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Zitiervorschau

Geo Pistarino

La Capitale del Mediterraneo: Genova nel Medioevo

COLLANA STORICA DELL'OLTREMARE

LIGURE

VI

GEO PISTARINO

LA CAPITALE DEL MEDITERRANEO: GENOVA NEL MEDIOEVO

ISTITUTO INTERNAZIONALE DI STUDI LIGURI BORDIGHERA 1993

COLLANA STORICA DELL'OLTREMARE LIGURE VI

GEO PISTARINO

LA CAPITALE DEL MEDITERRANEO: GENOVA NEL MEDIOEVO

ISTITUTO INTERNAZIONALE DI STUDI LIGURI BORDIGHERA 1993

UNIVERSITA' DI GENOVA DIPARTIMENTO DI STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA Via Balbi 6 - Genova

Contributo del M.U.R.S.T., quota 40%.

PREMESSA

Cronisti e poeti del mondo medievale euromediterraneo, dal secolo XII al XV, riconoscono ed esaltano la potenza di Genova sul mare, la sua eccellenza economica e militare, la sua onnipresenza operativa. Afferma al-Idrìsi: «La città pullula di mercanti che viaggiano per terra e per mare e si avventurano in imprese facili e diffìcili. I Genovesi, dotati di un naviglio formidabile, sono esperti nelle insidie della guerra e nelle arti del governo: fra tutte le genti latine sono quelli che godono di maggiore prestigio». Gli fa eco Beniamino di Tudela: «Dominano il mare». E Manuele Holobolos: Genova è «la città famosa, madre di altre città. I coloni di là provenienti sono diffusi in Oriente e in Occidente. Abili nella navigazione, hanno grande esperienza nella guerra navale. Destri cavalieri, possiedono alta perizia nell'arte di difendersi a terra. Sono gente di mare: perciò conoscono il mercato». Di tutto ciò i Genovesi sono consci ed orgogliosi. Lo dichiara Iacopo Doria: « Conosca la ventura posterità che a questi tempi la città dì Genova (...) in terra e mare su tutte le altre città d'Italia per onore, potenza e ricchezza rifulgeva!». Chi non Γ ha mai veduta non può immaginarne Γ eccellenza, di cui i suoi stessi abitanti non sanno rendersi conto, come dichiara il suo Anonimo due-trecentesco ad un visitatore immaginario: «Zenoa è ben de tal poer / che no è da maraveiar / se voi no lo poei saver / per lo loitam odir contar; / che è mesmo, che ne son nao, / no so ben dir pinnamente, /ni destenguer lo so s tao, /tanto è nobel e possente». Gli fa eco da Costantinopoli Giorgio Pachymeras quando definisce i Genovesi come i θαλασσαχρατουντας, «i dominatori del mare»: «come se il mare - commenta Giovanni Cantacuzeno - appartenesse soltanto a loro». Per Francesco Petrarca i Genovesi sul mare sono invincibili: «Maria prope omnium gentium vestris triumphis ac victoriis illustrastis: Tyrrhenum, Adriaticum, Euxinum, Ionium, Africum, Aegeum». Senza gVinterni dissensi, osserva Pero Tafur, «su señoría se avría estendido más por el mundo». E Cristoforo Colombo: «Genoa es ciudad noble y poderosa por la mar».

Di qui il titolo di questo libro che propone Genova, i Genovesi e quella che essi stessi chiamarono la loro Communitas come grande po­ tenza economica e militare del quadro euromediterraneo nella sua storia costituzionale cittadina fino all'epoca del doge perpetuo, e ne considera prospetticamente, in prima istanza, i due pilastri portanti nel secolo XII: VOccitania e la Sicilia. Ma non è soltanto questo. Mentre il Vicino Oriente è stato posto in esame dalla triade dei volumi "I Gin dell'Oltremare" (1988), "Genovesi d'Oriente" (1990), "1 Signori del Mare" (1992), altri punti di forza re­ stano aperti al futuro completamento del disegno storico della presenza genovese tra il Mezzogiorno d'Italia e la Sardegna, la penisola iberica e l'Africa del Nord. Così si configura, fra il secolo XII e il XV, la pro­ spettiva del medioevo mediterraneo che trova nella Superba il sismografo sensibilissimo agli eventi del mondo.

I

LA LIGURIA: REGIONE NAZIONE

Rielaborato dal saggio dallo stesso titolo in «Atti della Accademia Ligure di Scienze e Lettere», XXVIII, 1971, pp. 85-94.

I Regione e nazione sono termini che sembrano facilmente definibili, ma che, invece, lasciano perplessi quando si cerchi di approfondirne il significato e di fissarne il concetto in modo chiaro ed esauriente. Nei paesi di antica civiltà, come l'Italia, l'una e l'altra rappresentano il punto d'arrivo d'un processo storico, di tutta una serie di alternanze e di sedimentazioni che hanno contribuito, via via nel tempo, a delineare una determinata fisionomia, a fissare certi caratteri, più о meno precisi, stabili о definitivi. La regione costituisce oggi in Italia un elemento amministrativo nelle strutture dello Stato, rappresenta un fatto giuridico-politico. Ma anche in precedenza, anteriormente all'ordinamento regionale che si è attuato sulla base degli appellativi e delle delimitazioni tradizionali, la Liguria, il Piemonte, la Lombardia, la Toscana, la massima parte delle altre circoscrizioni oggi vigenti non erano semplici espressioni geografiche, in quanto la loro stessa voce onomastica e l'area che quella voce ricopre, con confini ora assai precisi sulla carta, si sono determinate nei secoli attraverso vicende molteplici che talvolta ci hanno trasmesso contraddizioni palesi о problemi non risolti. Basterà pensare alle denominazioni di Lombardia e di Romagna, nate per contrapposizione l'una all'altra, in seguito all'invasione longobarda nel 568, che vide stanziarsi i barbari lungo il corso del Po, con capitale in Pavia, e raggrupparsi i bizantini intorno a Ravenna. Oppure potremmo citare il caso del Piemonte: un nome che, salvo errore, comincia ad affermarsi nell'ultimo medioevo, in area originariamente assai ristretta, e che, coinvolto nel gioco delle forze politiche dell'Italia nord-occidentale, viene portato avanti dalle vicende storiche, a scapito, ad esempio, dell'area occupata a levante dalla precedente denominazione di Lombardia. E tutti abbiamo presente l'alternanza fra gli appellativi di Lucania e Basilicata, applicati al medesimo territorio: il secondo tramandato dalla tradizione come testimonianza della presenza bizantina dall'epoca della guerra grecogotica fino a tutto il secolo XI; il primo, d'impronta classica, richiamato in vita nel periodo fascista in omaggio al mondo romano ed in opposizione

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al ricordo del governo di Bisanzio in Italia che, non si sa perché, è stato spesso considerato alla stregua di un'occupazione straniera, anziché come il ripristino della legittima autorità imperiale, secondo il modo di sentire degli uomini di allora, volti all'Oriente come alla patria perduta. Vogliamo altri esempi del valore storico, e pertanto mutevole nel tempo, delle nostre denominazioni regionali? Basterà tenere presente, per rimanere nell'area circumligure, il caso del Monferrato: un termine toponímico che, proprio in séguito alle vicende politiche, cioè in séguito all'annessione dello Stato, che ne portava il nome, al ducato sabaudo nel 1708, ha perduto la precisa funzione di delimitazione e designazione amministrativa, sicché non si sa neppure più in quale precisa zona collocarlo, con quale estensione e con quali confini, salvo a richiamarsi di volta in volta, nel ripercorrere la storia, a determinate fasi delle frequenti mutazioni territoriali del marchesato dalle origini sino all'inizio dell'età moderna. Oppure sarà sufficiente accennare al caso della Lunigiana, la cui figura giuridico-geografica, in senso storico, «non soltanto nella volgare nozione, era molto vaga e imprecisa prima che il Mazzini ne riconoscesse sicuramente, attraverso l'identificazione delle vecchie pievi, il confine diocesano»1. Ma a monte di questo fatto culturale, a cui può assegnarsi la data precisa del 1909, la Lunigiana medievale è inafferrabile nella sua esatta delimitazione: ora intendendosi come episcopato diocesano, ora come comitato vescovile nella sua effettiva dimensione feudale, ora come vicariato dell'Impero, ora come provincia milanese, о fiorentina, о genovese... Ed a valle, cioè oggi, ci pare che l'ampiezza territoriale assegnatale dal Mazzini, sulla scorta degli antichi confini della diocesi, scelti per di più soggettivamente in un dato momento del loro divenire storico, stenti ad affermarsi nella coscienza comune, non venga avallata neppure in sede geografica, dove la Lunigiana è ricondotta ad un'area assai più ristretta, nella vai di Magra e nella vai di Vara, ripartita, in un gioco di complesse sovrapposizioni, tra le odierne regioni della Liguria, della Toscana e dell'Emilia. Per non accennare poi a designazioni minori, quali quelle, rimanendo sempre nell'ambito circumligure, delle Langhe, della Lomellina, della Garfagnana, della Versilia: minori non in ragione della pregnanza storica che esse racchiudono о del significato ideale che possono assumere, ma per la dimensione territoriale a cui oggi si applicano, о per la mancanza di precisi ancoraggi a formazioni politiche autonome del passato, о per le più incerte delimitazioni nel tempo e nello spazio. E per non parlare infine di 1

U. FORMENTCNI, Lunigiana, Genovesato e Liguria, La Spezia, 1923, p. 3.

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quelle voci che sono state travolte dal tempo, come la Sezzadia nel cuore dell'Alto Monferrato, о il Vasto tra il Piemonte e la Liguria, о il Veleiate e la Torresana nell'area sestrese-lavagnina. Se desideriamo un caso tipico delle contraddizioni, che la storia ci ha lasciato, dei problemi, che le configurazioni regionali d'un tempo conti­ nuano a proiettare sul presente, senza dovere ricorrere ad esempi-limite, per certi aspetti esorbitanti dal nostro tema, come i conflitti di competenza, appoggiati a reali о presunte motivazioni del passato, tra Catanzaro e Reg­ gio, l'Aquila e Pescara, Carrara e Massa, non abbiamo che da rivolgerci a Novi Ligure, inclusa amministrativamente nel Piemonte sotto l'aspetto provinciale e regionale, ma tenacemente legata, come ad un blasone di no­ biltà, a quell'aggettivo qualificante, che ricorda la sua antica appartenenza politico-territoriale alla Repubblica di Genova, in virtù della quale essa ha rifiutato ogni tentativo di trasformazione onomastica in Novi Piemonte. *

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Nomi regionali italiani, di regioni oggi giuridicamente costituite e di regioni scomparse come strutture organizzate, si avvicendano, si sovrappongono, si contrastano il terreno, si estendono о si riducono spazialmente, in una vicenda ininterrotta dall'antichità protostorica ai tempi moderni, come espressione d'una realtà palpitante, di vicende umane complesse, di variazioni di situazioni e d'ideali. Taluni sono labili e fluttuanti; altri più duraturi о stabili; altri ancora ormai codificati nell'assetto giuridicoamministrativo dei nostri giorni. A quest'ultima categoria appartiene la Liguria: un nome antico, tra i più arcaici d'Italia, sopravvissuto ad una lunga avventura, che ha conosciuto vicende alterne, momenti oscuri e periodi di fervore culturale. E tuttavia, per quanto possa sembrare strano, non esiste una Liguria come designazione ufficiale d'una struttura politica, giuridica, amministrativa, religiosa, che corrisponda integralmente all'odierna regione dalla notte dei tempi sino all'età moderna2. È appena il caso di ricordare la genesi del nome dai Liguri antichi, estesi nell'arco mediterraneo dall'Arno al Po ed all'Ebro. Ma già in epoca classica l'area, a cui esso si applica, presenta una drastica riduzione, limitandosi alla parte nord-occidentale d'Italia, abitata dai Liguri, con confini diversi, nella funzione di semplice designazione geografica, da autore 2 Sulla Liguria, considerata sotto i distinti aspettifisico,etnico, politico, amministrativo, cfr. P. REVELLI, La Liguria geografica, in «Storia di Genova dalle origini al tempo nostro», voi. I, Milano, 1941, pp. 361-381. Cfr. anche, per l'aspetto storico, R. PAVONI, Liguria medievale. Da Provincia romana a Stato regionale, Genova, 1992; S. ORIGONE, Bisanzio e Genova, Genova, 1992.

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ad autore. La maggiore concordanza di opinioni riguarda i confini sulla striscia costiera, mentre le divergenze si accentuano per quanto concerne l'estensione nell'interno. Così, ad esempio, in una tradizione plurisecolare, per Strabone, Pompeo Mela, Plinio il Vecchio, Anneo Floro, a cui fa eco Giordane, i limiti estremi sono segnati dal Varo e dalla Magra. Invece Claudio Tolomeo parte, ad occidente, da Ventimiglia; ad oriente Polibio stabilisce il confine della Liguria ad Arezzo e a Pisa; Pompeo Trogo colloca tra i Liguri Marsiglia, da un lato, Pisa, dall'altro. Sul problema dell'area interna alcuni autori tacciono; Strabone considera la Liguria «situata lungo l'Appennino e posta fra la Gallia e Γ Etruria»; Pli­ nio il Vecchio elenca i luoghi fino al corso del Po, secondo l'ordinamento augusteo della Regio Italiae IX; Anneo Floro dà la definizione che più si attaglia ai tempi nostri: «Ligures imis Alpium iugis adhaerentes, inter Varam et Macram flumen». La Liguria della struttura statale romana, cioè la Regio Italiae IX dell'ordinamento di Augusto, testé citata, copriva buona parte della valle Padana inferiore, includendo in sé il nucleo più compatto dei Liguri cisalpini, tra il Varo, le Alpi, il Po, la Trebbia, l'Appennino e la Magra, con esclusione di Veleia, nel cuore dell'Appennino parmense, che faceva parte dell'Emilia, e di Luna, sulla sinistra della Magra, che rientrava nell'Etruria. Il riordinamento amministrativo dell'Italia, compiuto da Diocleziano e perfezionato da Costantino, vide raggruppato, sotto il nome di Liguria, con capitale Milano, un complesso territoriale ancora più ampio, che includeva, oltre alla Regio IX (Liguria) anche la Regio XI (Transpadana) e la Regio VIII (Aemilia), con esclusione delle Alpi Marittime e delle Alpi Cozie, smembrate dalla Liguria augustea e ordinate in due province distinte, e di una parte della Regio VIII, inclusa nella provincia Flaminia et Picenum. Tra la fine del secolo V e l'invasione longobarda in Italia la Liguria subì ulteriori modificazioni territoriali-amministrative, delle quali non siamo sempre esattamente informati, ma che risposero soprattutto alle esigenze della difesa militare dell'Italia nord-occidentale sia contro le incursioni barbariche da oltralpe sia contro le scorrerie dei Vandali nel Tirreno. Si trattò comunque di assetti ben lontani da quello odierno, nei quali anzi il termine di Liguria venne talvolta usato a designare un'area interna nettamente distinta da quella delle due Riviere: basti ricordare che per Paolo Diacono la provincia di questo nome riguarda la vai Padana con Milano e Pavia, mentre Genova fa parte della provincia delle Alpi Cozie. Toccò ad un evento, per tanti aspetti considerato funesto per la storia italiana, l'invasione longobarda del 568-69, la funzione inconsapevole

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di determinare, sul piano politico, amministrativo, religioso, militare, la prima configurazione di una Liguria, sia pure sotto altro nome, in cui può ravvisarsi il vero e proprio antecedente della regione attuale. Di fronte al dilagare dei barbari nella vai Padana e nella Tuscia, l'arco marittimo da Ventimiglia a Luni, difeso dal baluardo appenninico, fu organizzato da Bisanzio nella Provincia Maritima Italorum, che si contrappose alla Langobardia dell'interno, come vi andò contrapposta, sul versante orientale della penisola, la Romandiola dell'area adriatico-ravennate. Dove esattamente corresse il limes tra Bizantini e Longobardi, lungo la linea alpino-appenninica, ci è ignoto per la scarsezza di ricerche in proposito: crediamo tuttavia di non errare supponendo che non si discostasse molto dall'attuale linea del confine ligure verso il Piemonte, l'Emilia e la Toscana, il quale è, anch'esso, il risultato, per gran parte, di vicende di un passato plurisecolare. Le vittoriose operazioni militari di Rotari, che portarono i Longobardi all'occupazione della nostra regione tra il 635 ed il 643, eliminarono questa prima configurazione territoriale d'una Liguria in sé raccolta, delineata con chiara precisione in una propria individualità geografico-politica, venendo meno il gioco delle contrapposizioni tra mondi appartenenti a civiltà diverse. Sicché in fondo poco importa, ai nostri fini, stabilire se e come i Longobardi mantennero in vita, quale corpo territoriale, la precedente Provincia Maritima Italorum, posta da loro sotto il controllo di un dux. Organizzata in giudicarle e gastaldati, smembrata del territorio di Luni, passato al ducato di Lucca, assorbita nella compagine dello Stato barbarico, che ha raggiunto ormai un proprio avanzato processo di strutturazione, la Liguria scompare nel buio della storia. Cessa addirittura di esistere, come circoscrizione amministrativa autonoma, quando, in seguito alla vittoria di Carlo Magno in Italia, il suo territorio entra a fare parte della marca di Tuscia, di cui abbiamo notizia intorno alla metà del secolo IX. E però il momento culminante, in cui la nostra regione sembrò non potere giungere mai più a configurarsi in un organismo unitario dal Varo alla Magra, si colloca proprio nell'epoca della ripresa occidentale ed italiana, allorché, tra la fine del 950 ed il principio del 951, Berengario II ed Adalberto, re d'Italia, impegnati nella lotta contro i saraceni, incursori dal mare, e gli ungheri, dilaganti dall'Oriente nella vai Padana, diedero vita alle tre famose marche: l'obertenga, l'aleramica e l'arduinica. Concepite come strutture politiche, economiche e militari in un sistema organizzato secondo direttrici verticali, lungo il corso dei fiumi a nord ed a

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sud della linea alpino-appenninica, dalla vai Padana, dove spaziavano nell'aperta pianura, alla costa tirrenica, dove avevano i caposaldi marittimi rispettivamente in Luni e Genova, Savona e Albenga, Ventimiglia, esse costituivano tre grandi complessi bilanciati fra il retroterra ed il mare, fra le risorse dell'uno ed il potenziale dell'altro. Rispondevano all'esigenza di porre in atto validi sistemi di difesa e di offesa contro incursioni e scorrerie; alla concomitante e susseguente necessità di portare о riportare la vita là dove regnavano Г incoltura e la desolazione. E diedero risultati positivi: dall'eliminazione degli attacchi nemici, alla fondazione о restau­ razione di monasteri, castelli, centri rurali; dalla ripresa о dall'incremento dei tramiti del traffico sulle piste preistoriche, sulle vie romane, sui per­ corsi medievali, ai primi tentativi marittimi, soprattutto in direzione della Corsica. Ma rappresentavano pur sempre una concezione essenzialmente terrestre, un'espressione del mondo feudale; e spezzarono la regione in tre settori paralleli, orientati sulla direttrice da nord a sud e da sud a nord, in contrasto con quella da est ad ovest e da ovest ad est, che abbiamo tro­ vato geograficamente definita in alcuni autori classici e che s'era imposta nella costituzione della Maritima bizantina in forza della logica insoppri­ mibile della configurazione geomorfica del territorio, delle esigenze poli­ tiche, economiche e civili degli abitanti, delle aspirazioni panmediterranee dell'Impero costantinopolitano, ancora deciso a mantenere il dominio dei mari in Occidente non meno che in Oriente. D'altra parte i provvedimenti longobardi, quali essi fossero, quindi soprattutto quelli dei Carolingi e poi di Berengario II ed Adalberto ri­ specchiano le mutate esigenze d'un nuovo ciclo di storia, in cui la terra prevale sul mare e tende ad inglobare la vita della costa negli schemi del retroterra, a subordinare quella a questo. In quanto tali si riflettono nella mentalità, nei moduli di vita, nella cultura degli uomini del loro tempo. E come nessuna voce ci è giunta da parte dei liguri a parlarci d'una Liguria quando l'argomento era oggetto di notazione presso gli autori greci e latini, quando successivi ordinamenti amministrativi furono messi in atto per opera del governo romano, quando vicende tempestose portarono alla costituzione della provincia bizantina, così sarebbe inutile ricercare ora il tema presso gli scrittori altomedievali, in quegli stessi compilatori di cose geografiche, come l'Anonimo Ravennate, che hanno sostituito al senso della continuità della storia l'immediatezza del panorama percepito sotto la breve luce del loro giorno. *

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All'inizio ed alla fine dell'alto medioevo la Maritima bizantina e le marche di Berengario ed Adalberto si fronteggiano quali due concezioni, due strutture, due finalità contrapposte. È stato questo, nel corso del tempo, il grande dilemma, per non dire il tormento, della storia ligure: d'una terra, cioè, sollecitata continuamente, nella vicenda della propria strutturazione, da un lato dall'omogeneità geomorfica e funzionale di un arco montano scosceso e proteso sul mare, dall'altro dalla sua destinazione insopprimibile ad area di sbocco per i massimi centri della vai Padana, piemontesi, lombardi, emiliani, e, ancora più in là, per le vie del lungo traffico coi paesi francesi e tedeschi. In realtà la prevalenza dell'una о dell'altra soluzione fu strettamente legata alla vicenda del mare e della terra. Il libero respiro sul Mediter­ raneo romano assicura una certa unità ideale alla Liguria, le garantisce un ordinamento amministrativo, ne fa il perno dell'Italia nord-occidentale. La caduta dell'Impero di Roma, il declino dell'Occidente mediterraneo nella formazione dei regni romano-germanici, la violenta rottura longobarda nella stessa Italia riducono la Liguria, avulsa dal retroterra, alla striscia costiera, protetta dalla linea appenninica. Ma ciò solo fino a quando Costantinopoli vuole e può sostituirsi a Roma nell'ultimo tentativo di mantenere l'unità strategica del Mare nostrum grazie al possesso delle grandi isole del Tirreno e ad appoggi costieri in Italia, Africa e Spagna. Il regresso bizantino dal Mediterraneo occidentale, l'avanzata islamica, che giunge a porre l'assedio al Mar Ligure, la costituzione dell'Impero carolingio, dalle strutture continentali ed agrarie, determinano il prevalere della terra. Impedita sul mare, coinvolta poi nell'organizzazione del sistema feudale, la Liguria subisce la dinamica e le esigenze di quest'ultimo fino a perdere la propria fisionomia autonoma e la propria unità. È il periodo dei secoli tra il VI ed il X: il più oscuro nelle vicende, il più parco nelle notizie, per il quale addirittura si discute se i liguri continuassero a praticare un'attività marinara di un certo livello, oppure se l'esistenza quotidiana fosse sostanzialmente defluita dalla costa verso l'interno, riducendosi all'esercizio rurale, frantumandosi nell'isolamento da luogo a luogo. Fu invece proprio la costituzione delle tre marche a riaprire il discorso. La ripresa militare, che esse consentirono, nell'interno contro il pericolo unghero, finalmente eliminato da Ottone I di Sassonia nello scontro sulla Lech nel 955, e sul mare con la prima grande vittoria della cacciata dei saraceni dal nido di Frassineto, in Provenza, e dalle Alpi occidentali nel penultimo decennio del secolo X, si accompagnò, in interdipendenza di causa e di effetto, alla graduale restaurazione, in ogni marca, dei centri

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abitati della costa, soprattutto di quello che rappresentava il massimo esponente marittimo tra le due Riviere e sul quale si convogliarono le maggiori energie dell'intero suo complesso marchionale. L'incremento economico, sociale, demografico, urbanistico costituì la base per lo svincolo, più о meno rapido da luogo a luogo, dal sistema feudale, e per la nascita del Comune. Genova fu favorita, nell'ampiezza e nella rapidità del processo, sia dalla posizione centrale nell'arco ligure, sia dalla traslazione della corona imperiale dai Carolingi alla feudalità tedesca, dal conseguente ingresso del mondo germanico nella storia con tutto il peso politico ed economico dell'Europa centrale, dalla costituzione dell'asse commerciale tra quest'ultima e le Riviere per il tramite di Milano. Così le toccò il compito, non facile, di ricostituire la Liguria secondo la direttrice orizzontale imposta dalla rinnovata libertà di respiro sul Mediterraneo. Compito essenziale per assicurare alla città l'ambito di grande potenza marittima, signora del Mar Ligure, ma che trovò un limite insuperabile sulla catena alpinoappenninica proprio in conseguenza della costituzione, nella vai Padana, di quegli altrettanto validi organismi politico-territoriali, che trassero, essi pure, motivo di vitalità dal retroterra franco-germanico. Sicché, tutta protesa sul mare, Genova impostò e condusse avanti, con tenace pazienza, il tema dell'unificazione regionale in relazione ed in subordine allo slancio sulla vasta distesa che le si apriva via via davanti col regresso dell'ondata saracena, limitando l'espansione alle spalle, nel dosaggio dell'equilibrio delle sue forze, al minimo indispensabile per la propria tutela, per l'attuazione dei maggiori disegni d'imperialismo economico marittimo, per la perfetta equivalenza di valore tra sforzo compiuto e contropartita ottenuta. Naturalmente fu una ricostruzione unitaria quale poteva concepire ed attuare un Comune medievale: non, cioè, come il ripristino di antiche strutture regionali ormai perdute, di una Liguria intesa quale provincia organica, ma come la formazione di un dominio genovese, - che appunto prese il nome di Dominium o Dominado della Repubblica, - imposto per lo più con la forza delle armi e del denaro. E trovò l'opposizione, inevitabile, dei più vivaci centri rivieraschi, soprattutto, per non dire quasi esclusivamente, nel Ponente: stimolati, a loro volta, nelle aspirazioni autonomistiche, о addirittura espansionistiche, dalle antiche tradizioni delle rispettive marche, a cui si aggiunsero e si sostituirono ben presto le solle­ citazioni, per ciascuno di essi, delle proprie dirette relazioni col retroterra. L'aspirazione genovese ad un ambito regionale, riprodotto, non di proposito, ma per una certa analogia di situazioni e di funzioni, sul modello territoriale della Maridma bizantina, si vede in atto al principio del secolo

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XII, dopo che i felici successi delle spedizioni navali antislamiche nel Mediterraneo occidentale e soprattutto nel Levante con la prima crociata hanno dato al Comune sufficienti energie, mezzi, capacità, fiducia per porre mano alle imprese di terraferma. Genova investe contemporaneamente le due Riviere, non tuttavia con un'opera di progressiva dilatazione dal centro verso le ali, ma dirigendosi «per la via più rapida e guidata dal più sicuro istinto in qualunque luogo potesse sorgere una concorrenza»3: addentando dal mare punti essenziali della costa, per mettere in atto, successivamente, il tessuto connettivo tra l'uno e l'altro. Così nel 1113, superando d'un balzo gran parte della Riviera di Levante, si arrocca in Portovenere. Poco più tardi dà inizio alla politica di penetrazione nell'Oltregiogo, occupando nel 1121 Pietrabissara e comperando il castello di Voltaggio; conducendo nel 1128 una spedizione vittoriosa contro il castello di Montalto (presso l'odierna Arquata Seri via); stipulando nel 1135 un trattato con Novi, che rappresenta praticamente una prima presa di possesso, per quanto non duratura, di questa località. Contemporaneamente s'insedia nell'estremo Ponente: nel 1130 in Sanremo, nel 1140 in Ventimiglia. I punti fondamentali della nuova costruzione regionale, sotto il dominio di Genova, sono dunque stabiliti, nel Levante, nell'Oltregiogo, nel Ponente. Che non si trattasse d'un piano occasionale, cioè elaborato di volta in volta, ma meditato in tutte le sue più ampie prospettive future, risulta evidente quando si tengano presenti le clausole inserite dai Genovesi in alcuni trattati con quei signori feudali ai quali, anche nella disgregazione politica delle antiche marche, appartenevano pur sempre diritti di giurisdizione, efficacemente rivalutabili come strumenti di governo. Nel 1132 i domini di Passano si obbligano a servire militarmente il Comune nel territorio da Monaco ad portám Bertramen (presso Massa) e dal mare sino a Tortona. Nel 1139 l'impegno militare dei signori di Vezzano riguarda tutta l'area da Monaco a Pisa e dal mare a Gavi ed a Montalto. Nel trattato con Guglielmo ed Opizzo Malaspina, attribuibile al 1140, i limiti, entro cui Genova promette di aiutare i marchesi, sono compresi nel triangolo tra Porta Bertana e Savona, Parodi, Gavi e Montalto. È evidente che la proiezione sino a Tortona e a Pisa о la limitazione a Savona rispondono a fatti contingenti, a situazioni peculiari delle due parti, anzi della parte signorile-feudale. Ma è anche chiaro che attraverso le oscillazioni, di cui sopra abbiamo dato esempio, Genova va definendo i limiti delle proprie aspirazioni statali-regionali. 3

U . FORMENTINI Cit., p . 16.

