per il tramite della formula orationis che introduce all’esercizio della preghiera monologica. Conforme alla tradizione è inoltre il richiamo a 1Tm 2, 8, che anche per Cassiano definisce l’atteggiamento spirituale dell’orante e garantisce così la purezza della preghiera1930. Prima di analizzare i diversi tipi di preghiera con l’ausilio di 1Tm 2, 1, Cassiano prende in considerazione l’atteggiamento spirituale che deve presiedere ad essa (Conl. IX, 2-6). Se si esclude l’affermazione iniziale che il fine e la perfezione della vita monastica consistono nell’oratio perpetua, su questo punto non si registra particolare originalità rispetto ai predecessori 1931. Anche il monaco di Marsiglia ribadisce la necessità di un’«anacoresi» sensoriale, cioè di un trascendimento delle realtà materiali e delle disposizioni passionali, tale da assicurare la tranquillità e la purezza della mente1932. Se il debito con Evagrio sembra farsi più trasparente nello –––––––––––––––––– 1930 Conl. IX, 3, 4 (253, 6-11): «Et idcirco quidquid orantibus nobis nolumus ut inrepat, ante orationem de adytis nostri pectoris extrudere festinemus, ut ita illud apostolicum possimus inplere: Sine intermissione orate (1Ts 5, 17), et: In omni loco levantes puras manus sine ira et disceptatione (1Tm 2, 8)». L’abbinamento ritorna anche in Conl. IX, 6, 5 (257, 17-22): «Cumque mens tali fuerit tranquillitate fundata vel ab omnium carnalium passionum nexibus absoluta, et illi uni summoque bono tenacissima adhaeserit cordis intentio, apostolicum illud inplebit: Sine intermissione orate (1Ts 5, 17) et: In omni loco levantes puras manus sine ira et disceptatione (1Tm 2, 8)». Il primo passo è citato ancora in Conl. IX, 7, 3 (258, 19-21): «praesertim cum nullo tempore nos ab ea cessare beatus apostolus moneat dicens: Sine intermissione orate (1Ts 5, 17); X, 14, 2 (307, 26–308, 2): ut ita illud apostolicum mandatum: sine intermissione orate (1Ts 5, 17) possimus inplere»; XXIII, 5, 9: «Quis tam familiaris deo tamque coniunctus, qui apostolicum illud imperium, quo sine intermissione orare nos praecipit, vel uno die se gaudeat executum?». L’importanza di 1Ts 5, 17 è già segnalata dall’accenno nella prefazione e dai rinvii contenuti in Inst. Cfr. Conl. Praef. 5 (4, 15-17): «de canonicarum orationum modo ad illius quam apostolus praecipit orationis perpetuae iugitatem ascendat eloquium»; Inst. II, 1 (18, 2-5): «de qualitate vero earum vel quemadmodum orare secundum apostoli sententiam sine intermissione (cfr. 1Ts 5, 17) possimus, suis in locis, cum seniorum conlationes coeperimus exponere, quantum dominus donaverit, proferemus»; VIII , 13 (160, 3-5): «praecipitur ab apostolo: sine intermissione orate (1Ts 5, 17), et: in omni loco levantes manus pura sine ira et disceptatione (1Tm 2, 8)». 1931 Conl. IX, 2, 1 (250, 19-22): «Omnis monachi finis cordisque perfectio ad iugem atque indisruptam orationis perseverantiam tendit, et quantum humanae fragilitati conceditur, ad inmobilem tranquillitatem mentis ac perpetuam nititur puritatem». 1932 Conl. IX, 3, 1 (252, 5-13): «Et idcirco ut eo fervore ac puritate qua debet emitti possit oratio, haec sunt omnimodis observanda. Primum sollicitudo rerum carnalium generaliter abscidenda est, deinde nullius negotii causaeve non solum cura, sed ne memoria quidem penitus admittenda, detractationes, vaniloquia seu multiloquia (cfr. Mt 6, 7), scurrilitates quoque similiter amputandae, irae prae omnibus sive tristitiae perturbatio funditus
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stretto raccordo intravisto da Cassiano fra lotta ai vizi, pratica delle virtù e orazione1933, si noterà però una minore insistenza sul superamento della mnhsikakiva, inculcato peraltro anche da 1Tm 2, 8, sebbene egli non ignori affatto tale raccomandazione. Come mostra, fra l’altro, un commento a Mt 5, 23-24 nell’ottavo libro degli Instituta, il precetto evangelico della riconciliazione fraterna è vincolante per l’orante e la sua mancata osservanza compromette gravemente la possibilità di realizzare la preghiera ininterrotta1934. In ogni caso, a prescindere dalla purificazione preliminare e dalla condotta virtuosa che l’orante è chiamato ad attuare nella propria vita, le disposizioni interiori che devono sempre accompagnare le manifestazioni della preghiera sono riassunte nell’invito di Gesù a ritirarsi nella propria «cameretta» (Mt 6, 6), inteso anche da Cassiano (sulle tracce più direttamente di Evagrio) come il disfarsi di ogni pensiero e sollecitudine esteriori1935. Quando il discorso passa a illustrare le forme della preghiera, ciò avviene nuovamente a partire da un riferimento normativo come 1Tm 2, 1, anche in ragione del fatto che per Cassiano è impossibile descrivere adeguatamente la grande varietà delle esperienze di preghiera nella vita di un individuo, un’osservazione che concorre insieme ad altre nel tracciare sia una certa psicologia sia anche una visione pedagogica della preghiera meglio abbozzata che altrove1936. Diversamente da Evagrio, che si è ispi––––––––––––––––––
eruenda, concupiscentiae carnalis ac filargyriae noxius fomes radicitus evellendus». Benché Mt 6, 7 non sia mai citato, è lecito coglierne un’eco nell’avvertenza contro i «vaniloquia seu multiloquia». Un’ulteriore allusione alla catechesi matteana sulla preghiera potrebbe venire dall’espressione: «de adytis nostri pectoris» (Conl. IX, 3, 4), qualora essa rinvii implicitamente al termine tamei'on di Mt 6, 6. Tuttavia, Conl. IX , 35, 1 lo rende come cubiculum (nota 1935). 1933 Conl. IX, 2, 1 (251, 3-6): «nam sicut ad orationis perfectionem omnium tendit structura virtutum, ita nisi huius culmine haec omnia fuerint conligata atque conpacta, nullo modo firma poterunt vel stabilia perdurare»; IX, 3, 4 (253, 11-14): «alias namque mandatum istud perficere non valebimus, nisi mens nostra ab omni vitiorum purificata contagio virtutibus tantum velut naturalibus bonis dedita iugi omnipotentis dei contemplatione pascatur». 1934 Inst. VIII, 13 (160, 5-11): «superest igitur, ut aut numquam oremus huiuscemodi virus retinentes in cordibus nostris et apostolico huic praecepto sive evangelico, quo indesinenter et ubique iubemur orare, simus obnoxii, aut, si nosmet ipsos circumvenientes precem fundere contra eius interdictum praesumimus, non orationem domino, sed rebellionis spiritu contumaciam nos eidem noverimus offerre». Cfr. anche Conl. XVI, 6, 6-7; 6, 15. 1935 Conl. IX, 35 (282, 25-28): «intra nostrum cubiculum supplicamus, cum ab omnium cogitationum sive sollicitudinum strepitu cor nostrum penitus amoventes secreto quodammodo ac familiariter preces nostras domino reseramus». 1936 Conl. IX, 8, 1 (259, 3-7): «Universas orationum species absque ingenti cordis atque animae puritate et inluminatione sancti spiritus arbitror comprehendi non posse. Tot enim sunt quot in una anima, immo in cunctis animabus status queunt qualitatesque generari». L’accenno alla necessità dell’aiuto dello Spirito per un discorso adeguato sulla preghiera mostra analogie con l’impostazione di Origene.
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rato solo in parte alla terminologia suggerita dal passo paolino (mantenendo comunque con Origene il primato della proseuchv), Cassiano la sfrutta ampiamente sia per esemplificare la diversità delle tipologie, sia per istituire un rapporto ad un tempo dinamico e gerarchico fra di loro1937. In seguito ricondurrà sia l’uso separato delle singole forme di orazione sia la loro sintesi o fusione al paradigma fondativo di Gesù orante. Sotto tale profilo non può non colpire la sintonia con Origene, quantunque la dipendenza dal trattato sia difficile da provare, fatta eccezione forse per una precisazione terminologica che riguarda l’oratio come «voto» 1938. D’altra parte, l’Alessandrino è l’unico fra gli altri interpreti antichi ad aver tentato di valutare le distinzioni terminologiche di 1Tm 2, 1 come riflesso di condizioni o stati spirituali diversificati, tracciando grazie ad esse un modello di perfezionamento spirituale, come anche Cassiano si sforza di fare con un approccio più organico1939. Egli elenca dapprima i quattro tipi di preghiera secondo il tenore del passo paolino, fornendo una spiegazione di ciascuno di essi in base alla seguente classificazione: 1. obsecratio (= devhsi") 2. oratio (= proseuchv) 3. postulatio (= e[nteuxi") 4. gratiarum actio (= eujcaristiva) L’obsecratio è una «supplica» (imploratio) o richiesta (petitio) di perdono per i peccati1940, mentre l’oratio equivale in questo caso al «voto»1941. –––––––––––––––––– 1937 Il debito verso Origene più che verso Evagrio è riconosciuto anche da Stewart, 107: «Cassian, like Origen, did not view the four varieties as simple alternatives. He linked them to stages of progress in monastic life and prayer. Although some of his interpretations were based on those of Evagrius, the greater part of this section does not appear to be based on Evagrian material». 1938 Secondo Alexandre, 194-195, «Cassien connaît Origène, en particulier le traité Sur la prière, mais il n’en dépend pas étroitement. [...] Certainement il se souvient du développement d’Origène au début de son traité sur euchê, prière/voeu, et l’applique à l’oratio mécaniquement, puisque le mot latin, lui n’a pas ce sens de vœu. Mais les valeurs qu’il donne aux termes pauliniens [...], leur hiérarchisation monastique, diffèrent des remarques d’Origène». 1939 Cfr. FrPs 27 (28), 6 (nota 1353), dove il culmine è rappresentato ugualmente dall’eujcaristiva . 1940 Conl. IX, 11 (261, 4-6): «obsecratio inploratio est seu petitio pro peccatis, qua vel pro praesentibus vel pro praeteritis admissis suis unusquisque conpunctus veniam deprecatur». 1941 Conl. IX, 12, 1 (261, 7-8): «Orationes sunt quibus aliquid offerimus seu vovemus deo, quod Graece dicitur eujchv , id est votum». Per Alexandre, 177, nota 40, «son interprétation d’oratio repose sur le grec euchê, suivant une remarque d’Origène, Perì Euchês 3, sur les deux sens du mot: prière/vœu». Cfr. anche Stewart 2003, 206, nota 102: «though strained, it does allow him to follow Origen, who distinguished between two kinds of eujchv and Evagrius, who distinguished between eujchv and proseuchv». Fatta eccezione per que-
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A sua volta la postulatio è da intendere come l’«intercessione» a beneficio di altri1942, laddove la gratiarum actio indica il «ringraziamento» per i beni passati, presenti e futuri ad opera di Dio 1943. La specifica funzione assegnata a ciascuno dei tipi di preghiera si compone poi per Cassiano con l’idea della «preghiera di fuoco», che già qui comincia a fare sentire il suo peso nell’argomentazione, come lo sbocco più alto fra le diverse manifestazioni oranti. Infatti, in linea di principio, ogni singola tipologia può dare adito alla preghiera ardente, confermando così l’utilità insita in ognuna di esse per i singoli individui che le praticano1944. Ma questo schema iniziale lascia subito il posto ad una classificazione di tipo gerarchico e progressivo, per cui l’obsecratio compete più specificamente ai principianti nella vita ascetica1945, mentre l’oratio è propria di coloro che sono progrediti nell’osservanza delle virtù e nell’elevatezza dei pensieri1946. Al terzo posto della scala ascendente si situano quanti hanno titolo alla postulatio, grazie alla loro corrispondenza fra impegni di vita e condotte personali1947. Infine, la gratiarum actio si colloca al vertice del cammino spirituale, venendo ora a coincidere di fatto con il trapasso alla preghiera di fuoco1948. A riprova del carattere volutamente ––––––––––––––––––
sta distinzione terminologica, oratio ha sempre il valore generico di «orazione», ricondotto invece qui al termine supplicatio (cfr. nota 1944). 1942 Conl. IX, 13 (262, 6-11): «Tertio loco ponuntur postulationes, quas pro aliis quoque, dum sumus in fervore spiritus constituti, solemus emittere, vel pro caris scilicet nostris vel pro totius mundi pace poscentes, et ut ipsius apostoli verbis eloquar cum pro omnibus hominibus, pro regibus et omnibus qui in sublimitate sunt supplicamus». 1943 Conl. IX, 14 (262, 12-16): «Quarto deinde loco gratiarum actiones ponuntur, quas mens, vel cum praeterita dei recolit beneficia vel cum praesentia contemplatur, seu cum in futurum quae et quanta praeparaverit deus his qui diligunt eum prospicit, per ineffabiles excessus domino refert». 1944 Conl. IX, 15, 1 (262, 20–263, 4): «Ex quibus quattuor speciebus licet nonnumquam soleant occasiones supplicationum pinguium generari (nam et de obsecrationis specie quae de compunctione nascitur peccatorum, et de orationis statu quae de fiducia oblationum et consummatione votorum pro conscientiae profluit puritate, et de postulatione quae de caritatis ardore procedit, et de gratiarum actione quae beneficiorum dei et magnitudinis ac pietatis eius consideratione generatur, ferventissimas saepissime novimus preces ignitasque prodire, ita ut constet omnes has quas praediximus species omnibus hominibus utiles ac necessarias inveniri, ut in uno eodemque viro nunc quidem obsecrationum, nunc autem orationum, nunc postulationum puras ac ferventissimas supplicationes variatus emittat affectus)». 1945 Conl. IX, 15, 1 (263, 4-5): «tamen prima ad incipientes videtur peculiarius pertinere, qui adhuc vitiorum suorum aculeis ac memoria remordentur». 1946 Conl. IX, 15, 1 (263, 6-8): «secunda ad illos qui in profectu iam spiritali adpetituque virtutum quadam mentis sublimitate consistunt». 1947 Conl. IX, 15, 1 (263, 8-11): «tertia ad eos qui perfectionem votorum suorum operibus adinplentes intercedere pro aliis quoque consideratione fragilitatis eorum et caritatis studio provocantur». 1948 Conl. IX, 15, 1 (263, 11-16): «quarta ad illos qui iam poenali conscientiae spina de cordibus vulsa securi iam munificentias domini ac miserationes, quas vel praeterito tri-
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non sistematico dell’insegnamento, Cassiano introduce ancora un terzo schema, secondo il quale le varie tipologie possono combinarsi fra loro, a seconda dello stato di perfezione della mens, e generare allora preghiere ferventissime le quali arrivano a coincidere con i «gemiti inenarrabili» emessi in noi dallo Spirito (Rm 8, 26-27)1949. Il richiamo al passo paolino tradisce nuovamente la piena appartenenza di Cassiano alla linea di pensiero esemplificata al meglio da Origene. Forse nessun altro, a parte l’Alessandrino (e, come vedremo di seguito, Agostino), è stato capace di dare tanto risalto al ruolo dello Spirito nella «preghiera spirituale», ma Cassiano aggiunge alla prospettiva origeniana la visuale indubbiamente nuova ed originale della preghiera di fuoco. I diversi schemi proposti sin qui trovano la loro giustificazione scritturistica nel modello di Gesù orante: con la sua prassi di preghiera il Salvatore esemplifica ciascuna delle tipologie, a cominciare dall’obsecratio, che per Cassiano è rappresentata ad esempio dall’orazione di Gesù al Getsemani, non senza un’evidente forzatura interpretativa rispetto alla definizione avanzata inizialmente1950. Più che per le corrispondenze, in parte problematiche, con le sue distinzioni terminologiche (come mostra anche il caso dell’oratio o la ripartizione di Gv 17 fra diversi tipi di preghiere)1951, è importante notare in Cassiano la preoccupazione di trovare la loro sanzione scritturistica nella condotta stessa di Gesù. D’altra parte, il suo modello, oltre a sancire la possibilità e l’utilità di ciascuna singola forma di preghiera, contempla anche la loro combinazione in una suppli––––––––––––––––––
buit vel in praesenti largitur vel praeparat in futuro, mente purissima retractantes ad illam ignitam et quae ore hominum nec comprehendi nec exprimi potest orationem ferventissimo corde raptantur». 1949 Conl. IX, 15, 2 (263, 16-26): «Nonnumquam tamen mens, quae in illum verum puritatis proficit adfectum atque in eo iam coeperit radicari, solet haec omnia simul pariterque concipiens atque in modum cuiusdam inconprehensibilis ac rapacissimae flammae cuncta pervolitans ineffabiles ad deum preces purissimi vigoris effundere, quas ipse spiritus interpellans gemitibus inenarrabilibus ignorantibus nobis emittit ad deum (cfr. Rm 8, 26-27), tanta scilicet in illius horae momento concipiens et ineffabiliter in supplicatione profundens, quanta non dicam ore percurrere, sed ne ipsa quidem mente valeat alio tempore recordari». 1950 Conl. IX, 17, 1 (264, 20-24): «Nam obsecrationis genus adsumit cum dicit: Pater, si possibile est, transeat a me calix iste (Mt 26, 39), vel illud quod ex persona eius cantatur in psalmo: Deus deus meus respice me: quare me dereliquisti? (Sal 21[22], 2) aliaque his similia». Tuttavia, in Conl. IX, 34, 10 (281, 13-19) la preghiera del Getsemani è intesa più generalmente come la forma orandi: «Quem sensum dominus etiam noster orans ex persona hominis adsumpti, ut formam quoque orandi nobis quemadmodum cetera suo praeberet exemplo, ita cum oraret expressit: Pater, si possibile est, transeat a me calix iste: verumtamen non sicut ego volo sed sicut tu (Mt 26, 39), cum utique eius a patris voluntate non discreparet voluntas». 1951 Conl. IX, 17 esemplifica l’oratio con Gv 17, 4 e 17, 19; la postulatio con Gv 17, 24.
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catio perfecta, indicata da Cassiano in Gv 171952. Allargando la sua base scritturistica, egli trova un’ulteriore illustrazione della preghiera che fonde tra loro i singoli tipi e dà vita all’orazione ardente in Fil 4, 6 («Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti»)1953. Come mostra anche l’utilizzo di questa citazione, è innegabile che il paradigma elaborato gradualmente da Cassiano sia connotato da una tensione dinamica che punta sempre verso l’esito più alto della preghiera di fuoco, senza che questo nasca necessariamente da un itinerario ascendente1954. Con un affondo successivo egli disegna tale orizzonte attraverso la formula dominicae orationis. Il Padrenostro racchiude per Cassiano la richiesta di poter giungere a quel «colloquio» più alto con Dio che si compie nella contemplazione amorosa di lui1955. In tal modo Cassiano fa propria la definizione della preghiera come oJmiliva, saldandola però più strettamente alla visuale della paternità divina e alle manifestazioni della preghiera ardente. La spiegazione che segue del Padrenostro (Conl. IX, 18-23) conferma nuovamente la dipendenza di Cassiano dall’agenda più consueta delle trattazioni eucologiche. Anche se tradisce qualche influsso del commento evagriano, egli sviluppa però accenti che gli sono peculiari1956. Al pari di Origene egli vede la Preghiera del Signore come l’espressione per eccellenza della preghiera spirituale, tutta imperniata sulla richiesta dei beni eterni come l’oggetto che si confà alla natura di Dio1957. Se l’invocazione –––––––––––––––––– 1952 Conl. IX, 17, 3 (265, 10-18): «Quae tamen quattuor supplicationum genera licet singillatim ac diverso tempore secundum illum quem comprehendimus modum idem dominus noster distinxerit offerenda. Tamen etiam simul ea in supplicatione perfecta comprehendi posse identidem suis ostendit exemplis, per illam scilicet orationem quam ad finem evangelii secundum Iohannem legimus eum copiosissime profudisse. Ex cuius textu quia longum est universa percurri, diligens inquisitor haec ita esse lectionis ipsius serie poterit edoceri». 1953 Conl. IX, 17, 4 (265, 18-22): «Quem sensum apostolus quoque in epistula ad Philippenses has quattuor supplicationum species aliquantum immutato ponens ordine evidenter expressit ostenditque debere eas nonnumquam simul sub ardore unius supplicationis offerri». 1954 Cfr. Alexandre, 180: «Par l’apparition de la prière de feu, non seulement au sommet contemplatif de la vie solitaire, mais en des formes plus quotidiennes – action de grâces, supplications, Oraison dominicale, occasion de psalmodie commune – Cassien montre, de façon disséminée, sans souci de systématisation, la présence du feu en toute expérience de prière, de degré en degré». 1955 Conl. IX, 18, 1 (265, 27–266, 3): «Haec itaque supplicationum genera sublimior adhuc status ac praecelsior subsequetur, qui contemplatione dei solius et caritatis ardore formatur, per quem mens in illius dilectionem resoluta atque reiecta familiarissime deo velut patri proprio peculiari pietate conloquitur. Quem statum debere nos diligenter expetere formula dominicae orationis instituit». 1956 Stewart, 109. Cfr. anche Schnurr, 168-183. 1957 Conl. IX, 24 (272, 9-11): «Nihil enim caducum vult a se, nihil vile, nihil temporale aeternitatum conditor inplorari».
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al «Padre» che è «nei cieli» suscita anche in Cassiano l’idea della vita terrena come esilio – analogamente a quanto abbiamo osservato in Gregorio di Nissa –, la prima petizione è vista anzitutto come l’espressione della pietas dei figli, ai quali sta a cuore in primo luogo la gloria di Dio1958. Nettamente subordinata appare invece l’altra spiegazione, più tradizionale, per cui la nostra perfezione di vita equivale alla santificazione del Nome1959. L’invocazione del regno, oggetto della seconda petizione, è intesa da Cassiano sia in senso spirituale – come la sovranità attuata da Dio nei santi, secondo un’interpretazione di ascendenza origeniana – sia in senso escatologico, come l’attesa del mondo futuro. Quanto alla terza petizione, Cassiano dichiara che non vi è preghiera più grande di quella che auspica l’assimilazione delle realtà terrene alle realtà celesti, rielaborando in maniera autonoma un’idea che era stata anche di Origene, cioè l’auspicio che la condotta degli uomini sia esemplata su quella degli angeli 1960. Con Evagrio e Gregorio di Nissa, egli accoglie peraltro anche la spiegazione per cui la «volontà di Dio» è la salvezza universale. D’impronta origeniana sembra essere anche il commento della quarta petizione, rivolto unicamente all’idea di un nutrimento spirituale che ci viene da Dio e di cui si deve fare richiesta a lui ogni giorno. In questo punto, anche per Cassiano emerge più nettamente l’idea della condizione precaria dell’uomo in quanto bisognoso dell’aiuto divino1961. Riguardo poi alla quinta petizione, egli sembra voler puntare ad un’esegesi in parte affine a quella di Gregorio di Nissa, riconoscendo anche lui come Dio ci conceda di “vincolarlo” mediante l’esercizio del perdono1962. Infine, l’esegesi della sesta petizione –––––––––––––––––– 1958 Conl. IX, 18, 3 (266, 15-18): «In quem filiorum ordinem gradumque provecti illa continuo quae est in bonis filiis pietate flagrabimus, ut iam non pro nostris utilitatibus, sed pro nostri patris gloria totum inpendamus affectum». 1959 Conl. IX, 18, 5 (267, 17-19): «Potest autem congrue satis istud quod dicitur sanctificetur nomen tuum etiam taliter accipi: sanctificatio dei nostra perfectio est». 1960 Conl. IX, 20 (268, 18-23): «Non potest esse iam maior oratio quam optare, ut terrena mereantur caelestibus coaequari. Nam qui est aliud dicere fiat voluntas tua sicut in caelo et in terra quam ut sint homines similes angelis, et sicut voluntas dei ab illis inpletur in caelo, ita etiam hi qui in terra sunt non suam, sed eius universam faciant voluntatem?». 1961 Conl. IX, 21, 2 (269, 20-23): «Omnique nos tempore hanc orationem debere profundere indigentia eius cotidiana commoneat, quia non est dies quo non opus sit nobis huius esu ac perceptione cor interioris nostri hominis confirmare». 1962 Conl. IX, 22, 1 (270, 5-14): «O ineffabilis dei clementia, quae non solum nobis orationis tradidit formam et acceptabilem sibi morum nostrorum instituit disciplinam ac per necessitatem traditae formulae, qua se praecepit a nobis semper orari, irae pariter ac tristitiae evellit radices, sed etiam occasionem rogantibus tribuit eisque reserat viam, qua clemens ac pium erga se provocent dei iudicium promulgari, et quodammodo potestatem tribuit qua iudicis nostri possimus sententiam temperare, ad veniam delictorum nostrorum exemplo eum nostrae remissionis artantes». Si noti il ricorrere dei termini forma e disciplina che ricordano il linguaggio di Tertulliano e Cipriano. Cfr. ancora Conl. IX, 24 (272, 6): «orationis [...] modulus et forma proposita».
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sembra riflettere più di tutte le altre una conoscenza di Orat da parte di Cassiano: non solo perché egli accenna in chiave aporetica alla non minima quaestio riguardo al suo significato, ma anche perché riconosce poi che il senso della richiesta è di non soccombere alla tentazione, legando ad essa la settima petizione come la domanda perché il diavolo non ci tenti sopra le nostre forze1963. Benché il Padrenostro sia da considerarsi come la preghiera perfetta, Cassiano lo subordina ad una forma più elevata di orazione alla quale esso dinamicamente conduce: si tratta nuovamente della preghiera di fuoco o preghiera silenziosa, conformemente all’interpretazione offerta dei tipi di preghiera in 1Tm 2, 11964. Cassiano rafforza così la trasformazione del paradigma della preghiera spirituale in senso monastico. Infatti, questa forma superiore di preghiera appare come il riflesso più diretto dell’esperienza monastica, sebbene Cassiano si premuri d’esemplificarla ancora una volta tramite il modello di Gesù orante1965. Egli insiste sull’impossibilità di descriverla a parole, ma lascia intendere che questo «stato» rinvia ad un’esperienza in senso stretto «estatica» o «mistica», che prescinde dall’uso di parole e concetti e trascende perciò lo stesso orizzonte dell’intelletto orante secondo il modello della «preghiera pura» di Evagrio. Non a caso Cassiano cita a sua illustrazione un detto, non altrimenti noto, di Antonio, assunto come paradigma della preghiera estatica («in excessu mentis frequenter orant»), secondo cui «non è perfetta quella orazione nella quale il monaco comprende se stesso o ciò per cui prega»1966. Invece, questo stato supremo, sia pure di natura momentanea, si caratterizza per l’irruzione nell’animo dell’orante di una forza divina che rifluisce come un fiume nell’intensissimo fervore della sua preghiera al di là dei –––––––––––––––––– 1963 Conl. IX, 23, 1 (271, 15-20): «Deinde sequitur: et ne nos inducas in temptationem, de quo non minima nascitur quaestio. Si enim oramus ne permittamur temptari, et unde erit in nobis virtus constantiae conprobanda secundum illam sententiam: omnis vir qui non est temptatus, non est probatus (Sir 34, 11), et iterum: beatus vir qui suffert temptationem (Gc 1, 22)?». 1964 Conl. IX, 25 (272, 16-24): «Haec igitur oratio licet omnem videatur perfectionis plenitudinem continere, utpote quae ipsius domini auctoritate vel initiata sit vel statuta, provehit tamen domesticos suos ad illum praecelsiorem quem superius commemoravimus statum eosque ad illam igneam ac perpaucis cognitam vel expertam, immo ut proprius dixerim ineffabilem orationem gradu eminentiore perducit, quae omnem transcendens humanum sensum nullo non dicam sono vocis nec lingua motu nec ulla verborum pronuntiatione distinguitur». 1965 Conl. IX, 25 (273, 1-5): «Quem statum dominus quoque noster illarum supplicationum formula, quam vel solus in monte secedens vel tacite fudisse describitur, similiter figuravit, cum in orationis agonia constitutus etiam guttas sanguinis inimitabili intentionis profudit exemplo» (cfr. Lc 22, 44). 1966 Conl. IX , 31 (277, 7-10): «Cuius etiam haec quoque est super orationis fine calestis et plus quam humana sententia: non est, inquit, perfecta oratio, in qua se monachus vel hoc ipsum quod orat intellegit».
