La gran vetrata [PDF]

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Zitiervorschau

Ludovica Koch

LA GRAN VETRATA

Roma, 1988-89

I

Paolino per sua madre, l’ultimo figlio, e Paolo a scuola. Paoletto per il droghiere malinconico e obeso, il droghiere della madre, che era diventato di recente anche il suo padrone. Il ragazzo era magro, invece, e assai più basso della sua età. Di quella bassezza, quando se ne ricordava, umiliato. Ma non adesso, che caricava con importanza a cavallo del manubrio il cestino di fildiferro, che si dava la spinta per i suoi giri di consegne. Già per la quarta volta in meno di un giorno e mezzo. Istruito, ripetuto, ripetendosi, cercando di tenere a mente. Solo per la quarta volta: e faticava a farci l’abitudine. Era eccitato, incerto, il ragazzo Paolo. Soprattutto smarrito, disperso e, come dire, dissipato. Per via di tutto quel traversare e ripassare in una sola mattina il quartiere dove era nato. In versi capovolti e sbiechi, rispetto al non molto che ne aveva fino allora toccato. Il quartiere era fatto per lui di fili e di nodi, e ordinato secondo un’irregolare ellisse con qualche polo di troppo. Pendeva, nella sua mente, come quelle rade e rotte reti che gli era capitato di vedere ad asciugare nei porti, sospese a due o tre chiodi non allineati. Pochi e ciechi erano i percorsi della sua ubbidiente esistenza. Calcolati non a cinquanta o a cento metri, e neppure per segmenti spezzati, come si fa per indicare la strada a chi ci arriva per accidente, per sbaglio, straniero di un altro rione, e non si ritrova. Il secondo vicolo a sinistra, gli spiega allora chi lo vede girare a vuoto; poi tutto dritto, fino alla piazza con le panchine e i tre tigli. E allora subito a destra, la prima ? la seconda traversa. Calcolati a tempo, erano i percorsi di Paolo e secondo assai modeste scadenze. Prima che bollisse l’acqua, doveva andare e tornare con la pasta corta come la voleva suo padre, con la pasta rotta che rendeva di più. Dentro alla solita indivia, nei soliti broccoli. Con due minuti in più, arrivava a comprare la frutta. Il fruttivendolo gli regalava sempre, vedendogli così poco dritte le gambe, così grossa la testa, due nespole e un esotico cachi. E non si scordava di caricarli poi di buon peso, il cachi e le nespole, sopra le gialle mele di tutti i giorni.

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Stranivano dunque Paolo le storture di un itinerario sempre diverso. Ma anche la diffìcile mattinata tutta senza scuola. Non era invece imbarazzato a mantenere dritto il corso della bicicletta, pesantemente sbilanciata dai pacchi. Il campanello, i freni, li manovrava bene. C’erano anche dei vantaggi, in quelle giornate storte e strane, meditava. Aveva ragione sua madre. Sempre le madri hanno ragione, le madri sgobbano e piangono e urlano sempre a senno. E male aveva fatto suo fratello grande Oreste il giorno che le aveva urlato contro a sua volta, e se ne era andato sbattendo la porta. Chissà dove andato, poi, chi l’aveva più visto nei tanti, nei lenti mesi di primavera, e adesso nella caldissima estate. Su una brutta strada sicuramente, sempre ragione aveva la madre. Ragione dunque anche a ripetergli sette volte al giorno che sarebbe finito male. Con quegli amici, poi, con quel carattere tutto preso dal padre. Ma perché non fermarsi almeno allora, Oreste: il tempo di raccontare a lui in due parole perché se ne andava, e dove, e fino a quando. Con Oreste dormivano sempre insieme. Lo tormentava e lo comandava. Se lo portava qualche volta dietro, imponendogli il silenzio con tutti, all’avanspettacolo e sulle sue impalcature di muratore nella lontana periferia. E un giorno ogni tanto a Frascati, con lo stesso trenino, nella stessa casa con giardinetto e pergola sbilenca. Sotto la pergola si sistemava lui, Paolino, a guardare le nuvole dietro l’uva e ad aspettare annoiato con le mani in tasca. Oreste gli ordinava di girarsi contro il muro e addormentarsi immediatamente, o gli avrebbe di sicuro tagliato le orecchie, tutte le volte che infilava al buio nella stanza comune una ragazza. E lui stirava tutti i tendini per sforzarsi di rimanere fermissimo come pretendeva il fratello. Per farsi dimenticare e dimenticarsi lui stesso di sé, gelato in una posizione sbagliata dentro al suo letto improvvisamente scomodo. E intanto pensava che non c’era rimedio, non avrebbe potuto dormire mai in quella posizione. E come gli era venuto in mente di irrigidirsi così con le gambe stese, mentre soltanto raggomitolandosi e lisciando il lenzuolo sotto al mento sapeva che riusciva tutte le notti a prendere sonno. Sarebbe arrivata la mattina, e l’avrebbe trovato ancora lì sbarrato e rigido. Risentito, più che spaventato. Forse, lentissimamente, poteva provare a girarsi. Il rumore del lenzuolo smosso non era un vero rumore, arrivava soltanto a lui che ci si muoveva dentro. Poteva girarsi di nuovo finché voleva, che

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sciocco a non averci pensato prima, tanto non lo sentiva nessuno avvoltolarsi. Ma quando più si rassicurava, arrivavano invece violentissimi insulti dall’altro letto, e minacce a voce soffocata. E lui si gelava subito di nuovo, un’altra volta scomodo e tirato. In qualche modo finiva per passare anche quella notte. Sempre ragione aveva sua madre. Lo sapeva, lo vedeva. E così Oreste sarebbe forse finito davvero male. Era anche giusto, dopo quello che faceva a lui, e che lui non diceva. Ma Paolo sperava senza crederci che non troppo lontana sarebbe stata la regione di quella sua futura mala fine. Non troppo oltre, comunque, l’ultima fermata del trenino: dato che nella direzione di Frascati, in tutti casi, la mala strada doveva passare. Per poterci, magari a tappe, arrivare anche lui con la bicicletta. Se Oreste non si fosse ricordato, l’imprevedibile Oreste cui poteva capitare anche di ricordarsene, di tornarlo a prendere come per il passato con sé. E forse Paolo avrebbe allora urlato. Avrebbe avvertito e tirato come poteva indietro il fratello, prima che fosse troppo tardi. E forse invece sarebbe stato a guardare senza avvertirlo. Perché era giusto che ci fosse almeno lui, a guardare. E non ne avrebbe parlato, dopo, in nessun caso a nessuno.

II

Fra le molte ragionevoli cose che aveva dunque detto la madre, pensava il ragazzino pedalando, c’era una frase sul grande imparare che si fa col lavoro. E la frase, l’aveva capito, doveva servire a consolare lui della scuola brutalmente interrotta da un giorno all’altro: e per di più in un difficile momento di passaggio, in cui gli pareva di stare finalmente imparando a capire la logica dell’analisi, le equazioni. Imparare si imparava davvero. In un giorno e mezzo di lavoro lui sapeva già a memoria una sfilza di nuovi nomi di strade. Nomi, credeva, garibaldini: quasi tutti che finivano in O o addirittura in IO, e almeno sette o otto che cominciavano per B. Perché poi tutte quelle B ? Che lettera curiosa, rifletteva: lenta, gonfia,

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un po’ stolida. Assai poco rivoluzionaria. Elegante, invece: gli venivano in mente certe cifre in corsivo inglese sulle lenzuola, a casa dei nonni, tonde, in rilievo, nel diffìcile punto pieno. Le cifre di una Beatrice, di una Bianca. A toglierla da quel lenzuolo e metterla in piedi, quella B era già una figura maschile. Il ritratto, con marziali pugni sui fianchi e preferibilmente equestre, dell’uomo per cui andavano ricamando e pungendosi in cima alle dita le Beatrici e le Bianche. B come baffi, mustacchi divaricati e rigidi. Come barba, e non poteva allora trattarsi che di un pizzo fluente, B come busti: i busti sul Gianicolo col naso rotto e gli occhi lisci scarabocchiati a matita. Spalle e teste compiaciute e grasse: una trentina di rispettabili bottegai di mezza età e qualche impiegato ministeriale. Non certo soldatini, redentorini e ricci figli di mamma dal generoso colletto della camicia aperto e dalla bocca rossa: come i carbonari nei libri di storia. Come quel poeta inglese zoppo e innamorato di sua sorella, messo lì eternamente di profilo dentro le antologie. Queste garibaldine strade di cui sapeva ormai tutti i nomi esaurivano una fetta consistente del suo quartiere. Un quartiere nel dormiveglia perché non interamente rinsaldato e ripopolato, soprattutto nei piani alti, dopo gli sfollamenti della guerra. Nella mappa mentale di Paolino, decentrata com’era, la maggior parte di quelle strade non entravano neppure. Altre, gli era capitato fino a quel momento soltanto di attraversarle. Da cima a fondo, non le aveva percorse mai. Potevano, per quanto ne sapeva lui, sboccare in un fossato come in un parco mirabile, con luci, cigni e fontane. Un altro ritaglio di strade, un po’ marginale rispetto alle garibaldine, Paolo le svoltava e le scendeva invece senza bisogno di guardarsi intorno. Non erano neppure vere strade. Erano piuttosto l’alzato di un reticolo di relazioni irregolare ma fìtto. L’abitudine le soprannominava con i fatti e con le facce di una vicenda privata. La via dove abitava l’ammirato cugino maggiore a Paolino di due anni: già con la sgusciatura dei baffi intorno alla bocca e con la ragazza fìssa. La casa della compagna di scuola più brava di tutti, ma balbettante e tristissima. Il portone della giovane zia che viveva da sola, cucinava soltanto dolci e usciva tutte le sere d ’estate con un rosso rossetto, i capelli buttati da una parte e lo stesso vestito chiaro. Costretto a contare i numeri delle porte uno dopo l’altro per rintracciare gli sconosciuti clienti del suo negozio, il ragazzo Paolo si accorgeva di

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guardare ora in alto per la prima volta. Contro sole, facciata per facciata, su su fino all’irregolare seghettatura dei cornicioni. Notava cancelli mai visti, sdorati, sdipinti, sempre tronchi di qualche voluta. Si soffermava su macchie larghissime di muffa, su intonaci gonfi, cadenti, caduti. Si meravigliava di non avere osservato ancora quanti, e quanto larghi, fossero i muri ciechi coronati di cocci di vetro. Ci sentiva, a volte, abbaiare dietro furiosamente un cane. Scorciando meditabondo dal basso le case, gli si infilavano gli occhi attraverso finestre ancora sfondate, passavano lungo travature mozze e curve, riuscivano a volte direttamente sul cielo attraverso i buchi nel tetto. Sbattevano, altre volte, contro barriere impenetrabili d ’alloro, che difendevano l’attico di gente con soldi. Dietro all’alloro, non ci si limitava certo a risanare le lesioni dei bombardamenti, pensava Paolo: ma si murava e si vetrava nello stile delle nuovissime riviste d ’arredamento americane, su cui aveva visto sospirare anche il suo depresso padrone. Respinto dall’alloro e ridiscendendo, lo sguardo seguiva regole generali di gravitazione. Cadeva a spirale, per attrazioni contingenti di altre masse, a sinistra e a destra. Rimbalzava oltre le ringhiere dei terrazzi. Atterrava momentaneamente sopra a uno spampanato rosaio rampicante, sbucato certo da ombrosi, ordinati giardini di monache. Si pungeva contro certe palmette ispide e rade, non annaffiate da nessuno sul bordo di balconi vuoti. Lisciava le modanature assurdamente pretenziose dei portoni, e finiva per ricadere pesantemente sopra lo sporco marciapiedi.

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L’ultima consegna del suo giro era la più lontana e la più pesante. Bottiglie e barattoli per tre clienti diversi allo stesso indirizzo. Conduceva, la consegna, in una stradina appartata molto al di là della piazza con i tigli, dove la breve esistenza di Paolino non aveva mai avuto occasione finora di spingerlo. E neppure gli era ancora capitato di sentirne fare il nome per

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qualche ragione, in famiglia o fuori. Come se non ci avesse mai abitato realmente nessuno, a quell’indirizzo, e non potesse esserci nessuna scusa al mondo, nient’altro che l’ostinazione personale, una scommessa, una pedanteria, un gioco con la propria intelligenza e le proprie paure, per traversare una desolata e deserta fetta di quartiere e andare a finire proprio lì. La stradina, scoprì, era temporaneamente anche cieca, per via di un palazzo crollato rovinosamente anni prima a strozzarla e, a quanto pareva, mai da quel crollo rimosso. E chi sa se qualcuno avrebbe preso in futuro, prima che Paolino, crescendo, abbandonasse definitivamente il quartiere (di questo almeno era certo, che l’avrebbe, appena possibile, abbandonato), l’iniziativa di scavare e spostare altrove, se non altro, le macerie più grosse. Non fosse che per sgombrare il passaggio fra i due tronconi della strada. Dove abitavano magari, come nella via stessa di Paolo, come, ragionava, a quanto ne sapeva lui in tutte le strade, parenti strettissimi che avevano bisogno tutti i giorni di andare a prendere notizie della salute reciproca. I genitori anziani, l’adolescente epilettico. Ed erano, così, costretti a fare invece ogni volta un giro ozioso di parecchi isolati. O magari, al contrario, famiglie che si erano sempre odiate: e adesso finalmente riposavano e ingrassavano dell’astio comune rimasto senza nutrimento. Ma questo Paolo non arrivava neppure a figurarselo. Se avesse avuto anche soltanto dieci anni di più, avrebbe capito che la cosa accade da sé, ogni volta che si tirano su venti o trenta case una a fianco dell’altra. A dividere un’aria sempre più fìtta, a usare le stesse scuole e le stesse botteghe, a consumare un unico selciato. Avrebbe saputo che un crollo può essere anche l’equivalente gratuito, inaspettato, di una laboriosa e forse impossibile pacificazione. Può risolvere senza concessioni e senza fatiche da nessuna parte annose, costose beghe: dimentiche totalmente, come avviene a tutte le beghe, delle loro stesse origini e ragioni. Può risparmiare gli sforzi uniti e disgiunti di parroci e medici di famiglia e portieri e notai e insegnanti dei figli, costretti dallo zelo del loro caritatevole progetto a impegnarsi anima e corpo per seppellire, minimizzare e mediare anche parecchie settimane di seguito. Costretti a predicare, ognuno nella sua retorica, i meriti della tolleranza, e soprattutto la superiorità morale del perdono alle offese. Ma se faceva anche bene allo stomaco, il perdono, lo

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sapevano tutti. Distendeva la pelle, purgava, come lo stomaco, la mente, permetteva, una volta per tutte, di dormire. Scordandosi perfino di fare le scale buie, la sera, per tirare tutti i quattordici catenacci del portoncino d ’ingresso. Questa volta non c’era stato bisogno, per chissà quale provvidenziale cabala o congiura celeste, dell’ingegnosa cabala terrena di tanti benintenzionati. Com’erano andate veramente le cose, avrebbe potuto raccontarlo, al ragazzino pedalante di passaggio, il proprietario di un’altra e più alta bicicletta, il giovane imbianchino Natale. Se solo fosse stato lì a quell’ora: perché invece era sempre la sera dopo le sette, tutte le sere quando tornava dal lavoro, che Natale si fermava per qualche minuto a contemplare il mostruoso ammasso rovinato. Se ne stava allora lì con il mento appoggiato al manubrio e lo sguardo fìsso, mentre andava scomparendo la luce. Natale si sentiva da qualche mese in pace come non gli era capitato mai, per via della ragazza silenziosa che aveva preso ad aspettarlo ogni inizio di notte a casa sua. Dopo che Natale aveva finito, arrivando sempre in ritardo e ogni volta costringendola a riscaldare, la cena della madre. E naturalmente dopo che la madre era andata a letto. Di posti che conosceva lui soltanto, dove rannicchiarsi sotto qualche spigolo, dove portare le cose sue e dimenticarsi lui stesso di sé, Natale se ne era trovati uno meglio dell’altro, fin da quando era scappato la prima volta di casa a quattordici anni. Ripensava volentieri a quelle sue tane, ne rideva, avrebbe saputo ancora riconoscerle. Ma neppure alla sua placida, alla sua muta ragazza aveva raccontato invece, adesso, di quelle soste quotidiane a due, il palazzo sfasciato e lui: che somigliavano, più che a meditazioni, a misurazioni dirette, a conflitti immobili e senza sbocco.

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IV

Come era andato il crollo cinque anni prima, e se poi un crollo, rifletteva, veramente va, arriva da qualche parte, diventa: e non si limita invece a tornare, da una qualsiasi forma, materia, Natale se lo ricordava bene. Era bastato uno dei soliti, sempre più spossati e asmatici quarti d ’ora d ’incursione aerea notturna. Un quarto d ’ora neppure più fragoroso del consueto, a orecchi tanto rintronati e rassegnati da non comandare ormai più l’abbandono precipitoso del letto, il rotolare scompostamente insieme con tutti gli altri in cantina. Da non comandare, a volte, neanche l’interruzione di quel rado, poverissimo sonno. Come si era potuto controllare il giorno dopo, non era in realtà caduta nessuna bomba. Né sul palazzo stesso, né nel raggio di tre o quattro strade tutto intorno. Sembrava piuttosto che il casamento avesse subito un colpo al cuore. Un collasso per vecchiezza, per stanchezza. Che si fosse, non violentemente, sfasciato da sé, sopra di sé ripiegato e inginocchiato: ritenendosi forse troppo a lungo e troppo ingiustamente provato, e privo ormai, svuotato com’era da tempo, di ragioni per resistere ancora. La squadra del genio civile che era passata la mattina dopo, nel corso di un giro, come sempre, assai pressato, non aveva i mezzi neppure per puntellare. Aveva solo circondato, chiuso e fatto rapporto. Agli assembrati aveva anche spiegato, il genio civile, come fossero sufficienti, a volte, le vibrazioni sonore di altre esplosioni e di altri crolli, quando violentissime o quando oltremodo ripetute, a provocare lo slegarsi improvviso della lega di calcina e di sabbia, lo sbilanciamento e il precipitare dei solai. I competenti del vicinato, muratori loro stessi come il padre di Natale o, come lo zio, geometri, si sarebbero vergognati a ripetersi fra di loro le formule dei manifesti e dei giornali. A buttare anche quella colpa sull’informe, sull’indistricabile, sull’impotente Ragione del Disastro Pubblico: buona per dare conto di tutte le lacune, le privazioni e le assenze che si aprivano un giorno dopo l’altro. Erano gente pratica, seria.

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Preferivano cercare lontane ma precise colpe d ’altri, magagne tecniche insospettate. Perché insopportabile è certo dover dubitare della tenuta dei propri mezzi, dell’estensione della propria sapienza. Ma più insopportabile è trovarsi costretti ad abbandonare da un momento all’altro i calcoli sulla durata, le stime sulla qualità delle cose. Accettare che senza responsabilità riconoscibili, senza rivendicazioni, senza riscatto, tutto quello che hai penosamente, testardamente messo su, messo da parte, messo avanti: e insegnato con le cattive ai figli (a cui nulla è più naturalmente ripugnante) a mettere avanti, scivoli, slitti e coli senza residui. Nel buco, nel buio. Che sotto il collasso del palazzo non fosse rimasto, a quanto pareva, per quella volta nessuno, veniva giudicato cosa irrilevante, accidentale. Non un miracolo, sicuramente, per cui ringraziare: ma invece una contingenza, un evento statistico, un risultato sportivo che non aveva nessuna possibilità di ripetersi. Né in sé il caso aveva grandissimo interesse: con quei tempi, con quei morti. Ma piuttosto: un palazzo di sei piani e di trenta appartamenti che il giorno dopo non esiste più. E tutti i palazzi identici delle strade intorno in cui ognuno di loro da quarant’anni abitava, e dove non di rado era nato, pagando affìtti che l’abitudine a detrarre con il primo gesto ogni mese dalla busta paga aveva reso inavvertiti, come se non ci fossero. O senza neppure più pagare, grazie alla previdenza, alle avarizie del nonno. O rinunciando alle scarpe nuove, al cinema dei figli e, per esercizio, anche alle cose di nessun prezzo: ma che pure costavano abitudini, sonno, ordine, emozioni. Come attardarsi per strada la notte di un’eclisse di luna, o andare per fossili in fondo alle marrane. Come lasciare che venissero fuori, sedendo a lungo al fianco di un amico, parole pericolose, idee non pensate. Negandosi tutto e sempre per continuare a restituire alla banca le rate di un mutuo aperto a suo tempo dal padre, e che ormai non mancava davvero molto a chiudere per sempre. Questo per sempre veniva ora brutalmente scardinato e sepolto, insieme ad altre loro ignote cose, sotto il casamento crollato. A quel solo puntello si erano tenuti stretti da una vita gente pratica e seria come lo zio e il padre di Natale, come i competenti del vicinato: costretti com’erano a sguazzare un giorno dopo l’altro nel chiasso e nel caso. Principio stesso del tenere duro, ragione della paziente pazienza, l’idea di un tangibile, di un limitato per sempre aveva dato a ognuno di loro inventiva e capacità nel mestiere.

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A fine giornata, gli regalava assaporamenti in anticipo di una futura continuità senza scosse, anche noiosa. Giorni uguali, regole rassicuranti, nitidi particolari. Interni molto tappezzati, orologi a pendolo, fiori nei vasi, gruppi con la cravatta e il vestito scuro, come davanti al fotografo. Nipoti, argenti, generi, figli, tovaglie: tutto sotto le macerie. Accusavano dunque con rabbia, quelli che di fabbriche, come il padre di Natale, se ne intendevano, i piemontesi, costruttori sessant’anni prima dell’intero quartiere dal nulla (non dal nulla, si correggevano: dalle vigne e dai pascoli) di avere rubato sui materiali, risparmiato sull’esperienza. Di avere usato, nell’umida città di cui non conoscevano la passività, la lentezza, le muffe, calcina magra e legname stagionato male. Accusavano il palazzo stesso, di cui non restavano adesso che due muri ad angolo palesemente troppo alti, con tante ordinate finestre e balconcini di ferro ancora appesi, di essersi nutrito silenziosamente per anni il serpente di una crepa invisibile, ogni giorno più profonda e più lunga. Di avere, d ’accordo con quel serpente, tradito decine di calcoli per ognuno dei suoi scomparsi abitatori. Centinaia, almeno, di caldi e di freddi progetti: nati di nuovo o venuti mutandosi nelle peristalsi delle singole esistenze consumate là dentro. Ma non molte disperazioni e quasi nessuna bruciante speranza: perché ben pochi ragazzi il caseggiato borghese era riuscito a trattenere, anche prima della guerra, nelle sue chiuse stanze.

V

Natale li guardava ogni sera dall’interno, i due muri aperti ad angolo del casamento disfatto. Studiava, là dentro, i resti delle carte da parato tutte colorate e diverse, con qualche storto quadro ancora appeso: e il segno chiaro, sbavato, di altri quadri, di altre credenze. Ne soffriva come di un’indecenza insostenibile. Gli pareva di vedere un cassetto segreto sventrato, un carteggio intimo dato al vento. Osservava i ferri spezzati, piegati, e i tronconi di legno che avevano sorretto pavimenti certo tenuti

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accuratamente a cera. Seguiva la quadrettatura dei tramezzi, che dovevano avere diviso stanze soffocanti, avare, buie: invase oggi dolorosamente, gloriosamente dal vento caldo e dal sole. E si domandava tutte le volte se avessero fatto a tempo, i giovani che avevano saputo liberarsi prima del crollo da quel carcere, a risollevarsi altrove intorno più leggere pareti, più spalancate finestre. O se non fossero stati sorpresi invece, anche lontani, dallo sfascio in un momento in cui erano ancora sventolati, spogliati, esposti alle meteore da ogni parte. Sventolato, spogliato continuava del resto ostinatamente a sentirsi lui stesso: nonostante le cene, con un eterno sapore di bollito, tenute in caldo dalla madre; nonostante i silenzi della sua immobile ragazza. Adesso che arrivava con la sua bicicletta carica Paolino, fu naturalmente ancora la trincea della casa crollata anni prima, lanciata com’era violentemente attraverso la strada, ad attrarne per prima l’attenzione. Era invasa ormai e quasi mimetizzata di giovani fichi, more e robinie; strappata, onnicolore di mondezza. Ma ancora severamente ombreggiata dalle alte quinte ad angolo delle mura esterne, dai balconi sospesi. Il ragazzo fece fare alla ruota davanti un giro largo per accostarsi il più possibile alle rovine e guardarci dentro e fino in fondo senza bisogno di fermarsi. Gli venne in mente che, se avesse abitato lui in quella strada, tutti i momenti liberi e tutte le fughe da casa li avrebbe certamente dedicati a scavarsi tane, a conquistarsi bastioni dentro allo straordinario rudere. Pensò che forse c’erano ancora sotto, appena nascosti dai detriti ammonticchiati, scale da scendere, cantine chiuse, catenacci, bauli. Che probabilmente c’era anche il modo di arrampicarsi per gli sgretolati muri, per i mozziconi di solaio: e arrivare su su ad affacciarsi dai vuoti balconi di ferro. Certo, tutti i ragazzini delle strade intorno si erano un giorno coalizzati ad espugnare il mostruoso ammasso di calcinacci e di mattoni. Dovevano averne fatto, ognuno per suo conto, un’isola, un castello, una balena, una montagna segreta a cui ritornare mentalmente tutta la vita: dopo avere tanto stentato, come si doveva, tutta la vita a partire. Avrebbe avuto voglia di arruolarsi anche Paolo, in quelle bande di ragazzini. Se lo volevano, poi: troppo poche cose era buono a fare, e di quello spicchio minimo di città non aveva nessuna conoscenza. Ma, a riuscirci, per sua madre sarebbe diventato improvvisamente molto diffìcile riportarselo a casa, quando lui

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non avesse deciso di venire da sé: se le macerie franavano, come sembrava, sotto le scarpe di un adulto, se la sua banda lo avesse, come sperava, occultato e difeso. Pure, da dov’era non riusciva a vedere nessuno rintanatosi in quelle grotte tornate naturali, dentro alle mura e sotto alle robinie. Neppure un bambino in età ancora non da scuola, che avesse fatto rotolare una sua palla gialla al di là della trincea di calcinacci, e adesso la stesse come meglio poteva cercando. Neppure un sedicenne addormentato dentro a un buco all’ombra, con un panino e una mela, scappato senza che nessuno se ne fosse accorto dalla sua prima giornata di manovale. Gatti, invece: molti gatti, macchiati e mobilissimi. Gatti in assembramento, gatti in duello, fulminei, eccitati gatti su e giù per le montagne di cocci. Urli di gatti invisibili sventrati, morenti, amorosi o lentamente spellati. Fitte mosche: ramarri, farfalle bianche. E di nuovo, ostinato, crescente, il lacerante e sinistro lamento di bambini piccoli o di grandi gatti. Non dovevano esserci stati mai, e comunque non avvenivano sicuramente più da molto tempo, le temerarie imboscate dei ragazzi del quartiere in mezzo agli sterminati frantumi, gli arrembaggi su per le muraglie sempre in ombra, comunque girasse il sole. Era come se anni prima avesse avuto luogo una vera battaglia di conquista: e le bande orgogliose dei gatti avessero vinto, una volta per tutte. Cacciando i disorganizzati ragazzini, graffiando chi fosse tornato confuso all’attacco, cavando gli occhi a chi avesse malamente inciampato, straziando in parte il più piccolo, abbandonato nella precipitosa ritirata e incapace di scalare di nuovo da solo gli erti rottami. Chi sa se usava costeggiarla o la prendeva invece alla larga, chi tornando a casa la sera tardi fosse costretto a passare a fianco della casa crollata, si domandava Paolino girando il manubrio e decidendosi finalmente a cercare il numero ventinove di quella interrotta strada garibaldina senza la B.