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Infatti, nel giuramento col quale Guglielmo di Monferrato nel 1150 si vincola al nostro Comune, gli obblighi militari del primo riguardano il territorio da Porta Bertana sino a Monaco; nel trattato del 1155 tra Genova e i marchesi di Savona, detti anche di Loreto e del Carretto, gl'impegni di questi ultimi riguardano l'area da Ventimiglia a Porta Bertana e da Parodi e Voltaggio al mare; nei patti del 1157 con i conti di Lavagna, con i conti Martino ed Enrico, insieme a signori ed abitanti di Nasci, Cogorno e Vezzano, i limiti territoriali dell'intervento armato dei suddetti vanno da Portovenere a Monaco, dal Giogo al mare e da Montalto, Parodi, Voltaggio e Savignone al mare. Soltanto nella convenzione dello stesso anno con alcuni signori di Passano l'area si estende da Porta Bertana a Monaco e dal mare a Tortona, come già negli accordi del 1132. Attraverso il sistema degl'impegni militari entro una determinata zona operativa, Genova si va dunque costituendo, nei riguardi del ceto signorilefeudale, che essa vincola a sé, diritti di giurisdizione in tutto l'arco rivierasco che la interessa, seppure con talune oscillazioni negli estremi limiti confinari: Portovenere о Porta Bertana a levante; Ventimiglia о Monaco a ponente; la linea del Giogo о Г Oltregiogo sino a Gavi о sino a Montalto verso il retroterra settentrionale. Tuttavia accanto a quest'attività, rivolta ad ottenere localmente l'implicito riconoscimento giuridico delle proprie aspirazioni regionali, il Comune ne svolge un'altra a livello superiore, costituendosi, grazie a provvedimenti di maggiore portata, alcuni punti di forza, i quali, seppure di carattere formale, hanno il valore d'una prefigurazione giuridica della Liguria odierna, come un involucro destinato a riempirsi col tempo d'un valido contenuto. Nel 1133, al termine d'una lunga fase del conflitto con Pisa, la diocesi di Genova viene eretta da papa Innocenzo II in archidiocesi, ottenendo l'assegnazione della sede di Brugnato, di nuova costituzione, dell'abbazia di San Venerio del Tino nel golfo della Spezia, della nuova sede di Bobbio. Il «breve della Compagna» del 1143 specifica chiaramente l'ambito territoriale entro cui verrà data esecuzione alle sentenze giudiziarie, da Portovenere a Monaco, da Montalto, Voltaggio, Savignone al mare; mentre quello del 1157 stabilisce implicitamente nell'area tra Portovenere e Monaco lo spazio marittimo interno del Comune genovese e negli abitanti tra Portovenere e Ventimiglia i beneficiari di particolari facilitazioni commerciali. Infine nel 1162 i Genovesi, destreggiandosi con abilità tra Chiesa ed Impero, ottengono, quasi contemporaneamente, da papa Alessandro III, oltre alla conferma del privilegio di Innocenzo II del 1133, anche la concessione, come altrettanti punti di forza, della diocesi di Albenga, del

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monastero della Gallinaria, delle chiese di Porto venere; e dall'imperatore Federico Barbarossa, che intende assicurarsi l'appoggio della Repubblica per la progettata impresa contro il regno di Sicilia, il riconoscimento dell'autonomia comunale e la districtio militare sul territorio da Monaco a Portovenere, salvi i diritti dei conti e dei marchesi locali. Così l'unità ideale della regione è in certo qual modo costituita, sia nell'ambito dell'attività del Comune, sia sul piano religioso e su quello giuridico per decisione delle due massime potestà universali dell'epoca: la Chiesa di Roma e l'Impero occidentale. Sarà solo questione di tempo, anche se di molto tempo, perché una situazione essenzialmente formale venga trasformata in operante, concreta validità. Tanto più che Genova non tralascia occasione per affermare i suoi diritti a quei confini che soprattutto il Barbarossa le ha implicitamente riconosciuto col diploma del 1162, il quale rappresenta la base legale tanto per la costruzione dello Stato regionale quanto per quella del dominio oltremarino, che del primo rappresenta il completamento, in una sorta di comunità intermediterranea. *

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Alla fine del secolo XIII il senso dell'unità regionale della Liguria, da Monaco al Capo Corvo con le appendici dell'Oltregiogo, come entità a sé stante, costruita da Genova, è ormai profondamente radicato nei Genovesi e detta all'annalista Iacopo Doria un inno alla grandezza della patria: «Cognoscat autem ventura posteritas, quod hiis temporibus civitas Ianue divitiis et honore maximo coruscabat, et terre omnes et civitates ac loca Riparie, a Monacho usque Corvum et etiam ultra Iugum, eidem obediebant in omnibus tamquam maiori et matri»4. Dall'esterno gli fa eco Dante Alighieri su un piano corografico, che risponde però alla raggiunta identificazione tra la tematica delle vicende storiche e la prospettiva offerta dall'ambiente naturale: «Tra Lerici e Turbia, la più diserta, la più minata via è una scala...». Mentre il Petrarca ripetutamente esalta l'opera immensa compiuta dalla più potente città del mondo, che egli visitò da bambino e che ricorda come in sogno: il golfo profondo, le torri e le chiese, le colline e le valli verdeggianti, i pendii coperti di cedri e di olivi, la risacca che risonava sulla riva, e la tempesta che muggiva sugli scogli ... In realtà, attraverso lotte durissime e conflitti ricorrenti, il processo di costituzione politica del Dominio della Serenissima Repubblica può dirsi 4

Annali genovesi di Caffaro e de' suoi continuatori a cura di C. IMPERIALE DI SANT'AN-

GELO, V, Roma, 1929, p. 172.

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compiuto soltanto nei primi decenni del secolo XVI, quando Genova è riuscita ad includere definitivamente entro i propri confini statali la massima parte dell'odierna regione. Anche se imposto da inderogabili esigenze storiche, è stato un lungo travaglio, per molti aspetti violento e doloroso: la Lunigiana lacerata per sempre, in una vera e propria opera di spartizione tra i suoi confinanti; le più fervide aspirazioni autonomistiche о libertarie dei Comuni rivieraschi represse о soffocate, talvolta con una fe­ rita destinata a sanguinare nei secoli, come a Savona; intere casate feudali esautorate e spogliate, come a Gavi ed a Parodi. Il prezzo è stato alto: in sangue, in denaro, in fatica, tra frequenti vampate di ribellione soprattutto nella Riviera di Ponente, problemi di politica mediterranea, pressioni d'ogni sorta sul confine alpino-appenninico da parte dei Comuni e signorie contermini, aspirazioni da più lunga distanza, ma non meno pericolose, di grandi potenze, a livello europeo. Con tutto ciò, non è stato possibile conseguire il compimento totale dell'opera, cioè l'unificazione integrale della regione, che avrebbe comunque imposto un costo sproporzionato all'utile. Non è stato possibile eliminare le controspinte verticali, che sono riuscite a fare pesare e, in taluni casi, a far trionfare le proprie esigenze con la presenza, nella Liguria del Dominio genovese, di territori estranei al Dominio stesso, sia in quanto autonomi, sia in quanto appartenenti ad altra formazione politica. Sono il marchesato del Finale, di proprietà dei Del Carretto, che lo vendono alla Spagna nel 1598; Loano, passata dai vescovi di Albenga ai Doria, da questi all'Impero nel secolo XVII e infine ai Savoia nel 1735; il principato di Oneglia, ceduto dai Doria ai Savoia nel 1576; il principato monastico di Seborga, che passa dall'abbazia di Lerino a Vittorio Amedeo II di Savoia nel 1729; Nizza e Villafranca, anch'esse di proprietà sabauda. Per non parlare degli staterelli feudali autonomi, annidati tra i gioghi dell'Appennino: i feudi dei Fieschi a Crocefieschi, Savignone, Mongiardino; quello dei Doria a Sassello; quelli degli Spinola a Ronco ed a Busalla ... Viceversa la Repubblica si è inoltrata nella valle Scrivia fino a comprendere Novi, che rappresenta la sua punta estrema nella vai Padana. A guardare una carta geopolitica del Cinque о del Sei о del Settecento si rimane colpiti da due evidenze: l'incompleta unità regionale e l'assenza d'una qualsiasi qualificazione di «ligure» sia nelle denominazioni statali sia anche soltanto come specificazione amministrativa. Genova campeggia con il suo Dominio su entrambe le Riviere, sicché la denominazione di «genovese» si applica, con pericolosa ambiguità, a chiunque sia nato entro i confini statali, tanto nella Superba quanto nel Levante о nel Ponente: si

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pensi alle polemiche sulla patria di Cristoforo Colombo! E però una serie di sforbiciate, di ritagli, d'interruzioni, addirittura fino a spezzare la continuità territoriale dai monti al mare, frastaglia la linea dei confini della Repubblica, attestando l'immane ed incompiuta fatica del Comune genovese per dare vita ad uno Stato regionale in condizioni particolarmente difficili, data l'esistenza di componenti storiche e geomorfiche tra loro in contrasto. Si deve aggiungere che, nell'ambito stesso del Dominio, Genova non giunse mai alla costituzione d'una reale comunità egualitaria e quindi effettivamente unita. Nelle successive riforme statutarie, sino a quella definitiva del 1576, essa provvide sempre, ed innanzi tutto, ad una gelosa tutela dei privilegi cittadini, non estendendo i diritti civici nella loro pienezza alle terre soggette; riserbò la direzione politica dello Stato alla classe di governo, cresciuta entro le sue mura, limitandosi ad integrarla con rappresentanze della nobiltà rivierasca; mantenne gli alleati, come la fedelissima Noli, in una posizione incerta tra la parità e la sudditanza; consentì la sopravvivenza, da luogo a luogo del Dominio, di legislazioni particolari. Dal punto di vista economico l'accentraménto fu rigoroso. Sappiamo che già nel secolo XII «il monopolio genovese era sapientemente garantito da provvedimenti fiscali e protezionistici, fra cui è il caso di ricordare l'espresso divieto di scaricare navi, fuor che di minimo tonnellaggio, in altro porto che non fosse quello di Genova»5. Né il trascorrere del tempo о il mutare delle vicende modificarono quella che fu una condotta co­ stante - e, da un punto di vista genovese, necessaria - della politica della Repubblica, come dimostrano innumeri episodi, dalla guerra per Capriata nel 1224-32 all'interramento del porto di Savona nel 1542. Anzi l'accen­ tramento fu tanto più stretto quanto più la situazione internazionale e la concorrenza degli Stati esteri, tra la fine del secolo XVI ed i primi del XVIII, avviarono la crisi del sistema per cui la Superba fungeva da anello di collegamento tra la Spagna ed i processi spagnoli nel Milanese e nelle Fiandre, sino alla cesura determinata dall'insediamento austriaco-imperiale in Lombardia con la pace di Rastadt nel 1714. *

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Dominio genovese, da un lato, Liguria, dall'altro. La differenza riesce ben chiara a Iacopo Bracelli che, nel fiorire degli studi umanistici, è tra i primi a riproporre ed a riproporsi il problema della Liguria, della sua entità, 5

U. FORMENTINI Cit., p. 16.

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dei suoi confini. La Liguria comincia dal Varo; Γimperium Genuense, da Monaco. Questo un tempo terminava a Portovenere; quella alla Magra. A dire il vero, non è stato facile per lui, com'egli stesso dichiara nella sua famosa Descriptio orae ligusticae, indirizzata a Flavio Biondo il I o aprile 1448, intendere quali fossero i confini geografici della Liguria, tra tante differenze di opinioni sia negli autori classici sia tra i dotti del suo tempo. Dai primi si è allontanato, «operis difficultate deterritus», quando ha visto che alcuni collocano tra i Liguri Pisa e gli Apuani; che Pompeo Trogo dice Marsiglia «inter Ligures et feras Gallorum gentes positam». Quanto ai secondi, non v'è nessuno tra loro che sia sufficientemente esperto della questione: «Neque enim quempiam secuii nostri, quantumcumque doctissimum virum, satis idoneum putavi, qui vetustissimas illas orbis divisiones, iam prorsus abolitas vel, ut ita dixerim, sepultas, ita possit eruere, ut ex illa vetustatis caligine in lucem proferat quinam fuerint Ligurie constituti fines, tunc cum Apuanus et Massiliensis inter Ligures annumerabantur»6. Alla fine si è deciso di accettare l'opinione di Plinio, sui limiti della regione tra il Varo e la Magra: ciò è diventato un assioma storico. Il problema che, invece, non viene posto, è quello dei confini interni7: la linea di spartiacque dell'Appennino? la frontiera politica della Repubblica genovese? Un criterio, quindi, strettamente geografico, come quello che, in fondo, ha prevalso presso il Bracelli nella designazione, ad occidente, del Varo e, ad oriente, della Magra? oppure un metodo storicistico che, considerando una «regione» comerisultante«dall'attività di complessi e mutevoli fattori, ma soprattutto dalla irradiazione di un determinato nucleo d'accentramento demografico ed economico»8, non può prescindere da situazioni, anche geograficamente anomale, determinate dagli eventi storici, come pure dagl'interessi concreti о dalle aspirazioni ideali degli abitanti? Due tradizioni si tramandano così e non di rado s'intrecciano sino alla fine del secolo XVIII, alla caduta dell'antica Repubblica aristocratica. Da una parte, il Dominio genovese, ben definito nei limiti geopolitici, con tutte le sue incongruenze, le sue lacune territoriali, i suoi sconfinamenti topografici: catalogato e classificato negli atti amministrativi della 6

G. BALBI, L'espistolario di Iacopo Bracelli, Genova, 1969, lettera n. 26. Sulle ragioni, per cui il Bracelli non si occupò della Liguria interna, cfr. G. ANDRIANI, Giacomo Bracelli nella storia della geografia, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», LU, 1924, pp. 155-161. 7

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U. FORMENTINI cit., p. 5.

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Repubblica, descritto e disegnato dai cartografi ufficiali, principe fra tutti Matteo Vinzoni. Dall'altra la Liguria di un intenso movimento culturale, che annovera decine e decine di opere dal Quattrocento in poi, impostate su argomenti diversi, ma nelle quali quel nome rappresenta un comune denominatore, sotto il richiamo della suggestione classica e nell'evidenza di non lievi esigenze del presente. Certo questa Liguria degli autori è qualcosa d'indefinito, di soggettivo, con confini diversi dall'uno all'altro, a seconda dei tempi e degli argomenti, anche se in genere ricalcati, nell'intero perimetro montano, su quelli dello Stato genovese, da Sarzana a Ventimiglia, compresa Novi ed inclusi i possedimenti stranieri e le terre autonome a sud dello spartiacque alpino-appenninico. Ma un fatto soprattutto conta: si vuole identificare la realtà umana più profonda, che sta al di sotto delle divisioni in assetti statali diversi, puntando sull'uniformità delle caratteristiche del territorio montano-marino, sul richiamo storico-sentimentale degli antichi Liguri come sul dato politico attuale della gloriosa esistenza della Repubblica, sulla sostanziale omogeneità di linguaggio, di usanze, di attitudini, di credenze religiose, di fatti artistici e di strutture urbane, di circolazione letteraria e d'intenti ideali. Siamo di fronte, in sostanza, all'insorgere di una aspirazione unitaria in senso totale, espressa attraverso la denominazione di Liguria, la quale, superando quella del Dominio genovese, supera anche i particolarismi, le differenze nelle strutture politiche, giuridiche, amministrative, i campanilismi: in altre parole, addita la meta del futuro. *

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L'incontro tra gli sviluppi storici, più lenti e conservatori sul piano politico, e le estrinsecazioni culturali d'una fondamentale esigenza di unità è rappresentato dall'instaurazione della Repubblica ligure del 1797, il cui nome è chiaramente significativo della sua totale regionalità, in uguaglianza di diritti e di doveri per i suoi cittadini. La Liguria come entità statale e la Liguria come organismo regionale sulla base di ragioni geografiche ed umane vengono a coincidere, soprattutto grazie alle annessioni che portano nel corpo del nuovo Stato quei luoghi che sino allora ne erano rimasti estranei, come Loano, Oneglia, Ronco, Busalla, Serravalle, Carrosio. L'acceso dibattito, che accompagnò la nascita della Repubblica democratica per quanto riguardava l'ambito territoriale, dimostra il grado di maturazione raggiunto dal problema, la sua attualità, la sua rispondenza ad un modo di sentire ormai diffuso nella coscienza collettiva. Lo dimostrano

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le stesse intemperanze, per così dire, nazionalistiche del momento, che si rifecero, anziché alla sostanziale struttura regionale, già impostata dalla Repubblica di Genova, all'area di espansione degli antichi Liguri, con la pretesa che il territorio del nuovo Stato giungesse fino al corso del Tanaro, о addirittura a tutto il Piemonte a mezzogiorno del Po, a Parma, Piacenza, Pontremoli, Massa, Carrara, Lucca. Comunque, uomini come Gerolamo Serra e Agostino Pareto ebbero la gioia di vedere raggiunta, per la prima volta nella storia, l'identità dello Stato con l'ambito regionale senza soluzione di continuità; di potere parlare d'una Liguria in senso totale sotto ogni aspetto, come risultato d'uno sviluppo storico e culturale giunto a completamento; mentre il termine «genovese», cessata un'ambiguità persistente, tornava alle origini, restringendosi ad indicare i soli nativi о abitanti della Superba. «Così - scrive il Serra - per la prima volta dopo più secoli, tutto il littorale della Liguria trovossi senza un filo di separazione sotto le stesse leggi»9. Fu un breve momento, durato quanto la Repubblica democratica: dal 1797 al 1805. Ma esso risolve in modo definitivo il dilemma più che secolare, in cui, sotto apparenti nominalismi, si celavano realtà profondamente diverse: Dominio di Genova о Liguria? Il primo era il risultato di una costruzione storica, messa in atto dalla città maggiore di tutto l'arco marittimo e giunta alla meta, senza dubbio validissima, della formazione regionale quasi completa, ma rimasta implicata, forse fin troppo a lungo, nelle differenze strutturali da luogo a luogo, - giuridiche, amministrative, economiche, sociali, - che essa portava con sé dalla nascita come conseguenza del processo di dilatazione d'un Comune medievale, deciso a mantenere sino in fondo la propria prevalenza sulle terre via via di nuovo acquisto. La seconda era l'esigenza, maturata sul piano dell'intellettualismo culturale come su quello delle aspirazioni e delle rivendicazioni locali, fervide un po' dovunque, per una totale unità di strutture ed un livellamento egualitario tra gli elementi costitutivi dello Stato regionale, che ponessero fine alla situazione di privilegio di quella che ormai poteva considerarsi non più città dominante, ma capitale. Il primo si legava alla sopravvivenza d'un lungo passato. La seconda poneva la premessa per un lontano futuro.

G. SERRA, Memorie per la storia di Genova, a cura di P. NURRA, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», LVIII, 1930, p. 119.

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II Si è molto scritto sul concetto di nazione, cercandosi ed indicandosi in diversi settori i caratteri costitutivi e distintivi di un aggregato umano che possa qualificarsi come tale: una lingua comune, una comune religione, una tradizione comune, la convinzione di perseguire una comune finalità, l'appartenenza ad un medesimo ambiente geografico о ad un me­ desimo Stato ... Quando tuttavia per una ragione о per un'altra, di fronte all'evidenza di ogni possibile esemplificazione, ciascuna di queste compo­ nenti non ha potuto considerarsi esclusiva о essenziale, ma semmai solo concomitante, l'unica risposta plausibile è parsa quella più ovvia: la nazione è fondamentalmente un fenomeno di coscienza; costituisce nazione il complesso umano i cui membri sono convinti di essere una nazione. La nazione è dunque un fatto storico: nasce, si evolve, declina, scompare nella storia. Si forma sotto la spinta di determinati motivi, variabili caso per caso, che vanno dalla tutela degl'interessi economici all'esigenza d'una comune difesa; dall'espressione о dall'assimilazione d'una parti­ colare cultura, letteraria, artistica, di particolari usi, costumi e tradizioni, alla battaglia per una medesima fede, religiosa, etica, politica; dal mito di una stessa origine al tema della fratellanza in nome di identici о analoghi caratteri somatici. Si forma cioè quando un aggregato d'individui, più о meno ampio, anche indipendentemente dalla diversità delle originarie componenti di stirpe о di lingua о di religione о di tradizioni о di cultura, comincia ad acquisire, nell'ambito d'un certo clima storico, sotto la ten­ sione di comuni vicende о necessità, nell'estrinsecazione di comuni intenti о nell'aspirazione a comuni ideali, il senso dell'appartenenza ad una me­ desima grande famiglia, ad una comunità operante о chiamata ad operare sullo stesso piano, protesa a strutturarsi unitariamente in un proprio assetta organizzativo, possibilmente in un proprio Stato. « Uomini di cultura, - intellettuali, letterati, poeti, artisti, - percepiscono il fenomeno per primi, quand'esso ancora si manifesta per sintomi lievi, senza affiorare lucidamente alla sensibilità collettiva. Scrittori come Dante e Petrarca, sognatori come Cola di Rienzo colgono il fermento profondo delle idee, presagiscono ed accelerano gli sviluppi del futuro, chiarendo e stimolando via via nei ceti meno preparati le nascoste esigenze, e portando a livello di coscienza quello che si chiama il sentimento nazionale. I politici di più fine intuito ne fanno una bandiera di battaglia, ora in buona ora in mala fede, comunque col risultato d'una più vasta diffusione di idee, d'una crescente tensione di ideali, d'una più stretta unità di coscienze.

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Un fattore essenziale in questo processo, lungo e laborioso, è quello della pluralità. Le nazioni nascono e si affermano nella storia in quanto contrapposte, in quanto cioè basate su ciò che fra loro le distingue, consentendo a ciascuna di configurarsi sulla base di propri motivi originali; e perciò s'individuano con tanto maggiore rapidità e personalità quanto maggiore è il contrasto tematico col mondo che le circonda, con la parte che per qualunque ragione si pone о figura come oppositrice, con la bandiera, reale о ideale, che si vuole combattere. Così sono nate, in questa Europa, tanto ricca di fermenti e di storia, alcune prima, alcune dopo il raggiungimento d'un proprio assetto statale, le grandi nazioni del mondo neolatino, del mondo germanico, del mondo slavo, oltre ai gruppi minori, ciascuna sotto proprie motivazioni: in Italia la tradizione del papato e l'opposizione dell'Impero germanico, la suggestione della cultura tra i richiami classici di Roma e larinascitafiorentina, о anche le lotte contro l'Islam ed i residui bizantini nel sud della penisola; in Francia, l'accentramento monarchico, i conflitti antinglesi, le resistenze all'Impero ed alla Chiesa; nella Spagna e in Portogallo, la guerra pluriseco­ lare della Reconquista. Così sono nate altre nazioni, rimaste storicamente in subordine, cioè non giunte a sostenersi in un proprio assetto statale, come la provenzale о la catalana о la ladina, mentre sono oggi in atto fermenti nuovi, di tono diverso: si pensi ai bretoni in Francia, alle diverse etnie e fedi religiose della Jugoslavia, ai francofoni nel Canada. E così ancora si è formato e si va potenziando, pure tra alti e bassi, la coscienza di una più vasta nazionalità, quella europea, che sta cercando lo sbocco per la costituzione d'un organismo politico atto a superare le più limitate distinzioni nazionali. Non si dimentichi infatti che l'idea di nazione, scaturendo da una convinzione morale in un processo storico perennemente attivo, non è né univoca né esclusiva: anzi si genera dal particolare, per gradi successivi, verso prospettive via via più ampie. Col risultato che nel medesimo individuo, a seconda del grado di cultura, una pluricoscienza nazionale può esistere a livelli diversi e concomitanti: dal campanilismo per il paese natale al regionalismo, alla nazionalità di bandiera, all'aspirazione continentale. Così pure, emigrando in paese straniero, egli può acquisire con maggiore о minore profondità a seconda delle condizioni personali, materiali e spirituali, i problemi e la coscienza della nazione che lo ospita. Nello stesso modo con cui sorge e si evolve, la coscienza di nazione può ottundersi о scomparire, assorbita in una più vasta collettività nazionale, о smembrata tra entità statali diverse, о addirittura annullata quando

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siano venute meno le ragioni che determinarono un tempo la sua ideaforza generatrice. Si pensi alla Borgogna, alla Moravia, o, in ciò che ci riguarda più da vicino, ai Ladini dell'Alta Italia, ai Greci ed agli Albanesi dell'Italia meridionale e insulare. *

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Esiste dunque una nazione ligure? Quando e come si è formata? Qual è la sua corrispondenza genetica con il territorio che è giunto a configurarsi definitivamente come Liguria? Allorché compaiono alla storia, i Liguri «non sono tribù о popolazioni sparse e diverse fra loro, sono la "nazione ligure", secondo il concetto romano di natio; sono un popolo con una propria lingua, e caratteristiche inconfondibili, che lo contraddistinguono dagli altri che lo circondano: un popolo mediterraneo preceltico, il più antico conosciuto del continente europeo»10. Ma noi non sappiamo se quei liguri antichi possedessero una coscienza nazionale: una coscienza, cioè, che andasse al di là dei semplici collegamenti dei gruppi e del gioco delle reazioni suscitate dal pericolo di invasioni о di conquiste. A questo livello basterebbe ricordare la loro decisa opposizione alla penetrazione romana e, viceversa, la durezza dei mezzi usati da Roma per stroncare una resistenza che traeva alimento essenzialmente dallo spirito di difesa della libertà individuale о di gruppo e delle tradizioni avite. Non sappiamo neppure con precisione sino a quale grado di profondità della coscienza personale e collettiva si esplicasse il loro processo di latinizzazione in un corso plurisecolare. È chiaro, comunque, che la massima parte dell'area coperta dai Liguri antichi, in Italia, in Francia, in Spagna, appartiene oggi a tipi di cultura affatto nuovi e tra loro diversificati, i quali al substrato ligure ritornano soltanto sul piano intellettualistico, per le ricerche archeologiche e storiche. Se un primo bagliore di coscienza nazionale autonoma - nella confluenza di elementi molteplici - ebbe modo di manifestarsi nella storia della Liguria, ciò avvenne, nella regione corrispondente all'incirca a quella attuale, nell'ambito di quella Provincia Maritima Italorum che rimase in vita per circa un secolo, dalla conquista longobarda in Italia all'impresa vittoriosa di Rotari. Aperto e nello stesso tempo gradualmente limitato sul mare da una parte, perennemente all'erta sul limes alpino-appenninico contro i longobardi dall'altra, questo residuo di mondo antico, popolato da liguri, romani e bizantini, erede di tradizioni vetuste, ma al tempo stesso P.E. TAVIANI, La Liguria nella nazione italiana, Roma, 1961, p. 7.

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impregnato di latinità ed infiltrato di elementi greci nelle manifestazioni culturali ed artistiche, nei moduli della vita quotidiana, nella liturgia ecclesiastica, nell'assetto amministrativo, negli ordinamenti militari, dovette acquisire il senso di una propria individualità peculiare, via via tanto più pronunciata quanto più si allentavano i vincoli con la lontana capitale dell'Impero, si accrescevano le funzioni e le responsabilità delle forze autoctone, si accentuava l'evidenza d'una comune sorte locale, di fronte ad un'Italia sempre più ancorata al mondo germanico, al prevalere autonomistico della Chiesa latina, al declino del Mediterraneo occidentale, dove, ad un certo momento, cominceranno a comparire le prime navi musulmane. Forse proprio di qui, da questa violenta separazione dal resto della penisola, ebbe inizio il primo distacco della Liguria dal tessuto spirituale italiano. Di fronte a un'Italia barbarica, sentita straniera e nemica rispetto alla vera patria imperiale, non vi erano che la proiezione verso il mare, come solo motivo di vita e unico campo d'azione, e quella ricerca tenace di rapporti oltremarini, come alimento essenziale, aspirazione costante, naturale integrazione della breve terra montuosa, che diverrà un punto fermo nella storia della Liguria futura. Il fatto stesso che la Maritima bizantina corrispondesse ali'incirca, territorialmente, alla Liguria attuale dimostra la funzionalità politica, economica e strutturale d'una siffatta configurazione regionale per la costituzione d'una comunità d'interessi, di cultura, di orientamenti spirituali. La fusione tra l'elemento autoctono, ligure e latino, e l'elemento greco immigrato, sotto l'egida di Costantinopoli, dovette riuscire esaltata dalla solidarietà delle ragioni economiche che vincolavano sulla via delle acque, tra loro e con l'Oriente, i paesi dell'arco marittimo da Ventimiglia a Luni. Agivano nello stesso senso le esigenze della difesa comune, l'apparato burocratico unitario, la circolazione d'una cultura uniforme. Né possiamo dimenticare l'elemento religioso: il forzato distacco della sede di Genova dalla diocesi di Milano quando, fra il 569-570 ed il 641-643, l'arcivescovo milanese, con il clero, gli ottimati ed i maggiori mercanti, ottenne rifugio nella sede genovese e di qui rappresentò la roccaforte dell'ortodossia contro l'arianesimo longobardo, attestato al di là del limes. Nelle oscure vicende dell'epoca longobardo-franca e nella costituzione delle tre marche, istituite da Berengario II, andò forse disperso quell'eventuale primo lume d'una coscienza patriottica, creata da una solidarietà d'interesse, di cultura e di fede. Chiusa alle lunghe vie marittime dall'assedio saraceno, assorbita nel tessuto d'una civiltà agraria indifferenziata e fine a se stessa, declassata economicamente e privata di un'autonomia amministrativa unitaria, la nascente nazione ligure, se già aveva'

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acquistato consapevolezza di sé, ricadde, per tre secoli e più, nel buio di stagioni sempre uguali. E seppure a Genova, o a Luni, o altrove, sopravvissero tradizioni municipali, moduli di cultura, ricordi del passato, si trattò di fatti localizzati, di manifestazioni sporadiche, insufficienti a suscitare energie, convinzioni, ideali che esorbitassero dalla ristretta cerchia delle mura civiche. Se una scintilla di più ampia solidarietà si accese di quando in quando, ciò dovette verificarsi in nome della fede nel momento più tragico: durante le scorrerie saracene che tra il secolo IX ed il X, provenendo dal nido provenzale di Frassineto о addirittura dal Nord Africa, aggredirono ripetutamente le coste liguri, saccheggiarono tra gli altri luoghi la stessa Genova, distrussero centri di vita religiosa, come l'abbazia di Giusvalla, ed esaurirono il loro slancio soltanto nell'Oltregiogo, tra i campi, i boschi e le paludi della vai Padana. Di fronte al pericolo per la vita, per gli averi, per i propri altari, una colleganza spontanea si mise in azione: ne è sintomo la traslazione del corpo di San Venerio dall'isola del Tino, sul mare aperto oltre il golfo della Spezia, prima in una località costiera più sicura, poi addirittura a Reggio Emilia, о quella del corpo di San Romolo dalla villa Matutiana, l'odierna Sanremo, alla chiesa di San Lorenzo di Genova. È però troppo poco perché si possa parlare, anziché di semplice pietà cristiana, d'un sentimento nazionale che da essa trasse occasione ed alimento per proiettarsi in un più ampio intento di redenzione. Il tema nazionale fu ripreso da Genova, a partire dal secolo XI, non però in nome della Liguria, ma nel nome di Genova stessa. Nella costruzione politico-economica genovese, che ebbe come elemento portante il mare, la Liguria fu una parte d'un complesso intermediterraneo, anzi mondiale, equilibrato tra le sue componenti, nella diaspora, da una solidarietà d'interessi, di lingua, di civiltà. A Genova, sulle coste del Mar Ligure, corrispondono nell'Egeo la Chio della Maona, caput omnium lanuensium in terris transmarinis, la Pera dei coloni in Romania, che svolgono, quand'è necessario, una politica indipendente dalla madre patria e dettano legge a Costantinopoli, la Caffa del Mar Nero, alla quale bene si addice la definizione di lanuensis civitas in extremo Europe11. Il genovese Antonio Spinola, che nel 1306 si presenta davanti a Gallipoli, sull'Ellesponto, a sfidare gli Almugaveri di Ramon Muntaner, «a nome del Comune di Genova G. PISTARINO, Chio dei Genovesi, in «A Giuseppe Ermini» {Studi medievali, X/l, 1969), Spoleto, 1970; G.G. Musso, // tramonto di Caffa genovese, in «Miscellanea di storia ligure in memoria di Giorgio Falco», Genova, 1966, p. 311.