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limiti del linguaggio umano1967. Sembra essere un cenno velato all’azione dello Spirito descritta da Rm 8, 26-27. Benché Cassiano non lo menzioni espressamente, il suo modello di preghiera «estatica» trova sicuramente in esso un appiglio scritturistico fondamentale se non il parallelo più prossimo, anche per l’insistenza sull’ineffabilità e i gemiti interiori1968. Tuttavia, per mettere meglio in luce la sua fenomenologia, egli richiama diversi stati d’animo che possono fungere da trampolino di lancio verso la preghiera di fuoco come il trasporto interiore per il canto di un salmo, l’ascolto di una fervida istruzione spirituale oppure la notizia della morte di un fratello o di un proprio caro. Questi stati d’animo si focalizzano per Cassiano nella compunctio del cuore e nella preghiera delle lacrime che scaturisce da essa, insieme peraltro alle manifestazioni straordinarie di gioia spirituale, anche se egli evita di fornirne una casistica troppo rigida e schematica (Conl. IX, 26-31)1969. La conclusione del discorso di Abba Isacco nella IX conferenza ritorna in un alveo più consueto, trattando il problema dell’esaudimento della preghiera (Conl. IX, 32-34). Ancora una volta, la dipendenza di Cassiano da una problematica tradizionale si accompagna a una novità di formulazioni, con un ventaglio di spiegazioni piuttosto articolato in risposta alla –––––––––––––––––– 1967 Conl. IX, 25 (272, 24–273, 1): «sed quam mens infusione caelestis illius luminis inlustrata non humanis atque angustis designat eloquiis, sed conglobatis sensibus velut de fonte quodam copiosissimo effundit ubertim atque ineffabiliter eructat ad deum, tanta promens in illo brevissimo temporis puncto, quanta nec eloqui facile nec percurrere mens in semet ipsam reversa praevaleat». 1968 Ne abbiamo la prova più eloquente in Conl. IX, 27 (274, 3-8), dove Cassiano illustra due diverse manifestazioni della compunctio, vocale e silenziosa; di quest’ultima osserva: «Nonnumquam vero tanto silentio mens intra secretum profundae taciturnitatis absconditur, ut omnem penitus sonum vocis stupor subitae inluminationis includat omnesque sensus adtonitus spiritus vel contineat intrinsicus vel amittat ac desideria sua gemitibus inenarrabilibus effundat ad deum». Si veda anche Conl. X, 11, 6 (305, 27–306, 3): «per ineffabilem cordis excessum inexplebili spiritus alacritate profertur, quamquam mens extra omnes sensus ac visibiles effecta materies gemitibus inenarrabilibus atque suspiriis profundit ad deum». Anche per Stewart, 220, nota 169, «this phrase from Rom. 8:26 is found in Cassian’s descriptions of ecstatic prayer in Conf. 9.15.2, 9.27, 10.11.6». Per Alexandre, 193, il nesso della preghiera di fuoco con lo Spirito rimane implicito: «Certes Cassien évoque parfois “le feu céleste du Saint-Esprit”; le thème de l’inhabitation de l’Esprit dans le cœur de l’homme est présent en son œuvre; et même les réminiscences des “gémissements inénarrables” de l’Esprit, intercédant pour nous selon Rm 8, 26, peuvent faire penser au feu de l’Esprit. Mais rien n’est explicite en ces passages sur un lien entre Esprit et prière de feu». 1969 L’importanza accordata alla compunctio e alla preghiera delle lacrime, molto più centrale per Cassiano rispetto ad Evagrio, rispecchia l’influsso della letteratura ascetica siriana. Cfr. Stewart, 115: «Cassian certainly prized the Evagrian contemplative tradition of “pure” (or imageless) prayer. But his emphasis on conpunctio indicates that he was also drawn to a more affective and ecstatic mysticism akin to that of the Syrian tradition of the Pseudo-Macarian writings and kindred texts such as the Syriac Book of Steps».
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quaestio. Preoccupato di fornire, per così dire, una certezza psicologica all’orante, egli assicura che chi prega senza alcuna esitazione e con piena fiducia non deve dubitare che la sua preghiera abbia effetto presso Dio. Ma soprattutto raccoglie un ampio dossier di testimonianze scritturistiche sulla preghiera esaudita, in relazione alla diversità di condizioni spirituali. L’importanza dei riferimenti biblici è sottolineata dal fatto che Cassiano non si limita a riproporre i luoghi evangelici già noti – come Mc 11, 24; Mt 18, 19; Mt 17,19; Lc 11, 8 – ma vi aggiunge vari passi veterotestamentari in genere poco considerati dagli autori precedenti, con l’eccezione di Is 58, 9, che segnala un nuovo punto di contatto con Origene1970. Richiama in parte accenti caratteristici dell’Alessandrino anche l’invito di Cassiano ad insistere nella preghiera, nonostante non si abbia alcun “titolo” ad essere esauditi, perché l’insegnamento di Gesù è esplicito riguardo alla necessità di supplicarlo instancabilmente1971. Originale è, da questo punto di vista, lo sfruttamento del paradigma tradizionale di Daniele, perché Cassiano lo utilizza per spiegare come l’esaudimento della preghiera possa combinarsi con il ritardo nella manifestazione dei suoi effetti1972. La perseveranza è la condizione per l’efficacia della domanda, ma Cassiano ne illustra ancor più acutamente i requisiti allorché introduce un nuovo riferimento scritturistico, in genere poco usuale nelle trattazioni sulla preghiera: 1Gv 5, 14 («Questa è la fiducia che abbiamo in lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà, egli ci ascolta»)1973. Il passo giovanneo gli offre la chiave di volta per risolvere la quaestio dell’esaudimento: condizione fondamentale per ottenere ascolto da Dio è chiedere conformemente alla sua volontà. Egli rafforza l’idea rammentando a questo punto l’incapacità di pregare secondo Rm 8, 26, che ribadisce a sua volta l’orizzonte tradizionale della riflessione di Cassiano1974. Ma anche –––––––––––––––––– 1970 Conl. IX, 34, 2-3 (278, 16-21): «Habes in emendatione vitae et operibus misericordiae secundum illud: Dissolve conligationis inpietatis, solve fasciculos deprimentes (Is 58, 6). Et post pauca quibus infructuosi ieiunii sterilitas castigatur: tunc, inquit, invocabis, et dominus exaudiet te: clamabis, et dicet: ecce adsum (Is 58, 9)». 1971 Conl. IX, 34, 5 (279, 11-16): «Hortatur enim nos dominus volens ea quae sunt aeterna caelestiaque praestare, ut eum inportunitate nostra quodammodo coartemus, qui inportunos non modo non despicit nec refutat, sed etiam invitat et laudat, eisque praestiturum se quidquid perseveranter speraverint benignissime pollicetur». 1972 Conl. IX, 34, 6 (279, 27–280, 3): «Quod autem infatigabiliter sit domino supplicandum, etiam illo beati Danihelis docemur exemplo, quod exauditus a prima die quo coepit orare post primum et vicensimum diem consequitur suae petitionis effectum». 1973 Conl. IX, 34, 8 (280, 18-22): «Retractare namque nos convenit illam beati evangelistae Iohannis sententiam, qua ambiguitas huius quaestionis evidenter absolvitur: Haec est, inquit, fiducia quam habemus ad eum, quia quidquid petierimus secundum voluntatem eius, audit nos (1Gv 5, 14)». 1974 Conl. IX, 34, 9 (281, 2-7): «Si enim et illud apostoli recordemur, quoniam quid oremus secundum quod oportet nescimus, intelligimus nos nonnumquam saluti nostrae
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in questo caso il monaco di Marsiglia perviene ad un risultato originale: servendosi nuovamente del modello di Gesù orante, assunto adesso come esemplificazione del rapporto di comunione tra il Figlio e il Padre, egli invita ad accompagnare sempre la domanda a Dio con il fondamentale corollario del rispetto della sua volontà. Sull’esempio della preghiera del Getsemani, ogni supplica dovrà concludersi con le parole di Gesù: «Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26, 39)1975. Suggerendo questa conclusione formulare Cassiano sembra predisporre l’argomento che sta al centro della X conferenza, anticipato del resto al termine della IX anche dalla raccomandazione «a pregare frequentemente, ma brevemente»1976. È la risposta tecnica di natura più squisitamente monastica, mediante il ricorso alla «preghiera monologica», all’interrogativo sull’oratio continua, che generalizza manifestazioni antecedenti di natura analoga, come l’uso della preghiera antirretica da parte di Evagrio1977. Del resto Cassiano trasmette questa formula pietatis come un «segreto» ricevuto dai Padri del monachesimo egiziano. In questo senso, per assicurare la costante memoria Dei, egli propone la recita ininterrotta di Sal 69(70), 2: «Deus, in adiutorium meum intende; Domine, ad adiuvandum me festina» («O Dio, vieni a salvarmi, Signore vieni presto in mio aiuto»)1978. La giustificazione del privilegio accordato a tale versetto sottolinea il fatto che proprio per la genericità del suo contenuto è suscettibile di applicarsi alle esigenze e alle situazioni più diverse1979, mentre ––––––––––––––––––
contraria postulare et commodissima nobis ab eo qui utilitatis nostras rectius quam nos ac veracius intuetur ea quae poscimus denegari». 1975 Conl. IX, 34, 13 (282, 14-18): «Et idcirco his quae praediximus exemplis dominicis eruditi cunctas obsecrationes nostras simili nos quoque debemus oratione concludere et hanc vocem cunctis petitionibus nostris semper adiungere: Verumtamen non sicut ego volo sed sicut tu». 1976 Conl. IX , 36, 1 (283, 12-14): «Ob quod frequenter quidem, sed breviter est orandum, ne inmorantibus nobis inserere aliquid nostro cordi insidiator possit inimicus». 1977 Con ciò Cassiano diviene l’antesignano della «preghiera di Gesù» cara alla tradizione ortodossa. La sua importanza fondamentale è riconosciuta da Stewart, 113: «Cassian has given us the fullest exposition of monologistic prayer to be found in the early monastic sources. His synthesis of biblical meditatio and both antirrhetic and monologistic prayer, describes a method of unceasing prayer paralleled later by Diadochus and the Sinai tradition of the Jesus Prayer». Sugli inizi egiziani cfr. Regnault. 1978 Conl. X, 10, 2 (297, 22-26): «Erit itaque ad perpetuam Dei memoriam possidendam haec inseparabiliter proposita vobis formula pietatis: Deus in adiutorium meum intende: domine ad adiuvandum mihi festina (Sal 69[70], 2). Hic namque versiculus non inmerito de toto scripturarum exceptus est instrumento». 1979 Conl. X, 10, 3 (297, 26–298, 6): «Recipit enim omnes adfectus quicumque inferri humanae possunt naturae et ad omnem statum atque universos incursus proprie satis et competenter aptatur. Habet siquidem adversus universa discrimina invocationem dei, habet humilitatem piae confessionis, habet sollicitudinis ac timoris perpetui vigilantiam, habet considerationem fragilitatis suae, exauditionis fiduciam, confidentiam praesentis semper adstantisque praesidii».
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richiama la costante dipendenza dell’uomo dall’aiuto di Dio, anche quando le cose volgono al meglio per lui1980. Dopo aver illustrato la sua funzione di «prontuario» multiuso in relazione agli attacchi dei vizi, Cassiano insiste sulla frequenza della sua ripetizione, fino a farlo diventare un esercizio automatico che non abbandona l’orante nemmeno nel sonno1981. In tal modo arriva ad essere per il monaco l’equivalente dello Shema‘ 1982, ricordandogli sempre nel contempo la sua condizione di «povero», conformemente alla beatitudine evangelica1983. In realtà, anche questa «preghiera monologica» – di cui Cassiano traccia qui un elogio appassionato – va vista in relazione con lo stato più elevato dell’orazione. Anch’essa, infatti, vuole concorrere al manifestarsi della preghiera di fuoco, che è per Cassiano la preghiera silenziosa e la preghiera dello Spirito, quantunque essa sia destinata a restare per sua natura un’esperienza-limite1984. Né va dimenticato che la «preghiera monologica» rimanda al contesto orante della vita dei monaci, nutrito quotidianamente della recita dei salmi e della loro meditazione insieme ad altri testi scritturistici. Tenendo presente questo orizzonte Cassiano suggerisce un’iniziazione ermeneutica tra le più suggestive, prefigurando un’intima assimilazione dei salmi che fa di essi una oratio propria, formulata per così dire ex parte auctoris1985. –––––––––––––––––– 1980 Conl. X, 10, 5 (298, 24-27): «Nam qui se semper atque in omnibus desiderat adiuvari, manifestat quod non tantum in rebus duris ac tristibus, sed etiam in secundis ac laetis pari modo deo egeat adiutore». 1981 Conl. X, 10, 14 (302, 3-9): «Huius igitur versiculi oratio in adversis ut eruamur, in prosperis ut servemur nec extollamur incessabili iugitate fundenda est. Huius, inquam versiculi meditatio in tuo pectore indisrupta volvatur. Hunc in opere quolibet seu ministerio vel itinere constitutus decantare non desinas. Hunc et dormiens et reficiens et in ultimis naturae necessitatibus meditare». 1982 Conl. X, 10, 15 (302, 23-28): «Hunc scribes in limine et ianuis oris tui, hunc in parietibus domus tuae ac penetralibus tui pectoris conlocabis, ita ut haec ad orationem procumbenti sit tibi adclinis decantatio et exinde consurgenti atque ad omnes usus vitae necessarios incedenti fiat erecta et iugis oratio». 1983 Conl. X , 11, 2 (303, 10-16): «quae maior aut sanctior potest esse paupertas quam illius, qui nihil se praesidii, nihil virium habere cognoscens de aliena largitate cotidianum poscit auxilium, et vitam suam atque substantiam singulis quibusque momentis divina ope intellegens sustentari verum se mendicum domini non inmerito profitetur». 1984 Conl. X, 11, 6 (cfr. nota 1968). 1985 Conl. X , 11, 4 (304, 16-23): «Quorum iugi pascuo vegetatus omnes quoque psalmorum adfectus in se recipiens ita incipiet decantare, ut eos non tamquam a propheta conpositos, sed velut a se editos quasi orationem propriam profunda cordis conpunctione depromat vel certe ad suam personam aestimet eos fuisse directos, eorumque sententias non tunc tantummodo per prophetam aut in propheta fuisse conpletas, sed in se cotidie geri inplerique cognoscat». Il rapporto della preghiera monologica con il più ampio contesto orante è ben chiarito da Stewart, 112: «the key to understanding Cassian’s insistence on the formula is to realize that although prayer is anchored in this single verse, psalms are still chanted in the “canonical” prayer of the hours, biblical lessons are read at the liturgy, and meditatio of other biblical texts continues. The formula is an undercurrent in the river
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L’esito ultimo della riflessione di Cassiano sulla preghiera è dunque ben più ricco e complesso dell’innovativa proposta della «preghiera monologica». Come abbiamo visto, egli presenta numerosi punti di contatto con le problematiche affrontate da Origene e da altri autori di trattati sulla preghiera. In un certo senso, se escludiamo i testi di Tertulliano e Cipriano, Cassiano offre addirittura il termine di confronto più ravvicinato per Orat, sia per l’agenda tematica affrontata nella IX conferenza, che per il significativo corredo di testimonianze scritturistiche ed anche per singoli motivi di riflessione. La continuità del discorso cristiano sulla preghiera spirituale è dunque ampiamente testimoniata anche da Cassiano. Al tempo stesso, però, egli segnala una svolta molto profonda, conseguenza diretta della nuova esperienza di preghiera del monachesimo. Se la preghiera di fuoco – pur con qualche analogia con la preghiera pura di Evagrio – introduce una prospettiva in gran parte inedita (anche se non priva di antecedenti, grazie soprattutto al riferimento a Rm 8, 26-27 e all’interpretazione offertane, in particolare, da Origene), la formula pietatis rafforza a sua volta la destinazione monastica, con una fruizione essenzialmente pratica, del pensiero di Cassiano. Ciò non toglie che anche operando a questo livello “tecnico” egli riesce a dare un’espressione particolarmente efficace e attuale alla grande tradizione dell’interpretazione spirituale della Bibbia di matrice alessandrina. 9. Agostino: la preghiera come gemito dello Spirito nel desiderio della Vita Beata Il dialogo ideale inscenato in questo capitolo fra Origene e gli esponenti più ragguardevoli del discorso cristiano sulla preghiera fra II e V secolo non può non concludersi con Agostino: non solo per la statura dell’autore, che fa da adeguato pendant alla grandezza dell’Alessandrino, ma soprattutto per il fatto che la riflessione agostiniana sulla preghiera non è meno importante, originale e pervasiva di quella origeniana1986. Essa offre pertanto una chiave d’accesso al pensiero di Agostino nel suo insieme e richiederebbe uno studio ben più accurato dell’esposizione che segue. Tuttavia la natura volutamente sintetica di questa parte ci autorizza a procedere in modo selettivo, anche se sperabilmente non troppo parziale ed ––––––––––––––––––
of words that carries both anchorites and cenobites through day and night, coming to the surface in the interstices of other forms of prayer or in times of particular need. On the basis of total intimacy with the one verse, the monk can navigate the rest of the Bible with even greater delight and ease». 1986 Nella vasta bibliografia sono da segnalare specialmente Vincent; Antoni; Van Bavel. Cfr. inoltre Schnurr, 78-134; Hammerling 2008b. Per ulteriori indicazioni bibliografiche sull’interpretazione agostiniana del Pater si veda Beatrice.
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infedele. Per ricostruire la visuale di Agostino sulla preghiera ci baseremo, in particolare, sul trattato contenuto nella Lettera 130 a Proba – l’unica opera specificamente dedicata all’orazione – nonché sui Sermoni 56-59, che sviluppano una catechesi prebattesimale sul Padrenostro. La preferenza accordata a tali fonti è dettata dalle loro affinità letterarie e tematiche con la maggior parte degli scritti esaminati precedentemente che le rendono più adatte per un raffronto comparativo. In ogni caso ciò non significa ignorare altri contributi importanti dell’Ipponate, primo fra tutti il Discorso del Signore sulla montagna con il suo commento di Mt 6. Nella nostra analisi dunque terremo conto del più ampio contesto dell’opera agostiniana cercando ad un tempo di far emergere la rappresentatività delle nostre testimonianze principali sulla dottrina eucologica del vescovo d’Ippona. Del resto, il loro carattere emblematico è già suggerito dalla stessa diversità di genere letterario e destinatari, senza che questa comporti mutamenti di rilievo nelle posizioni espresse da Agostino. La Lettera a Proba, una matrona dell’aristocrazia senatoria romana rimasta vedova e trasferitasi in Africa dopo il sacco di Roma, prospetta l’ideale esigente di una vita di preghiera includendo, quale suo nucleo ispiratore e modello per la prassi, una stringata esegesi del Padrenostro1987. Questo, poi, è l’oggetto dei quattro Sermones ad competentes (Sermoni 56-59), rivolti cioè a completare l’istruzione dei catecumeni ormai prossimi al battesimo, facendo seguire all’insegnamento sul simbolo di fede quello sulla Preghiera del Signore1988. Sebbene il tono generale dei discorsi risulti piuttosto piano e semplificato, Agostino vi ribadisce in sostanza l’approccio sia della Lettera a Proba che di vari suoi scritti, senza tuttavia escludere talora degli sviluppi distinti, come avviene ad esempio nel Discorso del Signore sulla montagna o nel Manuale sulla fede, speranza e carità1989. Lo stesso vale anche per la prospettiva pur straordinariamente ricca che ci è offerta dalle Enarrationes in Psalmos, dedicate ad interpretare la preghiera per eccellenza dell’Antico Testamento quale pre–––––––––––––––––– 1987 La lettera è datata in genere al 411-412. Rifugiata a Cartagine, Proba aveva dato vita ad una comunità religiosa. Per uno studio approfondito del personaggio e del testo si veda Cacciari (La preghiera. Epistola 130 a Proba). 1988 Benché manchi una datazione precisa dei quattro sermoni, il loro arco cronologico pare essere abbastanza ravvicinato. Così, se Serm. 56 viene collocato perlopiù fra 410 e 412, Serm. 57 è datato a prima del 410; a loro volta, Serm. 58 risalirebbe agli anni 412-416 e Serm. 59 al 410 o al periodo fra 412 e 415. Per un riepilogo dei dati cronologici si veda Grossi, 126. 1989 Il De sermone Domini in monte (ca. 393-396) approfondisce l’introduzione al Padrenostro in Mt 6, 5-8, mentre intreccia la spiegazione delle sette petizioni con quella delle beatitudini (anch’esse ricondotte ad un settenario) e dei sette doni dello Spirito. A sua volta, l’Enchiridion (421 ca.), oltre ad aggiungere una spiegazione del testo lucano a quello di Matteo, collega l’esegesi del Padrenostro allo schema delle tre virtù teologali.
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ghiera di Cristo e della Chiesa. Si può insomma constatare una fondamentale continuità della riflessione agostiniana sull’orazione che, in aggiunta, si accompagna all’esperienza personale dell’autore, spesso affidata allo scritto ed esemplificata nella sua forma più alta e meglio nota dalla dimensione orante costitutiva delle Confessioni1990. Se anche questa seconda caratteristica, dopo la presenza diffusa del nostro tema, avvicina la figura dell’Ipponate all’Alessandrino, non mancano punti di contatto significativi fra i due autori a livello dottrinale, frutto di una convergenza ideale se non a seguito di una conoscenza diretta di Origene da parte di Agostino, come ci si è sforzati di dimostrare, ad esempio, nel caso del Discorso del Signore sulla montagna1991. Le considerazioni iniziali della Lettera a Proba, pur attentamente calibrate in relazione alla condizione sociale della destinataria, una vedova facoltosa al centro di legami familiari importanti, tracciano già nettamente l’orizzonte della preghiera come esperienza dell’uomo e del cristiano chiarendo con quali disposizioni d’animo si debba pregare1992. Se l’orazione è per sua natura l’espressione del bisogno dell’uomo sotto lo sguardo di Dio, per l’«anima cristiana» essa nasce dall’acuta consapevolezza dell’esilio nel mondo, lontano dalla casa del Padre. L’invito ripetuto a Proba perché si senta «derelitta» (desolata) in questa vita riflette più in generale l’idea agostiniana dell’itinerario di conversione: l’uomo, rientrando in se stesso dalla sua dispersione e dissipazione nel mondo esteriore, risponde al richiamo della vera patria che Dio stesso suscita in lui mediante la voce del Maestro interiore1993. Di conseguenza la dinamica che trama alla base le manifestazioni della preghiera è innescata dal desiderium. Attesa della «vita beata» nella sua espressione più autentica, esso può volgersi ad obiettivi di natura inferiore che rischiano di distogliere l’anima dalla sua fondamentale aspirazione, come i beni terreni posseduti in abbondanza da –––––––––––––––––– 1990 A cominciare dall’infanzia, come attesta Conf. I, 9, 14 (24, 14-16): «Nam puer coepi rogare te, auxilium et refugium meum, et in tuam invocationem rumpebam nodos linguae meae». Fra gli altri, Madec, 78 ha ben colto il rilievo strutturale della preghiera nelle Confessioni come interlocuzione con Dio: «La conversion restaure la création, en réorientant l’esprit vers Dieu et cette orientation se concrétise dans la prière, l’allocution constante à Dieu». 1991 Per Heidl, 223-235, Agostino, nel comporre il De serm. Dom. in monte, avrebbe tenuto presente l’esegesi origeniana di Mt 6 conosciuta attraverso Orat o una traduzione latina di CMt. 1992 La prima parte della trattazione riguarda l’atteggiamento dell’orante, la seconda il contenuto della preghiera (Ep. 130, 2 [213, 27]: «quonammodo tibi esset orandum»; 9 [218, 158]: «Audisti qualiter ores, audi et quid ores»; 24 [230, 449-450]: «non solum qualis ores, verum etiam quid ores»). Se ne veda il sommario in Cacciari, 76-79. 1993 Ep. 130, 5 (215, 80-82): «In his igitur vitae huius tenebris, in quibus peregrinamur a Domino, quamdiu per fidem ambulamus, non per speciem (2Cor 5, 6-7), desolatam debet se anima christiana deputare, ne desistat orare».
