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Zitiervorschau

Philip Roth

La macchia umana

Traduzione di Vincenzo Mantovani

Einaudi

Philip Roth La macchia umana Titolo originale The Human Stain Traduzione di Vincenzo Mantovani Copyright 2000 Philip Roth Copyright 2001 Giulio Einaudi editore Torino

A R. M.

La macchia umana

EDIPO E come purificarci? E il caso... la colpa, qual è? CREONTE Esiliare il colpevole, o punire la morte con la morte... SOFOCLE, Edipo re (trad. di M. Valgimigli)

Capitolo primo Tutti sanno

Fu nell'estate del 1998 che il mio vicino Coleman Silk – che prima di andare in pensione, due anni addietro, era stato per una ventina d'anni professore di lettere classiche al vicino Athena College, dove per altri sedici aveva fatto il preside di facoltà – mi confidò che all'età di settantun anni aveva una relazione con una donna delle pulizie trentaquattrenne che lavorava al college. Due volte la settimana questa donna puliva anche l'ufficio postale, una piccola baracca rivestita di scandole grigie che pareva aver protetto una famiglia di braccianti dai venti della Dust Bowl negli anni trenta e che, piantata solinga e derelitta a metà strada tra la pompa di benzina e l'emporio, fa sventolare la bandiera americana all'incrocio delle due strade che caratterizzano il centro commerciale di questa cittadina di montagna. Coleman l'aveva vista per la prima volta mentre lei lavava il pavimento dell'ufficio postale nel tardo pomeriggio di un giorno in cui, qualche minuto prima della chiusura, era andato a ritirare la corrispondenza: una donna esile, alta e angolosa con i capelli tra il biondo e il grigio raccolti in una coda di cavallo e quei tratti del viso severamente scolpiti, associati di solito alle devote e laboriose massaie del New England che hanno dovuto sopportare gli stenti della vita coloniale, austere donne prigioniere della moralità dominante e di questa stessa moralità rispettose. Si chiamava Faunia Farley, e qualunque fosse la sua infelicità, la teneva nascosta dietro uno di quegli inespressivi volti ossuti che, senza nulla celare, tradiscono un'immensa solitudine. Faunia abitava in una stanza di una fattoria del posto dove, per pagare l'affitto, collaborava alla mungitura. Aveva fatto due anni di scuole superiori. L'estate in cui Coleman mi fece le sue confidenze su Faunia Farley e il loro segreto fu, in modo abbastanza appropriato, l'estate in cui il segreto di Bill Clinton venne a galla in ogni suo minimo e mortificante dettaglio: in ogni suo minimo e vivido dettaglio, là dove la vita, come la mortificazione, stillava dall'asprezza dei dati specifici. Non avevamo avuto una stagione come quella da quando qualcuno era incappato nella nuova Miss America nuda in un vecchio numero di «Penthouse», foto di lei elegantemente in posa in ginocchio e sdraiata sulla schiena che costrinsero la ragazza, piena

di vergogna, a restituire la corona per diventare, in un secondo tempo, una celebre pop star. Quella del novantotto nel New England fu un'estate di sole e di uno squisito tepore; l'estate – nel baseball – di una mitica battaglia tra un dio degli home run bianco e un dio degli home run di pelle scura; e, in America, l'estate di un'orgia colossale di bacchettoneria, un'orgia di purezza nella quale al terrorismo – che aveva rimpiazzato il comunismo come minaccia prevalente alla sicurezza del paese – subentrò, come dire, il pompinismo, e un maschio e giovanile presidente di mezza età e un'impiegata ventunenne impulsiva e innamorata, comportandosi nell'Ufficio Ovale come due adolescenti in un parcheggio, ravvivarono la più antica passione collettiva americana, storicamente forse il suo piacere più sleale e sovversivo: l'estasi dell'ipocrisia. Nell'aula del Congresso, sulla stampa e alla televisione, i cialtroni tronfi e morigerati, smaniosi d'incolpare, deplorare e punire, facevano i moralisti a più non posso: tutti in un parossismo calcolato di quello che Hawthorne (il quale, negli anni tra il 1860 e il 1870, abitava a non molte miglia dalla porta di casa mia) identificò, nel paese nascente di tanto tempo fa, come «lo spirito di persecuzione»; tutti ansiosi di celebrare gli astringenti riti purificatori che avrebbero estirpato l'erezione dall'esecutivo, rendendo così la situazione abbastanza confortevole e sicura perché la figlia decenne del senatore Lieberman potesse riprendere a guardare la tivù col suo imbarazzato paparino. No, se non siete vissuti nel 1998 non sapete cos'è l'ipocrisia. Il columnist conservatore William F. Buckley scrisse nella sua rubrica: «Quando lo fece Abelardo, fu possibile evitare che si ripetesse», insinuando che il modo migliore di rimediare all'illecito presidenziale – quella che Buckley definiva, altrove, l'«incontinente carnalità di Clinton» – forse non era una cosa incruenta come l'impeachment ma, piuttosto, il castigo che nel dodicesimo secolo venne inflitto al canonico Abelardo dal coltello dei compari del collega ecclesiastico di Abelardo, il canonico Fulberto, per vendicare la seduzione e il matrimonio segreto con la nipote di Fulberto, la vergine Eloisa. Diversamente dalla fatwa di Khomeini che condannava a morte Salman Rushdie, l'intenso desiderio nutrito da Buckley per la pena correttiva della castrazione non comportava incentivi finanziari per il possibile esecutore. Questa era suggerita, tuttavia, da uno spirito non meno severo di quello dell'ayatollah, e in nome di ideali non meno elevati. Era estate, in America, quando tornò la nausea, quando non cessarono gli scherzi, quando non cessarono le congetture e le teorie e le iperboli, quando l'obbligo morale di spiegare ai propri figli la vita degli adulti fu abrogato per tenere viva in loro ogni illusione sulla vita degli adulti, quando la meschinità della gente apparve semplicemente schiacciante, quando una specie di demone era stato sguinzagliato nel paese e, da ambo le parti, la gente si chiedeva: «Perché siamo così pazzi?», quando uomini e donne, svegliandosi al mattino, scoprivano che durante la notte, in un sonno che li

aveva trasportati oltre l'invidia o il ribrezzo, avevano sognato la spudoratezza di Bill Clinton. Sognai io stesso un gigantesco striscione, dadaisticamente teso come uno degli involucri di Christo da un capo all'altro della Casa Bianca, con la scritta QUI ABITA UN ESSERE UMANO. Era l'estate in cui – per la miliardesima volta – il casino, il pasticcio, il guazzabuglio si dimostrò più sottile dell'ideologia di questo e della moralità di quello. Era l'estate in cui il pene di un presidente invase la mente di tutti e la vita, in tutta la sua invereconda sconcezza, ancora una volta disorientò l'America. A volte, il sabato, Coleman Silk mi dava un colpo di telefono e m'invitava a raggiungerlo dopo cena di là dalla montagna per ascoltare della musica o fare, un penny al punto, qualche partitella di gin rummy o sedere un paio d'ore nel soggiorno della sua casa sorseggiando un goccio di cognac e aiutandolo così a passare quella che per lui era sempre la notte peggiore della settimana. Nell'estate del 1998, lassù, Coleman era solo – solo nella grande e vecchia casa rivestita di scandole bianche dove aveva allevato quattro figli con la moglie Iris – da quasi due anni, da quando cioè Iris aveva avuto un ictus ed era morta durante la notte mentre lui battagliava con l'università per respingere l'accusa di razzismo mossagli da due studenti di uno dei suoi corsi. Coleman aveva passato ad Athena quasi tutta la vita accademica ed era un uomo di città simpatico, loquace, estroverso e molto sveglio, metà guerriero e metà intrallazzatore, diversissimo dal prototipo del pedante professore di latino e greco (come può testimoniare il Conversational Greek and Latin Club da lui fondato, ereticamente, quando era solo un giovane assistente). Il suo autorevole corso introduttivo all'antica letteratura greca in traduzione – noto come DEM, per Dei, Eroi e Mito – piaceva agli studenti proprio per quanto di diretto, franco e antiaccademicamente vigoroso c'era nel suo comportamento. – Sapete come inizia la letteratura europea? – chiedeva, dopo aver fatto l'appello all'inizio della prima lezione. – Con una lite. Tutta la letteratura europea nasce da un diverbio –. E poi prendeva la sua copia dell'Iliade e leggeva agli studenti le prime righe. – «Canta, Musa Divina, l'ira funesta di Achille... Comincia dal loro primo scontro, tra Agamennone il Re degli uomini e il grande Achille». E perché stanno litigando, questi due spiriti irascibili e possenti? E' semplice come una rissa in un bar. Stanno litigando per una donna. Una ragazza, veramente. Una ragazza rubata al padre. Una ragazza rapita durante una guerra. Mia kouri: ecco come viene descritta nel poema. Mia, come nel greco moderno, è l'articolo indefinito «una»; kouri, «ragazza», nel greco moderno si trasforma in kori, che significa «figlia». Ora, le preferenze di Agamennone vanno a questa ragazza, piuttosto che a sua mo-

glie Clitennestra. «Clitennestra non vale altrettanto, – dice, – né come viso né come figura». Il che spiega abbastanza chiaramente, non vi pare?, perché non vuole rinunciare a lei. Quando Achille chiede che Agamennone restituisca la ragazza al padre per placare Apollo, il dio che si è imbufalito per le circostanze del rapimento, Agamennone rifiuta: accetterà solo se Achille gli darà in cambio la sua ragazza. Riaccendendo così l'ira di Achille. Achille con tutta la sua adrenalina: il più infiammabile ed esplosivo di tutti i violenti che uno scrittore si sia mai divertito a ritrarre; la macchina assassina più ipersensibile nella storia della guerra, specie quando sono in ballo i suoi appetiti e il suo prestigio. Il famoso Achille: reso ostile e nemico da uno sgarro al proprio onore. Il grande, eroico Achille che, imbestialito da un'offesa (l'offesa di non ottenere la ragazza), si isola, mettendosi insolentemente fuori da quella stessa società della quale è il glorioso protettore, e che ha un enorme bisogno di lui. Una lite, dunque, uno scontro brutale per una donna, il suo giovane corpo e le delizie della rapacità sessuale: qui, nel bene e nel male, con questa offesa al fallico diritto, alla fallica dignità, di un energico principe guerriero, inizia la grande letteratura europea d'invenzione, ed è per questo che, quasi tremila anni dopo, oggi noi da qui partiremo... Coleman, quando venne assunto, era uno dei pochi ebrei tra i professori di Athena, e forse uno dei primi ebrei ammessi a insegnare in una facoltà americana di lettere classiche; qualche anno prima, l'ebreo solitario di Athena era stato E.I. Lonoff, il quasi dimenticato scrittore di racconti al quale, quando ero io stesso un apprendista appena pubblicato in crisi e in ansiosa ricerca di una conferma da parte di un maestro, una volta avevo fatto, proprio lì, una visita memorabile. Negli anni ottanta e novanta Coleman fu anche il primo e unico ebreo a occupare, ad Athena, il posto di preside di facoltà; poi, nel 1995, dopo essersi dimesso dalla carica per tornare all'insegnamento, riprese a tenere due dei suoi corsi sotto l'egida del dipartimento di lingue e letteratura che aveva assorbito il dipartimento di lettere classiche e che era diretto dalla professoressa Delphine Roux. Come preside, e col pieno appoggio di un nuovo e ambizioso rettore, Coleman aveva preso un college antiquato, stagnante e sonnolento e, non senza pestare i piedi a tutti, gli aveva tolto definitivamente l'etichetta di casa di riposo per anziani professori incoraggiando i rami secchi della vecchia guardia a chiedere il prepensionamento, reclutando assistenti giovani e ambiziosi e rivoluzionando il programma di studi. E' quasi una certezza che, se si fosse ritirato, senza incidenti, al momento giusto, ci sarebbe stato il Festschrift, ci sarebbe stata l'istituzione della Coleman Silk Lecture Series, ci sarebbe stata una cattedra di studi classici intestata a lui, e forse – data l'importanza che aveva avuto nel portare quel posto a nuova vita nel ventesimo secolo – la sede degli studi umanistici, o addirittura North Hall, la pietra miliare del college, sarebbe stata ribattezzata in suo onore dopo la sua morte. Nel pic-

colo mondo accademico dove aveva passato la maggior parte della sua esistenza Coleman avrebbe cessato da un pezzo di essere criticato, discusso o persino temuto, e sarebbe stato, invece, glorificato ufficialmente in eterno. Fu circa a metà del suo secondo semestre come professore a tempo pieno che Coleman pronunciò la parola destinata a incriminarlo e a spingerlo a troncare volontariamente tutti i rapporti con l'università: l'unica parola autoincriminante dei molti milioni di parole pronunciate ad alta voce nei suoi anni d'insegnamento e di amministrazione ad Athena, e la parola che, da come Coleman interpretò le cose, portò direttamente alla morte di sua moglie. Al corso erano iscritti quattordici studenti. All'inizio delle prime lezioni Coleman aveva fatto l'appello per impararne i nomi. Poiché alla quinta settimana del semestre c'erano ancora due nomi che non suscitavano reazioni, la sesta settimana esordì chiedendo: – Qualcuno conosce queste persone? Esistono o sono degli spettri1? Lo stesso giorno, qualche ora più tardi, fu chiamato dal proprio successore, il nuovo preside di facoltà, e scoprì, meravigliato, di dover rispondere all'accusa di razzismo rivoltagli dai due studenti mancanti, che per caso erano neri e che, sebbene assenti, erano venuti subito a sapere della locuzione con cui Coleman aveva pubblicamente sollevato il problema della loro assenza. Coleman disse al preside: – Alludevo al loro possibile carattere ectoplasmico. Non è ovvio? Questi due studenti non avevano assistito a una sola lezione. Non sapevo altro di loro. Usavo la parola nel suo significato abituale e primario: «spettro» come spirito o fantasma. Non avevo idea del colore che poteva avere la pelle di questi due ragazzi. Ho imparato, forse cinquant'anni fa, ma poi completamente dimenticato, che «spettro» è un termine offensivo applicato ogni tanto ai neri. Altrimenti, dato che sto molto attento alla suscettibilità degli studenti, non avrei mai usato quella parola. Considera il contesto: esistono o sono degli spettri? L'accusa di razzismo è falsa. E' assurda. I miei colleghi sanno che è assurda e i miei studenti sanno che è assurda. Il problema, l'unico problema, sono le assenze di questi due studenti e la loro flagrante e imperdonabile negligenza. La cosa più irritante è che l'accusa non è soltanto falsa: è di una falsità spettacolosa –. Avendo parlato, tutto sommato, abbastanza a lungo in sua difesa, e giudicando chiusa la questione, Coleman se ne andò a casa. Ora, anche i presidi come tutti gli altri, mi dicono, operando com'è ovvio nella terra di nessuno tra il corpo insegnante e i gradi più elevati dell'amministrazione, si fanno invariabilmente dei nemici. 1

Coleman usa la parola spook, il cui primo significato è «fantasma», ma che in gergo ha anche il senso spregiativo di «negro», «negraccio» [N.d.T.].

Non sempre concedono gli aumenti di stipendio richiesti o i comodi parcheggi tanto ambiti o gli uffici più spaziosi ai quali i professori credono di avere diritto. Candidati a nomine o promozioni, specie nei dipartimenti deboli, vengono abitualmente scartati. Le richieste dipartimentali di posti supplementari per insegnanti e segretarie vengono respinte quasi sempre, come le domande di riduzioni del carico di lavoro e di ore libere la mattina presto. I fondi per partecipare ai congressi vengono negati regolarmente, eccetera, eccetera. Ma Coleman non era stato un preside come tutti gli altri, e le persone di cui si era sbarazzato e il modo in cui se n'era sbarazzato, ciò che aveva abolito e ciò che aveva introdotto, e l'audacia con cui aveva svolto il suo lavoro in barba a tutte le resistenze, riuscirono ad alienargli le simpatie e a provocare il risentimento di un pugno di malcontenti e d'ingrati. Sotto la protezione di Pierce Roberts, il giovane, attraente e brillante rettore che non aveva ancora perso un capello e che subito dopo l'insediamento lo aveva nominato preside di facoltà (e che gli aveva detto: «Bisogna fare dei cambiamenti, e chi non è contento dovrebbe solo pensare ad andarsene o a chiedere il prepensionamento»), Coleman aveva messo tutto a soqquadro. Quando, otto anni dopo, a metà del mandato di Coleman, Roberts accettò l'incarico prestigioso di rettore in una delle maggiori università del paese, fu in forza della reputazione che si era fatto per il lavoro compiuto ad Athena a tempo di primato: compiuto, però, non grazie all'affascinante rettore, che era essenzialmente un procacciatore di fondi, e non si era attirato mai troppe critiche e se ne andò da Athena acclamato e illeso, ma per merito del suo risoluto preside di facoltà. Nello stesso primo mese in cui era stato nominato preside, Coleman aveva invitato nel suo ufficio ogni membro del corpo insegnante per una chiacchierata, compresi parecchi anziani professori discendenti delle antiche famiglie della contea che avevano fondato e finanziato originariamente l'università, e che, personalmente, non avevano proprio bisogno di soldi, ma riscuotevano volentieri lo stipendio. A ciascuno di essi fu chiesto in anticipo di portare il curriculum vitae, e se qualcuno non lo portava, perché era superiore a queste cose, Coleman ne aveva comunque una copia sulla scrivania davanti a sé. E li teneva là per un'ora intera, a volte anche di più, finché, dopo aver fatto loro capire in modo così persuasivo che le cose ad Athena erano finalmente cambiate, cominciava a farli sudare. E non esitava ad aprire la conversazione sfogliando il curriculum vitae e dicendo: – Negli ultimi undici anni cos'ha fatto, lei? – E quando gli dicevano, come fece la schiacciante maggioranza, che avevano pubblicato regolarmente su «Athena Notes», quando aveva sentito parlare una volta di troppo del dotto scampolo filologico, bibliografico o archeologico che ciascuno di essi ricavava ogni anno da una vecchia tesi di dottorato per «pubblicarlo» nel trimestrale ciclostilato rilegato in cartone grigio che non era catalogato in nessun altro luogo della terra all'infuori della biblioteca del college, si mor-

morava che avesse osato infrangere il codice delle buone maniere di Athena replicando: – In altre parole, ragazzi, voi qui riciclate la vostra spazzatura –. Dopodiché non soltanto chiuse «Athena Notes» restituendo il modesto legato al donatore – che era il suocero del direttore – ma, per incoraggiare i prepensionamenti, costrinse i più secchi dei rami secchi a lasciare i corsi che avevano tenuto meccanicamente negli ultimi venti o trent'anni e a occuparsi dell'inglese per le matricole, del corso introduttivo di storia e del nuovo programma di orientamento per le matricole che si svolgeva negli ultimi torridi giorni d'estate. Eliminò il Premio allo Studioso dell'Anno, un titolo perlomeno inesatto, e diede ai mille dollari un'altra destinazione. Per la prima volta nella storia del college costrinse i professori che intendevano usufruire di un congedo pagato per l'anno sabbatico a farne formale richiesta, con una dettagliata descrizione del loro progetto, richiesta che il più delle volte veniva respinta. Si liberò di quella specie di club che era la sala da pranzo dei professori, che vantava il più squisito dei rivestimenti a pannelli di quercia del campus, la riconvertì nella sala per i seminari dei corsi di laurea specializzati, sua originaria destinazione, e obbligò gli insegnanti a mangiare in mensa con gli studenti. Insistette sulla necessità delle riunioni di facoltà: non averle mai tenute aveva reso straordinariamente simpatico il suo predecessore. Coleman fece controllare la frequenza alle riunioni dal segretario di facoltà, col risultato che persino i baroni con i programmi di tre ore la settimana furono costretti a farsi vivi. Nello statuto del college trovò una clausola che vietava la formazione di comitati esecutivi e, sostenendo che quei grossi ostacoli a seri cambiamenti erano solo un prodotto della convenzione e della tradizione, li abolì e governò per decreto queste riunioni di facoltà, usando ciascuna di esse come un'occasione per annunciare la sua iniziativa successiva, che non avrebbe mancato di suscitare altro risentimento. Sotto la sua direzione le promozioni diventarono difficili, e questa, forse, fu la sorpresa più grande di tutte: l'insegnante non veniva più promosso automaticamente, di scatto in scatto, solo perché era popolare, e non riceveva aumenti di stipendio che non fossero legati al merito. In breve, Coleman introdusse nel campus la concorrenza, lo rese competitivo: che è, come notava uno dei suoi primi nemici, «quello che fanno gli ebrei». E ogni volta che formavano un comitato ad hoc per andare a lamentarsi da Pierce Roberts, il rettore immancabilmente si schierava col preside. Negli anni di Roberts tutti i professori più giovani e svegli reclutati da Coleman lo amarono per gli spazi che apriva loro e per la gente in gamba che aveva cominciato ad assicurarsi prelevandola dai programmi di perfezionamento di Yale, della Cornell e della Johns Hopkins: «la rivoluzione della qualità», come amavano definirla. Lo stimavano per aver estromesso l'élite dominante dal suo piccolo club e attentato alla sua immagine, cosa che non manca mai di mandare in bestia i professori pomposi. Tutti i più

anziani, cioè la parte più debole della facoltà, erano stati aiutati a sopravvivere dall'idea che avevano di se stessi – il più grande studioso del 100 avanti Cristo, e così via – e quando si sentirono sfidati persero ogni fiducia in se stessi: e quasi tutti, in due o tre anni, erano spariti. Momenti esaltanti! Ma quando Pierce Roberts passò alla Michigan e Haines, il nuovo rettore, occupò la sua poltrona, senza un particolare attaccamento a Coleman e, diversamente dal suo predecessore, senza mostrare alcuna tolleranza per l'immodestia intimidatrice e il dispotismo che in un tempo così breve avevano fatto pulizia nel college, e mentre i giovani tenuti da Coleman e quelli che lui aveva reclutato cominciavano a diventare «i vecchi», la reazione contro il preside Silk prese a montare. Di quanto fosse forte, lo stesso Coleman non si era reso conto finché non ebbe contato tutte le persone, dipartimento per dipartimento, che non sembravano affatto dispiaciute nello scoprire che la parola scelta dal vecchio preside per caratterizzare quei due studenti apparentemente inesistenti fosse definibile non soltanto dal principale significato del dizionario (che, sosteneva Coleman, era ovviamente quello che intendeva usare lui), ma dal senso razziale peggiorativo che aveva spinto i due ragazzi neri a muovere la loro accusa. Ricordo chiaramente quel giorno d'aprile di due anni prima in cui Iris Silk morì e la follia s'impossessò di Coleman. Tolto l'inchino con cui li salutavo, lui o lei, ogni volta che le nostre strade s'incontravano nel supermarket o all'ufficio postale, prima di allora non li conoscevo bene, e non sapevo granché di loro. Non sapevo nemmeno che Coleman era cresciuto a quattro o cinque miglia da me nella piccola città di East Orange, Essex County, New Jersey, e che, essendosi diplomato nel 1944 al liceo di East Orange, mi aveva preceduto di sei anni nella scuola di Newark più vicina a casa mia. Coleman non aveva mai cercato di fare la mia conoscenza, e io non avevo lasciato New York e mi ero trasferito nei due locali di una casa lungo una strada campestre dei monti Berkshire per conoscere gente nuova o per entrare in una nuova comunità. Gli inviti che ricevetti nel 1993, nei primi mesi passati quassù (inviti a cena, a un tè, a un cocktail party, a scendere giù al college, nella valle, per tenere una lezione o, se preferivo, per parlare alla buona agli iscritti a un corso di letteratura), li declinai educatamente, dopodiché sia i vicini sia il college mi lasciarono vivere e badare ai fatti miei. Ma allora, quel pomeriggio di due anni prima, arrivato in macchina direttamente da dove aveva dato disposizioni per la sepoltura di Iris, Coleman era lì, davanti a casa mia, e bussava alla porta, e chiedeva di essere fatto entrare. Pur avendo qualcosa di urgente da chiedere, non riusciva a star seduto più di trenta secondi per chiarire di che si trattasse. Si alzava, si

sedeva, si alzava di nuovo, girava nel mio studio senza fermarsi mai, parlando ad alta voce e con foga, agitando persino minacciosamente un pugno in aria quando credeva – erroneamente – che occorresse una sottolineatura. Dovevo scrivere una cosa per lui: era quasi un ordine. Se la storia l'avesse scritta lui, in tutta la sua assurdità, senza alterare nulla, nessuno ci avrebbe creduto, nessuno l'avrebbe presa sul serio, la gente avrebbe detto che era una ridicola bugia, un'esagerazione interessata, avrebbero detto che dietro la sua rovina doveva esserci qualcosa di più della parola «spettri» da lui pronunciata in un'aula. Mentre, se l'avessi scritta io, se l'avesse scritta uno scrittore di professione... Dentro di lui ogni freno era andato in avaria, e perciò guardarlo, ascoltarlo – non lo conoscevo ma, chiaramente, era un uomo realizzato e importante, ormai totalmente sconvolto – era come assistere a un brutto incidente stradale o a un incendio o a una terribile esplosione, a un disastro che ipnotizza tanto per la sua bizzarria quanto per la sua improbabilità. Il modo in cui sbandava qua e là nella stanza mi faceva pensare alle proverbiali galline che continuano a muoversi dopo essere state decapitate. Gli avevano tagliato la testa, quella testa che ospitava il cervello raffinato di un preside di facoltà e professore di lettere classiche un tempo inattaccabile, e quelli che avevo davanti agli occhi erano i suoi resti, amputati e sfuggiti a ogni controllo. Io – cioè la persona in casa della quale Coleman Silk non era mai entrato fino a quel momento e di cui aveva a malapena udito la voce –, io dove vo mettere da parte ciò che stavo facendo, qualunque cosa fosse, e scrivere di come i suoi nemici ad Athena, nel menar botte contro di lui, avevano invece abbattuto lei. Creando la loro falsa immagine di lui, dicendo di lui tutto ciò che non era e non avrebbe mai potuto essere, avevano non soltanto snaturato una carriera professionale svoltasi all'insegna della massima serietà e dedizione, ma anche ucciso quella che era stata sua moglie per più di quarant'anni. L'avevano uccisa come se avessero preso la mira e le avessero piantato un proiettile nel cuore. Io dovevo scrivere di questa «assurdità», di quell'«assurdità»... Io, che allora non sapevo niente delle sue disgrazie al college e non riuscivo nemmeno a seguire le prime date della cronologia dell'orrore che già da cinque mesi aveva inghiottito lui e la compianta Iris Silk: l'estenuante immersione in riunioni, udienze e colloqui, le lettere e i documenti sottoposti ai funzionari del college, ai comitati di facoltà, all'avvocato d'ufficio nero che rappresentava i due studenti... Le accuse, le smentite e le contraccuse, l'ottusità, l'ignoranza e il cinismo, i volgari e deliberati fraintendimenti, le spiegazioni laboriose e ripetute, le domande inquisitorie... E sempre, perennemente, un senso generale d'irrealtà. – Un delitto! – gridò Coleman, sporgendosi sopra il mio tavolo e martellandolo col pugno. – Questa gente ha assassinato Iris!

La faccia che mi mostrava, la faccia che metteva a non più di trenta centimetri dalla mia, era ormai scavata, asimmetrica e – per essere la faccia di un uomo anziano, ma bello, curato e giovanile – stranamente ripugnante, più che probabilmente deformata dall'effetto tossico di tutte le emozioni che lo attraversavano. Era, da vicino, ammaccata e guasta come un frutto fatto cadere dalla bancarella al mercato e buttato a calci avanti e indietro sul terreno dai compratori di passaggio. C'è qualcosa di affascinante in ciò che la sofferenza morale può fare a una persona che, nella maniera più evidente, non è debole o irresoluta. E' ancora più insidioso di quello che può fare un malanno fisico, perché non c'è iniezione di morfina, anestesia spinale o radicale intervento chirurgico capace di alleviarla. Una volta che sei nella sua morsa, è come se, per liberartene, le dovessi permettere di ucciderti. Il suo crudo realismo non assomiglia a nessun'altra cosa. Assassinata. Solo questo, per Coleman, spiegava in che modo, dal nulla, poteva essere venuta la fine per un'energica sessantaquattrenne di aspetto imponente e in perfetta salute, una pittrice astrattista le cui tele dominavano le mostre d'arte locali e che personalmente dirigeva come un autocrate l'associazione degli artisti cittadini, una poetessa pubblicata sul giornale della contea, ai suoi tempi la donna politicamente più impegnata dell'università, la principale avversaria dei rifugi atomici, dello stronzio 90 e infine della guerra nel Vietnam, ostinata, inflessibile, impolitica, un imperioso ciclone di donna riconoscibile a cento metri di distanza per il gran serto arruffato di ispidi capelli bianchi; e malgrado la propria durezza, il preside che, a quanto si diceva, era capace di passare su chiunque come un rullo compressore, il preside che, accademicamente, aveva fatto l'impossibile modernizzando l'Athena College, non poteva spuntarla su una personalità così forte altro che a tennis. Quando Coleman, però, era stato attaccato – quando l'accusa di razzismo era stata accolta per essere vagliata, non soltanto dal nuovo preside di facoltà, ma anche dalla piccola organizzazione degli studenti neri del college e da un gruppo di attivisti neri di Pittsfield – la follia bella e buona dell'addebito cancellò il milione di problemi del matrimonio dei Silk, e quella stessa arroganza che per quattro decenni si era scontrata con la caparbia autonomia di lui, e che aveva dato come esito la perenne frizione delle loro vite, Iris la mise a disposizione della causa di suo marito. Anche se da anni non dormivano nello stesso letto e non riuscivano a sopportare troppo a lungo la reciproca conversazione (né gli amici dell'altro), i Silk furono di nuovo fianco a fianco, agitando i pugni in faccia alle persone che odiavano più profondamente di quanto, nei loro più insopportabili momenti, potessero odiarsi a vicenda. Tutto ciò che avevano avuto in comune quarant'anni prima al Greenwich Village come compagni e come innamorati – quando lui frequentava la New York University per completare il dottorato e Iris

aveva appena preso il volo da Passaic per sfuggire a una coppia di genitori anarchici e mattoidi e faceva la modella per i corsi di disegno dal vivo all'Art Students League, già armata della sua massa importante di capelli, robusta e voluttuosa, già allora un'istrionica grande sacerdotessa adorna di folkloristici gioielli, la grande sacerdotessa della Bibbia da prima dei tempi della sinagoga –, tutto ciò che avevano avuto in comune al Village (eccezion fatta per la passione erotica) venne ancora una volta esplosivamente in luce... Fino al mattino in cui Iris si svegliò con un feroce mal di testa e un braccio completamente insensibile. Coleman la portò in fretta e furia all'ospedale, ma il giorno dopo era morta. – Volevano uccidere me e invece hanno colpito lei –. Così Coleman mi disse più di una volta durante quella visita imprevista a casa mia, e poi, il pomeriggio seguente, fece in modo di dirlo a ogni singola persona che assisteva al funerale. E così credeva ancora. Era insensibile a ogni altra spiegazione. Dal giorno della morte di Iris – e da quando aveva dovuto riconoscere che il suo calvario non era un argomento al quale io intendessi dedicare la mia arte ed era tornato in possesso di tutta la documentazione che quel giorno mi aveva scaricato sulla scrivania – si era messo a lavorare da solo a un libro sui motivi delle sue dimissioni da Athena, un memoriale che aveva intitolato Spettri. C'è una piccola stazione radio FM, a Springfield, che il sabato, dalle sei a mezzanotte, interrompe la regolare programmazione di musica classica e manda in onda, nelle prime ore della sera, musica per grandi orchestre, e più tardi jazz. Dalla mia parte della montagna, su quella frequenza, non si captano altro che scariche, mentre sul versante dove sta Coleman la ricezione è buona, e nelle occasioni in cui lui m'invitava a bere qualcosa il sabato sera, appena spegnevo il motore della macchina e mettevo piede a terra nel suo vialetto, sentivo esplodere dalle finestre di casa sua tutta quella zuccherosa musica da ballo che i ragazzi della nostra generazione ascoltavano continuamente alla radio e suonavano nei jukebox negli anni quaranta. Coleman la mandava a tutto volume non soltanto dallo stereo del soggiorno, ma anche dalla radio accanto al letto, dalla radio di fianco alla doccia e dalla radio vicino alla scatola del pane, in cucina. Qualunque cosa stesse facendo il sabato sera, finché la stazione, a mezzanotte, non dava il segnale della fine delle trasmissioni – dopo la rituale mezz'ora settimanale di Benny Goodman –, Coleman non perdeva una nota. Stranamente, diceva, nessuno dei pezzi di musica seria che aveva ascoltato per tutta la vita adulta gli dava la stessa emozione che ora provava ascoltando il vecchio swing: – Quel po' di stoicismo che ho dentro se ne va, e il desiderio di non morire, di non morire mai, si fa quasi insopportabi-

le. E tutto questo, – spiegava, – solo perché sto ascoltando Vaughn Monroe –. Certe sere ogni verso di ogni canzonetta assumeva un'importanza così bizzarramente prodigiosa che Coleman finiva per mettersi a ballare da solo il fox trot lento, svagato, banale e ripetitivo, ma straordinariamente efficace come creatore di atmosfere, ballato un tempo con le liceali di East Orange contro le quali premeva, attraverso i pantaloni, le sue prime significative erezioni; e mentre ballava, mi disse, nulla di ciò che sentiva era finto, né il terrore (dell'estinzione) né l'estasi (per le parole: «You sigh, the song begins. You speak, and I hear violins» 2). Tutte le lacrime venivano versate spontaneamente, per quanto Coleman potesse essere stupito dalla scarsa resistenza che opponeva ai versi di Green Eyes cantati alternativamente da Helen O'Connell e Bob Eberly, per quanto potesse meravigliarsi di come Jimmy e Tommy Dorsey riuscivano a trasformarlo nel vecchio attaccabile e indifeso che non avrebbe mai immaginato di essere. – Ma lascia che uno nato nel 1926 – diceva – provi a rimanere solo in casa un sabato sera del 1998 ascoltando Dick Haymes che canta Those Little White Lies. Falli provare, e mi devono dire dopo se non hanno capito finalmente la famosa dottrina della catarsi nella tragedia. Coleman stava lavando i piatti della cena quando io aprii la porta laterale con la zanzariera che dava in cucina. Era davanti all'acquaio col rubinetto aperto e la radio a tutto volume, stava cantando col giovane Frank Sinatra Everything Happens to Me, e per questo non mi sentì entrare. Era una serata calda; Coleman indossava un paio di shorts di tela, scarpe da ginnastica e nient'altro. Visto da dietro, quell'uomo di settantun anni non sembrava averne più di quaranta: era asciutto e in piena forma. Non molto più alto di un metro e settanta, se ci arrivava, Coleman non era particolarmente muscoloso, eppure in lui c'era una grande forza, e ben visibile era ancora molta dell'energia del liceale che ha fatto dello sport, quella prontezza, quella vivacità che una volta si chiamava brio. I capelli corti e ricci avevano preso il colore dell'avena e così, visto di fronte, malgrado il naso schiacciato, un po' da ragazzo, non appariva così giovanile come avrebbe potuto essere se i suoi capelli fossero stati ancora scuri. Aveva anche due profonde rughe ai lati della bocca, e negli occhi tra il verde e il nocciola si leggevano, dal giorno della morte di Iris e delle sue dimissioni dal college, una grande stanchezza e un forte esaurimento spirituale. Coleman aveva la bellezza, incongrua e quasi burattinesca, che si nota nelle facce invecchiate degli attori che furono famosi sullo schermo come bimbi effervescenti e sui quali è rimasto impresso indelebilmente il marchio della giovinezza. Tutto sommato rimaneva, anche alla sua età, un discreto pezzo d'uomo, il tipo di ebreo col naso piccolo e la mascella sporgente, uno di quegli ebrei con i capelli crespi e la pigmentazione della pelle giallastra che hanno 2

«Tu sospiri, e comincia la canzone. Tu parli, e io sento i violini» [N.d.T.].

qualcosa dell'aura ambigua di quei neri molto chiari che a volte vengono scambiati per bianchi. Alla fine della seconda guerra mondiale, quando Coleman Silk era in marina nella base navale di Norfolk in Virginia, poiché dal nome non si capiva che era ebreo (avrebbe potuto essere, altrettanto facilmente, il nome di un negro), una volta era stato preso, in un bordello, per un negro che cercava d'intrufolarsi ed era stato buttato fuori. – Buttato fuori da un casino di Norfolk perché ero nero, buttato fuori dall'Athena College perché ero bianco –. Frequentemente, in quegli ultimi due anni, gli avevo sentito dire cose come questa, farneticazioni sull'antisemitismo nero e sui colleghi vili e traditori che aveva ovviamente riprodotto, tali e quali, nel suo libro. – Buttato fuori da Athena, – mi disse, – perché ero un ebreo bianco come quelli che questi bastardi ignoranti chiamano «il nemico». Ecco chi li ha condannati all'infelicità. Ecco chi li ha cacciati dal paradiso. Ed ecco chi, in tutti questi anni, gli ha impedito di tornarci. Qual è la fonte principale delle sofferenze dei neri su questo pianeta? Quelli sanno la risposta senza bisogno di venire a lezione. La sanno senza dover aprire un libro. Senza leggere, la sanno... Senza pensare. Chi sono i responsabili? Gli stessi mostri scellerati del Vecchio Testamento responsabili delle sofferenze dei tedeschi. L'hanno ammazzata loro, Nathan. E chi avrebbe immaginato che Iris non avrebbe resistito? Eppure, forte com'era, tonante com'era, Iris non ha resistito. La loro forma di stupidità era troppo anche per un carro armato come mia moglie. «Spettri». E chi se la sarebbe sentita di difendermi, qui? Herb Keble? Come preside di facoltà fui io a chiamare Herb Keble ad Athena. Solo qualche mese dopo essere entrato in carica, lo feci. Lo chiamai e Keble diventò non soltanto il primo nero nel campo delle scienze sociali, ma il primo nero in tutto tranne che nella guardiola dei bidelli. Ma anche Herb è stato radicalizzato dal razzismo degli ebrei come me. «Stavolta non posso sostenerti, Coleman. Dovrò stare con loro». Ecco quello che mi ha detto quando sono andato a chiedere il suo appoggio. In faccia. Dovrò stare con loro. Loro! Avresti dovuto vederlo al funerale di Iris. Annientato. Distrutto. Era morto qualcuno? Herbert non voleva la morte di nessuno. Questi imbrogli erano semplici lotte per il potere. Per avere più voce in capitolo nella direzione dell'università. Non facevano altro che sfruttare una situazione utile. Era un modo per spingere Haines e l'amministrazione a fare quello che altrimenti non avrebbero mai fatto. Più neri nel campus. Più studenti neri, più professori neri. La rappresentanza: il problema era questo. L'unico problema. Dio sa che non si voleva la morte di nessuno. Né le dimissioni. Anche questa, per Herbert, fu una sorpresa. Perché Coleman Silk avrebbe dovuto dare le dimissioni? Nessuno aveva l'intenzione di cacciarlo. Nessuno avrebbe avuto il

coraggio di cacciarlo. Facevano quello che facevano solo perché lo potevano fare. Volevano solo rosolarmi sulla fiamma ancora un po': non potevo aver pazienza e aspettare? Un altro semestre, e chi si sarebbe ricordato di nulla? L'incidente – l'incidente! – era stato per loro un «problema organizzativo» ideale per un posto razzialmente arretrato come Athena. Perché ho dato le dimissioni? Quando me ne sono andato il problema, in sostanza, era risolto. Cosa diavolo me ne andavo a fare? Proprio durante la mia visita precedente Coleman aveva preso a sventolarmi qualcosa sotto il naso dal momento in cui ero entrato dalla porta, un altro ancora delle centinaia di documenti archiviati nelle scatole con l'etichetta «Spettri». – Ecco. Uno dei miei illustri colleghi. A proposito di uno dei due studenti che mi hanno accusato: una studentessa che non aveva mai frequentato il mio corso e che era stata bocciata in tutte le altre materie tranne una, che avrebbe dovuto frequentare ma che frequentava di rado. Io credevo che l'avessero bocciata perché non riusciva ad affrontare la materia, e meno ancora riusciva a impadronirsene, invece saltò fuori che si era fatta bocciare perché troppo intimidita dal razzismo che emanava dai professori bianchi per avere il coraggio sufficiente per entrare in aula. Lo stesso razzismo che avevo mostrato io con le mie parole. Durante una di quelle riunioni, udienze, chiamale come vuoi, mi rivolsero questa domanda: «Quali fattori, a suo giudizio, hanno portato al fallimento di questa studentessa?» «Quali fattori? – dissi. – Indifferenza. Arroganza. Apatia. Problemi personali. Chi lo sa?» «Ma, – mi chiesero, – alla luce di questi fattori, quali raccomandazioni positive ha fatto lei a questa studentessa?» «Nessuna. Non avevo mai posato gli occhi su di lei. Se ne avessi avuto l'occasione, le avrei consigliato di lasciare la scuola». «Perché?» mi chiesero. «Perché la scuola non era il suo ambiente». Fammi leggere da questo documento. Senti questa. Presentato da uno dei miei colleghi per il quale Tracy Cummings è una persona che non dovremmo essere né troppo duri né troppo svelti a giudicare, certo non una persona da respingere e cacciare. Dobbiamo educarla, Tracy, dobbiamo capirla: dobbiamo sapere, ci raccomanda questo erudito, «da dove viene». Lascia che ti legga le ultime frasi. «Tracy viene da un ambiente piuttosto difficile, in quanto se ne è andata dalla famiglia al liceo ed è andata a vivere con certi parenti. Di conseguenza, non era particolarmente attrezzata per affrontare le realtà di una situazione. Questo difetto va riconosciuto. Ma Tracy è pronta, desiderosa e capace di cambiare il suo approccio alla vita. Ciò che ho visto nascere in lei in queste ultime settimane è il riconoscimento della serietà della sua fuga dalla realtà». Frasi composte da una certa Delphine Roux, direttrice di lingue e letteratura, che tiene, tra l'altro, un corso sul classicismo francese. Il riconoscimento della serietà della sua fuga dalla realtà. Ah, basta. Basta. E' disgustoso. Semplicemente troppo disgustoso.

Ecco di cos'ero testimone, il più delle volte, quando, il sabato sera, venivo a tenergli compagnia: di un disonore umiliante che continuava a rodere una persona ancora piena di vita. Il grand'uomo buttato giù dal piedistallo e ancora tormentato dall'onta del fallimento. Qualcosa di simile a ciò che avresti potuto vedere se fossi andato a trovare Nixon a San Clemente o Jimmy Carter giù in Georgia prima che, per pagare il fio della sconfitta, si mettesse a fare il carpentiere. Una cosa tristissima. Eppure, nonostante la mia comprensione per la sua vicenda e per tutto ciò che Coleman aveva perduto ingiustamente e per la quasi impossibilità che mostrava di liberarsi della sua amarezza, c'erano delle sere in cui, dopo avere sorbito solo qualche goccia del suo brandy, per stare sveglio avevo bisogno di qualcosa di simile a un colpo di bacchetta magica. Ma la sera di cui sto parlando, quando passammo nella veranda laterale fresca e protetta dalle zanzare, che d'estate usava come studio, Coleman mi fece l'impressione di non amare il mondo meno di chiunque altro. Prima di uscire dalla cucina aveva tolto dal frigo un paio di bottiglie di birra, e adesso eravamo seduti l'uno di fronte all'altro ai lati del lungo tavolo su cavalletti che in quella stanza era il suo scrittoio e che a un'estremità era carico di quaderni, venti o trenta, divisi in tre pile. – Ebbene, eccolo lì, – disse, calmo e sereno come se fosse un altro uomo. – Eccolo lì. Quello è Spettri. Ieri ho finito la prima stesura, oggi ho passato tutta la giornata a rileggerlo e sono rimasto nauseato da ogni pagina. E' bastata la violenza della calligrafia a farmi disprezzare l'autore. Che io abbia passato anche solo un quarto d'ora a scrivere questa roba, non parliamo poi di due anni... Iris è morta a causa loro? Chi lo crederà? Io stesso non lo credo quasi più. Trasformare questa tirata in un libro, attenuarne la rabbia e l'infelicità per farne il prodotto di un uomo equilibrato, richiederebbe altri due anni come minimo. E allora cos'avrei, tolti altri due anni di pensieri sempre concentrati su di «loro»? Non che mi sia arreso e abbia deciso di perdonarli. Non vorrei essere frainteso: li odio, quei bastardi. Odio quei fottuti bastardi come Gulliver odia l'intera razza umana dopo essere andato a vivere con i cavalli. Li odio con un'avversione veramente biologica. Anche se li ho sempre trovati ridicoli, quei cavalli. Tu no? Una volta li vedevo come l'establishment Wasp che faceva il bello e il brutto tempo in questo posto quando ci sono arrivato per la prima volta. – Sei in forma, Coleman: solo un barlume della vecchia follia. Tre settimane, un mese fa, l'ultima volta che ti ho visto, eri immerso nella tua bile fino al ginocchio. – Colpa di questa roba. Ma l'ho letta, fa schifo, e il capitolo è chiuso. Non sono capace di fare quello che fanno i professionisti. Quando parlo di me, non riesco a tenere le distanze. Di pagina in pagina, è sempre la stessa cosa informe. E' una parodia del memoriale autogiustificatorio. La disperata impossibilità di spiegare –. Sorridendo, disse: –

Kissinger può sfornare millequattrocento pagine di questa pappa ogni due anni, ma io riconosco la mia sconfitta. Per quanto possa apparire ciecamente sicuro nella bolla del mio narcisismo, non sono alla sua altezza. Ci rinuncio. Ora, la maggior parte degli scrittori che sono costretti a fermarsi dopo aver riletto il lavoro di due anni – anche il lavoro di un anno, anche solo il lavoro di mezzo anno –, sottoponendolo alla ghigliottina della critica e avendolo trovato irrimediabilmente sbagliato, si riducono in uno stato di disperazione suicida dal quale possono impiegare mesi per cominciare a riprendersi. Coleman, invece, abbandonando una prima stesura brutta come quella che aveva terminato, era riuscito in qualche modo a salvarsi non soltanto dal relitto del libro, ma anche dal naufragio della propria vita. Senza il libro ora sembrava avere perso il minimo desiderio di mettere le cose a posto; sfumata la passione di riabilitare il proprio nome e criminalizzare i propri nemici, non era più imbalsamato nel ruolo della vittima. A parte lo spettacolo di Nelson Mandela che, alla televisione, perdonava i propri carcerieri nell'atto stesso di lasciare il carcere con l'ultimo miserabile pasto carcerario non ancora del tutto assimilato dall'organismo, non avevo mai visto, prima d'allora, un martire trasformarsi così rapidamente per aver cambiato idea. Non riuscivo a capire, e in un primo tempo non riuscii nemmeno a crederci. – Andandotene così, dicendo allegramente: «Ci rinuncio», abbandonando tutto questo lavoro, tutto questo disgusto... Be', come colmerai il vuoto del risentimento? – Non lo colmerò –. Prese le carte da gioco e un taccuino per segnare i punti, e trascinammo le sedie verso la parte del tavolo che era sgombra dalle scartoffie. Mescolò le carte, io tagliai il mazzo e lui le distribuì. E poi, in questo strano stato di appagamento e di serenità prodotto dall'apparente emancipazione dal bisogno di disprezzare tutti quelli che ad Athena, deliberatamente e in malafede, lo avevano calunniato, maltrattato e offeso (lo avevano costretto, per due anni, a uno sforzo di misantropia di proporzioni swiftiane), cominciò a parlare entusiasticamente del bel tempo andato in cui «la sua coppa traboccava» e il suo considerevole talento per la scrupo losità veniva usato per dare e offrire piacere. Ora che non era più motivato dall'odio, avremmo parlato di donne. Era un nuovo Coleman, questo. O forse un vecchio Coleman, il più vecchio Coleman adulto che esistesse, il Coleman più soddisfatto che fosse mai esistito. Non il Coleman pre–spettri non ancora calunniato come razzista, ma il Coleman contaminato soltanto dal desiderio. – Lasciata la marina, trovai casa al Village, – prese a raccontarmi mentre ordinava le carte che aveva in mano, – e là non dovevo far altro che scendere nella metropolitana. Era come andare a pescare, laggiù. Scendere nella metropolitana e risalirne con una ragazza. E poi, – s'interruppe per

raccogliere il mio scarto, – tutto in una volta mi laureai, mi sposai, trovai lavoro, ebbi dei figli, e quella fu la fine della pesca. – E non sei più andato a pescare? – Quasi mai. E' vero. Mai, praticamente. Si potrebbe dire mai. Senti queste canzoni? – Le quattro radio della casa erano accese, perciò anche fuori in strada sarebbe stato impossibile non sentirle. – Dopo la guerra le canzoni erano queste, – disse. – Quattro, cinque anni di canzoni, le ragazze, e tutti i miei ideali erano raggiunti. Ho trovato una lettera, oggi. Mentre riordinavo il materiale di Spettri ho trovato la lettera di una delle ragazze. Della ragazza. Dopo la mia prima nomina a Long Island, all'Adelphi, quando Iris era incinta di Jeff, arrivò questa lettera. Una ragazza alta quasi un metro e ottanta. Anche Iris era una ragazzona. Ma non grande come Steena. Iris era sostanziosa. Steena era un'altra cosa. Steena mi spedì questa lettera nel 1954, ed è saltata fuori oggi mentre buttavo via le carte. Dalla tasca posteriore degli shorts Coleman tirò fuori la busta originaria contenente la lettera di Steena. Era sempre a torso nudo, cosa che non potei fare a meno di notare, ora che, usciti dalla cucina, eravamo sulla veranda: era una sera di luglio, calda, sì, ma fino a un certo punto. Non mi era mai sembrato che la sua considerevole vanità si estendesse al proprio fisico. Ma ora mi pareva che questa esibizione dell'abbronzata superficie del suo corpo esprimesse qualcosa di più di una semplice comodità. In mostra erano le spalle, le braccia e il petto di un uomo piuttosto piccolo ancora asciutto e attraente, un ventre non più piatto, certamente, ma nulla che fosse davvero sfuggito di mano: in complesso, il fisico di un uomo che sembrava essere stato, nello sport, un atleta più scaltro e avveduto che irresistibile. E tutto questo, prima, mi era stato tenuto nascosto, perché indossava sempre una maglietta, e anche perché era stato così drasticamente consumato dalla rabbia. Nascosto, prima, era anche il piccolo tatuaggio blu alla Braccio di Ferro situato nella parte alta del braccio destro, proprio sopra l'articolazione della spalla: le parole «U.S. Navy» scritte tra i nebulosi bracci curvi di un'ancora in miniatura e lungo l'ipotenusa del muscolo deltoide. Un piccolissimo simbolo, se ce ne fosse stato bisogno, del milione di circostanze della vita altrui, di quella bufera di dettagli che formano il guazzabuglio di una biografia umana: un piccolissimo simbolo che mi ricordava perché la nostra comprensione della gente dev'essere sempre, per forza, nel migliore dei casi, difettosa. – L'hai tenuta? La lettera? L'avevi ancora? – dissi. – Doveva essere una lettera eccezionale. – Una mazzata. Mi era successo qualcosa che non avevo capito, fino a quella lettera. Ero sposato, avevo un posto di responsabilità, stavamo per avere un bambino, eppure non avevo capito che la fase delle Steena era chiusa. Ricevetti questa lettera e mi resi conto che erano cominciate vera-

mente le cose serie, la vita seria dedicata alle cose serie. Mio padre era il proprietario di un locale dalle parti di Grove Street, a East Orange. Tu sei di Weequahic, non conosci East Orange. Era il quartiere povero della cittadina. Lui era uno di quei padroni di bar ebrei che si trovavano dappertutto, nel New Jersey, e naturalmente tutti avevano rapporti con i Reinfeld e con la mafia: dovevano averli per forza, se volevano sopravvivere. Mio padre non era un attaccabrighe, ma lo era quanto bastava, e voleva per me qualcosa di meglio. Crepò mentre facevo l'ultimo anno di liceo. Ero figlio unico. L'adorato. Non volle nemmeno farmi lavorare nel suo bar, quando i tipi che lo frequentavano cominciarono a divertirmi. Tutto nella vita, compreso il locale (a partire dal locale), mi spinse a essere sempre uno studente serio e, a quei tempi, a studiare alle superiori, a scegliere il greco, che faceva ancora parte del vecchio programma di studi, sì, il figlio del padrone del bar non avrebbe potuto fare di più per essere più serio. La partita continuò, e Coleman depose le carte sul tavolo per mostrarmi la mano vincente. Quando cominciai a distribuirle, riprese la sua storia. Non l'avevo mai sentita. Non avevo mai sentito altro che la storia di com'era giunto a odiare l'università. – Be, – disse, – quando diventai un ultrarispettabile professore universitario, ed ebbi così realizzato il sogno di mio padre, credetti, proprio come mio padre, che la vita seria non sarebbe mai finita. Che non potesse finire mai, una volta in possesso delle credenziali. Invece è finita, Nathan. «O sono degli spettri?»: e mi sbattono fuori a calci nel culo. Quando Roberts era qui, amava dire alla gente che il mio successo come preside di facoltà derivava dal fatto che avevo imparato l'educazione in un bar. Il rettore Roberts, col suo aristocratico pedigree, era contento di avere questo attaccabrighe da bar parcheggiato nell'ufficio di là dal corridoio. Specie davanti agli esponenti della vecchia guardia, Roberts fingeva di compiacersi per le mie origini, anche se, come sappiamo, in realtà i gentili odiano queste storie sugli ebrei e su come sono venuti su dal niente. Sì, c'era una certa misura di scherno in Pierce Roberts, e anche allora, quando ci penso, a partire già da allora... – Ma qui Coleman si dominò. Basta. Basta con quell'idea pazzesca di essere il monarca deposto. L'offesa che non morirà mai viene ora dichiarata morta. Torniamo a Steena. Ricordare Steena aiuta enormemente. – La conobbi nel '48, – disse. – Io avevo ventidue anni, frequentavo la New York University grazie alla legge per i reduci, la marina era alle mie spalle, e lei ne aveva diciotto ed era a New York solo da qualche mese. Aveva un lavoro e andava anche lei all'università, ma di sera. Una ragazza del Minnesota, indipendente. Sicura di sé, o così sembrava. Danese da una parte, islandese dall'altra. Sveglia. Intelligente. Carina. Alta. Meravigliosamente alta. Quell'aspetto statuario, quando era sdraiata. Non l'ho mai dimenticato. Rimasi con lei per due anni. La chiamavo Voluptas. La figlia di

Psiche. Per i romani, la personificazione del piacere dei sensi. A questo punto mise giù le carte, prese la busta da dove l'aveva deposta accanto al mucchietto degli scarti, e ne sfilò la lettera. Una lettera scritta a macchina lunga un paio di pagine. – Ci eravamo incontrati per caso. Io venivo dall'Adelphi, ero in città per tutto il giorno, ed ecco Steena, che allora aveva ventiquattro o venticinque anni. Ci mettemmo a chiacchierare, e io le dissi che mia moglie era incinta, e lei mi spiegò cosa stava facendo, e poi ci salutammo con un bacio, tutto qui. Dopo circa una settimana mi arrivò questa lettera, presso il college. E' datata. La datò lei. Ecco: «18 agosto 1954». «Caro Coleman, – dice, – sono stata molto felice di vederti a New York. Il nostro colloquio è stato breve, ma dopo averti visto ho provato una tristezza autunnale, forse perché i sei anni che sono passati dal nostro primo incontro mettono in dolorosa evidenza quanti giorni della mia vita sono "finiti". Hai un aspetto magnifico, e sono lieta che tu sia felice. Sei stato anche un vero gentiluomo. Non ti sei buttato su di me. Che è quello che facesti (o sembrò che tu facessi) quando t'incontrai per la prima volta e tu affittavi quella stanza al seminterrato di Sullivan Street. Ricordi? Eri incredibilmente bravo in quegli attacchi, quasi come gli uccelli quando sorvolano la terra o il mare e adocchiano qualcosa che si muove, qualcosa che scoppia di vita, e si tuffano – prendendo la mira – per afferrarla. Ero stupefatta, quando ci siamo conosciuti, dalla tua instancabile energia. Ricordo la prima volta che venni in camera tua e, quando arrivai, mi sedetti su una sedia, e tu camminavi da un punto all'altro della stanza, fermandoti ogni tanto per appollaiarti su uno sgabello o sul divano. Avevi un divano sgangherato dell'Esercito della Salvezza dove dormivi prima che unissimo i nostri risparmi per andare a comprare Il Materasso. Mi offristi qualcosa da bere, e me lo porgesti mentre mi scrutavi con un'aria d'incredibile meraviglia e curiosità, come se fosse una specie di miracolo il fatto che io avessi le mani e potessi reggere un bicchiere, o che avessi una bocca con cui bere, o persino che mi fossi materializzata nella tua stanza il giorno dopo il nostro incontro in metropolitana. Parlavi, facevi domande, qualche volta rispondevi alle domande, con un'aria mortalmente seria ma anche spensierata, e anch'io mi sforzavo di dire qualcosa, ma conversare non mi riusciva altrettanto facile. Perciò ero là che ti guardavo, assorbendo e capendo molto più di quanto mi aspettassi di capire. Ma non riuscivo a trovare le parole da dire per colmare lo spazio creato dal fatto che tu sembravi attratto da me e che io ero attratta da te. Continuavo a pensare: "Non sono pronta. Sono appena arrivata in questa città. Non ora. Ma lo sarò, tra un altro po' di tempo, dopo qualche altra conversazione come questa, se potrò pensare a ciò che voglio dire". ("Pronta" a cosa, non lo so. Non soltanto a far l'amore. Pronta a essere). Ma poi tu "piombasti" su di me, Coleman, dal centro della stanza, o quasi, alla sedia che occupavo io, e io rimasi a bocca aperta, ma ero felice. Era troppo presto, e insieme non lo era».

Smise di leggere quando udì, alla radio, le prime battute di Bewitched, Bothered and Bewildered cantate da Sinatra. – Ho bisogno di ballare, – disse Coleman. – Vuoi ballare? Scoppiai in una risata. No, questo non era il selvaggio, esasperato, battagliero vendicatore di Spettri, emarginato e inasprito dalla vita; questo non era neanche un altro uomo. Questa era un'altra anima. Un'anima infantile, se è per questo. In quel momento mi formai un'idea precisa, sia dalla lettera di Steena che da Coleman mentre, a torso nudo, la leggeva, di come doveva essere stato, una volta, Coleman Silk. Prima di diventare un rivoluzionario preside di facoltà, prima di diventare un grave professore di lettere classiche (e molto tempo prima di diventare il paria di Athena), era stato non soltanto un ragazzo studioso, ma anche un ragazzo simpatico e seducente. Eccitato. Malizioso. Persino un po' diabolico, un Pan col naso schiacciato e il piede caprino. Una volta, prima che le cose serie prevalessero su tutto il resto. – Dopo che avrò ascoltato il resto della lettera, – risposi al suo invito a ballare. – Leggimi il resto della lettera di Steena. – Aveva lasciato il Minnesota da tre mesi quando c'incontrammo. Scesi nella metropolitana e ne risalii con lei. Be', – disse, – era così il 1948, – e tornò alla sua lettera. – «Ero innamoratissima di te, – lesse, – ma temevo che tu potessi trovarmi troppo giovane, una di quelle ragazze del Midwest insulse e poco interessanti, e per giunta tu già uscivi regolarmente con un'altra, "intelligente, simpatica e adorabile", anche se aggiungesti, con un sorriso sornione: "Non credo che ci sposeremo". "Perché no?" chiesi. "Forse mi sto annoiando", rispondesti, ottenendo così la garanzia che io avrei fatto qualunque cosa potessi immaginare per non annoiarti, compreso l'interrompere i contatti, se necessario, per non correre il rischio di diventare noiosa. Be', è tutto qui. Basta. Non dovrei nemmeno seccarti. Ti prometto di non farlo più. Abbi cura di te. Abbi cura di te. Abbi cura di te. Con molto affetto, Steena». – Eh sì, – dissi, – era così il 1948. – Su. Balliamo. – Ma non canticchiarmi niente all'orecchio. – Su. Alzati. Al diavolo, pensai, presto saremo morti tutt'e due, e così mi alzai, e là sulla veranda Coleman Silk e io cominciammo a ballare insieme il fox trot. Guidava lui, e io lo seguivo meglio che potevo. Ricordavo il giorno in cui aveva fatto irruzione nel mio studio dopo avere dato disposizioni per il funerale di Iris e, fuori di sé per il dolore e per la rabbia, mi aveva detto che dovevo scrivergli il libro su tutte le incredibili assurdità del suo caso, culminato nell'assassinio di sua moglie. Si sarebbe creduto che quell'uomo non avrebbe mai più avuto il minimo interesse per le frivolezze della vita, che tutto quanto c'era in lui di giocoso e spensierato fosse stato distrutto e

perduto, con la carriera, la reputazione e quella moglie formidabile. Forse il motivo per cui non mi passò neanche per la testa di ridere e lasciarlo, se voleva, ballare da solo sulla veranda, di ridere e divertirmi a guardarlo, forse il motivo per cui gli diedi la mano e lasciai che mi cingesse la vita con un braccio e mi spingesse con aria sognante qua e là sopra quel vecchio pavimento di pietra blu scura fu questo: perché il giorno in cui il cadavere di sua moglie era ancora caldo io ero là e avevo visto la faccia di Coleman. – Speriamo che non passi nessuno dei pompieri volontari, – dissi. – Già, – disse lui. – Non vogliamo mica che qualcuno mi batta sulla spalla e mi chieda: «Posso?» E continuammo a ballare. Non c'era nulla di scopertamente sensuale in tutto questo, ma poiché Coleman indossava solo gli shorts di tela e la mia mano era posata con naturalezza sulla sua schiena calda come se fosse la groppa di un cane o di un cavallo, non era un atto del tutto scherzoso. C'era una semiseria sincerità nel suo guidarmi qua e là sul pavimento di pietra, per non dire una gioia spensierata nel semplice fatto di essere vivi, fortuitamente e clownescamente vivi, vivi senza una ragione al mondo: la stessa gioia che provi da bambino quando impari a suonare per la prima volta un motivetto con un pettine e un pezzo di carta igienica. Fu quando ci sedemmo che Coleman mi parlò della donna. – Ho una relazione, Nathan. Ho una relazione con una donna di trentaquattro anni. Non so dirti l'effetto che mi ha fatto. – Abbiamo appena finito di ballare... Non occorre che tu me lo dica. – Credevo di averne abbastanza di ogni cosa. Ma quando questa roba torna a galla così avanti nella vita, dal nulla, totalmente inaspettata, non richiesta... torna a galla e non c'è nulla con cui diluirla, quando non devi più batterti su ventidue fronti, quando non sei più sprofondato nel disordine quotidiano... Quando è solo questo... – E quando lei ha trentaquattro anni... – Ed è infiammabile. Una donna infiammabile. Ha ritrasformato il sesso in un vizio. – «La belle dame sans merci ti ha reso schiavo». – Così pare. Io le dico: «Come ti trovi con uno di settantun anni?», e lei mi dice: «Con uno di settantun anni? E' l'ideale. Ha le sue abitudini e non può cambiare. Sai com'è fatto. Niente sorprese». – Cos'è che l'ha resa tanto saggia? – Le sorprese. Trentaquattro anni di sorprese crudeli le hanno dato la saggezza. Ma è una saggezza molto gretta, asociale. Crudele, anche. E' la saggezza di chi non si aspetta nulla. Questa è la sua saggezza e questa è la sua dignità, ma è una saggezza negativa, non quella che di giorno in giorno t'impedisce di perdere la rotta. Questa è una donna che la vita ha cercato di distruggere quasi per tutto il tempo in cui è stata in vita. Tutto quello che ha imparato viene da lì.

Coleman ha trovato qualcuno con cui parlare, pensai. Poi pensai: anch'io. Nel momento in cui un uomo comincia a parlarti di sesso, ti sta dicendo qualcosa che riguarda tutt'e due. Il novanta per cento delle volte non accade, e forse è meglio così, ma se non raggiungi un certo livello di candore a proposito del sesso e scegli invece di comportarti come se fosse l'ultima delle tue preoccupazioni, l'amicizia maschile non è completa. La maggior parte degli uomini non trovano mai un amico del genere. Non è comune. Ma quando capita, quando due uomini si trovano d'accordo su questa parte essenziale dell'essere un uomo, senza timore di essere giudicati, svergognati, invidiati o sorpassati, sicuri che nessuno tradirà la loro fiducia, il loro rapporto può essere umanamente fortissimo e dare come conseguenza un'inattesa intimità. Forse questo non gli è abituale, pensavo, ma poiché era venuto da me nel suo momento peggiore, carico dell'odio che, come avevo visto, lo aveva avvelenato per mesi, ora sentiva la libertà di trovarsi con qualcuno che, seduto al suo capezzale, lo aveva aiutato a guarire da una terribile malattia. Quello che sentiva non era tanto il bisogno di vantarsi quanto l'enorme sollievo di non dover tenere tutta per sé una cosa così nuova e sconcertante come la propria rinascita. – Dove l'hai trovata? – Sono andato a ritirare la posta alla fine della giornata e lei era là che lavava il pavimento. E' la bionda esile che a volte pulisce l'ufficio postale. Appartiene al personale regolarmente assunto di Athena. E' una delle bidelle del posto dove una volta io ero preside di facoltà. Quella donna non ha nulla. Faunia Farley. Si chiama così. Faunia non ha assolutamente nulla. – Perché non ha nulla? – Ha un marito, che l'ha picchiata così forte da farla andare in coma. Avevano un allevamento di vacche da latte. Lui lo ha amministrato così male che è fallito. Avevano due figli. Una stufa si è rovesciata, ha preso fuoco, e i due bambini sono morti asfissiati. Tolte le ceneri dei figli che tiene in una scatola di latta sotto il letto, Faunia non possiede niente di valore tranne una Chevrolet dell''83. L'unica volta che l'ho vista vicina alle lacrime è stato quando mi ha detto: «Non so che cosa fare delle ceneri». Questi disastri l'hanno inaridita, togliendole persino la capacità di piangere. E pensare che da bambina era ricca e privilegiata. Allevata in una grande casa a sud di Boston. Caminetti in ciascuna delle cinque camere da letto, i più bei mobili antichi, finissima porcellana di famiglia... Ogni cosa vecchia è la migliore, famiglia compresa. Può parlare, se vuole, nel modo più forbito. Ma dall'alto della scala sociale è caduta così in basso che ormai è una specie di minestrone linguistico. Faunia è stata privata dei diritti che avrebbero dovuto essere suoi. Declassata. Le sue sofferenze hanno qualcosa di veramente democratico. – Qual è stata la sua rovina? – La sua rovina è stata il patrigno. La sua rovina è stata la malvagità del-

l'alta borghesia. Quando aveva cinque anni ci fu un divorzio. Il padre facoltoso scoprì che la bella madre aveva un amante. Alla madre piacevano i quattrini, si risposò con uno che li aveva, e il ricco patrigno non lasciò più in pace la bambina. Coccole e carezze dal giorno del suo arrivo. Non poteva stare lontano da lei. Quest'angelo biondo da toccare, da palpare... Fu quando lui cercò di scoparsela che Faunia scappò via. Aveva quattordici anni. La madre non volle crederle. La portarono da uno psichiatra. Faunia disse allo psichiatra che cosa era successo, e dopo dieci sedute anche lo psichiatra si schierò col patrigno. «Ha preso le parti di quelli che lo pagavano, – dice Faunia. – Come tutti». Dopodiché la madre ebbe una relazione con lo psichiatra. Questa è la storia, come la racconta lei, delle cose che l'hanno indirizzata verso la vita di una donna tosta che è costretta a farsi strada da sola. Scappò di casa, abbandonò gli studi, andò nel Sud, trovò lavoro, tornò da queste parti, accettò il primo posto che le offrirono, e a vent'anni sposò questo agricoltore, più grande di lei, un allevatore, un reduce dal Vietnam, pensando che, se avessero lavorato sodo, tirato su dei bambini e fatto funzionare l'allevamento, avrebbe potuto avere una vita stabile e ordinata, anche se il marito era un po' tonto. Specialmente con un marito tonto. Credeva che le cose sarebbero andate meglio se quella col cervello fosse stata lei. Credeva che il suo vantaggio fosse questo. Si sbagliava. Insieme, non ebbero che guai. L'allevamento andò a rotoli. «Quella mezza sega – mi dice – comprò un trattore di troppo». E la picchiava regolarmente. La riempiva di lividi. Sai quale fu, per lei, quello che descrive come il clou del suo matrimonio? L'evento che lei chiama «la grande battaglia della merda calda». Una sera sono nella stalla dopo la mungitura e stanno discutendo di qualcosa, e quando, accanto a lei, una vacca fa una gran cagata, Faunia prende una manciata di merda e la tira in faccia a Lester. Lui reagisce nello stesso modo, e questo fu l'inizio. Mi ha detto: «La battaglia della merda calda è stato forse il momento più bello che abbiamo avuto insieme». Alla fine erano coperti di merda di vacca e si sbellicavano dalle risa, e dopo essersi lavati con la pompa nella stalla andarono a casa a scopare. Ma il bello era finito. Scopare era un centesimo del bello della battaglia. Scopare con Lester non è mai stato divertente: secondo Faunia, non ci sapeva fare. «Troppo tonto anche per scopare nel modo giusto». Quando mi dice che sono l'uomo ideale, io le rispondo che capisco benissimo come possa sembrarle così, avendomi incontrato dopo di lui. – E l'essersi battuta contro i Lester della sua vita con l'arma della merda calda da quando aveva quattordici anni cosa l'ha fatta diventare a trentaquattro? – chiesi. – A parte la sua crudele saggezza? Dura? Furba? Arrabbiata? Matta? – Questa vitaccia l'ha indurita, l'ha sessualmente indurita di sicuro, ma non l'ha fatta diventare matta. Non credo, almeno, ancora. Arrabbiata? Se c'è (e perché non dovrebbe?), è una rabbia furtiva. Una rabbia senza la rab-

bia. E, per una che sembra non avere mai avuto un briciolo di fortuna in vita sua, non si lamenta: non con me, in ogni modo. Ma quanto all'essere furba, no. A volte dice cose che sembrano furbe. Dice: «Forse dovresti pensare a me come a una compagna della stessa età che per caso sembra più giovane. Credo sia questa la mia posizione». Quando le ho chiesto: «Tu cosa vuoi da me?», ha detto: «Un po' di compagnia. Forse un po' di cultura. Sesso. Piacere. Non preoccuparti. E' tutto». Quando le ho detto, una volta, che era più saggia delle donne della sua età, mi ha risposto: «Sono più tonta delle donne della mia età». Era più intelligente di Lester, di sicuro, ma furba? No. In Faunia c'è qualcosa che ha sempre quattordici anni, ed è la cosa più lontana che ci sia dalla furbizia. Ha avuto una relazione col suo capo, il tale che l'ha ingaggiata. Smoky Hollenbeck. Sono stato io ad assumerlo: si occupa della manutenzione degli impianti del college. Qui, una volta, Smoky era un asso del football. L'ho conosciuto negli anni settanta, da studente. Adesso è ingegnere civile. Assume Faunia come bidella, e già al loro primo incontro lei capisce cosa gli frulla nella testa. Quell'uomo si sente attratto da lei. E' blindato in un matrimonio monotono, ma non ce l'ha con Faunia; non la guarda sdegnosamente, pensando: perché non ti sei sistemata, perché continui a fare questa vita da vagabonda e da sgualdrina? Non c'è nessuna superiorità borghese, in Smoky. Smoky fa tutte le cose giuste e le fa splendidamente (moglie, figli, cinque figli, più sposato di così!... Asso dello sport ancora in forza al college, popolare e ammirato in città), ma ha una dote: è anche capace di uscire dalla gabbia. Se tu parlassi con lui, non ci crederesti. L'uomo più conformista di Athena, quello che in tutto e per tutto si comporta come ci si deve comportare. Convinto al cento per cento di essere un modello. Ci si aspetterebbe che pensasse: questa stupida puttana con la sua vita incasinata? Fuori dal mio ufficio, cazzo! Invece no. Diversamente da tutti gli altri frequentatori di Athena, non è così assorbito dalla sua leggenda da essere incapace di pensare: sì, questa è proprio una figa che mi andrebbe di scopare. O da essere incapace di agire. E se la scopa, Nathan. Si porta a letto Faunia e un'altra bidella. Se le scopa tutt'e due. La cosa va avanti per sei mesi. Poi arriva un'agente immobiliare, una donna appena divorziata, nuova del posto, che si aggrega alle altre due. Il circo di Smoky. Il circo a tre piste clandestino di Smoky. Ma poi, dopo sei mesi, Smoky la molla: toglie Faunia dal giro e la molla. Non ne sapevo nulla finché me l'ha detto lei. E me l'ha detto solo perché una notte, a letto, rotea gli occhi e mi chiama col suo nome. Mi sussurra: «Smoky». Sopra il vecchio Smoky. L'essere stata con lui in quel ménage mi ha dato un'idea più chiara della persona con cui avevo a che fare. Ha alzato la posta. Veramente, mi ha dato la scossa: questa non è una dilettante. Quando le chiedo come fa Smoky ad attirare le sue orde, mi dice: «Con la forza del suo cazzo». «Spiegati meglio», le dico, e lei mi fa: «Lo sai che, quando in una stanza entra una vera figa, un uomo se ne accorge? Be', succede lo stesso

anche nell'altro senso. Con certe persone, qualunque sia la maschera che portano, si capisce cosa stanno lì a fare». Il letto è l'unico posto dove Faunia, in qualche modo, è furba, Nathan. Attrice protagonista in lei è una spontanea furbizia fisica, seconda attrice un'audacia trasgressiva. A letto nulla sfugge all'attenzione di Faunia. La sua carne ha occhi. La sua carne vede tutto. A letto Faunia è un essere forte, coerente, unificato, il cui piacere consiste nell'oltrepassare i limiti. A letto Faunia è un autentico fenomeno. Forse questo è il prodotto delle molestie da lei subite tanto tempo fa. Quando scendiamo in cucina, quando faccio delle uova strapazzate e ci sediamo a mangiare insieme, è una bambina. Forse anche questo è un effetto delle molestie. In quel momento io sono in compagnia di una bambina, distratta, incoerente, inespressiva. Questo non accade in nessun altro posto. Ma ogni volta che mangiamo, eccoci qua: io e la mia bambina. Come se saltasse fuori quel po' di figlia che ha ancora dentro. Non riesce a star seduta con la schiena diritta, non infila due frasi legate tra loro. Tutta la sua apparente nonchalance in materia di sesso e di tragedia, tutto questo sparisce, e mentre sono là seduto mi viene voglia di dirle: «Tirati su, togli dal piatto la manica del mio accappatoio, cerca di ascoltare quello che dico e guardami, maledizione, quando parli». – E lo dici? – Non mi pare consigliabile. No, non lo dico: fino a quando preferirò conservare l'intensità di quello che c'è. Penso a quel barattolo di metallo sotto il letto, dove tiene le ceneri di cui non sa che fare, e mi viene voglia di dirle: «Sono due anni. E' ora di seppellirli. Se non riesci a metterli sottoterra, va' giù al fiume e butta le ceneri dal ponte. Lascia che la corrente se le porti via. Lascia che vadano. Verrò con te e ti aiuterò a farlo. Lo faremo insieme». Ma io non sono il padre di questa figlia: il mio ruolo non è questo. Non sono il suo professore. Non sono il professore di nessuno. Sono in pensione, io: ho smesso d'insegnare alla gente, di correggere la gente, di consigliare, esaminare e illuminare la gente. Sono un uomo di settantun anni con un'amante di trentaquattro; questo mi rende inadatto, nello stato del Massachusetts, a illuminare chicchessia. Prendo il Viagra, Nathan. Ecco la belle dame sans merci. Devo tutta questa turbolenza e tutta questa felicità al Viagra. Senza il Viagra non accadrebbe nulla di tutto questo. Senza il Viagra avrei una visione del mondo appropriata alla mia età e aspirazioni completamente diverse. Senza il Viagra avrei la dignità di un vecchio signore ormai privo di desideri che si comporta nel modo più corretto. Non farei una cosa che non ha senso. Non farei una cosa disdicevole, sconveniente, scriteriata e potenzialmente disastrosa per tutti gli interessati. Senza il Viagra continuerei, negli anni del mio declino, a sviluppare l'ampia e impersonale prospettiva di un uomo colto e ricco di esperienza, congedato con tutti gli onori, che da un pezzo ha rinunciato al sensuale godimento della vita. Continuerei a trarre profonde conclusioni filosofiche e ad

avere un'influenza morale stabilizzante sui giovani, invece di essere tornato in quel perenne stato di emergenza che è l'intossicazione sessuale. Grazie al Viagra sono arrivato a capire le trasformazioni amorose di Zeus. Ecco come avrebbero dovuto chiamarlo, il Viagra. Avrebbero dovuto chiamarlo Zeus. E' stupito di raccontarmi tutto questo? Forse sì. Ma è troppo elettrizzato per fermarsi. E' lo stesso impulso che lo ha spinto a ballare con me. Sì, pensavo, non è più scrivendo Spettri che si riscatta da quell'umiliazione; è scopando Faunia. Ma a spingerlo c'è qualcosa di più. C'è il desiderio di liberare il bruto, di sfogare quella forza: per mezz'ora, per due ore, per tutto il tempo che vuole: sentirsi libero di fare la cosa che gli viene naturale. E' stato sposato a lungo. Ha avuto dei figli. Era il preside di facoltà di un college. Per quarant'anni ha fatto quello che si doveva fare. Era un uomo indaffarato, e quella cosa naturale che è il bruto è rimasta chiusa in una scatola. E ora quella scatola si è aperta. Essere preside di facoltà, essere un padre, essere un marito, essere uno studioso, un insegnante, leggere libri, tenere lezioni, correggere compiti, dare voti... Tutto questo è finito. A settantun anni non sei, naturalmente, il bruto focoso e assatanato che eri a ventisei. Ma i resti del bruto, i resti della cosa naturale... E' con i resti che mantiene il contatto. E la conseguenza è che è felice, è grato di questo contatto. E' più che felice: è eccitato, ed è già legato, profondamente legato a lei, a causa di questa eccitazione. Non è la famiglia a fargli questo effetto: la biologia non gli serve più. Non è la famiglia, non è la responsabilità, non è il dovere, non è il denaro, non è una filosofia condivisa né l'amore per la let teratura, non sono le profonde discussioni di grandi idee. No, a legarlo a lei è l'eccitazione. Domani gli scoprono un cancro, e buonanotte. Ma oggi può provare questo brivido. Perché me lo racconta? Perché, per potersi abbandonare liberamente a tutto questo, qualcuno deve saperlo. E' libero di abbandonarsi, pensai, perché in palio non c'è nulla. Perché non c'è futuro. Perché lui ha settantun anni e lei trentaquattro. Non lo fa per imparare, non lo fa per programmare la sua vita, ma per l'avventura; lo fa per lo stesso motivo per cui lo fa lei: per il gusto di farlo. Quei trentasette anni hanno rimosso ogni impedimento. Un vecchio e, per l'ultima volta, la carica sessuale. Cosa c'è di più toccante, per chiunque? – Naturalmente sono costretto a domandarmi – disse Coleman – che ci fa, Faunia, con me. Cosa le passa, veramente, per la testa? Un'esperienza nuova ed eccitante, per lei, mettersi con un uomo che potrebbe essere suo nonno? – Esistono, immagino, donne così, – dissi, – per le quali è un'esperienza eccitante. Ce ne sono di tutti i generi, perché non dovrebbero essercene anche di questo? Guarda, Coleman, evidentemente c'è un ufficio da qualche parte, un'agenzia federale che si occupa dei vecchi, e lei è mandata da que-

sta agenzia. – Quando ero giovane, – mi disse Coleman, – non sono mai andato con donne brutte. Ma in marina avevo un amico, Farriello, e le brutte erano la sua specialità. Giù a Norfolk, se andavamo a ballare all'oratorio, se la sera andavamo all'Uso3, Farriello puntava direttamente sulla ragazza più brutta. Quando lo sfottevo, mi diceva che non sapevo che cosa perdevo. Sono frustrate, diceva. Non sono belle, diceva, come le principesse che scegli tu, perciò sono pronte a fare tutto quello che vuoi. La maggior parte degli uomini sono stupidi, diceva, perché non lo sanno. Non capiscono che basta abbordarla perché la donna più brutta diventi la più straordinaria. Se riesci a farla aprire, cioè. Ma se ci riesci? Se riesci a farla aprire, in principio non sai cosa fare, tanto vibra. E tutto perché è brutta. Perché non viene mai scelta da nessuno. Perché deve starsene in un angolo quando tutte le altre ballano. Ed essere vecchi è così. E' essere come quella ragazza brutta. Starsene in un angolo durante il ballo. – Dunque Faunia è il tuo Farriello. Sorrise. – Più o meno. – Be', qualunque altra cosa possa succedere, – gli dissi, – grazie al Viagra non devi più sopportare la tortura di scrivere quel libro. – Credo di sì, – disse Coleman. – Credo che sia vero. Quello stupido libro. E ti ho detto che Faunia non sa leggere? L'ho scoperto quando siamo andati nel Vermont, una sera a cena. Non riusciva a leggere il menu. L'ha messo da parte. Quando vuole avere un'aria adeguatamente sprezzante, ha un modo tutto suo di arricciare mezzo labbro superiore, di arricciarlo appena appena e poi di dire quello che ha in mente. In un tono adeguatamente sprezzante dice alla cameriera: «Qualunque cosa prenda lui, lo stesso». – E' andata a scuola fino a quattordici anni. Come mai non sa leggere? – Pare che la capacità di leggere sia venuta a mancarle con l'infanzia durante la quale aveva imparato a farlo. Le ho chiesto come è potuto accadere, ma mi ha risposto con una risata. «Facile», dice. I bravi progressisti giù ad Athena stanno cercando d'incoraggiarla a iscriversi a un programma di alfabetizzazione, ma Faunia non vuole saperne. «E non provarti a insegnarmi qualcosa. Fa' di me tutto quello che vuoi, – mi disse quella notte, – ma non dirmi stronzate. E' già abbastanza brutto dover sentire parlare la gente. Comincia a insegnarmi a leggere, costringimi, forzami a farlo, e sarà colpa tua se darò i numeri». Ho taciuto per tutto il viaggio di ritorno dal Vermont, e lei pure. Solo quando siamo arrivati a casa ci siamo scambiati qualche parola. «Non te la senti di scopare una che non sa leggere, – ha detto lei. – Vuoi lasciarmi perché non sono una persona normale e rispettabile che legge. Stai per dirmi: Impara a leggere o vattene». «No, – le ho detto, – ti sco però con più gusto proprio perché non sai leggere». «Bene, – ha detto lei, – 3

United Service Organizations [N.d.T.].

siamo intesi, allora. Io non lo faccio come le ragazze istruite e non voglio che con me tu lo faccia come con loro». «Ti scoperò – le ho detto – solo per quello che sei». «Così va bene», fa lei. A questo punto ridevamo tutt'e due. Faunia ha la risata della barista che tiene una mazza da baseball sotto il banco per ogni eventualità, perciò sbottava in quella sua risata, quella risata ringhiosa da persona che ne ha viste di tutti i colori – sai, la risata rauca e disinvolta della donna con un passato – e già mi stava sbottonando i pantaloni. Ma ci aveva preso, perché avevo proprio deciso di lasciarla. Per tutto il viaggio di ritorno dal Vermont ho pensato esattamente ciò che Faunia ha detto che stavo pensando. Ma non lo farò. Non voglio imporle la mia splendida virtù. Né a lei né a me. E' finita. So bene che queste cose hanno un prezzo. So che non c'è assicurazione che tenga. So che la cosa che ti sta risanando può finire per ucciderti. So che tutti gli errori che può fare un uomo hanno di solito un acceleratore sessuale. Ma in questo momento non me ne importa nulla. Mi sveglio la mattina e per terra c'è un asciugamano, c'è un baby oil sul comodino. Come fanno queste cose a essere lì? Poi mi viene in mente. Sono lì perché sono ancora vivo. Perché sono di nuovo nell'uragano. Perché è così, con un «è» grande come una casa. Non rinuncerò a lei, Nathan. Ho cominciato a chiamarla Voluptas. In seguito a un intervento chirurgico per l'asportazione della prostata che ho subìto diversi anni fa – un intervento oncologico che, sebbene riuscito, non è stato privo dei postumi negativi quasi inevitabili in queste operazioni a causa dei nervi lesionati e delle ferite interne – sono diventato incontinente, e per questo la prima cosa che feci quando arrivai a casa fu liberarmi del pannolone assorbente che porto giorno e notte, infilato nelle mutande come un hot dog in un panino. Poiché quella sera faceva molto caldo, e la mia meta non era un locale pubblico o un evento mondano, avevo cercato di cavarmela con un normale paio di mutande di cotone infilate sopra il pannolone al posto di quelle di plastica, e il risultato era che l'urina era filtrata fino ai pantaloni cachi. Quando arrivai a casa scoprii che i pantaloni si erano macchiati sul davanti e che puzzavo un po': i pannoloni vengono trattati, ma in questo caso si sentiva un certo odore. Coleman e la sua storia mi avevano talmente affascinato da spingermi a ridurre la sorveglianza. In tutto il tempo che ero rimasto là, bevendo una birra, ballando con lui, prendendo atto della chiarezza – la prevedibile razionalità e chiarezza descrittiva – con cui cercava di rendere meno sconvolgente per se stesso la svolta impressa alla sua vita, non ero andato a darmi una controllata, come faccio sempre durante il giorno, e così ciò che adesso mi capita di tanto in tanto era capitato quella sera. No, una disavventura come questa non mi manda nel pallone come quando, nei mesi successivi all'intervento, facevo i miei primi esperimenti

sul modo di risolvere il problema: quando ero, ovviamente, abituato a essere un adulto spensierato, asciutto e inodore in possesso della capacità dell'adulto di controllare le funzioni corporali elementari, uno che per circa sessant'anni aveva badato ai fatti suoi senza preoccuparsi dello stato della propria biancheria. Sento almeno una fitta di dolore, tuttavia, quando devo affrontare qualcosa di peggio del solito inconveniente entrato ormai a far parte della mia vita, e continua a disperarmi il pensiero che per me non sarà mai più possibile mitigare ciò che in sostanza definisce la condizione infantile. Dopo l'intervento sono diventato anche impotente. La terapia farmacologica che nell'estate del 1998 era praticamente nuova di zecca e che aveva già dato prova, nel breve tempo in cui era stata sul mercato, di essere qualcosa di simile a un miracoloso elisir, restituendo la potenza funzionale a molti uomini anziani, ma sani, come Coleman, non mi è stata di alcuna utilità per i gravi danni ai nervi prodotti dall'operazione. Per le condizioni come la mia, il Viagra non poteva fare niente, ma anche se si fosse dimostrato utile non credo che lo avrei preso. Voglio chiarire che non è stata l'impotenza a spingermi verso un'esistenza da recluso. Al contrario, io vivevo e scrivevo già da circa diciotto mesi nei due locali della mia casa sui Berkshire quando, in seguito a una visita medica di routine, ricevetti una diagnosi preliminare di cancro alla prostata e, un mese più tardi, dopo le analisi, andai a Boston per la prostatectomia. Voglio dire che, venendo qui, io avevo cambiato deliberatamente i miei rapporti con lo stimolo sessuale, e non perché le sue esortazioni (o se è per questo, le mie erezioni) fossero state effettivamente indebolite dal tempo, ma perché non potevo più sostenere i costi del suo rumoreggiare, non avevo più lo spirito, la forza, la pazienza, l'illusione, l'ironia, l'ardore, l'egoismo, l'elasticità – o la durezza, o la furbizia, o la falsità, la dissimulazione, la duplicità, il professionismo erotico – per affrontare il suo spiegamento di significati ingannevoli e contraddittori. Di conseguenza potei attutire un po' lo choc postoperatorio che provai di fronte alla prospettiva di uno stato d'impotenza permanente ricordando che l'intervento chirurgico non aveva fatto altro che obbligarmi a una rinuncia alla quale mi ero già sottoposto volontariamente. L'operazione non fece altro che dare definitivo vigore a una decisione alla quale ero arrivato da solo, sotto la pressione di un'esperienza di relazioni amorose durata tutta la vita, ma in un momento di potenza piena, irrequieta e vigorosa, quando l'avventurosa coazione maschile a ripetere l'atto sessuale – a ripeterlo in continuazione – non era scoraggiata da problemi fisiologici. Fu solo quando Coleman mi parlò di sé e della sua Voluptas che tutte le consolanti illusioni sulla serenità conquistata grazie a una superiore rassegnazione svanirono, e io persi totalmente l'equilibrio. Rimasi a letto, sveglio, fin quasi al mattino, incapace – come un pazzo – di controllare i miei

pensieri, ipnotizzato dall'altra coppia, che non potevo non paragonare alla mia disastrosa situazione. Rimasi a letto, sveglio, senza fare nemmeno il tentativo d'impedirmi di ricostruire mentalmente l'«audacia trasgressiva» alla quale Coleman non voleva rinunciare. E l'avere ballato qua e là come un eunuco inoffensivo con quel partecipante alla frenesia, ancora potente e pieno di vita, mi fece l'impressione di una beffa tutt'altro che piacevole. Com'è possibile dire: «No, questo non fa parte della vita», quando invece ne fa parte in ogni suo momento? L'agente inquinante del sesso, la corruzione liberatrice che deidealizza la specie e ci costringe a pensare eternamente alla materia di cui siamo fatti. A metà della settimana successiva Coleman ricevette la lettera anonima, una frase, soggetto, predicato e taglienti relative, scritta a mano in grande su un foglio di carta bianca da macchina, un messaggio di diciotto parole che voleva essere un'accusa e che riempiva il foglio da cima a fondo: TUTTI SANNO che stai sfruttando sessualmente una donna maltrattata e analfabeta che ha la metà dei tuoi anni. La scrittura, sia sulla busta che sulla lettera, era nell'inchiostro rosso di una penna a sfera. Nonostante il timbro postale di New York City sulla busta, Coleman riconobbe immediatamente la calligrafia come quella della giovane francese che aveva assunto la direzione del suo dipartimento quando lui era tornato a insegnare dopo avere lasciato la carica di preside di facoltà e che poi era stata tra i più smaniosi di vederlo smascherato come razzista e severamente punito per l'offesa recata ai due studenti neri assenteisti. Tra le carte di Spettri, in parecchi dei documenti generati dal suo caso, Coleman trovò campioni di calligrafia che confermarono l'identificazione della professoressa Delphine Roux, del dipartimento di lingue e letteratura, come l'autrice della lettera anonima. Tolta la prima coppia di parole, scritte a stampatello, la donna non aveva fatto nessuno sforzo visibile per metterlo fuori strada alterando la propria calligrafia. Forse aveva iniziato con quell'intento, ma sembrava che l'avesse abbandonato o se ne fosse dimenticata dopo avere scritto TUTTI SANNO. Sulla busta, la professoressa di origine francese non si era nemmeno curata di astenersi, nell'indirizzo e nel codice postale di Coleman, dallo scrivere il sette nel modo rivelatore degli europei. Questa negligenza, uno strano disinteresse – in una lettera anonima – per l'occultamento dei segni della propria identità, si sarebbe potuta spiega-

re con uno stato di estremo turbamento emotivo, che non le aveva permesso di pensare fino in fondo a quello che faceva prima di sparare la bordata di quella lettera; solo che la lettera non era stata impostata localmente – e frettolosamente – ma mostrava, dal timbro postale, di avere viaggiato per circa centoquaranta miglia verso sud prima di cadere nella buca. Forse la donna aveva immaginato che non ci fosse nulla di speciale o di abbastanza eccentrico nella sua calligrafia perché Coleman potesse riconoscerla dai tempi in cui era preside di facoltà; forse non si era ricordata dei documenti riguardanti il caso degli «spettri», gli appunti dei suoi due colloqui con Tracy Cummings che aveva passato alla commissione d'inchiesta insieme al rapporto finale con la sua firma. Forse non si era resa conto che la commissione aveva fornito a Coleman, dietro sua richiesta, una fotocopia degli appunti originali e tutti gli altri dati concernenti l'accusa mossa contro di lui. O forse non le importava che Coleman determinasse chi, al college, aveva scoperto il suo segreto: forse voleva deriderlo con la minacciosa aggressività di una denuncia anonima, e nello stesso tempo, rivelare, o quasi, che la denuncia veniva da qualcuno oggi tutt'altro che privo di potere. Il pomeriggio in cui Coleman telefonò per chiedermi di andare a vedere la lettera anonima, tutti i campioni della calligrafia di Delphine Roux tratti dai documenti di Spettri erano ordinatamente schierati sul tavolo della cucina, gli originali e le fotocopie degli originali sulle quali Coleman aveva cerchiato, in rosso, ogni tratto di penna che a suo giudizio riproduceva i tratti della lettera anonima. Segnate, soprattutto, erano certe lettere isolate – una «f», una «s», una «m», qui una «e» finale con un occhio particolarmente grande, lì una «e» che sembrava un po' una «i» quando si rannicchiava contro una «s» adiacente, ma più simile a una «e» scritta tradizionalmente quando veniva prima di una «t» – e, anche se le similarità nella scrittura tra la lettera e i documenti di Spettri erano degne di nota, fu solo quando mi mostrò dove il suo nome completo compariva sulla busta, e dove compariva negli appunti sui colloqui con Tracy Cummings, che mi parve indiscutibile che Coleman avesse inchiodato il colpevole che aveva tentato d'inchiodare lui. TUTTI SANNO che stai sfruttando sessualmente una donna maltrattata e analfabeta che ha la metà dei tuoi anni. Mentre tenevo la lettera in mano e, più cautamente che potevo (e come Coleman avrebbe voluto che facessi), valutavo la scelta delle parole e il loro schieramento sulla pagina come se fossero state composte non da Delphine Roux ma da Emily Dickinson, Coleman mi spiegò che era stata Fau-

nia, con quella sua saggezza primitiva, e non lui, a vincolarli al segreto che Delphine Roux in qualche modo aveva scoperto e che stava più o meno minacciando di svelare. – Io voglio che nessuno ficchi il naso nella mia vita. L'unica cosa che voglio è una tranquilla scopata una volta la settimana, di nascosto, con un uomo che le ha viste tutte e non si meraviglia più di niente. Non sono affari di nessuno, cazzo. Il «nessuno» al quale Faunia risultò alludere era soprattutto Lester Farley, il suo ex marito. Non che fosse stata, in vita sua, maltrattata solo da quell'uomo: – Come potrei, visto che me ne sto per conto mio da quando avevo quattordici anni? – Quando ne aveva diciassette, per esempio, ed era giù in Florida a fare la cameriera, il suo boyfriend di allora non soltanto la picchiò e le sfasciò l'appartamento, ma le rubò anche il vibratore. – Questo sì che mi ha fatto male, – disse Faunia. E la molla era sempre la gelosia. Aveva guardato un altro uomo nel modo sbagliato, aveva invitato un altro uomo a guardarla nel modo sbagliato, non aveva spiegato in modo convincente dov'era stata la mezz'ora prima, aveva detto una parola sbagliata, usato l'intonazione sbagliata, segnalato, senza fondamento, secondo lei, di essere una donnaccia infedele e indegna di fiducia... Qualunque fosse il motivo, il suo uomo, chiunque fosse, le saltava addosso e la prendeva a calci e pugni, e a Faunia non restava che invocare aiuto. L'anno prima del divorzio Lester Farley l'aveva mandata due volte all'ospedale, e poiché abitava ancora in qualche posto tra le montagne e, da quando era fallito, lavorava come cantoniere, e poiché non c'era dubbio che fosse sempre fuori di testa, Faunia aveva paura per Coleman, disse, come aveva paura per se stessa, se Farley avesse mai scoperto come stavano le cose. Sospettava che il motivo per cui Smoky l'aveva piantata così precipitosamente fosse una lite o uno scontro avuto con Les Farley: perché Les, periodico pedinatore della sua ex moglie, doveva in qualche modo aver saputo di lei e del suo capo, anche se gli appuntamenti di Faunia con Hollenbeck avvenivano in luoghi notevolmente ben nascosti, confinati com'erano negli angoli remoti di vecchi edifici dei quali nessuno, tranne il capo della manutenzione del college, conosceva l'esistenza e ai quali solo lui poteva accedere. Per quanto potesse sembrare una sventatezza, da parte di Smoky, reclutare le sue amichette tra le bidelle e incontrarsi con loro all'interno del campus, in tutto il resto Smoky era tanto meticoloso nell'organizzazione dei suoi spassi quanto lo era nel lavoro per il college. Con la stessa rapidità professionale con cui liberava in poche ore le strade del campus dalla neve caduta durante una tormenta, Smoky poteva, in caso di necessità, disfarsi di una delle sue ragazze. – Dunque, cosa faccio? – mi chiese Coleman. – Non ero contrario a tenere nascosta la faccenda già prima di sapere dell'ex marito violento. Sapevo che sarebbe capitata una cosa come questa. Dimentica che una volta ero il preside di facoltà dove ora lei pulisce i cessi. Io ho settantun anni e lei

trentaquattro. Bastava questo, ne sono certo, e così, quando mi ha detto che non erano affari di nessuno, ho pensato: mi ha tolto le castagne dal fuoco. Non devo nemmeno sfiorare l'argomento. Vuoi viverlo come un adulterio? Per me va bene. Ecco perché andavamo a cena nel Vermont. Ecco perché, se c'incontriamo all'ufficio postale, evitiamo persino di salutarci. – Forse vi ha visto qualcuno, nel Vermont. Forse qualcuno vi ha visto insieme in macchina. – Giusto. Probabilmente è andata così. E' l'unica cosa che potrebbe essere accaduta. A vederci potrebbe essere stato Farley in persona. Cristo, Nathan, non andavo a un appuntamento da quasi cinquant'anni. Credevo che il ristorante... Sono un idiota. – No, non si tratta d'idiozia. No, no... Eri solo diventato claustrofobico. Guarda – dissi – Delphine Roux... Non pretendo di capire perché dovrebbe interessarsi tanto delle donne con cui scopi mentre sei in pensione, ma poiché sappiamo che altre persone non apprezzano chi non rispetta le convenzioni, poniamo che lei sia una di queste persone. Tu, però, non lo sei. Tu sei libero. Sei un uomo libero e indipendente. Un vecchio libero e indipendente. Hai perduto molto lasciando quel posto, ma... E quello che hai guadagnato? Illuminare la gente non è più compito tuo: l'hai detto tu stesso. E questo non è un test destinato a verificare se puoi o non puoi disfarti di ogni residua inibizione sociale. Oggi tu puoi essere in pensione, ma sei un uomo che ha passato praticamente tutta la vita entro i limiti della società accademica locale: e, se ho capito bene, questa è per te una cosa eccezionale. Forse non avresti mai voluto che ti capitasse d'incontrare Faunia. Puoi anche credere che non avresti dovuto desiderarlo. Ma le difese più forti sono piene di punti deboli, e così ecco arrivare di soppiatto l'ultima cosa al mondo che ti saresti aspettato. A settantun anni, ecco Faunia; nel 1998, ecco il Viagra; ecco, ancora una volta, quella cosa quasi dimenticata. L'enorme conforto. La pura e semplice potenza. L'intensità che disorienta. Come un fulmine a ciel sereno, l'ultima grande avventura di Coleman Silk. Per quel che ne sappiamo, una botta di vita all'ultimo momento. I particolari della biografia di Faunia Farley fanno un inverosimile contrasto con la tua; e allora? Non si adattano all'idea che hanno le persone perbene di chi dovrebbe andare a letto con un uomo della tua età e nella tua posizione... posto che debba proprio esserci qualcuno; e allora? Forse che si adattava a questa idea il fatto che tu usassi la parola «spettri»? E l'ictus di Iris? Anche quello si adattava a questa idea? Ignora questa lettera stupida e vuota. Perché dovresti lasciarti scoraggiare? – Una lettera anonima stupida e vuota, – disse lui. – Chi mi ha mai spedito una lettera anonima? Chi, capace di raziocinio, manda a qualcuno una lettera anonima? – Forse è una cosa di origine francese, – dissi. – Non se ne trovano tante in Balzac? In Stendhal? Non ci sono lettere anonime nel Rosso e il nero?

– Non ricordo. – Guarda, per qualche ragione tutto quello che fai tu deve avere come spiegazione la crudeltà, e tutto quello che fa Delphine Roux deve avere come spiegazione la virtù. La mitologia non è piena di giganti, di mostri e di serpenti? Definendoti un mostro, lei si definisce un'eroina. Questo è il suo modo di uccidere il mostro. E' la sua vendetta per il fatto che tu imponi la tua volontà ai più deboli. Sta attribuendo un aspetto mitologico a tutta questa storia. Dal sorriso indulgente con cui mi guardò, compresi che non facevo molta strada formulando, anche solo per scherzo, un'interpretazione pre–omerica di quell'anonimo atto d'accusa. – Non puoi trovare nella mitologia – mi disse – una spiegazione dei suoi processi mentali. Non ha le risorse immaginative necessarie. La sua specialità sono le storie narrate dai contadini per spiegare i loro misteri. Il malocchio. Gli incantesimi. Io ho stregato Faunia. I racconti popolari pieni di maghi e di streghe, ecco il suo campo. Adesso ci stavamo divertendo, e io mi resi conto che nel tentativo di distrarlo dalla sua profonda irritazione difendendo il primato del piacere avevo alimentato la simpatia che Coleman provava per me, e mostrato al tempo stesso la simpatia che provavo io per lui. Mi stavo entusiasmando in modo esagerato, e lo sapevo. Ero ansioso di piacergli e questo mi stupiva, sentivo che stavo parlando troppo, dando troppe spiegazioni, ero coinvolto e sovreccitato come quando sei un bambino e credi di avere trovato un'anima gemella nel nuovo ragazzo arrivato nella tua strada, e ti senti attratto dalla forza del corteggiamento, e per questo agisci come in genere non fai e molto più apertamente di quanto potresti persino desiderare. Ma da quando aveva bussato alla mia porta dopo la morte di Iris per propormi di scrivergli Spettri mi ero accorto di avere stretto, senza pensarci o averne l'intenzione, un'autentica amicizia con Coleman Silk. Non prestavo attenzione alla sua vicenda per fare un semplice esercizio mentale. I suoi problemi m'interessavano veramente, e ciò malgrado la determinazione di non badare ad altro, nel tempo che mi restava, che alle esigenze quotidiane del lavoro, di farmi assorbire soltanto da quello, di non cercare avventure in nessun altro posto: di non avere neppure una vita mia della quale dovermi occupare, per non parlare di quella di qualcun altro. E fu con una certa delusione che presi nota di tutto questo. Rinunciare alla società, astenersi dalle distrazioni, imporsi una netta separazione da ogni estremo desiderio professionale e illusione sociale e veleno culturale e allettante intimità, optare per una reclusione rigorosa come quella praticata dai devoti di qualche religione che si chiudono in caverne o celle o capanne isolate nella foresta... Per tutto questo ci vuole una stoffa più resistente di quella di cui sono fatto io. Da solo avevo resistito appena cinque anni, cinque anni leggendo e scrivendo qualche miglio su per il monte Madamaska in un'accogliente casetta di due stanze situata tra un piccolo stagno sul retro

e, oltre la boscaglia e la strada in terra battuta, una palude di circa quattro ettari dove si rifugiano ogni sera le oche che migrano dal Canada e un paziente airone blu dedica tutta l'estate alla sua pesca solitaria. Per vivere nel trambusto del mondo con un minimo di sofferenza c'è un segreto: convincere il maggior numero possibile di persone ad assecondare le tue illusioni; per vivere da solo quassù, lontano da ogni inquietante allettamento, aspettativa e relazione, lontano soprattutto dalla propria intensità, il trucco consiste nell'organizzare il silenzio, nel pensare alla sua pienezza montana come a un capitale, al silenzio come a una ricchezza che aumenta in modo esponenziale. Nel pensare al silenzio che ti circonda come alla fonte di profitto che hai scelto liberamente, e al tuo solo amico intimo. Il trucco sta nel trovare sostentamento (sempre Hawthorne) «nella comunicazione di uno spirito solitario con se stesso». Il segreto consiste nel trovare sostentamento in persone come Hawthorne, nella saggezza di questi morti illustri. C'è voluto del tempo per affrontare e risolvere i problemi posti da questa scelta, del tempo e la pazienza di un airone per soffocare il desiderio di tutte le cose che erano svanite, ma dopo cinque anni ero diventato così abile nel suddividere chirurgicamente le mie giornate che non c'era più un'ora della tranquilla esistenza che avevo abbracciato che non avesse, per me, la sua importanza. La sua necessità. Addirittura la sua eccitazione. Non indulgevo più al pernicioso desiderio di qualcos'altro, e l'ultima cosa che pensavo di poter ancora sopportare era la prolungata compagnia di qualcun altro. La musica che ascolto dopo cena non è un sollievo dal silenzio, ma qualcosa di simile alla sua convalida: ascoltare musica per un'ora o due ogni sera non mi priva del silenzio: la musica è silenzio che s'invera. La prima cosa che faccio d'estate, ogni mattina, è nuotare per trenta minuti nello stagno, e nel resto dell'anno, dopo una mattinata di lavoro (e a patto che la neve non renda impossibile la gita), batto i sentieri di montagna per un paio d'ore ogni pomeriggio. Non ci sono state ricadute del cancro che mi è costato la prostata. Sessantacinque anni, fisicamente in forma, in buona salute, gran lavoratore... E so il fatto mio. Per forza. Perché, dunque, dopo avere trasformato l'esperimento di un isolamento radicale in un'esistenza ricca e piena, perché, senza preavviso, dovrei sentirmi solo? Cosa mi manca? Quello che è stato è stato. Impossibile attenuare il rigore, impossibile annullare le rinunce. Cosa mi manca, precisamente? Semplice: la cosa per cui avevo sviluppato un'avversione. La cosa alla quale avevo voltato le spalle. L'impegolarsi nella vita. Fu così che Coleman divenne amico mio e io rinunciai alla decisione di vivere da solo nella mia casa isolata e di battermi da solo contro le conseguenze del cancro. Con un ballo Coleman Silk m'infuse nuova vita. Prima l'Athena College, poi me: ecco un uomo che le faceva succedere, le cose. Proprio così. Il ballo che suggellò la nostra amicizia fu anche ciò che rese il suo disastro il tema del mio lavoro. Il suo disastro e il suo travestimento.