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e di tutti i Genovesi del mondo»12, enuncia lo stesso concetto espresso dal famosissimo passo dell'Anonimo due-trecentesco: «E tanti sun li Zenoexi / e per lo mondo sì destexi, / che und'eli van o stan / un'atra Zenoa ge fan»13. Questo vasto complesso, sparpagliato dovunque i provenienti da Genova s'impiantino in colonie od anche operino isolatamente, nel Mediterraneo, nei paesi orientali, sulle coste dell'Atlantico, è la nazione genovese, in cui la Liguria ed i liguri rientrano sotto il nome di Genova. Ed effettivamente gli oriundi della Superba, come quelli della Riviera di Levante e della Riviera di Ponente, viaggiando sulla stessa nave, abitando negli stessi borghi latini, affrontando fianco a fianco vicende fortunose, rischi d'ogni specie, sacrifici senza tregua, non possono non finire per sentirsi membri d'una sola grande famiglia, che di fronte allo straniero li qualifica tutti come genovesi. Si sentono uniti nella propria fede di fronte al greco scismatico, all'arabo e al turco musulmano, al tartaro pagano; nella comune bandiera, sia quando si buttano nelle crociate sia quando si arruolano mercenari al servizio altrui; nell'impegno dell'arte quando lavorano come maestri d'ascia о calafati a costruire navi e flotte per il vescovo di Compostela о il re di Francia, per la Castiglia о il Portogallo, per il sultano о il khan di Persia. Così la nazione genovese, la nazione di questi «Dèi del mare», come li chiama il Petrarca, trae origine dalle proprie vicende sulle rotte più aspre e lontane, dalla migrazione dei liguri di ogni parte della Liguria un po' dovunque nel mondo, dal confronto non solo con i principati italiani, soprattutto con le signorie dell'Oltregiogo, ma in tutto l'Oltremare con genti di stirpe, lingua, religione, tradizioni, sistemi di vita diversi. La sua fisionomia si distingue in modo particolare nel concerto degli Stati della Penisola; il suo ritmo storico batte con altri tempi che quelli della civiltà italiana del basso medioevo e dell'età moderna14; la sua stessa «storia (...) lo­ cale è ineluttabilmente già storia generale»', e «il quadro storico-culturale che i documenti genovesi ci offrono è il più vasto che sia consentito in Europa»15 per un non breve lasso di tempo, sì da richiamare l'attenzione d'insigni studiosi di ogni parte del mondo. 12

G. PISTARINO, / Signori del Mare, Genova, 1992, p. 161. ANONIMO GENOVESE, Poesie, a cura di L. Coci to, Roma, 1970, p. 566. 14 G. PISTARINO, La Liguria nella storia d'Italia, in «Cultura e scuola», X, n. 40, ottobre-dicembre 1971, p. 91. R.L. REYNOLDS, Gli archivi notarili genovesi. Lavori in corso ed in programma, in «Bollettino Ligustico», III, 1951, pp. 106-107. 13

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Nonostante le divisioni civiche, le lotte faziose in una stessa città, - e la storia di Genova, di Savona, di Ventimiglia, per citare i casi più clamorosi, ne è piena, - nonostante i conflitti tra luogo e luogo, come nonostante le interne differenziazioni giuridico-sociali nell'ambito del Dominio genovese, la formazione della coscienza nazionale ligure è un fenomeno generale, che trae origine dalla natura omogenea dell'ambiente, dalla compattezza del carattere degli abitanti, nella quale si fondono e si trasformano i movimenti immigratori di qualunque provenienza, dalla comune destinazione nella diaspora sul mare, dalla solidarietà materiale e spirituale, sotto il nome tutore della maggiore città delle due Riviere, di fronte ad altre, e diverse, comunanze d'interessi, d'intenti, d'ideali. Vi contribuiscono Genova e i fedelissimi portoveneresi e nolesi, come vi partecipano Savona e Ventimiglia, a lungo tenacemente ostili in Liguria alla grande Repubblica. Vi portano il loro contributo gli Onegliesi dei Doria, poi dei Savoia, i Finalesi dei Del Carretto, poi della Spagna, come i genovesi ed i liguri impiantati nelle città della costa italiana centro-meridionale e nelle isole, negli altri centri rivieraschi del bacino del Mediterraneo, nei luoghi del Vicino Oriente, о sulle rive dell'Atlantico. In questo senso, nel senso cioè d'una civiltà cittadina e regionale, arricchita degli elementi molteplici con cui è venuta a contatto, si può accogliere la definizione di Mario Soldati, che vede presenti e fuse in Genova le caratteristiche, tanto varie, dell'intero panorama dell'Italia d'oggi: «Perché Genova, pur avendo una fisionomia così particolare, assomiglia un poco, pezzo per pezzo, a tutte le città italiane. Ha vie colorate come Palermo, lungomare come Napoli e Bari, calli come Venezia, colline come Ancona, monumenti come Roma e Firenze, animazione come Bologna, industrie come Milano, quartieri ottocenteschi come Torino. Tutta l'Italia, ormai, e tutte le epoche della storia italiana si sono riversate intorno al vecchio centro medievale di Genova. L'antico e il nuovo; il sud e il nord; il mare e il monte; il clima, che è mediterraneo, e il gruppo etnico dominante, che è ligure»16. Potremmo aggiungere altri motivi, di provenienza internazionale, che fecero e fanno di Genova una città cosmopolita, contribuirono largamente a conferirle lineamenti peculiari rispetto al resto d'Italia, ed a farne il centro di moduli originali di civiltà, di cui essa improntò la Liguria grazie alla superiorità acquisita nello sviluppo storico. Potremmo ricordare la M. SOLDATI, in «Il Giorno», 2 dicembre 1961, e in «Genova», dicembre 1961, p. 12.

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diffusione medievale dell'onomastica araba, i ritrovati tecnici, in parte derivati dall'Oriente, nell'arte della navigazione, le massicce immigrazioni straniere, anche attraverso il commercio degli schiavi, le mutuazioni artistiche dell'età del gotico, della Controriforma e del barocco, che assunsero in Liguria il valore di espressioni nuove e congeniali. Ma non dobbiamo dimenticare che tanta varietà di apporti da ogni dove fu assorbita e rifusa nello spirito, ampiamente comprensivo e nel contempo rigorosamente tradizionalista, della nazione genovese. La quale fu pienamente conscia di sé, della sua individualità rispetto alle altre genti, come si rileva da ripetuti accenni dei suoi cronisti dal secolo XII in poi, dalle pagine dei suoi poeti del Due e del Trecento. A livello della sensibilità popolare è significativa una lettera d'un mercante, Giovanni da Pontremoli, del 6 luglio 1453, in cui egli, accennando alle difficoltà gravissime del momento (siamo a poco più d'un mese dalla caduta di Costantinopoli in mano turca), scrive una frase che è sintomatica proprio per la penna da cui esce: «Satis dubito de peius et tam nacionis nostre quam totius cristianitatis»17. Un altro fatto è significativo: proprio a quel tempo non solo il genovese è la lingua comune della gente comune, e in genovese continua una tradizione poetica e letteraria che trova il modello più insigne nell'Anonimo due-trecentesco, e in genovese si compilano trattati e statuti, come quello della Compagnia della Misericordia; ma in genovese, oltreché in latino, si esprimono i mercanti, come lo stesso Giovanni da Pontremoli in un bel gruppo di lettere sino a noi pervenute, e in genovese tengono i discorsi ufficiali gli uomini di governo nei Consigli della Repubblica. Naturalmente non mancarono in Liguria le opposizioni al predominio della Superba, espresse nei conflitti interni che ripetutamente insanguinarono le Riviere, soprattutto quella di Ponente, nella difesa delle autonomie municipali di alcuni tra i Comuni maggiori, nelle resistenze all'assorbimento, messe in atto con ogni mezzo dai feudatari della catena montana. Anzi, ad un dato momento, si direbbe, «osservando certi fenomeni, che si verificano contemporaneamente in più parti della Liguria, a Savona come alla Spezia, con l'aspetto di tendenze separatiste verso il vecchio centro regionale, che le forze in movimento tendano vivacemente a disfare la Liguria, quale fu creazione geografico-economica del Comune genovese, per sistemarla in nuovi ordinamenti regionali. Ma tutto ciò piuttosto che come finis Ligurie deve essere invece apprezzato come un movimento D. GIOFFRÈ, Lettere di Giovanni da Pontremoli mercante genovese, 1453-1459, Collana storica di fonti e studi diretta da G. Pistarino, 33, Genova, 1982, n. 2.

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espansivo»18, che portò, nei risultati, al ricupero per l'area ligure di terre che per essa erano о sarebbero andate perdute. D'altra parte è noto che una costituzione comunitaria ha tratto di frequente origine da un atto forzato, da violenta conquista, per trasformarsi poi, nel decorso del tempo, in volontario consenso. La comunità genovese nelle Riviere derivò, per larga parte, da un processo analogo. È comunque notevole il fatto che l'adesione, talora mancata od ottenuta con grande fatica a Levante e soprattutto a Ponente, confluì invece quasi spontaneamente verso Genova nelle terre d'Oltremare. Era logico: in paesi stranieri la nazione genovese rappresentava per i liguri di ogni provenienza il senso d'una solidarietà operante, determinata dalle contrapposizioni dell'ambiente. In Liguria invece la prevalenza di Genova veniva a scontrarsi con altri municipalismi, e mentre giungeva ad imporsi in alcuni, suscitava per reazione in altri, - in fondo in fondo un poco in tutti, - la coscienza della validità d'una nazione ligure al di sopra dei campanilismi locali: madre comune anche a Genova per alcuni; in antagonismo a Genova per altri. *

*

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Questo fenomeno di formazione d'una coscienza nazionale ligure, rimasto a lungo latente, inespresso, frantumato nelle aspirazioni dei municipalismi locali, soprattutto ostacolato nella genesi e nello sviluppo dalla più vigorosa e precoce coscienza nazionale genovese, assume una vistosa consistenza nel corso del secolo XV, sotto le suggestioni della cultura umanistica ed in concomitanza e correlazione con le istanze regionalistiche, bene distinte rispetto all'esistenza del Dominio della Repubblica, alle quali abbiamo accennato. «Sunt nobis ab occasu finitimi Ligures, - scrive da Sarzana Antonio Ivani nell'agosto 1472, - quibus imperant presides ducis Mediolanensis. Dividit nos ab illis Macra fluvius: Ligures ipsi, nos Etrusci sumus. Verum inter utranque gentem viget familiaris conversatio et quasi consimilis vivendi ritus. Dissentimus in hoc, quod illi factionibus intrinsecis vexantur, nos integri principes nostros colimus»19. E nel 1478: «Sic (...) iuncta est Liguria Gallie Cisalpine omni genere commerciorum, sic cum Genuensibus Insubres negociatores contrahere soient mutuas utilitates, ut inter utranque nacionem, inter utranque civitatem semper duxerim pacem esse plusquam necessariam»20. 18

19

U. FORMENTINI cit., ρ. 17.

G. AIRALDI, Quai è la patria di Antonio Ivani?, in «Archivio Storico Italiano», CXXIX, 1971, pp. 257-265. 20 Archivio Comunale di Sarzana.

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Dunque, l'esistenza d'una nazione ligure riesce chiara, anche se il Nostro, trovandosi allora Sarzana in dominio di Firenze, ricorre al confine geografico della Magra e non sa vedere tra la sua Etruria lunigianese e la finitima Riviera ligustica altra differenza che quella del comportamento politico degli abitanti dell'una e dell'altra zona. Comunque, - ed è questa la cosa più importante, - una precisa distinzione intercorre tra la Liguria, classificata come natio, e Genova, definita semplicemente come civitas. Siamo di fronte ad un capovolgimento di posizioni: la Liguria non è più intesa quale una componente, diremmo quasi un sussidio, della nazione genovese; ma essa è nazione, e Genova ne fa parte. I tempi sono in realtà mutati. La perdita degli stabilimenti nel Levante proprio nell'epoca in cui l'Ivani scrive e lo stato d'assedio in cui la Repubblica si trova costretta nel Mediterraneo occidentale, in conseguenza dell'avanzata della Corona aragonese dalla Catalogna alla Sardegna, alla Sicilia, all'Italia meridionale, e dei suoi tentativi sulla Corsica, stanno infliggendo un duro colpo all'ideale d'una comunità genovese operante per il mondo. Costretta rapidamente entro i limiti della regionalità, Genova si trova a tu per tu con la Liguria: la coscienza nazionale genovese, che essa ha sollecitato dilatando ad un piano vastissimo l'originario orgoglio municipalistico, non è più in grado di assorbire ed esaurire in sé le aspirazioni più scoperte per la patria regionale, che Genova stessa, d'altronde, ha stimolato, sia nel consenso sia nella opposizione da parte dei rivieraschi, attraverso F opera d'incompleta unificazione del territorio. Per ancora tre secoli nazione genovese e nazione ligure coesistono. La prima si vede minacciata di riduzione a posizione municipalistica in proporzione diretta con la diminuita influenza politica internazionale della Repubblica e l'abbandono del sistema degli stabilimenti d'oltremare; ma trova ancora un valido motivo di vitalità nello spirito di resistenza contro il peso esercitato sulle frontiere dagli Stati finitimi, soprattutto dalla monarchia dei Savoia che dal Piemonte, gradualmente unificato ed in costante dilatazione, aspira senza sosta a raggiungere il litorale marino, ove fa leva sui caposaldi di Nizza e Villafranca e, più tardi, di Oneglia. La seconda, concresciuta nella prima limitatamente all'ambito regionale, mutua da quella il tema dell'opposizione all'intervento straniero; lo amplia all'esigenza dell'unità totale della regione; lo rivolge contro la stessa Genova nell'istanza d'un assetto statale che elimini la distinzione tra genovese e ligure quale espressione di due diverse realtà nazionali, vincolate a diversità strutturali e politiche. Così la «nazione ligure», alla quale Napoleone Bonaparte si rivolge nel 1797, in occasione della nascita della Repubblica democratica, non è

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un semplice modo di dire, un'espressione verbale, enunciata a scopo politico. Risponde ad una realtà che si è venuta lentamente concretando nella storia, nel processo dialettico del confronto con la nazione genovese, nella maturata esigenza dell'unità egualitaria dell'intera regione, nella convinzione di rappresentare un modulo originale di civiltà e di avere di fronte a sé una missione da compiere nella storia. Era dunque logico che proprio nella breve vita della Repubblica democratica il tema dell'esistenza della nazione ligure trovasse la sua definizione precisa, come risulta dall'anonimo autore d'un articolo comparso sulla Gazzetta nazionale della Liguria del 15 settembre 1798: «Quando io parlo della nostra Penisola che Appennin parte, e il mar circonda e l'Alpe, io parlo di una divisione geografica e non già di una nazione. Gli abitanti di questa penisola non sono altrimenti un popolo, sono molti popoli, che non hanno altro di comune tra di loro che il clima, e la lingua (...). Noi altri liguri, per esempio, quali rapporti, quale unione maggiore si può dire che abbiamo col resto dell'Italia che con la Francia? Quali interessi comuni ci tengono legati coi Piemontesi, coi Lombardi, coi Toscani, piuttosto che coi Francesi? Perché la divisione geografica e il nome di Italiani ci deve rendere più inclinati ai nostri confinanti che agli Occidentali?». Spogliata del sottofondo polemico e dell'intento politico del momento, l'affermazione contiene una parte di vero: quale punto d'arrivo di sette od otto secoli di storia e riconoscimento d'un peculiare modulo di civiltà, acquisito attraverso le vicende di molte generazioni ed assurto alla coscienza collettiva come un patrimonio comune da custodire gelosamente e da tramandare al futuro21. *

*

*

Noi possiamo oggi accogliere quel messaggio in ciò che v'è in esso di più valido. Si parla spesso d'una civiltà fiorentina, d'una civiltà veneziana. Crediamo che si debba cominciare a parlare anche d'una civiltà ligure e genovese, indagata ed illustrata negli aspetti più profondi, che la riveleranno diversa, non inferiore però alle altre. Poiché chi contempla i colori dei borghi a specchio sul mare o i castelli e i paesi arroccati sui monti come fiori di roccia, chi ripercorre a Genova la via dei Re, о si addentra fra le memorie del Centro storico, chi si sofferma sulle pagine dell'Anonimo e degli annalisti, о ritrova in molti paesi del mondo le tracce di questi loro uomini d'un tempo lontano, sente di leggere una storia dentro la storia, scopre una patria dentro la patria. 21 Sul tema «Liguria: regione nazione» cfr. G. AIRALDI, Genova e la Liguria nel medioevo, Torino, 1986, pp. 68-85 e la bibliografia a pp. 174-176.

π LIGURIA E GENOVA NEL MEDIOEVO

Rielaborato dai saggi: Liguria e Genova nel medioevo, in «Studi Genuensi», 1985, 3, pp. 5-18; Tra Volto e il basso medioevo genovese, in «Bollettino Ligustico per la Storia e la Cultura Regionale. Studi in memoria di Teofilo Ossian De Negri», voi. Ili, Genova, 1986, pp. 15-25.

La storia vera e propria della Liguria, quale oggi noi la intendiamo in senso regionale, anzi, se si vuole, come «nazione», ha dunque inizio con il periodo bizantino, quando essa restò com'estrema provincia occidentale dell'Impero Romano d'Oriente: la Provincia Maritima Italorum, rimasta in possesso dell'Impero orientale quando i Longobardi, nel 56869, dilagarono nella Val Padana e si affacciarono sulla linea appenninica che va da Ventimiglia alla Lunigiana meridionale. Le tracce materiali di quell'epoca, pure così importante, sono scarse: le maggiori riguardano la toponomastica, le intitolazioni delle chiese, i resti monumentali, i reperti che può offrirci l'archeologia medievale, intesa non come semplice strumento di fornitura e classificazione di oggetti, ma come disciplina problematica. Eppure proprio durante quel periodo, come si è detto, cominciò a nascere un primo abbozzo della Liguria quale è oggi configurata in Regione: cominciò a strutturarsi nella contrapposizione tra romanità, lungo l'arco del mare, e germanesimo, nell'interno padano ed in Toscana; tra diritto giustinianeo e tradizione giuridica longobarda, tra due modelli di vita profondamente diversi. Questa fase storica così oscura, che va dal Basso Impero a tutta l'epoca carolingia (cioè tra i secoli IV e IX), è anche la grande epoca dell'organizzazione cristiana della Liguria, nelle diocesi, nelle pievi, nelle capelle, nella fondazione dei più antichi monasteri, dall'abbazia di Portovenere dell'epoca di San Gregorio Magno, nel secolo VI, alla chiesetta paleocristiana di Varigotti dei secoli V-VI, al monastero di San Pietro in Varatella, nella diocesi di Albenga, dell'epoca carolingia, alla fondazione del monastero di San Caprasio di Aulla in Lunigiana, nell'884. Ma i secoli IX e X sono anche il tempo in cui le scorrerie dei danesi dal Nord-Europa e saracene dall'Africa settentrionale e dalla Spagna islamica prendono a battere le coste del Mar Ligure. La vita si ritira dal litorale; si mettono in salvo le reliquie dei santi nei paesi dell'interno; chiese e monasteri sono soggetti a violenze ed a distruzioni. L'inizio della ripresa e della riscossa si colloca dunque nella seconda metà del secolo X, quando ad opera di Berengario II e Adalberto, re d'Italia, la costituzione delle tre marche della Liguria - la Obertenga ad est,

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l'Aleramica al centro, l'Arduinica ad ovest - da un lato tagliò in tre fasce parallele verticali la Liguria елпіпассіо - è vero - di interrompere il processo di formazione unitaria della regione, iniziatosi in epoca bizantina; però, creando tre complessi strutturalmente omogenei ed economicamente equilibrati fra l'interno padano ed il mare, pose i presupposti per la rivincita cristiana contro la presenza dei saraceni nello stesso Mar Ligure. La storia successiva, dei secoli XI e XII, è la storia dello sviluppo dei centri cittadini di Genova, di Portovenere, di Savona, di Albenga, di Ventimiglia, alcuni dei quali furono presenti con le loro navi alla prima crociata. Ed è anche la storia della graduale affermazione di Genova, delle sue prime conquiste territoriali, della sua aspirazione alla leadership. Genova è condizionata, favorita ed avversata al tempo stesso, dalla sua ubicazione. Posta al centro dell'arco della Liguria, con un ottimo porto, è stretta, diremmo quasi spinta sul mare, dall'imminente giogo dell'Appennino. Una tale condizione, per risolversi in senso favorevole, necessita però di un ampio hinterland, la cui esigenza di sbocco marittimo sia di tale portata da superare lo svantaggio costituito dai forti ostacoli naturali. E necessita altresì di un mare aperto dinanzi a sé, libero da un predominio politico ostile, che ne renda difficile о pericolosa la navigazione. Pertanto la futura sorte di Genova si determina tra i secoli X e XI in una specie di gioco di equilibrio tra il continente ed il mare: tra l'ascesa del mondo germanico nel primo periodo ed il declino del mondo arabo-islamico nel secondo. A differenza di Venezia bizantina, di Pisa longobarda, di Amalfi bi­ zantina e filoislamica, Genova altomedievale vive in successione cronolo­ gica ravvicinata esperienze diverse che incidono sulla sua struttura demica, economica, sociale e, in sostanza, politica. Sulla linea dell'Appennino si arresta nel 568-569 l'invasione longobarda e vi si arrocca per circa settanta­ cinque anni. Non è molto, poiché si tratta di poco più che due generazioni; ma è quanto basta per imprimere alla città, capitale della Provincia Marí­ tima Italorum, una più spiccata fisionomia di terra dell'Impero, di estrema provincia della patria romana, di fronte alla dilagante incultura dei barbari. E ciò diede tempo a questi ultimi per l'acquisto graduale di un più elevato modello di vita, in senso politico, statuale-amministrativo, culturale, prima dell'offensiva finale sulla Liguria. Il rifugio in Genova degli arcivescovi di Milano, per tutto il periodo della dicotomia tra la Liguria bizantina e l'Italia centro-settentrionale longobarda, accentuò la caratterizzazione della prima di fronte alla seconda anche in senso religioso (cristianesimo romano contro cristianesimo ariano).

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Secondo lo Pseudo-Fredegario, Genova fu ridotta da Rotari (come gli altri principali centri abitati della Liguria), subito dopo la conquista, allo stato di vicus: il che può significare tanto un suo declassamento giuridico quanto una sua drastica riduzione come centro demico, quanto Γ una e l'altra cosa insieme. Ma poiché un centro abitato, nonostante le più gravi sciagure, sopravvive e si riprende fino a quando svolge una funzione importante, per non dire essenziale, che è connessa con la sua stessa ubicazione geografica, la città dovette risollevarsi con sufficiente rapidità, se già circa ottanťanni dopo, intorno al 725, con i suoi marinai effettuò il trasporto delle reliquie di sant'Agostino dalla Sardegna e vide ad accoglierle, all'approdo in Liguria, lo stesso re Liutprando. «(...) vien fatto di pensare che la conquista di Rotari non sia stata per sé così disastrosa come la tradizione ce la presenta. Certo è che l'operazione, anche se fu violenta, e il re corse fulmineo, distruggendo le Riviere, fu breve, e le genti, umiliate, non cedettero»1. A parte le possibili esagerazioni dello Pseudo-Fredegario (le iatture tendono ad ingrandirsi nella trasmissione narrativa medievale, e non solo medievale), ed anche se «la ventata di Rotari ha spazzato via il tessuto ormai logoro, stanco, fragilissimo dell'amministrazione bizantina»2, la linea della continuità non andò troncata, per quanto ridotta, in una regione «che in un secolo di effettivo dominio bizantino aveva profondamente consolidato il suo costume romano»3: su questa linea si effettuò la ricostruzione, naturalmente con l'inserimento di elementi nuovi. D'altra parte, come ha giustamente rilevato De Negri, proprio la rottura di Rotari, «se da un lato allontana dai porti liguri la flotta bizantina, dall'altro consente la riapertura dei valichi dell'Appennino verso la Lombardia, sia lungo la traccia dell'antica Postumia, sia ricalcando gl'innumerevoli altri itinerari, già battuti dai Liguri preistorici»4. L'occupazione longobarda della Liguria tra il 642 ed il 644, la recisione del cordone ombelicale con Costantinopoli, l'instaurazione di un nuovo assetto giuridico-territoriale, del quale, tuttavia, sappiamo ben poco, non mancarono di provocare conseguenze profonde, tanto più che a tale vicenda seguì, non a lunga distanza di tempo, l'espansionismo islamico nel Mediterraneo occidentale. Dal tessuto marittimo dell'Impero, nel quale 1

Т.О. DE NEGRI, Storia di Genova, Milano, 1974, p. 143.

2

Т.О. DE NEGRI cit., p. 144.

3

Т.О. DE NEGRI cit., p. 146.

4

Т.О. DE NEGRI cit., p. 168.

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le dimensioni spaziavano fra tre parti del mondo, Genova venne a trovarsi trasferita nell'ambito di un regno modesto, di struttura incompiuta, di natura ed ispirazione terrigene, per non dire rurali. Di qui il dilemma, dibattuto fra gli storici: quale fu l'attività economica dei Genovesi nei secoli più oscuri dell'alto medioevo, cioè la seconda metà del VII, Γ VIII, il IX e la prima metà del X? Ancora in prevalenza marittima, almeno per gli approdi ad una certa distanza, quali potevano offrire la Corsica, la Sardegna, le coste dalla Provenza alla Catalogna? Oppure, raccolta in se stessa, convertita alla terra, ristretta sul mare ai rapporti di cabotaggio con Tuna o l'altra località della Liguria, al massimo con quelle più vicine della Provenza e della Toscana? Certo, l'aggressione saracena intorno al 934-935, che mise a sacco la città, come pure le altre scorrerie islamiche dello stesso secolo nelle Riviere segnarono il punto più basso di Genova marinara e fanno pensare, piuttosto, ad una sostanziale desuetudine dal mare, all'incapacità di assicurare la difesa della costa in modo efficiente. Possiamo pensare a Genova come ad un centro «ogni giorno più chiuso al traffico, che si è ovunque rarefatto, e non passa più per il porto ligure, sia quello marittimo del Tirreno, dal Lazio alla Provenza, per la preclusione dei porti di quest'ultima regione, sia quello dell'approvvigionamento della Padania, che si è venuto orientando sempre più verso i porti adriatici, coi quali la regione è legata dalla facile via del sistema fluviale padano, sia infine quello dei pellegrini alle Tombe degli Apostoli, che aveva seguito anche l'Aurelia, ed ora è dirottato per la Francigena, che dai valichi alpini più settentrionali - ormai preferiti per evitare le guarnigioni saracene - per Piacenza e Fornovo scende direttamente in Toscana e nel Lazio»5. Comunque, non possiamo pensare ad una sorta di rassegnata impotenza di fronte ad eventi che improvvisi giungono da lontano. *

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Il castrum, sul colle di Sarzano, con la chiesa di Santa Maria di Castello; la civitas, alle falde, con la chiesa di San Lorenzo, destinata a diventare la cattedrale dell'intera città; il burgus, verso ponente, con la chiesa di San Siro: ecco la Genova del secolo X. Castrum e civitas sono insieme racchiusi dalla cinta muraria, ricostruita intorno al 952. Il burgus verrà circondato da mura, con il castrum e con la civitas, soltanto nel 1155, 5

Т.О. DE NEGRI cit., pp. 158-159. Cfr. anche L. BALLETTO, Le incursioni saracene del secolo X nell'area subalpina, in «Rivista di Storia Arte Archeologica per le Province di Alessandria e Asti», C, 1991, Alessandria, 1992, pp. 9-26.

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per prevenzione contro il Barbarossa. Ciò significa che già nel secolo X castrum e civitas formano un tutto organico, sia sul piano urbanistico, sia su quello giuridico della condizione dei castrenses e dei cives, mentre il burgus civitatis ancora nel secolo XII rappresenterà un organismo distinto: se ne avrà una prova, proprio in quel secolo, nelle due categorie dei consoli dei placiti о consoli di giustizia: una relativa alle «compagne» о rioni della città (comprendente castrum e civitas)', l'altra relativa alle «compagne» del burgus. Il castrum e la civitas rappresentano la tradizione tardo-classica ed alto-medievale; il burgus è l'elemento nuovo, extraurbano, che si viene formando proprio nel corso del secolo X - con un diverso stato giuridico degli abitanti - grazie all'afflusso, dapprima lento, poi via via più rapido, di gente di diversa provenienza, soprattutto dalle Riviere6. Genova cittadina (castrum, civitas, burgus) si presenta nel secolo X come un organismo a governo tripartito. I vicevomites, non di origine germanica, ma discendenti da antiche famiglie ufficiali romane, esercitano le funzioni spettanti ai signori germanici della Marca Obertenga, i quali risiedono nei propri castelli dell'interno: funzioni delegate di natura feudale, essenzialmente fiscali. Il vescovo, non investito di delega di poteri da parte sovrana, come invece in altri luoghi, e quindi privo di dominio in forme signorili, gode sì di alto prestigio morale, ma esercita competenza giudiziaria unicamente in sede ecclesiastica, e solo nel corso del secolo XII giungerà ad acquisire, consuetudine graduale di fatto, che finisce per trasformarsi in diritto, competenza ordinaria e generale, in concorrenza con la giurisdizione dei marchesi e dei visconti. La universitas dei cives, riconosciuta giuridicamente dal potere sovrano grazie al diploma di Berengario II e Adalberto del 958, costituisce un'entità giuridica in possesso di immunità negative secondo consuetudini di antica data, risalenti, con ogni probabilità, all'epoca romano-bizantina. In sostanza: la tradizione municipale del periodo classico o, meglio ancora, dell'epoca della Maritima Italorum bizantina rappresenta l'asse portante della storia genovese nel corso dell'alto medioevo, contro cui non riescono ad affermarsi totalmente né i moduli longobardi e franchi, né l'ordinamento feudale, laico ed ecclesiastico. Indipendentemente dalla discussa questione del ristagno о della riduzione dell'attività marittima, la vita di Genova tra la conquista di Rotari e la creazione della Marca Obertenga, vale a dire per circa tre secoli, dà l'impressione, che appare abbastanza fondata, d'una certa continuità in se stessa, come organismo che perpetua, come meglio può, in un mondo sconvolto e mutato, le antiche 6

V. VITALE, Breviario della storia di Genova, Genova, 1955,1, p. 10.

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forme municipali, le prerogative e l'assetto del corpo civico, una sorta di autogoverno per tradizione, sia pure adeguantesi, in formalità esteriore, ai modelli proposti via via dal potere centrale: Regno longobardo, Sacrum Imperium, Regno d'Italia. Ho ricordato come significativo il fatto che i vicecomites degli Obertenghi discendono da antica tradizione romana. Si può rilevare che ancora nei secoli XI e XII appaiono numerosi in Genova i «giudici» di evidente richiamo bizantino; non sono rare le professioni di legge romana, di fronte alle assai più rare professioni di legge longobarda o, comunque, germanica; non mancano residui onomastici classici, ed in particolare greci. Insomma: pure nella dispersione delle prove documentarie, Genova e la Liguria, che si affacciano all'evidenza della storia, dopo secoli oscuri, intorno alla metà del secolo X, sono ancora animate di cultura (uso questo termine come equivalente di civiltà in senso lato) romano-bizantina più di quanto appaia. Il che rende difficile, in mancanza di dati concreti, il discorso sulle origini di Genova-repubblica marinara, ma, al tempo stesso, dà ragione della sua configurazione del tutto peculiare. Ad esempio: il già citato diploma di Berengario II e di Adalberto, re d'Italia, del 958, giustamente segnalato come «il primo documento politico noto della storia genovese ed insieme il più antico dei privilegi conosciuti di re о imperatori medievali a città nell'età precomunale», ed il diploma marchionale obertengo del 1056, l'uno e l'altro diretti alla conferma delle consuetudini e dei privilegi della universitas dei cives, rientrano nel novero di «tutte le conferme di consuetudini о privilegi, comunissime nel medioevo», per cui «mutandosi Г autorità, chi è in possesso di privilegi, di usi, di consuetudini ne chiede la conferma a chi ne ha di diritto, se non di fatto, il potere»7. Ed essi attestano, senza dubbio, il riconoscimento formale, da parte dei cives, di un potere esterno e superiore che, per i Genovesi, scade, nel corso di circa un secolo, da quello regio a quello marchionale, nella sua effettualità sulla vita cittadina. Certo, non ci chiariscono il problema della dinamica interna della storia della città, di cui pure costituiscono degli «spaccati» statici; ci consentono tuttavia di sottolineare il processo evolutivo per cui dagli ordinamenti, per così dire, ancora municipali della Genova romano-bizantina della metà del secolo X, che si mantiene distinta rispetto ai titolari della Marca come rispetto all'episcopato, si giunge, a metà del secolo XI, a strutture che coinvolgono, attraverso una vigorosa attività privatistica, gli antichi castrenses e gli antichi cives con i nuovi burgenses ed i nuovi habitatores, il vescovo 7

V. VITALE cit., pp.

9-14.