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Proba 1994. Tuttavia, proprio la sollecitudine per l’orazione testimoniata dalla vedova, che aveva chiesto ad Agostino indicazioni su come attuare una vita di preghiera, dimostra che Proba non solo avverte la precarietà dell’esistenza, ma ripone anche la sua speranza in Dio e nei beni eterni che ci vengono da lui. In tal modo, l’orazione ci appare legata al tempo del bisogno e della prova, laddove la vita beata – con una formulazione che richiede però di essere compresa alla luce della visione complessiva di Agostino – ne sopprime del tutto la necessità: passato il tempo della «tentazione», giunge ormai quello della «contemplazione»1995. Ora, nell’esistenza terrena solo con il desiderium è possibile realizzare il precetto apostolico di pregare senza interruzione (1Ts 5, 17); quand’esso viene meno, tace anche la preghiera 1996. Perciò Agostino vede la vita del cristiano essenzialmente come «esercizio di desiderio» nell’attesa dei beni che lo colmeranno di beatitudine, laddove questo stesso desiderio lo prepara ad accoglierli1997. Applicando questa concezione alla preghiera, essa si presenta come la via maestra per disporsi interiormente a ricevere la visione di Dio, che per l’Ipponate equivale alla «vita beata». Pertanto la vita beata è l’oggetto fondamentale dell’orazione secondo Agostino, il quid ores in risposta alla richiesta che Proba gli aveva rivolto più specificamente alla luce di Rm 8, 26 con il suo fondamentale interrogativo sulla capacità dell’uomo a domandare a Dio il vero bene1998. Essa –––––––––––––––––– 1994 Sulla preghiera come desiderium si veda Van Bavel, 59-73. Anche la preghiera per la pioggia è fatta con «desiderio» secondo Serm. 57, 3 (179, 44-45): «videtis cum quanto gemitu, cum quanto desiderio pluviam petamus». 1995 Ep. 130, 5 (215, 91-96): «illa vita eximet animam nostram de morte, et illud solacium oculos nostros a lacrymis (Sal 114[115], 8-9) et, quoniam ibi iam non erit ulla temptatio. [...] Porro si nulla tentatio, iam nulla oratio; non enim adhuc promissi boni exspectatio, sed redditi contemplatio». Come osservato da Antoni, 156, «l’évidence béatifique de la fruitio Dei rendrait caduque la prière, tout au moins la prière de demande, celle qui enveloppe l’incomplétude de l’homme en son chemin, son angoisse subjective et son inachèvement ontologique». 1996 En. in Ps. 37, 14 (392, 4-12): «Sit desiderium tuum ante illum; et Pater qui videt in occulto, reddet tibi (Mt 6, 6). Ipsum enim desiderium tuum, oratio tua est: et si continuum desiderium, continua oratio. Non enim frustra dixit Apostolus: Sine intermissione orantes (1Ts 5, 17). Numquid sine intermissione genu flectimus, corpus prosternimus, aut manus levamus, ut dicat: Sine intermissione orate? Aut si sic dicimus nos orare, hoc puto sine intermissione non possumus facere. Est alia interior sine intermissione oratio, quae est desiderium». Cfr. anche Serm. 80, 7 (PL 38, 498): «Desiderium semper orat, etsi lingua taceat. Si semper desideras, semper oras. Quando dormitat oratio? Quando friguerit desiderium». 1997 Tr. in Ep. Io. 4, 6 (230): «Tota vita christiani boni, sanctum desiderium est. Quod autem desideras, nondum vides; sed desiderando capax efficeris, ut cum venerit quod videas, implearis». 1998 Ep. 130, 9 (218, 162–219, 166): «Ora beatam vitam; hanc enim habere omnes homines volunt; nam et qui pessime et perdite vivunt, nullo modo ita viverent, nisi eo modo se vel esse beatos putarent. Quid igitur aliud oportet orare, nisi id, quod cupiunt et
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dovrà allora assecondare l’indicazione del vescovo d’Ippona facendo proprie nella sua esperienza orante le parole del Salmista, voce di Cristo e della Chiesa suo corpo, con il dichiarare anche lei la «sete di Dio» (Sal 62[63]) e l’auspicio di abitare perennemente nella sua dimora (Sal 26[27], 4)1999. Sebbene Agostino sembri disposto ad ammettere la domanda di beni terreni – quali il necessario per vivere, l’incolumità e l’amicizia – più di quanto lo fosse Origene con la sua insistenza sul primato dei beni celesti, questi beni terreni sono però da considerarsi correlati e insieme subordinati all’unico bene autentico, la partecipazione alla vita stessa di Dio2000. In questo senso l’Ipponate converge di fatto con l’Alessandrino nel sottolineare anch’egli con forza la necessità della preghiera per i beni spirituali, espressi qui mediante la nozione di «vita beata». Com’è noto, questo concetto ispira Agostino fin dall’epoca precedente la conversione, a seguito della lettura dell’Hortensius ciceroniano, ma dopo di essa è andato connotandosi in senso più genuinamente cristiano, a un tempo biblico e cristologico, mediante l’identificazione del Verbo quale beatitudo e sapientia, non senza accompagnarla con le implicazioni trinitarie inerenti ad essa. Perciò Agostino designa come «Vita Beata» lo stesso Cristo in quanto maestro di preghiera2001, mentre al termine della spiegazione del Padrenostro ne ricapitola il contenuto ancora una volta precisamente attraverso questa espressione2002. Altrove, sviluppando l’istanza critica racchiusa nel discorso cristiano sulla preghiera rispetto all’inadeguatezza della pratica diffusa, egli constata come nella maggior parte dei casi il desiderium dell’orante s’indirizzi all’acquisizione di una grande varietà di beni materiali, mentre dovrebbe rivolgersi al Signore stesso; o peggio ancora, la preghiera è distorta ancor più gravemente dal vero fine, essendo spesso accompagnata dall’odio per i nemici2003. Se ciò è del tutto inammissibile per il cristiano, ––––––––––––––––––
mali et boni, sed ad quod perveniunt non nisi boni?». Sul tema agostiniano della ricerca della felicità, alla luce del nostro testo, cfr. Cacciari, 57-67. 1999 Cfr. Ep. 130, 5. 15. 2000 Ep. 130, 14 (222, 248-250): «Ad illam ergo unam vitam, qua cum Deo et de Deo vivitur, cetera, quae utiliter et decenter optantur, sine dubio referenda sunt». Per Vincent, Agostino esprime una posizione perfettamente equilibrata: «Elle fait une juste part aux nécessités du corps, mais elle invite à rechercher, bien au-dela des biens temporels, d’autres biens qui sont l’objet de la prière» (p. 177). 2001 Ep. 130, 15 (223, 266-267): «Propter hanc adipiscendam beatam vitam ipsa vera Vita orare nos docuit». 2002 Ep. 130, 24 (230, 451): «Beata vita quaerenda est, haec a Domino Deo petenda». 2003 En. in Ps. 76, 2 (1052, 1–1053, 10): «Sed multi clamant ad Dominum pro divitiis acquirendis damnisque devitandis, pro suorum salute, pro stabilitate domus suae, pro felicitate temporali, pro dignitate saeculari; postremo pro ipsa etiam salute corporis, quae patrimonium est pauperis. Pro his atque huiusmodi rebus multi clamant ad Dominum; vix quisquam propter ipsum Dominum. Facile quippe homini est quodlibet desiderare a Domino, et ipsum Dominum non desiderare; quasi vero suavius esse possit quod dat, quam ipse qui dat». Agostino denuncia in più occasioni le deformazioni della preghiera, in special
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la piena attuazione della «preghiera spirituale» – categoria che accomuna Agostino al discorso eucologico precedente – si dà nel momento in cui il dono richiesto dall’orante coincide con la persona stessa del Donatore 2004. Anche per Agostino, non diversamente da Origene e altri autori prima di lui, Cristo è per eccellenza il maestro della preghiera nonché il tramite per il suo esaudimento2005. Grazie a Gesù apprendiamo a pregare non solo con le parole del Padrenostro e le altre istruzioni tramandateci dai testi evangelici, ma anche con la condotta esemplare di colui che sulla croce ha pregato per il perdono dei nemici. Alla luce di tale comportamento occorre comprendere anche il significato dei salmi imprecatori, da intendersi secondo il Sermone 56 con valore di profezie, senza che il cristiano sia tenuto in alcun modo a maledire qualcuno2006. Il dossier dei luoghi scritturistici racchiuso nella Lettera a Proba è suscettibile di essere confrontato non solo con Origene, ma più direttamente con gli esponenti della medesima tradizione africana, Tertulliano e Cipriano; in particolare, l’Ipponate conosceva bene il De dominica oratione del vescovo di Cartagine, che cita ampiamente, fra l’altro, nello scritto antipelagiano Il dono della perseveranza2007. Tuttavia, come constatatiamo in generale per la sua opera, Agostino non manca neppure qui di elaborare in maniera originale il materiale tradizionale. Ne è prova, accanto al richiamo al modello della vedova molesta in Lc 18, 1 – addotto abitualmente per inculcare la necessità di non venire meno alla preghiera, perché possa essere efficace2008 –, la ripresa con identica finalità dell’altra parabola lucana sull’amico importuno in ––––––––––––––––––
modo quando è dissociata dal perdono e dalla riconciliazione fraterna, come in Serm. 211, 6 (172, 177-180 Poque): «Scio cottidie venire homines, genua figere, frontem terrae concutere, aliquando lacrimis lotum vultum suum rigare et in ista tanta humilitate ac perturbatione dicere: “Domine, vindica me, occide inimicum meum”». A questo proposito in Serm. 56 Agostino richiama l’esempio negativo di Sal 108(109), 7, ma senza approfondirlo. 2004 Cfr. Antoni, 135: «Toute prière spirituelle fait coïncider dans son désir le don et le donateur, c’est-à-dire l’objet de la demande et le destinataire de celle-ci». 2005 Come precisa anche Serm. dom. m. II, 3, 12 (103, 263): «unus et verus magister»; II, 4, 15 (104, 298-300): «Sed iam considerandum est, quae nos orare ille praeceperit per quem et discimus quid oremus et consequimur quod oramus». 2006 Serm. 56, 3 (155, 60-63): «Ecclesia Dei, quae didicerat a Domino suo, qui pendens in cruce dixit: Pater, ignosce illis, quia nesciunt quid faciunt (Lc 23, 34), talia precabatur pro Paulo, immo adhuc pro Saulo, ut hoc in illo fieret quod et factum est». Sullo sforzo di Agostino per comprendere la preghiera dei salmi alla luce del vangelo, cfr. Vincent, 125-154. 2007 De dono persev. 2, 4 (PL 45, 996) cita lo scritto di Cipriano in funzione antipelagiana: «Legite aliquanto intentius eius expositionem in beati Cypriani martyris libro, quem de hac re condidit, cuius est titulus: De dominica oratione: et videte ante quot annos, contra ea quae futura erant Pelagianorum venena, quale sit antidotum praeparatum». Sull’uso di Cipriano nella controversia pelagiana si veda Chapot, 105 e nota 105. 2008 Ep. 130, 15 (223, 277-289): «ut hinc admoneremur, quam certius nos exaudiat misericors et iustus Dominus Deus sine intermissione (1Ts 5, 17) orantes».
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Lc 11, 5-13, raccordata però in chiave allegorica alla triade paolina di fede, speranza e carità, che rappresenta uno degli assi concettuali del pensiero agostiniano sulla vita cristiana 2009. Soprattutto, Agostino si sofferma sull’introduzione al Padrenostro in Mt 6, 5-8 sia per descrivere anch’egli tramite questo passo l’atteggiamento interiore dell’orante, sia per affrontare quello che già per Origene costituiva il «problema della preghiera». Senza dubbio, pure con questa riflessione l’Ipponate manifesta delle affinità con la visuale dell’Alessandrino, specialmente per la sua piena consapevolezza del dato aporetico e paradossale dell’orazione come tale. Egli l’approfondisce in relazione a Mt 6, 8, che di primo acchito pare sopprimere la necessità di pregare, dato che il Padre onnisciente conosce in anticipo il contenuto delle nostre richieste. Unico fra gli interpreti che abbiamo preso in esame, Agostino si ricollega così all’impostazione problematica tracciata da Origene in Orat a partire dalle obiezioni degli avversari della preghiera2010. Tuttavia, anziché inserire la quaestio nel quadro concettuale dell’Alessandrino, che è imperniato principalmente sul problema del rapporto fra libero arbitrio dell’uomo e provvidenza divina, egli ne ricava una riflessione di natura prettamente pedagogica e spirituale, legandola nuovamente al motivo del desiderium. Secondo l’Ipponate, Dio non ha ovviamente bisogno d’essere informato su ciò di cui sentiamo l’esigenza di chiedergli, ma siamo noi che necessitiamo di sperimentare la nostra dipendenza dal volere di Dio attraverso l’esercizio della preghiera. Traendo ispirazione, in particolare, dalla messa in guardia contro il multiloquio contenuta in Mt 6, 7, l’Ipponate introduce così considerazioni originali sul freno da porre alla «retorica orante» o meglio ancora su diritti e limiti del regime della parola nella prassi di preghiera2011. Infatti, se nella Lettera a Proba la soluzione del–––––––––––––––––– 2009 Cfr. Ep. 130, 16 e il commento di Cacciari, 105, note 75-76, che segnala i rinvii parziali in Tertulliano, De orat. I, 1.2.3 e in Origene, Orat X, 2. 2010 Cfr. Orat V, 2 (supra, p. 100). Uno spunto analogo è accennato da Giovanni Crisostomo in Hom. in Matth. XIX , 8 (PG 57, 278): Kai; eij oi\de, fhsivn, w|n creivan e[comen, tivno" e{neken eu[cesqai dei'… Oujjc i{na didavxh/", ajll∆ i{na ejpikavmyh/": i{na oijkeiwqh/'" th/' suneceiva/ th'" ejnteuvxew", i{na tapeinwqh/'", i{na ajnamnhsqh/'" tw'n aJmarthmavtwn tw'n sw'n. 2011 Si veda, ad esempio, l’enunciazione della quaestio a commento di Mt 6, 5-8 in Serm. dom. m. II , 3,12 (102, 255–103, 270): «Sicut hypocritarum est praebere se spectandos in oratione, quorum fructus est placere hominibus, ita ethnicorum, id est gentilium, in multiloquio se putare exaudiri. Et re vera omne multiloquium a gentilibus venit, qui exercendae linguae potius quam mundando animo dant operam. Et hoc nugatorii studii genus etiam ad Deum prece flectendum transferre conantur, arbitrantes sicut hominem iudicem verbis adduci ad sententiam. Nolite itaque similes esse illis, dicit unus et verus magister; scit enim Pater vester quid vobis necessarium sit, antequam petatis ab eo (Mt 6, 8). Si enim verba multa ad id proferuntur, ut instruatur et doceatur ignarus, quid eis opus est ad rerum omnium cognitorem, cui omnia quae sunt eo ipso quo sunt loquuntur seseque indicant facta? Et ea quae futura sunt eius artem sapientiamque non latent, in qua sunt et quae transierunt et quae transitura sunt omnia praesentia et non transeuntia».
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l’aporia rimanda all’esercizio del desiderium nell’orazione (tendenzialmente di tipo verbale) come condizione per ricevere il dono che Dio si appresta a concedere, nel Discorso del Signore sulla montagna Agostino la motiva più estesamente dal punto di vista della critica del linguaggio. In primo luogo, richiama la distinzione fra res e verba, che sorregge la sua concezione gnoseologico-ontologica, per raccomandare le prime mediante una formulazione tutta concettuale ed interiore. Quanto all’espressione verbale, la sua norma vincolante è stata tracciata dal Signore all’insegna della brevità mediante le succinte parole del Padrenostro. Esse servono a rammentarci le res, i contenuti che debbono essere fatti oggetto dell’orazione. L’una e l’altra spiegazione riflettono la dottrina agostiniana sull’inadeguatezza inerente al linguaggio, per lo scarto tra i verba e le res, al quale sopperisce in parte il paradigma della Preghiera del Signore e più fondamentalmente il Verbo stesso in quanto Maestro interiore dell’anima. Agostino però sembra voler fondere i due tratti della sua risposta nella terza e più ampia spiegazione, in base alla quale l’orazione implica la quiete e la purificazione del cuore mediante la sua «conversione» (conversio cordis) a Dio, predisponendolo pertanto a partecipare del suo dono, la «vita beata» 2012. Anche la Lettera a Proba riprende a sua volta il tema del «cuore», chiamato ad ascendere a Dio nel continuo desiderio della beatitudine e tramite la pratica delle tre virtù teologali – fede, speranza e carità – alle quali l’orante è sollecitato a conformarsi2013. Del resto, il «cuore» è la –––––––––––––––––– 2012 Serm. dom. m. II, 3, 13-14 (103, 271–104, 297): «Sed quoniam, quamvis pauca, tamen verba et ipse dicturus est, quibus nos doceat orare, quaeri potest, cur vel his paucis verbis opus sit ad eum qui scit omnia antequam fiant, et novit, ut dictum est, quid nobis sit necessarium antequam petamus ab eo. Hic primo respondetur non verbis nos agere debere apud Deum, ut impetremus quod volumus, sed rebus quas animo gerimus et intentione cogitationis cum dilectione pura et simplici affectu sed res ipsas verbis nos docuisse Dominum nostrum, quibus memoriae mandatis eas ad tempus orandi recordemur. Sed rursus quaeri potest – sive rebus sive verbis orandum sit –, quid opus sit ipsa oratione, si Deus iam novit quid nobis sit necessarium, nisi quia ipsa orationis intentio cor nostrum serenat et purgat, capaciusque efficit ad excipienda divina munera, quae spiritaliter nobis infunduntur. Non enim ambitione precum nos exaudit Deus, qui semper paratus est dare suam lucem nobis non visibilem sed intellegibilem et spiritalem; sed nos non semper parati sumus accipere, cum inclinamur in alia et rerum temporalium cupiditate tenebramur. Fit ergo in oratione conversio cordis ad eum qui semper dare paratus est, si nos capiamus quod dederit, et in ipsa conversione purgatio interioris oculi, cum excluduntur ea quae temporaliter cupiebantur, ut acies simplicis cordis ferre possit simplicem lucem divinitus sine ullo occasu aut immutatione fulgentem, nec solum ferre sed etiam manere in illa, non tantum sine molestia sed etiam cum ineffabili gaudio, quo vere ac sinceriter beata vita perficitur». Ancora una volta Antoni, 96 commenta felicemente: «Il s’agit de se poser en être intégralement transi de désir sous le regard de Dieu. La prière n’est donc pas langagière, elle est l’âme, l’esprit et le corps en tant qu’ils se placent dans toute la tension de leur désir en présence de Dieu». 2013 Ep. 130, 17-18 (225, 324-326): «quia cor hominis illuc debet ascendere, sumemus capacius, quanto id et fidelius credimus et speramus firmius et desideramus arden-
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«cameretta» di Mt 6, 6, secondo un’interpretazione che allinea nuovamente Agostino alla tradizione antecedente2014. Da notare ancora che neppure nei Sermones ad competentes l’Ipponate si astiene dall’enunciare l’interrogativo sulle ragioni di pregare, in considerazione della paternità provvidente di Dio dichiarata da Gesù in Mt 6, 8. In tal senso il Sermone 56, pur riproponendo egualmente il motivo del desiderium a giustificazione della preghiera, lo declina in maniera originale, grazie alla ripresa di un tema caratteristico della pedagogia della fede e dell’ermeneutica scritturistica di Agostino: Gesù ci insegna il modo di pregare affinché non solo trovi alimento il nostro desiderio che lui stesso insinua in noi, ma anche non «si svilisca» ai nostri occhi il dono di Dio evitando ogni banalizzazione2015. Se la la preghiera concorre ad intensificare costantemente l’ardore del desiderio, la condizione orante del cristiano rappresenta di necessità una sua caratteristica permanente, in conformità con il precetto di 1Ts 5, 17 a pregare senza interruzione. Ciò comporta – come l’Ipponate ribadisce ancora una volta – non venire mai meno al desiderio della vita beata anche nel mezzo di tutte le attività in cui ci troviamo ad essere impegnati. Inoltre, quando tali incombenze siano conformi alla condotta autentica del cristiano, tutta quanta la vita giunge a trasformarsi in preghiera attraverso le opere, conformemente all’idea di oratio continua quale accordo tra il pregare e l’agire che era stata di Origene e di altri autori. Specialmente nelle Enarrationes in Psalmos Agostino prospetta la preghiera ininterrotta come «lode» di Dio e «salmo» innalzato a Lui nel pieno della propria vita2016. D’altra parte, in analogia con il ricorso ai verba, che attivano la ––––––––––––––––––
tius. In ipsa ergo fide et spe et caritate continuato desiderio semper oramus». La triade paolina ritorna anche in 24 (230, 458-461): «Fides ergo et spes et caritas (1Cor 13, 13) ad Deum perducunt orantem, hoc est credentem, sperantem, desiderantem, et quae petat a Domino in dominica oratione considerantem». Si veda inoltre come Agostino argomenta l’implicazione delle tre virtù nella prassi orante in Enchir. 2, 7 (51, 1-11): «Nam ecce tibi est symbolum et dominica oratio. Quid brevius auditur aut legitur? Quid facilius memoriae commendatur? Quia enim de peccato gravi miseria premebatur genus humanum, et divina indigebat misericordia, gratiae Dei tempus propheta praedicens ait: Et erit: omnis qui invocaverit nomen Domini salvus erit (Gl 2, 32). Propter hoc oratio. Sed Apostolus cum ad ipsam gratiam commendandam hoc propheticum commemorasset testimonium, continuo subiecit: Quomodo autem invocabunt in quem non crediderunt? (Rm 10, 14). Propter hoc symbolum. In his duobus tria illa intuere: fides credit, spes et caritas orant. Sed sine fide esse non possunt, ac per hoc et fides orat». 2014 Cfr. Vincent, 68; Van Bavel, 55-56, che fra l’altro rimanda a En. in Ps. 34, II, 3. 2015 Serm. 56, 4 (156, 74-78): «Sed ne forte hic aliquis dicat: “Si novit quid nobis sit necessarium, ut quid vel pauca verba dicimus, ut quid oramus? Ipse scit: det quod scit nobis necessarium!”. Sed ideo voluit ut ores, ut desideranti det, ne vilescat quod dederit: quia et ipsum desiderium ipse insinuavit». 2016 En. in Ps. 146, 2 (163, 6–164, 19): «Vis ergo psallere? Non sola vox tua sonet laudes Dei, sed opera tua concordent cum voce tua. Cum ergo voce cantaveris, silebis aliquando: vita sic canta, ut numquam sileas. Negotium agis, et fraudem cogitas? Siluisti a
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coscienza di colui che prega, giova alla continuità dell’esperienza concreta di preghiera poter contare su momenti particolari consacrati ad essa. Ovviamente, anche questi tempi fissi della preghiera non sono richiesti da Dio, ma servono ad assicurare la piena consapevolezza personale dell’orante e ad impedire che l’ardore del suo desiderio s’intiepidisca2017. A margine di questa interpretazione, che costituisce la linea principale di riflessione sulla valenza antropologica dell’orazione, Agostino accenna di passaggio ed in via ipotetica all’utilità della preghiera vocale perché gli angeli facciano da tramite presso Dio assicurandone l’esaudimento. In linea con la tradizione, l’Ipponate ricava il paradigma scritturistico dalla storia di Tobia con l’intervento dell’arcangelo Raffaele (Tb 12, 12)2018. In ogni caso, testimone principale della prassi orante come esperienza continuata non può non essere anche secondo Agostino lo stesso Gesù2019. Ma l’Ipponate precisa ulteriormente il proprio pensiero circa i limiti della preghiera vocale, coerentemente con l’avvertenza contro il multiloquio in Mt 6, 7, nell’introdurre la testimonianza della prassi orante del monachesimo egiziano. Si tratta del celebre, quantunque unico, accenno della Lettera a Proba sull’uso delle «giaculatorie», secondo il termine suggerito dalla stessa formulazione agostiniana (invocazioni «come lanciate al volo»), che sembrerebbe rimandare alla consuetudine della «preghiera monologica» o «preghiera di Gesù» attestataci da Cassiano. Anche Agostino ne coglie l’aspetto della frequenza, ma più che insistere sulla ripetizione ––––––––––––––––––
laude Dei, et quod gravius est, non solum a laude siluisti, sed in blasphemiam perrexisti. Cum enim Deus laudatur de bono opere tuo, opere tuo laudas Deum, et cum blasphematur Deus de malo opere tuo, opere tuo blasphemas Deum. Itaque ad aurium exhortationem canta voce, corde ne sileas, vita ne taceas. Non cogitas in negotio fraudem? Psallis Deo. Cum manducas et bibis, psalle, non intermiscendo sonorum suavitates ad aures aptas, sed modeste et frugaliter et temperanter manducando et bibendo: quia hoc dicit Apostolus: Sive manducatis, sive bibitis, sive quid facitis; omnia in gloriam Dei facite (1Cor 10, 31)». 2017 Ep. 130, 18 (225, 328–226, 341): «Sed ideo per certa intervalla horarum et temporum etiam verbis rogamus Deum, ut illis rerum signis nos ipsos admoneamus, quantumque in hoc desiderio profecerimus, nobis ipsis innotescamus, et ad hoc augendum nos ipsos acrius excitemus. Dignior enim sequetur effectus, quem ferventior praecedit affectus. Ac per hoc et quod ait Apostolus: Sine intermissione orate (1Ts 5, 17), quid est aliud quam beatam vitam, quae nulla nisi aeterna est, ab illo, qui eam dare solus potest, sine intermissione desiderate? Semper ergo hanc a Domino Deo desideremus, et semper oremus. Sed ideo ab aliis curis atque negotiis, quibus ipsum desiderium quodammodo tepescit, certis horis ad negotium orandi mentem revocamus verbis orationis nos admonentes in id, quod desideramus, intendere, ne quod tepescere coeperat, omnino frigescat, et penitus exstinguatur, nisi crebrius inflammetur». In generale (come mostra Vincent, 64-67), Agostino non dedica molta importanza al problema delle ore di preghiera, ma si preoccupa sempre dei risvolti interiori. 2018 Ep. 130, 18 (226, 346-347): «Aut forte innotescant etiam angelis, qui sunt apud Deum, ut quodammodo eas offerant Deo et de his consulant». 2019 Ep. 130, 19 (226, 357-358): «Nam et de ipso Domino scriptum est quod pernoctaverit in orando (Lc 6, 12) et quod prolixius oraverit (cfr. Lc 22, 44)».
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di queste formule di preghiera, rileva il loro carattere istantaneo che previene l’allentamento della concentrazione interiore di colui che prega2020. È la tensione spirituale dell’orante ciò che preme di più ad Agostino, senza privilegiare il ricorso alla preghiera formulare in quanto tale. Infatti dichiara che non v’è ragione d’interrompere l’orazione nel caso in cui la tensione orante non mostri segni di cedimento. Tuttavia, egli ha sempre in mente una forma di preghiera che non abbonda di parole e trova la sua sede più congeniale nell’interiorità dell’anima o meglio del cuore. Il trascendimento della preghiera vocale, suggerito dallo stesso carattere compendioso della Preghiera al Signore, si manifesta per Agostino anche nella preghiera delle lacrime e nei gemiti, che assumono un rilievo particolare anche in riferimento a Rm 8, 26, come vedremo più avanti. La sua esortazione a Proba, con la distinzione fra «parlare molto» e «pregare molto», punta essenzialmente ad incoraggiare l’articolazione delle suppliche mediante la preghiera del cuore evitando così l’eccesso di parole: «Sia ben lungi dalla preghiera un’eccessiva quantità di parole, ma non venga meno l’abbondanza di suppliche, se perdura una tensione fervida. Parlare molto, infatti vuol dire, nel caso della preghiera, compiere una cosa necessaria con parole inutili. Pregare molto, invece, è bussare con costante e devota mozione del cuore presso colui che preghiamo. In effetti questo si fa generalmente più con i lamenti che con i discorsi, con il pianto più che con le parole. Egli d’altra parte pone le nostre lacrime al proprio cospetto; il nostro lamento non è nascosto a colui che fece ogni cosa per mezzo del Verbo e che non cerca parole umane»2021.