E come presentare correttamente il suo segreto diventò un mio problema da risolvere. Ecco in che modo cessai di poter vivere lontano dalla turbolenza e dall'intensità dalle quali ero fuggito. Non feci altro che trovare un amico, e tutto il malanimo del mondo si rovesciò su di noi. Più tardi, quel pomeriggio, Coleman mi portò a conoscere Faunia a sei miglia da casa sua in un piccolo allevamento, dove lei abitava, gratis, in cambio dell'aiuto che prestava nella mungitura. L'allevamento, che aveva già qualche anno, era stato creato da due donne divorziate, ambientaliste con tanto di laurea, che venivano da famiglie di allevatori del New England e che avevano messo in comune le proprie risorse – avevano messo in comune anche i figli, sei bambini che, come le proprietarie amavano dire ai clienti, non avevano dovuto guardare Sesame Street per imparare da dove viene il latte – per dedicarsi al compito quasi impossibile di guadagnarsi la vita vendendo latte fresco. Era un'impresa straordinaria, in nulla simile ai grandi allevamenti, non aveva alcunché d'impersonale o d'industriale, era un posto che oggigiorno alla maggior parte della gente non sembrerebbe nemmeno una fattoria. Si chiamava Organic Livestock, e produceva e imbottigliava il latte fresco che si poteva trovare nei negozi e in alcuni supermarket della regione e che era a disposizione dei clienti regolari che ne compravano tre galloni o più la settimana direttamente alla fattoria. C'erano solo undici animali, vacche Jersey di razza pura, e ognuna di queste, per essere identificata, non aveva una targhetta con un numero attaccata all'orecchio ma un nome antiquato adatto a lei. Poiché il loro latte non veniva mescolato col latte delle grandi mandrie bombardate da iniezioni di prodotti chimici di tutti i generi, e poiché, non compromesso dalla pastorizzazione e non rovinato dall'omogeneizzazione, il latte prendeva il colore, e persino, debolmente, il sapore, di quello che mangiavano le vacche da una stagione all'altra – mangime coltivato senza l'uso di erbicidi, insetticidi o fertilizzanti chimici –, e poiché il loro latte era più ricco di sostanze nutritive del latte miscelato, era apprezzato dalla gente dei dintorni che cercava di limitare la dieta familiare ai cibi interi piuttosto che a quelli lavorati. La fattoria ha un largo seguito, specie tra le numerose persone venute a rifugiarsi da queste parti, pensionati ma anche coppie con figli da allevare, in fuga dall'inquinamento, dalle frustrazioni e dal degrado delle grandi cit tà. Il settimanale locale pubblica regolarmente le lettere al direttore di chi lungo queste strade campestri ha appena scoperto una vita migliore, citando in toni reverenti il latte di Organic Livestock, non semplicemente come una bevanda gustosa, ma come l'incarnazione della rinfrescante, tonificante purezza necessaria al loro idealismo, bistrattato dalla vita in città. In queste lettere pubblicate affiorano regolarmente parole come «anima» e «bontà»,

come se mandar giù un bicchiere di latte Organic Livestock fosse un rito religioso di redenzione tanto quanto un bene per la propria dieta. «Quando beviamo il latte Organic Livestock sono il nostro corpo, la nostra anima e il nostro spirito a nutrirsi come un tutto unico. I vari organi del nostro corpo ricevono questa totalità e l'apprezzano in un modo che forse non riusciamo a percepire». Frasi come questa, frasi con le quali degli adulti per altri versi ragionevoli, liberatisi delle seccature che li hanno scacciati da New York, Hartford o Boston, possono passare piacevolmente qualche minuto alla scrivania fingendo di avere sette anni. Anche se probabilmente non consumava, tutto sommato, più della mezza tazza di latte al giorno che versava sui cereali al mattino, Coleman ne aveva ordinati all'Organic Livestock tre galloni la settimana. Questo gli permetteva di ritirare il latte appena munto direttamente alla fattoria: di la sciarsi alle spalle la strada principale, di percorrere con la macchina il lungo tratto sterrato fino alla stalla e di entrare nella stalla a prendere il latte dal frigorifero. Lo aveva fatto, non per poter usufruire dello sconto accordato ai clienti che ne compravano tre galloni, ma perché il frigorifero era appena oltre la soglia della stalla e ad appena quattro o cinque metri dal locale dove si portavano a mungere le vacche, una alla volta, due volte al giorno, e dove alle cinque del pomeriggio (quando arrivava lui) Faunia, appena tornata dal college, provvedeva, due o tre volte la settimana, alla mungitura. Non faceva nient'altro che guardarla mentre lavorava. Anche se a quell'ora era difficile che ci fossero altri clienti, Coleman la guardava tenendosi fuori dalla sala e lasciava che lei sbrigasse il suo lavoro senza sentirsi obbligata a rivolgergli la parola. Spesso non dicevano niente, perché il silenzio rendeva il loro piacere più intenso. Lei sapeva che lui la stava osservando; sapendo che lei sapeva, lui la osservava ancor più attentamente: e il fatto che non potessero accoppiarsi là per terra non faceva nessuna differenza. Era sufficiente stare insieme, soli, in un posto diverso dal suo letto, era sufficiente dover fingere realisticamente di essere separati da insormontabili ostacoli sociali, interpretare i loro ruoli di bracciante agricolo e professore universitario in pensione, recitando perfettamente, lei, la parte della smilza e robusta operaia di trentaquattro anni, analfabeta e incapace di esprimersi, della donna di campagna ossuta e muscolosa che era appena stata nella corte col forcone a pulire dopo la mungitura del mattino, e lui del saggio pensionato di settantun anni, dotto classicista, uomo col cervello traboccante dei vocaboli di due lingue antiche. Era sufficiente potersi comportare come due persone che non avessero proprio nulla in comune, sempre ricordando che potevano distillare e portare a orgasmica essenza tutto ciò che avevano d'inconciliabile, le umane discrepanze produttrici di tanta energia. Era sufficiente provare il brivido di avere una doppia vita. C'era poco, a prima vista, che potesse accendere eccessivamente le

aspettative carnali di chiunque nella donna magra e allampanata, coperta di schizzi di fango, in shorts, T–shirt e stivali di gomma, che io vidi nella stalla con la mandria quel pomeriggio e che Coleman chiamava la sua Voluptas. Le creature dall'aspetto carnalmente perentorio erano quelle che con i loro corpi occupavano tutto lo spazio disponibile, le vacche color panna con i fianchi dondolanti, le pance che sembravano barili e la sproporzionata caricatura delle poppe gonfie di latte, vacche lente, tranquille, senza problemi, ciascuna di esse un'industria, sette o otto quintali di autogratificazione, bestie dai grandi occhi per le quali ingozzarsi a un'estremità da una mangiatoia piena di foraggio mentre dall'altra si veniva prosciugati non da una, da due o da tre, ma da quattro bocche meccaniche instancabili e pulsanti... per le quali lo stimolo sensuale che sentivano simultaneamente alle due estremità era il giusto e languido compenso. Ciascuna di esse sprofondata in un'esistenza animalesca beatamente priva di spessore spirituale: schizzare e masticare, cagare e pisciare, pascolare e dormire, ecco tutta la loro raison d'être. Ogni tanto (mi spiegò Coleman) un braccio umano dentro un lungo guanto di plastica viene ficcato nel retto della bestia per toglierne il letame e poi, tastando col guanto lungo la parete rettale, guida l'altro braccio destinato a inserire quella specie di siringa che è la pistola per la fecondazione artificiale nel tratto riproduttivo per depositarvi il seme. Le vacche si moltiplicano, cioè, senza dover sopportare il disturbo del toro, viziate persino nell'inseminazione e poi assistite durante il parto – in quella che secondo Faunia poteva dimostrarsi una difficile prova emotiva per tutti gli interessati – anche nelle notti sotto zero in cui infuria una tempesta di neve. Il meglio di tutto ciò che è carnale, compreso il gustare a loro piacimento boccate gocciolanti della poltiglia costituita dal loro fibroso bolo alimentare. Poche cortigiane hanno fatto una vita altrettanto bella, per non parlare delle donne comuni. Tra quelle creature soddisfatte, nell'aura che emanavano di opulenta, terrestre identità con l'abbondanza femminile, c'era Faunia, a sgobbare come la bestia da soma che sembrava, con le vacche che ne inquadravano la figura, uno dei più patetici pesi mosca nella storia dell'evoluzione. Chiamandole per farle uscire dalla tettoia dove se ne stavano tranquillamente sdraiate sopra un tappeto di merda e di fieno («Andiamo, Daisy, non rendermi la vita difficile. Su, ora, Maggie, da brava. Alza il culo, Flossie, vecchia put tana»), prendendole per la cavezza e guidandole con parole dolci e moine attraverso il fango della corte fino al pavimento di cemento della sala mungitura, spingendo queste ingombranti Daisy e Maggie verso la mangiatoia finché non erano assicurate alle stanghe, misurando e somministrando a ciascuna di loro una porzione di vitamine e di mangime, disinfettando le mammelle, pulendole e cominciando a far scorrere il latte con qualche lieve strappo della mano, poi attaccando alle mammelle sterilizzate le ventose in fondo al gruppo prendicapezzoli, Faunia era continuamente in moto, in-

crollabilmente concentrata su ogni fase della mungitura ma, in un contrasto esagerato con la loro testarda docilità, muovendosi tutto il tempo con una destrezza da ape operaia finché il latte, scorrendo attraverso il tubo trasparente, raggiungeva il lustro secchio d'acciaio inossidabile; e allora finalmente si tirava silenziosamente in disparte, con gli occhi bene aperti per essere sicura che tutto funzionasse e che anche la vacca se ne stesse tranquilla. Poi era di nuovo in movimento, massaggiando le mammelle della vacca per accertarsi che fosse stata munta bene, staccando le ventose, preparando la porzione di mangime per la vacca che avrebbe munto dopo avere sciolto dalle stanghe quella munta, mettendo le granaglie per la vacca successiva davanti alle altre stanghe, e poi, tra le mura di quel locale piuttosto angusto, tornando a prendere per la cavezza la vacca munta e dirigendone qua e là la grande mole, facendola arretrare con uno spintone, sollecitandola con una spallata, dicendole imperiosamente: – Fuori, fuori di qui, vedi di... – e tornando a pilotarla attraverso il fango fino alla tettoia. Faunia Farley: magra di gambe, di polsi e di braccia, con costole chiaramente visibili e scapole sporgenti; eppure, quando faceva uno sforzo, vedevi che i suoi muscoli erano robusti; quando si sporgeva o si allungava per prendere qualcosa, vedevi che i suoi seni erano sorprendentemente sodi; e quando, a causa delle mosche e dei moscerini che ronzavano intorno all'armento quell'afoso giorno d'estate, si schiaffeggiava il collo o il sedere, ti accorgevi di come poteva essere sbarazzina, a dispetto di uno stile per il resto improntato alla semplicità. Vedevi che il suo corpo non era solo magro, efficiente e severo, vedevi che era una donna solidamente costruita in equilibrio sul momento abissale in cui ha smesso di maturare, ma non ha ancora cominciato a sfiorire, una donna nel pieno degli anni, la cui ciocca di capelli bianchi è sostanzialmente ingannatrice proprio perché i netti contorni yankee delle gote e della mascella e il collo lungo inconfondibilmente femminile non si sono ancora piegati alle trasformazioni dell'età. – Questo è il mio vicino, – le disse Coleman quando Faunia interruppe un momento il suo lavoro per togliersi il sudore dal viso con la piega del gomito e per guardare dalla nostra parte. – Questo è Nathan. Non mi aspettavo compostezza. Mi aspettavo una persona decisamente più arrabbiata. Mi salutò con un semplice moto del mento, ma era un gesto che la diceva lunga. Era un mento che la diceva lunga. Tenerlo alto come faceva lei di solito le conferiva... virilità. Nella risposta c'era anche questo: qualcosa di virile e d'implacabile, nonché di un po' indecente, in quell'aria corretta. L'aria di una persona per la quale il sesso e il tradimento sono quotidiani come il pane. L'aria del fuggiasco e l'aria che deriva dall'irritante monotonia della sfortuna. I capelli, i capelli biondo oro nell'intensa prima fase della loro inevitabile permutazione, erano legati sulla nuca da un elastico, ma una ciocca continuava a pioverle verso un sopracciglio mentre lavorava, e ora, guardando in silenzio dalla nostra parte, Faunia se la ravviò

con la mano, e per la prima volta notai sul suo viso un connotato che, forse a torto, perché cercavo un segno, ebbe l'effetto di una rivelazione: il gonfiore dello stretto arco di carne tra la cresta delle sopracciglia e le palpebre superiori. Era una donna con le labbra sottili e un naso diritto, due occhi celesti, bei denti e una mascella prominente, e quel rigonfiamento sotto le sopracciglia era l'unica sua traccia di esotismo, l'unico emblema della seduzione, turgido di desiderio. E spiegava molte cose d'inquietante oscurità nella dura piattezza del suo sguardo. Nell'insieme Faunia non era l'allettante sirena che ti mozza il fiato, ma una di quelle donne dai lineamenti marcati che ti fanno pensare: «Da bambina dev'essere stata bellissima». Il che era vero: secondo Coleman, una bimba bellissima e dorata con un ricco patrigno che non la lasciava in pace e una madre viziata che non la proteggeva. Restammo là a guardare mentre mungeva le undici vacche, a una a una (Daisy, Maggie, Flossie, Bessy, Dolly, Maiden, Sweetheart, Stupid, Emma, Friendly e Jill), restammo là ad assistere alla solita invariabile routine che Faunia doveva affrontare con ciascuna di esse, e quando ebbe finito e passò nella stanza imbiancata con le grandi vasche e i tubi e gli sterilizzatori adiacenti alla sala mungitura, la vedemmo dalla porta aperta mescolare la lisciva e i detersivi e, dopo avere staccato il tubo aspirante dalla macchina, le ventose dalle pinze, e tolto i coperchi dai due secchi (dopo avere insomma smontato tutti gli arnesi che si era portata in sala mungitura), mettersi all'opera con una varietà di spazzole, e con un secchio d'acqua dopo l'altro pulire la superficie di ogni tubo, valvola, guarnizione, tappo, piastra, cilindro, cappellotto, disco e pistone finché tutto fu immacolato e igienicamente impeccabile. Prima che Coleman ritirasse il suo latte e tornassimo insieme alla macchina per andare via, eravamo rimasti accanto al frigo per quasi un'ora e mezzo e, tolte le parole pronunciate da lui per presentarmi a Faunia, nessun essere umano aveva detto altro. Gli unici suoni udibili erano il cinguettio e il frullare delle rondini che avevano fatto il nido sotto il tetto quando svolazzavano fra le travi della stalla spalancata alle nostre spalle, il rumore dei grani che cadevano nella mangiatoia di cemento quando lei vi rovesciava il secchio del mangime, il tonfo soffocato degli zoccoli appena sollevati sul pavimento della sala mungitura quando Faunia, spingendo e tirando e guidando le mucche dove voleva lei, le piazzava davanti alle stanghe, e poi il rumore della pompa aspirante, il suo respiro sommesso e profondo. Quattro mesi più tardi, dopo che furono seppelliti tutt'e due, avrei ricordato la mungitura di quel giorno come una rappresentazione teatrale in cui avevo avuto una particina, la particina di una comparsa, cosa che oggi sono diventato per davvero. Di notte in notte, non riuscivo a dormire perché non potevo smettere di essere là sul palcoscenico con i due protagonisti e il coro delle vacche a osservare questa scena, impeccabilmente recitata da

tutta la compagnia, la scena di un vecchio innamorato che guarda lavorare la bovara – donna delle pulizie, sua amante segreta: una scena di pathos, ipnosi e asservimento sessuale dove l'ingorda fascinazione del vecchio si appropria di tutto ciò che la donna fa con quelle vacche, il modo in cui le tratta, le tocca, provvede alle loro necessità, parla con loro; una scena in cui un uomo, preso da una forza soffocata dentro di lui da così tanto tempo da essersi quasi estinta, mostrava, sotto i miei occhi, la rinascita dello stupefacente potere di quella forza. Era un po', immagino, come osservare Aschenbach quando febbrilmente osserva Tadzio (la sua brama sessuale fatta ribollire dall'angosciosa constatazione della propria mortalità), solo che noi non eravamo in un albergo di lusso al Lido di Venezia e non eravamo i personaggi di un romanzo scritto in tedesco e neppure, in quel momento, di un romanzo scritto in inglese: era il colmo dell'estate e ci trovavamo in una stalla nel Nordest del nostro paese, in America, l'anno dell'impeachment presidenziale dell'America, e non eravamo più romanzeschi di quanto gli animali fossero mitologici o impagliati. La luce e il caldo della giornata (quella benedizione), l'immutabile tranquillità della vita di ogni vacca che corrispondeva a quella di tutte le altre, il vecchio innamorato che studiava l'agilità della donna energica ed efficiente, mentre dentro di lui cresceva l'adorazione, quel suo modo di guardare come se non gli fosse mai capitato nulla di più emozionante, e anche la mia attesa compiacente, il mio stupore davanti all'enorme differenza tra quei due tipi umani, davanti alla disuguaglianza, alla variabilità, alla feconda irregolarità delle intese sessuali – e con l'ordine che ci sentivamo dare, uomini e bovini, differenziati e non differenziati, di vivere, non soltanto di resistere ma di vivere, di continuare a prendere, dare, nutrire, mungere, ammettendo di buon grado, da quell'enigma che è, l'insignificante ricchezza di significato della vita –, tutto veniva registrato come vero da decine di migliaia di piccole impressioni. La pienezza sensoriale, la copiosità, l'abbondante – sovrabbondante – minuziosità della vita, che è la rapsodia. E Coleman e Faunia, che ora sono morti, immersi nel fluire dell'inaspettato, giorno per giorno, minuto per minuto, essi stessi minuzie in quella sovrabbondanza. Niente dura, e nondimeno niente passa. E niente passa proprio perché niente dura. I problemi con Les Farley cominciarono quella sera, più tardi, quando Coleman sentì muoversi qualcosa tra i cespugli intorno alla sua casa, decise che non era né un cervo né un procione, si alzò dal tavolo della cucina dove lui e Faunia avevano appena finito di mangiare gli spaghetti e, dalla porta della cucina, nella mezza luce di quella sera d'estate, vide un uomo che correva verso il bosco attraverso il campo dietro la casa. – Ehi, tu! Fermati! – urlò Coleman, ma l'uomo non si fermò e non si voltò indietro, e

sparì rapidamente tra gli alberi. Non era la prima volta, negli ultimi mesi, che Coleman credeva di essere osservato da qualcuno nascosto a pochi passi dalla sua casa, ma le altre volte era successo più tardi, quando era troppo buio per sapere con certezza se quelli che l'avevano messo in allarme erano i movimenti di un guardone o di un animale. E le altre volte era sempre stato solo. Era la prima volta che Faunia era presente, e fu lei che, senz'avere bisogno di vedere la silhouette dell'uomo che attraversava il campo, riconobbe nell'intruso il proprio ex marito. Dopo il divorzio, disse a Coleman, Farley l'aveva spiata in continuazione, ma nei mesi successivi alla morte dei due figli, quando lui l'accusava di averli uccisi con la propria negligenza, era stato di un'ostinazione spaventosa. Due volte si materializzò dal nulla – una volta nel parcheggio di un centro commerciale, una volta quando lei si era fermata in una stazione di servizio a far benzina – e le urlò dal finestrino del pick–up: – Puttana assassina! Troia assassina! Hai assassinato i miei figli, troia assassina! – Erano molte le mattine in cui, andando al college, Faunia guardava nello specchietto retrovisore e vedeva il suo pick–up e, dietro il parabrezza, la sua faccia con le labbra che dicevano: «Hai assassinato i miei figli». Certe volte la seguiva per la strada quando lei rincasava dal college. Allora Faunia viveva ancora nella metà rimasta intatta del bungalow–garage dove i bambini erano morti asfissiati nell'incendio provocato dalla stufa, ed era stato per paura di Farley che aveva traslocato prima in una stanza a Seeley Falls e poi, dopo un tentato suicidio andato a vuoto, nella stanza della fattoria, dove le due proprietarie e i loro figli erano quasi sempre in giro e il pericolo di essere avvicinata dall'ex marito non era così grande. Dopo il secondo trasferimento il pick–up di Farley le comparve meno spesso nello specchietto retrovisore, e poi, quando per mesi lui non diede segno di vita, Faunia sperò che fosse sparito per sempre. Ma ora, ne era certa, Farley doveva in qualche modo avere saputo di Coleman e, nuovamente imbestialito da tutto ciò che di lei lo aveva sempre fatto imbestialire, aveva ripreso a spiarla a tutto spiano, nascondendosi intorno alla casa di Coleman per vedere che cosa ci faceva. Che cosa facevano insieme in quella casa. Quella sera, quando Faunia salì in macchina (la vecchia Chevrolet che Coleman, per renderla invisibile, le faceva mettere nel fienile), Coleman decise di seguirla da vicino con la macchina per le sei miglia di strada finché Faunia non fu, sana e salva sulla terra battuta del vialetto che, dietro la stalla, portava alla fattoria. E poi, per tutto il viaggio di ritorno, non fece che voltarsi per vedere se qualcuno stava seguendo lui. A casa, camminò dalla tettoia dove aveva parcheggiato la macchina fino alla porta d'ingresso dondolando con la mano una leva per cavare i copertoni, dondolandola da tutte le parti, sperando così di tenere a bada chiunque potesse celarsi nelle tenebre. La mattina seguente, dopo otto ore passate nel letto a combattere le sue

preoccupazioni, Coleman aveva deciso di non sporgere denuncia alla polizia. Poiché l'identità di Farley non poteva essere stabilita con certezza, la polizia non avrebbe potuto fare nulla, e se fosse trapelato che Coleman si era rivolto alla polizia la denuncia sarebbe servita solo a corroborare le voci che già circolavano sull'ex preside di facoltà e sulla bidella di Athena. Non che, dopo la notte insonne, Coleman potesse rassegnarsi a non fare niente del tutto: dopo colazione telefonò al suo avvocato, Nelson Primus, e quel pomeriggio andò giù ad Athena a consultarsi con lui in merito alla lettera anonima; e là, ignorando l'esortazione di Primus, che era di lasciar perdere, lo convinse a scrivere a Delphine Roux, presso il college, le seguenti parole: «Cara signora Roux, le scrivo a nome di Coleman Silk, che rappresento. Tempo fa lei ha inviato al signor Silk una lettera anonima offensiva, importuna e denigratoria. Il contenuto della sua lettera è questo: "Tutti sanno che stai sfruttando sessualmente una donna maltrattata e analfabeta che ha la metà dei tuoi anni". Disgraziatamente, intromettendosi, lei ha ficcato il naso in una cosa che non la riguarda. Ciò facendo, ha violato i diritti del signor Silk e rischia una denuncia». Due o tre giorni dopo Primus ricevette tre secche frasi dall'avvocato di Delphine Roux. La frase di mezzo, con la quale si negava recisamente che Delphine Roux fosse l'autrice della lettera anonima, fu da Coleman sottolineata in rosso. «Nessuna delle asserzioni contenute nella sua lettera è corretta, – aveva scritto l'avvocato a Primus, – e, anzi, esse sono diffamatorie». Immediatamente Coleman si fece dare da Primus il nome di un perito iscritto all'albo di Boston, un grafologo che lavorava per ditte private e per enti governativi e statali, e il giorno dopo fece personalmente le tre ore di macchina tra la sua casa e Boston per consegnargli i campioni della calligrafia di Delphine Roux con la lettera anonima e la busta. Ricevette l'esito per posta dopo una settimana. «Su sua richiesta, – diceva la perizia, – ho esaminato e confrontato copie di campioni conosciuti della calligrafia di Delphine Roux con il biglietto anonimo e la busta indirizzati a Coleman Silk oggetto dell'indagine. Lei mi ha chiesto di determinare a chi appartiene la calligrafia sui documenti in questione. La mia analisi contempla caratteristiche calligrafiche come l'inclinazione, la spaziatura, il formato delle lettere, la qualità del tratto, il livello della pressione, le proporzioni, il rapporto tra le altezze delle lettere, le connessioni, le iniziali e la formazione del tratto terminale. Basandomi sui documenti che mi sono stati sottoposti, la mia opinione professionale è che la mano che ha scritto tutti i campioni noti della calligrafia di Delphine Roux è la stessa mano che ha scritto il biglietto anonimo e la busta. Distinti saluti, Douglas Gordon». Quando Coleman passò la perizia a Nelson Primus, chiedendogli d'inoltrarne una copia all'avvocato di Delphine Roux, Primus non fece più obiezioni, anche se lo addolorava vedere Coleman adirato quasi come durante la crisi con l'uni-

versità. Dalla sera in cui Coleman aveva visto Farley fuggire nel bosco erano passati otto giorni in tutto, otto giorni durante i quali aveva deciso che sarebbe stato meglio se Faunia avesse girato al largo; per tenersi in contatto potevano usare il telefono. Per dissuadere chiunque dallo spiare l'uno o l'altro di loro aveva persino evitato di andare a ritirare il latte fresco alla fattoria, ma era stato in casa il più possibile e aveva vigilato attentamente, soprattutto quando cadeva la notte, per determinare se qualcuno gli stava alle calcagna. Faunia, a sua volta, aveva ricevuto il consiglio di tenere gli occhi aperti quando era alla fattoria e di controllare lo specchietto ogni volta che andava in qualche posto. – E' come se fossimo una minaccia per la sicurezza pubblica, – gli disse, con una delle sue risate. – No, per la salute pubblica, – rispose lui; – non siamo conformi ai precetti del ministero della Sanità. Allo scadere degli otto giorni, quando aveva finalmente potuto confermare l'identificazione di Delphine Roux come l'autrice della lettera, se non ancora Farley come l'intruso, Coleman decise di decidere che aveva fatto quanto era in suo potere per difendersi da tutte queste spiacevoli e irritanti intromissioni. Quando Faunia gli telefonò, quel pomeriggio, durante l'intervallo per il lunch, e chiese: – E' finita la quarantena? – si sentì finalmente sollevato da una parte abbastanza grande delle proprie ansie, o decise di decidere di esserlo, per darle il segnale di cessato allarme. Poiché pensava che si facesse viva quella sera verso le sette, alle sei inghiottì una compressa di Viagra e, dopo essersi riempito un bicchiere di vino, uscì col telefono per sedersi su una sedia da giardino e chiamare sua figlia. Lui e Iris avevano allevato quattro figli: due maschi già sulla quarantina, entrambi professori universitari di scienze, sposati con figli e stabiliti sulla costa occidentale, e i gemelli Lisa e Mark, nubile lei e celibe lui, fra i trentacinque e i quarant'anni, residenti a New York. Tutti tranne uno dei rampolli cercavano di andare su nei Berkshire a visitare il padre tre o quattro volte l'anno e si tenevano in contatto per telefono una volta al mese. L'eccezione era Mark, che si era scontrato con Coleman per tutta la vita e che ogni tanto si isolava completamente. Coleman voleva telefonare a Lisa perché si era reso conto che era passato più di un mese, e forse anche due, dall'ultima volta che aveva parlato con lei. Forse stava solo cedendo a un senso di solitudine passeggero che sarebbe passato all'arrivo di Faunia, ma, qualunque ne fosse il motivo, non poteva aver avuto, prima della telefonata, la minima idea di ciò che lo aspettava. L'ultima cosa che cercava, sicuramente, erano altre critiche, tanto meno da parte di quella figlia sulla cui voce – dolce, melodiosa, ancora infantile, nonostante dodici anni difficili come insegnante nel Lower East Side – poteva sempre contare per sentirsi più tranquillo, più confortato, e talvolta qualcosa di più: ancora una volta innamorato di sua figlia. Proba-

bilmente stava facendo quello che fanno quasi tutti i genitori di una certa età quando, per una qualsiasi di cento ragioni, guardano a una telefonata interurbana come a un momentaneo promemoria dei vecchi termini di riferimento. La storia ininterrotta e non equivoca dei teneri rapporti tra Coleman e Lisa faceva di lei la persona meno oltraggiabile tra quelle che gli erano ancora vicine. Circa tre anni prima – molto prima dell'incidente degli «spettri» –, mentre Lisa stava chiedendosi se non aveva fatto un enorme errore a lasciare l'insegnamento nelle classi per diventare insegnante di sostegno, Coleman era andato a New York e si era fermato diversi giorni per vedere se le cose erano messe veramente così male. Iris allora era viva, anzi vivissima, ma quella che Lisa voleva non era l'enorme energia di Iris – non era farsi rimettere in moto come poteva rimetterti in moto Iris –, ma piuttosto il modo ordinato e deciso di sbrogliare le matasse dell'ex preside di facoltà. Iris le avrebbe detto sicuramente di darci dentro, lasciando Lisa oppressa e con la sensazione di essere in trappola; c'era invece la possibilità che, se Lisa aveva argomenti convincenti contro la propria perseveranza, Coleman le dicesse che, se voleva, poteva limitare i danni e lasciar perdere: cosa che, a sua volta, le dava il coraggio di continuare. Non soltanto Coleman aveva passato la prima sera seduto nel soggiorno fino a tardi ascoltando la sua triste storia, ma il giorno dopo era andato a scuola a vedere cos'era che la stava distruggendo. E lo vide, accidenti se lo vide: la mattina, per prima cosa, quattro sedute di mezz'ora, l'una dopo l'altra, ognuna con un bambino di sei o sette anni tra gli scolari a più basso rendimento di prima e seconda elementare; e poi, per il resto della giornata, sedute di quarantacinque minuti con gruppi di otto bambini le cui capacità di lettura non erano migliori di quelle dei bambini presi uno alla volta, ma per i quali nel programma intensivo non c'era ancora abbastanza personale qualificato. – Le classi regolari sono troppo numerose, – gli disse Lisa, – e così gli insegnanti non arrivano a questi bambini. Io ho insegnato in classe. I bambini che non ce la fanno sono tre su trenta. Tre o quattro. Non è una percentuale così alta. Ci sono i progressi di tutti gli altri bambini che ti aiutano ad andare avanti. Invece di fermarsi per dare ai casi disperati ciò di cui hanno bisogno, gli insegnanti se li tirano dietro in qualche modo pensando, o fingendo, che sperduti nella massa continueranno ad avanzare. Se li tirano dietro in seconda, in terza, in quarta, e lì avviene il crollo vero e proprio. Ma qui ci sono solo questi bambini, quelli che non possono essere raggiunti e che non vengono raggiunti, e poiché sono molto attaccata ai miei bambini e all'insegnamento, questo influisce su tutto il mio essere: su tutto il mio mondo. E la scuola, la direzione... non è buona, papà. C'è una direttrice che non sa quello che vuole, e c'è un casino di persone che fanno ciò che credono sia meglio. Che non è necessariamente il meglio. Quando venni

qui, dodici anni fa, era magnifico. La direttrice era davvero in gamba. Rivoltò l'intera scuola come un guanto. Ma ora abbiamo avuto ventuno insegnanti in quattro anni. Che è tanto. Abbiamo perso un sacco di gente in gamba. Due anni fa ho chiesto di fare l'insegnante di sostegno perché in classe non resistevo più. Dieci anni così, tutti i giorni. Non ce la facevo più. La lasciò sfogare, parlò poco e, poiché Lisa aveva già quasi quarant'anni, soffocò abbastanza facilmente l'impulso di abbracciare quella figlia sconfitta dalla realtà così come lei, immaginava, soffocava lo stesso impulso col bambino di sei anni che non sapeva leggere. Lisa aveva tutta l'intensità di Iris senza l'autorità di Iris, e per una persona la cui vita esisteva solo per gli altri – una sorta d'incurabile altruismo: ecco la maledizione di Lisa – era, come insegnante, perennemente in bilico sull'orlo dell'esaurimento. C'era anche, di solito, un compagno esigente al quale non poteva rifiutare la propria simpatia e per il quale si faceva in quattro; e per il quale, immancabilmente, la sua incorrotta verginità etica diventava una grossa seccatura. Lisa era, moralmente, sempre con l'acqua alla gola, ma senza la durezza necessaria per deludere le aspettative altrui e senza la forza di smettere di nutrire illusioni sulla propria forza. Era per questo che Coleman sapeva che sua figlia non avrebbe mai lasciato il programma di sostegno, e sempre per questo il suo orgoglio paterno non era solo oppresso dalla paura, ma qualche volta tinto di un'impazienza che rasentava il disprezzo. – Ci sono trenta bambini da seguire, ai diversi livelli ai quali sono quando arrivano qui, con le diverse esperienze che hanno avuto, e tu devi far funzionare tutto, – gli stava dicendo. – Trenta bambini diversi da trenta ambienti diversi che imparano in trenta modi diversi. Occorre molta organizzazione. Molto lavoro d'ufficio. Molto di tutto. Ma è ancora niente paragonato a questo. Certo, anche adesso, anche facendo l'insegnante di sostegno, ci sono dei giorni in cui penso: oggi è andata bene, ma per la maggior parte del tempo vorrei buttarmi dalla finestra. Continuo a chiedermi se questo è il lavoro che fa per me. Perché io me la prendo troppo a cuore, non so se l'hai capito. Voglio fare le cose nel modo giusto, quando un modo giusto non esiste... Ogni bambino è diverso dagli altri e ogni bambino è un caso disperato, e io dovrei andare lì e far funzionare tutto. Certo, tutti lottano, sempre, con i bambini che non riescono ad apprendere. Cosa fai con un bambino che non sa leggere? Pensaci: un bambino che non sa leggere. E' difficile, papà. E' un brutto colpo per il tuo amor proprio, sai? Lisa: che dentro di sé ha tanto interesse per gli altri, la cui scrupolosità non conosce incertezza, che vuol esistere solo per aiutare. Lisa l'Indescrivibile Idealista, Lisa che non cede alle disillusioni. Telefono a Lisa, si disse Coleman, non immaginando di poter trovare, nella voce di questa figlia vo-

tata a una folle santità, il tono di gelido dispiacere con cui accolse la sua telefonata. – Dalla voce, non sembri nemmeno tu. – Sto bene, – gli disse lei. – Lisa, c'è qualcosa che non va? – Niente. – Come va la scuola estiva? L'insegnamento? – Bene. – E Josh? – L'ultimo compagno. – Bene. – Come stanno i tuoi bambini? Com'è andata con quello piccolo che non riusciva a riconoscere la «n»? E' stato promosso? Quello col nome pieno di «n», Hernando. – Tutto bene. Passò allora a un tono frivolo e le chiese: – Non t'interessa sapere come sto? – So benissimo come stai. – Ah, sì? Nessuna risposta. – Che ti rode, amore? – Niente –. Un «niente», il secondo, che significava fin troppo chiaramente: «amore» vallo a dire a qualcun altro. Stava succedendo qualcosa d'incomprensibile. Chi gliel'aveva detto? Cosa le avevano detto? Al liceo e poi all'università, dopo la guerra, Coleman si era posto gli obiettivi di studio più ambiziosi; come preside di facoltà ad Athena aveva affrontato con entusiasmo i problemi di un lavoro faticoso; come imputato, dopo l'incidente degli «spettri», non una volta aveva abbassato le armi nella lotta contro la falsa accusa; persino le sue dimissioni dal college erano state, non una capitolazione, ma la protesta di una persona offesa, una deliberata manifestazione del suo incrollabile disprezzo. Ma in tutti gli anni in cui aveva tenuto duro, per raggiungere l'obiettivo, parare il colpo o reagire allo scacco, non si era mai sentito – nemmeno dopo la morte di Iris – così indifeso come quando Lisa, personificazione di una bontà quasi ridicola, concentrò in quell'unica parola, «niente», tutta la durezza di sentimenti per la quale non aveva mai trovato, in tutta la sua vita, un oggetto meritevole. E in quel momento, proprio mentre il «niente» di Lisa esalava il suo orribile significato, Coleman vide un pick–up passare lungo la strada asfaltata sotto la sua casa, avanzando di un paio di metri a passo d'uomo, frenando, ripartendo molto lentamente, quindi tornando a frenare... Coleman si alzò in piedi, fece qualche passo incerto sull'erba tagliata, allungando il collo per vedere meglio, e poi, di corsa, si mise a urlare: – Tu! Cosa stai combinando? Ehi! – Ma il pick–up aumentò rapidamente la velocità e sparì

prima che lui potesse avvicinarsi abbastanza per vedere qualcosa che gli permettesse di riconoscere il veicolo o l'autista. Poiché non sapeva distinguere una marca dall'altra e, da dove era arrivato, non poteva neanche dire se il pick–up era vecchio o nuovo, l'unico dato che ricavò da quell'avvistamento fu il colore, un grigio indefinito. E adesso il telefono era muto. Correndo attraverso il prato, aveva toccato inavvertitamente il tasto che lo spegneva. Oppure Lisa aveva deliberatamente troncato la comunicazione. Quando rifece il numero, rispose un uomo. – Josh? – domandò Coleman. – Sì, – disse Josh. – Sono Coleman Silk. Il padre di Lisa –. Dopo un attimo di silenzio Josh disse: – Lisa non vuole parlare con lei, – e riattaccò. Colpa di Mark. Per forza. Non poteva che essere così. Mica poteva essere stato questo Josh del cazzo! Chi era, poi? Coleman non aveva idea di come Mark potesse avere saputo di Faunia, non più di quanto l'avesse a proposito di Delphine Roux o di chiunque altro, ma questo adesso non aveva importanza... Era Mark che doveva avere rinfacciato alla sorella gemella il delitto di suo padre. Perché un delitto doveva essere, per quel ragazzo. Quasi dal giorno in cui aveva imparato a parlare, Mark non aveva rinunciato all'idea che suo padre fosse contro di lui: per i due figli maggiori perché erano più grandi e brillavano negli studi e assorbivano senza protestare le pretese intellettuali paterne; per Lisa perché era Lisa, la cocca della famiglia, la figlia indiscutibilmente più viziata dal proprio paparino; contro Mark perché tutto ciò che la sua gemella era – adorabile, adorante, virtuosa, commovente, nobile fino al midollo – Mark non era e non voleva essere. Quella di Mark era forse la personalità più difficile che gli fosse mai toccato di sforzarsi, non di comprendere (i risentimenti erano tutti fin troppo facili da capire), ma semplicemente di affrontare. Bronci e lamenti erano iniziati prima che Mark fosse abbastanza grande per andare all'asilo, e le proteste contro i familiari e il loro modo di vedere le cose cominciarono subito dopo e, frustrando ogni tentativo di pacificazione, si solidificarono, col passar del tempo, fino a diventare il nocciolo del suo temperamento. A quattordici anni Mark appoggiò rumorosamente Nixon durante le sedute per l'impeachment mentre gli altri chiedevano a gran voce che il presidente fosse incarcerato a vita; a sedici diventò un ebreo ortodosso mentre gli altri, prendendo lo spunto dai genitori atei e anticlericali, erano ebrei solo di nome, o quasi; a venti mandò suo padre su tutte le furie disertando l'università di Brandeis quando mancavano due semestri alla fine; e ora, a quasi quarant'anni, dopo avere fatto e abbandonato una dozzina di lavori diversi ai quali si considerava superiore, si era scoperto «poeta narrativo». Per questa irriducibile inimicizia col padre, Mark era diventato ciò che la sua famiglia non era: più propriamente, e più penosamente, ciò che lui stesso non era. Intelligente, istruito, con una mente sveglia e una lingua ta-

gliente, non era mai riuscito, nondimeno, ad aggirare l'ostacolo rappresentato da Coleman finché a trentotto anni, come poeta narrativo su argomenti biblici, aveva finalmente potuto coltivare quella forza organizzatrice della sua vita, la sua eterna avversione, con tutta l'arroganza del fallito. Una compagna devota, una religiosissima ragazza coi nervi a fior di pelle, priva di qualunque humour, li manteneva entrambi col suo stipendio di assistente di un dentista a Manhattan, mentre Mark si rintanava nel loro appartamento senza ascensore di Brooklyn a scrivere poemi ispirati dalla Bibbia che nemmeno le riviste ebraiche volevano pubblicare, poemi interminabili su come Davide aveva trattato ingiustamente suo figlio Assalonne e su come Isacco aveva trattato ingiustamente suo figlio Esaù e su come Giuda aveva trattato ingiustamente suo fratello Giuseppe e sulla maledizione del profeta Natan dopo che Davide aveva peccato con Betsabea: poemi che, con grandiosa ma infelice dissimulazione, in un modo o nell'altro riprendevano l'idea fissa sulla quale Mark, il piccolo Markie, aveva puntato tutto e perso tutto. Come poteva Lisa dargli retta? Come poteva prendere sul serio un'accusa formulata da Markie quando sapeva qual era stata la forza che lo aveva animato per tutta la vita? Ma la sua generosità verso il fratello, per quanto Lisa trovasse mal concepito l'antagonismo che lo deformava, risaliva fin quasi alla loro nascita. Poiché essere benigna le riusciva naturale, e poiché anche da piccola aveva avuto gli scrupoli di coscienza del figlio preferito, Lisa era sempre stata molto indulgente verso le lagnanze del gemello e lo aveva consolato nelle dispute familiari. Ma la sua sollecitudine verso il meno favorito della coppia doveva forse estendersi a questa folle accusa? E qual era, poi, l'accusa? Quale atto dannoso aveva commesso il padre, quale offesa aveva recato ai suoi figli per indurre i due gemelli a far causa comune con Delphine Roux e Lester Farley? E gli altri due, i figli professori, erano al corrente pure loro, con i loro scrupoli? Quando era stata l'ultima volta che aveva avuto notizie da loro? Gli tornarono in mente gli orribili momenti passati in casa dopo il funerale di Iris, gli tornarono in mente e si sentì investire ancora una volta dalle accuse che Mark gli aveva rivolto prima che entrassero i figli più grandi, prima che entrassero, lo portassero di peso nella sua vecchia stanza e ve lo lasciassero per il resto del pomeriggio. Nei giorni che seguirono, mentre i figli erano ancora lì, Coleman si era sentito propenso a incolpare il dolore del piccolo Markie, e non Mark, per ciò che il ragazzo aveva osato dire, ma questo non significava che avesse, o avrebbe mai, dimenticato. Markie aveva dato la stura ai suoi rimproveri solo qualche minuto dopo il ritorno dal cimitero. – Non è stato il college a farlo. Non sono stati i neri. Non sono stati i tuoi nemici. Sei stato tu. Tu hai ucciso la mamma. Come uccidi ogni cosa! Perché devi avere sempre ragione! Poiché non vuoi scusarti, poiché ogni volta hai ragione al cento per cento, adesso la mamma è morta! E pen-

sare che si sarebbe potuto aggiustare tutto così facilmente, si sarebbe potuto aggiustare tutto in ventiquattr'ore, se una volta tanto, in vita tua, tu avessi accettato di scusarti. «Mi rincresce di avere detto "spettri"». Ecco tutto quello che dovevi fare, grand'uomo, dovevi solo andare da quegli studenti e dire che ti dispiaceva, e la mamma sarebbe ancora viva! Fuori, sul prato, Coleman venne colto all'improvviso da uno sdegno che non aveva mai provato dal giorno dopo lo sfogo di Markie, quando, in un'ora, aveva scritto e presentato le sue dimissioni dal college. Sapeva che non era giusto nutrire questi sentimenti per i figli. Sapeva, dall'incidente degli «spettri», che un'indignazione così grande era una forma di pazzia alla quale poteva soccombere. Sapeva che un'indignazione come questa non poteva aiutarlo ad affrontare il problema in un modo ordinato e ragionevole. Come educatore sapeva educare, come padre sapeva cos'era la paternità e come uomo di oltre settant'anni sapeva che nulla, specie nell'ambito di una famiglia, anche di una famiglia comprendente un figlio carico di rancori come Mark, dev'essere considerato come irrimediabile e definitivo. E non era solo dall'incidente degli «spettri» che aveva capito cosa può corrodere e pervertire un uomo convinto di avere subìto un torto gravissimo. Sapeva dall'ira di Achille, dalla rabbia di Filottete, dalle invettive di Medea, dalla follia di Aiace, dalla disperazione di Elettra e dalle sofferenze di Prometeo dei molti orrori che possono accadere quando si arriva al massimo grado dell'indignazione e, in nome della giustizia, si reclama il castigo, iniziando un ciclo di ritorsioni. Ed era una fortuna che sapesse tutto questo, perché non ci volle meno di questo, non meno della profilassi di tutto l'insieme della tragedia attica e della poesia epica greca, per trattenerlo dal telefonare lì per lì e ricordare a Markie che piccolo stronzo era ed era sempre stato. Lo scontro frontale con Farley ebbe luogo quattro ore dopo. Da come lo ricostruisco io, Coleman, per essere sicuro che nessuno spiasse la sua casa, nelle ore che seguirono l'arrivo di Faunia entrò e uscì sei o sette volte dalla porta principale, dalla porta di servizio e dalla porta della cucina. Fu soltanto verso le dieci, quando indugiarono insieme dietro la porta con la zanzariera della cucina, abbracciandosi prima di separarsi per la notte, che Coleman riuscì a dominare la propria bruciante indignazione e a permettere che l'unica cosa veramente seria nella sua vita – l'ebbrezza dell'ultimo amore, quella che Mann, parlando di Aschenbach, chiama «l'ultima avventura dei sentimenti» – tornasse a imporsi e a impossessarsi di lui. Mentre Fau nia stava per andarsene, si sorprese finalmente a desiderarla come se nient'altro avesse la minima importanza: ed era vero, nulla aveva più importanza, né la figlia, né i figli, né l'ex marito di Faunia né Delphine Roux. Questa non è solo la vita, pensò, questa è la fine della vita. La cosa insopporta-

bile non era tutta la ridicola antipatia che lui e Faunia avevano suscitato; la cosa insopportabile era che lui era arrivato agli ultimi giorni, al fondo del barile, al momento, se mai c'era un momento, di abbandonare la lotta, rinunciare alla confutazione, sciogliersi dal rigore con cui aveva allevato i quattro figli, persistito nel combattivo matrimonio, influenzato i colleghi recalcitranti e guidato i mediocri studenti di Athena, meglio che poteva, attraverso una letteratura di duemilacinquecento anni fa. Era il momento di cedere, di lasciare che questo semplice e ardente desiderio fosse la sua guida. Al di là della loro accusa. Al di là della loro incriminazione. Al di là del loro giudizio. Impara, si disse, prima di morire, a vivere al di là della giurisdizione della loro irritante, odiosa, stupida condanna. L'incontro con Farley. L'incontro di quella sera con Farley, il confronto col padrone di un allevamento di vacche da latte che non avrebbe voluto chiudere bottega ma che aveva fatto bancarotta, con un cantoniere che, per umile e degradante che fosse il compito assegnatogli, nel suo lavoro ce la metteva tutta, con un leale americano che aveva servito il suo paese non una ma due volte, che era tornato una seconda volta a finire quel lavoro maledetto. Farley si rafferma e torna indietro perché la prima volta che va a casa tutti dicono che non è più lo stesso e che non lo riconoscono, e lui capisce che è vero: hanno paura di lui. Torna a casa dalla guerra nella giungla, e scopre che non soltanto non lo stimano, ma hanno paura di lui: allo ra, tanto vale tornare sui suoi passi. Non pretendeva di essere trattato come un eroe, ma che tutti lo guardassero a quel modo... Torna, dunque, per il secondo «giro», e stavolta è veramente caricato. Incazzato. Gasato. Un combattente molto aggressivo. La prima volta non era stato così bellicoso. La prima volta era Les il senza pensieri, che ignorava cosa volesse dire essere disperato. La prima volta era il ragazzo dei Berkshire che si fidava ciecamente di tutti e non aveva idea di come la vita potesse valere poco, che non sapeva cosa fosse una medicina, che non si sentiva inferiore a nessuno, Les lo spensierato, Les che prende il mondo come viene, che non è una minaccia per la società, amici a dozzine, macchine veloci, tutte queste cose. La prima volta aveva tagliato qualche orecchio perché era là e lo facevano tutti, ma la cosa era finita lì. Non era uno di quelli che, una volta capitati in quella bolgia, non vedevano l'ora di darsi da fare, quelli che non avevano tutte le rotelle o che, per cominciare, erano talmente aggressivi che gli bastava la minima occasione per dar fuori di matto. Un soldato della sua unità, uno che chiamavano Big Man, era lì da due o tre giorni al massimo e aveva già sbudellato una donna incinta. Farley si era mostrato all'altezza solo alla fine del primo giro. Ma la seconda volta, in questa unità dove ci sono un mucchio di altri ragazzi che sono tornati indietro pure loro e che non sono tornati solo per ammazzare il tempo o per rimediare un paio di

dollari in più, questa seconda volta, con questi ragazzi che vorrebbero stare sempre in prima linea, tipi fuori di testa che sanno riconoscere l'orrore ma che trovano che quello sia il momento migliore della loro vita, questa volta si sente fuori di testa pure lui. In uno scontro a fuoco, quando cerchi di sfuggire al pericolo e ti sparano addosso da tutte le parti, non puoi non avere paura, ma puoi diventare una furia e sentire lo sballo, e così la seconda volta diventa una furia pure lui. La seconda volta, fa un macello, cazzo. Vivere coi nervi a fior di pelle, a tutto gas, tra l'eccitazione e la paura: nella vita civile non c'è nulla che possa uguagliare questa vita. Mitraglieri. Stanno perdendo elicotteri e hanno bisogno di mitraglieri. A un certo punto chiedono mitraglieri e lui non si lascia sfuggire l'occasione, si offre volontario. Da lassù, sopra l'azione, dove tutto sembra piccolo, mitraglia a più non posso. Mitraglia ogni cosa che si muove. Morte e distruzione, il lavoro del mitragliere è tutto qui. Con un vantaggio: che non devi stare sempre nella giungla. Ma poi Farley torna a casa, e non è meglio della prima volta, è peggio. Mica come i ragazzi della seconda guerra mondiale: quelli avevano la nave, potevano rilassarsi, qualcuno si occupava di loro, gli chiedeva come stavano. Adesso non c'è transizione. Un giorno è là che mitraglia nel Vietnam, e vede gli elicotteri che esplodono, e vede esplodere i compagni a mezz'aria, così basso da sentire l'odore della carne che frigge, da sentire le grida, da vedere interi villaggi andare in fumo, e il giorno dopo è di nuovo sui Berkshire. E ora sì che si sente veramente fuori posto, e per giunta gli fanno un po' paura certe cose che gli fischiano sopra la testa. Non ha voglia di stare in compagnia, non è capace di ridere o scherzare, sente di non fare più parte di quel mondo, sente di avere visto e fatto cose così estranee ai pensieri di quella gente che lui non riesce a intendersi con loro e loro non riescono a intendersi con lui. Gli hanno detto che poteva andare a casa? Come faceva ad andare a casa? Non ha mica un elicottero, a casa. Così se ne sta per conto suo, comincia a bere, e quando prova al centro per i reduci gli dicono che c'è andato per i soldi, mentre lui sa benissimo che c'è andato solo per farsi aiutare. Tempo prima ha cercato l'aiuto del governo e non gli hanno dato altro che una boccetta di sonniferi: vada dunque affanculo, il governo. Lo hanno trattato come un rifiuto. Sei giovane, gli hanno detto, ti passerà. Così lui cerca di farsela passare. Non potendo contare sul governo, dovrà arrangiarsi da solo. Ma non è facile, dopo due giri, tornare e sistemarsi tutto da solo. Les non è tranquillo. E' agitato. E' inquieto. Beve. Non ci vuole molto per farlo andare in bestia. Ci sono queste cose che gli fischiano sopra la testa. Eppure ci prova: alla fine trova una moglie, casa, figli, fattoria. Lui vorrebbe stare solo, ma lei vuole sistemarsi e aiutarlo nel lavoro della fattoria, perciò cerca anche lui di volere la stessa cosa che vuole lei: sistemarsi. Le cose che – ricorda – voleva il Les senza pensieri di dieci o quindici anni prima, prima del Vietnam, cerca di volerle ancora. Il guaio è che per queste persone non sente niente. Si siede in cucina a man-

giare con loro, e non c'è niente. Impossibile andare da lì a qui. Ma lui ci prova ancora. Un paio di volte, nel cuore della notte, si sveglia e scopre che sta cercando di strozzarla, ma non è colpa sua, è colpa del governo. E' stato il governo a fargli questo. L'aveva scambiata per il nemico, cazzo. Cosa credeva che volesse fare, lei? Lei lo sapeva, che ne sarebbe uscito. Non le ha mai fatto del male, né a lei né ai bambini. Erano tutte bugie. Lei non ha mai badato ad altri che a se stessa. Non doveva permettere che se ne andasse con i bambini. Aveva aspettato che lui andasse a disintossicarsi: ecco perché aveva voluto che accettasse di disintossicarsi. Diceva che voleva vederlo stare meglio, così avrebbero potuto tornare insieme, e invece aveva approfittato della cosa per portargli via i bambini. La troia. La stronza. Lo aveva ingannato. Non avrebbe mai dovuto permettere che se ne andasse coi bambini. Era in parte colpa sua, perché era talmente ubriaco che avevano dovuto ricoverarlo con la forza, ma sarebbe stato meglio se li avesse fatti fuori tutti quando aveva minacciato di farlo. Avrebbe dovuto ammazzare lei, avrebbe dovuto ammazzare i bambini, e l'avrebbe fatto, se non fosse stato per la disintossicazione. E lei lo sapeva, sapeva che lui li avrebbe ammazzati così, se avesse mai cercato di portarli via. Lui era il padre: se qualcuno doveva tirare su i suoi figli, quello era lui. Se non avesse potuto badare ai suoi figli, meglio sarebbe stato che morissero. Che diritto aveva, lei, di rubargli i suoi figli? Prima glieli ruba, poi li ammazza lei. La ricompensa per ciò che aveva fatto nel Vietnam. Dicevano tutti così, in disintossicazione: ricompensa qui e ricompensa là, ma solo perché lo dicevano tutti non significava che non fosse vero. Era la ricompensa, come no, era tutta una ricompensa, una ricompensa era la morte dei bambini e una ricompensa era il carpentiere col quale lei scopava. Farley non sapeva perché non l'avesse ucciso. In un primo momento aveva sentito solo l'odore di fumo. Era tra i cespugli, lungo la strada, a spiarli, là nel pick–up del carpentiere. Erano fermi nel vialetto della casa. Lei viene giù – l'appartamento che ha affittato è dietro un bungalow, sopra un garage – e monta sul pick–up, e non c'è luce e non c'è manco la luna, ma lui sa bene cosa sta succedendo. Allora sentì l'odore di fumo. Se l'aveva scampata nel Vietnam era solo perché ogni cambiamento, un rumore, l'odore di un animale, ogni movimento nella giungla, lui riusciva a notarlo prima degli altri: nella giungla era vigile come se ci fosse nato. Non vide il fumo, non vide le fiamme, non vide niente, tanto era buio, ma tutt'a un tratto sentì l'odore di fumo; e comincia no a ronzargli nella testa queste cose, e lui si mette a correre. Lo vedono arrivare e credono che voglia rapire i bambini. Non sanno che la casa sta bruciando. Credono che sia diventato matto. Ma lui sente l'odore di fumo e sa che viene dal primo piano e sa che i bambini sono là dentro. Sa che sua moglie, quella stronza, quella stupida puttana, non farà nulla perché è chiusa nel pick–up a fare un pompino al carpentiere. Di corsa, passa vicino al pick–up. Non sa più dove si trova, l'ha dimenticato, l'unica cosa che sa è

che deve entrare in casa e salire le scale, e allora sfonda la porta e corre su e corre dove c'è l'incendio, ed è allora che vede i bambini sulle scale, rannicchiati là sul pianerottolo, boccheggianti, ed è allora che li prende in braccio. Sono insieme, afflosciati sulle scale, e lui li prende in braccio e si lancia fuori dalla porta. Sono vivi, ne è sicuro. Non crede che esista una sola possibilità che non lo siano. Crede che siano solo spaventati. Poi alza gli occhi e chi vede, là fuori dalla porta, se non il carpentiere? Quello fu il momento in cui tutto si oscurò. Les non sapeva quello che faceva. Quello fu il momento in cui gli saltò alla gola. Cominciò a strangolarlo, e la puttana, invece di badare ai bambini, si preoccupa di lui che le strangola l'amichetto del cazzo. Quella troia del cazzo si preoccupa che lui possa ammazzare il suo amichetto invece di badare ai suoi due figli, maledizione. E pensare che ce l'avrebbero fatta. Ecco perché sono morti. Perché dei figli non le importava un accidente. Non glien'era mai importato niente. Non erano ancora morti quando lui li aveva presi in braccio. Erano caldi. Lo sa bene, lui, cos'è un morto. Sente l'odore della morte, quando occorre. Sente il sapore della morte. Sa benissimo cos'è la morte. I–bambini–non–erano–morti. Era il suo amichetto che ci avrebbe lasciato la pelle, cazzo, se la polizia, in combutta col governo, non fosse arrivata con le armi in pugno; e fu così che lo misero al fresco. Quella troia ammazza i bambini, è tutta colpa della sua negligenza, e mettono al fresco lui. Cristo, un momento, mettiamo le cose a posto! Quella troia non stava attenta! Non sta mai attenta, lei. Come quando lui aveva il presentimento che stessero per cadere in un'imboscata. Non poteva dire perché, ma sapeva che stavano per intrappolarli, e nessuno gli credeva, mentre aveva ragione lui. Un ufficiale nuovo, nuovo e stupido, arriva alla compagnia, non lo ascolta, ed è così che si fanno ammazzare. E' così che finiscono arrosto. E' così che degli idioti provocano la morte dei suoi due migliori amici! Non lo ascoltano! Non gli danno retta! E' tornato indietro vivo, no? E' tornato con braccia e gambe, è tornato col cazzo ancora attaccato... Avete idea di quanto c'è voluto? Ma lei non gli dà retta! Mai! Voltava le spalle a lui e voltava le spalle ai suoi bambini. E' solo un reduce dal Vietnam fuori di testa. Ma le cose lui le sa, maledizione. E lei non sa niente. E la mettono al fresco, quella stupida puttana? No, mettono al fresco lui. Lo riempiono d'iniezioni. Lo riportano in manicomio, e si rifiutano di farlo uscire dall'ospedale per i reduci di Northampton. Mentre lui aveva fatto solo quello che l'avevano addestrato a fare: vedi il nemico, uccidi il nemico. Ti addestrano per un anno, poi cercano di ammazzarti per un anno, e quando fai quello che ti hanno addestrato a fare, quello è il momento in cui ti legano a un lettino del cazzo e con le loro siringhe ti riempiono di merda. Ha fatto quello che lo hanno addestrato a fare, e mentre lo faceva quella moglie fottuta voltava le spalle ai suoi figli. Avrebbe dovuto ammazzarli tutti finché poteva. Lui in particolare. L'amichetto. Avrebbe dovuto tagliargli la testa fottuta, a tutt'e due. Se scoprirà dov'è l'amichetto del cazzo,

lo ammazzerà così in fretta che non saprà nemmeno che tegola gli è caduta sulla testa, e nessuno saprà che è stato lui perché adesso sa come si fa per non farsi sentire da nessuno. Perché è quello che il governo lo ha addestrato a fare. Grazie al governo degli Stati Uniti è diventato un killer consumato. Ha svolto il suo lavoro. Ha fatto quello che gli dicevano di fare. Ed è così che lo trattano, cazzo? Lo portano nel reparto d'isolamento, lo mettono nella bolla, mandano lui in quella bolla del cazzo? E non vogliono neanche dargli un assegno? Per tutto questo prende il venti per cento, cazzo. Il venti per cento. Ha fatto fare una vita d'inferno alla famiglia per il venti per cento. E anche per questo deve strisciare. – Dunque, mi dica com'è andata, – dicono gli assistenti sociali, dicono gli psicologi con le loro lauree. – Ha ucciso qualcuno quando era nel Vietnam? – Perché, c'era qualcuno che non aveva ucciso quando era nel Vietnam? Non era quello che doveva fare quando l'hanno mandato nel Vietnam? Ammazzare i musi gialli, cazzo. Non gli dicevano di fare di testa sua? E lui ha fatto di testa sua. E' tutto legato alla parola «uccidere». Uccidere i musi gialli. Se «Ha ucciso qualcuno?» non è abbastanza brutto, gli danno come psichiatra un fottuto muso giallo, come questo cinese di merda. Lui serve il suo paese e non può neanche avere un dottore che parla inglese, cazzo. Tutt'intorno a Northampton è pieno di ristoranti cinesi, è pieno di ristoranti vietnamiti, di negozi coreani... Ma lui? Se sei vietnamita, se sei cinese, fai carriera, ti danno un ristorante, ti danno un negozio di generi alimentari, ti danno una drogheria, ti danno una famiglia, ti danno una buona istruzione. Per lui, invece, un cazzo di niente. Perché lo vogliono morto. Vorrebbero che non fosse mai tornato. E' il loro incubo peggiore. Non avrebbe dovuto tornare indietro. E ora questo professore universitario. Sai dov'era quando il governo ci spediva laggiù con un braccio legato dietro la schiena? Era alla testa di quei manifestanti del cazzo. Quando vanno al college li pagano per insegnare, per insegnare ai ragazzi, cazzo, non per protestare contro la guerra nel Vietnam. Non ci hanno dato la minima possibilità. Dicono che abbiamo perso la guerra. Non l'abbiamo persa noi, la guerra, la guerra l'ha persa il governo. Ma quando i professorini tutti in tiro non avevano voglia d'insegnare, invece d'insegnare andavano là fuori a protestare contro la guerra, e questi sono i ringraziamenti che riceve per avere servito il suo paese. Questi sono i ringraziamenti per la merda che ha dovuto ingoiare tutti giorni. Non riesce ad avere una notte di sonno, perdio. Non ha avuto una buona notte di sonno in ventisei anni, cazzo. E per questo, per questo sua moglie succhia il cazzo a un professore ebreo da quattro soldi? Nel Vietnam, a pensarci bene, non ce n'erano mica tanti, di ebrei. Erano troppo occupati a dare esami. Bastardo d'un ebreo. C'è qualcosa di storto in quei bastardi ebrei. Hanno un'aria che mi piace poco. E lei gli succhia il cazzo? Gesù Cristo. Da vomitare, ragazzi. A cos'è servito tutto questo? Lei non sa cos'è la vita. Non ha mai avuto una giornata dura in vita sua. Lui non le ha mai fatto del male

e non ha mai fatto del male ai bambini. «Oh, il mio patrigno è stato cattivo con me». Il patrigno le metteva un dito dentro. Fotterla, doveva, così si sarebbe rimessa un po' in riga. Oggi i bambini sarebbero ancora vivi. Oggi, cazzo, i suoi figli sarebbero ancora vivi! E lui sarebbe come tutti gli altri uomini, là fuori, con la loro famiglia e la loro bella macchina. Invece di trovarsi chiuso a chiave in un reparto dell'ospedale per i reduci. Ecco tutti i ringraziamenti che ha avuto: la Thorazina. I suoi ringraziamenti sono stati trascinarsi in giro sotto l'effetto della Thorazina. Solo perché credeva di essere tornato nel Vietnam. Questo era il Lester Farley che sbucò gridando dai cespugli. Questo era l'uomo che corse incontro a Coleman e Faunia mentre stavano appena dentro il vano della porta della cucina, che si gettò come una furia su di loro sbucando dal buio dei cespugli di fianco alla casa. E questa era solo una piccola parte di tutto ciò che gli ronzava nella testa, una notte dopo l'altra, per tutta la primavera e poi all'inizio dell'estate, mentre si nascondeva per ore di seguito, accovacciato, immobile, scosso da un tumulto di emozioni, e, nascosto, aspettava che lei lo facesse. Che facesse quello che faceva mentre i suoi figli morivano soffocati dal fumo. E stavolta nemmeno con un uomo della sua età. E nemmeno dell'età di Farley. Questa volta non era col suo capo, il grande Hollenbeck, l'americano al cento per cento. Hollenbeck, almeno, poteva darle qualcosa in cambio. Potevi quasi rispettarla, per Hollenbeck. Ma ormai quella donna era andata così in là che l'avrebbe fatto per niente con chiunque. Adesso lo faceva con un vecchio dai capelli grigi, pelle e ossa, con uno spocchioso professore ebreo la cui gialla faccia ebrea si torceva dal piacere mentre lui le stringeva la testa con le mani ossute e tremanti. La moglie di chi altro spompina un vecchio ebreo? La moglie di chi? Stavolta quella troia assassina e scostumata prendeva nella bocca da puttana la sborra acquosa di un disgustoso vecchio ebreo, e intanto Rawley e Les junior erano sempre all'altro mondo. La ricompensa. Non era mai finita. Era come volare, come essere di nuovo nel Vietnam, era come il momento in cui esci di testa. Incazzato, all'improvviso, più perché Faunia stava facendo un pompino all'ebreo che perché aveva assassinato i suoi figli, Farley vola verso di loro, urlando, e il professore ebreo risponde con altre urla, il professore ebreo alza una leva per cavare i copertoni, ed è solo perché lui è disarmato – perché quella sera era venuto lì direttamente dopo le esercitazioni dei pompieri e senza una sola delle armi che riempiono la sua cantina – che Farley non li fa secchi tutt'e due. Com'è successo che non ha teso la mano per togliergli la leva e poi farla finita, Les non saprebbe dire.

Bella cosa avrebbe potuto fare con quella sbarra di ferro. – Mettila giù! Se non vuoi che ti spacchi quella testa del cazzo! Mettila giù, cazzo! – E l'ebreo l'ha messa giù. Fortunatamente per l'ebreo, l'ha messa giù. Quella notte, dopo che fu tornato a casa (anche in questo caso non avrebbe saputo dire come aveva fatto), e fino alle prime ore del mattino (quando ci vollero cinque uomini del corpo dei pompieri, cinque dei suoi compagni, per immobilizzarlo, legarlo e portarlo a Northampton), Lester vide tutto, ogni cosa, tutto insieme, in casa sua, il caldo insopportabile, la pioggia insopportabile, il fango, le formiche giganti, le api assassine, sul pavimento di linoleum vicino al tavolo della cucina, e la diarrea che lo tormenta, il mal di testa, la mancanza d'acqua e di cibo, la scarsità di munizioni, questa è sicuramente la sua ultima notte, in attesa che accada, che Foster metta il piede sulla mina, che Quillen affoghi, che lui stesso non affoghi per un pelo, che diventi pazzo di terrore, che tiri bombe a mano in ogni direzione e urli «Non voglio morire», mentre gli aerei, disorientati, gli sparano addosso, e Drago perde una gamba, un braccio, il naso, e il corpo bruciato di Conrity gli si appiccica alle mani, non riesce a far venire un elicottero, l'elicottero dice che non possono atterrare perché c'è un attacco in corso, e lui è così rabbioso, cazzo, sapendo che sta per morire, che prova a tirarlo giù, cerca di abbattere l'elicottero del suo stesso esercito... La notte più inumana che avesse mai passato, e ora è proprio lì in quella fogna della sua casa, e anche la notte più lunga, la notte più lunga che abbia mai passato sulla terra, ogni gesto che fa pietrificato nella memoria, ragazzi che urlano, piangono e si cagano addosso, lui stesso impreparato a tutte quelle urla, ragazzi colpiti in pieno viso e moribondi, che tirano l'ultimo respiro e muoiono, il corpo di Conrity spiaccicato sulle sue mani, Drago che sanguina come un maiale scannato, Lester che cerca di svegliare uno che è morto, e urla e strilla senza fermarsi mai: «Non voglio morire». Inutile chiedere alla morte una sospensione. Inutile chiedere alla morte un rinvio. Inutile cercare di sfuggire alla morte. Inutile implorare la morte per una tregua. Lottare contro la morte fino all'alba, con tutti i nervi tesi. Una paura tremenda, una rabbia smisurata, non un elicottero disposto ad atterrare e l'odore insopportabile del sangue di Drago lì in casa sua, cazzo. Non avrebbe mai pensato che potesse puzzare così. TUTTI CON I NERVI TESI AL MASSIMO E LONTANI DA CASA E PIENI DI UNA RABBIA RABBIA RABBIA IRREFRENABILE! Per quasi tutta la strada fino a Northampton – fino al momento in cui, non resistendo più, lo hanno imbavagliato – Farley sta scavando, la sera tardi, e la mattina, svegliandosi, scopre di avere dormito nella fossa piena di vermi di qualcuno. – Per favore! – grida. – Basta! Basta! – E così non ebbero altra scelta che rinchiuderlo. All'ospedale dei reduci, dove riuscirono a portarlo solo con la forza e da dove per anni era scappato – fuggendo per tutta la vita dall'ospedale di un

governo che non poteva sopportare –, lo misero nel reparto sorvegliato, lo legarono al letto, lo reidratarono, lo stabilizzarono, lo disintossicarono, gli tolsero il vizio dell'alcol, gli curarono il fegato rovinato e poi, nelle sei settimane che seguirono, ogni mattina, durante la seduta per la terapia del suo gruppo, Farley spiegò com'erano morti Rawley e Les junior. Disse agli altri tutto ciò che era successo, ogni giorno disse loro che cosa era successo quando aveva visto la faccia contorta dei suoi due bambini soffocati e aveva capito benissimo che erano morti. – Insensibile, – disse. – Insensibile, cazzo. Nessuna emozione. Insensibile alla morte dei miei bambini. Mio figlio mostra solo il bianco degli occhi e il suo polso non batte più. Il suo cuore non batte più. Cazzo, mio figlio non respira più. Mio figlio. Il piccolo Les. L'unico figlio che avrò mai. Ma io non sentivo niente. Mi comportavo come se fosse un estraneo. La stessa cosa con Rawley. Un'estranea. La mia bambina. Quel Vietnam del cazzo, la colpa è vostra! Dopo tutti questi anni la guerra è finita, e la colpa è vostra! I miei sentimenti sono andati a puttane. Quando non succede niente, mi sento come se mi avessero dato una legnata sulla testa con una mazza. Poi succede qualcosa, qualcosa di enorme, cazzo, e io non sento niente. Insensibile. I miei figli sono morti, ma il mio corpo è insensibile e la mia mente è vuota. Il Vietnam. Ecco perché! Non ho mai pianto per i miei bambini. Lui aveva cinque anni e lei otto. Mi sono detto: «Perché non sento niente?» Mi sono detto: «Perché non li ho salvati? Perché non ho potuto salvarli?» E' la ricompensa. La ricompensa! Continuavo a pensare al Vietnam. A tutte le volte che ho creduto di essere morto. Ecco come ho cominciato a capire che non posso morire. Perché sono già morto. Perché sono già morto nel Vietnam. Perché sono un uomo che è già morto, cazzo. Il gruppo era composto di reduci dal Vietnam come Farley, tranne i due della Guerra del Golfo, due frignoni ai quali era andata un po' di sabbia negli occhi in una guerra terrestre durata quattro giorni. Una guerra durata cento ore. Una lunga attesa nel deserto. I reduci dal Vietnam erano uomini che dopo la guerra ne avevano viste di tutti i colori: divorzi, alcolismo, droga, criminalità, polizia, carcere, il devastante abbattimento della depressione, il pianto incontrollabile, la voglia di urlare, la voglia di spaccare tut to, le mani tremanti e il corpo che si contrae e la faccia tesa e il bagno di sudore nel rivivere la scena del metallo che vola e delle esplosioni folgoranti e delle membra recise, nel rivivere il massacro dei prigionieri e delle famiglie e delle vecchie e dei bambini piccoli... E così, anche se facevano di sì con la testa davanti alla storia di Rawley e del piccolo Les, e capivano come Farley non poteva sentire niente per loro quando li aveva guardati nel bianco degli occhi perché era morto anche lui, nondimeno erano tutti d'accordo, questi uomini veramente malati (nei rari momenti in cui uno di loro riusciva a smettere di parlare di sé, smettere di raccontare che girovagava per le strade pronto a scattare e, rivolto al cielo, a urlare «Perché?», smette-

re di dire che non era rispettato come avrebbe dovuto essere, e che non sarebbe stato felice finché non fosse morto, sepolto e dimenticato), erano tutti d'accordo che Farley avrebbe fatto meglio a metterci una pietra sopra e tornare alla sua vita. Tornare alla sua vita. Lui sa che è una vita di merda, ma è tutto quello che ha. Tornare alla sua vita. Okay. Verso la fine di agosto, quando lo dimisero dall'ospedale, era deciso a farlo. E con l'aiuto del gruppo di sostegno in cui era entrato, e specialmente di un tale che camminava col bastone e si chiamava Jimmy Borrero, ci riuscì, almeno in parte; non fu per niente facile, ma con l'aiuto di Jimmy ce la stava facendo, più o meno, e restò sobrio per quasi tre mesi, fino a novembre. Ma poi – e non per qualcosa che gli aveva detto qualcuno o per qualcosa che aveva visto alla tivù o per l'approssimarsi di un'altra festa del Ringraziamento da passare senza famiglia, ma perché per Farley non c'erano alternative, perché era impossibile impedire al passato di tornare ad accumularsi, ad accumularsi e spronarlo ad agire e pretendere da lui una reazione sproporzionata – invece di trovarsi alle sue spalle, tutto tornò a stagliarsi davanti a lui. Era, ancora una volta, la sua vita.

Capitolo secondo Schivando il colpo

Il giorno dopo, quando Coleman andò giù ad Athena a chiedere che cosa si poteva fare per avere la garanzia che Farley non violasse mai più il suo domicilio, l'avvocato Nelson Primus gli disse ciò che lui non aveva nessuna voglia di sentire: che doveva considerare l'idea di chiudere la sua relazione con Faunia. Coleman l'aveva consultato subito dopo l'incidente degli «spettri» e, ricordando i validi consigli che gli aveva dato Primus (e la vena di franchezza impertinente che gli ricordava la sua alla stessa età, nonché la ripugnanza del giovane avvocato per i pleonasmi sentimentali, che non si sforzava di nascondere dietro la bonarietà da simpaticone prevalente invece negli altri avvocati cittadini), era a lui che aveva portato la lettera di Delphine Roux. Primus aveva poco più di trent'anni ed era il marito di una giovane professoressa di filosofia che Coleman aveva assunto circa quattro anni prima – e il padre di due bambini piccoli. In una città universitaria del New England come Athena, dove la tenuta da lavoro di quasi tutti i professionisti era piuttosto casual, questo bel giovanotto lustro dai capelli corvini, alto, asciutto e atletico, arrivava in ufficio ogni mattina indossando un completo su misura perfettamente stirato, sfavillanti scarpe nere e camicie bianche inamidate con un piccolo monogramma, un abbigliamento che tradiva non soltanto una grande sicurezza e il senso della propria importanza, ma anche un forte fastidio per ogni forma di trascuratezza; e che faceva pensare, altresì, che Nelson Primus aspirasse a qualcosa di più di uno studio sopra il negozio di Talbot dalla parte opposta dei giardini pubblici. Sua moglie insegnava lì, così per ora era lì anche lui. Ma non per molto. Una giovane pantera con i gemelli ai polsi e un abito a righine: una pantera pronta a saltare. – Non dubito che Farley sia uno psicopatico, – gli disse Primus, misurando ogni parola con martellante esattezza e osservando attentamente Coleman mentre parlava. – Se mi seguisse, mi preoccuperei anch'io. Ma ti seguiva prima che tu ti mettessi con la sua ex moglie? Non sapeva nemmeno chi eri. La lettera di Delphine Roux è una cosa completamente diversa. Hai voluto che le scrivessi e io l'ho fatto, anche se non ero d'accordo. Hai voluto che un esperto analizzasse la calligrafia e io ti ho trovato qualcuno che

analizzasse la calligrafia, anche se non ero d'accordo. Hai voluto che io spedissi la perizia grafologica al suo avvocato e io gliel'ho spedita, anche se non ero d'accordo. Personalmente avrei voluto che tu trattassi una piccola seccatura per quello che era, ma ho fatto tutto quello che mi hai detto di fare. Lester Farley, però, non è una piccola seccatura. Delphine Roux non gli regge la coda, a Farley, né come psicopatica né come avversaria. Quello di Farley è il mondo in cui Faunia è riuscita a sopravvivere a stento, e che non può fare a meno di tirarsi dietro quando varca la tua soglia. Lester Farley lavora con la squadra dei cantonieri, dico bene? Chiediamo al giudice un ordine perché Farley non si possa più avvicinare a te e a casa tua, e il tuo segreto sarà sulla bocca di tutti gli abitanti della tua tranquilla cittadina in mezzo ai boschi. Presto sarà sulla bocca di tutti gli abitanti di questa città, di tutte le persone che lavorano al college, e quello che hai dovuto subire all'inizio non avrà nessuna somiglianza col malevolo puritanesimo con cui prima ti rotoleranno nel catrame e poi ti copriranno di piume. Ricordo la precisione con cui il comico settimanale locale non è riuscito a capire la ridicola accusa contro di te e il significato delle tue dimissioni. «Ex preside di facoltà lascia il college gravato dal sospetto di essere razzista». Ricordo la didascalia sotto la tua foto. «Un epiteto denigratorio usato durante una lezione costringe al ritiro il professor Silk». Ricordo come fu allora per te, credo di sapere com'è oggi e credo di sapere come sarà in futuro, quando tutta la contea sarà al corrente delle scappatelle dell'uomo che ha lasciato il college gravato dal sospetto di essere razzista. Non voglio insinuare che quello che succede dietro la porta della tua camera da letto sia affare di altri e non solo tuo. So che non dovrebbe essere così. Siamo nel 1998. Sono passati già parecchi anni da quando Janis Joplin e Norman O. Brown hanno cambiato in meglio ogni cosa. Ma qui sui Berkshire ci sono delle persone, bifolchi e professori universitari, che non hanno nessuna voglia di rinunciare ai propri valori e fare largo educatamente alla rivoluzione sessuale. Gretti frequentatori della chiesa locale, attaccati alle convenienze, retrogradi di ogni genere ansiosi di smascherare e punire le persone come te. Quelli possono metterti sotto pressione, Coleman, e non come fa il tuo Viagra. Mica stupido a tirar fuori, tutto da solo, il Viagra. Fa un po' di scena, ma l'altra volta ti è stato utile, pensava Coleman, perciò non interromperlo, non essere sarcastico, per irritante che sia questo suo saperla lunga. La pietà non gli lascia punti deboli? Va bene. Sei stato tu a chiedergli consiglio, dunque ascoltalo fino alla fine. Non vorrai commettere un errore perché non sei stato avvertito. – Certo che posso farti avere un ordine del giudice, – gli disse Primus. – Ma basterà a fermarlo? Un ordine del giudice lo farà saltare in aria. Ti ho trovato un perito calligrafo, posso farti avere un ordine del giudice, posso procurarti anche un giubbotto antiproiettile. Ma quella che non posso pro-

curarti è una cosa che non conoscerai mai fino a quando starai con questa donna: una vita senza scandali, senza censure e senza Farley. La serenità di spirito che nasce dal non essere seguiti. O messi in ridicolo. O snobbati. O giudicati male. A proposito, Faunia è Hiv negativa? Le hai fatto fare le analisi, Coleman? Usi il preservativo, Coleman? Per quanto si creda al passo coi tempi, non riesce proprio a digerire che questo vecchio abbia una vita sessuale, eh? Gli sembra una cosa del tutto anomala. Ma chi può capire, a trentadue anni, che a settantuno è esattamente lo stesso? Come e perché lo fa?, pensa lui. La mia virilità di vecchio barbogio e le complicazioni che produce. A trentadue anni, pensò Coleman, non l'avrei capito neanche io. Per il resto, tuttavia, parla di come va il mondo con l'autorità di uno che abbia dieci o vent'anni di più. E quanta esperienza può aver avuto, quanto può essere stato esposto alle difficoltà della vita, per rivolgersi con tanta condiscendenza a un uomo che ha più del doppio dei suoi anni? Poca, pochissima, se non nessuna. – Coleman, se non lo fai tu, – stava dicendo Primus, – usa qualcosa almeno lei? E se dice che lo fa, puoi essere sicuro che è vero? Si sa che anche le più barbone tra le donne delle pulizie ogni tanto nascondono la verità, e qualche volta cercano addirittura di rimediare a tutte le umiliazioni che hanno dovuto subire. Cosa succede quando Faunia Farley rimane incinta? Potrebbe pensarla come hanno fatto un mucchio di donne da quando l'atto di partorire un bastardo è stato esaltato da Jim Morrison e i Doors. Faunia potrebbe benissimo voler andare avanti e diventare la madre del figlio di un illustre professore in pensione, malgrado tutte le tue pazienti argomentazioni in senso contrario. Diventare la madre del figlio di un illustre professore potrebbe essere un cambiamento incoraggiante, dopo essere stata la madre dei figli di un fallito squilibrato. E, una volta incinta, se decide che non vuol fare più la serva, che non vuol fare più nessun lavoro, una corte illuminata non esiterà a ordinarti di mantenere sia il bambino sia la madre nubile. Ora, io posso rappresentarti nella causa per il disconoscimento di paternità e, se e quando dovrò farlo, mi batterò per limitare il massimale alla metà della tua pensione. Farò tutto il possibile affinché, mentre tu viaggi verso gli ottant'anni, resti qualcosa nel tuo conto in banca. Coleman, dammi retta: questo non è un buon affare. Sotto tutti gli aspetti, è un cattivo affare. Se vai dal tuo consigliere in edonismo, ti dirà sicuramente un'altra cosa, ma io sono il tuo consigliere nel campo del diritto e devo dirti che è un pessimo affare. Se fossi in te, non mi metterei sulla strada di Lester Farley e dei suoi terribili rancori. Se fossi in te, strapperei il contratto con Faunia e taglierei la corda. Essendo stato detto tutto ciò che Primus aveva da dire, l'avvocato si alzò da dietro la scrivania, una grande scrivania ben lucidata tenuta coscienziosamente sgombra di ogni incartamento, spoglia di tutto tranne che delle fotografie in cornice della giovane moglie professoressa e dei loro due bam-

bini, una scrivania la cui superficie era l'epitome dell'immacolata tabula rasa e poteva solo spingere Coleman a concludere che sulla strada di quel loquace giovanotto non c'era, a ostacolarlo, nulla di disorganizzato, né debolezze di carattere né opinioni estreme né impulsi temerari e nemmeno la possibilità di errori dovuti alla disattenzione, nulla di nascosto, bene o male, che sarebbe mai saltato fuori per impedirgli di raggiungere ogni traguardo professionale e ogni successo borghese. Non ci saranno ombre nella vita di Nelson Primus, né persone come Faunia o Lester Farley, né Markie che lo disprezzano o Lisa che lo abbandonano. Primus ha posto un limite, e a nessuna incriminante impurità sarà permesso di superarlo. Ma un limite non l'avevo posto anch'io, e non meno rigorosamente? Sono forse stato meno vigile nel pormi l'obiettivo di legittimi traguardi e di una vita stimabile e regolare? Sono stato meno fiducioso nel seguire a passo di marcia i miei incrollabili scrupoli? Sono stato meno arrogante? Non è proprio questo il modo in cui ho liquidato la vecchia guardia nei miei primi cento giorni come uomo forte di Roberts? Non è così che li ho fatti diventar matti e li ho sbattuti fuori? Sono stato meno spietatamente sicuro di me? Eppure è bastata una parola. Non la più incendiaria, la più odiosa, la più orribile, no di certo, e tuttavia abbastanza forte per mettere a nudo, per mostrare a tutti, per giudicare, per rivelare la carenza della verità su chi e che cosa sono. L'avvocato che diceva le cose come stanno – che aveva messo in ogni parola un sarcasmo precauzionale equivalente a un vero e proprio ammonimento, di cui non intendeva dissimulare lo scopo all'anziano e illustre cliente con una sola circonlocuzione – uscì da dietro la scrivania per scortare Coleman fuori dallo studio e poi, arrivato alla soglia, si spinse fino ad accompagnarlo giù per le scale e fuori, nella strada assolata. Era in gran parte per conto di Beth, sua moglie, che Primus aveva voluto dire a Coleman tutto quello che poteva nel modo più scoperto che poteva, di dire ciò che doveva essere detto per quanto potesse apparire scortese, nella speranza d'impedire a quella figura un tempo considerevole di disonorarsi ulteriormente. L'incidente degli «spettri» – coincidendo com'era accaduto con la morte improvvisa di sua moglie – gli aveva dato una scossa così forte che il preside di facoltà non soltanto aveva preso la decisione avventata di dimettersi (proprio quando l'accusa mossagli aveva quasi fatto il suo spurio corso), ma ora, ben due anni dopo, Silk continuava a essere incapace di valutare cos'era e cosa non era, a lunga scadenza, nel suo interesse. Per Primus era quasi come se Coleman Silk non fosse stato abbastanza sminuito ingiustamente, come se, con l'ottusa furberia di un uomo condannato, come uno che incorre nell'ira di un dio, egli fosse alla folle ricerca di un'ultima aggressione dannosa e degradante, un'estrema ingiustizia che convalidasse eternamente la sua offesa. Un uomo che nel suo piccolo mondo un tempo aveva avuto grande potere sembrava non solo incapace di difendersi dalle ingiurie di una Delphine Roux e di un Lester Farley ma, cosa altrettanto

compromettente per la bellicosa immagine che aveva di sé, sembrava incapace di proteggersi da quel tipo di penose tentazioni con cui il maschio, invecchiando, cerca di compensare la perdita di un'ardente e focosa virilità. Primus poteva dire, dal contegno di Coleman, che sul Viagra ci aveva azzeccato. Un'altra minaccia chimica, pensò il giovanotto. Tanto vale che quell'uomo fumi il crack, per tutto il bene che gli sta facendo il Viagra. Fuori, in strada, si strinsero la mano. – Coleman, – disse Primus, che proprio quel mattino, quando aveva detto che doveva vedere Silk, aveva ascoltato la moglie esprimere il proprio rammarico per le dimissioni dell'ex preside da Athena e parlare ancora in tono sprezzante di Delphine Roux, che biasimava per la sua parte nell'affare degli «spettri», – Coleman, – disse Primus, – Faunia Farley non appartiene al tuo mondo. Ieri sera hai potuto veder bene il mondo che l'ha formata, che l'ha schiacciata e al quale, per ragioni che tu conosci quanto me, non sfuggirà mai. Da tutto questo può derivare qualcosa di peggio, qualcosa di molto peggio di quello che è successo ieri sera. Tu non stai più lottando in un mondo dove vogliono distruggerti e cacciarti dal tuo posto per sostituirti con uno dei loro. Non ti stai più azzuffando con una gang di educati elitisti egualitari che nascondono le proprie ambizioni dietro nobili ideali. Ora tu stai combattendo in un mondo dove nessuno si preoccupa di ammantare nella retorica umanitaria la propria spietatezza. Questa è gente la cui idea fondamentale sulla vita è di essere stati fottuti in continuazione, trattati ingiustamente dal primo all'ultimo giorno. Quello che hai sofferto tu per come il tuo caso è stato affrontato dal college, per doloroso che sia, è quello che prova questa gente ogni minuto di ogni ora di... Basta così: questo, adesso, era scritto nell'espressione di Coleman; con tale chiarezza che persino Primus comprese che era ora di tacere. Per tutto l'incontro Coleman aveva ascoltato in silenzio, soffocando i propri sentimenti, cercando di rimanere neutrale e d'ignorare il piacere fin troppo evidente che Primus provava nel fare un fiorito predicozzo sulle virtù della prudenza a un professionista di quasi quarant'anni più vecchio di lui. Per non abbattersi Coleman aveva pensato: prendersela con me li fa sentire meglio, tutti quanti; si sentono tutti liberati, dicendomi che sbaglio. Ma quando furono fuori, in strada, non gli fu più possibile isolare l'argomento dalla sua articolazione; o distaccarsi dall'uomo di potere che era sempre stato, dall'uomo di potere e dall'uomo di rispetto. Primus non aveva bisogno di tanti svolazzi satirici per andare al sodo con il suo cliente. Se lo scopo era stato di dargli dei consigli legali persuasivi, una piccolissima dose d'ironia sarebbe stata molto più efficace. Ma l'idea che Primus aveva di se stesso, di uomo brillante e destinato a grandi cose, sembrava aver avuto il sopravvento, pensò Coleman, e per questo l'irrisione di un ridicolo vecchio idiota reso potente da un prodotto farmaceutico in vendita a dieci dollari la compressa non aveva conosciuto limiti.

– Tu sei uno straordinario campione di eloquenza, Nelson. Così perspicace. Così facondo. Un maestro del periodo interminabile, ostentatamente ed esageratamente elaborato. E così pieno di disprezzo per tutti i problemi umani che non hai mai dovuto affrontare... – L'impulso di prendere l'avvo cato per la camicia e di sbattere quell'insolente figlio di puttana dentro la vetrina di Talbot era irresistibile. Invece, frenandosi, facendo un passo indietro e parlando strategicamente nel suo tono più sommesso (anche se non con tutta l'attenzione che avrebbe potuto metterci), Coleman disse: – Non voglio più sentire la tua voce, questa voce che si ammira, cazzo, e non voglio più vedere la tua faccia soddisfatta bianca come un giglio. – «Bianca come un giglio»? – disse Primus alla moglie quella sera. – Perché «bianca come un giglio»? Non si può mai considerare la gente responsabile dei colpi che mena alla cieca quando crede di essere stata strumentalizzata e privata della propria dignità. Ma davvero io volevo dargli l'impressione di attaccarlo? Certo che no. E' peggio di così. Peggio, perché questo vecchio ha perso la bussola, e io intendevo aiutarlo. Peggio, perché quest'uomo sta per trasformare un errore in una catastrofe, e io volevo fermarlo. Quello che lui ha scambiato per un attacco era, in realtà, un ostinato tentativo di essere preso sul serio, d'impressionarlo. Non ci sono riuscito, Beth, ho sbagliato tutto. Forse perché ero realmente intimidito. Nel suo modo sottile e poco appariscente, quell'uomo è una forza. Non lo conoscevo quando era un grande preside di facoltà. L'ho conosciuto solo come un uomo nei pasticci. Ma ne avverti la presenza. Capisci perché la gente era intimidita. C'è qualcuno, lì, quando lui sta seduto davanti a te. Guarda, non so che cosa sia. Non è facile capire com'è fatto uno che hai visto una mezza dozzina di volte in vita tua. Forse è, soprattutto, qualcosa di stupido che ho dentro. Ma, qualunque cosa l'abbia provocato, io ho fatto tutti gli errori che può fare un dilettante, dal primo all'ultimo. La psicopatologia, il Viagra, i Doors, Norman O. Brown, la contraccezione, l'Aids. Sapevo tutto di ogni cosa. Specie se era successo prima che io nascessi, sapevo tutto quello che era possibile sapere. Avrei dovuto essere conciso, concreto, oggettivo; invece sono stato provocatorio. Volevo aiutarlo e invece l'ho offeso e ho peggiorato le cose. No, non lo biasimo per avermi aggredito a quel modo. Ma, amore, rimane la domanda: perché «bianca come un giglio»? Coleman non metteva piede nel campus di Athena da due anni e ormai non andava più in città, se poteva farne a meno. Non odiava più i membri del corpo accademico di Athena; semplicemente, non voleva aver nulla a che fare con loro, temendo, se si fosse fermato a chiacchierare, anche oziosamente, di non riuscire a nascondere il suo dolore, o a nascondere che na-

scondeva il suo dolore: di non riuscire a impedirsi, cioè, di stare lì a fremere di rabbia o, peggio ancora, di perdere il controllo e sbottare irrefrenabilmente in una versione fin troppo articolata del blues dell'uomo cui è stato fatto un torto. Due o tre giorni dopo essersi dimesso aveva aperto nuovi conti nella banca e al supermarket di Blackwell, una depressa cittadina mineraria sul fiume a circa diciotto miglia da Athena, e si era addirittura procurato la tessera della biblioteca locale, deciso a utilizzarla, per modesto che fosse lo stock, piuttosto che tornare a gironzolare tra gli scaffali di quella di Athena. Si iscrisse all'Ymca di Blackwell e invece di fare, alla fine della giornata, la sua nuotata nella piscina del college di Athena, o di fare ginnastica su una stuoia nella palestra di Athena, come aveva fatto per quasi trent'anni dopo il lavoro, faceva le sue vasche un paio di volte la settimana nella meno piacevole piscina dell'Ymca di Blackwell: andò anche nella palestra fatiscente e, per la prima volta da quando era studente, cominciò, a un ritmo di gran lunga più lento che negli anni quaranta, a lavorare con i guantoni contro la pera e il sacco. Per andare a Blackwell, a nord, impiegava il doppio del tempo che ci voleva per scendere ad Athena, ma a Blackwell era improbabile che Coleman incontrasse degli ex colleghi e, quando questo succedeva, gli riusciva meno imbarazzante fare un cenno col capo senza sorridere e tirar dritto badando ai fatti suoi, meno imbarazzante di come sarebbe stato nelle belle vecchie strade di Athena, dove non c'era una targa, una panchina, un albero, un monumento nei giardini pubblici, che in qualche modo non gli ricordasse la propria vita prima dell'incidente: quando lui era diventato il razzista del college, ed era cambiato tutto. Non c'era nemmeno la fila dei negozi sull'altro lato dei giardini prima che Coleman, nella sua carica di preside di facoltà, portasse ad Athena, come professori, come studenti e come genitori di studenti, gente nuova di ogni genere; e così, col tempo, Coleman aveva finito per cambiare la comunità non meno di quanto avesse ristrutturato il college. L'antiquario moribondo, il cattivo ristorante, il negozio di generi alimentari di prima necessità, la bottiglieria di campagna, il barbiere da cittadina di provincia, la merciaia stile ottocento, la libreria poco fornita, l'elegante sala da tè, la buia farmacia, la taverna deprimente, il giornalaio senza giornali, il vuoto ed enigmatico negozio di magia, erano tutti spariti, rimpiazzati da locali dove potevi mangiare un pasto decente e bere una buona tazza di caffè e procurarti i medicinali della ricetta e comprare una buona bottiglia di vino e trovare un libro su qualcosa di diverso dai Berkshire e, per scaldarsi durante l'inverno, trovare anche qualcosa di diverso dalle mutande lunghe. La «rivoluzione della qualità», quella che un tempo dicevano, dandogliene atto, avesse imposto ai professori e ai programmi di Athena, Coleman l'aveva estesa senza accorgersene a Town Street. E questo non faceva altro che aumentare il dolore e la sorpresa di essere diventato l'estraneo che era. A questo punto, due anni dopo, Coleman si sentiva assediato non tanto

da loro – a parte Delphine Roux, chi poteva ancora curarsi, ad Athena, di Coleman Silk e dell'incidente degli «spettri»? – quanto dalla stanchezza che gli dava il proprio rancore, appena sommerso e facile da galvanizzare; nelle strade di Athena ora Coleman provava per se stesso (tanto per cominciare) un'avversione maggiore di quella che provava per coloro che, per indifferenza o codardia o ambizione, non avevano inscenato la minima protesta in suo favore. Persone istruite con tanto di laurea, persone che lui stesso aveva assunto perché le credeva capaci di pensare in modo razionale e indipendente, non avevano mostrato alcuna propensione a valutare le assurde testimonianze contro di lui e ad arrivare a una conclusione appropriata. Razzista: all'Athena College, tutt'a un tratto, l'epiteto emotivamente più forte che ti potessero affibbiare; e a questa emotività (e alla paura per le loro schede personali e per le future promozioni) tutti i suoi professori avevano ceduto. «Razzista»: detto con tutta la sonorità delle dichiarazioni ufficiali; e anche l'ultimo potenziale alleato era corso a cercare riparo. Fare una passeggiata fino al campus? Era estate. Le lezioni erano sospese. Dopo quasi quattro decadi ad Athena, dopo tutto quello che era stato distrutto e perduto, dopo tutto quello che aveva passato per arrivarci, perché no? Prima «spettri», adesso «bianco»: chi sa quale stortura ripugnante sarà svelata dalla prossima locuzione un po' antiquata, dalla prossima frase idiomatica deliziosamente datata che gli esce volando dalla bocca? Come si viene smascherati o distrutti dalla parola ideale. Cosa svela il travestimento, la copertura e la dissimulazione? Questo, la parola giusta pronunciata spontaneamente, senza doverci nemmeno pensare. – Per la millesima volta: ho detto spooks perché volevo dire «spettri». Mio padre aveva un bar, ma insisteva perché il mio linguaggio fosse preciso, e io non l'ho tradito. Le parole hanno un significato: pur avendo studiato solo fino alla settima, questo lo sapeva anche mio padre. Dietro il banco lui teneva due cose che lo aiutavano a comporre le discussioni tra i clienti: uno sfollagente e un dizionario. Il mio migliore amico, mi diceva, il dizionario; e oggi è così anche per me. Perché, se consultiamo il dizionario, cosa troviamo come primo significato di spook? Questo: «Familiare. Spirito, spettro, fantasma». – Ma questo, caro preside, non è il senso in cui è stato inteso. Mi permetta di leggerle uno degli altri significati che riporta il dizionario. «Spregiativo. Negro». Ecco il senso in cui è stato inteso; e anche lei può comprenderne la logica: qualcuno li conosce, o sono dei neri che non conoscete? – Signore, se avessi avuto l'intenzione di dire: «Qualcuno li conosce, o non li conoscete perché sono neri?», l'avrei detto. «Qualcuno li conosce, o nessuno di voi li conosce perché si dà il caso che questi siano due studenti neri? Qualcuno li conosce, o sono dei neri che nessuno conosce?» Se avessi voluto dir questo, avrei detto proprio questo. Ma come facevo a sapere che erano due studenti neri se non avevo mai posato lo sguardo su di loro e, a parte i nomi, non li conoscevo affatto? Quel-

lo che sapevo, indiscutibilmente, era che erano invisibili; e la parola per «invisibile», per un fantasma, è la parola che ho usato io nel suo primo significato: spook, «spettro». Guardate l'aggettivo spooky, che è la voce del dizionario dopo spook. Spooky. Una parola che ricordiamo tutti fin dall'infanzia, e cosa significa? Secondo il dizionario in edizione integrale: «Familiare. 1. Relativo a uno spirito o uno spettro; che fa pensare ai fantasmi. 2. Spettrale; che incute paura. 3. (Di cavallo) ombroso; nervoso». Attenzione. «Di cavallo». Ora, qualcuno vorrebbe forse sostenere che io intendessi caratterizzare i miei due studenti anche come cavalli? No? Ma perché no? Già che ci siete, perché non anche così? Un'ultima occhiata ad Athena, e poi che l'ignominia sia completa. Silky. Silky Silk4. Il nomignolo che nessuno aveva usato per chiamarlo in più di cinquant'anni, e tuttavia lui quasi si aspettava di sentire qualcuno gridare: «Ehi, Silky!», come se fosse di nuovo a East Orange, camminando lungo Central Avenue dopo la scuola – invece di attraversare la Town Street di Athena e di affrontare, per la prima volta dal giorno delle sue dimissioni, la salita che portava al campus –, camminando lungo Central Avenue con sua sorella Ernestine, ascoltando la storia pazzesca di quello che lei aveva sentito la sera prima quando il dottor Fensterman, il medico ebreo, il grande chirurgo dell'ospedale della mamma a Newark, era venuto a trovare i loro genitori. Mentre Coleman era in palestra ad allenarsi con la squadra di atletica leggera, Ernestine era a casa, in cucina, a fare i compiti, e da lì poté udire il dottor Fensterman, seduto nel soggiorno con mamma e papà, che spiegava perché fosse della massima importanza, per lui e per la signora Fensterman, che il figlio Bertram tenesse il discorso di commiato durante la cerimonia per la consegna dei diplomi alla fine dell'anno scolastico. Come i Silk sapevano bene, in quel momento era Coleman il primo della classe, con Bert secondo, ma staccato da Coleman di un solo voto. L'unica B che Bert aveva ricevuto sulla pagella il trimestre precedente, una B in fisica che secondo giustizia avrebbe dovuto essere una A, quella B era tutto ciò che separava i due migliori studenti dell'ultimo anno. Il dottor Fensterman spiegò al signore e alla signora Silk che Bert voleva seguire le orme di suo padre in medicina, ma che per farlo era indispensabile avere una pagella perfetta, e non solo perfetta all'università, ma straordinaria dall'asilo in su. Forse i Silk non erano al corrente delle quote discriminatorie destinate a impedire agli ebrei di iscriversi alla facoltà di medicina, specie alle facoltà di medicina di Harvard e Yale, dove il dottor Fensterman e sua moglie contavano che, se ne avesse avuto l'occasione, Bert sarebbe potuto emergere come il più brillante dei brillanti. A causa delle piccole quote di 4

Silk significa «seta» e silky «serico, liscio, mellifluo» [N.d.T.].

ebrei nella maggior parte delle facoltà di medicina, lo stesso dottor Fensterman aveva dovuto andare a studiare in Alabama, e là aveva visto con i propri occhi tutto ciò contro cui deve lottare la gente di colore. Il dottor Fensterman sapeva che negli istituti accademici il pregiudizio contro gli studenti di colore era molto più forte che contro gli ebrei. Sapeva quali ostacoli gli stessi Silk avevano dovuto superare per raggiungere tutto ciò che li distingueva come una famiglia di negri modello. Conosceva le tribolazioni che il signor Silk aveva dovuto sopportare da quando il suo negozio di ottico era fallito durante la Crisi. Sapeva che il signor Silk era laureato come lui, e sapeva che lavorando come steward per la ferrovia («E' così che chiamava un cameriere, Coleman: uno "steward"») era impiegato a un livello assolutamente inadeguato alla sua preparazione professionale. La signora Silk, naturalmente, la conosceva dall'ospedale. A giudizio del dottor Fensterman, tra il personale ospedaliero non c'era un'infermiera migliore di lei, un'infermiera più intelligente, competente, affidabile o capace della signora Silk, ivi compresa la stessa capoinfermiera. Da un pezzo, a suo giudizio, Gladys Silk avrebbe dovuto essere nominata caposala del reparto chirurgia; una delle promesse che il dottor Fensterman intendeva fare ai Silk era che lui era pronto a parlare col capo del personale e a fare tutto il possibile per procacciare alla signora Silk proprio quel posto dopo il ritiro della signora Noonan, l'attuale caposala. Inoltre, era pronto ad aiutare i Silk con un «prestito» a perdere senza interessi di tremila dollari, pagabile a forfait quando Coleman fosse andato all'università, perché allora la famiglia avrebbe sicuramente dovuto affrontare spese supplementari. E in cambio non chiedeva tanto quanto potevano pensare. Avendo tenuto il discorso inaugurale, Coleman sarebbe sempre stato lo studente di colore meglio piazzato tra i maturandi del 1944, per non dire lo studente di colore meglio piazzato tra i diplomati di East Orange. Con la sua media, Coleman sarebbe stato più che probabilmente lo studente di colore meglio piazzato della contea, dello stato addirittura, e l'avere finito il liceo come oratore inaugurale piuttosto che come oratore finale non avrebbe fatto nessuna differenza quando si fosse iscritto alla Howard University. Con una pagella simile, le probabilità che dovesse sopportare anche il minimo sacrificio erano trascurabili. Coleman non avrebbe perso niente, mentre i Silk avrebbero avuto tremila dollari da spendere per l'università dei figli; in più, con l'appoggio e la benedizione del dottor Fensterman, Gladys Silk poteva benissimo far carriera fino a diventare, in qualche anno, la prima caposala di colore di ogni reparto di ogni ospedale della città di Newark. E a Coleman si chiedeva solamente che scegliesse le due materie in cui era più debole e che, invece di prendere due A agli esami finali, prendesse due B. Allora sarebbe toccato a Bert prendere una A in tutte le materie: questa sarebbe stata la sua parte nell'affare. E se Bert li avesse delusi non sgobbando abbastanza per prendere tutte quelle A, i due ragazzi sarebbero finiti alla pari; e Coleman, in tal caso,

poteva ancora essere scelto come oratore per la cerimonia conclusiva; e anche così il dottor Fensterman avrebbe mantenuto le sue promesse. Inutile dire che sul patto doveva essere mantenuto il segreto da parte di tutti gli interessati. Coleman fu così lieto di quello che sentì da svincolarsi dalla stretta di Ernestine per spiccare una corsa lungo la strada, facendo, nella sua gioiosa esuberanza, tutta la Central fino alla Evergreen e ritorno, e gridando: – Le due materie in cui sono più debole? Quali sono? – Era come se, attribuendo a Coleman qualche debolezza accademica, il dottor Fensterman avesse raccontato la barzelletta più umoristica del mondo. – Cos'hanno detto, Ern? Papà cos'ha detto? – Non ho sentito. Parlava troppo piano. – Cos'ha detto la mamma? – Non so. Non ho sentito neanche la mamma. Ma quello che dicevano dopo che il dottore è uscito, quello l'ho sentito. – Dimmi! Cosa? – Papà ha detto: «Mi era venuta voglia di ammazzarlo». – Davvero? – Davvero. Sì. – E la mamma? – «Ho dovuto mordermi la lingua». Così ha detto la mamma: «Ho dovuto mordermi la lingua». – Ma non hai sentito cos'hanno detto a lui? – No. – Be', ti dirò una cosa: non ho nessuna intenzione di farlo. – Certo che no, – disse Ernestine. – Ma... E se papà gli avesse detto di sì? – Sei matto, Coleman? – Ernie, tremila dollari sono più di quanto papà metta insieme in un anno intero. Tremila dollari, Ernie! – E il pensiero del dottor Fensterman che consegnava a suo padre un grosso sacchetto di carta con tutti quei soldi gli fece spiccare un'altra corsa, saltando scioccamente gli ostacoli immaginari (già da qualche anno era il campione dei licei dell'Essex County nella corsa a ostacoli ed era arrivato secondo nelle cento iarde), fino alla Evergreen e ritorno. Un altro trionfo, ecco quello che pensava. Ancora un altro record battuto trionfalmente dal grande, dall'incomparabile, dall'unico e solo Silky Silk! Era l'oratore della cerimonia per la consegna dei diplomi, certo, e un asso dell'atletica leggera, ma aveva anche solo diciassette anni. La proposta del dottor Fensterman, per lui, non significava altro che questo: che la sua persona era al centro dell'interesse di tutti, o quasi. Non poteva ancora abbracciare tutto il quadro. A East Orange, dove quasi tutti gli abitanti erano bianchi, o italiani po veri (che abitavano nella zona periferica confinante con Orange o più in basso, verso il First Ward di Newark), o episcopali e ricchi (che vivevano nelle grandi dimore intorno a Upsala e South Harrison), il numero degli ebrei era ancora più scarso di quello dei negri, eppure erano gli ebrei e i loro figli che a quei tempi occupavano il posto più importante nella vita extrascolastica di Coleman. Davanti a tutti c'era Doc Chizner, che lo aveva praticamente adottato l'anno prima, quando Coleman si era iscritto al suo corso serale di boxe, e ora c'era il dottor Fensterman che gli offriva tremila dollari per piazzarsi accademicamente al secondo posto e permettere a Bert di arrivare primo. Doc Chizner era un dentista che amava il pugilato. Assisteva agli incontri ogni volta che ne aveva la possibilità: al Laurel Garden e

al Meadowbrook Bowl di Jersey, al Garden di New York e, fuori, alla St Nick's. La gente diceva: – Uno crede d'intendersi di boxe finché non si mette a sedere accanto a Doc. Siediti accanto a Doc Chizner, e ti accorgerai che non state guardando lo stesso match –. Doc organizzava incontri tra dilettanti in tutta la Essex County, compreso il Golden Gloves di Newark, e ai suoi corsi locali di pugilato i genitori ebrei delle Orange, di Maplewood, di Irvington – di posti lontani come il quartiere di Weequahic nell'angolo sudoccidentale di Newark – mandavano i figli affinché imparassero a difendersi. Coleman era finito nel corso di Doc Chizner non perché non sapesse difendersi, ma perché suo padre aveva scoperto che dalla seconda liceo, dopo l'allenamento di atletica leggera, Coleman, senza dirlo a nessuno (e talora anche tre volte la settimana), andava di nascosto al Boys Club di Newark, oltre High Street e attraverso gli slum di Newark fino a Morton Street, ad allenarsi segretamente per diventare un boxeur. Quando aveva cominciato aveva quattordici anni e pesava cinquantasei chili, si allenava in palestra per due ore, scioglieva i muscoli, boxava per tre riprese, lavorava al sacco, alla pera, saltava la corda, faceva ginnastica, e poi andava a casa a fare i compiti. Un paio di volte arrivò persino a incrociare i guantoni con Cooper Fulham, che l'anno prima, a Boston, aveva vinto i campionati nazionali. La madre di Coleman faceva all'ospedale un turno e mezzo, anche due turni consecutivi, suo padre serviva in tavola sul treno e a casa andava quasi solo per dormire, il fratello maggiore, Walt, era via, prima al college, poi sotto le armi, e così Coleman andava e veniva come voleva, vincolando Ernestine al segreto e cercando di prendere sempre buoni voti, sgobbando più del solito, in sala studio, la sera a letto, sugli autobus che lo portavano su e giù da Newark (due all'andata e due al ritorno), per essere sicuro che nessuno venisse a sapere di Morton Street. Se volevi diventare un pugile dilettante, il posto dove andare era il Boys Club di Newark; e se eri in gamba, e avevi fra i tredici e i diciotto anni, ti facevano competere con i ragazzi dei Boys Club di Paterson, Jersey City, Butler, con quelli dell'Ironbound Pal, e così via. C'era una quantità di gio vani al Boys Club, qualcuno di Rahway, di Linden, di Elizabeth, un paio che venivano da città lontane come Morristown, c'era un sordomuto chiamato Dummy che veniva da Belleville, ma per la maggior parte erano di Newark ed erano tutti di colore, anche se i due tizi che dirigevano il club erano bianchi. Uno, Mac Machrone, faceva il poliziotto a West Side Park e aveva una pistola, e disse a Coleman che se avesse mai scoperto che Coleman non faceva il suo footing gli avrebbe sparato. Mac credeva nella velo cità, ed era per questo che credeva in Coleman. Velocità, ritmo e boxe di rimessa. Una volta che ebbe insegnato a Coleman come piazzarsi, come muoversi e come portare i colpi, una volta che ebbe visto con quale rapidità il ragazzo imparava e com'era intelligente e com'erano pronti i suoi riflessi, Mac prese a insegnargli le raffinatezze. Come muovere la testa.