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VI

Il ventinove, ridipinto e facile a leggersi, segnava un palazzetto a tre piani intonacato di mattone scuro. Con un grande portone chiuso, una fila verticale di lucidi campanelli d ’ottone, una fila parallela, pure d ’ottone, di targhette con i nomi. Paolo, che in poco più di una giornata aveva ormai imparato a guardare per prima cosa in alto, vide un graticcio di aggraziate lesene a spartire la facciata, un fregio di volute e foglie che correva subito sotto il cornicione e, sotto al fregio, una scritta a grandi maiuscole che lesse senza capirla: come si fermava sempre a leggere, e non capiva, le iscrizioni di bronzo sul piedistallo delle statue grandi, non i busti del Gianicolo. Incorniciate dalle lesene, le ordinate finestre avevano tutte persiane verdi strettamente serrate, nella lucente giornata estiva. Non una gabbia di canarino attaccata al davanzale, non un geranio: e naturalmente neppure un asciugamano o un lenzuolo steso, come ne sventolavano e sgocciolavano sempre dalle finestre di sua madre. Ma i signori il bucato non lo stendono mai, sapeva già distinguere Paolo: e quella era inconfondibilmente una casa di signori. Forse non lo fanno neppure mai, il bucato, i signori, sapendo di non volerlo e di non poterlo stendere. Forse non hanno bisogno di farlo, non uscendo che eccezionalmente dalle loro rialzate, ombreggiate stanze: non cucinando, mangiando serviti a tavola, non arrampicandosi meli sugli alberi né lasciandosi tentare da altre imprese esposte allo strappo e allo sporco. O forse sdegnano anche l’idea di rimettersi addosso il giorno dopo una camicia già vista, una non nuovissima mutanda: e tornano tutte le mattine a scovare fresche, inamidate cose fra le pieghe dei loro bauli senza fondo. Pure senza bucati e canarini, strane, pensò, tante persiane chiuse a mezzogiorno. Non sembravano neppure temporaneamente fermate contro il sole, o per un’assenza improvvisa della gente di casa: una visita, la messa. Comunque non la spesa: dovevano sapere bene che gliel’avrebbe portata lui nel cestino della bicicletta, in tempo anche per le più fantasiose

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lavorazioni del pranzo. Parevano, invece, quelle persiane uguali, occupate a occultare anche la cicatrice delle regolari ferite che il progettista, non l’ultimo venuto, questo era chiaro, doveva pure aver praticato neirarmoniosa facciata. Parevano, quelle piene persiane, pensate dal primo momento senza cardini, decorative come le lesene, simboliche come il fogliame del fregio. Un trompe-l’oeil che non avrebbe mai rischiato di sbattere pericolosamente con la tramontana, scrostando la vernice, lasciando cadere le stecche. Né di spalancarsi al momento meno opportuno: regalando ai dirimpettai una coppia sopra le lenzuola o un selvaggio litigio. Il ragazzino aveva appoggiato la bicicletta al muro e stava ora compitando, sulle targhette, i cognomi: ritrovandone due di quelli segnati in matita rossa sopra le buste di carta e, con un po’ di fatica, anche il terzo: aggiunto a mano e a colla in fondo alla più alta delle dignitose lastrine d ’ottone. Si studiò, tendendo insieme pollice, mignolo e medio, di suonare nello stesso momento i campanelli dei tre clienti ancora mai visti in faccia: di cui non conosceva dunque ancora la maggiore o minore importanza. E doveva essere riuscito a comunicare il suo diplomatico temporeggiamento, perché gli rispose un unico scatto della serratura. Come se i tre indici avessero premuto contemporaneamente, ognuno a casa sua, i tre pulsanti d ’apertura. O come se due degli indici ritenessero di avere istituzionalmente di meglio da fare, e delegassero d ’abitudine al terzo le funzioni collettive di sorvegliante e di portiere. Dentro al grande portone dipinto, in disaccordo con le persiane, di marrone, si ritagliava ora la fessura rettangolare di una porticina: non più alta di quanto permettesse, al tutt’altro che alto Paolo, di entrare senza curvarsi. Sollevò la bicicletta pesante per farle superare lo scalino della soglia, spinse, scavalcò per entrare anche lui.

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VII

Lo strombo buio e profondissimo del portone mediava fra l’accecante mezzogiorno e una bizzarra, mescolata luminescenza interiore. Verde come venuta da un ventre d ’acquario, gialla di un maturo giallo di foglie: ancora asciutte, che si chiamassero fra loro galleggiando attraverso i marezzi. Una luce sicuramente non artificiale, e tuttavia filtrata, preziosa, abbaziale, asfìttica. Spingendo avanti la bicicletta, che costituiva allo stesso tempo la sua scusa per avere penetrato la chiusa vescica di pietra e la sua presentazione, Paolino si trovò al centro di una piccola corte quadrata, lastricata, pulita. La faccia interna, dove si apriva la grande gola del portone, era tutta occupata, più in alto, da incroci pretenziosi di scale a vista: difese da balaustre floreali di ghisa e di legno, aperte sulla corte con un sistema regolare di arcate. Sulla parete di fronte, le stesse arcate, attraversate da semplici parapetti di ferro, definivano invece una sull’altra due grandi terrazze coperte. Logge piuttosto, altane. E sotto, a pianterreno, un gradevole portico: ingombro, come le logge, di tavoli, sedie e vasi di fiori diffìcili. Non certamente gerani né rose, questo Paolino lo distingueva bene: ma invece grappoli di curiosi fiori color bronzo, con una tasca, che aveva visto allevati in serra all’Orto Botanico e gli sembrava che si chiamassero orchidee. E cespugli foltissimi di fogliame scuro e grandi corolle rosse. E slanciati rampicanti di un viola intenso. E cadute di sottili ramoscelli curvi coperti di stelle bianche, che dovevano essere responsabili interamente del pesante profumo. Logge e portico, divisi ognuno a metà fra due appartamenti di fronte, sembravano dunque destinati a luogo eminente delle espansioni, delle manifestazioni. Un luogo che compensasse in parte, e in parte senza scusarsene smentisse, l’arcigna politica di tante persiane chiuse, la rigida reticenza esterna della casa. Dove fosse lecito, e praticamente doveroso, vedere e farsi vedere, ragionare con le persone e lavorare le cose, leggere, dondolarsi, stendere, tutte le volte che fosse necessario, l’esecrabile bucato.

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E insomma commerciare col mondo, e ricordare al mondo la continuità, più o meno volontaria, della propria sussistenza. Guardando meglio, Paolino si accorse tuttavia che la mezza loggia destra superiore non ne mostrava nessuno, di simili estroversi segni di vita; e che, girando l’angolo, anche le tre finestre che le venivano dietro erano immobili e cieche. Aperte, invece, spalancate, qua e là con bianche tendine buttate fuori che non chiedevano che di potere svolazzare, se solo ci fosse stato un filo di vento, tutte le altre simmetriche finestre. Accanto, sotto, quattro file a rispondersi di baie ombrose, di sospirosi, forse umidi anfratti rettangolari. La corte assumeva così d ’improvviso l’aria di una minuscola piazza mediterranea, deserta di giorno, corale di sera, animata ancora a tarda notte; e Paolo, che aveva un’amata nonna pugliese, e che l’aveva accompagnata un’estate a ritrovare il suo paese pitturato di calce, alzò senza riflettere la testa. A cercare l’alta quercia da sughero che ricordava così bene, e forse le stesse stelle delle Puglie. E in questo modo fu irrimediabilmente soggiogato e preso. Perché non si apriva verso l’alto, il piccolo cortile quadrato, e del cielo non era possibile intravvedere neppure un lontano balenamento. Ma le quattro facciate s ’intonavano, invece, cantavano, trionfavano nella volta a spicchi di un meraviglioso lucernario. Un intero giardino di aranci, foglie scure più fitte e foglie chiare, e ogni albero con una propria apertura di rami, piccoli radi fiori e grandi frutti, la nera profilatura del piombo a scandire e a legare centinaia di vetrini tondi colorati in innumerevoli gradazioni di giallorosso, migliaia di allungati vetrini verdemuschio, verdebandiera, verdeerba, verderame, verderana, verdemarcio, verdelago, verdeblu, verdeverde. E trasparenze e opacità capricciose per calcari e muffe esterne; effetti lenticolari, stilature, bolle nel vetro lavorato, anche sapientemente, a mano; illusione di profondità variabile, di rami mossi, per via forse di qualche irregolare o voluto orientamento delle tessere; oscillazioni, marezzi, iridi, riverberi ad allargarsi, a stringersi sulle pareti e sul pavimento; e su tutto, dall’alto, la spezzata, alterata violenza del mezzogiorno inoltrato.

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Vili

Nessuno dei tre clienti (supporti dei tre indici che gli avevano aperto il portone, come una terraferma paludosa sorregge e lancia in mare le sue lunghe lingue di sabbia) si era ancora fatto incontro al nuovo garzone del droghiere per ritirare le ordinazioni della mattina. Per rimproverare, magari, l’inesperto ragazzino di essere arrivato tanto tardi: con le pentole ferme sul fuoco ad aspettare i pomodori pelati, i piselli in scatola, l’olio. E l’impasto della torta, chissà, incollato e denso in attesa del lievito che l’avrebbe tirato su, e il forno acceso inutilmente da un’ora. Tutto quello che era successo, nel tempo che Paolino guardava in alto e si guardava intorno, consisteva nella discesa dal primo balcone di una gradevole voce di donna (“vengo subito, aspettami”), nel socchiudersi e nel richiudersi fragoroso dei vetri di una finestra in alto. Poi la donna era scesa davvero: giovane, alta, forte, con tanti capelli rossi. Aveva guardato con meraviglia il ragazzino: che dimostrava, a dire il vero, poco più di dodici anni, e aveva saputo spingere una bicicletta tanto carica. “Paolo, ti chiami ? Non lavori da molto per Angelo, vero ? Pago io, ritiro io anche il pacco dei De Nicola. Non preoccuparti: glielo porto su io. Preferiscono non aprire, a gente nuova.” “Ho qui ancora una busta”, disse molto professionalmente Paolino. “C’è scritto sopra Doglio, signor Doglio. Lascio anche questa a lei ? ” “Ah, il maestro. All’ultimo piano pure lui, proprio di fronte. Ma guarda, ti ha sentito venire. Sta calando il cestino.” E realmente un minuscolo canestro legato con uno spago, affaticato, scolorito, scendeva non senza incidenti lungo tutta la fiancata delle scale. Dall’altro capo dello spago si sporgevano il braccio e la testa di un signore anziano, senza più molti capelli, sembrava, e con grossi occhiali. Si sentì anche la sua voce, stridula, lontanissima: “Quant’è il conto, stavolta ? Trentacinque ? Quaranta ! Ma siete impazziti ? Non ho intenzione di pagare di più tutte le volte. Non posso

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neanche. Andrò da un altro. Ricordatelo. Dillo a Angelo. Da un altro. Intanto metti dentro. I soldi te li calo poi, quando vedo la roba.” Non era una gran commissione, quella del signor Doglio. Una bottiglia di acqua di Fiuggi, un pacco di pastina da minestra, dadi da brodo. E non era roba la cui qualità potesse essere messa in discussione, rifletté Paolino mentre bilanciava accuratamente la bottiglia dentro al cestino. Né che potesse crescere di prezzo a distanza di pochi giorni. Paolo rimase a sorvegliare con lo sguardo la risalita pericolante del cestino, tirato debolmente e a strappi. Vide così tutta la meravigliosa vicenda della bottiglia di Fiuggi, che trascolorava e riverberava attraversando via via i riflessi del lucernario. E dunque passava da un limpido verde menta al pallido giallo della limonata, al giallo intenso dell’olio d ’oliva, alle dorature trasparenti del vino bianco di Alcamo, al bruno opaco del tè: e di nuovo a un cupo verde letterario da liquore francese, al biancoverde torbido dell’anice. Fino ad assumere definitivamente, arrivato l’instabile vetro sano e salvo a destinazione, la tinta della vecchia mano che lo tirava su per il collo, il colore delle testimonianze termali e mediche stampate sull’etichetta. Così che, dopo avere ingannevolmente promesso di spegnere tanto le seti più incontentabili e più rare che le comuni arsure estive, di sapere placare le insoddisfazioni da harem, inumidire le irritazioni delle impotenze, consolare le disperate insonnie di certe sere d ’inverno, la bottiglia tornava a parlare una lingua di rinunce. Si confessava non meglio che una compagnia nella mortificazione quotidiana, un cane da comodino, un povero disintossicante per reni malandati. Che prodigi avverranno mai quando a salire nel cesto attraverso gli sfolgoranti marezzi della vetrata saranno delle pesche o dell’uva, rimuginò il ragazzo: maturate nel breve volo miracolosamente, scaldate dalle trasparenze del giallo e del rosso, colte, arrivate in altro, come si spicca dal ramo il più lontano ma il più tentatore dei frutti. E magari portate allora in casa, e scoperte acerbe e pallide, o al contrario già livide: come tanto spesso succede alle cose lungamente sperate, pazientemente attese. Guaste, se giungi a toccarle.

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IX

Era materna, la signora rossa, e curiosa. Signora Solari, com’era scritto vicino al campanello e, prima, sopra il sacchetto della spesa. Carica adesso lei da una mano e dall’altra, non si decideva a risalire. Simpatizzava con la meraviglia evidente del ragazzo, sbucato come sott’acqua, dalla polvere desolante della chiusa strada a quella selva di giade e di topazi, a quella serra immobile e senza odore. “Ma non l’hai letta, la scritta sulla facciata ? Ah, già. E’ latino. Si usava. Si sarebbe morti, allora, piuttosto che sbrodolare le proprie intenzioni nella lingua di tutti. Soprattutto nel caso del signore che si è fatto fabbricare questo palazzetto, all’inizio del secolo. Per la sua famiglia e per sé, capisci: non, come ora, per affittarlo. Era orgoglioso, e aveva fatto soldi. Voleva che si vedesse: e allo stesso tempo che si sapesse che lui non era uno di qui, che sputava su questa sfasciata città, lui, che i valori sapeva bene dove stavano. Così si è fatto, a Roma, la casa pretenziosa che si sarebbe costruito in paese, autosuffìciente e tutta orientata all’intemo. E vi ha aggiunto d ’artifìcio quello che a Roma non avrebbe potuto trasportare mai, quello che qui nessuno potrebbe avere né mai ha avuto, il pezzo del suo giardino che più gli sarebbe mancato. Ti hanno mai raccontato dei giardini d ’aranci in Sicilia, degli aranci in filari, dei boschi di aranci ? E sai anche che sono, a modo loro, esotici gli aranci, orientali, che sono stati gli arabi a insegnare a coltivarli e a diffonderli ? Si è rifatto a Roma, quel signore, un ritaglio dell’aranciera che guardava tutte le mattine, seduto con addosso un vestito bianco, lavorare dai contadini sotto casa sua; che suo padre guardava prima di lui. Tutte le case di quegli anni hanno, avevano, vetrate colorate negli androni, in certe finestre, sopra le porte. Qualcuna addirittura vetrate orizzontali, geometriche o a tralci: pensiline, lucernari, cupolette. C’erano pittori famosi e meno famosi che preparavano i cartoni, straordinari artigiani che soffiavano e legavano il vetro. Una grande tradizione. Ma nessuno, che

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10 sappia, ha osato coprire un intero cortile, chiudere fuori la pioggia e 11vento, ignorare le stagioni, fingere un’assolatezza immutabile e derisoria che, te lo posso assicurare io che ci abito, non sempre è di conforto. A volte è addirittura macabra.” Paolino aveva digerito coscienziosamente le informazioni. Spiegavano quasi tutto quello che lui si era oscuramente domandato. Ma non tutto. “E’ questa anche la ragione”, si azzardò questa volta a interrogare lui la signora, “di tutte quelle persiane così chiuse che si vedono da fuori ? Servono a far capire che la casa della città non ha bisogno, che non ne vuole sapere ? ” “Ah, no”, gli rispose seriamente la signora. “Per quelle, la ragione è diversa. ” Probabilmente avrebbe continuato a spiegare ancora. Ma dalle finestre aperte a fianco della prima loggia, le finestre di lei, da quanto Paolo aveva capito, cominciava a venire un mugolio. Non impaziente, non risentito, ma lamentoso, su una sola nota sempre più alta. E subito la rossa signora Solari si mosse per risalire. Posò i pacchi, tirò fuori i soldi per fare i conti con Paolo, riprese i sacchi e gli girò le spalle senza più salutarlo. Poi corse su per le scale. Forse non era esperto a contare, il ragazzino. Ma rimase con l’impressione di avere ricevuto una mancia assai più grossa di quanto si fosse aspettato.

X

Tre o quattro giorni dopo, un’altra scampanellata sul pulsante d ’ottone, lunga e diretta questa volta senza incertezze soltanto alla targhetta Solari Lavinia, riaperse la porticina entro il grande portone a un diverso visitatore. Entrò trascinando una valigia sotto la volta del profondo varco, rimase come rimanevano tutti per qualche istante accecata dalla differenza di luce, si fermò in piedi davanti all’attacco delle scale disponendosi a un’attesa

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indifferente e indeterminata una ragazza minuta e tutta in nero. Guardava rigidamente davanti a sé, senza curiosità e senza sorpresa per la strana colorazione di tutte le cose. E mancò quindi di scoprire la mirabile volta, la fioritura sopra le logge e le file di finestre, di nuovo quasi tutte spalancate. Anche questa volta ci fu bisogno di qualche minuto perché scendesse la signora Solari: che aveva addosso un vestito bianco, e sembrava così, rispetto alla nuova ragazza, due volte più grande, due volte più espansiva. Pure parlò assai poco, come se fosse intimidita, incerta. “Tu sei Virginia ? Mi ha telefonato, certo, la mia amica Beatrice. D’accordo. Va tutto bene. Vieni. Ti aiuto a portare su la valigia.” “Verginia. N o”, disse la ragazza, e strinse con le due mani l’impugnatura. “Verginia ? ” “Guardi”, disse la ragazza mettendole sotto il naso una carta di identità già piuttosto malconcia, dove stava effettivamente scritto: Carau, Verginia. “Diciannove anni. Sei proprio giovane, Verginia. Coraggio, saliamo. Non te la tocco, la valigia, se tu non vuoi.” La casa somigliava alla rossa signora Solari, vitale e chiara. Pochissimo ordinata, senza tende; con giornali, libri e lettere non solo sul tavolo del soggiorno, ma su tutti i ripiani in vista. E tuttavia stranamente riposante, armoniosa. “Ti faccio vedere la tua stanza. No, questa è la camera di mio figlio (una porta chiusa). E qui accanto dormo io. Avevo pensato di metterti qui, dall’altro lato del corridoio. Così stai più tranquilla, e puoi guardarti gli aranci dalla finestra tutte le volte che ne hai voglia.” Non c’erano molti mobili, e la stanza era grande, tutta riempita dai riflessi gialli e verdi che si arrampicavano fino al soffitto. “Non lo suono io, il pianoforte. Purtroppo. Tu sai suonare ? Neppure tu. Peccato. Chissà se quando sarò vecchia avrò la voglia, il coraggio di imparare. Per compagnia. Già lo tengo, per compagnia. Era di mia madre, che sembra fosse molto brava, da ragazza. Ma non ha più voluto aprirlo, da quando mio padre è rimasto disperso a fine guerra. Nell’altra guerra, naturalmente. L’ha legato, diceva, come si legano le campane nei giorni prima di Pasqua. Ma poi non l’ha mai sciolto, quando le campane si

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sciolgono. Non è venuta, per lei, la Pasqua. E non ha mai voluto insegnarmi. ” Voleva aiutare Verginia, chiacchierando, a disfare la valigia, ad appendere, a sistemarsi. Ma la ragazza nera respinse, senza parlare, tutte le offerte, e ficcò ruvidamente la valigia chiusa sotto al letto. “Fa’ come vuoi” (quante volte ancora avrebbe dovuto ripetere la stessa frase ?). “Mettiti a dormire, se vuoi, e se vuoi, vai al bagno. Fra un paio d ’ore ceniamo. Anzi, forse te la porto qui, la tua cena. Io credo che tu sia molto stanca.” Sulla porta, si girò a guardare un’ultima volta la ragazza, che era piegata in due sul letto e non si muoveva. Con un’altra voce, le venne da dirle: “Così, è stato molto duro, con te, tuo padre ? ” Verginia si tirò su improvvisamente, la guardò dritta in faccia per la prima volta. E Lavinia fu costretta, per scusarsi, a indietreggiare e a chiudere la porta. Ma subito la riaperse, per un attimo. “Ti chiamo, per mangiare. Dormi pure tranquilla. E soprattutto, ricordati di non preoccuparti mai, se dovessi sentire dei rumori. O piangere. Né di giorno né di notte.”

XI

Come, da circa venticinque anni, gli accadeva almeno tre volte al giorno e a ore, per sua convenienza, e soprattutto per convenienza dei vicini, rigidamente fìsse (la mattina presto, prima di pranzo, dopo cena), il maestro Doglio stava adesso sul pianerottolo dove si apriva la sua unica stanza, fermo davanti alla porta di fronte: quella dei De Nicola, signorina e signore. Come tre volte al giorno da venticinque anni, dovette superare un momento di esitazione e suonò. Molto leggermente. Passò del tempo, come se nessuno avesse sentito. Poi, come sempre, lo scatto dello spioncino sulla porta, una fessura che si socchiudeva, che si faceva sempre più larga. E

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la massiccia figura del colonnello De Nicola sulla soglia: calvo, sanguigno, nel consueto perfetto doppiopetto. “Buongiorno, colonnello” (buonasera, colonnello, avrebbe detto quella sera). “Lei permette ? ” Il colonnello era un uomo economo. Non parlava, se le parole erano inutili. Fece il solito piccolo gesto con la mano, e il maestro s ’infilò nella prima porta a sinistra, che aveva riquadri di vetro smerigliato. Ne riuscì cinque minuti dopo, richiuse attentamente, traversò in punta di piedi il lucido ingresso di marmo grigio ormai deserto, aprì la porta d ’ingresso, uscì sul pianerottolo, richiuse con cautela. E rientrò in casa sua, togliendo i due giri di chiave dati poco prima e non richiesti neppure dalla più occhiuta prudenza. Ma, per la sua tranquillità, assolutamente necessari. La stanza dove viveva il maestro Doglio corrispondeva esattamente all’ingresso del colonnello De Nicola. Solo pavimentata, stavolta, in marmo rosso, con le altre porte murate; e come quella era cieca. Nessuno degli inquietanti riverberi dell’aranceto, che dal pianerottolo sembrava quasi a portata di mano, poteva dunque infiltrarsi ad alterare i contorni delle poche, spigolose cose possedute dal maestro. Ma neppure la luce del giorno e della luna, né le luminescenze della notte. Costretto a tenere senza interruzione accesa una fioca lampadina, il maestro si aiutava tuttavia, per inserirsi nei ritmi dell’esistenza collettiva (cucinandosi, per esempio, su un fornelletto elettrico appoggiato su uno sgabello), con tre diversi orologi a pendolo. Gli orologi, uno per parete, erano anche le uniche cose appese nella stanza, insieme a due fotografìe incorniciate con un listello marrone. Una a doppio ritratto, una ragazza sorridente e un bambino bruno imbronciato. L’altra presa evidentemente nel cortile di una scuola, con tre file in piedi, a scaletta, di ragazzini con il grembiule e, su una sedia a destra, un serio giovane con gli occhiali rotondi e le gambe accavallate. Anche se l’ora segnata dalle tre pendole era sempre leggermente sfalsata, e se capitava ogni qualche anno che l’una o l’altra si fermasse per proprie ragioni, il ticchettio era studiato in modo da sovrapporsi esattamente e confondersi in una scansione unica del lentissimo tempo. Solo, essendo quell’unica in realtà triplice, ne risultava un battito eccezionalmente sonoro: vibrante nell’aria anche per tutta la durata del

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mezzo secondo vuoto. Ossessivo per chiunque non fosse protetto, come 10 era per sua fortuna il maestro Doglio, da una media sordità di origine professionale. Tutti gli oggetti contenuti nella stanza erano rigidamente allineati come 11 va e vieni dei tre pendoli. I vuoti a rendere delle bottiglie di Fiuggi di fianco al comodino, i libri nella piccola libreria a tre ripiani accostati per altezza e per colore, tutti con coste integre e lucide; alti quaderni verdi che dovevano essere stati registri in uno scaffale a parte; i tegami, i bicchieri e i piatti sopra il cassettone, e sotto al cassettone due paia di lucide scarpe; le frange parallele della coperta bianca sul letto. Il vecchio maestro si calò cautamente dentro a una bella dondolo Thonet, sospirò di reale stanchezza, chiuse un momento gli occhi. Poi li riaperse e tese la mano a prendere, dal secondo ripiano della libreria, il quinto libro da destra.

XII

“Alfonso ! Alfonso, Alfonso.” Il colonnello tirò un profondo respiro, strinse e riaprì le due mani. Le convocazioni imperiose della sorella non erano meno ritmiche delle scampanellate del maestro Doglio, e anzi, di solito le precedevano di poco o le seguivano immediatamente. “Vengo.” Neanche il tempo di risedersi, sopra una delle scomode sedie che erano state moderne quarantanni prima, davanti allo stretto tavolo di vetro della stanza da pranzo (o piuttosto della sala da pranzo, come diceva sempre lei ?). Il tempo di aprire finalmente il pacco della posta, con almeno tre numeri nuovi delle otto riviste geografiche di cui manteneva l’abbonamento. “Alfonso ? ” Entrando, la vide prima di faccia, riflessa, con la bocca aperta e negli

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angoli un cruccio interrogativo, dentro lo specchio della toilette: e poi di schiena. Una schiena enorme volta verso di lui, rotonda e curva, coperta dall’eterna vestaglia a fiori. Davanti a quella toilette di mogano, con tutte le spazzole d ’argento della madre e lo specchio rettangolare molato, sua sorella passava da tempo immemorabile giornate intere. Si aggiustava, per quanto ne sapeva lui, incontentabilmente la zazzera sempre nera. Garsonne, con una banda sull’occhio destro: la stessa che aveva portato da ragazza. Si chinava in avanti a scrutare qualche poro dilatato, la pelle pesta sotto gli occhi. Tendeva fra l’indice e il medio le profonde pieghe ai lati della bocca, stirava verso l’alto le guance. Si dondolava, anche, con aria meditativa sullo sgabello, sempre guardandosi fissamente. Poi si gettava improvvisamente all’indietro e chiudeva gli occhi. Faceva forse, sospettava il fratello, il vecchio gioco del teschio, insegnato a tutti e due da una remota bambinaia berlinese. “La morte compare nello specchio, quando vi guardate troppo a lungo. Dietro di voi, poi davanti a voi. La morte trova, attraverso lo specchio, la strada che le sbarrano le mura, da cui la sviano le tende alle finestre.” La bambinaia aveva condotto più di una volta i due bambini a contemplare quella che chiamava con aria complice la porta dell’inferno. Si trattava di una pietra tombale barocca, in una famosa chiesa del centro, che doveva molta della sua efficacia alla semplicità dell’invenzione. E soprattutto al suo essere posta poco al di sopra del livello del pavimento: dunque esattamente all’altezza degli occhi di un bambino di cinque o sei anni. La pietra si fingeva, si finge, una grata a cui si avvinghi disperatamente, a mezzo busto, uno scheletro avvolto nel sudario. Tenuta a distanza dalla grata, e soprattutto dal luogo consacrato, la Morte riemerge (spiegava la bambinaia) dentro e sotto la nostra stessa faccia: nei momenti di scarsa sorveglianza, di abbandono colpevole al compiacimento per come ci sentiamo e ci vediamo. Il trucco funzionava sempre. Tanto il fratello che la sorella avevano provato, una volta dopo l’altra, a fissarsi lungamente negli occhi allo specchio: per sperimentare, non senza un brivido eccitante, sempre lo stesso effetto ottico. Si vedeva irrigidirsi e cadere il sorriso, affiorare i denti. E poi, per il fenomeno di inversione dell’ombra e della luce nello sguardo stanco, due nere occhiaie dilagare come due polle d ’acqua torbida dal fondo degli occhi riflesso: curioso, stranito.