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ed i visconti, persino i discendenti dei marchiones, a cui si aggiunge il continuo flusso immigratorio sia dalle Riviere sia dallOltregiogo. «Mai certamente s'è trascurato di rilevare l'improvvisa vitalità di questo centro che emerge come polo attrattivo, proposta nel diploma del 958 di Berengario II e Adalberto re d'Italia e nel giuramento delle consuetudini da parte di Oberto marchese nel 1056: testimonianze che ambedue configurano l'immagine di una città che modella la sua vita sull'applicazione di proprie antiche consuetudini. Ma le ragioni dell'improvviso mutar d'orizzonti, in assenza di dati, sono state generalmente individuate nei profitti ricavati dal surplus fornito dalla migliorata organizzazione delle forze e dei beni, dei redditi e dei diritti vescovili monastici, viscontili (senza tener conto di quanto appaia fragile l'applicazione di questa teoria in una regione di scarsa resa produttiva e di patrimoni frazionati) о delle episodiche, e poi sempre più regolari, ragioni d'arricchimento costituite dagli esiti vittoriosi delle spedizioni antisaracene о delle imprese more piratico condotte, dall'inizio del secolo XI, fino alle spiagge più lontane del Mediterraneo occidentale. Tuttavia il contrasto tra la profondità del buio altomedievale e la luce improvvisa rimane, quando si pensi che non si tratta solo del sorgere d'una potenza, che si crea ex novo una rete amplissima di vie di comunicazione per terra e per mare, ma della coeva comparsa di tecniche raffinate relative all'impiego del denaro in pubblici e privati investimenti in prevalènte rapporto col mare»8. De Negri ha rilevato le tre «continuità» genovesi: nella vita, nella consuetudini, nella topografia cittadina9. Ed ha opportunamente scritto: «Continuità con le pietre, l'ambiente, il sito (il porto, il ponte, l'incrocio di vie naturali...), non meno che la continuità civile, economica, religiosa»10. In questa «continuità» confluisce il processo storico essenziale: «dal primo riconoscimento sovrano delle consuetudini del 958 al giuramento delle stesse da parte dei Marchesi nel 1056, dalla lotta tra Vescovi e Visconti per il potere giurisdizionale alla pace del 1052, e fino all'ineluttabile esito della molteplice convergenza: la conciliazione ultima del ceto feudale, ecclesiastico e laico, con le classi minori dei mercanti e degli operării agricoli, inurbati di recente (...); i quali ultimi vengono riassorbiti nell'attività mercantile e navale della città in forte espansione»11. G. AIRALDI, Genova e la Liguria nel medioevo, Torino, 1986, pp. 12-13. 9

Т.О. DE NEGRI cit., pp. 163-183.

10

Т.О. DE NEGRI cit., p. 166.

11

Т.О. DE NEGRI cit., p. 230.

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La forza trainante non è о, meglio, non è più la terra, come produttrice di reddito. È il denaro, espresso in merci, in benefici finanziari, in diritti di prelievo. Nella prima metà del secolo XI, scomparso il potere marchionale, come rappresentante dell'autorità regia, e dissoltasi di fatto la Marca Obertenga, i vicecomites, strettisi in consorzio gentilizio, ed il vescovo si contendono la supremazia in Genova, inserendosi nei contrasti, giuridici ed economici, tra la città interna, dei castrenses e dei cives, e la città esterna, in rapida espansione, dei burgenses e dei nuovi habitatores. Tanto i visconti quanto il vescovo si appoggiano ad un ricco patrimonio fondiario nonché a proventi di varia specie: dalle esazioni fiscali alle decime, dalle dogane alle rappresentanze giuridiche. «La pacificazione del 1052 avviene di fatto tra i Visconti ed il Vescovo Oberto che è della loro stessa famiglia, e si risolve, per quel che riguarda l'esercizio del potere civile già spettante ai Visconti per delegazione sovrana, in una sostanziale trasformazione dell'episcopato stesso in un potere laicale (...)»12. Così si organizzano e si sviluppano rapidamente, tra il secolo XI ed il XII, tra i cives (ormai tutt'uno con i castrenses), come tra i burgenses e gli habitatores, le «Compagne» rionali, che ancora bene non si sa dire se fossero coniurationes con caratteri e scopi prevalentemente politici, rette da boni homines, quali precursori dei consoli, oppure associazioni demotopografiche a carattere militare e giudiziario, di cui i boni homines avevano la rappresentanza legale13. A sua volta la «Compagna» collettiva о generale «nasce dall'unione federatizia delle "Compagne" locali ed è un'associazione volontaria e temporanea, ed il giuramento si rinnova ad ogni ricostituzione del patto. Esprime pertanto un rapporto non di classi, ma di individui; ha insomma un fondamento individualistico, che è proprio dell'anima genovese»14. Comunque, le «Compagne», corrispondenti alla ripartizione dei cittadini in rioni, stanno alla base dei raduni popolari e dei reclutamenti navali. Divise ancora fino al secolo XII in «Compagne» della città, comprendenti il castrum e la civitas, ormai fusi insieme giuridicamente, ed in «Compagne» del burgus, hanno però un unico centro religioso: la chiesa di San Giorgio, in cui si conserva il vessillo comune. Tutti i rioni di Genova medievale sono orientati verso il mare, con i monti alle spalle, in modo che tutti gli abitanti affluiscano facilmente alla ripa, dove pulsa la vita economica della città. La struttura rionale 12

Т.О. DE NEGRI cit., p. 207.

13

V. VITALE cit., pp. 14-15.

14

Т.О. DE NEGRI, cit., p. 235.

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cittadina, impiantata sopra una base topografica che corrisponde ad un'aliquota di partecipazione all'attività del traffico, e quindi ad una presenza costante nell'incremento economico sulle vie del mare, prevale sulla tendenza all'ordinamento per classi sociali, dal momento che tutti gli abitanti rispondono al richiamo del denaro, della possibilità di ricchezza che le imprese in paesi vicini e lontani riserbano a chiunque. Così il conflitto tra visconti e vescovato si risolve nel 1052 - quando è vescovo un Oberto, di famiglia viscontile - sotto l'urgere di nuovi e più vasti interessi, delle spedizioni, condotte о da condursi, prima nel Medi­ terraneo occidentale, poi anche in quello orientale, e sotto la pressione, via via più accentuata, delle «Compagne» rionali, nelle quali si trovano fianco a fianco nobili feudali, possessori di terre, datisi alla mercatura, e mercanti arricchiti, che ascendono all'aristocrazia del denaro; navigatori, marinai, artigiani. L'episcopato diventa generalmente appannaggio delle famiglie viscontili, ed acquista una fisionomia spiccatamente cittadina di fronte alla stessa Sede Apostolica; partecipa intimamente alle vicende, anche economiche, della collettività; unisce la nobiltà, vecchia e nuova, in una categoria di proprii vassalli, pagando però lo scotto con abusi nepotistici e con uno scadimento morale che farà dire a papa Innocenzo II che tutti i vescovi, da Oberto, a metà del secolo XI, ad Arialdo, sulla fine del secolo stesso, sono stati barbari et procubitores. Sia pure con accenti proprii, Genova rientra nel quadro della lotta delle investiture conoscendo, essa pure, l'influenza del dilagante moto patarino, il dissidio tra vescovo e popolo, i contrasti tra le ultime resistenze feudali, che cercano l'appoggio vescovile, ed il nucleo più numeroso della cittadinanza, artigianale e mercantile, che entra tumultuosamente nella vita pubblica. Tutto ciò non arresta il processo di espansione economica sul mare e, più gradualmente, sulle strade del retroterra. Anzi, quanto più quel processo s'intensifica e si dilata, tanto più si fa impellente la necessità di un nuovo coordinamento interno, di una unità di direzione diplomatica e militare: in sostanza dell'instaurazione di un nuovo sistema di reggimento politico. La prima crociata funge da elemento catalizzatore, sia nel richiamo dell'episcopato a pratiche meno temporalistiche, sia nello stimolo alla concordia interna per fronteggiare i grandi problemi che con essa si affacciano all'orizzonte, ivi compresa la concorrenza economica internazionale a largo raggio, sia, di conseguenza, con la proposta di un tipo di associazione unitaria della comunità, a fondo economico, artigianale e mercantile. Non a caso proprio nel 1099 e proprio per intervento del vescovo, Arialdo, nasce la «Compagna Comunis»: unione federatizia delle «Com-

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pagne» rionali, a cui aderisce il vescovo stesso, il quale conserva, come onori supremi, «la rappresentanza della città nei rapporti internazionali, specifiche funzioni in caso di interruzioni del consolato, l'alta giurisdizione quando il Comune sia parte in causa»15. La «Compagna Comunis», associazione volontaria e giurata, comprende tutti i cittadini che vogliono aderirvi (ma che, in sostanza, si vedranno costretti ad aderirvi): visconti, nobili e popolari, unicamente in quanto tali, cioè in quanto abitanti ed operanti nella città e viventi secondo la consuetudine, che è poi il diritto romano. Associazione di base militare e di carattere artigianale e mercantile, vede al proprio governo nobili e visconti, non per diritto, ma in quanto i più prestigiosi tra gli associati ed i più abili nell'imporsi. La genesi della «Compagna» mette in ombra a Genova la genesi del Comune, al quale essa si sovrappone ed in certo qual modo si sostituisce. La presenza di un console del Comune, Amico Brusco, nel 1098, indica che a questa data il processo di evoluzione dei rapporti giuridici e politici, che mettono capo anche altrove in Italia al reggimento comunale, è già compiuto in Genova, sebbene, per difetto di nostra informazione, non sia possibile saperne di più e se, di conseguenza, taluni parlino invece, per il 1098, di una fase pre-comunale о di un primo tentativo di «Compagna Comunis», soltanto nella quale riconoscono la nascita del Comune geno­ vese. Fatto sta che la «Compagna Comunis» dapprima «ha il carattere vo­ lontario e temporaneo delle società commerciali, ma via via rinnovandosi ed accogliendo nuovi elementi acquista valore giuridico e potere politico per tutta la collettività, trasformandosi da ente privato in ente di diritto pubblico»16. I suoi capi hanno il titolo di consoli; i suoi brevi hanno valore per l'intera comunità; soltanto l'appartenenza alla «Compagna» garantisce, ad un certo momento, al cittadino la tutela della legge. In tale modo la «Compagna», organizzazione di origine e natura economica per l'esercizio delle attività artigianali e mercantili, compenetra il Comune, però al tempo stesso se ne distingue, sia per la diversa posizione giuridica del cittadino rispetto all'uno e rispetto all'altra (si nasce cives о burgenses per diritto di luogo, mentre alla «Compagna» si aderisce con atto di volontà, seppure più о meno spontaneo), sia per il fatto che la «Compagna» trascende territorialmente il Comune vero e proprio. Con il graduale ampliarsi del predominio di Genova nella Riviera, abbiamo infatti una «Compagna interna», che riguarda la città ed il borgo, ed una V. VITALE, cit., p. 17. V. VITALE, cit., p. 18.

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«Compagna esterna», che comprende questi abitanti, al di là di questi limiti, dal Giogo al mare e fino a Rovereto nel Levante, i quali vi aderiscono con giuramento. Potremmo dire che il Comune è in Genova l'erede indiretto dell'antico municipio romano-bizantino, riaffermato o, se si preferisce, riconosciuto, nella sua interna evoluzione consuetudinaria, dal privilegio di Berengario II e di Adalberto del 958 per la universitas dei cives (sottolineo questa espressione) e dal diploma obertengo del 1056, e pervenuto nel 1098, о prima di questa data, a reggimento consolare. La «Compagna Comunis» è la nuova forma associativa, oserei dire rivoluzionaria, tra antichi e nuovi abitanti, compresi cioè i burgenses, poi anche i distrettuali, scaturita da mutate situazioni ed esigenze economico-sociali, la quale tende a soverchiare il Comune, imponendogli la propria volontà, le proprie direttive, la propria legislazione. Nasce dalla concorrenza (nel senso di coacervo) delle «Compagne» rionali, intese ora non come vicinie in senso demotopografico e politico, ma come entità economiche, ed è pertanto il complesso delle forze produttive, spiccatamente in senso mercantile, che si organizzano per indirizzare secondo le proprie necessità le linee di fondo della vita pubblica. La «Compagna» non è il Comune o, per usare seppure più impropriamente un termine più significativo, non è lo Stato. È una sorta di corporazione unitaria - mi si consenta l'espressione - che raggruppa, anche coattivamente, quando se ne riveli l'opportunità, e disciplina tutte le forze, interne ed esterne, della città, che ritenga utili ai propri fini, riuscendo ad imporsi al Comune, anche a Genova di origine e stampo municipale. E la distinzione, ad un certo momento, tra «Compagna interna» e «Compagna esterna» permette, da un lato, di superare il perimetro delle mura cittadine e dell'ordinamento topografico comunale in senso tradizionale, assimilando nella politica degli interessi le forze più valide ed utili del distretto (inteso, esso pure, come fatto dinamico) ed accrescendo la propria capacità di pressione sul Comune; consente, dall'altro, di operare, all'occorrenza, soltanto attraverso la «Compagna interna», in quanto organismo primario e prevalente, o, piuttosto, attraverso il suo ceto dirigente, che si pone in sostanza come il vero e proprio centro del potere. Si noti - ed è stato rilevato, ma in senso diverso17 - che il termine «Compagna» viene usato a Genova per gl'interni rapporti, ed il termine «Comune» per i rapporti esterni: da una parte è la forza reale, operante nel V. VITALE, cit., p. 18.

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contesto civico, dall'altra è l'entità giuridica, valida, essa sola, nel quadro intercomunale о internazionale. Quando l'annalista Carfaro apre la pro­ pria Cronaca al 1099 con la notizia della creazione di una «Compagna» di tre anni, governata da sei consoli, egli c'informa della costituzione di un'associazione di carattere economico ed a tempo determinato, indubbia­ mente con uno scopo preciso, come avviene anche oggi, mutatis mutandis, per le società finanziarie. Non allude certamente alla nascita del Comune genovese. Il Comune, seppure indirizzato e quasi compenetrato dalla «Compagna», come lo sarà più tardi ed in altro modo dal Banco di San Giorgio, è il protagonista ufficiale della storia di Genova: non lo è la «Compagna». Il Comune stipula trattati; è il destinatario di privilegi imperiali, papali, signorili; emana norme statutarie; procede alla costituzione degli stabilimenti coloniali; batte moneta e nomina notai per delega superiore; crea una propria burocrazia; riscuote proventi fiscali; dà vita ad un apparato militare, per quanto modesto. Le forze che operano nel suo interno, organizzandosi nella «Compagna», talora sino a coartarlo in determinate direzioni, sono l'espressione stessa della Genova dei traffici, dove la varietà degl'interessi, il fluttuare delle situazioni economiche, l'esigenza e quindi la ricerca costante del lucro di mercato premono contro la stabilità delle istituzioni per trasferirvi la propria mobilità18. Il secolo XI, scarso per noi di notizie, è per Genova il secolo delle spedizioni antislamiche, in collaborazione con Pisa, salvo qualche momento, come nel 1060, quando la concorrenza mercantile si trasformò in un momentaneo conflitto tra feudatari genovesi e pisani della Corsica. Guerra e mercatura si accoppiano fin d'ora e danno vita a quella che rimarrà anche in seguito la struttura fondamentale dell'attività marittima genovese (e non solo genovese, in verità): navi attrezzate al trasporto ed alla battaglia, anzi dapprima più a questa che a quello; capitani di mare che sono esperti anche nella pratica dei conti come nel maneggio delle armi; spedizioni marittime a scopo mercantile, ma pronte, se necessario od utile, a dedicarsi al corsarismo od alla pirateria. Lo spazio è quello del Mediterraneo occidentale. Nel 1087 i Genovesi toccano la costa orientale tunisina, partecipando alla crociata favorita da Si pensi, seppure con tutte le diversità del caso, al rapporto di forza dello Stato moderno con i grandi trusts o, per altro verso, con le grandi centrali sindacali: rapporto che vede lo Stato, quando strutturalmente debole, cedere spesso di fronte ad interessi economici settoriali organizzati. La differenza essenziale sta nel fatto che in Genova la «Compagna» finisce per esprimere l'interesse collettivo, in rapido continuo movimento, di fronte alla staticità delle istituzioni tradizionali.

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papa Vittore III contro Temim, sultano di Mehdia, insieme alle navi di Gaeta, Salerno ed Amalfi, sotto la direzione di Pisa. Poi è la volta della Spagna, dove i Genovesi intervengono, accanto ai Pisani, nel 1092, su Valenza, in aiuto di Alfonso VI di Castiglia, e nel 1093, in un tentato colpo di mano su Tortosa, a fianco del re di Navarra e del conte di Barcellona. Il successivo scontro con Pisa, inevitabile, fatale, durò per due secoli, coinvolgendo fattori politici e diplomatici, azioni di guerra marittima e terrestre fra tregue e paci inutilmente ripetute, rivendicazioni in sede ecclesiastica, portate fino al soglio papale, ed intromissioni in questioni della Chiesa ad altissimo livello, come lo scisma del 1130 tra Anacleto II e Innocenzo II, о le sottili manovre nella politica dell'Impero al tempo di Federico Barbarossa, nel suo conflitto con i Comuni italiani e nelle sue aspirazioni sulla Sicilia. Dovunque Genova trasse vantaggio: con la no­ mina del proprio vescovo ad arcivescovo e l'assegnazione di tre diocesi nella Corsica per opera di papa Innocenzo II nel 1133; con il diploma federiciano del 1162, che rappresentò, da allora in poi, il punto di forza per le affermazioni di supremazia e per gl'interventi regionali ed il trapasso dalla configurazione del Commune Ianue a quella della Respublica lanuensis. *

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Il problema, che a Genova si pone impellente e chiaramente nel secolo XII, è quello della strutturazione regionale. Dopo l'episodio unitario della Marítima Italorum bizantina - dove tuttavia la Liguria era una provincia dell'Impero d'Oriente, non una configurazione politica a sé - la nostra regione è emersa dal buio dell'alto medioevo in una situazione di frammentismo territoriale, in conseguenza della già ricordata suddivisione nelle tre marche create da Berengario II e da Adalberto, e della successiva e conseguente ripartizione in aree sostanzialmente autonome, sotto governo laico od ecclesiastico: il comitato lunense, Genova ed il Genovesato, Savona ed il Savonese, l'episcopato di Albenga, il comitato di Ventimiglia. L'unità geografica con gli spazi dell Oltregiogo, posta in essere dalle tre marche del 950-951, si è spezzata più о meno sulla linea dell'Appennino, in seguito alla nascita del mondo feudale dell'interno, dai Monferrato ai Malaspina, dai Bosco ai Ponzoñe, dai Del Carretto ai Clavesana, poi dei più recenti sistemi comunali di Alba, Asti, Alessandria. Le entità liguri politico-territoriali del Levante e del Ponente tendono a conservare e ad incrementare se stesse, con i propri collegamenti viari - strade, mulattiere, piste - verso i rispettivi retroterra immediati (un po'

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com'è anche oggi) e con i sempre risorgenti contrasti con i vicini contermini per le questioni confinarie. È il quadro composito delle Ligurie subregionali (se posso usare un termine di valore retrospettivo), localizzate, marittimo-feudali, episodiche: è un quadro facilitato, direi quasi imposto, dalla struttura geofisica del territorio a valli perpendicolari verso il mare, e che ci ha lasciato in eredità la varietà dei dialetti liguri, delle manifestazioni artistiche, delle tradizioni locali, degli stessi ordinamenti religiosi nelle antiche diocesi di Luni, Genova, Savona, Albenga, Ventimiglia. Favorita dalla posizione geografica, al centro dell'arco territoriale, punto terminale marittimo della strada da e per Milano e il mondo tedesco, Genova acquisì o, meglio, riacquisì, dopo l'esperienza della Provincia Maritima Italorum, la coscienza della propria funzione di unificazione territoriale, da Monaco a Portovenere, seppure con ripetute varianti, nel decorso del tempo, circa i due estremi limiti confinari, in conseguenza delle vicende politico-militari contingenti. Un primo risultato indiretto venne conseguito nel 1133 con la costituzione dell'archidiocesi genovese, la cui configurazione geografica, dettata per grande parte dalla rivalità con Pisa e dalla questione della Corsica, non risponde totalmente al criterio-base del futuro, anzi prossimo, quadro regionale, e non intende contrapporsi alla tradizione delle autonomie politiche e diocesane di Savona e del Savonese, di Albenga e dell'Albenganese, di Ventimiglia e del suo comitato. Però due elementi vanno sottolineati. Innanzi tutto: la separazione dalla sede metropolitica di Milano, di cui Genova era allora suffraganea; e quindi l'acquisto non solo di una propria autonomia, ma anche di una dignità senza concorrenti in Liguria, la quale veniva a costituire una sorta di superiorità morale e formale del nuovo arcivescovo rispetto alle altre semplici sedi vescovili liguri. In secondo luogo: un primo diretto intervento in Lunigiana sia per la costituzione, quale sua suffraganea, della nuova diocesi di Brugnato incentrata sulle strutture dell'antico monastero, sia per l'acquisizione, all'archidiocesi, del monastero di San Venerio del Tino, a cui seguirà quella delle chiese di Portovenere. Un ulteriore acquisto fu il diritto di battere moneta, conferito al Comune genovese dall'imperatore Corrado III alla fine del 1138, cioè nello stesso anno - e mi sembra un dato significativo - in cui egli era stato incoronato imperatore romano: un altro segno di distinzione morale per Genova, oltre che di prevalenza economico-finanziaria. Ed un terzo vantaggio, per il prestigio politico-militare che a Genova derivò, mettendola in primo piano su tutta la Liguria, fu la grande vittoriosa impresa di Spagna con le crociate di Almeria e Tortosa del 1146-48 (nonostante il periodo di crisi economica che ad esse seguì), completata, per così dire, sul versante

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del nel nel più

Mediterraneo orientale, dall'acquisto di un embolo in Costantinopoli 1155 e, nello stesso Mediterraneo centrale, dalla pace col re di Sicilia, 1156, la quale fece rilevare all'Annalista cittadino come «i Genovesi s'abbian ricevuto che dato»19. Genova ebbe piena coscienza di questa sua ascesa, che la poneva al vertice del potere politico e militare nel panorama ligure, di fronte allo stesso Impero, e lo disse nell'iscrizione del 1155 su Porta Soprana, con cui la città parla in prima persona: «Sum munita viris, muris circumdata miris, / et virtute mea pello procul hostica tela. / Si pacem portas, / licet has tibi tangere portas; / si bellum queres, / tristis victusque recedes. / Auster et occasus, septemtrio novit et ortus / quantos bellorum superavi Ianua motus»20. Il punto d'arrivo fu il diploma largito ai Genovesi da Federico I Barbarossa nel 1162: concessione della districtio sulla Maritima da Monaco a Portovenere, salvi i diritti dei conti e dei marchesi, ericonoscimentodei possessi in Oltremare; facoltà di avere propri consoli, di amministrare la giustizia con propri giudici, di usare i proprii pesi e le proprie misure; promessa di concessioni in Sicilia, quando l'isola sarà tolta agli Altavilla. Non solo dunque l'autonomia cittadina di fronte alla maestà dell'Impero; ma anche i presupposti giuridici per la costituzione dello Stato regionale e le premesse legalizzatrici per le future azioni contro Savona e contro Ventimiglia. Non sono d'accordo con un illustre storico di Genova, Vito Vitale, là dove egli sostiene che, dopo la prima crociata, i Genovesi distolsero, per qualche tempo, la loro attenzione dall'Oriente, sì che non parteciparono alla seconda, e si limitarono a «sostenere diplomaticamente il mantenimento di diritti e privilegi che i sovrani degli Stati crociati non volevano osservare»21. Non c'è una stasi. C'è semmai soltanto, in Genova, per la prima parte del secolo XII, un rallentamento d'interesse nei riguardi del Levante. Vi contribuiscono, un poco più tardi, le difficili vicende degli Stati crociati22, la ricorrente difficoltà per la Repubblica, come nel Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, I, Caffaro, traduz. di С ROCCATAGLIATA CECCARDI e G. MONLEONE, Genova, 1923, p. 61. 20

Т.О. DE NEGRI cit., pp. 279, 282-292.

21

V. VITALE cit., p. 37.

22

G. PiSTARiNO, Genova e il Vicino Oriente nell'epoca del Regno Latino di Gerusalemme, in « / Comuni italiani nel regno crociato di Gerusalemme. Atti del Colloquio: The Italian Communes in the Crusading Kingdom of Jerusalem, Jerusalem, may 24-may 28, 1984», Genova, Collana storica di fonti e studi diretta da G. Pistarino, 1986, pp. 57-140.

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1142, d'instaurare rapporti consistenti a livello ufficiali con l'Impero di Costantinopoli, il latente dissidio con Venezia. Genova punta solo maggiormente e temporaneamente sul Mediterraneo occidentale, forse nella speranza di farne un lago genovese. All'intervento in Sicilia ed in Sardegna, alle aspirazioni sulla Corsica si aggiungono quelli che riteniamo siano i veri più ambiziosi obbiettivi della politica genovese dopo la prima crociata: la penetrazione, attraverso anche la forza delle armi, nel Nord-Africa occidentale e nella penisola iberica. Basterà ricordare il genovese Ogerio che nel 1113 costruisce due navi ad Iria Flavia, per sollecitazione del vescovo di Compostela, e le conduce più volte alla vittoria sulle coste spagnole occupate dai musulmani. Basterà accennare alle vittoriose spedizioni su Bugia nel 1136 e su Almeria nel 1137; soprattutto alle crociate di Spagna del 1146-1147 e del 1148, rispettivamente contro Almeria, a fianco di Alfonso VII di Castiglia e Raimondo Berengario di Barcellona, e contro Tortosa, a fianco del conte di Barcellona. Sembra dunque evidente il proposito genovese di ripetere nella Spagna, quindi in zona più prossima, più sicura e perciò più redditizia, le operazioni compiute in Terrasanta, con la fondazione di una serie di stabilimenti commerciali sulle coste, sia dell'area islamica sia dell'area ritornata cristiana, per la penetrazione economica nell'interno: qui, per di più, senza la pressante concorrenza economica di Pisa, e tanto meno di Venezia. Il fallimento della duplice impresa, per il ritorno di Almeria in mani saracene, dopo dieci anni, senza possibilità di commercio per i Genovesi, e per i mancati utili di bottino a Tortosa, in seguito ad opposizione del conte di Barcellona, pose fine al progetto. Così si scioglie il dilemma. Lasciando la Spagna ad una graduale, e pur tuttavia profonda, penetrazione dell'iniziativa individuale, di singoli mercanti о di gruppi mercantili, al seguito della Reconquista, la Repub­ blica affina lo sguardo sull'Oriente. Nel 1155 stipula un trattato con Ma­ nuele Comneno, in velata funzione antiveneziana, ottenendo riduzioni do­ ganali, un embolo, una chiesa ed una banchina nel porto di Costantinopoli. Nel 1156-57 stringe accordi con Guglielmo I di Sicilia, assicurandosi un quasi-monopolio nei traffici del Regno. E gli atti del cartulare del notaio Giovanni Scriba del 1154-64 attestano intanto un traffico intenso, oltre che con la Sicilia, con Alessandria d'Egitto, con la Siria, con la stessa Costantinopoli. Nel giro di cento anni Г* universitets dei cives, che chiede al marchese obertengo la conferma delle proprie consuetudini ed ancora non è giunta alla forma compiuta del reggimento comunale, si è fatta una delle maggiori

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potenze del mondo euro-mediterraneo, capace di quello sforzo imponente di cui diede prova in occasione della terza crociata, sia armando una propria flotta di Stato, sia allestendo tante navi da potervi trasportare gli eserciti di Filippo Augusto e di Riccardo Cuor di Leone. Grazie all'aiuto militare dei Genovesi e dei Pisani, Acri fu ripresa nel 1191, dopo due anni di assedio, e divenne per circa sessant'anni un centro vitale del nuovo impero genovese nel Levante, destinato ad espandersi sino alla foce del Don. Tutto questo fu il risultato d'una vita intensa, d'una «partecipazione - per usare le parole di Vito Vitale - al movimento dei commerci e della navigazione da parte di tutta la cittadinanza», da parte degli «infiniti rivoli dell'azione privata»: dal più modesto socio stans dell'' accomendacio ai più potenti mercanti, ai «personaggi delle più alte classi e appartenenti alla nobiltà viscontile e consolare». E Gabriella Airaldi: «Motivo e scopo d'individuali e solidali interessi è il denaro, о ciò che ad esso equivale, pepe о merci pregiate, in modo che fin dai primi momenti sconfinano in pirateria e corsarismo: un capitale giocato in vari meccanismi d'investi­ mento, i negotia, e in qualche misura riciclato nel pubblico interesse»23. Poniamo i quadri a confronto. Scrive l'autore arabo Dhahanï sulla spedizione islamica contro Genova nel 934-935: «In quell'anno Al-Mansur Isma'il al-'Ubaydï mandò, da Mahdiyah, Ya'qüb ibn Ishäq, con una flotta formata da trenta navi del tipo harbî, contro la regione dei Franchi (...). Sfondarono le mura di Genova, s'impadronirono della città, catturarono mille donne. Quindi raggiunsero Mahdiyah con le prede»24. Nel settimo decennio del secolo XI, Nathan b. Nahray comunica da Alessandria d'Egitto al cugino Nahray b. Nissan del Vecchio Cairo: «Sono arrivate navi dalla terra dei Rum, da Genova e da altrove, e si dice che tre altre navi arriveranno dalla Spagna»25. All'inizio del secolo successivo una lettera dal Vecchio Cairo ad Aden riferisce: «Il Sultano26 ha imprigionato i Genovesi: il che ha provocato generale costernazione tra i Rum, e per questa 15

24

V. VITALE cit., p. 37; G. AIRALDI cit., p. 26.

M.G. STASOLLA, Italia euro-mediterranea nel medioevo: testimonianze di scrittori arabi, Bologna, 1983, pp. 269-270. La voce harbi indica in realtà l'abitante del dar al-harb = «dimora della guerra», cioè tutti i paesi che non appartengono allo Stato islamico: M.G. STASOLLA, cit., p. 305. Ritengo che qui voglia designare le navi da guerra. 25 B. KEDAR, Mercanti genovesi in Alessandria d'Egitto negli anni sessanta del se­ colo XI, in «Miscellanea di studi storici II», Collana storica di fonti e studi diretta da Geo Pistarino, n. 38, Genova, 1983, pp. 23-24. 26 Era il sultano Al Malik al Afdal.