Come schivare i colpi. Come bloccarli. Come boxare d'incontro. Per insegnargli il jab, Mac ripeteva: – E' come se tu dovessi toglierti una pulce dal naso. Solo che devi toglierla a lui –. Insegnò a Coleman come vincere un match usando solo il jab. Porta un jab, fagli abbassare i guantoni, rispondi. Arriva un jab, lo schivi, rispondi col destro. O lo schivi per vie interne e rispondi con un gancio. O ti abbassi, gli porti un destro al cuore e un gancio sinistro allo stomaco. Leggero com'era, certe volte Coleman stringeva prontamente il jab dell'avversario tra i guantoni, lo sbilanciava, gli portava un gancio allo stomaco, si raddrizzava, e gli portava un altro gancio alla testa. – Fagli abbassare i pugni. Boxa di rimessa. Tu sei uno che deve boxare di rimessa, Silky. Ecco quello che sei, ecco tutto quello che sei –. Poi andarono a Paterson. Il suo primo incontro in un torneo riservato ai dilettanti. L'avversario partiva con un jab e Coleman si piegava all'indietro, ma aveva i piedi ben piantati sul ring e poteva raddrizzarsi e rispondere di destro, e continuò a sorprenderlo così per tutto l'incontro. Il ragazzo non cambiava tattica, e allora neanche Coleman cambiò tattica e vinse tutte le tre riprese. Al Boys Club, quello diventò lo stile di Silky Silk. Quando dava qualche pugno, era perché nessuno potesse dire che stava lì senza far nulla. Il più delle volte aspettava che l'avversario prendesse l'iniziativa, rispondeva con due o tre pugni dei suoi, poi si sganciava e riprendeva ad aspettare. Coleman riusciva a colpire l'avversario più aspettando che prendesse l'iniziativa che prendendola a sua volta. Il risultato fu che quando ebbe sedici anni, solo nelle due contee di Essex e Hudson, nei match tra dilettanti all'arsenale, ai Knights of Pythias, alle esibizioni per i reduci nell'ospedale dov'erano ricoverati, Coleman doveva avere battuto tre avversari che avevano vinto il Golden Gloves. Coleman immaginava di poter vincere facilmente quel torneo, a parte il fatto... a parte il fatto che gli sarebbe stato impossibile partecipare al Golden Gloves senza che il suo nome finisse sui giornali e che la sua famiglia lo scoprisse. E alla fine lo scoprirono comunque. In che modo? Coleman non ne aveva idea. Ma non ce n'era bisogno. Lo scoprirono perché glielo disse qualcuno. Più semplice di così... Erano tutti a tavola, una domenica, dopo la chiesa, quando suo padre disse: – Com'è andata, Coleman? – Com'è andata cosa? – Ieri sera. Ai Knights of Pythias. Com'è andata? – Cosa sono i Knights of Pythias? – chiese Coleman. – Mi credi nato ieri, figliolo? I Knights of Pythias è il posto dove ieri sera si è svolto il torneo. Quanti erano gli incontri in programma? – Quindici. – E tu come sei andato? – Ho vinto. – Quanti incontri hai vinto, finora? In torneo. Nelle serate. Quanti, da quando hai cominciato?

– Undici. – E quanti ne hai persi? – Finora, nessuno. – E quanto hai preso per l'orologio? – Che orologio? – L'orologio che hai vinto al Lyons Veteran Hospital. L'orologio che ti hanno dato i reduci per aver vinto l'incontro. L'orologio che hai impegnato in Mulberry Street. A Newark, Coleman... L'orologio che hai impegnato a Newark la settimana scorsa. Il padre sapeva tutto. – Quanto credi che abbia preso? – osò rispondere Coleman, ma senza alzare gli occhi mentre parlava, guardando invece il motivo ricamato sulla tovaglia domenicale. – Hai preso due dollari, Coleman. Quando conti di passare al professionismo? – Non lo faccio per i soldi, – disse lui, sempre con gli occhi puntati altrove. – Non sono i soldi che m'interessano. Lo faccio per divertimento. E' uno sport che non pratichi se non ti diverti. – Sai, Coleman, se io fossi tuo padre... Sai cosa ti direi, adesso? – Tu sei mio padre, – disse Coleman. – Oh, davvero? – disse suo padre. – Be', sicuro... – Be', io non ne sono affatto sicuro. Pensavo che, chissà, forse tuo padre era Mac Machrone del Boys Club di Newark. – Andiamo, papà. Mac è il mio allenatore. – Capisco. Allora chi è tuo padre, si può sapere? – Lo sai. Sei tu. Sei tu, papà. – Davvero? Sì? – No! – urlò Coleman. – No che non lo sei! – E qui, proprio all'inizio del pranzo domenicale, corse fuori e fece footing per quasi un'ora, lungo Central Avenue e oltre il confine di Orange, e poi attraverso Orange fino al confine di West Orange, e poi attraverso Watchung Avenue verso il cimitero Rosedale, e poi, piegando a sud, lungo Washington fino a Main, correndo e boxando con l'ombra, facendo uno scatto, poi tornando all'andatura di prima, poi scattando di nuovo, poi riprendendo a boxare e boxando per tutta la strada fino alla stazione di Brick Church, e da ultimo sprintando nell'ultimo tratto, sprintando fino a casa, rientrando nella stanza dove i suoi erano arrivati al dessert e dove si rimise a sedere al proprio posto, molto più calmo di quando era schizzato via, e ad aspettare che suo padre riprendesse da dove era stato interrotto. Quel padre che non perdeva mai la pazienza. Quel padre che per batterti ricorreva a un altro sistema. Con le parole. Con i discorsi. Con quella che chiamava «la lingua di Chaucer, Shakespeare e Dickens». Con quella lingua inglese che nessuno avrebbe mai

potuto toglierti e che il signor Silk usava rotondamente, sempre con grande pienezza, chiarezza e vigore, come se anche nelle conversazioni più banali recitasse l'orazione di Marco Antonio sul corpo di Cesare. A ciascuno dei suoi tre figli era stato dato un nome, quello di mezzo, tratto dalla tragedia che il signor Silk ricordava meglio, a suo giudizio un capolavoro della letteratura inglese e lo studio del tradimento più istruttivo che fosse stato mai scritto: il figlio maggiore si chiamava Walter Antony, il secondo Coleman Brutus; mentre Ernestine Calpurnia, la sorella minore, aveva lo stesso nome della fida moglie di Cesare. La carriera del signor Silk nel mondo degli affari era finita male quando le banche avevano chiuso gli sportelli. Gli ci era voluto parecchio per riprendersi dalla perdita del negozio di ottico a Orange, se mai si era ripreso. Poverino, diceva la mamma, aveva sempre desiderato lavorare in proprio. Era stato all'università nel Sud, in Georgia, la regione da dove veniva (la mamma era del New Jersey), e aveva scelto agricoltura e zootecnia. Ma poi aveva abbandonato gli studi e a Trenton, nel Nord, si era iscritto a una scuola per ottici. Poi era stato richiamato per la prima guerra mondiale, poi incontrò la mamma, si stabilì con lei a East Orange, aprì il negozio, comprò la casa, poi ci fu la Crisi, e ora faceva il cameriere su un vagone ristorante. Ma, se sul vagone ristorante non poteva, a casa, almeno, poteva parlare con tutta la sua ponderazione, precisione e franchezza, e poteva distruggerti con le parole. Ci teneva moltissimo che i suoi figli parlassero con proprietà. Crescendo, non dicevano mai: – Guarda il bau bau –. Non dicevano neppure: – Guarda il cagnolino –. Dicevano: – Guarda il doberman. Guarda il beagle. Guarda il terrier –. Imparavano che le cose avevano delle classificazioni. Imparavano l'importanza di nominare gli oggetti con precisione. Il signor Silk non faceva che insegnar loro l'inglese. Anche i ragazzi che frequentavano la loro casa, gli amici dei suoi figli, si sentivano correggere l'inglese dal signor Silk. Quando faceva l'ottico e indossava un camice bianco da medico sopra l'abito nero da pastore e faceva un orario più o meno regolare, dopo il dolce rimaneva seduto a tavola a leggere il «Newark Evening News». Insieme a lui, lo leggevano tutti. Ciascuno dei figli, anche la piccola, anche Ernestine, doveva misurarsi col giornale, e non con i fumetti. La madre del signor Silk, la nonna di Coleman, aveva imparato a leggere dalla sua padrona, e dopo l'Emancipazione era andata a quella che allora si chiamava Georgia State Normal and Industrial School for Colored. Suo padre, il nonno paterno di Coleman, era stato un pastore metodista. Nella famiglia Silk avevano letto tutti i vecchi classici. Nella famiglia Silk non si portavano i bambini agli incontri di pugilato, ma al Metropolitan Museum of Art di New York a vedere le armature. Li si accompagnava al Planetario Hayden perché imparassero com'era fatto il sistema solare. Li si portava regolarmente al Museum of Natural History. E poi, nel 1937, il Quattro Luglio, nonostante la

spesa, tutti furono accompagnati dal signor Silk al Music Box Theatre di Broadway a vedere George M. Cohan in I'd Rather Be Right. Coleman ricordava ancora ciò che suo padre aveva detto a suo fratello, lo zio Bobby, per telefono il giorno dopo. – Quando è calato il sipario su George M. Cohan dopo tutte le chiamate alla ribalta, sai cos'ha fatto quell'uomo? E' uscito per un'ora e ha cantato tutte le sue canzoni. Tutte. Quale introduzione al teatro migliore di questa potrebbe avere un bambino? – Se io fossi tuo padre, – riprese il padre di Coleman, mentre il ragazzo sedeva solennemente davanti al piatto vuoto, – sai cosa ti direi, adesso? – Cosa? – disse Coleman, parlando sottovoce, e non perché fosse rimasto senza fiato dopo tutto quel footing, ma perché era pentito di aver detto al padre, che non era più un ottico ma un cameriere di vagone ristorante e che tale sarebbe rimasto fino alla fine dei suoi giorni, che non era suo padre. – Ti direi: «Ieri sera hai vinto? Bene. Ora puoi ritirarti imbattuto. Ritirati». Ecco quello che ti direi, Coleman. Fu molto più facile quando Coleman gli parlò più tardi, dopo aver passato il pomeriggio a fare i compiti e dopo che la madre ebbe avuto la possibilità di parlare e ragionare con il padre. Poterono sedersi tutti insieme, più o meno pacificamente, nel soggiorno e sentire Coleman descrivere le glorie della boxe e spiegare come, date tutte le risorse cui dovevi fare appello per eccellere, quelle glorie superassero anche le vittorie nel campo dell'atletica leggera. Adesso era la madre a fare le domande, e risponderle non era un problema. Il figlio minore di Gladys Silk era incartato come un regalo in tutti i sogni di miglioramento che la donna avesse mai fatto, e più bello e più vispo diventava, più difficile era per lei distinguerlo dai sogni. Da quella persona sensibile e gentile che poteva essere con i pazienti all'ospedale, Gladys poteva anche essere, con le altre infermiere e persino con i dottori, con i dottori bianchi, esigente e severa, imponendo loro un codice di condotta non meno rigido di quello che imponeva a se stessa. Poteva essere così anche con Ernestine. Mai, però, con Coleman. Coleman riceveva il trattamento riservato ai pazienti dell'ospedale: coscienziosa benevolenza e premure. Coleman da loro riceveva quasi tutto ciò di cui aveva bisogno. Il padre gli indicava la strada da seguire, la madre lo riempiva di affetto. Il vecchio uno–due. – Non capisco come fai a prendertela con uno che non conosci. Tu, in particolare, – disse, – con la tua bonarietà. – Mica te la prendi. Ti concentri e basta. E' uno sport. Ti scaldi prima di un incontro. Boxi con l'ombra. Ti prepari per quello che può capitarti, qualunque cosa sia. – Se non hai mai visto prima il tuo avversario? – chiese il padre, con tutto il freno che poteva porre al proprio sarcasmo.

– Voglio dire solamente – disse Coleman – che non c'è bisogno di arrabbiarsi. – Ma, – chiese la madre, – e se è l'altro a essere arrabbiato? – Non importa. E' il cervello che vince, mica la rabbia. Lascia pure che si arrabbi. Chi se ne frega? Tu devi pensare. E' come una partita a scacchi. Come un gatto e un topo. Puoi menarlo per il naso, il tuo avversario. Ieri sera ero sul ring con questo tizio, aveva diciotto o diciannove anni ed era lento. Mi ha colpito con un jab sul cocuzzolo della testa. Così, la seconda volta che ci ha provato ero pronto, e sbàm! Ho risposto con un destro d'incontro, e lui non ha neanche capito da dove veniva. L'ho mandato al tappeto. Io non sono un picchiatore, ma questo l'ho messo kappaò. E l'ho fatto perché gli ho lasciato credere di potermi colpire di nuovo col suo jab. – Coleman, – disse sua madre, – non mi piace il suono di quello che sento. Lui si alzò in piedi per darle una dimostrazione. – Guarda. Era un pugno lento. Vedi? Io ho visto che il suo jab era lento e che lui non arrivava a colpirmi. Non era un pugno che facesse male, mamma. Pensavo solo: se ci riprova, lo schivo e rispondo di destro. Così, quando ci ha riprovato, l'ho visto arrivare perché era troppo lento, e ho potuto anticiparlo e colpirlo. L'ho mandato al tappeto, mamma, ma non perché fossi arrabbiato. Perché so boxare meglio di lui. – Ma questi ragazzi di Newark che incontri. Non sono come gli amici che hai, – e, con affetto, sua madre fece i nomi degli altri due ragazzi negri, i più educati e più brillanti del suo corso al liceo di East Orange, che erano proprio i compagni con i quali Coleman faceva colazione e stava insieme a scuola. – Vedo questi ragazzi di Newark per la strada. Questi ragazzi sono così duri, – disse. – L'atletica leggera è molto più civile della boxe, più adatta a te, Coleman. Tu corri così bene, caro... – Non importa quanto sono duri o quanto credono di esserlo, – le disse lui. – Per la strada sì che importa. Ma non sul quadrato. Per la strada questo tizio forse avrebbe potuto rompermi la testa. Ma sul ring? Col regolamento? Con i guantoni? No, no... Non ha messo un colpo a segno. – Ma cosa succede quando riescono a colpirti? Ti farà male, no? L'impatto. Per forza. Ed è così pericoloso. La testa. Il cervello. – Accompagni i colpi, mamma. E' lì che t'insegnano a ruotare la testa. Così, vedi? Questo riduce l'impatto. Una volta, e solo una volta, e solo perché sono stato un idiota, solo a causa del mio stupido errore e perché non ero abituato a battermi contro un mancino, sono rimasto un po' stordito. Ed è solo come se tu dessi una zuccata nel muro, ti gira un po' la testa o ti senti un po' incerto sulle gambe. Ma poi, tutt'a un tratto, il tuo corpo reagisce. Non devi far altro che restare abbracciato all'avversario o allontanarti, poi la testa ti si schiarisce. Qualche volta prendi un pugno sul naso, per un attimo ti vengono le lacrime agli occhi, ma è tutto lì. Se sai quello che fai, non

è affatto pericoloso. Con questa frase, suo padre aveva ascoltato abbastanza. – Ho visto degli uomini colpiti da un pugno che non avevano visto arrivare. E quando capita, – disse il signor Silk, – non gli vengono le lacrime agli occhi: quando capita, vanno al tappeto privi di sensi. Anche Joe Louis, se ricordi, è andato al tappeto in questo modo, no? Mi sbaglio? E se Joe Louis può essere messo fuori combattimento, Coleman, puoi esserlo anche tu. – Sì, ma... Papà, Schmeling, quando ha disputato con Louis quel primo incontro, ha visto il punto debole. E il punto debole era che quando Louis portava il suo jab, invece di arretrare... – Di nuovo in piedi, il ragazzo mo strò ai genitori cosa voleva dire. – Invece di arretrare, abbassava la mano sinistra, vedi?... E Schmeling continuava a incalzarlo, vedi?... Ed è stato così che Schmeling lo ha messo kappaò. E' solo questione di riflettere. Davvero. E' così, papà. Te lo giuro. – Non dire così. Non dire: «Te lo giuro». – No, no. Ma vedi, se l'avversario non arretra, rimettendosi in posizione, se invece viene qui, allora viene avanti col destro e prima o poi finirà per colpirlo. Ecco quello che è successo la prima volta. E' andata così, pari pari. Ma di incontri di pugilato il signor Silk ne aveva visti tanti, sotto le armi aveva visto match tra militari disputati la sera per le truppe nei quali i pugili non soltanto finivano kappaò come Joe Louis, ma riportavano ferite così brutte che non si poteva fare nulla per fermare l'emorragia. Nella base militare aveva visto pugili di colore che come arma principale usavano la testa, che avrebbero dovuto avere un guantone sulla testa, coriacei picchiatori da rissa di strada, uomini poco intelligenti che avanzavano a testate finché la faccia dell'altro pugile non sembrava più una faccia. No, Coleman doveva ritirarsi imbattuto e, se voleva fare della boxe per divertirsi, per sport, poteva farlo non al Boys Club di Newark, che secondo il signor Silk era per i ragazzi degli slum, per gli analfabeti e i delinquenti destinati al marciapiede o al carcere, ma proprio lì a East Orange, sotto gli auspici di Doc Chiz ner, che aveva fatto il dentista per gli United Electrical Workers quando il signor Silk, prima di perdere il negozio, era l'ottico che forniva gli occhiali agli iscritti al sindacato. Doc Chizner faceva sempre il dentista, ma nel tempo libero insegnava ai figli dei medici, degli avvocati e degli uomini d'affari ebrei i rudimenti della boxe, e ai suoi corsi nessuno, si poteva essere certi, finiva per farsi male o per riportare lesioni permanenti. Per il padre di Coleman gli ebrei, anche quelli sgradevoli come il dottor Fensterman, erano come gli scout indiani, gente astuta che mostrava all'estraneo la strada per entrare, che mostrava quali erano le possibilità di successo, che mostrava a una famiglia di colore intelligente in che modo si poteva raggiungere il successo. Fu così che Coleman conobbe Doc Chizner e diventò il ragazzo di colo-

re che tutti i ragazzi ebrei delle famiglie più fortunate conoscevano: forse l'unico che avrebbero mai conosciuto. Coleman diventò rapidamente l'aiutante di Doc, insegnando ai ragazzi ebrei non tanto le sottigliezze di come economizzare energia e movimento che Mac Machrone aveva insegnato ai suoi studenti migliori, quanto i fondamenti, che era poi tutto quello che erano in grado di imparare: – Se dico «uno», sotto col jab. Se dico «uno– uno», doppio jab. Se dico «uno–due», jab sinistro, cross destro. «Uno– due–tre», jab sinistro, cross destro, gancio sinistro –. Dopo che gli altri allievi erano andati a casa – con quello che, ogni tanto, perdendo sangue dal naso, faceva fagotto per non tornare più –, Doc Chizner lavorava con Coleman da solo; e cercando, certe sere, di aumentare la sua resistenza, lo impegnava soprattutto in continui corpo a corpo: quelle fasi del combattimento in cui tiri, spingi e colpisci, tanto che dopo, al confronto, boxare con l'ombra è un gioco da ragazzi. Doc costringeva Coleman ad alzarsi e a uscire di casa per fare footing e boxare con l'ombra quando il cavallo del lattaio, tirando il carro, arrivava nel quartiere per il suo giro mattutino. Coleman, nella sua felpa grigia col cappuccio, era fuori già alle cinque, nel freddo, nella neve – che differenza c'era? – e ci stava per tre ore e mezzo fino alla prima campana della scuola. Nessun altro in giro, nessuno che correva, molto prima che qualcuno sapesse cosa voleva dire correre, facendo tre miglia di buon passo, tirando di boxe per tutta la strada, fermandosi solo per non spaventare quel vecchio bestione lento e pesante allorché, sinistramente rincantucciato dentro il suo cappuccio monacale, Coleman affiancava il carro del lattaio e lo superava di scatto. Odiava la noia della corsa, e tuttavia non saltava un giorno. Circa quattro mesi prima che il dottor Festerman venisse a fare la sua offerta ai suoi genitori, un sabato Coleman montò sulla macchina di Doc Chizner per andare a West Point, dove Doc doveva arbitrare un incontro tra l'esercito e l'università di Pittsburgh. Doc conosceva l'allenatore di Pitt e voleva che vedesse Coleman sul ring. Doc era certo che, con i suoi voti, l'allenatore gli avrebbe procurato una borsa di studio di quattro anni a Pitt, una borsa più grossa di quella che Coleman avrebbe potuto ottenere con l'atletica leggera; dopodiché Coleman non avrebbe dovuto far altro che boxare per la squadra di Pitt. Ora, non è che durante il tragitto Doc gli consigliò di dire all'allenatore di Pitt che era bianco. Si limitò a raccomandargli di non dire che era di colore. – Se non salta fuori, – disse Doc, – non tirarlo fuori tu. Tu non sei né l'uno né l'altro. Tu sei Silky Silk. E basta. Affare fatto? – Era la sua espressione favorita: «Affare fatto». Un'altra delle frasi che il padre di Coleman non gli avrebbe mai permesso di ripetere tra le quattro mura della sua casa. – Non lo capirà? – chiese Coleman. – In che modo? Come farà a capirlo? Come diavolo farà a capirlo? Ecco

il ragazzo più in gamba del liceo di East Orange, e con chi è? Con Doc Chizner. Sai cosa penserà, se penserà qualcosa? – Cosa? – Tu hai la faccia che hai, sei con me, e lui penserà che sei uno dei ragazzi di Doc. Ti crederà ebreo. Coleman non aveva mai trovato Doc molto spiritoso (niente a che vedere con Mac Machrone e le sue storie sulla polizia di Newark), ma a quella frase scoppiò in una fragorosa risata, poi gli ricordò: – Io vado a Howard. Non posso andare a Pitt. Devo andare a Howard –. Da quello che poteva ricordare, suo padre era sempre stato deciso a mandarlo, lui che era il più sveglio dei tre figli, in un college storicamente nero con i figli privilegiati dell'élite professionale nera. – Coleman. Tu devi solo fargli vedere come tiri di boxe. Tutto qui. L'affare è tutto qui. E vediamo che cosa succede. Tolta qualche gita educativa a New York City insieme alla famiglia, Coleman non era mai uscito dal New Jersey e così, prima passò una magnifica giornata girando per West Point e fingendo di essere a West Point perché doveva andare a West Point, poi incrociò i guantoni per l'allenatore di Pitt con un tipo che era come il tipo con cui aveva boxato ai Knights of Pythias: lento, così lento che in pochi secondi Coleman comprese che quel tipo non l'avrebbe mai battuto, che sarebbe stata una cosa impossibile, anche se aveva vent'anni ed era uno dei pugili del college. Gesù, pensò alla fine della prima ripresa, se potessi incrociare i guantoni con questo tipo per il resto dei miei giorni sarei meglio di Ray Robinson. Non era solo il fatto che Coleman pesava circa tre chili più di quando era salito sul ring dei Knights of Pythias per il torneo dei dilettanti. Era che una cosa alla quale non riusciva nemmeno a dare un nome gli metteva una gran voglia di essere più offensivo di quanto avesse mai osato prima d'allora, una voglia di fare, quel giorno, qualcosa di più che vincere e basta. Dipendeva dal fatto che l'allenatore di Pitt ignorava che lui era di colore? O dal fatto che soltanto lui sapeva chi era veramente? Coleman amava i segreti. Che nessuno sapesse cosa ti passava per la testa; che potevi pensare tutto quello che volevi senza che nessuno avesse modo di saperlo. Tutti gli altri ragazzi non facevano che ciarlare di se stessi. Ma non era lì la forza, e neppure la soddisfazione. La forza e la soddisfazione erano nel giocare di rimessa nelle confessioni, così come si boxava di rimessa; e Coleman questo lo sapeva senza che qualcuno dovesse dirglielo e senza doverci pensare lui stesso. Ecco perché, quando si allenava, amava boxare con l'ombra e lavorare al sacco: per l'intima segretezza dell'allenamento solitario. Ecco perché amava anche l'atletica leggera, ma il pugilato era ancora meglio. Certi ragazzi non facevano altro che picchiare e picchiare e picchiare sul sacco. Coleman no. Coleman pensava, nello stesso modo in cui pensava a scuola o durante una gara: escludi tutto il resto, non incamerare altro e immergiti nella cosa, nel-

la materia, nella competizione, nell'esame: qualunque cosa tu voglia conoscere a fondo, cerca di diventare quella cosa. Poteva farlo nella biologia e poteva farlo nella corsa e poteva farlo nella boxe. E nulla di esterno cambiava la situazione, ma anche nulla d'interno. Se tra la folla c'era della gente che gli urlava delle cose, Coleman poteva non prestarle la minima attenzione, e se il ragazzo con cui incrociava i guantoni era il suo migliore amico, poteva non prestare la minima attenzione anche a questo. C'era un mucchio di tempo, dopo il match, per tornare a essere amici come prima. Coleman riusciva a costringersi a ignorare i propri sentimenti, fossero di paura, d'incertezza o persino di amicizia: ad avere i sentimenti, ma a metterli da parte. Quando boxava con l'ombra, per esempio, non si limitava a sciogliere i muscoli. Immaginava anche un altro ragazzo, nella sua testa si svolgeva un incontro segreto tra lui e un altro ragazzo. E sul ring, dove l'altro ragazzo era vero (sudato, puzzolente, col naso che colava, e mollando pugni che più veri non avrebbero potuto essere), anche lì l'avversario non poteva immaginare quello che pensavi. Non c'era un insegnante al quale chiedere la risposta alla domanda. Tutte le risposte che trovavi sul ring le tenevi per te, e quando svelavi il tuo segreto, lo svelavi con tutto tranne la bocca. Così nella magica, mitica West Point, dove quel giorno Coleman ebbe l'impressione che ci fosse più America in ogni pollice quadrato della bandiera sventolante sull'asta che in ogni altra bandiera lui avesse mai visto, e dove i volti rocciosi dei cadetti avevano per lui il più eroico e grandioso significato, anche lì, nell'ombelico del patriottismo, nel midollo dell'infrangibile spina dorsale del paese, dove le sue fantasie di sedicenne su quel posto s'intonavano perfettamente con le fantasie ufficiali, dove tutto quello che vedeva gli faceva provare uno slancio d'amore non soltanto per se stesso, ma per tutto ciò che era visibile, come se in natura ogni cosa fosse una manifestazione della sua vita – il sole, il cielo, le montagne, il fiume, gli alberi: Coleman Brutus «Silky» Silk alla milionesima potenza –, anche lì nessuno conosceva il suo segreto, e così, quando ebbe inizio il primo round, diversamente dall'imbattuto colpitore di rimessa di Mac Machrone, Coleman prese ad attaccare questo tizio con tutte le sue forze. Quando lui e l'avversario erano dello stesso calibro, Coleman doveva usare il cervello, ma quando l'avversario era facile e lui se ne accorgeva subito, poteva sempre essere più aggressivo e mettersi a picchiare. E fu quello che accadde a West Point. In men che non si dica gli aveva tagliuzzato la pelle intorno agli occhi, gli aveva fatto sanguinare il naso e lo stava sbatacchiando qua e là. E poi accadde una cosa che non gli era mai capitata. Mollò un gancio, un gancio che parve affondare per tre quarti nel corpo dell'avversario. Andò talmente a fondo che Coleman rimase sbalordito, anche se assai meno sbalordito del ragazzo di Pitt. Coleman pesava circa sessantacinque chili, era

dunque un giovane boxeur che ben difficilmente avrebbe messo qualcuno kappaò. Non piantava mai i piedi sul ring per menare quell'ultimo colpaccio decisivo, non era il suo stile; eppure questo pugno al bersaglio grosso andò talmente a fondo che l'avversario, un pugile del college che aveva già vent'anni, si piegò in avanti, e Coleman lo colse in quella che Doc Chizner chiamava «la labonza». In piena pancia, e il ragazzo si piegò in avanti, e per un attimo Coleman pensò che fosse addirittura lì lì per vomitare; e allora, prima che potesse vomitare e prima che crollasse, Coleman si accinse a colpirlo ancora una volta col destro – non vedeva altro, mentre quel ragazzo bianco andava giù, che un avversario che voleva massacrare di botte – ma improvvisamente l'allenatore di Pitt, che arbitrava, gridò: – No, Silky! – e mentre Coleman stava per mettere a segno quell'ultimo destro, l'allenatore lo bloccò e arrestò l'incontro. – E quel ragazzo, – disse Doc mentre tornavano a casa, – quel ragazzo era un pugile maledettamente buono. Ma quando l'hanno trascinato nel suo angolo, hanno dovuto dirgli che il match era finito. Quel ragazzo è già tornato nel suo angolo, e non sa ancora che cosa lo ha colpito. Sprofondato nella vittoria, nella magia, nell'estasi di quell'ultimo pugno e della dolce marea di furore che aveva rotto gli argini e travolto, con lui, la sua vittima, Coleman disse (quasi come se stesse parlando nel sonno piuttosto che in macchina, ad alta voce, mentre rivedeva mentalmente il combattimento): – Forse ero troppo veloce per lui, Doc. – Certo, veloce. Veloce, si capisce. Lo so che sei veloce. Ma anche forte. Questo è il gancio migliore che tu abbia mai dato, Silky. Ragazzo mio, tu eri troppo forte per lui. Sì? Veramente forte? Andò a Howard, in ogni modo. Se non l'avesse fatto, suo padre – solo con le parole, con la mera lingua inglese – l'avrebbe ucciso. Il signor Silk aveva calcolato tutto: Coleman sarebbe andato a Howard per fare il medico, per incontrarvi una ragazza dalla pelle chiara appartenente a una buona famiglia negra, per sposarsi e sistemarsi e avere dei bambini che a loro volta sarebbero andati a Howard. In una Howard interamente negra, i formidabili vantaggi intellettuali e fisici di Coleman lo avrebbero proiettato nelle prime file della società negra, avrebbero fatto di lui una persona che la gente avrebbe sempre ammirato. E tuttavia, prima che finisse la sua prima settimana a Howard, quando il sabato andò festosamente col proprio compagno di stanza, il figlio di un avvocato di New Brunswick, a vedere il monumento di Washington, e fecero tappa da Woolworth per un hot dog, Coleman si sentì dare del «negraccio». Per la prima volta. E non vollero servirgli l'hot dog. Un hot dog negatogli da Woolworth nel centro di Washington, chiamato «negraccio» mentre usciva e, come risultato, incapace di mettere

da parte i propri sentimenti con la stessa facilità con cui lo faceva sul ring. Al liceo di East Orange era l'oratore incaricato di tenere il discorso conclusivo durante la cerimonia per la consegna dei diplomi, nel Sud segregato era solo un altro «negraccio». Nel Sud segregato non c'erano identità separate, nemmeno per lui e il suo compagno. Queste sottigliezze non erano ammesse, e l'impatto fu disastroso. Negraccio! E voleva dire lui. Certo, anche a East Orange Coleman non era sfuggito alle forme un po' meno malevole di esclusione che separavano socialmente la sua famiglia e la piccola comunità di colore dal resto della città: tutto ciò che derivava da quella che suo padre chiamava la «negrofobia» del paese. E sapeva anche che, lavorando per la Pennsylvania Railroad, suo padre doveva tollerare le offese ricevute nel vagone ristorante e rassegnarsi, sindacato o non sindacato, a un trattamento, da parte della società, di gran lunga più umiliante di qualunque cosa Coleman avesse conosciuto nei suoi panni di ragazzo di East Orange, un ragazzo che non solo aveva la pelle più chiara che potesse avere un negro, ma un tipo sveglio, entusiasta e spumeggiante che per caso era anche un grande atleta e un ottimo studente. Coleman vedeva che suo padre faceva tutto il possibile per non esplodere rincasando dal lavoro, quando sul treno aveva subìto un'offesa cui, se non voleva perdere il posto, non poteva replicare altrimenti che dicendo: – Sissignore –. Che i negri con la pelle più chiara fossero trattati meglio non era sempre vero. – Ogni volta che un bianco ha a che fare con te, – diceva suo padre agli altri membri della famiglia, – per buone che possano essere le sue intenzioni, c'è una presunzione d'inferiorità intellettuale. In un modo o nell'altro, se non direttamente dalle sue parole, dall'espressione del viso, dal tono della voce, dalla sua impazienza e persino dal suo contrario, dalla sua tolleranza, dalla sua meravigliosa dimostrazione di umanità, ti rivolgerà sempre la parola come se tu fossi un idiota e poi, se non lo sei, rimarrà stupito. – Cos'è successo, papà? – chiedeva Coleman. Ma, sia per orgoglio sia per il disgusto, raramente suo padre dava spiegazioni. Gli bastava chiarire l'aspetto pedagogico. – Quello che è successo, – diceva la madre di Coleman. – Anche solo il ripeterlo non sarebbe degno di tuo padre. Al liceo di East Orange c'erano degli insegnanti nei quali Coleman avvertiva una mancanza di accettazione, un'avarizia d'incoraggiamento rispetto a quello che prodigavano ai ragazzi bianchi più intelligenti, ma mai in misura tale che questa disparità potesse ostacolare i suoi obiettivi. Qualunque fosse l'offesa o l'intralcio, Coleman lo affrontava come affrontava gli ostacoli durante una corsa. Se non altro per fingersi incrollabile, s'infischiava di cose che Walter – diciamo – non poteva e non voleva prendere alla leggera. Walt giocava nella squadra di football dell'università, prendeva buoni voti, come negro – nel colore della pelle – non era meno anomalo di Coleman, eppure era sempre un po' più arrabbiato di lui per ogni cosa. Quando, ad esempio, non lo invitavano a entrare nella casa di un ragazzo bianco ma lo facevano

aspettare fuori, quando non lo invitavano alla festa per il compleanno di un compagno di squadra bianco che lui era stato tanto stupido da considerare un amico, Coleman, che con lui divideva la camera da letto, lo sentiva mugugnare per mesi. Quando non ottenne la sua A in trigonometria, Walt andò dall'insegnante, si piazzò davanti a lui e, alla faccia bianca di quell'uomo, disse: – Credo che lei abbia commesso un errore –. L'insegnante aprì il registro e riesaminò i punteggi dei test di Walter, poi tornò da lui e, pur ammettendo il proprio errore, ebbe il coraggio di dire: – Non potevo credere che i tuoi voti fossero così alti, – e solo dopo una frase del genere cambiò la B in una A. Coleman non si sarebbe mai sognato di chiedere a un insegnante di cambiare un voto, ma non ne aveva mai avuto bisogno. Forse perché non aveva la provocatoria combattività di Walt, o forse perché era fortunato, o forse perché era più intelligente ed eccellere sul piano accademico non gli costava la stessa fatica che costava a Walt, Coleman era abbonato alle A. E quando, in settima, non avevano invitato lui alla festa per il compleanno di un amico bianco (e questo amico era uno che abitava nel suo stesso isolato, nell'edificio d'angolo, il figlio del custode del palazzo che con Coleman aveva fatto la spola tra casa e scuola da quando avevano cominciato ad andare all'asilo), Coleman non lo prese come un rifiuto da parte dei bianchi: dopo una certa perplessità iniziale, lo interpretò come un rifiuto da parte degli stupidi genitori di Dicky Watkin. Quando insegnava agli allievi di Doc Chizner, Coleman sapeva che c'erano dei ragazzi che lo trovavano disgustoso, che non volevano essere toccati da lui né venire in contatto col suo sudore, sapeva che ogni tanto c'era un ragazzo che se ne andava – anche qui, forse per via dei genitori che non volevano che prendesse lezioni di boxe, o lezioni in generale, da un ragazzo di colore – eppure, diversamente da Walt, al quale non c'era affronto che mancasse di fare effetto, Coleman, alla fine, riusciva a dimenticarlo, a non pensarci più, o a decidere di dare agli altri questa impressione. Ci fu la volta in cui uno dei ragazzi bianchi della squadra di atletica leggera rimase ferito gravemente in un incidente stradale e i compagni della squadra corsero a offrire il proprio sangue alla famiglia per le trasfusioni, e Coleman con loro: ma il suo sangue fu quello che la famiglia non volle. Lo ringraziarono e gli dissero che ne avevano abbastanza, ma lui sapeva qual era la vera ragione. No, non era che non sapesse come stavano le cose. Era troppo intelligente per non saperlo. Durante le riunioni di atletica leggera si trovava a gareggiare contro un gran numero di ragazzi bianchi di Newark, italiani di Barringer, polacchi dell'East Side, irlandesi di Central, ebrei di Weequahic. Vedeva, sentiva... coglieva al volo le parole della gente. Coleman sapeva come stavano le cose. Ma sapeva anche come le cose non stavano, se non altro nella sua vita. La protezione dei genitori, la protezione fornita da quella stanga del suo fratello maggiore, la propria innata fiducia in se stesso, la simpatia che suscitava, la sua superiorità nella corsa («il ragazzo più veloce delle Oran-

ge»), persino il colore della pelle, che faceva di lui una persona che a volte la gente non riusciva affatto a capire: tutte queste cose messe insieme attenuavano le offese che Walter trovava intollerabili. Poi c'era la differenza di personalità: Walt era Walt, vigorosamente Walt, e Coleman, altrettanto vigorosamente, non lo era. Forse non c'era una spiegazione migliore di questa, per la diversità delle loro reazioni. Ma... «negraccio»? Indirizzato a lui? Questo lo fece andare in bestia. Eppure, se non voleva incorrere in grossi guai, non c'era altro da fare che continuare a camminare e uscire dal locale. Quella non era una riunione di boxe per dilettanti ai Knights of Pythias. Era il Woolworth di Washington, D.C. Lì i suoi pugni erano inutili, inutile era il suo gioco di gambe e altrettanto inutile la sua rabbia. Meglio non pensare a come avrebbe reagito Walter. Ma suo padre, come poteva avere digerito questo trattamento di merda? Digerito un trattamento di merda come questo, in una forma o nell'altra, ogni giorno in quel vagone ristorante? Mai prima di allora, nonostante tutta la precoce intelligenza, Coleman si era reso conto di com'era stata protetta la sua vita, né di come aveva sottovalutato la forza d'animo e il coraggio del padre: una forza d'animo e un coraggio che non dipendevano solo dal fatto che suo padre era suo padre. Coleman vide, finalmente, tutto ciò che il padre era stato condannato ad accettare. Vide anche che suo padre non aveva la minima possibilità di difendersi, mentre prima lui era stato un ragazzo tanto ingenuo da immaginare, dal modo austero, superbo, talvolta insopportabile, in cui si comportava il signor Silk, che nel padre non ci fosse alcunché di vulnerabile. Ma qualcuno, tardivamente, gli aveva dato, faccia a faccia, del «negraccio», e per questo Coleman aveva finalmente riconosciuto quale enorme barriera contro la grande minaccia americana suo padre era stato per lui. Ma questo non migliorò la sua vita a Howard. Specie quando cominciò a pensare di avere qualcosa del «negraccio» anche per i ragazzi del suo dormitorio, che avevano abiti nuovi di ogni genere e soldi in tasca, e che d'estate non bighellonavano nelle strade afose delle loro cittadine ma andavano «in villeggiatura»: e non al campeggio dei boy scout nelle pianure del New Jersey, ma in località alla moda dove cavalcavano e giocavano a tennis e recitavano in teatro. Cosa diavolo era un «cotillon»? Dove si trovava Highland Beach? Di che cosa parlavano questi ragazzi? Coleman era uno dei più chiari di pelle tra le matricole più chiare del suo corso, ancora più chiaro del suo compagno di stanza, che aveva più o meno il colore del tè, ma per quanto riguardava gli altri studenti avrebbe potuto essere il bracciante più nero e più retrogrado del paese. Odiò Howard dal giorno del suo arrivo, in capo a una settimana odiò pure Washington, e così, ai primi di ottobre, quando suo padre ebbe un colpo e morì mentre serviva il pranzo nel vagone ristorante della Pennsylvania Railroad diretto a Wilmington che stava uscendo dalla stazione di Filadelfia sulla Trentesima Strada, e lui

andò a casa per il funerale, Coleman disse alla madre che con quel college lui aveva chiuso. Lei lo pregò di fare un altro tentativo, gli garantì che dovevano esserci dei ragazzi appartenenti a famiglie modeste come la sua, ragazzi che, come lui, avevano vinto una borsa di studio, che Coleman avrebbe potuto frequentare e con i quali avrebbe potuto fare amicizia, ma nulla di ciò che disse sua madre, sebbene fosse vero, riuscì a fargli cambiare idea. Quando Coleman aveva preso una decisione, solo due persone potevano fargli cambiare idea, suo padre e Walt, e anche loro, per riuscirvi, dovevano quasi spezzare la sua volontà. Ma Walt era in Italia con l'esercito americano, e il padre che Coleman doveva placare ubbidendo non era più tra i vivi a dettare sonoramente i suoi precetti. Naturalmente pianse al funerale, e comprese com'era colossale quella cosa che, senza preavviso, gli avevano portato via. Quando il pastore lesse, insieme alle parole della Bibbia, un brano del Giulio Cesare nella raccolta delle opere di Shakespeare tanto amata da suo padre – il librone con la floscia rilegatura in pelle che, quando Coleman era un bambino, gli faceva sempre pensare a un cocker spaniel –, il figlio sentì, come mai prima di allora, la maestà del padre: la grandezza della sua ascesa e della sua caduta, la grandezza che, come matricola allontanatasi da appena un mese dalla piccola enclave della sua casa di East Orange, Coleman aveva cominciato a discernere debolmente per quello che era. Muoiono i codardi molte volte prima di morire; Della morte il gusto i valorosi non assaporano che una volta sola. Di tutte le meraviglie che io abbia mai sentito, La più strana, mi sembra, è che gli uomini ne abbiano paura; Vedendo che la morte, fine inevitabile, Verrà quando lo vorrà. La parola «valorosi», quando il predicatore la intonò, rese vano il virile tentativo di Coleman di mantenere uno stoico e sobrio autocontrollo, e mise a nudo il rimpianto di un figlio per quell'uomo a lui così vicino che non avrebbe mai più visto, il gigante, il padre con la sua pena segreta che parlava con tanta naturalezza, con tanta convinzione, che con la semplice forza della parola aveva insegnato a Coleman, senza accorgersene, a voler fare grandi cose. Coleman pianse con la più fondamentale e copiosa di tutte le emozioni, smarrito e trasformato in ciò che meno poteva sopportare. Come adolescente, lagnandosi del padre con gli amici, lo aveva descritto con un disprezzo molto maggiore di quello che provasse o che avesse la capacità di provare: pretendere di essere riuscito a giudicare impersonalmente il proprio padre era un altro metodo che aveva ideato per trovare e raggiungere l'inespugnabilità. Ma non essere più circoscritto e definito dal padre era come scoprire che tutti gli orologi, ovunque volgesse lo sguardo, si era-

no fermati, orologi a muro e orologi da polso, e che non c'era modo di sapere che ora fosse. Fino al giorno in cui era arrivato a Washington e aveva messo piede a Howard, era stato il padre, volente o nolente, a scrivere la sua storia; ora avrebbe dovuto scriversela da solo, e la prospettiva era terrificante. E poi, tutt'a un tratto, anche questo passò. Tre giorni terribili, una settimana terribile, due terribili settimane, finché, improvvisamente, Coleman provò uno straordinario senso di sollievo. «Com'è possibile evitare | La cosa il cui fine è voluto dal potere degli dèi?» Versi, anche questi, del Giulio Cesare, citati da suo padre, eppure solo quando il padre fu nella tomba Coleman finalmente si degnò di ascoltarli: e, quando lo fece, di esaltarli lì per lì. Questo, dunque, era stato voluto dal potere degli dèi! La libertà di Silky. L'io nudo e crudo. Tutta l'indefinibilità di essere Silky Silk. A Howard aveva scoperto di non essere, per Washington, D.C., solo un «negraccio»; come se quella sorpresa non fosse abbastanza grande, a Howard scoprì di essere anche un negro. Un negro di Howard, se era per questo. Dalla sera alla mattina l'io nudo e crudo era venuto a far parte di un «noi» che aveva tutta l'arrogante solidità del «noi», anche se lui non voleva averci nulla a che fare, né con quel «noi» né con qualunque altro tirannico «noi» gli fosse capitato d'incontrare. Come, finalmente te ne vai di casa, la Ur del «noi», e trovi un altro «noi»? Un altro posto che è proprio come quello, che è il suo surrogato? Mentre diventava grande a East Orange, Coleman era un negro, si capisce, uno dei cinquemila componenti, cinquemila o giù di lì, della loro piccola comunità, ma mentre tirava di boxe, correva, studiava, si concentrava e riusciva in tutto quello che faceva, mentre gironzolava tutto solo da un capo all'altro delle Orange e, con o senza Doc Chizner, attraversava il confine di Newark, era, senza pensarci, anche tutto il resto. Era Coleman, il più grande dei grandi pionieri dell'io. Poi partì per Washington e, nel primo mese, fu prima un negraccio e nient'altro, poi un negro e nient'altro. No. No. Vide il destino che lo aspettava e non gli piacque. Ci arrivò intuitivamente e spontaneamente si ritrasse. Non puoi lasciare che il grande «loro» t'imponga la sua intolleranza e non puoi nemmeno permettere che il piccolo «loro» diventi un «noi» e ti imponga la sua etica. No alla tirannia del «noi» e alla prima persona plurale con cui essa si esprime e a tutto ciò che il «noi» ti vuole ficcare nella testa. Non era per Coleman la tirannia del «noi» che muore dalla voglia di assimilarti, lo storico e inevitabile noi morale coercitivo e assorbente col suo insidioso E pluribus unum. Né il «loro» di Woolworth, né il «noi» di Howard. L'io nudo e crudo, invece, con tutta la sua agilità. Andare alla scoperta di se stessi: ecco il vero pugno alla labonza. La singolarità. La lotta appassionata per la singolarità. Il singolo essere umano. La mobile relazione con ogni cosa. Non statica, ma mobile. Autocoscienza, ma dissimulata. Cosa c'è di altrettanto potente?

«Guardati dalle idi di marzo». Balle: non c'è nulla da cui devi guardarti. Libero. Scomparsi i due baluardi – il fratellone oltremare e il padre morto –, Coleman si sente ricaricato e libero di essere ciò che vuole, libero di aspirare alle più alte mete, con la sicurezza nelle ossa di essere il suo io particolare. Libero su una scala inimmaginabile per suo padre. Libero come suo padre non era mai stato. Libero, ormai, non soltanto di suo padre, ma di tutto ciò che suo padre aveva sempre dovuto sopportare. Le imposizioni. Le umiliazioni. Le ostruzioni. L'offesa e il dolore e la maschera e la vergogna: tutti gli intimi tormenti del fallimento e della sconfitta. Libero, invece, sul grande palcoscenico. Libero di procedere e di fare grandi cose. Libero di recitare il dramma sconfinato e autodeterminante dei pronomi «noi», «loro» e «io». La guerra durava ancora, e se non fosse finita dall'oggi al domani Coleman sarebbe stato richiamato. Se Walt era in Italia a battersi contro Hitler, perché non avrebbe dovuto battersi contro quel bastardo pure lui? Era l'ottobre del 1944, e mancava ancora un mese al suo diciottesimo compleanno. Ma Coleman poteva mentire facilmente sull'età: spostare indietro di un mese la sua data di nascita, dal 12 novembre al 12 ottobre, non era un problema. Ed essendo alle prese, com'era, col dolore di sua madre (e con lo choc che era stato per lei il suo abbandono dell'università), non gli venne in mente subito che, se avesse deciso di farlo, poteva mentire anche sulla razza. Poteva scegliersi la pelle che voleva, attribuirsi il colore che preferiva. No, questo non gli venne in mente fino a quando si trovò seduto nel palazzo federale di Newark con tutti i moduli per l'arruolamento in marina sparsi davanti a lui e, prima di compilarli, e con cura, con la stessa meticolosità con cui al liceo studiava per prepararsi agli esami (come se ogni cosa che faceva, grande o piccola, fosse, per tutto il tempo che vi si concentrava, la cosa più importante del mondo), cominciò a leggerli. E neanche allora gli si affacciò alla mente. Si affacciò prima al suo cuore, che prese a battergli come il cuore di chi sta per commettere il suo primo grande delitto. Nel '46, quando Coleman venne congedato, Ernestine era già iscritta al programma di istruzione elementare del Montclair State Teachers College, Walt era alla Montclair State a perfezionarsi, e tutt'e due abitavano nella casa paterna con la madre vedova. Ma Coleman, deciso a vivere da solo, per suo conto, si trovava oltre il fiume, a New York, iscritto alla New York University. Più che andare alla NYU voleva abitare al Greenwich Village, più che studiare per prendere una laurea voleva fare il poeta o il drammaturgo, ma il modo migliore che seppe trovare per raggiungere questi obiettivi senza doversi cercare un lavoro per mantenersi fu quello offerto dai finanziamenti della legge per i reduci. Il problema fu che, appena cominciò a seguire le lezioni, tornò a prendere una filza di A e ad appassionarsi agli

studi, e alla fine dei primi due anni Coleman era sulla buona strada per un Phi Beta Kappa e una laurea summa cum laude in lettere classiche. La mente sveglia, la memoria prodigiosa e la parola facile resero le sue prestazioni scolastiche straordinarie com'erano sempre state, col risultato che ciò che Coleman desiderava di più, e che era venuto a New York nella speranza di fare, fu messo in secondo piano dal suo successo in ciò che tutti gli altri ritenevano che dovesse fare e lo incoraggiavano a fare e lo ammiravano per la bravura con cui lo faceva. Cominciava a sembrare uno schema fisso: Coleman continuava a essere cooptato per le sue eccezionali capacità accademiche. Certo, poteva rassegnarsi e anche divertirsi, visto il piacere che provava a essere anticonformisticamente conformista, ma l'idea non era proprio quella. Al liceo era stato un genio in latino e greco e aveva ottenuto la borsa di studio alla Howard quando quello che in realtà desiderava era partecipare al Golden Gloves; adesso era un genio non meno grande all'università, mentre le sue poesie, quando le mostrava ai professori, non destavano il minimo entusiasmo. In un primo tempo continuò a fare footing e a tirare di boxe per il gusto che ci provava, finché un giorno, in palestra, qualcuno gli propose un match in quattro riprese alla St Nick's Arena, offrendogli trentacinque dollari se prendeva il posto di un pugile che aveva dato forfait, e in gran parte per rifarsi di tutto ciò che gli era mancato al Golden Gloves, Coleman accettò e, con gioia, in segreto diventò professionista. C'era dunque la scuola, la poesia, la boxe professionale, e c'erano le ragazze, ragazze che sapevano camminare e indossare un vestito, e muoversi con quel vestito addosso, ragazze che corrispondevano a tutto ciò che Coleman aveva immaginato quando era partito per New York da San Francisco col congedo in tasca: ragazze che facevano buon uso delle strade del Greenwich Village e del labirinto di vialetti di Washington Square. C'erano caldi pomeriggi di primavera in cui nulla della trionfante America postbellica, per non parlare del mondo antico, poteva interessarlo più delle gambe della ragazza che lo precedeva. E Coleman non era l'unico reduce tormentato da questa fissazione. Per gli ex GI della NYU, allora, sembrava non esistere, nel tempo libero, divertimento più appassionante di quello rappresentato dallo studio delle gambe delle ragazze che passavano davanti ai bar e ai caffè del Greenwich Village dove andavano a leggere i giornali e a giocare a scacchi. Chissà perché, sociologicamente parlando; ma, qualunque ne fosse la ragione, quella fu la grande era americana delle gambe afrodisiache, e una o due volte al giorno come minimo Coleman ne seguiva un paio di isolato in isolato per non perdere di vista come si muovevano e com'erano fatte e che aspetto avevano da ferme mentre all'angolo il semaforo passava dal rosso al verde. E quando giudicava che fosse il momento giusto – avendo seguito la ragazza abbastanza a lungo per essere verbalmente pronto e follemente affamato – e affrettava il passo per raggiungerla,

quando parlava e si rendeva abbastanza simpatico per avere il permesso di affiancarsi e di chiederle il nome e di farla ridere e di convincerla a fissargli un appuntamento, Coleman proponeva, lo sapesse o no, un appuntamento alle sue gambe. E le ragazze, a loro volta, apprezzavano le gambe di Coleman. Steena Palsson, la diciottenne esule dal Minnesota, compose addirittura una poesia su Coleman nella quale si accennava alle sue gambe. Era scritta a mano su un foglio di carta rigata da quaderno firmato «S», piegato in quattro e ficcato nella sua cassetta della posta nell'ingresso piastrellato sopra la stanza che aveva al seminterrato. Erano passate due settimane da quando avevano flirtato per la prima volta nella stazione della metropolitana, e questo era il lunedì dopo la domenica della loro prima maratona di ventiquattr'ore. Coleman era scappato via per non perdere la lezione mattutina mentre Steena stava ancora truccandosi nel bagno; qualche minuto dopo uscì anche lei per andare a lavorare, ma non prima di avergli lasciato la poesia che, a dispetto di tutta l'energia che avevano mostrato così coscienziosamente il giorno prima, Steena era stata troppo timida per consegnargli direttamente. Poiché il suo programma giornaliero lo portava dalle aule alla biblioteca e poi, nella tarda serata, all'allenamento sul ring di una fatiscente palestra di Chinatown, Coleman non trovò la poesia, mezza dentro e mezza fuori dalla fessura della cassetta, finché non fu di ritorno in Sullivan Street alle undici e trenta di quella sera. Ha un corpo. Un corpo bellissimo: cosce, polpacci e della schiena il nerbo. Ed è sveglio e impetuoso. Ha quattro anni più di me, ma qualche volta mi sembra più giovane. E' dolce, tranquillo e romantico, anche se lui dice che romantico non è. Io sono quasi un rischio per quest'uomo. Quanto posso dire di ciò che vedo in lui? Mi chiedo cosa faccia dopo avermi inghiottita tutta intera. Scorrendo rapidamente lo scritto di Steena alla luce fioca della hall, in un primo momento Coleman lesse «negro» al posto di «nerbo»: e della schiena il negro... Negro cosa? Fino ad allora era rimasto sorpreso dalla fa-

cilità. Una cosa che avrebbe dovuto essere difficile, e in qualche modo vergognosa o devastante, era stata non soltanto facile ma priva di conseguenze: non c'erano stati prezzi da pagare. Ma ora Coleman s'imperlò di sudore. Continuò a leggere, più in fretta di prima, ma le parole non si combinavano in una forma che avesse un significato. Negro COSA? Erano stati insieme un giorno e una notte, nudi, mai a più di qualche centimetro di distanza per la maggior parte del tempo. Da quando era un bambino nessun altro, a parte lui stesso, aveva mai avuto tanto tempo per studiare com'era fatto. Poiché nel lungo e pallido corpo di lei non c'era nulla che Coleman non avesse osservato e nulla che lei avesse nascosto e nulla che lui, ora, non potesse ricordare con la precisione di un pittore, con l'eccitata, meticolosa esperienza di un amante, e poiché aveva trascorso tutta la giornata stimolato dalla presenza di lei nelle narici non meno che dalle sue gambe spalancate davanti agli occhi della sua mente, ne doveva dedurre che nel proprio corpo non c'era nulla che lei non avesse microscopicamente assorbito, nulla di quell'ampia superficie sulla quale si era impresso il sigillo della sua narcisistica unicità evolutiva, nulla della sua singolare configurazione come uomo, pelle, pori, basette, denti, mani, naso, orecchie, labbra, lingua, piedi, palle, vene, cazzo, ascelle, culo, il groviglio dei suoi peli pubici, i capelli sulla testa, la peluria delle membra, nulla di come rideva, dormiva, respirava, odorava, si muoveva, nulla di come rabbrividiva convulsamente quando veniva, che lei non avesse registrato. E ricordato. E ponderato. Era forse l'atto stesso la ragione, la sua assoluta intimità, quando non soltanto sei dentro il corpo dell'altra, ma lei ti avviluppa strettamente? O la nudità fisica? Ti spogli e vai a letto con qualcuno, ed è lì, effettivamente, che quello che hai celato, qualunque cosa sia, la tua particolarità, qualunque possa essere, per cifrata che sia, sta per essere scoperta, e la ragione della timidezza è tutta lì, ed è questo che ognuno teme. In quel posto anarchico e folle quanto si vede di me, quanto di me sta per essere scoperto? Ora so chi sei. Ti vedo attraverso fino alla schiena e so che sei un negro. Ma come, vedendo cosa? Che cosa poteva essere stato? Le riusciva visibile, qualunque cosa fosse, perché era una bionda danese d'Islanda discendente da una lunga stirpe di biondi islandesi e danesi, cresciuta in un ambiente scandinavo, a casa, a scuola, in chiesa, per tutta la vita in compagnia di nient'altro che...? E allora Coleman si accorse che la parola della poesia non era quella. Ciò che la ragazza aveva scritto non era «negro». Era «nerbo». Oh, il nerbo! Il nerbo!... Cosce, polpacci e della schiena il nerbo. Ma poi che significava? «Quanto posso dire | di ciò che vedo in lui?» Cos'aveva di tanto ambiguo ciò che vedeva in lui? Se avesse scritto «da ciò» anziché «di ciò», il significato sarebbe stato più chiaro? O sarebbe stato meno chiaro? Più rileggeva quella semplice strofa, più oscuro diventava il significato: e più oscuro diventava il significato, più certo lui era del fatto che la ragazza avvertisse chiaramente il problema che Coleman poneva alla

sua vita. A meno che non intendesse «ciò che vedo in lui» nel senso che gli scettici danno a questa frase quando chiedono a una persona innamorata: «Vorrei proprio sapere cosa vedi in lui». E «dire»? Quanto può dire a chi? Con questa parola intende forse «capire» – «quanto posso capire», eccetera – o intende «rivelare», «esporre»? E «io sono quasi un rischio per quest'uomo»? In che senso, «un rischio»? Dov'è, qual è il rischio? Ogni volta che cercava di afferrarne il significato, questo gli sfuggiva. Dopo due frenetici minuti là in piedi nella hall, l'unica cosa di cui poteva essere sicuro era la paura che lo aveva preso. E questo lo stupì: e, come sempre per Coleman, la sua suscettibilità, cogliendolo alla sprovvista, lo umiliò, lanciando un Sos, un segnale squillante che era un invito a sorvegliarsi e a tornare all'efficienza di prima. Sveglia, disponibile e bella com'era, Steena aveva solo diciotto anni ed era appena arrivata a New York da Fergus Falls, Minnesota; eppure Coleman, adesso, era più intimidito da lei – e dal suo quasi assurdo, inequivocabile, dorato splendore – che da chiunque avesse mai affrontato sul ring. Anche quella sera nel bordello di Norfolk, quando la donna che dal letto lo guardava mentre lui cominciava a sfilarsi la divisa – una prostituta bene in carne e diffidente, con due tette enormi, non proprio brutta ma di certo non una vamp (e forse lei stessa con due trentacinquesimi di sangue non proprio bianchissimo) – sorrise acidamente e disse: – Bel negraccio che sei, eh, ragazzo? – e chiamò i due gorilla perché lo buttassero fuori, solo allora Coleman si era sentito così a terra come ora lo aveva messo a terra la poesia di Steena. Mi chiedo cosa faccia dopo avermi inghiottita tutta intera. Nemmeno questo riusciva a capire. A tavolino, nella sua stanza, lottò fino all'alba con le paradossali implicazioni di quest'ultima strofa, scovando e poi scartando una complicata formulazione dopo l'altra finché, allo spuntar del giorno, l'unica cosa che sapeva di sicuro era che per Steena, l'incantevole Steena, non tutto ciò che Coleman aveva sradicato da se stesso era svanito nel nulla. Sbagliatissimo. La poesia non aveva alcun significato. Non era nemmeno una poesia. Sotto la spinta della confusione, frammenti di idee e brandelli di pensieri le si erano caoticamente ammassati nella testa mentre Steena era sotto la doccia, e allora aveva strappato una pagina da uno dei suoi taccuini e si era seduta a tavolino per scarabocchiare le parole che si erano formate, poi aveva ficcato il foglio nella cassetta della posta prima di uscire di corsa per andare a lavorare. Quei versi erano solo una cosa che aveva fatto – che aveva dovuto fare – sotto l'impulso della squisita novità del pro-

prio turbamento. Una poetessa? Niente affatto, disse Steena ridendo: solo una persona che saltava attraverso un cerchio di fuoco. Passarono a letto insieme nella stanza di Coleman ogni weekend per più di un anno, cibandosi l'uno dell'altra come detenuti in isolamento che ingurgitassero precipitosamente la loro razione quotidiana di pane e acqua. Steena lo meravigliò – meravigliò se stessa – con la danza che fece un sabato sera, ritta ai piedi del divano letto con la sottoveste a vita e basta. Stava spogliandosi, la radio era accesa – Symphony Sid – e prima, per farla muovere e metterla dell'umore giusto, suonò Count Basie con un gruppo di jazzisti improvvisando sul tema di Lady Be Good, una frenetica registrazione live, e dopo quel pezzo altro Gershwin, la versione di The Man I Love con Roy Eldridge che scaldava l'atmosfera. Coleman era sul letto, mezzo seduto e mezzo sdraiato, e faceva la cosa che più amava fare il sabato sera quando tornavano dai cinque dollari di Chianti, spaghetti e cannoli del loro ristorante preferito in un seminterrato della Quattordicesima Strada: guardarla mentre si svestiva. Tutt'a un tratto, senza incitamenti da parte sua (incitata, evidentemente, solo dalla tromba di Eldridge), Steena cominciò quello che Coleman, compiaciuto, descriveva come il ballo più sinuoso mai eseguito da una ragazza di Fergus Falls dopo poco più di un anno a New York City. Avrebbe fatto levare dalla tomba lo stesso Gershwin con quella danza, e col suo modo di cantare la canzone. Incitata da un trombettista di colore che la suonava come una canzone sentimentale nera sul tema dell'amore non corrisposto, ben visibile, chiara come il giorno, apparve in quel momento tutta la forza della sua bianchezza. Quella grossa cosa bianca. «Some day he'll come along... the man I love... and he'll be big and strong... the man I love». Le parole erano così comuni che avrebbero potuto essere state copiate pari pari dal più innocente sillabario di prima elementare, ma quando il disco finì Steena alzò le mani per coprirsi la faccia, un po' con l'intenzione, e un po' fingendo, di nascondere la vergogna. Ma quel gesto non la protesse da nulla, meno di tutto dall'estasi di Coleman. Quel gesto ottenne solo il risultato di aumentare il suo trasporto. – Dove ti ho trovato, Voluptas? – chiese. – Come ho fatto a trovarti? Chi sei? Fu in questo periodo, nel momento più esaltante della sua vita, che Coleman rinunciò all'allenamento serale nella palestra di Chinatown, ridusse le sue cinque miglia di footing mattutino, e alla fine smise addirittura di prendere sul serio la sua nuova qualifica di professionista. Aveva combattuto e vinto un totale di quattro incontri da professionista, tre in quattro riprese e uno, l'ultimo, in sei, tutti disputati il lunedì sera nella vecchia St Nicholas Arena. Non parlò mai a Steena degli incontri, non lo disse mai a nessuno alla NYU e sicuramente non lo fece mai sapere alla famiglia. Per quei primi anni di università fu un segreto in più, anche se all'arena Coleman boxava sotto il nome di Silky Silk e i risultati della St Nick's venivano stampati in corpo piccolo in un tamburo nella pagina sportiva dei giornali

popolari il giorno dopo. Dal primo secondo del primo round del primo incontro di quattro round per il quale guadagnò trentacinque dollari, sul ring Coleman, da professionista, mostrò un atteggiamento diverso da quello di quando era un dilettante. Non che da dilettante avesse mai voluto perdere. Ma da professionista ci mise il doppio dell'impegno, se non altro per provare a se stesso che poteva farlo, se voleva. Tutti gli incontri finirono prima del limite, e nell'ultimo, quello in sei round – con Beau Jack al primo posto nel programma – e per il quale prese cento dollari, Coleman stese l'avversario in due minuti e qualche secondo, e alla fine non era nemmeno stanco. Percorrendo la corsia per andare a disputare la prima delle sei riprese, aveva dovuto passare davanti al posto di ring di Solly Tabak, l'organizzatore, che gli stava già facendo sventolare sotto il naso un contratto con cui si assicurava un terzo dei suoi guadagni per i prossimi dieci anni. Solly gli diede una pacca sul didietro e, con la sua voce cavernosa, sussurrò: – Studia il negraccio nel primo round, vedi che cartucce ha, Silky, e fa' in modo che la gente sia contenta di quello che ha speso –. Coleman annuì e sorrise ma, mentre saliva sul ring, pensò: vaffanculo. Io piglio cento dollari, e devo lasciare che un tizio mi colpisca perché la gente sia contenta dei soldi che ha speso? Dovrei forse preoccuparmi di qualche stronzo seduto nella quindicesima fila? Io peso sessantadue chili e mezzo e sono alto un metro e set tantaquattro, lui pesa sessantacinque chili ed è alto un metro e settantasette, e dovrei lasciarmi colpire alla testa quattro, cinque, dieci volte in più, solo per fare spettacolo? Vada a farsi fottere, lo spettacolo. Dopo il match, Solly non era soddisfatto del comportamento di Coleman. Lo trovava infantile. – Avresti potuto stenderlo alla quarta ripresa, il negraccio, anziché alla prima, e lasciare che la gente se ne andasse pensando di avere speso bene i suoi quattrini. Invece non l'hai fatto. Te lo chiedo gentilmente, e tu non fai quello che ti chiedo. Perché, furbone? – Perché io non faccio piaceri a nessun negraccio –. Ecco quello che disse, il laureando in lettere classiche alla NYU e il diplomato scelto per il discorso alla fine dell'ultimo anno di scuola, il figlio del povero ottico, cameriere di vagone ristorante, linguista dilettante, grammatico, grande credente nella disciplina e studioso di Shakespeare, Clarence Silk. Ecco com'era testardo, ecco com'era riservato: qualunque iniziativa prendesse, ecco come faceva sul serio, questo ragazzo di colore del liceo di East Orange. Smise di fare il pugile a causa di Steena. Pur essendosi sbagliato sul sinistro significato nascosto nella sua poesia, era sempre convinto che le forze misteriose che rendevano inesauribile il loro ardore sessuale – che li trasformavano in amanti talmente scatenati che Steena, in un distillato da neofita di stupita autoironia, col buonsenso di una figlia del Midwest definiva Coleman e se stessa «due dementi» – un giorno sarebbero riuscite a dissolvere la storia inventata da Coleman su se stesso proprio davanti ai suoi oc-

chi. Come questo sarebbe accaduto non sapeva, né sapeva come avrebbe potuto evitarlo. Ma la boxe non lo avrebbe aiutato. Una volta che Steena avesse saputo di Silky Silk, sarebbero state fatte delle domande che l'avrebbero portata inevitabilmente a incappare nella verità. Lei sapeva che a East Orange Coleman aveva una madre che faceva l'infermiera e che andava in chiesa regolarmente, sapeva che aveva un fratello maggiore che aveva cominciato a insegnare ai bambini di settima e ottava ad Asbury Park e una sorella che stava per prendere il diploma di insegnante alla Montclair State, e che una volta al mese la domenica nel letto di Sullivan Street doveva essere abbreviata perché Coleman era atteso a East Orange per il pranzo. Sapeva che suo padre era stato un ottico – niente di più – e persino che veniva dalla Georgia. Coleman cercava scrupolosamente di far sì che Steena non avesse ragione di dubitare della verità di qualunque cosa le venisse da lui riferita, e una volta che ebbe rinunciato definitivamente alla boxe, non ebbe neanche più bisogno di dire bugie. Coleman non diceva mai bugie a Steena. Non faceva altro che seguire le istruzioni che Doc Chizner gli aveva dato il giorno in cui erano andati in macchina a West Point (e che gli avevano già permesso di arrivare felicemente alla fine del servizio militare): se non salta fuori niente, non tirarlo fuori tu. La decisione di invitarla a East Orange per il pranzo domenicale, come ormai tutte le altre decisioni (anche quella che aveva preso alla St Nick's Arena di mandare silenziosamente Solly Tabak affanculo stendendo l'avversario alla prima ripresa), si basava esclusivamente sulle proprie riflessioni. Erano passati quasi due anni dal loro primo incontro, Steena aveva vent'anni e lui ventiquattro, e Coleman non poteva più vedersi camminare lungo l'Ottava Strada, per non parlare di attraversare la vita, senza di lei. Il suo comportamento quotidiano, equilibrato e convenzionale, combinato con l'intensità dei suoi abbandoni del fine settimana (il tutto corredato da un'incandescenza fisica, una radiosità da fanciulla americana e flash fotografico, che nella sua forza faceva pensare ai poteri del vudù), aveva raggiunto una sorprendente supremazia sopra una volontà inesorabilmente indipendente come quella di Coleman: non soltanto aveva troncato i suoi legami con la boxe e con la combattiva e filiale spavalderia incapsulata nell'essere Silky Silk l'imbattuto peso welter professionista, ma lo aveva liberato dal desiderio di ogni altra donna. Eppure Coleman non poteva confessarle che era di colore. Le parole che sapeva di dover pronunciare avrebbero fatto sembrare ogni cosa peggiore di quella che era: avrebbero fatto sembrare lui stesso peggiore di quello che era. E se poi le avesse lasciato immaginare la sua famiglia, Steena si sarebbe figurata persone completamente diverse da quelle che erano. Non conoscendo negri, avrebbe pensato ai negri che vedeva al cinema o dei quali sentiva parlare alla radio o nelle barzellette. Coleman ora sapeva che Steena non aveva pregiudizi, e che se avesse conosciuto Ernestine, Walt e sua

madre avrebbe capito subito com'erano convenzionali e quante cose avevano in comune con la noiosa rispettabilità che lei stessa era stata fin troppo contenta di lasciarsi alle spalle a Fergus Falls. – Non fraintendermi: è una bella città, – si affrettò a dirgli, – è una bellissima città. E' strana, Fergus Falls, perché a est c'è l'Otter Tail Lake, e poco lontano dalla nostra casa c'è l'Otter Tail River. Ed è, immagino, un po' più raffinata delle altre città della stessa grandezza che ci sono da quelle parti, perché è subito a sud e a est di Fargo–Moorhead, che è la città universitaria di quella parte del paese –. Suo padre possedeva un negozio di ferramenta e un piccolo deposito di legname. – Una persona irrefrenabile, gigantesca, straordinaria, mio padre. Enorme. Come un prosciutto colossale. Capace di bersi in una sera un'intera bottiglia di liquore, di qualunque liquore ci sia in giro. Non ho mai potuto crederci. Ancora non ci credo. Eppure tira avanti. Si fa un grosso taglio nel muscolo del polpaccio trafficando con un macchinario... e lascia tutto così com'è, non lo lava nemmeno. Tendono a essere così, gli islandesi. Dei bulldozer. Quella che è interessante è la sua personalità. L'uomo più stupefacente. Mio padre, quando parla, occupa tutta la stanza. E non è il solo. Anche i nonni Palsson. Suo padre è così. Sua madre è così. – Islandesi. Non sapevo nemmeno che li chiamavi così, islandesi. Non sapevo nemmeno che ce ne fossero, qui. Non so assolutamente nulla degli islandesi, io. Quando – chiese Coleman – arrivarono nel Minnesota? – Steena alzò le spalle e rise. – Bella domanda. Diciamo dopo i dinosauri. Almeno, è quello che sembra. – Ed è da lui che scappi? – Credo. Difficile essere la figlia di un uomo così esuberante. Ti soffoca. – E tua madre? Soffoca anche lei? – Quello è il ramo danese della famiglia. Quelli sono i Rasmussen. No, lei non è soffocabile. Mia madre è troppo pratica per poter essere soffocata. Le caratteristiche della sua famiglia (e non credo sia tipico di quella famiglia, credo che tutti i danesi siano così, e da questo punto di vista non sono troppo diversi dai norvegesi): gli interessano le cose. Le cose. Tovaglie. Piatti. Vasi. Parlano continuamente di quanto costa ogni cosa. Anche il padre di mia madre è così, il nonno Rasmussen. L'intera famiglia di lei. Non hanno sogni, dentro. Non hanno irrealtà. Tutto è fatto di cose e di quanto costano e di quanto devi sborsare per averle. Lei entra nelle case degli altri ed esamina tutte le cose e sa dove ne hanno prese la metà e gli dice dove avrebbero potuto comprarle a meno. E il vestiario. Ogni capo di vestiario. La stessa cosa. Praticità. Per tutti la massima praticità. Parsimoniosi. Estremamente parsimoniosi. Puliti. Pulitissimi. Quando torno da scuola si accorge se ho una macchiolina d'inchiostro sotto un'unghia per aver riempito la penna stilografica. Quando ha degli invitati, il sabato sera, apparecchia la tavola alle cinque pomeridiane del venerdì. Tutto, ogni bicchiere, ogni posata. E poi ci butta sopra una specie di garza leggerissima per proteggerla dalla polvere. Tutto perfettamente organizzato. E' una cuoca fantastica, se non ti piacciono le spezie o il sale e il pepe. O sapori di ogni genere. Ecco,

questi sono i miei genitori. Con lei, in particolare, non riesco ad approfondire. Mai. E' tutta superficie. Lei organizza ogni cosa e mio padre disorganizza ogni cosa, e così sono arrivata a diciotto anni, ho preso la maturità e sono venuta qui. Se fossi andata a Moorhead o alla North Dakota State, avrei continuato a vivere in casa, perciò ho detto: al diavolo il college, e sono venuta a New York. Eccomi qua, dunque. Steena. Ecco come spiegava chi era e da dove veniva e perché se n'era andata. Per lui non sarebbe stato così semplice. Dopo, si diceva. Dopo: quando avrebbe potuto dare delle spiegazioni e pregarla di capire che non poteva permettere che le sue prospettive fossero ingiustamente limitate da una cosa così arbitraria come la razza. Se fosse stata tanto calma da ascoltarlo fino in fondo, era certo di poterle far capire perché aveva deciso di prendere il futuro nelle proprie mani anziché lasciare che la sua sorte fosse decisa da una società non illuminata: una società in cui, più di ottant'anni dopo la Proclamazione dell'Emancipazione, i fanatici avevano ancora una parte troppo grande perché andasse bene a lui. Le avrebbe fatto capire che, lungi dall'esserci qualcosa di sbagliato nella sua decisione di identificarsi come bianco, era la cosa più naturale per uno con le sue prospettive, il suo temperamento e il colore della sua pelle. Non aveva mai voluto, fin dalla prima infanzia, essere altro che libero: né nero né bianco, solo libero e indipendente. Con la sua scelta non voleva offendere nessuno, non cercava di imitare della gente che ritenesse superiore a lui, né voleva inscenare una specie di protesta contro la propria razza o quella di lei. Riconosceva che quello che stava facendo non sarebbe mai apparso corretto alle persone convenzionali, per le quali ogni cosa era prefabbricata e rigidamente inalterabile. Ma avere il coraggio di essere nulla più che corretto non era mai stato il suo obiettivo. L'obiettivo era che il suo destino fosse deciso non dalle intenzioni ignoranti e cariche di odio di un mondo ostile ma, a tutti i livelli umanamente possibili, dalle proprie scelte. Perché rassegnarsi a una vita costruita su basi diverse? Ecco quello che le avrebbe detto. E non le sarebbe parsa tutta una sciocchezza, un discorsetto da imbonitore per farle bere una pretenziosa bugia? Se prima non avesse conosciuto i suoi (se non avesse affrontato decisamente il fatto che lui era tanto negro quanto loro, e che loro erano tanto diversi quanto lui dall'immagine dei negri che poteva avere lei), queste parole, o ogni loro equivalente, le sarebbero sembrate solo un'altra forma di dissimulazione. Finché non si fosse seduta a tavola con Ernestine, Walt e sua madre, e finché non avessero tutti, nel corso della giornata, proceduto a uno scambio di rassicuranti banalità, qualunque spiegazione Coleman le avesse offerto le sarebbe apparsa solo un mucchio di vanitose e autogiustificatorie fesserie, ciance ampollose e stravaganti la cui falsità lo avrebbe coperto di vergogna, non soltanto agli occhi di Steena ma anche ai suoi. No, non poteva dire stronzate simili. Era indegno di lui. Se teneva veramente alla ragaz-

za, quello che ci voleva in quel momento era il coraggio, e non una bella sviolinata alla Clarence Silk. La settimana prima della visita, se non gli altri, preparò se stesso con la stessa concentrazione con cui si preparava mentalmente a un incontro di boxe, e quella domenica, quando scesero dal treno alla stazione di Brick Church, mormorò addirittura tra sé le frasi che salmodiava sempre, in un modo quasi mistico, negli istanti prima che suonasse la campana: «Il dovere, nient'altro che il dovere. Pensa solo al tuo dovere. Tutto il resto deve restare fuori». Solo allora, al suono della campana, mentre usciva dal suo angolo (come lì, mentre saliva i gradini che portavano all'ingresso di casa), aggiungeva l'esortazione dell'uomo comune: «Al lavoro». I Silk abitavano nella loro casa unifamiliare dal 1925, l'anno prima della nascita di Coleman. Quando erano arrivati il resto della strada era bianco, e la casetta di legno fu venduta loro da una coppia che era in rotta con i vicini e che, per far loro un dispetto, aveva deciso di cederla a gente di colore. Ma nessuno, nelle altre case, scappò via perché erano arrivati loro, e anche se i Silk non familiarizzarono mai con i vicini, in quel tratto di strada che portava alla canonica e alla chiesa episcopale tutti si mostrarono ben disposti. Ben disposti anche se il pastore, quando era arrivato, qualche anno prima, si era guardato intorno, aveva visto un certo numero di immigrati da Barbados appartenenti alla chiesa d'Inghilterra (molti di essi erano domestici che lavoravano per i bianchi ricchi di East Orange, isolani che sapevano stare al loro posto e si sedevano negli ultimi banchi e credevano di essere stati accettati), si era appoggiato al pulpito e, prima di cominciare il suo primo sermone domenicale, aveva detto: – Vedo che abbiamo qui alcune famiglie di colore. Dovremo far qualcosa –. Dopo essersi consultato col seminario di New York, aveva fatto in modo che i vari servizi religiosi e il catechismo domenicale per la gente di colore si svolgessero, in deroga alle norme generali della chiesa, nelle case delle famiglie di colore. Più tardi la piscina del liceo venne chiusa dal direttore della scuola affinché i ragazzi bianchi non dovessero nuotare insieme ai ragazzi di colore. Era una piscina molto grande, usata per le lezioni di nuoto e dalla squadra di nuoto, parte – da anni – del programma di educazione fisica, ma poiché furono sollevate obiezioni da certi genitori di ragazzi bianchi che erano i datori di lavoro dei genitori dei ragazzi neri (quelli che lavoravano come cameriere e camerieri e autisti e giardinieri e uomini tuttofare), la piscina fu prosciugata e coperta. Entro le quattro miglia quadrate di questa caccola residenziale di una città del New Jersey che non arrivava ai settantamila abitanti, come in tutto il paese durante la giovinezza di Coleman, esistevano queste rigide distinzioni tra le classi e tra le razze, santificate dalla chiesa e legittimate dalle scuole. Eppure, nella modesta traversa alberata dei Silk la gente comune non si sentiva tanto responsabile verso Dio e lo stato quanto coloro la cui

vocazione era mantenere una comunità umana, piscina e tutto, immune dalle impurità, e così i vicini, nel complesso, si comportavano amichevolmente con gli ultrarispettabili e pallidissimi Silk – negri, certo, ma, per usare le parole della tollerante madre di un compagno di Coleman all'asilo, «con la pelle di una sfumatura assai gradevole, color zabaione, diciamo» – a tal punto da farsi prestare un attrezzo o una scala o da aiutarli a capire cosa c'era che non andava nella macchina quando non partiva. Il palazzone all'angolo rimase tutto bianco fin dopo la guerra. Poi, verso la fine del 1945, quando la gente di colore cominciò a occupare il fondo della strada che andava verso Orange (soprattutto famiglie di professionisti, insegnanti, medici e dentisti), ogni giorno davanti all'edificio si fermava un furgone per traslochi, e così in pochi mesi sparì una metà degli inquilini bianchi. Ma ben presto le cose si aggiustarono, e anche se il padrone del palazzo, per mandare avanti la baracca, cominciò ad affittare alla gente di colore, i bianchi rimasti nel quartiere non si mossero da lì finché non ebbero, per andarsene, una ragione diversa dalla negrofobia. Al lavoro. E Coleman suonò il campanello, spinse la porta e gridò: – Siamo qui. Walt non ce l'aveva fatta, quel giorno, a venire da Asbury Park, ma c'erano sua madre ed Ernestine che, dalla cucina, stavano entrando nella hall. E lì, nella loro casa, c'era la sua ragazza. Poteva rispondere, o poteva non rispondere, alle loro aspettative. Sua madre non gli aveva chiesto niente. Da quando Coleman aveva preso unilateralmente la decisione di arruolarsi in marina come bianco, non osava più chiedergli niente, per paura di ciò che avrebbe potuto udire. Fuori dall'ospedale – dov'era finalmente diventata la prima caposala di colore di un ospedale di Newark, e senza l'aiuto del dottor Fensterman – tendeva ormai a lasciare che Walt si occupasse interamente della sua vita e della famiglia. No, della ragazza non aveva chiesto niente, si era educatamente rifiutata di sapere e aveva esortato Ernestine a non fare domande. Coleman, a sua volta, non aveva detto nulla a nessuno, e così, con una carnagione che più chiara non avrebbe potuto essere, e – con le scarpe e la borsetta blu, il vestito di cotone a fiorami, i guanti bianchi e il cappellino – la più linda, immacolata e irreprensibile di tutte le ragazze vive e vegete nel 1950, ecco Steena Palsson, progenie americana d'Islanda e Danimarca, ultima di una stirpe risalente a re Canuto e oltre. Coleman aveva fatto a modo suo, e nessuno batté ciglio. Quando si dice la capacità della specie di adattarsi... Nessuno restò senza parole, nessuno ammutolì e nessuno cominciò a parlare a raffica. Luoghi comuni, sì, banalità: generalizzazioni, frasi trite, stereotipi in abbondanza. Non per nulla Steena era cresciuta sulle rive dell'Otter Tail River: se c'era un cliché, lei sapeva come dirlo. Forse, se Coleman avesse bendato le tre donne prima di fare le presentazioni e le avesse tenute così per tutto il giorno, la loro conversazione non avrebbe avuto uno spessore più grande di quello che ebbe

mentre, sorridendo, si guardavano negli occhi. E non avrebbe espresso un'intenzione diversa da quella standard: cioè, io non dirò nulla da cui tu ti possa sentire offesa, se tu non dirai nulla da cui possa sentirmi offesa io. Rispettabilità a ogni costo: ecco dove i Palsson e i Silk andavano perfettamente d'accordo. Il momento in cui le cose rischiarono di degenerare fu, abbastanza stranamente, durante una discussione sulla statura di Steena. Vero, era alta un metro e ottanta, quasi sei centimetri più di Coleman e quindici più di sua sorella e di sua madre. Ma il padre di Coleman era un metro e ottantasei, e Walt quasi quattro centimetri di più, dunque la statura in sé e per sé non era una novità per la famiglia, anche se, nel caso di Steena e Coleman, era la donna a essere più alta dell'uomo. Eppure quei sei centimetri di Steena – la distanza, diciamo, tra l'attaccatura dei capelli e le sopracciglia – portarono la conversazione, che si era spostata sulle anomalie fisiche, paurosamente vicino al disastro per circa un quarto d'ora prima che Coleman fiutasse qualcosa di acre e le donne – tutt'e tre – corressero in cucina a salvare i biscotti dalle fiamme. Dopodiché, per tutto il pranzo e fino all'ora fissata dalla giovane coppia per il ritorno a New York, tutto si svolse all'insegna della più instancabile rettitudine, ed esteriormente quella che passarono insieme fu una domenica molto simile al sogno dell'assoluta felicità domenicale che può avere una bella famigliola e, di conseguenza, in stridente contrasto con la vita che, come l'esperienza aveva già insegnato anche alla più giovane dei quattro, non poteva, neanche per mezzo minuto di seguito, essere purgata della propria intrinseca instabilità, per non parlare della sua riduzione a un'essenza prevedibile. Solo quando il treno che li riportava a New York entrò quella sera nella Pennsylvania Station, Steena scoppiò in lacrime. Coleman sapeva solo che fino ad allora lei aveva dormito profondamente con la testa sulla sua spalla per tutto il tragitto: in pratica da quando erano saliti alla stazione di Brick Church e Steena, dormendo, aveva smaltito la stanchezza generata dallo sforzo pomeridiano in cui si era così brillantemente distinta. – Steena... C'è qualcosa che non va? – Non posso farlo! – gridò lei e, senza un'altra parola di spiegazione, boccheggiando, piangendo a dirotto, stringendosi al petto la borsetta (e dimenticando il cappello, che era sulle ginocchia di Coleman, dove lui lo aveva tenuto mentre lei dormiva), scese dal treno e corse via come per sfuggire a un aggressore, e non gli telefonò e non cercò mai più di vederlo. Fu quattro anni dopo, nel 1954, che quasi si scontrarono davanti alla Grand Central Station e si fermarono per stringersi la mano e chiacchierare quel tanto che bastò per ridestare l'antica ammirazione che avevano provato reciprocamente a ventidue e a diciotto anni e proseguire, oppressi dalla

certezza che nulla di statisticamente spettacolare come quell'incontro casuale avrebbe mai potuto ripetersi. Allora lui era sposato e in attesa di un figlio, lontano per un giorno dalla sua cattedra d'insegnante di latino e greco all'Adelphi, mentre lei lavorava per un'agenzia pubblicitaria in fondo a Lexington Avenue, sempre nubile, sempre bella, ma una donna ormai, una donna di New York vestita molto più elegantemente, e chiaramente una persona con la quale il viaggio a East Orange avrebbe potuto finire su una nota diversa, se avesse avuto luogo un po' più tardi. Come avrebbe potuto finire (la conclusione che la realtà aveva risolutamente escluso): ecco l'unica cosa alla quale riusciva a pensare. Sbalordito da quanto poco l'aveva dimenticata e da quanto poco lei aveva dimenticato lui, Coleman si allontanò rendendosi conto, come mai prima di allora aveva dovuto fare al di fuori delle lezioni sulla tragedia greca, della facilità con cui la vita può essere una cosa piuttosto che un'altra e della casualità con cui si crea un destino... E anche, d'altra parte, di come il fato può sembrare accidentale quando le cose non possono andare a finire che come sono finite. Si allontanò, cioè, senza capire nulla, sapendo di non poter capire nulla, ma con l'illusione che avrebbe metafisicamente capito qualcosa di enorme importanza su questa sua testarda determinazione di diventare quello che voleva essere se... Se almeno queste cose fossero state comprensibili. La bella lettera di due pagine che Steena gli spedì la settimana dopo, presso il college, su com'era stato incredibilmente bravo a «piombare» su di lei la prima volta che erano stati insieme nella sua stanza di Sullivan Street («quasi come gli uccelli quando sorvolano la terra o il mare e adocchiano qualcosa che si muove, qualcosa che scoppia di vita, e si tuffano... per afferrarla»), cominciava così: «Caro Coleman, sono stata molto felice di vederti a New York. Il nostro colloquio è stato breve, ma dopo averti visto ho provato una tristezza autunnale, forse perché i sei anni che sono passati dal nostro primo incontro mettono in dolorosa evidenza quanti giorni della mia vita sono "finiti". Hai un aspetto magnifico, e sono lieta che tu sia felice...»; e si concludeva con un languido, fluttuante finale di sette piccole frasi e con una nostalgica chiusa che, dopo numerose riletture, Coleman interpretò come la misura del rimpianto di Steena per la sua perdita, nonché una velata ammissione di rimorso, corredata da un cocente corteo di quasi impercettibili scuse: «Be', è tutto qui. Basta. Non dovrei nemmeno seccarti. Ti prometto di non farlo più. Abbi cura di te. Abbi cura di te. Abbi cura di te. Con molto affetto, Steena». Non la buttò mai via, la lettera, e quando gli capitava tra le mani e, nel bel mezzo di ciò che stava facendo, si interrompeva per darle una scorsa (dopo averla però dimenticata per cinque o sei anni), pensava quello che aveva pensato quel giorno per la strada dopo avere dato a Steena un leggero bacio sulla guancia e dopo averle detto addio per sempre: che, se Steena

lo avesse sposato (come voleva lui), avrebbe saputo tutto (come voleva lui); e il seguito della sua storia, il rapporto con la propria famiglia, con quella di lei, con i loro figli, sarebbe stato diverso da com'era stato con Iris. Quello che era successo con sua madre e con Walt avrebbe potuto benissimo non verificarsi. Se Steena avesse detto «okay», Coleman avrebbe vissuto un'altra vita. Non posso farlo. C'era della saggezza in quelle parole, una grande saggezza per una ragazza, non come quella che di solito si ha a vent'anni appena. Ma era proprio per questo che Coleman si era innamorato di lei: perché Steena aveva quella saggezza che è il buonsenso, un buonsenso solido e individualistico. Se non l'avesse avuto... Ma se non l'avesse avuto non sarebbe stata Steena, e lui non l'avrebbe voluta come moglie. Pensava gli stessi inutili pensieri, inutili per un uomo di non grande talento come lui, se non per Sofocle: la casualità con cui si forma un destino... E come tutto può sembrare accidentale, quando è inevitabile. Dal ritratto di se stessa e delle proprie origini che offrì a Coleman per la prima volta, Iris Gittelman sembrava essere stata una bambina testarda, in telligente, furtivamente ribelle (non aveva fatto che pensare di nascosto, dalla seconda elementare, a come sfuggire all'oppressione del proprio ambiente), in seno a una famiglia di Passaic carica di odio per ogni forma di oppressione sociale, e in particolare per l'autorità dei rabbini e le loro invadenti bugie. Suo padre, da come lo descriveva lei, era un anarchico di lingua yiddish così inflessibilmente eretico che non aveva neanche fatto circoncidere i due fratelli maggiori di Iris; e i suoi genitori non si erano curati né di procurarsi una licenza matrimoniale né di sottoporsi a una cerimonia civile. Si consideravano marito e moglie, si proclamavano americani, si definivano addirittura ebrei, questi due immigrati atei e incolti che sputavano per terra quando incontravano un rabbino. Ma si chiamavano come si chiamavano liberamente, senza chiedere il permesso o cercare l'approvazione di quelli che suo padre descriveva sdegnosamente come gli ipocriti nemici di tutto ciò che era naturale e buono: vale a dire la burocrazia, coloro che tengono illegittimamente le redini del potere. Appesi al muro screpolato e incrostato di sudiciume, sopra il banco di bibite analcoliche del negozio familiare di dolciumi in Myrtle Avenue – un negozio disordinato e così piccolo, diceva lei, che «non ci potresti seppellire noi cinque fianco a fianco» – c'erano due ritratti in cornice, uno di Sacco e l'altro di Vanzetti, fotografie strappate dal supplemento illustrato di un giornale. Ogni 22 agosto – l'anniversario del giorno del 1927 in cui il Massachusetts aveva giustiziato i due anarchici per omicidi che non avevano commesso, come Iris e i suoi fratelli avevano imparato in casa – il negozio chiudeva i battenti e la famiglia si ritirava al piano di sopra, nell'appartamento piccolo e buio dove il disordi-

ne stravagante superava persino quello del negozio, per osservarvi un giorno di digiuno. Era un rituale che il padre di Iris aveva, come il capo di una setta, ideato tutto da solo, modellandolo in modo bizzarro sulla giornata dell'Espiazione ebraica. Suo padre non sapeva veramente cosa fossero le idee: tutto ciò che lo animava era una disperata ignoranza e l'amara sfiducia dei diseredati, l'odio impotente del rivoluzionario. Tutto quello che diceva, lo diceva stringendo i pugni, e ogni suo discorso era un'arringa. Conosceva i nomi di Kropotkin e Bakunin, ma niente dei loro scritti, e del settimanale anarchico in yiddish «Freie Arbeiter Stimme», che si tirava sempre dietro nel loro appartamento, di rado leggeva più di qualche parola ogni sera prima di prendere sonno. I suoi genitori, spiegò Iris a Coleman (e tutto questo nel modo più drammatico, nel modo più scandalosamente drammatico, in un caffè di Bleecker Street pochi minuti dopo che lui l'aveva rimorchiata in Washington Square), i suoi genitori erano gente semplice, tutta presa da un sogno a occhi aperti che non erano capaci né di esprimere né di difendere in modo razionale, ma per il quale erano fanaticamente pronti a sacrificare amici, parenti, affari, la buona volontà dei vicini e persino il loro equilibrio mentale, persino l'equilibrio mentale dei loro figli. Sapevano soltanto con che cosa non avevano nulla da spartire, che a Iris, più diventava grande, sembrava essere tutto. La società com'era costituita – le sue forze continuamente in moto, la fitta rete d'interessi tesa al massimo, la battaglia in corso per assicurarsi dei vantaggi, la sudditanza alla quale si è costretti, le collisioni e le collusioni tra le fazioni, l'astuto gergo della moralità, quel despota benigno che è la convenzione, l'instabile illusione della stabilità –, la società così com'era, com'era sempre stata e come deve essere, era estranea ai suoi genitori come la corte di Re Artù allo yankee del Connecticut di Mark Twain. Eppure, questo non dipendeva dal fatto che erano stati legati dai vincoli più forti a qualche altro tempo e luogo e poi costretti a inserirsi in un mondo completamente diverso: i suoi genitori somigliavano più a persone che fossero passate direttamente dalla culla all'età adulta senz'aver imparato nulla, nel frattempo, su come viene gestita e regolata la bestialità umana. Iris non riusciva a capire se, da piccola, era stata allevata da mattoidi o da visionari, e se il fanatico ribrezzo che avrebbe dovuto dividere con loro era una rivelazione dell'orribile verità o qualcosa di assolutamente ridicolo e probabilmente folle. Per tutto quel pomeriggio Iris narrò a Coleman storie folkloristiche e appassionanti. Il fatto di essere sopravvissuta, lei, figlia di due retrogradi individualisti come Morris ed Ethel Gittelman, a quella vita sopra il negozio di dolciumi di Passaic, ricordava una cupa avventura tratta non tanto da un romanzo russo, quanto da un fumetto russo, come se i Gittelman fossero stati i pazzi vicini di casa in una striscia domenicale intitolata «Bibì e Bibò Karamazov». Fu una performance ragguardevole e brillante per una ragazza di soli diciannove anni che era fuggita dal New Jersey e aveva attraver-

sato l'Hudson – chi non fuggiva, tra i conoscenti di Coleman al Village, e da posti lontani come Amarillo? – senz'altra idea che di essere libera, un'altra forestiera in bolletta sulla scena dell'Ottava Strada, una ragazza bruna e vivace dai lineamenti teatralmente marcati, emotivamente una forza dinamica e, nel linguaggio dell'epoca, «ben carrozzata», studentessa all'Art Students League, che si guadagnava parzialmente la borsa di studio posando per le lezioni di disegno dal vero, una che era abituata a non nascondere nulla e che non aveva paura di suscitare scompiglio in un locale pubblico, non più di una danzatrice del ventre. La sua capigliatura era uno spettacolo, una fluttuante e labirintica corona di spirali e boccoletti, lanuginosa come una matassa di spago e abbastanza grande per fungere da ornamento natalizio. Tutta l'inquietudine dell'infanzia sembrava essere passata nelle circonvoluzioni di quell'ondeggiante massa di capelli. Dei suoi inarrestabili capelli. Ci potevi pulire le pentole senz'alterarne la natura, come se fossero stati raccolti nei tenebrosi abissi marini, come una specie di elastico organismo costruttore di barriere coralline, un denso ibrido vivente color onice metà corallo e metà alga, forse dotato di proprietà medicinali. Per tre ore Iris tenne Coleman inchiodato alla sedia con il suo istrionismo, il suo sdegno, i suoi capelli, e con la sua attitudine a produrre eccitazione, con un'intelligenza adolescenziale frenetica e inesperta e la capacità delle attrici d'infiammarsi e di credere a tutte le proprie esagerazioni, cosa che fece sì che Coleman – miscela astutamente originale quant'altre mai, prodotto di cui lui aveva il brevetto esclusivo – si sentisse al confronto una persona totalmente priva del concetto di sé. Ma quando, quella sera, la portò in Sullivan Street, tutto cambiò. Saltò fuori che Iris non aveva la più pallida idea di chi era. Una volta che ti eri fatto largo tra i capelli, tutto quello che c'era sotto era magmatico. L'antitesi della freccia puntata verso la vita che era il venticinquenne Coleman Silk: anche lei una combattente per la propria libertà, ma la versione agitata, la versione anarchica, di chi voleva trovare la propria strada. Non l'avrebbe turbata per cinque minuti l'apprendere che Coleman era nato e cresciuto in una famiglia di colore e si era identificato come negro per quasi tutta la vita, e non le sarebbe stato di peso serbare per lui quel segreto se fosse stato questo che Coleman le avesse chiesto di fare. La tolleranza per l'inusitato non era una delle deficienze di Iris Gittelman: per lei l'inusitato era ciò che più si uniformava agli standard della legittimità. Essere due uomini anziché uno? Essere di due colori invece di uno? Camminare per le strade in incognito o in maschera, non essere né questo né quello ma qualcosa d'intermedio? Possedere una doppia o tripla o quadrupla personalità? Per lei non c'era nulla di pauroso in queste apparenti deformità. La larghezza di vedute di Iris non era neanche una dote morale del genere di quelle rivendicate dai progressisti e dai libertari; era più somigliante a una mania, la bizzarra antitesi del fanatismo. Le aspettative indispensa-

bili per la maggior parte della gente, la presunzione dei significati, la fiducia nell'autorità, la santificazione della coerenza e dell'ordine, la colpivano come nient'altro al mondo: per lei erano cose insensate, assolutamente folli. Perché le cose andrebbero come vanno, e la storia sarebbe quella che è, se ci fosse, intrinseca all'esistenza, una cosa chiamata normalità? Eppure, ciò che Coleman disse a Iris fu che lui era ebreo, essendo Silk un'attenuazione di Silberzweig decisa a Ellis Island e imposta a suo padre da un premuroso funzionario doganale. Portava addirittura il marchio biblico della circoncisione, come, a quel tempo, non molti dei suoi amici negri di East Orange. Sua madre, lavorando come infermiera in un ospedale fornito prevalentemente di medici ebrei, era stata convinta da una teoria in rapida espansione dei significativi benefici igienici della circoncisione, e pertanto i Silk avevano chiesto che un rito che era tradizionale tra gli ebrei – e che allora stava cominciando a essere scelto come procedura chirurgica post–natale anche da un numero crescente di genitori non ebrei – venisse officiato da un dottore su ciascuno dei loro figli maschi nella seconda settimana di vita. Coleman si faceva passare per ebreo – o lasciava che la gente lo credesse tale, se voleva – già da qualche anno, da quando si era accorto che alla NYU, come nei caffè che frequentava, molti dei suoi conoscenti sembravano pensare che ebreo fosse per davvero. Ciò che aveva imparato in marina era che devi fare solo questo, presentare una buona e coerente versione di te stesso, e nessuno verrà mai a farti domande, perché nessuno è particolarmente interessato a farle. I suoi conoscenti alla NYU e al Village avrebbero potuto supporre facilmente – come i suoi commilitoni sotto le armi – che fosse di origine mediorientale, ma poiché quello era un momento in cui nell'avanguardia postbellica di Washington Square era al culmine l'autoesaltazione ebraica, un momento in cui il forte appetito che stimolava l'audacia intellettuale degli ebrei cominciava a sembrare incontrollabile e un'aura d'importanza culturale emanava tanto dalle loro battute e dai loro aneddoti familiari, dalle loro risa, dalle loro buffonate, dalle loro spiritosaggini e dalle loro discussioni – e persino dai loro insulti – quanto dalle pagine di «Commentary», «Midstream» e della «Partisan Review», chi era lui per non accodarsi, specie dopo che i suoi anni come istruttore di boxe dei ragazzi ebrei della Essex County agli ordini di Doc Chizner, al liceo, avevano fatto sì che rivendicare un'infanzia ebraica nel New Jersey fosse assai meno rischioso che fingersi un marinaio americano con radici siriane o libanesi? Assumere il surrogato del prestigio di un ebreo americano aggressivo, autoanalitico e irriverente che sguazzava nelle ironie di un'esistenza marginale a Manhattan risultò essere, per lui, nient'affatto temerario come avrebbe potuto sembrare se Coleman avesse passato degli anni a ideare e a elaborare quella maschera per conto suo; e tuttavia, cosa piuttosto divertente, era spettacolosamente temerario: e quando gli veniva in

mente il dottor Fensterman, che aveva offerto ai suoi tremila dollari perché Coleman sballasse gli ultimi esami e permettesse al suo intelligentissimo Bert di tenere il discorso di commiato, gli sembrava anche spettacolosamente comico, una specie di colossale barzelletta con cui aveva regolato vecchi conti. Che idea grandiosa e onnicomprensiva aveva avuto il mondo quando aveva pensato di trasformarlo in questo modo! Che sublime e quasi inconcepibile furberia! Se era mai esistita una creatura unica e perfetta – e la singolarità non era sempre stata la sua più intima e più forte ambizione? – era questa magica convergenza tra il figlio di Fensterman e quello di suo padre. Non era più un gioco. Con Iris – Iris l'ebrea non ebrea, agitata, selvaggia, tutto il contrario di Steena – come lo strumento col quale rinnovarsi, aveva finalmente trovato la sua strada. Non si trattava più di provare una maschera e scartarla, esercitarsi interminabilmente e prepararsi a essere. Era la soluzione, il segreto del suo segreto, con appena una goccia di ridicolo per renderla più saporita: il ridicolo che riscatta e rassicura, il modesto contributo della vita a ogni decisione umana. Come un amalgama fino ad allora sconosciuto dei più diversi degli storici indesiderabili d'America, Coleman finalmente significava qualcosa. Ci fu un interludio, tuttavia. Dopo Steena e prima di Iris ci fu un interludio di cinque mesi chiamato Ellie Magee, una bronzea ragazza di colore piccolina e ben fatta, con una spolverata di lentiggini sul naso e sulle gote, che apparentemente non aveva ancora superato la linea divisoria tra adolescenza e maturità e che lavorava al Village Door Shop della Sesta Avenue, vendendo con fervore scaffali per libri e porte: porte su gambe come tavoli da lavoro e porte su gambe come letti. Il vecchio e stanco ebreo proprietario del negozio diceva che assumendo Ellie aveva aumentato il fatturato del cinquanta per cento. – Non combinavo niente, qui, – disse a Coleman. – Sbarcavo il lunario. Ma ora tutti al Village vogliono una porta come scrivania. La gente entra e non chiede di me, chiede di Ellie. Telefonano, e vogliono parlare con Ellie. Questa ragazzina ha cambiato tutto –. Era vero, nessuno poteva resisterle, Coleman compreso, che rimase colpito, prima dalle sue gambe issate sui tacchi alti, e poi dalla sua naturalezza. Esce con i ragazzi bianchi della NYU che sono attirati da lei, esce con i ragazzi di colore della NYU che sono attirati da lei... Una spumeggiante ragazzina di ventitré anni, che nulla ancora ha potuto ferire, e che è venuta al Village da Yonkers, dov'è cresciuta, e che fa la sua vita anticonformista con l'a minuscola, la vita del Village come la propagandano. E' una scoperta, e perciò Coleman va subito a comprare una scrivania che non gli serve e la invita a bere qualcosa quella sera. Dopo Steena e lo choc prodotto dalla perdita di una persona tanto desiderata, sta tornando a divertirsi, è ancora vivo, e tut-

to questo dal momento in cui, in negozio, hanno cominciato a flirtare. Che Ellie lo abbia preso per un bianco? Coleman non lo sa. Interessante. Poi, quella sera, lei si mette a ridere e, socchiudendo comicamente gli occhi, dice: – Tu, che cavolo sei? – Ha notato subito qualcosa e lo dice, lì per lì. Ma ora Coleman non s'imperla di sudore come quando ha letto male la poesia di Steena. – Cosa sono? Scegli tu, – dice. – E' questo il tuo gioco? – chiede lei. – Certo che è il mio gioco, – dice lui. – Dunque le bianche ti credono bianco? – Qualunque cosa credano, – dice lui, – io glielo lascio credere. – E quello che credo io? – chiede Ellie. – Lo stesso, – dice Coleman. E' il giochetto che fanno tra loro, e diventa una fonte di eccitazione, con la sua ambiguità. Coleman non è amico per la pelle di nessuno, ma i ragazzi che conosce all'università credono che esca con una ragazza di colore e le amiche di Ellie sono tutte convinte che lei esca con un ragazzo bianco. E' davvero divertente essere notati dalla gente, e in quasi tutti i posti dove vanno quello che succede è questo. Siamo nel 1951. I ragazzi gli chiedono: – Com'è? – Arrapante, – dice lui, arrotando le erre e muovendo mollemente una mano come facevano gli italiani a East Orange. In tutto questo c'è un piacere continuo e prolungato, la sua vita ora ha raggiunto una grandezza da piccolo divo dello schermo: quando esce con Ellie, Coleman è sempre in scena. Nessuno sa cosa diavolo succede, nell'Ottava Strada, e questo gli piace. Ellie ha le gambe che piacciono a lui. Ride sempre. E' una donna la cui dote principale è la naturalezza, colma di un'innocenza vivace e disinvolta che lui trova incantevole. Un po' come Steena, solo che non è bianca, col risultato che non devono correre a far visita né alla famiglia di Ellie né alla sua. Perché dovrebbero? Abitano al Village. Non gli passa neanche per la testa di portarla a East Orange. Forse è perché non vuole udire il sospiro di sollievo, sentirsi dire, anche senza parole, che fa la cosa giusta. Pensa al motivo per cui ha portato Steena a casa sua. Per essere onesto con tutti? E cos'ha ottenuto? No, nessuna delle famiglie... In ogni modo, per ora no. Così grande, intanto, è il piacere di stare con lei che una sera, come spumante da una bottiglia, sprizza fuori la verità. Anche sull'aver fatto della boxe, cosa che a Steena non ha mai potuto dire. E' così facile dirlo a Ellie! Il fatto che lei non disapprovi la fa salire ulteriormente nella sua stima. Non è conformista... ma ha un tale buonsenso! Coleman è davanti a una ragazza decisamente di larghe vedute. La splendida Ellie vuole sapere tutto. E così lui parla, e quando non deve trattenersi è uno straordinario narratore, ed Ellie rimane affascinata. Le parla della marina. Le parla della propria famiglia, che è – guarda caso – una famiglia non molto diversa dalla sua, a parte il fatto che il padre di lei, un farmacista con un drugstore ad Harlem, è ancora al mondo e, pur non essendo troppo contento che Ellie sia andata a vivere al Village, non può smettere, fortunatamente per sua figlia, di adorarla. Coleman le parla di Howard e di come non riusciva a sopportarlo,

quel posto. Parlano a lungo di Howard, perché era il posto dove i genitori di Ellie volevano che andasse pure lei. E sempre, di qualunque cosa parlino, Coleman scopre di riuscire a farla ridere senza fatica. – Non avevo mai visto tanta gente di colore, nemmeno alle riunioni di famiglia nel Sud del New Jersey. Alla Howard University ho avuto l'impressione che ci fossero troppi negri tutti insieme in un posto solo. Di tutte le confessioni, di ogni genere, ma non avevo proprio nessuna voglia di stare in mezzo a loro. Non riuscivo a capire cosa c'entrassi, io, con loro. Tutto era così concentrato, là dentro, che il mio orgoglio era ridotto a zero. Azzerato da un ambiente concentrato e falso. – Come un'aranciata troppo dolce, – disse Ellie. – Be', – disse lui, – non è che ci abbiano messo troppo zucchero, è che hanno tolto tutto il resto –. Parlando apertamente con Ellie, Coleman respira di sollievo. Vero, non è più un eroe, ma se è per questo non è neppure un «cattivo». Sì, questa è una lottatrice. Il suo passaggio all'indipendenza, la sua trasformazione in una ragazza del Village, il modo in cui tratta i suoi... Si direbbe che sia cresciuta come dovresti avere la possibilità di fare. Una sera lo porta in una piccola gioielleria di Bleecker Street dove il proprietario fa bellissime cose con lo smalto. Per curiosità, mentre fanno il giro dei negozi. Ma quando escono Ellie dice a Coleman che il gioielliere è nero. – Ti sbagli, – le dice lui, – non è possibile. – Non dirmi che sbaglio, – dice lei con una risata, – tu sei cieco –. Un'altra sera, verso mezzanotte, lo porta in un bar di Hudson Street dove vanno a bere dei pittori. – Vedi quello? Quello elegantissimo? – dice Ellie sottovoce, accennando con la testa a un bel giovanotto bianco sui venticinque anni che sta incantando tutte le ragazze schierate lungo il banco. – Quello, – dice. – No! – dice Coleman, e adesso è lui a ridere. – Sei al Greenwich Village, Coleman Silk, le quattro miglia quadrate più libere d'America. Ce n'è uno ogni due isolati. Sei così vanesio che credevi di averci pensato solo tu –. E se lei ne conosce tre (che è esattamente come stanno le cose), ce ne saranno dieci, se non di più. – Da ogni angolo del paese, – dice lei, – puntano dritti sull'Ottava Strada. Proprio come hai fatto tu dalla piccola East Orange. – E io, – dice lui, – io non me ne accorgo nemmeno –. E anche questo li fa ridere, ridere, ridere e ridere, perché Coleman è un caso disperato e non riesce a vederlo negli altri, e perché Ellie è la sua guida e a indicarglieli provvede lei. In un primo tempo Coleman esulta per la soluzione del problema. Perduto il segreto, torna a sentirsi un ragazzo. Il ragazzo che era prima di avere il segreto. Una specie di monello. Dalla naturalezza di lei trae il piacere e la facilità di essere naturale a sua volta. Se vuoi essere un cavaliere e un eroe devi essere armato, e quello che prova adesso è il piacere di essere disarmato. – Sei un uomo fortunato, – gli dice il boss di Ellie. – Un uomo fortunato, – ripete, e lo pensa. Con Ellie il segreto non è più operativo. Non è solo che può dirle ogni cosa e che lo fa, è che ora, se e quando vuole, Coleman può tornare a casa. Può affrontare suo fratello, come non avrebbe

mai potuto, lo sa, nell'altro modo. Lui e sua madre possono ridiventare amici e paciocconi come sono sempre stati. E poi incontra Iris, ed è finita. Con Ellie è stato divertente, e continua a esserlo, ma manca una dimensione. In tutta quella storia manca l'ambizione: manca lo stimolo per l'amor proprio che lo ha incalzato per tutta la vita. Arriva Iris e lui torna sul ring. Suo padre gli aveva detto: – Ora puoi ritirarti imbattuto. Ritirati –. Ma ecco Coleman avventarsi ruggendo dal suo angolo: ha di nuovo il suo segreto. E il dono di essere di nuovo reticente, che è una cosa difficile da ottenere. Forse ci sono un'altra dozzina di tipi come lui in giro per il Village. Ma non tutti hanno quel dono. Cioè, ce l'hanno, ma è insignificante: semplicemente, mentono in continuazione. Non sono reticenti nel modo grande e complesso in cui lo è lui, lui che ha ripreso la sua traiettoria verso l'esterno. Ha bevuto l'elisir del segreto, ed è come parlare fluentemente un'altra lingua: è trovarsi in un altrove che ti riesce costantemente nuovo. E' vissuto senza, è stato bello, non è successo nulla di orribile, non è stata una cosa riprovevole. E' stato divertente. Uno spasso innocente. Ma è mancato tutto il resto. Certo, aveva ritrovato l'innocenza. Proprio questo gli aveva dato Ellie. Ma a che cosa serve l'innocenza? Iris gli dà di più. Porta tutto a un altro livello. Iris gli restituisce la sua vita nella scala in cui la vuole vivere. Due anni dopo il loro primo incontro decisero di sposarsi, e questo fu allorché, per questa licenza che si era preso, questa libertà che aveva scandagliato, per le scelte che aveva osato fare (e davvero avrebbe potuto essere più scaltro o intelligente nel conquistare ed esibire un io abbastanza grande da contenere le sue ambizioni e abbastanza formidabile da sfidare il mondo?), gli fu richiesto il primo grosso pagamento. Coleman andò a East Orange a trovare sua madre. La signora Silk ignorava l'esistenza di Iris Gittelman, anche se non rimase affatto sorpresa quando Coleman le disse che voleva sposarsi e che la ragazza era bianca. Non rimase sorpresa nemmeno quando Coleman le disse che la ragazza non sapeva che lui era di colore. Se qualcuno rimase sorpreso, quello fu Coleman che, avendo dichiarato apertamente le proprie intenzioni, tutt'a un tratto si chiese se questa decisione, la più monumentale della sua vita, non si basasse sulla cosa meno seria immaginabile: i capelli di Iris, quella massa ondeggiante di capelli che erano di gran lunga più negroidi di quelli di Coleman; più simili a quelli di Ernestine che ai suoi. Ernestine, da bambina, era famosa per una domanda che faceva sempre: – Perché non ho i capelli che svolazzano come quelli della mamma? – E voleva dire che non sapeva spiegarsi per quale motivo i suoi capelli non svolazzassero quando c'era un po' di vento, non soltanto come quelli di sua madre, ma come i capelli di tutte le donne dal lato materno della famiglia. Davanti al dolore di sua madre, Coleman si sentì assalire dalla strana,

folle paura che l'unica cosa che avesse mai cercato in Iris Gittelman fosse l'alibi che il suo aspetto poteva dare per la struttura dei capelli dei loro figli. Ma com'era possibile che un motivo essenzialmente, smaccatamente pratico come quello potesse essere sfuggito alla sua attenzione fino ad allora? Perché non era affatto vero? Vedendo sua madre soffrire così (intimamente scosso dal proprio comportamento e tuttavia deciso, come sempre, a non lasciare le cose a metà), come poteva questa idea sorprendente non sembrargli vera? Era ancora seduto davanti a sua madre, in quello che appariva uno stato di perfetto autocontrollo, quando Coleman ebbe la precisa impressione di avere appena scelto una moglie per la ragione più stupida del mondo, e di essere il più stolto degli uomini. – E lei crede che i tuoi genitori siano morti, Coleman. E' quello che le hai detto. – Esattamente. – Non hai fratelli, non hai sorelle. Non esiste nessuna Ernestine. Non esiste nessun Walt. Coleman annuì. – E poi? Che altro le hai detto? – Che altro pensi che io le abbia detto? – Quello che ti andava di dirle –. Fu la battuta più dura che le sfuggì in tutto il pomeriggio. La sua capacità di arrabbiarsi non si era mai, e non si sarebbe mai, estesa a lui. La semplice vista di suo figlio, dal momento della sua nascita, stimolava sentimenti contro i quali non aveva difesa, e che non c'entravano con ciò che meritava. – Non conoscerò mai i miei nipoti, – disse. Coleman si era preparato. L'importante era dimenticare i capelli di Iris e farla parlare, lasciare che trovasse la sua eloquenza e che, dal sommesso fluire delle proprie parole, ricavasse la sua apologia. – Non gli darai mai il permesso di vedermi, – disse. – Non gli darai mai il permesso di sapere chi sono. «Mamma, – mi dirai, – mamma, tu vieni alla stazione ferroviaria di New York e ti siedi sulla panca nella sala d'aspetto, e alle undici e venticinque io passerò con i miei figli vestiti a festa». Quello sarà, tra cinque anni, il regalo per il mio compleanno. «Siediti lì, mamma, non dire nulla, e io te li farò passare davanti piano piano». E sai benissimo che ci sarò. La stazione ferroviaria. Lo zoo. Central Park. Dove dirai tu, ovviamente lo farò. Tu mi dirai che l'unico modo in cui potrò toccare i miei nipoti sarà chiedermi di venire a fare la babysitter e a metterli a letto come la signora Brown. Dimmi di venire a pulirti la casa come la signora Brown, e lo farò. Certo, farò quello che vuoi. Non ho altra scelta. – No? – Ho una scelta? Sì? Qual è la mia scelta, Coleman? – Ripudiarmi.