Con queste premesse – che delimitano fortemente lo spazio della preghiera vocale favorendo piuttosto il modello di un’orazione silenziosa, a patto che sia espressione di un intenso raccoglimento interiore – Agostino si accosta all’interpretazione del Padrenostro, che nel Sermone 56 desi–––––––––––––––––– 2020 Ep. 130, 20 (227, 361-364): «Dicuntur fratres in Aegypto crebras quidem habere orationes, sed eas tamen brevissimas et raptim quodammodo iaculatas, ne illa vigilanter erecta, quae oranti plurimum necessaria est, per productiores moras evanescat atque hebetetur intentio». Cacciari, 110, nota 92 nota giustamente la sintonia della formulazione agostiniana con il «lessico militare» della preghiera, documentandolo con particolare riferimento a Origene e Tertulliano. Per Antoni, 208: «Cet arrêt de l’intelligence qui tente de quitter l’écoulement du devenir pour séjourner dans l’Aujourd’hui de Dieu, est le propre de la prière “fulgurante”. [...] L’oraison jaculatoire tend à épouser le plus possible ce pur présent, cet instant indivisible soustrait au devenir qu’évoque le chapitre 15 du Livre XI des Confessions». 2021 Ep. 130, 20 (227, 367-375): «Absit enim ab oratione multa locutio, sed non desit multa precatio, si fervens perseverat intentio. Nam multum loqui, est in orando rem necessariam superfluis agere verbis. Multum autem precari, est ad eum, quem precamur, diuturna et pia cordis excitatione pulsare. Nam plerumque hoc negotium plus gemitibus quam sermonibus agitur, plus fletu quam affatu. Ponit autem lacrymas nostras in conspectu suo, et gemitus noster non est absconditus ab eo qui omnia per Verbum condidit et humana verba non quaerit» (tr. Cacciari, 111-112).
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gna incisivamente come la forma desideriorum, riappropriandosi con il suo linguaggio di un’espressione tertullianea2022. Ancora una volta egli ribadisce preliminarmente la valenza antropologica della preghiera: le parole del Padrenostro non sono richieste da Dio per lui, bensì sono necessarie per noi, onde renderci edotti su cosa domandare, sia nell’orizzonte della vita terrena che in quello della vita eterna2023. A quest’ultima rimandano specificamente le tre petizioni iniziali della preghiera del Signore, tutte relative a beni già fruibili parzialmente sulla terra, ma che riceveranno piena attuazione in cielo. Invece, le altre petizioni del Padrenostro riguardano l’esistenza nel mondo con i suoi beni transeunti e le prove ancora da affrontare2024. Questo schema interpretativo ritorna generalmente nei numerosi commenti che l’Ipponate ha dedicato al Padrenostro, di solito a partire dal testo di Matteo, distinto preferibilmente in sette petizioni. Quanto alla versione lucana, anche in forza della sua sinteticità, nell’Enchiridion la considera una chiave per comprendere il testo matteano. Con le sue due omissioni Luca indica che la terza domanda di Matteo va vista come una ripetizione delle prime due e la settima come un’estrapolazione della sesta 2025. Non solo la cornice generale dell’esegesi agostiniana del Pater, ma anche la spiegazione delle singole domande tendono poi a riproporre contenuti simili, come possiamo notare dal raffronto tra il breve commento della Lettera a Proba e i Sermones 56-59. Senza soffermarci sui dettagli esegetici in questi come in altri scritti, conviene richiamare gli –––––––––––––––––– 2022 Serm. 56, 4 (156, 79-81): «Verba ergo quae docuit Dominus noster Iesus Christus in oratione, forma est desideriorum. Non tibi licet petere aliud quam ibi scriptum est». Cfr. Tertulliano, De orat. 1, 1 (257, 4-5): «novam orationis formam». 2023 Ep. 130, 21 (227, 376-378): «Nobis ergo verba necessaria sunt, quibus commoneamur et inspiciamus, quid petamus, non quibus Dominum seu docendum seu flectendum esse credamus». 2024 Enchir. 30, 115 (110, 12-15): «Proinde apud evangelistam Matthaeum septem petitiones continere dominica videtur oratio, quarum in tribus aeterna poscuntur, in reliquis quattuor temporalia, quae tamen propter aeterna consequenda sunt necessaria». Chapot, 119-120 vede in ciò la ripresa della distinzione tertullianea sulla struttura del Pater (De orat. 6, 1), pur riconoscendo l’originalità di Agostino: «En particulier elle reconnaît la dernière demande comme une quatrième requête de la seconde série, alors que le De oratione y voyait une simple reprise de la sixième demande» (p. 121). 2025 Enchir. 30, 116 (111, 36-50): «Evangelista vero Lucas in oratione dominica petitiones non septem sed quinque complexus est, nec ab isto utique discrepavit, sed quomodo istae septem sint intellegendae ipsa sua brevitate commonuit. Nomen quippe Dei sanctificatur in spiritu, Dei autem regnum in carnis resurrectione venturum est. Ostendens ergo Lucas tertiam petitionem duarum superiorum esse quodammodo repetitionem, magis eam praetermittendo fecit intellegi. Deinde tres alias adiungit, de pane cotidiano, de remissione peccatorum, de temptatione vitanda. At vero quod ille in ultimo posuit: Sed libera nos a malo, iste non posuit, ut intellegeremus ad illud superius, quod de temptatione dictum est, pertinere. Ideo quippe ait: Sed libera, non ait et libera, tamquam unam petitionem esse demonstrans: “Noli hoc, sed hoc”, ut sciat unusquisque in eo se liberari a malo quod non infertur in temptationem».
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elementi che contribuiscono ulteriormente a precisare il modello di preghiera tracciato da Agostino. In questo senso il pro nobis delle domande, da non intendere mai come un pro Deo, riafferma tendenzialmente la funzione circoscritta della preghiera vocale nell’ottica dell’Ipponate. L’invocazione iniziale è oggetto di una riflessione più specifica nel Discorso del Signore sulla montagna. Agostino la sfrutta qui per disegnare una «retorica» positiva dell’orazione, paragonabile nel suo aspetto dossologico alla topica tracciata da Origene in Orat XXXIII, osservando che in ogni supplica è bene conciliarsi dapprima la benevolenza di colui che può esaudirla. Ora, indirizzarsi a Dio come «Padre» significa dare anzitutto espressione alla lode di Dio. Questo spunto sembra essere originale, anche se il contesto ricalca, sia pure sempre in maniera autonoma, le argomentazioni sviluppate da Tertulliano, Cipriano ed Origene sulla novità dell’appellativo neotestamentario e cristiano di «Padre» rispetto alla prassi di preghiera dell’Antico Testamento2026. Analogamente ai suoi predecessori, anche per Agostino invocare Dio come Padre implica vivere autenticamente la condizione di «figli»; ma egli rimarca specialmente l’azione preveniente del dono di grazia, in forza del quale tale invocazione diventa possibile, senza che sia da ascrivere ai nostri meriti2027. Invece, la seconda parte dell’indirizzo del Pater sfocia in un’interpretazione dal sapore più apertamente origeniano, dal momento che anche l’Ipponate identifica i «cieli» con i «santi e i giusti» in cui Dio dimora, contrastando egualmente la nozione di una sua delimitazione spaziale2028. –––––––––––––––––– 2026 Serm. dom. m. II , 4, 15 (104, 305–105, 317): «Cum in omni deprecatione benivolentia concilianda sit eius quem deprecamur, deinde dicendum quid deprecemur, laude illius ad quem oratio dirigitur solet benivolentia conciliari, et hoc in orationis principio poni solet. In quo Dominus noster nihil aliud nos iussit dicere nisi: Pater noster qui es in caelis. Multa dicta sunt in laudem Dei, quae per omnes sanctas Scripturas varie lateque diffusa poterit quisque considerare cum legit; nusquam tamen invenitur praeceptum populo Israel, ut diceret: Pater noster, aut oraret Patrem Deum: sed Dominus eis insinuatus est tamquam servientibus, id est secundum carnem adhuc viventibus». Anche Agostino precisa il fatto che l’Antico Testamento non ignora Dio come «Padre», mentre è la condotta del popolo eletto che non corrisponde a quella di «figli». Il dossier dei luoghi scritturistici presenta analogie sia con Tertulliano (Is 1, 2; Gv 1, 12 in De orat. 2, 1) che con Origene (Is 1, 2 e Mal 1, 6 in Orat XXII, 1). Heidl, 232 sottolinea la citazione di Mal 1, 6 che accomuna l’Alessandrino all’Ipponate. 2027 Serm. dom. m. II, 4, 16 (106, 333-342): «Et quoniam quod vocamur ad aeternam haereditatem, ut simus Christi coheredes et in adoptionem filiorum veniamus (cfr. Rm 8, 17 e 23), non est meritorum nostrorum sed gratiae Dei, eamdem ipsam gratiam in orationis principio ponimus, cum dicimus: Pater noster. Quo nomine et caritas excitatur – quid enim carius filiis debet esse quam pater? – et supplex affectus, cum homines dicunt Deo: Pater noster, et quaedam praesumptio impetrandi quae petituri sumus, cum priusquam aliquid peteremus, tam magnum donum accepimus, ut sinamur dicere: Pater noster, Deo». 2028 Serm. dom. m. II , 5, 17 (107, 363-366): «Utatur ergo voce Novi Testamenti populus novus ad aeternam haereditatem vocatus et dicat: Pater noster qui es in caelis, id est in sanctis et iustis; non enim spatio locorum continetur Deus».
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Come si è detto sopra, nel commentare le singole petizioni Agostino si sforza sempre di mettere in luce l’aspetto del pro me / pro nobis nella Preghiera del Signore, a cominciare dalla domanda sulla santificazione del Nome. Con essa l’Ipponate intende regolarmente la sua venerazione e diffusione tra gli uomini, ai quali ciò reca propriamente giovamento, senza che Dio ne abbia alcun bisogno2029. Anche la seconda petizione riguarda la condizione dell’uomo, stimolato a crescere nel desiderio del Regno2030, mentre la terza contiene la richiesta di assecondare la volontà di Dio alla stessa maniera degli angeli2031. In genere, diversamente dalla stringatezza della Lettera a Proba, è proprio l’ultima delle prime tre petizioni ad attirare il maggior sforzo esegetico di Agostino, come vediamo sia dal Discorso del Signore sulla montagna sia dai Sermoni 56-592032. Nel commento a Mt 6 Agostino arriva addirittura a proporre quattro diverse spiegazioni del binomio «cielo e terra»: a) «angeli e uomini (santi)»2033, b) «giusti e peccatori»2034, c) «spirito e carne»2035, d) Cristo e Chiesa. Se le prime tre –––––––––––––––––– 2029 La sintetica formulazione di Ep. 130, 21 (227, 378-381) può valere a titolo rappresentativo: «Cum ergo dicimus: Sanctificetur nomen tuum, nos ipsos admonemus desiderare ut nomen eius, quod semper sanctum est, etiam apud homines sanctum habeatur, hoc est non contemnatur; quod non Deo, sed hominibus prodest». Cfr. Serm. dom. m. II, 5, 19; Serm. 56, 5 (157, 94-97): «Intellege: et pro te rogas. Hoc enim rogas, ut quod semper sanctum est in se, sanctificetur in te. Quid est sanctificetur? Sanctum habeatur, non contemnatur». 2030 Ep. 130, 21 (228, 383-384): «desiderium nostrum ad illud regnum excitamus, ut nobis veniat, atque nos in eo regnare mereamur». Per l’interpretazione di Serm. dom. m. II , 6, 20 cfr. Raikas. 2031 Ep. 130, 21 (228, 385-387): «nobis ab illo precamur ipsam oboedientiam, ut sic in nobis fiat voluntas eius, quemadmodum fit in caelestibus ab angelis eius». 2032 Cfr. ad esempio Serm. 57, 6 (181, 90-91): «Multis enim modis haec petitio intellegi potest, et multa sunt cogitanda in ista petitione». 2033 Serm. dom. m. II, 6, 21 (111, 449-455): «sicut est in angelis, qui sunt in caelis, voluntas tua, ut omnimodo tibi adhaereant teque perfruantur, nullo errore obnubilante sapientiam eorum, nulla miseria impediente beatitudinem illorum, ita fiat in sanctis tuis, qui in terra sunt, et de terra quod ad corpus attinet facti sunt, et quamvis in caelestem habitationem atque immutationem, tamen de terra assumendi sunt». 2034 Questa spiegazione considera in aggiunta due eventualità, recuperando il motivo ciprianeo della preghiera per i nemici (Cipriano, De dom. or. 17, citato da De dono persev. 3, 6). Cfr. Serm. dom. m. II , 6, 22 (112, 479-483): «faciant voluntatem tuam sicut iusti ita etiam peccatores, ut ad te convertantur; sive ita: Fiat voluntas tua sicut in caelo et in terra, ut sua cuique tribuantur; quod fiet extremo iudicio, ut iustis praemium peccatoribus damnatio retribuatur, cum agni ab haedis separabuntur». 2035 Cfr. Serm. dom. m. II, 6, 23 (113, 503-508), che risente più direttamente dell’orizzonte escatologico della vita beata: «Sed id orandum est, ut sicut in caelo et in terra fiat voluntas Dei, id est ut quemadmodum condelectamur legi Dei secundum interiorem hominem, ita etiam corporis immutatione facta huic nostrae delectationi nulla pars nostra terrenis doloribus seu voluptatibus adversetur». De dono persev. 3, 6 (PL 45, 997) richiama la spiegazione di Cipriano, De dom. or. 16: «Vult autem ille doctor et martyr, cae-
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interpretazioni trovano ampi riscontri in Tertulliano, Origene e Cipriano, con l’ultima Agostino si ricollega di fatto all’interpretazione origeniana, anche se per il tramite distinto del tema sponsale con la coppia «uomo e donna»2036. Il punto di contatto con l’Alessandrino risulta più nettamente avvertibile, perché negli ulteriori commenti Agostino privilegia la sola chiave ecclesiologica «Chiesa e nemici»2037. Anche nel secondo gruppo di domande notiamo una preferenza significativa dell’Ipponate, più direttamente rivelatrice del suo modo di guardare alla preghiera. Infatti, nella maggior parte dei casi è rivolta alla quinta petizione, in quanto implica un requisito essenziale per l’atto stesso di pregare. Da questo punto di vista, la spiegazione della quarta domanda è, in un certo senso, meno rilevante, sebbene Agostino si sia sforzato di offrire più di un’interpretazione. Senza interrogarsi sul pane supersubstantialis, dato che commenta la forma più comune con quotidianus, egli riprende nelle linee essenziali l’interpretazione fornita da Tertulliano e Cipriano con il riconoscere due livelli di significato: materiale e spirituale. Nella Lettera a Proba, con il primo intende la domanda del «pane» come richiesta della sufficientia, cioè quanto è strettamente necessario per vivere; con il secondo, rinvia alla richiesta del pane eucaristico secondo la prassi della comunione quotidiana in vigore nella chiesa d’Africa2038. Altrove egli aggiunge però un’ulteriore spiegazione di natura spirituale, recependo il «pane» come la Parola di Dio. Questa sembra essere l’interpretazione preferita dall’Ipponate che ci fa così intravedere un ulteriore punto di con––––––––––––––––––
lum et terram intellegi spiritum et carnem, et hoc nos orare ut voluntatem Dei re utraque concordante faciamus». 2036 Serm. dom. m. II , 6, 24 (113, 509-514): «Nec illud a veritate abhorret, ut accipiamus Fiat voluntas tua sicut in caelo et in terra: sicut in ipso Domino Iesu Christo ita et in Ecclesia, tamquam in viro, qui Patris voluntatem implevit, ita et in femina, quae illi desponsata est. Caelum enim et terra convenienter intellegitur quasi vir et femina, quoniam terra caelo fecundante fructifera est». Cfr. Orat XXVI, 3 (supra, nota 660). Anche Serm. 56, 8 (159, 145-149) attesta le diverse spiegazioni, insistendo sulla piena attuazione della volontà di Dio come il passaggio dalla concupiscentia alla caritas: «cum ergo hoc bellum transierit, omnisque concupiscentia in caritate fuerit commutata, nihil in corpore remanebit quod spiritui resistat, nihil quod dometur, nihil quod frenetur, nihil quod calcetur, sed totum per concordiam perget ad iustitiam, fit voluntas tua in caelo et in terra». 2037 Cfr. Serm. 56, 8 (159, 155-157): «Est et alius sensus pius valde. Moniti enim sumus orare pro inimicis nostris. Ecclesia, caelum est; inimici Ecclesiae, terra sunt»; Serm. 57, 6 (182, 100-102): «Ecclesia Dei coelum est, inimici eius terra sunt. Bene optamus inimicis nostris, ut credant et ipsi, et fiant christiani»; Serm. 58, 4 (202, 64-66): «Etiam sic bene intellegi potest: Fiat voluntas tua, sicut in coelo, ita et in terra: ut coelum ponamus Ecclesiam, quia portat Deum; terram vero infideles». 2038 Ep. 130, 21 (228, 387-393): «Cum dicimus: Panem nostrum quotidianum da nobis hodie; per id, quod dicitur hodie, significatur hoc tempore, ubi vel sufficientiam illam petimus a parte, quae excellit, id est nomine panis totam significantes vel sacramentum fidelium, quod in hoc tempore necessarium est, non tamen ad huius temporis, sed ad illam aeternam felicitatem assequendam».
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tatto dottrinale con l’Alessandrino2039. Esso è tanto più significativo nella misura in cui Agostino l’elabora con maggiore ampiezza proprio nel Discorso del Signore sulla montagna, lo scritto che sembra riecheggiare più da vicino l’impostazione di Orat. Un tratto «origeniano« affiora anche nell’approccio problematico proposto dall’Ipponate in questa sede. La quaestio è suscitata dalle prime due spiegazioni: da un lato, la richiesta di beni terreni contraddice in apparenza l’invito di Gesù a non darsi pena del cibo e del vestito (Lc 12, 22), mentre il modello di preghiera da lui inculcato esige invece un forte coinvolgimento interiore (Mt 6, 6)2040; dall’altro lato, la prassi eucaristica quotidiana non è condivisa dalle chiese orientali, laddove il Padrenostro è vincolante per tutti come regula orandi; inoltre, ammessa l’identificazione con il pane eucaristico, paradossalmente non si dovrebbe più pregare il Padrenostro dopo aver comunicato 2041. Dunque, solo la terza spiegazione, in relazione al nutrimento spirituale della Parola di Dio – con i suoi precetti da meditare e attuare quotidianamente nell’esistenza terrena – risulta essere la più adeguata2042. In tal modo Agostino ricupera la visuale interamente spirituale della quarta domanda che era tipica di Origene, sia pure ammettendo da ultimo la possibilità di servirsi delle altre due spiegazioni in collegamento con la terza2043. Se in seguito l’Ipponate lascia cadere tale richiesta, non trascura però di ribadire il primato dell’accezione spirituale di «pane quotidiano» anche nei Sermones –––––––––––––––––– 2039 2040
La preferenza è riconosciuta, fra gli altri, da Courtray, 42-43. Serm. dom. m. II, 7, 25 (114, 523-536): «Sed horum trium quid sit probabilius, considerari potest. Nam forte quispiam moveatur, cur oremus pro his adipiscendis quae huic vitae sunt necessaria, veluti est victus et tegumentum, cum ipse Dominus dicat: Nolite solliciti esse quid edatis vel quid induamini (Lc 12, 22). An potest quisque de ea re pro qua adipiscenda orat non esse sollicitus, cum tanta intentione animi oratio dirigenda sit, ut ad hoc totum illud referatur quod de claudendis cubiculis dictum est (cfr. Mt 6, 6), et illud quod ait: Quaerite primum regnum Dei, et haec omnia apponentur vobis (Mt 6, 33)? Non ait utique: Quaerite primum regnum Dei, deinde ista quaerite, sed: haec omnia, inquit, apponentur vobis, scilicet etiam non quaerentibus. Quomodo autem recte dicatur non quaerere aliquis quod ut accipiat intentissime Deum deprecatur, nescio utrum inveniri queat». 2041 Serm. dom. m. II, 7, 26 (115, 546-554): «Sed ut de istis, ut dictum est, nihil in aliquam partem disseramus, illud certe debet occurrere cogitantibus, regulam nos orandi a Domino accepisse, quam transgredi non oportet vel addendo aliquid vel praetereundo. Quod cum ita sit, quis est qui audeat dicere semel tantum nos orare debere orationem dominicam, aut certe, etiam si iterum vel tertio, usque ad eam tamen horam qua corpori Domini communicamus, postea vero non sic orandum per reliquas partes diei?». 2042 Serm. dom. m. II , 7, 27 (115, 557-559): «Restat igitur ut cotidianum panem accipiamus spiritalem, praecepta scilicet divina, quae cotidie oportet meditari et operari». Calderone, 64 rileva giustamente in Agostino la precedenza dell’interpretazione origeniana, cioè la spiegazione «intellettuale», sulla «materiale» e sull’«eucaristica». 2043 Serm. dom. m. II , 7, 27 (116, 578-583): «Si quis autem etiam [illa quae] de victu corporis necessario vel de sacramento dominici corporis istam sententiam vult accipere, oportet ut coniuncte accipiantur omnia tria, ut scilicet cotidianum panem simul petamus et necessarium corpori et sacratum visibilem et invisibilem Verbi Dei».
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ad competentes. Fra l’altro, commentando la quarta domanda del Pater nel Sermone 56, egli vi introduce l’idea di una costitutiva «mendicità» dell’uomo al cospetto di Dio, motivo già presente in Gregorio di Nissa e Cassiano, a dimostrazione dell’imprescindibilità dell’oratio2044 . A sua volta, il Sermone 57, mentre estende il significato spirituale all’insegnamento impartito da Agostino con la sua predicazione e alla vita di preghiera della chiesa, rafforza la dimensione terrena della richiesta del «pane quotidiano» rispetto alla condizione oltremondana che si contraddistinguerà per la fruizione diretta del Verbo nella contemplazione di lui. Qui, come pure nel Sermone 59, Agostino lascia intravedere più chiaramente il superamento del regime della parola, che condiziona l’espressione della preghiera nell’orizzonte della vita terrena2045. Il rilievo della quinta petizione agli occhi dell’Ipponate emerge soprattutto nei Sermones ad competentes e nell’Enchiridion, dal momento che la Lettera 130 annota brevissimamente come essa ci istruisca a un tempo sul contenuto della preghiera e sul modo in cui possiamo ottenerlo2046. Anche nel Discorso del Signore sulla montagna la trattazione risulta abbreviata, poiché nell’economia dello scritto Agostino ha già affrontato il tema della vendetta e del perdono, quantunque egli si premuri di segnalare l’importanza della quinta domanda a conclusione della sezione sulla preghiera2047. Invece, nei Sermoni 56-59 l’esegesi della quinta domanda è la dominante, al punto che essa tende a condizionare anche la spiegazione delle due restanti petizioni, come avviene in particolare nel Sermone 56 2048. –––––––––––––––––– 2044 Serm. 56, 9 (160, 171-173): «Quando dicis: Panem nostrum quotidianum da nobis hodie, profiteris te mendicum Dei. Sed noli erubescere: quantumlibet sit quisque dives in terra, mendicus Dei es». Il motivo ricorre spesso; ad esempio, in Serm. 123, 5 (PL 38, 686): «Qui panem quotidianum petis, pauper es, an dives?». Sulla sua presenza in Gregorio di Nissa e Cassiano cfr. rispettivamente note 1902 e 1983. 2045 Serm. 57, 7 (184, 146-154): «Hic enim sunt necessaria peregrinationi nostrae. Numquid, illuc quando venerimus, codicem sumus audituri? Ipsum Verbum visuri, ipsum Verbum audituri, ipsum manducaturi, ipsum bibituri, quomodo angeli modo. Numquid angelis codices sunt necessarii, aut disputatores, aut lectores? Absit! Videndo legunt: vident enim ipsam Veritatem, et illo fonte satiantur, unde nos inroramur. Dictum est ergo de pane quotidiano; quia in ista vita nobis est necessaria haec petitio». La stessa idea compare in Serm. 59, 6 (224, 78-87): «Cum autem vita ista transierit nec panem illum quaeremus quem quaerit fames, nec sacramentum altaris habemus accipere, quia ibi erimus cum Christo cuius corpus accipimus, nec verba ista nobis dici habent quae dicimus vobis nec codex legendus est, quando ipsum videbimus quod est Verbum Dei, per quem facta sunt omnia, quo pascuntur angeli, quo inluminantur angeli, quo sapientes fiunt angeli, non quaerentes verba locutionis anfractuosae sed bibentes unicum Verbum et inde impleti ructant laudes et non deficiunt in laudibus». 2046 Ep. 130, 21 (228, 394-395): «nos admonemus et quid petamus, et quid faciamus, ut accipere mereamur». 2047 Serm. dom. m. II, 8, 28. 2048 Agostino vi accorpa la sesta e la settima domanda come postilla della quinta. Cfr. Serm. 56, 18 (170, 415-420): «Propter illa quae iam facta sunt, ista tibi sententia cu-
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Propiziata dal contesto di una catechesi prebattesimale, essa verte sull’idea che la richiesta della remissione dei peccati costituisce la quotidiana mundatio, la «purificazione» di cui il cristiano ha bisogno giorno per giorno dopo il battesimo. Infatti, nessuno rimane immune dal peccato, grande o piccolo che sia, anche dopo il lavacro battesimale. Così, la preghiera ci ricorda sempre la nostra condizione di peccatori, bisognosi del perdono di Dio, mentre ci impegna a nostra volta al perdono e all’amore dei nemici. Con una metafora di facile comprensione per il suo uditorio, Agostino descrive l’azione purificatrice della preghiera come lo svuotamento quotidiano della sentina di una nave onde evitare che affondi, unendo altresì orazione ed elemosina nel segno di una vita cristiana pienamente coerente2049. Come l’Ipponate osserva ancora nell’Enchiridion, Gesù stesso è testimone dell’importanza della quinta domanda: dopo averla insegnata nel Padrenostro, egli è tornato ad inculcarla con un rinnovato invito – che suona come un «tuono» – a perdonare i peccati altrui, pena il mancato perdono dei propri da parte di Dio (Mt 6, 14-15)2050. A sua volta, il Discorso ––––––––––––––––––
rationis subvenit: Dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris. Propter illa quae potes incidere, quid facies? Ne nos inferas in tentationem, sed libera nos a malo. Ne nos inferas in tentationem, sed libera nos a malo: hoc est, ab ipsa tentatione». In Serm. 57, 11-12, la spiegazione della sesta riprende il motivo della quinta grazie all’idea che la magna tentatio da evitare sia la vendetta e il mancato perdono dei nemici. 2049 Serm. 56, 11 (162, 222-226): «qui autem baptizantur et tenentur in hac vita, de fragilitate mortali contrahunt aliquid, unde, etsi non naufragatur, tamen oportet ut sentinetur, quia, si non sentinatur, paulatim ingreditur unde tota navis mergatur. Et hoc orare sentinare est. Non tantum autem debemus orare, sed et eleemosynam facere, quia, quando sentinatur ne navis mergatur, et vocibus agitur et manibus». Il motivo figura anche nel testo più o meno contemporaneo (410-412 ca.) del Serm. 213, 9 (PLS II, 542): «Sed quoniam vivituri sumus in isto saeculo, ubi quis non vivit sine peccato, ideo remissio peccatorum non est in sola ablutione sacri baptismatis, sed etiam in oratione dominica et quotidiana, quam post octo dies accepturi estis. In illa invenietis quasi quotidianum baptismum vestrum». Basandosi su ciò Hammerling 2008b, 197, giunge ad attribuire un valore sacramentale alla Preghiera del Signore: «the Lord’s Prayer was a sacramental prayer for Augustine, a prayer of hope and forgiveness, grace and salvation, and the very extension of baptism into the everyday lives of believers». La necessità di una purificazione quotidiana era già stata inculcata da Cipriano, De dom. or. 12, in relazione però alla prima domanda. 2050 Enchir. 19, 74 (89, 69-75): «Qui cum docuisset orationem, hanc in ea positam sententiam vehementer commendavit dicens: Si enim dimiseritis hominibus peccata eorum, dimittet et vobis Pater vester caelestis peccata vestra; si autem non dimiseritis hominibus, nec Pater vester dimittet peccata vestra (Mt 6, 14-15). Ad tam magnum tonitruum qui non expergiscitur, non dormit sed mortuus est: et tamen potens est ille etiam mortuos suscitare». Lo stesso spunto si ritrova in Serm. 57, 12 (189, 258-261): «Magister et Salvator noster, cum doceret nos in hac oratione sex vel septem petitiones, nullam sibi assumpsit unde tractaret, et quam nobis vehementius commendaret, nisi hanc unam». Per un elenco dei numerosi sermoni in cui Agostino ha affrontato l’argomento cfr. Hammerling 2008b, 187. Il motivo è presente anche in Giovanni Crisostomo, Hom. in Matth. XIX, 6 (PG 57, 281), che rinvia ugualmente a Mt 6, 14: dei'xai boulovmeno" o{shn uJpe;r tou' pravgmato" poiei'tai th;n spoudhvn, kai; ijdikw'" aujto; tivqhsi, kai; meta; th;n eujch;n oujdemia'" a[llh"
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del Signore sulla montagna, riecheggiando un motivo di Gregorio di Nissa, osserva che la quinta è l’unica fra tutte le domande a istituire una sorta di «patto» con Dio2051. In seguito Agostino la sfrutterà anche nella polemica con i pelagiani per ricordare la costante confessione terrena della sua colpevolezza da parte della chiesa2052. Quanto alla sesta e alla settima petizione, l’una e l’altra ci inculcano anch’esse, secondo la Lettera a Proba, la consapevolezza del bisogno dell’aiuto divino2053. In particolare, Agostino vi dà valore alla settima domanda come la formulazione capace di compendiare al meglio la condizione e i sentimenti dell’orante cristiano, al punto di raccomandare il suo utilizzo come inizio, centro e clausola di ogni invocazione a Dio2054. Se ciò ricorda l’analoga indicazione di Cassiano, sia pure riferita alle parole di Gesù nel Getsemani2055, si noti però come con questa spiegazione la preghiera vocale tenda di nuovo a trapassare in una forma di orazione diversa, che si affida ormai ai «gemiti» e alle «lacrime». Ben più analitica è l’esposizione che l’Ipponate dedica alla sesta petizione nel Discorso del Signore sulla montagna dove non mancano ancora una volta sorprendenti analogie con la trattazione di Orat. Enunciato il problema della duplice resa latina del verbo greco eijsenevgkh/" («ne inducas» o «ne nos patiaris ––––––––––––––––––
ejntolh'" mevmnhtai h] tauvth". Il Crisostomo nota anche come Paolo, descrivendo il modo di pregare in 1Tm 2, 8, si preoccupi soprattutto del precetto di amare i nemici: oujde;n ou{tw" ejxezhvthsen wJ" th'" ejntolh'" tauvth" th;n fulakhvn (Hom. in Matth. XIX, 8 [PG 57, 284]). 2051 Serm. dom. m. II, 11, 39 (130, 867-875): «Sane non neglegenter praetereundum est, quod ex omnibus his sententiis, quibus nos Dominus orare praecepit, eam potissimum commendandam esse iudicavit quae pertinet ad dimissionem peccatorum in qua nos misericordes esse voluit, quod unum est consilium miserias evadendi. In nulla enim alia sententia sic oramus, ut quasi paciscamur cum Deo; dicimus enim: Dimitte nobis, sicut et nos dimittimus. In qua pactione si mentimur, totius orationis nullus est fructus». Anche qui si cita Mt 6, 14-15. Sulla presenza del tema nel Nisseno, che però rimarca il “condizionamento” di Dio ad opera di chi perdona, cfr. De or. dom. V (61, 12 ss.). 2052 Serm. 181, 7 (PL 38, 982): «Ubi es ergo, haeretice Pelagiane vel Caelestiane? Ecce tota Ecclesia dicit: Dimitte nobis debita nostra. Habet ergo maculas et rugas. Sed confessione ruga extenditur, confessione macula abluitur. Stat Ecclesia in oratione, ut mundetur confessione; et quamdiu hic vivitur, sic stat». 2053 Ep. 130, 21 (228, 396-400): «Cum dicimus: Ne nos inferas in tentationem, nos admonemus hoc petere, ne deserti eius adiutorio alicui temptationi vel consentiamus decepti, vel cedamus afflicti. Cum dicimus: Libera nos a malo, nos admonemus cogitare, nondum nos esse in eo bono ubi nullum patiemur malum». 2054 Ep. 130, 21 (228, 400-404): «Et hoc quidem ultimum quod in oratione dominica positum est, tam late patet, ut homo christianus in qualibet tribulatione constitutus in hoc gemitus edat, in hoc lacrimas fundat, hinc exordiatur, in hoc immoretur, ad hoc terminet orationem». Agostino lo ribadisce in Ep. 130, 23 (230, 445-448), per i contenuti che non si confanno al Padrenostro: «Quamobrem pudeat saltem petere, quae non pudet cupere; aut si et hoc pudet, sed cupiditas vincit, quanto melius hoc petitur, ut etiam ab isto cupiditatis malo liberet, cui dicimus: Libera nos a malo!» (si veda anche nota 2059). 2055 Cfr. supra, nota 1975.