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Ben altro era accaduto da allora, sospirò mentalmente il colonnello, guardando con discrezione e disapprovazione profonda, sul pavimento, il caotico groviglio dei vestiti usati della sorella, l’armadio aperto, le lenzuola attorcigliate sul letto. Ben altre inversioni di luce. Dalle finestre ferocemente sbarrate non erano potute entrare in tanti anni mai, galleggiando sopra i marezzi del colorato cortile, né la morte né il suo contrario. Le corolle di opaline delle lampade, sui cassettoni, sui tavoli, si spegnevano tutte insieme a tarda notte, comandate da un lungo filo e da un pulsante a forma di pera sulla toilette di Emilia. Si riaccendevano prima che si sentisse sbattere la più mattiniera delle imposte nel piccolo palazzo, che dalla strada arrivasse il rotolio dei furgoni della mondezza. “E’ andato via il maestro ? Ho bisogno di aiuto.” “Dimmi.” “Non posso chinarmi, lo sai, mi gira la testa. Me lo raccoglieresti tu il ventaglio di mammà che è andato a finire sotto al letto ? Sto male, sto male, fa troppo caldo. Lì, guarda. Grazie. Vai pure. No, un’altra cosa.” Frugò nel cassettino inferiore della toilette, si girò faticosamente a metà verso il fratello, gli tese insieme un piede, ancora nella ciabatta, e una bottiglietta rossa. “Io non ci arrivo. Me lo metti tu, lo smalto sulle unghie ?" Il colonnello si sentì improvvisamente soffocare. “Emilia !” Lei irrigidì la schiena, gonfiò il petto, buttò indietro con uno scatto la testa. La banda diagonale della garsonne si spostò violentemente di lato, liberando l’occhio destro: la palpebra chiusa, traversata fino alla guancia da una nitida linea viola. Ma il colonnello era già in ginocchio sul pavimento, davanti al piede di lei. “Dammi lo smalto.”

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XIII

Alla presenza in casa di una ragazza giovane, ancora prima che quell’idea di ragazza assumesse la faccia e le scontrose abitudini di Verginia, Lavinia Solari aveva pensato prima indietreggiando mentalmente, come minacciata: poi con un certo interesse. Un interesse crescente. Era uscita così onorevolmente, a suo stesso giudizio, dall’imbarazzo seguito all’imbarazzata telefonata di Beatrice. Portarla in giro a conoscere il quartiere, a orientarsi sommariamente sui quattro venti della città non poteva. Sì, forse una volta la settimana: quando fosse arrivato il marito a darle il cambio. Ma no, neanche allora. La domenica era l’unico giorno solamente suo. A ritrovarsi per le strade la ragazza, come tante altre ragazze, avrebbe dovuto imparare da sola. Ma potevano farsi compagnia. Senza bisogno di troppo caute parole. Avrebbero forse cucinato insieme la sera, quando Luna o l’altra avesse avuto voglia di cose complicate e più nuove. Lei detestava fare da mangiare per sé sola. Il bambino aveva bisogno di così poco, sempre dello stesso. E lei, per sé, aveva imparato a praticare tutti i formaggi, solo i formaggi: e li variava seguendo l’umore. La crescenza per i momenti secchi, la burrata per medicare le asprezze del risentimento, e nei periodi di curiosità e di leggerezza l’allegro pecorino di Pienza. Trovava invece divertente, e lo legava alla campagna e all’estate, l’occasionale ritrovarsi in due o tre in cucina a tritare, impastare e sbattere. Sapeva come sotto alle istruzioni tecniche, gli ordini più esigenti, le più drastiche pretese a cui avesse mai accettato di sottomettersi, affiorassero sempre in questi casi stravaganti e amabili storie. E quanto fosse molle e calmo, alla fine, l’abbandono verso il basso del braccio irrigidito da tanto girare. Aveva anche progettato di provocarla lei, una volta o l’altra, un’occasione del genere. Puntando direttamente allo zenit di questa pratica: organizzando una marmellata di giugno, con i milioni di ciliege Ravenna che producevano gli alberi di suo zio in Sabina. Si sarebbero messe a turno

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una o due a tirare fuori pazientemente i milioni di noccioli. Un’altra a pesare e a mescolare senza fine dentro a un’immensa pentola. Di quella cucina avrebbero fatto un’architettura mentale, un’accademia platonica. E l’accademia avrebbe stabilito riti e scadenze: lontane ma certe. Si poteva esplorare l’antico pianeta dell’agrodolce, per esempio. Si poteva gareggiare in gelatine aromatiche, in scure terrine. Ma rifletteva. Quel luogo teorico sarebbe stato assai imprudente tirarlo sopra la terra. Era incrinato, instabile: costruito dal rammarico, tenuto insieme da una storia mancata. Sarebbe successo, a volerci entrare, quello che accade a chi ascolta o legge di tre generazioni prima e, per puro abbandono, lascia che gli si aprano davanti quelle stanze chiuse. Vede, filo per filo, i capelli mossi giù per la schiena, gala per gala i vestiti bianchi di ragazze assorte a fare ogni sera un metro di orlo a giorno con le sorelle. Tende l’orecchio fino a sentirle parlottare e ridere dietro alla mano. Gli appaiono allora, il minuto dopo che la scena è diventata chiara, anche facce tirate e occhiaie, e calci sotto al tavolo: se appena si distragga o sonnecchi la grossa madre di sorveglianza dalla poltrona. Mischiate alle risate, coglie frasi taglienti: e qualcuna tira su col naso per dieci minuti di seguito. Un’altra si alza a un certo punto di scatto, e scaraventa il lenzuolo sul tavolo, la sedia a terra. Sbatte dietro di sé la porta, e rompe le minacce della madre: che sono ricercate e crudeli. Lei però di sorelle non ne aveva. Aveva passato, sì, da ragazza anni velenosi in collegio: ma aveva poi fatto quello che poteva per dimenticarsene. Dopo il collegio, aveva vissuto molto con lo zio vedovo e rigido in campagna. Così faceva sempre fatica a credere alle storie che sentiva raccontare dalle amiche. Competizioni, tradimenti, irrisioni fra le donne della stessa casa. Conosceva, invece, e queste le ricordava in tutti i particolari, le convivenze finite male della sua storia. Con un compagno del primo lavoro, pochi mesi dopo essere venuta via dallo zio e giù in città, e poi con il marito. Era ancora presente fisicamente, il marito, a occuparla. A incepparla. Con le casse ammucchiate nella stanza che era stata il suo studio: regali della madre di lui, medicinali scaduti. Un viaggio sottoterra, era stato la sua prima relazione: una discesa eccitante e paurosa. Ma la seconda l’aveva contratta lentamente, inavvertitamente. Aveva creduto di prendersi il contagio di qualche dimessa malattia. Un giorno, la malattia

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era esplosa in fistole e pustole, e l’aveva butterata dal lato nascosto della pelle. Le malevoglie fra donne, pensava, sono comunque un affare arioso. Asciutto. Non danno secrezioni né febbre. Le malefedi fra donne si ricambiano senza resti. E non aveva mai visto che lasciassero cicatrici. Ma poi. L’appena piovuta Verginia era tanto più giovane di lei, e non sarebbe rimasta in casa sua che sette o otto mesi. Veniva da lontano. Tutte le forme quotidiane, con lei, sarebbero state senza aspettative e senza regole. Avrebbero potuto diventare abitudini solo per convenienza di tutte e due. Verginia avrebbe forse una volta voluto insegnarle a lavorare il pesce, materia per lei di grandissima soggezione. O se no un piatto mezzo arabo che si ricordava di avere mangiato una volta nell’isola. Grossa semola fatta a mano, cotta a vapore insieme a molte verdure. Rotolata, a quanto le era stato raccontato allora, rapidamente fra le due palme. (Immaginava, per effetto del movimento, un corale ondeggiare di gonne). E per questo chiamata: foia ? (Le gonne). Fregola. Avrebbero potuto cautamente domandare. Se Verginia si decideva. Se accettava che lei le rispondesse.

XIV

C’erano cose che Lavinia non le avrebbe certo raccontato: come sua madre non tutto aveva raccontato a lei. Per la millenaria congiura della specie. Ma soprattutto per l’inutilità delle storie d ’altri, per l’inconseguenza della storia propria. Per la diffidenza di chi narra e di chi ascolta. Non verso i fatti in sé, ma verso ogni ordinamento dei fatti: da dove ordine è assente per natura. Gravitano, i fatti, si attraggono fra loro: e cadono giù senza altre ragioni se non di proprio peso. Ma pure: anticipare sensazioni che non conosce chi non ne è stato una volta sorpreso. Commentare le trasformazioni, non tutte sgradevoli, di un corpo che sembra di un’altra e si muove con te. Che a volte, senza di te, fluttua, sprofonda e a suo capriccio si arresta. Per un nuovo senso degli odori, prendi da un momento all’altro a detestare la tua più costosa colonia,

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e riesci a sentire separato, in quello che mangi, il sapore di tutte le materie. In una stanza affollata, ti viene incontro l’urto della presenza di ognuno. Ti colgono svagamenti mai provati prima, malinconie segrete, il cuore in gola: e sempre il sonno. E i consigli pratici, gli anni in più, i medici, le farmacie, i vestiti ? Lei, comunque, era lì, continuamente in casa. Quando Verginia si fosse un po’ consolata, quando avesse deciso di venire fuori, si poteva pensare a parecchie cose. Ma la porta di Verginia rimaneva ostinatamente chiusa, e le persiane, aperte in tutto il resto della casa, sembravano essere state da lei sbarrate una volta per tutte. Lavinia continuava a portarle regolarmente da mangiare in camera: con dubbi sempre più forti, tuttavia, perché poi ritrovava i piatti sotto al letto praticamente pieni. E di vestiti speciali la ragazza non sembrava avere un gran bisogno, se non si alzava mai. Fu così che a Lavinia venne voglia di scuoterla, invece, quella ragazza indifferente e sempre stesa. Di spaventarla a morte, se confortarla non le veniva permesso. Non la guardava neanche, Verginia, quando lei le entrava in camera. Non abitavano nella stessa casa. Una di loro due credeva di essere lì, e non c’era. Lavinia lottava contro il rimpianto, e ogni giorno di più contro il rancore. Aveva sempre bisogno di parecchi minuti, dopo ognuna di quelle visite, per muoversi come prima nelle sue stanze. Per di più, da che viveva con lei Verginia, non riusciva a dormire. Dalla finestra sempre senza persiane guardava strisciare sul pavimento la silenziosa risacca del giallo e del verde, le ombre piene delle nuvole. Per qualche ragione, le si era riaperta la memoria. Cercava di ostacolarla, e non poteva. Una sull’altra irrompevano sopra di lei sempre le stesse ore. Le passate, le ricacciate ore del precipizio. A testa in giù verso la macina, il torchio. Risentiva la risposta sprezzante del medico a cui aveva chiesto di farla dormire, un quarto d ’ora soltanto. La ricomparsa, a sprazzi, della faccia del medico: stavolta seria e tesa. Le giravolte sempre più strette, sbattendo la testa di lei, una dopo l’altra, contro tutte le sporgenze di quell’abissale sprofondamento. Le ruote sempre più larghe delle gambe. Moltissimo tempo dopo, le avevano posato di traverso sopra lo stomaco il bambino. Rianimato laboriosamente, aveva poi saputo, e ancora molto bianco. Aveva una testa grandissima, e una piccola faccia triangolare. Due settimane più tardi, erano cominciate le convulsioni.

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Aveva deciso, a Verginia, di non parlarne affatto. Ma sapeva che qualche cosa avrebbe finito per raccontargliela. Per sé. Ma anche per lei. Le avrebbe dato da pensare. L’avrebbe scossa e, sperava, spaventata. Avrebbe dormito di meno. Avrebbe dormito peggio. E sarebbe pure dovuta venire fuori, una settimana o l’altra.

XV

Per una bizzarra irrequietezza di quel giorno, il colonnello non riusciva a stare seduto a lungo sulla solita sedia, davanti al solito tavolo. Gli restava la spina di qualche oscuro adempimento trascurato, di una scadenza saltata, lui che non ne saltava mai, di una dimenticanza. Dimenticanza ? La casa era senza polvere e ordinata, nella penombra di sempre. Aveva perfino pulito con l’alcool lo specchio della sorella, raccolto con qualche disgusto da terra e fatto sparire, in attesa della lavandaia, il fagotto della biancheria. Non aveva fatto il letto di Emilia, certo: ma non lo faceva mai, né lei glielo chiedeva. Decideva da sé, Emilia, sul capriccio del momento, se lasciarlo aggrovigliato e pendulo come quando, assai tardi, si era alzata, per potercisi ridistendere anche soltanto un’ora dopo. O se tirare invece fuori dagli armadi le sontuose lenzuola del corredo di sua madre, e rifare il letto completamente. Magari cambiando ancora lenzuola il giorno dopo e per parecchi giorni di fila. In questi casi Emilia aveva gesti di grande precisione e scrupolo, e passava molti minuti a sistemare simmetricamente i ricami del bordo, a lisciare i pizzi. Avevano mangiato, lui aveva lavato i piatti e li aveva risistemati doverosamente nella credenza. Che cosa faceva oggi dunque che non si sentisse il diritto, dal momento che anche Emilia si era come tutti i pomeriggi riaddormentata, di guardarsi finalmente pagina per pagina, sulla più importante delle sue riviste, l’anticipato, il vantato servizio fotografico aereo sulle Galapagos ? 11 colonnello pregustava, sfogliando, il violento chiaroscuro delle illustrazioni: le coste frastagliate e nere e, dal lato degli

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isolotti battuto dal vento, il bianco bordo di schiuma. Provava, per concentrarsi, a figurarsi l’effetto curiosamente artificiale dei cento crateri simmetrici, dal basso di chi si trovasse arrampicato sulle cupe rocce basaltiche. Si esercitava a pensare se stesso in mezzo a quei licheni, smossi appena qua e là da gigantesche lucertole, sotto i voli stridenti e incrociati degli uccelli. Doveva allontanarsi, quel paesaggio, fantasticava, ugualmente da ogni altro luogo sulla terra. Aveva forse le forme stesse e i colori del suo popolo animale: freddo, rugoso e infinitamente arcaico. Il colonnello si sforzava di vedere gli scogli logorati, a forza di addormentarvisi lungamente al sole, dalle tartarughe marine, il sottosuolo sconvolto da milioni di tane di Amblirinchi, il dedalo dei sentieri battuti per millenni dalle stesse testuggini. Si attardava intenzionalmente a leggere, nel testo stampato a fianco delle fotografie, certi passi del diario di viaggio di Darwin. Sapeva che lì era balenato per la prima volta il gigantesco sistema: e ancora più inquietanti, più durature intuizioni. Nella nave che l’attraversa sta lo scopo di ogni tempesta in mare, scriveva per esempio Darwin. Contro di lei, e su nessun altro obiettivo, si dirige la furia dei venti. Il colonnello rifletteva: finendo sempre per consentire. Ma continuava, in un andito dello stomaco o della mente, a tormentarsi dello stesso imprecisato rovello: che non poteva essere rimorso, e certo non somigliava al desiderio. Qualcosa aveva inceppato gli ingranaggi del grande orologio che regolava da almeno quarantanni le sue viscere e i suoi passi. Un fastidio, un’omissione, un disturbo... ma certo ! Come era potuto accadere che non si fosse visto, dalla sera precedente subito dopo cena, il maestro Doglio: che dunque il maestro avesse mancato ben due delle tre visite al giorno al di là del pianerottolo, necessarie per lui a sopravvivere, utili ai suoi vicini per verificare, in quell’unica occasione, la prosecuzione del mondo oltre la porta blindata dell’ingresso ? Utili forse, cominciava in quel momento ad accorgersene il colonnello, per i modi stessi di quella frequentazione. Per il riserbo reciproco, per la dignità del vecchio signore che non possedeva neanche una finestra, per la qualità comune al loro differente isolamento. Aveva imparato, il colonnello, nel corso della sua lunga carriera a giudicare gli uomini da segni assai piccoli, sotto le regole che li rendono tutti uguali. Sapeva, dunque, come distinguere un silenzio di orgoglio da un silenzio filosofico,

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l’accettazione dalla rassegnazione. Il breve saluto uguale di tre volte al giorno, il passo misurato e senza rumore che traversava e riattraversava l’anticamera a cera parlavano con chiarezza, all’occhio, all’orecchio di un militare: abituato a valutare il rigore della mano portata al berretto, a pesare la disciplina della camminata. La ripetizione, dicevano quei passi e quel saluto, è il motore stesso della sopravvivenza. Ma fortunatamente è anche ipnosi, anestesia, vertigine, espansione. E le cose perdute asciugano. Alleggeriscono. Riportano una storia individuale al semplice principio di tutte. C’è una curiosa gloria, nell’avere finito di appartenere a sé. E’ domenica, oggi, pensò il colonnello, come ho fatto a non ricordarmene ? Domenica, festa. Può darsi che quello che non è accaduto in più di vent’anni sia accaduto oggi. Un vecchio allievo, magari quello che gli dava più soddisfazione, l’unico che afferrava a volo anche le coloriture, le allusioni della voce, deve essere riuscito a scoprire dove abita il suo insegnante di un tempo. E’ venuto a sorprenderlo, sicuramente. A portarselo a casa a pranzo, a fargli conoscere sua moglie. A raccontargli del suo lavoro. Avrà fatto una carriera brillante, con quelle capacità, anche di questi tempi. Avrà la macchina: e con la macchina lo riaccompagnerà certamente a casa stasera. Ma passò tutta la mattina, il giorno dopo, lunedì, senza la scampanellata esitante del maestro. E il colonnello, che pur sorvegliandosi come al solito era diventato sempre più nervoso, tanto da avere risposto seccamente alla sorella e da averne avuto in cambio un altro di quegli sguardi sprezzanti da sotto un occhio solo, decise che dopo pranzo avrebbe fatto qualcosa. Appena messa a posto la cucina, e riappeso fino all’ultimo strofinaccio, uscì sul pianerottolo e fece quello che non aveva fatto mai, e che non faceva a sua conoscenza nessuno: perché nessuno poteva avere ragioni di salire a domandare una cosa qualsiasi al maestro. Suonò alla porta di Doglio, aspettò, controllando l’orologio, cinque minuti buoni. Risuonò, bussò con le nocche e poi con il pugno. Vedeva passare la luce dalle fessure di una porta che certo non era, come la sua, blindata. A quanto aveva capito di lui, il maestro non sarebbe uscito mai lasciandosi dietro la lampadina accesa. Con la miseria della sua pensione, con quelle bollette da furto. Rientrò in casa sua, chiuse con cura la porta, rifletté. Doveva essersi sentito male, il maestro. Essere a casa e non potere rispondere. In fondo

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aveva almeno dieci anni più di lui, e sempre l’aria malandata. Avrebbe potuto chiamare il medico che visitava tutti i mesi Emilia, e sfondare con lui la porta. Prese in mano il telefono, di cui era molto orgoglioso e che era il solo del palazzo, con la signora Solari e il figlio malato di lei, a possedere. Ma si fermò subito, ricordando il modo oltraggioso in cui sua sorella aveva aggredito l’ultima volta il dottore. Per un leggero ritardo, per un’inventata impazienza. Non sarebbe venuto di certo, il dottore. E in tutti i casi non avrebbe voluto saperne, di forzare la porta di chi non aveva mai neppure visto. Bisognava trovare un’altra soluzione. Il colonnello De Nicola cercò, nell’esile elenco del telefono, il numero dei carabinieri. Chiese di parlare con un suo vecchio amico, il maresciallo Orlandi.

XVI

Sopra di sé, a distanza, una lunghissima e maculata volta a botte: che differiva, come può differire una cattedrale da una cantina, dal soffitto a pentagono irregolare, due angoli retti e tre variamente ottusi, dell’antica anticamera. Dove il maestro viveva ormai da venti ? da quasi venticinque anni. Più o meno dal giorno in cui Filippo se ne era andato ancora ragazzo in Germania, a cercarsi un lavoro di tecnico meccanico, metallurgico. Filippo, che da bambino riusciva miracolosamente sempre a rimettere insieme le molle e le ruote dei pagliacci battipiatti di latta, smontati e rotti dai figli di tutto il casamento. Si fabbricava invidiati carretti e carriole, Filippo, con quattro tavole spaccate, scartate, e con i cuscinetti a sfera inutilizzabili che gli regalava l’officina in fondo alla strada. Si capiva subito che sarebbe andato lontano, comunque e dovunque: con quelle mani leggere, con quelle rapide idee. Nonostante certi tratti che lo avevano isolato dagli altri ragazzi, e forse gli avevano messo la prima idea di andarsene via. Piccole cose, del resto. Un leggero incespicare, sputare e arrestarsi della

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lingua sulle sibilanti. Una vaneggiarne paura davanti a tutti i cani: mentre gli altri ragazzi ci si strofinavano d ’istinto dal primo momento. Fossero i pechinesi che le signore eleganti usavano tenere in braccio, negli anni in cui Filippo era ragazzo, o il bastardone irsuto di pastore che legava di giorno nel recinto, e slegava di notte, il suo secondo padre, il padrone deH’offìcina. Certo che sarebbe andato lontano, Filippo; e il padre non aveva avuto il coraggio di trattenerlo, di mettergli addosso i suoi dubbi. Diciott’anni soltanto, e nessuno in Germania neppure per ospitarlo nei primi tempi, e la lingua tutta da imparare, e i vestiti sicuramente inadatti e pochi. E ancora meno soldi per cominciare, una volta pagato il biglietto del treno. Basta, il ragazzo ce l’aveva fatta. Molto presto. E lui aveva avuto ragione di tenersela di qui, la tristezza, dalla sua parte e per sé: a non fargli perdere la spinta. Nel giro di un anno, Filippo era stato assunto da una grande acciaieria di Potsdam; e le lettere che scriveva a casa da allora avevano preso a parlare di cose esatte e pesanti. Erano anche, certo, sempre più disturbate e strapazzate nella lingua. E il padre maestro soffriva dannatamente dalla voglia di rimandargliele corrette. Ma accadeva anche che questo figlio cresciuto, che guadagnava, gli mettesse un rispetto, e quindi un silenzio, che non avrebbe prima mai previsto. Non correggeva, dunque. Non rimandava niente. Sovrapponeva, invece, le pagine ordinatamente in uno dei suoi due cassetti. Le lettere di Filippo parlavano nei particolari di dove e di come dormiva, di come e di dove cucinava per sé, di quello che mangiava. Dei soldi messi da parte, che gli avrebbero permesso presto un vero affìtto. E lenzuola, coperte, lampade. Degli incontri, sul lavoro e fuori del lavoro. Della fatica, la sera, anche di andare a ballare o a bere una birra da qualche parte. Della prima ragazza che gli era piaciuta, italiana come lui e piccolissima di statura, con cui aveva finito per stare forse un anno e mezzo o due. Della seconda, tedesca, che meditava di sposare. Che il padre doveva assolutamente conoscere. Rossa, con i capelli lunghi giù per la schiena. Venisse dunque su appena possibile, il padre, pregavano, ingiungevano le lettere. Poi avevano smesso di insistere su quel tema. E poco per volta avevano anche smesso di arrivare. Filippo aveva cominciato, ricordava mentre credeva di dormire dentro

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al molle naufragio del suo cuscino il maestro Doglio, aveva cominciato abitando per un periodo a pensione da una signorina anziana, che dava lezioni di pianoforte fino a tarda sera: quando lui cercava disperatamente di addormentarsi, sapendo che la sveglia avrebbe suonato alle sei, con la coperta tirata sulla testa. E poco per volta si era accorto, come di una sorta di miracolo, che la coperta non serviva più a molto. Che gli allievi che sentiva suonare dal letto erano diventati sempre più bravi. Avevano smesso di inciampare eternamente nello stesso punto, non ricominciavano continuamente da capo, e neanche gli scivolava più tanto orribilmente sui tasti la mano. Ma sviluppavano invece con disinvoltura ognuno il suo pezzo. A volte addirittura con eleganza. E arrivavano tutti fino in fondo, senza che lui fosse obbligato a tenere il fiato per aiutarli come poteva da lontano. Aveva poi capito, Filippo, e ci aveva messo qualche settimana, che non gli allievi avevano fatto, per qualche prodigio, tanto rapidi progressi: ma che la loro insegnante, proprio per un riguardo a lui, aveva mandato alfaria tutti gli orari. E dunque teneva, durante la giornata, soltanto per le sue orecchie i ragazzini pigri, le adolescenti innamorate, i focosi, gli angosciati, i distratti. Mentre la sera chiamava ad esercitarsi i suoi più brillanti e più vecchi scolari: vicini ormai a staccarsi da lei, avviati ognuno per la sua strada. Perché facessero scordare al giovane pensionante oltremontano il freddo insanabile della sua stanza, i malumori, i rimpianti strazianti e senza oggetto. A forza di conturbanti, di dolenti, di demoniache, di stranite tempeste di Schumann. Il maestro Doglio, che dopo aver colto quel primo scorcio di sconosciuto soffitto aveva richiuso gli occhi, fiacco e frastornato come si sentiva ancora, tornò a spalancarli, a questo punto, di soprassalto. Che cosa gli aveva riportato alla memoria, dopo tutto quello che c’era stato in mezzo, e nello stato in cui si trovava lì steso adesso, le lontane, le sbagliate, le coraggiose prime lettere di Filippo da Potsdam, e, dentro le lettere, certe fotografie di folti interni con palme e tende e tappeti ? L’aveva colta a mezz’aria e tutta per strade indirette, il padre, la storia dell’educazione alla Germania, e certo anche dell’educazione a se stesso, di Filippo a casa della signorina Rosenzweig. Dov’era rimasto forse tre anni, chiuso, protetto e guidato al di là dei più irragionevoli desideri di chiusura, di protezione e di guida

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di un genitore italiano. Da dove era poi finito per fuggire malamente, Filippo, alla prima proposta di mettersi insieme (in un sottoscala) con una ragazza della sua età. Una scappata goffa, certo, crudele. Il padre rivedeva (sulle fotografie) l’interessante piega ironica alla bocca della signorina Rosenzweig, le belle mani professionali. Salvarsi, salvarsi, ragazzo. E che cosa mi fa pensare oggi a te con la stessa smania con cui ti pensavo allora e dopo mai, con la guerra di mezzo e il tuo divorzio dalla ragazza rossa che non ho visto neppure in fotografia, e le bombe e i treni tagliati, e te che hai perso i capelli e me malato e il niente che ho più saputo di te da tanti anni, che cosa se non questo maledetto adagio di Schumann che mi fruga da mezz’ora e geme: e io gemo. E non accenna a finire, non so chi lo stia suonando, non capisco da dove venga. Da una radio. La radio di chi ? Aprire gli occhi, tenerli aperti, girarli. Davanti a sé, senza occhiali com’era, il maestro non vedeva che una collinetta bianca, che si scrollava se muoveva i piedi e dunque doveva essere la sua coperta, con dietro le sbarre verticali di una spalliera. Al di là, una lattiginosa distesa senza contorni, con certe macchie più scure, e una fila di finestre sopra. Aperte. E’ giorno. Fa caldo. Ho freddo. Piano a girare la testa. Solo la testa. Subito a sinistra, un letto alto e bianco come il suo, con la coperta tirata e in cima un profilo scuro, fermo, con la bocca aperta. Russa, non forte. Più oltre, molti altri letti sfocati, confusi: divisi soltanto da una sedia. Odori ? Odori. Un letto uguale a destra. Ma sopra, con la faccia vicina alla sua e fìssa proprio sul suo risveglio, un ragazzo seduto. Con tanti capelli neri, e senza la necessità, lui, o senza il desiderio, di appoggiarsi ai cuscini. Un letto più in là, una grossa schiena voltata dentro a un pigiama a righe, e un braccio che armeggia sopra la sedia. La radio ? Scoppi, raschi, fruscii. Lo Schumann eterno, tormentoso, si è bruscamente interrotto. Gli sta bene. Ma poi ? Le notizie. Dramma nel lebbrosario di Acquaviva. Strangola il rivale, che lo riduce

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in fin di vita a coltellate. I due lebbrosi si contendevano i favori di una compagna di sventura. La tragedia si è svolta nel pomeriggio di ieri, durante la proiezione di un film a carattere passionale nel refettorio del lebbrosario. Pesanti commenti, a mezza voce e sempre voltato di là, del proprietario della radio. Ho conosciuto uno che si era preso la lebbra da soldato in Africa. Un bidello della Leopardi. Andando a donne, certo. Non credo che ci fossero molti altri contatti. Aveva imparato a curarsi da sé, non male, a casa. Ma gli erano rimaste sulle mani come delle scottature scavate, dai bordi bianchi. Li ritagliava, quei bordi, periodicamente, con le forbici delle unghie bagnate nell’alcool. Con più fatica e più lentamente sulla mano destra. Al tavolo del corridoio, davanti a tutti: per passare il tempo. Ci scherzava sopra, e chiamava i ragazzini a guardare. Giurava che il contagio non esisteva più da anni, glielo avevano detto i medici. E poi non faceva male, la lebbra, da dentro. Lui non si era sentito mai tanto voglioso, tanto capace. La pelle che levava era solo un ottuso di più. Un diaframma. Un impaccio alla capacità e alla voglia. Da sotto, dal basso, veniva a mostrarsi aH’aria una faccia lucida e rosea. Le mani, i sensi erano più fini. I nervi serpeggiavano in superfìcie. Dalla corteccia sorda e morta si svincolava eccitata una nuova bestia, flessibile e colorata come una biscia dopo la muta. Il maestro richiuse gli occhi e tentò disperatamente di scivolare ancora all’indietro. Di ritrovare, in Germania e nel sonno, la tana di non molto prima.