Con un'aria quasi beffarda, sua madre finse di prendere in considerazione quell'idea. – Con te, forse, potrei essere tanto crudele. Sì, immagino che sia possibile. Ma dove credi che troverei la forza di essere tanto crudele con me stessa? Non era il momento, per lui, di ricordare la propria infanzia. Non era il momento di ammirare la lucidità, il sarcasmo o il coraggio di sua madre. Non era il momento di farsi soggiogare dal fenomeno quasi patologico dell'amore materno. Non era il momento di sentire tutte le parole che lei non diceva, ma che risuonavano ancor più espressivamente di quello che diceva. Non era il momento di pensare pensieri diversi dai pensieri con i quali si era armato prima di venire. Non era sicuramente il momento di ricorrere a spiegazioni, di mettersi brillantemente a sommare i vantaggi e gli svantaggi e a fingere che questa non fosse altro che una decisione logica. Non c'era spiegazione che potesse anche solo lontanamente giustificare la violenza rappresentata da ciò che Coleman le stava facendo. Era il momento di concentrare l'attenzione su quanto si era proposto di ottenere venendo lì. Se la scelta di ripudiarlo le era preclusa, non poteva far altro che incassare il colpo. Sta' calmo, parla poco, dimentica i capelli di Iris e, per tutto il tempo che sarà necessario, lascia che continui a usare le proprie parole per assorbire la brutalità della cosa più brutale che lui le avesse mai fatto. La stava uccidendo. Non c'è bisogno di uccidere tuo padre. Lo farà il mondo per te. Sono tante le forze che congiurano contro di lui. Provvederà il mondo a sistemarlo, come aveva sistemato il signor Silk. La persona da uccidere è la madre, ed è questo che Coleman comprese di stare facendo, Coleman, il ragazzo che era stato amato com'era stato amato da quella donna. La stava uccidendo in nome della propria esaltante idea di libertà! Senza di lei sarebbe stato assai più facile. Ma solo attraverso questa prova Coleman può essere l'uomo che ha deciso di essere, inalterabilmente separato da ciò che gli è stato rimesso alla nascita, libero di battersi per essere libero come ogni essere umano vorrebbe essere libero. Per avere questo dalla vita, il destino sostitutivo, alle proprie condizioni, Coleman deve fare ciò che bisogna fare. La maggior parte della gente non vorrebbe forse uscire dalla vita di merda che le è capitata in sorte? Ma non lo fa, ed è questo che la rende ciò che è, ed era questo che lo rendeva quello che era. Molla il pugno, fa' il danno che devi, e chiudi definitivamente la porta. Non puoi far questo a una madre meravigliosa che ti ama incondizionatamente e ti ha reso felice, non puoi infliggere questo dolore e poi credere di poterci tornare sopra. E' una cosa talmente orribile che puoi solo farci il callo. Quando hai fatto una cosa come questa, hai fatto una violenza tale che non potrà essere mai più cancellata: ed è questo che Coleman vuole. E' come quel giorno a West Point in cui l'avversario stava per crollare. Solo l'arbitro riuscì a salvarlo da ciò che Coleman aveva in serbo per lui. Allora come oggi, ne sperimentava la forza come pugile. Perché anche questa è la prova, dare

alla brutalità del ripudio il suo vero, imperdonabile significato umano, affrontare con tutto il realismo e tutta la chiarezza possibile il momento in cui il tuo fato s'interseca con qualcosa di enorme. Questo è il suo. Quest'uomo e sua madre. Questa donna e il figlio adorato. Se, allo scopo di temprarsi, Coleman è pronto a fare la cosa più dura che si possa immaginare, la cosa è questa, senza arrivare a pugnalarla. Questo lo porta dritto al nocciolo del problema. Questo è l'atto più importante della sua vita, e vividamente, consapevolmente, Coleman ne avverte l'immensità. – Credevo di essere più preparata, Coleman. Lo dovrei essere, – disse lei. – Tu mi avevi lealmente messo in guardia fin quasi dal giorno in cui sei arrivato. Eri così restio persino a succhiare il mio latte. Sì, è vero. Ora capisco perché. Anche questo poteva ritardare la tua fuga. C'è sempre stato qualcosa nella nostra famiglia, e non parlo del colore, c'era qualcosa, in noi, che ti ostacolava. Tu ragioni come un prigioniero. Sì, Coleman Brutus. Sei bianco come la neve e ragioni come uno schiavo. Non era il momento di dare troppo credito alla sua intelligenza, di prendere anche il più toccante giro di parole come l'espressione di una speciale saggezza. Accadeva spesso che sua madre dicesse qualcosa da cui si ricavava l'impressione che la sapesse più lunga di tanta altra gente. L'altro lato della razionalità. Era la conseguenza del fatto che lasciava le prediche a suo padre, e perciò, al confronto, pareva dire quello che contava. – Ora, potrei dirti che non c'è via di scampo, che tutti i tuoi tentativi di fuggire ti riporteranno solo al punto di partenza. E' quello che ti direbbe tuo padre. E nel Giulio Cesare troverebbe di sicuro qualcosa che lo conferma. Ma per un giovanotto come te, che fa innamorare tutti? Un bel ragazzo, amabile e intelligente, col tuo fisico, con la tua determinazione, col tuo acume, con tutte le tue magnifiche doti? Con i tuoi occhi verdi e le tue lunghe ciglia scure? Via, questo non dovrebbe darti proprio nessun problema. Immagino che venirmi a trovare sarà stata in tutto questo la cosa più difficile, per te, e guarda come sei calmo, lì seduto. E questo dipende dal fatto che tu sai che quello che stai facendo è assolutamente ragionevole. Lo so anch'io che è ragionevole, perché tu non perseguiresti un obiettivo che non lo fosse. Certo, avrai delle delusioni. Certo, poche cose andranno come immagini, lì seduto così tranquillamente davanti a me. Il tuo speciale destino sarà speciale, sì... Ma come? Ventisei anni... Non lo puoi sapere. Ma non sarebbe lo stesso se tu non facessi nulla? Immagino che ogni profondo cambiamento nella vita richieda che si dica «Non ti conosco» a qualcuno. Andò avanti così per quasi due ore, un lungo discorso sull'autonomia di Coleman che, secondo lei, risaliva all'infanzia, dominando abilmente il dolore col descrivere tutto ciò che di brutto la aspettava e a cui non poteva sperare di opporsi e che avrebbe dovuto sopportare, un discorso durante il

quale Coleman fece tutto il possibile per non notare – nelle cose più semplici, come i capelli radi (i capelli di sua madre, non di Iris) e la testa protesa, le caviglie gonfie, il ventre gonfio, i grossi denti eccessivamente svasati – quanto sua madre era più vicina alla morte di quella domenica di tre anni prima in cui aveva dovuto ricorrere a tutta la propria amabilità per mettere Steena a suo agio. A un certo punto, a metà del pomeriggio, gli parve proprio al limite del grosso cambiamento: lì lì per trasformarsi, come fanno le persone anziane, in una creaturina minuscola e deforme. Più parlava, più suo figlio credeva di vederlo. Cercò di non pensare al morbo che l'avrebbe uccisa, al funerale che le avrebbero fatto, agli elogi che si sarebbero letti e alle preghiere che si sarebbero recitate sulla sua tomba. Ma poi cercò di non pensare anche al suo continuare a vivere, alla propria partenza e al suo restare lì, con gli anni che passavano e lei che pensava a lui, ai suoi figli e a sua moglie, cercò di non pensare agli altri anni che sarebbero passati e al legame esistente tra loro che per lei, a causa del suo ripudio, sarebbe solo diventato più forte. Non poteva permettere né alla longevità di sua madre né alla sua mortalità di influire su quello che faceva, come non poteva permetterlo alle lotte che la famiglia di lei aveva dovuto sostenere a Lawnside, dove, in una baracca sconquassata, sua madre era nata ed era vissuta con i genitori e quattro fratelli fino al settimo anno, quando suo padre era morto. La famiglia di suo padre si trovava a Lawnside, nel New Jersey, dal 1855. Erano schiavi fuggitivi, portati a nord dal Maryland con la «ferrovia sotterranea» 5 e nel New Jersey sudoccidentale dai quaccheri. Il primo nome che i negri diedero a quel posto fu Free Haven. Allora non vi stava nessun bianco, e solo un pugno di bianchi vi abitava adesso, alla periferia di un paese di un paio di migliaia di abitanti dove quasi tutti discendevano dagli schiavi fuggiaschi protetti dai quaccheri di Haddonfield: il sindaco, il capo dei pompieri, il capo della polizia, l'esattore delle imposte, gli insegnanti delle scuole elementari, gli scolari. Ma nemmeno la singolarità di Lawnside come paese negro doveva incidere. Né doveva la singolarità di Gouldtown, sempre nel New Jersey ma più a sud, presso Cape May. Quello era il posto da dove veniva la famiglia di sua madre, e dove tutti andarono a vivere dopo la morte di suo padre. Un altro insediamento di persone di colore, molte delle quali quasi bianche, compresa sua nonna, tutte in qualche modo imparentate tra loro. «Tanto, tanto tempo prima», come gli spiegava quando Coleman era un ragazzo (semplificando e condensando come meglio poteva tutte le storie che aveva udito), uno schiavo era stato acquistato da un soldato dell'esercito rivoluzionario che era poi caduto nella guerra franco–indiana. Lo 5

Col nome di Underground Railroad («ferrovia sotterranea») si intendeva, prima del 1861, una rete clandestina di trasporti creata dagli antischiavisti per aiutare i neri che fuggivano dal Sud a stabilirsi negli stati liberi e nel Canada [N.d.T.].

schiavo badò alla vedova del soldato. Faceva tutto lui, dall'alba al tramonto non cessava di fare ciò che andava fatto. Spaccava e trasportava la legna, si occupava del raccolto, scavò e costruì un deposito per i cavoli e ve li stivò, ammassò le zucche, seppellì le mele, le rape e le patate sotto terra per l'inverno, mise l'avena e il frumento nel granaio, ammazzò il maiale, ne salò la carne, macellò la vacca e ne mise la carne in salamoia, finché un giorno la vedova lo sposò ed ebbero tre figli. E questi figli sposarono ragazze di Gouldtown le cui famiglie risalivano alle origini della colonia nel Seicento, famiglie che al tempo della Rivoluzione erano tutte imparentate per matrimonio e fittamente mischiate tra loro. L'uno o l'altro o tutti quanti, disse, discendevano dall'indiano del grande accampamento dei Lenape a Indian Fields che aveva sposato una svedese – da quelle parti svedesi e finlandesi avevano rimpiazzato gli originari coloni olandesi – e che da lei ebbe cinque figli; l'uno o l'altro o tutti quanti discendevano dai due fratelli mulatti portati dalle Indie Occidentali su un mercantile che aveva risalito il fiume da Greenwich a Bridgeton, dove furono messi sotto contratto dai proprietari terrieri che gli avevano pagato la traversata e che più tardi pagarono la traversata a due sorelle olandesi per farle venire dall'Olanda e diventare le loro mogli; l'uno o l'altro o tutti quanti discendevano dalla nipote di John Fenwick, il figlio di un baronetto inglese, ufficiale di cavalleria nell'esercito di Cromwell e membro della Società degli Amici, che morì nel New Jersey non tanti anni dopo che la New Cesarea (la regione tra l'Hudson e il Delaware ceduta dal fratello del re d'Inghilterra a due proprietari inglesi) diventasse il New Jersey. Fenwick morì nel 1683 e fu sepolto in qualche angolo della colonia personale che comprò, fondò e governò, e che si stendeva a nord di Bridgeton fino a Salem e a sud e a est fino al Delaware. La nipote diciannovenne di Fenwick, Elizabeth Adams, sposò un uomo di colore, Gould. «Quel nero che è stato la sua rovina» fu la descrizione di Gould fatta dal nonno nel testamento con cui escluse Elizabeth da ogni quota del patrimonio fino a quando «il Signore le aprirà gli occhi per consentirle di vedere l'abominevole trasgressione commessa contro di Lui». Da quello che si raccontava, solo uno dei cinque figli maschi di Gould ed Elizabeth raggiunse la maturità, e costui era Benjamin Gould, che sposò una finlandese, Ann. Benjamin morì nel 1777, l'anno dopo la firma, oltre il Delaware, a Filadelfia, della Dichiarazione d'Indipendenza, lasciando una figlia, Sarah, e quattro figli maschi, Anthony, Samuel, Abijah ed Elisha, dai quali Gouldtown prese il nome. Con l'aiuto di sua madre Coleman s'inoltrò nel labirinto della storia di famiglia risalente ai giorni dell'aristocratico John Fenwick, che per il Sudovest del New Jersey era ciò che William Penn fu per la parte della Pennsylvania comprendente Filadelfia (e dal quale certe volte sembrava che fosse discesa tutta Gouldtown); e poi tornò a sentirla, questa storia, mai però identica in tutti i dettagli, da prozie e prozii, da bisavoli e trisavoli, alcuni

dei quali quasi centenari, allorché, da bambini, lui, Walt ed Ernestine andavano a Gouldtown con i genitori per la riunione annuale: quasi duecento parenti dal Sudovest del New Jersey, da Filadelfia, da Atlantic City, da un posto lontano come Boston, che mangiavano pesce fritto, stufato di pollo, pollo fritto, gelato fatto in casa, pesche zuccherate, torte e pasticcini, che mangiavano i piatti familiari preferiti e giocavano a baseball e cantavano canzoni e parlavano del passato per tutta la giornata, raccontando storie sulle donne di quel tempo che filavano e cucivano, che facevano bollire la carne grassa di maiale e mettevano in forno enormi pagnotte per gli uomini che andavano a lavorare in campagna, che confezionavano i vestiti, che attingevano l'acqua dal pozzo, che somministravano medicine ricavate principalmente dai boschi, infusi d'erbe per curare il morbillo, sciroppi di melassa e di cipolle contro la pertosse. Storie di donne che col latte facevano degli ottimi formaggi, di donne che andavano in città, a Filadelfia, per diventare governanti, sarte e maestre, e di donne che erano, in casa, della massima ospitalità. Storie di uomini nei boschi, che mettevano trappole e cacciavano la selvaggina per procurarsi della carne, di agricoltori che aravano i campi, che facevano legna e sgrossavano i picchetti per le staccionate, che compravano, vendevano, macellavano il bestiame, e quelli prosperi, i commercianti, che vendevano alla fabbrica di stoviglie di Trenton tonnellate di spartina seccata da imballaggio, spartina che tagliavano nelle paludi salmastre di cui erano proprietari lungo le rive della baia e del fiume. Storie di uomini che lasciavano i boschi, la fattoria, la palude e le macchie di cedri per prestare servizio – alcuni come soldati bianchi, altri come soldati neri – nella Guerra Civile. Storie di uomini che prendevano il mare per forzare il blocco e che andavano a Filadelfia per diventare impresari di pompe funebri, tipografi, barbieri, elettricisti, fabbricanti di sigari e pastori della Chiesa Episcopale Metodista Africana: di uno che andò a Cuba con Teddy Roosevelt e i suoi Rough Riders, e dei pochi che si misero nei guai, scapparono via e non tornarono mai più. Storie di bambini come loro, spesso vestiti poveramente, a volte senza scarpe o senza paltò, che di notte dormivano nelle gelide stanze di case semplici, che nella calura estiva tagliavano e caricavano il fieno insieme agli uomini, ma che dai genitori imparavano le buone maniere e che a scuola erano catechizzati dai presbiteriani – dove imparavano anche a leggere e scrivere – e che mangiavano sempre tutto quello che volevano, anche a quei tempi, maiale e patate e pane e melassa e selvaggina, e che crescevano forti e sani e onesti. Ma uno non decide di non fare il pugile per la storia degli schiavi fuggiaschi di Lawnside, per tutto il ben di Dio che c'era alle riunioni di Gouldtown e per la complessità della genealogia americana della famiglia – o di non diventare insegnante di lettere classiche per la storia degli schiavi fuggiaschi di Lawnside, per tutto il ben di Dio che c'era alle riunioni di Gouldtown e per la complessità della genealogia americana della famiglia – non

più di quanto uno decida di non diventare, per queste ragioni, qualunque altra cosa. Molte cose svaniscono dalla vita di una famiglia. Lawnside è una, Gouldtown un'altra, la genealogia una terza; e Coleman Silk fu la quarta. In questi ultimi cinquant'anni o più, non era il primo bambino, d'altronde, che aveva sentito parlare della spartina che si raccoglieva nelle paludi salmastre per la fabbrica di stoviglie di Trenton o mangiato del pesce fritto e delle pesche zuccherate durante le riunioni familiari di Gouldtown, e che, diventando grande, era svanito: svanito, come dicevano in famiglia, «finché di lui si era perduta ogni traccia». «Perduto per tutta la sua gente»: ecco un altro modo che avevano di dirlo. Il culto degli antenati: così Coleman lo chiamava. Onorare il passato era una cosa; ma l'idolatria che è il culto degli antenati era un'altra cosa. Al diavolo quella catena! Quella sera, tornato al Village da East Orange, Coleman ricevette una telefonata di suo fratello da Asbury Park che precipitò la situazione più di quanto egli avesse previsto. – Non andare mai più a trovarla, – lo ammonì Walt, e nella voce gli vibrava qualcosa che suo fratello stentava a soffocare (qualcosa di tanto più terribile proprio perché stentava a soffocarlo), qualcosa che Coleman non aveva più sentito dai tempi di suo padre. C'è un'altra forza, in quella famiglia, che ora lo spinge definitivamente dalla parte opposta. L'atto fu compiuto nel 1953 da un audace giovanotto del Greenwich Village, da una persona specifica in un posto specifico in un momento specifico, ma ora egli sarà per sempre dalla parte opposta. Eppure, come scopre, il punto è proprio questo: la libertà è pericolosa. La libertà è pericolosissima. E non esiste nulla che rispetti per molto tempo le tue condizioni. – Non provarci nemmeno, a vederla. Né contatti, né telefonate. Niente. Mai. Mi hai sentito? – Walt disse: – Mai. Non azzardarti a mostrare ancora la tua faccia bianca come un giglio in quella casa!

Capitolo terzo Cosa fai col bambino che non sa leggere?

– Se Clinton se la fosse inculata, forse lei avrebbe tenuto la bocca chiusa. Bill Clinton non è l'uomo che dicono. Se nell'Ufficio Ovale l'avesse fatta voltare e glielo avesse messo nel culo, non sarebbe successo niente di tutto questo. – Be', non l'ha mai dominata. Non voleva rischiare. – Vedi, una volta arrivato alla Casa Bianca, non ha dominato più nessuno. Non poteva. Non dominava neanche la Willey. Ecco perché lei se l'è presa con lui. Una volta diventato presidente, ha perduto la capacità di dominare le donne che aveva nell'Arkansas. Finché è stato procuratore generale e governatore di un oscuro staterello, per lui era l'ideale. – Certo. Gennifer Flowers. – Che succede nell'Arkansas? Be', se cadi quando sei ancora nell'Arkansas, non cadi da una grandissima altezza. – Giusto. E tutti si aspettano che tu voglia il culo. C'è una tradizione. – Ma quando arrivi alla Casa Bianca, non puoi dominare. E quando non puoi dominare, la signorina Willey ti si mette contro, e la signorina Monica ti si mette contro. Per guadagnarsi la sua devozione bisognava farle il culo. Il patto dovrebbe essere questo. Questo dovrebbe essere il suggello. Invece non c'era nessun patto. – Be', Monica aveva paura. E' stata a un pelo dal non dire nulla, sai. Starr l'ha sopraffatta. Undici uomini con lei in quella camera d'albergo? Che le facevano delle proposte? E' stato uno stupro. E' stato uno stupro collettivo quello che Starr ha organizzato in quell'albergo. – Sì. Vero. Ma lei parlava con Linda Tripp. – Oh, certo. – Parlava con tutti. Perché appartiene a questa cultura di ebeti. Bla, bla, bla. Appartiene a questa generazione che è fiera della propria superficialità. La performance. La performance sincera è tutto. Sincera e vuota, completamente vuota. La sincerità che va in tutte le direzioni. La sincerità che è peggio della falsità e l'innocenza che è peggio della corruzione. Tutta l'avidità che si nasconde sotto la sincerità. E sotto il gergo. Questo splendido linguaggio che hanno tutti – in cui sembrano credere –, queste chiacchiere

sulla loro «mancanza di autovalorizzazione», quando l'unica cosa di cui sono sempre convinti, in realtà, è di avere diritto a tutto. L'impudenza la chiamano tenerezza, e la crudeltà è camuffata da «autostima» perduta. Anche Hitler mancava di autostima. Era il suo problema. E' una truffa, quella che questi ragazzi hanno messo in piedi. L'iperdrammatizzazione delle emozioni più insignificanti. Relazione. La mia relazione. Chiarire la mia relazione. Devono solo aprire bocca per mettermi con le spalle al muro. Il linguaggio che usano è una summa della stupidità degli ultimi quarant'anni. Conclusione. Eccone una. I miei studenti non sono capaci di stare in quel posto dove deve svolgersi il ragionamento. Conclusione! Sono fermi al racconto tradizionale, con il suo principio, la sua parte di mezzo e la fine: ogni esperienza, per quanto ambigua, per quanto intricata o misteriosa, deve prestarsi a questa normalizzazione, a questo cliché formalizzante da anchorman televisivo. Ogni ragazzo che dice «conclusione», lo boccio. Vogliono la conclusione? L'avranno. – Be', qualunque cosa Monica sia (un'assoluta narcisista, un'intrigante puttanella, l'ebrea più esibizionista nella storia di Beverly Hills, totalmente corrotta dai privilegi), lui doveva sapere tutto in anticipo. Poteva capirla. Se non riesce a capire Monica Lewinsky, come può capire Saddam Hussein? Se non riesce a capire ea fregare Monica Lewinsky, quell'uomo non dovrebbe fare il presidente. C'è una valida ragione per l'impeachment. No, lui ha visto. Ha visto tutto. Non credo sia rimasto ipnotizzato a lungo dalla sua versione. Che era completamente corrotta e completamente innocente, certo che l'ha visto. L'estrema innocenza era la corruzione: era la sua corruzione e la sua astuzia e la sua follia. Questa era la sua forza, questa combinazione. Che mancasse di profondità, questo era il fascino di Monica alla fine della sua giornata come comandante in capo. L'intensità della superficialità era il suo appeal. Per non dire la superficialità dell'intensità. Quelle storie sulla sua infanzia. Le smargiassate sulla sua adorabile caparbietà: «Ecco, avevo tre anni ma ero già una personalità». Sono certo che lui lo capiva, tutto quello che faceva che non corrispondeva alle illusioni di lei sarebbe stato un altro brutto colpo al suo amor proprio. Ma quello che non ha capito è che doveva farle il culo. Perché? Per farla stare zitta. Strano comportamento nel nostro presidente. Era la prima cosa che gli aveva mostrato. Glielo ha sbattuto in faccia. Glielo ha offerto. E lui non ha fatto niente. Non lo capisco, quest'uomo. Se gliel'avesse messo nel culo, dubito che lei avrebbe parlato con Linda Tripp. Perché non avrebbe voluto parlarne. – Però del sigaro voleva parlare. – E' diverso. Quelle sono bambinate. No, lui non le ha dato regolarmente una cosa di cui lei non avesse voglia di parlare. Una cosa di cui voleva che lei non parlasse. Ecco l'errore. – E' inculando che crei la devozione. – Non so se con questo le avrebbe chiuso la bocca. Non credo che chiu-

derle la bocca sia umanamente possibile. Questa non è una Gola Profonda. Questa è una Lingua Lunga. – Però devi ammettere che questa ragazza ha mostrato, dell'America, più di chiunque altro dai tempi di Dos Passos. Ha ficcato un termometro nel culo del paese. Gli Usa di Monica. – Il guaio era che da Clinton lei aveva quello che ha avuto da tutti questi tizi. Da lui Monica voleva qualcos'altro. Lui è il presidente, lei una terrorista dell'amore. Lei voleva che Clinton fosse diverso da quell'insegnante con cui aveva una relazione. – Sì, la gentilezza lo ha fregato. Interessante. Non la brutalità, ma la gentilezza. Stare non alle proprie, ma alle sue regole. Lei lo controlla perché lo vuole lui. Per forza. E' tutto sbagliato. Sai cosa le avrebbe detto Kennedy se fosse andata a chiedergli un posto? Sai cosa le avrebbe detto Nixon? Harry Truman, anche Eisenhower gliel'avrebbe detto. Il generale che ha vinto la seconda guerra mondiale, lui sì che sapeva non essere gentile. Le avrebbero detto che non solo non le avrebbero dato un lavoro, ma che nessuno le avrebbe ridato un lavoro finché fosse campata. Che non sarebbe riuscita ad avere un posto di tassista a Horse Springs, New Mexico. Niente. Che l'attività di suo padre sarebbe stata sabotata, e che sarebbe rimasto disoccupato anche lui. Che sua madre non avrebbe mai più lavorato, che suo fratello non avrebbe mai più lavorato, che nessuno dei suoi familiari avrebbe guadagnato un altro centesimo se si fosse azzardata ad aprire bocca sugli undici pompini. Undici. Neanche una dozzina, cifra tonda. Meno di una dozzina in più di due anni, non mi pare un requisito sufficiente per l'Heisman Trophy in depravazione, eh? – La prudenza, lo ha fregato la prudenza. Assolutamente. Si è comportato come un avvocato. – Non voleva lasciare in giro nessuna prova. Ecco perché non veniva. – Qui aveva ragione lui. Nel preciso momento in cui veniva, era finito. Lei aveva le prove. Ne prelevava un campione. La sborra fumante. Se lui le avesse fatto il culo, si sarebbe potuto risparmiare alla nazione questo terribile trauma. Risero. Erano in tre. – Lui, veramente, non si abbandonava mai. Sorvegliava la porta. La sua mente era là. Lei cercava di alzare la posta. – Non è così che fanno nella mafia? Tu dài a qualcuno una cosa di cui non possono parlare. In quel momento li hai in pugno. – Li coinvolgi in una mutua trasgressione e hai una mutua corruzione. Certo. – Allora il suo problema è di non essere abbastanza corrotto. – Oh, sì. Assolutamente. E non sofisticato. – E' tutto il contrario dell'accusa che gli muovono: che è riprovevole. Non è abbastanza riprovevole.

– Naturale. Se quello è il tuo comportamento, perché porre dei limiti? Non era piuttosto artificioso? – Una volta posto un limite, fai capire a tutti che hai paura. E quando hai paura, sei finito. La tua distruzione è più vicina del cellulare di Monica. – Non voleva perdere il controllo, capisci? Ricordate cosa disse? Non voglio essere schiavo di te, non voglio che tu per me diventi un vizio. Qui mi è sembrato sincero. – Io pensavo che fosse una battuta per adescare. – Non credo. Forse, da come la ricordava lei, sembra proprio una battuta per adescare, ma io credo che la motivazione... No, lui non voleva essere accalappiato. Lei andava bene, ma non era indispensabile. – Nessuno è indispensabile. – Ma non sapete qual era la sua esperienza. Lui non bazzicava prostitute e roba del genere. – Kennedy ci andava, con le prostitute. – Oh, sì. Roba forte. Questo Clinton, bo', è roba da scolaretti. – Non credo che fosse uno scolaretto quando era nell'Arkansas. – No, nell'Arkansas la misura era giusta. Qui i conti non tornavano. E questo deve averlo fatto arrabbiare. Presidente degli Stati Uniti, ha accesso a tutto e non lo può toccare. Un inferno. Specie con quella gattamorta di sua moglie. – Tu credi che sia una gattamorta? – Oh, sicuro. – Lei e Vince Foster? – Be', di qualcuno doveva innamorarsi, ma non avrebbe mai fatto follie perché lui era sposato. Riusciva a rendere noioso persino l'adulterio. Non sa che cosa sia, la trasgressione. – Tu credi che scopasse con Foster? – Sì. Oh, sì. – Adesso il mondo intero si è innamorato della gattamorta. Proprio di quella si vanno a innamorare. – Il colpo di genio di Clinton è consistito nel dare a Vince Foster un posto a Washington. Nel piazzarlo proprio lì. Nel fargli fare la sua parte per l'amministrazione. Questo sì che è stato un colpo di genio. Qui Clinton ha agito come un bravo boss mafioso, così aveva in mano qualcosa contro di lei. – Già. Lì ha fatto bene. Ma con Monica non si è comportato così. Vedete, c'era solo Vernon Jordan con cui poteva parlare di Monica. Che forse era la persona migliore con cui parlare. Ma non hanno capito. Perché credevano che lei stesse spiattellando tutto solo alle sue stupide amichette californiane. Okay. E allora? Ma che questa Linda Tripp, questo Iago, questo Iago travestito che Starr aveva infiltrato nella Casa Bianca... A questo punto Coleman si alzò da dov'era seduto e si diresse verso il

campus. Quello era il coro di commenti che aveva sentito suo malgrado mentre sedeva su una panchina dei giardini pubblici pensando alla mossa successiva. Non riconobbe le voci e, poiché gli voltavano le spalle e la loro panchina si trovava dietro l'albero, non poté vederli in faccia. La sua ipotesi era che fossero tre giovani professori assunti dall'università dopo la sua partenza, che si erano fermati, tornando da una partita di tennis sui campi comunali, nei giardini a bere acqua dalle bottigliette o caffè decaffeinato dai bicchierini di carta e a rilassarsi tra loro, parlando delle notizie del giorno su Clinton prima di andare a casa dalle mogli e dai bambini. Gli sembrarono scaltri sessualmente e sessualmente sicuri di sé in forme che non era abituato ad associare ai giovani assistenti, specie in un campus come quello di Athena. Discorsi piuttosto pesanti, piuttosto volgari per un gruppo di accademici. Peccato che ai suoi tempi di tipi tosti come quelli non ce ne fossero, in giro. Avrebbero potuto fargli comodo come linea di resistenza contro... No, no. Su al college, dove non tutti giocano a tennis tra loro, questo tipo di forza tende a dissiparsi in barzellette, quando non viene interamente e spontaneamente soppressa: se si fosse trattato di stringersi intorno a lui, forse non sarebbero stati più disponibili degli altri professori. In ogni modo, non li conosceva e non li voleva conoscere. Non conosceva più nessuno. Da due anni, ormai, per tutto il tempo in cui aveva scritto Spettri, si era isolato completamente dagli amici, dai colleghi e dai compagni di una vita, e così fino a oggi – fino a poco prima di mezzogiorno, dopo l'incontro con Nelson Primus che era finito, non male, ma malissimo, con un Coleman sbalordito dalle proprie parole ingiuriose – non si era praticamente mai allontanato da Town Street, come stava facendo adesso, per percorrere South Ward e poi, all'altezza del monumento alla Guerra Civile, affrontare la salita del campus. Molto probabilmente non avrebbe incontrato nessuno dei suoi conoscenti, tranne forse chi insegnava, in quel momento, ai pensionati che venivano, in luglio, a passare un paio di settimane al college nel quadro del programma Elderhostel, con le sue visite ai concerti di Tanglewood, alle gallerie di Stockbridge e al Norman Rockwell Museum. Furono proprio questi studenti estivi che Coleman vide per primi quando raggiunse la cresta del colle e da dietro il vecchio palazzo dell'astronomia sbucò nella corte quadrangolare interna screziata dal sole, in quel momento ancora più accademicamente kitsch della foto sulla copertina del catalogo di Athena. Andavano in mensa per il pranzo, procedendo a coppie lungo uno dei serpeggianti sentieri alberati del quadrangolo. Una processione di coppie: mariti e mogli insieme, coppie di mariti e coppie di mogli, coppie di vedove, coppie di vedovi, coppie di vedove e di vedovi in nuove combinazioni – o per tali Coleman le prese – che si erano formate dopo il loro incontro lì ai corsi dell'Elderhostel. Indossavano tutti leggeri abiti estivi, una profusione di camicie e camicette a vivaci sfumature pastello, calzoni bianchi o cachi chiaro, qualche tessuto a scacchi estivo dei Brooks

Brothers. La maggior parte degli uomini portavano berretti con la visiera, berretti di ogni colore, molti dei quali col marchio ricamato di squadre sportive professionali. Non si vedevano né sedie a rotelle, né grucce, né girelli, né bastoni. Gente attiva della sua età, apparentemente non meno in forma di lui, qualcuno un po' più giovane, qualcuno ovviamente più vecchio, ma che si godeva la libertà accordata dal pensionamento a quelli che erano tanto fortunati da respirare più o meno agevolmente, deambulare più o meno lietamente e pensare più o meno chiaramente. Ecco dove avrebbe dovuto essere. Accoppiato nel modo più opportuno. Appropriatamente. Appropriato. La parola in codice corrente per frenare ogni deviazione dalle sane linee di condotta e mettere così ognuno «a suo agio». Facendo non ciò che si giudicava che stesse facendo, ma invece facendo, pensò, ciò che veniva ritenuto appropriato da Dio solo sa quale dei nostri filosofi morali. Barbara Walters? Joyce Brothers? William Bennett? Dateline NBC? Se fosse stato ancora lì come professore, Coleman avrebbe potuto insegnare «Il comportamento appropriato nella tragedia greca classica», un corso che sarebbe finito prima di cominciare. Andavano a pranzo, passando poco lontano da North Hall, l'edificio coloniale di mattoni, ben stagionato e coperto di edera, dove per oltre un decennio Coleman Silk, come preside di facoltà, aveva occupato l'ufficio di fronte alle stanze del rettore. Il marchio architettonico del college, la torre campanaria esagonale di North Hall, coronata da una guglia coronata dalla bandiera (e che, dal basso dell'Athena propriamente detta, poteva essere vista nello stesso modo in cui una massiccia cattedrale europea viene scorta da coloro che cercano riparo nelle viuzze della città cresciuta ai suoi piedi), suonava mezzogiorno quando lui si sedette su una panchina ombreggiata dalla vecchia quercia nocchiuta più famosa della corte, si sedette e si sforzò, con calma, di riflettere sulle coercizioni del decoro. Sulla tirannia della decenza. Era difficile anche per lui, a metà del 1998, credere alla resistenza del decoro americano, e lui era quello che si considerava tiranneggiato: la briglia che il decoro è per la pubblica retorica, l'ispirazione che fornisce agli atteggiamenti personali, la persistenza, quasi dappertutto, di questo svirilizzante «virtuismo» da pulpito che H.L. Mencken identificava con la stupidità, che Philip Wylie definiva mammismo, che gli europei, astoricamente, chiamano puritanesimo americano, che i pari di Ronald Reagan chiamano valori irrinunciabili dell'America, e che mantiene un'ampia giurisdizione mascherandosi da qualche altra cosa: da ogni altra cosa. Come forza, il decoro è proteiforme, un dominatore in mille travestimenti, che s'infiltra, se necessario, come civica responsabilità, dignità Wasp, diritti delle donne, orgoglio nero, fedeltà etnica o sensibilità etica ebraica gonfia di emozioni. Non è come se Marx o Freud o Darwin o Stalin o Hitler o Mao non fossero mai esistiti: è come se non fosse mai esistito Sinclair Lewis. E' come, pensava Coleman, se Babbitt non fosse mai stato scritto.

E' come se nella coscienza, a provocarne il minimo turbamento, non fosse mai stato ammesso neppure quel livello assolutamente elementare di pensiero immaginativo. Un secolo di distruzioni diverso nei suoi eccessi da ogni altro viene a intristire la razza umana: decine di milioni di persone comuni condannate a patire una privazione dopo l'altra, un'atrocità dopo l'altra, un male dopo l'altro, mezzo mondo, o più di mezzo, sottoposto a patologico sadismo come politica sociale, intere società organizzate e ostacolate dalla paura di violente persecuzioni, la degradazione della vita individuale raggiunta in una misura ignota nella storia, nazioni vinte e ridotte in schiavitù da criminali ideologici che le privano di tutto, intere popolazioni così demoralizzate da essere incapaci di alzarsi dal letto la mattina col minimo desiderio di affrontare la giornata... Tutte le terribili pietre di paragone offerte da questo secolo, ed eccoli levarsi e prendere le armi per una Faunia Farley. Qui in America, o è Faunia Farley o è Monica Lewinsky! Il lusso di queste vite così turbate dai comportamenti inappropriati di Clinton e Silk! Questa, nel 1998, è la depravazione che devono sopportare. Questa, nel 1998, è la loro tortura, il loro tormento e la loro morte spirituale. La fonte della loro più grande disperazione morale, Faunia che mi fa un pompino e io che scopo Faunia. Sono un depravato non soltanto per aver detto una volta la parola «spettri» in un'aula piena di studenti bianchi, e di averla detta, badate, non mentre stavo lì a riesaminare l'eredità della schiavitù, le invettive delle Pantere Nere, le metamorfosi di Malcolm X, la retorica di James Baldwin o la popolarità radiofonica di Amos 'n' Andy, ma mentre facevo l'appello abituale. Sono un depravato non soltanto a causa di... Tutto questo dopo meno di cinque minuti passati seduto su una panchina a contemplare il grazioso edificio dove una volta era stato preside di facoltà. Ma l'errore era stato commesso. Coleman era tornato. Era lì. Era tornato sul colle dal quale lo avevano cacciato, e tornato era il suo disprezzo per gli amici che non si erano stretti intorno a lui e per i colleghi che non si erano curati di appoggiarlo e per i nemici che avevano demolito così in fretta l'intero edificio della sua carriera professionale. Il bisogno di smascherare la capricciosa crudeltà della loro virtuosa idiozia lo riempiva di rabbia. Era tornato sulla collina in preda a questa rabbia e poteva sentirne la violenza che annebbiava la ragione ed esigeva da lui che facesse subito qualcosa. Delphine Roux. Si alzò e si avviò verso il suo ufficio. A una certa età, pensava, sarebbe meglio, per la salute, non fare quello che sto per fare. A una certa età sarebbe bene che la prospettiva fosse temperata dalla moderazione, se non dalla rassegnazione, se non da un'aperta capitolazione. A una certa età uno dovrebbe vivere senza rimuginare troppo sui torti del passato, e senza invitare alla resistenza nel presente incarnando una sfida alle fedi accettate. Eppure, rinunciare ad avere un ruolo diverso da quello socialmente assegnato, asse-

gnato in questo caso al rispettabile pensionato... A settantun anni questa è sicuramente la cosa più appropriata, e dunque, per Coleman Silk, come tanto tempo prima aveva dimostrato lui stesso con la necessaria crudeltà verso sua madre, è una cosa inaccettabile. Non era un anarchico inasprito come Gittelman, quel pazzo del padre di Iris. Non era affatto un sovversivo o un agitatore. Non era matto. E non era un radicale o un rivoluzionario, nemmeno sul piano intellettuale o filosofico, a meno che non sia rivoluzionario credere che non tenere in nessun conto le più restrittive demarcazioni di una società prescrittiva e rivendicare indipendentemente una libera scelta personale che resti entro i limiti del codice fosse qualcosa di diverso da un fondamentale diritto umano; a meno che non sia rivoluzionario, quando sei diventato maggiorenne, rifiutarsi di accettare automaticamente il contratto che ti viene presentato da firmare quando vieni al mondo. Era già passato dietro North Hall e stava dirigendosi verso quella specie di lungo campo da bocce che era il prato che portava a Barton Hall e all'ufficio di Delphine Roux. Non aveva idea di cos'avrebbe detto se l'avesse sorpresa dietro la scrivania in un giorno di mezza estate smagliante come quello, col semestre autunnale che doveva cominciare solo tra altre sei o sette settimane; e non lo scoprì, perché, prima di avvicinarsi al largo sentiero di mattoni che girava intorno a Barton Hall, notò, alle spalle di North Hall, raccolto all'ombra di un albero su un fazzoletto di terreno erboso adiacente a una scala che portava al seminterrato, un gruppo di cinque dipendenti del college, con la camicia e i calzoni regolamentari da custode di un marrone Ups, che si spartivano una pizza estratta dalla scatola portata da un fattorino e ridevano di cuore della battuta di qualcuno. L'unica donna tra i cinque e il centro dell'attenzione conviviale dei colleghi – quella che aveva detto la battuta o formulato la spiritosaggine o stuzzicato i compagni, e che era anche quella, guarda caso, che rideva più sguaiatamente – era Faunia Farley. Gli uomini avevano l'aria di essere sui trent'anni o giù di lì. Due avevano la barba, e uno dei barbuti, che sfoggiava una lunga coda di cavallo, era particolarmente grosso e bovino. Era l'unico in piedi, per meglio dominare, si sarebbe detto, una Faunia seduta per terra, con le lunghe gambe tese davanti a sé e la testa rovesciata all'indietro nell'ilarità del momento. I suoi capelli furono, per Coleman, una sorpresa. Erano sciolti sulle spalle. Nella sua esperienza, erano immancabilmente tirati strettamente sulla nuca e legati con un elastico: Faunia li scioglieva solo a letto, quando toglieva l'elastico per lasciarseli spiovere sulle spalle nude. Con i ragazzi. Quelli dovevano essere «i ragazzi» dei quali Faunia parlava ogni tanto. Uno di essi aveva appena divorziato, l'ex meccanico senza speranze del garage che le aggiustava la Chevrolet e che la portava avanti e indietro dal lavoro nei giorni in cui il dannato macinino, qualunque cosa

tentasse lui, non partiva; uno voleva portarla a vedere un film porno le sere in cui sua moglie faceva l'ultimo turno nello scatolificio di Blackwell; e uno era così innocente che non sapeva cosa fosse un ermafrodito. Quando durante la conversazione saltavano fuori i ragazzi, Coleman ascoltava senza commenti, senza mostrare alcun fastidio per ciò che Faunia diceva di loro, anche se si faceva molte domande sull'interesse che nutrivano per lei, data la sostanza dei discorsi che la donna riferiva. Ma poiché Faunia non la tirava troppo in lungo, e poiché lui non la incoraggiava con domande su di loro, i ragazzi non facevano a Coleman l'impressione che avrebbero fatto, diciamo, a Lester Farley. Certo, avrebbe anche potuto essere un po' meno disinvolta e prestarsi con maggiore riluttanza ad alimentare le loro fantasie, ma anche quando era costretto a pensare queste cose Coleman riusciva facilmente a trattenersi. Faunia poteva parlare con chiunque, con uno scopo o senza scopo finché voleva, e, quali che fossero le conseguenze, avrebbe dovuto sopportarle. Non era sua figlia. Non era nemmeno la sua «ragazza». Era... quello che era. Ma osservandola non visto da dov'era tornato ad acquattarsi dietro il muro in ombra di North Hall, non era tanto facile assumere una posizione così distaccata e tollerante. Perché ora Coleman vedeva non soltanto ciò che vedeva invariabilmente (le conseguenze, per Faunia, dell'avere ottenuto così poco nella vita), ma forse il motivo per cui così poco era stato ottenuto; dalla sua posizione di vantaggio, a non più di quindici metri di distanza, poteva osservare quasi microscopicamente come, quando non c'era lui a darle l'imbeccata, Faunia invece la prendesse dall'esempio più rozzo a portata di mano, dal più becero, da quello le cui aspettative erano umanamente le più meschine, e che aveva di se stesso il concetto più superficiale. Poiché, per quanto intelligente tu possa essere, Voluptas in sostanza fa in modo che si avveri tutto ciò che vuoi pensare, certe possibilità non vengono mai neanche concepite, né tanto meno congetturate vigorosamente, e valutare correttamente le qualità della tua Voluptas è l'ultima cosa che sei in grado di fare... Fino al momento, cioè, in cui scivoli tra le ombre e la vedi rotolarsi sull'erba sulla schiena, con le ginocchia piegate e un po' aperte, il formaggio della pizza che le cola su una mano, una Diet Coke brandita nell'altra, e ridere a crepapelle – di cosa? dell'ermafroditismo? – mentre sopra di lei si staglia, nella persona di un meccanico fallito, tutto ciò che è l'antitesi del tuo modo di vivere. Un altro Farley? Un altro Les Farley? Forse nulla di tanto sinistro, ma sicuramente più un surrogato di Farley che di lui. Una scena che sarebbe stata priva di significato se Coleman vi avesse assistito un giorno d'estate di quando era preside di facoltà (come gli era indubbiamente capitato un sacco di volte), una scena che allora gli sarebbe apparsa non soltanto innocua ma gradevolmente espressiva del piacere che si può ricavare da uno spuntino all'aperto in una bella giornata, ora traboc-

cava di significato. Dove né Nelson Primus, né la sua diletta Lisa, e neppure la denuncia sibillina anonimamente spedita da Delphine Roux, lo avevano convinto di alcunché, questa scena di secondaria importanza sul prato alle spalle di North Hall gli mostrò finalmente la faccia in ombra della sua vergogna. Lisa. Lisa e i suoi bambini. La piccola Carmen. Ecco chi gli venne in mente, la piccola Carmen: sei anni ma, come diceva Lisa, simile a un bimbo molto più piccino. – E' carina, – diceva, – ma è come un bebè –. E ado rabilmente carina Carmen era quando la vide lui: una pelle color caffellatte chiaro, capelli neri come la pece in due rigide treccine, occhi diversi da quelli che Coleman avesse mai visto in un altro essere umano, occhi come carboni azzurrati dal calore e accesi dall'interno, un corpo infantile scattante e flessibile, ben coperto da un paio di jeans e da scarpe da tennis in miniatura, da calzini colorati e dal bianco tubo di una T–shirt striminzito quasi come un curapipe; una vispa bambina che sembrava attenta a tutto, e specialmente a lui. – Questo è il mio amico Coleman, – disse Lisa quando Carmen entrò lemme lemme nella stanza, con un sorriso d'importanza beffardo e divertito sulla faccia appena lavata. – Ciao, Carmen, – disse Coleman. – Voleva solo vedere cosa facciamo, – spiegò Lisa. – Okay, – disse Carmen abbastanza amabilmente, ma lo studiava non meno attentamente di quanto Coleman studiasse lei, in apparenza proprio con quel sorriso. – Faremo quello che facciamo sempre, – disse Lisa. – Okay, – disse Carmen, ma ora stava provando su di lui una versione un po' più seria del sorriso. E quando si voltò per collocare le lettere mobili di plastica magnetizzata sulla piccola lavagna e Lisa le chiese di farle scivolare qua e là per formare le parole «mela», «mano», «mento» e «moto» («Te lo dico sempre, – stava dicendo Lisa, – devi guardare le prime lettere. Vediamo se sai leggere la prima lettera. Leggila col dito»), Carmen continuò periodicamente a voltare prima la testa, poi tutto il corpo, per guardare Coleman e rimanere in contatto con lui. – Ogni cosa è una distrazione, – disse Lisa a suo padre, sottovoce. – Coraggio, signorina Carmen. Su, amore. Lui è invisibile. – Cosa? – Invisibile, – ripeté Lisa, – non lo puoi vedere –. Carmen rise: – Sì che posso vederlo. – Su. Ascolta quello che dico. Le prime lettere. Quella. Ben fatto. Ma devi leggere anche il resto della parola. Giusto? La prima lettera... E ora il resto della parola. Bene. «Mento». Bene. Cos'è questa? La sai. Quella la conosci. «Moto». Bene –. Era la venticinquesima settimana del programma di sostegno, il giorno in cui Coleman venne a sedersi nell'aula accanto a lei, e anche se Carmen aveva fatto dei progressi, non erano granché. Coleman ricordava come aveva lottato con la parola «tuo» nel libro illustrato di fiabe dal quale leggeva ad alta voce – graffiandosi con le dita intorno agli occhi, strizzando e appallottolando la maglietta sulla pancia, attorcigliando le gambe intorno al piolo della seggiolina, scivolando lentamente ma costantemente col sedere sempre più lontano dal fondo del-

la sedia – e ancora era incapace di riconoscere la parola «tuo» o di pronunciarla. – Siamo in marzo, papà. Venticinque settimane. E' passato troppo tempo per avere ancora dei problemi con la parola «tuo». E' passato troppo tempo per confondere «potuto» con «patata», ma a questo punto mi accontenterei di «tuo». Dovrebbe fare venti settimane, e via. E' stata all'asilo, avrebbe dovuto imparare qualche parola. Ma quando, in settembre, le ho mostrato una lista di parole, e allora andava in prima elementare, ha detto: «Queste cosa sono?» Non sapeva nemmeno che parole erano. E le lettere? L'«h» non la conosceva, la «j» non la conosceva, confondeva la «u» con la «c». Si capisce perché lo faceva, si somigliano, visivamente, ma ha ancora dei problemi venticinque settimane dopo. La «m» e la «w». La «i» e la «l». La «g» e la «d». Sempre problemi, per lei. E' tutto un problema, per lei. – Mi sembri piuttosto scoraggiata, – disse Coleman. – Be', ogni giorno per mezz'ora? E' un mucchio di tempo. E' un mucchio di lavoro. Dovrebbe leggere a casa, ma a casa c'è una sorella di sedici anni che ha appena avuto un bambino, e i genitori si dimenticano o se ne fregano. Sono immigrati, per loro questa è la seconda lingua, non gli riesce facile leggere in inglese ai loro figli, anche se a Carmen non leggono nemmeno in spagnolo. E questa è la situazione che devo affrontare tutti i giorni. Solo vedere se un bambino sa come prendere un libro: io glielo do, un libro come questo, con una grossa illustrazione a colori sotto il titolo, e dico: «Mostrami il davanti del libro». Alcuni bambini lo sanno, ma la maggior parte no. Le parole stampate non significano nulla, per loro. E... – disse, con un sorriso stanco che non aveva nulla del fascino di quello di Carmen, – i miei bambini non sono considerati inabili all'apprendimento. Carmen non guarda le parole mentre leggo. Se ne infischia. Ed è per questo che alla fine della giornata sei distrutta. Anche gli altri insegnanti hanno compiti difficili, lo so, ma alla fine di una giornata con una Carmen dopo l'altra torni a casa emotivamente svuotata. In quel momento non so più leggere nemmeno io. Non riesco neanche a rispondere al telefono. Mangio qualcosa e vado a letto. Mi piacciono, questi bambini. Amo questi bambini. Ma è peggio di un esaurimento... E' massacrante. Ora Faunia si era seduta sull'erba, scolando il fondo della lattina, mentre uno dei ragazzi – il più giovane, il più magro e il più infantile di loro, che aveva un'assurda barbetta sul mento e portava, con l'uniforme bruna, una bandana a scacchi rossi e quelli che sembravano stivali da cowboy col tacco alto – raccoglieva i rifiuti e li ficcava in un sacco per la spazzatura, e gli altri tre se ne stavano in disparte, al sole, fumando un'ultima sigaretta per ciascuno prima di riprendere il lavoro. Faunia era sola. E silenziosa, adesso. Là seduta con aria grave con la lattina vuota e pensando a... Cosa? Ai due anni in cui aveva fatto la cameriera giù in Florida quando aveva sedici e diciassette anni, agli uomini d'affari in pensione che venivano a mangiare senza le mogli e che le chiedevano se

non le sarebbe piaciuto abitare in un bell'appartamento e avere bei vestiti e una bella Pinto nuova e conti aperti in tutti i negozi di abbigliamento di Bal Harbour e nella gioielleria e all'istituto di bellezza, e in cambio non aver altro da fare che essere carina qualche sera la settimana e una volta ogni tanto nei weekend? Non una, due, tre, ma quattro proposte come questa solo nel primo anno. E poi la proposta del cubano. Lei guadagna cento dollari ogni cliente, e niente tasse. Per una bionda magra e con due tettone come lei, una ragazza alta e bella come lei, intraprendente, ambiziosa e tutt'altro che priva di coraggio, in minigonna, top e stivali, mille verdoni per notte non sarebbero niente. Un anno, due, e se poi vuole farlo, va in pensione: se lo può permettere. – E non l'hai fatto? – le chiese Coleman. – No. Uhm... Ma non credere che non ci abbia pensato, – disse lei. – Tutta la merda di quel ristorante, quella gente disgustosa, i cuochi squilibrati, un menu che non so leggere, ordinazioni che non so scrivere, mandare tutto a memoria... Non era uno scherzo. Ma, se non so leggere, so contare. So fare le somme e le sottrazioni. Non so leggere le parole, ma so chi è Shakespeare. So chi è Einstein. So chi ha vinto la Guerra Civile. Non sono mica stupida. Sono solo analfabeta. Una sottile distinzione, ma c'è. I numeri sono un'altra cosa. I numeri, credi a me, li conosco. Non credere che non pensassi che poteva non essere una cattiva idea –. Ma Coleman non aveva bisogno di queste spiegazioni. Non soltanto era sicuro che a diciassette anni lei avesse pensato che fare la puttana poteva essere una buona idea, ma immaginava che fosse un'idea che non si era limitata a prendere in considerazione. – Cosa fai col bambino che non sa leggere? – gli aveva chiesto Lisa, disperata. – E' la chiave di tutto, dunque devi far qualcosa, ma questo mi sta distruggendo. Il secondo anno dovrebbe essere migliore. Il terzo migliore del secondo. E questo è il mio quarto anno. – E non è migliore? – chiese lui. – E' dura. E' così dura. Ogni anno diventa più dura. Ma se il sostegno individuale non funziona, cosa fai? – Be', cos'aveva fatto, lui, con la bambina che non sapeva leggere? L'aveva fatta diventare la sua amante. Cos'aveva fatto Farley? L'aveva usata come un sacco da boxeur. E il cubano? Aveva cercato di trasformarla nella sua puttana, o in una di loro: così credeva Coleman, il più delle volte. La sua puttana? E per quanto tempo? Era a questo che Faunia stava pensando prima di alzarsi per tornare a North Hall a finire di pulire i corridoi? Pensava forse a quanto era durato tutto questo? La madre, il patrigno, la fuga dal patrigno, le città del Sud, le città del Nord, gli uomini, le botte, i posti di lavoro, il matrimonio, la fattoria, la mandria, il fallimento, i figli, i due figli che le erano morti? Non c'è da me ravigliarsi se per lei una mezz'oretta al sole a mangiare una pizza coi ragazzi è il paradiso. – Questo è il mio amico Coleman, Faunia. E' solo venuto a vedere. – Okay, – dice Faunia. Indossa uno scamiciato di velluto a coste verde, fresche calze bianche e lucide scarpe nere, e non è affatto vivace come

Carmen: composta, educata, sempre un po' depressa, una bella bimba bianca della media borghesia con i lunghi capelli biondi fermati ai lati della testa da due mollette a forma di farfalla che, diversamente da Carmen, non mostra di avere per lui, dopo che gliel'hanno presentato, il minimo interesse, la minima curiosità. – Salve, – borbotta docilmente, e torna, ubbidiente, a spostare le lettere magnetiche, spingendo insieme le «q», le «r», le «n», le «s» e, in un altro angolo della lavagna, raggruppando tutte le vocali. – Usa tutt'e due le mani, – le dice Lisa, e lei ubbidisce. – Queste cosa sono? – chiede Lisa. E Faunia le legge. Imbrocca tutte le lettere. – Prendiamo una cosa che sa, – dice Lisa a suo padre. – Scrivi «mia», Faunia. Faunia ubbidisce. Faunia scrive «mia». – Ben fatto. Adesso una cosa che non sa. Scrivi «via». Faunia guarda le lettere a lungo, fissandole, ma non accade nulla. Faunia non fa niente. Niente. Aspetta. Aspetta che accada la cosa successiva. Per tutta la vita ha aspettato che accadesse la cosa successiva. Accade sempre. – Voglio che cambi la prima vocale, signorina Faunia. Coraggio. Lo sai. Qual è la prima consonante di «via»? – «V» –. Faunia toglie la «m» e al suo posto mette una «v». – Ben fatto. Adesso scrivi «zia». Faunia ubbidisce. Zia. – Bene. Ora leggila col dito. Faunia muove il dito sotto ogni lettera pronunciandone distintamente il suono. – Z... i... a. – E' sveglia, – dice Coleman. – Sì, ma non è tanto difficile. In altre parti dello stanzone ci sono altri tre bambini con altri tre insegnanti di sostegno, e così Coleman, tutt'intorno a lui, può udire le vocine che, leggendo, salgono e scendono nella solita cantilena infantile indipendente dal contenuto, e sente gli altri insegnanti che dicono: – Lo sai... «O» come ombrello... «O», «o» – e: – Lo sai... «gna», lo sai, «gna»... – e: – Lo sai... «E»... Bene, ben fatto, – e quando si guarda intorno vede che gli altri bambini interrogati sono tante Faunie. Dappertutto ci sono dei cartelloni con l'alfabeto, con immagini di oggetti per illustrare ogni lettera, e dappertutto ci sono lettere di plastica da prendere in mano, di diversi colori per aiutarti a formare foneticamente le parole una lettera alla volta, e ammucchiati dappertutto ci sono dei libretti molto facili che narrano le storie più semplici: «...Venerdì siamo andati alla spiaggia. Sabato siamo andati all'aeroporto». «"Papà Orso, Bebè Orso è con te?" "No", disse Papà Orso». «Quel mattino un cane si mise ad abbaiare e Sara si spaventò. "Cerca di essere una bambina coraggiosa, Sara", disse la mamma». Oltre a tutti questi

libri e a tutte queste storie e a tutte queste Sare e a tutti questi cani e a tutti questi orsi e a tutte queste spiagge ci sono quattro insegnanti, quattro insegnanti tutti per Faunia, e non riescono ancora a insegnarle a leggere come dovrebbe. – E' in prima, – sta dicendo Lisa a suo padre. – Se lavoriamo tutt'e quattro insieme a lei ogni giorno per tutta la giornata, speriamo di farla arrivare al livello degli altri entro la fine dell'anno. Ma è difficile riuscire a motivarla. – E' carina, – dice Coleman. – Sì? La trovi carina? Ti piace il tipo? E' il tuo tipo, papà, quella carina che legge così piano con i lunghi capelli biondi, la volontà spezzata e le mollette a forma di farfalla? – Non ho detto questo. – Non era necessario. Ti ho osservato mentre eri qui con lei, – e indica gli angoli della stanza dove le quattro Faunie siedono in silenzio davanti alla lavagna, formando e riformando con le lettere di plastica colorata le parole «mia», «via» e «zia». – La prima volta che ha letto «zia» col dito, non riuscivi a staccarle gli occhi di dosso. Be', se questo ti eccita, avresti dovuto essere qui in settembre. In settembre sbagliava nome e cognome. Appena arrivata dall'asilo, e l'unica parola della lista che riusciva a riconoscere era «mia». Non capiva che un testo stampato contiene un messaggio. Non distingueva la pagina sinistra dalla destra. Non conosceva «Capelli d'Oro e i tre orsi». «Conosci "Capelli d'Oro e i tre orsi", Faunia?» «No». Il che significa che l'esperienza dell'asilo – perché queste sono le cose che gli leggono là, fiabe, filastrocche – non è stata molto buona. Oggi conosce «Cappuccetto Rosso», ma poi? Lasciamo stare. Oh, se tu l'avessi vista in settembre, dopo il fiasco dell'asilo, ti garantisco, papà, che ti avrebbe fatto impazzire. Cosa fai con la bambina che non sa leggere? La bambina che sta facendo un pompino su un pick–up parcheggiato nel vialetto mentre su, in un appartamentino sopra un garage, i suoi figli piccoli dovrebbero dormire con la stufa accesa: due bambini trascurati, kerosene che s'incendia, e lei è con questo tizio sul suo camioncino. La bambina che da quando aveva quattordici anni non ha fatto che scappare, che per tutta la vita ha cercato di scappare dalla sua inspiegabile esistenza. La bambina che si sposa, per la stabilità e la protezione che le darà lui, un reduce inebetito dalla guerra che ti salta alla gola se fai tanto da girarti nel sonno. La bambina che è falsa, la bambina che si nasconde e dice bugie, la bambina che non sa leggere che sa leggere, che finge di non saper leggere, si addossa di buon grado questa paralizzante lacuna per meglio impersonare un membro di una sottospecie alla quale non appartiene e non deve appartenere ma alla quale, per tutte le ragioni sbagliate, vuole fargli credere di appartenere. Vuole farsi credere di appartenere. La bambina la cui esistenza è diventata un'allucinazione a set-

te anni, una catastrofe a quattordici e un disastro dopo di allora, la cui vo cazione non è essere una cameriera o una prostituta o una contadina o una bidella ma l'eterna figliastra di un patrigno dissoluto e la prole indifesa di una madre ossessionata da se stessa, la bambina che non si fida di nessuno, che in ognuno vede l'imbroglione, e tuttavia non ha nessuno che la protegga, la cui capacità di resistere, senza farsi intimidire, è enorme, mentre minima è la sua presa sulla vita, la bellicosa figlia prediletta della sfortuna, la bambina alla quale è capitato tutto ciò che di odioso poteva capitarle e il cui destino non mostra di cambiare, e che però lo eccita e lo infiamma come nessun'altra dopo Steena, non la più ma, moralmente parlando, la meno repellente delle persone che conosce, quella da cui si sente attratto per aver puntato così a lungo nella direzione opposta – per tutto ciò che ha perso andando nella direzione opposta – e perché il senso d'integrità che è sempre stato alla base della sua vita e che lo dominava in precedenza è proprio ciò che lo sta spronando adesso, l'improbabile amica intima con cui Coleman realizza un'unione non meno spirituale che fisica, che tutto è tranne un balocco sul quale lui getta il suo corpo due volte la settimana per sostenere la propria natura animale, che per lui è un compagno d'armi più di chiunque altro sulla terra. E cosa fai con una bambina come questa? Trovi un telefono pubblico più presto che puoi e rettifichi il tuo stupido errore. Coleman pensa che Faunia stia pensando a quanto tempo è durato tutto questo, la madre, il patrigno, la fuga dal patrigno, le città del Sud, le città del Nord, gli uomini, le botte, i posti di lavoro, il matrimonio, la fattoria, la mandria, il fallimento, i figli, la morte dei figli... E forse è vero. Forse è vero, anche se, sola ora sull'erba mentre i ragazzi fumano e raccolgono gli avanzi del pasto, Faunia pensa che sta pensando alle cornacchie. Ci pensa molto spesso, alle cornacchie. Le cornacchie sono dappertutto. Fanno il nido nel bosco non lontano dal letto dove dorme, sono nel pascolo quando lei è là fuori ad aprire il cancello alle vacche, e oggi gracchiano in tutto il campus, e così, invece di pensare a ciò che sta pensando nel modo in cui Coleman pensa che stia pensando, Faunia pensa alla cornacchia che una volta gironzolava intorno al negozio di Seeley Falls quando, dopo l'incendio e prima di trasferirsi nella fattoria, lei affittò la camera ammobiliata so pra il negozio per cercare di nascondersi da Farley, la cornacchia che gironzolava nel parcheggio tra l'ufficio postale e il negozio, la cornacchia che qualcuno aveva addomesticato perché era stata abbandonata o perché sua madre era stata uccisa: cosa l'avesse resa orfana Faunia non lo seppe mai. E adesso era stata abbandonata per la seconda volta e si era messa a gironzolare in quel parcheggio, dove durante la giornata prima o poi passavano quasi tutti. Questa cornacchia creò un sacco di problemi a Seeley Falls,

perché cominciò ad attaccare la gente che entrava nell'ufficio postale, mirando alle mollette nei capelli delle bambine e così via (come fanno le cornacchie, perché è nella loro natura raccogliere oggetti luccicanti, pezzi di vetro e roba del genere), e così la direttrice dell'ufficio postale, dopo essersi consultata con qualche concittadino, decise di portarla alla Audubon Society, dove la cornacchia fu messa in una gabbia e fatta uscire solo saltuariamente per un volo; non potevano liberarla perché un uccello che ama gironzolare nei parcheggi è semplicemente incapace di adattarsi alla vita dei boschi. La voce di quella cornacchia. Faunia la ricorda a tutte le ore del giorno e della notte, quando è sveglia, quando dorme e quando soffre d'insonnia. Aveva una voce strana. Non come la voce delle altre cornacchie, forse perché non era cresciuta insieme alle altre cornacchie. Subito dopo l'incendio, andavo a trovare quella cornacchia alla Audubon Society, e ogni volta che la visita era finita e le voltavo le spalle per andarmene, lei mi chiamava con quella voce. In gabbia, certo, ma data la situazione era meglio così. Nelle gabbie c'erano altri uccelli che la gente aveva portato lì perché non potevano più vivere in libertà. C'era una coppia di piccoli gufi. Creature maculate che sembravano giocattoli. Andavo a trovare anche i gufi. E uno smeriglio con un grido lacerante. Bei volatili. E poi mi sono trasferita laggiù e, sola com'ero, ho imparato a conoscere le cornacchie come mai prima d'allora. E loro hanno imparato a conoscere me. Il loro humour. E' di questo che si tratta? Forse non è vero humour. Ma a me pare che lo sia. Come passeggiano. Come piegano la testa. Come se la prendono con me se non ho pane per loro. Faunia, va' a prendere il pane. Si pavoneggiano. Dettano legge agli altri uccelli. Sabato, dopo la conversazione con la poiana vicino a Cumberland, sono tornata a casa e ho sentito queste due cornacchie nel frutteto. Sapevo che stavano macchinando qualcosa. Quei gridi allarmanti. In effetti ho visto tre uccelli: due cornacchie che, gracchiando, scacciavano la poiana. Forse proprio quella con la quale avevo parlato qualche minuto prima. Che la inseguivano. Evidentemente la poiana ne stava combinando una delle sue. Ma prendersela con una poiana? E' una buona idea? E' un modo per dare dei punti alle altre cornacchie, ma non so se io lo farei. Anche se sono in due, possono avere la meglio su una poiana? Bastarde aggressive. Quasi sempre ostili. Buon pro gli faccia. Un giorno ho visto una fotografia: una cornacchia che attaccava un'aquila e le faceva una scenata. L'aquila se ne sbatteva le palle. Non la vedeva nemmeno. Ma la cornacchia è uno spettacolo. Come vola, per esempio. Non sono belle come i corvi, quando i corvi volano e fanno quelle bellissime, meravigliose acrobazie. Devono staccare da terra una grossa fusoliera, eppure non hanno affatto bisogno di una pista di decollaggio lunga. Bastano pochi passi. Le ho studiate. Più che altro, si tratta di fare un grosso sforzo. Fanno questo sforzo, e via. Quando portavo i bambini a mangiare da Friendly, quattro anni fa, ce n'erano milioni. Al Friendly di Blackwell in East Main

Street. Nel tardo pomeriggio. Prima che facesse buio. Milioni, nel parcheggio. C'era il congresso delle cornacchie, da Friendly. Cos'è questa affinità tra le cornacchie e i parcheggi? Vorrei sapere di che si tratta. Non lo sapremo mai. In confronto alle cornacchie, gli altri uccelli sono piuttosto ottusi. Sì, le ghiandaie hanno questa straordinaria elasticità. Camminano come se fossero sopra un trampolino. E' bello. Ma anche le cornacchie sono elastiche, e in più hanno questo modo di avanzare a petto in fuori. Veramente eccezionale. Quando voltano la testa da sinistra a destra, per studiare la situazione. Oh, sono la fine del mondo. Non fanno una piega. Come gracchiano. Il rumore che fanno. Ascolta. Ascolta. Oh, mi piace da matti. Quel loro modo di stare sempre all'erta. Il grido forsennato che segnala il pericolo. Come mi piace! Corro fuori, allora. Possono essere le cinque del mattino, ma non importa. Il grido forsennato, corri fuori, e da un momento all'altro comincia lo spettacolo. Gli altri gridi, non posso dire di sapere che cosa significano. Forse nulla. Certe volte è un grido repentino. Certe volte è roco. Da non confondere col grido del corvo. Le cornacchie si accoppiano con le cornacchie e i corvi con i corvi. E' magnifico che non si confondano mai. In ogni modo, per quanto ne so io. Tutti quelli che dicono che sono dei brutti uccelli che si cibano d'immondizia – e lo dicono quasi tutti – sono scemi. Io li trovo belli. Oh, sì. Bellissimi. La lucentezza. Le sfumature. Un nero così nero che sembra viola. La testa. Quel ciuffo di peluria alla base del becco, quei baffi, quei peli che spuntano dalle penne. Probabilmente ha un nome. Ma il nome non conta. Non conta mai. L'unica cosa che conta è che c'è. E nessuno sa perché. E' come tutto il resto: è lì e basta. Gli occhi sono neri. Hanno tutte gli occhi neri. Artigli neri. Come sarà, volare? I corvi si librano nell'aria, ma le cornacchie sembrano avere una meta precisa. Non vanno a zonzo, da quel che posso dire. Volino pure alto, i corvi. Si librino nel cielo. Facciano miglia e miglia, battano i record e vincano premi. Le cornacchie devono solo andare da un posto all'altro. Sentono che ho del pane, ed eccole lì. Sentono che a tre o quattro chilometri da qui, in fondo alla strada, qualcuno ha del pane, e vanno là. Quando butto loro il pane, ce n'è sempre una di guardia e un'altra che si fa sentire, in lontananza, e si scambiano segnali tra loro per far sapere a tutti qual è la situazione. E' difficile credere che si cerchino tra loro, ma è quello che sembra. C'è una storia meravigliosa che non ho mai dimenticato, che quando ero bambina un'amica mi ha detto di avere sentito da sua madre. C'erano queste cornacchie che erano tanto furbe da aver avuto l'idea di portare sulla superstrada le noci che avevano e che non riuscivano a schiacciare, e tenevano d'occhio i semafori, e sapevano quando le macchine partivano – erano così intelligenti da sapere come funzionavano i semafori – e allora mettevano le noci proprio davanti alle gomme per farle schiacciare, e si tiravano indietro appena il semaforo cambiava colore. Ci credevo, allora. Allora credevo a tutto. E ora che le conosco, che conosco loro e nessun altro, ci credo ancora.

Io e le cornacchie. Ecco quello che ci vuole. Sta' attaccata alle cornacchie, ed è fatta. Ho sentito che si lisciano le penne a vicenda. Ma non gliel'ho mai visto fare. Le vedo che si stringono le une alle altre e mi chiedo cosa stiano facendo. Ma, in realtà, non gliel'ho mai visto fare. Non le ho neanche mai viste lisciarsi le proprie penne. Ma io sono una vicina, non faccio parte dello stormo. Lo vorrei. Avrei preferito essere una cornacchia. Oh, sì, assolutamente. Non c'è dubbio. Avrei preferito di gran lunga essere una cornacchia. Non devono mica preoccuparsi, loro, di cambiare casa per sfuggire a qualcuno o a qualcosa. Pigliano e vanno. Mica devono fare le valigie. Pigliano e spiccano il volo. E quando restano schiacciate da qualcosa, basta, chiuso. Ti strappi un'ala, e buonanotte. Ti spezzi una zampa, e buonanotte. Un modo molto migliore di questo. Se rinasco, magari, sarò una cornacchia. Cos'ero prima di nascere quella che sono? Ero una cornacchia! Sì! Ero una cornacchia! E dicevo: «Dio, vorrei essere come quella ragazza con quelle due tette laggiù», e il mio desiderio si è avverato, e ora, Cristo, voglio tornare alla mia condizione di cornacchia. Alla mia condizione di cornacchia. Bella parola per una cornacchia. Condizione. Bella parola per ogni cosa nera e grossa. Intonata alla loro andatura impettita. Condizione. Da bambina osservavo tutto. Mi piacevano gli uccelli. Sempre attaccata alle cornacchie e alle poiane e ai gufi. Li vedo ancora, i gufi, la sera, quando torno dalla casa di Coleman. Non riesco a trattenermi: devo scendere dalla macchina e parlare con loro. Non dovrei. Dovrei andare dritto a casa prima che quel bastardo mi ammazzi. Cosa pensano le cornacchie quando sentono cantare gli altri uccelli? Pensano che sia una stupidata. E' vero. Gracchiare. Gracchiare è l'unica cosa. Non sta bene che un uccello che cammina tutto impettito canti una soave canzoncina. No, deve gracchiare fino a rompere i timpani. E' quello che ci vuole, cazzo: gracchiare come un disperato, non avere paura di niente e mangiare, là in mezzo, tutto ciò che è morto. Devi mangiare un sacco di animali schiacciati dalle macchine ogni giorno se vuoi volare così. Senza curarti di portarli via, ma mangiandoli là sul posto, sull'asfalto. Aspetti fino all'ultimo momento quando sta arrivando una macchina, e poi via che spiccano il volo, ma non vanno mai così lontano da non poter tornare subito indietro a beccare la carogna appena la macchina è passata. Mangiando in mezzo alla strada. Chissà cosa succede quando la carne è andata a male. Forse a loro non fa niente. Forse è questo che significa essere una bestia che si nutre di carogne. Loro e gli avvoltoi dal collo rosso: è il loro mestiere. Si occupano di tutte quelle cose, nei boschi e sulla strada, con le quali noi non vogliamo avere niente a che fare. Al mondo non c'è cornacchia che patisca la fame. Mai che resti senza mangiare. Se marcisce, non vedi la cornacchia scappar via. Se c'è la morte, ci sono anche loro. Se è morto qualcuno, se lo vengono a prendere. Mi piace. Mi piace molto. Mangia il procione, comunque sia. Aspetta che il camion venga a rompergli la spina dorsale, e poi torna pure lì a succhiare tutta la

buona roba che ci vuole per far decollare quella splendida carcassa nera. Certo, hanno degli strani comportamenti. Come tutti. Le ho viste, radunate tutte insieme su quegli alberi, là che parlano tutte insieme, e sicuramente sta succedendo qualcosa. Ma di che si tratti non lo saprò mai. Ci dev'essere qualche piano importante. Ma non ho la più pallida idea se sappiano che cos'è. Potrebbe essere insensato come tutto il resto. Però scommetto che non è così, e che è un milione di volte più intelligente, cazzo, di ogni altra cosa di questa terra. O no? E' solo un mucchio di roba che sembra un'altra cosa ma non lo è? Forse è solo un tic genetico. O un toc. Pensa se comandassero le cornacchie. Sarebbe la stessa merda di prima? Il loro bello è che sono la praticità in persona. Nel volo. Nei discorsi. Persino nel colore. Tutto quel nero. Nient'altro che nero. Forse ero una cornacchia e forse no. Certe volte credo di pensare di esserlo adesso. Sì, sono mesi, ormai, che ci penso, di tanto in tanto. Perché no? Se ci sono degli uomini che sono chiusi nel corpo di una donna e delle donne che sono chiuse nel corpo di un uomo, perché non posso essere una cornacchia chiusa in questo corpo? Sì, e dov'è il dottore che mi farà quello che fanno per farmi uscire? Dove vado a farmi fare l'operazione che mi permetterà di essere quello che sono? Con chi posso parlare? Dove vado e cosa faccio e come cazzo ne vengo fuori? Sono una cornacchia. Lo so. Lo so! Nella sede dell'unione studentesca, a metà della salita da North Hall, Coleman trovò un telefono pubblico nel corridoio, davanti alla mensa dove gli studenti dell'Elderhostel stavano pranzando. Nell'interno si vedevano, dalla doppia porta d'ingresso, i lunghi tavoli dove le coppie stavano tutte mescolandosi allegramente tra loro. Jeff non era in casa: a Los Angeles erano circa le dieci del mattino, e Coleman trovò la segreteria, e allora cercò nell'agendina il numero dell'università, sperando che Jeff non fosse ancora entrato in aula. Ciò che il padre aveva da dire al figlio maggiore doveva essere detto subito. L'ultima volta che Coleman aveva telefonato a Jeff in uno stato molto simile a questo era stato per dirgli che Iris era morta. «L'hanno uccisa. Volevano uccidere me e hanno ucciso lei». Questo fu ciò che disse a tutti, e non soltanto nelle prime ventiquattr'ore. Quello fu l'inizio della disintegrazione: tutto il suo comportamento era dettato dalla rabbia. Questa, invece, è la fine. La fine: ecco la notizia che doveva dare a suo figlio. E a se stesso. La fine dell'espulsione dalla vita precedente. Accontentarsi di qualcosa di meno grandioso dell'esilio che ci siamo imposti e della sfida irresistibile che l'esilio rappresenta per le nostre forze. Vivere modestamente col proprio fallimento, comportandosi ancora una volta come un essere razionale e soffocando lo sdegno e la frustrazione. Se voleva ostinarsi, lo facesse in silenzio. Pacificamente. Dignitosa contemplazione: ecco quello che ci vuole, come amava dire Fau-

nia. Vivere in un modo che non ricorda Filottete. Non è tenuto a vivere come il personaggio di una tragedia. Che ciò che è primordiale sembri la soluzione non è una novità: è sempre così. Col desiderio cambia ogni cosa. La risposta a tutto quello che è stato distrutto. Ma scegliere di prolungare lo scandalo perpetuando la protesta? Dappertutto la mia stupidità. Dappertutto la mia follia. E il sentimentalismo più volgare. Ripensando nostalgicamente a Steena. Ballando scherzosamente con Nathan Zuckerman. Confidandomi con lui. Rievocando il passato con lui. Obbligandolo ad ascoltare. Affinando il senso della realtà dello scrittore. Ingozzando quello stomaco grande e opportunista, la mente dello scrittore. Che, qualunque catastrofe succeda, la trasforma in una pagina scritta. Carne da cannone è la catastrofe, per lui. Ma io, in che cosa posso trasformare tutto questo? Mi ci sono impantanato. Così. Senza lingua, forma, struttura, significato: senza le unità, la catarsi, senza niente. Altre cose impreviste e non trasformate. E perché si dovrebbe volere di più? Ma la donna che è Faunia è l'imprevisto. Orgasmicamente intrecciata all'imprevisto, e la convenzione insopportabile. Gli insopportabili principî morali. Unico principio: il contatto col suo corpo. Nulla di più importante di questo. E l'energia del suo sarcasmo. Estranea fino al midollo. Venire a contatto con quello. L'obbligo di sottoporre la mia vita alla sua, e alle stravaganze della sua vita. Al suo vagabondare. Alla sua indolenza. Alla sua stranezza. Il godimento di questo eros primordiale. Cala il martello di Faunia su tutto quello che è sopravvissuto, su tutte le nobili giustificazioni, e apriti un varco verso la libertà. Libertà da cosa? Dalla stupida gloria di essere nel giusto. Dalla ridicola ricerca del significato. Dall'eterna campagna di legittimazione. L'attacco furibondo della libertà a settantun anni, la libertà di lasciarsi una vita alle spalle: nota anche come «follia di Aschenbach». «E prima che calasse la notte – le ultime parole della Morte a Venezia – un mondo sorpreso e rispettoso ricevette la notizia del suo decesso». No, in nessun caso lui è tenuto a vivere come il personaggio di una tragedia. – Jeff! Sono papà. Tuo padre. – Ciao. Come va? – Jeff, so perché non ho avuto tue notizie, perché non ho avuto notizie di Michael. Da Mark non mi aspetterei una riga... E l'ultima volta che l'ho chiamata, Lisa ha interrotto la comunicazione. – Mi ha telefonato. Me l'ha detto. – Senti, Jeff: la mia relazione con questa donna è finita. – Sì? Come mai? Perché per lei non c'è speranza, pensa Coleman. Perché gli uomini l'hanno massacrata. Perché i suoi figli sono morti in un incendio. Perché fa la donna delle pulizie. Perché non ha istruzione e dice di non saper leggere. Perché scappa da quando aveva quattordici anni. Perché non mi chiede nemmeno: «Che intenzioni hai nei miei riguardi?» Perché sa quali sono le

intenzioni di tutti, nei suoi riguardi. Perché ha visto tutto e non c'è speranza. Ma l'unica cosa che dice a suo figlio è: – Perché non voglio perdere i miei figli. Con la più affettuosa delle risate, Jeff dice: – Per quanti sforzi tu possa fare, non ci riusciresti mai. Non potrai certo perdere me. E non credo che tu stessi perdendo né Mike né Lisa. Markie è un'altra cosa. Markie spasima per qualcosa che nessuno di noi gli può dare. Non soltanto tu: nessuno di noi. E' davvero molto triste per Markie. Ma che noi ti stessimo perdendo? Che abbiamo cominciato a perderti da quando è morta la mamma e tu hai lasciato l'università? E' una cosa con la quale abbiamo imparato a convivere. Papà, nessuno sapeva cosa fare. Da quando ti sei messo sul sentiero di guerra col tuo college, non è stato facile farti ragionare. – Me ne rendo conto, – dice Coleman, – capisco, – ma la conversazione durava da due minuti e già gli riusciva insopportabile. Quel figlio maggiore, bonario, ragionevole, supercompetente, la testa più lucida della brigata, che parlava tranquillamente del problema familiare col padre che era il problema, non era più facile da sopportare dell'irragionevole figlio minore, arrabbiatissimo con lui e sulla buona strada per diventare matto. Che pretesa, la sua, chiedere la loro comprensione, la comprensione dei propri figli! – Capisco, – disse ancora, e il fatto che capisse peggiorava ogni cosa. – Spero che non sia successo nulla di troppo orribile con lei, – disse Jeff. – Con lei? No. Ho deciso io che quando basta, basta –. Temeva di dire altro per paura di poter cominciare a dire qualcosa di molto diverso. – Bene, – disse Jeff. – Sono straordinariamente sollevato. Che non ci siano state ripercussioni, se è quello che vuoi dire. Magnifico. Ripercussioni? – Non ti seguo, – disse Coleman. – Quali ripercussioni? – I problemi sono finiti? Sei ancora quello di una volta? Da anni non ti ho mai sentito così bene. Che tu abbia telefonato... Questa è l'unica cosa che conta. Aspettavo e speravo, e finalmente hai telefonato. Non c'è altro da dire. Sei tornato. Era l'unica preoccupazione che avevamo. – Non capisco, Jeff. Aggiornami. Non capisco di cosa stiamo parlando. Ripercussioni di che genere? Jeff fece una pausa prima di riprendere a parlare, e quando lo fece il suo tono era riluttante. – L'aborto. Il tentato suicidio. – Di Faunia? – Certo. – Ha avuto un aborto? Ha cercato di suicidarsi? Quando? – Papà, ad Athena lo sapevano tutti. E' così che la notizia è arrivata fino a noi. – Tutti? Chi sarebbero, «tutti»?