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induci») 2056, anche Agostino chiarisce al pari di Origene come non si tratti di pregare per non essere tentati, bensì per non soccombere alla tentazione2057. Infatti, senza la «tentazione» intesa come «prova» nessuno può essere vagliato e questa prova assume per chi l’affronta un valore diagnostico, analogamente a quanto aveva sostenuto l’Alessandrino 2058. Nella Lettera a Proba lo sguardo retrospettivo, che spesso accompagna la conclusione dei commenti agostiniani sul Padrenostro, mette ancora in risalto la Preghiera del Signore come il paradigma e la norma della preghiera cristiana. Essa è il metro di giudizio e la sintesi vincolante per qualunque altra espressione orante. Non è tanto questione di forma per l’Ipponate, a parte la compendiosità sempre raccomandata, quanto piuttosto dei contenuti che vi sono riassunti in maniera esemplare. Come tale, il Padrenostro costituisce il modello per eccellenza della «preghiera spirituale»; chiunque si discosti da esso non può non pregare «in modo carnale» (carnaliter), all’opposto di coloro che, rinati nello Spirito, sono invece chiamati a pregare «in modo spirituale» (spiritaliter)2059. In questa riflessione troviamo non solo l’ulteriore conferma della piena adesione di Agostino al discorso eucologico fra II e V secolo, sempre impegnato ad approfondire la preghiera cristiana come «preghiera spirituale», ma – come si vedrà fra breve – anche la premessa per un’implicazione essenziale sulla natura «pneumatica» dell’autentica orazione che avvicina ancor di più l’Ipponate all’Alessandrino. Inoltre Agostino si riallaccia alla tradizione precedente anche per il fatto che riformula l’idea tertullianea del Padrenostro come compendio non solo del vangelo ma in generale di tutta quan–––––––––––––––––– 2056 Serm. dom. m. II, 9, 30 (119, 638-642): «Nonnulli codices habent inducas, quod tantundem valere arbitror; nam ex uno graeco quod dictum est eijsenevgkh/" utrumque translatum est. Multi autem in precando ita dicunt: Ne nos patiaris induci in tentationem, exponentes videlicet, quomodo dictum sit inducas». In proposito si veda Courtray, 51-59. 2057 Serm. dom. m. II, 9, 32 (120, 671–121, 674): «Non ergo hic oratur ut non temptemur, sed ut non inferamur in temptationem; tamquam si quispiam cui necesse est igne examinari non oret ut igne non contingatur, sed ut non exuratur». 2058 Serm. dom. m. II , 9, 31 (120, 655-661): «Quod itaque scriptum est: Tentat vos Dominus Deus vester, ut sciat si diligitis eum (Dt 13, 3), illa locutione positum est: Ut sciat, pro eo quod est: ut scire vos faciat; sicut diem laetum dicimus, quod laetos faciat, et frigus pigrum, quod pigros faciat, et innumerabilia huiusmodi, quae sive in consuetudine loquendi sive in sermone doctorum sive in Scripturis sanctis repperiuntur». Anche Serm. 57, 9 distingue fra tentatio e probatio e richiama l’utilità diagnostica della prova. 2059 Ep. 130, 22 (228, 406-229, 413): «Nam quaelibet alia verba dicamus, quae affectus orantis vel praecedendo format ut clareat, vel consequendo attendit ut crescat, nihil aliud dicimus, quam quod in ista dominica oratione positum est, si recte et congruenter oramus. Quisquis autem id dicit quod ad istam evangelicam precem pertinere non possit, etiamsi non illicite orat, carnaliter orat, quod nescio quemadmodum non dicatur illicite, quando quidem spiritu renatos non nisi spiritaliter deceat orare». Come ricorda Hammerling, 184, la normatività delle domande del Padrenostro ricollega Agostino a Cipriano, De dom. or. 9.
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ta la Scrittura. Egli si sforza di provarlo grazie ad un confronto sinottico fra passi dell’Antico Testamento – tratti dai libri sapienziali o dai salmi – e le singole petizioni dell’oratio dominica: anche se le formulazioni veterotestamentarie possono apparire diverse, in essa vi si si ritrovano tutti i loro contenuti2060. L’epilogo del commento nel Discorso del Signore sulla montagna sviluppa considerazioni in parte diverse. Dopo aver ripetuto la distinzione fra le prime tre petizioni e le quattro restanti in base allo schema consueto «vita eterna/vita terrena», Agostino ne trae una delle riflessioni più esplicite sul trascendimento del regime della parola e di altri «segni temporali» nella contemplazione eterna di Dio. A questo fine sfrutta in senso allegorico la differenza fra «cibo» e «bevanda»: il primo, anche se riferito al pane quotidiano come nutrimento spirituale, richiede l’esercizio della manducazione tramite parole e segni rinviando all’esistenza presente nella sua scansione temporale e con tutte le altre limitazioni inerenti ad essa; la seconda simboleggia al contrario la fruizione priva di lentezze e ostacoli che è propria della visione di Dio, percepibile dalla mente in tutta la sua immediatezza2061. Così, il desiderio della vita beata che alimenta e sostiene le manifestazioni della prassi orante prefigura in nuce l’approdo finale della preghiera al silenzio, che s’intravede peraltro sia nella spiegazione del Padrenostro come testo normativo per i contenuti (res) più che per le sue parole (verba) sia nelle forme d’orazione che l’Ipponate sembra caldeggiare particolarmente. Infatti, sebbene l’oratio dominica sia la preghiera quotidiana della chiesa – come Agostino ricorda ai catecumeni nel Sermone 58, invitandoli a recitarla ogni giorno una volta battezzati2062 –, –––––––––––––––––– 2060 Ep. 130, 22 (229, 430-434): «si per omnia precationum sanctarum verba discurras, quantum existimo, nihil invenies, quod non ista dominica contineat et concludat oratio. Unde liberum est aliis atque aliis verbis, eadem tamen in orando dicere, sed non esse debet liberum alia dicere». Al c. 29 la difficoltà a raccordare la preghiera di Anna con il paradigma dell’oratio dominica è risolta mediante l’applicazione ad essa della settima domanda (235, 570-573): «Sed oratio eius quomodo ad orationem illam dominicam pertineat, non facile reperitur, nisi quia in eo, quod ibi positum est: Libera nos a malo, non parvum malum videtur, et nuptam esse, et fructum carere nuptiarum». 2061 Serm. dom. m. II, 10, 37 (127, 805-818): «non quia spiritalis cibus non est sempiternus, sed quia iste, qui cotidianus dictus est in Scripturis, sive in strepitu sermonis, sive quibusque temporalibus signis exhibetur animae, quae omnia tunc utique non erunt, cum erunt omnes docibiles Deo et ipsam ineffabilem lucem veritatis non motu corporum significantes sed puritate mentis haurientes. Nam fortasse propterea et panis dictus est non potus, quia panis frangendo atque mandendo in alimentum convertitur, sicut Scripturae aperiendo et disserendo animam pascunt, potus autem paratus sicuti est transit in corpus, ut isto tempore panis sit veritas, cum cotidianus panis dicitur, tunc autem potus, cum labore nullo disputandi et sermocinandi quasi frangendi atque mandendi, opus erit sed solo haustu sincerae ac perspicuae veritatis». 2062 Serm. 58, 12 (212, 273-277): «Oratio vobis cotidie dicenda est, cum baptizati fueritis. In ecclesia enim ad altare Dei cotidie dicitur ista dominica oratio, et audiunt illam
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il modo di pregare trova in ogni caso la sua illustrazione emblematica, anche per il Padrenostro, nell’istruzione premessa ad esso da Gesù (Mt 6, 5-8). In conformità con questa, nel Discorso del Signore sulla montagna l’Ipponate ha tracciato un’immagine dell’atto orante che accentua fortemente il suo processo di interiorizzazione. Mediante la corrispondenza già evocata fra i cubicula e i corda in base a Mt 6, 6, la preghiera è chiamata ad estrinsecarsi nella sua modalità più adeguata come «esercizio spirituale», con l’attivazione di un’«anacoresi» sensoriale ed un intimo raccoglimento della mente in Dio. È il modello ben noto agli autori precedenti, primo fra tutti Origene, che ancora una volta fa capolino attraverso questo scritto agostiniano. Designata espressamente come oratio spiritalis, la preghiera s’indirizza al Padre, il quale si manifesta all’orante nell’intimità del cuore2063. In tal modo Agostino sembra parafrasare da vicino il testo matteano, ma in realtà l’iscrive nella sua visione di un’interiorità animata dalla presenza del Verbo, a immagine stessa del modello di Cristo orante che a propria volta è inabitato dal Padre2064. Ne abbiamo una testimonianza particolarmente eloquente nella decima omelia dei Tractatus in Ioannem (406-407), che allude a Mt 6, 6 con l’immagine della «stanza del cuore»: «Pregate senza esitazione, c’è chi ascolta: chi vi ascolta è dentro di voi. Non dovete levare gli occhi verso un determinato monte, non dovete levare lo sguardo alle stelle, al sole, alla luna. Non crediate di essere ascoltati se pregate rivolti al mare: dovete anzi detestare preghiere simili. Purifica piuttosto la stanza del tuo cuore; dovunque tu sia, dovunque tu preghi, è dentro di te colui che ti ascolta, dentro nel segreto, che il salmista chiama “seno” dicendo: La mia preghiera si ripercuoteva nel mio seno (Sal 34,13). Colui che ti ascolta non è fuori di te. Non ––––––––––––––––––
fideles. Non ergo timemus, ne minus diligenter eam teneatis: quia et si quis vestrum non poterit tenere perfecte, audiendo cotidie tenebit». 2063 Serm. dom. m. II , 3, 11 (101, 233–102, 247): «vos autem cum oratis, inquit, introite in cubicula vestra (Mt 6, 6). Quae sunt ista cubicula nisi ipsa corda, quae in psalmo etiam significantur, ubi dicitur: Quae dicitis in cordibus vestris, et in cubilibus vestris compungimini (Sal 4, 5)? Et claudentes ostia orate, ait, Patrem vestrum in abscondito. Parum est intrare in cubicula, si ostium pateat importunis, per quod ostium ea quae foris sunt improbe se immergunt et interiora nostra appetunt. Foris autem esse diximus omnia temporalia et visibilia, quae per ostium, id est per carnalem sensum, cogitationes nostras penetrant et turba vanorum fantasmatum orantibus obstrepunt. Claudendum est ergo ostium, id est carnali sensui resistendum est, ut oratio spiritalis dirigatur ad Patrem, quae fit in intimis cordis, ubi oratur Pater in abscondito. Et Pater, inquit, vester, qui videt in abscondito, reddet vobis» (Mt 6, 6). 2064 En. in Ps. 34, II, 5 (316, 24-30): «In se habebat quem deprecaretur: non erat ab illo longe, quia ipse dixerat: Ego in Patre, et Pater in me est (Gv 14, 10). Sed quia oratio ad ipsum magis hominem pertinet: secundum enim quod Verbum est Christus, non orat, sed exaudit; et non sibi subveniri quaerit, sed cum Patre omnibus subvenit: quid est: Oratio mea in sinum meum convertetur (Sal 34[35], 13), nisi, in meipso humanitas, in meipso interpellat divinitatem?».
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andare lontano, non levarti in alto come se tu dovessi raggiungerlo con le mani. Più t’innalzi, più rischi di cadere; se ti umili, egli ti si avvicinerà. Questo è il Signore Dio nostro, Verbo di Dio, Verbo fatto carne, Figlio del Padre, Figlio di Dio e Figlio dell'uomo, eccelso come Creatore e umile come Redentore; che ha camminato tra gli uomini, sopportando la debolezza umana, tenendo nascosta la potenza divina» 2065.
L’interiorizzazione dell’atto orante trova inoltre conferma nel forte ridimensionamento delle sue circostanze esteriori, il che fornisce un ulteriore parallelo con il pensiero di Origene. Anche Agostino relativizza la loro importanza, come vediamo dal Discorso del Signore sulla montagna, allorché riflette sull’usanza di pregare rivolti a oriente. Lungi dal restringere la presenza di Dio ad un luogo particolare, il gesto ha per lui un valore simbolico che è strettamente collegato a una finalità pedagogica. Infatti, la preghiera in direzione del luogo dove sorge il sole illustra il processo interiore di conversione all’essere trascendente di Dio, con il passaggio graduale dalle realtà terrene alle realtà celesti fino ad acquisire una nozione interamente spirituale della divinità nello specchio dell’anima2066. Identica preoccupazione affiora nella risposta ad una delle questioni poste da Simpliciano, che concerneva precisamente l’atteggiamento del corpo al momento di pregare. Per l’Ipponate non fa differenza che uno preghi –––––––––––––––––– 2065 Tr. in Io. 10, 1 (100, 20–101, 33): «Est qui exaudiat, ne dubitetis orare: qui autem exaudit, intus manet. Non in montem aliquem oculos dirigatis, non faciem in stellas aut solem aut lunam levetis. Non tunc exaudiri vos arbitremini, quando super mare oratis: imo detestamini tales orationes. Munda tantum cubiculum cordis; ubi fueris, ubicumque oraveris, intus est qui exaudiat, intus in secreto, quem sinum vocat cum ait: Et oratio mea in sinu meo convertetur (Sal 34[35], 13). Qui te exaudit, non est praeter te. Non longe vadas, nec te extollas, ut quasi attingas illum manibus. Magis si te extuleris, cades: si te humiliaveris, ipse appropinquabit. Hic Dominus Deus noster Verbum Dei, Verbum caro factum, Filius Patris, Filius Dei, Filius hominis: excelsus ut nos faceret, humilis ut nos reficeret, ambulans inter homines, patiens humana, abscondens divina» (tr. Gandolfo-Tarulli, 233-235). 2066 Serm. dom. m. II , 5, 18 (108, 382-402): «Cuius rei significandae gratia, cum ad orationem stamus, ad orientem convertimur, unde caelum surgit; non tamquam ibi habitet Deus, quasi ceteras mundi partes deseruerit qui ubique praesens est, non locorum spatiis, sed maiestatis potentia; sed ut admoneatur animus ad naturam excellentiorem se convertere, id est ad Deum, cum ipsum corpus eius, quod terrenum est, ad corpus excellentius, id est ad corpus caeleste, convertitur. Convenit etiam gradibus religionis et plurimum expedit, ut omnium sensibus et parvulorum et magnorum bene sentiatur de Deo. Et ideo qui visibilibus adhuc pulchritudinibus dediti sunt nec possunt aliquid incorporeum cogitare, quoniam necesse est caelum praeferant terrae, tolerabilior est opinio eorum, si Deum, quem adhuc corporaliter cogitant, in caelo potius credant esse quam in terra, ut cum aliquando cognoverint dignitatem animae caeleste etiam corpus excedere, magis eum quaerant in anima quam in corpore etiam caelesti, et cum cognoverint, quantum distet inter peccatorum animas et iustorum, sicut non audebant, cum adhuc carnaliter saperent, in terra eum collocare sed in caelo, sic postea meliore fide vel intellegentia magis eum in animis iustorum quam in peccatorum requirant».
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stando seduto o in piedi, coricato o prostrato. Quel che conta è la tensione interiore della mente al colloquio con Dio, tanto più che questa si crea da sé in qualunque situazione la solitudine di cui ha bisogno, spesso dimenticandosi della posizione del corpo o del luogo, specie quando le sopraggiunge d’improvviso qualcosa che suscita in lei «l’intenzione di pregare con gemiti ineffabili»2067. La trasparente allusione a Rm 8, 26 ci riconduce per finire alla Lettera 130, dove l’Ipponate conclude la sua trattazione proprio commentando il fondamentale passo paolino, che a questo punto giunge a dispiegare un influsso decisivo sull’immagine agostiniana della preghiera, mettendo in luce un suo tratto costitutivo. Le affermazioni dell’Apostolo dovettero creare difficoltà a Proba, come mostra l’iniziale spunto aporetico di Agostino. Ma è impensabile, a suo avviso, che Paolo o i destinatari ignorassero l’oratio dominica; semmai, l’«ignoranza» dichiarata dall’Apostolo riguarda l’incapacità a comprendere il valore provvidenziale delle tribolazioni, come mostra la richiesta di essere liberato dalla «spina nella carne» in 2Cor 12, 72068. In situazioni del genere il modello da seguire sempre è –––––––––––––––––– 2067 La questione riguardava l’interpretazione di 2Sam 7, 18. Cfr. De div. quaest. ad Simpl. II , 4 (87, 8-31): «Sive ergo propter Arcam Testamenti sive propter secretum locum, quod remotus ab arbitris, sive propter intimum cordis, ubi erat orantis affectus, convenienter dictum est: Sedit ante Dominum nisi forte quod sedens oravit hoc movet, cum et sanctus Elias hoc fecerit, quando pluviam orando impetravit (1Re 18, 42-45). Quibus ammonemur exemplis non esse praescriptum, quomodo corpus constituatur ad orandum, dum animus Deo praesens peragat intentionem suam. Nam et stantes oramus, sicut scriptum est: Publicanus autem de longinquo stabat (Lc 18, 13), et fixis genibus, sicut in Actibus Apostolorum legimus (cfr. At 7, 59; 20, 36), et sedentes, sicut ecce David et Elias. Nisi autem etiam iacentes oraremus, non scriptum esset in Psalmis: Lavabo per singulas noctes lectum meum, in lacrimis meis stratum meum rigabo (Sal 6, 7). Cum enim quisque orationem quaerit, collocat membra, sicut ei occurrerit accommodata pro tempore positio corporis ad movendum animum. Cum autem non quaeritur sed infertur appetitus orandi, cum aliquid repente venit in mentem quo supplicandi moveatur affectus gemitibus inenarrabilibus (cfr. Rm 8, 26), quocumque modo invenerit hominem, non est utique differenda oratio, ut quaeramus quo secedamus aut ubi stemus aut ubi prosternamur. Gignit enim sibi mentis intentio solitudinem et saepe etiam obliviscitur, vel ad quam caeli partem vel in qua positione corporis membra illud tempus invenerit». Vincent commenta così il ridimensionamento dei gesti di preghiera: «En face de la minutie parfois tatillonne d’un Origène ou d’un Tertullien, combien Augustin nous apparaît plus dégagé de la lettre et plus préoccupé de l’esprit!» (p. 67). Ma se ciò è vero di Tertulliano, non vale certo per Origene che invece condivide in larga misura l’impostazione agostiniana (cfr. supra, pp. 167 ss.). 2068 Ep. 130, 25 (231, 471–232, 485): «Cur ergo putamus hoc eum dixisse quod nec temere potuit nec mendaciter dicere, nisi quia molestiae tribulationesque temporales plerumque prosunt, vel ad sanandum tumorem superbiae vel ad probandam exercendamve patientiam, cui probatae et exercitatae clarior merces uberiorque servatur, vel ad quaecumque flagellanda et abolenda peccata, tamen nos nescientes, quid ista prosint, ab omni optamus tribulatione liberari? Ab hac ignorantia nec se ipsum Apostolus ostendit alienum, nisi forte quid oraret, sicut oporteret, sciebat, quando magnitudine revelationum ne extolleretur datus est illi stimulus carnis, angelus satanae, qui eum colaphizaret. Propter quod
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Gesù, che nella preghiera al Getsemani si rimette interamente al volere del Padre (Mt 26, 39)2069. Tuttavia, con un ampliamento di riflessione, il luogo paolino viene ad esemplificare in generale la difficoltà dell’orante, che non è in grado di farsi un’immagine adeguata della «vita beata», oggetto precipuo del suo desiderium. In rapporto a tale bene, che trascende ogni comprensione umana, egli non può non confessare l’impossibilità di domandare «ciò per cui» e «nel modo in cui conviene» pregare2070. In realtà, quella dell’Apostolo, di cui anche l’orante partecipa sul suo esempio, è una docta ignorantia, dal momento che essa è ammaestrata dallo Spirito2071. In tal modo l’Ipponate ripropone la risposta data da Paolo stesso alla sua «aporia» sul pregare, grazie all’idea di un intervento dello Spirito in aiuto dell’uomo e all’intercessione in suo favore «con gemiti ineffabili» (Rm 8, 26-27). Ciò non significa che lo Spirito stesso soffra intercedendo per i santi, bensì egli opera in modo che i santi invochino Dio con gemiti ineffabili, ispirando in loro il desiderio della vita beata2072. Dunque, per il tramite del luogo paolino, Agostino svela la radice più profonda dell’orazione cristiana, che in questa luce si evidenza ancor più come la risposta dell’uomo all’iniziativa preveniente di Dio. Egli fa propria così, pur con tutta la diversità del suo distinto quadro concettuale, l’idea origeniana dell’orazione come «impossibilità donata», tanto più urgentemente rivendicata dall’Ipponate con lo sviluppo della dottrina sulla ––––––––––––––––––
ter Dominum rogavit ut eum auferret ab eo, utique sicut oportet nesciens quid oraret. Denique Dei responsum cur non fieret quod vir tantus orabat, et quare fieri non expediret, audivit: Sufficit tibi gratia mea; nam virtus in infirmitate perficitur» (2Cor 12, 9). 2069 Ep. 130, 26 (232, 506–233, 514): «In talibus ergo quid oremus, sicut oportet, nescimus. Unde si aliquid, contra quod oramus, acciderit, patienter ferendo et in omnibus gratias agendo, hoc potius oportuisse, quod Dei non quod nostra voluntas habuit, minime dubitare debemus. Nam et huius modi exemplum praebuit nobis ille mediator, qui cum dixisset: Pater, si fieri potest, transeat a me calix iste, humanam in se voluntatem ex hominis susceptione transformans, continuo subiecit: Verum non quod ego volo, sed quod tu vis, Pater» (Mt 26, 39). 2070 Ep. 130, 27 (234, 531-537): «Verumtamen, quoniam ipsa est pax quae praecellit omnem intellectum (Fil 6, 7), etiam ipsam in oratione poscendo, quid oremus, sicut oportet, nescimus. Quod enim, sicuti est, cogitare non possumus, utique nescimus, sed quicquid cogitanti occurrerit, abicimus, respuimus, improbamus, non hoc esse, quod quaerimus, novimus, quamvis illud nondum quale sit noverimus». 2071 Ep. 130, 28 (234, 538-539): «Est ergo in nobis quaedam, ut ita dicam, docta ignorantia, sed docta spiritu Dei, qui adiuvat infirmitatem nostram». Secondo Antoni, 127, nella docta ignorantia «l’âme se reconnaît posée sous un regard qui la transcende et qu’elle est elle-même appelée à fixer». 2072 Ep. 130, 28 (234, 551-556): «Interpellare itaque sanctos facit gemitibus inenarrabilibus, inspirans eis desiderium etiam adhuc incognitae tantae rei quam per patientiam exspectamus. Quomodo enim narretur, quando desideratur, quod ignoratur? Nam utique, si omnimodo ignoraretur, non desideraretur et rursus, si videretur, non desideraretur nec gemitibus quaereretur».