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XVII

"Avanti. Ah, Passariello. E’ una mattinata infernale. Non vi avevo detto di rivolgervi per ogni cosa... Chi ? Fatelo passare. Vengo subito. Nella stanza accanto.” Il colonnello De Nicola, che era stato seduto fermo e diritto, con il suo panama chiaro sulle ginocchia, sull’orlo di una scomoda, scucita poltrona marrone, si alzò quando vide venirgli incontro Orlandi. Anche troppo sorridente, per compensare l’inizio ringoiato di malumore; e con un largo gesto delle braccia. Dubitò brevissimamente sul modo di salutarlo. Che cosa si aspetta, un amico rivisto, e nell’agitazione, nel disordine di due giorni prima, dopo più di trent’anni ? Ma risolse verso il basso e verso il passato. Per una stretta di mano nel suo stile fibroso, risparmiatore. “Non hai troppo da fare ? Veramente ? Io dimentico. Sono andato in pensione da tanto tempo, appena mi è stato possibile, forse te l’ho già detto, e non sempre mi rendo più conto.” “Non ho da fare se tu sei qui. Avrei voluto tante volte che venissi a raccontarmi... Mi sono domandato, cioè. Tante volte. Di te e di Emilia. Che cosa facevi tu, che cosa faceva lei. Se avevate cambiato casa dopo che eravate rimasti soli. O dopo l’incidente. Nessuno mi ha più raccontato. Non vedo più nessuno, del resto. Neppure tu, credo. Nessuno, comunque, del gruppo di quell’estate. Ti pensavo sposato da un secolo, ne ero sicurissimo, anzi. Con figli grandi come i miei. Sai che sono vedovo ? Da quasi otto anni.” “Non lo sapevo. Mi dispiace. Mi dispiace. Com’è morta, Luisa ? Una donna notevole. Non la conoscevo molto, ma mi piaceva. Mi dispiace che sia morta. Mi dispiace di non averlo saputo.” “Un’operazione all’intestino. Credo sbagliata. O per lo meno inutile. Ma che te ne parlo a fare ? A che serve pensarci ancora. Non è stato un brutto matrimonio. Preferisco pensare a questo. Non è stato neanche facile, però. Per parecchi anni. Allontanamenti, potrei raccontarti, al di là

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dell’orizzonte. Ma poi ci siamo ritrovati, lei e io, stranamente, naturalmente, per tutto quello che pioveva dall’esterno dalla stessa parte. Senza neppure consultarci. Difficoltà sul lavoro, problemi di casa, soldi, storie di figli. E ancora più tardi io ho trovato lei e, spero, lei ha trovato me dalla stessa parte anche nelle cose che capitavano dall’interno. Che sono di più, alla nostra età. Che durano di più, fanno stare peggio. Non saprei dirti meglio dì così come è andata. Ma forse ti basta." “Credo di avere capito. Io non ho grande esperienza. Prendimi come sono. Dalla parte dov’ero io non mi pare di avere trovato mai nessuno. Neanche chi teneva a me. Cercavano tutti, questo almeno me lo ricordo, di farmi spostare almeno un po’. Di tirarmi in avanti, di spingermi a fianco, di ricacciarmi indietro. Io non ho grandi risorse. Ho un temperamento povero. No, no, parlo sul serio. Lo so che avrei dovuto almeno provare. Mettermi io dalla parte di qualcuno. Ma ce la facevo a mala pena a tenermi puntellato là dov’ero. E ce la faccio, anche adesso, a mala pena. Te l’ho detto. Io non ho molto fiato.” Il maresciallo Orlandi era meravigliato, a disagio. “Di Marta mi ricordo benissimo”, cercò di arginare. “Stai parlando di lei ? Eravate stati i primi a mettervi insieme. Sembrava che tutto filasse liscio. Che cosa è successo, da quando non ci siamo più visti ? Se hai voglia di parlarmene, naturalmente”, aggiunse in fretta. “Niente è successo, con Marta. Fino a due anni fa. E non ci siamo messi insieme. Ci siamo fidanzati. Con un anello di mia madre, che aveva sopra una perla bianca e una perla nera. E brillantini in giro. Bello, sembrava a me. Bello, aveva detto lei. Andavo a trovarla tutti i mercoledì sera, e la domenica pranzavo da lei. E da sua madre, e da suo padre. Poi soltanto da lei e da sua madre, quando suo padre è morto. Avevo pensato che poteva venire lei da me qualche domenica, e magari passarmi a prendere, e salire un momento, i venerdì che si andava a teatro. Ma con Emilia non è stato possibile spuntarla neppure una volta. Non la voglio qui, non la voglio. Ti proibisco di farla entrare. Non la voglio. Te lo ricordi, tu, come erano amiche, tanti anni prima ? Bene, Marta non ha insistito. E, come ti ho detto, non è successo mai niente. E’ una signora, Marta. I primi anni, la domenica dopo mangiato lei si metteva a fare progetti su come sarebbe stata la nostra casa. Su quello che mi avrebbe fatto trovare, al mio ritorno

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dalla caserma. Sulle serate con la radio. E le mie riviste geografiche. E le sue riviste di giardinaggio. E il bridge, una volta alla settimana. Poi, non saprei più dirti se gradualmente o da un momento all’altro, non ne ha parlato più. Mi faceva regali, con bigliettini. E lunghe dediche sul frontespizio dei libri che comprava per me. Dopo avermeli magari soltanto sentiti nominare una volta a volo.” Il colonnello si interruppe, sembrò brevemente meditare sulla scelta delle parole, riprese. “Una signora, ti dico. L’estate passavamo in un albergo di montagna, io lei e sua madre, i quindici giorni che mi lasciava liberi Emilia, quando andava a Chianciano. Festeggiavamo gli anniversari dell’anello in un ristorante con le candele. Il giorno dopo le candele della ventinovesima volta era appunto un mercoledì. E io stavo seduto da lei come al solito. E Marta mi ha detto, con il tono gentile e calmo che stava usando per parlare di un mio raffreddore all’inizio, che mi lasciava, che si sarebbe sposata tra tre mesi, che avrebbe cambiato città. E sua madre sarebbe venuta al nord con lei, naturalmente. Per gli anni che aveva ancora davanti. Non mi ha detto chi stava sposando, e io ho cercato di non farmelo dire da altri. Neppure dopo. Soprattutto, non da Emilia: che sicuramente lo sa.” Silenzio. Il maresciallo Orlandi non trovava molto da dire, e commentare non voleva. Fare nuove domande ancora meno. Preferì cambiare argomento. “E pensare che ci siamo ritrovati, tu e io, a più di sessant’anni tutti e due, buttando giù la porta di quel vecchietto tuo vicino. Meno male che mi hai chiamato. Chissà da quanto tempo stava lì per terra. E meno male che hai chiamato me. Credo che la casa l’avrei ritrovata ad occhi chiusi. Non ero stato da voi molte volte, da ragazzo. Ma una vetrata come quella non l’ho vista mai. E che sia riuscita a resistere ai bombardamenti ! Di giorno sventolava e cambiava, mi ricordo, leggera che pareva una deriva d ’alghe vista da sott’acqua. La notte, ci si muoveva dietro la luna come un ragno. Mi ricordo che, se stavi bene, te ne invasavi, di quelle mutevoli trasparenze. Neanche avessi bevuto. Ma bastava che tu fossi per qualche ragione in pena, e ti mettevano un rovello, un’ansia, che ti saresti buttato volentieri dal primo ponte.” “Noi”, disse il colonnello, “Emilia e io, dalla vetrata abbiamo deciso

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di difenderci. Teniamo sempre chiuse le persiane. Per noi, è già andata molte volte in pezzi. Non sappiamo neppure più come fosse fatta.”

XVIII

Il campanello di Lavinia Solari suonò affrettatamente due volte di seguito in piena notte. Una delle notti di luna, e delle lune a ragno, che il maresciallo Orlandi ricordava tanto bene. Il lucernario era chiaro e nero come se non avesse avuto mai colori. Nel cortile e sopra le scale si muoveva allargandosi, deformandosi, la tela sbieca dei piombi. Lavinia aspettava con tutte le luci accese, e non dormiva. Con precipitazione scese a incontrare, sul portone, l’elegante signore con i capelli bianchi e la borsa in mano. Dopo un attimo di dubbio, lo prese sottobraccio e lo guidò per salire. Le venne in mente che per la prima volta in vita sua si permetteva di trattare con tanta confidenza il suo vecchio pediatra. Di nessuno, che si ricordasse, aveva avuto un tempo la stessa soggezione. Più silenziosamente che potè, gli aprì e gli richiuse dietro la porta di casa. Ferma sopra una sedia, fuori della stanza di Verginia, Lavinia attese venti minuti, mezz’ora: senza che le venisse in mente di fumare, o di leggere. Poi ricomparve il dottore, e andarono insieme a sedersi con più comodità nel soggiorno. Lei gli portò dalla cucina del vino bianco e del formaggio. E di nuovo chiuse con attenzione. Non parlarono di Verginia per prima cosa. Ma conversarono della casa, della vetrata e delle curiose persiane chiuse, fuori, sui quattro lati: che dall’intemo, notò il dottore, scomparivano completamente. Murate, murate le aveva il vecchio padrone, spiegò Lavinia: il costruttore del palazzetto. Murate da dentro. Molti anni prima che nascesse lei, in quella stessa stanza. E quando lei era nata, il vecchio se ne era già andato da molto, chissà dove. Nel bell’appartamento in alto, subito sotto i vetri, non abitava già più nessuno. Murate perché, dopo averle fatte aprire ? Lei non sapeva niente

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direttamente, è naturale. Ma sua madre raccontava, commentava: qualche volta. Era venuta fuori così, per accenni staccati, davanti alla piccola Lavinia, la storia del figlio del padrone. Unico, e maschio. Un ragazzo, sembrava, nero, lunatico, bello. Quindici anni o poco più doveva avere quando, per bravata o tristezza, aveva scavalcato una mattina molto presto la ringhiera di ghisa alla sua finestra. Due giorni dopo, il padre chiamava gli operai. Accecata la casa a lutto, chiusi fuori gli andirivieni e i traffici, dichiarata davanti a tutti la sua insanabile lite col mondo, credette di potere stare meglio. Ma dopo quattro mesi partì da solo, e non lo rivide nessuno. E la madre del ragazzo ? domandò il dottore, versandosi ancora del vino. La madre del ragazzo. Con lei cominciava un’altra storia. Narrava dunque ancora, la madre di Lavinia, che la signora non volle lasciare la casa dove era morto suo figlio, e ci rimase dentro con tutti i camerieri, diversi anni dopo la partenza del marito. Riprese anche a uscire, vestita assai elegantemente, certi pomeriggi. Ma la sera non usciva. Riceveva, piuttosto, qualche visita. In particolare, saliva e scendeva frequentemente le sue scale un giovanotto del quartiere che bene o male, e forse più male che bene per via della sua fama di fanfarone, attaccabrighe e donnaiolo, mandava avanti una sua botteghina di barbiere. E che finché c’era stato il barone era venuto tutte le mattine alle sette per fargli la barba. Nel palazzetto si seppe presto, per lingua naturalmente dei camerieri, che la signora beveva. Beveva molto, sola e non sola che fosse. Alchermes e nocino, centerbe e fernet. Cognac, chartreuse, Grand Mamier. Su e giù per le scale della baronessa cominciarono a vedersi internisti famosi: cui capitava a volte di incrociare il vistoso barbiere, e di voltarsi con sostenutezza dall’altra parte. Dritto in faccia guardava invece il giovanotto la gente del palazzo. Studiava la sua pelle umida e i duri, ricciuti capelli. E non si curava poi neppure di abbassare davanti a lui la voce, nel caso in cui avesse commenti da fare. Solo i pochi ragazzi della casa, raccontava ancora la madre di Lavinia, lo salutavano allegramente scavalcandolo giù dai gradini. Poi i camerieri erano stati mandati via tutti insieme, il grande appartamento padronale era stato chiuso, venduti mobili, specchi e quadri. Il lontano barone, dal lontano Sudamerica, aveva deciso (pareva) da un

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momento all’altro di non pagare più i conti della moglie. Andasse piuttosto in ospedale a curarsi il fegato. O se ne tornasse in Sicilia, a riaprire il freddo e chiuso palazzetto sul corso, dai balconi scolpiti. Ma la signora non tornò nella casa di famiglia a Palermo, e non chiese a nessuno dei suoi famosi internisti di ricoverarla. Perché il barbiere era venuto un giorno a prendere lei a piedi, e su un carretto le sue valige. E se l’era portata all’altro capo del quartiere, a casa sua, nell’unica grande stanza sopra la bottega. Altro la madre di Lavinia non sapeva, o non voleva raccontare. Ma se la baronessa non si era poi mai più vista rientrare nel suo appartamento con gli stucchi all’ultimo piano, a casa del barbiere doveva essere rimasta. E non per forza.

XIX

Si andavano già schiarendo le finestre interne. Sul pavimento cominciò a strusciare, sotto le luci accese, una pallida sbavatura di verde. “Non preoccuparti per la ragazza, Lavinia”, disse finalmente il dottore. “Certo, non sono io lo specialista che le serve. Che le servirà, voglio dire, fra tre o quattro mesi. Ma ho visto abbastanza per dirti che non c’è niente che non vada. I dolori glieli ha scatenati qualche spavento. Occasionale o forse continuo, che abbia raggiunto stanotte il massimo. Se ne sta lì tutta contratta e tesa. Più che spavento, sembra vero orrore. Lo sai che non sopporta neppure di essere toccata ? Ha subito la mia visita con repulsione e rivolta, allontanandomi tutte le volte le mani. Ha forza, e alla forza ha costretto anche me. Le ho fatto un’iniezione di tranquillante, e adesso dorme. Ma come te la caverai tu con lei, fra non molto ? Scusa se mi impiccio delle tue cose. Sai bene che non l’ho mai fatto. Ma forse, per una volta, a me lo permetterai.” “Ha urlato ininterrottamente da ieri sera”, rispose Lavinia. “Io stavo da Lorenzo, la sera è il peggiore momento, e non potevo né andare né farle capire che, appena possibile, sarei andata. Ma poi, sembrava che urlasse

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non per chiamare, o almeno non per chiamare me. Io lo conosco, il richiamo di Lorenzo. E’ uguale, insistente: e non finisce mai. Quella voce uscita da Verginia, che con me in tante settimane quasi non ha parlato, pareva invece non riguardare né lei né me. Si sollevava, ricadeva seguendo un andamento appreso. Non so come spiegarle. Non era un vero mugolio, e neppure un pianto. Aveva un ritmo, delle riprese, un disegno. Assomigliava, se qualcosa doveva pure fare venire in mente, a una nenia funebre. A un’improvvisazione collettiva davanti al fuoco, stordita dalla contemplazione. All’accompagnamento di un moto ondoso, cullante. Non era lei, in qualche modo, a gridare dentro alla sua voce. Ma qualcuno molto più vecchio, molto più saggio di lei. Molto più desolato, anche, di quanto lei non mi sia mai parsa. Molto più solitario. Ho capito che non chiamava, come le dicevo, o almeno che non chiamava me, quando finalmente sono riuscita a entrare nella sua stanza. Che recitava, ripeteva, cantava per qualcuno molto lontano di qui. Non si è interrotta, non ha cambiato tono. Forse non si è accorta neppure che le sentivo il polso, che le bagnavo la faccia. E quando mi sono seduta accanto a lei, e le ho preso la mano, è stato per me molto difficile restare lì ferma, sperando che si calmasse. Aveva una mano dura, aperta e con tutte le dita tese. Le sono cresciute le unghie, in queste settimane sempre a letto. All’inizio ho pensato che non le arrivasse nulla. Che non sentisse le mie mani intorno alla sua. Poi sono stata sicura che mi sentiva, invece, e non mi voleva. Anzi, le unghie, la durezza, erano per me. Così mi sono alzata e sono venuta a telefonare a lei. Svegliandola di notte. Mi perdoni. Ma sono riuscita a pensare solo a lei.” “Dopo tanto tempo, Lavinia”, rimproverò alzandosi faticosamente dalla poltrona il vecchio dottore. “Dopo tanto tempo, sì, dopo tanto tempo.” “E non vuoi portarmi un momento anche da Lorenzo, prima che me ne vada ? ” “Non posso. Vorrei. L’ho voluto dal primo giorno che l’ho visto così. Ma mio marito me l’ha proibito. Lei sa che fa il suo stesso mestiere, in un altro ospedale. Ha detto che suo figlio lo cura lui. Con me non discute neppure, e non mi spiega. La domenica sera, quando se ne va, mi lascia scritte le istruzioni della settimana. Compra lui le gocce, e tutto il resto.”

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Le strusciature verdi avevano invaso ormai tutto il pavimento, e cominciavano a risalire sulle pareti. Si complicavano di colori caldi. Il dottore non aveva fatto altre domande. Ma sulla porta, dopo averlo ringraziato, Lavinia rispose lo stesso. “No, lo cura soltanto. Non ce la fa, a stare con lui tanto tempo di seguito. Dopo i primi sei mesi se ne è dovuto andare.”

XX

Che il maestro Doglio fosse riuscito tanto rapidamente a riemergere dallo stato di letargo e peggio che letargo in cui lo avevano ricoverato, che potesse ormai senza eccessive vertigini restare seduto sul letto anche due ore, che ce le facesse a mangiare i brodini e i passati dell’ospedale senza dovere continuamente riposare il cucchiaio sul vassoio, veniva considerato un vero miracolo: a quanto almeno lui si sentiva dire intorno, sul vento dei passaggi, sul vortice dei medici. Del ricovero ricordava, rimpiangeva, un se stesso fatto di cose lievi, forse di filo e di appendici pendule. Una dolce deriva senza scarpe, finita nell’urto contro una porta a vetri illuminata: e lui scaraventato al di là, precipitato a capofitto. Con un fracasso, per di più, che smentiva tutte le sue schive abitudini. Neanche si fosse trattato di un ambasciatore: gli avevano raccontato della scorta di carabinieri, risentiva lui stesso le sirene. Un ambasciatore, se pure, scherzava dentro di sé il maestro, di un poverissimo paese: dell’isola più piccola e più sterile che avesse mai bucato la faccia degli oceani. Senza neppure una valigia com’era, senza un nécessaire: e invece, ai piedi della barella, con un involto pericolante dentro una coperta a quadri. Lì il colonnello De Nicola aveva ficcato, nell’agitazione, il poco che aveva potuto trovare: due mutande, un pigiama e due o tre tomi scompagnati di un’illustre storia romana. Non dentro a quel suo dimesso pigiama, ma in uno altrettanto dimesso a righe marroni, uguale a quello di tutti gli altri, il maestro se ne stava

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seduto ora sul letto, rasato e con gli occhiali sul naso. Davanti a sé sperimentava da una mezz’ora almeno l’osservazione delle scrostature sull’angolo del muro a lui più lontano, delle alte file di finestre, delle ragnatele all’angolo di innesto, sulla volta, del fusto del lampadario. Riusciva anche ad abbracciare con la coda degli occhi l’intera estensione della campata orizzontale, e gli ultimi letti sul fondo, di numero e simmetria imprecisati perché schermati irregolarmente da paraventi bianchi. All’esposizione peninsulare del suo letto su tre interi lati, su tutti e due i più lunghi, secondo allineamenti governati altrove, aveva ormai fatto l’abitudine. Sapendo di essere condannato sempre troppo presto a riscivolare in fondo alla bolla cieca della vecchia stanza, aveva da qualche suo non frugato diverticolo ricevuto il coraggio di rinunciare intorno, sopra e sotto a sé a qualunque barriera, parete, muraglia, schermo, diaframma, tramezzo, bastione. Il risultato di questa simultanea scopertura da tutti i lati era, bizzarramente, un effetto di non bilanciatissimo innalzamento. Una beccheggiante levitazione a mezz’aria del povero sé nel largo pigiama marrone, sostenuto da materasso e coperte. Che non esattamente del galleggiamento estatico di certi santi della provincia toscana si trattasse, il maestro era arrivato dopo un certo tempo a ipotizzarlo: spinto almeno altrettanto dalla coscienza della propria pochezza fìsica e metafìsica e da un incallito razionalismo. Preferiva pensare invece a uno scherzo prospettico della testa pesante sul cuscino, costretta a proiettare sopra di sé la piramide inversa e pressoché vuota della sua visione. Fatto era comunque che il basso e l’alto si erano ormai stabilmente scambiati di posto: come aveva scoperto, e continuava a verificare, nelle fuggevoli occasioni quotidiane (vertici del significato, zenit degli accadimenti) in cui il cielo vuoto del letto arrivava a stringerglisì sopra improvvisamente: contornato ai margini del campo visivo da una natura morta pelosa e lustra di teste, e in mezzo un baratro d ’aria tanto profondo, o forse tanto addensato dai fiati, da azzurreggiare. Capelli dappertutto in controluce, arruffati, intricati, espansi, alternati a tese, irregolari profilature di crani: e in primo piano baffi, riverberanti lenti, cravatte pendule, denti d ’oro. Aveva dunque scoperto, in quelle occasioni, il maestro, che il suo punto d ’osservazione dal basso tendeva a rovesciarsi assai facilmente in pulpito,

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cattedra, pergamo. E che, meschino e steso com’era, si trovava, se solo voleva, a torreggiare solitario e severo: neanche fosse, il suo, il planare di un colombo Spirito su quelle sussiegose teste, così molli e indifese nelle parti basse delle mandibole, del collo. Bastava ricorrere al semplice espediente di fissare sempre il punto vuoto in mezzo a loro e nessuna di loro. Così gli era capitato da schifiltoso, giovane insegnante di paese, di dominare solo guardandoli per un certo tempo di seguito, dalla non grande altezza della pedana sotto la sua sedia, un branco raffreddato e malcresciuto che gli altri insegnanti temevano. Al filo di ricordi come quello era appuntata tutta intera la dignità del vecchio maestro, che sapeva di essere in pericolo, momento per momento, di un nuovo sommergimento, di un naufragio definitivo. Quel rinfilare, quel riappuntare divenne molto presto, di necessità che era stato, un libero e segreto lavoro che occupava, nelle giornate di ospedale, molte ore. E se non se n’erano accorti per loro incuria i medici, se n’erano invece assai chiaramente resi conto i vicini di letto del maestro. A cominciare dallo sfacciato ragazzo alla sua destra, che aveva tentato il primo giorno, guardandolo fisso a lungo senza neppure schermarsi, di approfondire le sue indagini sulle grosse lenti e sulle mani curiosamente tremanti del vecchio maestro. In restituzione, aveva ricevuto un’occhiata fredda e secca come quelle mani, e si era dovuto girare dall’altra parte. Deposto, da quell’occhiata, dalla dubbia egemonia cui l’aveva involontariamente sollevato la sua sovrabbondanza vegetativa in una stanza di sfasciati e di perduti; sciolto, di conseguenza, anche degli obblighi di invadenza e di prevaricazione che a quella egemonia si accompagnavano, il ragazzo si scelse con vero sollievo una parte diversa. Si permise di piagnucolare, e una volta cominciato piagnucolò poi dalla mattina alla sera, per il male alla gamba che l’aveva portato in osservazione in quel reparto, dove attendeva già da mesi il trasferimento alla sezione chirurgica. Il male non passava mai, mentre sempre passati erano prima o poi gli altri mali della sua breve esperienza, cadute, tagli, botte. Si fece vedere spaventato per i sogni violenti di quasi tutte le notti, e sconfortato. La madre in Calabria, raccontava continuamente alle infermiere, poco o nulla poteva mettersi in treno e arrivare su a trovarlo, con gli altri figli da badare, con i lavori della campagna; e nulla o poco poteva scrivergli.

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Così il ragazzo passò rapidamente all’altro estremo e divenne umile, quasi servile nei confronti del vecchio signore calvo e con gli occhiali alla sua sinistra: di cui sapeva vedere la risolutezza nel modo in cui teneva sollevati, se si sentiva guardato, il collo e il mento. Era l’unico della corsia, il ragazzo lo capiva, il vecchio maestro, capace di tradurre per lui le allusioni e le oscure battute che sentiva i dottori passarsi senza guardarlo sopra la sua testa. E magari capace di molto di più e di meglio: di intercedere per lui, di ragionare nel suo interesse, di fare ragionare lui nell’interesse dell’ospedale. Di protestare, anche, alto e chiaro, con l’autorità del suo visibile prestigio, contro la minaccia imprecisata che andava addensandosi ogni giorno di più intorno al letto del ragazzo. Di proibire che su di lui si scatenassero i più selvaggi arbitri. Che gli toccasse magari entrare direttamente in una delle truci storie di pali, di unghie e di pelle strappate che lui e il fratello minore si attardavano a raccontarsi al buio prima di dormire. O, peggio di tutto, trovarsi a conoscere gli orrori sublimi del martirio, che duemila anni prima ragazzi e ragazze non più grandi di lui, gli ricordava sempre il parroco, avevano santamente affrontato senza levare mai gli occhi dal cielo sventolante di palme.