– Senti, papà, se non ci sono ripercussioni... – Non è mai successo, ragazzo mio, ecco perché non ci sono «ripercussioni». Non è mai successo. Non ci sono stati aborti, non ci sono stati tentati suicidi... Ch'io sappia. E che sappia lei. Ma chi sono questi tutti? Maledizione, tu senti una storia come questa, una storia assurda come questa, perché non prendi il telefono, perché non chiedi a me? – Perché non sono affari miei. Non vengo a chiedere a una persona della tua età... – No, non lo fai, eh? Invece, qualunque cosa ti dicano di un uomo della mia età, per ridicola che sia, per maliziosa e assurda che sia, a quella ci credi. – Se ho fatto uno sbaglio, ne sono veramente desolato. Hai ragione. Certo, hai ragione. Ma è stata una sfacchinata per tutti noi. Non è stato così facile raggiungerti da almeno... – Chi te l'ha detto? – Lisa. Lisa è stata la prima a saperlo. – Da chi l'ha saputo, Lisa? – Diverse fonti. Persone. Amici. – Voglio i nomi. Voglio sapere chi sono questi «tutti». Quali amici? – Vecchi amici. Amici di Athena. – I suoi cari amici d'infanzia. La progenie dei miei colleghi. Chi gliel'avrà detto, mi domando. – Non c'è stato nessun tentativo di suicidio? – disse Jeff. – No, Jeffrey, non c'è stato. E, ch'io sappia, non c'è stato nessun aborto. – Be', meglio così. – E se ci fossero stati? Se io avessi ingravidato questa donna e lei fosse andata ad abortire e dopo l'aborto avesse tentato il suicidio? Poniamo, Jeff, che fosse addirittura riuscita a suicidarsi. E allora? E allora, Jeff? L'amante di tuo padre si toglie la vita. E allora? Volti le spalle a tuo padre? A quel criminale di tuo padre? No, no, no... Torniamo indietro, facciamo un passo indietro, torniamo al tentato suicidio. Oh, questo mi piace. Mi domando chi l'ha tirato fuori, il tentato suicidio. E' per l'aborto che tenta il suicidio? Vediamo di chiarire questo melodramma che Lisa ha sentito dalle sue amiche di Athena. Perché Faunia non vuole abortire? Perché l'aborto le è stato imposto? Vedo. Vedo la crudeltà. Una madre che ha perduto due bambini piccoli in un incendio viene messa incinta dall'amante. Estasi. Una nuova vita. Un'altra possibilità. Un figlio nuovo al posto di quelli morti. Ma l'amante... No, dice lui, e la piglia per i capelli e la trascina dall'abortista e poi – naturalmente – dopo averle imposto la sua volontà, prende quel corpo nudo e sanguinante... A questo punto Jeff aveva riattaccato. Ma a questo punto Coleman non aveva più bisogno che Jeff continuasse. Gli bastava vedere le coppie dell'Elderhostel che finivano il caffè prima

di tornare in aula, gli bastava udirle mentre si divertivano, ridendo e scherzando nella mensa, con l'aspetto di anziani che dovevano avere e la voce di anziani che dovevano avere, per pensare che anche le cose convenzionali che aveva l'atto non gli davano il minimo sollievo. Non il semplice fatto di essere stato un professore, non il semplice fatto di essere stato preside di facoltà, non il semplice fatto di essere stato il marito, malgrado tutto, della stessa donna eccezionale, ma di avere una famiglia, di avere dei figli intelligenti... E tutto questo non gli dava nulla. Se esistevano dei figli capaci di capirlo, non dovevano essere i suoi? Con tutta l'istruzione prescolare che avevano ricevuto. Con tutte le cose che gli avevano letto i genitori. Le enciclopedie. La preparazione prima delle interrogazioni. I dialoghi durante la cena. Gli infiniti ammaestramenti, da parte di Iris, da parte sua, sulla multiforme natura della vita. L'analisi del linguaggio. Tutte queste cose che abbiamo fatto insieme, e ora venite a cercarmi con questa mentalità? Dopo tutti gli insegnamenti e tutti i libri e tutte le parole e gli altissimi punteggi dei test è una cosa insopportabile. Dopo averli presi sempre sul serio. Prendendoli sul serio anche quando dicevano delle stupidaggini. Con tutta l'attenzione prestata allo sviluppo della ragione e della mente e della comprensione e della fantasia. E dello scetticismo, di un bene informato scetticismo. Della capacità di ragionare con la propria testa. E poi bevevano la prima fandonia? Tanta istruzione, e non serve a nulla. Nulla può isolare dal più infimo livello del pensiero. Nemmeno chiedersi: «Ma ti sembra una cosa che nostro padre farebbe? Ti sembra una cosa degna di lui?» Tuo padre, invece, è un caso semplicissimo. Non avete mai avuto il permesso di guardare la tivù e mostrate la mentalità di una soap opera. Non vi ho fatto leggere altro che i greci o il loro equivalente, e trasformate la vita in una soap opera vittoriana. Rispondendo alle vostre domande. A tutte le vostre domande. Senza mai scartarne una. Mi chiedete dei vostri nonni, mi chiedete chi erano, e io ve lo dico. Sono morti, i vostri nonni, quando ero giovane. Il nonno mentre ero al liceo, la nonna mentre ero in marina. Quando sono tornato dalla guerra, da un pezzo il padrone di casa aveva sbaraccato tutto. Non era rimasto più nulla. Il padrone di casa mi disse che non poteva permettersi... Bla, bla, bla, che nessuno pagava più l'affitto, e avrei potuto ucciderlo, quel figlio di puttana. Gli album di fotografie. Le lettere. La roba della mia infanzia, della loro infanzia, tutta, ogni cosa, da cima a fondo, sparita. «Dov'erano nati? Dove abitavano?» Erano nati nel New Jersey. La prima delle loro famiglie che fosse nata qui. Lui aveva un bar. Credo che in Russia suo padre, il vostro bisnonno, fosse nel giro delle taverne. Vendeva alcolici ai russi. «Abbiamo zie e zii?» Mio padre aveva un fratello che andò in California quando io ero bambino, e mia madre era figlia unica, come me. Dopo di me non poté più avere figli: non ho mai saputo di cosa si trattasse. Il fratello, il fratello maggiore di mio padre, ha continuato a chiamarsi Silberzweig: da quel che mi risulta, non ha mai adottato il nome

nuovo. Jack Silberzweig. Era nato nel vecchio continente e così si tenne il nome. Quando stavo per partire con la nave da San Francisco, guardai in tutti gli elenchi telefonici della California per cercare di rintracciarlo. Non era in buoni rapporti con mio padre. Mio padre lo considerava un fannullone, non voleva aver niente a che fare con lui, e per questo nessuno sapeva in quale città abitasse lo zio Jack. Guardai in tutti gli elenchi telefonici. Volevo dirgli che suo fratello era morto. Volevo conoscerlo. Era il mio unico parente ancora al mondo, in quel ramo della famiglia. Fosse anche un fannullone. Volevo conoscere i suoi figli, i miei cugini, se ce n'erano. Cercai sotto Silberzweig. Cercai sotto Silk. Cercai sotto Silber. Forse in California era diventato un Silber. Non lo sapevo. E non lo so. Non ne ho idea. E poi smisi di cercare. Quando non hai una famiglia tua, ti interessi di queste cose. Poi siete arrivati voi e ho smesso di preoccuparmi se avevo uno zio e se avevo dei cugini... Ogni ragazzo udì la stessa versione. E l'unico che non rimase soddisfatto fu Mark. I ragazzi più grandi non fecero tante domande, ma i gemelli furono insistenti. «Ci sono stati dei gemelli nel passato?» Da quanto ne sapevo – credo che me l'avesse detto qualcuno – c'era stato un bisnonno o un trisavolo gemello. Era la storia che raccontò anche a Iris. Tutta inventata per Iris. Era la storia che le raccontò in Sullivan Street quando si incontrarono per la prima volta e la storia alla quale si attenne, il nucleo originario. E l'unico di loro che non era mai contento era Mark. – Da dove venivano i nostri bisnonni? – Dalla Russia. – Ma da quale città? – L'ho chiesto ai miei genitori, ma sembrava che non lo sapessero mai con certezza. Una volta era un posto, una volta un altro. C'era un'intera generazione di ebrei così. Non lo sapevano mai con precisione. I vecchi non ne parlavano molto, e i figli nati in America non erano molto curiosi, gli bastava essere americani, e così, nella mia famiglia come in tante altre, c'era un'amnesia geografica ebraica generale. L'unica risposta che mi davano quando glielo chiedevo, disse Coleman, era: «In Russia». Ma Markie diceva: – La Russia è gigantesca, papà. Dove, in Russia? – Markie non stava mai zitto. E perché? Perché? Non c'erano risposte. Markie voleva sapere chi erano e da dove venivano: tutte cose che suo padre non avrebbe mai potuto dirgli. Ed è forse per questo che ti diventa un ebreo ortodosso? E' per questo che scrive i poemi biblici di protesta? E' per questo che Markie lo odia così? Impossibile. C'erano i Gittelman. I nonni Gittelman. Gli zii e le zie Gittelman. I cuginetti Gittelman sparsi in tutto il New Jersey. Non bastava? Di quanti parenti aveva bisogno? Dovevano esserci anche i Silk e i Silberzweig? Come rimostranza, era un'assurdità: impossibile! Eppure Coleman continuava a interrogarsi, per quanto fosse irrazionale associare la rabbia covata da Markie al proprio segreto. Da quando Markie ce l'aveva con lui, non era mai riuscito a impedirsi di farsi questa domanda, e mai più angosciosamente che da quando Jeff aveva riattaccato. Se i figli che portavano le sue origini nei loro geni e che quelle origini avrebbero trasmesso ai

loro figli potevano trovare così facile sospettarlo di crudeltà della peggiore specie verso Faunia, quale poteva essere la spiegazione? Forse perché non aveva mai potuto parlare con loro della famiglia? O perché parlargliene era un dovere al quale era venuto meno? O perché negargli quella conoscenza era un errore? Che assurdità! Il castigo non era una cosa che si infligge inconsciamente o inconsapevolmente. Non esisteva un simile quid pro quo. Non poteva esistere. Eppure, dopo la telefonata (lasciando l'unione studentesca, lasciando il campus, per tutto il tempo in cui viaggiò, con le lacrime agli occhi, tra i monti), quello fu il suo preciso stato d'animo. E per tutto il viaggio di ritorno Coleman ricordò il momento in cui era stato lì lì per dirlo a Iris. Fu dopo la nascita dei gemelli. Adesso la famiglia era completa. Ce l'avevano fatta: anzi, ce l'aveva fatta. Senza che l'ombra del suo segreto pesasse su nessuno dei figli, era come se lui stesso fosse stato sciolto dal segreto. L'esuberanza che lo invase per avercela fatta lo portò sull'orlo della confessione. Sì, avrebbe fatto a sua moglie il dono più grande che possedeva: avrebbe detto alla madre dei suoi quattro figli chi era veramente il loro padre. Avrebbe detto a Iris la verità. Tanto era eccitato e contento, tanto solida gli sembrava la terra sotto i piedi dopo che sua mo glie aveva avuto quei due bellissimi gemelli, quando portò Jeff e Mikey all'ospedale a vedere il loro nuovo fratellino e la loro nuova sorellina, e quando l'apprensione più terribile di tutte era stata sradicata dalla sua vita. Ma non fece mai a Iris quel regalo. Ne venne esonerato – o fu condannato a lasciare la cosa incompiuta – dal cataclisma che si abbatté su una delle amiche di sua moglie, la socia che le era più cara nel consiglio dell'associazione artistica, una graziosa e raffinata acquerellista dilettante di nome Claudia McChesney il cui marito, proprietario della più grossa impresa edile della contea, aveva – saltò fuori – un proprio incredibile segreto: una seconda famiglia. Da circa otto anni Harvey McChesney manteneva una donna più giovane di Claudia, contabile in una fabbrica di sedie lungo la Taconic, dalla quale aveva avuto due figli, due bambini di quattro e sei anni, che viveva in una cittadina dello stato di New York appena al di qua del confine col Massachusetts, che lui andava a trovare ogni settimana, che manteneva, della quale sembrava innamorato, e di cui nessuno, nella famiglia di McChesney ad Athena, seppe nulla finché una telefonata anonima – probabilmente da uno dei rivali di Harvey nel settore dell'edilizia – rivelò a Claudia e ai tre figli adolescenti cosa combinava McChesney quando non era in giro per lavoro. Quella sera Claudia crollò, ebbe un autentico collasso e cercò di tagliarsi i polsi, e fu Iris che, dalle tre del mattino, con l'aiuto di un'amica psichiatra, organizzò l'operazione di salvataggio che si concluse prima dell'alba col ricovero di Claudia ad Austin Riggs, l'ospedale psichiatrico di Stockbridge. E fu Iris che, mentre allattava due neonati e prestava le cure materne a due bambini in età prescolare, si recò all'ospedale tutti i giorni, parlando con Claudia, calmandola, rassicurandola, portandole

piante in vaso da curare e libri d'arte da guardare, pettinandola, persino, e intrecciandole i capelli, fino a quando, dopo cinque settimane (e grazie, non soltanto alle cure psichiatriche, ma anche alla devozione di Iris), Claudia tornò a casa per cominciare a fare i passi necessari per liberarsi dell'uomo che era stato all'origine di tutta la sua infelicità. In un giorno o due Iris le aveva procurato il nome di un avvocato divorzista di Pittsfield e, con tutti i piccoli Silk, neonati compresi, legati ai sedili posteriori della station wagon, accompagnò l'amica nello studio dell'avvocato per essere assolutamente certa che venissero iniziate le pratiche della separazione e che la liberazione di Claudia da McChesney fosse avviata. Quel giorno, durante il viaggio di ritorno, molte parole d'incoraggiamento erano state spese, ma incoraggiare la gente era la specialità di Iris, la quale fece in modo che la decisione di Claudia di rimettere la propria vita sul binario giusto non venisse annullata dai suoi timori residui. – Che cosa spregevole da fare a un'altra persona, – disse Iris. – Non l'amichetta. E' abbastanza brutto, ma capita. E non i bambini, neanche questo: neanche il bimbo e la bimba dell'altra, per crudele e dolorosa che possa essere una simile scoperta per una moglie. No, il segreto: è questa la goccia che ha fatto traboccare il vaso, Coleman. Ecco perché Claudia non vuole continuare a vivere. «Dov'è l'intimità?» Ecco la cosa che ogni volta la fa scoppiare in lacrime. «Dov'è l'intimità, – dice, – quando esiste un segreto simile?» Che lui abbia potuto nasconderglielo, che volesse continuare a nasconderglielo... Ecco dove Claudia è senza difesa, ed ecco perché vuole ancora togliersi la vita. Mi dice: «E' come scoprire un cadavere. Tre cadaveri. Tre corpi umani nascosti sotto il pavimento». – Sì, – disse Coleman, – è come un pezzo di tragedia greca. Tratto dalle Baccanti. – Peggio, – disse Iris, – perché non è tratto dalle Baccanti. E' tratto dalla vita di Claudia. Quando, dopo quasi un anno di terapia ambulatoriale, Claudia si riconciliò col marito e lui fece ritorno nella casa di Athena e i McChesney ripresero a vivere insieme – quando Harvey decise di rinunciare all'altra donna, se non agli altri figli, per i quali giurò che avrebbe continuato a comportarsi come un padre responsabile –, Claudia non sembrò più desiderosa di Iris di tenere in vita la loro amicizia, e dopo che Claudia ebbe dato le dimissio ni dall'associazione artistica le due donne smisero di vedersi, sia durante le occasioni mondane che alle riunioni dell'organizzazione, della quale, in genere, Iris era il fulcro. E Coleman non perseverò nel suo progetto – come dettava il suo trionfo quando erano nati i gemelli – e non svelò alla moglie il suo straordinario segreto. Salvato, pensò, dalla bravata più puerilmente sentimentale che avrebbe mai potuto compiere. Avere cominciato improvvisamente a pensare come pensano gli stolti: pensare improvvisamente il meglio di ogni persona e di ogni cosa, spogliarsi interamente della propria diffidenza, della propria circospezione, della diffidenza per se stessi, credere che tutte le

proprie difficoltà siano arrivate alla fine, che tutte le complicazioni abbiano cessato di esistere, dimenticare non soltanto dove si è, ma come vi si è giunti, rinunciare alla diligenza, alla disciplina, a prendere le misure di ogni situazione... Come se si potesse ripudiare in qualche modo la battaglia che è la battaglia propria di ogni persona, come se uno potesse decidere volontariamente di smettere di essere se stesso, l'io immutabile e caratteristico per il quale si è data battaglia. Il fatto che gli ultimi dei suoi figli fossero perfettamente bianchi lo aveva quasi spinto a prendere quanto c'era in lui di più forte e di più saggio e a farlo a pezzi. Salvato, era stato salvato dalla saggezza che c'è nelle parole: «Non fare niente». Ma anche prima, dopo la nascita del loro primo figlio, aveva fatto qualcosa di quasi altrettanto stupido e sentimentale. Era allora un giovane professore di lettere classiche venuto dall'Adelphi alla University of Pennsylvania per un convegno di tre giorni sull'Iliade; aveva svolto una relazione, aveva preso dei contatti, era stato sobriamente invitato da un famoso classicista a fare domanda per un posto vacante a Princeton e, mentre tornava a casa, ritenendosi al culmine dell'esistenza, invece di dirigersi a nord lungo il Jersey Turnpike per arrivare a Long Island, aveva quasi deviato verso sud per proseguire, lungo le strade secondarie delle contee di Salem e Cumberland, fino a Gouldtown, la casa ancestrale di sua madre dove, quando era un bambino, si svolgeva l'annuale picnic familiare. Sì, anche allora, diventato padre, voleva provare a regalarsi il facile piacere di uno di quei sentimenti significativi di cui la gente va in cerca ogni volta che smette di pensare. Ma il fatto che avesse un figlio non richiedeva che svoltasse verso sud per andare a Gouldtown, non più di quanto, in quello stesso viaggio, quando ebbe raggiunto il New Jersey settentrionale, il fatto di avere questo figlio gli imponesse di prendere l'uscita di Newark e di puntare verso East Orange. Ci fu anche un altro impulso da sopprimere: l'impulso che provava di vedere sua madre, di dirle cos'era successo e di portarle il bambino. L'impulso, due anni dopo essersi sbarazzato di lei, e a dispetto del monito di Walter, di farsi vedere da sua madre. No. Assolutamente no. E così, invece di svoltare, tirò diritto per tornare a casa, dalla moglie bianca e dal figlio bianco. E una quarantina di anni dopo, mentre tornava a casa in macchina dal college, assediato dalle recriminazioni, ricordando uno dei momenti più belli della sua vita (la nascita dei suoi figli, l'allegria, la fin troppo innocente eccitazione, il violento tentennare della propria decisione, il sollievo così grande che per poco non distrusse questa determinazione), ricordò anche la sera peggiore della sua vita, tornò con la mente alla naia e alla sera in cui lo avevano buttato fuori da quel bordello di Norfolk, il famoso bordello bianco chiamato «da Oris». «Tu sei un negro, no, ragazzo?», e tre secondi dopo

i buttafuori lo avevano scaraventato dalla porta aperta, sui gradini del marciapiede e nella strada. Il posto che faceva per lui era «da Lulu», in Warwick Avenue: era da Lulu, gli urlarono dietro, che doveva portare il proprio culo nero. Andò a sbattere la fronte contro il marciapiede, ma riuscì a tirarsi su e si mise a correre finché scorse un vicoletto, e passando di là evitò gli uomini della polizia militare, che il sabato erano dappertutto con i loro manganelli dondolanti. Finì nella toilette dell'unico bar in cui ebbe il coraggio di entrare, con l'aria malconcia che aveva: un bar di colore ad appena qualche decina di metri da Hampton Road e dal ferry di Newport News (il traghetto che portava da Lulu i marinai) e a una decina di isolati dal bordello di Oris. Era il primo bar di colore in cui aveva messo piede da quando studiava a East Orange, quando insieme a un amico prendeva il treno da Newark per andare a consegnare l'importo delle scommesse sulle partite di football del Billy's Twilight Club. Durante i primi due anni di liceo, oltre alla boxe praticata di nascosto, andò e venne dal Billy's Twilight per tutto l'autunno, ed era là che aveva raccolto le notizie che sosteneva di aver imparato – come ragazzo bianco di East Orange – nella taverna di proprietà del suo padre ebreo. Ricordava la fatica che aveva fatto per fermare il sangue che colava dai tagli che aveva sulla faccia, e come avesse cercato inutilmente di stagnarlo col blusotto della divisa bianca mentre il sangue continuava a gocciolare sporcando dappertutto. La tazza del water senza la ciambella era incrostata di merda, il pavimento di legno fradicio inondato di piscio, il lavandino, se era un lavandino, un trogolo traboccante di vomito e catarro: sicché, quando iniziarono i conati per il dolore che sentiva al polso, Coleman rigettò contro il muro che aveva di fronte piuttosto che abbassare il viso sopra quel letamaio. Era un locale orribile e assordante, il peggiore, non aveva mai visto un posto simile, il più abominevole che avrebbe mai potuto immaginare, ma doveva nascondersi da qualche parte e così, sulla panca più lontana che trovò, la più distante dai relitti umani che si accalcavano intorno al banco, e nella morsa di tutti i suoi timori, cercò di sorseggiare una birra, di calmarsi, di lenire il dolore e di non farsi notare. Non che qualcuno al banco si fosse curato di guardare dalla sua parte dopo che aveva pagato la sua birra ed era sparito per andare a mettersi con le spalle al muro dietro i tavolini vuoti: proprio come nel bordello bianco, lì nessuno lo prendeva per qualcosa di diverso da quello che era. Sapeva sempre, mentre beveva la seconda birra, di trovarsi dove non doveva, ma se la polizia militare lo avesse sorpreso, se avessero scoperto per quale motivo era stato buttato fuori dal bordello di Oris, Coleman era rovinato: una corte marziale, una sentenza, una lunga condanna ai lavori forzati seguita da un congedo disonorevole; e tutto per avere mentito alla marina sulla razza alla quale apparteneva, tutto perché era stato tanto stupi-

do da varcare la porta di un casino dove gli unici negri ammessi lavavano le lenzuola o spazzavano i pavimenti. Ecco tutto. Avrebbe terminato il servizio militare, finito di essere un bianco, e buonanotte. Poiché non posso farcela, pensava, non voglio nemmeno. Prima di allora non si era mai trovato davanti a una vergogna come quella. Non aveva mai saputo cosa significa nascondersi per sfuggire alla polizia. Mai prima di allora aveva sanguinato per un colpo preso in faccia: in tutte le riprese disputate come pugile dilettante non aveva mai perso una goccia di sangue e non aveva mai avuto ferite o traumi di alcun genere. Il blusotto della divisa bianca era già rosso come una medicazione chirurgica, i calzoni erano impregnati di sangue che si stava coagulando e, dove Coleman era caduto in ginocchio nel rigagnolo, erano strappati e neri di sudiciume. E gli doleva il polso, forse era addirittura rotto, perché aveva frenato la caduta con la mano: non riusciva a muoverlo e non lo poteva più toccare. Scolò la birra e poi ne prese un'altra per cercare di lenire il dolore. Ecco cosa gli era capitato per non avere condiviso gli ideali di suo padre, per avere respinto i suoi suggerimenti, per averlo, dopo morto, totalmente abbandonato. Se avesse seguito le orme di suo padre, come Walter, tutto sarebbe andato in un altro modo. Invece, in primo luogo aveva infranto la legge mentendo per arruolarsi in marina, e ora, mentre cercava una bianca da scopare, era piombato nel peggiore dei disastri. «Fammi solo arrivare al congedo. Fammi lasciare la marina. Poi non mentirò mai più. Fammi arrivare alla fine della naja, e basta!» Era la prima volta che si rivolgeva a suo padre da quando suo padre era crepato nel vagone ristorante. Se avesse continuato così, la sua vita non avrebbe avuto senso. Come faceva a saperlo? Perché suo padre era tornato a parlargli: dal suo petto, ancora una volta, era uscito il brontolio autorevole e ammonitore della sua voce, resa tonante come sempre dall'inconfondibile legittimità dell'uomo retto. Se avesse continuato così, Coleman sarebbe finito in un fosso con la gola tagliata. Guarda dov'era adesso. Guarda dov'era venuto a nascondersi. E come? Perché? A causa del suo credo, a causa del suo insolente, arrogante «Io non sono uno di voi, non vi sopporto, non appartengo al vostro "noi" di negri». La grande, eroica lotta contro il loro «noi»... E guarda adesso com'era conciato! La lotta appassionata per la propria preziosa unicità, la sua rivolta individuale contro il destino dei negri... E guarda il grand'uomo dov'era finito! E' qui che sei venuto, Coleman, a cercare il significato più profondo dell'esistenza? Un mondo d'amore, ecco quello che avevi, e tu invece lo hai abbandonato per questo! Che cosa tragica e sconsiderata hai fatto! E non solo a te stesso... A tutti noi. A Ernestine. A Walt. Alla mamma. A me. A me nella mia tomba. A mio padre nella sua. Che altro di grandioso stai macchinando, Coleman Brutus? Chi intendi ingannare e tradire la prossima volta? Non poteva uscire in strada, tuttavia, per la paura che aveva della polizia

militare, e della corte marziale, e del carcere, e del congedo disonorevole che lo avrebbe perseguitato per sempre. C'era troppa agitazione dentro di lui perché Coleman potesse fare qualcosa di diverso dal continuare a bere, fino al momento in cui, naturalmente, lo raggiunse sulla panca una prostituta che apparteneva chiaramente alla sua razza. Il mattino seguente, quando lo trovò, la polizia militare attribuì le ferite sanguinanti, il polso rotto e la divisa stracciata e sporca al fatto che aveva passato la notte a negropoli, un altro cazzo bianco disinibito e smanioso di figa nera che – dopo essere stato preso per il culo, fatto sbronzare e ripulito (nonché, per giunta, adeguatamente tatuato) – era stato depositato tra i cocci di vetro del parcheggio del traghetto per il carro della spazzatura. «Marina americana» diceva il tatuaggio, con parole non più alte di cinque o sei millimetri scritte in blu tra i bracci blu di un'ancora blu lunga quattro o cinque centimetri. Un disegno tutt'altro che vistoso, in materia di tatuaggi militari, e situato con discrezione appena sotto l'attacco del braccio destro alla spalla, un tatuaggio sicuramente abbastanza facile da nascondere. Ma quando ricordava come l'aveva avuto, quel marchio evocava per lui non soltanto la turbolenza della notte peggiore della sua vita, ma tutto ciò che c'era sotto questa turbolenza: era il segno di tutta la sua storia, dell'indivisibilità dell'eroismo e della vergogna. Incastonata in quel tatuaggio blu c'era un'immagine veridica e totale di se stesso. C'era l'inestirpabile biografia, come c'era il prototipo dell'inestirpabile, un tatuaggio che era l'emblema stesso di ciò che non sarebbe mai stato possibile rimuovere. C'era anche l'impresa gigantesca. C'erano le forze esterne. Tutta la catena dell'inaspettato, tutti i pericoli dello smascheramento e tutti i rischi della dissimulazione... C'era persino l'insensatezza della vita, in quello stupido tatuaggino blu. I suoi problemi con Delphine Roux erano iniziati durante il primo semestre dell'anno in cui Coleman aveva ripreso a insegnare, quando una delle sue studentesse che per caso era anche una delle allieve predilette della professoressa Roux era andata da lei, nella sua veste di capo dipartimento, a lagnarsi delle opere di Euripide nel corso di Coleman sulla tragedia greca. Una di queste opere era Ippolito, l'altra Alcesti; la studentessa, Elena Mitnick, le trovava «degradanti per le donne». – Cosa devo fare, allora, per accontentare la signorina Mitnick? Togliere Euripide dalla lista dei libri da leggere? – Niente affatto. E' chiaro che tutto dipende da come lei insegna Euripide. – E qual è oggi – domandò lui – il metodo prescritto? – già pensando, mentre parlava, che quella non era una discussione per la quale avesse la pazienza o la cortesia necessarie. Inoltre, era più facile confondere Delphi-

ne Roux senza intavolare una discussione con lei. Per quanto traboccasse di boria intellettuale, aveva appena ventinove anni e in pratica non aveva nessuna esperienza al di fuori delle scuole, era nuova al suo lavoro e relativamente nuova sia al college che al paese. Gli risultava, dai loro incontri precedenti, che il modo migliore di frustrare il suo tentativo di apparire non soltanto il suo superiore, ma un superiore arrogante («E' chiaro che tutto dipende» e così via), consisteva nel mostrare la più assoluta indifferenza per il suo giudizio. Oltre al fatto che non lo poteva soffrire, Delphine non poteva soffrire che i suoi titoli accademici, i titoli che tanta impressione facevano ad altri dei suoi colleghi ad Athena, non avessero ancora schiacciato col loro peso l'ex preside di facoltà. Delphine, suo malgrado, non riusciva a non farsi intimidire dall'uomo che, cinque anni prima, l'aveva assunta con riluttanza appena uscita dalla graduate school di Yale, e che in seguito non aveva mai negato di essersi pentito, specie quando i rimbambiti del suo dipartimento avevano scelto come loro capo una ragazza così confusa. A tutt'oggi la presenza di Coleman Silk continuava a inquietare Delphine Roux, a tal punto da farle desiderare di essere lei, una volta tanto, a in quietare lui. Silk aveva qualcosa che la faceva sempre tornare all'infanzia e alla paura che ha il bimbo precoce di essere visto per quello che è; ma anche alla paura che ha il bimbo precoce di non essere sufficientemente guardato. Temeva di essere smascherata, moriva dalla voglia di essere al centro dell'attenzione: ecco il suo dilemma. C'era qualcosa, in Coleman, che le metteva sottosopra persino l'inglese, col quale non aveva mai avuto problemi. Ogni volta che erano faccia a faccia, qualcosa le faceva pensare che Coleman Silk volesse solo questo: legarle le mani dietro la schiena. Cos'era questo «qualcosa»? Il modo in cui Silk l'aveva soppesata sessualmente la prima volta che si era presentata nel suo ufficio per un collo quio o il modo in cui Silk aveva trascurato di farlo? Era stato impossibile decifrare l'impressione che si era fatto di lei, e questo un mattino in cui Delphine sapeva di avere messo in campo tutte le sue forze. Aveva voluto sembrargli elegantissima e c'era riuscita, aveva voluto parlare correntemente l'inglese e c'era riuscita, aveva voluto sfoggiare la propria erudizione e c'era riuscita, ne era certa. Eppure Silk la guardava come se fosse una scolaretta, il piccolo nessuno figlio di Mister Insignificante e Signora. Ecco, forse questo era dipeso dal gonnellino scozzese: il kilt tipo minigonna indossato da Delphine forse lo aveva fatto pensare alla divisa di una scolaretta, soprattutto perché la persona che lo indossava era una ragazza linda e piccolina con i capelli neri e un visetto occupato quasi per intero dagli occhi, e che pesava, vestiti e tutto, al massimo quarantacinque chili. La sua unica intenzione, col gonnellino scozzese e il pullover nero di cachemire a collo alto, la calzamaglia nera e gli stivali neri, non era stata né di asessualizzarsi con la roba che aveva scelto di indossare (le professores-

se universitarie che aveva incontrato fino ad allora in America le sembravano, fin troppo strenuamente, fare proprio questo), né di dargli l'impressione di volerlo provocare. Anche se dicevano che aveva circa sessantacinque anni, Coleman non sembrava più vecchio di suo padre, che ne aveva cinquanta; in effetti somigliava a un socio della ditta di suo padre, uno dei tanti soci in affari di suo padre che la teneva d'occhio da quando aveva una dozzina d'anni. Quando, seduta davanti al preside, aveva accavallato le gambe e la falda del gonnellino si era aperta, Delphine Roux aveva atteso un minuto o due prima di chiuderla (e di chiuderla con la stessa indifferenza con la quale si chiude un portafoglio) solo perché, per giovane che fosse il proprio aspetto, lei non era una scolaretta con i timori di una scolaretta e la compitezza di una scolaretta, ingessata dalla disciplina di una scolaretta. Non voleva dare quell'impressione più di quanto volesse dare l'impressione opposta lasciando aperta la falda della gonna e invitandolo così a immaginare che voleva, per tutta la durata del colloquio, che Coleman le guardasse le cosce sottili nella calzamaglia nera. Aveva fatto del suo meglio, sia con la scelta dell'abbigliamento che col suo contegno, per colpirlo con la complessa interazione di tutte le forze che contribuivano a renderla, a ventiquattro anni, così interessante. Anche il gioiello, il grosso anello che quella mattina si era messa al dito medio della mano sinistra, il suo unico ornamento, era stato scelto per ciò che rivelava sul tipo d'intellettuale che era Delphine Roux, una donna che, pur godendosi apertamente, non difensivamente, la superficie estetica della vita, senza fare mistero dei propri appetiti e dei propri gusti, subordinava nondimeno questo godimento alle esigenze di una vita dedicata allo studio. L'anello, copia settecentesca di un anello con sigillo romano, era un anello da uomo che in precedenza era stato portato da un uomo. L'agata ovale, disposta orizzontalmente (era questo che lo rendeva così grosso e mascolino), era un cammeo di Danae che accoglie Zeus come una pioggia d'oro. A Parigi, quattro anni prima, quando lei ne aveva venti, Delphine aveva ricevuto quell'anello come pegno d'amore dal professore al quale apparteneva, l'unico professore al quale fosse stata incapace di resistere e col quale aveva avuto un'appassionata relazione. Per una singolare coincidenza, si trattava di un classicista. La prima volta che si erano incontrati, nel suo ufficio, le era parso così remoto, così critico, che si era sentita paralizzare dalla paura, finché non aveva capito che stava solo cercando, svogliatamente, di sedurla. Erano forse queste le intenzioni anche del professor Silk? Per cospicua che fosse la grandezza dell'anello, il preside non chiese mai di vedere la pioggia d'oro intagliata nell'agata: e tanto meglio, pensò Delphine. Anche se la storia di com'era venuta in possesso dell'anello testimoniava, se non altro, un'intrepida maturità, lui l'avrebbe giudicata una frivola indulgenza, un segno di immaturità. Tolta qualche sporadica speranza,

era certa che proprio questo lui stava pensando di lei dal momento in cui si erano stretti la mano; e aveva ragione. L'idea che Coleman si era fatto di lei era di una persona troppo giovane per quel posto, troppo piena di contraddizioni irrisolte, un po' troppo presuntuosa e, al tempo stesso, fintamente umile come una bambina, una bimba dotata di scarso autocontrollo, pronta a reagire al primo sintomo di disapprovazione, capacissima di sentirsi offesa e spinta, come bambina e come donna, a raggiungere un successo dopo l'altro, un ammiratore dopo l'altro, una conquista dopo l'altra, tanto dall'incertezza quanto da un eccesso di fiducia in se stessa. Una ragazza sveglia, per la sua età, anche troppo, ma sotto quasi tutti gli altri aspetti emotivamente squilibrata e decisamente immatura. Dal curriculum vitae e dal saggio autobiografico supplementare allegato – che raccontava in dettaglio il progresso di un viaggio intellettuale iniziato all'età di sei anni – Silk ricavò un quadro abbastanza chiaro. Le sue credenziali erano davvero eccellenti, ma tutto in lei (credenziali comprese) gli fece l'impressione di essere assolutamente inadatto a un college piccolo come Athena. Un'infanzia dorata in rue de Longchamp, nel sedicesimo arrondissement. Monsieur Roux era un ingegnere, proprietario di un'azienda con quaranta dipendenti; Madame Roux (née de Walincourt), che doveva il suo nome nobile e antico all'aristocrazia provinciale da cui proveniva, era moglie, madre di tre figli, studiosa di letteratura francese medievale, ottima clavicembalista, grande conoscitrice della storia e della letteratura sul clavicembalo, storica del papato, «eccetera». E che «eccetera» rivelatore era quello! La figlia di mezzo, e l'unica femmina, Delphine, che si era diplomata al Lycée Janson de Sailly, dove aveva studiato filosofia e letteratura, inglese e tedesco, latino e letteratura francese, aveva «letto l'intero corpo della letteratura francese nel modo più canonico». Dopo il Lycée Janson, il Lycée Henri IV, dove aveva «studiato a fondo e con impegno la filosofia e la letteratura francese, la lingua e la storia della letteratura inglese». A vent'anni, dopo il Lycée Henri IV, l'école Normale Supérieure de Fontenay: «...Con l'élite della società intellettuale francese... Solo trenta selezionati ogni anno». Tesi: «Georges Bataille e la negazione di sé». Bataille? Un'altra ancora? No! Ogni studente ultrafigo di Yale sta lavorando su Bataille o Mallarmé. Non è difficile capire cosa vuole fargli capire Delphine Roux, soprattutto perché Coleman sa qualcosa di Parigi per avervi passato un anno con la famiglia grazie a una borsa di studio Fulbright quando era un giovane professore, e qualcosa sa pure di questi ambiziosi ragazzi francesi educati nei lycées dell'élite. Estremamente ben preparati, intellettualmente ben ammanigliati, questi giovani intelligentissimi e immaturi, dotati della più snobistica educazione francese, che si preparano instancabilmente a raggiungere una posizione tale da farli invidiare per tutta la vita, passano ogni sabato sera nel ristorante economico vietnamita di rue St Jacques a parlare di grandi cose, senza la minima concessione alle chiacchiere o alle

banalità: solo idee, politica, filosofia. Anche nel tempo libero, quando sono soli, pensano esclusivamente a come Hegel è stato accolto dalla società intellettuale francese del ventesimo secolo. L'intellettuale non deve essere frivolo. La vita deve essere dedicata solo al pensiero. Che il lavaggio del cervello li abbia fatti diventare aggressivamente marxisti o aggressivamente antimarxisti, hanno un orrore congenito per ogni cosa che sia americana. Da questa preparazione e questo ambiente Delphine arriva a Yale: chiede di insegnare il francese agli undergraduate e di essere incorporata nel programma per il dottorato e, come scrive nel suo saggio autobiografico, è una dei due che vengono accettati da tutta la Francia. «Sono arrivata a Yale molto cartesiana, e là tutto era assai più pluralistico e polifonico». Gli studenti la divertono. Dov'è il loro lato intellettuale? E' molto scandalizzata da come si divertono. Che caotico, non ideologico modo di pensare... e di vivere! Non hanno mai visto neanche un film di Kurosawa: sono piuttosto ignoranti. Quando lei aveva la loro età, aveva visto tutti i Kurosawa, tutti i Tarkovskij, tutti i Fellini, tutti gli Antonioni, tutti i Fassbinder, tutti i Wertmüller, tutti i Satyajit Ray, tutti i René Clair, tutti i Wim Wenders, tutti i Truffaut, i Godard, i Chabrol, i Resnais, i Rohmer, i Renoir, mentre l'unica cosa che hanno visto questi ragazzi è Guerre stellari. A Yale riprende con grande serietà la propria missione intellettuale, assistendo alle lezioni della maggior parte dei professori più alla moda. Tuttavia, si sente un po' smarrita. Confusa. Specialmente dagli altri studenti. E' abituata a stare con la gente che parla la stessa lingua intellettuale, e questi americani... E non tutti la trovano così interessante. Si aspettava di venire in America e di sentirli dire: «Oh, mio Dio, è una normalienne». In America, invece, nessuno sembra apprezzare la strada specialissima che ha percorso in Francia, e il suo enorme prestigio. Delphine non riceve il tipo di attenzione che si aspettava di ricevere come fiore in boccio dell'élite intellettuale francese. E non suscita nemmeno il tipo di risentimento che si sarebbe aspettata di suscitare. Trova un relatore e scrive la sua dissertazione. La difende. Ottiene il titolo. Lo ottiene con una straordinaria rapidità perché aveva già lavorato sodo, in Francia. Tanto studio e tanto lavoro, adesso è pronta per un posto importante nelle più importanti università – Princeton, Columbia, Cornell, Chicago – e quando non l'ottiene Delphine è annichilita. Un posto temporaneo all'Athena College? Dov'è e cos'è l'Athena College? La ragazza arriccia il naso. Finché il suo relatore dice: – Delphine, in questo mercato si trova un posto importante solo se si viene da un altro posto. Assistente temporaneo all'Athena College? Forse tu non ne hai mai sentito parlare, ma noi sì. Decorosissimo istituto. Decorosissimo impiego, per un primo impiego –. Gli altri studenti stranieri le dicono che lei è troppo in gamba per l'Athena College, che sarebbe una cosa troppo déclassée, mentre i suoi compagni americani, che ammazzerebbero qualcuno per un posto di insegnante nella sala caldaie di Stop & Shop, pensano che la sua boria è la tipica boria delphi-

niana. A malincuore la ragazza fa domanda... E finisce, con il suo minikilt e i suoi stivali, davanti alla scrivania del professor Coleman Silk. Per ottenere il secondo posto, il posto che desidera, le serve prima questo posto ad Athena, ma per quasi un'ora il preside di facoltà la sente parlare in un modo che quasi lo convince a decidere di non assegnarglielo. Struttura narrativa e temporalità. Le intime contraddizioni dell'opera d'arte. Rousseau che si nasconde ed è tradito dalla sua retorica. (Un pochino come lei, pensa il professore, in quel saggio autobiografico). La voce del critico legittimata come la voce di Erodoto. Narratologia. Il diegetico. La differenza tra diegesi e mimesi. L'esperienza parentetica. La qualità prolettica del testo. Coleman non ha bisogno di chiedere che cosa significa tutto questo. Sa, nell'originario senso greco, cosa significano tutte le parole di Yale e cosa significano tutte le parole dell'école Normale Supérieure. E lei? Poiché ci dà dentro da più di trent'anni, Coleman non ha tempo per queste cose. E pensa: perché una ragazza così bella vuole nascondersi dietro queste parole per sfuggire alla dimensione umana della sua esperienza? Forse proprio perché è così bella. Così piena di amor proprio, pensa, e così illusa. Certo che aveva ottime credenziali. Ma per Coleman Delphine rappresentava proprio quel genere di prestigiosa trombonaggine accademica di cui gli studenti di Athena avevano bisogno come di un buco in testa, anche se sulle mezze calze del corpo insegnante il suo fascino si sarebbe dimostrato irresistibile. Allora Coleman credette che, assumendola, avrebbe mostrato la propria larghezza di vedute. Più probabilmente, invece, l'assunse perché era così seducente. Così bella. Così allettante. E tanto più perché aveva un aspetto così filiale. Delphine Roux aveva frainteso le sue occhiate pensando, un po' melodrammaticamente (un peso morto per la sua sagacia, questo impulso, non soltanto di saltare alla melodrammatica conclusione, ma di cedere eroticamente al fascino del melodramma), che volesse solo legarle le mani dietro la schiena: quello che Coleman voleva, per ogni possibile motivo, era non averla tra i piedi. E così lui l'assunse. E così cominciarono subito a non andare affatto d'accordo. E ora era lei che lo aveva convocato nel suo ufficio per interrogarlo. Nel 1995, l'anno in cui aveva lasciato la sua carica per tornare all'insegnamento, a Coleman era parso che il fascino dell'avvolgente sciccheria della piccola e graziosa Delphine, con le sue monellesche allusioni a una sotterranea sensualità, insieme alle lusinghe della sua raffinatezza da normalienne (quella che Coleman descriveva come «la sua continua opera di autopompaggio»), avesse conquistato quasi tutti i più stupidi professori corteggiabili; e Delphine, che non aveva ancora trent'anni (ma che forse mirava alla carica che un tempo era stata di Coleman), aveva ottenuto la direzione del piccolo dipartimento che una dozzina di anni prima aveva assorbito, insie-

me agli altri dipartimenti di lingua, il vecchio dipartimento di lettere classiche dove Coleman aveva iniziato la propria carriera di docente. Nel nuovo dipartimento di lingue e letteratura c'erano undici professori, uno di russo, uno di italiano, uno di spagnolo, uno di tedesco, c'erano Delphine per il francese e Coleman Silk per i classici, e c'erano cinque aggiunti oberati di lavoro, assistenti alle prime armi come pure qualche straniero del posto, che tenevano i corsi elementari. – Il fraintendimento di queste due tragedie da parte della signorina Mitnick, – stava dicendole Coleman, – su preoccupazioni ideologiche così anguste e limitate che non si presta ad alcuna correzione. – Lei dunque non smentisce ciò che dice la ragazza: che non ha cercato di aiutarla. – Una studentessa che mi dice che io le rivolgo la parola in una «lingua sessista» ha scarsissime probabilità di poter essere aiutata da me. – Allora, – disse con dolcezza Delphine, – c'è un problema, no? Coleman rise, spontaneamente e con intenzione. – Sì? L'inglese che parlo io manca forse delle sottigliezze indispensabili per uno spirito raffinato come quello della signorina Mitnick? – Coleman, lei è stato assente dall'aula per moltissimo tempo. – E lei non ne è mai uscita. Mia cara, – disse lui volutamente, e con un sorriso volutamente irritante, – io ho letto e meditato su queste tragedie per tutta la vita. – Mai, però, dalla prospettiva femminista di Elena. – E mai dalla prospettiva ebraica di Mosè. Mai, neppure, dalla prospettiva, oggi molto in voga, nietzscheana sulla prospettiva. – Coleman Silk, unico sul pianeta, non ha altra prospettiva che la prospettiva letteraria totalmente disinteressata. – Quasi senza eccezione, mia cara, – (ancora? Perché no?) – i nostri studenti sono di un'ignoranza abissale. Sono stati educati incredibilmente male. La loro vita è un deserto intellettuale. Vengono qui senza sapere nulla e se ne vanno, per la maggior parte, senza sapere nulla. Meno di tutto sanno, quando mettono il naso nell'aula dove tengo la lezione, come leggere la tragedia classica. Insegnare ad Athena, specie negli anni novanta, insegnare a quella che è la generazione di gran lunga più ottusa nella storia americana, è lo stesso che venire su per Broadway, a Manhattan, parlando da soli, con la differenza che le diciotto persone che ti sentono parlare da solo per la strada sono tutte lì, nell'aula. Non sanno, cioè, voglio dire... niente. Dopo essermi occupato per quasi quarant'anni di studenti come questi – e la signorina Mitnick è un caso tipico – posso dirle che una prospettiva femminista su Euripide è l'ultima cosa di cui hanno bisogno. Fornire alle più ingenue delle lettrici una prospettiva femminista su Euripide è uno dei modi migliori che si potrebbero ideare per farle smettere di pensare prima che abbiano avuto anche solo un'occasione di cominciare a demolire

uno solo dei loro stupidi «come dire». Stento a credere che una donna istruita come lei, con una preparazione accademica francese come la sua, creda che esista una prospettiva femminista su Euripide che non sia una semplice idiozia. Lei è stata veramente edificata in così breve tempo, o questo è solo antiquato carrierismo che oggi affonda le radici nella paura delle sue colleghe femministe? Perché, se si tratta di semplice carrierismo, per me va benissimo. E' umano e lo capisco. Ma se si tratta di un impegno intellettuale nei riguardi di questa idiozia, allora devo dire che sono perplesso, perché lei non è un'idiota. Perché lei la sa lunga. Perché in Francia, di sicuro, nessun professore uscito dall'école Normale si sognerebbe di prendere sul serio queste cose. O no? Leggere due tragedie come Ippolito e Alcesti, seguire una settimana di discussioni in aula per ciascuna, e non avere niente da dire su nessuna delle due all'infuori del fatto che sono «degradanti per le donne» non è una «prospettiva», per amor di Dio... E' sciacquarsi la bocca con le parole. E' l'ultimo collutorio lanciato sul mercato. – Elena è una studentessa. Ha vent'anni. Sta imparando. – Fare del sentimentalismo sui propri studenti non le si addice, mia cara. Li prenda sul serio. Elena non sta imparando. Sta imitando pappagallescamente qualcuno. E, se è corsa subito da lei, è perché è più che probabile che la persona che vuole imitare sia lei. – Non è vero, ma se le fa piacere inquadrarmi culturalmente così, anche questo va bene, ed è assolutamente prevedibile. Se collocandomi in questo stupido quadro lei si sente più sicuro, e superiore, faccia pure, mio caro, – fu ben lieta di dire Delphine con un sorriso. – Il suo trattamento è stato offensivo. Ecco perché Elena è corsa da me. Lei l'ha spaventata. Era sconvolta. – Be', riconosco di avere un comportamento irritante quando mi trovo a dover affrontare le conseguenze di aver assunto una persona come lei. – E alcuni dei nostri studenti – rispose Delphine – reagiscono con un comportamento irritante quando si trovano davanti a una pedagogia fossilizzata come la sua. Se lei continuerà a insegnare la letteratura nel modo tedioso al quale è avvezzo, se insisterà nel cosiddetto approccio umanista alla tragedia greca che le è consueto dagli anni cinquanta, conflitti come questo sorgeranno in continuazione. – Bene, – disse lui. – Sorgano pure –. E uscì. E il semestre successivo, quando Tracy Cummings, con gli occhi gonfi di lacrime, corse dalla professoressa Roux, quasi incapace di articolare una parola e sconcertata dall'aver appreso che, per descriverla ai compagni, il professor Silk aveva usato, alle sue spalle, un epiteto maliziosamente razziale, Delphine decise che invitare Coleman in ufficio per parlare dell'accusa sarebbe stata solo una perdita di tempo. Poiché era sicura che Coleman non si sarebbe comportato più garbatamente dell'ultima volta che una studentessa si era lamentata (e sicura, dalla passata esperienza, che, se l'avesse convocato, ancora una vol-

ta Coleman l'avrebbe guardata dall'alto in basso e trattata con la solita condiscendenza: ecco un'altra mezza calza che osava criticare la sua condotta, ecco un'altra donna di cui doveva banalizzare gli interessi anche solo per degnarsi di parlarne), Delphine aveva passato la patata bollente al sensibile preside di facoltà che gli era succeduto. Da allora in poi poté passare il suo tempo più utilmente con Tracy, calmando la ragazza, consolandola e prendendola sotto la sua protezione: una nera senza genitori così demoralizzata che, nelle prime settimane dopo l'episodio, per impedirle di pigliare e scappar via (ma scappare dove? In nessun posto!), Delphine aveva ottenuto il permesso di trasferirla dal dormitorio in una stanza libera del proprio appartamento e di tenerla, temporaneamente, in una specie di affidamento. Anche se, alla fine dell'anno accademico, Coleman Silk, ritirandosi spontaneamente dall'insegnamento, in pratica aveva ammesso la sua colpa nell'affare degli «spettri», il danno fatto a Tracy si rivelò troppo debilitante per una creatura così incerta: incapace di concentrarsi nello studio a causa dell'inchiesta e attanagliata dal timore che il professor Silk mettesse gli altri insegnanti contro di lei, Tracy era stata bocciata in tutti gli esami. La ragazza fece le valigie non soltanto per lasciare il college ma per andarsene dalla città, da Athena, dove Delphine aveva sperato di trovarle un lavoro, di farle prendere lezioni private e di tenerla d'occhio fino a quando avesse potuto tornare a scuola. Un giorno Tracy prese un autobus per l'Oklahoma per andare da una sorellastra, a Tulsa; ma anche ricorrendo all'indirizzo di Tulsa Delphine non era più riuscita a rintracciarla. Poi Delphine sentì parlare della relazione di Coleman Silk con Faunia Farley, che lui faceva tutto il possibile per tenere nascosta. Non ci poteva credere: in pensione da due anni, settantun anni di età, e quell'uomo non aveva perso né il pelo né il vizio. Non potendo più intimidire le studentesse che osavano criticare i suoi pregiudizi, non potendo più mettere in ridicolo le ragazze nere che dovevano essere educate con cura, non potendo più offendere e umiliare le giovani professoresse come lei che minacciavano la sua egemonia, era riuscito a ripescare, dai più profondi recessi del college, una candidata alla sottomissione che era il prototipo dell'impotenza femminile: quella che poteva, a pieno titolo, definirsi una moglie maltrattata. Quando andò all'ufficio personale per raccogliere sulla vita di Faunia tutte le informazioni che poteva, quando lesse dell'ex marito e dell'orribile morte dei due figli (in un misterioso incendio appiccato, sospettava qualcuno, dall'ex marito), quando lesse dell'analfabetismo che limitava Faunia all'esecuzione solo dei più umili tra i compiti di una bidella, Delphine comprese che Coleman Silk era riuscito a scovare una donna che poteva definirsi il sogno di un misogino: in Faunia Farley aveva trovato una persona ancora più indifesa di Elena o di Tracy, la donna ideale da schiacciare. Adesso Faunia Farley avrebbe dovuto pagare per chiunque ad Athena avesse mai osato sfidare il suo assurdo modo d'intendere le sue prerogative.

E nessuno poteva fermarlo, pensò Delphine. Nessuno poteva tagliargli la strada. Quando si rese conto che Coleman Silk si era ormai sottratto alla giurisdizione del college, e che pertanto nulla gli impediva di vendicarsi di lei (di lei, sì, di lei per tutto ciò che aveva fatto per impedirgli di terrorizzare psicologicamente le sue studentesse, di lei per la parte che aveva avuto nel farlo privare di ogni autorità ed escludere dall'insegnamento), Delphine non riuscì a trattenere l'indignazione. Faunia Farley aveva preso il suo posto. Attraverso Faunia Farley Coleman le restituiva colpo su colpo. Alla faccia di chi ti fa pensare se non alla mia? Al nome e alla forma di chi? Immagine speculare di me stessa, non potrebbe farti pensare a nessun'altra. Adescando una donna che è, come me, impiegata all'Athena College, che ha, come me, meno della metà dei tuoi anni (anche se è una donna che per tutti gli altri versi è il mio contrario), hai nello stesso tempo abilmente ma scherato e svelato nel modo più flagrante chi è esattamente la persona che vuoi distruggere. Non sei tanto ingenuo da non saperlo e, dal tuo augusto piedistallo, sei abbastanza crudele per trovarvi una grande soddisfazione. Ma anch'io non sono tanto stupida da non capire che la donna alla quale vuoi fare la festa, in effigie, sono io. Così pronta era stata l'intuizione, e lei l'aveva articolata in frasi così spontaneamente esplosive, che al momento di firmare col suo nome in calce al secondo foglio della lettera e di indirizzargli una busta fermo posta già Delphine ribolliva di sdegno al pensiero della malvagità che poteva trasformare in un balocco una donna orribilmente sfavorita che aveva perso tutto, della malvagità che poteva capricciosamente trasformare in un trastullo un essere umano sofferente come Faunia Farley solo per consentire a Coleman Silk di vendicarsi di lei. Come poteva, quell'uomo, fare una cosa simile? No, non avrebbe cambiato di una sillaba ciò che aveva scritto, e non si sarebbe presa il disturbo di batterla a macchina per facilitargliene la lettura. Non voleva attenuare il suo messaggio proprio là dove mostrava la sua forza con l'aggressiva e rabbiosa inclinazione della calligrafia. Non sottovalutasse la sua determinazione: per lei, a questo punto, non c'era nulla di più importante che smascherare Coleman Silk per quello che era. Venti minuti dopo, tuttavia, stracciò la lettera. E meno male. Meno male. Quando l'idealismo più sfrenato si impossessava di lei, non sempre Delphine riusciva a vederlo come un prodotto della fantasia. Aveva ragione a scagliarsi contro un così ignobile predatore. Ma immaginare di salvare una donna senza speranza come Faunia Farley quando non era stata capace di salvare Tracy? Immaginare di avere la meglio su un uomo che, nella sua vecchiaia inasprita, era ormai libero non soltanto da ogni vincolo istituzionale ma – bell'umanista che era! – da ogni umana considerazione? Non poteva esserci, per lei, illusione più grande di questa: credersi furba come Coleman Silk. Anche una lettera così chiaramente composta nel calor bianco

della repulsione morale, una lettera nella quale lo informava chiaramente che il suo segreto era svelato, che lui era scoperto, smascherato, snidato, nelle sue mani sarebbe stata, in qualche modo, distorta e trasformata in un'accusa con la quale compromettere lei e, se si fosse presentata l'occasione, rovinarla completamente. Era un uomo spietato e paranoico, e, le piacesse o no, c'erano cose concrete da prendere in considerazione, interessi che probabilmente non l'avrebbero ostacolata quando era ancora una studentessa di lycée di orientamento marxista la cui incapacità di tollerare le ingiustizie a volte sorpassava, dichiaratamene, il senso comune. Ma ora Delphine Roux era una professoressa universitaria, una precoce cattedratica, già a capo del suo dipartimento e quasi certa di arrivare, un giorno, a Princeton, alla Columbia, alla Cornell, alla University of Chicago, o forse di tornare, trionfalmente, persino a Yale. Una lettera come quella, firmata da lei e passata da Coleman Silk di mano in mano finché non fosse giunta, inevitabilmente, sul tavolo di chi, per invidia, per risentimento, o anche solo perché lei era troppo giovane per essere arrivata così in alto, poteva nutrire il desiderio di scavarle la terra sotto i piedi... Sì, temeraria com'era, senza che nulla del suo furore fosse stato censurato, quella lettera sarebbe stata usata da Coleman per banalizzarla, per sostenere che lei mancava di maturità e che non aveva motivo di sentirsi superiore a nessuno. Coleman Silk aveva ancora relazioni, aveva conoscenze... Era capace di farlo. L'avrebbe fatto sicuramente, per attribuirle una falsa intenzione. Stracciò rapidamente la lettera in tanti pezzettini e, al centro di un altro foglio di carta, con una penna a sfera rossa come quelle che non usava mai per la corrispondenza e a grosse lettere maiuscole che nessuno avrebbe riconosciuto come sue, scrisse: TUTTI SANNO Ma non andò oltre. Si fermò lì. Tre sere dopo, spenta la luce da qualche minuto, si alzò dal letto e, rinsavita, andò alla scrivania per appallottolare, scartare e dimenticare per sempre il pezzo di carta che iniziava con TUTTI SANNO; e invece, piegandosi sulla scrivania, senza neanche mettersi a sedere (temendo che nel tempo che avrebbe impiegato a sedersi si sarebbe nuovamente persa d'animo), scrisse di getto altre sedici parole che bastassero a fargli sapere che il suo smascheramento era imminente. La busta venne indirizzata e affrancata, il biglietto non firmato introdotto nella busta e sigillato, il lume spento, e Delphine, sollevata per avere preso una decisione definitiva sulla cosa più rivelatrice che poteva fare nei limiti concreti della propria situazione, tornò a letto e, moralmente soddisfatta, si preparò a scivolare in un sonno tranquillo. Prima, però, dovette soffocare tutto ciò che la spingeva ad alzarsi di

nuovo e ad aprire la busta per rileggere ciò che aveva scritto, per vedere se aveva detto troppo poco o se lo aveva detto troppo debolmente; o se il suo tono era troppo stridulo. Certo, quella non era la sua retorica. Non lo poteva essere. Ecco perché l'aveva usata: era troppo volgare, troppo plateale, troppo schematica per poter essere attribuita a lei. Ma proprio per tale motivo forse l'aveva giudicata male, e le era riuscita poco convincente. Doveva alzarsi e andare a vedere se si era ricordata di alterare la propria calligrafia: doveva andare a vedere se inavvertitamente, nell'agitazione del momento, si era distratta e aveva firmato col proprio nome, seguito da un rabbioso svolazzo. Doveva vedere se, senza pensare, aveva in qualche modo rivelato chi era. E se anche fosse? Avrebbe proprio dovuto metterci la firma. Tutta la sua vita era stata una battaglia per non farsi intimidire dai Coleman Silk che approfittano dei loro privilegi per opprimere la gente e fare quello che gli pare. Una battaglia per rispondere agli uomini. Per parlare con loro senza peli sulla lingua. Anche con uomini molto più vecchi di lei. Per imparare a non sentirsi in soggezione davanti alla loro presunta autorità o alla loro pretesa saggezza. Per costringerli a riconoscere la sua intelligenza. Per osare considerarsi alla loro altezza. Per imparare, quando illustrava un argomento e non riusciva a difenderlo in modo adeguato, a vincere il bisogno di capitolare, per imparare ad appellarsi alla logica, alla fiducia in se stessa e alla calma necessaria per continuare a discutere, indipendentemente da quello che gli altri facevano o dicevano per metterla a tacere. Per imparare a fare il secondo passo, a reggere allo sforzo invece di crollare. Per imparare a difendere la propria posizione senza fare passi indietro. Non doveva rimettersi a lui, non doveva rimettersi a nessuno. Coleman non era più il preside di facoltà che l'aveva assunta. E non era il capo del dipartimento. Il capo del dipartimento era lei. Il professor Silk non era più nulla. Avrebbe proprio dovuto aprire quella lettera e firmarla col suo nome. Coleman non era più nulla. La frase aveva tutto il conforto di un mantra: nulla. Girò per settimane con la busta nella borsetta, passando in rivista le proprie ragioni, chiedendosi non soltanto se doveva spedirla ma se doveva bandire gli indugi e firmarla. Lui sceglie questa donna devastata che non ha la minima possibilità di reagire. Che non può assolutamente competere con lui. Che sul piano intellettuale non esiste nemmeno. Sceglie una donna che non si è mai difesa, che non è in grado di difendersi, la più debole su questa terra della quale ci si possa approfittare, drasticamente inferiore a lui sotto tutti gli aspetti; e la sceglie per il più trasparente di una serie di motivi antitetici: perché considera tutte le donne inferiori e perché ha paura di ogni donna col cervello. Perché io, personalmente, parlo fuori dei denti, perché non mi faccio mettere i piedi sulla testa, perché ho fatto carriera, perché sono una donna attraente, perché sono uno spirito indipendente, perché ho un'istruzione di prim'ordine, un titolo di studio di prim'ordine... E poi, a New York, dove un sabato era andata a vedere la mostra di

Jackson Pollock, tirò fuori la busta dalla borsetta e lasciò quasi cadere quella lettera di diciotto parole, non firmata, in una buca della Port Authority, la prima che vide dopo essere scesa dal pullman. L'aveva ancora in mano quando prese la metropolitana, ma, una volta partito il treno, se la dimenticò, tornò a ficcarla nella borsetta e si lasciò nuovamente incantare dall'eloquenza della metropolitana. Era sempre elettrizzata e stupita dalla metropolitana di New York. A Parigi, quando era in metrò, non ci pensava mai, ma la malinconica angoscia dei passeggeri della metropolitana di New York non mancava mai di rinsaldare la sua convinzione di avere fatto bene a venire in America. La metropolitana di New York era il simbolo del motivo per cui era venuta: il suo rifiuto di ritrarsi davanti alla realtà. La mostra di Pollock ebbe un tale impatto emotivo su di lei che Delphine Roux provò, mentre passava dall'uno all'altro di quegli stupendi dipinti, qualcosa di quel sentimento palpitante e fragoroso che è la passione amorosa. Quando il cellulare di una donna trillò improvvisamente mentre tutto il caos del dipinto intitolato Number 1A, 1948 irrompeva selvaggiamente nello spazio che prima di quel momento per tutto il giorno – prima di quel momento per tutto l'anno – non era stato altro che il suo corpo, la prese un tale accesso di furore che si voltò indietro ed esclamò: – Signora, la strozzerei volentieri! Poi si recò alla New York Public Library nella Quarantaduesima Strada. Lo faceva sempre, a New York. Andava ai musei, alle gallerie, ai concerti, andava a vedere i film che non sarebbero mai arrivati fino all'unico orribile cinema dell'arretrata Athena, e alla fine, qualunque fosse la cosa specifica che era venuta a fare a New York, andava a leggere per un'ora o giù di lì il libro che aveva portato con sé, seduta nella sala di lettura principale della biblioteca. Legge. Si guarda intorno. Osserva. Prende piccole cotte per gli uomini presenti. A Parigi, durante uno dei festival, aveva visto il film Il maratoneta. (Nessuno sa che al cinema Delphine è terribilmente sentimentale e si abbandona spesso alle lacrime). Nel Maratoneta uno dei personaggi, un falso studente, è lì che ozia davanti alla New York Public Library quando viene abbordato da Dustin Hoffman; e così è in questa luce romantica che Delphine Roux ha sempre pensato alla New York Public Library. Lì, finora, nessuno l'ha abbordata, a parte uno studente in medicina che era troppo giovane, troppo rozzo, e che aveva detto subito la cosa sbagliata. Aveva detto subito qualcosa sul suo accento, e lei non lo aveva sopportato. Quel ragazzo che doveva ancora cominciare a vivere l'aveva fatta sentire sua nonna. Lei aveva già avuto, alla sua età, un gran numero di relazioni amo rose, aveva tanto pensato e ripensato, e sofferto, più o meno intensamente: a vent'anni, molto più giovane di lui, aveva già vissuto la sua grande storia d'amore non una volta, ma due. Un po' era venuta in America per fuggire dalla sua storia d'amore (e anche per uscire da quel dramma da gran tempo

in cartellone dov'era una semplice comparsa – intitolato Eccetera – che era la vita quasi criminalmente felice di sua madre). Ma nella sua battaglia per trovare un uomo con cui stabilire un rapporto oggi Delphine è davvero molto sola. Altri che cercano di rimorchiarla dicono a volte qualcosa di accettabile, a volte qualcosa di abbastanza ironico o abbastanza malizioso per riuscirle simpatici, ma poi – dato che vista da vicino lei è più bella di quanto si fossero resi conto e, per una donna così minuta, un po' più arrogante di quanto si aspettassero – si fanno prendere dalla timidezza e si tirano indietro. Quelli che con lei stabiliscono un contatto visivo sono, automaticamente, quelli che non le piacciono. E quelli tutti presi dai loro libri, quelli gradevolmente ignari e gradevolmente desiderabili, sono... tutti presi dai loro libri. Chi cerca? Cerca l'uomo che la riconoscerà. Cerca il Grande Conoscitore. Oggi Delphine sta leggendo, in francese, un libro di Julia Kristeva, il più bel trattato sulla malinconia che sia stato mai scritto, e davanti a lei, al tavolo più vicino, vede un uomo che sta leggendo, pensa un po', un libro in francese del marito della Kristeva, Philippe Sollers. L'arguzia di Sollers è una cosa che Delphine non vuole più prendere sul serio, qualunque sia stata la sua influenza su di lei in uno stadio giovanile dello sviluppo intellettuale; gli arguti scrittori francesi, diversamente dagli arguti scrittori provenienti dall'Europa orientale come Kundera, non la soddisfano più... Ma non è questo il punto, lì, alla New York Public Library. Il punto è la coincidenza, una coincidenza che le appare quasi sinistra. Nella sua insaziabile inquietudine Delphine si lancia in mille ipotesi sull'uomo che sta leggendo Sollers mentre lei sta leggendo la Kristeva e sente l'imminenza non soltanto di un abbordaggio ma di un'avventura. Sa che quell'uomo sulla quarantina ha proprio quel genere di gravitas che ad Athena non trova in nessuno. Ciò che riesce ad arguire da come lui se ne sta tranquillamente là seduto a leggere la rende sempre più fiduciosa: sta per succedere qualcosa. E qualcosa succede: una ragazza gli si avvicina, una ragazza che, decisamente, è ancora più giovane di lei, e i due se ne vanno insieme; e allora Delphine raccoglie la sua roba ed esce dalla biblioteca e, alla prima buca che vede, prende la lettera dalla borsetta – la lettera che vi giace da più di un mese – e la ficca nella cassetta con qualcosa di simile al furore con cui ha detto alla donna alla mostra di Pollock che aveva voglia di strozzarla. Là! E' andata! Ce l'ho fatta! Bene! Cinque secondi buoni devono passare prima che, stordita dall'enormità dello sbaglio, si senta piegare le ginocchia. «Oh, mio Dio!» Anche così, anche dopo averla lasciata senza firma, anche dopo aver usato una retorica di una volgarità che non è la sua, le origini della lettera non saranno un mistero per un fissato come Coleman Silk, per quell'uomo che ce l'ha con lei. Adesso lui non la lascerà più in pace.

Capitolo quarto Quale maniaco l'ha concepita?

Solo un'altra volta, dopo quel luglio, vidi Coleman vivo. Personalmente non mi parlò mai della visita al college, né della telefonata dall'unione studentesca al figlio Jeff. Seppi che quel giorno era stato al campus perché era stato notato – casualmente, dalla finestra di un ufficio – dal suo ex collega Herb Keble, il quale, verso la fine del discorso che tenne al funerale, accennò al fatto di avere visto Coleman acquattato all'ombra del muro di North Hall, nascosto – in apparenza – per motivi che Keble poteva solo tirare a indovinare. Seppi della telefonata perché Jeff Silk, col quale parlai dopo il funerale, vi accennò, abbastanza ampiamente per farmi capire che durante la telefonata Coleman aveva perso ogni controllo. E fu direttamente da Nelson Primus che appresi della visita fatta da Coleman all'ufficio dell'avvocato lo stesso giorno in cui aveva telefonato a Jeff, una visita finita, come la telefonata, con una raffica di ingiurie disgustate uscite dalla bocca di Coleman. Dopodiché né Primus né Jeff Silk gli avevano più rivolto la parola. Coleman non rispose né alle loro telefonate né alle mie – risultò che non aveva risposto alle telefonate di nessuno – e poi sembra che avesse staccato quasi subito la segreteria telefonica, perché il telefono, quando cercavo di mettermi in contatto con lui, continuava a suonare a vuoto. Era in casa, però, da solo; non era andato via. Sapevo che era là perché, dopo due settimane di telefonate senza esito, un sabato sera ai primi di agosto, dopo il tramonto, passai da quelle parti per dare un'occhiata. C'era solo qualche luce accesa, ma quando mi fermai sotto l'ampio ombrello di rami dei vecchi aceri di Coleman, spensi il motore e restai seduto in macchina sulla strada asfaltata ai piedi del prato ondulato, sentii – come no – la musica da ballo prorompere dalle finestre aperte della casa di legno bianco con le persiane nere, il programma a modulazione di frequenza che durava tutto il sabato sera e che lo riportava col pensiero a Steena Palsson e alla stanza al seminterrato di Sullivan Street subito dopo la guerra. Coleman è là dentro, ora, solo con Faunia, e ciascuno dei due difende l'altro da tutti gli altri: ciascuno dei due, per l'altro, comprende tutti gli altri. Là dentro ballano, molto probabilmente svestiti, lasciandosi alle spalle il mondo con le sue tri-

bolazioni, in un paradiso non terrestre di terrestre passionalità dove il loro accoppiarsi è il dramma in cui decantano tutte le rabbiose disillusioni della loro vita. Ricordavo una cosa che aveva detto Faunia – così almeno mi aveva raccontato lui – nell'euforia di una delle loro serate, quando sembravano avere tante cose in comune. Coleman le aveva detto: – Questo non è soltanto sesso, è qualcosa di più, – e in tono reciso lei rispose: – No, non è vero. Hai semplicemente dimenticato cos'è il sesso. Questo è sesso. E basta. Non rovinarlo con la pretesa che sia un'altra cosa. Chi sono, loro, adesso? Sono la versione più semplice possibile di se stessi. L'essenza della singolarità. Tutto il dolore si è raggrumato in passione. Forse non rimpiangono nemmeno più che le cose non siano andate diversamente. Si sono trincerati troppo bene nel disgusto per questa situazione. Sono sgusciati da sotto tutto ciò che era stato ammassato su di loro. Non c'è niente nella vita che li tenti come questa intimità, niente nella vita che li ecciti come questa intimità, niente nella vita come questa intimità che mitighi l'odio che hanno per la vita. Chi sono queste persone così drasticamente diverse tra loro, così assurdamente – a settantuno e trentaquattro anni – alleate tra loro? Sono il disastro a cui sono chiamati. Ballando nudi al ritmo della band di Tommy Dorsey e al soave canto confidenziale del giovane Frank Sinatra, vanno senza esitare verso una morte violenta. Ognuno, sulla terra, prepara in modo diverso la propria fine: questo è il modo in cui la programmano loro. Non è più possibile, ormai, che si fermino in tempo. E' fatta. Non sono solo ad ascoltare la musica dalla strada. Quando vidi che non rispondeva alle mie telefonate, pensai che Coleman non volesse avere più nulla a che fare con me. Qualcosa era andato di traverso, e immaginai, come si fa quando un'amicizia finisce bruscamente (una nuova amicizia, in particolare), che la responsabilità fosse mia, se non per qualche parola o azione indiscreta che lo aveva profondamente irritato o offeso, semplicemente per quello che sono. Ricordate che Coleman era venuto da me, la prima volta, perché sperava, poco realisticamente, di convincermi a scrivere il libro che avrebbe dovuto spiegare come il college aveva ucciso sua moglie; permettere a questo stesso scrittore di ficcare il naso nella sua vita privata era probabilmente l'ultima cosa che ora desiderava. Non sapevo a quale conclusione arrivare, se non che nascondermi i dettagli della sua vita con Faunia doveva essergli apparso, per qualche ragione, di gran lunga più saggio che continuare a confidarsi con me. Naturalmente, allora non sapevo nulla della verità delle sue origini – anche quella l'avrei appresa in maniera conclusiva al funerale – e perciò non potevo nemmeno sospettare che la ragione per cui non ci eravamo mai incontrati negli anni prima della morte di Iris, la ragione per cui aveva evita-

to di incontrarmi, era che io stesso ero cresciuto ad appena qualche miglio da East Orange e che, avendo della regione una conoscenza piuttosto approfondita, avrei potuto sapere troppe cose o essere troppo curioso per non indagare sulle sue radici jerseyane. E se fosse saltato fuori che ero uno dei ragazzi ebrei di Newark dei corsi di boxe che Doc Chizner teneva dopo la scuola? Il fatto è che andò proprio così, ma non prima del '46 e del '47, quando Silky ormai era alla NYU col sussidio della legge per i reduci e non aiutava più Doc a insegnare ai ragazzi come me il modo giusto di piazzarsi sul ring e di muoversi e tirare pugni. Il fatto è che, essendomi diventato amico nel periodo in cui scriveva la sua versione di Spettri, Coleman aveva veramente corso il rischio – e uno stupido rischio, se è per questo – di essere smascherato, quasi sessant'anni dopo, come lo studente negro del liceo di East Orange che doveva tenere il discorso di commiato durante la cerimonia per la consegna dei diplomi, il ragazzo di colore che aveva tirato di boxe nel New Jersey disputando incontri tra dilettanti per il Morton Street Boys Club prima di arruolarsi in marina come un bianco; troncare i rapporti con me nel pieno di quell'estate era sensato per un sacco di ragioni, anche se io non avevo modo di immaginare il perché. Ma torniamo all'ultima volta che lo vidi. Un sabato d'agosto, spinto dalla solitudine, andai a Tanglewood ad assistere alla prova aperta al pubblico del concerto in programma per il giorno seguente. Una settimana dopo essermi fermato con la macchina sotto la sua casa, sentivo ancora sia la mancanza di Coleman che la mancanza dell'esperienza di avere un amico intimo, e così ebbi l'idea di aggregarmi a quel piccolo pubblico del sabato mattina che riempie per un quarto il Music Shed per queste prove, un pubblico di villeggianti che amano la musica e di studenti di musica in visita, ma soprattutto di anziani turisti, gente con l'apparecchio acustico e gente col binocolo e gente che sfoglia il «New York Times», arrivata in pullman sui Berkshire per passarvi la giornata. Forse fu la stranezza di quella mia escursione, l'esperienza momentanea di essere una creatura socievole (o una creatura che fingeva di essere socievole), o forse fu a causa di una fuggevole impressione che mi fecero gli anziani tra il pubblico, di imbarcati, di deportati, in attesa di essere sospinti, galleggiando sulle onde della musica, lontano dalla fin troppo tangibile clausura della vecchiaia, ma quel sabato ventilato e pieno di sole nell'ultima estate della vita di Coleman Silk il Music Shed continuava a ricordarmi i pontili aperti ai lati che una volta si allungavano cavernosamente sull'Hudson, come se uno di questi pontili spaziosi e con le travature di ferro, risalenti a quando i transatlantici si ormeggiavano a Manhattan, fosse stato sollevato dall'acqua in tutta la sua mole, spostato in un lampo di centoventi

miglia a nord e deposto intatto sull'ampio prato di Tanglewood, con un perfetto atterraggio tra gli alberi d'alto fusto e i vasti panorami montagnosi del New England. Mentre mi avviavo verso un posto libero che avevo individuato, uno dei pochi posti liberi vicini al palcoscenico che nessuno aveva ancora occupato buttandovi sopra un pullover o una giacca, continuavo a pensare che stavamo andando tutti insieme da qualche parte, che in effetti ci eravamo già andati e arrivati, lasciando tutto indietro... quando, in realtà, non stavamo facendo altro che prepararci a sentire la Boston Symphony Orchestra che provava Rachmaninov, Prokof'ev e Rimskij–Korsakov. Sotto i piedi della gente, al Music Shed, c'è una distesa di terra battuta bruna dalla quale non potrebbe essere più chiaro che la sedia ha i piedi ben piantati sulla terraferma; appollaiati in cima alla struttura ci sono gli uccelli dei quali si ode il cinguettio nel silenzio solenne tra i movimenti orchestrali, le rondini e gli scriccioli che alacremente vengono dal bosco ai piedi della collina e poi sfrecciano via come nessun uccello avrebbe osato fare lasciando la fluttuante arca di Noè. Eravamo a circa tre ore di macchina dalla costa, a ovest dell'Atlantico, ma io non riuscivo a liberarmi di questa duplice impressione, sia di essere dov'ero sia di essere partito, col resto dei pensionati presenti, per un ignoto acqueo e misterioso. Era solo la morte a pesare sul mio spirito mentre pensavo a questo sbarco? Io e la morte? Coleman e la morte? O erano la morte e una massa di persone ancora capaci di trovare diletto nel farsi scarrozzare a destra e a manca come un gruppo di campeggiatori in gita estiva, e tuttavia, come palpabile moltitudine umana, entità di carne giudiziosa e sangue rosso e caldo, separata dall'oblio dal più sottile, dal più fragile strato di vita? Il programma che precedeva la prova stava terminando proprio quando arrivai io. Un brillante conferenziere in camicia sportiva e pantaloni cachi, ritto davanti alle sedie vuote dell'orchestra, introduceva il pubblico all'ultimo dei pezzi che avrebbero ascoltato, suonando per loro brani di Rachmaninov su un registratore e parlando vivacemente della «cupa natura ritmica» delle Danze sinfoniche. Solo quando ebbe finito e il pubblico scoppiò in un applauso qualcuno emerse dalle quinte per scoprire i timpani e cominciare a disporre gli spartiti musicali sui leggii. In fondo al palco apparve una coppia di macchinisti con le arpe, poi entrarono i musicisti, chiacchierando tra loro mentre passavano, tutti, come l'oratore, vestiti in modo informale per la prova: un oboista con una felpa grigia col cappuccio, una coppia di contrabbassisti in jeans sbiaditi, e i violinisti, uomini e donne, tutti clienti, evidentemente, di Banana Republic. Mentre il direttore inforcava gli occhiali – un direttore ospite, Sergiu Commissiona, un anziano romeno con un pullover a collo alto, zazzera bianca in alto, espadrillas blu in basso – e mentre il pubblico, educato e puerile, si metteva ancora una volta ad applaudire, notai Coleman e Faunia che avanzavano lungo il

corridoio, cercando un posto vicino al palco. I musicisti, che stavano per subire la trasformazione da comitiva di gitanti apparentemente spensierati in fluida e possente macchina musicale, si erano già sistemati e stavano accordando gli strumenti quando la coppia – la donna bionda, alta, dal volto emaciato, e il bell'uomo asciutto dai capelli grigi, molto più vecchio e non alto come lei, sebbene il suo passo fosse ancora quello elastico e leggero dell'atleta – si diresse verso due posti liberi tre file davanti alla mia e una mezza dozzina di metri alla mia destra. Il pezzo di Rimskij–Korsakov era una fiaba melodiosa di oboi e flauti la cui dolcezza il pubblico trovò irresistibile, e quando l'orchestra arrivò alla fine della prima parte del programma tornarono a levarsi applausi entusiasti, come un'ondata d'innocenza, da quella folla di anziani. I musicisti avevano in effetti messo a nudo la più giovane, la più innocente delle nostre idee della vita, l'indistruttibile struggimento per come le cose non sono e non potranno mai essere. O così pensai mentre volgevo lo sguardo verso il mio ex amico e la sua amante scoprendo che non erano per nulla così strani o così umanamente isolati com'ero arrivato a vederli da quando Coleman era sparito. Non avevano affatto l'aria di persone smodate, e meno di tutti Faunia, i cui tratti yankee nitidamente scolpiti mi fecero pensare a una stanza angusta con le finestre, ma senza la porta. In quelle due persone non c'era nulla che sembrasse in lotta con la vita, o all'attacco, o sulla difensiva. Forse da sola, in questo ambiente poco familiare, Faunia avrebbe potuto non sentirsi così a suo agio come sembrava, ma con Coleman al fianco la sua affinità con quell'ambiente non sembrava meno naturale dell'affinità che aveva con lui. Là seduti, fianco a fianco, non avevano l'aria di una coppia di desperados, ma piuttosto di una coppia che aveva raggiunto una sua supremamente concentrata serenità, che non badava nel modo più assoluto ai sentimenti e alle fantasie che la sua presenza poteva fomentare in qualunque parte del mondo, per non parlare della Berkshire County. Mi chiedevo se Coleman l'avesse istruita in anticipo su come voleva che si comportasse. Mi chiedevo se, in tal caso, Faunia gli avesse dato retta. Mi chiedevo se queste istruzioni erano necessarie. Mi chiedevo perché Coleman avesse scelto di portarla a Tanglewood. Solo perché voleva ascoltare della musica? Perché voleva farla ascoltare a lei, e mostrarle i musicisti in carne e ossa? Sotto gli auspici di Afrodite, nel ruolo di Pigmalione e nell'ambiente di Tanglewood, voleva forse, il professore di lettere classiche in pensione, costringere una Faunia recalcitrante e trasgressiva a vivere come una civile e raffinata Galatea? Si era forse assunto il compito di educarla, influenzarla, si era assunto il compito di salvarla dalla tragedia della sua estraneità? Era Tanglewood un primo grande passo verso la trasformazione della loro riottosità in qualcosa di meno eterodosso? Perché così presto? Perché? Perché, quando tutto ciò che avevano ed erano insieme era nato e si era sviluppato dal sotterraneo e dal clandestinamente crudo? Perché cu-

rarsi di normalizzare o regolarizzare questa alleanza, perché fare addirittura il tentativo, andando in giro come una «coppia»? Poiché la pubblicità tenderà solo a erodere l'intensità, è questo, in realtà, che vogliono veramente? Che vuole, lui? Questo addomesticamento era ormai essenziale per la loro vita, o il fatto che fossero lì non aveva alcun significato? O era uno scherzo che stavano facendo, un atto destinato ad agitare, una deliberata provocazione? Sorridevano tra sé, quelle bestie carnali, o erano lì solo per ascoltare la musica? Poiché non si alzarono per stirarsi o per fare quattro passi mentre l'orchestra riposava durante l'intervallo e sul palco veniva spinto un pianoforte – per il Secondo concerto per pianoforte di Prokof'ev – anch'io rimasi al mio posto. Faceva un po' freddo sotto la grande tettoia, un fresco più autunnale che estivo, anche se la luce del sole, fiammeggiando sul vasto prato, scaldava quelli che preferivano ascoltare e divertirsi dall'esterno, un pubblico in gran parte più giovane di coppie sulla ventina e di madri con i bambini in braccio e di famiglie venute lì per un picnic che stavano già estraendo dai panieri la roba da mangiare. Tre file davanti a me Coleman, con la testa un po' inclinata verso di lei, stava parlando tranquillamente, seriamente, con Faunia; ma di cosa, ovviamente, non sapevo. Perché noi non sappiamo, no? Tutti sanno... Cosa? Perché le cose vanno come vanno? Cosa? Tutto ciò che sta sotto l'anarchia del corso degli avvenimenti, le incertezze, i contrattempi, il disaccordo, le traumatiche irregolarità che caratterizzano le vicende umane? Nessuno sa, professoressa Roux. «Tutti sanno» è l'invocazione del cliché e l'inizio della banalizzazione dell'esperienza, e sono proprio la solennità e la presunta autorevolezza con cui la gente formula il cliché a riuscire così insopportabili. Ciò che noi sappiamo è che, in un modo non stereotipato, nessuno sa nulla. Non puoi sapere nulla. Le cose che sai... non le sai. Intenzioni? Motivi? Conseguenze? Significati? Tutto ciò che non sappiamo è stupefacente. Ancor più stupefacente è quello che crediamo di sapere. Mentre il pubblico rientrava nella sala cominciai, caricaturalmente, a immaginare il morbo fatale che, senza che nessuno lo riconoscesse, era all'opera dentro di noi, dentro ciascuno di noi: a vedere i vasi sanguigni che si occludevano sotto i berretti da baseball, i tumori maligni che crescevano sotto i capelli bianchi con la permanente, gli organi che cedevano, si atrofizzavano, smettevano di funzionare, le centinaia di miliardi di cellule assassine che spingevano di nascosto tutto il pubblico verso l'inverosimile disastro che lo aspettava. Non riuscivo a trattenermi. Quella fantastica decimazione che è la morte viene a spazzarci via tutti. Orchestra, pubblico, direttore, tecnici, rondini, scriccioli... Pensate alle cifre per la sola Tanglewood tra il momento attuale e l'anno 4000. Poi moltiplicate questo numero per un altro numero infinito. L'incessante estinzione. Che idea! Quale maniaco l'ha concepita? Eppure, che bella giornata è oggi, un dono del cie-

lo, un giorno ideale cui non manca nulla in un luogo di villeggiatura del Massachusetts che è già di per sé il più innocuo e il più bello della terra. Poi, ecco apparire Bronfman. Bronfman il brontosauro! Mister Fortissimo! Bronfman viene a suonare Prokofa un ritmo tale e con una tale aria da gradasso che tutta la mia morbosità vola fuori dal ring. E' un uomo considerevolmente massiccio nella parte alta del busto, una forza della natura mimetizzata dalla blusa di una tuta, uno che è arrivato al Music Shed dal circo dove esibiva i propri muscoli e che ora se la prende col piano: una sfida ridicola, per la gargantuesca energia in cui sguazza. Più che all'uomo che lo suonerà, Yefim Bronfman somiglia a quello che dovrebbe trasportarlo. Non avevo mai visto nessuno gettarsi su un pianoforte come quel robusto barilotto di un ebreo russo con la barba di tre giorni. Quando avrà finito, penso, dovranno buttarlo via. Lo sta schiacciando. Non gli lascia nascondere nulla. Qualunque cosa abbia dentro dovrà uscire, e con le mani in alto. E quando accade, quando tutto è là fuori, e si spegne l'ultima eco dell'ultima vibrazione, anche lui si alza e se ne va, lasciandosi dietro la nostra redenzione. Ci saluta allegramente con la mano e sparisce; e anche se porta via con sé tutto il suo fuoco con un impeto non minore di quello di Prometeo, ora la nostra vita sembra inestinguibile. Nessuno morirà, nessuno... No, se Bronfman potrà dire la sua! Ci fu un altro intervallo nella prova, e quando Faunia e Coleman si alzarono, stavolta, per uscire all'aperto, li imitai. Attesi che mi precedessero, non sapendo come avvicinare Coleman o – poiché sembrava che non gli interessassi più di ogni altro dei presenti – se proprio dovevo avvicinarlo. Eppure sentivo la sua mancanza. E cos'avevo fatto? Il desiderio di un amico che provavo venne a galla proprio come durante il nostro primo incontro, e ancora una volta, per via di un certo magnetismo che c'era in lui, di un fascino che non ero mai riuscito a definire, non trovai un modo efficace di soffocarlo. Tre o quattro metri dietro di loro, li seguii con lo sguardo mentre, mescolati a un gruppo di persone che procedevano strascicando i piedi, risalivano lentamente la pendenza della corsia verso il prato illuminato dal sole, Coleman rivolgendo ancora tranquillamente la parola a Faunia, con la mano tra le scapole di lei, e il palmo sulla spina dorsale per guidarla mentre le spiegava ciò che le stava spiegando, qualunque cosa fosse, a proposito di ciò, qualunque cosa fosse, che Faunia non sapeva. Una volta fuori, si incamminarono attraverso il prato, presumibilmente nella direzione dell'entrata principale e dello spiazzo al di là che era il parcheggio, e io non feci alcun tentativo di seguirli. Quando per caso mi voltai indietro, verso la tettoia, vidi nell'interno, sotto le luci del palco, gli otto bellissimi contrabbassi allineati e appoggiati sul fianco là dove i musicisti li avevano lasciati prima di uscire per l'intervallo. Perché anche questo dovesse ricordarmi la morte di tutti noi, non saprei dire. Un cimitero di strumenti in posizione orizzon-

tale? Non avrebbero potuto, più giocondamente, farmi venire in mente un branco di balene? Ero lì sul prato a stiracchiarmi, godendomi il tepore del sole sulle spalle ancora per qualche istante prima di tornare al mio posto per ascoltare il Rachmaninov, quando li vidi tornare indietro – evidentemente si erano allontanati dalla tettoia solo per fare quattro passi, forse solo per permettere a Coleman di mostrarle il panorama che si poteva ammirare dal lato sud – e ora stavano tornando prima che l'orchestra concludesse la prova aperta al pubblico con le Danze sinfoniche. Per cercare di sapere qualcosa, decisi allora di puntare direttamente su di loro, benché avessero ancora tutta l'aria di persone decise a badare ai fatti propri. Salutando Coleman con la mano, e dicendo: – Salve. Ciao, Coleman, – tagliai loro la strada. – Mi pareva di averti visto, – disse Coleman, e anche se non gli credetti pensai: che dire, di meglio, per metterla a suo agio? Per mettermi a mio agio? Per mettersi a suo agio? Senza la minima traccia di irritazione, con tutta la bonaria ma spicciativa amabilità del preside di facoltà, per nulla infastidito, in apparenza, dalla mia improvvisa comparsa, Coleman disse: – Che forza quel Bronfman. Stavo dicendo a Faunia che dopo una delle sue esecuzioni il pianoforte è buono per il rigattiere. – Avevo pensato la stessa cosa. – Faunia Farley, – mi disse allora, e a lei: – Nathan Zuckerman. Vi siete incontrati alla fattoria. Più vicina alla mia statura che alla sua. Magra e austera. Poco o nulla da leggere, negli occhi. Un volto decisamente inespressivo. Sensualità? Zero. Introvabile. Fuori dalla sala mungitura, bando a ogni seduzione. Era riuscita a nascondersi così bene da essere invisibile anche lì. Il fiuto di un animale, predatore o preda che fosse. Portava jeans sbiaditi e un paio di mocassini – come Coleman – e, con le maniche rimboccate, una vecchia camicia button–down a quadrettini che era, la riconobbi, una delle sue. – Mi sei mancato, – gli dissi. – Mi piacerebbe invitarvi a cena, una di queste sere. – Buona idea. Sì. Facciamolo. Faunia si era distratta. Guardava lontano, verso le cime degli alberi. Ondeggiavano al vento, ma lei le guardava come se stessero parlando. Allora mi resi conto che le mancava qualcosa, e non intendevo la capacità di chiacchierare del più e del meno. Avrei dato un nome a quello che intendevo, se ne fossi stato capace. Non era l'intelligenza. Non era la padronanza di sé. Non erano né la modestia né la dignità: lì se la cavava a meraviglia. Non era lo spessore: il problema non era la superficialità. Non era l'interiorità: si vedeva che, interiormente, ne aveva di cose a cui pensare. Non era l'equilibrio: era equilibrata e, in un modo un po' impacciato, aveva anche una cert'aria altera, la superiorità accordatale dall'autorevolezza delle pro-

prie sofferenze. Eppure, decisamente, le mancava un pezzo. Notai un anello al dito medio della sua mano destra. La pietra era bianco latte. Un opale. Ero sicuro che glielo aveva dato lui. In contrasto con Faunia, Coleman era tutto intero, o così sembrava. Intero e pronto alla bugia mondana. Sapevo che non aveva la minima intenzione di portare Faunia fuori a cena con me o chiunque altro. – Al Madamaska Inn, – dissi. – Si mangia fuori. Che te ne pare? Non lo avevo mai visto più cortese di quando mi disse, mentendo: – Il Madamaska?... Bene. Lo dobbiamo proprio fare. Lo faremo. Ma l'invitato sarai tu. Nathan, parliamone, – disse, preso da una fretta improvvisa e stringendo la mano di Faunia. Accennando con la testa al Music Shed, disse: – Voglio che Faunia ascolti il Rachmaninov –. E gli amanti se ne andarono, «fuggendo – come ha scritto Keats – nella tempesta». In appena un paio di minuti erano accadute, o sembravano essere accadute, così tante cose – perché in realtà non era accaduto nulla d'importante – che, invece di tornare al mio posto, cominciai a gironzolare qua e là, dapprima come un sonnambulo, errando senza meta sul prato formicolante di gitanti e, per un tratto, intorno al Music Shed, poi tornando sui miei passi fino al punto da dove il panorama dei Berkshire in piena estate è tra le più belle vedute che si possono ammirare a est delle Montagne Rocciose. Sentivo in lontananza le danze di Rachmaninov venire dalla tettoia, ma per il resto avrei potuto essere in giro da solo, sprofondato nella piega di quelle verdi colline. Mi sedetti sull'erba, stupefatto, incapace di trovare una giustificazione per quello che pensavo: ha un segreto. Quest'uomo costruito secondo i piani emotivi più credibili e convincenti, questa forza con una storia come forza, questa bonaria ma scaltra, amabile e soave, apparente totalità di vero uomo, ha nondimeno un segreto gigantesco. Come sono arrivato a questa conclusione? Perché un segreto? Perché c'è quando lui è con lei. E c'è anche quando non è con lei: il suo magnetismo sta proprio nel suo segreto. Quella che inganna è una cosa che non c'è, ed è questo che mi ha sempre attirato, l'enigmatico quid che lui tiene in disparte come suo e di nessun altro. Vuole essere come la luna, che è visibile solo a metà. E io non riesco a renderlo interamente visibile. C'è una lacuna. Non posso dire altro. Ci sono, insieme, un paio di lacune. C'è una lacuna in lei e, a dispetto dell'aria che ha Coleman, l'aria di essere una persona solida e affermata e, se occorre, un avversario ostinato e deciso (il rabbioso gigante che, fra tutti i professori, ha preferito andarsene piuttosto che inchinarsi davanti alle loro umilianti fesserie), da qualche parte c'è una lacuna anche in lui, una cancellatura, un'omissione, ma di cosa?... Non riesco a immaginarlo. Non posso nemmeno sapere, in realtà, se questo sospetto è fondato o se è solo la fantasiosa espressione della mia ignoranza di un altro essere umano. Solo tre o quattro mesi dopo, quando venni a conoscenza del segreto e cominciai questo libro – il libro che mi aveva chiesto di scrivere, scritto,

però, non necessariamente come voleva lui –, compresi qual era il cemento del patto tra loro: Coleman le aveva raccontato tutta la sua storia. Solo Faunia sapeva come Coleman Silk aveva fatto a diventare se stesso. Come so che lo sapeva? Non lo so. Non potevo sapere neanche questo. Non posso saperlo. Ora che sono morti, nessuno può saperlo. Nel bene e nel male, io posso fare solo quello che fanno tutti quelli che credono di sapere. Immagino. Sono costretto a immaginare. Si dà il caso che sia quello che faccio per vivere. E' il mio lavoro. E' l'unica cosa che faccio, ormai. Dopo che Les fu dimesso dall'ospedale per i reduci e inserito nel gruppo di sostegno per tenerlo lontano dall'alcol e impedirgli di fare qualche mattana, l'obiettivo a lunga scadenza fissatogli da Louie Borrero fu un pellegrinaggio al Muro: se non al Muro vero, il Vietnam Veterans Memorial di Washington, almeno al Muro Itinerante allorché, in novembre, questo fosse arrivato a Pittsfield. Washington, D.C., era una città dove Les aveva giurato che non avrebbe mai messo piede a causa dell'odio che nutriva per lo stato e, dal '92, a causa del disprezzo che provava per l'imboscato che dormiva nella Casa Bianca. Fargli fare tutto il viaggio dal Massachusetts a Washington era probabilmente, in ogni modo, chiedere troppo: per uno appena uscito dall'ospedale tutte quelle ore in autobus, tra andata e ritorno, sarebbero state troppo stressanti. Il modo che Louie aveva di preparare Les per il Muro Itinerante era lo stesso con cui preparava tutti gli altri: cominciare da un ristorante cinese, convincere Les ad andare con altri quattro o cinque dei ragazzi a mangiare in un ristorante cinese, organizzare tutte le visite che ci volevano – due, tre, sette, dodici, quindici se necessario – finché Les non era capace di restare fino alla fine di un pranzo completo, di mangiare tutti i piatti, dalla zuppa al dessert, senza infradiciare la camicia di sudore, senza tremare così forte da non poter tenere il cucchiaio abbastanza fermo per portare la zuppa alla bocca, senza dover correre fuori a respirare ogni cinque minuti, senza finire per vomitare nel water e nascondersi nel gabinetto chiuso a chiave, senza, ovviamente, perdere il controllo e dar fuori di matto col cameriere cinese. Louie Borrero era ancora legatissimo all'esercito, aveva smesso di drogarsi e si curava già da dodici anni, e aiutare i reduci, diceva, era la sua terapia. Una trentina di anni dopo erano ancora molti i reduci dal Vietnam che soffrivano come bestie, e così ogni giorno lui passava quasi tutto il tempo girando per lo stato col suo furgone, organizzando gruppi di sostegno per i reduci e i loro familiari, trovando loro dei medici, portandoli alle riunioni dell'Anonima Alcolisti, ascoltando le storie di problemi di ogni genere, domestici, psichiatrici, finanziari, consigliando i reduci e cercando di convincere i ragazzi ad andare a Washington a vedere il Muro. Il Muro era la sua creatura. Louie organizzava ogni cosa: prenotava gli

autobus, faceva preparare i cestini, con la sua gentilezza e la sua inclinazio ne alla solidarietà si occupava personalmente dei ragazzi che temevano di piangere come fontane o di stare troppo male o di avere un attacco cardiaco e di morire. Prima si tiravano tutti indietro dicendo più o meno la stessa cosa: – Niente da fare. Non posso andare a vedere il Muro. Non posso andare là e vedere il nome di Tizio. Niente da fare. Assolutamente. Non posso –. Les, per esempio, aveva detto a Louie: – Ho sentito del tuo viaggio la volta scorsa. Ho sentito che è andato tutto storto. Trentacinque dollari a cranio per quest'autobus a noleggio. Il pranzo doveva essere compreso, e i ragazzi dicono, tutti, che faceva schifo: non valeva due dollari. E quel tizio di New York non voleva aspettare, il conducente. Giusto, Lou? Voleva tornare subito indietro per fare un'altra corsa ad Atlantic City? Atlantic City. Porca troia! Scarrozzare la gente a destra e a sinistra e poi, alla fine, pretendere una bella mancia? Io no, Lou. Niente da fare, cazzo. Se dovessi vedere un paio di ragazzi in tuta mimetica che si abbracciano e piangono come vitelli, mi verrebbe da vomitare. Ma Louie conosceva l'importanza che poteva avere una visita. – Les, siamo nel millenovecentonovantotto. Siamo alla fine del ventesimo secolo, Les. E' ora che cominci ad affrontare questa cosa. Non puoi farlo tutto in una volta, lo so, e nessuno te lo chiede. Ma è ora che tu svolga il tuo programma, bello mio. E' venuto il momento. Non partiremo dal Muro. Partiremo dal ristorante cinese. Ma per Les non era una partenza così lenta: per Les, già solo andare al take–away giù ad Athena, doveva aspettare sul pick–up che Faunia scendesse a prendere la roba. Se fosse entrato, gli sarebbe venuta voglia di ammazzare quei musi gialli appena li avesse visti. – Ma sono cinesi, – gli diceva Faunia, – mica vietnamiti. – Idiota! Me ne frego di cosa cazzo sono! Hanno il muso giallo. Un muso giallo è un muso giallo! Come se non avesse dormito abbastanza male per gli ultimi ventisei anni, la settimana prima della visita al ristorante cinese non dormì per niente. Doveva avere telefonato a Louie cinquanta volte dicendo che non ci poteva andare, e metà delle chiamate, senza dubbio, erano state fatte dopo le tre di notte. Ma Louie ascoltava, a qualunque ora, lo lasciava dire tutto quello che lo preoccupava, sosteneva addirittura di essere d'accordo con lui, borbottava pazientemente: – Uh–huh... Uh–huh... Uh–huh, – fino alla fine, ma alla fine gli tappava sempre la bocca nel solito modo: – Dovrai solo star seduto, Les, meglio che puoi. Non dovrai fare altro. Qualunque cosa tu ti senta dentro, sia tristezza, sia collera, sia quello che sia – l'odio, la rabbia – noi saremo tutti là con te, e tu cercherai di stare là seduto senza scappare e senza fare niente. – Ma il cameriere, – diceva Les, – come faccio con quel cameriere del cazzo? Non posso, Lou... Non riuscirò a trattenermi! – Del cameriere mi occuperò io. Tu non dovrai fare altro che startene a sedere –. A qualunque obiezione sollevasse, compreso il rischio che

Les potesse ammazzare il cameriere, Louie ribatteva che non avrebbe dovuto fare altro che starsene a sedere. Come se per impedire a un uomo di uccidere il suo peggior nemico non ci fosse bisogno d'altro: stare seduto. Erano in cinque sul furgone di Louie quando andarono a Blackwell, una sera, appena due settimane dopo che Les era stato dimesso dall'ospedale. C'era Louie, madre–padre–fratello–capo, un uomo calvo e ben rasato col bastone, che indossava un vestito stirato di fresco e il suo berretto nero del Vietnam, e che, tra la pancia, la bassa statura e le spalle spioventi, per il suo modo rigido di camminare sulle gambe malandate, somigliava un po' a un pinguino. E c'erano i ragazzi che non aprivano mai bocca: Chet, l'imbianchino tre volte divorziato che era stato nei marines – tre mogli diverse terrorizzate da questo opaco e brutale scimmione con la coda di cavallo che non spiccicava una parola – e Bobcat, un ex fuciliere che aveva perso un piede su una mina e lavorava per la Midas Muffler. C'era, infine, un tipo strambo e denutrito, un asmatico scarno e pieno di tic cui mancavano quasi tutti i molari che si faceva chiamare Swift, avendo cambiato legalmente il proprio nome dopo il congedo, come se il fatto di non essere più Joe Brown o Bill Green o chiunque fosse quando era stato richiamato lo facesse, tornato a casa, saltare giù dal letto ogni mattina per la gioia. Dopo il Vietnam la sua salute era stata quasi distrutta da ogni genere di malattie neurologiche, respiratorie e della pelle, e ora Swift era divorato da un astio verso i reduci dalla Guerra del Golfo che batteva persino il disprezzo di Les. Per tutta la strada, fino a Blackwell, mentre Les già cominciava a tremare e a sentirsi rovesciare lo stomaco, Swift più che compensò il silenzio dei compagni. Quella sua voce ansante non taceva mai. – Il loro problema più grosso è che non possono andare alla spiaggia? Si agitano, alla spiaggia, quando vedono la sabbia? Merda. Guerrieri della domenica, e tutt'a un tratto gli tocca di vedere un po' di guerra vera. Ecco perché sono incazzati: tutti nella riserva, mai pensato che sarebbero stati richiamati, ed ecco che vengono richiamati. E non hanno fatto un cazzo. Quelli non sanno cos'è la guerra. E la chiamano guerra? Quattro giorni di guerra terrestre? Quanti musi gialli hanno ammazzato? Tutti sottosopra perché non hanno fatto fuori Saddam Hussein. Avevano un solo nemico: Saddam Hussein. Ma non fatemi ridere! Questi non hanno niente. Vogliono i quattrini, ma senza faticare. Un'eruzione! Sapete quante eruzioni mi ha fatto venire l'Agente Arancione? Non arriverò a vedere l'alba dei sessant'anni, e questi si preoccupano per un'eruzione! Il ristorante cinese si trovava all'estremità settentrionale di Blackwell, subito dopo la cartiera chiusa, tra la strada e il fiume. L'edificio di blocchi di cemento era basso, lungo e rosa, con una vetrina sul davanti, e per metà il muro era dipinto in modo da sembrare di mattoni: mattoni rosa. Qualche anno prima era stato un campo da bowling. Nella vetrina, le lettere tremolanti di un'insegna al neon che voleva sembrare cinese dicevano The Har-

mony Palace. Per Les, la vista di quell'insegna bastò a cancellare il più piccolo barlume di speranza. Non poteva farcela. Non ce l'avrebbe mai fatta. Non sarebbe riuscito a trattenersi. La monotonia di queste parole ripetute... E la forza di cui aveva bisogno per vincere il terrore. Il fiume di sangue che dovette guadare per passare davanti al muso giallo sorridente sulla porta e sedersi a tavola. E l'orrore – un orrore da impazzire contro il quale non c'era protezione – del muso giallo che sorridendo gli porgeva un menu. Il muso giallo che gli versava un bicchiere d'acqua: era grottesco! Che gli offriva, a lui, dell'acqua! Quell'acqua avrebbe potuto essere la fonte di tutte le sue sofferenze. Ecco quanto lo faceva sentire squilibrato. – Okay, Les, ti stai comportando bene. Ti stai comportando proprio bene, – disse Louie. – Bisogna fare un passo alla volta. Proprio bene, finora. Ora voglio che guardi il menu. Tutto qui. Solo il menu. Apri il menu, aprilo, e voglio che ti concentri sulle zuppe. L'unica cosa che devi fare adesso è ordinare la zuppa. Non devi fare altro. Se non sai deciderti, decideremo noi per te. Fanno un'ottima wonton soup, qui. – Quel cameriere del cazzo, – disse Les. – Non è il cameriere, Les. Si chiama Henry. E' il padrone. Les, dobbiamo concentrarci sulla zuppa. Henry, lui è qui a dirigere il locale. A curare che tutto vada bene. Niente di più, niente di meno. Non sa niente di tutto il resto. Non sa niente e non ne vuol sapere. Allora? Questa zuppa? – Voi, ragazzi, cosa prendete? – L'aveva detto lui. Les. Nel dramma della sua disperazione lui, Les, era riuscito a distaccarsi da tutto quel tumulto e a chiedere cosa volevano mangiare. – Wonton, – dissero tutti. – Bene. Wonton. – Okay, – disse Louie. – Adesso ordineremo il resto. Vogliamo dividere? Sarebbe troppo, Les, o vuoi ordinare per conto tuo? Les, cosa preferisci? Vuoi pollo, verdura, maiale? Vuoi il lo mein? Con gli spaghetti? Les provò a vedere se poteva farcela di nuovo. – Voi, ragazzi, cosa prendete? – Be', Les, alcuni di noi prendono il maiale, altri il manzo... – Non importa! – E la ragione per cui non importava era che tutto questo stava accadendo su un altro pianeta, questo fingere che stessero ordinando un pasto cinese. Non era questo che stava succedendo veramente. – Maiale in agrodolce? Maiale in agrodolce per Les. Okay. Ora, Les, devi solo concentrarti, e Chet ti verserà un po' di tè. Okay? Okay. – Basta che tieni lontano il cameriere –. Perché con la coda dell'occhio Les aveva visto qualche movimento. – Signore, signore... – gridò Louie al cameriere. – Signore, se lei rimane lì, veniamo noi da lei con la nostra ordinazione. Se non le spiace. Le por-

tiamo noi l'ordinazione... Lei resti solo a una certa distanza –. Ma il cameriere sembrava non capire, e quando tornò a fare qualche passo verso di loro Louie, goffo ma veloce, si drizzò sulle gambe malandate. – Signore! Le portiamo noi l'ordinazione. Noi. A lei. Va bene? D'accordo, – disse Louie, tornando a sedersi. – Bene, – disse, – bene, – con un inchino al cameriere, che era rimasto immobile a tre o quattro metri di distanza. – Così va bene, signore. Perfetto. L'Harmony Palace era un locale buio con piante di plastica scaglionate lungo le pareti e forse cinquanta tavoli disposti in lunghe file nella lunga sala da pranzo. Solo qualcuno di essi era occupato, ed erano tutti abbastanza lontani per generare l'impressione che nessuno degli altri avventori avesse notato quel momento di agitazione in fondo alla sala dove i cinque uomini stavano mangiando. Come precauzione, Louie si assicurava sempre, entrando, che Henry mettesse il suo gruppo intorno a un tavolo separato da tutti gli altri. Per lui e Henry non era una novità. – Okay, Les, tutto sotto controllo. Ora puoi lasciare il menu. Les, lascia il menu. Prima con la mano destra. Adesso con la sinistra. Là. Te lo piega Chet. I ragazzi, Chet e Bobcat, sedevano ai lati di Les. Erano stati arruolati da Louie come polizia militare per la serata e sapevano come regolarsi se Les avesse fatto una mossa sbagliata. Swift era seduto dall'altra parte del tavolo rotondo, accanto a Louie, che era davanti a Les; e poi, nel tono servizievole che avrebbe potuto usare un padre che stava insegnando al figlio ad andare in bicicletta, Swift disse a Les: – Ricordo la prima volta che sono venuto qui. Credevo che non ce l'avrei mai fatta. Ti stai comportando proprio bene. La prima volta che sono venuto non riuscivo neanche a leggere il menu. Le lettere, oh, mi ballavano tutte davanti agli occhi. Credevo che avrei sfondato la vetrina. C'erano due ragazzi, e dovettero accompagnarmi fuori perché non riuscivo a star fermo. Stai facendo un buon lavoro, Les –. Se fosse stato in grado di notare qualcosa di più, e non solo quanto adesso gli tremavano le mani, Les si sarebbe reso conto che non aveva mai visto Swift senza tic nervosi. Senza tic e senza incazzature. Era per questo che Louie lo aveva portato: perché sembrava che aiutare qualcuno ad arrivare alla fine di un pasto cinese fosse la cosa al mondo che Swift faceva meglio. Lì all'Harmony Palace, come in nessun altro posto, Swift sembrava, per un po', tornare alla normalità. Lì si arrivava quasi a non vedere come Swift stesse strisciando attraverso la vita sulle mani e sui ginocchi. Lì, diventato visibile in quest'uomo ridotto a un relitto malato e inasprito, c'era un minuscolo brandello di quello che una volta era stato il suo coraggio. – Stai facendo un buon lavoro, Les. Ti stai comportando benissimo. Devi bere soltanto un goccio di tè, – propose Swift. – Chet, versagli un po' di tè. – Respira, – disse Louie. – Così. Respira, Les. Se dopo la zuppa non ce la fai più, andiamo via. Ma devi arrivare alla fine del primo. Se non riesci a

finire il maiale in agrodolce, fa niente. Ma la zuppa la devi finire. Troviamo una parola d'ordine, se devi uscire. Una parola d'ordine che mi puoi dare quando proprio non ci sarà più niente da fare. Che ne dici, come parola d'ordine, di «foglia di tè»? Non devi dire altro, e ce ne andiamo. Foglia di tè. Se devi farlo, eccola. Ma solo se non puoi farne a meno. Il cameriere aspettava a qualche passo di distanza reggendo il vassoio con le loro cinque scodelle di zuppa. Chet e Bobcat si alzarono di scatto, andarono a prenderle e le misero in tavola. A questo punto Les vorrebbe solo dire «foglia di tè» e filarsela, cazzo. Perché non lo fa? Devo andare via da questo posto. Devo andare via da questo posto. A furia di ripetersi «Devo andare via da questo posto» riesce a entrare in una specie di trance e, anche senza appetito, a mettersi a mangiare la zuppa. A trangugiare un po' di brodo. «Devo andare via da questo posto»: e la frase fa sparire il cameriere e fa sparire il proprietario, ma non fa sparire le due donne sedute a un tavolo contro la parete che stanno sgusciando piselli e lasciando cadere i piselli sgusciati in una pentola. Dieci metri, ma Les sente l'odore dell'acqua di colonia di infima qualità che si sono spruzzate dietro le orecchie da muso giallo: per lui ha lo stesso odore pungente della terra appena arata. Con lo stesso fenomenale istinto di conservazione che gli ha permesso di sentire l'odore di un cecchino silenzioso ma fetente nelle tenebre di una giungla del Vietnam Les sente l'odore delle due donne e comincia a vacillare. Nessuno gli ha detto che lì ci sarebbero state quelle donne. Per quanto tempo ancora continueranno a sgusciare piselli? Due ragazze. Musi gialli. Perché stanno là sedute a sgusciare piselli? «Devo andare via da questo posto». Ma non riesce a muoversi perché non riesce a distogliere l'attenzione dalle due donne. – Perché quelle due donne stanno facendo quella cosa? – chiede Les a Louie. – Perché non la smettono di fare quella cosa? Devono per forza continuare a fare quella cosa? Continueranno così per tutta la sera? Continueranno così per chissà quanto tempo? C'è un motivo? Qualcuno può spiegarmi il motivo? Fatele smettere. – Calma, – dice Louie. – Io sono calmo. Voglio solo sapere... Continueranno a fare quella cosa? Può fermarle, qualcuno? Non c'è nessuno che sia capace di trovare un sistema? – Alzando la voce, adesso; e impedirgli di alzare la voce non è più facile che impedire alle due donne di sgusciare i loro piselli. – Siamo in un ristorante, Les. Nei ristoranti si preparano i fagioli. – Piselli, – dice Les. – Quelli sono piselli! – Les, hai avuto la zuppa e ora sta per arrivare il secondo. Il secondo: è l'unica cosa che ti riguarda, per il momento. E' tutto. Non devi far altro che mangiare un po' di maiale in agrodolce, e ce l'abbiamo fatta. – Ne ho abbastanza della zuppa.