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grazia in risposta alle tesi di Pelagio e dei suoi seguaci2073. Come argomenta la Lettera 194 (417), la preghiera non è un merito dell’uomo, bensì è da annoverare tra i «doni di Dio», essendo suscitata dall’intervento dello Spirito in colui che prega. A sostegno di ciò, Agostino ritorna sul luogo paolino ripresentando il motivo per cui non lo Spirito di per sé geme, ma coloro nei quali egli agisce2074. I loro «gemiti» danno espressione al bisogno fondamentale che l’uomo ha di Dio, ma è solo grazie al soccorso dello Spirito che egli arriva a pregare rettamente; pertanto Agostino aggiunge qui la preghiera all’elenco dei doni dello Spirito 2075. Essendo suscitato dallo Spirito, il «gemito» dell’orazione è inteso positivamente come l’anelito amoroso dell’anima alla visione di Dio. Così, nella sesta omelia del Commento al Vangelo di Giovanni (406-407), dove l’Ipponate spiega il motivo per cui lo Spirito è raffigurato mediante una colomba, il «gemito» dell’orante diventa la voce amorosa dell’anima-colomba che patisce la sua condizione di esule ed arde per il desiderio di abitare la patria celeste2076. Commentando da ultimo la Preghiera del Signore nello scritto antipelagiano Il dono della perseveranza (428-429) e sfruttando qui la lex orandi della chiesa a sostegno della lex credendi, ancora una volta Ago–––––––––––––––––– 2073 Cfr. ad esempio De dono persev. 7, 13 (PL 45, 1001): «Si ergo alia documenta non essent, haec dominica oratio nobis ad causam gratiae, quam defendimus, sola sufficeret: quia nihil nobis reliquit, in quo tamquam in nostro gloriemur. Siquidem et ut non discedamus a Deo, non ostendit dandum esse nisi a Deo, cum poscendum ostendit a Deo». 2074 Ep. 194, 16 (188, 7-19): «Si dixerimus meritum praecedere orationis, ut donum gratiae consequatur: impetrando quidem oratio quidquid impetrat, evidenter ostendit donum Dei esse, ne homo existimet a seipso sibi esse, quod si in potestate haberetur, non utique posceretur. Verum tamen ne saltem orationis putantur praecedere merita, quibus non gratuita daretur gratia – sed iam nec gratia esset, quia debita redderetur –, etiam ipsa oratio inter gratiae munera reperitur. Quid enim oremus, ait doctor gentium, sicut oportet, nescimus; sed ipse Spiritus interpellat pro nobis gemitibus inenarrabilibus (Rm 8, 26). Quid est autem, interpellat, nisi, interpellare nos facit? Indigentis enim certissimum indicium est interpellare gemitibus. Nullius autem rei esse indigentem fas est credere Spiritum sanctum.» 2075 Ep. 194, 18 (189, 23–190, 8): «Sicut ergo nemo recte sapit, recte intellegit, recte consilio ac fortitudine praevalet, nemo scienter pius est, vel pie sciens, nemo timore casto Deum timet, nisi acceperit Spiritum sapientiae et intellectus, consilii et fortitudinis, scientiae et pietatis et timoris Dei (Is 11, 2-3), nec habet quisquam virtutem veram, caritatem sinceram, continentiam religiosam, nisi per Spiritum virtutis, et caritatis, et continentiae (2Tm 1, 7), ita sine Spiritu fidei non est recte quispiam crediturus, nec sine Spiritu orationis salubriter oraturus. Non quia tot sunt spiritus, sed omnia haec operatur unus atque idem Spiritus dividens propria unicuique prout vult» (1Cor 12, 11). 2076 Tr. in Io. 6, 2 (53, 11-17): «Non ergo Spiritus Sanctus in semetipso apud semetipsum in illa Trinitate, in illa beatitudine, in illa aeternitate substantiae gemit; sed in nobis gemit, quia gemere nos facit. Nec parva res est, quod nos docet Spiritus sanctus gemere: insinuat enim nobis quia peregrinamur, et docet nos in patriam suspirare, et ipso desiderio gemimus». Cfr. anche Serm. 210, 7 (PL 38, 1051): «Huius enim spei tam gratum et gratuitum etiam pignus Spiritum Sanctum accepimus (2Cor 1, 22), qui in cordibus nostris inenarrabiles gemitus (Rm 8, 26) operatur sanctorum desideriorum».
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stino ricava dal passo paolino l’indicazione sulla preghiera come dono di Dio nello Spirito: «E qui comprendiamo che anche questo è un dono di Dio, il fatto che noi invochiamo Dio con cuore sincero e spiritualmente. Si rendano conto dunque di come s'ingannano quelli che pensano che deriva da noi, e non che ci viene dato, l’impulso di chiedere, di cercare, di bussare; essi dicono che in questo senso la grazia è preceduta dal nostro merito, mentre essa segue quando chiedendo riceviamo, cercando troviamo, bussando ci viene aperto. E non vogliono capire che è un dono divino anche il fatto che noi preghiamo, cioè chiediamo, cerchiamo, bussiamo. Infatti abbiamo ricevuto lo Spirito di adozione a figli, nel quale chiamiamo: Abba, Padre (Rm 8, 15)»2077.
La parabola conclusiva della riflessione agostiniana conferma la sostanziale compattezza della visuale della preghiera. Essa fa perno su alcuni motivi che ritornano costantemente nell’opera dell’Ipponate: da un lato, la dialettica dinamica fra desiderium e vita beata; dall’altro, la tensione ricorrente fra la parola e il silenzio. Nell’una e nell’altra prospettiva il rilievo antropologico dell’esperienza orante è sussunto nella dimensione teologica, che è insieme trinitaria, cristologica e pneumatologica e determina lo scenario essenziale della prassi di preghiera. Infatti, al fondo del desiderium in tutte le sue diverse e contraddittorie manifestazioni, prima che esso si orienti verso l’unica mèta in Dio, c’è l’iniziativa preveniente del Padre creatore per il tramite del Verbo e nello Spirito, che instilla nell’uomo la brama della dimora in Lui. Come tale, la preghiera dell’uomo è sempre una risposta all’appello di Dio, sebbene essa possa assumere configurazioni erronee o inadeguate e necessiti perciò di conformarsi al paradigma della «preghiera spirituale» che Agostino fa proprio con gli interpreti che l’hanno preceduto, non senza significative convergenze con Origene. Questa risposta orante si serve a sua volta di parole – traendo il suo modello vincolante dal Padrenostro, la preghiera insegnataci da Gesù –, ma il contenuto ultimo dell’orazione non può non sfuggire alla presa del discorso umano: la res per eccellenza di cui l’uomo è chiamato a «godere» (frui), Dio Trinità, si sottrae alla presa dei verba. Nel suo intimo dinamismo la preghiera è dunque chiamata per Agostino ad operare il trascendimento dalle parole della domanda al silenzio della contemplazione adorante. Ma nel disegnare la condizione dei risorti nella vita beata in Dio – –––––––––––––––––– 2077 De dono persev. 23, 64 (PL 45, 1032): «Ubi intellegimus, et hoc ipsum esse donum Dei, ut veraci corde et spiritaliter clamemus ad Deum. Attendant ergo quomodo falluntur, qui putant esse a nobis, non dari nobis, ut petamus, quaeramus, pulsemus: et hoc esse dicunt, quod gratia praeceditur merito nostro, ut sequatur illa, cum accipimus petentes, et invenimus quaerentes, aperiturque pulsantibus: nec volunt intellegere etiam hoc divini muneris esse, ut oremus, hoc est, petamus, quaeramus, atque pulsemus. Accepimus enim Spiritum adoptionis filiorum, in quo clamamus: Abba, Pater (Rm 8, 15)». Anche Serm. 348/A attesta la polemica con i pelagiani sull’interpretazione del Padrenostro.
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come fa nel Discorso 362 (410) – l’Ipponate ritrova lo spazio della preghiera interiore: tutto quanto l’agire dei risorti sarà allora un «Amen» e un «Alleluia», cantati però non «con i loro suoni fuggevoli, ma con il moto interiore dell’amore»2078. Non è comunque solo un’orazione ininterrotta fatta di lode e ringraziamento ma, si direbbe, anche di continua invocazione a Dio nell’attesa senza tempo che nasce dalla «sazietà insaziabile»della vita beata2079. Se l’uomo è anche per Agostino nella sua esistenza terrena un animal orans, continua ad esserlo nella vita ultraterrena in intima unione con il Verbo2080. 10. Epilogo: le consonanze origeniane del discorso eucologico fra II e secolo
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Lo scopo di questo capitolo conclusivo era di mettere in luce le consonanze ideali fra il pensiero di Origene e il discorso sulla preghiera nel cristianesimo antico, tanto a monte come a valle, rispettando nel contempo la fisionomia propria di ciascun interprete. Com’è emerso ripetutamente anche dalle pagine dedicate ad Agostino, i punti di contatto con la dottrina –––––––––––––––––– 2078 Serm. 362, 29 (PL 39, 1632-1633): «Tota actio nostra, Amen et Alleluia erit. Quid dicitis, fratres? Video quod auditis et gavisi estis. Sed nolite iterum carnali cogitatione contristari, quia si forte aliquis vestrum steterit et dixerit quotidie: Amen et Alleluia, taedio marcescet, et in ipsis vocibus dormitabit, et tacere iam volet: et propterea putet sibi esse aspernabilem vitam, et non desiderabilem, dicentes vobismetipsis: Amen et Alleluia semper dicturi sumus, quis durabit? Dicam ergo, si potero, quantum potero. Non sonis transeuntibus dicemus Amen et Alleluia, sed affectu animi. Quid est enim Amen? quid Alleluia? Amen, est verum: Alleluia, laudate Deum. Quia ergo Deus veritas est incommutabilis, sine defectu, sine provectu, sine detrimento, sine augmento, sine alicuius falsitatis inclinatione perpetua, et stabilis, et semper incorruptibilis manens; haec autem quae agimus in creatura et in ista vita, velut figurae sunt rerum per significationes corporum, et quaedam in quibus ambulamus per fidem; cum viderimus facie ad faciem quod nunc videmus per speculum in aenigmate (1Cor 13, 12), tunc longe alio et ineffabiliter alio affectu dicemus: Verum est; et cum hoc dicemus, Amen utique dicemus, sed insatiabili satietate». 2079 Antoni, 180 coglie, come al solito, con grande finezza questo punto: «la béatitude est repos dans la contemplation de Dieu et ce repos intègre comme modalité essentielle la prière, prière de louange bien sûr, mais aussi prière de supplication puisque ce repos, dans la terminologie d’Augustin, enveloppe non certes pas l’insatisfaction douloureuse du désir, mais “l’insatiabilité”». 2080 Antoni, 180-181: «Même dans la gloire, la déité excède toujours infiniment ce que l’âme peut en appréhender; on ne “s’ennuie pas” dans la gloire, parce que la fruitio Dei est inexhaustive par rapport à son objet. Il n’y a plus en revanche, de décalage entre l’âme et sa prière: en elle-même, par participation ontologique à l’essence expressive du Verbe, elle devient Amen à la gloire de Dieu». Serm. 255, 1 (PL 38, 1186) vede il canto dell’Alleluia come la continuità fra vita terrena e vita beata: «Et in hoc quidem tempore peregrinationis nostrae ad solatium viatici dicimus Alleluia; modo nobis Alleluia canticum est viatoris: tendimus autem per viam laboriosam ad quietam patriam, ubi retractis omnibus actionibus nostris, non remanebit nisi Alleluia».
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eucologica dell’Alessandrino sono numerosi, pur a prescindere da una conoscenza diretta di Orat o di altri scritti origeniani difficile da accertare nella maggior parte dei casi. Del resto, l’impressione generale che nasce dal nostro quadro ricava un’ampia convergenza di idee nonostante le caratteristiche peculiari dei singoli autori. Anche la svolta più importante con la riflessione di Evagrio e specialmente di Cassiano, che traggono entrambi ispirazione dalle nuove esperienze monastiche, non comporta una rottura bensì la modificazione e l’aggiornamento di un paradigma alla cui definizione i molteplici interpreti hanno concorso nel loro complesso. In questo senso si potrebbe rilevare anzitutto che proprio l’elaborazione di tale paradigma sembra procedere come impresa collettiva, per via d’inclusione e ampliamento anziché tramite approcci individuali e non correlati. L’impressione risulta meno generica, se – come abbiamo constatato più volte – si tiene presente il dipanarsi di dialoghi a più voci all’interno del più vasto discorso eucologico. Pensiamo, in ambito latino, ai molti riscontri emersi dal confronto fra Tertulliano, Cipriano ed Agostino, che attestano la continuità di una tradizione unitamente al suo sviluppo creativo. In ambito greco è lecito affermare altrettanto per i rapporti fra Clemente Alessandrino, Origene, Evagrio e Gregorio di Nissa, grazie ai quali è facile identificare numerosi elementi affini. In aggiunta, occorre notare che se Cassiano è testimone del dialogo con questa stessa tradizione nel mondo latino del V secolo, al di fuori di entrambe le aree culturali greca e latina, cioè in ambiente siriaco, Afraate apporta a sua volta un contributo di motivi convergenti. Né mancano ancora le combinazioni, a volte sorprendenti, fra ambito greco e latino sotto vari punti di vista, vuoi per la ricchezza dell’argomentazione scritturistica che accomuna Origene e Cipriano, rispetto a Clemente e Tertulliano, o per i risvolti antropologici dell’orazione rispettivamente in Gregorio di Nissa e in Agostino, per non parlare degli intrecci ideali fra quest’ultimo e Origene. Di fronte ad un discorso che appare largamente condiviso saremmo tentati di supporre – secondo la ben nota osservazione di von Balthasar sulla pervasività di Origene nella storia del pensiero cristiano – una sotterranea influenza dell’Alessandrino anche a proposito dell’immagine della preghiera2081. Ma sarebbe una spiegazione troppo facile e comunque contraddetta sia dall’anteriorità della dottrina eucologica di Tertulliano e Clemente, sia anche dall’apparente estraneità culturale e teologica di Afraate. In realtà, come abbiamo accennato in apertura di capitolo, il primo fattore di convergenze è il testo stesso delle Scritture che, sia pure in misura differenziata, sorregge l’argomentazione dei vari interpreti. Sotto tale profilo, il ventaglio dei luoghi scritturistici che alimentano la rifles–––––––––––––––––– 2081 Balthasar, 10: «Nessun altro nella Chiesa è rimasto così invisibilmente onnipresente come Origene».
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sione di Origene costituisce senza dubbio la piattaforma biblica più ampia e comprensiva. Come tale, è naturale che l’Alessandrino si presti ad essere in linea di principio il termine di comparazione più adeguato, sebbene a volte non sfrutti singoli luoghi posti in risalto da altri interpreti2082. È proprio grazie alla trama dei suoi riferimenti biblici che abbiamo richiamato più volte la rappresentatività di Origene, suscettibile peraltro di essere fatta valere nei confronti dei predecessori come degli autori successivi. Così, nel definire il modello dell’orazione cristiana, l’Alessandrino sfrutta una serie di paradigmi veterotestamentari di oranti che ritroviamo negli altri autori, sia pure generalmente in forma più ridotta e con un profilo subordinato rispetto all’uso di altri materiali biblici. Fanno eccezione Cipriano e soprattutto Afraate, che si dimostra capace di valorizzare autonomamente la testimonianza dell’Antico Testamento conferendole un’importanza esemplare non meno consistente. In questa stessa linea dovremmo poi rievocare come Origene si sia servito dei Salmi, il libro di preghiera per eccellenza dell’Antico Testamento, onde sviluppare la sua idea dell’orazione, se non fosse che lo studio dell’esegesi dei Salmi nell’Alessandrino presenta tuttora difficoltà per un approfondimento adeguato. Nonostante ciò, anche a questo proposito vari aspetti dell’interpretazione origeniana ci hanno permesso di verificare la loro presenza o meno negli altri autori. Qui è fuori discussione che l’apporto più cospicuo ed innovativo ci venga da Agostino, ma bisogna rammentare anche la ricaduta della prassi monastica sulla visuale dell’orazione alla luce dei Salmi con Evagrio Pontico e Cassiano: nel primo, mediante la teorizzazione della preghiera antirretica, nel secondo per quella della preghiera monologica. Ad ogni buon conto, se il richiamo ai luoghi veterotestamentari dà luogo a risultati diversi a seconda degli interpreti, l’operazione ermeneutica su cui tutti in un modo o nell’altro concordano è il loro utilizzo a supporto del modello della «preghiera spirituale». Peraltro non tutti sono disposti a riconoscerne fino in fondo il significato «pneumatico» alla stessa maniera di Origene, allineando la preghiera dell’Antico Testamento a quella di Gesù e della chiesa, come appare dal contrasto dell’oratio christiana con la vetus oratio in Tertulliano2083. L’importanza accordata dall’Alessandrino all’Antico Testamento si accompagna in lui al rilievo decisivo attribuito all’insegnamento e alla prassi di Gesù. Anche a tale riguardo è possibile stabilire un termine di confronto con gli altri interpreti, verificando le consonanze con la prospettiva di Origene. Se l’esemplarità di Gesù come maestro di preghiera si dà specialmente in relazione al Padrenostro, che quasi tutti i nostri autori hanno fatto oggetto di commento, ad esso si affianca l’illustrazione della sua –––––––––––––––––– 2082 2083
Ad esempio, Rm 12, 1, valorizzato tra l’altro nella letteratura apologetica. Cfr. pp. 520-521.
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prassi orante in base alle testimonianze evangeliche, proposta ugualmente a titolo di modello per l’orazione dei cristiani. Nella riflessione origeniana l’uno e l’altro aspetto rivestono un’importanza strutturale, che sembra trovare il suo riscontro più prossimo e ad un tempo affatto indipendente e originale nella dottrina eucologica di Agostino, non meno preoccupato di evidenziare anche lui l’impianto cristologico dell’orazione. Dalla decisività del riferimento a Gesù come maestro di preghiera e come orante deriva, in primo luogo, il riconoscimento del carattere distintivo dell’orazione cristiana come «preghiera spirituale». La spiegazione origeniana del Padrenostro persegue sistematicamente questo obiettivo, ma è lecito affermare che esso coincide con le intenzioni di tutti gli autori che abbiamo passato in rassegna, al di là di singole spiegazioni di segno diverso, specie in rapporto alla quarta petizione. Soprattutto, come avviene in generale per l’immagine della preghiera nell’Alessandrino, il riferimento normativo o addirittura disciplinare al Padrenostro rafforza l’idea della preghiera nella sua natura di domanda o supplica a Dio. È interessante perciò notare il diverso peso specifico che la Preghiera del Signore viene di fatto ad assumere in impostazioni che tendono a ridimensionare se non a superare l’aspetto dell’orazione come richiesta. Diversamente da Origene, questa tendenza si manifesta già in partenza con Clemente Alessandrino e ritorna successivamente, specie in Cassiano ed Agostino. Accanto ai passi evangelici, la fondazione scritturistica della preghiera si completa con i riferimenti agli altri scritti del Nuovo Testamento, fra i quali le lettere paoline occupano sicuramente il primo posto. Accanto a 1Ts 5, 17 e 1Tm 2, 8, Origene sfrutta soprattutto Rm 8, 26-27 quale luogo privilegiato per impostare il problema della preghiera e approdare all’idea che essa sia da intendere essenzialmente come un’«impossibilità donata» da Dio all’uomo. È in forza dello Spirito che possiamo non solo pregare autenticamente ma anche arrivare a comprendere la natura della preghiera, superando l’aporia paolina su «cosa» e «come» pregare, destinata in seguito ad essere soppesata nuovamente da Agostino2084. Grazie all’intervento dello Spirito, il modello dell’«orazione spirituale», illustrato dalla Preghiera del Signore e dall’esempio stesso di Gesù, trova la sua piena configurazione a livello di dottrina e di prassi. Ora, la centralità del luogo paolino nella visuale dell’Alessandrino trova conferme in numerosi altri interpreti, sebbene solo in Cassiano e in Agostino assuma un’incidenza altrettanto strutturale. Comunque, anche dove non troviamo sue menzioni dirette – ad esempio, negli scritti di Tertulliano e Afraate che abbiamo preso in esame –, affiora di fatto una componente «pneumatologica» dell’orazione che contribuisce a fissarne la natura di «preghiera spiritua–––––––––––––––––– 2084 Cfr. supra, p. 615. D’altra parte, l’Ipponate tende a privilegiare l’enunciazione del «problema della preghiera» alla luce di Mt 6, 8.
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le»2085. Ma l’influsso di Rm 8, 26-27 tende ad andare oltre tale caratterizzazione, che è sostenuta peraltro da elementi ulteriori di diversa natura (in particolare, la distinzione a livello antropologico fra carne e spirito con la relativa dialettica fra realtà materiali e spirituali come oggetto della domanda). Già in Origene, ma ancor più in Cassiano ed in Agostino, lo Spirito diviene la voce dell’orante: se nell’Alessandrino, sulla scia di un motivo appena accennato da Clemente2086, è lo Spirito che «grida» attraverso i santi (come avviene, per esempio, in Mosè), questo «grido» sfocia per Cassiano in una preghiera di natura estatica e per Agostino in un superamento del regime della parola nella preghiera delle lacrime o in un’orazione tutta interiore e mentale in intima unione con il Verbo. In tal modo l’insieme dei luoghi scritturistici dell’Antico e del Nuovo Testamento disegna la fisionomia essenziale della preghiera cristiana nei suoi contenuti e nelle sue forme, prima ancora di tutti gli altri fattori che hanno influito a vario titolo sulla riflessione sviluppatasi fra II e V secolo. Per contraddistinguere la specificità del modello costruito da Origene sul fondamento delle Scritture e largamente confermato dagli altri interpreti ci siamo avvalsi della nozione di «preghiera spirituale». D’altronde è adoperata dagli stessi autori antichi, a cominciare da Tertulliano e Cipriano fino ad arrivare ad Agostino, ancorché l’Alessandrino si sia sforzato di articolarla nella maniera più esaustiva possibile. La categoria condivisa assume nondimeno connotati diversi in relazione alle singole visuali dell’orazione, come attesta ad esempio lo scarso interesse, se non l’attenzione pressoché inesistente di Origene verso la richiesta dei beni materiali. La sua posizione tende a rimanere piuttosto isolata, se escludiamo Clemente e gli autori monastici come Evagrio o Cassiano, benché lo spazio riconosciuto generalmente alla domanda di benefici terreni non comprometta mai la priorità da attribuire alla domanda dei beni spirituali. L’abbiamo verificato da ultimo in Agostino ritrovandovi una tensione in questo senso, del tutto comparabile all’accento tipico dell’Alessandrino. Più rilevante sembra invece essere il diverso modo di guardare alla «preghiera spirituale» nell’ottica dell’atto orante. Le definizioni più comuni puntano sull’idea dell’orazione come oJmiliva, «colloquio» con Dio (Clemente, Afraate, Evagrio e Gregorio di Nissa)2087, ma vi è chi la designa anche come ajnavbasi", «ascensione» a Dio (Evagrio). Entrambi i termini godono di scarsa fortuna presso l’Alessandrino, anche perché egli tende a privilegia–––––––––––––––––– 2085 Sulle implicazioni pneumatologiche della dottrina eucologica di Tertulliano, nonostante l’assenza di rinvii espliciti a Rm 8, 26-27 in De orat., si veda supra, p. 396 e nota 1659. Né esse mancano in Afraate, come abbiamo mostrato alla p. 419. 2086 Cfr. p. 525 e nota 1735. Si veda in particolare l’immagine dell’atto orante in Strom. VII , 7, 49, 7 (supra, nota 1748). 2087 Come abbiamo visto a p. 562, anche Afraate asseconda la definizione della preghiera come oJmiliva diffusa tra gli autori greci.
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re le classificazioni tratte dalla Scrittura, in modo particolare l’elenco di 1Tm 2, 1, senza rifarsi direttamente a due definizioni correnti nel pensiero filosofico e teologico dell’antichità (che comunque non gli sono affatto sconosciute). Tuttavia, al di là dei tentativi problematici di operare delle distinzioni terminologiche – che peraltro abbiamo visto essere ricorrenti nel pensiero eucologico dei primi secoli ed intrecciate in vario modo con l’elenco paolino2088 –, quel che preme a Origene è mettere in luce la dinamica dell’atto orante come tale. Ora, anche su questo punto si può ben dire che vi è ampia consonanza di temi fra l’Alessandrino e i nostri autori. Ritornando a mettere in luce la radice scritturistica del discorso cristiano, essa è determinata in primo luogo dal richiamo a Mt 6, 6, che si presenta in generale come una costante da Tertulliano ad Agostino2089. L’indicazione evangelica sulla preghiera nel nascondimento si combina però, almeno nel caso di alcuni interpreti, con un approccio ispirato dalla prassi degli esercizi spirituali della filosofia antica. Infatti, solo Tertulliano, Cipriano ed Afraate sembrerebbero esserne rimasti immuni, benché anche per loro il passo matteano rappresenti un chiaro appello all’interiorità della preghiera, implicando – ad esempio – per Tertulliano una forma di preghiera silenziosa e per Afraate ancor più direttamente una «preghiera del cuore» nel silenzio della bocca2090. Insieme ad Origene, la dipendenza dalla tradizione degli esercizi spirituali caratterizza specialmente l’impostazione di Clemente, Evagrio, Cassiano ed Agostino, sebbene in misura diversamente connotata per ciascuno di essi. Più che nell’Alessandrino il suo influsso si avverte tendenzialmente in Evagrio, anche perché egli è l’autore che più di tutti ha elaborato una riflessione organica sulla psicologia della preghiera. Tuttavia, pure nel suo caso sarebbe eccessivo parlare di un condizionamento determinante da parte dei modelli filosofici, benché i punti di contatto appaiano più significativi. In definitiva, Origene –––––––––––––––––– 2088 Si veda ancora la classificazione di Agostino, a partire da 1Tm 2, 1, in Ep. 149, 2, 12-16 (CSEL 44, 359-363). Preso atto della difficoltà di rendere i termini in latino, l’Ipponate si sforza di precisare la distinzione fra dehvsei" e proseucaiv in rapporto alla preghiera liturgica: «Sed eligo in his verbis hoc intellegere, quod omnis vel pene omnis frequentat Ecclesia, ut precationes accipiamus dictas, quas facimus in celebratione Sacramentorum, antequam illud quod est in Domini mensa incipiat benedici: orationes, cum benedicitur et sanctificatur, et ad distribuendum comminuitur; quam totam petitionem fere omnis Ecclesia dominica oratione concludit». 2089 Solo Gregorio di Nissa sembrerebbe fare eccezione, ma De orat. dom. III (32, 15-18) contiene verosimilmente un’allusione a Mt 6, 6 non rilevata dall’editore: to; de; a[duton tou'to oujk a[yucovn ejsti oujde; ceirovkmhton ajlla; to; krupto;n th'" dianoiva" aujtou' tamei'on eja;n ajlhqw'" a[duton h/\ th/' kakiva/ kai; toi'" ponhroi'" logismoi'" ajnepivbaton (da notare che vari codici leggono: th'" kardiva" hJmw'n tamei'on). 2090 Per il rinvio a Mt 6, 6 in Tertulliano si veda p. 521, nota 1642. Quanto ad Afraate, cfr. pp. 558, 560. A sua volta, Cipriano applica il modello della preghiera intima e silenziosa alla preghiera comunitaria (p. 550).