XXI

Dal maestro il ragazzo era stato definitivamente conquistato un giorno preciso, nell’occasione di una bizzarra notizia sfuggita alla solita radio sempre accesa due letti più in là. Pareva dunque, aveva detto la radio, che in una non nominata città della Russia, sotto l’immane arruffamento di carte, buttate all’aria e di nuovo accatastate alla rinfusa trent’anni prima dalla Rivoluzione, un esperto archivista (o uno storico di certo mestiere; o un impiegato ministeriale incertissimo di qualunque mestiere e più del suo, che cercava momentaneamente tutt’altro sotto una pila di fascicoli sul suo tavolo, una bolletta privata della luce, o la lettera clandestina della ragazza con cui aveva avuto l’estate scorsa la doverosa avventura di cui

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parlare in ufficio, e che ora doverosamente stava cercando di seminare), pareva dunque che qualcuno con una lunga pratica professionale di documenti avesse messo le mani sopra a una bizzarra relazione, indirizzata allo zar e datata subito prima della prima guerra del secolo. Si trattava di un resoconto ufficiale: il consuntivo, firmato nome cognome e patronimico da un aviatore militare, di una spedizione cartografica fra le maestose montagne del Kurdistan. Dell’aviatore, diceva l’articolista, non si erano avute in seguito altre notizie. Aveva forse finito per perdersi con l’aereo in qualche sconosciuto fondovalle. O, senza aereo, nel suo letto. O infine, sempre senza aereo, in Siberia. Scriveva dunque nel suo rapporto il perduto aviatore che gli era capitato un giorno di avvistare, sorvolando un giogo montuoso particolarmente alto di cui faceva il nome, incastrato nel ghiaccio un corpo indefinibile, gigantesco, scuro. Era un uomo di iniziative, l’aviatore col patronimico, anche al di là delle consegne: e forse era stata proprio una o l’altra di queste non autorizzate iniziative ad averlo portato, anni dopo, a non dare di sé altre notizie. In una settimana aveva organizzato una spedizione fatta di guide locali e di due o tre esperti raccogliticci, di nazionalità disparate: un archeologo, un geologo e lui stesso come geografo. Dopo un giorno e mezzo di cammino il piccolo gruppo era finalmente arrivato a mettere mani e piedi sulla grossa Cosa: che grazie alle trasparenze si vedeva ancora non poter essere stata un tempo che una nave. Larga e tozza, e tutta fatta di legno duro. Cedro, sarebbe risultato in seguito quel legno, dall’analisi dei prelievi. Tavole ampie, lunghe: chiare forse in origine, oggi bruciate dal gelo. Ma ancora con tracce di una sostanza cerosa spalmata sopra che doveva averle difese dall’acqua, se in acqua erano state, e sicuramente protette dal ghiaccio. Il gruppo era coraggioso, o comunque aveva fatto troppa strada, e troppo faticosa, per accontentarsi di questi primi dati. Spicconando a turno in direzione di una chiazza rettangolare più tenebrosa del resto, si erano aperti con grandissime difficoltà un passaggio verso il ventre, conservatosi chiuso e cavo, della Cosa. E si erano calati dentro uno dopo l’altro, e in quell’immenso dentro si erano aggirati a lungo con le pellicce e le lampade. Intorno a una sorta di irregolare corridoio centrale, si aprivano infatti centinaia di scompartì piccoli come nicchie e grandissimi, separati in qualche caso da graticci, ma per lo più da tramezzi tutti forati e più o meno

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robusti. A quei tramezzi avevano visto fissati anelli e pali, e sul pavimento contenitori di varia grandezza. E in fondo al corridoio un’alta cella speciale, rotonda, aperta verso il ponte da una tralicciata leggera. La stessa sera, probabilmente mangiando intorno al fuoco acceso dalle impassibili guide curde per scaldarsi dopo tanto ghiaccio, i tre tecnici avevano scambiato (in francese ?) qualche prima opinione esitante, parziale e del tutto non tecnica. L’archeologo pensava che vani tanto diversi fra loro, e tanto curiosamente arredati, non potessero essere che gabbie. Destinate a bestie di taglia e natura assai difforme, ma per qualche ragione tanto preziose e rare da giustificare la costruzione di una nave tutta per loro. Il geologo ipotizzò che la tonda camera col traliccio fosse stata pensata, e forse usata (ma questo non sarebbe stato possibile affermarlo con sicurezza mai), come un’immensa voliera. Il geografo, l’aviatore che firmava il rapporto, aveva preferito per il momento soltanto porre la mostruosa questione centrale. Se il Reperto era dunque un’antica, forse antichissima nave, se il suo carico sembrava essere stato una grandiosa scelta di animali volanti, zoccolanti, saltanti, striscianti, che cosa mai poteva aver fatto sistemare una simile stazione zoologica galleggiante proprio in mezzo alle montagne più alte dell’Impero, lontana migliaia di chilometri dal più vicino specchio d ’acqua dolce o salata ? La risposta, la più ardita, ma anche la sola pensabile, l’aviatore se le era tenuta dentro fino al ritorno della spedizione, alla dispersione dell’improvvisato gruppo di studio (che pochi anni dopo sarebbe stato disperso ancora più definitivamente dalla guerra) e al lavoro sul rapporto diretto al suo zar. Lo zar, lui lo sapeva devoto e pensoso almeno quanto si vantava di essere lui stesso, allevato da una madre malinconica e religiosissima e odiatore di un padre quasi mai visto: fedifrago, a quanto gli dicevano, oltre che miscredente. Quale ipotesi dunque la maestà dello zar avrebbe voluto accettare più potente per convincimento, superiore per suggestione a quella che ora gli sottoponeva, minutamente e rispettosamente argomentando, l’ufficiale-scienziato: che cioè nella Cosa, nella Casa di cedro e di cera si potesse e si dovesse ravvisare la nave delle navi, l’Arca, arenatasi sulla prima sporgenza emersa a ripopolare la terra offesa col frutto delle sue viscere, belve, volatili, gente, serpenti ? Con bella coloritura e voce doverosamente emozionata la radio aveva

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dato la notizia, e su questo interrogativo, al picco supremo dell’intonazione, si interrompeva: per lasciarsi soppiantare da un pezzetto jazz, soffocato, sincopato. Proprio l’escursione di quella voce, che sostituiva un commento esplicito, aveva tuttavia anche lasciato capire l’incredulità e il distacco. Pensava forse, la voce, quello che pensavano quasi tutte le orecchie verso cui veniva dirigendosi. Che da oriente, e da quell’oriente, nient’altro che favole sono sempre venute; e spesso favole sanguinarie. Che nei trentanni e più dalla relazione dell’aviatore una prima e poi una seconda guerra erano riuscite sicuramente a sbriciolare anche l’ultima scheggia dei ghiacci nel Kurdistan. Come avevano saputo rivoltare, e questo poteva testimoniarlo la memoria vicina che stava sotto a ogni paio di orecchie, settecento città dalle fondamenta, e dalle radici i boschi. Che meglio sarebbe stato continuare a pensare a Noè come al triste inventore dell’allegro vino; e dimenticare quali conseguenze della sua scelta, sottrarre le esistenze altovertebrate all’eleganza, defraudarle del sollievo di un annegamento universale, stessero ancora pagando, e avrebbero continuato a pagare nei figli dei loro figli, il giornalista che leggeva la notizia, e ognuno dei suoi ascoltatori visibili e invisibili. E moltissimi altri che avevano in quel momento troppo da fare, o erano troppo lontani, o penavano troppo per farsi ascoltatori anche loro.

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In forma più compendiosa, e soprattutto fatti di più espressiva e tagliente materia, senza reticenze e senza litoti, i commenti sul vino e sull’acqua, sulla grande fine e sulle fini che non finiscono traversarono la corsia da un capo all’altro, dopo il momento di sospensione seguito alla mirabile storia. Il ragazzo ascoltava, non capiva molto, si guardava in giro meravigliato. Poi dovette comprendere meglio: perché si buttò d’improvviso steso sulla schiena nel suo letto, si tirò lenzuolo e coperte sopra la testa e rimase immobile per parecchi minuti di seguito. Lui che nessuno nello

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stanzone aveva mai visto, con tutta la sua gamba malata, starsene fermo o qualche tempo zitto. Allora parlò il maestro, forse per la prima volta da quando era entrato, alto e chiaro anche lui. Nessuno conosceva ancora la sua voce, e parecchi si voltarono sorpresi: dato che fino a quel momento lo avevano sentito limitarsi a rispondere brevemente a medici e infermiere. Era una voce non più arrochita dal lungo uso professionale, o che da quell’uso aveva avuto forse il tempo di guarire, dal gran risparmio che il maestro ne faceva anni dopo anni dentro alla sua chiusa vescica. Una voce che, curiosamente, l’età non era ancora riuscita a frantumare. Disse che molte arche e non una, credesse pure la radio di averla, quell’una, stavolta ritrovata e ripersa, dovevano essersene andate capricciosamente a galla lungo la lunga storia della gente e dell’acqua. Convergendo fra loro, divergendo, incrociando le rotte. Quale quindici cubiti, quale cinque al disopra delle vette più alte. Quale sfregandosi pericolosamente la chiglia contro le creste sommerse. Disse che non c’era forse montagna della terra dove non si potessero ritrovare, mischiati alle ammoniti, fossili d ’assi piallate. Né popolo che non avesse in qualche oscura forma favoleggiato di continenti orgogliosi devastati dalla mareggiata nel corso di un’unica notte; di navi caricate a caso e di furia, quella notte, con appigli per la sussistenza, con future memorie. Feticci familiari e rotti resti, coperchi di vasi inabissati e destinati a coprirsi di conchiglie, avanzi di un ricco raccolto di grano bagnato di sale, che non avrebbe mai potuto rigermogliare. E gente morta dentro le urne cinerarie tenute per tanto tempo in casa, e bestie vive: tutte quelle che per prossimità e per terrore erano riuscite a irrompere, urtandosi, mordendosi, sopra le tavole malsicure della nave, e che si erano rifiutate di scenderne anche davanti alla frusta e ai bastoni. Le velenose, le domestiche, i ruminanti, gli anellidi, i parassiti: nel numero della loro prepotenza e del loro panico. Per specie imprecisate e casuali, costrette in futuro ad accoppiarsi fra loro e a ibridarsi fino al limite concreto delfibridabile. Mentre altri ibridi già lungamente evoluti, uomini cavallo e grifoni, sguazzavano tutto intorno alle barche con l’acqua fino alla bocca, e tentavano disperatamente di salire, risdrucciolando, urlando, affogando. E disse ancora, il maestro, che certo nuovi naufragi si sarebbero abbattuti a cancellare altopiani e coste. Che presto le città disugualmente

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sfigurate dalla guerra sarebbero state ingoiate da un immane e più uguale rigurgito. Che nelle convulsioni sarebbero emersi fondali millenari coperti di cespugli e arbusti mai visti, dove altre arche non più di legno avrebbero sbarcato diverse e altrettanto accidentali combinazioni di cose e dì corpi. E i corpi avrebbero tentato ancora una volta di impiantarsi, di riprodursi, incrociandosi fatalmente e nuovamente differenziandosi. Morendo, neH’esperimento, all’inizio larghissimamente, ma poi velocemente ripopolando di specie nate da quell’irripetibile combinazione le pianure vicine al mare. Dal mare risalendo le montagne, spingendosi attraverso i deserti, fermandosi, rimettendosi per smanie periodiche in moto: fino alla prossima mareggiata. Alla ricerca forse di un particolarissimo assestamento, ricordato soltanto dalle cellule di qualche organo oscuro, nascosto nel fondo di un individuo o di tutti. Alla ricerca di un bilanciamento perfetto e perduto della collettività entro se stessa e con l’ambiente: che aveva richiesto una sperimentazione di millenni e non molto dopo essere stato raggiunto era stato spazzato via dall’acqua e dal vento. Nel tono di voce del maestro saliva una lugubre passione, conveniente al suo lugubre soggetto. Ma intanto il ragazzino si era tirato giù dalla faccia le coperte, aveva riaperto gli occhi e li teneva fissi sul soffitto: come guardandovi svolgersi una tumultuosa, impressionante rappresentazione. Da quel giorno era sembrato compiere un salto di età, che fu presto assai visibile a tutti. Scomparsi quella coazione centrifuga, quel dimenarsi che avevano fatto, della zona intorno al suo letto, una polla permanente di disordine e di irritazione. Non però che il ragazzo dimostrasse, con la nuova disciplina, un’accresciuta consapevolezza di sé. Era rimasto, invece, preso nella gravitazione verso un altro centro a lui esterno. Aveva preso a dipendere caninamente dalle regolarità, e dalle assai ridotte iniziative, del suo vicino di sinistra, il maestro. Lo sorvegliava sott’occhi, si imponeva di imitare il suo modo sicuro di maneggiare forchetta e coltello, inseguiva dalla mattina alla sera la sua approvazione. Capì così che era il momento di smettere, a ogni passaggio dei medici, la stessa lagna di bambino, che occorreva rinunciare a tormentare con domande ripetute gli altri malati adulti, con capricciose richieste le infermiere. Passava ora le giornate saltellando servizievole sulla gamba buona, tutto in giro al letto del maestro: sempre occupato a raccogliergli qualcosa che fìngeva gli fosse

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caduto, a rimettergli a posto i cuscini, a spianare e a tirare, dalla parte dei piedi, le bianche frange della coperta. Trovandosi inaspettatamente adottato per nonno, il maestro reagiva con fastidio. Teneva alle sue vedove abitudini. Non intendeva permettere assalti alle lunghe concentrazioni, o forse agli interminabili abbandoni, che si concedeva a metà mattina e dopo pranzo, con la testa immobile sul cuscino e con gli occhi chiusi. Pure, dormisse o fìngesse di dormire, si sentiva anche allora arrivare per ondate riflesse le piccole scosse di quel maldestro lisciare e tirare. Lo stanavano ogni volta dal suo rifugio mentale. Lo costringevano a riaffiorare, suo malgrado, dalle bluastre profondità dove si sforzava di perdersi. Svegliavano, addirittura, la sua attenzione professionale di un tempo, l’acutezza e la velocità ormai lontanissime delle sue percezioni. La capacità che lo aveva tanto inorgoglito, e che oggi trovava indicibilmente faticosa, di cogliere con l’angolo dell’occhio il più furtivo dei movimenti, con la testa voltata il richiamo più mascherato. E gli pareva, a tratti, che quella sua coperta tirata dalla parte dei piedi, e ritratta da lui subito verso l’alto, fosse diventata un laccio e un legame. Credeva di trovarsi a stringere, insieme alle frange, il capo di una corta fune trattenuta dall’altro lato: e non capiva se di un capestro, e da che parte, o se di una corda di salvataggio, e per quale dei due. Sapeva però che uno dei contendenti a quella fune, e non era facile dire se l’altro o lui, si trovava sospeso momentaneamente sopra l’orlo di uno spaventevole baratro. E che alla fune in qualsiasi momento l’altro o lui era libero di lasciare senza preavviso la presa.

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Dovendo, per liberarsi di quei richiami, fare comunque qualcosa, e inorridendo all’idea di fungere a chiunque da padre o da nonno, il maestro decise di fare quello che gli costava di meno e che sapeva meglio. Si valse, così, dell’autorevolezza che il suo sistema di guardare dall’alto, stando infinitamente in basso, gli aveva conquistata nella corsia; e riuscì a farsi portare, dalla grassa e sempre affannata infermiera di giorno, un pacco di fogli con l’intestazione dell’ospedale e una matita. Poi venne con il ragazzo a patti. O meglio, impose unilateralmente delle regole. Il ragazzo avrebbe lavorato senza saltare neppure un giorno, secondo orari rigidi e con un sistema fisso. Una mattina sì e una no, appena il ciclone dei medici avesse abbandonato la stanza, e l’eco dei loro allegri commenti si fosse definitivamente placata, il ragazzo avrebbe letto e riassunto un capitolo della mutila storia romana allineata sul comodino del maestro. Numa, Mario, Lucrezia. E i Gracchi: soprattutto i Gracchi. L’altra mattina avrebbe invece scritto un tema: che il maestro gli avrebbe corretto e restituito il pomeriggio. Il tema avrebbe sviluppato, così avevano convenuto, una volta argomenti di scelta del maestro. E si poteva stare sicuri che si sarebbe trattato allora di affermazioni indiscusse, di massime universali, che battessero solitamente sui meriti dell’ordine (cardine della creazione, principio di connessione fra i fatti, ragione stessa della tenuta del mondo). Ma la seconda volta il tema avrebbe avuto il permesso di articolare argomenti pescati fra le esperienze e le fantasticherie del ragazzo. Tutte fatte, al contrario, di cose rotte e sconnesse, pungenti come vetri scossi nella memoria. Odori forti, ruvidi ricordi, povere storie anguste e non finite. Il maestro sapeva il suo mestiere. Riconosceva nell’asprezza di quegli effetti, accentuata dal calcare irregolare della matita che scavava crepacci e gravine sul foglio, l’intensificazione portata dalla separatezza, il ragazzo chissà come scaraventato qua e rimasta tutta là la sua vicenda. La violenza, dunque, non delle cose in sé, ma delle cose che si temono per noi morte

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e si sanno lontane. Sapeva tuttavia cogliere anche altre ragioni di quel risalto: neH’immaturità logica, nella dispersione emotiva. L’uso della memoria dentro a quell’informe cervello sembrava provocare ogni volta una catastrofe, un’esplosione di pezzi nel vuoto e dal vuoto: anziché una gravitazione di quei pezzi (a questo dovrebbe aver capito la memoria di servire, questo scopo soltanto avere imparato a proporsi, dopo millenni di tentativi sbagliati in altre direzioni) verso un punto centrale di quiete. La correzione del tema, il pomeriggio, era perciò tutte le volte di un’accanita pedanteria, di un’ingenerosità disperante: e durava ore. Praticamente l’intervallo intero fra le patate e lo spezzatino di mezzogiorno e la minestra delle sei: il lungo spazio di tempo in cui gli altri ricoverati più temevano gli attentati irrequieti del ragazzo, perché quasi tutti più spossati e più tetri; più inclini nel pomeriggio ai malumori delle mancanze. Ma il maestro sapeva quello che faceva, e stranamente non si stancava neppure mentre lo faceva: nonostante la fiacchezza e la testa vuota che gli aveva lasciato il collasso ormai lontano, e che non accennavano ancora a passare. Con gran dispendio, a voce, di entimemi e di esempi, e consumo appena meno enfatico di matita (tracciando occhielli in giro a certi gruppi di parole e cerchi intorno a periodi interi, per esempio, tirando righe spezzate per tutti i versi del foglio), il maestro isolava, faceva vedere, costringeva a prolungare. Non si considerava soddisfatto, e non mollava né l’argomento né la matita, finché il ragazzo non fosse arrivato a rintracciare minuti collegamenti di causa e effetto, a stabilire l’inizio e la fine di ogni fatto narrato, a fornire informazioni e dettagli, a esaurire, a completare. Esausto ogni volta anche lui come una bestia, saccheggiato come il suo miserabile lessico, il ragazzo piangeva, quasi, quella slegata e visiva storia romana, ponti di barche, rostri e pugnali, che lo aveva imbrogliato il giorno prima e lo aspettava per insidia il giorno dopo. Desiderava ormai soltanto di girarsi dall’altra parte e dormire, una volta restituito al portantino il vassoio della cena: lui che da quando arrivava a ricordare aveva temuto la calata della notte, e sul bordo del sonno veniva sempre fuggevolmente afferrato dal ribrezzo, come all’orlo di una scarpata troppo ripida. Neanche avesse passato, per quella spossatezza, una giornata intera a correre dietro alle pecore, come faceva abbastanza volentieri a casa finché la gamba non aveva finito per fargli troppo male. O a curvarsi e

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rialzarsi continuamente per la vendemmia (cosa invece che gli evocava sgradevoli sensazioni appiccicose) dietro ai calcagni della madre e dei fratelli. Tiranneggiandolo, asservendolo, il maestro era convinto di disegnare invece, per il ragazzo, un progetto di liberazione e di rivolta. Intendeva forzarlo ad acquistare abitudini attive verso il suo opaco presente, e aggressive verso il suo povero passato. A sbrogliare l’aggrovigliato, a finire l’incominciato. A distinguere instancabilmente nel vago, e impadronirsi una volta per tutte di costanze soltanto subite, quando non tormentosamente sofferte. Imparando a maneggiare le regole del racconto, avrebbe saputo infilare a collana su un unico ago sensazioni rotonde, cocci aguzzi di reazioni, pensieri come denti. E in quell’esercizio sapeva pure di mostrarsi tanto feroce, il maestro, perché dello stesso ago aveva avuto tanto spesso bisogno anche lui di servirsi nella sua lunga vita. Per ricucire i momenti strappati, rammendare i momenti bucati, ricamare, addirittura, sopra alle macchie della vergogna e dell’orrore. Al possesso e all’uso di quell’ago doveva se la sua storia era una storia, invece di un fascio di disfatti e di fatti. Finita o non finita che fosse, e a questo punto ben poco importava che lo fosse, nel fondosacco della sua cieca anticamera. L’ago era rimasto appuntito e a portata di mano, come dovunque, all’ospedale: senza che glielo avesse dovuto mettere dentro al fagotto il colonnello. Era di filo, invece, che il maestro non se ne trovava addosso più. Quello che aveva tanto usato aveva dovuto rompersi senza rumore, perché troppo corto o troppo teso, o per l’inceppo improvviso di un nodo, in un punto imprecisato del passato. Il ragazzo, che era convinto di non essersi portato nel lontano ospedale del nord niente di suo, ne possedeva invece, di quel filo, a matasse intere: anche se sporche, malamente aggrovigliate, e forse neppure dipanabili interamente in futuro. La furia pedagogica del maestro, che rinvigoriva lui meglio delle medicine e rendeva il ragazzo ogni giorno più silenzioso e più pallido, mirava appunto, dove arrivava, a sbrogliare senza pietà. E se occorreva, a tagliare di netto i peggiori garbugli. Quando non addirittura a scomporre il filo stesso nei suoi tre o quattro filamenti attorti, e seguire di ognuno il leggero andamento a spirale: come nasceva, dove portava. Con cautela, stavolta: perché fra tutte le chirurgie didattiche che aveva

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praticato, un tempo, con energia e convinzione, il maestro sapeva che non ce n’erano di più rischiose, né di più dolenti. Come la maggior parte degli ospedali, che le città affollate di vocianti e di vitali relegano sul fondo sfocato della percezione, anche quello dove il ragazzo e il vecchio si erano trovati ad abitare due letti a fianco era una macchina sgangherata e affannosa. Costretta una volta al giorno, sull’urto dei molti medici che parlavano tutti insieme, intasavano brevemente tutti insieme i corridoi, a girare troppo in fretta per lo stato dei suoi ingranaggi, passava il resto della giornata a medicarsi di quelfurto, girando per inerzia sempre più piano. Accadeva per questa ragione soltanto a scadenze rade, o per imprevedibili urgenze, che la macchina dedicasse una cospicua parte delle sue energie a iniziative non solo inerziali: per esempio a pulizie di se stessa macchina non affrettate. Per rivoltare da capo a fondo e fìngere di rinnovare un letto bisognava almeno che ci fosse morto dentro qualcuno, e anche sotto gli occhi di tutto il resto della corsia. Fu così soltanto molto tempo più tardi, quando il ragazzo già da parecchi mesi era stato riportato in Calabria, e il maestro aveva lasciato l’ospedale da circa un anno, che qualcuno ritrovò sotto un materasso del reparto chirurgico uomini un fascio arrotolato di fogli, con una faticosa e molto segnata scrittura a matita. Il nuovo navigatore di quel letto, che sperava di non diventarne, come altri che si vedeva intorno, anche il futuro naufrago, passò diverse giornate di fila a cercare onestamente di leggere. Ma continuamente tornava a smarrirsi, e non capiva. Trovava storie interrotte che erano forse sogni accidentati, e forse cattivi riassunti di cattivi racconti: popolati, in un caso o nell’altro, di pelosi e crudeli animali. E poi cataloghi di nomi di città inesistenti o scomparse, liste di date, allocuzioni che cominciavano “O Pompeo !”, lettere che finivano “dal vostro affezionato figlio”, dialoghi contegnosissimi o tracotanti trasferiti in discorso indiretto, sviluppi di massime incoraggianti, “volere è potere”, e di altre massime deprimenti: su quello che accade a chi troppo vuole e troppo poco può, o stringe, o sa. Il nuovo barcaiolo del letto, che del troppo poco stringere e potere riteneva di essere un esperto mondiale, finì per stancarsi di leggere cose di tanto sforzo. Cose rotte e deformi, piatte cose scritte per qualche scopo chissà da chi: dove la limitatezza, si vedeva, era stata un’impotenza e non

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uno stimolo, una vera pena. Chiuse gli occhi: e pensò prima di addormentarsi di vedere, nel disordinato rotolo di fogli che il movimento dei suoi piedi faceva beccheggiare pericolosamente di sotto la coperta, una minuscola nave. Una sporca, urlante, appesantita nave di Noè, destinata a un’interminabile deriva, cinque cubiti d ’acqua o forse più sopra la storia privata e la storia romana.

XXIV

Il campanello della domenica era, da parecchi anni, una guglia, un pinnacolo, uno zenit nella settimana di Lavinia: che avrebbe voluto essere disperata e disordinata, e naufragava invece, ogni giorno più pianamente, nella torva limaccia delle regole. Ma stavolta il campanello suonò talmente tardi, ore intere al di là dell’attesa, da sorprendere Lavinia addormentata sul divano dell’ingresso. Con la gonna del tailleur strapazzata dalla posizione falsa del sonno, e accanto ai piedi, per terra, il foulard con i papaveri, la giacca e la borsa. Si tirò su di scatto, irritata per quel suo abbandono come da un tradimento, stranita dal calore dei riverberi gialli e verdi: che dovevano averle sfolgorato a lungo, trionfalmente, in piena faccia. All’assedio del mondo sveglio, con quello strepito di luci, con quel brutale avvampare, la sua presenza a sé rispondeva lenta. Si raggrumava intorno a un doppio principio di disagio. Torpidi e dolenti sentiva il fianco sinistro, il braccio, la gamba. E pungenti i capelli, tutti infeltriti davanti. Con la miope fissazione della memoria appena desta, ricordava invece di averli lisciati e lavorati a lungo. Verso l’alto, all’indietro. Ripetè, con le mani, i gesti all’indietro e verso l’alto della spazzola. Sentì, passando, il gonfiore bagnato ai lati degli occhi. Le vibrazioni del campanello andavano finalmente morendo nell’aria. E una nuvola doveva avere coperto il sole. Faceva quasi freddo, da un momento all’altro. Andò ad aprire, ancora spenta e passiva. Il marito le apparve, sul pianerottolo, in controluce: più solido e pesante

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contro la danza sfarzosa dei vetri. Aveva addosso un incongruo, elegante impermeabile. Gli occhiali, il portamento, la barba scura conservavano tracce (macchie, piuttosto, chiazze, pensò Lavinia) del fantoccio autorevole che suo marito portava abitualmente in giro su di sé. In ospedale, nei ristoranti, per strada. Non dovevano essere molti, sospettava Lavinia, a intravvedere nell’imponente e controllato specialista il ragazzo che aveva sofferto per tanti anni di una penosa balbuzie, il giovane provinciale ambizioso, il figlio geloso e immortale. Quand’erano insieme, le venne da ricordare, lei aveva fatto il possibile per coprire in pubblico i suoi momenti di panico, per intromettersi in certi vuoti improvvisi. Ma soprattutto le era toccato lavorare, discretamente, a spezzare le punte di una vertiginosa arroganza. Aveva imparato, in questi casi, a deviare con prontezza, a ridere, a ridurre. Ma dopo, quando restavano soli, quelle punte spezzate le ricadevano addosso tutte insieme. Vedeva, con spavento, i buchi mondanamente elusi dilatarsi in un unico buio baratro. Il lutto appena distratto, che aveva rischiato di scaricarsi, devastandolo, sul più vulnerabile, o sul più incauto, che in quella serata gli fosse capitato a tiro, tornava ora a sfuriare contro di lei come, sulla scogliera, una violenta mareggiata d ’inverno. Dopo, accadeva sempre che lui si addormentasse di colpo: e lei se ne andava invece, a calmarsi, a gelare, nelTaltra stanza per ore. Si portava libri tutti diversi, le sigarette, e una scatola di biscotti. Metteva su, bassissimo, un disco jazz di quand’era ragazza. Lo rifìccava poi dove capitava, come rinfilava a casaccio i libri (e certo non li avrebbe, un’altra notte, ritrovati, non avrebbe potuto, e non voleva, riprenderli al segno), una volta arrivata all’ultimo grado dello stordimento, e pronta finalmente al sonno. Oppure coglieva al momento la luna, una luna. Se ne andava allora senza fare rumore per le strade intorno: a rintracciare qualcuno, qualcosa, un capriccio. A verificare magari soltanto una somiglianza fuggevole. Un’ipotesi, che il giorno dopo non avrebbe neppure ricordato. La simmetria delle tuie, di qua e di là da un portone a tre gradini. La conchiglia sopra un frontone, una targa, uno scorcio. La mattina non si svegliava, mentre si agitava e risfolgorava il cortile vetrato. Non era ordinato il disordine, non era pronto il pranzo, quando lui tornava dall’ospedale. Per questo il marito la teneva, quando ebbe

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imparato, col braccio di traverso anche dormendo. Per parlarle per ultimo, e al risveglio per primo. Di un sospetto, di un rancore, di un sogno. E nel letto lei smaniava e rimuginava per ore. Non su di lui, che era troppo vicino. Sui treni, che ogni quarto d ’ora fuggivano perdendosi a raggera negli angoli più nascosti d ’Europa. E sul ragazzo del barone: che qualcuno diceva di avere intravisto, anche recentemente, attraverso un pianerottolo o giù nel cortile. Il ragazzo che aveva inventato da sé la più semplice delle vie d ’uscita, scavalcando, quando lei non era nata neppure, la balaustra ormai murata della finestra di sopra. Doveva essere per lei che tornava, ripetendo forte ogni notte la chiamata dal basso. Lavinia aveva cambiato stanza da letto, da allora, voltato la casa. Da quando c’era Verginia, poi, anche volendo non avrebbe potuto più andarsene in giro di notte. Una volta che si era alzata per farsi bollire una tazza di tiglio, e si era portata secondo la vecchia abitudine un libro in cucina, aveva visto quasi subito filtrare la luce sotto la porta della ragazza. E sì che lei era a piedi nudi, e che si muoveva sempre senza rumore. Verginia doveva essere più gatto di lei. A diciannove anni soltanto. Che ne sarebbe stato, più avanti, di una natura così notturna ? Una torbida amante. Una penitente. La strega di un asciutto paese, inerpicato e lunare. Doveva ricordare al marito di preparare il pranzo anche per Verginia. Di portarglielo davanti alla porta. Era il suo lato di flagellante, o il suo lato di strega, che non la lasciava mangiare ? Domani avrebbe pensato a un nuovo piano d ’assedio. A diversi richiami. Non poteva continuare a vedersela morire di fame in casa, quella ragazza. E le sarebbe piaciuto guardarla anche un po’ in faccia, seduta, alla luce. Tirarla fuori con qualche trucco da quella stanza buia. Lavarla e vestirla come se fosse stata Lorenzo. Docile e molle come lui. Con quei capelli lisci e come bagnati, con quelle spalle strette. Domani. Adesso doveva soltanto cercare di chiudersi la porta alle spalle al più presto. Di recuperare almeno un pezzo di quella sciagurata domenica. Se appena ci fosse riuscita. Ma il marito si era già lasciato cadere sul divano dove aveva dormito Lavinia. Non smetteva di parlare, da quando era entrato. E lei non aveva mai imparato a interrompere decentemente i discorsi di un altro. Neppure per ansia, per passione, con la testa altrove.