– Sì? – dice Bobcat. – Non la mangi? Hai finito? Assediato da ogni parte dal disastro imminente – per quanto tempo si può trasformare questa tortura in un pasto? – Les riesce, con un filo di voce, a dire: – Prendila. Ed è allora che il cameriere fa la sua mossa: presumibilmente per portare via i piatti vuoti. – No! – ruggisce Les, e Louie è di nuovo in piedi, e ora, nella posa del domatore di leoni di un circo (e con Les teso e pronto a respingere l'attacco del cameriere), Louie, col bastone, fa segno al cameriere di arretrare. – Lei resti dov'è, – dice Louie al cameriere. – Resti dov'è. I piatti vuoti glieli portiamo noi. Non si avvicini. Le due donne hanno smesso di sgusciare piselli, senza che Les abbia dovuto alzarsi, avvicinarsi e fargli vedere come si fa. E ora interviene Henry, è chiaro. Questo Henry lungo, esile e sorridente, un giovanotto in jeans, camicia sgargiante e scarpe da footing che riempiva le caraffe ed è il padrone, sta guardando Les dalla porta. Sorride, ma lo guarda. Quell'uomo è una minaccia. Sta bloccando l'uscita. Henry deve togliersi di lì. – Tutto a posto, – grida Louie a Henry. – Qui si mangia benissimo. Splendidamente. Ecco perché ci torniamo –. Poi dice al cameriere: – Basta che lei segua le mie indicazioni, – poi abbassa il bastone e torna a mettersi a sedere. Chet e Bobcat raccolgono i piatti vuoti e vanno ad ammucchiarli sul vassoio del cameriere. – Qualcun altro? – chiede Louie. – Qualcun altro vuol parlare della sua prima volta? – Uh–uh, – dice Chet, mentre Bobcat si incarica allegramente di finire la zuppa di Les. Questa volta, appena il cameriere esce dalla cucina col resto dell'ordinazione, Chet e Bobcat si alzano e si avvicinano a quello scemo di un muso giallo del cazzo prima che possa dimenticare tutto e riprendere la marcia verso il tavolo. E adesso è tutta lì. La roba da mangiare. Quella tortura che è la roba da mangiare. Lo mein di manzo e gamberi. Moo goo gai pan. Manzo con peperoni. Maiale in agrodolce. Costolette. Riso. La tortura del riso. La tortura del vapore. La tortura degli odori. Tutto, lì, dovrebbe salvarlo dalla morte. Ripristinare i contatti col ragazzo che era Les. Ecco il sogno ricorrente: l'integro ragazzo della fattoria. – L'aspetto è buono! – Il sapore ancora meglio! – Vuoi che Chet te ne metta un po' nel piatto o vuoi servirti con le tue mani, Les? – Non ho fame. – Va bene, – dice Louie, mentre Chet comincia a riempire il piatto di

Les. – Non sei obbligato ad avere fame. Non è questo il punto. – E' quasi finita? – chiede Les. – Io devo uscire di qui. Non scherzo, ragazzi. Devo proprio uscire di qui. Ne ho abbastanza. Non ce la faccio più. Sento che sto per perdere il controllo. Ne ho abbastanza. Louie, hai detto che potevo andare via. Devo uscire. – Non sento la parola d'ordine, Les, – dice Louie. – Perciò teniamo duro. Ma ora il tremito è diventato incontrollabile. Les non riesce a portarsi il riso alla bocca. Trema così forte che il riso gli cade dalla forchetta. E, Cristo onnipotente, ecco arrivare un cameriere con l'acqua. Che fa il giro e si avvicina a Lester da dietro, sbucando dal nulla, cazzo, un altro cameriere. Tutt'a un tratto manca solo una frazione di secondo perché Les si metta a urlare: – Yahhh! – e salti alla gola del cameriere, mentre la caraffa gli scoppia tra i piedi. – Alt! – grida Louie. – Indietro! Le due donne che stanno sgusciando piselli si mettono a urlare. – Non ha bisogno d'acqua! – Gridando, alzandosi in piedi e gridando, col bastone levato sopra la testa, è Louie che alle due donne sembra quello che ha dato fuori di matto. Ma non sanno cosa vuol dire dar fuori di matto, se credono che il matto sia Louie. Non ne hanno la minima idea. Agli altri tavoli qualcuno si è alzato, ed Henry si precipita a calmarli e parlotta con loro a bassa voce finché non si rimettono tutti a sedere. Ha spiegato che quelli sono dei reduci dal Vietnam, e che ogni volta che vengono a mangiare lui si impone patriotticamente di essere ospitale e di aiutarli per un'ora o due a risolvere i loro problemi. Da allora in poi nel ristorante regnerà un silenzio assoluto. Les mangiucchia svogliatamente qualcosa e gli altri spazzano via tutto finché l'unico cibo rimasto in tavola è la roba nel piatto di Les. – Hai finito? – gli chiede Bobcat. – Non la mangi, quella? Stavolta Les non riesce neanche a dire «Prendila tu». Di' soltanto quelle tre parole, e tutti i morti sepolti sotto il ristorante si leveranno chiedendo vendetta. Di' una sola parola, e se non eri lì la prima volta a vedere come andavano le cose, lo vedrai adesso, questo è poco ma sicuro. Finalmente, ecco arrivare i fortune cookies. Ne vanno pazzi, di solito. Leggono i foglietti con le massime cinesi, ridono, bevono il tè... Chi non si divertirebbe? Ma Les urla: – Foglia di tè! – e si alza, e Louie dice a Swift: – Esci con lui. Raggiungilo, Swiftie. Tienilo d'occhio. Non perderlo di vista. Noi paghiamo. Il viaggio di ritorno si svolge in silenzio: silenzio da parte di Bobcat perché è pieno da scoppiare; silenzio da parte di Chet perché ha imparato da un pezzo, grazie alle botte prese in troppe risse, che per un uomo incasinato come lui stare in silenzio è l'unico sistema per apparire cordiale; e silenzio anche da parte di Swift, un silenzio amaro e contrariato, perché,

quando le tremolanti luci al neon sono alle loro spalle, dimenticato è il ricordo di se stesso che Swift sembra aver avuto all'Harmony Palace. Ora Swift sta dandosi da fare per tenere in vita la sua pena. Les tace perché si è addormentato. Dopo i dieci giorni d'insonnia ininterrotta che hanno preceduto questa gita è andato finalmente kappaò. E' quando tutti gli altri sono stati scaricati e Les e Louie sono soli nel furgone che Louie lo sente emergere dal sonno e dice: – Les? Les? Sei andato bene, Lester. Ti ho visto sudare, ho pensato: uhm–uhmm–uhmmm, impossibile che ce la faccia. Dovevi vedere di che colore eri. Non credevo ai miei occhi. Ho creduto che il cameriere fosse spacciato –. Louie, che aveva passato le prime notti in casa, ammanettato a un radiatore nel garage di sua sorella, per essere sicuro di non uccidere il cognato che generosamente lo aveva accolto quando era uscito dalla giungla da appena quarantott'ore, e la cui giornata, ora per ora, è organizzata così bene intorno alle necessità di tutti gli altri che nessun impulso demoniaco può tornare ad assalirlo, Louie che, in una dozzina d'anni di sobrietà e di pulizia, di lavoro per i Twelve Steps6 e di scrupolosissimo consumo delle proprie medicine (per l'ansia il suo Klonopin, per la depressione il suo Zoloft, per le caviglie gonfie e le ginocchia rigide e le anche eternamente indolenzite il suo Salsalate, un antinfiammatorio che la metà del tempo non fa che dargli acidità di stomaco, gas intestinali e diarrea), è riuscito a sgomberare abbastanza macerie per essere ancora capace di rivolgersi urbanamente agli altri e di sentirsi, se non a proprio agio, meno afflitto dal doversi muovere per il resto dei suoi giorni su quelle gambe tormentate dai dolori, dal doversi costringere a drizzarsi su fondamenta di sabbia; Louie, che prende il mondo come viene, ride. – Ho davvero creduto che non avesse la minima chance. Invece, bello mio, – dice Louie, – non soltanto sei andato oltre la zuppa, ma ce l'hai fatta fino a quel cazzo di fortune cookie. Sai quante volte mi ci sono volute per arrivare al fortune cookie? Quattro. Quattro volte, Les. La prima volta sono andato dritto in bagno e ci hanno messo quindici minuti per tirarmi fuori. Sai cosa dirò a mia moglie? Le dirò: «Les si è comportato bene. Les è andato a meraviglia». Ma quando fu il momento di tornare Les si rifiutò. Non basta che sia stato là seduto? – Voglio che mangi, – disse Louie. – Voglio che arrivi alla fine del pasto. Che cammini se c'è da camminare, che parli se c'è qualcosa da dire, che mangi quello che c'è da mangiare. Abbiamo un nuovo traguardo, Les. – Ne ho abbastanza dei tuoi traguardi, Louie. Sono arrivato alla fine. Non ho ammazzato nessuno. Non basta? – Invece, una settimana dopo tornarono all'Harmony Palace, stessi personaggi, stesso bicchiere d'acqua, stessi menu, persino lo stesso profumo di acqua di colonia a buon mercato emanato dalle carni asiatiche delle donne del ristorante che, dolce e galva6

Sono i Dodici punti della Alcolisti Anonimi [N.d.T.].

nico, si spandeva nell'aria fino alle narici di Les, il profumo rivelatore grazie al quale lui rintraccia la sua preda. La seconda volta mangia, la terza volta mangia e ordina – sebbene non permettano ancora al cameriere di avvicinarsi al tavolo – e la quarta volta si lasciano servire dal cameriere, e Les mangia come un pazzo, mangia fin quasi a scoppiare, mangia come se in un anno non avesse visto cibo. Usciti dall'Harmony Palace, pacche sulle spalle tutt'in giro. E' allegro persino Chet. Chet parla, Chet urla: – Semper fi! – La prossima volta, – dice Les mentre tornano a casa, e l'inebriante sensazione è di essere uscito da una tomba, – la prossima volta, Louie, farai l'esagerato. La prossima volta vorrai che mi piaccia! Ma la prossima volta tocca al Muro. Deve andare a cercare il nome di Kenny. E questo Les non lo può fare. Gli è bastato cercare, una volta, il nome di Kenny nel libro che hanno alla Veterans Administration. Dopo, è stato male per una settimana. Non poteva pensare ad altro. Non può pensare ad altro in ogni caso. Kenny là, di fianco a lui, senza testa. Giorno e not te Les pensa: perché Kenny, perché Chip, perché Buddy, perché loro e io no? Certe volte pensa che i fortunati siano loro. Per loro è finita. No, impossibile, niente da fare, a vedere il Muro non ci va. A vedere quel Muro. Assolutamente no. Non può. Non vuole. Tutto qui. Balla per me. Sono insieme da circa sei mesi, e una sera lui dice: – Su, balla per me, – e in camera da letto mette su un cd, l'arrangiamento di The Man I Love di Artie Shaw con Roy Eldridge alla tromba. Balla per me, le dice, aprendo le braccia che la stringono e indicando il pavimento ai piedi del letto. E allora lei, impavida, si alza da dove emanava quell'odore, l'odore di Coleman svestito, quell'odore di pelle cotta dal sole, si alza dal letto dov'era rannicchiata, col viso sul guanciale del suo fianco nudo, con i denti, la lingua glassata dal suo sperma, con la mano, sotto il suo ventre, aperta sul garbuglio crespo e burroso di quei peli aggrovigliati, e mentre lui la segue col suo occhio d'aquila – lo sguardo verde immobile sotto la frangia scura delle lunghe ciglia, non come un vecchio svuotato che sta per venir meno ma come un uomo col naso schiacciato contro il vetro di una finestra – balla, non in modo civettuolo, non come Steena nel 1948, non perché è una cara ragazza, una cara ragazza che balla per il piacere di fargli piacere, una cara ragazza che non sa quello che fa mentre dice tra sé: «Lo posso fare... Lui lo desidera e io lo posso fare, adesso, eccolo». No, non è proprio la scena ingenua e innocente del bocciolo che diventa un fiore o della puledrina che diventa una cavalla. Faunia lo può fare, certamente, ma senza il germogliare della maturità, ecco come lo fa lei, senza la giovanile, vaga idealizzazione di se stessa e di lui e di tutti i vivi e i morti. Lui dice: – Su, balla per me,

– e con la sua tranquilla risata lei dice: – Perché no? In questo sono generosa, – e comincia a muoversi, lisciandosi la pelle come se fosse un abito gualcito, curando che ogni cosa sia dove dev'essere, tesa, ossuta o arrotondata come dev'essere, un alito di sé, il suggestivo aroma vegetale che mandano le sue dita familiari quando se le passa sul collo e sulle orecchie accaldate e, lentamente, da lì sopra le gote fino alle labbra e ai capelli, ai capelli biondi e striati di grigio inumiditi e sparsi dallo sforzo, capelli con i quali Faunia gioca come se fossero alghe, Faunia finge con se stessa che siano alghe marine, che siano sempre state alghe marine, una massa stillante di alghe marine sature di acqua salmastra e, tanto, cosa le costa? Qual è il problema? Buttati. Non badare a spese. Se è questo che lui vuole, avanti, seducilo, irretiscilo. Non sarebbe il primo. Se ne accorge, quando comincia a realizzarsi: quella cosa, quel collegamento. Si muove, dal pavimento ai piedi del letto che ora è il suo palcoscenico si muove, con i capelli gradevolmente arruffati e un po' sporchi, impiastricciata e unta dalla prestazione precedente, bionda, bianca di pelle dove non è abbronzata dal sole della fattoria, segnata da cicatrici in una mezza dozzina di posti, una rotula abrasa come quella di un bambino per uno scivolone nella stalla, tagli sottili come fili, prodotti dalla recinzione del pascolo, quasi guariti sulle braccia e sulle gambe, le mani ruvide, arrossate, indolenzite dalle schegge di fiberglass che vi si sono conficcate mentre faceva ruotare sui cardini il cancello, da quei cavicchi che deve sfilare e infilare ogni settimana, un livido rosso a forma di petalo che si è fatta o in sala mungitura o con lui proprio nel punto di congiunzione tra la gola e il torace, un altro livido, violaceo, sulla coscia magra, macchioline dov'è stata morsicata e punta, un pelo di lui, la «&» di uno dei suoi peli che le aderisce alla guancia come un delicato neo grigiastro, la bocca aperta quel tanto che basta per mostrare la chiostra dei denti, e senza nessuna fretta di andare in nessun posto perché la cosa divertente è andarci. Si muove, Faunia, e ora lui la vede, vede questo corpo slanciato che si muove ritmicamente, questo corpo snello, tanto più forte di quello che sembra e munito di seni così sorprendentemente pesanti, che s'immerge, s'immerge, s'immerge, che sugli steli lunghi e dritti delle gambe si abbassa su di lui come un mestolo pieno del suo liquido fino all'orlo. Docile, lui è disteso sulle lenzuola increspate, con un sinuoso mulinello di guanciali ammassati per sostenergli il capo, il capo che è all'altezza del giro di fianchi di Faunia, del suo ventre, del suo ventre in movimento, e la vede, ogni particella, lui la vede e lei sa che lui la vede. Sono collegati. Lei sa che lui vuole che lei chieda qualcosa. Vuole che io stia qui e mi muova, pensa lei, che reclami ciò che è mio. Cosa? Lui. Lui. Mi sta offrendo se stesso. Benissimo, questa è roba ad alta tensione, ma andiamo pure. E così, guardandolo dall'alto in basso con qualcosa d'indefinibile negli occhi, Faunia si muove, si muove, e comincia l'ufficiale trasmissione di poteri. Ed è molto bello, per lei, muoversi così, a tempo di

musica, mentre si trasmettono questi poteri, sapere che a un suo cenno, allo schiocco delle dita con cui si chiama un cameriere, lui sarebbe pronto a trascinarsi fuori da quel letto e a leccarle i piedi. Il ballo è appena iniziato, e già lei potrebbe sbucciarlo e mangiarselo come un frutto. Non dipende solo dal fatto che sono conciata così male, che faccio la bidella e vado al college a pulire la merda degli altri e vado all'ufficio postale a pulire la merda degli altri, e che tutto questo, fare piazza pulita dei rifiuti altrui, ti mette dentro una terribile durezza; se vuoi sapere la verità, è uno schifo, e non dirmi che non esistono lavori migliori, ma è quello che ho, è quello che faccio, tre lavori, perché a questa automobile restano pochi giorni di vita, devo comprarne una a buon mercato, una che vada, ecco perché faccio tre lavori, e non per la prima volta, e, a proposito, alla fattoria c'è tantissimo da fare, cazzo, a te sembra chissà cosa, Faunia e le vacche, ma, venendo dopo tutto il resto, è una cosa che, cazzo, mi ammazza di fatica... Ma ora sono nuda in una stanza con un uomo, lo vedo là disteso col suo cazzo e quel tatuaggio che gli hanno fatto in marina, e tutto è tranquillo e lui è calmo, gli piace vedermi ballare ma è calmissimo, e anche lui è stato preso a calci in culo. Ha perduto la moglie, ha perduto il lavoro, è stato pubblicamente umiliato come professore razzista, e cos'è un professore razzista? Non è che lo sei appena diventato. Stando a quello che dicono, ti hanno scoperto, dunque lo sei da una vita. Non è che hai sbagliato una volta. Se sei un razzista, lo sei sempre stato. Improvvisamente, è per tutta la vita che sei stato razzista. Questo è il marchio, ed è una falsità, eppure adesso lui è calmo. Io posso far questo per lui. Posso calmarlo così, e lui può calmare me così. Non devo far altro che continuare a muovermi. Lui dice: balla per me, e io penso: perché no? Perché no? Solo che questo gli farà pensare che sono d'accordo con lui e, con lui, fingerò che sia un'altra cosa. Lui dirà che il mondo è nostro, e lo lascerò dire, e poi lo dirò anch'io. Eppure, perché no? Io posso ballare... Ma lui deve ricordare. Solo di questo si tratta, anche se io non porto altro che l'anello con l'opale, non ho addosso nient'altro che l'anello che mi ha regalato lui. Solo stare nuda davanti al tuo amante, con la luce accesa e in movimento. Okay, tu sei un uomo, e non sei più un giovincello, e hai fatto la tua vita e io non le appartengo, ma so di che si tratta. E' da uomo che tu vieni da me. E allora io vengo da te. E' molto. Ma è tutto qui. Io ballo davanti a te, nuda e con la luce accesa, e nudo sei anche tu, e tutto il resto non conta. E' la cosa più semplice che abbiamo mai fatto: è il massimo. Non rovinare tutto pensando che sia qualcosa più di questo. Non lo fare, e non lo farò io. Non dev'essere per forza più di questo. Sai una cosa? Io ti vedo, Coleman. Poi lo dice ad alta voce. – Sai una cosa? Io ti vedo. – Davvero? – dice lui. – Allora adesso comincia l'inferno. – Tu credi, non so se vuoi saperlo, che Dio esista? Vuoi sapere perché io sono al mondo? Di che si tratta? Si tratta di questo. Si tratta di... Tu sei qui,

e io lo farò per te. Si tratta di non pensare che tu sei un'altra persona in un altro posto. Sei una donna e sei a letto con tuo marito, e non scopi per scopare, non scopi per venire, scopi perché sei a letto con tuo marito ed è la cosa giusta da fare. Sei un uomo e sei con tua moglie e stai scopando con lei, ma intanto pensi che vorresti scopare la donna delle pulizie dell'ufficio postale. Okay: sai una cosa? Sei con la donna delle pulizie. A bassa voce, con una risata, Coleman dice: – E questo prova l'esistenza di Dio. – Se questa non è una prova, non ce ne sono altre. – Continua a ballare, – dice lui – Quando sarai morto, – chiede lei, – che importanza potrà avere se non hai sposato la persona giusta? – Nessuna. Non ha molta importanza anche se sei vivo. Continua a ballare. – Cosa, Coleman? Cos'è che ha importanza? – Questo, – dice lui. – Bravo, – risponde lei. – Ora sì che stai imparando. – E' così?... Sei tu che me l'insegni? – Era ora che qualcuno lo facesse. Sì, t'insegno io. Ma ora non guardarmi come se io servissi a qualcosa di diverso da questo. A qualcosa di più. Non fare così. Resta qui con me. Non andartene. Farò tutto quello che vuoi. Quante volte hai avuto una donna che ti ha detto veramente questa cosa, una donna che faceva sul serio? Farò tutto quello che vuoi tu. Non perdere l'occasione, Coleman. Non rinviarla. Questo è tutto ciò che siamo qui per fare. Non pensare che riguardi il domani. Chiudi tutte le porte, prima e dopo. Tutti i modi di pensare della gente, lasciali perdere. Tutto quello che chiede la meravigliosa società? Come siamo messi socialmente? «Dovrei, dovrei, dovrei»? Al diavolo tutto questo. Quello che dovresti essere, quello che dovresti fare, tutto questo, be', uccide ogni cosa. Io posso continuare a ballare, se i patti sono questi. Quel piccolo momento segreto... Se i patti sono questi. La fetta che ti tocca. La fetta del nostro tempo. Non più di questo, e spero che tu lo sappia. – Continua a ballare. – Questo, questo è l'importante, – disse lei. – Se io smettessi di pensarla così... – Cosa? Di pensare a cosa? – Sono sempre stata una stronzetta, una puttanella. – Sì? – Lo diceva sempre, tra sé e sé, che non era lui, ma io. – Il patrigno? – Sì. Era quello che diceva tra sé e sé. Forse aveva anche ragione. Ma a otto anni non avevo scelta, a otto, a nove e a dieci. Era la brutalità che era sbagliata.

– Com'era quando avevi dieci anni? – Era come chiedermi di prendere tutta la casa e di caricarmela sulle spalle. – Com'era quando di notte la porta si apriva e lui entrava nella tua stanza? – E' come quando sei un bambino e c'è la guerra. Hai mai visto quelle foto sul giornale di bambini dopo che hanno bombardato le loro città? E' così. E' grossa come una bomba. Ma per quante volte mi abbiano rovesciato, ero sempre in piedi. Quella è stata la mia rovina: rimanere sempre in piedi. Poi ho compiuto dodici anni, e poi tredici e ho messo su le tette. Co minciavo ad avere le mestruazioni. Sono diventata all'improvviso un corpo costruito intorno alla mia fighetta... Ma resta attaccato al ballo, Coleman. Tutte le porte chiuse, prima e dopo. Io ti vedo, Coleman. Tu non vuoi chiudere le porte. Sei ancora lì che fantastichi sull'amore. Sai una cosa? Ho proprio bisogno di uno più vecchio di te. Al quale abbiano fatto cagare totalmente tutta questa merda dell'amore. Tu sei troppo giovane per me, Coleman. Guardati. Sei solo un ragazzino che s'innamora della maestra di piano. Ti stai innamorando di me, Coleman, e sei troppo, troppo giovane per le donne come me. Io ho bisogno di un uomo molto più vecchio. Forse ho bisogno di un uomo che abbia almeno cent'anni. Hai un amico su una sedia a rotelle al quale potermi presentare? Le sedie a rotelle vanno benissimo: posso ballare e spingere nello stesso tempo. Magari hai un fratello maggiore. Guardati, Coleman. Tu che mi guardi con quegli occhi da scolaretto: ti prego, ti prego, telefona al tuo amico più vecchio. Io continuerò a ballare, fallo solo venire al telefono. Voglio parlare con lui. E sa, mentre lo dice, che è proprio questo, e il ballo, che lo sta facendo innamorare di lei. Ed è talmente facile! Ho attirato tanti uomini, tanti cazzoni, i cazzoni mi trovano e vengono da me, non soltanto gli uomini col cazzo, non quelli che non capiscono, che sono circa il novanta per cento, ma uomini, ragazzi, quelli maschi veramente, quelli come Smoky, che capiscono davvero. Ti puoi battere il petto per le cose che non hai, ma quello io ce l'ho, anche vestita di tutto punto, e alcuni lo sanno: sanno di che si tratta, ed è per questo che mi trovano, ed è per questo che vengono da me, ma questo... questo... questo... è come rubare una caramella a un bambino. Certo che lui se lo ricorda. Come potrebbe non ricordare? Una volta assaggiato, te lo ricordi. Dio, dio! Dopo duecentosessanta pompini, quattrocento scopate in piena regola e centosessanta cazzi in culo, comincia l'amore. Ma è così che vanno le cose. Ha mai amato, qualcuno, prima di scopare? Quante volte ho amato, io, dopo una scopata? O è proprio questo a rompere il ghiaccio? – Vuoi sapere come mi sento? – gli domanda. – Sì.

– Mi sento così bene! – Allora, – chiede lui, – chi potrà uscirne vivo? – Qui sono d'accordo con te, mister. Hai ragione, Coleman. Questa storia ci porterà alla catastrofe. Dentro fino al collo a settantun anni? Stregato da tutto questo a settantun anni? Uhm. Faremmo meglio a tornare alla cosa nuda e cruda. – Continua a ballare, – dice lui, e preme un tasto sul Sony portatile facendo ripartire la registrazione di The Man I Love. – No. No. Ti prego. Ho una carriera di bidella a cui pensare. – Non fermarti. – «Non fermarti», – ripete lei. – Ho già sentito queste parole –. In effetti, di rado ha sentito il verbo «fermarsi» senza che fosse preceduto da una negazione. Non da parte di un uomo. E nemmeno da parte sua. – Ho sempre creduto che «nonfermarti» fosse una parola sola, – dice. – Lo è. Continua a ballare. – Allora non sprecare l'occasione, – dice lei. – Un uomo e una donna in una stanza. Nudi. Abbiamo tutto il necessario. Non abbiamo bisogno dell'amore. Non svalutarti: non mostrarti uno stupido sentimentale. Muori dalla voglia di farlo, ma non lo fare. Non perdiamo tutto questo. Pensa, Coleman, pensa: riuscire a mantenere tutto questo. Non mi ha mai visto ballare in questo modo, non mi ha mai sentito parlare in questo modo. E' passato troppo tempo da quando parlavo in questo modo, tanto che credevo di avere dimenticato come si fa. Sempre nascosta, per tutto questo tempo. Nessuno mi ha sentito parlare in questo modo. Nei boschi, qualche volta, gli sparvieri e le cornacchie, ma per il resto nessuno. Non è il solito modo in cui intrattengo gli uomini. Non ho mai fatto imprudenze come questa. Pensa. – Pensa, – dice, – mostrarsi tutti i giorni... E poi questo. La donna che non vuole impadronirsi di tutto. La donna che non vuol essere padrona di niente. Ma non aveva mai voluto possedere qualcosa più di questa cosa. – La maggior parte delle donne vogliono essere padrone di ogni cosa, – dice. – Vogliono mettere le mani sulla tua posta. Vogliono impadronirsi del tuo avvenire. Vogliono impadronirsi delle tue fantasie. «Desideri scopare un'altra donna? Come osi? Io dovrei essere la tua fantasia. Perché hai biso gno della pornografia quando a casa ci sono io?» Vogliono impadronirsi di quello che sei, Coleman. Ma il piacere non consiste nel possesso della persona. Il piacere è questo. Avere un'altra contendente con te nella stanza. Oh, io ti vedo, Coleman. Potrei donarti per tutta la vita e continuare ad averti. Solo ballando. Non è vero? Sbaglio? Ti piace, Coleman? – Che fortuna, – dice lui, guardando, guardando. – Che incredibile fortuna. La vita me lo doveva. – Veramente?

– Non esiste un'altra donna come te. Elena di Troia. – Elena di Nessuno e di Nessun Posto. – Continua a ballare. – Io ti vedo, Coleman. Ti vedo. Vuoi sapere cosa vedo? – Certo. – Vuoi sapere se vedo un vecchio, no? Hai paura che io veda un vecchio e scappi via. Hai paura che, se vedo tutte le differenze da un giovane, se vedo le cose cascanti e le cose che non ci sono più, mi perderai. Perché sei troppo vecchio. Sai, invece, cosa vedo? – Cosa? – Vedo un ragazzino. Vedo che t'innamori come un ragazzino. E non devi. Non devi. Che altro vedo, lo sai? – Sì. – Sì, ora lo vedo... Vedo un vecchio, sì. Vedo un vecchio moribondo. – Dimmi. – Hai perso tutto. – Lo vedi? – Sì. Tutto tranne me, che sto ballando. Vuoi sapere cosa vedo? – Cosa? – Non meritavi quelle carte, Coleman. Ecco cosa vedo. Vedo che sei furibondo. Ed è così che andrà a finire. Con un vecchio furibondo. E non sarebbe dovuto andare così. Ecco quello che vedo: il tuo furore. Vedo la rabbia e la vergogna. Vedo che, da vecchio, tu capisci cos'è il tempo. Questo non lo si capisce fin quasi alla fine. Ma tu ora lo capisci. Ed è spaventoso. Perché non puoi tornare indietro. Non puoi avere di nuovo vent'anni. Non torneranno più. Ed è così che è finita. E c'è qualcosa di peggio che morire, c'è persino qualcosa di peggio che essere morto, e sono quei bastardi del cazzo che ti hanno fatto questo. Ti hanno portato via tutto. In te io vedo questo, Coleman. Lo vedo perché è una cosa che conosco. Quei bastardi del cazzo che in un lampo hanno cambiato tutto. Ti hanno preso la vita e l'hanno gettata via. Hanno preso la tua vita, e hanno deciso di gettarla via. Sei venuto dalla ballerina giusta. Sono loro a decidere quali sono i rifiuti, e loro hanno deciso che tu sei un rifiuto. Hanno umiliato, mortificato e distrutto un uomo per una ragione che – lo sapevano tutti – era una stronzata. Una parolina insignificante che per loro non voleva dire nulla, assolutamente nulla. E questa è una cosa che fa andare in bestia. – Non immaginavo che tu avessi seguito questa storia. Ride, Faunia, la sua facile risata. E balla. Senza idealismi, senza idealizzazioni, senza tutte le utopie dell'angioletto, con tutto ciò che sa della realtà, malgrado l'irreversibile futilità della sua vita, malgrado tutta la sua durezza e il suo caos, Faunia balla! E parla a un uomo come non ha mai parlato prima. Le donne che scopano come lei non dovrebbero parlare così: questo, almeno, è ciò che amano pensare gli uomini che non scopano don-

ne come lei. Questo è ciò che amano pensare le donne che non scopano come lei. Questo è ciò che tutti amano pensare: quella stupida di Faunia! Be', facciano pure. Prego. – Sì, quella stupida di Faunia ha seguito questa storia, – dice. – Altrimenti, se non si guardasse intorno, come farebbe, quella stupida di Faunia, a sopravvivere? Diventare quella stupida di Faunia: ecco la mia conquista, Coleman; quella stupida di Faunia sono io al colmo della mia ragionevolezza. Il fatto è, Coleman, che ti ho visto ballare. Come lo so? Perché sei con me. Perché saresti con me, se tu non fossi così arrabbiato? E perché io sarei con te, se non fossi così arrabbiata? Ecco ciò che favorisce le grandi scopate, Coleman. La rabbia che demolisce ogni cosa. Non perderla, dunque. – Continua a ballare. – Fino a quando crollerò? – domanda lei. – Fino a quando crollerai, – le dice lui. – Fino all'ultimo respiro. – Come vuoi. – Dove ti ho trovato, Voluptas? – dice lui. – Come ti ho trovato? Chi sei? – chiede, premendo il tasto che fa ripartire The Man I Love. – Sono tutto quello che vuoi. Coleman stava solo leggendole, dal giornale domenicale, qualcosa sul presidente e Monica Lewinsky quando Faunia balzò in piedi e urlò: – Non puoi farla finita con questa lezione del cazzo? Ne ho abbastanza di lezioni! Non posso imparare! Non imparo! Non voglio imparare! Smettila di fare il professore, cazzo! Non funziona! – E, nel bel mezzo della colazione, scappò via. Lo sbaglio era stato rimanere. Non era andata a casa, e ora lo odia. Cosa odia di più? Il fatto che lui creda davvero che le proprie pene siano chissà cosa. Crede davvero che quello che pensano tutti, quello che tutti dicono di lui all'Athena College, sia un tale disastro per la sua vita. Solo un branco di idioti che non lo possono soffrire: niente di speciale. E questa, per lui, è la cosa più orribile che sia mai successa? Be', sai che tragedia... Due figli morti soffocati, quella sì che è una tragedia. Avere un patrigno che ti mette le dita nella figa, quella è una tragedia. Perdere il lavoro quando stai per andare in pensione non è una tragedia. Ecco quello che Faunia odia di lui: l'importanza che dà alle proprie sofferenze. Crede di non avere mai avuto nessuna chance? Questa terra è una valle di lacrime, e lui crede di non aver avuto nessuna chance? Sai quando non hai nessuna chance? Quando, dopo la mungitura del mattino, tuo marito prende quel tubo di ferro e te lo dà sulla testa. Non lo vedo neanche arrivare! Ed era lui a non avere nessuna chance? A lui la vita deve qualcosa! Il che significa che a colazione Faunia non ha voglia di lezioni. La povera Monica potrebbe non trovare un buon lavoro a New York City? Sai

una cosa? Me ne sbatto. Credi che Monica si preoccupi della mia schiena, se mi fa male a forza di mungere quelle vacche del cazzo dopo una giornata al college? O di spazzare la merda che la gente lascia all'ufficio postale perché fa troppa fatica a usare il bidone della spazzatura? Credi che a Monica interessi? Lei continua a chiamare la Casa Bianca, e dev'essere stato terribile vedere che nessuno rispondeva alle sue telefonate. E per te è finita? Anche questo è terribile? Per me non è mai cominciata. Finita prima di cominciare. Prova a farti mettere kappaò da un tubo di ferro. Ieri sera? E' successo. E' stato bello. E' stato meraviglioso. Ne avevo bisogno anch'io. Ma ho sempre tre lavori. Non ha cambiato nulla. Ecco perché incassi, quando capita: perché non cambia nulla. Racconta pure alla mammina che suo marito, quando viene di notte nella stanza, ti mette un dito dentro: non cambia nulla. Forse adesso la mammina lo sa e vorrebbe aiutarti. Ma non cambia nulla. Abbiamo ballato per tutta la sera. Ma non cambia nulla. Lui mi legge di queste cose di Washington: cosa, cosa, cosa cambia? Mi legge di Washington, di queste scappatelle, di Bill Clinton che si fa succhiare il cazzo. A cosa può servirmi quando la macchina mi pianta in asso? Credi davvero che queste siano le cose più importanti della terra? Non sono così importanti. Non sono affatto importanti. Io avevo due bambini. Sono morti. Se stamattina non ho la forza di rattristarmi per Monica e Bill, mettilo in conto ai miei due figli, okay? Se questo è il mio limite, pazienza. Non mi resta più niente per tutti i grandi problemi della terra. Lo sbaglio era stato rimanere. Farsi stregare così completamente: lo sbaglio era stato questo. Anche sotto il temporale più scrosciante, Faunia era sempre andata a casa. Anche quando era terrorizzata dall'idea che Farley la seguisse e potesse mandarla fuori strada e farla cadere nel fiume, era andata a casa. Questa volta, invece, era rimasta. A causa del ballo era rimasta, e la mattina dopo è furibonda. Ce l'ha con lui. Che magnifica giornata, vediamo cosa dice il giornale. Dopo quello che è successo ieri sera, vuol vedere cosa dice il giornale? Forse, se non avessero parlato, se avessero solo fatto colazione e lei fosse andata via, rimanere sarebbe stato giusto. Ma attaccare con le lezioni... Quella era forse la cosa peggiore che Coleman avrebbe potuto fare. Cos'avrebbe dovuto fare? Darle qualcosa da mangiare e lasciarla andare a casa. Ma avevano ballato, e ballare aveva fatto i suoi danni. Sono rimasta. Stupidamente, sono rimasta. Andarsene la sera: non c'è nulla di più importante per una ragazza come me. Non ho le idee chiare su un mucchio di cose, ma questo lo so: restare fino alla mattina dopo significa qualcosa. La fantasia di Coleman–e–Faunia. E' il primo cedimento alla fantasia del «per sempre», la fantasia più trita della terra. Ho una casa dove andare, no? Non sarà la più bella del mondo, ma è una casa. Vacci! Scopa pure fino all'alba, ma poi vattene. C'era stato il temporale del Memorial Day, un temporale che aveva bombardato, martellato, assordato le montagne come se fosse scoppiata la guerra. Un attacco di sorpresa ai Berkshire. Eppure mi

sono alzata alle tre del mattino, ho preso la mia roba e sono andata via. Fulmini che crepitavano, alberi che si schiantavano, rami che piombavano sulla strada, grandine che mi cadeva sulla testa come una pioggia di pallini di piombo, e io sono andata via. Frustata da tutto quel vento, sono andata via. La montagna che esplode, e io sono andata via. Tra la casa e la macchina avrei potuto lasciarci la pelle, essere bruciata e uccisa da un fulmine, ma non sono rimasta: sono andata via. Invece, passare a letto con lui tutta la notte? La luna piena, il mondo che tace, dappertutto la luna e la sua luce, e io sono rimasta. Anche un cieco avrebbe trovato la via di casa in una notte come quella, ma io non me ne sono andata. E non ho dormito. Impossibile. A occhi aperti per tutta la notte. Non volevo, girandomi, avvicinarmi a lui. Non volevo toccarlo. Non sapevo come toccarlo, quest'uomo al quale ho leccato il buco del culo per mesi. Come una lebbrosa, fino all'alba, sulla sponda del letto, a guardare le ombre dei suoi alberi che strisciavano attraverso il suo prato. Lui ha detto: – Dovresti fermarti, – ma non voleva, e io ho detto: – Credo che ti prenderò in parola, – e l'ho fatto. Si poteva immaginare che almeno uno dei due avrebbe tenuto duro. Macché. Hanno optato tutt'e due per l'idea peggiore. Cosa le dicevano le puttane, la profonda saggezza delle prostitute? «Gli uomini non ti pagano per dormire con loro. Ti pagano perché tu te ne vada». Ma se sa quello che odia, Faunia sa anche quello che ama. La sua generosità. E' così raro, per lei, entrare anche solo nel raggio della generosità di qualcuno. E la forza che deriva dall'essere un uomo che non mi prende a bastonate in testa. Se insistesse, dovrei persino ammettere, come dice lui, che sono intelligente. Non l'ho forse dimostrato, ieri sera? Mi ha ascoltato, segno che sono stata intelligente. Mi sta a sentire, lui. Mi è fedele. Non mi fa rimproveri. Non trama in nessun modo contro di me. Cazzo, e questa è una ragione per essere così arrabbiata? Lui mi prende sul serio. E' sincero. Ecco cosa voleva dire regalandomi l'anello. Lo hanno spogliato, e da me è venuto nudo. Nel suo momento più vulnerabile. I miei giorni non sono stati tappezzati di uomini come questo. Mi aiuterebbe a comprare la macchina, se lo lasciassi fare. Mi aiuterebbe a comprare qualunque cosa, se glielo permettessi. Il dolore sparisce, con quest'uomo. Basta il su e giù della sua voce, mi basta sentirlo, per tranquillizzarmi. Sono queste le cose che ti fanno scappare? E' per questo che attacchi briga come una bambina? Un puro caso che tu l'abbia conosciuto, il tuo primo caso fortunato – il tuo ultimo caso fortunato – e t'infiammi e scappi via come una bambina? Vuoi davvero provocare la fine? Tornare alla situazione che c'era prima di lui? Eppure scappò via, uscì di corsa e tirò fuori la macchina dalla rimessa e attraversò la montagna per andare a trovare la cornacchia all'Audubon Society. Dopo cinque miglia, dalla strada sterzò nello stretto viale d'accesso in terra battuta che serpeggiava per un quarto di miglio fino a quando tra

gli alberi apparvero le scandole bigie della casa di due piani, tanto tempo prima dimora di esseri umani ma ora sede locale della società, sita ai margini del bosco e dei sentieri delle gite naturalistiche. Salì con le ruote sulla ghiaia del vialetto, sobbalzando fino ai tronchi della barriera, e parcheggiò davanti alla betulla col cartello inchiodato al tronco che indicava il giardino botanico: unica macchina visibile, la sua. Ce l'aveva fatta. Con la stessa facilità avrebbe potuto scendere dalla montagna. Le campanelle appese vicino all'ingresso tintinnavano alla brezza, mandando un suono vitreo e misterioso come se, senza parole, un ordine religioso accogliesse i visitatori invitandoli a fermarsi e a meditare, nonché a guardarsi intorno (come se lì si venerasse qualcosa di piccolo e commovente), ma la bandiera non era stata ancora issata sull'asta e un cartello sulla porta diceva che la domenica l'ufficio non apriva fino all'una. Nondimeno, quando spinse, la porta cedette, e Faunia, lasciandosi alle spalle la pallida ombra mattutina delle sanguinelle nude, entrò nella stanza, dove grossi sacchi pieni di varie miscele di mangime per uccelli erano ammonticchiati sul pavimento, pronti per gli acquirenti invernali, e oltre i sacchi, accatastate lungo la parete opposta fino al davanzale della finestra, c'erano le scatole contenenti i diversi beccatoi. Nel negozio degli articoli da regalo, dove insieme ai beccatoi si vendevano libri sulla natura, carte topografiche, audiocassette di canti d'uccelli e un assortimento di ninnoli ispirati agli animali, la luce era spenta, ma quando Faunia si voltò dall'altra parte, verso la stanza più grande adibita a esposizione, sede della modesta raccolta di animali impagliati e di un piccolo assortimento di esemplari vivi (tartarughe, serpenti, qualche uccello in gabbia), c'era un'impiegata, una ragazza rotondetta di diciotto o diciannove anni, che disse: – Salve, – e non fece storie perché l'ufficio non era ancora aperto. Così in alto sulla montagna, cadute le foglie autunnali, il primo di novembre i visitatori erano abbastanza rari, e la ragazza non se la sentiva di respingere qualcuno che per caso era arrivato alle nove e un quarto del mattino, anche quella donna che non era sicuramente equipaggiata per stare all'aria aperta in pieno autunno sui monti Berkshire ma che sembrava indossare, sopra i calzoni grigi della tuta sportiva, la giacca a righe di un pigiama da uomo, e che ai piedi aveva solo due ciabatte da casa, due di quelle calzature che chiamano pianelle. E non si era né spazzolata né pettinata i lunghi capelli biondi. Ma, tutto sommato, aveva un'aria più disordinata che sregolata, e per questo la ragazza, che stava dando da mangiare dei topi a un serpente in una scatola ai suoi piedi (tenendo ogni topo davanti al serpente con un paio di mollette fino al momento in cui il serpente lo afferrava di scatto e iniziava il lentissimo processo dell'ingestione), disse solo: – Salve, – e tornò ai suoi impegni mattutini domenicali. La cornacchia era nella gabbia di mezzo, un'uccelliera grande più o meno come un armadio, tra la gabbia con i due gufi e la gabbia dello sme-

riglio. Eccola. Faunia si sentiva già meglio. – Prince. Ehi, bellezza –. E fece schioccare la lingua contro il palato, clic, clic, clic. Si voltò verso la ragazza che stava dando da mangiare al serpente. Non era lì quando, in passato, Faunia era venuta a vedere la cornacchia, e molto probabilmente era nuova. O relativamente nuova. Faunia stessa, per mesi, non era andata a trovare la cornacchia, e mai da quando aveva cominciato a vedere Coleman. Era passato del tempo da quando si era messa a cercare dei sistemi per abbandonare la razza umana. Dopo la morte dei due figli non aveva più fatto visite regolari, anche se prima, in certi periodi, si fermava quattro o cinque volte la settimana. – Può venire fuori, no? Solo per un momento. – Certo, – disse la ragazza. – Mi piacerebbe averla sulla spalla, – disse Faunia, e si chinò per sollevare il gancio che teneva chiuso il portello di vetro della gabbia. – Oh, ciao, Prince. Oh, Prince. Sei in piena forma. Quando lo sportello si aprì, la cornacchia saltò dal trespolo sullo sportello e vi rimase appollaiata, voltando la testa di qua e di là. Faunia scoppiò in una risatina. – Che faccia! Mi sta studiando, – gridò alla ragazza. – Guarda, – disse alla cornacchia, e le mostrò l'anello con l'opale, il regalo di Coleman. L'anello che le aveva regalato, in macchina, quel sabato d'agosto in cui erano andati a Tanglewood. – Guarda. Vieni. Vieni qui, – sussurrò all'uccello, offrendogli la spalla. Ma la cornacchia declinò l'invito e con un salto rientrò nella gabbia e tornò ad appollaiarsi sul suo trespolo. – Non è in vena, – disse la ragazza. – Dolcezza? – tubò Faunia. – Vieni. Su. Sono Faunia. La tua amica. Da brava. Coraggio –. Ma l'uccello non si mosse. – Se capisce che vuole prenderla, non scende, – disse la ragazza e, sempre usando le mollette, prese un altro topo da un vassoio con un mucchietto di topi morti e l'offrì al serpente che aveva finalmente inghiottito, millimetro per millimetro, tutta la carcassa dell'ultimo. – Se capisce che stai cercando di prenderla, di solito si tiene a distanza, ma se si crede ignorata, viene giù. Risero insieme di quel comportamento tanto simile a un comportamento umano. – Okay, – disse Faunia, – la lascerò in pace per qualche minuto –. Si avvicinò alla ragazza seduta che stava dando da mangiare al serpente. – Adoro le cornacchie. E' il mio uccello preferito. E i corvi. Una volta abitavo a Seeley Falls, quindi so tutto di Prince. L'ho conosciuta quando era là che ciondolava intorno al negozio di Higginson. Rubava le mollette delle bambine. Si gettava su ogni cosa che fosse luccicante e colorata. Era famosa per questo. C'erano dei ritagli di giornale su di lei. Su di lei e sulle persone

che l'avevano allevata dopo che il suo nido era stato distrutto, e su come passeggiava davanti al negozio dandosi un sacco di arie. Erano puntati proprio lì, – disse, voltandosi per indicare un tabellone di fianco all'ingresso della stanza. – Dove sono i ritagli? – Li ha strappati. Faunia scoppiò a ridere, molto più forte di prima, questa volta. – Li ha strappati lei? – Col becco. Li ha stracciati. – Non voleva che tutti conoscessero le sue origini! Si vergognava delle sue origini! Prince! – gridò, girandosi verso la gabbia col portello ancora spalancato. – Ti vergogni del tuo passato equivoco? Oh, poverina. Sei una brava cornacchia. Poi la sua attenzione fu colpita da uno dei vari animali impagliati sparsi, sui loro supporti, qua e là nella stanza. – E' una lince rossa, quella? – Sì, – disse la ragazza, aspettando con pazienza che il serpente la finisse di dardeggiare la lingua verso il nuovo topo morto e si decidesse a prenderlo in bocca. – E' di queste parti? – Non so. – Ne ho viste in giro, sui monti. Era identica a questa, quella che ho visto. Forse è lei –. E rise di nuovo. Non era ubriaca (non aveva bevuto neanche mezzo caffè quando era corsa fuori, per non parlare di alcolici), ma la risata sembrava quella di chi s'è già scolato qualche bicchierino. Era solo che lì si sentiva a suo agio, con il serpente, la cornacchia e la lince impagliata, nessuno dei quali voleva insegnarle un bel niente. Nessuno dei quali le avrebbe letto qualcosa dal «New York Times». Nessuno dei quali avrebbe cercato di colmare le sue lacune sulla storia della razza umana negli ultimi tremila anni. Sapeva tutto quello che c'era da sapere sulla storia della razza umana: gli spietati e gli indifesi. Non aveva bisogno di date e di nomi. Gli spietati e gli indifesi: cazzo, la storia era tutta qui. Nessuno, lì, avrebbe cercato di incoraggiarla a leggere, perché nessuno, lì, sapeva leggere, a parte la ragazza. Quel serpente, di sicuro, non sapeva leggere. Sapeva solo mangiare i topi. Lento e tranquillo. Aveva tutto il tempo che voleva. – Che razza di serpente è? – Lo chiamano serpe nero dei ratti. – Lo inghiotte tutto intero. – Già. – Lo digerisce quando l'ha nella pancia. – Già. – Quanti ne mangia? – Questo è il settimo. E' andato troppo piano. Potrebbe essere l'ultimo. – Sette al giorno?

– No. Ogni settimana o due. – E ogni tanto lo fate uscire o la condanna è per la vita? – disse, indicando la cassetta di vetro dalla quale il serpente era stato trasferito nella scatola di plastica dove la ragazza gli dava da mangiare. – Per la vita. Là dentro. – Bella roba, – disse Faunia, e si voltò indietro a guardare la cornacchia, sempre appollaiata sul suo trespolo nella gabbia in fondo alla stanza. – Be', Prince, io sono qui. E tu sei laggiù. E di te non m'importa un fico secco. Se non vuoi posarti sulla mia spalla, fa' pure, la cosa non potrebbe interessarmi meno –. Indicò un altro degli animali impagliati. – Quel bel tomo là cos'è? – Quello è un falco pescatore. Faunia lo studiò per farsene un'idea – un esame minuzioso di quegli artigli aguzzi – e, sempre con una gran risata, disse: – Meglio non attaccar briga. Il serpente stava prendendo in considerazione l'ottavo topo. – Se riuscissi a convincere i miei figli a mangiare sette topi, – disse Faunia, – sarei la madre più felice della terra. La ragazza sorrise e disse: – Domenica scorsa Prince è uscito e ha fatto qualche volo. Tutti gli uccelli che abbiamo non sono capaci di volare. Prince è l'unico capace di volare. E' piuttosto veloce. – Oh, lo so, – disse Faunia. – Stavo buttando via dell'acqua, e lui ha infilato la porta ed è volato sugli alberi. In pochi minuti sono arrivate altre tre o quattro cornacchie. L'hanno circondato. E parevano impazzite. Lo tormentavano. Lo beccavano sul dorso. Strillavano. Lo sbatacchiavano di qua e di là. Sono arrivate in pochi minuti. Prince non ha la voce giusta. Non conosce il linguaggio delle cornacchie. Non lo vogliono, là fuori. Alla fine è venuto da me, perché ero là. L'avrebbero ucciso. – E' quello che succede quando crescono in cattività, – disse Faunia. – Ha passato tutta la vita con gente come noi, e questo è il risultato. La macchia umana, – disse, ma senza ripugnanza, né disprezzo, né disapprovazione. E senza tristezza. E' così. Questo è tutto ciò che Faunia, nel suo tono freddo e distaccato, stava dicendo alla ragazza che nutriva il serpente: noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c'è altro mezzo per essere qui. Nulla a che fare con la disobbedienza. Nulla a che fare con la grazia o la salvezza o la redenzione. E' in ognuno di noi. Insita. Inerente. Qualificante. La macchia che esiste prima del suo segno. Che esiste senza il segno. La macchia così intrinseca che non richiede un segno. La macchia che precede la disobbedienza, che comprende la disobbedienza e frustra ogni spiegazione e ogni comprensione. Ecco perché ogni purificazione è uno scherzo. Uno scherzo crudele, se è per questo. La fantasia della purez-

za è terrificante. E' folle. Cos'è questa brama di purificazione, se non l'aggiunta di nuove impurità? Della macchia Faunia diceva soltanto che era inevitabile. Questo, ovviamente, era il suo punto di vista: siamo creature irrimediabilmente macchiate. Rassegnata all'orribile, elementare imperfezione. Faunia è come i greci, i greci di Coleman. Come i loro dèi. Sono meschini. Litigano. Attaccano briga. Odiano. Assassinano. Fottono. Il loro Zeus non vuole far altro che fottere – dee, mortali, giovenche, orse – e non soltanto sotto le proprie sembianze ma, cosa ancora più eccitante, in forma di animale. Trasformarsi in toro e montare smisuratamente una donna. Trasformarsi in cigno bianco starnazzante e penetrarla nel modo più bizzarro. Non c'è mai abbastanza carne per il re degli dèi, e neppure sufficienti perversioni. Tutte le follie prodotte dal desiderio. Le dissolutezze. Le depravazioni. I piaceri più efferati. E il furore della moglie che tutto vede. Non il dio degli ebrei, infinitamente solo, infinitamente oscuro, monomaniacalmente l'unico dio che esiste, esisteva e sempre esisterà, con nulla di meglio da fare che preoccuparsi degli ebrei. E non l'uomo–dio cristiano perfettamente asessuato e la sua madre incontaminata e tutto il rimorso e tutta la vergogna che ispira una squisita soprannaturalità. Il greco Zeus, invece: immerso nelle avventure, vividamente espressivo, capriccioso, sensuale, attaccato con esuberanza alla propria sontuosa esistenza, tutt'altro che solo e tutt'altro che nascosto. Invece, la macchia divina. Una grande religione che rispecchia la realtà, per Faunia Farley, se, tramite Coleman, ne avesse saputo qualcosa. Come vuole la più arrogante fantasia, fatti a immagine di Dio, sicuramente, ma non il nostro: il loro. Un dio debosciato. Un dio corrotto. Un dio della vita se mai ce ne fu uno. Dio fatto a immagine dell'uomo. – Già. Credo sia proprio questa la tragedia delle cornacchie tirate su dagli esseri umani, – rispose la ragazza, senza cogliere esattamente il senso della frase di Faunia, ma anche senza mancarlo del tutto. – Non riconoscono i membri della loro specie. Lui, per esempio, non li riconosce. Mentre dovrebbe. Si chiama imprinting, – disse la ragazza. – Prince, in realtà, è una cornacchia che non sa cosa vuol dire essere una cornacchia. A un tratto Prince si mise a gracchiare, non come gracchiavano le cornacchie vere, ma in quel modo che aveva inventato lui e che faceva inviperire le altre cornacchie. Ora l'uccello si trovava sul portello della gabbia e strillava come un ossesso. Con un sorriso invitante, Faunia si voltò e disse: – Lo prendo come un complimento, Prince. – Imita i ragazzi delle scuole che vengono qui e imitano lui, – spiegò la ragazza. – Ha presente? Quando i ragazzi in gita scolastica fanno l'imitazione di una cornacchia? Quella è la sua impressione dei ragazzi. I ragazzi fanno così. E lui ha inventato il proprio linguaggio. Prendendolo dai ragazzi. Con una strana voce tutta sua Faunia disse: – Mi piace quella strana

voce che ha inventato –. E intanto aveva riattraversato la stanza per tornare alla gabbia ed era solo a qualche centimetro dal portello. Alzò la mano, la mano con l'anello, e disse all'uccello: – Ecco. Ecco. Guarda cosa ti ho portato per giocare –. Si tolse l'anello e glielo tenne davanti al becco per farglielo vedere da vicino. – Gli piace il mio anello con l'opale. – Di solito gli diamo delle chiavi per giocare. – Be', ha fatto strada. Non è così per tutti? Ecco. Trecento dollari, – disse Faunia. – Su, gioca con questo. Non riconosci un anello di valore quando qualcuno te lo offre? – Lo prenderà, – disse la ragazza. – Se lo porterà nella gabbia. Sembra un ratto boschereccio. Prende il cibo e lo ficca nelle crepe del muro della gabbia e ce lo pesta dentro col becco. Adesso la cornacchia aveva afferrato strettamente l'anello col becco e muoveva di scatto la testa di qua e di là. Poi l'anello tintinnò sul pavimento. L'uccello l'aveva lasciato cadere. Faunia si chinò a raccoglierlo e tornò a presentarlo alla cornacchia. – Se lo lasci cadere, non te lo do. Lo sai. Trecento dollari. Ti regalo un anello da trecento dollari: cosa sei, un magnaccia? Se lo vuoi, lo devi prendere. Giusto? Okay? Col becco, di nuovo, l'uccello glielo tolse dalle dita e se ne impossessò. – Grazie, – disse Faunia. – Portalo dentro, – mormorò, in modo che la ragazza non potesse udire. – Mettilo nella gabbia. Avanti. E' per te. Ma l'uccello lo lasciò cadere un'altra volta. – E' molto intelligente, – disse la ragazza a Faunia, alzando la voce. – Quando giochiamo con lui, mettiamo un topo in un recipiente e lo chiudiamo. E lui indovina come aprire il recipiente. E' straordinario. Ancora una volta Faunia recuperò l'anello e gliel'offrì, e ancora una volta la cornacchia lo prese e lo lasciò cadere. – Oh, Prince... Questa volta l'hai fatto apposta. E' diventato un gioco, eh? Cra. Cra. Cra. Cra. L'uccello proruppe nel suo strano verso, per la donna un'esplosione in pieno viso. Allora Faunia tese la mano e cominciò a carezzargli la testa, poi, molto lentamente, a scendere con la mano lungo il corpo partendo dalla testa, e la cornacchia glielo permise. – Oh, Prince. Oh, come sei lucido e splendente! Mi sta cantando qualcosa a bocca chiusa, – disse, e la sua voce era estatica, come se Faunia avesse finalmente scoperto il significato di ogni cosa. – Manda una specie di ronzio –. E cominciò a rispondergli: – Iuuuu... Iuuuu... Ummmmm, – imitando l'uccello, che in effetti mandava una specie di ronzio avvertendo la pressione della mano che gli stava lisciando le penne del dorso. Poi, di botto, clic clic, aprì e chiuse il becco con un ticchettio. – Oh, così va bene, – sussurrò Faunia, che poi voltò la testa verso la ragazza e, con la più bella delle sue risate, disse: – E' in vendita? Questo ticchet-

tio mi ha convinto. Lo prendo –. Era sempre più vicina, intanto, con le labbra a quel becco ticchettante, e sussurrava all'uccello: – Sì, ti compro, ti porto via... – Becca, eh? Attenta agli occhi, – disse la ragazza. – Oh, lo so che becca. Mi sono già fatta beccare un paio di volte. La prima volta che ci siamo incontrati, mi ha beccato. Ma manda anche questo ticchettio. Oh, ragazzi, sentite come fa tictac. E ricordava con quanto impegno aveva cercato di morire. Due volte. Nella stanza di Seeley Falls. Il mese dopo la morte dei bambini, due volte ho tentato di uccidermi in quella stanza. A tutti gli effetti, la prima volta ci sono riuscita. Lo ricavo da quello che mi ha detto l'infermiera. Non c'era neanche quella lucina sul monitor che indica il battito cardiaco. Di solito è letale, disse. Ma certe ragazze hanno tutte le fortune. E pensare che ce l'avevo messa tutta. Ricordo che ho fatto la doccia, mi sono depilata le gambe, ho indossato la mia gonna migliore, quella lunga di cotone. La gonna a portafoglio. E la camicetta di quella volta a Brattleboro, quell'estate, la camicetta ricamata. Ricordo il gin e il Valium, e ricordo vagamente quella polvere. Ho dimenticato il nome. Una specie di veleno per i topi, amaro, che ho messo nel pudding caramellato. Ho acceso il forno? L'ho dimenticato? Sono diventata blu? Quanto tempo ho dormito? Quando hanno deciso di sfondare la porta? Ancora non so chi l'abbia fatto. Per me sono stati un'estasi, quei preparativi. Ci sono dei momenti, nella vita, che meritano di essere celebrati. Momenti di trionfo. Occasioni per le quali vestirsi bene è un obbligo. Oh, con quanta cura mi sono vestita. Mi sono fatta le trecce. Mi sono truccata gli occhi. Mia madre sarebbe stata fiera di me, ed è tutto dire. L'avevo chiamata solo la settimana prima per dirle che i bambini erano morti. La prima telefonata in vent'anni. – Sono Faunia, mamma. – Non conosco nessuno con questo nome. Spiacente, – e riattaccò. Carogna. Quando scappai, diceva a tutti: – Mio marito è rigido e Faunia non stava alle regole. Non è mai stata alle regole –. Il classico depistaggio. Quale bambina privilegiata è scappata mai di casa perché il suo patrigno era rigido? Lei scappa, brutta carogna, non perché il patrigno è rigido, ma perché il patrigno è un depravato e non la lascia in pace. Comunque, ho indossato la roba migliore che avevo. Niente di meno sarebbe andato bene. La seconda volta, invece, non mi sono messa tutta in ghingheri. E questo spiega tutto. Non m'interessava più. No, dopo che la prima volta non aveva funzionato. La seconda volta è stata una cosa improvvisa, una cosa triste e fatta impulsivamente. La prima volta ci aveva messo tanto tempo ad arrivare, giorni e notti, tutta quell'aspettativa. I preparati. Comprare la polvere. Procurarsi le ricette. La seconda volta, invece, è stata precipitosa. Banale. Credo di essermi fermata perché non resistevo al soffocamento. Avevo la gola chiusa, mi sentivo veramente soffocare, non respiravo più, e in fretta e furia ho slegato la prolunga. Non c'era stata tanta fretta la prima volta. Era stata una cosa pacifica

e tranquilla. I bambini non c'erano più, non c'era nessuno per cui preoccuparsi, e io avevo tutto il tempo che volevo. Se solo avessi fatto le cose giuste! Il piacere che mi dava. Alla fine, dove non c'è nessun piacere, c'è quell'ultimo momento di gioia, quando la morte dovrebbe arrivare alle tue rabbiose condizioni, solo che non provi un senso di rabbia, ma un senso di esultanza. Non posso fare a meno di pensarci. Tutta questa settimana. Lui mi legge di Clinton sul «New York Times» e io non penso che al dottor Kevorkian e alla sua macchina all'ossido di carbonio. Basta inalare profondamente. Basta aspirare finché non c'è più niente da aspirare. – «Erano due bambini così belli, – ha dichiarato. – Non ti aspetteresti mai che una cosa simile potesse capitare a te o a una delle tue amiche. Almeno Faunia ha la fede e sa che adesso i suoi figli sono con Dio». Ecco cosa un'idiota aveva detto al giornale. DUE BAMBINI MUOIONO SOFFOCATI NELL'INCENDIO DI UNA CASA. «"Stando alle prime indagini, – ha dichiarato il sergente Donaldson, – esistono le prove che una stufa..." Gli abitanti della strada di campagna hanno detto di essersi accorti dell'incendio quando la madre dei bambini...» Quando la madre dei bambini alzò la testa dal cazzo che stava succhiando. «I vicini hanno dichiarato che il padre dei bambini, Lester Farley, uscì dalla porta qualche minuto dopo...» Pronto a uccidermi una volta per tutte. Ma non lo fece. E non l'ho fatto nemmeno io. Straordinario. Straordinario come nessuno l'abbia ancora fatto alla madre dei bambini deceduti. – No, non l'ho fatto, Prince. Neanche questo ha funzionato. E così, – sussurrò all'uccello, le cui lustre penne nere erano calde e lisce sotto la sua mano come nessun'altra cosa Faunia avesse carezzato, – eccoci arrivati a questo punto. Una cornacchia che in realtà non sa come fare per essere una cornacchia, una donna che in realtà non sa come fare per essere una donna. Siamo fatte l'una per l'altra. Sposami. Tu sei il mio destino, ridicolo uccello –. Poi fece un passo indietro e s'inchinò. – Addio, mio Principe. E l'uccello rispose. Con un verso stridulo così somigliante a un «Calma. Calma. Calma» che ancora una volta Faunia scoppiò in una risata. Quando si voltò per salutare la ragazza, le disse: – Be', è meglio di quello che mi dicono gli uomini per la strada. Aveva lasciato l'anello a Prince. Il regalo di Coleman. Mentre la ragazza non guardava, lo aveva nascosto nella gabbia. Fidanzata con una cornacchia. Ecco quello che ci vuole. – Grazie, – esclamò Faunia. – Non c'è di che. Buona giornata, – le gridò dietro la ragazza, e con questo Faunia tornò da Coleman a finire la colazione e a vedere quali sarebbero stati gli sviluppi della situazione che si era creata con lui. L'anello è nella gabbia. Ce l'ha Prince. Ha un anello da trecento dollari.

Il viaggio a Pittsfield per il Muro Itinerante ebbe luogo il Giorno dei Reduci, quando si ammaina la bandiera a mezz'asta e in molte città si svolgono parate – e i grandi magazzini organizzano liquidazioni – e i reduci che si sentono come si sentiva Les sono disgustati dai connazionali, dalla patria e dal governo più di quanto lo siano in tutti gli altri giorni dell'anno. Cos'avrebbe dovuto fare, adesso? Partecipare a una parata da due soldi e marciare qua e là mentre la banda suonava e tutti sventolavano la bandiera? Così, riconoscendo i loro reduci dal Vietnam, per un minuto si sarebbero sentiti tutti bene? Perché gli avevano sputato addosso, quando era tornato, se adesso erano tanto ansiosi di vederlo passare? Come mai c'erano dei reduci che dormivano sui marciapiedi, mentre quell'imboscato dormiva alla Casa Bianca? Willie il Falso, comandante in capo. Figlio di puttana. Là a strizzare le tette di quella cicciona ebrea mentre gli stanziamenti destinati ai reduci finiscono nel cesso. Ha mentito sulla sua relazione? Merda. Quel governo maledetto mente su ogni cosa. No, il governo degli Stati Uniti aveva già fatto troppi brutti scherzi a Lester Farley per potervi aggiungere quello del Giorno dei Reduci. Eppure eccolo là, quel giorno importantissimo, sul furgone di Louie diretto a Pittsfield. La loro meta era la copia in scala ridotta del vero Muro che già da una quindicina d'anni girava per il paese; dal dieci al sedici no vembre sarebbe stata esposta nel parcheggio del Ramada Inn sotto il patrocinio dell'Associazione reduci di guerra di Pittsfield. Con lui c'erano gli stessi compagni che lo avevano aiutato a superare la prova del ristorante cinese. Non volevano che ci andasse da solo, e lo avevano sempre tranquillizzato: saremo là con te, saremo al tuo fianco, saremo con te ventiquattr'ore su ventiquattro e sette giorni su sette, se sarà necessario. Louie era arrivato al punto di dire che Les, dopo, avrebbe potuto sistemarsi con lui e con la moglie a casa sua, e che, per tutto il tempo che ci fosse voluto, loro avrebbero badato a lui. – Non dovrai tornare a casa e vivere da solo, Les. No, se non vuoi. Credo che non dovresti neanche provarci. Vieni a stare con me e Tess. Tessie ne ha viste di tutti i colori. Tessie capisce. Non devi preoccuparti per lei. Quando sono tornato, Tessie è diventata la mia motivazione. La mia idea era: com'è possibile che qualcuno mi dica quello che devo fare? Vado in bestia senza la minima provocazione! Lo sai. Tu sai tutte queste cose, Les. Ma Tessie, grazie a Dio, è stata sempre fermamente al mio fianco. Se vuoi, sarà anche al tuo fianco. Louie, per lui, era come un fratello, il fratello migliore che un uomo avrebbe mai potuto sperare di avere; ma non lo lasciava mai in pace con quella storia del Muro, era un fanatico, cazzo, a pretendere che lui lo vedesse, e così Les doveva fare sforzi sovrumani per non saltargli alla gola e strozzarlo, quel bastardo. Brutto bastardo d'un portoricano storpio, lasciami

in pace! Piantala di dirmi che ci hai messo dieci anni per arrivare al Muro. Piantala di dirmi che ti ha cambiato la vita, cazzo. Piantala di dirmi che hai fatto la pace con Mikey. Piantala di dirmi cosa ti ha detto Mikey davanti al Muro. Non lo voglio sapere! Eppure sono partiti, sono in viaggio, e di nuovo Louie gli ripete: – «Tutto a posto, Louie»: ecco quello che mi ha detto Mikey. Ed è quello che Kenny dirà a te. Quello che mi ha detto, Les, è che era tutto a posto, che potevo continuare a fare la mia vita. – Non ce la faccio, Lou... Torna indietro. – Calmati, bello. Siamo a metà strada. – Volta questa macchina del cazzo! – Les, non puoi saperlo finché non ci sei stato. Ci devi andare, – disse Louie gentilmente, – e lo scoprirai. – Io non lo voglio scoprire! – E se tu prendessi una dose un po' più forte delle tue medicine? Un po' di Ativan. Un po' di Valium. Una dose un po' più forte non ti farà male. Dàgli un goccio d'acqua, Chet. Quando arrivarono a Pittsfield, e Louie ebbe parcheggiato lungo il marciapiede opposto a quello del Ramada Inn, non fu facile convincere Les a smontare dal furgone. – Non lo faccio, – diceva, e così gli altri aspettarono fuori, fumando, intorno al furgone, lasciandogli un altro po' di tempo per permettere all'Ativan e al Valium in più di fare effetto. Dalla strada, Louie lo teneva d'occhio. C'erano un sacco di macchine della polizia, in giro, e un mucchio di autobus. Davanti al Muro stava svolgendosi una cerimonia, si sentiva qualcuno parlare al microfono, un uomo politico del posto, forse il quindicesimo a concionare, quel mattino. – Gli uomini i cui nomi sono incisi su questo muro alle mie spalle sono vostri parenti, amici e vicini. Sono cristiani, ebrei, musulmani, neri, bianchi, indiani... Tutti americani. Si erano impegnati a difenderci e proteggerci, e hanno dato la vita per rispettare l'impegno. Non c'è onorificenza, non esiste cerimonia, che possa esprimere pienamente la nostra gratitudine e la nostra ammirazione. La seguente poesia fu lasciata su questo muro qualche settimana fa nell'Ohio, e io vorrei leggerla con voi. «Vi ricordiamo, sorridenti, fieri, forti | Ci diceste di non stare in pensiero | Ricordiamo gli ultimi abbracci e i baci...» E quando quel discorso finì, ce ne fu un altro. – ...Ma con questo muro di nomi alle spalle, e mentre guardo tra la folla e vedo i volti di uomini di mezza età come me, alcuni con medaglie e altri con i resti di divise militari, e vedo nei loro occhi una lieve tristezza (forse ciò che resta dello sguardo smarrito che avevamo tutti quando eravamo semplici marmittoni, fantaccini, a diecimila miglia da casa), quando vedo tutto questo, mi sento in qualche modo riportare a trent'anni fa. L'originale di questo monumento itinerante fu inaugurato sul Mall di Washington il 13 novembre 1982. Mi ci vollero circa due anni e mezzo per andarci. Ripensando a quel momento,

so, come molti reduci dal Vietnam, di non esserci andato deliberatamente, a causa dei ricordi dolorosi che avrebbe evocato. E così, una sera che mi trovavo a Washington, al tramonto, andai da solo a visitare il Muro. Lasciai moglie e figli in albergo – stavamo tornando da Disney World – e andai a vederlo, fermandomi da solo al suo apice, vicino al punto dove sono in questo preciso momento. E tornarono i ricordi e, con essi, un turbine di emozioni. Mi vennero in mente persone con le quali ero cresciuto, con le quali avevo giocato a baseball, i cui nomi sono incisi su questo muro, gente di qui, di Pittsfield. Mi venne in mente il mio radiotelegrafista, Sal. Ci eravamo conosciuti nel Vietnam. Giocammo al gioco «Di dove sei?» Massachusetts. Massachusetts. Di che parte del Massachusetts? Lui era di West Springfield. Io dissi che venivo da Pittsfield. E Sal morì un mese dopo la mia partenza. Io tornai a casa in aprile, e comprai un giornale con la cronaca cittadina, e vidi che Sal non mi avrebbe più incontrato, né a Pittsfield né a Springfield, per un drink. Mi vennero in mente altri uomini con i quali avevo fatto il servizio militare... E poi ci fu una banda – molto probabilmente la fanfara di un reparto di fanteria – che suonò il Battle Hymn of the Green Berets, portando Louie a concludere che, prima di tirare Les fuori dal furgone, era meglio aspettare che la cerimonia fosse finita del tutto. Louie aveva programmato il loro arrivo in modo tale da non dover sentire né discorsi né brani musicali che avrebbero potuto emozionarli troppo, ma molto probabilmente la cerimonia era iniziata in ritardo, e perciò era ancora in pieno svolgimento. Guardando l'orologio, tuttavia, e vedendo che era quasi mezzogiorno, pensò che doveva essere quasi alla fine. E... Sì, esatto, improvvisamente cominciò l'ultima parte. La tromba solitaria che suona il silenzio. Meglio così. Era già abbastanza dura ascoltare quelle note stando là in mezzo alla strada fra tutti quegli autobus vuoti e le macchine della polizia; non parliamo di trovarsi proprio là, con tutta quella gente che piangeva, ad affrontare tutt'e due le cose, il silenzio e il Muro. Venne dunque suonato il silenzio, lo straziante silenzio, l'ultima solenne nota del silenzio, poi la banda eseguì God Bless America e Louie sentì la gente intorno al Muro che cantava – «From the mountains, to the prairies, to the oceans, white with foam» 7 – e dopo qualche istante la cerimonia finì. Nel furgone Les tremava ancora, ma non sembrava guardarsi continuamente alle spalle, e solo di tanto in tanto alzava gli occhi al cielo cercando «i cosi»; perciò Louie tornò ad arrampicarsi goffamente sul veicolo e si sedette accanto a lui, sapendo che ormai tutta la vita di Les era il terrore di ciò che stava per scoprire, e che dunque c'era solo una cosa da fare: portarcelo e farla finita. – Manderemo Swift in avanscoperta, Les, a cercarti Kenny. E' un muro 7

«Dai monti, alle praterie, agli oceani, bianchi di spuma» [N.d.T.].

piuttosto lungo. Per non costringerti a leggere tutti quei nomi, Swift e i ragazzi andranno avanti e lo troveranno in anticipo. I nomi sono scritti sui pannelli in ordine di tempo. Sono in ordine cronologico, dal primo all'ultimo. Abbiamo la data di Kenny, ce l'hai fornita tu, quindi non ci vorrà troppo tempo per trovarlo. – Non lo faccio. Quando tornò al furgone, Swift aprì la portiera formando una fessura larga un dito e disse a Louie: – Fatto. L'abbiamo trovato. – Okay, Lester, ci siamo. Mettici un po' d'impegno. Devi andarci a piedi. E' dietro l'albergo. Ci saranno altre persone che fanno la stessa cosa che facciamo noi. Hanno tenuto una piccola cerimonia ufficiale, ma ora è finita e non devi preoccuparti. Niente discorsi. Niente balle. Ci saranno solo figli e genitori e nonni, e staranno tutti facendo la stessa cosa. Deporranno corone di fiori. Reciteranno preghiere. Per la maggior parte, cercheranno dei nomi. Parleranno tra loro come fanno tutti, Les. Qualcuno piangerà. Tutto qui. Così sai cosa ti aspetta. Fa' pure con comodo, ma devi venire con noi. Faceva un caldo insolito per il mese di novembre, e avvicinandosi al Muro videro che molti uomini erano in maniche di camicia e qualche donna in shorts. Gente con gli occhiali da sole a metà novembre, ma per il resto i fiori, la gente, i nonni, i bambini... Era esattamente come aveva detto Louie. E il Muro Itinerante non era una sorpresa: Les l'aveva visto sulle riviste, sulle magliette, una volta alla tivù aveva visto di sfuggita quello vero, quello grande, che era a Washington, D.C., prima di spegnere in fretta e furia il televisore. Allineati per il lungo sull'asfalto del parcheggio c'erano tutti quei pannelli uniti l'uno all'altro, un cimitero perpendicolare di nere lastre verticali digradanti a poco a poco verso le due estremità e coperte di fittissime scritte bianche con tutti i nomi. Il nome di ogni caduto era lungo circa un quarto del mignolo di un uomo. Così avevano dovuto ridurli per farceli stare tutti, 58209 uomini che non vanno più né al cinema né a spasso, ma che riescono a esistere, per quello che vale la loro esistenza, come iscrizioni su un muro portatile di alluminio nero sostenuto nella parte posteriore da un telaio di assicelle di legno in un parcheggio del Massachusetts dietro uno dei Ramada Inn. La prima volta che era stato al Muro, Swift non era riuscito a scendere dall'autobus, e gli altri avevano dovuto tirarlo giù e continuare a trascinarlo fino a metterlo con la faccia proprio davanti alle iscrizioni, e più tardi lui aveva detto: – Lo senti piangere, il Muro –. La prima volta che c'era andato Chet, aveva cominciato a tempestarlo di pugni e a urlare: – Quello lì non dovrebbe essere il nome di Billy... No, Billy, no!... Quello lì dovrebbe essere il mio nome! – La prima volta che era stato al Muro, Bobcat si era limitato a tendere la mano per toccarlo e poi, come se la mano gli si fosse congelata, non era più riuscito a staccarla: aveva avuto quella che un medico della Veterans Administration chiamava «una specie di crampo». La prima

volta che era stato al Muro, Louie non ci aveva messo molto a capire come stavano le cose e ad arrivare al punto. – Okay, Mikey, – aveva detto ad alta voce, – eccomi qua. Sono arrivato, – e Mikey, parlando con la propria voce, gli aveva risposto: – Tutto a posto, Lou. Va bene così. Les conosceva tutte queste storie, sapeva cos'avrebbe potuto succedere la prima volta, e ora è lì per la prima volta e non sente niente. Non succede niente. Tutti gli dicono che andrà meglio, ti adatterai, ogni volta che ci tornerai andrà sempre meglio fino al giorno in cui ti porteremo a Washington e sul muro grande troverai il nome di Kenny e questa, questa sarà la vera guarigione spirituale: tutta questa enorme preparazione, e non succede niente. Niente. Swift aveva sentito il Muro piangere: Les non sentì niente. Non sente niente, non avverte niente, addirittura non ricorda niente. E' come quando ha visto i suoi due figli morti. Tutta quest'enorme introduzione, e poi niente. Aveva avuto tanta paura, lì, di sentire troppo; invece non sente niente, e questo è peggio. Indica che, malgrado tutto, malgrado Louie e le visite al ristorante cinese e i farmaci e il regime secco, Les aveva sempre avuto ragione di credersi morto. Al ristorante cinese qualcosa aveva sentito, e questo, per qualche istante, lo aveva tratto in inganno. Ma ora Les sa con certezza di essere morto, perché non riesce nemmeno a evocare il ricordo di Kenny. Una volta ne era tormentato, ora non riesce neanche a ristabilire il contatto. Poiché per Les è la prima volta, gli altri non lo perdono di vista. Si allontanano brevemente, uno alla volta, per rendere omaggio a questo o a quel compagno, ma c'è sempre qualcuno che resta lì con lui per controllarlo, e ognuno, quando torna, lo abbraccia e se lo stringe al petto. Tutti credono che tra loro ora esista un'armonia come mai prima d'allora, e tutti credono, poiché ha l'aria istupidita di prammatica, che Les stia facendo l'esperienza che tutti vogliono che faccia. Non sanno che, quando volge lo sguardo a una delle tre bandiere americane che sventolano, insieme alla bandiera nera dei prigionieri di guerra e dei dispersi, a mezz'asta sopra il parcheggio, Les non pensa a Kenny, e neppure al Giorno dei Reduci, ma pensa che a Pittsfield abbiano messo tutte le bandiere a mezz'asta perché si è finalmente stabilito che Les Farley è morto. E' ufficiale: morto del tutto, e non soltanto dentro. Les non lo dice agli altri. A che scopo? La verità è la verità. – Sono fiero di te, – gli sussurra Louie. – Lo sapevo che potevi farcela. Lo sapevo che sarebbe andata così –. E Swift gli sta dicendo: – Se un giorno avrai voglia di parlarne... E' stato invaso da una serenità che ora tutti scambiano per successo terapeutico. «Il Muro che guarisce»: così dice lo striscione davanti all'albergo, ed è vero. E, finita la sosta davanti al nome di Kenny, cominciano a passeggiare avanti e indietro, tutti insieme, lungo il Muro, guardando la gente che cerca i nomi, perché Lester si convinca, perché capisca che si trova proprio lì dove sta facendo quello che fa. – Questo non è un muro da scalare, – una

donna dice sottovoce al bambino che ha tirato giù dalla parte bassa, in fondo, sulla quale si stava arrampicando. – Come si chiama? Qual è il cognome di Steve? – un uomo anziano sta chiedendo alla moglie mentre setaccia uno dei pannelli, contando attentamente con un dito, fila per fila, dall'alto in basso. – Lì, – sentono dire da una donna a un frugoletto che ha appena imparato a camminare; con un dito sta toccando un nome sul Muro. – Lì, amore. Quello è lo zio Johnny –. E si fa il segno della croce. – Sei sicuro che è la riga ventotto? – una donna chiede al marito. – Sono sicuro. – Be', dev'essere lì. Pannello quattro, riga ventotto. A Washington l'avevo trovato. – Io non lo vedo. Fammi contare di nuovo. – Quello è mio cugino, – sta dicendo una donna. – Ha aperto una bottiglia di Coca, laggiù, ed è esplosa. Era stata trasformata in una bomba. Aveva diciannove anni. Era nelle retrovie. A Dio piacendo, è in pace –. In ginocchio davanti a uno dei pannelli c'è un reduce con un berretto dell'American Legion: sta aiutando due signore nere che indossano il loro abito festivo più elegante. – Come si chiama? – chiede la più giovane. – Bates, James. – Eccolo qui, – dice il reduce. – Eccolo là, mamma, – dice la donna più giovane. Poiché il Muro è la metà di quello di Washington, molte persone devono inginocchiarsi per cercare i nomi e questo, ai più anziani, rende la ricerca particolarmente faticosa. Appoggiati al Muro ci sono dei fiori avvolti nel cellofan. C'è una poesia scritta a mano su un pezzo di carta che qualcuno ha attaccato col nastro adesivo ai piedi del Muro. Louie si china per leggerne le parole: «Star light, star bright | First star I see tonight...» 8. Ci sono delle persone con gli occhi rossi perché hanno pianto. Ci sono dei reduci con un berretto nero da reduce dal Vietnam come quello di Louie: alcuni, appuntati al berretto, hanno i nastrini delle campagne. C'è un ragazzo paffuto di una decina d'anni che, con le spalle ostinatamente rivolte al Muro, sta dicendo a una donna: – Non lo voglio leggere –. C'è un tipo pieno di tatuaggi con una maglietta della Prima Divisione di Fanteria – «Big Red One», dice la maglietta – che si stringe il corpo con le braccia e gironzola, stordito, qua e là, in preda a terribili pensieri. Louie lo vede, lo ferma e lo abbraccia. Lo abbracciano tutti. Riescono a farlo abbracciare anche da Les. – Lì ci sono due dei miei compagni del liceo, uccisi a meno di quarantott'ore l'uno dall'altro, – sta dicendo un tale nei paraggi. – E la veglia è stata organizzata dalla stessa agenzia di pompe funebri. Quello fu un giorno molto triste per il liceo di Kingston. – E' stato il primo ad andare nel Vietnam, – sta dicendo un altro, – e l'unico di noi che non è tornato. E sai cos'avrebbe voluto lì sotto il suo nome, lì davanti al Muro? Le stesse cose che voleva nel Vietnam. Te lo dico esattamente: una bottiglia di Jack Daniel's, un paio di buoni anfibi e qualche pelo di figa dentro un biscotto al cioccolato. Lì vicino c'è un capannello di quattro uomini che si sono messi a chiac8

«Stella fulgida, stella splendente | La prima che vedo stasera...» [N.d.T.].

chierare, e quando Louie li sente parlare del passato si ferma ad ascoltare, e gli altri aspettano insieme a lui. I quattro sconosciuti hanno tutti i capelli grigi: radi, ormai, o ricciuti e, in un caso, una coda di cavallo, sempre grigia, che spunta da un berretto da reduce dal Vietnam. – Voi eravate già meccanizzati quando siete stati là, eh? – Già. Ne abbiamo fatte, noi, di scarpinate, ma si sapeva che prima o poi sarebbe finita così. – Anche noi non abbiamo fatto altro che camminare. Abbiamo attraversato da cima a fondo quegli altipiani centrali del cazzo. E tutte quelle maledette montagne. – Un'altra cosa, con l'unità meccanizzata, è che non ti fermavi mai nelle retrovie. In tutto il tempo che ho passato là, quasi undici mesi, credo di essere stato al campo base quando ci sono andato per un breve periodo di riposo: tutto qui. – Quando si muovevano i mezzi cingolati, quelli lo sapevano che stavi arrivando, e sapevano quando saresti arrivato, così il razzo B–40 era là che ti aspettava. Avevano tutto il tempo di lustrarlo e di scriverci sopra il tuo nome. A un tratto Louie s'intromette per dire la sua. – Noi siamo qui, – dice ai quattro sconosciuti, senza tanti preamboli. – Noi siamo qui, giusto? Siamo tutti qui. Datemi i vostri nomi. Datemi i nomi e gli indirizzi –. Ed estrae il taccuino dalla tasca posteriore e, appoggiandosi al bastone, annota tutti i dati per poter spedire loro il bollettino che lui e Tessie pubblicano, da soli, un paio di volte l'anno. Poi si trovano a passare davanti alle sedie vuote. Non le avevano viste, entrando, tanto erano assorbiti dal problema di portare Les davanti al Muro senza che crollasse o scappasse via. In fondo al parcheggio ci sono quarantuno vecchie sedie pieghevoli bruno–grigiastre di metallo, forse uscite dalla cantina di una chiesa e disposte in file un po' curve, come per la cerimonia della consegna dei diplomi o per una premiazione: tre file di dieci, una di undici. Si è usata molta cura per sistemarle proprio così. Attaccato col nastro adesivo alla spalliera di ogni sedia c'è il nome di qualcuno: sulla sedia vuota un nome, un nome d'uomo, stampato su un bigliettino bianco. Un intero settore di posti a sedere isolato e, per avere la certezza che nessuno si sieda lì, cinto ai quattro lati da una corda allentata piena di bandierine viola e nere. E là dentro è appesa una corona, una grossa corona di garofani, e quando Louie, al quale nulla sfugge, si ferma per contarli, scopre, come sospettava, che i garofani sono quarantuno. – E questa che roba è? – chiede Swift. – Sono i ragazzi di Pittsfield che sono morti. Sono le loro sedie vuote, – dice Louie. – Porca puttana, – dice Swift. – Che macello. O combatti per vincere o

non combatti per niente. Porca puttana. Ma per loro il pomeriggio non è ancora finito. Fuori, sul marciapiede davanti al Ramada Inn, c'è un tipo magrolino con gli occhiali, insaccato in una giubba troppo pesante per quella giornata, che mostra di avere qualche problema: si rivolge ai passanti urlando, segnandoli a dito, spruzzando saliva perché grida così forte, e ci sono dei poliziotti che sono scesi dalle loro macchine e stanno arrivando di corsa per cercare di calmarlo prima che possa aggredire qualcuno o, se ha un'arma nascosta sotto la giubba, estrarla per sparare. In una mano tiene una bottiglia di whiskey: è l'unica cosa che sembra avere addosso. – Guardatemi! – urla. – Io sono una merda, e tutti quelli che mi guardano sanno che sono una merda. Nixon! Nixon! Ecco chi mi ha fatto questo! Ecco chi mi ha fatto questo! Nixon mi ha mandato nel Vietnam! Mentre risalgono solennemente sul furgone, ciascuno sotto il peso dei ricordi, provano sollievo nel vedere che Les, diversamente dal tizio che dà i numeri là in mezzo alla strada, mostra una tranquillità per lui del tutto nuova. Pur non essendo uomini portati a esprimere sentimenti trascendenti, provano, davanti a Les, le emozioni che possono accompagnarsi a un impulso del genere. E durante il viaggio di ritorno ciascuno di essi – tranne Les – comprenderà, nella misura del possibile, il mistero che consiste nell'essere vivo e in continuo mutamento. Sembrava sereno, ma era tutta una finta. Aveva deciso. Usare il pick–up. Far fuori tutti, se stesso compreso. Lungo il fiume, andargli dritto addosso, nella stessa corsia, la loro, oltre la curva dove il fiume fa un'ansa. Aveva deciso. Non ho niente da perdere e tutto da guadagnare. Non è questione di «se» o di «ma», se succede quella cosa o se vedo questa cosa o che, se la penso così, lo farò e se no, no. La decisione era presa: a tal punto che ormai non aveva più bisogno di pensare. Si tratta di una missio ne suicida, e dentro di sé Les è molto agitato. Né parole, né pensieri. Solo vedere, udire, sentire il sapore, fiutare: è rabbia, adrenalina, ed è rassegnazione. Non siamo nel Vietnam. Il Vietnam è alle nostre spalle. (Riportato in manette all'ospedale per i reduci di Northampton un anno dopo, cerca di chiarire allo psicologo questo stato di cose, il limpido stato di una cosa che non è una cosa, è niente. Tutto è, in ogni modo, strettamente confidenziale. Lo psicologo è una donna, una dottoressa. Etica professionale. Resti tra noi. – A cosa pensava? – A niente. – A qualcosa doveva pur pensare. – Non pensavo a niente. – A che ora è montato sul pick–up? – Quando si è fatto buio. – Aveva cenato? – No. – Perché ha pensato di prendere il pick–up? – Lo sapevo io il perché. – Sapeva dove andava... – Andavo a sistemarlo. – A sistemare chi? – L'ebreo. Il professore ebreo. – Perché voleva fare una cosa simile? – Per sistemarlo. – Perché sentiva di doverlo

fare? – Perché dovevo farlo. – Perché doveva farlo? – Per Kenny. – Voleva ucciderlo? – Oh, sì. Tutti. – C'era un piano, allora. – Nessun piano. – Lei sapeva quello che faceva. – Sì. – Ma non l'ha pianificato. – No. – Credeva di essere tornato nel Vietnam? – No.Rivedeva la sua vita passata? – No. – Credeva di trovarsi nella giungla? – No. – Pensava che si sarebbe sentito meglio? – No, niente sentimenti. – Pensava ai bambini? Era una vendetta? – No. – Ne è sicuro? – Non era una vendetta. – Questa donna, lei mi dice, ha ucciso i suoi bambini, «un pompino, – mi ha detto, – ha ucciso i miei figli»... Non stava forse cercando di fargliela pagare, di vendicarsi? – Nessuna vendetta. – Era depresso? – No, nessuna depressione. – Era deciso a uccidere due persone e a togliersi la vita e non era arrabbiato? – No, non ero più arrabbiato. – Scusi, lei è montato sul pick–up, sapeva dove trovarli e gli è andato dritto addosso, frontalmente. E mi sta dicendo che non voleva ucciderli? – Non li ho uccisi io. – Chi li ha uccisi? – Loro. Si sono uccisi). Guidare. Non deve fare altro. Pianificare e non pianificare. Sapere e non sapere. I fari gli vengono incontro, e poi via, sono spariti. Nessuna collisio ne? Sì, nessuna collisione. Quando sterzano ed escono di strada, lui cambia corsia e continua a guidare. Continua a guidare, tutto qui. La mattina dopo, mentre aspetta con la squadra dei cantonieri di uscire per il lavoro della giornata, ne sente parlare nel garage del municipio. Gli altri lo sanno già. Non ci sono collisioni, dunque, anche se qualcosa nota, gli mancano i particolari, e quando torna a casa e scende dal pick–up non è sicuro dell'accaduto. Grande giorno per lui. Undici novembre. Il Giorno dei Reduci. Quel mattino va con Louie, quel mattino va al Muro, quel pomeriggio torna a casa dal Muro, quella sera esce per ammazzarli tutti. Sì? Non può saperlo perché non ci sono state collisioni, ma sempre una bella giornata dal punto di vista terapeutico. Con la seconda parte più terapeutica della prima. Ora sì che ha raggiunto un'autentica serenità. Ora Kenny può rivolgergli la parola. Stavano sparando fianco a fianco, lui e Kenny, una raffica dopo l'altra, quando Hector, il caposquadra, alza la voce e strilla: – Pigliate i vostri stracci e via di qui! – E tutt'a un tratto Kenny è morto. Impossibile. Il suo amico, un altro ragazzo di campagna, stesse origini, ma lui era del Missouri, volevano mettersi insieme per fare un allevamento di vacche da latte, uno che a sei anni aveva visto morire suo padre e che a nove aveva visto morire sua madre, poi allevato da uno zio che amava e di cui parlava sempre, un bravo allevatore con una bella mandria, centottanta vacche da latte, dodici macchine per mungere le vacche affiancate a sei per volta... E la testa di Kenny è sparita e Kenny è morto. Sembra che ora Les possa comunicare con l'amico. Ha mostrato a Kenny che non l'ha dimenticato. Kenny voleva che lo facesse, e lui l'ha fatto. Ora sa che, qualunque cosa abbia fatto (anche se non sa bene cosa fosse), lo ha fatto per Kenny. Anche se ha ucciso qualcuno e andrà in galera, non importa: non può avere la minima importanza, perché Les è morto. Questa

era solo l'ultima cosa che doveva fare per Kenny. Per pareggiare i conti. Les sa che adesso con Kenny tutto è in regola. (– Sono andato al Muro e c'era il suo nome e c'era un grande silenzio. Ho aspettato a lungo. Io l'ho guardato e lui ha guardato me. Non sentivo niente, non provavo niente, ed è stato a questo punto che ho capito che per Kenny non andava bene. Che c'era un'altra cosa da fare. Non sapevo di cosa si trattasse. Ma lui non mi avrebbe lasciato così, punto e basta. Ecco perché non c'erano messaggi per me. Perché dovevo fare ancora qualcosa per Kenny. E ora? Ora per Kenny è okay. Ora può riposare. – E lei è sempre morto? – Ma cos'è, scema? Oh, mica posso parlare con una scema! L'ho fatto perché sono morto!) La mattina dopo, per prima cosa, sente dire, nel garage, che lei ha avuto un incidente stradale con l'ebreo. Tutti pensano che gli stava facendo un pompino e che lui ha perso il controllo e sono finiti fuori strada e oltre il guardrail e giù dalla scarpata e a capofitto nelle secche del fiume. L'ebreo ha perso il controllo della macchina. No, lui questo non l'associa a quello che è successo la sera prima. Era in macchina, punto e basta, in uno stato mentale completamente diverso. Dice: – Sì? Cos'è successo? Chi l'ha uccisa? – L'ha uccisa l'ebreo. E' uscito di strada. – Forse gli stava succhiando l'uccello. – E' quello che dicono. Tutto qui. Anche questo non tocca i suoi sentimenti. Les continua a non sentire niente. Niente tranne la propria sofferenza. Perché lui soffre tanto per quello che gli è capitato mentre lei può continuare a fare pompini ai vecchi ebrei? E' lui quello che soffre, e lei ora piglia e se ne va, voltando le spalle a tutto e tutti. Comunque, mentre sorseggia il suo caffè mattutino nel garage municipale, a lui sembra così. Quando tutti si alzano per andare verso i camion, Les dice: – Mi sa che da quella casa, il sabato sera, non verrà più una nota. Anche se, come certe volte accade, nessuno sa di cosa sta parlando, tutti ridono egualmente, e con questo inizia la giornata di lavoro. Se come residenza avesse dato il Massachusetts occidentale, l'annuncio avrebbe potuto essere fatto risalire fino a lei dai colleghi abbonati alla «New York Review of Books», soprattutto se avesse descritto il proprio aspetto ed elencato le proprie credenziali. Ma se non specificava il luogo di residenza, poteva finire per non ricevere nessuna risposta da corrispondenti in un raggio di cento, duecento, anche trecento miglia. E poiché in tutti gli annunci che aveva studiato sulla «New York Review» l'età data dalle donne superava la sua di quindici, venti o trent'anni, come poteva permettersi di

rivelare l'età giusta – di fornire di sé un ritratto assolutamente corretto – senza destare il sospetto che ci fosse in lei qualche importante segreto nascosto, qualcosa – insomma – che non andava? Una donna che affermava di essere così giovane, così attraente, così professionalmente in gamba, e che poi trovava necessario cercare un uomo mediante un annuncio economico? Se si fosse definita «passionale», dai maligni questo avrebbe potuto essere interpretato facilmente come una deliberata provocazione, come se significasse «dissoluta» o peggio, e la sua cassetta postale presso la «NYRB» si sarebbe riempita di lettere di uomini con i quali lei non voleva aver nulla a che fare. Ma se avesse dato l'impressione di essere una bas bleu per la quale il sesso era decisamente meno importante delle proprie aspirazioni accademiche, intellettuali e professionali, avrebbe sicuramente incoraggiato la reazione di qualcuno che sarebbe stato troppo casto per una persona eccitabile come poteva essere lei con una controparte erotica di cui poteva fidarsi. Se si definiva semplicemente «carina», entrava per ciò stesso in una categoria di donne generica e confusa, ma se si descriveva, senza peli sulla lingua, come «bella», se osava essere tanto sincera da evocare il termine che non era mai sembrato eccessivo ai suoi amanti – che l'avevano definita éblouissante (come in «éblouissante! Tu as un visage de chat»); splendida, meravigliosa – o se, per amore della precisione in un testo di sole trenta parole o poco più, accennava alla somiglianza con Leslie Caron notata dai più anziani tra i suoi familiari, somiglianza che suo padre si divertiva sempre a sottolineare, chiunque non fosse stato un megalomane si sarebbe sentito troppo intimidito per abbordarla o avrebbe rifiutato di prenderla sul serio come intellettuale. Se scriveva: «Una foto sarebbe gradita», o semplicemente: «Una foto, per favore», le sue parole potevano essere fraintese: voleva forse dire che per lei la bellezza valeva più dell'intelligenza, dell'erudizione e della raffinatezza culturale? Inoltre, qualunque foto avesse ricevuto, poteva essere stata ritoccata, scattata chissà quanto tempo prima, o falsa. Chiedere una foto poteva addirittura scoraggiare una risposta proprio da parte di quegli uomini dei quali sperava di suscitare l'interesse. Ma se non chiedeva una fotografia, poteva fare tutta la strada fino a Boston, a New York, o anche più lontano, per andare a cena con una persona assolutamente inadatta e forse persino sgradevole. E sgradevole non necessariamente solo per l'aspetto. E se era un bugiardo? E se era un ciarlatano? E se era uno psicopatico? E se aveva l'Aids? E se era violento, malvagio, sposato o se, semplicemente, apparteneva alla fascia di reddito più bassa? E se era schizzato, se era uno di cui non sarebbe più riuscita a liberarsi? E se avesse dato il proprio nome e l'indirizzo del posto di lavoro a un maniaco? Ma al loro primo incontro, come poteva non dire il suo nome? In cerca di una seria, appassionata relazione amorosa che portasse al matrimonio e a una famiglia, come poteva, una persona aperta e sincera, cominciare col mentire su una cosa fondamentale come il proprio nome? E la razza? Non

doveva forse includere la cortese precisazione: «Razza priva d'importanza»? Ma non era priva d'importanza; doveva esserlo, avrebbe dovuto, forse avrebbe anche potuto esserlo, non fosse stato per il fiasco parigino di quando aveva diciassette anni, che l'aveva convinta che un uomo di una razza diversa dalla sua era un partner inconoscibile e perciò – per lei – impossibile. Era giovane e avventurosa, non voleva essere prudente, e lui veniva da una buona famiglia di Brazzaville, uno dei figli di un giudice della corte suprema – o così diceva – a Parigi per un anno come studente all'università di Nanterre nel quadro degli scambi culturali tra i due paesi. Si chiamava Dominique e, letterariamente, lei lo considerava un'anima gemella. Lo aveva conosciuto a una lezione di Milan Kundera. Era stato là che lui l'aveva rimorchiata, e fuori avevano continuato a bearsi delle osservazioni di Kundera su Madame Bovary, contagiati, tutt'e due, da quello che Delphine, eccitata, chiamava «il morbo di Kundera». Kundera, per loro, era legittimato dal fatto di essere uno scrittore ceco perseguitato, dal fatto di essere uno che in Cecoslovacchia aveva perso la grande lotta storica per la libertà. L'allegria di Kundera non appariva per niente frivola. Amavano Il libro del riso e dell'oblio. C'era in lui qualcosa di fidato. La sua appartenenza all'Europa orientale. La natura inquieta dell'intellettuale. Che tutto, per lui, sembrasse difficile. Erano stati conquistati entrambi dalla modestia di Kundera, l'esatto contrario del comportamento della superstar, ed entrambi credevano nel suo ethos della riflessione e della sofferenza. Tutte quelle tribolazioni intellettuali... E poi c'era l'aspetto. Delphine era rimasta affascinata dalla poetica aria da boxeur dello scrittore, segno esteriore, per lei, di tutto ciò che si scontrava dentro di lui. Dopo l'approccio alla lezione di Kundera, quella di Delphine con Dominique fu un'esperienza puramente fisica, che la ragazza non aveva mai fatto. Una cosa riguardante esclusivamente il corpo. Aveva trovato questa grande intesa con Kundera e le sue lezioni, e aveva scambiato questa intesa per l'intesa che aveva con Dominique; e tutto si era svolto molto in fretta. Non esisteva altro che il corpo. Dominique non capiva perché il sesso non le bastava. Perché voleva essere qualcosa di più di un pezzo di carne allo spiedo, unta di grasso e fatta girare? Più o meno, era questo che faceva; erano parole sue: ungerla di grasso e farla girare. Non gli interessava altro, a Dominique, la letteratura meno di tutto il resto. Rilassati e taci: questo è il suo atteggiamento verso di lei, e in qualche modo lei vi si fa rinchiudere, e poi viene la sera terribile in cui Delphine arriva nella sua stanza e lui è là che l'aspetta col suo amico. Non che abbia dei pregiudizi, è solo che si rende conto che di un uomo della propria razza non si sarebbe fatta un'idea così sbagliata. Il suo peggiore insuccesso fu quello, e non riuscì più a dimenticarlo. La redenzione era arrivata solo col professore che le aveva regalato il proprio anello romano. Sesso, certo, sesso meraviglioso, ma sesso

con metafisica. Sesso con metafisica con un uomo dotato di gravitas e non vano. Uno come Kundera. Ecco il piano. Il problema che le si poneva mentre era là seduta al computer, sola, parecchie ore dopo il tramonto, unica persona rimasta a Barton Hall, incapace di lasciare l'ufficio, incapace di affrontare un'altra notte nel proprio appartamento senza avere almeno un gatto per compagno, il problema consisteva nel mettere nell'annuncio, non importava se abilmente cifrato, qualcosa che in sostanza dicesse: «Riservato ai bianchi». Se ad Athena si fosse scoperto che era stata lei a decidere un'esclusione simile... No, non avrebbe giovato a una persona che stava salendo così in fretta i gradini della gerarchia accademica del college. Ma Delphine non aveva altra scelta che chiedere una fotografia, anche se sapeva – per essersi sforzata il più possibile di pensare a tutto, di non farsi abbindolare da nessuno, basandosi esclusivamente sulla propria breve vita di donna sola, tenendo conto di come gli uomini potevano comportarsi – che nulla poteva impedire a una persona abbastanza sadica o perversa di mandare una fotografia destinata a trarla in inganno proprio in materia di razza. No, era troppo rischioso – oltre che indegno di lei – mettere un annuncio sul giornale per agevolare l'incontro con un uomo di un calibro mai trovato tra i professori di una cittadina così spaventosamente provinciale come Athena. Non poteva e non doveva farlo, eppure, mentre continuava a pensare alle incertezze, ai pericoli belli e buoni, di presentarsi a qualche sconosciuto come una donna in cerca di un compagno, mentre continuava a pensare alle ragioni per cui era sconsigliabile, come capo del dipartimento di lingue e letteratura, correre il rischio di mostrarsi ai colleghi come qualcosa di ben diverso da una scrupolosa insegnante e classicista (di rivelarsi una persona con bisogni e desideri che, anche se umanissimi, potevano essere deliberatamente fraintesi in modo tale da renderla insignificante), era proprio lì che lo faceva; subito dopo aver inviato per e–mail a ogni membro del dipartimento le sue ultime considerazioni sulle tesi dell'ultimo anno, stava cercando di comporre un annuncio che aderisse alla banale formula linguistica dei normali annunci personali della «New York Review», ma che riuscisse anche a presentare una stima veritiera del suo calibro. Ci stava lavorando da più di un'ora, e non era ancora riuscita a buttar giù un testo abbastanza soddisfacente da poter essere inviato elettronicamente al giornale, anche sotto uno pseudonimo. Massachusetts occ.le, prof.ssa parigina 29 anni, minuta, passionale, capace di insegnare Molière con lo stesso entusiasmo con cui Accademica Berkshire bella e intelligente, capace di alternare la preparazione dei médaillons de veau alla direzione di un dipartimento di lettere, cerca

Single bianca colta cerca Accademica nata a Parigi e laureata a Yale, single, bianca. Bruna, minuta, dedita agli studi, amante della letteratura, attenta agli sviluppi della moda, cerca Colta seria e attraente cerca» «Laureata francese, single, bianca, domicil. Mass., cerca Cerca cosa? Qualunque cosa, qualunque cosa tranne questi uomini di Athena: i ragazzi spiritosi, le vecchie signore effeminate, i timidi, tediosi maniaci della famiglia, i papà di professione, tutti così seri e così castrati. La disgusta che si compiacciano di sbrigare la metà dei lavori domestici. Intollerabile. – Sì, devo andare, devo dare il cambio a mia moglie. Devo cambiare tanti pannolini quanti ne cambia lei, sai –. Delphine si ritrae quando si vantano dell'aiuto che danno. Fatelo pure, d'accordo, ma non abbiate la volgarità di parlarne. Perché farvi ridere dietro come mariti al cinquanta per cento? Fatelo e tacete. In questa ripugnanza Delphine è molto diversa dalle colleghe, che apprezzano questi uomini per la loro «sensibilità». E' in questo, nell'incensamento delle mogli, che consiste la «sensibilità»? – Oh, Sara Lee è una donna veramente straordinaria. Ha già pubblicato quattro articoli e mezzo... – Mister Sensibilità deve sempre parlare della gloria di sua moglie. Mister Sensibilità non può parlare di una grande mostra al Metropolitan senza sentire il dovere di premettere: – Sara Lee dice... – O portano la moglie alle stelle o cadono nel più assoluto silenzio. Il marito tace e diventa sempre più depresso, e questo lei non l'ha mai visto in nessun altro paese. Se Sara Lee è un'accademica che non riesce a trovare lavoro mentre suo marito, diciamo, stenta a tenersi attaccato al suo, lui preferirebbe perdere il lavoro piuttosto che farle credere che a rimanere buggerata è lei. Ci sarebbe persino un certo orgoglio, se la situazione fosse rovesciata e a dover stare a casa non fosse lei, ma lui. Una francese, anche una femminista, troverebbe disgustoso un uomo simile. La donna francese è intelligente, è sexy, è davvero indipendente, e se lui parla più di lei, be', dov'è il problema? Qual è il pomo della discordia? Non «Oh, hai notato com'è dominata da quel villanzone assetato di potere del marito?» No, più la francese è donna, più vuole che l'uomo proietti il suo potere. Oh, come aveva sperato, arrivando ad Athena cinque anni prima, di poter incontrare un uomo meraviglioso che proiettasse il suo potere! E invece il grosso dei professori più giovani si compone di questi tipi domestici e castrati, poco stimolanti sul piano intellettuale, pedestri, i mariti incensatori di Sara Lee che Delphine, per i suoi corrispondenti parigini, ha collocato spiritosamente nella categoria dei «Pannolini».

Poi ci sono i «Cappelli». I Cappelli sono i writers in residence, gli incredibilmente pretenziosi scrittori americani ospiti dell'università. Forse, nella piccola Athena, Delphine non ha visto i peggiori, ma questi due sono già abbastanza brutti. Vengono una volta la settimana a tenere una lezione, sono ammogliati e le fanno delle avances, e sono persone davvero impossibili. Quando potremo pranzare insieme, Delphine? Spiacente, pensa lei, ma non m'incanti. La cosa che le piacque di Kundera alle sue lezioni era che lui era sempre piuttosto nebuloso, a volte piuttosto trasandato addirittura, un grande scrittore malgré lui. Lei, almeno, lo vedeva così, ed era questo che le piaceva di lui. Ma sicuramente non le piace, non riesce a sopportare, l'americano tipo «io sono lo scrittore» che, quando la guarda, sta pensando (e lei lo sa): col tuo sussiego tutto francese, con la tua eleganza francese e la tua eccellente educazione francese, sei davvero molto francese, ma nondimeno tu sei l'accademica e io sono lo scrittore; non siamo pari. Questi scrittori ospiti delle università, da quanto le risulta, passano un'enorme quantità di tempo a preoccuparsi dei loro copricapi. Sì, sia il poeta che il prosatore hanno la fissa del cappello, e per questo nelle sue lettere lei li mette nella categoria dei Cappelli. Uno di essi veste sempre come Charles Lindbergh col suo antico casco da pilota, e lei non riesce a capire il rapporto tra la tuta di volo e la scrittura, soprattutto se lo scrittore non vola ma risiede all'università. Delphine medita su questo nella sua faceta corrispondenza con gli amici parigini. L'altro è il tipo col cappello floscio, il tipo senza pretese (il quale è, naturalmente, molto recherché), che passa otto ore allo specchio per avere un'aria trascurata nel vestire. Vanesio, illeggibile, già sposato centottantasei volte e incredibilmente borioso. Non è tanto odio quello che Delphine prova per lui quanto disprezzo. Eppure, sperduta tra i Berkshire e assetata d'amore, certe volte si sente ambivalente nei riguardi dei Cappelli e si chiede se non dovrebbe prenderli sul serio come candidati all'erotismo, almeno. No, non potrebbe, non dopo quello che ha scritto a Parigi. Deve respingere le loro profferte, se non altro perché cercano di parlarle col suo vocabolario. Poiché uno di essi, il più giovane, il meno borioso (ma in misura minima), ha letto Bataille, poiché conosce quanto basta di Bataille e ha letto quanto basta di Hegel, Delphine qualche volta è uscita con lui, e mai un uomo, ai suoi occhi, ha perso la sua aura erotica più in fretta di lui; con ogni parola che ha detto – usando, come faceva lui, quel suo linguaggio di cui lei stessa è, ora, un po' incerta – è uscito, riga per riga, dalla sua vita. Mentre i più vecchi, rustici e sorpassati, gli «Umanisti»... Be', obbligata com'è, alle conferenze e nelle pubblicazioni, a scrivere e parlare come richiede la professione, l'umanista è la parte di se stessa che Delphine qualche volta sente di tradire, e per questo l'attirano: perché sono quello che sono e sono sempre stati, e perché lei sa che la considerano una che ha tradito. I suoi corsi hanno un seguito, ma da loro questo seguito è trattato con

disprezzo, come una moda. Questi uomini anziani, gli Umanisti, gli umanisti antiquati e tradizionalisti che hanno letto tutto, gli insegnanti «rinati» (come li definisce lei), qualche volta la fanno sentire superficiale. Ridono dei suoi seguaci e disprezzano la sua erudizione. Alle riunioni di facoltà non hanno paura di dire ciò che dicono, mentre verrebbe fatto di pensare che dovrebbero averla; in aula non hanno paura di dire quello che pensano, mentre, ancora una volta, verrebbe fatto di pensare che dovrebbero averla; e, di conseguenza, quando è davanti a loro Delphine crolla. Poiché non ha lei stessa tutta questa convinzione nel cosiddetto «discorso» che ha ripreso a Parigi e New Haven, Delphine crolla internamente. Ma ha bisogno di quel linguaggio per affermarsi. Sola in America, ha tanto bisogno di un'affermazione! Eppure, tutto quello che ci vuole per affermarsi è in qualche modo compromettente, e la fa sentire sempre meno genuina, e drammatizzare il suo problema definendolo «un patto faustiano» aiuta solo in parte. In certi momenti ha persino l'impressione di avere tradito Milan Kundera, e così, in silenzio, quando è sola, se lo rappresenta con la fantasia e gli parla e gli chiede perdono. L'intento di Kundera, nelle sue lezioni, era di liberare l'intelligenza dalla sofisticazione francese, di parlare del romanzo come di qualcosa che ha a che fare con gli esseri umani e la comédie humaine; il suo intento era di liberare gli studenti dalle trappole tentatrici dello strutturalismo e del formalismo e dall'ossessione per la modernità, di purgarli della teoria francese instillata in loro, e ascoltarlo era stato un enorme sollievo perché, nonostante le sue pubblicazioni e la crescente reputazione professionale, era sempre difficile per lei occuparsi di letteratura per mezzo della teoria letteraria. Tra ciò che le piaceva e ciò che avrebbe dovuto ammirare – tra come avrebbe dovuto parlare di ciò che avrebbe dovuto ammirare e come parlava a se stessa degli scrittori che amava – poteva esserci un abisso così profondo che la sua impressione di tradire Kundera, senza essere il problema più grave della sua vita, a volte somigliava al rimorso cagionato dal tradimento di un amante lontano, dolce e fiducioso. L'unico uomo con cui è uscita spesso è, abbastanza stranamente, la persona più conservatrice del campus, un divorziato di sessantacinque anni, Arthur Sussman, l'economista della Boston University che avrebbe dovuto diventare ministro del Tesoro nella seconda amministrazione Ford. Sussman è un po' pingue, un po' rigido, sempre in giacca e cravatta; detesta l'affirmative action9, odia Clinton, viene da Boston una volta la settimana, è pagato un occhio della testa ed è lì per dare lustro al college, per mettere la piccola Athena nell'atlante accademico. Le donne, in particolare, sono sicure che Delphine è andata a letto con lui, solo perché una volta era potente. 9

Locuzione che indica un'azione stabilita per garantire la parità, soprattutto per quanto riguarda le assunzioni ai posti di lavoro e le iscrizioni all'università, di persone un tempo svantaggiate, come le donne, le minoranze etniche e religiose, ecc. [N.d.T.].

Ogni tanto li vedono mangiare insieme in mensa. Sussman entra nella sala con un'aria terribilmente annoiata, finché vede Delphine, e quando le chiede se può unirsi a lei, lei dice: – Com'è generoso, da parte sua, farci dono della sua presenza, oggi, – o qualcosa del genere. A lui piace che lei lo prenda in giro, fino a un certo punto. Durante il pranzo si svolge tra loro quella che Delphine chiama «una vera conversazione». Con un avanzo di bilancio di trentanove miliardi di dollari, le dice Sussman, il governo non intende restituire nulla al contribuente. La gente lo ha guadagnato e la gente lo dovrebbe spendere, senza che qualche burocrate decida che cosa fare del suo denaro. Durante il pranzo le spiega minuziosamente per quale motivo la previdenza sociale dovrebbe essere affidata agli analisti dell'investimento privato. Ognuno dovrebbe investire nel proprio futuro, dice. Perché qualcuno dovrebbe contare sul governo per provvedere al futuro della gente quando la previdenza sociale ti ha dato un rendimento x, mentre chiunque avesse investito in borsa nello stesso lasso di tempo ora avrebbe il doppio, se non di più? Il nocciolo del suo ragionamento è sempre la sovranità personale, la libertà personale, e quello che Sussman non riesce mai a capire, quello che Delphine trova il coraggio di dire all'uomo che non è diventato ministro del tesoro, è che la maggior parte della gente non ha abbastanza soldi per fare delle scelte e manca dell'istruzione sufficiente per formulare ipotesi fondate: c'è un'insufficiente conoscenza della borsa. Il suo modello, come glielo interpreta lei, si basa sull'idea di una libertà personale radicale che, nel suo ragionamento, si riduce a una radicale sovranità della borsa. L'avanzo di bilancio e la previdenza sociale: ecco i due problemi che lo assillano, e quando sono insieme ne parlano in continuazione. Sussman sembra odiare Clinton soprattutto per avere proposto la versione democratica di tutto quello che voleva lui. – E' un bene – le dice – che quel saputello di Bob Reich se ne sia andato. Avrebbe fatto spendere a Clinton miliardi di dollari riqualificando persone per posti di lavoro che non potrebbero mai occupare. E' un bene che abbia lasciato il gabinetto. Almeno hanno Bob Rubin, almeno hanno uno con la testa a posto che conosce tutti i segreti. Almeno lui e Alan hanno tenuto i tassi d'interesse dove dovevano stare. Almeno lui e Alan non hanno bloccato questa ripresa... L'unica cosa che le piace di lui è che, a parte la sua arcigna visione dei problemi economici, da persona addentro alle segrete cose, Sussman, guarda caso, sa tutto, e veramente bene, anche di Engels e di Marx. Cosa ancor più impressionante, conosce a fondo la loro Ideologia tedesca, un testo che Delphine ha sempre trovato affascinante e ama. Quando lui la porta fuori a cena a Great Barrington, le cose diventano più romantiche e più intellettuali di quando vanno a mangiare in mensa. Durante la cena gli piace parlare in francese con lei. Una delle sue conquiste, anni addietro, era di Parigi, e su questa donna Sussman vanga e rivanga nei ricordi senza posa. Ma Delphine non boccheggia come un pesce quando lui parla della sua relazione

parigina o dei suoi molteplici legami sentimentali prima e dopo. Delle sue conquiste Sussman si vanta in continuazione, in un modo soavissimo che Delphine, dopo un po', non trova per niente soave. Non sopporta il fatto che lui creda che lei si faccia impressionare da tutte le sue donne, ma si rassegna, solo un po' annoiata, perché del resto è lieta di cenare con un uomo intelligente, dogmatico e colto che conosce il mondo. Quando, a cena, le prende la mano, Delphine dice qualcosa per fargli capire, abilmente, che se crede di portarsela a letto è matto. A volte, nel parcheggio, lui la stringe a sé mettendole le mani sul didietro e tirandosela addosso. Dice: – Non posso stare insieme a lei, così, di volta in volta, senza un po' di passione. Non posso uscire con una donna bella come lei, parlare e parlare e parlare con lei, e lasciare che finisca qui. – In Francia abbiamo un proverbio, – risponde lei, – che dice... – Che dice cosa? – chiede lui, credendo di poter rimediare, per giunta, un bon mot nuovo. Sorridendo, lei dice: – Non so. Mi verrà in mente... – e in questo modo si districa con dolcezza da quelle braccia sorprendentemente forti. E' gentile con lui perché funziona, ed è gentile con lui perché sa che Sussman crede che sia questione di età, quando invece non si tratta, come gli spiega mentre tornano indietro in macchina, di una cosa così banale: è questione di «stato d'animo». – E' su chi sono io, – gli dice, e, se nessun'altra cosa c'è riuscita, questo basta a smontarlo per due o tre mesi, fino alla prossima volta che Sussman mette piede in mensa per vedere se lei è lì. Ogni tanto le telefona la sera tardi o nelle prime ore del mattino. Dal suo letto di Back Bay vuole parlare di sesso. Lei dice che preferisce parlare di Marx, e non occorre altro, con questo prudente economista, per porre fine a quei discorsi. Eppure le donne che non la trovano simpatica sono tutte sicure che è andata a letto con lui, perché Sussman è un uomo di potere. Riesce loro incomprensibile che Delphine, con la sua vita vuota e solitaria, non abbia il minimo interesse a diventare quel piccolo gallone che sarebbe l'amante di Arthur Sussman. Le è anche arrivato all'orecchio che una di loro, parlando di lei, ha detto: – E' così passé, è una tale parodia di Simone de Beauvoir... – Col che intendeva dire che, a suo giudizio, la de Beauvoir si era venduta a Sartre: una donna intelligentissima, ma in definitiva la sua schiava. Per queste donne, che la vedono mangiare con Arthur Sussman e capiscono tutto a rovescio, ogni cosa è un problema, ogni cosa è una presa di posizione ideologica, ogni cosa è una svendita, ogni cosa è un tradimento. La de Beauvoir ha tradito, Delphine ha tradito, eccetera, eccetera. C'è qualcosa, in lei, che le fa diventare verdi. Un altro dei suoi problemi. Delphine non vuole alienarsi queste donne. Eppure, sul piano filosofico, non è meno isolata da loro che dagli uomini. Anche se dirglielo, per lei, non sarebbe prudente, le donne sono femministe, nel senso americano, molto più di lei. Non sarebbe prudente perché sono abbastanza distanti e danno sempre l'impressione di sapere qual è la

sua posizione, mettendo in dubbio i suoi scopi e i suoi motivi: Delphine è giovane, attraente, magra, dotata di un'eleganza naturale, è salita così in alto così in fretta che comincia già ad avere un certo nome fuori dal college e, come i suoi amici parigini, non usa o non ha bisogno di usare tutti i loro cliché (gli stessi con i quali tanto entusiasticamente si castrano i Pannolini). Solo nella lettera anonima a Coleman Silk Delphine ha adottato la loro retorica, e questo è stato non soltanto accidentale, perché era così tesa, ma, in definitiva, deliberato, per nascondere la sua identità. In realtà, Delphine non è meno emancipata di queste femministe di Athena, e forse lo è anche più di loro: ha lasciato il suo paese, ha arditamente lasciato la Francia, lavora sodo quando è in ufficio, lavora sodo alle sue pubblicazioni e vuole riuscire; sola com'è, deve riuscire. E' completamente sola, senza appoggi, senza casa, senza patria: dépaysée. Indipendente, ma spesso desolatamente dépaysée. Ambiziosa? Si dà il caso che sia più ambiziosa di tutte quelle fide e indipendenti femministe messe insieme, ma poiché gli uomini sono attratti da lei, e tra loro ce n'è uno illustre come Arthur Sussman, e poiché, per puro sfizio, con un paio di jeans attillati Delphine indossa una giacca di Chanel usata o, d'estate, un tubino, e poiché le piacciono il cachemire e la pelle, le donne ce l'hanno con lei. Delphine s'impone di non badare al loro spaventoso abbigliamento; dunque, con quale diritto esse si soffermano su ciò che in lei considerano recidivo? Delphine sa tutto quello che dicono nel fastidio che provano per lei. Dicono quello che dicono gli uomini che lei rispetta a malincuore – che è una ciarlatana e che occupa quel posto arbitrariamente – ed è questo che le fa più male. Dicono: – Imbroglia gli studenti –. Dicono: – Come fanno gli studenti a non vedere dentro questa donna? – Dicono: – Non vedono che è uno di quegli sciovinisti francesi travestiti? – Dicono che è diventata capo dipartimento faute de mieux. E si burlano del suo linguaggio. – Be', è sicuramente il suo fascino intertestuale che le ha procurato un così largo seguito. E' il suo rapporto con la fenomenologia. Come fenomenologa è davvero eccezionale, ah ah ah! – Sa quello che dicono per metterla in ridicolo, ma si ricorda di quando era in Francia, e di quando era a Yale, e di essere vissuta per questo vocabolario; è convinta che per essere un buon critico letterario bisogna avere questo vocabolario. Bisogna conoscere l'intertestualità. Questo significa, forse, che è un'imbrogliona? No. Significa che è inclassificabile. Questa, in certi ambienti, potrebbe essere considerata la sua mistica. Ma renditi inclassificabile in un buco arretrato come questo, e si seccheranno tutti. Persino Arthur Sussman, non riuscendo a classificarla, si secca. Perché diavolo non vuole fare almeno un po' di sesso telefonico? Renditi inclassificabile da queste parti, sii qualcosa cui non sanno rassegnarsi, e ti metteranno in croce. Che l'essere inclassificabile rientri nel suo bildungsroman, che lei sia sempre andata in brodo di giuggiole all'idea di essere inclassificabile, ad Athena nessuno lo capisce.