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ragione non si riesce a vendere merci. Si direbbe che questa crisi debba durare a lungo, sì che tutti gli affari sono fermi»27. Ed a metà del secolo XII, il geografo arabo Al-Idrlsi: i Genovesi «sono ricchi mercanti che viaggiano per terra e per mare e si avventurano in imprese facili e difficili (...). Dotati di un naviglio formidabile, sono esperti nelle insidie della guerra e nelle arti del governo: fra tutte le genti latine sono quelli che godono di maggiore prestigio»28. Testimonianze del tutto imparziali, che ci provengono dal mondo islamico ed ebraico: due secoli essenziali nella storia interna ed esterna genovese, a cavallo tra l'alto ed il basso medioevo. Nel 934-935 i Genovesi vedono i saraceni entro le proprie mura, subiscono il saccheggio e la deportazione delle donne. A metà del secolo XII «Genoa appears as an image of power (...). The Genoese, or better still "qui pro Ianuensibus distringuntur", are now the protagonists of their history»29. *

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La vicenda della Liguria nel restante secolo XII e nel corso del XIII si sviluppò nel processo dialettico tra l'istanza regionale del Comune genovese, contemperata dal parallelo sviluppo della costituzione del Commonwealth (la Communitas, come dicono i Genovesi stessi) in Oltremare, e la resistenza delle altre aree subregionali: in particolare della Savonese e della Ventimigliese. Un processo che si tinge dei colori del guelfismo e del ghibellinismo, ma non tanto per radicate simpatie о propensioni filopapali о filoimperiali, quanto per l'intento di usufruire del nome e dell'appoggio dei due grandi schieramenti italiani ed extraitaliani dell'epoca in funzione del problema ligure: individualità cittadine od unità regionale? sopravvivenza ed utilizzazione delle strutture feudali о ristrutturazione di tutte le forze attive incanalate nel grande crogiolo dell'artigianato e della mercatura? castelli annidati sui monti о navi che si lanciano nella libertà dei mari? Tra le varie e così diverse regioni-nazioni, che compongono la nazione italiana, la Liguria ha di fronte a sé un tema assai arduo, anzi una molteplicità di temi: l'asperità e la povertà del suolo, e l'urgenza della vita marinara, i vincoli insopprimibili con gli Stati della Penisola italica, e la 27

B. KEDAR cit., p. 26.

28

M.G. STASOLLA cit., p. 246.

G. AIRALDI, Groping in the dark: the emergence of Genoa in the early later Middle Ages, in «Miscellanea di studi storici II» cit., pp. 16-17.

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ricerca indispensabile dei contatti con il mondo cristiano-iberico, islamicospagnolo, nord-africano, orientale; i rapporti essenziali con l'Impero di Costantinopoli, poi con quello mongolo-tartaro, e con i conquistatori turchi, sia selgiucidi, sia ottomani; l'antinomia tra la rigorosa tutela dei propri valori di tradizione, di fede, di cultura, e la molteplicità di stirpi, di religioni, di moduli di vita delle genti «esterne» con cui s'intessono relazioni politico-economiche о che immigrano nella stessa Genova: mercanti, ma­ rinai, schiavi, liberti; legislazione interna e codificazione statuaria ad hoc per le grandi «colonie» di Pera, di Chio, di Caffa, dove la polietnia richiede una normativa super partes, anche se d'ispirazione e di fondo genovese30. Al tempo medesimo, nel proprio assetto territoriale regionale: la policentricità cittadina, i frazionamenti feudali e signorili, lo stesso squilibrio tra l'archidiocesi, che nella regione comprende soltanto la diocesi genovese, e gli altri episcopati che a Luni-Sarzana, a Savona, ad Albenga, a Ventimiglia si connaturano delle resistenze cittadine di fronte al processo di affermazione della supremazia genovese. Noi forse, al nostro tavolino di storici, non siamo pienamente consapevoli di quanto sia stato faticoso, doloroso, in taluni momenti direi addirittura drammatico, lo sviluppo storico di una regione così bella, così suggestiva, eppure così tormentata. Savona lottò disperatamente. Ma la sua battaglia andò perduta e la sua sorte fu segnata sino da quando, nel secolo X, la corona del Sacrum Imperium passò dai carolingi alla dinastia sassone, ed il grande mondo germanico entrò nel vivo del tessuto storico della crescente Europa, privilegiando la linea commerciale per Milano-Genova di fronte a quella che dall'odierno Piemonte portava al porto savonese ed alla contigua Vado. Più tardi Ventimiglia, con il suo comitato, subì il contraccolpo negativo della frattura dell'Occitania, determinata dalla crociata antialbigese e dall'affacciarsi della monarchia di Francia al Mare Mediterraneo attraverso la Provenza, nei primi lustri del secolo XIII. Genova impose a Savona gli onerosi patti della metà del secolo XII; s'insediò in Noli prima con una stretta alleanza, poi con la costituzione dell'episcopato nolese per opera di papa Innocenzo IV, stringendo Savona in una morsa; si affermò su Ventimiglia con la pace della metà del Duecento. E nel Levante rivierasco, già nel secolo XII, Portovenere prima, Chiavari, poi, funsero da presidi fedelissimi in funzione dirompente dell'antico tessuto della Marca Orientale; da punti di attacco per la penetrazione dal mare verso l'interno; da stazioni-ponti per il predominio sulla Riviera sino al cuore della Lunigiana. G. PISTARINO, I Signori del Mare, Genova, 1992, cap. I.

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I residui tessuti feudali vennero assorbiti attraverso le operazioni militari, i vincoli familiari con le maggiori famiglie genovesi, il coinvolgimento nelle pratiche della mercatura. L'operazione assunse particolari risultati nella Riviera di Levante, dove la mancanza di nuclei d'insediamento di rilievo pari a quelli del Ponente e l'accaparramento genovese di Porto venere già sull'inizio del secolo XII non consentirono l'attività di forti centri di resistenza antigenovese, ed il problema si risolse piuttosto nei rapporti di Genova con i vescovi di Luni-Sarzana prima, con Pisa, poi, per l'estremità meridionale della regione e per l'area lunigianese. Movimenti demografici, import-export, insediamenti in dignità ecclesiastiche, impianti di presidi militari, imposizione di metodi di calcolo cronologico e di tipi di pesi e misure ebbero un peso non sufficientemente valutato nella storia della genovesizzazione della Liguria. Penso a Portovenere che tra il secolo XII ed il XIII ospita gente e navi di Genova; è retta da consoli e custodita da castellani e soldati di Genova; usa il calcolo dell'anno e dell'indizione genovesi31. Penso all'urbanizzazione di Chiavari, messa in atto da Genova tra la fine del secolo XII e l'inizio del XIII32. Ricordo i prelati genovesi di Noli e di Ventimiglia nel secolo XIII o, più tardi, quelli di Luni-Sarzana. Ricordo i notai che, come Giovanni di Donato a Savona sulla fine del secolo XII33 о come Giovanni di Amandolesio a Ventimiglia nel Duecento34, lavorano sia per i privati sia per la curia comunale, quali esponenti della sapienza notarile e della tutela amministrativa genovese. Ricordo i maestri di scuola che da Genova si spostano qua e là per la regione, come il famoso Deteguarde di Sarzano che insegna a Portovenere intorno alla metà del secolo XIII35. Ricordo i G. PiSTARiNO, Gli usi cronologici a Portovenere nel quadro dell'espansione genovese, in «Bollettino Ligustico», V. 3, 1953, pp. 60-64. 32 G. PiSTARiNO, Chiavari: un modello nella storia, in «Atti del Convegno Storico Internazionale per Г VIII Centenario dell'urbanizzazione di Chiavari (8-10 novembre 1978)», Chiavari, 1980. 33 II cartulario di Arnaldo Cumano e Giovanni di Donato (Savona, 1178-1188), tomo I, a cura di L. BALLETTO, tomo II, a cura di L. BALLETTO - G. CENCETTI - G.F. ORLANDELLI - B.M. PISONI AGNOLI, Roma, 1978. 34 L. BALLETTO, Notai genovesi in Oltremare. Atti rogati a Ventimiglia da Giovanni di Amandolesio dal 1258 al 1264, Genova - Bordighera, 1985; EAD., Notai genovesi in Oltre­ mare. Atti rogati a Ventimiglia da Giovanni di Amandolesio dal 1256 al 1258, Bordighera, 1993. 35 G. FALCO, Una scuola privata di grammatica in Portovenere verso la metà del '200, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 1909, n. 14, pp. 307-314.

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presidi genovesi nei castelli delle città e dei borghi alleati о sottomessi, composti in parte da immigrati che hanno trovato in Genova о grazie a Genova possibilità di lavoro. E metto in evidenza la navigazione di cabotaggio a scopo commerciale la quale costituì il tessuto connettivo tra un po' tutte le località della costa, nello scambio delle merci, nel rifornimento dei paesi dell'interno36, finanche nelle opere di pietà, come nel caso di quel morituro, il quale espresse per testamento nel 1265 la volontà di essere trasportato post mortem via mare, tempo permettendo, da Genova a Moneglia, per essere colà sepolto nella chiesa di Santa Croce37. *

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«L'avanzare del Trecento porta con sé una serie di problemi: il crollo della pax mongolica in Oriente taglia le tradizionali possibilità d'accesso all'Asia ulteriore; l'avanzare dei turchi appare inarrestabile. In Occidente l'avvicendarsi di pestilenze, le guerre franco-inglesi e spagnole e i sommovimenti nell'area italiana e tedesca, l'aggressività della Corona d'Aragona, lanciata sulla rotta delle spezie, rendono la situazione complessivamente più difficile. Il Mediterraneo si affolla di navi di catalani, castigliani, normanni, biscaglini, inglesi, che fanno concorrenza a genovesi e veneziani. Una somma di vicende convergenti obbliga dunque gli antichi protagonisti della storia mediterranea a rifare i conti con le proprie possibilità; a ristudiare la politica orientale in funzione difensiva; a restringere ambizioni; a imporre caratteri di maggior prudenza e sicurezza al commercio; a potenziare - e Venezia e Genova lo fanno in modo diverso - nuove vie di traffico. Se si analizza la globale condotta politica di Genova e di Venezia per la seconda metà del Trecento, ci si trova di fronte ad una razionalizzazione programmata (o almeno così oggi si pensa) degli sforzi e degli investimenti. Sembra che i mercanti proprio in quest'epoca riorganizzino in un modo diverso la loro attività, restringendo le aree operative, evitando i L. BALLETTO, Commercio interno e navigazione di cabotaggio in Liguria nel me­ dioevo, in «Mercati e consumi. Organizzazione e qualificazione del commercio in Italia dal XII al XX secolo. Primo Convegno nazionale di storia del commercio in Italia (Reggio Emilia, 6-7 giugno 1984 - Modena, 8-9 giugno 1984)», Bologna, 1986, pp. 261-274. 37 M. QUAINI, I boschi della Liguria e la loro utilizzazione per i cantieri navali, in «Rivista geografica italiana», 1968, fase. Ill, pp. 508-536; ID., Boschi e cantieri navali nella Liguria medievale e moderna, in «Liguria», XXVII, 1970, pp. 9-12; L. BALLETTO, Genova sul mare, in AA.VV., "La storia dei Genovesi", V, Genova, 1985, pp. 345-376.

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rischi, tutelandosi con l'assicurazione, come la situazione generale sembra richiedere»38. Col Tre-quattrocento mutano in Liguria istanze e prospettive. Il processo di formazione unitaria della regione non si trova più coinvolto, nei suoi riflessi esterni, essenzialmente nella dialettica tra papato ed impero, guelfismo e ghibellinismo, e, nella sua dinamica interna, nel contrasto tra centralismo genovese ed autonomismo di altre città rivierasche. Sono invece le dirette intromissioni dei potentati contermini a rendere complesso e laborioso il quadro, sia pure con residui riflessi delle lotte delle fazioni del passato nel nome della Sede Apostolica о dell'Impero. Nell'età delle grandi monarchie europee e degli Stati regionali italiani, gl'interventi in Liguria, che potrebbero mettere in forse lo sviluppo verso lo Stato-regione, lacerandone il tessuto in fieri, sono quelli dei Visconti e poi degli Sforza di Milano, nella ricerca di uno sbocco al mare, о quelli della monarchia di Francia, nell'intento di estendere il suo predominio dalla Provenza alla contermine regione italiana, assicurandosi la leadership sull'Italia nord-occidentale. Si aggiungono per Genova - ma sono episodi meno incidenti - le signorie di Enrico VII imperatore, di Roberto d'Angiò di Napoli e di papa Giovanni XXII nel primo Trecento, di Teodoro II di Monferrato circa un secolo più tardi. Le resistenze più dure, dall'interno, vengono ancora da Savona, con le ripetute signorie dei Visconti, di Luigi I d'Orléans, della Francia, dei Visconti e degli Sforza nel Tre-quattrocento, ora in sintonia, ora in contrapposizione alla Superba. Né vanno dimenticate, nel pericolo della diaspora interna, la signoria dei Campofregoso in Lunigiana, effimera, о quella, più stabile, dei Del Carretto sul Finale, oltre ai nuclei feudali dei Malaspina о dei Fieschi, annidati tra le giogaie dell'Appennino. Il Tre-quattrocento è anche il periodo in cui la Liguria, sotto l'insegna di Genova, raggiunse il massimo della sua espansione regionale. È vero che la contea di Nizza finisce in mano ai Savoia con Amedeo VII, il Conte Verde, nel 1388; che Monaco, già resasi autonoma sotto i Grimaldi intorno alla metà del Trecento, contesa prima dal re di Sicilia, poi dai Visconti nel primo Quattrocento, si configura a sé con la signoria dei Grimaldi nella seconda metà del secolo XV. Però Genova è giunta ad impadronirsi di Ovada e di Novi nell' Oltregiogo, lasciandovi una traccia che vive tuttora, e riesce infine ad insediarsi in Sarzana, nel cuore della Lunigiana vescovile. «In realtà il quadro regionale ligure è destinato a rimanere incompleto per più di una ragione. Alla struttura geografica si accompagneranno G. AIRALDI cit., pp. 52-53.

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sempre antiche permanenze signorili, nuove enclaves familiari, presenze monastiche e diocesane spesso raccordate con le regioni finitime, centri demici ostili о in crescita, inframmettenze esterne, milanesi, francesi, age­ volate e sostenute dalle faziosità interne, senza contare le ostilità esterne con Pisa e Venezia e la stessa Corona d'Aragona, che arrivano a compromettere con subdole alleanze il quadro territoriale e pesano su tutto il panorama globale d'interesse genovese, alimentando traumi e verifiche interne. Difatti non si potrebbe spiegare la forza di Doria, Spinola, Grimaldi e Fieschi per tutta la durata del medioevo genovese - e poi la crescita di Adorno e Fregoso - se non si mettessero alle loro spalle i traffici in cui furono coinvolti e le terre sulle quali si sostennero, le pubbliche cariche gestite, la disponibilità dei fuoriusciti a farsi mercenari, sia pure d'alto livello, in relazione a potenze ostili. L'orchestrazione di queste voci, diversamente presenti ed incisive nell'area regionale a seconda del momento - costante è certo l'ostilità del Comune savonese, ma non meno ostili sono Del Carretto a Ponente e Malaspina a Levante - costituisce il costante contrappunto d'una voce ineliminabile, il mare, che complessivamente ruba forze umane, capitali, controllo. L'oltremare e l'oltremonti, fino al Nord, richiamano genovesi, savonesi, gente dell'entroterra, dalla Val Fontanabuona alla Val Bormida, e alessandrini, monferrini. La particolare conformazione del tessuto impervio e indominabile continua a favorire individualismi e lotte. La città .-^iùjprte è quella che, fissati punti strategici di controllo, riesce a gestire una sorta di dominio, raccordato ma non livellato: dominio gestito da funzionari, da famiglie, da castelli. Un'architettura composita che mai darà adito a una vera e propria formazione regionale»39. Al principio del secolo XVI la Liguria ha completato il suo doppio ciclo: dell'unità regionale e della genovesizzazione. Due processi, tuttavia, sempre imperfetti. L'unità del territorio non è mai totale: Oneglia appartiene ed apparterrà ai Savoia; Noli è e rimarrà una repubblica indipendente, almeno sotto il profilo giuridico. Né lo Stato genovese può dirsi unità organica ed omogenea: è, e resterà sino al 1797, una struttura composita di terre soggette a diversa condizione di diritto, ancora nella sostanziale situazione medievale del binomio di Genova e del suo Dominio. E tuttavia la Liguria ha raggiunto una fondamentale unità, direi quasi personalità. Antonio Ivani, il celebre umanista sarzanese del Quattrocento, delinea il quadro della Liguria secondo la visuale del suo tempo e descrive il carattere dei Liguri in contrapposizione a quello dei Toscani. G. AIRALDI cit., pp. 77-78.

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Ed un più modesto, ma simpatico autore popolare lunigianese dello stesso secolo, Giovanni Antonio di Faie, segna con acutezza le differenze che distinguono la gente della sua terra, tranquilla e posata, da quella della Liguria genovese, estrosa nei continui mutamenti, nelle vicende turbinose ed imprevedibili40. *

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«Terra e mare», «Vocazione locale e cosmopolitismo», «Genova ed antigenova»: ecco altrettanti temi essenziali nella storia della Liguria nel medioevo. Non mi rifaccio, per il primo, alla discussione circa la riduzione di Genova e dell'intera Liguria alla vita dei campi о nell'interno della cer­ chia cittadina durante l'alto medioevo; all'abbandono dello slancio mari­ naro, fuorché in un poco di pesca e di cabotaggio a brevissimo percorso. Penso piuttosto alla legislazione statutaria dei Comuni liguri del Due-trequattrocento, dove lo spazio che il mare occupa nei provvedimenti legislativi, direttamente od indirettamente, varia di non poco da un luogo all'altro. E poiché gli statuti riflettono l'organizzazione della vita nelle comunità, a cui essi si riferiscono, ci riesce per il loro tramite di penetrare nel panorama, assai diversificato, del quadro regionale. Si può dire allora che la Liguria interna, già appena più su dalla costa, è persistentemente terra di vigneti, di uliveti, di castagneti, di boschi, di pascoli; anzi che in essa è costante l'opera del pastino; che non mancano orti e frutteti; che si alleva il bestiame in mandrie, in greggi, in armenti. Epperò negli stessi centri costieri le attività marinaresche sono diversificate e più о meno sviluppate di luogo in luogo e di tempo in tempo. Un poco dappertutto si esercita l'arte della pesca41; ma, se si confrontano, ad 0

G. PISTARINO, Liguria. La storia, nel voi. miscellaneo «Liguria», Milano, 1967, pp. 7-32; ID., Liguria storica, in «Columbus 92», VI, n. 4 (45), Genova, aprile 1990, pp. 33-39; ID., Liguria, in «Lexikon des Mittelalters», V, fase. IX, München, 1991. 41 L. BALLETTO, // "miliarium" nel commercio del pesce del Mar Nero, in «Bulgaria Pontica Medii Aevi I, Premier symposium international, Nessèbre, 23-26 mai 1976», «Byzantino-bulgarica», VII, Sofia, 1981, pp. 205-213; EAD., Genova nel Duecento. Uomini nel porto e uomini sul mare, Genova, 1983; G. PISTARINO, La civiltà dei mestieri: pescatori in Liguria (secc. XIII-XV), in «Saggi e documenti III», Civico Istituto Colombiano. Studi e Testi. Serie Storica, 4, Genova, 1983, pp. 117-152; L. BALLETTO, Genova sul mare, in «La storia dei Genovesi», voi. V. Genova, 1985, pp. 345-375; EAD., Pesca e pescatori nella Cri­ mea genovese del secolo XV, in «Atti della Accademia Ligure di Scienze e Lettere», XLIII, Genova, 1988, pp. 189-199, e in «Bulgaria Pontica Medii Aevi II, Deuxième Symposium International, Nessèbre, 23-26 mai 1982», Sofia, 1988, pp. 280-297.

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esempio, gli statuti di Noli del secolo XIII, di Albenga del Due-trecento, di Portovenere nel secolo XIV, si rileverà come essa abbia maggiore incidenza nella prima e nella terza di queste località: probabilmente perché controbilanciata, nella seconda, dalle maggiori possibilità della produzione agraria nella fertile pianura albenganese, di fronte al panorama degli altri due centri abitati, a ridosso dei monti sul mare. Un po' dovunque in Liguria si costruiscono navi di vario tipo, e l'industria cantieristica si sviluppa in misura notevole nel decorso del tempo. Tuttavia si accentra in punti specifici, dov'essa è stimolata dalla richiesta per lo sviluppo locale dei commerci navali, dal corsarismo e dalla pirateria, ed è favorita dalle condizioni naturali di porti e porticcioli per il varo42. Oltre a Genova, penso soprattutto a Portovenere, a San Pier d'Arena, a Savona, a Noli, ad Albenga, a Ventimiglia ... In generale possiamo affermare che le attività marinaresche, ivi compresi naturalmente i traffici oltremarini, sono in subordine nel secolo XI rispetto alle attività agrarie e dei trasporti via terra; tengono invece il primo posto nell'economia della regione alla fine del medioevo, nel secolo XV. Se si vuole avere un'idea della disparità del loro processo di sviluppo da un luogo all'altro, basterà mettere a confronto Genova e Savona nella seconda metà del secolo XII, servendosi dei cartulari notarili di Giovanni Scriba per Genova43, di Arnaldo Cumano e Giovanni di Donato per Savona. Orbene, il primo, del 1154-64, già tutto echeggia di traffici marittimi anche a lunghissimo raggio, mentre il secondo, del 1178-88, riflette ancora in via prevalente le attività terrigene. Al tema «Terra e mare» è connaturata l'alternativa - se tale può definirsi - fra vocazione locale e cosmopolitismo, essendo evidente che i commerci per via mare, soprattutto se a lunga distanza, favoriscono, anzi stimolano, la visione globale del mondo. Però il fenomeno è anch'esso in relazione, in Liguria, col progresso nel tempo, cioè con l'incremento dei grandi centri marinari, Genova in prima linea. È interessante notare come l'impulso ad emigrare, in via temporanea о definitiva, verso terre lontane non riguardi, nella grande maggioranza dei casi, la destinazione L. GATTI, Costruzioni navali in LiguriafraXV e XVI secolo, Centro pér la storia della tecnica in Italia, [Genova], 1975, pp. 25-72; L. BALLETTO, / lavoratori nei cantieri navali (Liguria, secc. XH-XV), in «Artigiani e salariati: il mondo del lavoro nell'Italia dei secoli XII-XV. Atti del decimo convegno di studi tenuto a Pistoia nei giorni 9-13 ottobre 1981», 1984, pp. 103-153; G. PISTARINO, La civiltà dei mestieri: maestri d'ascia e calafati a Portovenere (sec. XIII), in «Studi in onore di Gino Barbieri. Problemi e metodi di storia economica», Pisa, 1983, vol. Ill, pp. 1237-1260. 43

M. CHIAUDANO - M. MORESCO, // cartolare di Giovanni Scriba, Torino, 1935.

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verso Paesi dell'interno europeo attraverso la via diretta dell'Oltremonti, ma persegua il miraggio delle terre d'Oltremare, donde poi magari si penetra nel cuore dell'Europa, com'è per quei genovesi e liguri che dal Mar Nero si spingono in Ungheria, in Polonia, in Germania nei secoli XIV e XV. Ragioni economiche e sociali stanno alla radice della vocazione cosmopolita, commiste talvolta all'irrequietezza del carattere personale, alla curiosità ed allo spirito di avventura, ad esigenze politiche, come pure alla necessità della fuga da situazioni difficili. Comunque, gli incentivi e, con essi, il trapasso di mentalità si riscontrano non soltanto nei grandi nuclei cittadini, ma anche tra gli uomini delle campagne, nei villaggi dell'interno, ovunque si estendano l'influenza e la suggestione della città. Pertanto troviamo con una certa frequenza nei Paesi d'Oltremare non soltanto genovesi e savonesi, ma anche abitanti dei borghi minori della costa e dell'interno. Né sono in prima linea esclusivamente Genova e Savona: anche Albenga, Noli, Ventimiglia nel Ponente, Chiavari, Sestri, Portovenere nel Levante esercitano la funzione di porta d'ingresso al mare, di via di transito verso orizzonti lontani, oltreché per i liguri, anche per i terrigeni della Val Padana, per i «terroni» del sud44, per gli oriundi di altre parti d'Italia (e non solo d'Italia), che subiscono la necessità od il richiamo dell'emigrazione. Meno incisivo o, meglio, meno vistoso, il fenomeno inverso: di stranieri e forestieri che immigrano in Liguria. Non alludo qui a coloro che pervengono a Genova ed anche in altri luoghi, come Ventimiglia, Noli, Savona, Portovenere, dall'area interna italiana; ma a quanti giungono dall'Oltremare. Nel primo caso si tratta di un fenomeno di vaste proporzioni, che consente a Genova l'immensa diaspora nel mondo mediterraneo, dal Mar Nero all'Atlantico. Nel secondo ci troviamo di fronte ad un fatto di minore incidenza, limitato per massima parte a Genova, ed in parte Sull'origine del vocabolo «terrone», già nel secolo XIV, conriferimentotoponímico alle dizioni del tipo di Terra di Lavoro, Terra d'Otranto, Terra di Bari, e, più genericamente, alla voce «terra», usata per indicare il centro abitato di campagna, cfr. G. PISTARINO, in «Cinquanťanni di storiografia medievistica italiana e sovietica. Gli insediamenti genovesi nel Mar Nero. Atti del Convegno Storico Italo-sovietico e della Tavola Rotonda, Genova, 1113 novembre 1976», Genova, 1982, pp. 310-311; ID., Sul vocabolo "terrone", in «Archivio Storico Sardo di Sassari», IX, 1983, pp. 201-204; F. ATTOMA PEPE, Terrone! in «A Compagna», XVI, n. 6, Genova, novembre-dicembre 1984, pp. 6-7. Resta da stabilire se il vocabolo indicasse allora gli oriundi del Mezzogiorno italiano oppure, semplicemente, alludesse alla gente di campagna, individualmente oppure per ascendenza familiare.

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più esigua anche a Savona, ma del tutto irrilevante altrove, e che concerne essenzialmente due categorie di basso livello sociale: gli schiavi ed i marinai45. Due Ligurie, dunque: Tuna radicata per secoli alla terra, come può essere la condizione di un contadino о di un pastore di Mendatica46; l'altra affascinata dal richiamo del mare, come può essere per il castrense od il burgense di Portovenere, anche quando le vie del mare sono precluse dall'imminenza dei saraceni sino a tutto il secolo X. La prima - la Liguria terrigena - prevale nel peso della bilancia sino alla metà del medioevo; la seconda - la Liguria cosmopolita - fa pendere il piatto dalla propria parte alla fine del periodo storico, nel secolo XV. È stato uno sviluppo progressivo, in una funzione della Liguria medievale che non va dimenticata nella prospettiva di una storia globale. Sotto sotto, a ben guardare, è connesso a questo quadro il terzo tema: «Genova e antigenova». Certo, nella tenace opposizione a Genova, che si trova favorita dalla posizione centrale nell'arco ligure e dal vasto retroterra italo-germanico, giocano le esigenze della concorrenza economica, insieme a motivazioni di prestigio e di potere, come quelle savonesi, ventimigliesi о delle stesse fazioni genovesi, di volta in volta, quasi a turno, cacciate in esilio. Ma non poca parte vi ebbero le signorie feudali dell'Ap­ pennino, annidate nei castelli, radicate alle tradizioni mentali ed effettuali della permanenza secolare in loco, dell'A/c et hunc, dell'imposizione di pedaggi о del frutto delle rapine di strada, dell'orizzonte limitato dalla cerchia dei monti, mentre il mare è un ignoto inconoscibile. Sommosse, rivolte, esplosioni improvvise di violenza, guerre locali: tolte, e non del tutto, Savona e Ventimiglia, le ripetute ostilità, che costellano la storia della Liguria medievale contro la supremazia genovese, sono quasi sistematicamente messe in atto о sostenute о favorite dall'elemento feudale che costituisce una tenace opposizione alla creazione dello Stato regionale ed alla stessa concezione degli orizzonti aperti. Il graduale pre­ valere di Genova in Liguria non fu soltanto la vittoria e l'imperativo sugli altri centri cittadini rivieraschi della regione, come Savona о Ventimiglia: V. SLESSAREV, / cosiddetti Orientali nella Genova del medioevo, in « Atti della So­ cietà Ligure di Storia Patria», VII, 1, pp. 39-85; L. BALLETTO, Stranieri e forestieri a Genova: schiavi e manomessi (secolo XV), in «Forestieri e stranieri nelle città basso-medievali. Atti del Seminario internazionale di Studio (Bagno a Ripoli - Firenze, 4-8 giugno 1984)», Firenze, 1987, pp. 263-283 (ed ivi bibliografia). 46 G. PISTARINO, Tra i manoscritti degli statuti di Mendatica, in «Paleographia Diplomatica et Archivistica. Studi in onore di Giulio Battelli», Roma, 1979, vol. Il, pp. 445-467.