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XXV

“Scusami, Lavinia, mi dispiace. Davvero, mi dispiace moltissimo. Ma ho passato una notte infernale. Di guardia al pronto soccorso. Generale, non pediatrico. Mi capita una volta al mese, e di solito non è questo disastro. Se potevo avvertirti per telefono, che avrei fatto tardi ? Non ci sono riuscito. Ho preso sonno senza volere, stamattina, appena arrivato a casa. Mi sono svegliato soltanto mezz’ora fa. Mi sono capitati dei casi da perdere la testa, stanotte. Uno dopo l’altro.” Gesticolava, si accaldava. Ma Lavinia aveva chiuso gli occhi, e appoggiato la schiena al divano. “Ti assicuro, una quantità di sangue quanto non ne vedo, normalmente, in un mese. A mezzanotte, hanno portato in ospedale un’intera famiglia di vecchietti, due sorelle e un fratello. Una già morta, due morenti. Sette, otto colpi di pistola per uno, alla nuca, allo stomaco. Se sapessi come li ho visti arrivare.” “Basta, adesso, Enrico”, disse Lavinia. “Non ripensarci. Dimentica.” Come riusciva ancora, quell’adolescente scottato e mai guarito, a trovare la strada per irrompere alla cieca sopra di lei ? Avrebbe continuato, per molto tempo ancora, a mandarle alTaria equilibri faticosi, disegni appena abbozzati. Ma sapeva già che era come se lei non avesse parlato. “Mi hanno raccontato che a sparare è stato un loro pensionante. Giovane, sembra, e tornato malamente dalla guerra. Una lunga prigionia, una ferita alla testa. Nel bombardamento di Tobruk. Sarà dovuta guarire da sé, quella ferita. Chissà quanto ci sarà voluto. La moglie non l’aveva trovata più, quando era arrivato al paese. Così era venuto a cercare di lavorare in città. I vecchietti lo facevano pagare parecchio, per quella stanza. Adesso, a quanto pare, lo avevano sfrattato da un momento all’altro. Perché beveva, dicevano, perché alzava la voce. O forse perché avevano trovato da affittare a di più.” La voce del marito ricadeva a tratti nell’antico balbettamento. Bisognava che non si spingesse a rivedere oltre, che non rievocasse a parole.

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Soprattutto, che il tono non continuasse ad alzarsi a quel modo, inciampando come inciampava ora, ossessivo, stridente. “Ha sparato con la pistola d ’ordinanza. Dice che l’aveva tenuta per la moglie. Io credo piuttosto per sé. Ma adesso, ci pensi che dovrà aspettare trenta e quarant’anni sottochiave, senza più la pistola ? In manicomio, che ne so, in prigione. E nessuno saprà neppure dove andarlo a cercare. Se il suo paese è così lontano, se era in città da poco tempo. Ammesso che qualcuno abbia voglia di cercarla, gente così. Che non sia una liberazione per tutti, se i feriti alla testa, i malati alla testa, vengono segretamente risucchiati. Mi viene voglia di andare a vedere io, una volta, come è fatto questo, che dice.” Lavinia credeva di soffocare. Le sembrava di ritrovarsi in una di quelle notti lontane, con la mattina che non veniva mai, sotto il peso del braccio addormentato di lui, e a ogni momento quella chiamata insistente dal basso. La teneva ancora. Conosceva i suoi guizzi. La controllava, come quando gli capitava di risvegliarsi largo nel letto vuoto. Non avrebbe potuto scappare più, questo era certo. “Enrico, per favore. Devo cercare di uscire, in qualche modo. Non so neppure se mi aspettano ancora. E vorrei prima parlarti di come è andata la settimana di Lorenzo. E’ agitato, di notte. Lo trovo sempre sveglio, quando vado a vederlo. Non chiama più, però. Sta là rigido, con gli occhi sbarrati sul soffitto e il letto all’aria. Per fortuna fa caldo. Ma lo sai che ha tutta la faccia graffiata ? Io continuo a tagliargli le unghie, e non serve a niente. Di giorno dorme quasi sempre, invece. Faccio fatica anche a dargli da mangiare. Pensi che sia l’estate ? O una svolta di qualche genere ? Guarda se riesci a trovarci un ritmo, un senso. Prova a tenertelo molto addosso, come faccio io. Non sei solo un medico, mi pare. E se puoi, porta un vassoio anche a Verginia. Vado, allora. A stasera.” “Aspetta, Lavinia. Un momento solo. Ti prego. Non ti ho ancora raccontato che l’inizio della nottata. E con qualcuno devo pure parlare.” (Per ultima. Per prima. Ma era passata una stagione sola ?). “Enrico. Ti capisco, è stato orribile, è stato strano. Spero che tu possa dormire a lungo, stanotte, e riprenderti. Ma io. Fammi andare, o sarà inutile che tu sia venuto.” “Ma non ho finito. Il più difficile è successo quando era già quasi chiaro.

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Mi hanno portato una signora che poteva avere l’età di mia madre. Tranquilla, dignitosa, sempre molto riservata, dicevano i vicini che l’avevano accompagnata in ospedale, e non capivano assolutamente. L’hanno trovata sul pianerottolo. Sbatteva forte la testa contro il muro, e intanto cercava di soffocarsi da sé con le due mani. Era anche tutta piena di sangue, perché si era tagliata in qualche modo il polso sinistro.” Lavinia sospirò, rimise giù la giacca e la borsa. Si sedette sul divano accanto al marito. “Va bene, Enrico, uscirò un’altra domenica. Non importa. Non importa, davvero. Fammi solo fare una telefonata. E raccontami di questa signora. Mi interessa.”

XXVI

Non prendevano dunque fine mai, le malefatte di quell’estate. Era passato già quasi tutto agosto, fra neri e violentissimi temporali e un’aria greve, bollente, che scendeva dopo ogni scroscio dalle nuvole come una smodata cosa liquida, e colava poi lentamente sul selciato. Non possedeva più luci d ’acquario, il cortile sotto la vetrata. Piuttosto duri riverberi di bottiglia, sfavillìi di crisopazi e di berilli assetati. A chi guardasse in alto, il piombo pareva tornato molle come nella lontana fonderia, come allora facile a flettersi e a gocciare. E i vetri roventi avevano perso colore. Come mille lenti diversamente orientate, moltiplicavano e incrociavano i fuochi in tutti i sensi, specchiando, dilatando ormai solo il sole. Lo spazio chiuso e quadrato, che era stato una serra orientale di gelsomini e di ibisco, era diventato un serraglio. Un terrario velenoso, abitato da un groviglio in letargo di bisce e di vermi di luce. O piuttosto un immane alambicco su fiamme eternamente riattizzate, a sublimare polveri, a condensare succhi dai movimenti, dalle voci, dai fiati raccolti sul fondo. Restava solo tutto il giorno, il giardino di vetro. Fuggito, appena possibile, dalla gente del palazzo. Escluso dalle persiane ormai tutte sbarrate: comprese quelle di

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Lavinia, altrimenti sempre a sbattere avanti e indietro. Il vetro alimentava le sue fiamme senza aiuto. Distillava se stesso da sé. Tornato, a metà d ’agosto, il maestro nella sua bolla murata, a rimpiangere le sventolate volte dell’ospedale che, mentre c’era, aveva perlustrato ogni giorno centimetro per centimetro con odio e rancore, non c’erano più nella casa che lui, il più invisibile di tutti, il colonnello, che passava i pomeriggi a rievocare senza dirlo bianche vacanze da ragazzi a Deauville, e la sorella: che non faceva vacanze da trent’anni. Che aveva smesso perfino, per delusione o dispetto, le cure periodiche di Chianciano: e certo non raccontava a nessuno che cosa venisse, in quei giorni, a sua volta rievocando. E naturalmente Lavinia: che non poteva muoversi mai, che non faceva mai progetti e aveva smesso, da quando c’era Lorenzo, perfino di desiderarlo. Solo per loro quattro, continuava ad arrivare ogni giorno nella tarda mattinata la spesa del droghiere, sopra la bicicletta dell’ormai pratico e non più impacciato Paolino. Ma venne un giorno caldissimo che a suonare il campanello e a portare i sacchetti su per le scale fu un ragazzo nuovo. Molto più grosso di Paolino, più alto e con gli occhiali. Il colonnello lo esaminò calmo e disapprovante da capo a piedi, senza curiosità, senza una parola. Il maestro, che aveva ravvisato a colpo d’occhio, nel ragazzo mai visto, il noto tipo lento e linfatico, di sempre povero rendimento, sembrò sul punto di fargli delle domande: ma vi rinunziò, come rinunciava ormai per stoica e storica fermezza a ogni indagine sul mondo, e richiuse la porta scuotendo appena la testa. Soltanto Lavinia, che stoica non aveva imparato ad esserlo mai, e che della curiosità si era fatta la sua prima regola di vita fin dal giorno in cui aveva imparato a camminare senza aiuto, interrogò invece gentilmente il grosso e nuovo Carlo. Su se stesso, sui suoi molti fratelli, sul perché dell’accento calabrese, sui suoi gusti in materia di gelati e di ore della giornata. Si fece raccontare di come sapesse affettare accuratamente il prosciutto con le nuove macchine che solo pochi negozianti possiedono, e della sua abilità nel trasportare, impilare e catalogare casse intere di bottiglie nel retronegozio dove normalmente passava le giornate. Seppe, senza sorpresa, che Carlo preferiva la cioccolata al lampone e al limone, le poche volte che gli capitava di comprarsi un gelato; che era stato

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mandato a lavorare il giorno prima che nascesse la sua sesta sorella, tre anni prima; che la mattina non riusciva mai a svegliarsi e il pomeriggio, invece, era capace di stare al banco per ore come neppure Angelo, il padrone. Lavinia gli regalò i soldi per un grosso gelato di cioccolata, che non lo dicesse ai fratelli. E finalmente gli domandò che fine avesse fatto l’altro ragazzino: sì, quello piccolo e magro che lavorava anche lui per Angelo ormai da quattro mesi e faceva di solito le consegne nel palazzo. Così, quando Paolino due giorni dopo tornò a sospingere la bicicletta dentro al cubo rovente del cortile vetrato, Lavinia sapeva già perché alla sua manica sinistra era cucita una striscia nera alta quattro dita. Ma tremava all’idea di farlo parlare. Sapeva bene, perché Paolo se ne era vantato tante volte, che cosa fosse per lui il fratello adulto e lontano, che sarebbe tornato. E adesso il fratello adulto, Achille ? Oreste ?, aveva avuto la disgrazia di una vertigine o di un colpo di sole mentre tirava su un secchio di calcina da un’impalcatura. Un’impalcatura, a quanto pareva, molto alta. Fu tentata, per un attimo, di non essere in casa. Di lasciare che il ragazzino posasse fuori della porta il pacco con il conto. Ma invece aprì, e per la prima volta lo fece entrare e sedersi nell’anticamera in ombra. Quando Paolino scese di nuovo le scale, mezz’ora dopo, aveva la stessa faccia spenta, e si riprese la bicicletta con la fatica e la lentezza di chi cammina sott’acqua. Non aveva pianto, e aveva parlato appena. Ma stava male Lavinia, adesso, in casa sua, male di polmoni e di stomaco: e non solo per l’informe, mostruosa pena che mangiava il ragazzino. A differenza di quanto si aspettava, Paolo non aveva quasi parlato di Oreste. Dello smarrimento, del vuoto per lui. Ma della madre. Che aveva fatto entrare in casa i compagni di lavoro di Oreste solo il tempo necessario perché posassero la barella in terra, davanti alla sedia a rotelle dove abitava da quando Paolo aveva memoria, e forse aveva abitato sempre, il marito. E li aveva mandati via senza quasi fare domande. Poi la madre aveva messo pentole e pentole sul fuoco, d ’acqua fumante. Aveva provato col gomito la temperatura della vasca, come quando Paolo era piccolo. E ci aveva portato dentro, metà tirandolo, metà trascinandolo e spingendolo, quel figlio cresciuto che non aveva più visto da quando se ne era andato malamente tanti mesi prima di casa; e che adesso, pesante com’era e mosso disperatamente a strattoni da una donna forte che non voleva che neppure

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Paolo l’aiutasse, che, soprattutto, non lo toccasse, continuava a prendere posizioni strane, slegate e diverse, mai viste addosso a nessuno. La testa ricadeva e dondolava liberamente, le braccia e le gambe si incrociavano, divergevano, si piegavano aH’indentro e aH’infuori in angoli troppo aguzzi. La madre era rimasta chiusa a lungo nel bagno, a lavare Oreste. Paolo e suo padre, immobili fuori della porta, avevano calcolato, ore e ore, la sentivano canticchiare, mugolare, anzi, a bocca chiusa senza parole: come si fa per addormentare un bambino di pochi mesi. Poi la madre era ricomparsa, rossa in faccia, con un mezzo sorriso, sempre sostenendo e tirando insieme con grande sforzo il figlio grande tornato finalmente a casa: che adesso era lisciato e pettinato bene, con un pigiama del padre addosso e senza più né terra né croste. Solo, gli era rimasta una larga macchia nera sul lato destro della faccia, che prendeva anche l’occhio. E adesso Oreste stava fermo dentro al suo letto di un tempo, preparato con le lenzuola pulite e rincalzato dalla madre, a fianco di quello di Paolo. La macchia nera aveva avuto il tempo di allargarsi e di schiarirsi, in quei tre giorni, e si notava ormai appena. Anche perché l’unica cosa di lui che si vedeva al disopra della riversina ricamata, il resto della faccia, era diventato come più grosso e gonfio, con la pelle tesa. Aveva assunto un colore scuro che gli stava male, che non lo faceva sembrare più Oreste. Ma la madre lo riconosceva sempre: e tutte le mattine entrava in camera per lisciargli ancora meglio i capelli, per asciugargli con il fazzoletto il bagnato intorno agli occhi e alla bocca. Poi usciva, per andare a fare come sempre i servizi. “E tu, Paolo ? ” aveva chiesto a questo punto Lavinia. “Io ? ” Il ragazzino teneva sempre gli occhi sul pavimento, ma rabbrividiva e storceva la bocca come se avesse la febbre. Improvvisamente si era messo a urlare. E Lavinia aveva temuto che lo sentisse Lorenzo, che prendesse a smaniare anche lui. “Io non voglio più dormire in camera con Oreste ! Quello non è Oreste. Oreste è a Frascati. O forse Oreste è in Svizzera. Io la notte mi alzo e vado a dormire in cucina, sotto al tavolo. Io questa sera a casa non ci torno.” Il giorno dopo, a portare i pacchi mandati dal negozio di Angelo era venuto nuovamente il linfatico Carlo. E continuò a venire lui per tutta la settimana.

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XXVII

Lavinia non l’aveva saputo mai, lei che vedeva tutti i giorni, di sotto la porta di Verginia, passare soltanto il buio. Ma di notte Verginia le persiane usava spalancarle, come aveva fatto sempre a casa. E anche i vetri, sopra il cortile e verso il falso cielo: tanto vicino, pareva quel cielo fabbricato e non era, da toccarlo, stendendo la mano. Un cielo verde e giallo, chiuso in quadrato a fermare il baratro dell’alto cielo rotondo. Tenebroso, questo, quasi tutte le notti; oppresso altre notti da opache nuvole basse. Ma qualche volta, soprattutto d ’estate, invece trasparente e chiaro. Acquatico e come fiorito: molto al di sopra e al di là del duro frutteto del lucernario, bordato tutto di nero. A svegliare Verginia era stata dunque anche questa volta sicuramente la luna. Dal letto, lei che non si alzava da due mesi e che forse non ce l’avrebbe ormai fatta a tenersi in piedi a lungo, se la vedeva davanti rotonda e grandissima, rigata e colorata dai vetri a piombo dietro a cui scivolava lentamente. Veleggiava, piuttosto, quella verde luna, come una volta sul mare la lampara di suo padre: che si vedeva allontanarsi col bel tempo a sera, e solo dopo molto spariva del tutto dietro l’orizzonte. E da quel momento riuscivano finalmente a dormire, le sue sorelle e lei, senza altro dentro le orecchie che il riverbero di tanto minaccioso urlare, senza più nella pelle l’attesa, reale come il bruciore tutto intorno del freddo, forte come, nella stanza, il peso collettivo del buio, di poche sensazioni immaginate sempre di seguito. La coperta tirata giù, le mani, i colpi, il respiro levato. Galleggiava, quella gialla luna, come, quando Verginia era bambina, aveva fluttuato ostinatamente a riva il suo secchiello nuovo: che lei cercava in tutti i modi di allontanare, di avviare a vedere per conto di lei altri paesi. Lo forzava a viaggiare e a perdersi, scagliandogli contro ondate su ondate con la mano: come se dentro ci fosse stata la sua stessa breve mente torbida e delusa. E invece il secchiello giallo, riportato ogni volta insensibilmente 69

in qua dalla risacca, si rifiutava, oscillando, di scostarsi da lei più di qualche metro. La luna era riuscita sempre a calmarla, bianca o verde che fosse, dopo anche rinfuriare peggiore da dentro o da fuori. L’aveva imparato a dieci anni, quando per la prima volta l’avevano mandata a guardare le pecore su nel monte, da sola e a cielo aperto; e unicamente guardare la luna aveva il potere di placare quello spavento elementare, di assorbire i fantasmi e i rumori della notte. La luna la tuffava piano in una sorta di sospeso stupore e di dimenticanza: e, poco per volta, ad allontanare il sé del giorno da sé si trovava lei stessa. A perdersi galleggiando verso una deriva estatica, dove né il risentimento né la paura potevano più nulla contro di lei. Stesa rigidamente nel letto come sull’erba di quelle notti lontane, Verginia si esercitava al modo di allora a lasciarsi dietro la mummia, la macchina ora immobile e fredda delle ossa, della pelle, dei tendini; e a farsi invece brezza, vento, aquilone, uragano, vortice. Malata della luna, ammaliata, precipitava ormai come la farfalla dei mistici dentro quel tondo lago fiammeggiante. La sua caduta in alto attraversava acque su acque specchianti e tiepide, e durava interi cicli biologici, stagioni, escursioni del pensiero, rivoluzioni di stelle: senza vedersi ancora venire incontro il fondo. Stava prendendo nuovamente sonno, o era giunta alla fine ultima delle cose, dentro la stessa luna che l’aveva prima così bruscamente svegliata. E allora, come trafiggendo quei prati luminosi, la raggiunse, facendola saltare su nel letto all’improvviso, un urlo di timbro e di andamento mai fino allora immaginato, che era insieme ululato, guaito, uggiolio, ringhio, ringhio, latrato, rantolo. Un unico grido singhiozzante, lugubre, scuro, che risaliva, si strozzava e cadeva. Ma non smetteva mai. Veniva, l’urlo, non da vicino alla casa ma neppure da molto lontano: echeggiando a spirale in mezzo alle fiancate delle strade, approfondendosi dentro il fogliame degli alberi e sotto le arcate, sbattendo sul selciato e rimbalzandone mutilato verso l’alto; e qui nuovamente dilatandosi in una modulazione mostruosa, certo forzata da una mente in delirio, strusciando con vocali inesistenti, con rauche velari, dentro una gola ferita, spossata, morente. Dopo solo un istante fu accerchiato dall’abbaiare di mille cani, l’urlo feroce e triste: da un vociare, da un grande sbattere di finestre e porte. E continuò a salire

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all’infuori e al di sopra di loro. Non parlava a nessuno e nulla chiedeva, straniero come sembrava a tutte le occasioni umane, alieno agli scambi, nemico della città. E tuttavia lo premeva sicuramente un’urgenza disperata e sinistra: come se qualcuno, un uomo o una bestia, lamentasse una miseria antichissima e infame, una lebbra, una piaga infetta, una faccia deforme.

XXVIII

Verginia restò per molti minuti seduta e gelata nel letto, mentre la luna le cadeva definitivamente dalla mente e dagli occhi. Un ricordo pungeva, spingeva: disturbante, indistinto. Qualcosa che si era sentita dire, una macabra messa in guardia degli adulti, appunto la volta che l’avevano costretta a guardare le pecore per un mese intero. E un’altra cosa, una storia, una favola che girava fra le donne in paese. Una ricetta per chi ha paura, per avere troppo ascoltato e immaginato, delle tremende fìtte sconosciute, e vuole garantirsi un parto senza soffrire. Bisogna che tu faccia seccare alfaria e nasconda sotto il tuo letto, diceva la ricetta, la prima volta che si sgrava la tua mucca il sacco di pelle trasparente da cui hanno tirato fuori il vitello. Quando sei al settimo mese e sei sola in casa, infilatelo addosso per tre giorni di seguito come una camicia, e sarai sicura di partorire senza l’ombra di una doglia. Ricordati però, se ti nasce un maschio, che quando sarà adulto a volte gli capiterà di cambiarsi in lupo; e tu, anche se ci sarai ancora, per aiutarlo non potrai fare niente. Vera era la favola, e provata, aggiungeva sempre chi la raccontava: e a bassa voce faceva anche i nomi, vecchi e giovani nati così in segreto senza dolore, abitanti del paese che potevi incontrare quasi ogni giorno senza sospetto sulla piazza Verginia era calma, adesso, e non aveva più freddo. L’urlo si prolungava, più lamentevole e sordo, si ripeteva, e tornava a tratti a risollevarsi. Da un altro nascondiglio della memoria, si svincolò all’improvviso anche il ritornello di una canzone a ballo che cantava a lei

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e alle sue sorelle ogni tanto, per divertirle con le stranezze e con i misteri di una volta, la nera nonna rugosa. L’unica persona, la nonna, che di Verginia si curasse, a cui Verginia si fosse mai dolorosamente attaccata. Narrava dunque, la ballata della nonna, di una ragazza che va a trovare a casa il suo fidanzato: ma è notte, e il fidanzato non la lascia entrare. Così lei è costretta a riattraversare il bosco a piedi, e nel bosco incontra un grande lupo grigio. Perché lui non la mangi, la ragazza, Teresa si chiama la ragazza, sì, Teresa, offre inutilmente al lupo la sua cintura d ’oro, il nastro dei capelli, la fìbbia d ’argento delle scarpe. Poi si rifugia disperatamente su un albero: ma il lupo, aiutato da altri lupi, scava con le unghie le radici e la fa precipitare. Il grido della ragazza che cade arriva alla finestra del fidanzato: che corre pentito nel bosco a cavallo. Solo per trovare stesi a terra, con un morso alla gola, a fianco uno dell’altra Teresa e il bambino che lei si portava dentro. Ora Verginia non dubitava più di che dovesse fare. Con gesti molto lenti ma sicuri, come eseguendo assai esatte istruzioni, si alzò senza rumore, si tolse la camicia da notte, la piegò e la mise nella valigia sotto il letto, che richiuse con cura. S’infilò il vestito nero che portava quando era arrivata, due mesi prima: lasciandolo sbottonato sulla schiena, tanto ormai le tirava da davanti. Coprì il vestito con uno scialle a frange: prese la carta d ’identità e la borsa, e aprì con grande attenzione la porta. A passi silenziosissimi, Verginia era arrivata ormai alla porta d ’ingresso, e aveva cominciato cautamente ad aprirla. Ma voltandosi per un impulso indietro a guardare la casa che abbandonava, vide socchiusa la prima stanza a destra, dove sapeva che entrava soltanto Lavinia. La stanza di Lorenzo. Così lasciò la maniglia dell’ingresso, e spinse invece cercando di non farla cigolare la porta del bambino. Le persiane accostate, qui, lasciavano passare pochi marezzi verdi e poca luna. Abbastanza, tuttavia, perché Verginia potesse vedere in controluce il letto a sbarre, proprio sotto la finestra, e il profilo del bambino, seduto e immobile. Aveva naso e bocca delicati, Lorenzo, un mento rotondo: e una gran nuca sollevata e oblunga. Da Lavinia, sapeva che Lorenzo non era capace di tenersi dritto, e che passava le giornate sulla schiena, mugolando e dormendo. Ma doveva essere una delle tante bugie che Lavinia le raccontava quando veniva a trovarla in camera, e lei aveva

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avuto ragione a non risponderle mai. Non avrebbe dovuto, anzi, neppure ascoltarle, quelle storie che non le chiedeva, che non la interessavano. Perché, ecco, il bambino si teneva invece eretto e solenne come lei aveva visto soltanto le statue di legno in chiesa, e sembrava assorto nell’ascoltare e nel vedere fatti nascosti a tutti, in quella stanza vuota. Senza sapere perché, a Verginia vennero in mente le svolazzanti scritte dorate sotto le statue in chiesa a cui Lorenzo assomigliava. Oscure scritte: Confessore, Profeta. Tirò di nuovo la porta di Lorenzo verso di sé e uscì molto piano sul pianerottolo. Richiuse, e scese lentamente le scale, tenendosi sempre aggrappata, per resistere alle vertigini, alla leggera ringhiera di ghisa. Forse perché la sua attenzione era tanto assorbita dal rischioso lavoro della discesa, forse perché non aveva sentito neppure il palpito di un rumore, non si accorse che qualcuno era sopravvenuto alle sue spalle. Provò quindi un soprassalto violento, quando si vide rapidamente sorpassare da sinistra. Un ragazzo alto e sottile con una frangia di capelli neri le era sceso accanto, senza neppure gettarle addosso, a quell’ora, un’occhiata curiosa. Corse giù per i gradini, l’alto ragazzo, traversò in fretta il cortile illuminato dalla luna piena e sparì dentro al vano del portone.