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si presta ancora una volta ad essere il termine di confronto, nella misura in cui linguaggio, immagini e tecniche degli esercizi spirituali come processo di astrazione sensoriale e raccoglimento interiore appaiono strettamente compenetrati e trascesi nella prospettiva scritturistica sulla preghiera. Il risultato è sì un processo d’interiorizzazione dell’atto orante – che, come si è detto, tutti i nostri interpreti tendono a condividere (incluso lo stesso Cipriano) e trova la sua espressione più intensa in Agostino –, ma al tempo stesso esso coinvolge altre dimensioni costitutive per l’orazione cristiana. Le abbiamo già evocate parlando del suo nucleo cristologico e pneumatologico, ma dovremmo ancora estendere le implicazioni teologiche agli aspetti trinitari ed ecclesiologici. Lo sfondo trinitario dell’atto orante, ben presente nell’immagine della preghiera tracciata da Origene, risulta abbozzato in diversa misura da Tertulliano e Cipriano, laddove Agostino lo svilupperà nella forma più organica attraverso l’indagine sulla mente come ricerca dei vestigia della Trinità2091. Quanto ai risvolti ecclesiologici, dobbiamo di nuovo prendere atto della rappresentatività dell’Alessandrino, dal momento che la sua visuale dell’orazione, lungi dal risolversi in un intimismo individualistico, sfocia sempre in un atto di comunione, illuminato – come si è detto – sul piano cristologico, trinitario ed ecclesiologico. Infatti, angeli e santi della chiesa celeste partecipano dell’orazione insieme al fedele e alla chiesa terrena che prega. Questa visione comunionale incontra svariate analogie negli altri esponenti del discorso eucologico, benché non sembri ripresentarsi in nessuno di essi con una configurazione altrettanto strutturale e vigorosa. È vero che Tertulliano e soprattutto Cipriano danno risalto anch’essi alla vocazione comunitaria del cristiano racchiusa nel Padrenostro, ma in generale l’attenzione tende a focalizzarsi sull’orante individuale, come dimostra lo stesso esempio di Agostino, nonostante egli sia ben consapevole della cornice ecclesiale dell’orazione2092. Tuttavia, come evidenzia significativamente anche un autore monastico di tradizione anacoretica quale Evagrio, il risvolto interpersonale e comunitario della preghiera non viene mai ignorato. La ripresa in Origene del precetto evangelico del perdono e della riconciliazione fraterna, contemplato inoltre programmaticamente dalla quinta domanda del Padrenostro, mette in luce un requisito fondamentale dell’atto orante sul quale concordano, con grande varietà creativa di accenti, tutti gli esponenti del discorso eucologico nei primi secoli. Lo attesta da ultimo Agostino che fa proprio della quinta pe–––––––––––––––––– 2091 Il tema di De Trin. VIII-XV è analizzato lucidamente in rapporto alla preghiera da Antoni, 182-197 («La prière comme cogitatio Dei: ouverture sur le mystère trinitaire»). 2092 Basti ricordare nuovamente l’interpretazione agostiniana della preghiera dei Salmi come voce di Cristo e della chiesa nelle Enarrationes in Psalmos, su cui si veda Fiedrowicz.
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tizione del Pater uno degli assi della sua spiegazione della Preghiera del Signore, specie nelle catechesi ai candidati al battesimo. Se pochi sembrano condividere la singolare apertura che Origene dimostra verso la preghiera del peccatore e le condizioni alle quali essa può darsi, ciò dipende dal fatto che l’interesse è rivolto primariamente a tracciare il profilo di un orante virtuoso e potenzialmente santo, esigenza che peraltro l’Alessandrino condivide senza incertezze, specie in Orat. L’ethos dell’orante interviene poi come via per risolvere il problema fondamentale del rapporto tra preghiera e vita, in conformità con il precetto paolino a «pregare ininterrottamente» (1Ts 5, 17). Pure su questo punto la risposta formulata dall’Alessandrino acquista un valore emblematico dei diversi modelli elaborati dalla dottrina eucologica del primo cristianesimo in vista di assicurare un’oratio continua. L’idea origeniana di una preghiera che s’intreccia con le opere, superando la distinzione se non la frattura tra i tempi dedicati all’orazione e la vita ordinaria per attuare un’esistenza in costante rapporto con Dio, appare in continuità con la visuale clementina della devozione del cristiano perfetto2093, mentre si combina con lo sviluppo in atto delle ore di preghiera come la cornice quotidiana delle espressioni oranti del fedele, già evidenziato dagli scritti di Tertulliano e Cipriano2094. Se i due autori africani lasciano già intravedere l’espandersi di un orizzonte onnicomprensivo di preghiera nella vita di ogni giorno, questo è per eccellenza l’obiettivo degli interpreti monastici come Evagrio e Cassiano, interessati entrambi a garantire la continuità di una prassi orante nella condizione monastica, che per il secondo sfocia più direttamente in una tecnica apposita2095. Diversa è la risposta di Agostino, seppure convergente con il fine auspicato, poiché l’Ipponate richiama l’attivazione del desiderium come alimento perenne della manifestazione della preghiera. In definitiva, l’insieme delle consonanze ideali mostra come la riflessione di Origene sia iscritta in profondità nella trama del discorso cristiano sulla preghiera fra II e V secolo. Pur senza farne il “codice genetico” delle dottrine eucologiche del cristianesimo antico, essa contempla ampiamente i loro motivi principali. Questi emergono, come si è visto, da un’agenda tematica che è dettata in primo luogo dal “manifesto scritturistico” della preghiera cristiana, inteso particolarmente da Origene in tutta la sua articolazione comprensiva dei testi dell’Antico e del Nuovo Testamento, con al centro il paradigma del Padrenostro. Sotto tale aspetto l’apporto dell’Alessandrino rimane ineguagliato, pur considerando la ricchezza degli sviluppi successivi sia nei singoli autori sia anche nel loro –––––––––––––––––– 2093 2094
Lo gnostico per Clemente vive sempre alla presenza di Dio (cfr. supra, p. 536). Sull’orizzonte di preghiera che contraddistingue la vita del cristiano secondo Tertulliano e Cipriano, si veda rispettivamente pp. 527 e 552. 2095 Cassiano sembra essersi confrontato con il problema dell’oratio continua ancor più di Evagrio (cfr. supra, p. 597).
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complesso. Se la dimensione pastorale del pensiero di Origene risulta a prima vista meno immediatamente percepibile, diversamente da quel che vediamo in figure come Tertulliano o Cipriano, Gregorio di Nissa o Agostino, la sua riflessione ci appare comunque sempre ispirata dalla preoccupazione di comprendere ed attuare l’atto orante nella sua forma più autentica, evitando il rischio di ogni banalizzazione concettuale o pratica. Benché Agostino si associ più di tutti gli altri interpreti all’Alessandrino nel riconoscere con lui la preghiera fondamentalmente quale dono di Dio e frutto della grazia, Origene rimane per eccellenza il testimone della preghiera come “problema”, vista cioè come esperienza sempre paradossale ed agonica, accessibile nella sua espressione genuina solo in quanto diviene un’«impossibilità donata».
CONCLUSIONE
LA PREGHIERA DI ORIGENE
«Vult nos tales esse Deus, ut quasi dii cum Deo loquamur» (H37Ps II, 3) 2096
1. Le confessioni di un uomo di preghiera Uno studio d’insieme sulla preghiera secondo Origene risulterebbe monco, se rinunciasse a disegnare pur sommariamente la sua figura di orante. Fin dall’introduzione abbiamo segnalato come elemento distintivo del profilo spirituale il fatto che l’Alessandrino non si sia limitato a riflettere e scrivere sulla preghiera, ma si sia spinto a pregare in prima persona2097. Che l’esegeta, il teologo e il predicatore siano in lui inseparabilmente legati all’uomo di preghiera, lo provano le numerose esternazioni oranti. Esse accompagnano un po’ tutta l’opera, benché s’intensifichino soprattutto nel momento omiletico che meglio si presta a mettere in luce questo aspetto. Ovviamente non è il caso di esaminare ancora una volta la cornice orante della predicazione, che dovrebbe essere emersa abbastanza chiaramente dalla nostra indagine; essa peraltro ci è apparsa conforme strutturalmente alle analoghe manifestazioni che affiorano in altri scritti introducendo più direttamente ad un’«esegesi orante»2098. Piuttosto c’interessa adesso rilevare più da vicino le condizioni che danno occasione all’esprimersi di una soggettività orante da parte del predicatore. Non è fuori luogo al riguardo parlare di «confessioni» di Origene, senza respingere come impropria l’associazione d’idee con l’uso del termine in Agostino, insieme all’accezione penitenziale che esso ha anche presso l’Alessandrino. In effetti, nella sua opera non mancano i passi di natura personale, se non strettamente autobiografica, suscettibili di rientrare a vario titolo nel genere della confessio. Più che al tramite linguistico esplicito, che solo a volte trapela nell’originale greco o nei testi latini2099, l’apertura di un discorso –––––––––––––––––– 2096 2097 2098
Cfr. nota 1088. Cfr. p. 8. Sulla cornice orante della predicazione si veda supra, pp. 371-385. Quanto allo sviluppo di un’«esegesi orante» nei commentari, l’abbiamo messa in luce soprattutto in CMt (pp. 329-358). 2099 Ad esempio, HIer XIX, 11 attesta l’uso di oJmologw' come ammissione d’inca-
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Conclusione
in chiave personale è affidata (specialmente in contesto omiletico) al passaggio dal soggetto plurale al soggetto singolare. A seconda dei casi, esso innesca un ricordo, una confidenza, un’ammissione di debolezza o incapacità, uno sfogo oppure una valutazione più individuale ed eventualmente “arbitraria”. Così il predicatore può richiamare un’esperienza personale o fare appello ad un’esegesi offerta in altre circostanze che gli fa comodo rammentare nuovamente, rafforzando nel contempo il suo status d’interprete della Scrittura, come avviene altrove quando Origene introduce un’autocitazione, rimandando il lettore ad uno degli scritti precedenti e valutandone all’occorrenza l’apporto specifico2100. In generale non si tratta per l’Alessandrino di dar adito ad un’intimità estemporanea e gratuita con il pubblico dei suoi ascoltatori e/o lettori: l’individualità soggettiva evocata, anziché rappresentare una divagazione o una sosta rispetto al compito esegetico, appare didascalicamente funzionale al suo svolgimento. Lo vediamo, ad esempio, dall’incertezza professata dal predicatore nella I Omelia su Ezechiele, al momento d’iniziare la spiegazione delle visioni del profeta2101, mentre nella I Omelia su Numeri egli dichiara di non essere all’altezza del commento di questo libro biblico e ancor più di quello del Deuteronomio2102. D’altra parte, proprio le ricorrenti esitazioni o gli interrogativi dell’interprete delle Scritture mettono a nudo il cuore stesso dell’impresa intellettuale e letteraria di Origene, rivelandoci la sua consapevolezze delle sfide e difficoltà con cui deve fare i conti. In sostanza, queste “confessioni esegetiche” racchiudono senza dubbio un risvolto personale, capace di aiutarci a comprendere l’atteggiamento interiore con cui l’Alessandrino ha affrontato l’arduo compito di commen––––––––––––––––––
pacità a spiegare il testo, senza l’aiuto della forza di Gesù (supra, nota 1150). Cfr. l’equivalente confiteor in HGn XVI, 5 (nota 1262); HEz I, 11 (334, 12-13. 22-25): «Quis potest ista minutatim exponere? Quis ita est capax Spiritus Dei, ut haec sacramenta dilucidet? [...] Confiteor libenter a sapiente et fideli viro dictam sententiam, quam saepe suscipio: de Deo et vere dicere periculum est. Neque enim ea tantum periculosa sunt quae falsa de eo dicuntur, sed etiam quae vera sunt et non opportune proferuntur dicenti periculum generant». Origene si rifà alle Sentenze di Sesto anche in CPs 1-25 Prol. (Epiph., Pan. 64, 7, 2). 2100 Come esempio di confidenza del predicatore al suo uditorio, che nel contesto argomentativo, acquista di fatto valore di testimonianza, si veda HIos XIV, 2 (379, 5-7): «Ego quidem cum in locis Sidonis aliquotiens demoratus sum, numquam comperi duas esse Sidonas, unam magnam et aliam parvam». Anche il caso dei ricordi attiene di norma l’operazione esegetica, come mostrano le illustrazioni addotte alla nota 734. Per un esempio significativo di autocitazione con valutazione critica si veda il richiamo a CGn in CC VI, 51. 2101 HEz I, 11 (335, 23-27): «Haec in prooemio de interpretationibus visionum aestuans animus est locutus et ambigens quae sileat, quae proferat, quae leviter tacta dimittat, quae ex his manifestius, quae obscurius exponenda sint, si tamen potuerimus implere quod cupimus». 2102 HNm I, 3 (7, 23-27): «Ego enim vere imparem me iudico ad enarranda mysteria, quae liber hic continet Numerorum; multo autem inferiorem ad illa, quae Deuteronomii volumen includit».
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tare la Bibbia misurando gli ostacoli davanti a sé, le sue forze ed i risultati raggiunti. Molte delle confessioni che preludono a manifestazioni oranti rientrano tendenzialmente nello stesso schema, per cui non diversamente dalle altre esternazioni personali mirano in primo luogo ad assecondare l’interpretazione delle Scritture; ma è innegabile che anch’esse ci aprano uno spiraglio sull’«io» più intimo e nascosto dell’Alessandrino. Tanto più che, unendo il bisogno di comprensione spirituale alle esigenze di una prassi virtuosa, non di rado affiancano all’esame autocritico dell’esegeta l’acuto riconoscimento dell’inadeguatezza del cristiano, il quale si accusa di non riuscire a vivere pienamente in coerenza con la Parola di Dio. Ne abbiamo una testimonianza eloquente nella XII Omelia su Esodo, dove il predicatore fa precedere l’esortazione conclusiva da un esame di coscienza che rivela la sua ambizione di lode e la dipendenza dall’apprezzamento altrui. «Io rimprovero me stesso, giudico me stesso, accuso le mie colpe. Coloro che ascoltano, vedano da sé come valutare se stessi. Io al momento dico che finché sono servo di qualcuna di tali cose, non mi sono ancora convertito al Signore. [...] Anche se non sono sopraffatto dall’amore del denaro, anche se non mi opprime la sollecitudine per i possessi e le ricchezze, tuttavia sono desideroso di lode e perseguo la gloria degli uomini, pendendo dai loro volti e dalle loro parole, chiedendomi che cosa il tale pensi di me, come il tale mi consideri, se io gli rechi dispiacere o gli piaccia. Finché ricerco tutto ciò, sono ancora servo di queste cose. Ma io vorrei, in considerazione di ciò, agire almeno in modo da poter diventare libero, ed essere sciolto dal giogo di questa vergognosa servitù, pervenendo a quella libertà a cui ci esorta l’Apostolo dicendo: Voi siete stati chiamati a libertà, non fatevi schiavi degli uomini (Gal 5, 13; 1Cor 7, 23). Ma chi mi darà tale affrancamento? Chi mi libererà da questa servitù oltremodo vergognosa, se non colui che ha detto: Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero (Gv 8, 36)? Ma so bene che il servo non può essere affrancato, se non servendo fedelmente ed amando il Signore. Perciò anche noi serviamo fedelmente e amiamo il Signore Dio nostro con tutto il cuore, tutto l’animo e tutta la nostra forza, per essere affrancati da Gesù Cristo, suo Figlio e nostro Signore» 2103. –––––––––––––––––– 2103 HEx XII, 4 (268, 4-25): «Ego me ipsum corripio, me ipsum iudico; ego meas culpas arguo; viderint qui audiunt, quid de semet ipsis sentiant. Ego interim dico quod, donec alicui horum deservio, non sum conversus ad Dominum. [...] Etiamsi me amor pecuniae non superat, etiamsi possessionum et divitiarum cura non stringit, laudis tamen cupidus sum et gloriam sector humanam, si de hominum vultibus et sermonibus pendeo, quid de me ille sentiat, quomodo me ille habeat, ne illi displiceam, si illi placeam, donec requiro ista, servus horum sum. Sed volebam ex hoc saltim satis agere si possim liber fieri, si possim iugo foedae huius servitutis absolvi et pervenire ad libertatem secundum Apostoli commonitionem dicentis: In libertate vocati estis, nolite fieri servi hominum (Gal 5, 13; 1Cor 7, 23). Sed quis mihi dabit hanc manumissionem? Quis me ab hac servitute turpissima liberabit, nisi ille qui dixit: Si vos Filius liberaverit, vere libere eritis (Gv 8, 36)? At enim scio quia servus non potest libertate donari, nisi fideliter serviens, nisi Dominum diligens. Et ideo etiam nos fideliter serviamus et ex toto corde et ex toto animo
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Anche se la confessione, che si presenta più immediatamente come ammissione di colpevolezza, fa spazio solo obliquamente a un’intenzione orante, con l’auspicio all’affrancamento da questa forma di schiavitù ricalcato sulle parole di Paolo in Gal 5, 13 e 1Cor 7, 23, essa illumina bene le condizioni che più frequentemente muovono Origene a pregare, senza con ciò sottovalutare il suo valore paradigmatico per la comunità dei fedeli. Di tenore simile è anche il passo della XVI Omelia su Genesi, nella quale l’Alessandrino si fa nuovamente accusatore di se stesso, per non avere ancora messo in pratica l’appello di Gesù ad una sequela integrale rinunciando a tutti i propri beni2104. Nella VII Omelia su Ezechiele, ad ulteriore conferma di un tratto che contraddistingue particolarmente questo ciclo di sermoni, Origene torna ad accusarsi davanti alla comunità di Cesarea di essere incoerente, poiché siede anche lui sulla cattedra di Mosè, alla stregua di uno scriba ed un fariseo (cfr. Mt 23, 2), ed invita perciò i fedeli ad ignorare la sua condotta prestando invece ascolto alle sue parole 2105. 2. L’auspicio di una fecondità spirituale Le preghiere in prima persona di Origene nascono dunque di norma sull’onda di una confessione relativa al compito di interprete delle Scritture e al suo rapporto con la comunità in ascolto, laddove ciò implica anche l’elemento autocritico della veridicità e attendibilità del predicatore in base alla sua condotta di vita. Nell’attestare difficoltà e carenze sotto l’uno e l’altro punto di vista, l’Alessandrino si volge ad una domanda di aiuto, che esprime il bisogno del sostegno e della guida di Dio, per poter intendere la Parola, spiegarla agli uditori e farla fruttificare nella propria e nella loro vita. Molte delle invocazioni oranti, indirette o esplicite, nascono dal desiderio di partecipare più a fondo dell’inesauribile dinamismo spirituale che è insito nella Parola ispirata. L’obiettivo più alto, in chiave personale, auspicato dall’esegeta sarebbe poter offrire a Dio la sua stessa interpretazione delle Scritture, assimilandola di fatto a un’offerta di preghiera2106. Come egli dichiara nella IV Omelia su Levitico, «meditare giorno e notte la legge del Signore (Sal 1, 2) e ritenere a memoria tutte le Scritture» equivarrebbe per lui a «offrire al Signore il memoriale del suo sacrificio»2107. ––––––––––––––––––
et ex tota virtute nostra diligamus Dominum Deum nostrum, ut mereamur libertate donari a Christo Iesu Filio eius domino nostro». 2104 HGn XVI, 5 (p. 409 e nota 1262). 2105 HEz VII, 3 (393, 15-16): «Mihi ipsi qui in ecclesia praedico, laqueos saepe tendit, ut totam ecclesiam ex mea conversatione confundat. [...] Iste sermo de me est, qui bona doceo et contraria gero, et sum sedens super cathedram Moysi quasi scriba et Pharisaeus». 2106 Ciò non contrasta con l’idea origeniana dell’«offerta» o del «sacrificio» a Dio come restituzione di un dono ricevuto da lui (nota 2). 2107 HLv IV, 9 (tr. Danieli, 95).
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Con identica preoccupazione, nella XI Omelia su Numeri Origene esprime il desiderio che tra le sue parole ci sia almeno qualcuna suscettibile d’indurre l’«angelo che presiede alla chiesa» a presentarla come sacrificio gradito a Dio; ma egli dubita che ciò possa avvenire e si augura se non altro la grazia di non meritarsi una condanna per il proprio discorso 2108. Di tenore analogo è l’auspicio, contenuto nella XIII Omelia su Esodo e tradotto qui espressamente in una preghiera a Gesù, di riuscire a contribuire all’arredamento del tabernacolo almeno con l’offerta di peli di capra (Es 26, 7), se non gli sarà possibile farlo con l’oro, l’argento e le gemme delle sue parole, evitando in tal modo di restare del tutto infecondo: «Signore Gesù, concedimi di poter meritare qualcosa di permanente nel tuo tabernacolo. Se fosse possibile, io opterei perché ci fosse qualcosa di mio nell’oro con cui è fabbricato il propiziatorio o ricoperta l’arca o è fatto il candelabro luminoso e le lampade. Oppure, se non ho dell’oro, possa essere trovato capace di offrire almeno dell’argento che serva per le colonne o le loro basi, o se non altro meriti di avere nel tabernacolo un po’ di bronzo, con il quale si formano i cerchi e tutte le altre cose che descrive la Parola di Dio. Oh, potessi essere uno dei capi e offrire gemme per ornare l’omerale e il razionale del sommo sacerdote. Ma dato che queste cose sono al di sopra di me, possa io meritare almeno di avere i peli di capra nel tabernacolo di Dio, pur di non rimanere digiuno e infecondo in tutto»2109.
Anche nella XIX Omelia su Geremia la sollecitudine ad edificare la comunità attraverso la predicazione attira l’auspicio del predicatore per sé e per i fedeli ad innalzarsi e a «levare gli occhi in alto» (cfr. Is 37, 23), secondo il gesto tipico dell’orante, arrivando a configurare la spiegazione omiletica come un momento di preghiera2110. In queste e altre dichiarazioni oranti ciò che preme sempre ad Origene è la capacità di far fruttificare la Parola di Dio, nell’intelligenza spirituale dei suoi contenuti e nei com–––––––––––––––––– 2108 HNm XI, 5 (86, 8-17): «Et si mererer ego hodie magnum aliquem et summo pontifice dignum sensum proferre, ita ut ex his omnibus, quae loquimur et docemus, esset aliquid egregium, quod summo sacerdoti placere deberet, poterat fortasse fieri, ut angelus, qui praeest ecclesiae, ex omnibus dictis nostris eligeret aliquid et loco primitiarum Domino de agello mei cordis offerret. Sed ego me scio non mereri nec conscius mihi sum, quod talis aliquis sensus inveniatur in me, quem dignum iudicet angelus, qui nos excolit, offerre pro primitiis vel pro primogenitis Domino. Atque utinam tale sit, quod loquemur et docemus, ut non pro verbis nostris condemnari mereamur; sufficeret nobis haec gratia». 2109 HEx XIII, 3 (273, 22–274, 4): «Domine Iesu, praesta mihi ut aliquid monumenti habere merear in tabernaculo tuo. Ego optarem, si fieri posset, esse aliquid meum in illo auro, ex quo propitiatorium fabricatur vel ex quo arca contegitur vel ex quo candelabrum fit luminis et lucernae. Aut si aurum non habeo, ut argenti saltim aliquid inveniar offerre, quod proficiat in columnas vel in bases earum, certe vel aeris aliquid habere merear in tabernaculo, unde circuli fiant et cetera, quae sermo Dei describit. Utinam autem mihi esset possibile unum esse ex principibus et offerre gemmas ad ornatum pontificis humeralis et logii. Sed quia haec supra me sunt, certe vel pilos caprarum habere merear in tabernaculo Dei, tantum ne in omnibus ieiunians et infecundus inveniar». 2110 HIer XIX, 13 (nota 1438).