C'è, in particolare, una cricca di tre donne – una professoressa di filosofia, una professoressa di sociologia e una professoressa di storia – che la fanno diventare matta. Piene di animosità verso di lei solo perché non è tediosamente «in sintonia col mondo» come loro. Siccome ha un'aria chic, pensano che non abbia letto abbastanza riviste di cultura. Poiché le loro idee americane d'indipendenza sono diverse dalle sue idee francesi d'indipendenza, Delphine viene liquidata come una che si arruffiana i maschi di potere. Ma cos'ha mai fatto veramente per suscitare la loro diffidenza, se non forse trattare gli uomini del corpo insegnante bene come sa trattarli lei? Sì, è andata a cena a Great Barrington con Arthur Sussman. Vuol forse dire che non si considerava intellettualmente pari a lui? In cuor suo Delphine non dubita di essere alla sua altezza. Non è che la lusinghi uscire con Sussman: è che vuol sapere cos'ha da dire sull'Ideologia tedesca. E prima, quando aveva cercato di pranzare con loro, avrebbero forse potuto trattarla, tutt'e tre, con più degnazione? Naturalmente non si prendono il disturbo di leggere le sue pubblicazioni. Nessuna di loro ha mai letto qualcosa di scritto da lei. E' solo un fatto di percezione, dunque. L'unica cosa che vedono è che Delphine fa pesare su tutti i maschi cattedratici quella che – come le risulta – loro chiamano sarcasticamente «la sua piccola aura francese». Eppure lei prova la forte tentazione di corteggiare la cricca, di dire chiaro e tondo alle sue componenti che l'aura francese non le piace: se le piacesse, vivrebbe in Francia! E i cattedratici non sono suoi: non ha nessuno, lei. Altrimenti, perché sarebbe lì da sola, l'unica persona a tavolino in un ufficio di Barton Hall alle dieci di sera? Non passa quasi una settimana senza che Delphine ci riprovi, e fallisca puntualmente, con le tre che la fanno impazzire, che la sconcertano di più, ma che lei non riesce a incantare, manovrare o interessare in alcun modo. «Les Trois Grâces», le chiama nelle lettere a Parigi, scrivendo maliziosamente «grasses» al posto di «grâces». Le Tre Palle di Lardo. A certe feste – feste alle quali Delphine non vorrebbe, in realtà, partecipare – Les Trois Grasses sono invariabilmente presenti. Quando arriva qualche grossa intellettuale femminista, Delphine vorrebbe almeno essere invitata, invece questo non accade mai. Può ascoltare la conferenza, ma non viene mai invitata a cena. Mentre l'infernale terzetto che comanda... Loro sono sempre là. Imperfettamente ribellatasi al suo essere francese (ma anche ossessionata dal suo essere francese), uscita volontariamente dalla propria patria (se non da se stessa), così irretita dalla disapprovazione delle Trois Grasses da sentirsi costretta a calcolare infinite volte quale reazione potrebbe farle guadagnare la loro stima senza offuscare ulteriormente la percezione che ha di sé e senza travisare totalmente le inclinazioni della donna che una volta naturalmente era, in certi momenti così destabilizzata da vergognarsi della discrepanza tra il modo in cui deve occuparsi di letteratura per riuscire professionalmente e il motivo per cui inizialmente alla letteratura si era

avvicinata, Delphine, con suo stupore, in America è quasi isolata. Spaesata, isolata, estraniata, confusa su tutto ciò che di essenziale c'è per una vita, in una disperata condizione di smarrita nostalgia e circondata da ogni parte da forze ammonitrici che la descrivono come il nemico. E tutto perché era andata ansiosamente in cerca di un'esistenza sua. Tutto perché era stata coraggiosa e aveva rifiutato di vedersi nel modo prescritto. Nel tentativo, senz'altro ammirevole, di crearsi, aveva l'impressione di essersi rovesciata. La vita deve contenere qualcosa di molto cattivo per averle fatto questo. Di molto cattivo e di molto vendicativo, in sostanza, se predispone un destino non secondo le leggi della logica ma secondo il capriccio antagonistico della perversità. Osa abbandonarti alla tua vitalità e... Tanto varrebbe mettersi in mano a un criminale incallito. Andrò in America e sarò l'artefice della mia vita, dice; mi costruirò fuori dall'ortodossia del mio dato familiare, mi batterò contro il dato, l'appassionata soggettività portata al limite, l'individualismo nella sua forma migliore... E invece finisce in un dramma che sfugge al suo controllo. Delphine diventa, infine, l'artefice di nulla. C'è l'impulso di dominare le cose, e la cosa dominata è se stessa. Perché dovrebbe essere impossibile sapere semplicemente cosa fare? Delphine sarebbe del tutto isolata se non fosse per la segretaria del dipartimento, Margo Luzzi, un'insignificante divorziata sulla trentina, sola anche lei, straordinariamente capace, timidissima, che per Delphine farebbe qualunque cosa, che qualche volta mangia il suo sandwich nell'ufficio di Delphine e ha finito per diventare l'unica amica del suo capo ad Athena. Poi ci sono gli scrittori ospiti del college, che di lei sembrano apprezzare proprio quello che gli altri detestano. Ma è Delphine che non li può soffrire. Come ha fatto a mettersi in questa situazione? E cosa deve fare per uscirne? Come non le dà nessun sollievo drammatizzare i propri compromessi considerandoli un patto faustiano, così non le è di grande aiuto pensare a questa sua posizione intermedia, come si sforza di fare, come a un «kunderiano esilio interiore». Cerca. Benissimo, dunque. Cerca. Fa' come dicono gli studenti: buttati! Professoressa bianca, single, di origine francese, educata a Parigi, laureata a Yale, ottima posizione accademica, residente Massachusetts, giovane, minuta, femminile, attraente, cerca...? E adesso parla chiaro. Non fingere di non vedere chi sei e non fingere di non sapere cosa cerchi. Una donna straordinaria, brillante, iperorgasmica cerca... cerca... cerca in modo specifico e senza compromessi... cosa? Ora scriveva impetuosamente. Uomo maturo con la spina dorsale. Senza legami. Indipendente. Spiritoso. Vivace. Spavaldo. Schietto. Colto. Spirito satirico. Fascino. Conoscenza e amore per i grandi libri. Forbito e senza peli sul-

la lingua. Fisicamente in forma. Uno e settanta, uno e settantacinque. Aspetto mediterraneo. Occhi verdi preferiti. Età senza importanza. Ma dev'essere un intellettuale. Capelli grigi accettabili, desiderabili addirittura... E allora, e solo allora, il mitico uomo evocato in tutta franchezza sullo schermo si condensò nel ritratto di una persona che conosceva già. Bruscamente Delphine smise di scrivere. L'esercizio era stato intrapreso solo come esperimento, per cercare di allentare un pochino la morsa delle inibizioni prima di rinnovare il tentativo di comporre un annuncio non troppo diluito dalla circospezione. Nondimeno, Delphine rimase sbalordita da quello che era saltato fuori, dalla persona che era saltata fuori, mentre lei, nella sua angoscia, non desiderava altro che cancellare al più presto quella cinquantina di parole vane. E pensava alle molte ragioni che aveva, compresa la vergogna, per accettare la sconfitta come una benedizione e abbandonare la speranza di risolvere il problema del proprio «stare in mezzo» accettando gli impossibili compromessi di un piano simile... Pensando che, se fosse rimasta in Francia, non avrebbe avuto bisogno di questo annuncio, non avrebbe avuto bisogno di un annuncio per nessun motivo, meno di tutto per trovare un uomo... Pensando che venire in America era la cosa più coraggiosa che avesse mai fatto, anche se allora non poteva sapere quanto coraggio ci sarebbe voluto. L'aveva fatto così, semplicemente, come passo ulteriore richiesto dall'ambizione, e nemmeno da un'ambizione volgare, ma da un'ambizione dignitosa, l'ambizione di essere indipendente; e queste, ora, sono le conseguenze. Ambizione. Avventura. Attrazione. L'attraente prospettiva di andare in America. La superiorità. La superiorità di chi parte. Di chi è partito per la soddisfazione di tornare a casa, un giorno, dopo avercela fatta, di tornare trionfalmente a casa. Me ne sono andata perché un giorno volevo tornare a casa e sentirli dire... Cosa volevo sentirli dire? «Ce l'ha fatta. Ha fatto questo. E, se ha fatto questo, è capace di tutto. Una ragazza che pesa quarantasette chili, che non arriva a un metro e sessanta di statura, a vent'anni, sola, è andata là, sola soletta, con un nome che non significava nulla per nessuno, e ce l'ha fatta. Si è fatta da sola. Nessuno la conosceva. Si è fatta da sola». E chi volevo che dicesse queste cose? E se le avessero dette, che cosa cambiava? «Nostra figlia in America...» Volevo che dicessero, volevo che fossero costretti a dire: «Ce l'ha fatta da sola, in America». Perché in Francia non potevo riuscire, non potevo riuscire veramente, con mia madre e la sua ombra che pesava su ogni cosa: l'ombra delle sue attività ma, peggio ancora, della sua famiglia, l'ombra dei Walincourt, che avevano preso il nome dal paese concesso loro nel tredicesimo secolo dal re San Luigi ed erano ancora fedeli agli ideali familiari fissati nel tredicesimo secolo. Come le odiava, Delphine, tutte quelle famiglie, la pura e antica aristocrazia delle province, tutte con le stesse idee, tutte con lo stesso aspetto, partecipi degli stessi valori soffocanti e della stessa soffocante obbedienza religiosa! Per quanto siano piene di ambizioni, per quan-

to mettano i figli sotto pressione, ispirano la loro educazione alla stessa litania di carità, altruismo, disciplina, fede e rispetto: rispetto non per l'individuo (abbasso l'individuo!), ma per le tradizioni familiari. Superiori all'intelligenza, alla creatività, a un profondo sviluppo della personalità in un modo a loro estraneo, superiori a tutto erano le tradizioni di quegli stupidi dei Walincourt! Era la madre di Delphine che incarnava questi valori, che li imponeva a tutta la famiglia, che avrebbe incatenato a quei valori l'unica figlia dalla culla alla tomba se la figlia, fin dall'adolescenza, non avesse trovato in sé la forza di staccarsi il più possibile da lei. I Walincourt della generazione di Delphine o sprofondavano nel più assoluto conformismo o si ribellavano così violentemente da riuscire incomprensibili, e il successo di Delphine consisteva nell'aver evitato entrambe le cose. Era un ambiente dal quale pochi riescono a riprendersi e lei era riuscita brillantemente a evaderne. Venendo in America, a Yale, ad Athena, aveva, in pratica, superato sua madre, che personalmente non avrebbe mai potuto sognare di lasciare la Francia: senza il padre di Delphine e il suo denaro, Catherine de Walincourt non poteva sognare, a ventidue anni, di lasciare la Piccardia per Parigi. Perché, se avesse lasciato la Piccardia e il castello di famiglia, chi sarebbe stata? Cos'avrebbe significato il suo nome? Io me ne sono andata perché volevo raggiungere un traguardo di cui nessuno potesse dubitare, che non c'entrasse con loro, che fosse tutto mio... Pensando che la ragione per cui in America non riesce a trovare un uomo è che questi uomini lei non li capisce e non li capirà mai, e la ragione per cui non li capisce è che non parla la loro lingua. Con tutto il suo orgoglio per la conoscenza della lingua, con tutta la facilità con cui la parla, si è resa conto che non la cono sce! Io credo di capirli, e li capisco; quello che non capisco non è quello che dicono, è tutto quello che non dicono, tutto quello che non vogliono dire. Qui Delphine è al cinquanta per cento della propria intelligenza, mentre a Parigi comprendeva ogni sfumatura. Che senso ha, qui, essere tanto svegli quando, per il fatto che io non sono di qui, sono praticamente un'idiota?... Pensando che l'unico inglese che capisce veramente – no, l'unico americano che capisce – è l'americano accademico, che in sostanza non è l'americano, e che questo è il motivo per cui non può farcela e non ce la farà mai, questo è il motivo per cui non ci sarà mai un uomo, il motivo per cui questa non sarà mai la sua patria, il motivo per cui le sue intuizioni sono sbagliate e sempre lo saranno, il motivo per cui la piacevole vita intellettuale che faceva a Parigi da studentessa non sarà mai più la sua, il motivo per cui per il resto dei suoi giorni capirà l'undici per cento di questo paese e lo zero per cento di questi uomini... Pensando che la sua condizio ne di dépaysée ha messo la sordina a tutti i suoi vantaggi intellettuali... Pensando che ha perduto la visione periferica, che vede le cose che le stanno davanti ma nulla con la coda dell'occhio, pensando che la sua, lì, non è la visione di una donna della sua intelligenza ma una visione piatta, total-

mente frontale, la visione di un immigrato o di un profugo, di uno che si trova nel posto sbagliato... Pensando: perché me ne sono andata? A causa dell'ombra di mia madre? Per questo ho rinunciato a tutto ciò che era mio, tutto ciò che mi era familiare, tutto ciò che aveva fatto di me un essere raziocinante e non questo groviglio di dubbi che sono diventata. Ho rinunciato a tutto ciò che amavo. Una persona agisce così quando nel suo paese è diventato impossibile vivere perché lo hanno invaso i fascisti, non a causa dell'ombra di sua madre... Pensando: perché sono andata via? Cos'ho fatto? E' impossibile. I miei amici, le nostre chiacchierate, la mia città, gli uomini, tutti gli uomini intelligenti. Uomini sicuri di sé con i quali potevo conversare. Uomini maturi capaci di comprendere. Uomini equilibrati, focosi, virili. Uomini forti, che non si fanno intimidire. Uomini che sono tali a buon diritto e senza ambiguità... Pensando: perché qualcuno non mi ha fermato, perché qualcuno non mi ha detto qualcosa? Lontano da casa da meno di dieci anni, e sembrano già due vite... Pensando che lei è sempre la figlioletta di Catherine de Walincourt Roux, che questo non è cambiato di una virgola... Pensando che ad Athena essere francese può averla resa esotica agli occhi degli indigeni, ma di certo non l'ha resa più straordinaria per sua madre e non lo farà mai... Pensando, sì, che questo è il motivo per cui se n'è andata, per eludere l'ombra incancellabile ed eternamente incombente di sua madre, ed è questo che impedisce il suo ritorno, e ora lei si trova esattamente in nessun posto, in mezzo, né di là né di qua... Pensando che sotto il suo esotico essere francese lei è per se stessa quella che è sempre stata, che tutta l'esotica «francesità» che ha messo insieme in America finirà per trasformarla in un'estranea infelice e incompresa... Pensando che la sua condizione è anche peggiore: Delphine non è «in mezzo», è in esilio, in esilio, chi l'avrebbe mai detto, da quella terra che è sua madre, un esilio angoscioso e scelto volontariamente che la istupidisce... Pensando tutto questo, Delphine omette di osservare che prima, all'inizio, invece di indirizzare l'annuncio alla «New York Review of Books», lo aveva meccanicamente indirizzato ai destinatari della sua comunicazione precedente, ai destinatari della maggior parte delle sue comunicazioni: ai dieci membri del corpo insegnante del dipartimento di lingue e letteratura di Athena. Omette prima di notare quell'errore e poi, nello stato alterato, turbolento ed emotivamente sconvolto in cui si trova, omette altresì di notare che invece di premere il tasto che annulla, sta aggiungendo un piccolo errore abbastanza comune a un altro piccolo errore abbastanza comune premendo, al suo posto, il tasto dell'invio. E via dunque che il messaggio se ne va, via che parte irrimediabilmente l'annuncio con cui Delphine Roux cerca un doppione o un facsimile di Coleman Silk, e non per la sezione degli annunci economici della «New York Review of Books», ma per ogni membro del suo dipartimento.

Quando squillò il telefono era l'una passata. Già da tempo Delphine aveva lasciato di corsa l'ufficio – lasciato di corsa l'ufficio pensando solo a cercare il passaporto e a fuggire da quel paese – e già parecchio tempo era passato dall'ora alla quale era abituata ad andare a letto, quando il telefono le diede la notizia. Rimase così sconvolta dall'e–mail inavvertitamente spedito ai colleghi che molto più tardi era ancora sveglia e girava per l'appartamento strappandosi i capelli, schernendo il proprio viso nello specchio, chinando il capo sul tavolo della cucina per piangere tra le mani giunte e, come se qualcosa l'avesse svegliata di botto dal sonno di una vita fino ad allora meticolosamente difesa, mettendosi a gridare: – Non può essere successo! Non sono stata io! – Ma chi, allora? In passato sembrava ci fossero sempre delle persone impegnate a fare del loro meglio per mettersela sotto i piedi, per liberarsi in qualche modo della seccatura che lei rappresentava per loro, persone insensibili dalle quali aveva imparato con la pratica a difendersi. Ma quella notte non c'era nessuno da rimproverare: il colpo rovinoso era stato inferto dalla sua mano. Freneticamente, in un delirio, cercò di pensare a un modo, qualunque modo, per impedire che accadesse il peggio, ma nel suo stato d'incredula disperazione poteva immaginare solo l'inevitabilità della traiettoria più disastrosa: le ore passano, spunta l'alba, le porte di Barton Hall si aprono, i colleghi del dipartimento entrano a uno a uno nei rispettivi uffici, accendono il computer e vi trovano, da assaporare col caffè del mattino, l'e–mail con l'annuncio che Delphine cerca un doppione di Coleman Silk, il messaggio che lei non aveva mai avuto l'intenzione di inviare. Per essere letto da cima a fondo una, due, tre volte da tutti i membri del suo dipartimento e per essere poi inviato fino all'ultimo assistente, professore, amministratore, impiegato e studente. Nei suoi corsi lo leggeranno tutti. Lo leggerà la sua segretaria. Prima che il giorno finisca, lo avrà letto il rettore dell'università, e gli amministratori del college. E anche se lei avesse sostenuto che l'annuncio voleva essere soltanto uno scherzo, nient'altro che lo scherzo di un addetto ai lavori, perché mai gli amministratori dovevano permettere all'autore dello scherzo di rimanere ad Athena? Specie dopo che lo scherzo sarà finito sul giornale studentesco, come succederà. E sul giornale cittadino. Dopo che sarà stato ripreso dai giornali francesi. Sua madre! L'umiliazione per sua madre! E suo padre! La delusione di suo padre! Tutti quei conformisti dei cugini Walincourt: la gioia che proveranno per la sua sconfitta! Tutti quegli zii ridicolmente conservatori e tutte quelle zie ridicolmente pie, che insieme serbano intatta la grettezza del passato: che piacere farà loro tutto questo mentre, con la puzza sotto il naso, siedono fianco a fianco tra le mura della chiesa! Ma poniamo che spiegasse di aver solo voluto cimentarsi con l'annuncio come forma letteraria, giocherellando disinteressatamente, sola nel proprio ufficio, con l'annuncio

personale come... come una forma di pratico haiku? Non servirebbe a niente. Troppo ridicolo. Non c'è più niente da fare. Sua madre, suo padre, i suoi fratelli, i suoi amici, i suoi insegnanti. Yale. Yale! La notizia dello scandalo arriverà a tutte le persone che conosce, e la vergogna la seguirà, instancabile, per sempre. Dove può correre col suo passaporto? A Montreal? In Martinica? E guadagnarsi la vita in che modo? No, quando avranno saputo dell'annuncio, non le sarà permesso di insegnare nemmeno nel più remoto avamposto francofono. La vita professionale pura e prestigiosa per cui aveva fatto tutti questi piani, tutto questo snervante lavoro, l'incorrotta e irreprensibile vita dello spirito... Pensò di telefonare ad Arthur Sussman. Arthur le troverà una via d'uscita. Lui può prendere il telefono e parlare con chiunque. E' tosto, è astuto, è l'americano – nelle cose del mondo – più sveglio e più influente che lei conosca. I potenti come Arthur, per quanto siano retti, non sono vincolati dal bisogno di dire sempre la verità. Tirerà fuori lui quel che ci vuole per spiegare tutto. Saprà lui cosa fare. Ma quando lei gli avrà spiegato l'accaduto, perché dovrebbe pensare di aiutarla? Penserà solo che Coleman Silk le piaceva più di lui. La vanità avrà la meglio sul ragionamento e lo porterà alla più stupida delle conclusioni. Penserà quello che pensano tutti: che lei sta struggendosi per Coleman Silk, che non sta sognando Arthur Sussman, e tanto meno i Cappelli o i Pannolini, ma Coleman Silk. Immaginando che Delphine sia innamorata di Coleman Silk, butterà giù il telefono e non le rivolgerà mai più la parola. Ricapitolare. Ripensare all'accaduto. Cercare di raggiungere un distacco sufficiente per fare la cosa più razionale. Lei non lo voleva inviare. Lo ha scritto, sì, ma l'idea di inviarlo la metteva in imbarazzo, e non voleva inviarlo e non lo ha inviato: eppure è arrivato. La stessa cosa con la lettera anonima: non voleva spedirla, se l'era portata a New York senz'avere l'intenzione di spedirla, ed era stata spedita. Ma quello che è successo questa volta è molto, molto peggio. Questa volta Delphine è talmente disperata che all'una e venti del mattino la cosa più razionale le sembra questa: telefonare ad Arthur Sussman indipendentemente da ciò che può pensare. Arthur deve aiutarla. Deve dirle cosa può fare per disfare ciò che ha fatto. E poi, all'una e venti in punto, il telefono che tiene in mano per chiamare Ar thur Sussman si mette improvvisamente a squillare. Arthur la sta chiamando! Invece è la sua segretaria. – E' morto, – dice Margo, piangendo così forte che Delphine non è proprio sicura di aver capito bene. – Margo... Stai bene? – E' morto! – Chi? – L'ho saputo adesso, Delphine. E' terribile. Ti sto chiamando, dovevo farlo, dovevo telefonarti. Devo dirti una cosa terribile. Oh, Delphine, è tardi, lo so che è tardi... – No! Arthur no! – grida Delphine. – Il professor Silk! – dice Margo. – E' morto? – Un terribile incidente. E' troppo orribile. – Quale incidente? Margo, cos'è successo? Dove? Parla piano. Ricomincia. Cosa mi stai dicendo? – Nel fiume. Con una donna.

Nella sua macchina. Un incidente –. Margo non riesce a essere coerente, mentre Delphine è così sbalordita che, più tardi, non ricorderà di avere deposto il ricevitore, né di essersi buttata piangendo sul letto, né di essere rimasta là distesa urlando il suo nome. Depose il ricevitore, e poi passò le ore peggiori della sua vita. A causa dell'annuncio, penseranno che lui le piaceva? Penseranno che lo amava, a causa dell'annuncio? Ma cosa penserebbero se la vedessero ora, mentre si comporta come se fosse la sua vedova? Delphine non può chiudere gli occhi, perché quando lo fa vede i suoi occhi, quei suoi occhi verdi e fissi, esplodere. Vede la macchina che esce di strada, lui che cade a capofitto e, nel momento dell'urto, i suoi occhi che esplodono. – No! No! – Ma quando apre gli occhi per non vedere più i suoi, tutto quello che vede è ciò che ha fatto e il dileggio che ne sarà la conseguenza. Con gli occhi aperti vede il proprio disonore e con gli occhi chiusi vede la sua disintegrazione, e per tutta la notte il pendolo della sofferenza la fa oscillare dall'uno all'altra. Si sveglia in preda alla stessa agitazione che aveva quando è andata a dormire. Non ricorda perché sta tremando. Crede di tremare perché ha avuto un incubo. L'incubo degli occhi di Coleman che esplodono. Invece no, è successo, è morto. E l'annuncio... E' successo anche quello. E' successo tutto, e non c'è niente da fare. Volevo che dicessero... E ora diranno: «Nostra figlia in America? Non ne parliamo. Non esiste più, per noi». Quando cerca di calmarsi e di studiare un piano d'azione, le riesce impossibile riflettere: solo il suo turbamento è possibile, quella torpida spirale che è il terrore. Sono appena passate le cinque. Delphine chiude gli occhi per cercare di dormire e far sparire ogni cosa, ma appena chiude gli occhi, ecco apparire i suoi, che prima la fissano e poi esplodono. Si veste. Urla e strepita. Esce di casa che è appena spuntata l'alba. Niente trucco, né gioielli. Solo il suo volto inorridito. Coleman Silk è morto. Quando arriva al campus, non c'è nessuno. Solo le cornacchie. E' così presto che non hanno ancora alzato la bandiera. Ogni mattina Delphine la cerca in cima a North Hall e ogni mattina, vedendola, c'è un momento di soddisfazione. Se n'è andata di casa, ha osato farlo... E' in America! C'è il compiacimento del proprio coraggio e la consapevolezza che non è stato facile. Ma la bandiera americana non c'è, e Delphine non vede che non c'è. Non vede altro che ciò che deve fare. Ha una chiave di Barton Hall ed entra. Raggiunge il suo ufficio. Fin qui, tutto bene. Riesce a controllarsi. Riflette. Okay. Ma come fare per entrare negli altri uffici e mettere le mani sui computer? E' quello che avrebbe dovuto fare la sera prima, invece di farsi prendere dal panico e scappare via. Per ritrovare la padronanza di sé, salvare il proprio nome, evitare il disastro che potrebbe rovinarle la carriera, deve continuare a ragionare. Tutta la vita ha dedicato al ragionamento. Che altro le hanno insegnato a fare da quando

ha cominciato ad andare a scuola? Esce dall'ufficio e percorre il corridoio. Il suo scopo è chiaro, adesso, il ragionamento decisivo. Entrerà e lo cancellerà. E' nel suo diritto: l'ha inviato lei. E non è andata neanche così. Non è stato intenzionale. La responsabilità non è sua. E' andato, e basta. Ma quando gira le varie maniglie, le porte sono chiuse. Prova allora a girare le sue chiavi nelle serrature, prima quella del palazzo, poi la chiave dell'ufficio, ma non ce n'è una che vada bene. E' evidente. Non vanno bene adesso e non sarebbero andate bene la sera prima. Quanto ai ragionamenti, be', anche se fosse in grado di ragionare come Einstein, non sarà un ragionamento ad aprire queste porte. Tornata in ufficio, apre lo schedario. Cosa sta cercando? Il curriculum vitae. Perché cerca il curriculum vitae? Questa è la fine del suo curriculum vitae. E' la fine di «nostra figlia in America». E poiché questa è la fine, Delphine tira fuori dal cassetto tutte le cartelle penzolanti e le scaraventa sul pavimento. Vuota l'intero cassetto. «Non abbiamo nessuna figlia, in America. Non abbiamo figlie. Abbiamo solo maschi». Adesso non si sforza di pensare che dovrebbe ragionare. Comincia, invece, a buttare tutto in aria. Le carte accatastate sulla scrivania, i quadri che decorano le pareti: che importa se qualcosa si rompe? Ci ha provato e ha fatto fiasco. E' la fine dell'impeccabile résumé e della venerazione del résumé. «Nostra figlia, in America, non ha avuto successo». Quando prende il telefono per chiamare Arthur, sta singhiozzando. Arthur balzerà dal letto e verrà subito, in macchina, da Boston. In meno di tre ore sarà ad Athena. Prima delle nove Arthur sarà qui! Ma il numero che fa è quello di emergenza sulla decalcomania appiccicata al telefono. E Delphine non aveva l'intenzione di fare quel numero, non più di quanto avesse avuto l'intenzione di spedire le due lettere. Aveva solo l'umanissimo desiderio di salvarsi. Non riesce a parlare. – Pronto? – dice l'uomo all'altro capo. – Pronto? Chi parla? E' stata dura, ma le ha tirate fuori. Le due parole più irriducibili in ogni lingua. Il proprio nome. Irriducibile e insostituibile. Tutto ciò che è lei. Che era. E ora le due parole più ridicole della terra. – Chi? La professoressa... Chi? Non capisco, professoressa. – E' la sicurezza? – Parli più forte, professoressa. Sì, sì, è il servizio di sicurezza dell'università. – Venga qui, – dice lei in tono implorante, e ancora una volta è in lacrime. – Subito. E' successa una cosa terribile. – Professoressa? Dov'è? Professoressa, cos'è successo? – Barton –. Per farsi capire, lo ripete. Barton 121, – dice. – Professoressa Roux. – Di che si tratta, professoressa?

– Una cosa terribile. – Si sente bene? C'è qualcosa che non va? Cosa? C'è qualcuno, lì? – Ci sono io. – Tutto bene? – Qualcuno ha forzato la porta ed è entrato. – Entrato dove? – Nel mio ufficio. – Quando? Professoressa, quando? – Non so. Durante la notte. Non so. – Lei sta bene? Professoressa? Professoressa Roux? E' lì? Barton Hall? Sicura? L'esitazione. Cercando di riflettere. Ne sono sicura? Sì? – Assolutamente, – dice, singhiozzando ormai senza controllo. – Presto, per piacere! Venga subito qui, per piacere! Qualcuno ha forzato la porta ed è entrato nel mio ufficio! E' un disastro! E' orribile! E' tremendo! La mia roba! Qualcuno ha usato il mio computer! Presto! – Un'effrazione? Sa chi è stato? Lei sa chi ha forzato la porta? E' stato uno studente? – E' stato il professor Silk, – disse lei. – Presto! – Professoressa... Professoressa, è lì? Professoressa Roux, il professor Silk è morto. – L'ho saputo, – disse lei, – lo so, è terribile, – e poi urlò, urlò per l'orrore di quanto era accaduto, urlò al pensiero dell'ultima cosa che Silk le aveva fatto, a lei, a lei... E da quel momento la giornata di Delphine diventò una baraonda. La stupefacente notizia della morte di Coleman Silk in un incidente stradale con una bidella del college di Athena aveva appena raggiunto l'ultima aula dell'università quando cominciò a spargersi la voce del vandalismo nell'ufficio di Delphine Roux e della beffa elettronica che Silk aveva tentato di perpetrare solo qualche ora prima del fatale incidente. La gente stentava ancora a crederci quando un'altra storia, sulle circostanze dell'incidente, dalla città si diffuse fino al college, aumentando la confusione. Con tutti i suoi atroci dettagli, si diceva che la storia provenisse da fonte attendibile: il fratello del poliziotto della stradale che aveva trovato i corpi. Secondo la sua versione, il motivo per cui il professore aveva perso il controllo della macchina era questo: mentre lui guidava, la bidella del campus di Athena lo stava facendo godere dal sedile di fianco al suo. Questo aveva potuto dedurre la polizia dallo stato del suo abbigliamento, dalla posizione del corpo della donna e dalla sua collocazione nel veicolo quando la carcassa era stata scoperta e tirata su dal fiume. Quasi tutti i membri del corpo insegnante, soprattutto i professori più

anziani che da molti anni conoscevano personalmente Coleman Silk, in un primo tempo si rifiutarono di credere a questa storia, e rimasero sdegnati dalla dabbenaggine con cui essa veniva accettata come una verità incontrovertibile: la crudeltà dell'offesa li sbigottì. Ma, mentre passavano le ore e saltavano fuori fatti nuovi sullo scasso, e altre cose ancora emergevano sulla relazione di Silk con la bidella (riferiti da numerose persone che li avevano visti andare insieme furtivamente qua e là), diventò sempre più difficile per la vecchia guardia del campus «negare (come scrisse il giornale del posto nel suo commento), col cuore spezzato, l'evidenza». E quando la gente cominciò a ricordare come, un paio d'anni prima, nessuno aveva voluto credere che Silk avesse offeso due studenti di colore; quando venne loro in mente che, dopo avere presentato infamanti dimissioni, Silk si era isolato dagli ex colleghi, e che nelle rare occasioni in cui lo si vedeva in città era talmente brusco da essere quasi villano con chiunque lo incontrasse per caso; quando ricordarono che nel suo odio clamoroso per qualunque persona o qualunque cosa avesse a che fare con Athena si diceva che fosse riuscito a estraniarsi dai suoi stessi figli... be', anche quelli che avevano iniziato la giornata respingendo ogni congettura sul fatto che la vita di Coleman Silk fosse arrivata a una così abominevole conclusione, i vecchi che trovavano insopportabile pensare che un uomo della sua statura intellettuale, un maestro carismatico, un preside di facoltà dinamico e influente, un uomo affascinante e vigoroso ancora arzillo dopo i settant'anni e padre di quattro splendidi figli grandi, potesse aver abbandonato tutto ciò che apprezzava una volta per scivolare così precipitosamente nella morte scandalosa di un escluso alienato e bizzarro, anche quelle persone dovettero fare buon viso alla radicale trasformazione che era seguita all'incidente degli «spettri» e che non soltanto aveva portato Coleman Silk alla sua fine umiliante ma che aveva anche provocato – ed era imperdonabile – l'orribile morte di Faunia Farley, l'infelice analfabeta di trentaquattro anni che, come ormai tutti sapevano, Silk si era preso quale amante in tarda età.

Capitolo quinto Il rito purificatore

Due funerali. Prima quello di Faunia, al cimitero di Battle Mountain, sempre un posto deprimente, per me, quando ci passo, che mi fa rabbrividire anche di giorno, col silenzio delle sue lapidi antiche e il mistero del suo tempo immoto, reso ancora più sinistro dal parco statale confinante con quello che in origine era un cimitero indiano: un'ampia e fitta foresta cosparsa di massi e venata di vitrei torrentelli che scendono a cascata di terrazza in terrazza, asilo di coyote, linci rosse, persino di baribal, e di branchi di cervi in cerca di pascoli, presenti – dicono – in quantità precoloniale. Le donne della fattoria avevano comprato il lotto di terreno proprio ai margini di quella foresta buia e organizzato l'innocente, vuota cerimonia intorno alla fossa. La più estroversa delle due, quella che si faceva chiamare Sally, tenne il primo elogio funebre, presentando la compagna e i loro figli, poi dicendo: – Vivevamo tutti con Faunia su alla fattoria, e questa mattina siamo qui per la stessa ragione per cui siete qui voi: per commemorare una vita. Parlava con una voce limpida e squillante, questa donna esuberante e piccolina dalla faccia tonda insaccata in un vestito lungo, fermamente decisa a non scostarsi da una prospettiva che limitasse al minimo il dolore dei sei figli allevati in campagna, ciascuno dei quali, elegante nell'abito festivo, stringeva un pugno di fiori da spargere sulla bara prima che fosse calata nel terreno. – Chi di noi – chiese Sally – potrà mai dimenticare la sua calda, fragorosa risata? Faunia era capace di farci piegare in due tanto con la sua risata contagiosa quanto con certune delle cose che tirava fuori. Ed era anche, come sapete, una donna profondamente spirituale. Una donna spirituale, – ripeté, – una cercatrice spirituale: la parola che meglio descrive la sua fede è «panteismo». Il suo Dio era la natura, e la venerazione che Faunia aveva per la natura si estendeva al suo amore per la nostra piccola mandria di mucche, per tutte le mucche, veramente, per la più benevola delle creature, la nutrice della razza umana. Faunia aveva un enorme rispetto per l'istituto dell'allevamento a gestione familiare. Con Peg, me e i ragazzi, contribuiva al tentativo di tenere in vita la fattoria a gestione familiare del New En-

gland come elemento vitale della nostra tradizione culturale. Il suo Dio era tutto ciò che vedete intorno a voi nel nostro allevamento e tutto ciò che vedete intorno a voi su Battle Mountain. Abbiamo scelto per Faunia questo luogo perché è sempre stato sacro, da quando gli aborigeni, proprio qui, salutavano per l'ultima volta i loro cari. Le storie meravigliose che Faunia raccontava ai nostri ragazzi – sulle rondini nella stalla e sulle cornacchie nei campi, sulle poiane che planano nel cielo sopra i nostri campi – erano storie dello stesso genere di quelle che avreste potuto udire sulla cima di questa montagna prima che l'equilibrio ecologico dei Berkshire fosse turbato dall'arrivo del... Dall'arrivo di voi sapete chi. Il rousseanesimo ambientalista del resto dell'elogio funebre mi fece perdere la concentrazione. Il secondo oratore fu Smoky Hollenbeck, l'ex asso dell'atletica di Athena che sovrintendeva alla manutenzione del college, il capo di Faunia e – come avevo saputo da Coleman, che l'aveva assunto – per un certo tempo anche qualcosa di più. Era nell'harem di Smoky che Faunia era stata arruolata praticamente dal primo giorno di lavoro come bidella, ed era da questo harem che era stata bruscamente espulsa quando Les Farley aveva scoperto, chissà come, cosa Smoky faceva con lei. Smoky non parlò, come Sally, della panteistica purezza di Faunia come essere umano; nella sua veste di rappresentante del college, si concentrò sulla sua competenza come bidella, cominciando dalla sua influenza sugli studenti dei quali puliva i dormitori. – Quello che è cambiato, per gli studenti, con l'arrivo di Faunia, – disse Smoky, – è che avevano una persona che, ogni volta che la vedevano, li salutava con un sorriso e una parola gentile e un «Come stai?» e un «Ti è passato il raffreddore?» e un «Come vanno le lezioni?» Prima di mettersi al lavoro, Faunia passava sempre un minuto a chiacchierare e a prendere confidenza con gli studenti. Col tempo, non era più invisibile, non era più solo una bidella, per lo studente, ma un'altra persona che avevano imparato a rispettare. Stavano sempre attenti, dopo averla conosciuta, a non fare troppo casino, a non lasciarsi dietro un caos che sarebbe toccato a lei riordinare. Ci sono, per contrasto, altri bidelli che non guardano mai in faccia gli studenti, che tengono le distanze, che davvero se ne sbattono, di loro, e non vogliono sapere cosa fanno. Be', Faunia non era così, non lo è mai stata. Lo stato dei dormitori degli studenti dipende direttamente, secondo me, dal rapporto tra gli studenti e la loro bidella. Le finestre rotte che dobbiamo aggiustare, i buchi nei muri che dobbiamo riparare, quello che fanno gli studenti quando li prendono a calci e pugni per sfogare le loro frustrazioni... le scritte sui muri... tutta la gamma. Be', se si trattava del dormitorio di Faunia, non avevi nulla di tutto questo. Avevi, invece, un dormitorio che contribuiva a una buona produttività, che aiutava gli studenti a vivere, a studiare e a sentirsi integrati nella comunità di Athena...

Brillantissima, la prestazione di questo bel giovanotto alto e ricciuto che era stato il predecessore di Coleman come amante di Faunia. Un contatto di natura sensuale con la perfetta bidella di Smoky non era più immaginabile, da quanto ci stava dicendo, di quello che si sarebbe potuto avere con la panteistica cantastorie di Sally. – La mattina, – disse Smoky, – Faunia si occupava di North Hall e degli uffici dell'amministrazione. Anche se il programma cambiava leggermente da un giorno all'altro, c'erano delle cose basilari da fare ogni mattina, e lei le faceva in modo eccellente. Si vuotavano i cestini e si pulivano e si mettevano in ordine i bagni, che in quella palazzina sono tre. Dov'era necessario, si passava lo straccio bagnato. Nelle aree di grande traffico si passava l'aspirapolvere tutti i giorni, in quelle dove il traffico non era così grande una volta la settimana. Lo spolvero di solito avveniva su base settimanale. Le finestre della facciata e il telaio della porta di servizio venivano puliti quasi tutti i giorni, a seconda del traffico. Faunia era sempre molto efficiente e prestava una grande attenzione ai dettagli. Ci sono dei momenti in cui si può usare l'aspirapolvere e ci sono altri mo menti in cui non è possibile: e a questo proposito devo dire che non ci sono mai state lamentele, mai, sul conto di Faunia Farley. Con grande intelligenza lei sapeva scegliere il momento migliore in cui ognuno di questi lavori poteva essere svolto col minimo disturbo per gli altri dipendenti del college. Delle quattordici persone, a parte i ragazzi, che avevo contato intorno alla fossa, il contingente dell'università sembrava consistere solo di Smoky e di un gruppetto di colleghi di Faunia, quattro impiegati della manutenzione in giacca e cravatta che ascoltavano in silenzio l'elogio del suo lavoro. Da quanto potevo capire, il resto dei presenti era formato o da amici di Peg e Sally o da gente del posto che comprava il latte alla fattoria e che per questo aveva conosciuto Faunia. L'unica persona del posto che riconobbi era Cyril Foster, il direttore dell'ufficio postale e capo del corpo dei vigili del fuoco volontari. Cyril conosceva Faunia per via del piccolo ufficio postale dove lei andava due volte la settimana a fare le pulizie e dove Coleman l'aveva vista per la prima volta. E c'era il padre di Faunia, un uomo grosso e anziano alla cui presenza aveva accennato Sally nel suo elogio funebre. Era seduto su una sedia a rotelle ad appena qualche passo dalla bara, assistito da una donna dall'aria giovanile, un'infermiera o una compagna filippina, che era ritta alle sue spalle e il cui volto rimase inespressivo per tutta la durata del servizio religioso, mentre lui si prendeva la fronte tra le mani e ogni tanto cedeva alle lacrime. Tra i presenti non c'era nessuno che io potessi identificare come la persona responsabile dell'elogio funebre di Faunia on–line che avevo trovato la sera prima, indirizzato al gruppo di discussione del corpo insegnante di Athena. Il messaggio recava la seguente intestazione:

Subject: morte di una faunia Date: Thu, 12 Nov 1998 From: [email protected] To: fac.discuss Lo avevo trovato per caso mentre, mosso dalla curiosità, stavo controllando il calendario del gruppo di discussione per vedere se tra gli avvenimenti segnalati poteva esserci il funerale di Silk. Quale il motivo di questo scurrile messaggio? Voleva forse essere uno scherzo, una beffa? Mostrava solo la perversa condiscendenza di un sadico capriccio o era un atto di tradimento calcolato? Poteva essere stato inviato da Delphine Roux? Un'altra delle sue inqualificabili accuse? Non lo credevo. Quella donna non aveva niente da guadagnare a inventare nuove malignità dopo la storia dell'irruzione notturna nel suo ufficio, e molto da perdere se si fosse scoperto in qualche modo che il «[email protected]» era frutto del suo ingegno. Inoltre, dalle prove disponibili, in un tipico intrigo delfiniano non c'era nulla di così scaltro e artificioso: i suoi peccavano di frettolosa improvvisazione, d'isterica meschinità, della sovreccitata sventatezza del dilettante colpevole di uno di quegli atti stravaganti che poi sembrano inverosimili al loro stesso esecutore: il contrattacco carente sia di provocazione sia del calcolo raffinato del maestro, per sgradevoli che possano essere le sue conseguenze. No, questa era una cattiveria, molto probabilmente suggerita dalla cattiveria di Delphine, ma più abile, più sicura di sé, di gran lunga più diabolica, professionalmente: un veleno di qualità molto migliore. E cos'avrebbe ispirato, adesso? Quando sarebbe finita questa pubblica lapidazione? Quando sarebbe cessata la dabbenaggine? Com'è possibile che queste persone si dicano e si riferiscano la storia raccontata da Delphine Roux al servizio di sicurezza, una bugia così evidente, di così trasparente falsità, com'è possibile che una sola di esse creda a questa cosa? E com'è possibile provare un qualunque collegamento con Coleman? Non è possibile. Eppure loro ci credono comunque. Per assurda che sia (la storia che Coleman ha forzato la porta, aperto lo schedario, violato il computer, inviato il messaggio ai colleghi di Delphine), loro ci credono, ci vogliono credere, e non esitano a riferirla. Una storia insensata, inverosimile, ma nessuno – certo non pubblicamente – solleva il più semplice dei dubbi. Perché Coleman doveva distruggerle l'ufficio e richiamare l'attenzione sul fatto che era stato lui, se voleva compiere una beffa? Perché doveva comporre quel particolare annuncio, quando il novanta per cento delle persone che lo videro non potevano assolutamente pensare che avesse a che fare con lui? Chi, a parte Delphine Roux, avrebbe letto quell'annuncio e pensato a lui? Per fare ciò che lei sosteneva che aveva fatto, Coleman avrebbe dovuto essere pazzo. Ma

dove sono le prove che era pazzo? Dov'è la cartella clinica della sua pazzia? Coleman Silk, l'uomo che, da solo, aveva rivoltato il college come un guanto... Quell'uomo è pazzo? Rabbioso, isolato, inasprito, sì: ma pazzo? La gente di Athena sa benissimo che non è così; eppure, come per l'incidente degli «spettri», si comporta come se non lo sapesse. La semplice accusa è già una prova. Ascoltarla significa crederci. Non occorrono moventi per l'autore, né una logica o una consequenzialità. Basta l'etichetta. L'etichetta è il movente. L'etichetta è la prova. L'etichetta è la logica. Perché Coleman Silk ha fatto questo? Perché è una x, perché è una y, perché è tutt'e due le cose. Prima un razzista e ora un misogino. E' troppo tardi in questo secolo per dargli del comunista, anche se una volta si faceva così. Un atto di misoginia commesso da un uomo che si era già mostrato capace di un commento malignamente razzista a spese di una vulnerabile studentessa. Questo spiega tutto. Questo, e la pazzia. Il Diavolo della Piccola Città: i pettegolezzi, le gelosie, l'acrimonia, la noia, le bugie. No, i veleni provinciali non aiutano. Qui la gente si annoia, è invidiosa, la sua vita è quella che è e quella che sempre sarà, e così, senza dubitare seriamente della storia, la riferisce: al telefono, per la strada, in mensa, in aula. La riferiscono, a casa, ai mariti e alle mogli. Non è solo che, per via dell'incidente, manca il tempo di provare che si tratta di una ridicola bugia: se non fosse stato per l'incidente, Delphine, anzitutto, non avrebbe potuto dire la sua bugia. Ma la morte di Coleman è la sua fortuna. La morte di Coleman è la sua salvezza. La morte interviene e semplifica ogni cosa. Ogni dubbio, ogni apprensione, ogni incertezza viene spazzata via dalla più grande minimizzatrice, la morte. Avviandomi alla macchina, da solo, dopo il funerale di Faunia, continuavo a non sapere chi, al college, poteva aver avuto l'idea di scrivere il messaggio di Clitennestra (la più diabolica delle forme d'arte, la forma d'arte on–line, per la sua anonimità), né potevo immaginare cosa qualcuno, chiunque, avrebbe potuto tirar fuori, la prossima volta, e diffondere anonimamente. L'unica cosa che sapevo con certezza era che si erano scatenati i germi della malevolenza e che, per quanto riguardava la condotta di Coleman, non esisteva assurdità troppo grande da scoraggiare le indignate spiegazioni di qualcuno. Ad Athena era scoppiata un'epidemia – ecco come ragionavo nei giorni immediatamente successivi alla sua morte – e cosa poteva impedire la diffusione dell'epidemia? Era lì. I germi patogeni erano nell'aria. Nel disco rigido dei computer, eterno e incancellabile, il segno della malvagità dell'essere umano. Tutti, adesso, scrivevano Spettri, tutti tranne me, per ora. Desidero invitarvi a considerare (cominciava il messaggio per il gruppo di discussione) cose non piacevoli da prendere in considerazione. Non soltanto la morte violenta di una donna innocente di tren-

taquattro anni, che è già una cosa di per sé abbastanza orribile, ma le circostanze legate a questo orrore e l'uomo che, quasi artisticamente, ha fatto sì che tali circostanze completassero il suo ciclo di vendette contro l'Athena College e i suoi ex colleghi. Alcuni di voi forse sanno che poco prima di inscenare questo suicidio–omicidio – perché quello che quest'uomo ha commesso quella sera, uscendo di strada con la macchina, sfondando il guardrail e buttandosi nel fiume, è un suicidio–omicidioColeman Silk aveva forzato la porta dell'ufficio di un'insegnante a Barton Hall, frugato tra le sue carte e inviato un e–mail che doveva sembrare scritto da un membro del corpo accademico e che aveva lo scopo di farle perdere il posto. Il danno fatto a questa insegnante e al college è stato trascurabile. Ma alla base di quei due atti puerilmente dispettosi – l'effrazione e il falso – c'era la stessa premeditazione, lo stesso spirito, che la stessa sera – al culmine di un mostruoso parossismo – lo ha spinto a togliersi la vita e, contemporaneamente, a uccidere a sangue freddo una bidella del college che Silk, alcuni mesi prima, aveva cinicamente convinto a soddisfare i propri bisogni sessuali. Immaginate, se volete, la situazione di questa donna, scappata di casa a quattordici anni, che aveva smesso di studiare in seconda media e che, per il resto della sua breve vita, è stata analfabeta. Immaginatela alle prese con le astuzie di un professore universitario in pensione che, nei sedici anni passati al college come il più dispotico dei presidi di facoltà, aveva un potere più grande di quello del rettore. Che possibilità aveva, questa donna, di resistere alla sua superiorità? E dopo avergli ceduto, resa schiava da una perversa forza virile di gran lunga maggiore della sua, che probabilità poteva aver avuto di comprendere gli scopi vendicativi per i quali il suo corpo logorato dal lavoro doveva essere da lui utilizzato, prima durante la sua vita e poi nella morte? Fra tutti gli uomini crudeli dai quali fu via via tiranneggiata, fra tutti gli uomini violenti, sprezzanti, spietati e insaziabili che l'avevano tormentata, maltrattata e oppressa, non ce n'era uno come Coleman Silk: i suoi propositi erano così distorti dall'odio di chi non perdona che, avendo un conto da regolare con l'Athena College, ha scelto un membro del college sul quale vendicarsi, e nel modo più palpabile che potesse immaginare. Sulla sua pelle. Sulle sue membra. Sui suoi genitali. Sul suo grembo. L'aborto, la violenza alla quale questa donna fu da lui costretta all'inizio di quest'anno – e che la spinse a tentare il suicidio – è solo una di chissà quante aggressioni perpetrate sul terreno devastato della sua persona fisica. Ormai sappiamo tutto dell'orribile tableau rinvenuto sul luogo del delitto, della posa pornografica in cui Silk aveva deciso che Faunia trovasse la morte, per meglio regi-

strare, in una sola, indelebile immagine, la sua schiavitù, la sua sottomissione (per extenso, la schiavitù e la sottomissione della comunità universitaria) al suo rabbioso disprezzo. Sappiamo – cominciamo a sapere, man mano che gli orribili particolari trapelano dalle indagini della polizia – che non tutti i lividi sul corpo straziato di Faunia erano stati prodotti dai danni riportati nell'incidente fatale, per quanto disastroso. Sulle cosce e sulle natiche della vittima il coroner ha scoperto altri segni che non avevano niente a che vedere con lo schianto della macchina nel fiume, contusioni che erano state prodotte, qualche tempo prima dell'incidente, da un mezzo assai diverso: o uno strumento corto e grosso o il pugno di un uomo. Perché? Una parola così piccola, eppure abbastanza grande da perderci la ragione. Ma una mente patologicamente sinistra come quella dell'assassino di Faunia non è facile da sondare. Alla base degli impulsi che spingevano quest'uomo c'è un buio impenetrabile che chi non è violento per natura o vendicativo per calcolo – chi è venuto a patti con i limiti imposti dalla civiltà a quanto di barbaro e sfrenato esiste in tutti noi – non potrà mai dissipare. Il cuore di tenebra dell'uomo è inesplicabile. Ma che l'incidente stradale non fosse un incidente, di questo ho la certezza, come ho la certezza di condividere il dolore di tutti coloro che piangono la morte di Faunia Farley di Athena, la cui oppressione ebbe inizio nei primissimi giorni della sua innocenza e durò fino all'ora della sua morte. Quell'incidente non è stato un incidente: è stata una cosa che Coleman Silk desiderava con tutte le sue forze. Perché? A questo «perché» io posso rispondere e risponderò. Per annientare non soltanto loro due, ma, con loro, ogni traccia della sua storia, la storia dell'ultimo dei suoi torturatori. E' stato per impedire a Faunia di smascherarlo che Coleman Silk se l'è portata in fondo al fiume. Vi lascio immaginare quali crimini efferati era deciso a nascondere. Il giorno dopo Coleman fu sepolto accanto alla moglie nel giardino curato di un cimitero oltre il mare d'erba dei campi sportivi del college, ai piedi della macchia di querce dietro North Hall e l'inconfondibile punto di riferimento della sua torre campanaria esagonale. La notte prima non avevo dormito, e quel mattino, quando mi alzai, ero ancora così agitato da come l'incidente e il suo significato venivano sistematicamente distorti e presentati al mondo che non riuscii a star seduto sulla sedia neanche il tempo sufficiente per bere il caffè. Come fare per smentire tutte quelle bugie? Anche se dimostri che una cosa è una bugia, in un posto come Athena, una volta detta, rimane. Invece di restare in casa a passeggiare nervosamente fino al momento di andare al cimitero, indossai una giacca e una cravatta e mi recai a far passare il tempo in Town Street, dove potevo nutrire l'illusione di

riuscire a far qualcosa per vincere il mio disgusto. Il mio disgusto e la mia sorpresa. Non ero pronto, infatti, a crederlo morto, e meno ancora a vederlo seppellire. A parte tutto il resto, la morte in uno strano incidente di un uomo forte e sano sulla settantina aveva una sua tremenda intensità: ci sarebbe stato, almeno, un grado più alto di razionalità se Coleman fosse stato portato via da un attacco cardiaco, da un tumore o da un ictus. Per di più, io ero ormai convinto – me n'ero convinto appena avevo appreso la notizia – che l'incidente non poteva essere avvenuto senza la presenza, nei paraggi, di Les Farley e del suo pick–up. Tutto è possibile, naturalmente, ma con Les Farley nel quadro, con Farley come causa principale, non c'era forse qualcosa di più di un possibile brandello di spiegazione per la morte violenta, in una sola e comoda catastrofe, dell'ex moglie disprezzata e del suo amante, l'uomo che Farley, furibondo, aveva ossessivamente pedinato? Arrivare a questa conclusione non mi pareva affatto motivato dalla riluttanza ad accettare l'inesplicabile per quello che è: proprio così, invece, dovette sembrare alla polizia di stato la mattina dopo il funerale, quando andai a parlare con i due agenti che per primi erano arrivati nel luogo dell'in cidente e avevano trovato i corpi. Dalla loro ispezione del veicolo non era emerso nulla che potesse corroborare in qualche modo l'ipotesi che stavo formulando. Delle informazioni che fornii – sul pedinamento di Faunia da parte di Farley, sul fatto che Farley spiasse Coleman, sul giorno in cui erano quasi venuti alle mani davanti alla porta della cucina, quando Farley, sbucando dal buio, si era gettato urlando su di loro – presero pazientemente nota, come pure del mio nome, del mio indirizzo e del mio numero telefonico. Poi mi ringraziarono per la collaborazione, mi assicurarono che tutto si sarebbe svolto nella massima riservatezza e mi dissero che, se ci fossero stati motivi sufficienti, si sarebbero rimessi in contatto con me. Cosa che non fecero mai. Mentre uscivo, mi voltai e dissi: – Posso fare una domanda? Posso chiedervi com'erano disposti i corpi nella macchina? – Cosa vuole sapere, signore? – disse l'agente Balich, il più maturo dei due giovanotti, un tipo dall'aria impenetrabile, zelante senza fretta, la cui famiglia croata, ricordavo, un tempo era la proprietaria del Madamaska Inn. – Cos'avete trovato, esattamente, quando li avete trovati? La posizione. Com'erano messi. Le voci che ad Athena... – No, signore, – disse Balich, scuotendo la testa, – le cose non stavano così. Non c'è niente di vero in quelle voci, signore. – Ha capito a cosa alludo? – Certo, signore. Si è trattato chiaramente di eccesso di velocità. Non puoi affrontare quella curva a quella velocità. Un pilota professionista non avrebbe potuto affrontare quella curva a quella velocità. Per un uomo an-

ziano con un paio di bicchieri di vino che gli fanno qualche scherzetto al cervello, affrontare quella curva in modo spericolato... – Non credo che Coleman Silk abbia mai guidato in modo spericolato in vita sua, agente. – Be'... – disse Balich, e alzò le mani, col palmo verso di me, suggerendo, con tutto il dovuto rispetto, che né lui né io potevamo saperlo. – Al vo lante c'era il professore, signore. Era giunto il momento in cui l'agente Balich si aspettava da me non che ficcassi stupidamente il naso nelle indagini come un detective dilettante, né che insistessi nella mia tesi, ma che prendessi educatamente commiato. Mi aveva dato del «signore» un numero di volte sufficiente per dissipare qualunque allucinazione potessi aver avuto su chi comandava là dentro, e perciò mi congedai e, come dicevo, la cosa finì lì. Il giorno in cui Coleman doveva essere sepolto fu un altro giorno di no vembre luminoso e, per la stagione, straordinariamente caldo. Cadute dagli alberi le ultime foglie durante la settimana precedente, i netti contorni rocciosi del paesaggio montano venivano ora svelati dal sole, gli strati e le striature trasformate nelle sottili righe tratteggiate di una vecchia incisione, e mentre, quel mattino, viaggiavo verso Athena per il funerale, l'impressione di riemergere, di essere davanti a nuove possibilità, veniva inopportunamente destata in me dalla limpida asprezza di un remoto panorama che dalla primavera scorsa era stato sempre nascosto dal fogliame. L'organizzazione della superficie terrestre, così concreta e degna di rispetto, era ammirabile per la prima volta dopo molti mesi, un memento della terribile forza abrasiva del ghiacciaio che aveva raschiato questi monti alla fine del suo rimbombante scivolone meridionale. Passando ad appena qualche miglio dalla casa di Coleman, il ghiacciaio aveva sputato massi grandi come un frigo da ristorante nello stesso modo in cui la macchina per allenare i giocatori di baseball lancia automaticamente le palle verso il battitore, e quando passai sotto l'erto pendio alberato conosciuto localmente come «il rock garden» e vidi per intero, non screziate dalle foglie estive e dalle loro ombre plananti, quelle rocce gigantesche tutte messe di traverso come una Stonehenge devastata, schiacciate insieme ma in gran parte intatte, rimasi ancora una volta inorridito al pensiero dell'urto fulmineo che aveva separato Coleman e Faunia dalla vita catapultandoli nel passato della terra. Adesso erano remoti come i ghiacciai. Come la creazione del pianeta. Come il creato stesso. Quello fu il momento in cui decisi di rivolgermi alla polizia di stato. Che non ci fossi andato il giorno stesso, la stessa mattina, ancor prima del funerale, dipese in parte dal fatto che, mentre parcheggiavo la macchina dietro i giardini pubblici, in città, nella vetrina di Pauline's Place vidi il padre di Faunia che faceva colazione: lo vidi seduto a un tavolo con la donna che il giorno prima, al cimitero, spingeva la sua sedia a rotelle. Entrai im-

mediatamente, presi il tavolo vuoto accanto al loro, ordinai e, mentre fingevo di leggere la «Madamaska Weekly Gazette» che qualcuno aveva lasciato vicino alla mia sedia, ascoltai tutto il possibile della loro conversazione. Stavano parlando di un diario. Tra le cose che Sally e Peg avevano consegnato a suo padre c'era il diario di Faunia. – Non vorrai leggerlo, Harry. Non vorrai, eh? – Devo farlo, – disse lui. – Non sei obbligato, – disse la donna. – Credimi, non sei obbligato. – Non può essere più orribile di tutto il resto. – Non sei obbligato a farlo. La maggior parte della gente si pavoneggia e mente citando successi che ha soltanto sognato di raggiungere; Faunia, invece, aveva mentito sulla propria incapacità di padroneggiare quello strumento così fondamentale che quasi tutti gli scolari della terra acquisiscono, anche se sommariamente, in un anno o due. E questo lo venni a sapere prima ancora di avere finito il mio succo di frutta. L'analfabetismo era stato una commedia, una cosa richiesta – aveva deciso Faunia – dalla propria situazione. Ma perché? Era una fonte di potere? La sua unica e sola fonte di potere? Ma un potere ottenuto a quale prezzo? Pensate. Si infligge anche la piaga dell'analfabetismo. Lo fa volontariamente. Non per infantilizzarsi, tuttavia, non per presentarsi come una bambina dipendente, ma per la ragione opposta: per mettere in evidenza l'io barbarico che si addice al mondo. Non respingendo la cultura come una forma soffocante di convenienza, ma battendola con un sapere che è più forte e più importante. Faunia non ha nulla contro la lettura in sé e per sé: è che le sembra giusto fingere di non saper leggere. Rende le cose più piccanti. Non ne ha mai abbastanza, di queste tossine: di tutto ciò che non dovresti essere, mostrare, dire, pensare, ma di ciò che sei e mostri e dici e pensi, che ti piaccia o meno. – Mica posso bruciarlo, – disse il padre di Faunia. – E' suo. Mica posso buttarlo nella spazzatura. – Be', io sì, – disse la donna. – Non è giusto. – Per tutta la vita hai attraversato questo campo minato. Non ti basta? – E' l'unica cosa che resta di lei. – C'è la pistola. Resta quella, di lei. Ci sono i proiettili, Harry. Ha lasciato questo. – Il modo in cui è vissuta, – disse lui, con la voce di chi sta per piangere. – Il modo in cui è vissuta è il modo in cui è morta. E' il motivo per cui è morta. – Devi darmi quel diario, – disse lui. – No. E' già abbastanza brutto essere venuti. – Distruggilo, distruggilo, e io non so... cosa...

– Faccio solo quella che per te è la cosa migliore. – Cosa dice, nel diario? – Cose irripetibili. – Oh, Dio, – disse lui. – Mangia. Devi mangiare qualcosa. Le frittelle sembrano buone. – Mia figlia, – disse lui. – Hai fatto tutto quello che potevi. – Avrei dovuto portarla via quando aveva sei anni. – Non sapevi. Come potevi sapere cosa sarebbe successo? – Non avrei mai dovuto lasciarla con quella donna. – E noi non avremmo mai dovuto venire quassù, – disse la sua compagna. – Adesso devi solo ammalarti. Così la cosa sarà completa. – Voglio le ceneri. – Avrebbero dovuto seppellirle, le ceneri. Là dentro. Con lei. Non so perché non l'abbiano fatto. – Voglio le ceneri, Syl. Sono i miei nipoti. E' tutto quello che mi resta. – Alle ceneri ho provveduto io. – No! – Cosa te ne fai, di quelle ceneri? Ne ha passate abbastanza. Non voglio che ti capiti qualcosa. Quelle ceneri non ci vengono, sull'aereo. – Cos'hai fatto? – Ci ho pensato io, – disse lei. – Sono stata rispettosa. Ma non ci sono più. – Oh, mio Dio. – E' finita, – disse lei. – E' finito tutto. Hai fatto il tuo dovere. Hai fatto più del tuo dovere. Basta. Ora devi mangiare qualcosa. Ho fatto le valigie. Ho pagato. Adesso bisogna solo portarti a casa. – Oh, tu sei la migliore, Sylvia, la migliore. – Voglio che tu non debba più soffrire. Non permetterò che qualcuno ti faccia soffrire. – Tu sei la migliore. – Cerca di mangiare. Quelle sembrano davvero buone. – Ne vuoi un po'? – No, – disse lei, – sei tu che devi mangiare. – Non posso mangiare tutto io. – Mettici lo sciroppo. Ecco, faccio io, te lo verso io. Li attesi fuori, sul prato, e poi, quando vidi la sedia a rotelle varcare la soglia del ristorante, attraversai la strada e mentre lei, spingendolo, si allontanava da Pauline's Place, mi presentai, affiancandolo mentre parlavo. – Io vivo qui. Conoscevo sua figlia. Solo superficialmente, ma l'ho incontrata diverse volte. Ero al funerale, ieri. L'ho vista, e voglio esprimerle le mie condoglianze. Era un uomo grande e grosso con un'imponente struttura fisica, più im-

ponente di quanto mi fosse parso quando lo avevo visto accasciato sulla sedia a rotelle durante il funerale. Era alto, forse più di un metro e ottantacinque, ma sul volto severo dalle ossa robuste – il volto inespressivo di Faunia, identico: le labbra sottili, il mento aguzzo, l'affilato naso aquilino, gli stessi occhi azzurri profondamente infossati e, sopra, a incorniciare le ciglia pallide, le stesse carni turgide, la stessa pienezza che alla fattoria mi aveva colpito come uno dei tratti esotici di Faunia, quella faccia che era l'unico emblema del suo fascino – aveva l'aria di un uomo condannato non soltanto a essere prigioniero di quella sedia, ma a patire un'angoscia anche maggiore per il resto dei suoi giorni. Grosso com'era, o com'era stato, di lui non restava altro che la paura. Vidi quella paura in fondo al suo sguardo nel momento in cui alzò gli occhi per ringraziarmi. – Lei è molto gentile, – disse. Probabilmente aveva circa la mia età, ma nel suo accento c'era la testimonianza di un'infanzia dorata nel New England risalente a molto tempo prima della nascita di entrambi. L'avevo già notata al ristorante: unita, grazie a quell'accento, il quasi anglicizzato birignao dei ricchi, alle decorose convenzioni di un'America completamente diversa. – Lei è la matrigna di Faunia? – Era un modo come un altro per richiamare l'attenzione della donna e convincerla forse a rallentare. Stavano tornando – immaginavo – al College Arms, in una delle traverse che davano sui giardini. – Questa è Sylvia, – disse lui. – Non potrebbe fermarsi? – chiesi a Sylvia. – Così potrei parlargli. – Dobbiamo prendere un aereo, – disse lei. Poiché era così chiaramente decisa a disfarsi subito di me, continuando a camminare di fianco alla sedia a rotelle dissi: – Coleman Silk era amico mio. Non è uscito volontariamente di strada con la macchina. Non avrebbe potuto. Non così. La sua macchina è stata spinta fuori strada. Io so chi è il responsabile della morte di sua figlia. Non è stato Coleman Silk. – Smettila di spingermi. Sylvia, smetti un momento di spingere. – No, – disse lei. – Questa è una pazzia. Basta così. – E' stato il suo ex marito, – dissi. – E' stato Farley. – No, – disse lui, debolmente, come se gli avessi sparato. – No... no. – Signore! – La donna si era fermata, certamente, ma la mano che non stringeva la sedia a rotelle si era alzata e mi aveva preso per il bavero. Era piccola e magra, una giovane filippina con un visetto bruno pallido e implacabile, e dalla cupa determinazione dei suoi occhi impavidi compresi che il disordine delle vicende umane non avrebbe potuto avvicinarsi in alcun modo al suo protetto. – Non può fermarsi un momento? – le chiesi. – Non potremmo andare ai giardini, sederci e parlare? – Quest'uomo non sta bene. Lei sta mettendo a dura prova le forze di un

uomo gravemente malato. – Ma voi avete un diario che apparteneva a Faunia. – Non è vero. – Avete una pistola che apparteneva a Faunia. – Se ne vada, signore. Lo lasci in pace, le dico! – E a questo punto mi diede uno spintone: con la mano che stringeva la mia giacca mi costrinse a fare un passo indietro. – Si era procurata quell'arma, – dissi, – per difendersi da Farley. Seccamente lei rispose: – Poverina. Non sapendo cosa fare, li seguii oltre l'angolo della strada fino a quando si trovarono davanti alla veranda dell'albergo. Ora il padre di Faunia piangeva apertamente. Quando, voltandosi, mi vide ancora lì, la donna disse: – Lei ha combinato abbastanza guai. Se ne vada o chiamo la polizia –. C'era una grande ferocia in quella figurina. Potevo anche capirla: forse per tenerlo in vita non c'era altro da fare. – Non distrugga quel diario, – le dissi. – Contiene la documentazione di... – Porcherie! Una documentazione di porcherie! – Syl, Sylvia... – Tutti, lei, il fratello, la madre, il patrigno... Tutta la banda, per tutta la vita non hanno fatto altro che mettersi quest'uomo sotto i piedi. Lo hanno derubato. Lo hanno ingannato. Lo hanno umiliato. Sua figlia era una criminale. A sedici anni è rimasta incinta e ha avuto un bambino: un bambino abbandonato in un orfanotrofio. Un bambino che suo padre avrebbe voluto allevare. Era una volgare prostituta. Armi, uomini, droga, sesso e porcherie. I soldi che le dava... Cosa faceva con quei soldi? – Non so. Non so nulla di orfanotrofi. Non so nulla di soldi. – Droga! Li rubava per la droga! – Non so nulla di tutto questo. – L'intera famiglia... Rifiuti! Abbia un po' di pietà, per favore! Mi rivolsi a lui. – Voglio che la persona responsabile di queste morti sia chiamata a renderne conto. Coleman Silk non le ha fatto alcun male. Non l'ha uccisa. Chiedo di parlarle per un minuto solo. – Lascialo, Sylvia. – No! Che lasciare e lasciare! Per troppo tempo li ha lasciati fare! Sulla veranda dell'albergo si erano radunate alcune persone che ora ci stavano guardando, e altre ci guardavano dalle finestre dei piani più alti. Forse erano gli ultimi amanti della natura, venuti a godersi quel poco che restava dello splendore autunnale. Forse erano ex allievi di Athena. Ce n'era sempre qualche comitiva in visita alla città, ex studenti ormai di mezza età che venivano a vedere cos'era sparito e cosa rimaneva, pensando bene, tutto il bene possibile, di qualunque cosa fosse loro capitata in queste stra-

de nel millenovecento e rotti. Forse erano semplici turisti venuti a vedere le case coloniali restaurate, la fila di case che correva per quasi un miglio ai lati di Ward Street e che l'Athena Historical Society considerava, se non così importanti come quelle di Salem, almeno tanto importanti quanto tutte le altre nella parte dello stato a ovest della Casa dei Sette Abbaini. Queste persone non erano venute a dormire nelle camere da letto del College Arms, accuratamente decorate nello stile dell'epoca, per essere svegliate dalle grida di due rompiscatole che litigavano sotto le loro finestre. In un posto pittoresco come South Ward Street, e in un giorno bello come questo, lo scoppio di una simile tenzone – un paralitico che piangeva, una piccola asiatica che urlava, un uomo che, dall'aspetto, poteva essere un professore universitario, e che con quello che diceva apparentemente li terrorizzava entrambi – doveva per forza sembrare più sorprendente e più disgustoso di quanto sarebbe stato nel crocicchio di una grande città. – Se potessi vedere quel diario... – Non esiste nessun diario, – disse lei, e non rimase altro da fare che seguirla con lo sguardo mentre spingeva la sedia a rotelle su per la rampa parallela alla scala, attraverso la porta d'ingresso e dentro l'albergo. Tornato al Pauline's, ordinai una tazza di caffè e, su un foglio di carta che la cameriera pescò in un cassetto sotto il registratore di cassa, scrissi questa lettera: Sono l'uomo che ha cercato di avvicinarla davanti al ristorante di Town Street, ad Athena, la mattina dopo il funerale di Faunia. Abito in una strada di campagna fuori città, a poche miglia dalla casa del defunto Coleman Silk, che, come le ho spiegato, era amico mio. Tramite Coleman ho incontrato diverse volte sua figlia. Qualche volta l'ho sentito parlare di lei. La loro relazione era appassionata, ma non conteneva nessuna crudeltà. Con lei Coleman era nel ruolo soprattutto dell'innamorato, ma sapeva anche esserle amico e maestro. Se Faunia aveva bisogno di attenzioni, non credo che le siano state mai negate. Qualunque cosa possa aver assorbito dello spirito di Coleman, non potrebbe mai – dico mai – averle avvelenato la vita. Non so quanto lei abbia sentito, ad Athena, dei maliziosi pettegolezzi che li circondavano, loro e l'incidente. Niente, spero. C'è, però, da regolare una questione di giustizia che riduce a zero tutte quelle stupidaggini. Due persone sono state assassinate. Io so chi è stato. Non ho assistito al delitto, ma so che ha avuto luogo. Ne sono assolutamente certo. Tuttavia, se voglio essere preso sul serio dalla polizia o da un procuratore, sono necessarie delle prove. Se lei è in possesso di qualcosa, qualunque cosa, che rivela lo stato d'animo di Faunia negli ulti-

mi mesi o risale addirittura al suo matrimonio con Farley, la prego di non distruggerla. Penso a lettere che può avere ricevuto da lei durante gli anni, come pure alla roba trovata nella sua stanza dopo la sua morte che le hanno consegnato Sally e Peg. Il mio numero telefonico e il mio indirizzo sono i seguenti... Ero arrivato a questo punto. Intendevo aspettare che se ne fossero andati, telefonare al College Arms per avere dal portiere, con una scusa o l'altra, il nome e l'indirizzo di quell'uomo, e spedire la mia lettera con la posta prioritaria. Se non fossi riuscito a ottenere l'indirizzo dall'albergo, sarei andato a chiederlo a Sally e Peg. Ma in realtà non avrei fatto né l'una né l'altra cosa. Qualunque oggetto Faunia avesse lasciato nella sua stanza doveva essere stato già scartato o distrutto da Sylvia, nello stesso modo in cui sarebbe stata distrutta la mia lettera quando fosse giunta a destinazione. L'unico scopo nella vita di quella minuscola creatura era impedire al passato di tormentare ulteriormente il vecchio: non avrebbe mai permesso che arrivasse tra le mura della sua casa ciò che aveva respinto fermamente quando si era trovata faccia a faccia con me. Per di più, la sua non era una linea che io potessi contestare. Se in quella famiglia il dolore si trasmetteva dall'uno all'altro come una malattia, non c'era altro da fare che innalzare un cartello come quelli che attaccavano alle porte dei contagiosi quando ero bambino, un cartello che diceva QUARANTENA o che presentava agli occhi dei sani solo una grossa Q maiuscola nera. Quella Q dall'aria sinistra era la piccola Sylvia, e non c'era modo di poterla scavalcare. Stracciai ciò che avevo scritto e attraversai la città a piedi per andare al funerale. Il servizio funebre per Coleman era stato organizzato dai figli, che stavano sulla porta della Rishanger Chapel, tutt'e quattro, a ricevere chi voleva assistervi. L'idea di tenere la cerimonia alla Rishanger, la cappella dell'università, era frutto di una decisione di famiglia, la componente chiave di quello che era – mi resi conto – un golpe ben pianificato, un tentativo di annullare il bando a cui il padre si era condannato e di reintegrarlo, in morte se non in vita, nella comunità dove aveva fatto la sua brillantissima carriera. Quando mi presentai, fui immediatamente preso in disparte da Lisa, la figlia di Coleman, che mi buttò le braccia al collo e con una voce bassa e lacrimosa disse: – Lei era suo amico. Era l'unico amico che gli era rimasto. Probabilmente è stato l'ultimo a vederlo. – Siamo stati amici per un po', – risposi, ma non le dissi di averlo visto per l'ultima volta a Tanglewood qualche mese prima, la mattina di quel sabato di agosto, e che allora suo padre aveva già deliberatamente troncato la

nostra breve amicizia. – L'abbiamo perduto, – disse lei. – Lo so. – L'abbiamo perduto, – ripeté, e pianse senza più sforzarsi di parlare. Dopo un po' io dissi: – Lo apprezzavo e lo ammiravo. Vorrei averlo conosciuto più a fondo. – Perché è successo? – Non lo so. – Era impazzito? Era diventato matto? – Assolutamente no. No. – Allora, come è potuto accadere tutto questo? Quando vide che non rispondevo (e come avrei potuto, se non mettendomi a scrivere questo libro?), abbassò lentamente le braccia e si staccò da me, e nei pochi secondi che restammo ancora insieme non potei fare a meno di notare com'era forte la somiglianza di Lisa con suo padre: forte come quella di Faunia con il suo. C'erano gli stessi tratti da mascherone, gli stessi occhi verdi, la stessa pelle bronzea, e persino una versione, un po' meno larga di spalle, della taglia smilza ma atletica di Coleman. L'eredità genetica visibile della madre, Iris Silk, sembrava risiedere esclusivamente nel prodigioso garbuglio dei folti capelli neri di Lisa. Nelle fotografie di Iris – che avevo visto negli album di famiglia mostratimi da Coleman – i tratti del viso contavano poco, tanto fortemente la sua importanza come persona, se non il suo intero significato, pareva concentrarsi in quell'aggressiva, teatrale massa di capelli. Nel caso di Lisa, i capelli sembravano contraddire il suo carattere, più che derivare da esso come nel caso della madre. Ebbi la precisa impressione, nei pochi istanti che passammo insieme, che il legame, ora spezzato, tra Lisa e suo padre non le sarebbe uscito dalla mente per un solo giorno per tutto il resto della vita. In un modo o nell'altro, il pensiero di lui sarebbe rimasto attaccato a tutte le cose che Lisa avesse mai pensato o fatto o mancato di fare. L'averlo tanto amato da bambina, e l'essergli stata lontana nell'ora della morte, non avrebbero mai permesso a quella donna di dormire sonni tranquilli. I tre Silk maschi – il gemello di Lisa, Mark, e i due fratelli maggiori, Jeffrey e Michael – non furono, nel salutarmi, altrettanto emotivi. Nulla vidi della rabbiosa intensità di Mark come figlio offeso, e quando, un'ora dopo o giù di lì, la sobrietà del suo contegno venne meno davanti alla fossa spalancata, tutto si svolse con la severità di chi si sente addolorato senza rimedio. Jeff e Michael erano ovviamente i più forti dei figli di Coleman, e in loro si vedeva chiaramente l'impronta fisica dell'energica madre: se non i suoi capelli (erano ormai calvi tutt'e due), la statura, lo zoccolo duro della sua sicurezza, la sua cordiale autorità. Questa non era gente che se la cavasse alla meno peggio. La cosa era evidente nel saluto che mi rivolsero e

nelle poche parole che pronunciarono. Quando affrontavi Jeff e Michael, specie se erano insieme, trovavi pane per i tuoi denti. Prima del mio incontro con Coleman – nel suo momento di gloria, prima che cominciasse a perdere il controllo dei propri nervi nel carcere sempre più angusto del suo rancore, prima che le imprese che lo avevano fatto primeggiare, che erano Coleman Silk, svanissero dalla sua vita – avrei sicuramente trovato pane per i miei denti anche in lui, il che spiega, probabilmente, perché si materializzò così rapidamente una generale propensione a compromettere il preside di facoltà, quando fu accusato di aver detto ad alta voce una parola razzialmente scorretta. Con tutte le voci che circolavano in città, la gente che venne al funerale di Coleman fu di gran lunga più numerosa di quanto io potessi immaginare; fu certamente assai più numerosa di quanto avrebbe immaginato lui stesso. Le prime sei o sette file di banchi erano già piene, e dietro di me la folla continuava ad affluire, quando trovai un posto vuoto a metà strada tra l'ingresso e l'altare, di fianco a una persona nella quale riconobbi – per averlo visto per la prima volta il giorno prima – Smoky Hollenbeck. Che Smoky avesse compreso il rischio che aveva corso, solo un anno prima, di avere, nella Rishanger Chapel, il proprio funerale? Forse assisteva al rito più per ringraziare la propria buona stella che per un riguardo verso l'uomo che era stato il suo successore in campo erotico. Dall'altra parte di Smoky c'era una donna che ritenni sua moglie, una bella bionda di una quarantina d'anni e, se la memoria non m'ingannava, una compagna di Athena che Smoky aveva sposato negli anni settanta e che ora era la madre dei loro cinque figli. Gli Hollenbeck erano tra le persone più giovani, a parte la famiglia di Coleman, che vidi nella cappella quando cominciai a guardarmi intorno. La folla era composta, per la maggior parte, dalla vecchia guardia di Athena, professori e impiegati che Coleman conosceva da quasi quarant'anni, prima della morte di Iris e delle sue dimissioni. Cos'avrebbe pensato di questi vecchi venuti a salutarlo, se avesse potuto vederli seduti davanti alla sua bara? Forse qualcosa di simile a questo: «Che magnifica occasione per compiacersi del proprio operato! Come devono sentirsi tutti virtuosi per non rinfacciarmi il disprezzo che nutro per loro!» Era strano pensare, mentre ero là seduto con tutti i suoi colleghi, che persone così ben educate e professionalmente civili si fossero lasciate abbindolare con tanta facilità dal sogno venerando di una situazione in cui un uomo può rappresentare l'incarnazione del male. Ma questo bisogno esiste, ed è profondo e immortale. Quando la porta esterna venne chiusa e i Silk presero posto in prima fila, vidi che la cappella era piena quasi per due terzi, trecento persone, forse più, in attesa che questo antico e naturale evento umano assorbisse il loro terrore per la fine della vita. Vidi anche che Mark Silk, unico tra i fra-

telli, portava uno zucchetto. Probabilmente, come quasi tutti gli altri, mi aspettavo che uno dei figli di Coleman si avvicinasse al pulpito e parlasse per primo. Ma per quel mattino era previsto solo un oratore, e l'oratore era Herb Keble, l'insegnante di scienze politiche assunto da Silk che era stato il primo professore nero di Athena. Evidentemente Keble era stato scelto dalla famiglia per la stessa ragione per cui la famiglia aveva scelto per il servizio funebre la Rishanger Chapel: per riabilitare il nome del padre, per portare indietro il calendario di Athena e restituire a Coleman la reputazione e il prestigio di una volta. Ricordando la severità con cui Jeff e Michael, stringendomi la mano e mostrando di conoscere il mio nome, mi avevano detto: – Grazie per essere venuto; significa molto, per la nostra famiglia, che lei sia qui, – e immaginando che dovevano avere ripetuto qualcosa del genere a ogni singolo partecipante al funerale, tra i quali c'erano molte persone che conoscevano fin dall'infanzia, pensai: e non hanno la minima intenzione di mollare, finché il palazzo dell'amministrazione non sarà ribattezzato Coleman Silk Hall. Che la cappella fosse quasi piena probabilmente non era un caso. Dovevano essere stati al telefono dal momento dell'incidente, chiamando i presenti a raccolta come un tempo si chiamavano alle urne gli elettori quando Chicago era retta dal vecchio sindaco Daley. E che pressioni dovevano aver esercitato su Keble, il Keble tanto disprezzato da Coleman, per indurlo a offrirsi volontariamente come capro espiatorio per i peccati di Athena. Più pensavo a questi ragazzi Silk che insistevano con Keble, che lo intimidivano, che lo rimproveravano, che lo accusavano, che forse lo minacciavano addirittura per come aveva tradito il loro genitore due anni prima, più mi erano simpatici; e più ammiravo Coleman per avere generato due omaccioni risoluti e intelligenti che non erano restii a fare tutto ciò che si doveva per ridargli la sua reputazione. Questi due mi avrebbero aiutato a mandare in galera Les Farley per il resto della sua vita. O così credetti fino al pomeriggio del giorno dopo, poco prima che i fratelli lasciassero la città, quando – non meno schietti e persuasivi con me di quanto avevo immaginato che fossero stati con Keble – mi fecero capire che dovevo smetterla: lasciar perdere Les Farley e le circostanze dell'incidente e piantarla di sollecitare ulteriori indagini da parte della polizia. Non avrebbero potuto essere più chiari sul fatto che la loro disapprovazione sarebbe stata immensa se la relazione del loro genitore con Faunia Farley fosse diventata il punto focale di un processo penale fomentato dalle mie insistenze. Quello di Faunia Farley era un nome che non volevano più sentire, men che meno in un processo scandaloso che sarebbe stato riportato nelle cronache scandalistiche dei giornali del posto, che si sarebbe impresso indelebilmente nella memoria locale e che avrebbe condannato la Coleman Silk Hall a rimanere per sempre un sogno. – Non è proprio la donna ideale da collegare all'eredità di nostro padre,

– mi disse Jeffrey. – Nostra madre sì, – disse Michael. – Questa squallida troietta non c'entra niente. – Niente, – reiterò Jeffrey. Era difficile credere che, con quella foga e quella determinazione, fossero professori universitari di scienze in California. Li si sarebbe presi per dirigenti della Twentieth Century Fox. Herb Keble era un uomo asciutto e molto scuro, già piuttosto anziano, un po' rigido, anche se apparentemente non ingobbito né menomato da qualche malattia, e con qualcosa della sincerità del predicatore nero sia nel severo portamento sia nella voce minacciosa da giudice con la condanna a morte in tasca. Gli bastò dire «Mi chiamo Herbert Keble» per stregare il pubblico; gli bastò, da dietro il podio, guardare in silenzio la bara di Coleman e poi rivolgersi alla congregazione e presentarsi per creare l'atmosfera che di solito si associa alla declamazione dei salmi. Keble era severo nel senso in cui è severo il filo di una lama: pericolosa, se non la maneggi con la massima cura. Nel complesso era un uomo imponente, sia nell'atteggiamento sia nell'aspetto, e si capiva bene che le ragioni per cui Coleman lo aveva assunto per sfondare la barriera del colore ad Athena dovevano essere le stesse, più o meno, per cui Branch Rickey aveva ingaggiato Jackie Robinson come il primo nero del baseball professionistico. Pensare che i figli di Coleman potessero costringere Herb Keble a fare quello che volevano loro non mi fu così facile, dapprima; finché non si considerava l'attrazione che quel dramma individuale poteva esercitare su una personalità tanto chiaramente caratterizzata dalla vanità di coloro che sono autorizzati ad amministrare i sacramenti. L'autorevolezza che mostrava era molto simile a quella del braccio destro di un sovrano. – Mi chiamo Herbert Keble, – esordì. – Sono a capo del dipartimento di scienze politiche. Nel 1996 fui tra coloro che non ritennero opportuno prendere le sue difese quando Coleman fu accusato di razzismo: io, che ero venuto ad Athena sedici anni prima, lo stesso anno in cui Coleman Silk fu nominato preside di facoltà; io, che ero il primo professore messo in cattedra da Coleman Silk. Troppo tardi, sono qui davanti a voi per accusarmi di aver abbandonato il mio amico e protettore, e per fare il possibile – troppo tardi, ripeto – per fare almeno un primo tentativo di riparare al torto, all'ignobile e gravissimo torto, che gli è stato fatto dall'Athena College. Al tempo del presunto incidente razzista io dissi a Coleman: «Stavolta non posso sostenerti». Glielo dissi deliberatamente, anche se forse non esclusivamente per le ragioni – opportunistiche, carrieristiche o vili – che lui fu così pronto ad attribuirmi. Allora credevo di poter fare qualcosa di più per la causa di Coleman agendo tra le quinte per smontare le accuse, piuttosto che alleandomi apertamente con lui in pubblico e venendo quasi di sicuro ridotto all'impotenza dall'arma buona per tutti gli usi di quello

stupido soprannome, «Zio Tom». Credevo di poter essere la voce della ragione dall'interno – piuttosto che dall'esterno – dei ranghi di coloro che l'indignazione per la presunta battuta razzista di Coleman aveva spinto a diffamare ingiustamente lui e il college per quelle che erano le mancanze di due studenti. Pensavo che, se fossi stato abbastanza astuto e abbastanza paziente, avrei potuto raffreddare le passioni, se non dei più accaniti tra i suoi avversari, almeno di quei membri ragionevoli ed equilibrati della comunità afroamericana locale e dei loro simpatizzanti bianchi, la cui condanna, in realtà, non fu mai più che effimera e di riflesso. Credevo che col tempo – e, speravo, in breve tempo – avrei potuto avviare tra Coleman e i suoi accusatori un dialogo, caldeggiando una dichiarazione che riconoscesse la natura del malinteso all'origine del conflitto, e portando così questo deplorevole incidente a qualcosa di simile a una giusta conclusione. Mi sbagliavo. Non avrei mai dovuto dire al mio amico: «Stavolta non posso sostenerti». Avrei dovuto dire: «Devo sostenerti». Avrei dovuto agire per oppormi ai suoi nemici, non con sotterfugi e incautamente dall'interno, ma apertamente e lealmente dall'esterno: Coleman si sarebbe forse sentito incoraggiato da quella manifestazione di sostegno, invece di essere lasciato là a covare un avvilente senso di abbandono. Questo, inasprendosi, ha prodotto la piaga che l'ha portato a estraniarsi dai colleghi, a dimettersi dal college e in seguito a chiudersi in un isolamento autodistruttivo, arrivando in modo non troppo tortuoso (ne sono convinto, benché crederlo sia orribile, per me) a morire tragicamente, violentemente e inutilmente come ha fatto l'altra notte su quella macchina. Avrei dovuto alzare la voce per dire ciò che voglio dire adesso alla presenza dei suoi ex colleghi, impiegati e collaboratori; ciò che voglio dire, soprattutto, alla presenza dei suoi figli, Jeff e Mike, venuti dalla California, e Mark e Lisa, venuti da New York; ciò che voglio dire come membro afroamericano anziano del corpo insegnante di Athena: Mai una volta Coleman Silk deviò in alcun modo da un comportamento meno che corretto nel trattare con tutti i suoi studenti per tutto il tempo che lavorò all'Athena College. Mai. La presunta scorrettezza non ha mai avuto luogo. Mai. Ciò che fu costretto a subire, le accuse, gli interrogatori, l'inchiesta, è rimasto fino a oggi una macchia sull'integrità di questo istituto, e oggi lo è più che mai. Qui, in questo New England che, storicamente, più s'identifica con la resistenza dell'individualista americano alle coercizioni di un'ipercritica comunità (vengono in mente Hawthorne, Melville e Thoreau), un individualista americano che non metteva le regole davanti a tutto il resto, un individualista americano che non esitava a criticare le ortodossie del consueto e della verità istituita, un individualista americano che non è sempre vissuto conformemente agli standard di decoro e di gusto adottati dalla maggioranza, un individualista americano par excellence è stato ancora

una volta così aspramente calunniato da amici e vicini da sentirsi costretto a vivere lontano da loro fino alla morte, privato della propria autorità morale dalla loro stupidità morale. Sì, siamo noi, la comunità ipercritica e moralmente stupida, che ci siamo degradati per aver offuscato così vergognosamente il buon nome di Coleman Silk. Parlo in particolare di quelli come me, che, per essere stati in stretto contatto con lui, conoscevano la misura del suo impegno ad Athena e la purezza della sua vocazione di educatore, e che, per ragioni sbagliate, lo hanno comunque tradito. Ripeto: lo abbiamo tradito. Abbiamo tradito Coleman e abbiamo tradito Iris. La morte di Iris, la morte di Iris Silk, avvenuta nel bel mezzo... Due posti alla mia sinistra, la moglie di Smoky Hollenbeck era in lacrime, come molte altre delle donne intorno a noi. Smoky stesso era piegato in avanti, con la fronte posata leggermente sulle mani, intrecciate sulla spalliera del banco davanti al nostro in una posa vagamente ecclesiastica. Immagino volesse farci credere – a me, a sua moglie o a chiunque altro lo stesse guardando in quel momento – che l'ingiustizia fatta a Coleman Silk era, a pensarci, una cosa insopportabile. Voleva, immagino, dare l'impressione di essere schiacciato dalla commozione; eppure, sapendo ciò che sapevo io di tutte le cose che, come padre di famiglia modello, Smoky nascondeva, conoscendo il substrato dionisiaco della sua vita, era una conclusione difficile da mandar giù. Ma, Smoky a parte, l'attenzione, la concentrazione, l'acutezza della concentrazione della gente su ogni parola di Herb Keble mi sembrava abbastanza genuina per pensare che ciascuno dei presenti non avrebbe più potuto non dolersi di ciò che Coleman Silk aveva ingiustamente dovuto sopportare. Mi chiedevo, naturalmente, se la razionalizzazione di Keble sui motivi per cui non aveva difeso Coleman al tempo dell'incidente degli «spettri» fosse farina del suo sacco o un escamotage dei figli del mio amico per permettergli di fare come volevano loro senza perdere la faccia. Mi chiedevo se questa razionalizzazione poteva essere una descrizione accurata dei suoi motivi, quando aveva pronunciato le parole che Coleman mi aveva amaramente ripetuto tanto spesso: «Stavolta non posso sostenerti». Perché ero così poco propenso a credere a quell'uomo? Forse perché a una certa età la diffidenza è così squisitamente raffinata che non si vuole più credere a nessuno? Sicuramente, due anni prima, quando aveva taciuto e non era corso a difendere Coleman, era stato per la ragione per cui la gente sceglie sempre di tacere: perché tacere è nel suo interesse. La convenienza non è un motivo sul quale occorra fare molta luce. Herb Keble era solo uno dei tanti che cercavano di riscrivere il passato, anche se in un modo ardito e persino interessante, assumendosi la colpa, ma restava il fatto che non aveva potuto agire quando era il momento di farlo, e così pensai, a nome di Coleman: vada al diavolo. Quando Keble scese dal podio e, prima di tornare al suo posto, si fermò

a stringere la mano a ciascuno dei figli di Coleman, quel semplice gesto bastò a rendere più intensa la passione quasi violenta suscitata dal suo discorso. Ora cosa sarebbe successo? Per un momento non accadde nulla. Solo il silenzio, la bara e l'ebbrezza emotiva della folla. Poi Lisa si alzò, salì i pochi gradini del podio e, quando fu dietro il leggio, disse: – L'ultimo movimento della Terza Sinfonia di Mahler –. Tutto qui. Superarono se stessi. Suonarono Mahler. Be', non puoi ascoltarlo, Mahler, certe volte. Quando decide di darti uno scrollone, non lo ferma nessuno. Alla fine piangevamo tutti. Parlo a titolo personale, naturalmente, ma credo che avrei potuto commuovermi così solo ascoltando l'esecuzione di The Man I Love come l'aveva cantata Steena Palsson ai piedi del letto di Coleman in Sullivan Street nel 1948. La camminata di tre isolati fino al cimitero mi è rimasta in mente soprattutto per il fatto che sembrò non avere mai avuto luogo. Ora eravamo paralizzati dall'infinita vulnerabilità dell'adagio di Mahler, da quella semplicità che non è artificio, che non è una strategia, che si distende – si ha quasi l'impressione – col passo raccolto della vita e con tutta la riluttanza della vita a terminare... Ora eravamo paralizzati da quella squisita giustapposizione di grandezza e intimità che inizia nella calma, sonora, misurata intensità degli archi e poi si alza a ondate attraverso il massiccio falso finale che porta a quello vero, prolungato, monumentale... Ora eravamo paralizzati dal gonfiarsi, dall'ascendere, dal raggiungere l'acme e dallo spegnersi di un'orgia elegiaca che scorre e scorre e scorre con un ritmo deciso e immutabile, a tratti cedendoti il passo, a tratti tornando come una pena o una nostalgia che non vuole sparire... Ora eravamo, per la crescente insistenza di Mahler, dentro la bara con Coleman, in preda al terrore dell'eternità e all'appassionato desiderio di scampare alla morte... E poi, in un modo o nell'altro, sessanta o settanta di noi si trovarono al cimitero ad assistere alla sua inumazione, un rito abbastanza semplice, la soluzione del problema più ragionevole che fosse stata mai ideata, ma che non riesce mai del tutto comprensibile. Devi vederla per crederci, ogni volta. Dubitavo che la maggior parte della gente si fosse proposta di accompagnare la salma al cimitero. Ma i figli dei Silk avevano la straordinaria capacità di creare e sostenere il pathos, e questo, immaginavo, era il motivo per cui eravamo in tanti, stretti gli uni agli altri e il più accosto possibile alla fossa che doveva essere l'eterna dimora di Coleman, quasi come se desiderassimo strisciarvi dentro e prendere il suo posto, offrirci come surrogati, sostituti, vittime sacrificali, se questo avesse magicamente permesso la ripresa di quella vita esemplare che, per ammissione dello stesso Herb Keble, gli era stata praticamente rubata due anni prima.