XXIX

Alla porta dei De Nicola, il maestro Doglio aveva ripreso con tutta naturalezza, ritornando, a suonare tre volte al giorno. E il colonnello, anche lui molto naturalmente, non gli aveva chiesto di raccontargli, neppure per episodi, la lunga assenza in ospedale. Né s ’informava mai, cosa che fra uomini non si fa, di come il maestro si sentisse ora: contentandosi, per averne notizie, di un’ occhiata assai discreta di valutazione complessiva, ogni volta che gli apriva la porta. E come prima, fra loro non avevano avuto occasione di correre altri generi di confidenze. Ma quando, due mattine dopo, il maestro suonò da lui all’ora consueta,

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il colonnello l’aspettò poi all’uscita con il Tempo in mano. “Ha sentito, queste due notti,” gli domandò, “che indegno fracasso ? Lei non sente mai nulla perché non ha finestre ? Ma andiamo, le sarà pure arrivato da sotto la porta, dal soffitto, allora, almeno uno strascico di questo urlare insensato che non ci ha fatto dormire nessuno. Un po’ sordo, dice ? Per via di tutti quegli anni di scuola ? Ah, la invidio, la invidio. Davvero, non la prendo in giro. Io, la notte mi rivolto nel letto per ore, e basta un grido d ’uccello, uno stridio del portone perché mi veda arrivare la luce della mattina senza essere più riuscito a riprendere sonno. E in questo caso c’erano anche ragioni per stare male, malissimo. Non so gli altri. Io ci sono stato. Perché ? Ma perché non ho mai sentito niente di più mostruoso. E le assicuro che di rumori orrendi ne ho sentiti tanti. Si sieda un momento, maestro. Le faccio un caffè ? No ? Ha ragione, neanch’io prendo mai niente in mezzo ai pasti. Mi ha fatto risentire in guerra, quell’urlo. C’era dentro tutto quello di cui non ho parlato mai con nessuno, e che credevo di avere dimenticato. Sì, certo che avrei avuto l’età per stare a casa. Ma sono un ufficiale, e mi hanno richiamato. Non si ricorda che non ero qui, quegli otto mesi prima dell’armistizio ? Dove crede che fossi, allora ? Lasciamo stare. Lasciamo stare. Era solo per dirle perché non ho dormito. Ma anche così, non mi sarebbe venuto in mente mai. Chi ci avrebbe pensato ? E legga invece che cosa scrive adesso questo giornalista.” M artedì 30 agosto 1949. Cronaca di Roma. RACCAPRICCIANTE EPISODIO AL COLLE OPPIO. “Ma non è poi tanto vicino a qui, il Colle Oppio”, obiettò il maestro. “Se le dico che si tratta di questo. Del nostro quartiere, di noi. Aspetti. Legga sotto.” Ieri notte numerosi agenti di polizia del commissariato San Giovanni, che si trovavano in servizio di pattuglia nei pressi del Colle Oppio, udivano uno strano e prolungato ululato provenire dal parco. I latrati, sempre più chiari e distinti, avevano nello stesso tempo qualcosa di lugubre e di strano. Avvicinandosi, gli agenti hanno visto che a emetterli era un uomo, in ginocchio a scavare con unghie inverosimili una fossa abbastanza profonda. Aveva il viso stravolto, le mani graffiate e sanguinanti. Quando ha visto

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venire gli agenti, l’uomo è scappato a velocità imprevedibile, sempre continuando a lanciare quelle sue urla gutturali e profonde. Un consulente della polizia, psichiatra all’ospedale ***, ritiene che l’uomo avvistato e scomparso sia uno di quegli strani e rari ammalati che nelle notti di plenilunio, ubbidendo a un misterioso quanto inverosimile influsso, fuggono da casa sentendosi trasfigurati da uomini in lupi. Lupi negli istinti, nelle brame, nella voce: che si fa rauca, cavernosa, profonda, fino ad assomigliare a un latrato. “Come scrivono male, questi giornalisti”, commentò dopo un momento di silenzio il maestro, senza concedere al colonnello neanche la soddisfazione di uno scatto di sorpresa. “Sensazionali e sciatti. Chi altro scriverebbe brame ? Vanno troppo all’Opera: non crede, colonnello ? Leggono troppo poco. La brama, chi sa che cos’è nel loro pubblico ? In questi casi, io facevo fare ai ragazzi lunghi cataloghi di sinonimi. Ci sono tanti desideri diversi. E’ l’oggetto del desiderio, è il modo del desiderio che decide come dirli. Nasce dentro una voglia, per esempio, un anelito, una smania, un’ansia, un’avidità, un’inquietudine, una concupiscenza, un’ingordigia, un’agonia. E tutte chiedono duramente di essere appagate. Perché non usare, in questo caso, semplicemente fame ? E’ così chiaro che solo un vaneggiamento contadino di fame può aver fatto immaginare un uomo lupo: non crede, colonnello ? Un uomo come non c’è stato meli, libero e forte, aggressivo, veloce: che si prende da sé, dove lo trova, quello che gli serve. E ha notato questo inverosimile, due volte in poche righe ? Nessuno li corregge, gli articoli di cronaca, evidentemente. Inverosimile, imprevedibile. Non si chiedono dunque, i giornali, se non sarebbe appunto il loro mestiere, prevedere e verificare ? ” Il colonnello era confuso. Si era aspettato tutt’altro. La sua notizia a effetto era completamente fallita. O forse, non completamente. Dopo venticinque anni, infatti, gli pareva adesso di sentire per la prima volta un timbro pieno nella voce del maestro. E aveva un’altra impressione, conturbante e imprecisa. Gli sembrava di trovarsi seduto, alla sua età, con la sua mole, un gradino sotto a un uomo torreggiarne, molto più imponente e più eretto di lui. Insistè, tuttavia. “Guardi anche sotto. Lì, quel riquadro in corsivo. Citano, a quanto ho

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capito, da un occultista dell’Ottocento. E’ piuttosto interessante.” De Guaita, E ssais de Sciences m audites. Con sgomento e angoscia avverte Vapprossimarsi della crisi (generalmente nelle notti di plenilunio). Ha coscienza di essere su l punto di diventare vittim a passiva di un influsso sovrumano e misterioso, di un potere soprannaturale e ineluttabile. Tutto intorno la luna piena rischiara i boschi e le selve, un ’infinita quiete notturna pervade ogni cosa, sim ile a una marea che tutto sommerge e in cui tutto naufraga. E il povero malato si sente invadere da un senso di oppressione sempre più grave, respira affannosamente, a fatica, crede di soffocare o di affogare, fìnché non stram azza a terra in preda a una violenta crisi epilettica.

Un silenzio più lungo. Il maestro rilesse il pezzetto in corsivo un'altra volta, poi una terza. Il grande foglio multiplo del giornale, piegato in due, sembrò vibrargli brevemente fra le mani. Poi fece una smorfia di insofferenza, un largo gesto. “Che pessima prosa, anche questo De Guaita. Troppe ripetizioni. E tutti quegli aggettivi. Selve. E che selve ci sono ancora in Europa, illuminate o no dalla luna ? Ma soprattutto: come fa lui a saperlo, di che ha coscienza, di che ha paura il suo povero malato ? Licantropo, si dice poi. Impari a usarle, se ci sono, le parole giuste. Licantropo, che povero malato” Ripiegò ordinatamente il giornale, lo rese, forse con un gesto troppo legnoso, al colonnello e si alzò per uscire.

XXX

Ne dovettero passare altre due, variamente straziate e turbate dallo stesso grido, eppure con intervalli di sospeso, di tremulo silenzio, di quelle notti di luna e di lupi. Per due notti ancora non riuscì a dormire, e per altri due giorni si agitò con inquietudine nelle faccende quotidiane, sentendosi vibrare intorno un’aria ancora elettrica, la gente del palazzetto: e chissà

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quanti altri nello stesso quartiere. Poi venne, a coprire la luna, a sopraffare con la tragedia dei suoi tuoni anche il ricordo di quel lamentoso ululato, un temporale di inaudita violenza: l’ultimo dell’estate, o il primo dell’autunno vicino. Sul lucernario degli aranci si abbatterono per ore selvaggi e fragorosi bombardamenti di grandine, scrosci d ’acqua a torrenti che davano l’impressione, a chi attraversava il cortile ora grigio e cupo, di trovarsi rinchiuso a respirare appena in fondo a una caverna sottomarina, da cui sarebbe costato per il momento la vita, ogni tentativo di fuga per risalire a galla. Ma anche il rifugio provvisorio della caverna nascondeva certo, in qualche anfratto non visto, pericolosissimi abitatori di figura ignota: che erano forse orribilmente deformi, e forse invece accoglienti, simili in tutto alle persone a ognuno più vicine. Ospiti segreti, da cui guardarsi a tutte le ore le spalle e la faccia. Poi tornarono un sole più chiaro, un’aria leggera: e ripresero a sfolgorare le foglie lavate e gli aranci, allagando il lastricato di cerchi a colori. La notte, la luna ridotta a metà e in seguito, rapidamente, a un arco sottile si levava per un tempo sempre più breve, faceva luce sempre più debolmente. Se al Colle Oppio la polizia avesse poi ritenuto di fare altre battute, i giornali non lo dicevano. Scomparsa come notizia, la strana storia si era conclusa da sé. Non pungeva più l’immaginazione di nessuno. Le orecchie lacerate andavano velocemente rimarginandosi: a giudicare almeno dalle secche cascate di canzoni radio che si rovesciavano da tutte le finestre rimaste aperte. Nelle pagine di cronaca, altre macabre bizzarrie si succedevano a speziare le giornate torbide e senza fine dei cittadini. I giornali fìngevano di pensare, invece che al triste fiume avviato ogni giorno con la stessa rassegnazione verso i cantieri e gli uffici, a lettori esigenti, annoiati, di gusti forti. Nella grotta sotto Villa Glori dove abitavano dalla fine della guerra, un manovale aveva ucciso la moglie con sei revolverate. Davanti agli occhi terrorizzati della fìglioletta, diceva il titolo. Il giorno dopo, due famiglie erano state sfrattate da un esercito di termiti in Corso Trieste, e all’altro capo della città una ragazza calabrese (perché poi calabrese ?) era stata torturata a lungo da tre vecchie zie, per costringerla a sposare un ricco possidente. In cima a via Capolecase, una pazza si era messa un altro giorno a buttare biglietti da diecimila da una terrazza. Tanti biglietti, per

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tanto tempo. In basso si era scatenato, naturalmente, un putiferio: applausi, spintoni, una rissa. Bellissima, lei, da giù, raccontava al giornalista un testimone. Esotica: con i capelli biondi e uno stretto vestito rosso. E gridava, intanto. Che lei era stanca, che stava male, basta, basta. Che le donne sono insidiose, e bestie gli uomini. Che avrebbe buttato giù tutta la casa, e se ne sarebbe andata lontano, non l’avrebbero ritrovata mai. Poi l’avevano vista, dal basso, afferrata e portata via da un uomo in divisa. Il giornalista era giunto in tempo per osservare la discesa, girando piano sul vento, di un ultimo biglietto illuminato dal neon del caffè vicino. Aveva anche visto un uomo altissimo tendere ad acchiapparlo due secche e lunghe mani: e, come una farfalla, levarlo calmo contro quella luce, cercando la filigrana. Lavinia era rimasta sveglia per il lungo urlare da fuori soltanto la prima notte, lei che passava la vita con l’orecchio teso a cogliere le più leggere mutazioni nei mugolii di Lorenzo. E quando tutto tornò silenzioso, si accorse che quel sinistro ululare l’aveva, per qualche segreta ragione, insieme spossata e placata. Le mancava, ora, come un richiamo che non aveva colto, come una delle troppe cose perdute nella settimana. La stagione si frangeva, così, per lei, aH’improwiso, girava per non tornare. Molto di solitario e di ancora ignoto stava senza rimedio chiudendosi, e forse altro, non meno solitario, si sarebbe fra non molto aperto. La scomparsa di Paolo, Lavinia l’awertiva come un fatto preoccupante ma sospeso, non interpretato, che poteva ancora avere senso, riservare sorprese: e in tutti i casi a lei non domandava nulla. La turbava di più la fuga della ragazza: che non capiva meglio, eppure, in qualche modo, si spiegava benissimo. Quando aveva dato aria alla stanza di Verginia, cambiando le lenzuola nell’improbabile ipotesi di un suo ritorno, raccogliendo da sotto il letto l’ultimo piatto che le aveva portato (ancora pieno e invaso di formiche), Lavinia era entrata in un malumore indistinto, profondo, da cui non era riuscita per giorni a liberarsi. Non capiva neppure se gli spigoli e le punte contro cui sbatteva continuamente, come un corvo intrappolato in soffitta, dentro di lei il pensiero, soltanto a rifare il nome di Verginia o a richiamarsi un tratto della sua presenza (una presenza, quella di Verginia, che era stata per tutto il tempo poco più di un limitato ingombro fìsico) fossero residui di rimorso, per non aver capito, detto o fatto al momento giusto, o semplicemente una smania di desiderio. Ma

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capiva che pativa una disperata mancanza, insensata, irreale: creata solo dallo strappo in sé, e quindi senza capacità e senza ragione di risanarsi. Così la domenica Lavinia aspettò il marito con la porta aperta molto presto la mattina, e tornò molto tardi la sera. E sembrò dopo calmarsi, o almeno avere ritrovato abbastanza ritmo e fiato per aprire, alla sua larga maniera, una nuova settimana. Ma le notti dei lupi, e il tremendo temporale, avevano portato altre mutazioni nella casa. Il martedì mattina, quando il maestro Doglio suonò all’ora di sempre sulla porta di fronte, nessuno rispose: e non aprì nessuno neppure al secondo e al terzo timido squillo. Il maestro rientrò in casa sua, richiuse, meditò, restò seduto per un paio d ’ore. Poi uscì di nuovo, scese, suonò da Lavinia Solari: l’unica altra persona nella casa che gli avesse sempre dimostrato grande gentilezza. Spiegò, risolse. Gli dispiaceva molto, era costretto, sperava per poco. Ma la porta dei De Nicola continuò a restare chiusa per altri tre giorni. E il maestro, sciolto ormai in via provvisoria il suo problema, cominciò a congetturare disinteressatamente su che cosa mai fosse accaduto al colonnello: deducendo, se indurre non poteva. Identificandosi per quanto riusciva, come avrebbe fatto con uno scolaro ribelle, con il suo modo di ragionare. Sforzandosi di mimare le mosse dell’altro, mentali e fìsiche. Ma il metodo, la logica, sbattevano sempre contro il troppo che non sapeva. E si ritrovava alle domande dell’inizio. Dove poteva essere andato ? Per quanto ? E a fare che ? Non gli venne in mente, così preoccupandosi, che la scomparsa del colonnello poteva avere conseguenze non soltanto per lui. Ma venne in mente ad altri. Il quarto giorno, sul pianerottolo a suonare il campanello dei De Nicola con ben diversa decisione e costanza c’era il maresciallo Orlandi. Con ben altra autorità, anche. Tenne semplicemente l’indice premuto sul pulsante per cinque minuti di seguito. Smise per mezzo minuto. Ricominciò. Dopo un quarto d ’ora, sentì levare faticosamente, da dentro, un catenaccio dopo l’altro. Aspettò. E finalmente uno spiraglio di porta si aperse. Nella fessura, comparve un viso devastato, bagnato, scolato di rossetto e di rimmel. E lo spicchio di un grosso corpo tremante, cascante: dentro una vestaglia amaranto ricamata a draghi d ’oro. Il maresciallo si levò il berretto della divisa. Si inchinò leggermente. “Emilia, sono io. Mi riconosci ancora ? Vincenzo. Vincenzo Orlandi.

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Quanti anni. Sono contento di vederti. Davvero, sono molto contento. Mi fai entrare ? Per favore. Ho bisogno di parlare con te.”

XXXI

Passarono due ore abbondanti, forse tre, prima che la porta dei De Nicola si riaprisse, e ne uscisse per primo il maresciallo Orlandi: con la divisa non più tanto perfetta e una borsa da viaggio nella sinistra. Una di quelle borse tessute a disegni di tappeto ed eternamente polverose, dai colori spenti, che il maresciallo si ricordava di avere visto soltanto in casa di sua nonna, abbinate allora a valige e a cappelliere di tutte le forme. E dopo di lui, avvinghiata disperatamente al suo braccio con tutte e due le mani, gravando contro il fianco di lui con tutto il grosso corpo abbandonato, lacrimosa, tremula sulle gambe, sbattendo gli occhi alla gloriosa luce verdemare e arancio che aveva sempre saputo ricacciare furiosamente da casa sua, sul pianerottolo comparve Emilia De Nicola. Guidata, tirata da Orlandi, cominciò a scendere lentissimamente le scale che per trent’anni aveva praticato solo una volta l’anno, partendo e poi con regolarità tornando dalle cure di Chianciano; e che da molto tempo ormai non aveva voluto più scendere neppure quell’unica volta. Aveva disimparato, si accorse, il gesto stesso del piede destro arrischiato in avanti a ogni scalino, della mano stretta e sudata sul corrimano: con il ribrezzo del precipizio, del gorgo, dell’abisso, del pozzo, del baratro costantemente in fondo alla gola. Già in cima alla prima rampa si era resa conto di avere anche dimenticato come fossero esposte al vuoto, quelle tre eleganti volate di gradini sospese a vista, difese dalla leggera ringhiera floreale e incrociate con le altre tre che salivano. Dall’alto, Emilia coglieva in un unico, vertiginoso colpo d ’occhio il proprio tremulo piede che tentava il gradino sotto di sé, un piede gonfio dentro alla scarpa di vernice col cinturino; e, in secondo piano, le cascate verticali delle finestre, a sinistra e a destra;

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e sullo sfondo il confuso verde e bianco delle altane, franante anch’esso, rotolante in basso. Finalmente atterravano, l’occhio, il piede, le finestre, il fogliame sulle altane, rovinosamente, fragorosamente sul lastricato di granito: mascherato appena nella sua spietata durezza dal ballo dei colori riverberati. Tutta la cieca mente di Emilia stava aggrappata dentro le sue due mani: quella stretta spasmodicamente sul corrimano e quella schiacciata sotto il braccio di Orlandi. Non si accorse neppure di qualche testa che sbucava meravigliatissima dalle finestre, a guardare il suo incedere ondulatorio e nonostante tutto, non fosse che per la straordinaria lentezza, imponente, regale. Un incedere che faceva pensare a una barca grande e maestosa beccheggiante sull’ultima risacca, oscillante sui rulli, tirata cautamente in secco per il riposo delfinverno. Fluttuava intorno alle caviglie, il vecchio abito di raso viola a godet; e volteggiava appena, sotto quella che doveva essere la prima brezza dell’autunno, il boa di piumette nere di struzzo che le girava due volte il collo. Senza ricordi, senz’altre paure che quella dell’abisso presente lì a invocarla forte, spendendo fino all’ultima goccia le risorse del grosso corpo malandato, e tutte quelle della scintilla d ’anima che doveva pure trovarsi lì ancora invischiata, nel grosso corpo: dentro un buio ventricolo, nella tana di qualche ghiandola, nel cavo cariato di una vertebra, Emilia giunse a toccare il cortile: dopo quello che le parve una giornata intera, e certo corrispondeva a parecchi stillanti minuti. Chiuse allora gli occhi, presa da un capogiro curiosamente gradevole, che prometteva una lunga tenebra e la dimenticanza. Riposo, finalmente, riposo. E il rinvio a un’altra esistenza, ce ne sarebbe stato tutto il tempo, allora, dell’attenzione alle incomprensibili, infami cose che le aveva raccontato, continuamente scusandosi se la feriva: “ma lei era la prima ad avere il diritto di sapere”, il maresciallo Orlandi su a casa sua. Alfonso arrestato, lui, un colonnello: il mondo alla rovescia. E magari da qualche ufficiale di grado inferiore, la suprema offesa per un militare. Alfonso ripreso con le macchine e le sirene, dopo avere tentato di scappare da una casa di una stretta strada del centro. Una strada dove Emilia era certa di non essere mai neppure passata, che Emilia sapeva appena dove desse, dove non credeva proprio che abitasse nessuno dei loro conoscenti.

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Ripreso, arrestato perché ? Ecco, cerca di capire Emilia, Emilia ascoltami bene, Emilia, Emilia, mi senti ? Le persone che c’erano sostengono che è stato tuo fratello. Sono testimonianze, per ora, stai calma, solo testimonianze: da verificare. Mio fratello. Mio fratello. Ma stai parlando di Alfonso ? Allora forse scherzi. Alfonso tu lo conosci. Ha passato tutta la vita a controllare come con il ferro i suoi più piccoli movimenti. Soprattutto dopo quello che gli è successo con me quand’eravamo ragazzi, puoi immaginartelo. Quella rovina, quella tragedia. Più per lui che per me. Non se l’è perdonata mai. Da allora, Alfonso la testa non l’ha persa una volta sola. Si vanta di essere stato, sul lavoro, freddo e lucido come la statua stessa della Giustizia. Per quarant’anni, capisci ? E’ lui che misura, è lui che ordina e governa tutte le cose della nostra casa. E così, dice, ha l’abitudine di fare nella casa nel suo cervello. Non può essere successo. Che gli avrà fatto, quella signora ? Dev’essere stata lei. L’avrà aggredito, insultato. Come ho fatto io quella volta. Ma anche così. Non può essere successo. Mi stai sicuramente mentendo. Alfonso non offende, e non si offende. Alfonso che non ha strangolato mai neppure me... A questo punto erano venute le lacrime. Altre lacrime, dopo quelle corse per giornate intere di insonnia e di digiuno: lacrime venute piano su per virtù propria, per spossatezza, senza alcun tormento. Colate ininterrottamente su tutta la faccia e giù per il mento e il collo, a lavare cipria e mescolare colori in fiumicelli bruni subito assorbiti dalla stoffa. Cadute come la stessa torpida mente di lei dentro una sorta di illimitato, passivo stupore, che confondeva giorno e notte e desiderava ormai soltanto di perdersi, di spegnersi nel sonno. Le lacrime messe a scorrere dal maresciallo erano invece di natura tempestosa e attiva, singhiozzate e gridate: e durarono, aggredirono, si complicarono. Poi, quasi all’improvviso, si interruppero. Allora Orlandi, che non aveva fino allora neppure tentato di consolarla, l’aveva accarezzata gentilmente sul braccio, poi sulla guancia. Le aveva detto: “Non puoi restare qui da sola, Emilia. Non sarei tranquillo. E non voglio. Mi piacerebbe che venissi a stare per qualche settimana da me. C’è la stanza di Luisa, di mia moglie. E potremmo vedere insieme che cosa

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si fa per Alfonso. Lina volta ci saresti venuta. Vieni, adesso ?

XXXII

Con l’inizio di settembre, la piccola città del palazzo si era assai ripopolata, come del resto la città grande tutto intorno. Non dava granché nell’occhio, che l’appartamento dei De Nicola fosse invece rimasto vuoto. Tanto tenace era stato sempre il loro isolamento, tanto radicata l’abitudine di tenere eternamente le persiane sbarrate: che prolungavano quelle dell’attico padronale, chiuse da decenni, e con esse si confondevano. Veniva da pensare che i De Nicola avrebbero seguito anche la sorte degli antichi baroni, semplicemente, come loro, scomparendo una volta per tutte: e che l’intero ultimo piano sarebbe perciò rimasto chiuso molto a lungo. Non che fosse del tutto dissipato il caldo africano di quell’estate, irradiato perversamente e moltiplicato dalla fornace dello scintillante lucernario. Né si era ancora placata l’afa, che costringeva la gente, la sera, a non andare a letto mai, e vagare invece per ore per le strade. C’era così chi amava andare ogni tramonto, come a un appuntamento geloso, a guardare lentamente progredire i temerari getti di cemento armato della nuova stazione; chi si spingeva a coppie o a gruppi in un giro senza obiettivi, magari sotto i magnifici lecci del vicino Colle Oppio; e infine chi, soprattutto i vecchi coniugi, preferiva sedersi invece lungamente e silenziosamente nelle piazzette. Tutti si svegliavano poi la mattina con la testa vuota, qualcuno con i dolori, provato come dopo una sbornia o dopo un viaggio. Ma finita, formalmente, era al contrario l’estate per chi lavorava in ufficio, per chi si aspettava presto di tornare a scuola. Come il sole che aveva preso a calare ogni sera più presto, anche i vestiti di tutti, più seri, più scuri, guardavano indietro. Sarebbe stato lungo, il lutto per l’estate. I vestiti non promettevano mutamenti, né per molto tempo riprese. In mancanza di fantasia e di concentrazione per altri generi orali, la gente si scambiava aforismi da quattro soldi, vagando di sera.

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Eppure è molto amato, molto aspettato, l’inverno, diceva per esempio ogni tanto qualcuno. Ma non è solo l’idea dell’inverno vicino, la ragione del malumore di settembre, aggiungeva pensosamente qualcun altro. Sono i trapassi, che prendono sempre a tradimento. Troppo languorosi, troppo luminosi, troppo lunghi. E non solo i trapassi di stagioni. Anzi: non solo i trapassi, diceva chi credeva di avere trovato un’idea nuova e profonda per spiegare il contagio, ogni volta sorprendente, del mal d ’autunno. Fa male anche quello che è stato prima e che non tornerà, e quello che viene dopo e forse non sarà diverso. Poi tutti se ne andavano a letto, dentro a un’afa quasi identica a quella di agosto. All’inizio della seconda settimana, da che veniva tutte le mattine a portare la spesa, e adesso con un carico assai maggiore sulla bicicletta per tanti clienti tornati, lo scolorito e grosso Carlo prese coraggio: e annunciò a Lavinia Solari di avere qualcosa da dirle. Da parte della mamma di Paolo. Poteva salire un momento in casa ? Della signora Solari, la madre di Paolo aveva tanto sentito parlare dal figlio, quando tornava a casa la sera. Forse la signora Solari, la scusasse se le chiedeva aiuto, aveva idea di dove fosse andato a nascondersi, il ragazzino ? No, non era tornato a casa da forse dieci giorni. No, non era neppure a casa di parenti, o di amici di scuola. E poi gli amici di scuola li aveva persi quasi tutti, da che lavorava. Sì, certo che la madre aveva avvertito la polizia. Ma non era servito. Non ancora, almeno. A Lavinia per caso era capitato di sapere qualcosa dei suoi progetti, delle sue intenzioni, da altri o chiacchierando con Paolo stesso quando veniva a portarle la spesa ? Lavinia assicurò che avrebbe sentito in giro, che avrebbe tentato di raccogliere informazioni. Purtroppo uscire molto di casa non poteva. Ma lei riteneva che Paolo avesse avuto bisogno di stare da solo per calmarsi: e che sarebbe tornato appena si fosse sentito meglio. Che dunque non ci fosse da preoccuparsi. Paolo era un ragazzino molto indipendente e capace. Augurava alla madre, almeno lui, di vederselo tornare presto. Carlo era nel cortile, e aveva già inforcato la bicicletta quando si voltò per dire: “Ho dimenticato. La madre di Paolo la prega di dirgli, se le capitasse di vederlo, che Oreste è stato sepolto tre giorni fa.” Ma neppure quel messaggio ebbe mai occasione di essere consegnato.