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fu anche la graduale sua penetrazione politica, economica e militare, so­ ciale о «culturale» in borghi fortificati e castelli, con nuove fondazioni, come Chiavari, о con dedizione della gente del luogo, come a Gavi. Fu in modo particolare lo stimolo al mutamento di mentalità di signori e feudatari, maggiori e minori, sicché conti e visconti, marchesi, domini e visdomini, magari inurbati a forza entro le mura civiche, finirono per intraprendere anch'essi le vie del mare, si dedicarono alla mercatura, si rifecero al denaro sonante e non più alle rendite agrarie in natura. E viceversa, in un processo osmotico che si accentuò in progresso di tempo, ricchi mercanti di magari modestissima origine impegnarono i profitti della mercatura nell'acquisto di feudi e signorie, s'insediarono in castelli e palazzi padronali, e famiglie anche di rango secondario assursero al potere fondato sulla terra, come, ad esempio, i Fieschi nel Duecento ed i Campofregoso nel Quattrocento in Lunigiana. La mentalità è mutata; per rendersene conto, basterà confrontare, nei secoli XIV e XV, la Lunigiana ligure della costa con la Lunigiana feudale dell'interno. *

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Questa Liguria medievale vanta belle città, forti borghi murati, castelli talora pressocché inaccessibili. Non sto a ripetere e neppure ad elencare quanto si è detto su Genova: un giorno, ormai lontano, in una seduta di laurea, in cui un mio allievo ricordava nella sua tesi una delle tante descrizioni della Genova medievale, espressi l'auspicio che queste pagine genovesi di autori dell'epoca venissero raccolte ed offerte al pubblico in un unico volume; ed è poi comparso, nel 1978, il libro di Giovanna Petti Balbi, Genova medievale vista dai contemporanei. Perciò voglio qui limitarmi a qualche ricordo su altre località delle Riviere. Portovenere è l'unico centro abitato, accanto a Genova, che compaia nel Libro di Ruggero dell'arabo Al Idrisi del secolo XII, per quanto riguarda la Liguria. Ed «è fortilizio ragguardevole, popolato e ben munito»: dove ciò che ha colpito il viaggiatore islamico - ed egli lo esprime in modo icastico - sono l'entità della popolazione e le fortificazioni che ne fanno un luogo importante per la consistenza demica e come presidio militare, mentre non lo interessa la bellezza del paesaggio tra monti boschivi e mare splendente47. Anche l'Anonimo genovese del Due-trecento sottolinea un dato essenziale dal punto di vista pratico: Portovenere è «porto grande per 4/

p. 246.

U. RIZZITANO, // Libro di re Ruggero di Idrisi, Palermo, 1966; M.G. STASOLLA cit.,

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reposo, / contra ogni fortuna pjoso», vale a dire «un grande porto per la sosta, / protetto contro ogni fortunale». Più ampia e più distesa, com'è logico data la diversità dei tempi e dei temi, è nell'Anonimo la descrizione di Albenga: Albingana è bona citae s'eia vivesse in unitae. En bello logo è componua, de monti ben la vego drua e, segondo la Rivera, sol aver bona pescherà.

Albenga è una buona città se vivesse in concordia. È situata in un bel luogo, di tanti beni la vedo ricca e, vista la sua posizione sulla Riviera, suole avere buone attività pescherecce.

E monto viler se descenden che a la terra guagno renden. Dentro, de for, lo so terren vego esser pin de ogni ben.

E molti villici dell'entroterra vi scendono i quali contribuiscono alla prosperità della terra. Dentro e di fuori vedo che il suo terreto è pieno di ogni bene.

E monto ben è habitaa de gente ben acostumaa, che savi om son per ver e cortexi, a me parer.

Ed è molto bene abitata, da gente bene costumata, che sono in verità uomini savi e cortesi, secondo il mio parere.

Qui emergono la bellezza del luogo, la terra ricca e fertile, il mare pescoso, la folla dei villici che frequentano la città e concorrono alla sua ricchezza, i buoni costumi degli abitanti, la saggezza e la cortesia degli uomini48. Savona nel secolo XV: urbs magnifica, secondo la definizione dell'autore della «Collaudatio quedam urbis Genuensis» del primo Quattrocento; pulcherrima Saona, secondo Antonio Ivani nella seconda metà del secolo; urbs multorum populorum commercio nobilis, nella definizione di Iacopo Bracelli del 144849. Dove ciò che più incide sul visitatore sono la magnificenza dell'abitato e la frequenza dei traffici con tante genti diverse. Per Genova ho detto che tralascio le descrizioni: mi richiamo soltanto al giudizio di Giacomo Filippo Foresti, sulla fine del Quattrocento: «... solo in questa città sopra el mare de Liguria è el loco del comperare et vendere ogni mercantia. La quale città máximamente da 400 anni in qua, benché prima non fusse grosso castello, è stata grandissimamente accresciuta. Onde al presente, habiando acquistate gran forze et per rispecto 48

ANONIMO GENOVESE, Poesie, ediz. a cura di L. Cocrro, Roma, 1970, pp. 287, 478-480; ANONIMO GENOVESE, Le poesie storiche, ediz. a cura di J. NICOLAS, Genova, 1983, pp. 108-113, 144-145. 49 M. RiccHEBONO - С. VARALDO, Savona, Genova, 1983; G. PISTARINO, Pagine sul medioevo a Genova e in Liguria, Genova, 1983, pp. 93-106.

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del porto, de pallazzi superbissimi et case et molti altri ornamenti, in ciascuna cosa (excepto Venetia) tutte l'altre città maritime de Italia avanza et supera: et nelle battaglie per mare et navale è tanto industriosa et acuta in modo che per molti anni obtenne lo imperio del mare, et tutti li pyrati, cioè corsari del mare, spegneva»50. *

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A questo punto si prospettano alcune domande. Si può effettivamente parlare di una storia medievale della Liguria, non come artificiosa ricostruzione a posteriori, ma come realtà concreta del passato? In caso affermativo, dove se ne può cogliere la linea unitaria di fondo, in altre parole il tema costante di sviluppo? Ed ancora: quale ruolo svolse la Liguria nel quadro del medioevo euro-mediterraneo? Anzi: vi ebbe un proprio ruolo? C'è un dato di fatto che mi sembra indiscutibile. Se anche la costruzione storica va sotto il nome di Genova, in quanto Genova ne fu la matrice principale, ad essa contribuirono tutti i liguri: di Genova, della Riviera di Levante, della Riviera di Ponente, finanche dell'Oltregiogo. Senza il concorso dell'intera Liguria, in uomini ed in mezzi, non so se Genova sarebbe stata in grado di mettere in atto una così vasta Communitas, dall'Atlantico al Mar Nero, dal Nord-Africa all'Inghilterra. Gli storici si sono stupiti del fatto che una città, la quale nel momento della massima espansione demografica quattrocentesca raggiunse all'incirca gli 80.000 abitanti, nella migliore delle ipotesi i 100.000, sia riuscita ad espandersi ed a mantenersi in così largo orizzonte. Ma bisogna tenere presente che non fu la sola popolazione di Genova ad esprimere il cosiddetto impero genovese. A Pera come a Chilia o come a Caffa, a Siviglia come a Cadice о come a Lisbona, in Sicilia e nel Mezzogiorno come in Sardegna e come in Corsica, nelle Fiandre come a Southampton e come a Londra, i rivieraschi ed i liguri dell'Oltregiogo furono altrettanto numerosi, se non più, dei genovesi della città. Né si può dimenticare che non le sole navi genovesi - genovesi in senso stretto - solcavano i mari, in cerca di profitto о di avventura: ma anche i vascelli di Savona, di Albenga, di Ventimiglia, di Noli e di Portovenere, sia pure, spesso, sotto la tutela ed il nome di Genova. Voglio anzi ricordare che l'unica donna occidentale, di cui si sia accertata la sepoltura in Cina, nell'epoca dei più intensi rapporti medievali con l'Occidente, è Sul quadro culturale a Genova nel Quattrocento cfr. G.G. Musso, La cultura geno­ vese nell'età dell'umanesimo, Genova, 1985; G. AIRALDI cit., pp. 128-132.

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quella Caterina de Ilionis del fu Domenico, morta nel 1342, la cui lapide tombale si è ritrovata a Jang Ceu, non lungi da Nanchino, nel 1941, insieme con quella del fratello Antonio, defunto due anni più tardi51 : due fra i tanti genovesi del mondo medievale, emigrati e defunti in terre lontane. Il motivo unitario della storia della Liguria medievale non sta, dunque, soltanto nella costruzione dell'assetto regionale, dove finì per prevalere, ma in modo imperfetto, l'imperio di Genova, quanto nello slancio coerente, anche se non volutamente premeditato, nell'avventura dell'ignoto, verso la creazione di un modulo nuovo di vita marinara e mercantile che noi sogliamo definire come genovese, ma che in realtà è proprio e specifico dell'intera Liguria. Il secondo quesito: quale fu allora la funzione della Liguria nel grande quadro dell'Europa medievale? Molteplice e diversa di tempo in tempo, ma sempre essenziale. Ultimo presidio di Costantinopoli nell'Europa occidentale, sul Tirreno, essa garantì, sino alla metà circa del secolo VII, la libertà di movimento della flotta d'Oriente, a tutela della Sardegna e della Corsica; assicurò, più a lungo che altrove, nella restante Italia settentrionale, longobarda, la persistenza del diritto giustinianeo; garantì, contro la violenza della prima conquista di Alboino e dei suoi successori, la libertà della Chiesa ambrosiana e del culto cattolico. In Liguria vennero ad infrangersi ed a smorzarsi, tra un grande contributo di dolore e di sangue, le tremende incursioni saracene del secolo X, quando l'intera regione rappresentò l'estrema frontiera marittima meridionale dell'Europa della Corona sassone. Dalla Liguria, organizzata nelle tre marche di Berengario II e Adalberto nel 950-951, mosse la prima riscossa per la liberazione del Tirreno dall'ondata islamica. Qui si posero, all'incirca mille anni or sono, le premesse per un capovolgimento storico. Nel mutato clima del basso medioevo la Liguria fu il grande tramite fra il continente europeo ed il Mediterraneo, certamente quanto Venezia, rinserrata nell'Adriatico, se non più ancora. Un fiume ed un controfiume di merci, ricche e povere, attraversarono nell'uno e nell'altro senso la Liguria, facendone il tramite di comunicazione tra mondi lontani. Non fu solo tramite economico. Il medioevo deve alla Liguria nuovi ritrovati nella tecnica degli affari, nell'arte delle costruzioni navali e della 5

Gli Ilioni erano una famiglia genovese о della Riviera di Ponente, nota già nel secolo XII. Matteo de Ilionis fu uno dei due giuristi che intervennero nel processo di formazione delle Regulae di Gabriele Adorno del 1363 (l'altro fu Riccardo de Pessina)', fece parte di una commissione legislativa nel 1386 e del Collegio nel 1391, raggiungendo la carica di rettore nel 1402: G. PISTARINO, Genovesi d'Oriente, Genova, 1990, pp. 222-242.

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navigazione; un contributo essenziale allo sviluppo della cartografia; la prima idea di raggiungere l'Asia per la via dell'Atlantico, che fu dei Vivaldi, e la sua persistenza, che in Colombo portò alla scoperta americana. Il medioevo deve alla Liguria, tutta monti e mare, così aspra e così stretta, l'amore per lo spazio che i Genovesi cercarono d'infondere nei loro palazzi, con il gioco delle prospettive negli androni e nei giardini, e che spinse, già nel 1291, i fratelli Vivaldi oltre lo stretto di Gibilterra come spingerà Cristoforo Colombo sulla rotta dell'Atlantico. È stato rilevato che i Genovesi, mentre vantavano una singolare perizia nella geografia marittima, necessaria alla navigazione, erano altrettanto ignari di geografia continentale. Tuttavia Iacopo Doria non pone distinzione quando scrive, nella premessa ai suoi Annali, che «la città di Genova guarda dinanzi il mare e di dietro la terra» ed auspica, in essi, che «conosca la ventura posterità che a questi tempi la città di Genova (...) in terra e in mare su tutte le altre città d'Italia per onore, potenza e ricchezza rifulgeva». La coscienza e convinzione, diffuse ad ogni livello sociale a Genova ed in Liguria, che tutta la vita della città e della regione si protende nella sua grande possanza sul mare, è il filo conduttore della storia ligure nel basso medioevo52. E se ne rende interprete ancora nel primo Cinquecento l'anonimo autore del «Lamento di Genoa»: Io son quella che anchora sono e fui di tutto il mare bellicosa regina; io son quella trionfai per cui tremava ogn'omo andar per la marina.

V. POLONIO, L'amministrazione della "Res publica" genovese fra Tre e Quattrocento: VArchivio "Antico Comune", in "Atti della Società Ligure di Storia Patria", XVII. 1 (XCI), 1977.

III

GENOVA MEDIEVALE TRA ORIENTE E OCCIDENTE

Rielaborato dal saggio dallo stesso titolo in «Rivista Storica Italiana», LXXXI, 1969, fase. 1, pp. 44-73. Cfr. anche La Liguria nella storia d'Italia, in «Cultura e Scuola», Χ,.η. 40, pp. 85-94.

Nel luglio del 1097 dieci galere ed un sandalo, carichi di «fortissimi guerrieri», che hanno preso l'insegna della Croce, salpano da Genova per la Terrasanta. Approdati alla foce dell'Oronte, i crociati s'impadroniscono di San Simeone, porto di Antiochia; poi aiutano l'esercito cristiano, guidato da Boemondo d'Altavilla, a conquistare Antiochia stessa ed a difenderla da un contrattacco nemico, ottenendo, in compenso, con atto di donazione del 14 luglio 1098, la chiesa di San Giovanni con la piazza antistante, trenta case, un fondaco, un pozzo e i consueti privilegi di giurisdizione. Il Io giugno 1475 la flotta turca di Keduk Ahmet Pascià si presenta nel porto di Caffa di Crimea, la perla delle colonie genovesi nel mar Nero. Per sei giorni la città resiste ai colpi dell'artiglieria nemica; quindi si arrende. Una somma enorme fu raccolta dal vincitore come imposizione di guerra; 1500 giovani, strappati alle loro famiglie, vennero inviati a Costantinopoli per il corpo dei giannizzeri; parte degli abitanti fu deportata, mentre pochi ripararono nell'interno della regione russa; le chiese più belle andarono distrutte, le più umili diventarono moscheel. Nel 1113, su richiesta del vescovo di San Giacomo di Compostela, in Galizia, che va cercando chi sappia fabbricare una flotta per respingere le incursioni marittime saracene, parte da Genova Ogerio, con maestranze locali: costruisce due galere ad Iria Flavia, sull'Atlantico; le arma con duecento uomini e le guida ripetutamente alla vittoria sulle coste iberiche occidentali contro gl'infedeli2. Nel 1492, dopo la cacciata dell'Islam dall'ultimo ridotto di Granada, Cristoforo Colombo affronta la via verso il nuovo mondo, mentre nel 1498, approdando a Calicut, nel Malabar, Vasco de Gama, stupefatto, vi trova due mori che parlano genovese. Entro questi episodi, assunti al significato di limiti simbolici, corrono quattro secoli densi di fatti, ricchissimi di vita, i quali si pongono come il momento culminante della storia di Genova: il periodo in cui la Repubblica riveste il ruolo di potenza mondiale, assurgendo a quella funzione 1

G. PISTARINO, Genovesi d'Oriente, Genova, 1990, cap. VIII. L.T. BELGRANO, Sugli aiuti dei Pisani e Genovesi ai Galliziani nel 1113 e 1120, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», XV, 1881. 2

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mediterranea ed europea tra Oriente ed Occidente, che si annovera tra i fattori determinanti nella nascita e nello sviluppo della civiltà moderna. Genova fu conscia della propria missione e lo disse per bocca ďun suo figlio famoso, l'anonimo poeta due-trecentesco3: Zenoa è citae pinna de gente e de ogni ben fornia; con so porto a ra marina porto è de Lombardia. Guarnía è de streiti passi e de provo e de loitam, de montagne, forti xassi per no venir in otrui man: che nixum prince ni baron unca poé quela citae meteré in sugicacion ni trar de soa franchitae. En la quae sempre e tutavia abonda monto merchantia de Romarna e d'Otramar e da tuti li aotri logar. Lor navilio è sì grande che per tuto lo mar se spande. Sì riche van le navi soe che ben var d'atre, Tuna, doe. De gente è la citae sì spesa, che chi va entro per esa en canto gi conven andar chi so camin vor despazhar. Tanta è la gente strangera e de citae e de rivera con lengni grossi e menui chi de cosa venen drui; ognumchana dì, serra e matin, tropo è carchao quelo camin.

Genova è una città piena di gente e fornita di ogni bene; con il suo porto di mare è porta di Lombardia È difesa da stretti passi, e da vicino e da lontano da montagne, forti rupi per non cadere in mano altrui: che nessun principe о barone poté mai soggiogare questa città né privarla della sua libertà. In essa sempre e continuamente abbonda molta mercanzia di Romania e d'Oltremare e di tutti gli altri luoghi. La loro flotta è così grande che naviga per tutto il mare; le sue navi sono così ricche che una vale due delle altre. La città è così affollata di gente che chi entra in essa e vuol fare la sua strada deve camminare di traverso. Tanto numerose sono le persone straniere, sia in città sia lungo la costa, con navi piccole e grandi che giungono cariche di mercanzie, che tutti i giorni, mattino e sera, le strade sono molto affollate.

ANONIMO GENOVESE, Le poesie storiche, testo NICOLAS, Genova, 1983, pp. 18-19, 22-23, 28-29, 30-31.

e versione italiana a cura di JEAN

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La storia genovese nel basso medioevo presenta caratteristiche originali, che ne fanno una vicenda tutta particolare, non facile da penetrare nei suoi motivi più profondi, da cogliere nelle sue vaste componenti, da giudicare circa il posto ch'essa occupa nel quadro generale di quel periodo. Donde la relativa frequenza, in una lunga tradizione storiografica e culturale, di riserve più о meno gravi, di condanne velate od esplicite, di luoghi comuni negativi. Si depreca talvolta l'incompiuta formazione dello Stato regionale, quasi che, distratta da problemi esterni di espansione «coloniale», la Re­ pubblica non abbia adempiuto ad un suo preciso e precipuo compito sto­ rico, lasciando sussistere in Liguria ancora per tutta, о quasi tutta, l'età moderna, non solo paesi di antica о recente feudalità, come i castelli dei Malaspina, dei Bosco, dei Del Carretto, dei Grimaldi, dei Fieschi, dei Doria, degli Spinola, ma anche, specie nell'Oltregiogo e nel Ponente, possessi stranieri e staterelli autonomi о semiautonomi, di più о meno lunga vita­ lità, che rompono l'unità geografico-politica del Dominio della Superba: la contea di Ronco, il governo consolare di Noli, il marchesato del Finale, il feudo di Loano, il principato di Oneglia, le terre sabaude di Villafranca e Nizza, la signoria, poi principato, di Monaco. Si lamenta l'insensibilità dei Genovesi verso certi temi ideali, la quale fa sì che Genova, organizzata a libero Comune, non esiti nel secolo XII ad affiancare le forze feudali della costa occitanica, dalla Provenza alla Catalogna, contro le insorgenti aspirazioni autonomistiche della borghesia locale; che Genova cristiana pratichi non di rado una politica filo-islamica in opposizione al cristiano Impero bizantino ed alla cristianissima Venezia e che Genova repubblicana accetti ripetutamente, nel Tre e nel Quattrocento, la signoria milanese о del re di Francia. Si parla di politica polivalente, per non dire ambigua, per cui spesso Genova, nei conflitti che non la colpiscono direttamente, ma in qualche modo la coinvolgono, si mantiene in equilibrio tra i contendenti, senza prendere posizione aperta per l'uno о per l'altro, come quando, nell'età di Federico Barbarossa, approfittando della sua posizione privilegiata di potenza marittima, riesce a destreggiarsi tra il papa, la Lega lombarda e l'Impero sino ad ottenere quasi contemporaneamente, nel 1162, i favori della Chiesa e dello Svevo. Si sottolinea lo scarso senso dello Stato, che è proprio dei cittadini genovesi: donde, tra motivi tanto deprecati, la lotta per il potere, che lacera

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le grandi famiglie locali; l'azione di governo esercitata in funzione della consorteria che di volta in volta detiene le redini della cosa pubblica; la commistione tra pratiche, finanze ed interessi pubblici e faccende private come fatto più normale che eccezionale. E stupisce che in una potenza marittima, qual è Genova, l'onere delle imprese militari navali ricada spesso sulle spalle dei privati armatori, i quali conducono le operazioni belliche per conto proprio e, insieme, del Comune, con il vantaggio per sé, secondo i casi, del bottino di guerra, dello sfruttamento economico della terra di conquista, delle basi di appoggio ottenute nel paese straniero. Al tempo stesso, colpisce la frequenza degli atteggiamenti agnostici del governo comunale in questioni delicate, nelle quali esso lascia il gravame delle iniziative e delle decisioni alla responsabilità dei cittadini più direttamente interessati, in modo da non sentirsene vincolato e non essere chiamato a risponderne. Così, ad esempio, nel problema di Chio, che, tolta all'Impero greco dalla spedizione di Simone Vignoso nel 1346, venne poi riconosciuta alla sovranità imperiale di Costantinopoli dai componenti della Maona, senza oneri per la Repubblica. Così, nel caso più tipico ancora delle trattative dei coloni di Pera-Galata con Maometto II dopo la caduta della capitale greca nel 1453, condotte senza l'intervento del podestà, il quale non volle «in aliquo se intromittere bona de causa», sicché «omnia facta fuerunt nomine burgensium»4. *

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In realtà, la storia di Genova va considerata ad un livello suo proprio, da un punto di vista peculiare, in cui gli elementi, che paiono negativi, si chiariscono e si giustificano entro un quadro più aperto, secondo considerazioni rispondenti a dati oggettivi. Stretti fra il monte ed il mare, in una terra aspra e poco produttiva, che è il campo ideale per le formazioni feudali dell'alto e ancora del tardo medioevo, impediti nell'espansione verso la vai Padana dalle signorie dei Monferrato e dei Savoia, dall'attività dei comuni di Pavia, di Tortona, di Asti, poi di Alessandria, i Genovesi, che si affacciano all'orizzonte del secondo millennio, trovano aperte davanti a sé solo le vie del Mediterraneo. La loro vocazione, conscia od inconscia, non è la costituzione dello Stato regionale ligure, ma è qualcosa di diverso, di assai più vasto ed imponente, per cui l'unificazione territoriale 4 G. OLGIATI, Angelo Giovanni Lomellino: attività politica e mercantile dell'ultimo podestà di Pera, in «La storia dei Genovesi», IX, 1989, pp. 194-196.

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da Portovenere a Monaco viene condotta innanzi e compiuta per quel tanto che basti, - in rapporto all'enorme sforzo che essa comporta in una terra così difficile, - all'attuazione del grande disegno. Siamo nella prospettiva che l'Anonimo del secolo XIV ha delineato alla perfezione in quattro famosissimi versi: E tanti sun li Zenoexi e per lo mondo sì destexi che und'eli van e stan un'atra Zenoa gè fan5. Siamo cioè di fronte alla costituzione di una Communitas, una sorta di «commonwealth»: d'una comunità mediterranea, con ampie propaggini, in progresso di tempo, fino all'Europa del nord; di quello che si chiama l'impero coloniale di Genova, e che tale non è in senso stretto, sia per l'esiguità dei suoi domini territoriali diretti, sia per la peculiarità delle sue strutture politiche ed amministrative, sia per la stessa posizione giuridica dei suoi stabilimenti d'oltremare nei riguardi tanto della madre-patria quanto dei governi locali. La storia di Genova medievale è la storia d'una grande famiglia, d'un complesso vario ed articolato, in cui gl'insediamenti genovesi di Chio nell'Egeo, о di Focea sulla costa anatolica, di Pera-Galata entro Costanti­ nopoli, di Caffa nel Mar Nero о di Tana nel Mare d'Azov, gl'interventi nel mondo tartaro e russo, i nuclei mercantili nelle città occitaniche ed iberiche, le cosiddette colonie in Sicilia, sulle coste nord-africane, a Cipro, i centri del tipo di Bonifacio e di Castellombardo in Corsica, di Oristano, di Porto Genovese e di Alghero in Sardegna, le case commerciali in Francia, in Borgogna, nelle Fiandre, in Inghilterra, le private posizioni dei singoli nei paesi danubiani e in Polonia sono «un'altra Genova»: elementi essenziali e congeniali alla madre-patria forse più ancora di quanto possano esserlo, fatta qualche eccezione, le città ed i borghi delle due Riviere. Tra Savona indomita e Ventimiglia ribelle, tra Monaco, nido di fuorusciti, ed i feudi, antichi e nuovi, che controllano i passi dell'Appennino, la Liguria, come regione storica, frutto dell'organizzazione della Repubblica genovese, nei confini entro cui oggi la consideriamo, è il punto d'arrivo d'una conquista lenta e faticosa, quale risultato, però, secondario e complementare, - in funzione soprattutto dell'espansionismo marittimo e dell'eliminazione della concorrenza, - di quelle che furono invece la meta 5

ANONIMO GENOVESE cit., pp. 28-29.

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originaria e costante, la realtà oggettiva della Genova medievale: la formazione, lo sviluppo e la salvaguardia d'un vasto complesso economico o, se vogliamo, economico-politico, costruito sul mare, con i caposaldi in Genova stessa e nei maggiori centri costieri dell'Occitania e della Spagna, della Corsica e della Sardegna, della Sicilia e del Nord-Africa, dell'Anatolia turca e dell'Impero bizantino, fino alle propaggini nel Mar Nero e nel Mare d'Azov, nel Kipciak, in Persia ed in Moscovia, in Ungheria ed in Polonia, e, per altro verso, con la rete atlantica di punti d'appoggio dal Marocco e dal Portogallo alle Fiandre e all'Inghilterra. Basta pensare che i Genovesi si affermano, sia pure con modalità ed in condizioni diverse, in Terrasanta prima che a Portovenere, sulle coste provenzali e linguadochiane prima che nei maggiori centri della Riviera di Ponente, per rendersi conto che il tema dello Stato regionale, organico, burocratico, a cui Genova non avrebbe debitamente soddisfatto, è un postulato seriore dello storico moderno, non un'esigenza od un fine della Genova medievale. La storia della quale, in sostanza, non trova la sua esatta collocazione nel quadro prettamente italiano, da cui si stacca ed esorbita per larga parte; non riceve la sua motivazione più pertinente dal motivo conduttore dello sviluppo nazionale, che le rimane estraneo per diversi aspetti. Appartata e quasi isolata nella cerchia appenninica; interessata al retroterra solo per riguardo ai propri tramiti vitali od in forza di avvenimenti esterni; avendo straniere, spesso nemiche, Pisa e Venezia, quanto e forse ancora più che Barcellona, Genova elabora un suo sistema organizzativo, fondato sul pragmatismo di esperienze progressive, una sua civiltà, peculiare nella cultura e nel linguaggio, nei moduli di vita e nel carattere degli uomini: un sistema ed una civiltà nei quali la mediazione fra il substrato della tradizione locale e gli apporti esterni, soprattutto lungo le vie marittime, assurge a motivo internazionale, nell'ambito comunitario della «Romania e d'Otramar» e di «tuti li aotri logar». Come il tentativo di tradurre nella visualità coloristica d'una carta geopolitica la consistenza della comunità genovese, cercando di tracciarne i confini in tre parti del mondo e di classificarne la struttura, composita ed organica al tempo stesso, sarebbe impresa inadeguata alla sua realtà profonda, perennemente mutevole, così il proposito di considerare le vicende di Genova nell'ambito municipale о regionale significherebbe alterarne le pro­ spettive, eluderne i problemi, ridurne il racconto ad una pagina di cronaca. *

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Dunque: una storia di Genova che è, in realtà, la storia d'una consorteria mediterranea in senso lato, in cui la madre-patria e le «colonie»

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s'integrano a vicenda sullo stesso piano di validità, agiscono di conserva, talvolta in antitesi, a seconda delle esigenze locali e della dialettica del momento, sempre in funzione, tuttavia, d'una logica costruttiva. Una storia che non può tracciarsi col metro territoriale; che non conosce conquiste, se non in misura limitatissima, strettamente indispensabile al disegno di fondo. Da un lato, verso il Levante, la trama è troppo vasta e le linee di collegamento sono troppo lunghe, - dal Mar Ligure al Mare d'Azov perché Genova possa pensare, come fa invece Venezia, ben più prossima al tramite fra l'Oriente ed il cuore d'Europa, ad una catena di domini diretti lungo i percorsi delle proprie navi e dei propri mercanti; dall'altro, in Occidente, le forze contrapposte, о che si opporrebbero, dalle monar­ chie nazionali d'Aragona, di Castiglia, di Portogallo al regno di Sicilia, ai principati islamici del Nord-Africa, per non parlare della Francia о dell'In­ ghilterra, sono troppo valide perché il Comune possa illudersi di riuscire ad acquisti territoriali attraverso contrasti e conflitti logoranti ed incerti. Di qui il carattere strettamente economico della Communitas genovese, nella quale gl'insediamenti, di qualunque tipo, in paese straniero hanno la semplice funzione di supporto alle operazioni mercantili; le strutture dello Stato si articolano, per non dire si limitano, e si modificano, per non dire si alterano, secondo lo sviluppo ed il mutare delle correnti del traffico e delle esigenze del mercato; le necessità militari, terrestri e navali, esistono in ragione dell'utile diretto e dell'iniziativa privata, che vi provvede con mezzi propri, là dove ne ravvisa l'opportunità. La forza di Genova è la forza d'un gigantesco accumulo di capitale che crea una fitta rete di scambi sul mare, con prolungamenti lungo i maggiori percorsi terrestri, e cerca, di volta in volta, l'impiego più redditizio nell'area geografica aperta alle sue possibilità: non è un semplice caso il fatto che la monetazione aurea genovese sia pressoché contemporanea, nel 1252, a quella fiorentina, о che si sia ritrovato a Genova il più antico documento assicurativo, datato al 1347. Si tratta, beninteso, d'un capitale privato, ma del quale tutti partecipano, chi in maggiore chi in minore misura: dalle grandi famiglie dei Mallone, dei Della Volta, dei Piccamiglio, degli Spinola, dei Doria, dei Grimaldi, dei Fieschi, dei Fregoso, degli Adorno, dei Centurione, dei Lomellini, dei Negrone, alle chiese ed ai monasteri cittadini, al medio e piccolo mercante, al modesto artigiano. Un capitale che, ad un certo momento, è lo Stato stesso, non soltanto perché pone la «Compagna» alla base della genesi del Comune; ma perché esprime ed impone di continuo le proprie esigenze nella politica interna ed estera della Repubblica; assicura la sopravvivenza delle

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istituzioni nella crisi perenne delle pubbliche finanze; permea di ragioni utilitarie tanto i riflessi delle grandi lotte politiche tra Papato e Impero, guelfismo e ghibellinismo, quanto i conflitti di parte tra famiglie e famiglie: dà vita ad organizzazioni privatistiche, - le Maone, le Compere, il Banco di San Giorgio, - che superano, per capacità d'intervento, il livello e le possibilità del bilancio comunale. In una struttura siffatta, in cui il potere politico si configura sul potere economico e lo Stato esiste come confluenza d'interessi privati; in cui la nobiltà è aristocrazia del denaro e l'osmosi tra le classi sociali, in base alle ragioni finanziarie, rappresenta un fenomeno normale; in cui al ricorrente urto politico, economico e militare di Pisa, dei Catalani, di Venezia, dell'Impero d'Occidente e delle monarchie europee, del declinante Impero di Costantinopoli e del nascente Impero turco о delle irrequiete signorie tartare, è necessario coadiuvare о sostituire l'azione delle armi, secondo i casi, con l'abilità manovriera del denaro, riesce forse ozioso chiedersi se Genova sia stata intimamente guelfa о ghibellina, oppure, in altro più ampio raggio, idealmentefilo-bizantinaо filo-turca; è certo ingiusto rimproverare abdicazioni politiche dinanzi a Milano ed alla Francia, cedimenti morali di fronte all'Islam, incertezze ed acquiescenze verso i principati iberici e nord-africani o i sovrani inglesi. La mobilità, l'adattabilità, la polivalenza, la spregiudicatezza - se vogliamo usare questo termine - della politica genovese nascono da quello che è il suo fine essenziale, al di là di ogni postulato ideologico, l'esigenza sine qua non dell'esistenza stessa dello Stato: la salvaguardia d'un capitale, irradiato su tutta l'area del Mediterraneo, - con profonde puntate africane, asiatiche ed europee, - che costituisce il risultato di lunghe fatiche per terra e per mare, di coraggiose migrazioni in paesi stranieri, talora di bagni di sangue in moti xenofobi locali. Tutta una serie d'impulsi, di azioni, di ripercussioni, provenienti da ogni punto della comunità genovese, determina di volta in volta la politica della Repubblica, e può indurre lo storico a giudizi errati, di fronte ad apparenti contraddittorietà. Se lo sviluppo delle città costiere dell'Occitania minaccia il monopolio dei traffici, Genova non può fare altro che sostenere le forze feudali del luogo nell'azione d'infrenamento delle nascenti borghesie indigene. Quando Raimondo Berengario IV di Barcellona ed Alfonso VII di Castiglia organizzano la crociata contro i pirati di Almeria ed il regno di Valencia, о Alfonso I di Catalogna-Aragona e Raimondo V di Tolosa si battono per il dominio sull'Occitania, i Genovesi sono forzati ad intervenire, con aperture e rotture di alleanza, guerre e paci improv­ vise, a salvaguardia d'interessi attuali, о sperati, sulle rotte occidentali.