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portamenti virtuosi, secondo la lezione della parabola dei talenti (Lc 19, 12-27) sfruttata ripetutamente a questo fine. Ad esempio, nella XX Omelia su Geremia si augura di riuscire a «moltiplicare» il «talento» delle Scritture, siano queste i vangeli o le lettere di Paolo, i profeti o la legge2111. Per realizzare la crescita spirituale desiderata, Origene e i propri uditori dovrebbero lasciarsi compenetrare intimamente da quel fuoco che arde dentro le Scritture, secondo l’immagine evocata innumerevoli volte dall’Alessandrino nel ricordo della scena di Gesù e i discepoli a Emmaus. Conformemente ad essa la I Omelia su Salmo 38 fonde l’auspicio di preghiera a livello personale con quello per la comunità, formulando a due riprese il desiderio di acquisire parole di fuoco tali da accendere il cuore dell’interprete e del suo uditorio e muoverli ad una prassi conforme2112. «Io medito le parole del Signore e mi esercito frequentemente in esse, ma non so se sono tale che nella mia meditazione un fuoco esca da ogni parola di Dio, accenda il mio cuore e infiammi la mia anima perché osservi ciò che medito. Adesso parlo con le parole di Dio, ma come vorrei che esse ardessero prima nel mio cuore e poi nella mente degli uditori, che fossero come le parole che diceva Gesù, di cui coloro che l’avevano ascoltato dicevano: Non ardeva forse il nostro cuore quando ci spiegava le Scritture per la via (Lc 24, 32)? Volesse il cielo che anche adesso, mentre spieghiamo le Scritture divine, il nostro cuore si riscaldasse dentro di noi e nella nostra meditazione si accendesse un fuoco sì da affrettarci ad operare ciò che ascoltiamo e leggiamo»2113. «Ma donde potrà venirmi questo fuoco della lingua dentro il cuore in modo che io possa pronunciare un discorso con una lingua di fuoco e far sì che un fuoco veloce si accenda alle mie parole nei cuori degli ascoltatori e accusi colui che ha peccato e il mio discorso divenga per lui un supplizio, in modo che bruciato e infiammato dalle mie parole si volga a penitenza capace di operare in lui una stabile salvezza per opera della tristezza secondo Dio, accolta a seguito del rimprovero della parola di Dio? Oh, potessi accendere ogni anima dei miei ascoltatori, in modo che chiunque sia consapevole di sé, non sopportando l’incendio del nostro discorso, ma infiammato dentro di sé in tutte le sue viscere, distrugga più velocemente le macchie dei vizi nascosti dentro di lui»2114. –––––––––––––––––– 2111 2112
HIer XX, 3 (nota 1174). Cfr. Monaci Castagno, 65-71 («Il predicatore: un fuoco che brucia e che illu-
mina»). 2113 H38Ps I, 7 (342, 3–344, 17): «Et ego meditor eloquia Domini et frequenter in ipsis me exerceo, sed nescio si talis sum, ut in meditatione mea ex unoquoque sermone Dei ignis procedat et accendat cor meum et inflammet animam ad ea quae meditor observanda. Et ego nunc loquor sermones Dei, sed optarem ut primo in meo corde, secundo quoque in auditorum mentibus exardescerent: sicut erant illi sermones quos loquebatur Iesus, de quibus dicebant illi qui audierant: Nonne cor nostrum erat ardens in nobis cum in via aperiret nobis Scripturas? (Lc 24, 32). Utinam et nunc adaperientibus nobis Scripturas divinas concalesceret cor nostrum intra nos et in meditatione nostra accenderetur ignis et concitaremur in opus eorum quae audimus et legimus». 2114 H38Ps I, 7 (346, 41-54): «Sed unde mihi hoc ut linguae ignis veniat in cor
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Altrove, a significare ugualmente la domanda a Dio per assicurare l’efficacia spirituale delle sue parole, Origene ricorre alle metafore della «spada» e dei «dardi», come vediamo dalla XV Omelia su Giosuè, dove prega per non lasciare mai inoperosa «la spada della Parola di Dio» agendo sul cuore degli ascoltatori in vista della loro purificazione2115. Se – come dichiara la XIII Omelia su Esodo – il compito del predicatore è duplice, ad immagine del fuoco che brucia ed illumina, in molte occasioni l’Alessandrino si augura con il sostegno di Dio di poter assolvere il primo, prima di procedere ad attuare anche il secondo2116. 3. La necessità di una purificazione La preghiera che Origene formula a beneficio del suo uditorio investe anche la sua persona, come si è già intravisto nelle confessioni in cui si autoaccusa di colpe e manchevolezze. La necessità della purificazione si fa dunque sentire anche per lui ed è la condizione imprescindibile perché possa esercitare il ministero della predicazione e predisporre dentro il proprio cuore una dimora per accogliere Dio. Come per gli auspici di una fecondità spirituale, anche le richieste di purificazione fanno spesso ricorso ad un repertorio caratteristico di immagini, privilegiando in particolare la scena della lavanda dei piedi nell’ultima cena (Gv 13, 4-12). L’Alessandrino la richiama lungamente nell’VIII Omelia su Giudici, ricomprenden––––––––––––––––––
meum et de lingua ignea ego quoque proferam sermonem, ut ex me velox sermonibus meis accendatur ignis in cordibus auditorum et arguat eum qui peccavit et efficiatur ei sermo meus supplicium, ut adustus et inflammatus sermonibus veniat in paenitentiam, quae salutem stabilem operatur ex tristitia quae secundum Deum est, quam ex verbi Dei increpatione suscepit? Atque utinam possim ita accendere omnem animam auditorum, ut quicumque sibi conscius est, non ferens nostri sermonis incendium, sed omnibus intra se visceribus inflammatus, velocius consumeret latentes intrinsecus vitiorum sordes». Si veda inoltre in HLv V, 3 l’auspicio del predicatore affinché un fuoco divino bruci la sua terra liberandola da triboli e spine. 2115 HIos XV, 6 (392, 23-26): «mihi autem praestet Dominus numquam negligere opera Domini nec auferre spiritalem gladium verbi Dei a sanguine contrariarum virtutum et mortificare eas in unoquoque auditorum. Interficiuntur autem in vobis ita demum, si his auditis earum opera non agatis». Cfr. anche HIos VIII , 7 (343, 18-23): «Utinam et ego modo, dum loquor ad vos verbum Dei, cor peccatoris pulsare possim! Quod si fecero, certum est quod gladio oris mei percutiam fornicationem, percutiam malitiam, reprimam furorem et si qua alia sunt mala in ore gladii, id est oris mei sermone restinguam et non relinquam ex iis, qui salvus fiat, neque qui effugiat». 2116 Sull’azione purificatrice si veda, ad esempio, HEz III, 4 (353, 4-5): «Praesta mihi, Christe, ut disrumpam omnia cervicalia in animarum consuta luxuriam». Quanto all’immagine dei «dardi», cfr. H37Ps I, 2 (262, 29-264, 33): «hi, si his auditis quae loquimur, recte et fideliter audiant et compungatur cor eorum ex iaculis verborum nostrorum et transfixi talibus iaculis doleant et conversi ad paenitentiam dicant: Domine ne in furore tuo... (Sal 37[38], 2)».
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do alla luce del gesto di Gesù la sua attività di commentatore delle Scritture a servizio della comunità ed indicando l’uno e l’altra come bisognosi dell’aiuto del Signore. «Vieni, Signore Gesù, Figlio di Dio, ti prego: deponi le vesti (Gv 13, 4) che hai indossato per me e versa l’acqua nel catino e lava i piedi (Gv 13, 5) dei tuoi servi, rimuovi le impurità dei tuoi figli e delle tue figlie. Lava i piedi della nostra anima, affinché anche noi, imitando te e seguendo te, deponiamo le vecchie vesti e diciamo: Di notte ho deposto la mia veste, come l’indosserò ancora? (Ct 5, 3), e di nuovo diciamo: Ho lavato i miei piedi, come li insozzerò? (Ct 5, 3). Infatti, non appena avrai lavato i miei piedi, possa tu farmi riposare con te, perché possa udire da te: Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri (Gv 13, 13-14). Anche io adesso voglio lavare i piedi dei miei fratelli, lavare i piedi dei miei condiscepoli. E perciò prendo l’acqua (cfr. Is 12, 3), che attingo dalle fonti di Israele (cfr. Sal 67[68], 27), anzi che spremo dal vello d’Israele. Ora infatti spremo l’acqua dal vello del libro dei Giudici e in un altro tempo l’acqua dal vello di Regni, l’acqua dal vello di Isaia o Geremia; e la verso nel catino della mia anima, concependo il significato nel mio cuore, e accolgo i piedi di coloro che si presentano e si preparano ad essere lavati. E per quanto ne abbia la forza, desidero lavare i piedi dei miei fratelli e compiere il mandato del Signore, affinché coloro che ascoltano siano purificati dalle macchie dei peccati, affinché rigettino da sé ogni impurità dei vizi ed abbiano i piedi mondi, con i quali accingersi a preparare l’evangelo della pace (Ef 6, 15) e tutti quanti, purificati mediante la parola in Cristo, non siano scacciati dal talamo dello sposo per le vesti sordide, ma rivestiti di candide vesti, con i piedi mondi e il cuore puro dimoriamo nel convito dello sposo, il Signore nostro Gesù Cristo»2117. –––––––––––––––––– 2117 HIud VIII, 5: «Veni, precor, Domine Iesu fili Dei, exue te vestimenta, quae propter me induisti, et accingere propter me et mitte aquam in pelvem et lava pedes servorum tuorum, dilue sordes filiorum et filiarum tuarum. Lava pedes animae nostrae, ut nos te imitantes et te sectantes exuamus nos vetera vestimenta et dicamus: noctu exui me vestimentum meum, quomodo induam illud?, et iterum dicamus: lavi pedes meos, quomodo sordidabo eos? Statim namque ut laveris pedes meos, etiam recumbere me facias tecum, ut audiam abs te: vos vocatis me Domine et magister; et recte dicitis, sum enim. Si ergo ego Dominus et magister lavi pedes vestros, et vos alterutrum lavate pedes. Volo et ego nunc lavare pedes fratrum meorum, lavare pedes condiscipulorum meorum. Et propterea accipio aquam, quam haurio de fontibus Istrahel, immo quam exprimo de Istrahelitico vellere. Exprimo enim nunc aquam de vellere libri Iudicum et alio tempore aquam de vellere Regnorum et aquam de vellere Esaiae vel Hieremiae; et mitto eam in pelvem animae meae, concipiens sensum in corde meo, et accipio pedes eorum, qui se praebent et praeparant ad lavandum, et, in quantum praevaleo, lavare cupio pedes fratrum meorum et complere mandatum Domini, ut in verbo doctrinae purgentur auditores a sordibus peccatorum, ut abiciant a se omnem immunditiam vitiorum et mundos habeant pedes, quibus recte ingrediantur ad praeparationem Evangelii pacis, ut omnes simul in Christo purificati per verbum non abiciantur de thalamo sponsi pro sordidis indumentis, sed candidi vestibus, loti pedibus, mundi corde recumbamus in convivio sponsi, ipsius Domini nostri Iesu Christi, cui est gloria et imperium in s.s.A.» (514, 24-515, 23).
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In questo passo ed altri simili – ad esempio l’intenzione di preghiera contenuta nella I Omelia su Isaia2118 – sarebbe sbagliato pensare semplicemente ad una forma di “parenesi”, per la quale Origene dispone invero di molteplici mezzi2119; al contrario, diversamente dall’auspicio accennato nella trattazione parallela della VI Omelia su Isaia, abbiamo a che fare con una vera e propria esternazione orante del predicatore, che tradisce il suo anelito spirituale2120. Essa è affidata, per così dire, a una preghiera “a cuore aperto”, indirizzata ancora una volta a Gesù, per invocare la venuta del Verbo e predisporsi ad accoglierlo dentro di sé. Questo è ugualmente l’intento della preghiera che compare nella V Omelia su Isaia, dove prelude al commento della visione del profeta (Is 6, 1-3). Anch’essa si riallaccia fra l’altro all’episodio della lavanda dei piedi, formulando una supplica a Gesù dopo un crescendo di sollecitazioni a pregare rivolte all’uditorio e, conformemente al modello più comune delle confessioni oranti dell’Alessandrino, un’autoaccusa del predicatore che si dichiara bisognoso dell’intervento purificatore di Gesù, come Isaia lo è stato ad opera del Serafino prima di poter farsi testimone della gloria di Dio2121. «Prego che anche a me sia mandato un Serafino il quale, preso con le molle un carbone ardente, purifichi le mie labbra (cfr. Is 6, 6), e perché dico: labbra? Isaia era santo, e perciò furono purificate solo le sue labbra, poiché era caduto solo con le labbra, cioè nel discorso; ma io non sono tale da poter dire: “ho labbra impure” (Is 6, 5); temo di avere impuro il cuore, impuri gli occhi, impuri gli orecchi, impura la bocca, e fino a che pecco in tutte queste membra, sono tutto impuro! Se guardo una donna con concupiscenza, ho commesso adulterio con lei nel mio cuore (cfr. Mt 5, 28): ecco gli occhi impuri! Se dal mio intimo escono pensieri malvagi, adulterii, fornicazioni, false testimonianze (cfr. Mt 15, 19), ecco il cuore impuro! Come sono belli i piedi di coloro che evangelizzano la pace, che evangelizzano il bene! (Is 52, 7). Ma temo che, nella corsa verso il male, abbia impuri i piedi. Tendo a Dio le mie mani, e forse, distogliendo il suo volto dice: Se stendete le mani, distolgo da voi il mio volto (Is 1, 15). Chi dunque mi purifica? Chi lava i miei piedi? Vieni, Gesù, ho sporchi i piedi, per me diventa servo, metti la tua acqua nel cati–––––––––––––––––– 2118 HIs I, 4 (246, 24–247, 8): «Deferatur ergo mihi de altario caelesti forfex, ut tangat labia mea. Forfex Domini si tetigerit labia mea, mundat ea (cfr. Is 6, 6-7). Et si mundaverit ea et circumciderit vitiis [...] aperiam verbo Dei os meum nec ulterius sermo immundus exiet ex ore meo [...]. Ego autem precor, ut veniens Seraphim mundet labia mea». 2119 Contro l’opinione espressa da Fürst-Hengstermann (Origenes. Die Homilien zum Buch Jesaja, 244, nota 86). È significativo che l’esegesi della lavanda dei piedi in CIo XXXII, 9, 100-101 non dia luogo ad una manifestazione orante, benché sia accompagnata da un’applicazione parenetica. 2120 HIs VI, 3 (273, 2-4): «Utinam et ego accipiam nunc aquam, quae possit animae vestrae pedes lavare, ut unusquisque dicat, cum fuerit lotus: Lavi pedes meos, quomodo inquinabo eos? (Ct 5, 3)». 2121 Due sono gli inviti a pregare indirizzati dapprima alla comunità. Cfr. HIs V, 2 (nota 1151).
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Conclusione
no, vieni, lava i miei piedi (cfr. Gv 13, 5). So che è temerario quello che dico, ma temo la minaccia di colui che dice: Se non ti laverò i piedi, non avrai parte con me (Gv 13, 8); dunque: Lava i miei piedi, perché io abbia parte con te! Ma perché dico: Lava i miei piedi? Lo può dire Pietro, che non aveva bisogno se non che gli fossero lavati i piedi, giacché era tutto puro; ma, quanto a me, che sono stato lavato una volta per tutte, ho bisogno di quel battesimo del quale il Signore afferma: Ho un altro battesimo del quale devo essere battezzato (Gv 13, 10)» 2122.
Con la sua invocazione a Gesù, Origene vuole suscitare un clima intenso di preghiera nella comunità di Cesarea, più numerosa del solito in un giorno di venerdì, come testimoniano gli ulteriori inviti all’uditorio che la seguono da presso; fra l’altro, egli esorta a pregare Dio per la venuta del Verbo, anche se si ha timore a farlo in quanto peccatori2123. Al tempo stesso, anche questa nuova manifestazione orante conferma i tratti che abbiamo già messo in luce precedentemente. La preghiera dell’Alessandrino mira sempre a trarre il massimo giovamento possibile dalla Parola di Dio, che si dà quando essa viene a noi, ed a sgomberare di conseguenza tutto quanto possa esserle di ostacolo nel proprio cuore. 4. L’attesa della venuta del Verbo Il desiderio di una fecondità spirituale nel segno della parola e della vita, insieme al bisogno di purificazione personale, convergono nella mèta –––––––––––––––––– 2122 HIs V, 2 (264, 12–265, 4): «Precor, ut mittatur etiam ad me Seraphim et apprehenso de forfice carbone purget labia mea. Et quid dico labia? Isaias sanctus erat et ideo tantum labia eius purgata sunt, quia labiis tantum, id est sermone, deliquerat. Ego vero non sum talis, ut possim dicere: “Immunda labia habeo”; metuo, ne immundum cor habeam, immundos oculos, immundas aures, immundum os. Quamdiu in omnibus istis pecco, totus immundus sum. Si videro mulierem ad concupiscendum, moechatus sum eam in corde meo. Ecce immundos oculos. Si de pectore meo exeant cogitationes pessimae, adulteria, fornicationes, falsa testimonia, ecce immundum cor. Quam formosi pedes evangelizantium pacem, evangelizantium bona! Ego vero timeo, ne currens ad mala immundos pedes habeam. Extendo ad Deum manus meas, et forte avertens faciem suam dicit: Si extenderitis manus, avertam faciem meam a vobis. Quis ergo me mundat? Quis lavat pedes meos? Iesu, veni, sordidos habeo pedes, propter me fiere servus, mitte aquam tuam in pelvim tuam, veni, lava pedes meos! Scio temerarium esse, quod dico, sed timeo comminationem dicentis: Si non lavero pedes tuos, non habebis partem mecum. Ideo lava pedes meos, ut habeam partem tecum! Sed quid aio: Lava pedes meos? Petrus potest hoc dicere, qui non habuit necesse, nisi tantum ut pedes eius lavarentur; totus quippe mundus erat. Ego vero cum semel lotus sim, illo indigeo baptismate, de quo Dominus ait: Ego aliud baptisma habeo baptizari» (tr. Danieli, 112-113). Su questo passo si veda Russell Christman, che osserva giustamente: «the prayer’s placement within this homily gives concrete manifestation to Origen’s view that biblical exegesis always has the ultimate goal of drawing both exegete and audience God-ward» (p. 306). 2123 HIs V , 2 (265, 14-15): «orate Deum omnipotentem, ut veniat ad nos sermo eius. Etiamsi peccatores estis, orate; peccatores exaudit Deus».
La preghiera di Origene
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auspicata di un incontro con il Verbo, chiamato a prendere possesso del cuore e a dimorare in esso. Con le sue ripetute invocazioni a Gesù, Origene si mostra consapevole delle esigenze di una sequela del Signore coerente ed integrale, che richiede pertanto il suo sostegno. A tale scopo, se nella XVIII Omelia su Numeri si augura di essere fatto prigioniero da Gesù, divenendo suo servo alla maniera di Paolo (Ef 3, 1)2124, nella XII Omelia su Giosuè commentando gli episodi bellici del libro biblico domanda di riuscire a vincere i vizi ed appendere il trofeo della sua vittoria sulla croce di Cristo in riconoscimento del dono di grazia che la renderà possibile. «Voglia il mio Signore Gesù concedermi ciò e ordini ai miei piedi di schiacciare lo spirito della fornicazione e calcare le teste dello spirito dell’ira e del furore, calcare il demone dell’avarizia, calcare l’arroganza, calpestare lo spirito della superbia e, quando avrò fatto ciò, appendere il trofeo dell’impresa non su di me, bensì sulla sua croce, imitando Paolo, il quale afferma che per lui il mondo è stato crocifisso mediante Cristo e là dove dice [...] non io, ma la grazia di Dio che è in me»2125.
Proseguendo nell’illustrazione del combattimento spirituale, a conclusione della XIII Omelia su Giosuè, l’Alessandrino formula il voto per sé e per i fedeli che, dopo aver estinto ogni spirito di male, «possa respirare in noi solo lo Spirito di Cristo, nelle opere, nelle parole, nell’intelligenza spirituale»2126. Fare spazio alla dimora di Dio in noi è anche il contenuto della supplica che chiude la XXIV Omelia su Giosuè, dove Origene associa ancora una volta il proprio destino spirituale a quello della comunità prefigurando la venuta del Figlio e del Padre: «Se io potessi essere buono, farei spazio al Figlio di Dio in me e il Signore Gesù, dopo aver accolto questa dimora nella mia anima, l’adornerebbe e la cingerebbe di mura inespgnabili e di alte torri, così da costruire in me, se lo meritassi, una dimora degna di sé e del Padre. E allora egli adornerebbe la mia anima in modo da renderla capace della sua sapienza e della sua scienza e di tutta la sua santità, così da fare entrare Dio Padre insieme a sé prendendo dimora (Gv 14, 23) in essa –––––––––––––––––– 2124 HNm XVIII, 4 (175, 1-4): «Utinam ergo et me captivum habeat semper Iesus et me ducat in praedam suam et ego tenear eius vinculis alligatus, ut et ego dici merear vinctus Christi Iesu (Ef 3, 1), sicut et Paulus de semet ipso gloriatur». 2125 HIos XII, 3 (370, 9-20): «Atque utinam Dominus meus Iesus filius Dei mihi istud concedat et iubeat me pedibus meis conculcare spiritum fornicationis et calcare super cervices spiritus iracundiae et furoris, calcare avaritiae daemonem, calcare iactantiam, conterere pedibus superbiae spiritum et, cum haec fecero, operis gesti summam non mihi, sed cruci eius appendere, sequenti Paulum dicentem quia per ipsum mihi mundus crucifixus est et ea, quae iam superius memoravimus, quod ait: non autem ego, sed gratia Dei, quae in me est». 2126 HIos XIII, 4: «exstinctis omnibus et peremptis hostibus nostris, ita ut non relinquatur ex iis qui respiret in nobis (Gs 10, 40), sed solus in nobis respiret spiritus Christi per opera et sermones et intelligentiam spiritalem».
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Conclusione
e cenare (Ap 3, 20) presso un’anima siffatta con quei cibi che lui stesso avrà donato»2127.
L’esito auspicato di una piena comunione con Dio ci riporta all’immagine dell’atto orante disegnata da Origene nel trattato e alla sua mèta ultima che è l’incontro con il Figlio e con il Padre, nello Spirito2128. È lecito dunque concludere che il modo in cui l’Alessandrino prega riflette fedelmente la sua idea fondamentale della preghiera. Come ci è apparso da Orat e come abbiamo potuto confermare nel resto dell’opera, l’orazione è sempre vista in primo luogo come domanda, come richiesta formulata sotto lo sguardo di Dio in vista di ottenere quei beni «grandi e celesti» che solo lui può darci, inclusa la stessa possibilità di pregarlo «come si conviene». L’insistenza caratteristica dell’Alessandrino sull’aspetto della preghiera in quanto domanda manifesta in lui la viva consapevolezza di un’esperienza comune e diffusa, ma al tempo stesso difficile e problematica, perché soggetta ad essere banalizzata e contraffatta da un comportamento difforme dalla sua vera natura. Anche per Origene il fatto di pregare significa rammentarsi costantemente della condizione di creature, bisognose dell’aiuto divino, perché impegnate senza tregua nell’agone del mondo, a rischio della propria salvezza. Ma significa anche poter contare sulla risposta amorosa di Dio, che ci rende partecipi delle ricchezze inesauribili della sua Parola, prendendo possesso del nostro cuore e attirando l’anima alla convivialità gioiosa del banchetto con lo Sposo.
–––––––––––––––––– 2127 HIos XXIV, 3: «Ego si possem bonus fieri, dabam locum filio Dei in me et acceptum a me locum in anima mea Dominus Iesus aedificabat eum et adornabat et faciebat in eo muros inexpugnabiles et turres excelsas, ut aedificaret in me mansionem, si mererer, dignam se et patre, et ita adornabat animam meam, ut capacem eam suae sapientiae ac scientiae et totius sanctitatis efficeret in tantum, ut etiam faceret Deum patrem secum intrare et in ea facere mansionem et coenare etiam apud talem animam cibos, quos ipse donaverat». Sull’uso di Gv 14, 23 e Ap 3, 20, cfr. rispettivamente note 1276 e 684. 2128 Cfr. supra, pp. 181-188.
ABBREVIAZIONI
1. Opere di Origene CC CCt CGn CIo CMt CMtS CPs CRm Dial EM EpAfr EpCar EpGr Fr1Cor FrCt FrEph FrEz FrIer FrIo FrIob FrIos FrLam FrLc FrPr FrPs FrQo FrRe FrRm HCt HEx HEz HGn HIer HIos HIs HIud
Contro Celso Commento al Cantico Commento a Genesi Commento a Giovanni Commento a Matteo Serie (lat.) del Commento a Matteo Commento ai Salmi Commento alla Lettera ai Romani Dialogo con Eraclide Esortazione al martirio Lettera a Giulio Africano Lettera agli amici di Alessandria Lettera a Gregorio Frammenti sulla I Lettera ai Corinti Frammenti sul Cantico dei Cantici Frammenti sulla Lettera agli Efesini Frammenti su Ezechiele Frammenti su Geremia Frammenti su Giovanni Frammenti su Giobbe Frammenti su Giosuè Frammenti sulle Lamentazioni Frammenti su Luca Frammenti sui Proverbi Frammenti sui Salmi Frammenti su Qoelet Frammenti sui Regni Frammenti sulla Lettera ai Romani Omelie sul Cantico dei Cantici Omelie su Esodo Omelie su Ezechiele Omelie su Genesi Omelie su Geremia Omelie su Giosuè Omelie su Isaia Omelie su Giudici
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Abbreviazioni
HLc HLv HNm HReG HReL H36,37,38Ps Orat Pas Phil Prin
Omelie su Luca Omelie su Levitico Omelie su Numeri Omelie greche sul I Libro dei Regni Omelie latine sul I Libro dei Regni Omelie sui Salmi 36, 37, 38 La preghiera La Pasqua Filocalia I principi
2. Altre abbreviazioni BKV Jay LSJ
OD Oulton Orig. Orig. II Orig.
III
Orig. IV Orig. V Orig. VI
Des Origenes Schriften vom Gebet und Ermahnung zum Martyrium, übers. v. P. Koetschau (Bibliothek der Kirchenväter), München 1926. Origen’s Treatise on Prayer, Translation and Notes with an Account of the Practice and Doctrine of Prayer from New Testament Times to Origen by E.G. Jay, London 1954. H.G. Liddell - R. Scott, Greek-English Lexicon, Rev. and augm. throughout by Sir H. Jones, with the assistance of R. McKenzie, and with the cooperation of many scholars. Supplement edited by P.G.W. Glare, Oxford 19969 . A. Monaci Castagno (ed.), Origene. Dizionario. La cultura, il pensiero, le opere, Roma 2000. Alexandrian Christianity, Selected Translations of Clement and Origen with Introductions and Notes by J.E.L. Oulton and H. Chadwick, London 1954. Origeniana. Premier colloque international des études origéniennes (Montserrat, 18-21 septembre 1973), dirigé par H. Crouzel, G. Lomiento, J. Rius-Camps, Bari 1975. Origeniana Secunda. Second colloque international des études origéniennes (Bari 20-23 septembre 1977), Textes rassemblés par H. Crouzel et A. Quacquarelli, Roma 1980. Origeniana Tertia. The Third International Colloque for Origen Studies (University of Manchester, September 7th-11th 1981), Papers Edited by R. Hanson and H. Crouzel, Roma 1985. Origeniana Quarta. Die Referate des 4. Internationalen Origeneskongresses (Innsbruck, 2-6 September 1984), hrsg. v. L. Lies, Innsbruck-Wien 1987. Origeniana Quinta. Papers of the 5th International Origen Congress (Boston College, 14-18 August 1989), edited by R. Daly, Leuven 1992. Origeniana Sexta. Origène et la Bible. Actes du Colloquium Origenianum Sextum (Chantilly, 30 août-3 septembre 1993), édités par G. Dorival et A. Le Boulluec, Leuven 1995.
Abbreviazioni Orig.
VII
Orig.
VIII
Orig. IX
PGL TLG
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3. Avvertenza bibliografica Le opere di Origene sono citate di norma nel testo greco o latino in base all’edizione degli Origenes-Werke (GCS), indicando fra parentesi pagina e linea, qualora si riporti un passo. I testi ripresi da altre edizioni sono indicati nella bibliografia. I passi forniti in traduzione rimandano alle versioni italiane elencate anch’esse fra i testi di riferimento. Le citazioni da altri autori antichi sono riportate secondo le edizioni elencate nella bibliografia. Le traduzioni della Bibbia sono tratte dalla versione della CEI, quando non sia indicato diversamente.
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