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Poi venne, a metà settembre, davvero l’autunno. Non ancora il freddo. Ma le foglie secche, la pioggia insistente. E un giorno s ’alzò, chissà da dove, una magnifica tramontana: che rese l’aria chiara, e indimenticabili i colori degli intonaci e del cotto. Partirono gli uccelli. E una notte, la luna fu di nuovo limpida e piena. Credettero, i primi quella notte a svegliarsi, di sentire rispondersi alto da ogni lato cani affamati nel dormiveglia, cani da guardia fuori di sé per un’intrusione ostile, cuccioli morenti per terribili crampi intestinali, randagi avvelenati, bastardi inutilmente innamorati, deliranti mastini, cagne nelle doglie del parto. Pensarono che tutte le loro case stessero per essere invase, per le finestre, per le porte, da pazze orde sanguinarie, milioni di cani rinselvatichiti e famelici, guidati da un’unica cieca smania assassina. Ma quando si alzarono dal letto e andarono alla finestra, gli abitanti della zona intorno al Colle Oppio, si resero conto che era l’effetto di impressionanti giochi sonori nel vento, lo spaventoso riecheggiare e diversificarsi di un urlio che saliva dappertutto fino al cielo. Arpe eolie fatte di colonne e di arcate, camere d ’echi dentro alle rovine a volta, risonanze immensamente amplificate dai labirintici sotterranei, rimandi acustici dai pieni delle mura alle cavità delle strade e delle piazze spezzavano, scomponevano, deformavano, esasperavano, disperdevano a ogni vento un unico ululato, doloroso e altissimo: che sembrava non potere avere avuto origine né in una gola né in un giorno o da un luogo, e soprattutto non promettere di finire mai. Nel quartiere tornato popoloso ci fu naturalmente subito anche chi ricordò, pensò di denunciare, prese il telefono. Così, pochissimo tempo dopo le sirene della polizia e dei vigili del fuoco aggiunsero i loro strilli al gran lamento che faceva vibrare e inorridire l’aria. E che verso l’alba d ’improvviso si spense. La seconda notte furono invece drappelli di volontari, ragazzoni avventati, ma anche morigerati adulti, che armati di spranghe e dei troppi fucili tenuti ancora in casa dai tempi della guerra si misero a battere il Colle. Dell’uomo lupo avevano ripreso con gusto a parlare i giornali. Nei pochi cinema della città rimessi in piedi comparvero due diversi film americani dell’orrore. La terza notte piovve a dirotto. La gente dormì. Si sentirono fino alla

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mattina soltanto lo scrosciare dell’acqua e qualche basso tuono lontano. La quarta sera, non era notte ancora ma già piuttosto buio, suonò il campanello d ’ottone del maestro Doglio: che in venticinque anni non aveva avuto mai un visitatore. Dovette suonare una seconda e una terza volta, il campanello, perché si udisse finalmente lo scatto del portone. Sporgendosi dalla ringhiera sul pianerottolo, il maestro si aiutò con la livida luna dall’alto per distinguere la figura curva e un po’ tozza, ora arrivata al centro del cortile. Chiamò forte, severo: “Chi è, a quest’ora ? ” Bassa e breve, da giù, la risposta: con un difetto nella pronuncia della esse. “Sono Filippo. Salgo ? ”

XXXIII

Alle sette della sera dopo, nella foschia che cominciava a calare, Natale fermò come sempre la bicicletta davanti al palazzo in rovina: che era da anni la sua isola e il suo eremo, la sua grotta degli oracoli, la sua muraglia contro i Tartari, il suo personale muro del pianto. Già la secca curva attraverso la strada per avvicinarsi, il gesto brusco con cui accostò il manubrio, raschiandolo, al cumulo di mattoni di cinta parlavano di una giornata, alle spalle, violenta e strana, ancora mal governata nella memoria. Ma più insolito ancora fu il salto con cui Natale superò l’infomie trincea esterna invece di sedercisi sopra, come sempre, lasciando penzolare le gambe al ritmo dei suoi pensieri. Si mise poi a camminare a testa bassa, di furia, su e giù per i mucchi di macerie più grossi: sparando calci ai sassi che gli venivano fra i piedi, chinandosi a raccattare manate intere di altri sassi per scaraventarli a tutta forza in alto. Contro i due muri ad angolo, che avrebbero ormai atteso per crollare, era evidente, soltanto le trombe del Giudizio: superando così di mille anni in decrepitudine gli anfiteatri, le terme, i nuovissimi alberghi e le stazioni di cemento armato. “Anche lei. Proprio lei. Ma se non esce mai. Ma se nella sua fabbrica

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sono tutte donne. Dev’essere stato un parente, un vicino. Ricco, magari. Vecchio. Il farmacista dove ha lavorato un’estate, e che la invitava sempre al cinema. Il macellaio vicino a casa sua: coi denti d ’oro, la catena d ’oro, l’anello al mignolo d ’oro. Lo regalerà a lei, l’anello. E lei se lo metterà alla sinistra quando si comincerà a vedere. Lo ammazzerò. Lo ammazzerò. Ma come ha fatto ? ” Gli sembrava di parlare forte e invece vociferava, minacciava, urlava dentro al palato, dietro ai denti, senza che si muovesse neppure la lingua. Inciampò, cadde a sedere e questa volta pianse sul serio. Gridò, singhiozzò, senza pensare a fermarsi. “Ma se con me non ha voluto mai !” Era molto più buio, ora. Natale era così stanco da fare fatica anche a tirarsi in piedi. E soprattutto, non sopportava neppure l’idea di andare anche quella sera dalla madre: con le sue minestre di rammarico e di rimprovero. Pensò di non muoversi di lì: di sistemarsi per dormire nella sua grotta prediletta, su quello che era un tempo il primo piano. La bicicletta non correva pericoli, se lui era lì per sorvegliarla. Faceva ancora abbastanza caldo per dormire all’aperto. E il giorno dopo si sarebbe svegliato con la luce, e sarebbe stato al lavoro ancora prima dell’ora. Per la cena pazienza. Per quello che trovava di solito. Accese un fiammifero per vedere dove metteva i piedi: anche se quei ruderi riteneva di conoscerli come la sua stanza. Issatosi sul primo pezzo di solaio, ne accese un altro: che gli fiammeggiò fra le mani chiaro come un minuscolo razzo, facendogli intrawedere un cencio o un sacco azzurro. Un rotolo di qualcosa, addossato alla parete di fondo che chiudeva la nicchia. Fece due passi e accese un terzo fiammifero. E subito lo lasciò cadere. Un ragazzo. Un ragazzino alto, lungo, cioè, steso lì com’era, quanto il suo cuginetto che andava ancora a scuola, e solo l’anno prossimo avrebbe avuto il permesso di accompagnarlo, per reggergli il secchio e imparare un po’ del mestiere. Forse era scappato di casa, questo, e si era perduto. Forse aveva avuto la stessa idea di Natale, e dopo aver preso confidenza con il suo rudere, il rudere di Natale, s’intende, aveva deciso di correre l’avventura di una notte da solo sotto il cielo. Ma forse, invece, stava male e non lo sapeva nessuno.

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Natale mise un ginocchio a terra accanto al ragazzino con la camicia azzurra. Accese un quarto fiammifero, e con la destra gli girò la faccia verso di sé. Provò a sollevargli la testa. Che ricadde dondolando dall’altra parte. Si gettò indietro, alzò d ’istinto al cielo buio, come per cercare aiuto, la faccia, la bocca aperta. Dal balconcino storto di ferro sul muro più alto vide così per un attimo sporgersi verso di lui le spalle magre, ondeggiare la liscia frangia nera di un adolescente. Poi la ringhiera vuota contro la luna.

XXXIV

Andò così che Natale trascorse la notte del suo progettato romitaggio, drammatico e polemico, al commissariato, invece: dove dovette ripetere a dieci persone diverse la sequenza di tutti i suoi passi, cercando di farlo sempre con le stesse parole. Il ritorno dal lavoro, il giro con altro per la testa dentro alle macerie, la bicicletta ripresa di furia e spinta per le strade deserte in un irreale zigzag durato, gli sembrava, un tempo lunghissimo. Per irrompere finalmente in queste quattro stanze, con il filo delle lampadine nero di mosche, e buttarsi addosso alla prima divisa che gli si era parata di fronte, assonnata e irritata per l’interrotto tressette. “Un ragazzo. Un bambino. Si è rotto il collo. Dentro alla casa crollata di via Menotti”. Alla polizia, Natale dovette tentare di spiegare anche quello che non aveva spiegato mai neppure a sé. L’appuntamento segreto con il rudere, cioè, che da anni orientava, ordinava le sue giornate; che gli aveva insegnato la sopportazione e la speranza. Non ci credevano, era chiaro; e, a raccontarla così, non ci credeva più neanche lui. Era, a tratti, così stanco e scosso che la testa gli si confondeva: e dubitava di essersi soltanto immaginato tutto, dal litigio con la ragazza al ritrovamento di quell’altro sé adolescente che lo aveva preceduto su per gli erti rottami, verso la roccaforte sospesa che non apparteneva ad altri che a lui. E che doveva,

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leggero com’era, essere riuscito ad arrampicarsi fino al balcone di ferro del quarto piano: la meta naturale di chi guardava dal basso, dove non si era arrischiato mai neppure lui. Precipitando poi, gli sembrava di vederlo, da quello sbilenco balcone per un sussulto minimo, per la distrazione di un attimo: la fuga di un gatto colta con la coda dell’occhio, l’improvviso levarsi in volo di un uccello notturno. Altre visioni, più tormentose, Natale le ricacciava con violenza: ma solo un minuto dopo tornavano a riformarsi. La lontana storia del ragazzo del barone, qualcuno doveva averla raccontata anche a lui, quand’era bambino. Verso mattina, il medico della polizia gli diede un bicchiere di bromuro e gli disse di andarsene subito a dormire da sua madre. Che ad avvertire l’impresa dove lavorava avrebbero pensato loro, appena si fosse arrivati a un’ora decente. E Natale andò. E sua madre ebbe per una volta la saggezza, dopo una notte anche per lei nuova e diffìcile, di non chiedergli niente. Di tirare soltanto tutta giù la serranda della sua stanza da letto, e richiudere piano la porta. Ci volle solo mezz’ora, quando fu giorno, perché la macchina della polizia ferma davanti al rudere e l’andirivieni di gente in divisa, che misurava e fotografava dentro l’ammasso dei cocci, richiamassero un assembramento di pensionati e di ragazzini ancora senza scuola: che andò via via crescendo durante la giornata, arricchendosi di padri che tornavano a casa per pranzo, di donne uscite per spese, di sfaccendati parroci, di signori annoiati. Venne, nella mattinata tarda, su un’altra macchina della polizia la madre di Paolino: con una faccia morta e il vestito nero ormai scomodo e sporco che aveva addosso da molti giorni. Ma fu attorniata, appena tentò di scendere, da una tale ressa di facce sudate e curiose che tornò subito dentro e pregò invece, in un crescendo acutissimo: “Portatemi a casa, per favore, per favore, portatemi subito a casa”. La sera, il cerchio attorno alla casa crollata radunava ormai centinaia di persone, venute da tutto il quartiere e oltre, che dalla fine della guerra non avevano potuto avere di queste emozioni, e ne avevano sentito la mancanza. E quindi parlavano forte, discutevano, commentavano eccitati, si passavano notizie esclusive. Pareva dunque che ci fosse stata una rissa fra ragazzi, questi dementi e violenti ragazzi di oggi, e che uno avesse sparato all’altro con la rivoltella del padre. La cosa era verosimile: non c’era

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chi non conoscesse personalmente precedenti del genere, e non biasimasse la follia delle armi militari tenute a ungere i cassetti. Niente affatto, dicevano altri, la polizia era intervenuta dopo il regolamento di conti di una banda che usava il rudere per nascondiglio, e che si era lasciata dietro, come sempre succede, il ladruncolo più giovane e più debole. Altre voci, nella folla, a queste fantasie si infuriavano. Ma se è un garzone, un ragazzo visto tante volte in giro per il quartiere, lo conosciamo praticamente tutti. L’avranno aggredito per prendergli i soldi che riportava al negozio: con tutti questi disoccupati che ci sono in giro. L’avranno forse stuprato, e strangolato: era capitato anni prima a una ragazzina di tre strade più in là; e il maniaco non l’avevano mai trovato. Sfido, interveniva su un tono più stridulo una signora, di maniaci la città è piena: e non hanno neppure l’aria temibile, vanno in giro vestiti come tutti, lavorano, sono gentili. E i nostri figli sono in pericolo costante, non bisognerebbe farli uscire tanto come si fa oggigiorno, io la mia l’accompagno dappertutto, è un sacrifìcio ma sono contenta di farlo, e se protesta le dico proprio questo: che smetterò soltanto quando a proteggerla ci sarà suo marito. E se non le va resti pure a casa. Ancora più tardi, mentre veniva buio e già la folla, uno per uno, prendeva a disperdersi, ci fu qualcuno di mai visto prima in giro, forse anche perché assolutamente non vistoso, un uomo, pare, di mezza età dignitosamente vestito, con il cappello, che avanzò con discrezione una nuova ipotesi. Ispirato, forse, proprio dalla notte prossima a cadere, e dalla luna rotonda che andava pallidamente affiorando al disopra dei cornicioni. “Non vi è venuto in mente”, disse dunque pacatamente il discreto, distinto signore, “che possa entrarci la strana storia che continuiamo da un po’ a leggere sul giornale ? Quella del pazzo che la polizia non riesce a prendere, e che la notte rintrona ogni tanto il Colle Oppio con quelle urla lamentose che non ci lasciano dormire ? E’ ritornato, sapete. Io l’ho sentito anche ieri notte, sarà stato verso Luna. Hanno detto che aveva la faccia e le mani piene di sangue, i poliziotti che se lo sono lasciati scappare la prima volta. E tutto quel sangue, da qualche parte sarà pur venuto.” “La polizia non sa fare il suo mestiere”, disse una voce profonda. “I pazzi sono pazzi. Avrebbero dovuto metterlo dentro già da un mese, questo. La prima volta che è comparso, chissà da dove. Accerchiarlo con

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le manette, con la camicia di forza. Fare delle battute, come si fa con i cani rabbiosi. Io direi di andare domani a fare un protesta al commissariato. Con le firme degli abitanti del quartiere.” “L’hanno lasciato scappare apposta, da qualche manicomio qua intorno, ve lo dico io. ” Questa era la voce rugginosa di una donna anziana. “E anche la polizia, ha fatto apposta a lasciarselo scappare. Hanno tutti paura. Se la cavino i cittadini fra di loro, se le tengano le famiglie le loro vergogne. Facciano quello che vogliono. Li leghino, li portino via, gli mettano la testa sott’acqua. Noi non siamo pagati per farci ammazzare al posto vostro, ti dicono chiaro e tondo i poliziotti.” La folla non si disperdeva più. Al contrario, nonostante l’ombra sempre più fìtta, continuamente nuovi passanti coglievano l’eccitazione dell’aria e si univano al gruppo. Così efficaci, così vivi, dalla fine della guerra non si erano sentiti mai. Le facce erano ormai solo un cerchio di chiazze chiare. Ma le voci erano forti e diverse. Basta con il subire, una buona volta. Facciamoci sentire. Diamolo noi, l’esempio. Quel povero bambino. La dovranno vedere. Prendiamo un’iniziativa, e vedrete che ci seguiranno tutti. “Forse so io da dove cominciare”, disse qualcuno, certo un uomo maturo, arrivato da pochi minuti sopra una bicicletta senza fanale. “Io faccio la vigilanza per gli abbonati di questo quartiere, sapete. Tre giri tutte le notti, alle dieci, alle due e alle quattro, e tutte le volte a infilare i bigliettini sotto le saracinesche. Ieri, nel giro delle due, ho visto sbucare dal Colle Oppio uno che non avevo visto mai. E sì che li conosco, gli abitanti di questo quartiere. Sono tre anni buoni che lo giro continuamente. Era uno grosso e un po’ curvo che camminava a gambe larghe, incerto come se non sapesse orientarsi bene. Ero curioso, e l’ho seguito per un po’ sulla bicicletta. Ho visto che si è infilato in quel portone marrone, laggiù, in fondo alla strada. Non è quello che chiamano il palazzo degli aranci ? ”

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XXXV

Neppure un bagno, aveva potuto offrire, a quell’ora di notte, il maestro Doglio al figlio piovutogli da sottoterra, dalla giovinezza, dal delirio dell’ospedale. Neppure una cena, e poco più di un letto. Ma aveva sacrificato un’intera bottiglia di Fiuggi per scrostargli le mani e la faccia dalle escrescenze scure, dagli spessi coaguli. Gli era poi parso saggio strofinare ancora con l’alcool e insistere a lungo, senza badare alle smorfie di dolore del figlio. Mentre le medicava se le avvicinava agli occhi, quelle unghie rotte e nere, le dita gonfie. Curvava la faccia lui quanto poteva a studiare i graffi sulle guance, un’estesa abrasione sulla fronte. Poi l’ovatta e la bottiglia dell’alcool finirono a terra, mentre il maestro posava d ’impulso tutte e due le mani sui capelli del figlio, gli stringeva la testa contro di sé, gli passava piano le dita aperte sulla bocca, sulle guance, senza più riuscire a fermarsi. Sentiva Filippo abbandonarsi all’indietro, chiudere gli occhi. Lo guidò come un bambino a infilarsi un suo pigiama. A stendersi, mentre già dormiva, sull’alto letto di ferro. Dal buio, steso lui sulla comoda sedia a dondolo, dove avrebbe certo passato una scomoda notte, gli salì la domanda che gli aveva sempre fatto solo nel cervello. “Ma perché non hai scritto più ? ” Ma Filippo dormiva. Dormì anche tutta la mattina, proprio sotto la lampadina fievole. E ricadde ancora nel suo sonno animale, dopo che il padre gli ebbe fatto mangiare un gran piatto di spaghetti all’olio. Seduto per molte ore accanto a lui, sforzandosi di non muoversi e costringendosi a non toccarlo, il maestro studiava i mutamenti di quel sonno rumoroso, agitato, rotto ogni tanto da un boccheggiare asmatico. Passava e ripassava con gli occhi, come aveva già fatto con le dita, sopra la faccia adulta, le pieghe alla bocca, le occhiaie, le grevi palpebre. Non aveva fatto in tempo a sapere quasi niente, da lui, arrivato chissà da dove e subito riperdutosi dentro a un paese interno senza accessi. Aveva solo ripetuto, Filippo, quella notte, con la fissazione lamentosa di un

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bambino, con una cupa ostinazione del tutto nuova, come tante altre sue cose, al padre che lo ricordava invece volatile e lieto, da quante settimane fosse venuto cercandolo, quanto gli fosse stato difficile ritrovarlo. Ci sarebbe stato tempo, dopo, si disse parecchie volte per calmarsi e convincersene il maestro, tutto il tempo possibile. Non doveva soprattutto, quando Filippo si fosse finalmente svegliato, chiedere troppo, e neppure parlare lui per primo. Bisognava lentamente riprendere, o piuttosto inventare come una cosa nuova, una vicinanza qualsiasi. Lasciare prima che si sciogliessero croste su croste di risentimento e di sospetto, dure come quelle che aveva tolto a fatica dalla faccia del figlio. Rinfilare, riempire, appianare: certo molto a lungo. Un vero lavoro, preoccupante, che non ammetteva sbagli. Gli avrebbe richiesto fantasia, e raffinate tattiche professionali. Avrebbe dato fondo a tutte le energie che non aveva speso, e si era illuso di custodire, da quando era in pensione, come una riserva rara per i tempi duri. Ma ne sarebbe valsa la pena. E se quelle energie si fossero prosciugate ormai per sempre ? Possibile, certo. Probabile. E se Filippo avesse avuto intenzione di ripartire presto, invece ? Doveva esserselo soltanto sognato, che fosse venuto dalla Germania per gli ultimi anni del padre. Dall’angolo della fine, i giovani non riescono assolutamente a guardare. Faceva fatica anche lui, del resto. Ma stava imparando. E se Filippo fosse stato a lungo prigioniero, durante la guerra, per questo dunque non avesse scritto mai, e fosse ora assai cambiato ? Mio Dio. E se Filippo fosse stato molto malato ? Questo no. Ma se lo fosse stato ? Basta, basta. E la sua giovane moglie di tanti anni prima, la sconosciuta tedesca con i capelli rossi ? Che cosa aveva potuto capire di Filippo, lei che non aveva avuto modo neppure di raffigurarselo, senza fotografìe, senza racconti, il bambino bleso cresciuto al di qua delle montagne ? Il bambino che aveva mani straordinariamente leggere, le più rapide idee; e sempre, con vergogna, lo stesso torvo terrore davanti ai cani. A modo suo era il solo

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a saperlo già allora, Filippo, quanti grandi cani impazziti sarebbero presto corsi alla cieca in tutti i versi, di qua e di là delle montagne. Ma se qualche cosa di Filippo aveva nonostante tutto capito, come aveva fatto allora, la ragazza rossa, a voltargli le spalle dopo sette mesi soltanto ? Avranno pure cercato di spiegarsi fra loro, pensava il maestro, in quella lingua bastarda e deforme che Filippo doveva avere fabbricato solo per sé, come quand’era ragazzo fabbricava i carrettini con gli scarti, nel dialetto forse volgare di lei; e più nell’altra silenziosa lingua delle mani e della bocca giù per la pelle, nella lingua gemente della lotta che toglie le forze e il flato, sulla zattera perduta in alto mare del letto. Un segreto tradito a letto. Gli sembrò di ricordare qualcosa. Una lontana storia paurosa. Francese. Com’erano i versi ? Lui amava lei, lei amava lui, ma di una cosa si turbava assai: che lo perdeva per tre giorni interi a settimana, e allora non sapeva dove viveva, che cosa gli accadeva. “Ditemi dove andate, dove vivete, dove dimorate !” Sì, proprio questi. Ma appunto: la risposta strappata, sedotta, chiedeva a sua volta, e molto. Le domandava di subire, come lui, una legge malata fatta solo per lui. Di dividere e di non capire il buio, il buio, la fine prossima di tutte le cose. E lei era così contenta e giovane. Così priva di immaginazione. Povera ragazza. Doveva essere fuggita il giorno dopo. A casa c’erano la madre, il padre, i fratelli. Come avrebbe potuto fermarsi ancora con lui ? La signora ascoltò la meraviglia, e si fece vermiglia di paura. Doveva pure averglielo insegnato, a Filippo ragazzo, come insegnava di solito almeno una volta alle sue classi, che i poeti sanno della nostra storia più di quanto sappiamo noi stessi. Ma non gli aveva detto certo che

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i poeti, a differenza di noi, sanno anche come le nostre condanne saranno eseguite; e non sempre stanno dalla nostra parte. Pure lui, del resto, l’aveva imparato tardi. E Filippo avrebbe avuto anche troppo tempo, per convincersene. Non serviva rimpiangere quell’omissione. Basta, adesso: veramente, basta. Si tirò su con cautela, andò a spegnere la lampadina, si raggomitolò di nuovo sulla sedia a dondolo. Cercò la posizione per dormire anche lui almeno qualche ora. Se fosse riuscito a prendere sonno, bastonato e dolente com’era. La presenza di Filippo si gonfiava, al buio. Era calda, pulsante, pelosa. Occupava fino al soffitto la cieca anticamera. Ebbe il sospetto, mentre calava lentamente nel sonno, di non averci mai abitato neppure lui. Tanto fino allora la stanza era stata asciutta e vuota.

XXXVI

Era stato così violento, lo scampanellare dal basso dentro casa sua, che Lavinia non seppe mai se l’aveva svegliata lo strappo alle orecchie o la vibrazione dell’aria sulla pelle. Si girò con cautela a vedere come reagiva Lorenzo, a quell’aggressione acustica: già nel terrore di una tremenda crisi di pianto, come ne conosceva ormai a centinaia, da quando Lorenzo era nato. Impossibili tutte a calmarsi prima di molte ore. Ma il bambino steso accanto a lei si limitò a girare la testa nel sonno. Da qualche giorno aveva trascinato il suo letto nella stanza di Lorenzo. Abitava di nuovo con lui, come quando era piccolissimo. Per compagnia, per tristezza, per smania. Aveva retto, le sembrava, valorosamente alla scomparsa di Verginia. Le aveva lasciato il letto pronto, e sotto il letto la valigia: che forse fra un mese o fra un anno Verginia si sarebbe ricordata di tornare a riprendersi. Ma l’altro ragazzino, Paolo. A lui non voleva assolutamente pensare. L’aveva lasciato chiuso, per il momento, nella sua vecchia stanza insieme alle carte e ai libri.

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Decise di non aprire. A quell’ora, a quel modo. Ma qualcun altro del palazzo doveva avere deciso diversamente, o la porticina dentro al portone era stata poi aperta con uno spintone, perché già si sentiva dentro al cortile un vociare confuso: amplificato dallo spazio chiuso e dal silenzio della notte. Andò a guardare giù, dato che ormai era sveglia, dalle persiane sempre aperte della stanza accanto. E vide, sotto la luna alta, invadere il chiaro quadrato del cortile almeno in venti, poi in quaranta e settanta: e altri continuavano ad entrare. Chiamandosi fra loro forte, a quell’ora, minacciando: gridando tutti cose diverse che non si riuscivano ad afferrare. E quelle che si afferravano non avevano senso. Continuava ad allargarsi, la macchia scura della gente: e presto non si vide più il lastricato, ma invece facce e facce, e mani alzate in alto, e pugni. Verso le sue finestre, pensò Lavinia, sicuramente contro di lei. Nere bocche, e un continuo, disordinato movimento: che sembrava avvolgersi e svolgersi allo stesso tempo da se stesso. Non capiva, non si muoveva, continuava a guardare. E aH’improwiso si spalancò in faccia a lei una finestra del primo piano: prima le persiane, poi i vetri. Vide sporgersi un grosso tronco di donna. La sentì gridare giù alla folla: “Non lo cercate qui da noi. E’ sopra, dal maestro. Non può essere uscito. ” La gente sbandò, oscillò appena. Pesantemente, con calma massiccia, con decisione, i primi gruppi dilagarono su per le fragili scale di legno e di ghisa. Solo allora Lavinia si scosse. Sbarrò le persiane, i vetri. Nella sua stanza, in quella che era stata di Verginia. Tirò goffamente, annaspando, il catenaccio della porta. E si ricordò del telefono. Solo quando la misero in contatto con la polizia, si accorse che stava urlando. “Presto ! Presto !” Poi tornò da Lorenzo, e si mise il cuscino sulla testa sforzandosi di non sentire più niente. Arrivando pochi minuti dopo, i poliziotti videro il cortile fìtto e nero di gente che qua e là riconoscevano, che doveva perciò abitare quasi tutta da quelle parti: ma gente, anche, che non era più se stessa. Non i capifamiglia responsabili, non i corretti cittadini, non i lavoratori coscienziosi di una vita intera. E videro le scale pericolosamente cariche,

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ondeggianti. Sentirono i colpi di bastone, le sassate, i pugni contro le ringhiere floreali e su una porta in alto. E soprattutto, sentirono che cosa stavano urlando. Sempre le stesse frasi, dal basso e di sopra. Il commissario che comandava la pattuglia aveva cinquantanni, e aveva visto molte cose. Anche dopo la liberazione e a guerra finita. Anche in quello stesso tranquillo quartiere. Non ebbe perciò neppure un momento di esitazione. “Polizia", gridò nelle mani a megafono. “Via subito tutti da quelle scale. Sgombrare. Sgombrare immediatamente.” La folla sembrava non sentire, non capire. Si era fermata. Ma non scendeva ancora, e non accennava a uscire. E il commissario diede allora l’ordine di sparare in aria. Il vociare ancora altissimo soffocò per un istante il rapido crepitio. Agli spari segui lo stupore, e un impressionante silenzio. Tutti poterono, così, sentire chiaramente i primi cigolìi dentro i vetri colpiti. Credettero di vedere con gli occhi, e seguivano invece soltanto attraverso una serie di secchi rumori, aprirsi le scheggiature nella grande volta, allargarsi le incrinature con la velocità dei cerchi sull’acqua, progressivamente a raggera, a ragnatela, a ramaglia. Intorbidarsi e frangersi in cento punti diversi le larghe tessere colorate, spezzarsi qua e là le giunture, scricchiolare gli spigoli, sgretolarsi e cedere le comici di piombo per lo sbilanciamento improvviso. Poi di nuovo un istante di silenzio. E sembrò che l’antico lucernario, sopravvissuto alle offese peggiori che la città avesse mai nella sua lunga esistenza subito, bombardamenti e roghi, sarebbe riuscito a resistere ancora una volta sospeso dov’era: a contenere, se non a medicare da sé, le sue strazianti ferite. Invece, la breve attesa fu chiusa da un unico schianto, un tuono altissimo. La videro tutti, la vetrata mirabile, esplodere verso l’alto come una vela violentemente gonfiata dal vento: e l’attimo successivo precipitare selvaggiamente sopra le teste. Videro rovinare l’intelaiatura come un’immensa rete a brandelli, piovere addosso a sé temporali di taglienti frammenti verdi e arancio, occupare l’aria una fìtta polvere di vetro colore d ’autunno. La polizia riuscì a gran fatica a disciplinare la fuga urlante degli aggressori di poco prima. Represse, con durezza, almeno gli spintoni e i

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colpi più brutali. Ma una volta fuori dal portone, tornò a governare una parvenza d ’ordine. Quasi tutti si lasciarono senza resistenza trasportare al commissariato. Dentro, la luna dilagava libera e quieta, per la prima volta da cinquantanni, lungo le pareti a finestre, giù per le altane fiorite, sopra le eleganti scale incrociate. Sommersi dalla liquida luce, i cumuli di schegge sul pavimento non avevano neppure un riverbero. Dalle finestre del primo piano, che Lavinia era tornata a spalancare, saliva ora altissimo il pianto di Lorenzo.

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