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Allorché Venezia s'insedia nell'Impero Latino d'Oriente, a Genova non resta che legarsi ai Greci di Nicea; quando i Veneziani si accostano a Costantinopoli ortodossa ed il Turco s'erge possente in Anatolia, a Genova non rimane altra scelta, pena il suicidio, che avvicinarsi all'Islam. E se i Tartari di Marnai sono in guerra con la Moscovia cristiana, i Genovesi devono optare per i primi, sia pure con discreto intervento, per la tutela degli stabilimenti di Crimea e della grande carovaniera orientale. Nell'incertezza della lotta tra il papato e gli S ve vi, la lega comunale guelfa e quella ghibellina, ciascuno dei quali è in grado di esercitare una decisa pressione finanziaria sugl'investimenti genovesi nella propria area di mercato, - ma non v'è, naturalmente, possibilità di dubbio sulla scelta tra gl'interessi nella Sicilia di Federico II ed i vantaggi prospettati dall'elezione di Sinibaldo Fieschi al solio papale, о addirittura tra le fazioni della Chiesa lacerata dal Grande Scisma -, lo sforzo di Genova per la neutra­ lità e per l'equilibrio о per il bilanciamento tra le parti è condotto sino al limite del possibile, ora grazie all'abilità diplomatica degli organi di governo, ora attraverso gli opposti schieramenti cittadini. Le lotte interne dei quali, condannate già dagli annalisti contemporanei e da osservatori stranieri, come Pero Tafur, riescono in realtà anch'esse al risultato, sostanzialmente positivo, di assicurare la tutela e la continuità del complesso capitalistico sul quale si fonda lo Stato, di fronte al quadro, estremamente mobile, instabile, fluttuante, dei rapporti internazionali negli ultimi secoli del medioevo, e all'esigenza di adattarsi con la massima spregiudicatezza alla continua varietà e labilità delle situazioni. La Francia e Milano, con le loro varie signorie su Genova nel Tre e nel Quattrocento, entrano nello stesso gioco: l'insediamento d'un presidio forestiero in Castelletto, contro il corrispettivo della salvaguardia, anzi del possibile incremento degl'interessi genovesi sui mercati francese e provenzale, milanese e padano. Nell'ampiezza dei temi e nella mobilità delle situazioni l'efficienza del sistema, che consente la polivalenza e le contemporanee contraddizioni in sede politica, è connaturata ad una particolare configurazione tanto della economia della collettività quanto della personalità del singolo. Una struttura articolata e pluralistica propone necessariamente la risoluzione dei problemi di governo, in senso ampio, ora alla comunità intera, ora, secondo i casi, alla competenza ed alla responsabilità dei gruppi, sia in virtù dell'interesse dei medesimi, che deve tutelarsi nel quadro globale, sia in ragione delle loro specifiche attitudini, sia in omaggio al concetto stesso della libertà d'iniziativa, che sta alla base d'una società mercantile. Una personalità completa del cittadino, - qual è richiesta dalla totalità dell'impegno, dalla necessità, per lui, di operare in ogni evenienza, - comporta

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che, ad un certo livello, il mercante sia anche uomo di cultura, diplomatico e soldato, grazie ad un'educazione adeguata in ogni campo, sì ch'egli possa presentarsi all'occorrenza in vesti diverse, come il celebre Caffaro, cronista, negoziatore, combattente. Nel fondo d'una siffatta complessa e concreta individualità sociale e personale trovano il punto di convergenza motivi in apparenza eterogenei о antitetici: l'universale predisposizione al lucro, - donde il motto «Ianuensis ergo mercator» - tanto nel minuto commercio del bottegaio quanto nelle imprese monopolistiche dei massimi mercatores; l'umana vigoria degli annalisti, impegnati nel primo esperi­ mento d'una storiografia ufficiale laica; la perizia giuridica dei notai, sui quali si regge la vita contrattuale privata come la pubblica amministra­ zione; la valentia degli uomini di mare, imbarcati in viaggi avventurosi su navi onerarie, pronte a trasformarsi all'occorrenza in legni da guerra; l'abilità famosa degli arcieri e dei balestrieri, che troviamo all'azione nei luoghi più impensati, in una storia ancora tutta da scrivere. A questo punto del nostro discorso l'invettiva di Dante ai «Genovesi, uomini diversi d'ogni costume e pien d'ogni magagna», si chiarisce nelle sue motivazioni reali, acquistando in sede storica, nel distacco del tempo, un significato positivo, che l'asprezza del giudizio, propria della passione contingente, rende ancora più valido. Non v'è dubbio su quale sia l'origine dell'avversione del Poeta per questa gente dall'ostica favella, che, operando in un proprio complesso di livello internazionale, viene sostanzialmente ad estraniarsi dal processo ideale della patria italiana, mentre contraddice, in ragione delle componenti della sua comunità estranee al mondo italo-germanico, al disegno della restaurazione dell'Impero feudale. Ma soprattutto, echeggiando un'ostilità largamente diffusa negli ambienti economici e nei ceti sociali minacciati о colpiti dal dinamismo del capitale genovese, essa esprime l'incomprensione o, meglio, l'angoscia del pensa­ tore fermo all'idea patriarcale della «virtù»; del sognatore nostalgico dei moduli della civiltà cortese, tipici dell'Europa agraria; del credente ligio al rigore della propria fede ed ancorato al concetto cristiano dell'usura, di fronte a questi mercanti in senso totale, che corrono per i mari fra il commercio e la pirateria, trafficano con eretici ed infedeli ad onta о in deroga dei divieti papali, praticano l'interesse del 6, del 12, del 20, del 30 per cento, e, quando si pentono in punto di morte largendo lasciti a chiese ed ospedali, tornano esattamente a fare come prima, se la vita riprende. *

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Nella prospettiva, che abbiamo delineato, i termini di Oriente ed Oc­ cidente, con riferimento all'epicentro mediterraneo, entro il più ampio

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orizzonte europeo, africano ed asiatico, non costituiscono due momenti distinti e quasi antitetici, tra i quali Genova si muove con moto pendolare; ma sono gli aspetti intercomplementari d'un unico quadro, a cui i Genovesi guardano con interesse persistente. La differenza sta, semmai, in situazioni oggettive, che impongono un diverso ritmo alle possibilità d'intervento dei nostri mercanti e dei nostri marinai. L'Oriente, rappresentato dal mondo islamico dell'Egitto e dell'Anatolia, dall'Impero greco, dai khanati tartari del Kipciak e dalla Persia, in misura minore dalla Moldavia, dalla Transilvania, dalla Russia, dall'Ungheria, dalla Polonia, è certo l'area più ricca e vitale, con i tesori della civiltà asiatica, gl'itinerari terrestri e marittimi per il cuore dell'Asia, per l'India, per la Cina. Ma esso è anche il mondo in cui la cristianità si trova in regresso, specie a partire dalla seconda metà del secolo XIV, con la graduale riduzione dell'Impero bizantino fino alla caduta totale nel 1453: è un mondo che si viene chiudendo all'attività dei latini, dei genovesi in modo specifico, in conseguenza delle vicende lontane dei khanati mongoli e, più direttamente, della graduale instaurazione dell'Impero turco, il quale dapprima recide la via per il Bosforo, poi addirittura preclude l'area dell'Egeo e dello stesso Mediterraneo orientale. Certo è un mondo che, dal secolo XII all'inizio del XV, ha non solo il fasto della ricchezza, ma anche la reale consistenza d'un fervore economico pienamente in attivo. La storia del tardo medioevo, la rinascita dell'Europa, la formazione dell'età moderna gravitano per molta parte sull'Oriente e sugli scambi che fluiscono intensi fra l'Asia cinese, mongola, indiana, persiana e l'Occidente cristiano. Vie terrestri e vie marittime, sparpagliate a ventaglio sui favolosi paesi asiatici, confluiscono in quelle che sono le porte d'ingresso per l'Europa: il Mar Nero, il Bosforo e l'Egeo anatolico, la Terrasanta e la Piccola Armenia, il Mar Rosso ed Alessandria d'Egitto. L'Impero costantinopolitano, progressivamente mutilato dell'Anatolia a partire dal secolo XI, e ridotto ad economia prevalentemente agraria, l'Impero turco, in fase di formazione e di assestamento attraverso un'attività essenzialmente militare, non solo non sono più, nel primo caso, о non sono ancora, nel secondo, in grado di fungere da intermediari tra i paesi del sole che sorge ed i paesi del sole che tramonta; ma abbiso­ gnano essi stessi di energia vivificante. Hanno bisogno cioè di questi mercanti italiani, che non esitano ad imbarcarsi in viaggi della durata di mesi ed anni, sono disposti a rischiare il tutto per tutto, conoscono uomini e «piazze» d'ogni parte del mondo, parlano spesso due о tre lingue, com­ pilano manuali di commercio ed itinerari stradali, sono pronti ad assumere,

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quando è necessario, vesti ed usanze esotiche, a sposare od a prendere in concubinaggio donne indigene, ad adottare persino la religione acattolica del paese che li ospita. I genovesi individuano via via, con un processo di dilatazione progressiva, quali sono i punti-chiave di questa rete economica, attraverso cui le pietre preziose e le stoffe pregiate, le spezie ed ogni merce ricca reperibile, i prodotti alimentari e gli schiavi confluiscono sul mercato europeo. Con un gioco sottile, affidato all'intraprendenza personale, a cui segue, a distanza più о meno ravvicinata, l'attività diplomatica della Repubblica, vi si inseriscono da posizioni varie, inizialmente modeste, le quali però non tardano a rivelarsi come centri di forza di straordinario vigore. Tra il 1098 ed il 1110, in occasione della prima crociata, sono le città siriache, fenicie e palestinesi: Antiochia, Laodicea, Tortosa, Tripoli, Gibelletto, Beirut, Acri, Arsuf, Giaffa, Gerusalemme, tra le quali sopravviverà come testa di ponte, alla caduta del regno di Gerusalemme nel 1187, la fertile piazza di San Giovanni d'Acri, rimasta vitale fino alla seconda metà del Duecento. Poi, già nel corso dello stesso secolo XII, il campo si allarga о s'intensi­ fica ad Alessandria d'Egitto al sud, soprattutto a Costantinopoli al nord, là dove il famoso quartiere di Pera-Galata diventerà uno Stato entro lo Stato, giacché quel suo gruppo di mercanti sarà in grado, più d'una volta, d'influire sulle scelte politiche della madre-patria о d'imporsi allo stesso Impero greco. Nella stasi, per altro relativa, determinata dalla costituzione dell'Im­ pero Latino d'Oriente, assume un evidente significato il tentativo di pene­ trazione nel mondo turco d'Anatolia, di cui ci dà testimonianza la vicenda di Bonifacio di Castello che nel 1242 comanda un contingente franco al servizio dei signori d'Iconio. Ma soprattutto la politica di apertura verso lo spazio mongolo, inaugurata proprio da un papa genovese, Innocenzo IV, - la cui elezione non può disgiungersi dalla necessità per la Chiesa di garantirsi l'appoggio della flotta e della potenza economica di Genova contro Federico II, - non può separarsi, se non nelle intenzioni, almeno nei risultati, dalla ricerca di più lontani contatti con l'Oriente asiatico, che assicurino nuovi sbocchi ai capitali finanziari della madre-patria, dopo la caduta delle posizioni in Terrasanta ed oltre il predominio veneziano nell'Egeo. Non è privo di significato l'incontro di Giovanni di Pian del Carpine, di ritorno dalla missione al khan dei Mongoli, nel 1247, con un gruppo di commercianti italiani, soprattutto di Genova e di Venezia, insediatisi di recente a Kiev. Né lo è la comparsa, in documenti genovesi del 1257-59, delle prime menzioni della famosa seta della Cina ...

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Forse l'apertura di così vasti orizzonti, quali il mercante medievale non aveva mai conosciuto, deve annoverarsi tra i fattori che, dimostrando la sterilità delle preclusioni locali nell'area della Romania di fronte alla possibilità e necessità di unire le forze per nuove conquiste, determinarono il progressivo avvicinamento tra Venezia e Genova e la ripresa del commercio genovese verso Costantinopoli già nel corso della breve vita dell'Impero latino. È certo tuttavia che la ricostituzione dell'Impero greco con i Paleoioghi nel 1261 rappresenta il momento della massima esplosione, la diaspora levantina dei genovesi, i quali si moltiplicano di numero, di attività, di energie, indifferenti, anzi resistenti ai focolai di guerra che riprenderanno, nel mutare dei tempi, con Venezia e con i potentati indigeni: uomini tenaci di fronte a quei moti xenofobi dei greci, dei musulmani, dei tartari, che spesso distruggono, a ventate improvvise, fondaci e case e merci e vite umane; cercatori di ventura sempre preparati alla politica, ora amichevole, ora ostile, ora ambigua, di Costantinopoli, del Turco, del Kipciak. Non soltanto essi si rafforzano nel loro quartiere entro la capitale greca, ma anche dilagano per il Mar Nero, in quelli che diventano tosto i loro grandi scali di Trebisonda, di Amastri, di Vicina e di Chilia, di Caffa, di Tana alla foce del Don, là dove giunge la carovaniera asiatica della steppa. Soprattutto mettono le mani su due centri preziosi dell'Egeo: Focea, sulla costa anatolica, e l'isola di Chio, a poca distanza, in modo da assicurarsi il monopolio mondiale di due prodotti essenziali all'industria ed alla farmacopea medievali: l'allume ed il mastice. Completano il grande disegno gl'insediamenti ad Altologo nell'emirato di Teologo, a Laiazzo nella Piccola Armenia ed a Cipro, dove tra il 1365 ed il 1464 Genova tiene addirittura sotto protettorato i re dell'isola e donde essa può compensare la distruzione della sua colonia di San Giovanni d'Acri per opera veneziana nel 1258 e la successiva caduta della città in mano egizia nel 1291. Tutta una rete di centri costieri, nei quali si parla genovese, accompagna il mercante che veleggia nel Mediterraneo orientale, nell'Egeo, nel Mare di Marmara, nel Mar Nero, nel Mare d'Azov. Compagnie commerciali e consorterie familiari ne stringono in pugno le fila, insediandosi oltre mare, talora stabilmente; legandosi alle famiglie dei maggiorenti locali; assurgendo addirittura ad alte posizioni di comando e di prestigio, come nel Trecento gli Zaccaria di Chio ed i Gattilusio di Lesbo, imparentati, gli uni e gli altri, con la casa imperiale di Costantinopoli, o i Cattaneo di Focea, e nel secolo successivo i Ghisolfi di Matrega, Carlo Lomellini a Cembalo, Ilario de Marinis a Batiarium, i fratelli Senarega a Castrum Ilicis.

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Contemporaneamente solo la «politica del segreto», praticata dai Genovesi nel Levante, alla stessa guisa che dai Portoghesi nell'Atlantico, donde la mancanza, presso gli uni e presso gli altri, d'uno scrittore come Marco Polo, - c'impedisce d'approfondire il disegno d'un tentativo più vasto, a continuazione e sviluppo dell'opera di penetrazione verso il lontano Oriente, inaugurata intorno alla metà del Duecento. Quando vediamo salpare da Genova nel 1291 i fratelli Vivaldi alla ricerca d'una via per le Indie, la quale consenta di annullare lo sbarramento egiziano ad Alessandria, a Dannata, al Cairo; quando sappiamo che intorno allo stesso tempo i genovesi di Tabriz, favoriti dal khan di Persia, sembra meditassero di lanciare una flotta ad Ormuz e ad Aden per interrompere la via marittima tra l'India e l'Egitto; quando ci è noto che nel 1303 fu compilato, probabilmente a Genova, о in una colonia genovese del Levante, il codice Cumanico, contenente un dizionario latino-persiano-cumano ad uso dei missionari e dei mercanti; quando ci risulta che i genovesi nel Trecento spartivano coi missionari la fama di massimi conoscitori dell'India e della Cina, riteniamo d'intravvedere il profilo d'un ambizioso piano economico che, dalla rotta atlantica, come dalla Russia, dal Turkestan, dalla Persia, converge verso l'India e l'Estremo Oriente. Rientrano in quest'orizzonte, dopo quanto conosciamo sui genovesi a Kiev all'epoca di Giovanni di Pian del Carpine, l'esistenza della colo­ nia genovese a Tbilis in Georgia; la fioritura del commercio genovese a Tabriz, capitale della Persia, a Savastopoli, a Vosporo, a Matrega, in altri centri minori del Caucaso, dell'Abkhazia e della Circassia; le notizie di mercanti genovesi, о qualificatisi come tali, nelle partes Indiae nel 1315, a Thana, presso l'odierna Bombay, nel 1322, a Zaitun, in Cina nel 1326, ad Armalech, l'odierna Kulgia, nell'impero de Medio о del Giagatai, nel 1338, a Culam, in India, nel corso dei medesimi anni. Se anche si tratta solo, forse, d'una coincidenza nelle nostre infor­ mazioni, non tace poi in noi la tentazione di cercare un collegamento di significato tra gli sconvolgimenti che, a partire dalla metà circa del Trecento, intorbidano la vita dei khanati della Persia, del Kipciak, del Turkestan, del sultanato di Dehli, della stessa Cina, - in cui s'instaura la dinastia dei Ming, - precludendo ai nostri mercanti le vie per l'oceano Indiano e l'Estremo Oriente prima ancora dell'avvento turco a Costantinopoli, e l'apertura d'una nuova diaspora genovese verso i paesi della penisola balcanica e dell'Europa orientale.

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Nel 1336 Simone Doria è, prima, consigliere di Luigi d'Ungheria, poi ammiraglio del Regno, subentrando nella carica al genovese Baldassare de la Sorba, altri due membri della famiglia del quale sono, nello stesso volger di tempo, rispettivamente vicario delle Isole e conte di Spalato. Sulla fine del secolo Bartolomeo Doria compare come signore di Cherso, avendo per successore nel 1401 il fratello Ugolino. Nel 1306-36 troviamo, in Polonia, un Niccolò Manente nella carica di podestà di Vieliczka, e nel 1344-58 un Paolo Cavallo nell'ufficio di suppario di Bochnia. Tre altri membri della famiglia di quest'ultimo raggiungono posizioni ragguardevoli nella seconda metà del secolo: sono Giovanni, podestà di Bochnia; Andrea, podestà di Cracovia e suppario; Pietro, affittuario delle saline di Bochnia. Nella medesima epoca Goffredo Fatinanti fa parte del Consiglio della città di Cracovia, ove possiede case e magazzini, nella gestione dei quali lo aiuta il nipote Erasmo. E l'elenco potrebbe continuare nell'Europa dell'Est: con Francesco de Cante Ilo, che nel 1409 ottiene la cittadinanza di Leopoli ed è fornitore di vino della Real Casa; con Cristoforo e Battista Fraga, fornitori di vino al governatore della Moldavia; con quei genovesi che sono giudici a Leopoli a partire dal 1453, о quelli che in pieno Quattrocento esportano dal mercato ungherese rame e bestiame e v'importano prodotti tessili ed articoli di lusso. Allo stesso modo, seppure in direzione geografica opposta, ci lascia perplessi sull'eventualità che possa trattarsi d'un semplice fatto contingente, anziché d'un preciso disegno economico-politico, inteso a precorrere i progetti veneziani sul mar Rosso e quelli portoghesi verso il paese del Prete Gianni, una puntata in Africa orientale già sulle soglie dell'età moderna. Sappiamo che, quando nel 1482 frate Battista da Imola si recò in Etiopia per incarico di papa Sisto IV, trovò a Barară, nello Scioa, una decina di artigiani, fra cui alcuni genovesi; che, intorno al 1520, al­ lorché l'ambasceria lusitana di Rodrigo de Lima approdò in quel paese, una sessantina di mercanti, in maggioranza genovesi, erano colà insediati in posizione di sicurezza e di potere, grazie ai vincoli familiari contratti con gl'indigeni. Li aveva attirati il fascino del misterioso imperatore cristiano, i cui messaggi erano giunti più d'una volta in Occidente nel corso del Quattrocento? О non era piuttosto un nuovo tentativo su quelle vie del lontano Oriente, che l'Europa, minacciata dal Turco, affannosamente ricercava? Parrebbe di sì, se ricordiamo il viaggio, ora per terra ora per mare, di Girolamo Adorno e Girolamo di Santo Stefano, che sulla fine del secolo XV hanno percorso le strade orientali e, mentre l'uno è morto in India, a Pegù, il 7 dicembre 1496, l'altro è giunto fino a Sumatra.

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Non si tratta solo di merci e di mercanti. Il Levante mediterraneo, l'Oriente europeo, asiatico ed africano, con le loro complesse vicende, i loro contrasti di civiltà e di moduli di vita, offrono possibilità d'ogni sorta per chi abbia capacità e coraggio. Uomini di commercio e uomini di ventura salgono abilmente, con diversa fortuna, a posizioni di comando, come Alamanno da Costa, che nel 1204 s'impadronì di Siracusa e la tenne per diversi anni; о Leone Vetrano, che occupò Corfù nel 1206 e finì tosto impiccato dai Veneziani; о Enrico Pescatore, conte di Malta, che nel 12061211 ebbe il possesso di Creta. Per non parlare poi del celebre Benedetto Zaccaria, che nel 1289 cercò di fare di Tripoli di Siria un protettorato genovese, centro d'una coalizione tra Genova, Cipro, l'Armenia ciucia ed il khanato di Persia; o, riprendendo nomi già ricordati, degli Zaccaria di Chio, dei Cattaneo di Focea, dei Gattilusio di Lesbo, dei Ghisolfi di Matrega, di Carlo Lomellini a Cembalo, di Ilario de Marinis a Batiarium, dei fratelli Senarega a Castrum Ilicis. Uomini di ventura e uomini di commercio assurgono ad attività diplomatica di alto livello: pensiamo ad Ansaldo Mallone, che nel 1225 compì un'ambasceria per conto del re d'Inghilterra presso il sultano di Damasco, Nur al Din; al celebre Buscarello Ghisolfi, che nel 1289 guidò una delegazione del khan di Persia a papa Niccolò IV ed al re d'Inghilterra, nel 1292-93 fece parte con altri due della stessa famiglia, Corrado e Perei valle, dell'ambasceria di Galfredo di Langele al khan di Persia, nel 1303 condusse di nuovo gl'inviati di quel principe in Europa; ad Andalò di Savignone, che nel 1336 fu membro di un'ambasceria del gran kahn del Catai all'Occidente, tornando alla Cina, compiuta la missione, coi doni di papa Benedetto XII per quel sovrano, insieme al nuovo vescovo di Pechino, Giovanni de Marignolli; ad Andrea di Nascio, che guidò quella medesima ambasceria dal Catai6. Sono pirati e corsari, spesso divenuti tali per l'occasione, che fanno risuonare delle loro gesta le cronache del tempo: Megollo Lercari, che fra il 1314 ed il 1316 seminò il terrore nel mar Nero, battendo la stessa flotta bizantina; Luca Tarigo, che nel 1374 da Caffa risalì il corso del Don, trasportò per terra la nave sino al Volga, discese nel Caspio e, dopo una vasta operazione di saccheggio, rifece la strada a ritroso, a Tana ed a Caffa, salvando la migliore parte del bottino dagli attacchi dei Calmucchi; Luciano Gattilusio, della famiglia dei signori di Mitilene, il quale sulla G. PISTARINO, Genovesi d'Oriente, Genova, 1990, pp. 204-205.

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metà del Quattrocento giunse al comando d'una flotta di ventura, da lui stesso guidata ripetutamente all'arrembaggio in tutto il Mediterraneo; Gian Battista Aicardi detto Scarincio, che poco oltre la metà di quel secolo si appostava sulle rotte tra il mondo islamico e l'Italia, saccheggiando nemici ed amici, sicuro dell'aiuto e del rifugio offertigli sulle coste liguri, se non addirittura nella stessa Genova. Sono marinai, soldati, viaggiatori, che uniscono il desiderio del lucro allo spirito di avventura ed all'ansia del conoscere, dei quali vorremmo sapere di più, ma sui quali purtroppo la storia poco ci dice, sicché per uno, di cui è noto un accenno, molti rimangono nell'oblio. Chi sono quel Niccolò Doria che nell'ultimo quarto del Duecento si trova a capo della zecca dell'impero di Trebisonda, о l'anonimo commerciante che, nello stesso volger di tempo, lavora a Culam, in India? Donde provengono i mercanti che all'epoca di Marco Polo trafficano sul Mar Caspio, trasportandovi le navi dal Mar Nero attraverso il corso del Don e del Volga? Ed attraverso a quali avventure Caterina del fu Domenico de Ylionis ed il fratello Antonio giunsero in Cina, dove morirono e furono sepolti a Yang-ceu, Г una nel 1342 e l'altro nel 1344? Quali le vicende dei genovesi che nel 1380 com­ battono a fianco del khan del Kipciak, Marnai, contro il granduca Dimitri di Moscovia; o di quell'Antonio Reccagno che nel '400 è potente sul Mar Caspio? Al di sotto delle vicende dei singoli, dei fatti contingenti, delle notizie frammentarie ed incerte, le esigenze d'una formidabile vitalità, d'un dinamismo esplosivo, rappresentano il substrato comune di tanti eventi, noti ed ignoti. Ma poiché l'efficienza e la stessa sopravvivenza del sistema economico genovese nel Levante sono strettamente connesse alla possibilità di manovra sui diversi piani d'una situazione fluida, di cauto inserimento tra parti antagoniste da posizione di agnosticismo ideologico, d'insediamento immediato ovunque si manifesti un vuoto di potere, non v'è da stupirsi, e tanto meno da scandalizzarsi, di fronte alle conseguenze determinate dal mutare degli eventi e dalla necessità di porvi о tentare di porvi rime­ dio. Quando poi, rotto definitivamente l'equilibrio, la vicenda orientale appare segnata dall'inevitabile affermazione dell'Impero ottomano con la riunificazione dell'antico frammentato mondo bizantino in un nuovo Stato accentrato e dispotico, di fronte al pericolo estremo, che ciò comportava о poteva rappresentare per i privilegi genovesi, rimaneva solo il disperato tentativo di cercare l'accordo col vincitore. Così, se nel 1402, dopo la battaglia di Ankara, che segnò la sconfitta di Bajazet per opera di Tamerlano, sono proprio i Genovesi di Pera-Galata a salvare con le loro navi i resti delle truppe turche; se nel 1444, quando

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Giovanni Hunyadi ha battuto gli Ottomani a Nish e la flotta veneto-greca sbarra il passo dei Dardanelli, ancora i coloni genovesi di Pera-Galata aiutano l'esercito musulmano ďAsia ad eludere il blocco, permettendogli di conseguire la vittoria di Varna; se nel 1453, crollata Costantinopoli per mano di Maometto II, gli stessi genovesi peroti si affrettano ad inchinarsi di fronte al conquistatore; se in quel medesimo pieno secolo XV Francesco Draperio non esita nella scelta dei mezzi per assicurarsi il favore del sultano e, con esso, ricchi proventi nei commerci dell'Impero turco, tutto ciò non può essere oggetto di condanna in sede di giudizio storico, in nome di un astratto assolutismo morale. Nei momenti di crisi emergono in luce più tagliente, in tutta la loro amara concretezza, le esigenze della vita vissuta, la cruda realtà d'ogni giorno, la lotta per sopravvivere dinanzi al mutare degli eventi e delle fortune, che i Genovesi bene conoscevano e che sperimentarono duramente allorché, nel 1455 e nel 1462, avendo Maometto II ostacolato о impedito l'esportazione dell'allume da Focea e da Lesbo, di recente occupate, i tessitori ed i pellicciai della madre-patria furono costretti ad incrociare le braccia per mancanza di lavoro. Né bisogna dimenticare che di fronte a tutto questo stanno anche, sia pure attraverso comprensibili intenti economici, l'intervento di Genova alla quinta crociata, con la presa di Damietta nel 1219; la fornitura delle navi a Luigi IX di Francia per la crociata del 1248 e di parte della flotta per la crociata dei Principi inglesi del 1270-71; i molti genovesi che parteciparono alla vittoriosa battaglia navale di Algesiras nel 1342 sotto il comando di Manuele e Carlo Pessagno e di Egidio Boccanegra, rispettivamente per il Portogallo e per la Spagna, contro la flotta marocchina; la difesa di Costantinopoli da parte dei vascelli di Maurizio Cattaneo e dei soldati di Giovanni Giustiniani Longo, «saldo come un diamante al fuoco», nel 1453. *