Coleman doveva essere sepolto accanto a Iris. Le date sulla lapide di lei dicevano 1932–1996. Quelle di lui 1926–1998. Come sono diretti, questi numeri. E che poco suggeriscono di quello che è accaduto. Sentii attaccare il Kaddish prima di rendermi conto che qualcuno lo stava cantando. Per un attimo credetti che venisse da un altro angolo del cimitero, mentre invece arrivava dalla parte opposta della fossa, dove Mark Silk – il figlio più giovane, l'arrabbiato, il figlio che, come la sorella gemella, aveva la più forte somiglianza con suo padre – stava in piedi, da solo, col libro in mano e la yarmulke sulla testa, e con una voce sommessa e lacrimosa cantava la familiare preghiera ebraica. Yisgadal, v'yiskadash... In America la maggior parte della gente, compreso me e probabilmente i fratelli di Mark, non sa cosa significano queste parole, ma quasi tutti riconoscono il messaggio che esse recano, un messaggio che ti fa pensare: è morto un ebreo. E' morto un altro ebreo. Come se la morte non fosse una conseguenza della vita, ma una conseguenza dell'essere stato un ebreo. Quando ebbe finito, Mark chiuse il libro e poi, dopo aver infuso in tutti gli altri una macabra serenità, venne colto da una crisi isterica. Ecco come finì il funerale di Coleman: con noi tutti immobilizzati, questa volta, dalla vista di Mark che, perdendo il controllo, agitava smarrito le braccia in aria e sbottava, a bocca aperta, in alti gemiti. Il suono barbaro della sua lamentazione, ancora più antico della preghiera che aveva appena recitato, crebbe d'intensità fino al momento in cui, vedendo accorrere la sorella con le braccia tese, voltò verso di lei la faccia contorta, che era così «Silk», e, preso da uno stupore assolutamente infantile, gridò: – Non lo vedremo mai più! Non venni attraversato, in quel momento, dal mio pensiero più generoso. Fu piuttosto difficile, quel giorno, nutrire pensieri generosi. Che differenza poteva esserci? Non avevi una gran voglia di vederlo, tuo padre, quando era ancora vivo. Mark Silk, evidentemente, aveva immaginato che suo padre sarebbe vissuto ancora a lungo per poterlo odiare in eterno. Per odiarlo e odiarlo e odiarlo e odiarlo, e poi forse, al momento giusto, quando le scenate irte di accuse fossero arrivate al colmo e lui avesse flagellato Coleman fin quasi a ucciderlo col suo groppo di rancori filiali, perdonarlo. Mark credeva che suo padre sarebbe vissuto fino alla fine della commedia, come se lui e Coleman non fossero stati deposti nella vita ma sul versante meridionale dell'acropoli ateniese, in un teatro consacrato a Dioniso dove, sotto gli occhi di diecimila spettatori, le unità drammatiche, una volta, venivano rigorosamente rispettate, e il grande ciclo catartico annualmente rappresentato. L'umano desiderio di un principio, una parte di mezzo e una fine – e una fine adeguata, come grandezza, a quel principio e a quella parte di mezzo – si realizzava così completamente soltanto nella materia insegnata da Coleman all'Athena College. Ma al di fuori della tragedia classica del quinto secolo

a.C. aspettarsi un compimento, per non dire una giusta e perfetta conclusione, significa, per un adulto, cullarsi in una stolta illusione. La gente cominciò ad allontanarsi. Vidi gli Hollenbeck imboccare il sentiero tra le lapidi e dirigersi verso la strada più vicina, il braccio del marito sulle spalle della moglie, per condurla via con spirito protettivo. Vidi il giovane avvocato Nelson Primus, che aveva rappresentato Coleman durante l'incidente degli «spettri», e con lui una giovane donna incinta, una donna in lacrime che doveva essere sua moglie. Vidi Mark con la sorella, ancora bisognoso di essere consolato da lei, e vidi Jeff e Michael, che in modo così esperto avevano gestito l'intera operazione, parlottare con Herb Keble a pochi metri da dov'ero io. Quanto a me, non potevo andare via a causa di Les Farley. Fuori da questo cimitero Les continuava, con le sue intimidazioni, indisturbato, esente da ogni accusa, a creare quella cruda realtà tutta sua, essere brutale pronto a scontrarsi con chi gli garbava e come gli garbava per tutte le recondite ragioni che giustificavano qualunque cosa volesse fare. Certo, lo so che non c'è compimento, né una giusta e perfetta conclusione, ma questo non significava che io, ritto a pochi passi da dove la bara riposava nella sua fossa scavata di fresco, non pensassi con ostinazione che questo finale, anche se avesse avuto il merito di restituire definitivamente a Coleman il suo posto come figura degna di ammirazione nella storia del college, non bastava. Rimaneva ancora da svelare una parte troppo grande della verità. Intendevo, con questo, la verità sulla sua morte, e non la verità che sarebbe venuta a galla qualche minuto dopo. Perché c'è la verità e poi, ancora, c'è la verità. Per quanto il mondo sia pieno di gente che va in giro credendo di conoscerti, di conoscere te o il tuo vicino, l'ignoto è davvero senza fondo. La verità che ci riguarda è infinita. Come le bugie. Preso in mezzo, pensai. Denunciato dalle anime nobili, oltraggiato dagli onesti e massacrato da un pazzo criminale. Scomunicato dai redenti, dagli eletti, dagli onnipresenti evangelisti della morale corrente, e spazzato via da un demone di efferatezza. Queste due esigenze umane trovavano in lui la loro congiunzione. Il puro e l'impuro, in tutta la loro veemenza, all'attacco, apparentati dal comune bisogno del nemico. Due volte sconfitto, pensai. Due volte sconfitto dalle zanne ostili di questo mondo. Da quell'antagonismo che è il mondo. Solo una donna era rimasta, come me, vicino alla fossa aperta. Taceva e non sembrava avere pianto. Non aveva neanche l'aria di essere lì: vale a dire al cimitero, al funerale. Avrebbe potuto essere all'angolo di una strada, ad aspettare pazientemente il prossimo autobus. Fu il modo in cui con aria compassata teneva la borsetta davanti a sé a farmi pensare a qualcuno che era già pronto a pagare il biglietto, e poi a farsi trasportare dove stava andando. Indovinai che non era bianca solo dalla mascella sporgente e dalla

forma della bocca – da un certo prognatismo che le modellava significativamente la metà inferiore del viso –, e anche dalla rigida struttura dei suoi capelli. La sua carnagione non era più scura di quella di un greco o di un marocchino, e forse non avrei fatto due più due per concludere realisticamente che era nera se non fosse stato che Herb Keble era tra i pochissimi a non essere ancora andato a casa. A causa dell'età – sessantacinque, forse settant'anni – pensai che fosse la moglie di Keble. In tal caso non c'era da stupirsi se appariva così stranamente pietrificata. Non doveva essere stato facile sentire suo marito attribuirsi pubblicamente (qualunque ne fosse il motivo) la parte del capro espiatorio di Athena. Capivo bene che aveva molte cose a cui pensare, e che l'assimilarle poteva richiedere più tempo di quanto ne aveva concesso il funerale. I suoi pensieri dovevano essere ancora concentrati su ciò che Keble aveva detto nella Rishanger Chapel. Ecco dov'era quella donna in quel momento. Mi sbagliavo. Quando mi voltai per andar via il caso volle che si voltasse pure lei, e così, divisi solo da un passo o due, ci trovammo l'uno di fronte all'altra. – Mi chiamo Nathan Zuckerman, – dissi. – Sono diventato amico di Coleman verso la fine della sua vita. – Piacere, – rispose lei. – Credo che oggi suo marito abbia cambiato tutto. Non mi guardò come se mi fossi sbagliato, anche se era così. E non mi ignorò, né decise di liberarsi di me e di procedere per la sua strada. E non dava l'impressione di una che non sapesse cosa fare, anche se in quel momento probabilmente se lo stava chiedendo. Amico di Coleman verso la fine della sua vita? Data la sua vera identità, come avrebbe potuto dire qualcosa di diverso da «Io non sono la signora Keble», prima di allontanarsi? Restò, invece, là davanti a me, immobile e con aria inespressiva, e appariva così profondamente colpita dagli avvenimenti di quel giorno e dalle sue rivelazioni che non capire chi era, lei, per Coleman sarebbe stato, in quel momento, impossibile. Non fu la somiglianza con Coleman che notai, e che notai velocemente, per rapidi incrementi, come per un astro remoto visto attraverso un obiettivo che hai ingrandito progressivamente fino alla giusta intensità. Ciò che vidi – quando finalmente vidi, e vidi tutto sgombro fino al segreto di Coleman – fu la somiglianza con Lisa, che era la nipote di sua zia ancor più di quanto fosse la figlia di suo padre. Fu da Ernestine – tornati a casa mia, nelle ore successive al funerale – che appresi la maggior parte di quello che so sull'infanzia di Coleman a East Orange: sul tentativo del dottor Fensterman di convincere Coleman a farsi bocciare agli esami per permettere a Bert Fensterman di passargli da-

vanti e tenere il discorso di commiato alla fine dell'anno scolastico; su come nel 1926 il signor Silk trovò la casa di East Orange, la casetta di legno che Ernestine occupava ancora e che fu venduta a suo padre «da una coppia – mi spiegò – che era in rotta con i vicini e che per fargli un dispetto aveva deciso di venderla a gente di colore». («Vede? Lei può capire di che generazione sono, – mi disse poi, lo stesso giorno. – Io uso i termini "di colore" e "negro"»). Mi raccontò di come suo padre aveva perso il negozio di ottico durante la Depressione, di come aveva avuto bisogno di tempo per riprendersi da quella batosta («Non sono certa – disse – che si fosse mai ripreso») e di come trovò un posto di cameriere sui vagoni ristorante e nel resto della sua vita lavorò per la ferrovia. Parlò di come il signor Silk chiamava l'inglese «la lingua di Chaucer, Shakespeare e Dickens», e fece in modo che i suoi figli imparassero non soltanto a parlare correttamente ma anche a pensare in modo logico, a classificare, ad analizzare, a descrivere, a enumerare, a imparare non soltanto l'inglese ma il latino e il greco; di come li portava nei musei di New York e a vedere le commedie di Broadway e di come, quando scoprì la carriera segreta di Coleman come pugile dilettante per il Boys Club di Newark, gli aveva detto, con quella voce che irradiava autorità senza che lui la dovesse mai alzare: «Se io fossi tuo padre direi: "Ieri sera hai vinto? Bene. Ora puoi ritirarti imbattuto"». Da Ernestine appresi che Doc Chizner, l'istruttore di boxe di cui seguii il corso per un anno a Newark, aveva, in precedenza, a East Orange, preso sotto la sua guida il giovane Coleman dopo che Coleman aveva lasciato il Boys Club, e che Doc avrebbe voluto che Coleman boxasse per l'università di Pittsburgh e avrebbe potuto procurargli una borsa di studio per Pitt come pugile bianco, ma che Coleman si era iscritto a Howard perché i piani di suo padre erano quelli. Che suo padre era morto all'improvviso mentre serviva, una sera, la cena in treno, e che Coleman aveva lasciato immediatamente Howard per arruolarsi in marina, e per arruolarsi come bianco. Che dopo il servizio militare si era trasferito al Greenwich Village per andare alla NYU. Che una domenica aveva portato a casa loro una ragazza bianca, la bella ragazza del Minnesota. Che quel giorno lei e sua madre bruciarono i biscotti, tanto avevano paura di dire qualcosa di sbagliato. Che, fortunatamente per ognuno di loro, Walt, il quale aveva cominciato a insegnare ad Asbury Park, quel giorno non era potuto venire a pranzo, che le cose erano andate così bene che Coleman non poteva aver avuto nulla di cui lamentarsi. Ernestine mi spiegò com'era stata indulgente la madre di Coleman con la ragazza. Con Steena. Come loro erano state premurose e gentili con Steena, e Steena con loro. Come sua madre era sempre stata una gran lavoratrice, e, dopo la morte del marito, era diventata, esclusivamente grazie ai propri meriti, la prima caposala di colore nel reparto chirurgico di un ospedale di Newark. E come aveva adorato il suo Coleman, come non c'era nulla che Coleman potesse fare per distruggere l'amore di sua madre. Neanche

la decisione di passare il resto della vita fingendo che sua madre fosse un'altra, una madre che non aveva mai avuto e che non era mai esistita, nemmeno questo aveva potuto troncare il legame che univa la signora Silk al figlio. E dopo che Coleman era tornato a casa per dire a sua madre che voleva sposare Iris Gittelman e che lei non sarebbe mai stata la suocera di sua nuora o la nonna dei suoi nipoti, quando Walt aveva proibito a suo fratello di rimettersi in contatto con la famiglia, Walt aveva detto a sua madre, chiaro e tondo (e con la stessa ferrea autorità con cui li aveva governati il padre), che neanche lei doveva tenersi in contatto con Coleman. – So che aveva le migliori intenzioni, – disse Ernestine. – Walt pensava che questo fosse l'unico sistema per impedire a nostra madre di essere ferita. Di essere ferita da Coleman ogni volta che c'era un compleanno, ogni volta che c'era una festa, ogni volta che arrivava il Natale. Era convinto che, se la linea di comunicazione fosse rimasta aperta, mille e mille volte Coleman avrebbe spezzato il cuore di nostra madre, esattamente come fece quel giorno. Walt ce l'aveva con lui perché era venuto a East Orange senza preavviso, senz'avvertire nessuno di noi, e per dire a una vecchia signora, una vedova come lei, quali sarebbero state, da quel momento, le nuove regole. Fletcher, mio marito, ha sempre dato una spiegazione psicologica del comportamento di Walt. Ma io non credo che Fletcher avesse ragione. Non credo che Walt sia mai stato veramente geloso del posto che Coleman aveva nel cuore di nostra madre. Non condivido questa spiegazione. Io credo che si sentisse offeso e che si fosse adirato: non soltanto per nostra madre, ma per tutti noi. Walt era il politico della famiglia; era naturale che si arrabbiasse. Quanto a me, io non ero altrettanto arrabbiata e non lo sono mai stata, ma posso capire Walter. Ogni anno, il giorno del compleanno di Coleman, telefonavo ad Athena per parlargli. Fino a tre giorni fa. Era il suo compleanno. Il suo settantaduesimo compleanno. Direi che, quando si è ammazzato, stava tornando a casa dalla cena per festeggiare il suo compleanno. Ho telefonato per fargli gli auguri. Nessuno ha risposto, e allora ho chiamato il giorno dopo. Ed è così che ho scoperto che era morto. Qualcuno, in casa, ha alzato il ricevitore e me l'ha detto. Ora so che era uno dei miei nipoti. Ho cominciato a telefonargli a casa solo dopo la morte della moglie, quando aveva lasciato il college e viveva solo. Prima di allora lo chiamavo in ufficio. Non l'ho mai detto a nessuno. Non c'era motivo. Gli telefonavo per i compleanni. Gli ho telefonato quando è morta la mamma. Gli ho telefonato quando mi sono sposata. Gli ho telefonato quando ho avuto un bambino. Gli ho telefonato quando è morto mio marito. Abbiamo sempre fatto delle belle chiacchierate, noi due. Lui voleva sempre avere notizie, anche di Walter e delle sue promozioni. E poi, ogni volta che Iris ha partorito, con Jeffrey, con Michael, poi con i gemelli, ho ricevuto una telefonata di Coleman. Mi chiamava a scuola. Per lui quella era sempre una grande prova. Sfidava la sorte, con tutti quei figli. Poiché erano genetica-

mente legati al passato che aveva ripudiato, c'era sempre la probabilità, capisce, che potessero mostrare un tratto rivelatore. Questo lo preoccupava moltissimo. Poteva succedere, e a volte succede. Ma Coleman non si fece spaventare e decise di averli egualmente. Anche questo rientrava nel suo piano. Il piano di avere una vita piena, regolare e produttiva. Eppure io credo che, soprattutto in quei primi anni, e certamente ogni volta che arrivava un altro figlio, Coleman soffrisse per questa decisione. Alla sua attenzione non è mai sfuggito nulla, e questo valeva anche per i sentimenti. Poteva isolarsi da noi, ma non dai suoi sentimenti. E questo era vero soprattutto per quanto riguardava i figli. Lui stesso, credo, arrivò a pensare che c'era qualcosa di orribile nel nascondere a una persona una cosa tanto importante, arrivò ad ammettere che, insomma, avevano il diritto di conoscere la propria genealogia. E c'era anche qualcosa di pericoloso. Pensi al disastro che poteva provocare nella loro vita se si fosse potuto capire che i suoi figli erano negri. Finora è stato fortunato, e questo vale per i due nipoti in California. Ma pensi alla figlia, che non si è ancora sposata. Metta che un giorno abbia un marito bianco, come più che probabilmente avrà, e che partorisca un figlio negroide, com'è possibile: com'è possibilissimo. In che modo se lo spiegherà? E suo marito cosa penserà? Penserà che il padre del bambino è un altro uomo. Un nero, se è per questo. Signor Zuckerman, è stata una terribile crudeltà che Coleman non l'abbia detto ai figli. Questa non è l'opinione di Walter, è la mia. Se Coleman era deciso a mantenere il segreto sulla sua razza, allora il prezzo che avrebbe dovuto pagare era questo: non avere figli. E lui lo sapeva. Doveva saperlo. Invece, ha nascosto una bomba inesplosa. E mi sembrava sempre sullo sfondo, quella bomba, quando parlava di loro. Specie quando parlava, non della gemella, ma del gemello, Mark, il ragazzo che gli ha dato tanti problemi. Lui mi disse che Markie forse aveva i suoi motivi per odiarlo, ma era come se avesse indovinato la verità. «Qui ho avuto quello che mi meritavo, – diceva, – anche se per la ragione sbagliata. Markie non ha nemmeno il lusso di odiare suo padre per il vero motivo. L'ho privato – diceva – anche di quella parte del suo diritto di nascita». E io dicevo: «Ma potrebbe non averti affatto odiato per questo, Coleman». E lui diceva: «Tu non mi segui. Non che mi avrebbe odiato perché è nero. Non è questo che intendo con "il vero motivo". Intendo dire che mi avrebbe odiato perché non glielo avevo mai detto e perché aveva il diritto di sapere». E poi, dato che c'erano troppe possibilità di malintesi, la sciavamo cadere il discorso. Ma era chiaro che Coleman non poté mai dimenticare che alla base dei rapporti con i figli c'era una bugia, una terribile bugia, e che Markie l'aveva intuita, aveva capito in qualche modo che i figli, che avevano nei loro geni l'identità paterna e che avrebbero trasmesso quell'identità ai loro figli, almeno geneticamente, e forse anche fisicamente, tangibilmente, non seppero mai fino in fondo chi erano e chi sono. Questa è un po' una congettura, ma certe volte io credo che Coleman vedesse

Markie come il castigo per ciò che lui aveva fatto a sua madre. Anche se questa è una cosa – soggiunse Ernestine, scrupolosamente – che lui non ha mai detto. Quanto a Walter, quello che volevo dire, a proposito di Walter, è che lui cercava solo di mettersi nei panni di nostro padre e di fare in modo che a nostra madre non si spezzasse il cuore di continuo. – E c'è riuscito? – chiesi. – Signor Zuckerman, non c'era rimedio... Non ci fu mai. Quando morì all'ospedale, delirando, sa cosa diceva? Continuava a chiamare l'infermiera come i malati chiamavano lei. «Oh, infermiera, – diceva, – oh, infermiera... Mi accompagni al treno. A casa ho un bambino malato». Sempre così. «A casa ho un bambino malato». Là seduta al suo capezzale, tenendole la mano e guardandola morire, capii chi era quel bambino malato. E anche Walter. Era Coleman. Che mia madre sarebbe stata meglio se Walt non avesse interferito come fece mettendo Coleman per sempre al bando, così... be', esito ancora a dirlo. Ma la dote particolare di Walter come uomo è la decisione. Era anche una dote di Coleman. La nostra è una famiglia di decisionisti. L'aveva nostro padre, e così pure il suo, che era un pastore metodista giù in Georgia. Questi uomini prendono una decisione, ed è quella. Ebbene, c'era un prezzo da pagare per il loro decisionismo. Una cosa è chiara, tuttavia. E questo l'ho capito solo oggi. E vorrei che i miei genitori lo sapessero. La nostra è una famiglia di educatori. A partire dalla mia nonna paterna. Quando era una giovane schiava la sua padrona le insegnò a leggere, poi, dopo l'Emancipazione, andò a quella che allora si chiamava la Scuola normale e industriale dello stato della Georgia per la gente di colore. Ecco come cominciò, ed ecco cosa siamo diventati. Ecco quello che ho capito quando ho visto i figli di Coleman. Tutti insegnanti, tranne uno. E noi – Walt, Coleman, io –, tutti insegnanti pure noi. Mio figlio è un'altra storia. Non ha finito l'università. Abbiamo avuto delle divergenze, e ora lui «sta con uno», come si dice oggi, e siamo in disaccordo anche su questo. Deve sapere che non c'erano insegnanti di colore nel sistema scolastico bianco di Asbury Park quando Walter vi arrivò nel '47. Non deve dimenticare che fu il primo. E, successivamente, il loro primo direttore negro. E, successivamente, il loro primo provveditore negro. Questo le dice qualcosa di Walt. C'era già una comunità di colore ben radicata, ma fu solo quando Walter vi arrivò nel '47 che le cose cominciarono a cambiare. E il suo decisionismo ebbe un gran peso. Anche se lei è un figlio di Newark, non so se sa che fino al 1947 l'istruzione approvata nel New Jersey era legalmente, costituzionalmente separata: era un'istruzione segregata. Nella maggior parte delle comunità, avevi scuole per i bambini di colore e scuole per i bambini bianchi. C'era una netta separazione delle razze nell'istruzione elementare del New Jersey meridionale. Da Trenton, New Brunswick, in giù, avevi scuole separate. E a Princeton. E ad Asbury Park. Ad Asbury Park, quando arrivò Walter, c'era una scuola che si chiamava Bangs Avenue, East

o West: una delle due era per i bambini di colore che abitavano nel quartiere di Bangs Avenue e l'altra per i bambini bianchi. Era un solo edificio, ma diviso in due. Tra le due ali dell'edificio c'era uno steccato, e da una parte c'erano i bambini di colore e dall'altra i bambini bianchi. Analogamente, da una parte gli insegnanti erano bianchi e dall'altra di colore. Il direttore era bianco. A Trenton, a Princeton – e Princeton non è considerata una città del New Jersey meridionale – ci sono state scuole separate fino al 1948. A East Orange e a Newark no, sebbene una volta anche a Newark ci fosse una scuola elementare per bambini di colore. Questo fu all'inizio del Novecento. Ma nel 1947... E sto arrivando al ruolo che Walter ha avuto in tutto questo, perché voglio che lei lo capisca, mio fratello, voglio che veda il suo rapporto con Coleman nel quadro più ampio di ciò che accadeva allora. Sono gli anni che precedono il movimento per i diritti civili. Anche ciò che fece Coleman, la decisione che prese, nonostante la sua ascendenza negra, di vivere come un membro di un altro gruppo razziale... Questa fu una decisione niente affatto insolita, prima del movimento per i diritti civili. Ci hanno fatto sopra dei film. Se li ricorda? Uno si chiamava Pinky, e ce n'era un altro con Mel Ferrer, anche se non ricordo il titolo, ma anche questo ebbe un grande successo. Cambiare gruppo razziale: non c'erano diritti civili degni di questo nome, non c'era uguaglianza, perciò quella era una cosa che ronzava nella testa della gente, bianca e di colore. Forse era più una fantasia che una realtà, eppure la gente ne era affascinata, come si lascia affascinare da una favola. Ma poi, nel 1947, il governatore indisse una convenzione costituzionale per rivedere la costituzione dello stato del New Jersey. E quello fu l'inizio di qualcosa. Una delle revisioni costituzionali fu che nel New Jersey non ci sarebbero più state unità della Guardia Nazionale separate o segregate. La seconda parte, il secondo cambiamento della nuova costituzione, diceva che ai bambini non sarebbe più stato vietato di iscriversi a una scuola, non sarebbero più stati costretti a rivolgersi a un'altra scuola del quartiere. La formulazione era pressappoco questa. Walter potrebbe dirgliela parola per parola. Quegli emendamenti eliminarono la segregazione nelle scuole pubbliche e nella Guardia Nazionale. Il governatore e i consigli dell'educazione furono incaricati di applicarli. Il consiglio di stato raccomandò a tutti i consigli dell'educazione locali di elaborare progetti per l'integrazione delle scuole. Questi proposero d'integrare prima gli insegnanti, e poi d'integrare lentamente le scuole per quanto riguardava gli scolari. Ora, già prima di andare ad Asbury Park, ancora da studente alla Montclair State quando era tornato dalla guerra, Walt era impegnato politicamente: uno di quegli ex militari che si battevano già attivamente per l'integrazione delle scuole nel New Jersey. Prima ancora della revisione costituzionale, e dopo che fu riveduta, certo, Walter rimase tra i più attivi nella lotta per l'integrazione delle scuole. Il punto di Ernestine era che Coleman non era uno di quegli ex militari

che lottavano per l'integrazione e l'uguaglianza e i diritti civili; secondo Walter, Coleman non si era mai battuto che per se stesso. Silky Silk. Ecco il nome del combattente, ecco per chi combatteva, ed ecco perché Walt non lo aveva mai potuto soffrire, anche quando Coleman era un ragazzo. Se Coleman ci stava, diceva Walt, era nel proprio interesse. Sempre nel proprio esclusivo interesse. Chiamarsi fuori: ecco l'unica cosa che avesse mai voluto. Avevamo finito di mangiare, a casa mia, già da parecchie ore, ma l'energia di Ernestine non mostrava di esaurirsi. Tutto ciò che le frullava nel cervello – e non soltanto come conseguenza della morte di Coleman, ma tutto ciò che riguardava il mistero che negli ultimi cinquant'anni la donna aveva cercato di sondare – la faceva parlare con un impeto che non era proprio tipico della posata insegnante di provincia che era stata per tutta la vita. Era una donna dall'aria molto dignitosa, apparentemente sana ma un po' tesa nei tratti del viso, che nessuno avrebbe immaginato potesse avere appetiti smodati; dal modo di vestire e dall'atteggiamento, dalla meticolosità con cui aveva consumato il pranzo, persino da come occupava la sua sedia, era chiaro che la sua era una personalità che non faceva fatica ad adeguarsi alle convenzioni sociali, e che in ogni conflitto il suo più vivo riflesso interiore sarebbe stato quello di fungere automaticamente da mediatore: un'amica della risposta ragionevole, per sua scelta più un'ascoltatrice che un'artefice di discorsi; eppure l'aura di eccitazione che circondava la morte di quel fratello autoproclamatosi bianco, lo speciale significato della fine di una vita che alla sua famiglia era sembrata una lunga, perversa, cocciuta e arrogante diserzione, non poteva essere affrontata con mezzi ordinari. – Nostra madre è andata nella tomba chiedendosi perché Coleman l'avesse fatto. «Perduto per la sua gente». Ecco come la vedeva lei. Non era il primo, nella sua famiglia. Ce n'erano stati altri. Ma quelli erano gli altri. Non erano Coleman. Non una volta, in vita sua, ci sembrò che Coleman mordesse il freno perché era un negro. Mai, finché rimase con noi. E' vero. Essere un negro non era mai stato un problema, per lui. Vedevi nostra madre là seduta in poltrona, la sera, impietrita, e sapevi cosa stava domandandosi: potrebbe essere questo? Potrebbe essere quello? Era stato per sganciarsi da papà? Ma quando Coleman lo aveva fatto, papà era già morto. Nostra madre proponeva una serie di ragioni, ma nessuna era mai quella giusta. Dipendeva forse dal fatto che per Coleman i bianchi erano migliori di noi? Che avessero più soldi di noi, questo era sicuro: ma migliori? Era questo che credeva? Non ne vedemmo mai il minimo indizio. Oggi i ragazzi diventano grandi e se ne vanno e non hanno più rapporti con la famiglia, e non occorre essere di colore per comportarsi così. Succede tutti i giorni in tutto il mondo. Odiano tanto ogni cosa che spariscono. Ma Coleman, da ragazzo, non odiava nessuno. Era il bambino più allegro e più ottimista che avresti mai voluto vedere. Crescendo, ero più infelice io di Coleman. Walt

era più infelice di Coleman. Con tutta la popolarità che aveva, con l'attenzione che la gente gli prestava... No, per nostra madre, semplicemente, era una cosa che non aveva senso. E non smise mai di struggersi per lui. Le sue foto. Le pagelle. Le medaglie delle gare. L'annuario. Il certificato che gli avevano dato per il discorso. Qua e là c'erano persino i giocattoli di Coleman, i giocattoli che aveva amato da bambino, e lei aveva tutte queste cose e le fissava come un lettore del pensiero fissa una sfera di cristallo, come se potessero spiegare ogni cosa. Coleman ha mai ammesso, con qualcuno, di avere fatto quello che ha fatto? Eh, signor Zuckerman? Lo ha mai confessato alla moglie? Ai figli? – Non credo, – dissi. – Sono sicuro di no. – Allora non era cambiato, era sempre il vecchio Coleman. Che ha deciso di farlo e lo fa. Questa era la cosa straordinaria che aveva fin da piccolo: che aderiva completamente al suo progetto. C'era come un accanimento che metteva in ogni decisione. Tutte le bugie rese obbligate dalla più grossa, ai parenti, ai colleghi, e c'è rimasto attaccato fino alla fine. Fino a farsi seppellire come ebreo. Oh, Coleman, – disse tristemente, – sempre così deciso. Il Signor Deciso –. E mi parve, in quel momento, più vicina al riso che al pianto. Seppellito come ebreo, pensai, e, se la mia ipotesi era giusta, ucciso come un ebreo. Un altro dei problemi dell'interpretazione. – Se l'ha detto a qualcuno, – dissi, – forse è stato alla donna con cui è morto. A Faunia Farley. Ernestine, evidentemente, non voleva sentire parlare di quella donna. Ma, essendo una persona ragionevole, non poté fare a meno di chiedere: – Come lo sa? – Non lo so. Io non so nulla. E' un'idea, – dissi. – Concorderebbe, l'averglielo detto, col patto che ho avuto l'impressione ci fosse tra loro –. Per «patto» intendevo il riconoscimento, da parte loro, che non c'erano vie d'uscita praticabili, ma non ritenni di dovermi spiegare meglio, non davanti a Ernestine. – Guardi, dopo quello che ho saputo oggi da lei non c'è nulla, di Coleman, che io non debba ripensare. Non so cosa pensare. – Be', allora da questo momento lei è un membro onorario della famiglia Silk. A parte Walter, della storia di Coleman nessuno di noi ha mai saputo cosa pensare. Perché l'ha fatto, perché ha insistito, perché nostra madre ha dovuto morire com'è morta. Se Walt non avesse posto il veto, – disse, – chissà come sarebbero andate le cose. Chissà se Coleman non l'avrebbe detto alla moglie, mentre gli anni passavano e lui si allontanava da quella decisione. Forse un giorno l'avrebbe detto anche ai figli. Forse l'avrebbe detto al mondo intero. Ma Walt congelò la situazione. E questa non è mai una buona idea. Coleman prese la sua decisione quando era ancora tra i venti e i trent'anni. Un vulcano di ventisette anni. Ma non avrebbe avuto ventisette anni per sempre. Non sarebbe stato per sempre il 1953. Le perso-

ne invecchiano. Le nazioni invecchiano. I problemi invecchiano. Qualche volta, a furia d'invecchiare, cessano di esistere. Ma l'intervento di Walt bloccò tutto. Certo, se ti metti dal punto di vista di una mentalità ristretta, dal punto di vista del puro e semplice vantaggio sociale, era sicuramente vantaggioso, per un negro borghese e ricercato, fare come Coleman, così come oggi è vantaggioso evitare di farlo. Oggi, se sei un negro borghese intelligente e vuoi che i tuoi figli frequentino le scuole migliori, e con borse di studio sostanziose, se ti fa comodo, non ti sogneresti mai di dire che non sei di colore. Sarebbe l'ultima cosa da fare. Per bianca che possa essere la tua pelle, oggi conviene non farlo, proprio come allora conveniva farlo. Dunque, che differenza c'è? Ma posso dirlo a Walter? Posso dirgli: «Dunque, in realtà che differenza c'è?» Primo, per quello che Coleman ha fatto a nostra madre; secondo, perché agli occhi di Walter allora c'era una battaglia da fare, e Coleman non ha voluto parteciparvi: per queste semplici ragioni io non posso, assolutamente. Ma non creda che nel corso degli anni non ci abbia provato. Perché Walter, in realtà, non è un uomo duro. Vuol sapere una cosa di mio fratello Walter? Nel 1944 Walter era un fante di ventun anni che militava in una compagnia di colore. Era con un altro soldato della sua unità. Erano in Belgio, su una cresta che dominava una valle tagliata dai binari della ferrovia. Videro un soldato tedesco camminare lungo i binari, verso est. Aveva una piccola sacca in spalla e zufolava. L'altro soldato che era con Walter prese la mira. «Che diavolo fai?» gli disse Walter. «Lo ammazzo». «Perché? Fermati! Cosa fa? Cammina. Probabilmente sta tornando a casa». Walter dovette strappare il fucile dalle mani di questo tizio. Un ragazzo del South Carolina. Scesero dalla cresta, fermarono il tedesco e lo fecero prigioniero. Saltò fuori che stava tornando a casa per davvero. Era in licenza, e l'unico modo che conosceva per tornare in Germania era andare verso est lungo i binari della ferrovia. E fu Walter a salvargli la vita. Quanti soldati hanno fatto una cosa simile? Mio fratello Walter è un uomo deciso che può essere duro, se necessario, ma è anche un essere umano. E' perché è un essere umano che crede che ciò che fai, lo fai per il progresso della razza. E così ci ho provato, con lui, qualche volta ci ho provato, dicendo a Walter cose alle quali io stessa credevo solo a metà. Coleman apparteneva al suo tempo, gli dico. Coleman non poteva aspettare il movimento dei diritti civili per ottenere i suoi diritti umani, e allora ha saltato un gradino. «Mettiti in una prospettiva storica, – dico a Walt. – Sei un professore di storia: vedilo come una parte di qualcosa di più grande». Gli ho detto: «Nessuno di voi due si è semplicemente accontentato di quello che avevate. Siete dei combattenti, tutt'e due, e avete combattuto, tutt'e due. Tu hai combattuto a modo tuo e Coleman ha combattuto a modo suo». Ma questo è un modo di ragionare che con Walter non ha mai funzionato. Niente ha mai funzionato, con lui. Quello era lo strumento che aveva Coleman per diventare un uomo, gli dico; ma lui non la beve. Per Walt, quello era lo stru-

mento che aveva Coleman per non diventare un uomo. «Sicuro, – mi dice, – sicuro. Tuo fratello oggi è, più o meno, quello che sarebbe stato: tranne che sarebbe stato nero. Tranne? Tranne? Questo "tranne" avrebbe cambiato tutto». Walt può vederlo solo come l'ha sempre visto. E io che posso farci, signor Zuckerman? Odiare mio fratello Walt per ciò che ha fatto a Coleman, congelando così la nostra famiglia nel tempo? Odiare mio fratello Coleman per ciò che ha fatto a nostra madre, per come ha fatto soffrire quella povera donna fino al suo ultimo giorno di vita? Se devo odiare i miei fratelli, perché fermarmi qui? Perché non odiare mio padre per tutte le cose sbagliate che ha fatto? Perché non odiare il mio povero marito? Non avevo sposato un santo, glielo posso garantire. Amavo mio marito, ma ho le idee chiare. E mio figlio? Ecco un ragazzo che non sarebbe affatto difficile odiare. Si fa in quattro per facilitartelo. Ma il pericolo dell'odio è che, una volta cominciato a coltivarlo, hai cento volte più di quanto ti aspettassi. Una volta cominciato, non ti fermi più. Non conosco nulla di più difficile da controllare dell'odio. E' più facile smettere di bere che smettere di odiare. Ed è tutto dire. – Lei sapeva, prima d'ora, – le chiesi, – perché Coleman si era dimesso dal college? – No. Credevo che avesse raggiunto l'età della pensione. – Dunque non gliel'ha mai detto. – No. – Dunque lei non sa di che cosa stava parlando Keble. – Non del tutto. Le dissi allora dell'affare degli «spettri», le narrai tutta la storia, e quando ebbi finito lei scosse il capo e disse tutto d'un fiato: – Non credo di avere mai sentito una cosa più stupida di questa, perpetrata da un'istituzione il cui compito è promuovere l'istruzione superiore. Mi sembra che sia più somigliante a un focolaio d'ignoranza. Perseguitare un professore universitario, chiunque sia, di qualunque colore possa essere, offenderlo, disonorarlo, privarlo della sua autorità, della sua dignità e del suo prestigio per una cosa stupida e insignificante come questa... Io sono figlia di mio padre, signor Zuckerman, figlia di un padre che pesava le parole, e ogni giorno che passa le parole che sento pronunciare mi sembrano una descrizione sempre meno convincente di come stanno realmente le cose. Da quello che mi ha detto, si direbbe che oggigiorno in un college tutto sia possibile. Si direbbe che la gente che vi lavora abbia dimenticato cosa significa insegnare. Si direbbe che quello che fanno abbia tutte le caratteristiche della pagliacciata. Ogni epoca ha le sue autorità reazionarie, ed evidentemente qui ad Athena sono al culmine della popolarità. Bisogna avere una paura così terribile di ogni parola che si usa? Che fine ha fatto il primo emendamento della costituzione degli Stati Uniti d'America? Durante la mia infanzia, come durante la sua, si raccomandava che nel corso della cerimonia finale a ogni studente

diplomato nei licei del New Jersey fossero date due cose: il diploma e una copia della costituzione. Se lo ricorda? Dovevi fare un anno di storia americana e un semestre di economia; naturalmente, oggi non si deve più: il verbo «dovere» è stato espunto dal vocabolario e dai programmi. A quei tempi era tradizione, in molte delle nostre scuole, che durante la cerimonia il direttore ti consegnasse il diploma e qualcun altro una copia della costituzione degli Stati Uniti. E' così poca, oggi, la gente che ha una comprensione ragionevolmente chiara della costituzione degli Stati Uniti! Ma qui in America, da quello che vedo, la stupidità aumenta di ora in ora. Tutti questi college che varano programmi di recupero per insegnare ai ragazzi ciò che avrebbero dovuto imparare alle medie. Al liceo di East Orange hanno smesso da un pezzo di leggere i classici. Di Moby Dick non hanno neanche sentito parlare, e tanto meno lo hanno letto. L'anno in cui io sono andata in pensione, dei ragazzi venivano da me a dirmi che, per il Mese della Storia dei Neri, avrebbero letto solo una biografia di un nero scritta da un nero. Che differenza c'è, chiedevo loro, se l'autore è nero o bianco? Non lo sopporto, il Mese della Storia dei Neri. Per me avere, in febbraio, il Mese della Storia dei Neri, e concentrare lo studio su quella, è come avere un bricco di latte che sta per andare a male. Puoi ancora berlo, ma il sapore non è più buono. Se vuoi studiare e sapere chi era Matthew Henson, mi sembra che tu debba occuparti di Matthew Henson quando ti occupi degli altri esploratori. – Io non so chi era Matthew Henson, – dissi a Ernestine, chiedendomi se Coleman lo sapeva, se aveva voluto saperlo o se una delle ragioni per cui aveva preso la sua decisione era stata proprio questa: non volerlo sapere. – Signor Zuckerman... – disse lei, abbastanza gentilmente, ma nondimeno facendomi arrossire. – Il signor Zuckerman non ha mai dovuto fare il suo Mese della Storia dei Neri, da ragazzo, – dissi. – Chi ha scoperto il Polo Nord? – mi chiese. Tutt'a un tratto Ernestine mi piacque enormemente, tanto più quanto più pedante e saputella diventava. Anche se per ragioni diverse, cominciava a piacermi come mi era piaciuto suo fratello. E ora vedevo che, se uno li avesse messi fianco a fianco, non sarebbe stato affatto difficile capire cos'era Coleman. Tutti sanno... Oh, che stupida, che stupida, Delphine Roux. La verità sul proprio conto non è conosciuta da nessuno e, spesso (proprio come nel caso di Delphine), meno di tutti da se stessi. – Non ricordo se fu Peary o Cook, – dissi. – Non ricordo quale dei due arrivò per primo al Polo Nord. – Be', Henson ci arrivò prima di lui. Quando il «New York Times» ne parlò nelle sue cronache, gliene fu dato atto. Ma oggi, quando scrivono la storia, si sente solo il nome di Peary. Sarebbe stato lo stesso se si fosse det-

to che Sir Edmund Hillary aveva raggiunto la vetta dell'Everest, e non si fosse udita una parola su Tenzing Norkay. Il punto, – disse Ernestine, ora nel suo elemento, tutta istruzione e correttezza professionale (e, diversamente da Coleman, tutto ciò che suo padre aveva sempre voluto che diventasse), – il punto è questo: se devi fare un corso sulla medicina e via dicendo, ti occupi anche del dottor Charles Drew. Ne ha mai sentito parlare? – No. – Vergogna, signor Zuckerman. Glielo dirò tra un minuto. Ma quando fai medicina, parli del dottor Drew. Non lo metti nel Mese della Storia dei Neri. Mi spiego? – Sì. – Impari ciò che devi sapere di loro quando studi gli esploratori e gli scienziati e tutto il resto. Mentre oggi è nero questo e nero quello. Ho la sciato che l'onda passasse, ma non è stato facile. Qualche anno fa il liceo di East Orange era eccellente. I ragazzi che uscivano dal liceo di East Orange, specie quelli sull'albo d'onore, potevano scegliere il college che volevano. Oh, non mi faccia parlare di questo argomento. Quello che è successo a Coleman con la parola «spettri» è un altro aspetto dello stesso enorme fallimento. Ai tempi dei miei genitori, e anche ai miei tempi e ai suoi, le carenze erano dell'individuo. Oggi sono della disciplina. Leggere i classici è troppo difficile, dunque la colpa è dei classici. Oggi lo studente sbandiera la sua incapacità come se fosse un privilegio. Non riesco a impararlo, dunque dev'esserci qualcosa di sbagliato. E qualcosa di particolarmente sbagliato deve avere l'insegnante cattivo che pretende d'insegnarlo. Non ci sono più criteri, signor Zuckerman, ma semplici opinioni. Mi trovo spesso a dover affrontare la questione di com'erano le cose di una volta. Com'era l'istruzione di una volta. Com'era il liceo di East Orange di una volta. Com'era l'East Orange di una volta. Il rinnovamento urbano ha distrutto East Orange, non ne ho il minimo dubbio. Loro – i notabili – parlavano di tutte le grandi cose che sarebbero accadute grazie a questo rinnovamento urbano. Questo fece morire i commercianti di paura, e i commercianti se ne andarono, e più i commercianti se ne andavano, meno affari c'erano. La 280 e la superstrada hanno diviso la nostra cittadina in quattro quarti. La superstrada ha cancellato Jones Street: il centro della comunità di colore che la superstrada ha totalmente eliminato. E la 280. Cosa non ha fatto, quella, alla comunità! Poiché doveva passare la strada, le belle case lungo Oraton Parkway, Elmwood Avenue, Maple Avenue, lo stato le ha comprate, e nel giro di una notte sono sparite. Una volta potevo fare tutte le mie spese natalizie in Main Street. Be', in Main Street e Central Avenue. Central Avenue, allora, la chiamavano la Quinta Avenue delle Orange. Sa cos'abbiamo, oggi? Abbiamo un ShopRite. E abbiamo un Dunkin' Donuts. E c'era un Domino's Pizza, ma hanno chiuso. Ora hanno aperto un altro ristorante. E c'è una lavanderia. Ma la qualità non è paragonabile. Non è la stessa. Se

proprio devo essere sincera, per fare la spesa prendo la macchina e vado su a West Orange. Ma allora no. Non c'era motivo. Tutte le sere, quando uscivamo per portare a spasso il cane, andavo con mio marito, a meno che il tempo non fosse davvero brutto. Raggiungevo Central Avenue, che si trova a due isolati, proseguivo per quattro isolati lungo Central Avenue, attraversavo, poi tornavo indietro guardando le vetrine ed ero a casa. C'era B. Altman. Russek's. C'era Black, Starr e Gorham. C'era Bachrach, il fotografo. Un bellissimo negozio di abbigliamento maschile, Minks, che era ebraico, in Main Street. Due cinema. C'era l'Hollywood Theater in Central Avenue. C'era il Palace Theater in Main Street. C'era una gran vita nella piccola East Orange... Gran vita a East Orange. Quando? Prima. Prima del rinnovamento urbano. Prima che i classici venissero abbandonati. Prima che smettessero di regalare la costituzione ai liceali che si erano diplomati. Prima che nei college si istituissero corsi di recupero per insegnare ai ragazzi ciò che avrebbero dovuto imparare alle medie. Prima del Mese della Storia dei Neri. Prima che costruissero la superstrada e facessero passare la 280. Prima che perseguitassero un professore universitario per avere detto ai suoi studenti la parola «spettri». Prima che Ernestine prendesse la macchina per andare a far la spesa su a West Orange. Prima che tutto cambiasse, compreso Coleman Silk. Ecco quando ogni cosa era diversa: prima. E non sarà mai più la stessa, lamentava Ernestine, né a East Orange né in qualunque altro angolo d'America. Alle quattro, quando uscii dal vialetto con la macchina per andare al College Arms, dove Ernestine aveva preso alloggio, la luce pomeridiana scemava a vista d'occhio e la giornata, oppressa da nuvole paurose, aveva dato luogo a un novembre tempestoso. Quel mattino avevano sepolto Coleman – e Faunia il mattino precedente – con un tempo primaverile, ma ora tutto sembrava deciso ad annunciare l'inverno. E l'inverno a quattrocento metri d'altezza. Eccolo che arriva. L'impulso che mi prese in quel momento, di descrivere a Ernestine il giorno d'estate di appena quattro mesi prima in cui Coleman mi aveva portato alla fattoria a vedere Faunia che nell'afa del tardo pomeriggio provvedeva alla mungitura delle cinque – a vedere lui, cioè, che guardava Faunia mungere – non richiese una gran dose di buonsenso per essere soffocato. Qualunque cosa mancasse alla sua conoscenza della vita di Coleman, Ernestine non aveva nessuna voglia di scoprirla. Intelligente com'era, non mi aveva fatto una sola domanda su come suo fratello era vissuto negli ultimi mesi della sua vita, per non parlare di ciò che avrebbe potuto provocare la sua morte nelle circostanze in cui si era verificata. Da quella donna brava e virtuosa che era, preferiva non vedere gli specifici dettagli della sua distruzione. E non nutriva il desiderio di indagare sulle possibili connessioni biografiche tra l'impulso a ribellarsi che lo aveva staccato dalla famiglia a ven-

ti anni e la furiosa determinazione, una quarantina di anni dopo, con cui si era separato da Athena, come paria e rinnegato. Non che io avessi la certezza che esisteva una connessione, uno schema che legava una decisione all'altra, ma avremmo potuto sforzarci di capire, no? Com'era nato, un uomo come Coleman? Cos'era? L'idea che aveva di se stesso era meno valida o più valida dell'idea che avevano gli altri di ciò che Coleman avrebbe dovuto essere? E' mai possibile arrivare a sapere queste cose? Ma il concetto della vita come di una cosa il cui fine è nascosto, delle convenienze sociali come di una cosa che può non ammettere il pensiero, della società come impegnata in un ritratto di se stessa che può essere gravemente difettoso, dell'individuo come qualcosa di reale a parte e al di là dei fattori sociali che lo definiscono (e possono ben essere questi che a lui sembrano la cosa più irreale)... In breve, ogni perplessità che alimentasse l'immaginazione sembrava trovarsi un po' fuori della costante fedeltà di Ernestine a un canone di norme onorate dal tempo. – Non ho letto nessuno dei suoi libri, – mi disse in macchina. – Oggigiorno ho una certa preferenza per i gialli, i gialli inglesi. Ma quando sarò a casa mi propongo di leggere qualcosa di suo. – Non mi ha detto chi era il dottor Charles Drew. – Il dottor Charles Drew – disse – scoprì come impedire al sangue di coagularsi per poterlo conservare. Poi restò ferito in un incidente stradale e, siccome l'ospedale più vicino non accettava gente di colore, morì dissanguato. Questa fu tutta la nostra conversazione nei venti minuti che ci vollero per scendere dalla montagna ed entrare in città. Il torrente delle rivelazioni si era esaurito. Ernestine aveva detto tutto quello che c'era da dire. Col risultato che il destino crudelmente ironico del dottor Drew assunse un significato – una particolare connessione, in apparenza, con Coleman e la crudele ironia del suo destino – che non era meno inquietante per il fatto di essere imponderabile. Nulla di ciò che potevo immaginare avrebbe potuto rendermi Coleman più misterioso di questa rivelazione. Ora che sapevo tutto, era come se non sapessi nulla, e ciò che avevo appreso da Ernestine, invece di unificare l'idea che mi ero fatto di lui, aveva contribuito a trasformarlo non soltanto in uno sconosciuto, ma in una persona contraddittoria e divisa. In quale proporzione, fino a che punto, il suo segreto aveva determinato la sua vita quotidiana e permeato i suoi pensieri di tutti i giorni? Si era forse alterato, con gli anni? Da segreto scottante a segreto insignificante, a segreto privo d'importanza, a qualcosa che ormai aveva solo una lontana parentela con una sfida di tanto tempo prima, con una scommessa fatta – quando? – con se stesso? Aveva trovato, dopo questa decisione, l'avventura che cercava, o l'avventura era la decisione stessa? Era l'inganno che lo gratificava, la bravata che gli piaceva di più, l'attraversare in incognito la vita, o aveva solo

chiuso la porta sul passato, sulla gente, su una razza intera con la quale non voleva più avere rapporti, né privati né ufficiali? Era l'ostruzione sociale che voleva schivare? Era solo un altro americano e, nella grande tradizione della frontiera, aveva accolto l'invito democratico a sbarazzarsi delle proprie origini, se un'azione simile contribuisce alla conquista della felicità? O era qualcosa di più? O qualcosa di meno? Quanto erano meschini i suoi motivi? Quanto patologici? Ammettiamo che fossero entrambe le cose... E allora? Ammettiamo che non lo fossero... E allora? Quando lo avevo conosciuto, il suo segreto era solo la tintura che colorisce la totalità dell'essere o la totalità dell'essere era per lui una semplice tintura nel mare sconfinato di un segreto che durò tutta la vita? Aveva mai ridotto la vigilanza o era stato come vivere da eterno fuggitivo? Era mai passato sopra il fatto che non poteva passare sopra il fatto che ce l'aveva fatta, che poteva affrontare il mondo con le proprie forze intatte dopo avere fatto ciò che aveva fatto, che poteva apparire a tutti, come appariva, così a suo agio nella propria pelle? Ammettiamo pure che, sì, a un certo punto l'equilibrio si spostasse verso la vita nuova e l'altra recedesse; ma aveva mai del tutto dominato la paura di essere scoperto e la sensazione che un giorno sarebbe stato smascherato? La prima volta che era venuto a trovarmi, fuori di sé per la perdita improvvisa della moglie, per l'assassinio di sua moglie, come lo definiva lui, della moglie formidabile con cui aveva sempre battagliato ma per la quale era tornato ad avere un profondo attaccamento nell'istante della sua morte, quando entrò come una furia in casa mia spinto dalla folle idea che, a causa della morte di sua moglie, io dovessi scrivere un libro per lui, la sua stessa follia non aveva forse la natura di una confessione cifrata? Spettri! Farsi rovinare da una parola che non è più usata da nessuno. Inchiodarlo a quella parola significava, per Coleman, banalizzare tutto: il complicato meccanismo della sua menzogna, la raffinata calibratura del suo inganno, tutto. Spettri! La ridicola volgarizzazione di quella magistrale interpretazione che era stata la sua vita, apparentemente convenzionale, singolarmente ingegnosa: una vita con poco di eccessivo, in superficie, perché ogni eccesso va tenuto segreto. Non c'era da meravigliarsi se l'accusa di razzismo lo aveva fatto saltare in aria. Come se la sua impresa affondasse le radici nella sola vergogna. Non c'era da meravigliarsi se tutte le accuse lo facevano saltare in aria. Il suo delitto sorpassava qualunque cosa volessero rinfacciargli. Aveva detto «spettri», aveva un'amica che poteva essere sua figlia... Roba da bambini. Trasgressioni meschine, patetiche, ridicole, chiacchiere da studentelli per un uomo che, tra l'altro, nella sua traiettoria, aveva fatto a sua madre ciò che aveva fatto e, in nome dell'eroica concezione che aveva della propria vita, le aveva detto: «E' finita. Questa relazione amorosa è finita. Tu non sei più mia madre e non lo sei mai stata». Chiunque abbia l'audacia di far questo non vuole semplicemente essere bianco. Vuol essere capace di far questo. E' qualcosa di più del desiderio di godersi una beata libertà. Ha

qualcosa in comune con la ferocia dell'Iiade, il libro preferito di Coleman sullo spirito barbaro dell'uomo. Dove ogni delitto ha il suo carattere e ogni strage è più efferata di quella precedente. Eppure, dopo tutto questo, Coleman si era messo al passo con il sistema. Dopo tutto questo, lo aveva fatto: non era vissuto, mai più, senza la tutela di quella città murata che è la convenzione. O meglio era vissuto, al tempo stesso, dentro e fuori, totalmente all'interno e, di nascosto, totalmente all'esterno, totalmente isolato: questa era la pienezza della vita del nuovo io che aveva creato. Sì, la sua vittoria era durata a lungo, grazie anche al fatto che tutti i suoi figli erano nati bianchi; e poi era venuto il tracollo. Accecato dall'incontrollabilità di qualcosa di completamente diverso. L'uomo che decide di forgiarsi uno storico destino, che decide di forzare la serratura della storia, e che lo fa, riesce brillantemente ad alterare la sua sorte personale, solo per cadere nella trappola di una storia di cui non aveva tenuto conto: la storia che storia ancora non è, la storia scandita dalle lancette dell'orolo gio, la storia che prolifera mentre scrivo, che si accumula minuto per minuto e che sarà meglio compresa dal futuro che da noi. Quel «noi» al quale non si può sfuggire: il momento presente, la sorte comune, lo stato d'animo corrente, lo spirito del proprio paese, la stretta della storia che è il proprio tempo. Accecato dalla natura spaventosamente provvisoria di ogni cosa. Quando arrivammo in South Ward Street e fermai la macchina davanti al College Arms, dissi: – Mi piacerebbe conoscerlo, Walter. Mi piacerebbe parlare di Coleman con lui. – Walter non ha più pronunciato il nome di Coleman dal millenovecentocinquantasei. Non vuole parlare di Coleman. Il college più bianco del New England, ed è lì che Coleman ha fatto carriera. La materia più bianca che c'era nel programma, ed è quella che Coleman ha scelto d'insegnare. Per Walter, Coleman è più bianco dei bianchi. Su di lui non avrebbe altro da dire. – Lo informerà che Coleman è morto? Gli dirà dov'è stata? – No. A meno che non me lo chieda lui. – Si metterà in contatto con i figli di Coleman? – Perché dovrei? – chiese. – Toccava a Coleman dirglielo. Non a me. – Perché, allora, lo ha detto a me? – Non gliel'ho detto. Al cimitero lei si è presentato. Mi ha detto: «Lei è la sorella di Coleman». Io ho risposto di sì. Dicevo solo la verità. Non sono una che abbia qualcosa da nascondere –. Severa com'era stata per tutto il pomeriggio, con me e con Coleman. Fino a quel momento si era bilanciata scrupolosamente tra la rovina della madre e lo scandalo del fratello. A questo punto tirò fuori dalla borsetta un portafoglio. Lo aprì per mostrarmi una delle istantanee infilate in una custodia di plastica. – I miei ge-

nitori, – disse. – Dopo la prima guerra mondiale. Lui era appena tornato dalla Francia. Due giovani davanti ai gradini di mattoni dell'ingresso di una casa, la ragazza piccolina con un grande cappello e un abito lungo estivo e il giovanotto alto in uniforme da parata, con il berretto con la visiera, la bandoliera di cuoio, i guanti di pelle e due lucidi stivaletti di cuoio. Erano chiari, ma erano negri. Come facevi a dire che erano negri? Per quel tanto che avevano più del niente che avevano da nascondere. – Bel ragazzo. Specie in quella tenuta, – dissi. – Potrebbe essere una divisa della cavalleria. – Pura e semplice fanteria, – disse lei. – Sua madre non riesco a vederla altrettanto bene. E' un po' in ombra a causa del cappello. – Si può arrivare a controllare la propria vita solo fino a un certo punto, – disse, e con questo, con la sbrigativa dichiarazione filosoficamente più potente che avesse mai fatto, Ernestine rimise il portafoglio nella borsa, mi ringraziò per il pranzo e, rientrando quasi visibilmente in quell'esistenza comune e ordinata che si distanziava nettamente dalle idee illusorie, bianche o nere o mezzo e mezzo che fossero, scese dalla macchina. Allora, invece di tornare a casa, attraversai la città fino al cimitero e, dopo avere parcheggiato, entrai dal cancello e, senza rendermi conto di quello che stava succedendo, ritto nella notte che calava di fianco all'irregolare tumulo di terra ammucchiata alla meglio sulla bara di Coleman, mi lasciai prendere completamente dalla sua storia, dalla sua fine e dal suo principio, e su due piedi cominciai questo libro. Cominciai chiedendomi come poteva essere andata quando Coleman aveva detto a Faunia la verità su quel principio: supponendo che l'avesse fatto; supponendo, cioè, che avesse dovuto farlo. Supponendo che ciò che Coleman non poteva dirmi apertamente il giorno in cui irruppe in casa mia quasi urlando: «Scriva la mia storia, dannazione!», e ciò che non poteva dirmi quando dovette rinunciare (a causa del segreto, ora capivo) a scriverla lui stesso, alla fine non poté esimersi dal confessare a lei, alla donna delle pulizie del college diventata la sua compagna d'armi, la prima e l'ultima persona, dopo Ellie Magee, davanti alla quale poteva spogliarsi e voltarsi in modo da esporre, sporgente dalla sua schiena nuda, la chiave meccanica con cui si era caricato per lanciarsi nella sua grande avventura. Ellie, prima di lei Steena, e infine Faunia. L'unica donna che non ha mai conosciuto il suo segreto è la donna con cui ha passato la vita, sua moglie. Perché Faunia? Com'è umano avere un segreto, è anche umano, prima o poi, svelarlo. Anche, come in questo caso, a una donna che non fa domande, che – diresti – dovrebbe essere una pacchia per un uomo con un simile segreto. Anche a lei, invece: specialmente a lei. Perché, se non fa domande, non è perché sia stupida o non voglia vedere le cose; il suo non fare domande è, agli

occhi di Coleman, tutt'uno con la sua devastata dignità. – Ammetto che possa non essere affatto corretto, – dissi all'amico completamente trasformato, – ammetto che nulla di tutto questo possa esserlo. Comunque, ecco la mia domanda: quando tu cercavi di scoprire se era stata una prostituta... Quando cercavi di scoprire il suo segreto... – Là davanti alla sua tomba, dove sembrava che tutto ciò che lui era stato fosse stato cancellato, se non da altro, dal peso e dalla massa di quella terra, attesi a lungo che Coleman parlasse, fino a quando finalmente lo sentii chiedere a Faunia qual era il lavoro peggiore che avesse mai fatto. Quindi attesi ancora, attesi un altro po', fino a quando captai a poco a poco le insolenti vibrazioni del parlare schietto che era quello di lei. Ed è così che ho cominciato: stando da solo in un cimitero sul quale calava la notte ed entrando in competizione professionale con la morte. – Dopo i bambini, dopo l'incendio, – sentii che gli diceva, – accettavo tutti i lavori che potevo. Allora non sapevo quello che facevo. Ero nella nebbia. Ebbene, ci fu questo suicidio, – disse Faunia. – Nei boschi intorno a Blackwell. Con un fucile da caccia. Caricato a pallini. Il corpo era stato portato via. Una donna che conoscevo, questa ubriacona, Sissie, mi chiese di andare su ad aiutarla. Voleva andare su a pulire. «So che questo ti sembrerà strano, – mi disse, – ma so che hai lo stomaco forte e ci sai fare. Puoi darmi una mano?» C'erano un uomo e una donna che abitavano là, e i loro figli, e ci fu una discussione, e lui andò nell'altra stanza e si fece saltare le cervella. «Voglio andare su a pulire», mi fa Sissie, e allora sono andata su con lei. Avevo bisogno di soldi, e non sapevo quello che facevo, così ci sono andata. L'odore della morte. Ecco quello che ricordo. Metallico. Del sangue. L'odore. Cominciai a sentirlo solo quando ci mettemmo a pulire. Non faceva molto effetto finché il sangue non veniva toccato dall'acqua calda. Questo posto è una capanna di tronchi. Sangue sulle pareti, dappertutto. Bang! E ti schizza sulle pareti, dappertutto. Quando ci passavamo l'acqua calda e il disinfettante... Puah, avevo i guanti di gomma, mi toccò di mettere una maschera perché non resistevo più nemmeno io. E schegge d'osso sulla parete, appiccicate al sangue. Si era ficcato la canna in bocca. Bang! E una distesa di ossa e di denti. Che scena. Era tutto là. Ricordo di avere guardato Sissie. La guardai, e lei stava scuotendo la testa. «Perché cazzo lo facciamo, anche se ci danno tanti soldi?» Terminammo il lavoro meglio che potemmo. Cento dollari l'ora. Che erano ancora pochi, dico io. – Quale sarebbe stato il prezzo giusto? – sentii Coleman chiedere a Faunia. – Mille. Appiccarle il fuoco e bruciare quella capanna del cazzo. Non c'era un prezzo giusto. Sissie uscì. Non ce la faceva più. Ma io, con due bambini morti, con quel maniaco di Lester che mi seguiva dappertutto, giorno e notte a rodermi il fegato, chi se ne frega? Mi misi a rovistare. Perché io posso essere così. Volevo sapere perché diavolo questo tizio l'aveva

fatto. Mi ha sempre affascinato. Perché la gente si toglie la vita. Perché diventano dei pluriomicidi. La morte in generale. Semplicemente affascinante. Guardai le fotografie. Guardai se là dentro c'era la felicità. Frugai in tutta la capanna. Finché arrivai all'armadietto dei medicinali. I farmaci. I flaconi. Niente felicità, là dentro. La sua piccola farmacia. Antidepressivi, immagino. Roba che avrebbe dovuto prendere e non aveva preso. Era chiaro che cercava di farsi aiutare, ma non poteva. Non poteva prendere le medicine. – Come lo sai? – chiese Coleman. – Immagino. Non lo so. Questa è la mia storia. La mia storia. – Forse prese quella roba e si uccise comunque. – E' possibile, – disse lei. – Il sangue. Il sangue è appiccicoso. Era asso lutamente impossibile togliere il sangue dal pavimento. Straccio dopo straccio dopo straccio, il pavimento aveva sempre quel colore. Alla fine prese una tinta che tirava al salmone, ma eri sempre incapace di levarlo. Come se fosse una cosa ancora viva. Un disinfettante di quelli tosti... Inutile. Metallico. Dolciastro. Nauseante. Io non ho vomitato. Mi sforzavo di pensare ad altro. Ma ci sono andata vicina. – Quanto tempo ci volle? – chiese lui. – Rimanemmo là per cinque ore o giù di lì. Io giocavo al detective dilettante. Lui era fra i trenta e i quarant'anni. Non so cosa facesse. Rappresentante o qualcosa. Personalità silvestre. Montanaro. Grossa barba. Capelli incolti. Lei era piccolina. Viso dolce. Pelle chiara. Capelli scuri. Occhi neri. Molto timida. Impaurita. Ecco tutto quello che ricavo dalle fotografie. Lui era il tipo del montanaro grande e grosso e lei questa persona timidissima. Non so. Ma voglio sapere. Ero una minorenne emancipata. Avevo smesso di studiare. Non potevo andarci, a scuola. A parte ogni altra cosa, era una noia! Tutte queste cose vere che succedevano nelle case della gente. Che succedevano, regolari come la morte, in casa mia. Come potevo andare a scuola a imparare qual era la capitale del Nebraska? Io volevo sapere. Volevo uscire e guardarmi intorno. Ecco perché sono andata in Florida, ed ecco perché ho girato dappertutto, ecco perché ficcavo il naso in quella casa. Solo per guardarmi intorno. Volevo conoscere il peggio. Qual è il peggio? Tu lo sai? Quando lui lo fece, lei era là. Quando arrivammo, era in mano allo psichiatra. – E' questa la cosa peggiore che hai dovuto fare? Il lavoro peggiore che ti è capitato di dover fare? – Grottesco. Sì. Ho visto tante cose. Ma quella... non era soltanto grottesca. Da un altro punto di vista, era affascinante. Volevo sapere perché. Voleva sapere qual è il peggio. Non il meglio, il peggio. E con questo intendeva la verità. Cos'è la verità? Lui allora glielo disse. Dopo Ellie, la prima a scoprirlo. La prima dopo Ellie. Perché in quel momento lui l'amava, vedendola pulire il sangue. Fu il momento in cui si sentì più vicino a

lei. Possibile? Fu il momento in cui Coleman si sentì più vicino a qualcuno. L'amava. Perché è così quando ami qualcuno: quando li vedi pronti ad affrontare il peggio. Non coraggiosi. Non eroici. Solo pronti. Lui non aveva riserve su di lei. Nessuna. Era una cosa che andava oltre i calcoli e i ragionamenti. Era una cosa istintiva. Qualche ora dopo avrebbe potuto rivelarsi una pessima idea, ma in quel momento no. Lui si fida di lei: ecco com'è. Si fida: ha raschiato il sangue dal pavimento. Lei non è religiosa, non è un'ipocrita, non è deturpata dalla favola della purezza, per quanto possa essere stata sfigurata da altre perversioni. Non le interessa giudicare: ha visto troppe cose per queste cazzate. E non scapperà come Steena, qualunque cosa io dica. – Cosa penseresti, – le chiese, – se ti dicessi che io non sono bianco? In un primo momento si limitò a guardarlo: se stupefatta, stupefatta per una frazione di secondo e non di più. Poi si mise a ridere, scoppiò nella risata che era il suo marchio di fabbrica. – Cosa penserei? Penserei che tu mi stai dicendo una cosa che ho pensato tanto tempo fa. – Non è vero. – Ah, no? Io so che cosa sei. Ci sono vissuta, nel Sud. Li ho incontrati tutti. Certo che lo so. Altrimenti, come potresti piacermi tanto? Perché sei un professore universitario? Sarei fuori di testa, se fosse così. – Non ti credo, Faunia. – Fa' come ti pare, – disse lei. – Hai finito l'interrogatorio? – Quale interrogatorio? – Sul lavoro peggiore che ho fatto. – Certo, – disse lui. E poi attese il suo sul fatto che lui non era bianco. Ma le domande non arrivarono mai. Pareva che in realtà non gliene importasse nulla. E non scappò via. Quando lui le raccontò tutta la storia, lei lo ascoltò, sicuro, ma non perché la trovasse incredibile, inverosimile o strana: e di certo non era biasimevole. No. Le parve solo una di quelle cose che capitano nella vita. In febbraio ricevetti una telefonata di Ernestine, forse perché era il Mese della Storia dei Neri e lei si ricordava di avermi spiegato chi erano Matthew Henson e il dottor Charles Drew. Forse pensava che fosse venuto il momento di riprendere a educarmi sulla razza, toccando in particolare tutti i punti dai quali Coleman aveva preso le distanze, quel mondo di East Orange bell'e fatto e pieno fino all'orlo, quelle quattro miglia quadrate traboccanti dei più aderenti dettagli individuali, il solido, lirico zoccolo duro di un'infanzia felice, tutte le salvaguardie, le devozioni, le battaglie, la legittimità data per scontata, una situazione in cui non c'era nulla di teorico, nulla di specioso o d'illusorio: tutta l'invidiabile materia di un inizio fortunato, vibrante di eccitazione e di buonsenso, che Coleman, suo fratello,

aveva cancellato. Con mia sorpresa, dopo avermi informato che la domenica successiva Walter Silk e sua moglie sarebbero venuti da Asbury Park, Ernestine mi disse che, se per me non fosse stato un disturbo troppo grande guidare fino a East Orange, sarei stato il benvenuto al loro pranzo domenicale. – Lei voleva conoscere Walt. E io ho pensato che forse avrebbe gradito vedere la casa. Ci sono degli album di fotografie. C'è la stanza di Coleman, dove dormivano Coleman e Walter. Ci sono ancora i letti gemelli. Dopo di loro è diventata la stanza di mio figlio, ma i due telai di acero sono sempre lì. Ero stato invitato a vedere il piccolo universo della Famiglia Silk che Coleman aveva buttato a mare, come se fosse un peso, per vivere in una sfera commisurata alla sua scala di valori: per diventare un'altra persona, la persona che gli andava bene, e forgiarsi il proprio destino lasciandosi soggiogare da altre cose. Tutto aveva buttato a mare, tutta l'ampia e ramificata negritudine, pensando di non potersene disfare in altri modi. Tanta smania, tanti progetti, tanta passione e astuzia e dissimulazione, per saziare la voglia di andare via di casa e cambiar pelle. Per diventare un nuovo essere umano. Per biforcarsi. Il dramma che è alla base della storia americana, il grande dramma che è saltar su e andarsene; e l'energia e la crudeltà richieste da questo frenetico impulso. – Verrei molto volentieri, – dissi. – Non garantisco niente, – disse lei. – Ma lei è un adulto. Sa badare a se stesso. Risi. – Cosa intende dire? – Anche se Walter va per gli ottanta, è sempre una specie di vulcano. Quello che dice non le piacerà. – Sui bianchi? – Su Coleman. Sul bugiardo calcolatore. Sul figlio senza cuore. Sul traditore della sua razza. – Gli ha detto che è morto. – Ho deciso di dirglielo. Sì, gliel'ho detto. Siamo una famiglia. Gli ho detto tutto. Due o tre giorni dopo arrivò per posta una fotografia con un biglietto di Ernestine. «Ho trovato questo e pensato alla nostra visita. La tenga pure, se vuole, come ricordo del suo amico Coleman Silk». Era una foto sbiadita in bianco e nero formato cartolina scattata più che probabilmente nel cortile di qualcuno con una Brownie, un'istantanea di Coleman come macchina da pugni che il suo avversario si troverà di fronte quando suonerà la campana. Non poteva aver avuto più di quindici anni, anche se quei tratti finemente incisi che avevano dato all'uomo un'aria così simpatica e infantile conferivano al ragazzo l'espressione di un adulto. Coleman ostenta, nella fotografia, proprio come un professionista, l'aria minacciosa, lo sguardo fisso del carnivoro in cerca di preda, in un volto da cui tutto è stato sradicato tranne

la voglia di vincere e la capacità di distruggere. Questo sguardo è orizzontale, e parte da lui come un comando, mentre il mento piccolo e aguzzo affonda nella spalla magra. I guantoni sono tesi davanti a lui nella classica posizione di partenza – come se dentro non ci fossero soltanto due pugni, ma tutto lo slancio dei suoi quindici anni – e ciascuno dei due è più grosso del suo viso. Si ha l'impressione subliminale di un ragazzo con tre teste. Sono un boxeur, annuncia sfrontatamente quella posa intimidatoria, io non li mando solo al tappeto, li faccio a pezzi. Li surclasso finché non abbandonano il combattimento. Inconfondibilmente, è il fratello che Ernestine aveva battezzato «Signor Deciso»; e «Signor Deciso», in quella che doveva essere la calligrafia di Ernestine da ragazza, era scritto sul dorso della fotografia in un pallido inchiostro stilografico blu. E' un bel tipo anche lei, pensai, e trovai un portaritratti di plastica trasparente per il piccolo boxeur e lo misi sullo scrittoio. L'audacia di quella famiglia non cominciava e non finiva con Coleman. E' un dono audace, pensai, da parte di una donna ingannevolmente audace. Mi chiedevo che intenzioni avesse invitandomi a casa sua. Mi chiedevo che intenzioni avessi io accettando l'invito. Era strano pensare che la sorella di Coleman e io ci fossimo intesi così bene: strano, però, solo se si teneva presente che tutto ciò che riguardava Coleman era dieci, venti, centomila volte più strano. L'invito di Ernestine, la fotografia di Coleman: fu così che partii per East Orange la prima domenica di febbraio, dopo che il senato aveva votato contro la destituzione di Clinton dalla carica; e fu così che venni a trovarmi su una remota strada di montagna che nei miei viavai locali non prendo quasi mai, ma che mi serve da scorciatoia tra la mia casa e la Route 7. E fu così che notai, fermo ai margini di un grande campo davanti al quale altrimenti sarei passato di volata, lo scassato pick–up grigio con l'adesivo dei prigionieri di guerra e dei dispersi sul paraurti che, ne ero certo, doveva essere quello di Les Farley. Vidi quel pick–up, compresi in qualche modo che era il suo e, incapace di proseguire, incapace di registrare la sua presenza e tirar dritto, frenai e mi fermai. Feci marcia indietro finché la mia macchina fu davanti alla sua e, sul ciglio della strada, parcheggiai. Credo di non essere mai stato pienamente consapevole di stare facendo quello che facevo (altrimenti, come avrei potuto farlo?), ma erano passati quasi tre mesi durante i quali la vita di Coleman Silk mi era diventata più cara della mia, e perciò era impensabile che io fossi in un posto diverso da quello, al freddo, su quella montagna, con la mano guantata sul cofano del medesimo veicolo che, viaggiando a tutta birra contromano, aveva costretto Coleman a sterzare, a sfondare il guardrail e, con Faunia al suo fianco, a cadere nel fiume la sera prima del suo settantaduesimo compleanno. Se quella era l'arma del delitto, l'assassino non poteva essere lontano. Quando mi resi conto di dove stavo andando (e ripensai a com'era sorprendente ricevere notizie da Ernestine, essere invitato a conoscere Walter,

pensare tutto il giorno, spesso fino alle ore piccole, a qualcuno che avevo frequentato per meno di un anno, e mai come il più caro degli amici), il corso degli eventi mi sembrò abbastanza logico. E' quello che succede quando uno scrive libri. Non è solo una cosa che ti spinge a scoprire tutte le altre: è una cosa che comincia a buttartele tra i piedi. Improvvisamente non esiste una sola strada secondaria che non porti difilato alla tua ossessione. E allora fai quello che feci io. Coleman, Coleman, Coleman, tu che non sei più nessuno ora governi la mia esistenza. Non potevi scrivere il libro, e questo è naturale. Il libro lo avevi già scritto: era la tua vita. Scrivere personalmente significa esporre e occultare al tempo stesso, ma con te poteva essere solo occultamento, e perciò non avrebbe mai funzionato. Il tuo libro era la tua vita... E la tua arte? Una volta avviato il meccanismo, la tua arte consisteva nell'essere un bianco. Nell'essere, come dice tuo fratello, «più bianco dei bianchi». Quella è stata la tua singolare invenzione: ogni giorno ti svegliavi per essere la persona in cui ti eri trasformato. Per terra non c'era quasi più neve, solo chiazze che formavano una ragnatela sulle stoppie in aperta campagna, senza sentieri da seguire; perciò attraversai il primo campo in linea retta fino all'altro lato, dove c'era un filare di alberi radi, e tra gli alberi si vedeva un altro campo; e da lì continuai a camminare fino a raggiungere il secondo campo, e attraversai anche quello, quello e un altro filare di alberi più fitti, con un sottobosco di alti sempreverdi, e dall'altra parte c'era l'occhio sfavillante di un lago ghiacciato, ovale e appuntito alle due estremità, con colline brunastre punteggiate di neve tutt'intorno e le montagne, dall'aria carezzevole, digradanti in lontananza. Dopo essermi allontanato di circa cinquecento metri dalla strada, ero entrato, no, mi ero introdotto abusivamente – era quasi un senso d'illegalità, quello che provavo –, avevo sconfinato in un ambiente incorrotto, oserei dire, inviolato, sereno e intatto come quello che circonda ogni specchio d'acqua interno del New England. Ti dava un'idea, come fanno questi posti (che proprio per questo sono tanto apprezzati), di come doveva essere il mondo prima dell'arrivo dell'uomo. La forza della natura è talvolta un potente lenitivo, e quello era un posto che ti calmava, che t'invitava ad accantonare le tue banali riflessioni senza metterti, nello stesso tempo, troppo in soggezione ricordandoti quel niente che è l'arco di una vita e la vastità dell'estinzione. Era tutto su una scala tranquillamente al di qua del sublime. Si poteva assorbire la bellezza senza sentirsi rimpiccioliti o invasi dalla paura. Là sul ghiaccio, quasi a metà strada, c'era una figura solitaria con una tuta bruna e un berretto nero seduta su un tozzo secchio giallo, curva sopra un foro nel ghiaccio con una corta canna da pesca tra le mani guantate. Non mi avventurai sul ghiaccio finché non vidi che aveva alzato gli occhi e si era accorto della mia presenza. Non volevo né coglierlo di sorpresa né

dargli in alcun modo l'impressione di essere intenzionato a farlo; no, se il pescatore era proprio Les Farley. Se quello era Les Farley, non era uno che potesse venirti la voglia di cogliere alla sprovvista. Naturalmente pensai di fare marcia indietro. Pensai di tornare sulla strada, salire in macchina, procedere fino alla Route 7 direzione sud e attraversare il Connecticut fino alla 684 e alla Garden State Parkway. Pensavo di dare un'occhiata alla camera da letto di Coleman. Pensavo di dare un'occhiata a suo fratello che, per ciò che Coleman aveva fatto, non poteva smettere di odiarlo anche dopo la sua morte. Pensavo solo a questo, e nient'altro, mentre attraversavo la bianca distesa per dare un'occhiata all'assassino di Coleman. Fino al punto dove dissi: – Salve. Come va? – pensai: che gli arrivi addosso di soppiatto o ti fai vedere da lontano, non cambia nulla. In entrambi i casi, sei il nemico. Su questa scena vuota e imbiancata dal ghiaccio, l'unico nemico. – Abboccano? – dissi. – Oh, né troppo, né poco –. Scoccò appena un'occhiata dalla mia parte prima di tornare a concentrare l'attenzione sul foro nel ghiaccio, uno dei dodici o quindici identici fori praticati in un ghiaccio duro come la pietra e sparsi a casaccio su qualche decina di metri quadrati di lago. Molto probabilmente i fori erano stati praticati con l'arnese che giaceva ad appena qualche passo di distanza dal secchio giallo, che in realtà era un fusto di detersivo da sette galloni. L'ordigno perforante era formato da un'asta metallica lunga circa un metro e venti che finiva con una larga lama cilindrica a spirale, un arnese serio e robusto la cui punta minacciosa – fatta girare dalla manovella che si trovava in cima – brillava come nuova alla luce del sole. Una trivella. – Risponde allo scopo, – borbottò. – Per passare il tempo. Era come se io non fossi la prima, ma la cinquantesima persona capitata per caso da quelle parti e venuta a chiedere, in mezzo a un lago ghiacciato a cinquecento metri di distanza da una strada secondaria di montagna, come andava la pesca. Poiché Farley portava un berretto da marinaio di lana nera calato sulla fronte e sulle orecchie, e poiché sfoggiava una barba scura brizzolata e due folti baffi, di visibile c'era solo una fettina del suo viso che, se si caratterizzava per qualcosa, si caratterizzava per la sua larghezza: una faccia oblunga e scialba orientata sull'asse orizzontale. Le sopracciglia scure erano lunghe e folte, gli occhi blu e distanziati tra loro, mentre, centrato sopra i baffi, c'era il naso piccolo e a patata di un bambino. In quella fettina di se stesso che Farley esponeva, tra la bocca pelosa e il berretto di lana, erano al lavoro principî di ogni genere, sia geometrici che psicologici, e nessuno sembrava compatibile con gli altri. – Bel posto, – dissi. – Ecco perché sto qui. – Pacifico.

– Vicino a Dio, – disse lui. – Sì? E' così che si sente? Al che lui perse la spigolosità, uscì dal guscio del proprio mondo interiore, cambiò in parte l'umore in cui lo avevo trovato e parve disposto a vedere nel nostro incontro qualcosa di più di una semplice, insignificante distrazione. La sua posa non cambiò (sempre quella di un uomo che pescava più che di uno che avesse voglia di chiacchierare), ma almeno una piccola parte della sua aura asociale fu dissipata da una voce più calda e ponderata di quella che mi sarei aspettato. Meditabonda, potreste anche chiamarla, ma in un modo drasticamente impersonale. – E' in cima a una montagna, – disse. – Non ci sono né case, né ville. Non ci sono cottage sul lago –. Dopo ogni dichiarazione, una pausa per raccogliere le idee: osservazioni convinte, silenzi tesi. Non era facile capire, alla fine di una frase, se aveva terminato. – Non c'è molto movimento, quassù. Non c'è molto rumore. Dieci ettari di lago. Nessuno di quei tizi con le trivelle a motore. Né il rumore che fanno, né la puzza della benzina. Trecento ettari di buona terra e di bosco. E' una zona bellissima. Pacifica e silenziosa. E pulita. E' un posto pulito. Lontano dal trambusto e dalla pazzia che c'è dappertutto –. E alla fine l'occhiata dal basso in alto per studiarmi. Per valutarmi. Una rapida occhiata che per il novanta per cento era opaca e illeggibile e per il dieci di un'allarmante trasparenza. Ch'io vedessi, in quell'uomo non c'era ombra di umorismo. – Finché riuscirò a tenerlo nascosto, – disse, – resterà com'è. – Giusto, – dissi io. – Loro vivono in città. Vivono nel trambusto del lavoro quotidiano. La pazzia al lavoro. La pazzia sul posto di lavoro. La pazzia quando torni a casa. Il traffico. Gli ingorghi. Loro ci sono dentro. Io no. Non c'era bisogno di chiedere chi fossero «loro». Potevo abitare lontano dalla città, potevo non essere il proprietario di una trivella a motore, ma ero «loro», eravamo tutti «loro», tutti tranne l'uomo accovacciato su quel lago che si dondolava la corta canna da pesca tra le mani e parlava rivolto al foro nel ghiaccio, comunicando deliberatamente più con l'acqua gelida sotto i nostri piedi che con me – cioè con «loro». – Ogni tanto da queste parti può capitare un escursionista, o uno che fa sci di fondo, o uno come lei. Vede il mio pick–up, in un modo o nell'altro mi vedono quassù, e allora vengono da questa parte, e quando sei qui sul ghiaccio hai l'impressione... Gente come lei, che non va a pesca... – e a questo punto alzò lo sguardo per contemplare ancora una volta, per rilevare, gnosticamente, la mia imperdonabile appartenenza al «loro» mondo. – Immagino che lei non sia un pescatore. – No. Ho visto il suo pick–up. E' una bella giornata e stavo facendo solo un giro in macchina. – Be', loro sono come lei, – disse lui, come se non avesse mai avuto la

minima incertezza su di me dal momento in cui ero apparso sulla riva. – Loro si avvicinano sempre, se vedono un pescatore, e sono curiosi, e ti chiedono cos'hai preso, sa? Allora, sa cosa faccio, io?... – Ma qui parve che la sua mente si fermasse, bloccata da un pensiero: cosa sto facendo? Perché diavolo continuo a parlare? Quando riattaccò, tutt'a un tratto mi colse una tale paura che il cuore prese a battermi all'impazzata. Ora che gli ho rovinato la giornata, pensai, ha deciso di divertirsi un po' con me. Sta fa cendo il suo numero, adesso. Ha smesso i panni del pescatore ed è ridiventato Les, con tutto quello che è e non è. – Allora, sa cosa faccio, io? – seguitò. – Se ho dei pesci qui sul ghiaccio, faccio quello che ho fatto quando ho visto lei. Raccolgo immediatamente tutti i pesci che ho preso e li metto in una borsa di plastica e li metto nel secchio, il secchio sul quale sono seduto. Così adesso i pesci sono nascosti. E quando la gente si avvicina e dice: «Abboccano?» io dico: «Per niente. Mi sa tanto che qui non c'è un bel niente». Magari ne ho presi già trenta. Una giornata eccellente. Ma a loro dico: «No, tra poco me ne vado. Sono qui da due ore e non ne ho preso uno». Così, ogni volta, loro girano sui tacchi e se ne vanno. Vanno in qualche altro posto. E spargono la voce che lo stagno, quassù, non vale niente. Ecco come custodisco il segreto. Forse, in definitiva, sono un po' disonesto. Ma questo posto è il segreto meglio difeso del mondo intero. – E ora lo so anch'io, – dissi. Vedendo che era impossibile strappargli una risata complice mentre faceva lo gnorri con gli intrusi come me, impossibile farlo rilassare sorridendo di ciò che aveva detto, non ci provai nemmeno. Mi rendevo conto che, anche se forse tra noi non era stato detto nulla di natura veramente personale, per decisione sua, non mia, eravamo andati troppo in là perché un sorriso potesse servire a qualcosa. Ero impegnato in una conversazione che, in quel posto remoto, glaciale e isolato, sembrava all'improvviso della massima importanza. – So anche che sta seduto sopra un mucchio di pesci, – dissi. – In quel secchio. Quanti, oggi? – Be', lei ha l'aria di un uomo capace di tenere un segreto. Trenta, trentacinque circa. Sì, lei sembra un uomo retto. Credo di riconoscerla, comunque. Non è l'autore? – In persona. – Certo. So dove abita. Oltre la palude dove c'è l'airone. La casa di Dumouchel. La casetta di Dumouchel che c'è là. – Dumouchel è la persona dalla quale l'ho comprata. Mi dica, allora, visto che sono un uomo capace di tenere un segreto, perché lei sta seduto qui e non là? Tutto questo grande lago gelato. Come mai, per pescare, ha scelto proprio questo punto? – Anche se, in realtà, lui non stava facendo tutto il possibile per trattenermi, pareva che io, da solo, stessi facendo tutto il possibile per non andare via. – Be', non si sa mai, – disse. – Cominci dove li hai presi l'ultima volta.

Se l'ultima volta hai pescato bene, parti sempre da lì. – Questo risolve il problema. Me lo chiedevo sempre –. Ora vattene, pensai. Basta così. La conversazione è più che sufficiente. Ma era il fatto di sapere chi era che mi spingeva a rimanere. La sua stessa persona mi spingeva a rimanere. Queste non erano congetture. Non erano riflessioni. Questo non era il modo di pensare dello scrittore di fantasia. Questa era la cosa stessa. Le norme di prudenza che, fuori del mio lavoro, avevano regolato così rigidamente la mia vita negli ultimi cinque anni furono improvvisamente sospese. Non avevo potuto fare marcia indietro mentre attraversavo la superficie ghiacciata del lago e ora non potevo voltarmi e fuggire. Il coraggio non c'entrava. Non c'entravano né la ragione né la logica. Lui era lì. Ecco l'unica cosa che contava. Quella, e la mia paura. Con la tuta pesante marrone, il berretto nero da marinaio e gli stivali di gomma neri con la suola spessa, con le grosse mani infilate in un paio di guanti mimetici da cacciatore (o da soldato) con le mezze dita, ecco l'uomo che ha ucciso Coleman e Faunia. Ne sono sicuro. Non sono usciti di strada e caduti nel fiume da soli. Ecco l'assassino. E' lui. Come posso andare via? – C'è sempre pesce? – gli chiesi. – Quando torna nel posto dov'era stato prima? – Nossignore. I pesci si muovono a banchi. Sotto il ghiaccio. Un giorno sono all'estremità settentrionale dello stagno, il giorno dopo potrebbero essere all'estremità meridionale dello stagno. Magari saranno, ogni tanto, due volte di seguito nello stesso posto. Saranno ancora lì. Quello che tendono a fare, i pesci tendono a stare tutti insieme, e non si muovono moltissimo perché l'acqua è molto fredda. Sono in grado di adattarsi alla temperatura dell'acqua e, poiché l'acqua è così fredda, non si muovono molto e non hanno bisogno di molto cibo. Ma se capiti in un'area dove i pesci si sono raggruppati, ne prenderai una quantità. Mentre certi giorni puoi anche andare nello stesso stagno – non è mai possibile batterlo per intero – e allora potresti provare in cinque o sei posti diversi, fare i buchi e non beccarne uno. Non prendere mai un pesce. Non hai trovato il banco, tutto qui. E allora stai lì seduto e basta. – Vicino a Dio, – dissi. – Proprio così. La sua parlantina – perché era l'ultima cosa che mi aspettavo – mi affascinava, come la precisione con cui descriveva di buon grado la vita in uno stagno quando l'acqua è fredda. Come sapeva che io ero «l'autore»? Sapeva anche che ero amico di Coleman? Sapeva anche che ero andato al funerale di Faunia? Immaginavo che a questo punto nella sua testa ronzassero molte domande su di me (e sulla mia missione in quel posto), come ronzavano nella mia sul conto suo. Quel grande spazio luminoso e arcuato, la fredda cupola di una montagna che regge sulla vetta un ovale piuttosto grande d'acqua dolce ghiacciata e dura come un sasso, l'antica attività che è la vita

di un lago, che è la formazione del ghiaccio, che è il metabolismo dei pesci, tutte le forze insondabili ed eterne caparbiamente all'opera... E' come se ci fossimo incontrati in cima al mondo, due cervelli nascosti che ticchettano sospettosamente, l'odio reciproco e la paranoia l'unica introspezione che ci sia. – E allora cosa pensa, – chiesi, – se non prende niente? Cosa pensa quando non abboccano? – Le dirò cosa stavo pensando. Stavo pensando un mucchio di cose. Stavo pensando a Willie il Falso. Stavo pensando al nostro presidente, alla fortuna sfacciata che ha avuto. Stavo pensando a quell'uomo, che casca sempre in piedi, e stavo pensando alla gente che non se la scapola mai. Quelli che non si sono imboscati e non hanno evitato il servizio militare. Non lo trovo giusto. – Vietnam, – dissi. – Già. Andavamo su con quegli elicotteri del cazzo – la seconda volta ero mitragliere allo sportello – e quello che stavo pensando era quando siamo entrati nel Vietnam del nord per andare a prendere questi due piloti. Stavo qui seduto pensando a quel momento. E a Willie il Falso. Quel figlio di puttana. Pensavo a quello stronzo figlio di puttana che si fa succhiare il cazzo nell'Ufficio Ovale a spese dei contribuenti, e poi pensavo a questi due piloti, che stavano bombardando il porto di Hanoi quando furono presi in pieno, e noi captammo il segnale alla radio. Il nostro non era neanche un elicottero da salvataggio, ma ci trovavamo in zona, e quelli diedero l'Sos dicendo che stavano per lanciarsi, perché erano a una quota che, se non si fossero lanciati, si sarebbero schiantati contro il suolo. Non era neanche un elicottero da salvataggio – era un grosso elicottero dotato di armamento pesante – ma decidemmo di correre il rischio per salvare due vite. Non chiedemmo neanche il permesso di andare lassù, ci andammo e basta. Si agisce d'istinto, così. Eravamo tutti d'accordo, i due mitraglieri, il pilota, il copilo ta, anche se le probabilità non erano tanto buone perché ci mancava la co pertura. Ma ci andammo lo stesso, per tentare di raccoglierli. Mi sta raccontando una storia di guerra, pensai. E lo sa. C'è qualcosa, qui, che vuole dirmi. Qualcosa che vuole che io porti via con me, fino alla riva del lago, alla macchina, alla casa di cui conosce l'ubicazione: ne conosce l'ubicazione e vuole che io sappia che la conosce. Vuole che io la porti via con me come «l'autore»? O come un'altra persona? Come una persona che conosce uno dei suoi segreti, un segreto ancora più grosso del segreto di questo stagno? Vuole che io sappia che non molte persone hanno visto ciò che ha visto lui, sono state dov'è stato lui, hanno fatto ciò che ha fatto lui e che, in caso di necessità, sarebbe ancora capace di fare. Ha assassinato nel Vietnam e ha portato con sé l'assassino nei Berkshire, quando ha lasciato il paese della guerra, il paese dell'orrore, ed è tornato in quest'altro posto dove la gente non vuole capire.

La trivella posata sul ghiaccio. Il candore della trivella. Il nostro odio non poteva trovare un'espressione più forte del crudele acciaio di quella trivella là in mezzo al nulla. – Diciamo: okay, se dobbiamo morire, moriremo. Così siamo andati lassù puntando sui loro segnali, abbiamo visto un paracadute e siamo atterrati nella radura, e abbiamo raccolto quel tizio senza nessuna fatica. Lui è saltato dentro, noi lo abbiamo tirato su e siamo decollati, senza la minima opposizione. Allora gli abbiamo detto: «Hai qualche idea?» e lui ha detto: «Be', andava da quella parte». Allora ci siamo alzati, ma ormai loro sapevano che eravamo là. Ci siamo spinti un po' più lontano per cercare l'altro paracadute, ed è scoppiato l'inferno. Era incredibile, glielo dico io. Non siamo riusciti a raccoglierlo, il secondo. Sull'elicottero si era abbattuta una gragnola di colpi da non credere. Tin pin pin bum... Mitragliatrici. Il fuoco della contraerea. Non abbiamo potuto far altro che virare e squagliarcela più in fretta che si poteva. E ricordo che il ragazzo che avevamo raccolto si mise a piangere. Ecco dove volevo arrivare. Era un pilota di marina. Erano decollati dalla Forrestal. E lui sapeva che l'altro era morto o era stato catturato, e si è messo a frignare. Era orribile, per lui. Il suo compagno. Ma non potevamo tornare indietro. Non potevamo rischiare l'elicottero e cinque uomini. Fu una fortuna che ne trovassimo uno. Poi siamo tornati alla base e siamo scesi a terra e abbiamo dato un'occhiata all'elicottero e sull'elicottero c'erano centocinquantuno fori di proiettili. Mai colpito un giunto idraulico, un tubo del carburante, ma i rotori erano tutti ammaccati, un sacco di proiettili avevano colpito i rotori. Li avevano piegati. Se colpiscono il rotore di coda, vai giù, ma quello non l'avevano colpito. Sa che hanno abbattuto cinquemila elicotteri durante quella guerra? Duemilaottocento caccia a reazione abbiamo perso. Nei bombardamenti ad alta quota sopra il Vietnam del nord hanno perso duecentocinquanta B–52. Ma questo il governo non te lo dice mai. Questo no. Ti dicono quello che ti vogliono dire. Non è mai Willie il Falso a farsi beccare. Quello che si fa beccare è l'uomo che è stato sotto le armi. Sempre così. No, non lo trovo giusto. Sa cosa pensavo? Pensavo che, se avessi un figlio, adesso sarebbe qui con me. A pescare sul ghiaccio. Ecco cosa stavo pensando quando è arrivato lei. Ho alzato lo sguardo e ho visto arrivare qualcuno, e stavo come sognando a occhi aperti, e ho pensato: quello potrebbe essere mio figlio. Non lei, non un uomo come lei, ma mio figlio. – Non ha figli? – No. – Mai sposato? Questa volta non rispose subito. Mi guardò, puntando su di me come se avessi mandato un segnale come quello dei due piloti che stavano per lanciarsi, ma non rispose. Perché sa, pensai. Sa che sono stato al funerale di Faunia. Qualcuno gli ha detto che «l'autore» era là. Che razza di autore cre-

de che sia? Un autore che scrive libri su delitti come questo? Un autore che scrive libri su assassini e assassinati? – Condannato, – disse infine, tornando a guardare nel foro e facendo dondolare la canna, alzandola una dozzina di volte con una torsione del polso. – Il matrimonio era condannato. Sono tornato dal Vietnam con troppa rabbia e troppo risentimento. Avevo dei DSPT. Avevo quelli che chiamano disturbi da stress post–traumatico. Così almeno mi hanno detto. Quando sono tornato, non volevo più saperne di nessuno. Sono tornato, e non riuscivo a interessarmi di nessuna delle cose che succedevano da queste parti, nella vita di tutti i giorni. Era come se fossi stato via per troppo tempo, una cosa assolutamente pazzesca. Mettersi un vestito pulito, e la gente che ti saluta, e la gente che sorride, e la gente che va a una festa, e la gente che guida la macchina... Non ero più capace d'interessarmi di niente. Non riuscivo a parlare con nessuno, non riuscivo a salutare. Per molto tempo mi sono chiuso in me stesso. Salivo sul pick–up, facevo un giro, andavo nel bosco, passeggiavo nel bosco: era una cosa stranissima. Mi ero chiuso fuori di me stesso. Non avevo idea di cosa stesse succedendo. I compagni mi telefonavano e io non li richiamavo. Temevano che io morissi in un incidente stradale, temevano che... Lo interruppi. – Perché temevano che lei morisse in un incidente stradale? – Bevevo. Andavo in giro a bere. – Ha mai avuto incidenti stradali? Sorrise. Non fece una pausa, non mi fissò per costringermi ad abbassare lo sguardo. Non mi scoccò un'occhiata particolarmente minacciosa. Non si alzò in piedi per saltarmi alla gola. Si limitò a fare un sorrisetto, e in quel sorriso c'era più bonarietà di quanta io avessi mai potuto credere. In un modo volutamente spensierato, alzò le spalle e disse: – Non so. Non sapevo cosa mi stava succedendo, capisce? Un incidente? In un incidente? Se fosse vero, non lo saprei. Credo di no. Soffri di quelli che chiamano disturbi da stress post–traumatico. Nell'inconscio hai sempre questa roba, che sei tornato nel Vietnam, che sei ancora sotto le armi. Io non sono un uomo istruito. Non lo sapevo nemmeno. La gente era così incazzata con me per questo e quello, e non sapeva cosa stavo passando, e non lo sapevo nemmeno io, sa? Non ho amici istruiti che s'intendono di queste cose. I miei amici sono degli idioti. Oh, accidenti, idioti al cento per cento veramente garantiti o rimborsati –. Ancora quella spallucciata. Comica? Voleva essere comica? No, era più una dimostrazione di gioconda aggressività. – Cosa posso fare, dunque? – chiese con aria smarrita. Può imbrogliarmi. Giocare con me. Perché lui sa che io so. Eccoci qua, soli, nel posto dove siamo, e io so, e lui sa che io so. E lo sa la trivella. Tutto quello che sapete e tutto quello che dovete sapere, tutto scritto nella spirale d'acciaio della sua lama ricurva.

– Come ha scoperto di avere dei DSPT? – Una ragazza di colore della Veterans Administration. Mi scusi. Un'afroamericana. Un'afroamericana molto intelligente. Aveva un master. Lei ha un master? – No, – dissi. – Be', quella ragazza sì, ed è così che ha scoperto cos'avevo. Altrimenti non lo saprei ancora. E' così che ho cominciato a imparare delle cose su me stesso, quello che stavo passando. Me l'hanno detto loro. E non soltanto a me. Non creda che si trattasse solo di me. Migliaia e migliaia di uomini stavano passando quello che passavo io. Migliaia e migliaia di uomini che, svegliandosi nel cuore della notte, credevano di essere tornati nel Vietnam. Migliaia e migliaia di uomini ai quali la gente telefona e che non rispondono alle telefonate. Migliaia e migliaia di uomini che fanno questi sogni davvero brutti. E così l'ho detto a quest'afroamericana e lei ha capito di cosa si trattava. Perché aveva questo master, capisce, e mi ha detto cosa stava succedendo nel mio inconscio, e che era lo stesso per migliaia e migliaia di altri uomini. L'inconscio. Non lo puoi controllare. E' come il governo. E' il governo. E', ancora una volta, il governo. Che ti fa fare quello che non vuoi fare. Migliaia e migliaia di uomini che si sposano, e il loro matrimonio è condannato, perché hanno nell'inconscio questa rabbia e questo risentimento per il Vietnam. Quella donna mi ha spiegato tutto. Dal Vietnam mi hanno spedito nelle Filippine con un C–41 dell'aeronautica, poi con un aereo della World Airways alla base dell'aeronautica di Travis, e mi hanno dato duecento dollari per andare a casa. Così ci sono voluti, ecco, da quando ho lasciato il Vietnam, ci sono voluti circa tre giorni. Sei tornato alla civiltà. E sei condannato. E tua moglie, anche se sono passati dieci anni, è condannata. E' condannata, e cosa diavolo ha fatto? Niente. – Soffre ancora di DSPT? – Be', ho ancora la tendenza a isolarmi, no? Cosa crede che faccia, da queste parti? – Ma ha smesso di bere quando deve guidare, – mi sentii dire. – Non ha più avuto incidenti. – Non ce ne sono mai stati, di incidenti. Non ha sentito? Gliel'ho già detto. No, ch'io sappia. – E il matrimonio era condannato. – Oh, sì. Colpa mia. Al cento per cento. Lei era una donna adorabile. Del tutto innocente. Tutta colpa mia. Sempre tutta colpa mia. Lei meritava un uomo molto migliore di me. – Cosa le è successo? – chiesi. Scosse il capo. Una scossa malinconica, un sospiro: tutte balle, balle volutamente trasparenti. – Non ne ho idea. L'ho tanto impaurita che è scappata. Le ho fatto venire una fifa blu. Ho molta comprensione per lei, ovunque possa essere. Una donna che non aveva nessuna colpa.

– Niente figli? – No. Niente figli. E lei? – mi chiese. – No. – Sposato? – Non più, – dissi. – Allora siamo nella stessa barca. Liberi come l'aria. Che libri scrive, lei? Gialli? – Non direi. – Storie vere? – Qualche volta. – Cosa? Storie d'amore? – chiese, sorridendo. – Niente pornografia, spero –. Finse che fosse un'idea non richiesta dalla quale gli seccava anche solo essere sfiorato. – Spero proprio che il nostro autore locale non se ne stia lassù nella casetta di Mike Dumouchel a scrivere e a pubblicare pornografia. – Scrivo libri che parlano di persone come lei, – dissi. – Davvero? – Sì. Persone come lei. I loro problemi. – Qual è il titolo di uno dei suoi libri? – La macchia umana. – Sì? Dove posso trovarlo? – Non è ancora uscito. Non è ancora finito. – Lo comprerò. – Gliene manderò una copia. Come si chiama, lei? – Les Farley. Sì, me lo mandi. Quando l'avrà finito, me lo mandi presso il garage municipale. Garage Municipale. Route 6. Les Farley –. Tornando a punzecchiarmi, punzecchiando tutti – se stesso, i suoi amici, «il nostro autore locale» – disse, già ridendo dell'idea: – Io e i ragazzi lo leggeremo –. Più che ridere sonoramente, era come se rosicchiasse l'esca di una fragorosa risata, e l'annusasse e le girasse intorno senza affondarvi i denti. Vicino all'amo di una pericolosa ilarità, ma non tanto vicino da inghiottirlo. – Lo spero, – dissi. Non potevo girare sui tacchi e andarmene proprio in quel momento. Non su quella nota, non con lui che faceva un altro passo fuori del proprio incognito emotivo, non con la possibilità di scrutare un po' più a fondo nella sua mente. – Lei com'era, prima di andare sotto le armi? – gli chiesi. – E' per il suo libro? – Sì. Sì –. Fui io, adesso, a scoppiare in una sonora risata. Quasi senza volere, in un forte e ridicolo tono di sfida, dissi stupidamente: – E' tutto per il mio libro. E adesso rise anche lui con più abbandono. Su quel manicomio d'un lago. – Lei era un tipo socievole, Les?

– Sì, – disse. – Certo. – Con la gente? – Sì. – Si divertiva volentieri con loro? – Sì. Tonnellate di amici. Macchine veloci. Tutte quelle cose, sa. Io lavoravo sempre. Ma quando non lavoravo, sì. – E pescate tutti sul ghiaccio, voi reduci dal Vietnam? – Non so –. Ancora una volta quel riso esitante. Pensavo: per lui è più facile ammazzare qualcuno che riuscire a divertirsi sul serio. – Ho cominciato a pescare sul ghiaccio – disse – non tanto tempo fa. Dopo che mia moglie è scappata. Ho affittato una piccola baracca, nel bosco, a Dragonfly. Nel bosco, proprio sull'acqua, Dragonfly Pond, e d'estate ero sempre andato a pescare, tutta la vita, ma pescare sul ghiaccio non mi aveva mai interessato. Ho sempre pensato che facesse troppo freddo, sa? Così, il primo inverno che ho passato sullo stagno, e quell'inverno non ero io (i maledetti DSPT!), vedevo passare quest'uomo che andava a pescare. L'ho visto passare un paio di volte, e un giorno mi sono vestito e sono andato fin là e quell'uomo stava pigliando un sacco di pesci, perche gialle e trote e tutto. Pescare in questa stagione, ho pensato allora, è come pescare d'estate, se non meglio. Non devi far altro che coprirti bene e procurarti l'attrezzatura giusta. E ho fatto così. Sono andato a comprarmi una trivella, una bella trivella, – me l'addita, – una canna da pesca col cucchiaino e le esche. Centinaia di esche diverse, si trovano. Centinaia di marche e fabbriche diverse. Di tutte le dimensioni. Fai un buco nel ghiaccio, e ci lasci cadere l'amo con la tua esca preferita: è solo un movimento con la mano, la devi muovere su e giù, capisce? Perché è buio lì, sotto il ghiaccio. Oh, è veramente buio, – mi disse, e per la prima volta nel corso della nostra conversazione mi guardò non con troppa, ma con troppo poca, opacità nel viso, troppo poca falsità, troppo poca doppiezza. Gli vibrava nella voce un'agghiacciante risonanza quando disse: – E' veramente buio –. Un'agghiacciante e straordinaria risonanza che chiarì ogni cosa sull'incidente di Coleman. – Per questo, basta che là sotto ci sia qualcosa che brilla, – soggiunse, – perché i pesci accorrano. Credo si adattino al buio dell'ambiente. No, non è stupido. E' un bruto e un assassino, ma non è così stupido come credevo. Non è il cervello che gli manca. Sotto qualunque maschera, è raro che manchi proprio questo. – Perché devono mangiare, – mi spiega, scientificamente. – Lì sotto trovano da mangiare. E i loro corpi possono adattarsi a quest'acqua freddissima, e i loro occhi al buio. Sono sensibili al movimento. Se vedono brillare qualcosa o magari sentono le vibrazioni dell'esca che si muove, vengono attirati da quella parte. Capiscono che è una cosa viva e che potrebbe essere commestibile. Ma se non la muovi su e giù, non pescherai mai niente. Se io avessi un figlio, vede, che è quello che stavo pensando, gli insegnerei

come si fa. Gli insegnerei a mettere l'esca sull'amo. Ci sono vari tipi di esche, vede, per la maggior parte sono larve di mosca o larve d'ape allevate apposta per la pesca sul ghiaccio. E noi andremmo al centro commerciale, io e Les junior, e le compreremmo nel negozio di articoli per la pesca sul ghiaccio. E le vendono in un barattolino, sa? Se ora avessi il piccolo Les, un figlio mio, vede, se non fossi invece condannato da questi DSPT del cazzo, sarei qui con lui a insegnargli tutte queste cose. Gli insegnerei come usare la trivella –. Indicò l'arnese sul ghiaccio alle sue spalle, dove non arrivava con la mano. – Io uso una trivella da cinque pollici. Vanno da quattro a otto pollici. Io preferisco un foro di cinque pollici. E' l'ideale. Non ho mai avuto problemi a far passare un pesce attraverso un foro da cinque pollici. Sei è un po' troppo grosso. La ragione per cui sei è troppo grosso è che le lame sono più larghe di un altro pollice, che non sembra molto, ma se lei guarda la trivella da cinque pollici... Ecco, ora le faccio vedere –. Si alzò per andare a prendere la trivella. Nonostante la tuta imbottita e gli stivali, che gli davano un'aria impacciata e goffa, si mosse agilmente sul ghiaccio, raccattando la trivella con una mano come si potrebbe prendere la mazza sull'erba mentre si torna di corsa in panchina dopo avere buttato la palla fuori dal campo. Si avvicinò e mi mise sotto il naso la lunga punta sfavillante della trivella. – Ecco. Ecco. Lì era l'origine. Lì era l'essenza. Ecco. – Se guardi la trivella da cinque pollici e la confronti con quella da sei, – disse, – c'è una grossa differenza. Quando perfori, a mano, trenta o quaranta centimetri di ghiaccio, è molto più faticoso usarne una da sei pollici che da cinque. Con questa qui io posso trivellare quarantacinque centimetri di ghiaccio in venti secondi o giù di lì. Se le lame sono ben affilate. L'affilatura è tutto. Bisogna tenere le lame sempre affilate. Annuii. – Fa freddo qui sul ghiaccio. – Altroché. – Non me n'ero accorto, finora. Comincio ad avere freddo. La faccia. Mi si sta congelando. Devo andare –. E feci il primo passo indietro, uscendo dall'ovale di fanghiglia che circondava lui e il foro in cui stava pescando. – Bene. E ora lei sa tutto di come si pesca sul ghiaccio. Magari le verrà voglia di scrivere un libro su questo argomento, anziché un giallo. Arretrando di mezzo passo per volta, mi ero avvicinato alla riva di un paio di metri, ma lui reggeva ancora la trivella con la mano, la lama a cavatappi all'altezza dei miei occhi. Completamente sconfitto, avevo cominciato ad allontanarmi. – E ora conosce il mio posto segreto. Anche questo. Lei sa tutto, – disse. – Ma non lo dirà a nessuno, vero? E' bello avere un posto segreto. Non ne parli con nessuno. Impari a tenere la bocca chiusa. – Con me può stare tranquillo, – dissi. – C'è un torrente che viene giù dalla montagna e scorre sulle pareti rocciose. Gliel'ho detto? – disse. – Non sono mai riuscito a trovare la sorgente.

E' un corso d'acqua che da lassù alimenta regolarmente questo lago. E c'è uno sfioratore, dal lato sud del lago, che è da dove l'acqua defluisce –. Me lo indicò, sempre con la trivella. La teneva stretta nel guanto senza dita di una delle sue manacce. – E poi ci sono numerose sorgenti sotto il lago. L'acqua viene su dal fondo, così c'è un continuo ricambio. L'acqua si pulisce da sola. E i pesci, per sopravvivere e diventare grossi e sani, devono avere acqua pulita. E questo posto ha tutti gli ingredienti. E sono tutti opera di Dio. Non c'è niente in cui l'uomo abbia messo le mani. Ecco perché è un posto pulito ed ecco perché io vengo qui. Se l'uomo ci mette le mani, meglio girare al largo. Ecco il mio motto. Il motto di uno con l'inconscio pieno di DSPT. Lontano dall'uomo, vicino a Dio. Dunque, non dimentichi di tenere il becco chiuso sul mio posto segreto. L'unica volta in cui un segreto filtra, signor Zuckerman, è quando lo andiamo a spifferare. – Ho capito. – E... Ehi, signor Zuckerman! Il libro. – Che libro? – Il suo libro. Me lo mandi. – Come se l'avessi già fatto, – dissi. – E' già spedito –. E ripresi la traversata della distesa di ghiaccio. Lui era alle mie spalle, sempre con la trivella in mano, mentre io mi allontanavo lentamente. La strada era lunga. Anche se ce l'avessi fatta, sapevo che i cinque anni di vita solitaria nella mia casa erano finiti. Sapevo che, se e quando avessi terminato il libro, sarei dovuto andare a vivere altrove. Mi voltai, una volta al sicuro sulla riva, per vedere se, dopo tutto, Les Farley mostrava di volermi seguire nel bosco e farmi fuori prima che avessi avuto la possibilità di entrare nella casa di East Orange dove Coleman Silk aveva passato l'infanzia e, come Steena Palsson prima di me, di mettermi a tavola con i suoi familiari nei soliti panni del bianco invitato al pranzo domenicale. Mi bastò guardarlo per sentire il terrore della trivella, anche se Les era già tornato a sedersi sul suo secchio; col gelido candore del lago tutt'intorno a quella macchiolina che era un uomo, l'unica traccia di una presenza umana in tutta la natura, come la croce di un analfabeta su un foglio di carta. Ecco, se non tutta la storia, tutto il quadro. Solo raramente, alla fine del nostro secolo, la vita offre una visione così pura e pacifica come questa: un uomo solitario seduto sopra un secchio, che attraverso quaranta centimetri di ghiaccio pesca in un lago le cui acque si rinnovano continuamente in cima a un'arcadica montagna dell'America. Fine

Risvolti Coleman Silk ha nascosto il proprio segreto per cinquant'anni, e l'ha nascosto così bene che nessuno ha mai dubitato di lui, delle sue origini, della sua identità. Non hanno avuto il minimo sospetto sua moglie e i suoi figli, né gli amici né i tanti nemici che si è fatto nella lunga carriera accademica. Alla fine sono le parole a tradirlo. Parole che riemergono da un lontano passato e si ritorcono contro di lui e gettano la sua vita nel caos. Nel giro di pochi mesi è costretto a dimettersi dal college, non riuscendo a difendersi da un'accusa infamante di razzismo. Dopo la morte improvvisa della mo glie, si lega a Faunia Farley, una donna di umili condizioni, che pare aver ricevuto dalla vita soltanto violenza e infelicità. Ma questa relazione tra un uomo anziano, colto e benestante e una donna giovane, povera e quasi analfabeta suscita la condanna di tutti, dai figli di Coleman ai suoi vecchi colleghi dell'università. E suscita soprattutto l'odio feroce di Les Farley, l'ex marito di Faunia, che nella giungla del Vietnam ha perso per sempre ogni capacità di convivere pacificamente con il prossimo. Non a caso è l'estate del 1998, l'estate del tentativo di impeachment di un presidente che ha scandalizzato l'America, «l'estate in cui il pene di un presidente invase la mente di tutti e la vita, in tutta la sua invereconda sconcezza, ancora una volta disorientò l'America». Ancora una volta (l'ottava, nell'opera di Philip Roth), è la voce inconfondibile dello scrittore Nathan Zuckerman a raccontare la storia, a immaginarla, riempiendo le caselle vuote, commentando, cercando di dare un senso alla tragedia e alla farsa, al dolore e al ridicolo. Come i protagonisti di Pastorale americana e Ho sposato un comunista, Coleman Silk forse non è altro che la quintessenza dell'uomo americano. Un uomo che, nella grande tradizione della frontiera, ha accolto «l'invito democratico a sbarazzarsi delle proprie origini». Incominciando da zero, inventando la propria vita, il proprio passato come il proprio futuro, così come uno scrittore inventa il personaggio di un romanzo.

L'Autore Philip Roth è nato a Newark, New Jersey, nel 1933. Negli anni Novanta ha vinto quattro tra i più importanti premi americani: il National Book Critics Award nel 1991 per Patrimony; il PEN/Faulkner Award nel 1993 per Operazione Shylock (Einaudi Tascabili); il National Book Award nel 1995 per Il teatro di Sabbath (Einaudi Tascabili); il Pulitzer Prize nel 1997 per Pastorale americana (Supercoralli e Einaudi Tascabili). Con La macchia umana ha vinto, per la seconda volta, il PEN/Faulkner Award (2001). Di Philip Roth Einaudi ha pubblicato anche Lamento di Portnoy (Einaudi Tascabili) e Ho sposato un comunista (Supercoralli). La macchia umana conclude la straordinaria trilogia che Philip Roth ha dedicato in questi anni all'America del dopoguerra, dopo Pastorale americana, il grande romanzo sugli anni della contestazione e del terrorismo, e Ho sposato un comunista, ambientato nei primi anni Cinquanta, gli anni della «caccia alle streghe».

Copertina retro Coleman Silk nasconde un segreto. Se lo porta dietro per tutta la vita. Finché, alla fine, il mondo che ha costruito intorno a sé piomba nel caos. La storia di un uomo che non ha mai smesso di lottare, di una donna che ha imparato dalla vita una crudele saggezza, e di un paese in preda allo «spirito di persecuzione».