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Da una parte, dunque, l'Oriente, ricco di colore e di vicende suggestive, talora drammatiche; dall'altra l'Occidente, meno evidenziato nello svolgimento dei fatti, meno valutato nell'importanza storica per il periodo che c'interessa. L'Occidente mediterraneo, nel quale si comprendono soprattutto il mondo musulmano dalla Tunisia, dall'Algeria, dal Marocco alla Spagna, e l'intera area occitanica, vede la cristianità in progresso grazie alla vittoriosa ripresa antiaraba di Genova e di Pisa nel secolo XI fin sulle coste

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dell'Africa, alla lunga Riconquista spagnola che finirà per cacciare l'Islam oltre Gibilterra. Vede però anche la formazione delle monarchie nazionali di Aragona, di Castiglia, di Portogallo e di Francia, in cui l'attività dei nostri mercanti deve adeguarsi al mutare delle prospettive, a mano a mano che le strutture centralizzatrici dello Stato s'instaurano sul territorio dipendente dalla Corona. È un mondo più povero e ristretto, perché immediatamente al di là si apre il buio dell'oceano, si profila il terrore dell'ignoto: un mondo cioè alle spalle del quale non sta, prima della scoperta americana, un forziere di ricchezze, e dal quale non è possibile sconfinare, oltre lo stretto di Gibilterra, se non per breve tratto lungo la costa africana del Marocco, о sulla via del nord, per la Francia, le Fiandre, l'Inghilterra. E ciò pone enormi problemi tecnici, economici, culturali: problemi di nuove costruzioni navali adatte alla navigazione atlantica, di nuove rotte cartografiche, di nuovi addestramenti di equipaggi; problemi della ricerca di mercati redditizi non solo nel campo delle merci pregiate, ma anche in quello delle merci povere; problemi d'inserimento in luoghi sconosciuti e di adeguamento a diversi orizzonti mentali di fronte alla concreta realtà di paesi avvolti nella leggenda о noti solo di seconda mano. Ma è anche un mondo che ha dinanzi a sé l'avvenire, con uno sviluppo inverso a quello del Levante. Nel Mediterraneo, quasi col movimento dei bracci d'una bilancia, al declino della Croce ed all'avanzata dell'Islam ad oriente corrisponde ad occidente il declino dell'Islam e l'avanzata della Croce; la caduta di Costantinopoli in mano musulmana precede di neppure quarant'anni la caduta di Granada in mano cristiana; e come la spinta degl'infedeli non si arresta sul Bosforo, ma tende a colpire il cuore dell'Europa attraverso la penisola balcanica, così la crociata non si esaurisce a Gibilterra, ma cerca, dalla penisola iberica, di aggirare alle spalle, attraverso il continente nero, lo schieramento della Mezzaluna. Per Genova, per i suoi commerci, per i suoi uomini d'affari e di ventura è anche qui un problema di aperture, di coesistenza, di equilibrio tra le parti. All'inizio, è vero, si tratta di acquistare respiro contro la stretta islamica, che incombe sulle Riviere; di aprire alle proprie navi le lunghe rotte verso i porti di tre mondi. Ma dopo il primo sforzo eroico, che risponde a un'imperiosa volontà di vita, - della spedizione del 1016, in unione con Pisa, contro il re delle Baleari, Mugahid; dell'impresa del 1087 contro Temin, sultano di Mehdia, insieme con Pisa, Gaeta, Salerno, Amalfi; dell'azione del 1092, ancora accanto a Pisa, in appoggio al re Alfonso VI di Castiglia contro i musulmani di Valencia; del tentato colpo di mano su Tortosa, nella Murcia, in unione con il re di Navarra ed il

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conte di Barcellona, nel 1093, l'accordo con l'Islam si pone come un'esigenza inderogabile, più ancora qui che nel Levante, non solo perché qui il contatto è più immediato, ma anche, anzi soprattutto, perché per l'intero corso del secolo XII gl'infedeli dominano le maggiori aree di mercato tra la Spagna e l'Africa, tengono in propria mano le chiavi di Gibilterra. Prima e forse più che ai suoi rapporti levantini Genova dovette a quelli con i musulmani d'Occidente talune peculiarità esotiche: la frequenza di voci arabe nel linguaggio marinaresco, negli usi onomastici e tra i toponimi urbani; la presenza in città d'interpreti di quella lingua e l'uso di «carte saraceniche»; gl'interessi culturali che indussero Simone Genovese ad occuparsi della traduzione del Liber de simplicì medicina di Ibn Sarabi e del Liber servitoris di Albucasis; infine, ma assai più tardi, la costruzione d'una moschea presso le mura cittadine. Che se poi la Genova medievale non assorbì e non riflesse nella propria civiltà un più spiccato colorismo di tipo orientale, ciò fu dovuto per gran parte, oltre che al conservatorismo proprio dei Liguri ed al loro ferreo carattere, anche alla situazione di resistenza e di riequilibrio, provocata dalla contemporanea imminenza, sempre più vasta e determinante, del Ponente cristiano, sospinto su posizioni intransigenti dal lungo conflitto con l'Islam. In sede politica è sintomatico, comunque, il fatto che - dopo le puntate iniziali nell'Occidente mediterraneo, con gl'insediamenti a Messina in Sicilia, un po' dovunque in Sardegna, nei vescovati settentrionali di Nebbio, Mariana ed Accia in Corsica, e con gli accordi con Barcellona e Narbona, tra l'inizio del secolo XII ed il 1133; come pure dopo le rinnovate imprese antisaraceniche a Bugia, ad Almeria, nel Garbo nel 1136 e 1137, e l'intervento nell'assedio di Salerno in quest'ultimo anno - Genova si ponga già, nei patti stretti con Fréjus, Antibes, Marsiglia, Hyères e Fos nel 1138, quale intermediaria e garante tra le proprie minori alleate ed il re del Marocco. Da un lato i Genovesi mirano ad assicurarsi l'esclusiva del mercato africano; dall'altro intendono garantirsi le posizioni-chiave sulla costa occitanica, là dove sfociano i traffici dell'interno, sia per svolgere, con largo profitto, il ruolo di mediatori tra il nord ed il sud del Mediterraneo occidentale, sia per impedire la costituzione d'un grande Stato costiero dalle Alpi a Barcellona, secondo quelle che furono le aspirazioni ora dei conti di Barcellona, ora dei conti di Tolosa. Ma forse il disegno era più vasto. Bloccando in mano loro l'Occidente marittimo, nei suoi due poli opposti, dall' Occitania al Nord-Africa, per tessere fitte trame di commercio da una posizione di forza, essi sembrano perseguire l'intento lontano di fare di quel mare un proprio lago,

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neutralizzando ed inglobandovi Pisa ed i Normanni, la Provenza e la Linguadoca, la Spagna cristiana e la Spagna islamica, fino all'Africa settentrionale. Era la stessa politica che Genova attuava in quegli anni, su scala minore, nella formazione del Dominio sulle Riviere: superare d'un balzo gran tratto di spazio, addentare un brano di costa in posizione essenziale, creare successivamente, con puntate intermedie, il tessuto connettivo. Di qui l'intervento a Montpellier nel 1142-43, con le condizioni di favore ottenute presso il conte Guglielmo VI. Di qui, soprattutto, la crociata di Spagna, che vede i Genovesi schierati al fianco del re di Castiglia e del conte-principe di Barcellona-Aragona tra il 1147 ed il 1148, per la conquista di Almeria e di Tortosa, nella quale emerge chiaramente lo scopo di costituire un sistema di appoggi costieri che assicurino la continuità dell'egemonia economica, fors'anche ad un certo momento con finalità più esplicitamente politiche, tra la madre-patria ed il continente nero. Se poi si pone mente al rapporto cronologico con la seconda crociata nel Levante, non può escludersi che il particolare progetto genovese s'inserisse in^ün più vasto intento della cristianità, lanciata all'attacco contro l'Islam su doppio fronte, ad Occidente e ad Oriente, per colpire il nemico alle ali. Dinanzi alle resistenze degli stessi alleati iberici, rigorosi tutori delle terre tolte agl'infedeli nell'ideale liberatore della Riconquista, il piano specifico di Genova per Almeria e Tortosa fallì. Non fallì il piano più ampio, affidato non tanto alle armi, quanto al gioco della diplomazia ed all'azione pacifica dei mercanti, i quali non conoscono né il cristiano né il saraceno e, come acquistano dagl'imprenditori catalani gli schiavi islamici, così non hanno scrupolo di comperare in Sardegna servi cristiani. Mentre riprendono, anzi continuano, pure tra alterne vicende, la politica degl'interventi in Occitania con tutta una serie di trattati con i conti di Provenza, i conti di Tolosa, i visconti di Narbona, i conti-re di BarcellonaAragona e con le città della costa, i Genovesi ottengono dal diploma imperiale di Federico I del 1162, confermato da Enrico VI nel 1191, la facoltà di perseguire i francesi ed i provenzali che trafficano con la Sicilia, la Calabria, la Puglia e la Maritima', stipulano un trattato con Roma nel 1165-66; stringono patti con i Normanni di Sicilia nel 1165 e nel 1175; ricevono richiesta ed offerta di amicizia e di appoggio da Sanćio VI di Navarra nel 1166; penetrano in Sardegna, nel Logudoro, sia attraverso gli accordi del 1168 e del 1186 con il giudice Barisone II, sia grazie alla politica matrimoniale dei Doria, che si accasano con la famiglia giudicale. Nel contempo, - ciò che riesce ancora più interessante, - si consolidano nella Spagna musulmana. Nel regno di Valencia conseguono privilegi e concessioni, tra cui un fondaco in Valencia ed uno in Denia, dal

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re Abu-Abd-Allah Mohammed ibn Said Mardanisch, detto «Lupo», nel 1149, rinnovando l'accordo nel 1161. Nelle Baleari stringono un trattato intorno al 1155, un altro nel 1181; hanno un fondaco a Maiorca nel 1182; replicano i patti nel 1188. E dilagano in Africa, tra la metà del secolo e gli anni settanta: sulla costa mediterranea, a Bugia, a Ceuta, a Tunisi, a Tripoli; sul litorale atlantico, a Saleh, nel Marocco. Sembra già molto: eppure quanto si sa è solo una parte di ciò che le alterne vicende e l'invidia del tempo ci hanno serbato. Se noi possediamo un intero cartulario notarile, rogato a Tunisi nel 1288-89, quanti altri dello stesso tipo sono andati perduti? Ed è possibile che nell'espansione sul litorale atlantico e nei tentativi di penetrazione nel continente nero nessuno abbia preceduto, spingendosi ancora più addentro о più a sud, quel Iacopo Doria, forse da identificare con il futuro cronista degli Annales, che incontriamo a Safi nel Marocco nel 1253, о quell'Antonio Malfante, che nel 1447 percorse il Sahara fino all'oasi di Tuat? *

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Senza dubbio i legati genovesi, intervenuti nel 1154 alla dieta im­ periale di Roncaglia, «leones, struthiones, psítacos cum caeteris preciosis muneribus principi praesentantes», intesero suggestionare il Barbarossa con i segni di un'esotica potenza, sì che egli, - come narra Carfaro, partecipante alla legazione, - «multa secreta consilia de honore regni et Ianuensis civitatis legatis aperuit; et ultra omnes civitates Italie honorem Ianuensi civitati facere promisit». Per noi tuttavia l'episodio trascende il fine immediato in un significato più profondo: proprio dopo l'infelice conclusione economica della crociata di Spagna, esso esprime il disegno euro-africano che Genova va impostando nel Mediterraneo occidentale in stretto collegamento con l'Oriente, e che si dispiega appieno tra la seconda metà del secolo XII ed il corso del Duecento. Sul finire del secolo XII Genova è ancora, innanzi tutto, il caposaldo del tramite diretto tra le vie di terra per le fiere di Champagne ed i paesi del Levante; ospita una folla cosmopolita di occidentali e di nordici: svizzeri, tedeschi, provenzali, francesi, mosani, borgognoni, olandesi, fiamminghi, inglesi; ottiene da Ugo III di Borgogna un privilegio, nel 1190, che eguaglia i suoi mercanti ai favoriti astigiani. Ma a questo punto le aspirazioni mediterranee a lungo perseguite sopravvanzano in un vasto mutamento di orizzonti. Interventi, imprese, iniziative mirano ad assicurare alla nostra città una posizione di forza, sia lungo la direttrice delle isole sia negli appoggi sul litorale iberico. In Corsica, l'impianto della colonia di Bonifacio, nell'estremo sud, nel 1195, dopo l'acquisto, nel 1133, sotto forma

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di giurisdizione ecclesiastica, dei tre vescovati del nord, stringe l'isola in una morsa, sì da estendervi interamente il dominio di Genova e fare di quella il perno del sistema marittimo occidentale e delle rotte levantine. In Sardegna, di fronte alla ripresa dell'influenza pisana nei giudicati di Cagliari, Arborea e Gallura, le attività genovesi si rinsaldano nel Logudoro, dove i Doria costruiscono la propria roccaforte a Porto Torres e tengono, insieme con gli Spinola, il controllo di gran parte del territorio; Sassari si evolve in comune autonomo; Porto Torres ed Alghero conoscono felici sviluppi commerciali. In Sicilia, dopo la pausa del periodo di Enrico VI, il noto diploma di Federico II del 1200 ai Genovesi segna la prima vistosa affermazione di quello che sarà per secoli il loro predominio imponente, estendendo le concessioni, con un fondaco, anche a Napoli. Sulle coste ispaniche, dove non c'è differenza tra cristiano e saraceno, Aragona e Castiglia, Siviglia e Granada entrano nello stesso gioco, anche se saranno diversi gli sviluppi futuri. Così, per fare solo qualche esempio, i Genovesi firmano una convenzione nel 1231 con l'emiro di Siviglia; Giacomo I d'Aragona concede loro nel 1233 la facoltà di tenere consoli nelle città marittime del suo regno; grazie ad una costituzione di Ferdinando III di Castiglia, del 1251, confermata ed ampliata da Alfonso X nel 1261, essi hanno il diritto, fra l'altro, di «fazer eglesia et banno et alfondiga et forno» in Siviglia; un accordo viene stipulato nel 1279 con il re di Granada circa il commercio genovese nelle sue terre. A questo punto, non ci sorprende di leggere negli Annales cittadini una notizia, che ci fa ritrovare impegnato in Occidente il famoso Benedetto Zaccaria: nel 1291 egli partiva da Genova «cum galeis VII armatis, ac in Ispaniam in servitium dicti regis perrexit»: tre anni dopo, quale «almirante mayor» di Castiglia vinceva a Marzamosa i Marocchini, togliendo loro il dominio dello stretto. Certo è una lotta continua, ora occulta, ora aperta. Se la crisi del conflitto con Federico II è una rapida bufera, che mette a repentaglio, tuttavia, le sorti del commercio con la Sicilia; se Pisa, con le sue posizioni sarde, declina nel corso del Duecento fino alla catastrofe della Meloria, si fanno avanti fra il Due ed il Trecento, nel momento aureo della storia di Barcellona, i Catalano-aragonesi che costruiscono passo passo, di traverso nel Mediterraneo, la loro «via delle isole», per le Baleari, la Sardegna, la Sicilia, fino alle lontane propaggini dei ducati degli Almogaveri ad Atene ed a Neupatria. Ma il sistema di Genova è troppo saldamente costruito perché lo sbarramento degli avversari, intersecante la strada delle rotte genovesi tra il settentrione ed il mezzogiorno, riesca ad impedire

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il flusso di navi che tessono la spola con l'intero periplo del bacino del Mediterraneo. Perduta, per la sua sfera d'influenza, l'area catalana, tutto l'interesse di Genova si concentra sui paesi del centro-sud, tant'è vero che ancora in pieno Trecento, all'epoca di Pietro il Crudele, le navi della Repubblica rappresentano il soffio vitale per la Castiglia e per il commercio sivigliano. Ciò non impedisce, naturalmente, ai Genovesi di secondare, ove sembri utile, la politica islamica, come quando essi appoggiano il sultano del Marocco ed il re di Granada nelle operazioni militari del 1333 per la riconquista di Gibilterra. E se poi si vorrà sapere che cosa tutto ciò significhi in cifre di traffico, di navi, di capitali, basterà sfogliare, presso l'Archivio di Stato di Genova, sebbene appartengano ad epoca notevolmente più tarda, i registri dei Ductus Catalanorum, del Liber damnificatorum in regno Granate, della Compera Granate, della Compera Hispanie, della Massaria Catala­ norum, dove elenchi ed elenchi di nomi e di numeri sono testimonianza d'un fervore inesausto. *

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Una forza rigogliosa preme nel mare chiuso dalle Colonne d'Ercole; una nuova vita germina nei paesi dell'Europa atlantica. Era fatale che, raggiunto a metà del Duecento il predominio nell'Occidente mediterraneo, il potenziale economico genovese, sorretto dalla scoperta di nuove tecniche nautiche, non si accontentasse più del rapporto con i paesi del nord attraverso i valichi alpini, del tramite con le fiere di Champagne per le vie di terra, delle notizie di seconda mano dai lontani mercati delle Fiandre, del Brabante, dell'Inghilterra. Era logico che tanta energia di uomini e di mezzi, raffrenata in parte in Oriente dalla costituzione dell'Impero latino, e dalla progressiva instaurazione dell'Impero turco, traboccasse oltre la cerniera di Gibilterra, alla ricerca, pressocché contemporanea, delle merci povere dei paesi del nord, delle ricchezze dei paesi del sud. I dati eloquenti non mancano. Quando nel 1275 il re Edoardo I d'Inghilterra concede con lettere patenti speciale protezione a Simone Mallono per i suoi servigi in terra e in mare; quando al principio del Trecento sir John Trape, pellicciaio di Londra, invia a «son tres cher et fiable amy» Giacomino da Recco una lettera che costituisce il più antico «pezzo» di corrispondenza autografa commerciale genovese, è chiaro che i tempi sono maturi. Così, tra la fine del Due e l'inizio del Trecento la diaspora esplode nell'Atlantico, determinando la rottura dell'equilibrio intermediterraneo e la ricerca d'un equilibrio marittimo nuovo, di assai più ampio respiro.

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Sulle coste iberiche si completa in Portogallo l'avvolgimento economico genovese della penisola iberica, tanto nella parte cristiana quanto in quella musulmana, iniziato nel lontano 1113 da Ogerio e dai suoi compagni. Non si tratta solo di traffici: nella piccola, ma vigorosa, nazione lusitana, che reca il suo maggiore contributo alla costruzione europea ed alla storia mondiale attraverso le scoperte africane sino all'India nei secoli XIV e XV, i genovesi sono maestri di arte marinara, come già lo erano stati per i galiziani circa due secoli prima, trasmettendo ai nativi una consumata perizia nelle costruzioni nautiche, la propria abilità nell'organizzazione e nel comando delle flotte, una vasta esperienza di navigazione, rapidamente adeguatasi alle acque dell'Oceano, così diverse da quelle del Mediterraneo. Non è un puro caso il fatto che dal 1317 in poi, per lungo lasso di tempo, una famiglia di Genova, i Pessagno, abbia ricoperto la carica del grande ammiragliato dei re portoghesi. Lisbona è non solo una meta, ma anche uno scalo sulla rotta del nord. Nel 1277 le Fiandre ospitano la prima nave, di cui si abbia notizia, che batte la bandiera di San Giorgio; un'altra approda l'anno dopo in Inghilterra. Quindi i dati s'infittiscono: troviamo vascelli genovesi alla Rochelle nel 1287, in Bretagna nel 1293, a Calais nel 1296; li vediamo, contemporaneamente e successivamente, gettare l'ancora, sempre più numerosi, nelle isole britanniche; a Londra, a Sandwich, a Southampton ... I cantieri della madre patria lavorano a pieno ritmo per fare fronte alle richieste di navi oceaniche; le maestranze genovesi sono chiamate a prestare la propria opera all'estero. Quando Filippo IV di Francia vuole una flotta potente in armi contro gl'Inglesi, l'incarico della costruzione è affidato nel 1292 a membri dell'aristocrazia mercantile di Genova. Pronta nel 1295 ad Aiguës Mortes, la flotta salpa, con marinai genovesi, per la Normandia: al comando di Benedetto Zaccaria, presente ovunque vi siano possibilità di lucro e di potere, essa riesce a bloccare il commercio marittimo inglese fino al 1296. Nel contempo, nel 1293, Filippo IV viene reclutando a Genova il personale per la fondazione d'un arsenale e per le costruzioni navali a Rouen. Nel secondo decennio del Trecento la penetrazione genovese nel nord dalle vie del mare s'inserisce nel Brabante, completando la rete del mercato settentrionale, che abbraccia ormai la Francia, la Fiandre e l'Inghilterra. Sappiamo d'una nave giunta nel porto di Anversa nel 1315 о poco prima; possediamo, per quell'anno, un privilegio del duca Giovanni III, inteso a favorire l'immigrazione dei mercanti della Superba ad Anversa. Una nuova testimonianza del peso, che si annette alla loro presenza per lo sviluppo della città e del suo territorio, ci è offerta dalle sollecitazioni rivolte nel

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1324 da parte degli scabini del nuovo porto brabanzese ai capitani delle galere di Genova, approdate all'Ecluse, perché facciano scalo in quella città. I motivi della ricerca di contatti diretti tra Genova ed i porti settentrionali sono molteplici e tra loro interdipendenti: le condizioni di disordine, tra le fazioni e le guerre, delle regioni italiane e francesi per le quali passano le vie terrestri. Di qui la maggiore sicurezza dei percorsi marittimi; la possibilità di affari più redditizi, grazie all'incremento urbano e mercantile delle città del nord, soprattutto di Bruges e di Londra; l'impostazione sui cantieri genovesi di quei legni più robusti e capaci che non solo sono in grado di affrontare l'Oceano, ma anche assicurano i trasporti di grossi quantitativi di merci povere: donde la nuova impostazione del traffico genovese sul commercio per commessa tra il Mezzogiorno ed il Settentrione, con i carichi di grano e di vino della Berbería, del Marocco, delle Baleari, della Spagna, andando al nord, e quelli di lane inglesi e di prodotti fiamminghi e francesi, venendo al sud. A soffrirne sono i mercati della Champagne, che entrano in declino e le cui vie terrestri verso la Liguria vengono progressivamente abbandonate a partire dal terzo decennio del Trecento, anche in conseguenza dei conflitti che intorbidano tanto la Francia meridionale quanto la stessa Liguria, nelle fazioni tra guelfi e ghibellini. E però non si tratta, anche qui in Occidente, solo di navi e di uomini di mare, di mercanzie e di mercanti. Il tema economico s'innesta in maniera concreta, in ripetute occasioni, nel tessuto politico degli eventi storici: quando, ad esempio, tra il 1310 ed il 1317, nel conflitto che contrappone Edoardo d'Inghilterra a Roberto Bruce di Scozia, alcuni membri delle famiglie Pessagno, Doria, Usodimare, De Andrea forniscono il primo di navi e vettovaglie, mentre Simone Dentuto e Manuele Maniavacca sostengono il secondo; о quando nel 1337 i Grimaldi ed i Doria procurano venti navi al re di Francia per la guerra contro gl'Inglesi. Giunti a questo livello, non v'è da stupirsi se tra i debitori di finanzieri genovesi si annoverano anche alti personaggi del mondo ecclesiastico straniero, come, ancora in Inghilterra, tra il 1318 ed il 1321, l'abate di Staide, il priore di Caldewel, l'abate di Bruern. È naturale che anche in Occidente, sul continente e nelle isole britanniche, non manchino risentimenti ed antagonismi da parte della popolazione locale, - senza tuttavia che si giunga agli eccessi xenofobi dei paesi levantini, - verso questi uomini attivi e spregiudicati, la cui presenza, sempre più massiccia, dà l'impressione d'una grande operazione di rastrellamento del denaro. E però, nel dilatarsi dei traffici e nell'esigenza di rapporti

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non più solo tra l'Occidente mediterraneo ed i paesi dell'Europa nordoccidentale, ma addirittura tra l'Oriente e l'Occidente, in senso lato, con il conseguente aumento vertiginoso del volume dei capitali impiegati, i ceti mercantili locali non sono in grado di fare fronte alla vastità del disegno economico, di reggere alla concorrenza dei mercanti italiani, dei genovesi in prima linea, favoriti dalla posizione geografica, dal lungo processo di accumulo di ricchezze, dalla possibilità di operazioni finanziarie che vanno dall'Asia orientale e dalla Russia al Marocco ed alle isole britanniche. Se si vuole avere un'idea della vastità delle imprese, che talora conducono addirittura alla costituzione d'una sorta di nuova feudalità, basterà pensare al Portogallo, dove i privilegi del re Alfonso IV, confermati nel 1357 da Pietro I, segnano un punto di arrivo di una prima fase e, al tempo stesso, di partenza per un più ampio sviluppo, che da Lisbona, divenuta un grande centro del commercio genovese locale e di transito, vede i nostri mercanti penetrare col denaro, ed insediarsi con proprietà terriere, nell'Algarve ed a Setubal. Basterà ricordare che nel 1456 la famiglia dei Lomellini ottiene dalla protezione di Alfonso V il privilegio dell'esportazione del sughero; che nella seconda metà del secolo il traffico dello zucchero e del miele di Madera è per grandissima parte in mano о di genovesi о di ebrei; che negli ultimi decenni del Quattrocento un ramo dei Lomellini finisce per stabilirsi in quell'isola, donde finanziera spedizioni per l'India già poco tempo dopo il viaggio di Vasco de Gama. Oppure, volgendo lo sguardo all'estremo nord, basterà tenere presente che in Inghilterra al tempo di Enrico VI i genovesi, attraverso le grandi case dei Centurione, dei Doria, dei Lercaro, dei Negrone, degli Spinola, sono più assidui e numerosi a Londra ed a Southampton dei fiorentini e dei veneziani; о che allo scoppio della crisi del 1458, per la famosa vicenda della cattura delle navi di Robert Sturmy, da parte del principe corsaro-pirata Giuliano Gattilusio, ma addossata dal governo inglese a responsabilità di Genova, il giro degli affari genovesi in quel regno raggiungeva la somma imponente di 89.000 ducati d'oro. *

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Nell'esplosione economica fra il Due e il Trecento e, più ancora, nell'arretramento dalle estreme posizioni orientali, nel regresso delle comunicazioni con l'India e la Cina nel secondo Trecento, poi dallo stesso Levante bizantino e turco fra il Tre ed il Quattrocento, Genova viene delineando un disegno di supremazia che, in modi diversi, attraverso uomini e capitali, superiorità tecnica e scaltrezza politica, si espande dal Mediterraneo all'Europa continentale, dove si presagisce il futuro d'una nuova

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storia. Attraverso la Balcania, la Russia, i paesi danubiani, la Polonia, da un lato, la penisola iberica, la Francia, le Fiandre, il Brabante, l'Inghilterra, dall'altro, le due direttrici di penetrazione verso il nord danno l'impressione, a guardare le cose molto dall'alto, d'una grande operazione a tenaglia. Ma alla saldatura, che segnerebbe il compimento d'un disegno tanto più valido quanto meno appariscente, manca l'ultimo anello. Manca la Germania. I genovesi, anche se nel secolo XII tengono un deposito di spezie levantine a Norimberga, non penetrano nel mondo tedesco, il quale rimane invece aperto alla prevalente attività veneziana. Vi creano ostacolo la stessa posizione geografica della madre-patria; la continentalità dei paesi germanici del centro-sud, poco propizia per uomini avvezzi alle vie del mare, e, per i paesi del nord, l'esistenza del rigido esclusivismo della Lega anseatica; fors'anche una certa minore capacità di adeguamento mentale, da parte dei nostri mercanti, ai moduli d'una civiltà diversa, se non più chiusa e conservatrice. Sicché il rapporto tra la Superba ed il cuore d'Europa rimane affidato ai commercianti che di là scendono al Tirreno, soprattutto in occasione dei contrasti tra Venezia e l'Impero: alla legazione di Giovanni Breitfeld, inviata a Genova nel 1398 da una confederazione svevo-francone-bavarese per incrementare gli scambi economici; al libretto di Ulman Strome, sul rapporto tra le misure e le monete genovesi e quelle di Norimberga e sulle tariffe dei-dazi gravanti sul commercio tedesco a Genova verso i primi del Quattrocento; all'ambasceria d'un anonimo di Costanza nel 1417 a Milano ed a Genova per la conferma dei privilegi e delle esenzioni ai mercanti tedeschi sulla piazza genovese; alla missione genovese di Heinrich Fry di Costanza, a nome della città di Ulma, nel 1466. Ed è significativo che nell'unico manuale di mercatura redatto a Genova, quello di Antonio di Francesco da Pescia del 1396, non si accenni a rapporti diretti tra questa città e la Magna, mentre nella copia fiorentina del 1416, attraverso cui il testo ci è pervenuto per mano di Saminiato di Guciozzo de Ricci, si tramanda l'invocazione d'un alemanno che si sente esule in terra straniera: «Ach, liber Her Got, hilf und berat»7. *

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Certo è un quadro suggestivo, di ricchezza e di potenza, nel quale il medioevo degli ultimi secoli esorbita dal panorama europeo per assumere le dimensioni d'una grande confluenza d'interessi economici e politici fra 7 "Oh, caro signor Dio, aiuta e consiglia": A. BORLANDI, II manuale di mercatura di Saminiato de' Ricci, Genova, 1963, p. 163.

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tre parti del mondo. Noi non siamo in grado di valutare esattamente quali trasformazioni siano state determinate dalla presenza dei genovesi nei paesi in cui essi penetrarono a diverso titolo: quali, d'altra parte, siano stati i contraccolpi ed i riflessi della loro diaspora, subiti dalla madrepatria; quali i compiti da questa svolti come centro di convergenza di paesi tra loro tanto lontani e diversi. Se tuttavia è chiaro che le origini della grande espansione di Genova sono di natura economica, è anche certo che i risultati vanno molto al di là. V'è qualcosa di più. Qualcosa che, in molteplicità di motivi, esprime il valore ideale, il contenuto di civiltà, a cui s'informa e contribuisce anche questa storia di uomini concreti, decisi al guadagno, rotti ad ogni esperienza. Sono l'ansia dell'ignoto ed il desiderio di spaziare oltre gli antichi confini, geografici e culturali, del vecchio mondo, che animano i viaggi in Asia, fra il Due ed il Trecento, di Andalò di Negro, astronomo, astrologo e geografo, maestro del Boccaccio. È lafioriturarinascimentale del principato dei Gattilusio nell'Egeo, per la quale Lesbo sembrò ritrovare, dopo secoli di silenzio, la voce di un'età perduta. Sono l'estrema difesa di Costantinopoli per opera di Giovanni Giustiniani Longo nel 1453, il sacrificio degli ultimi difensori di Soldaia che, nel 1475, per non arrendersi ai Turchi, si lasciarono murare vivi nella chiesa in cui si erano rifugiati nell'estrema resistenza. Sotto questo aspetto la maggiore lezione ci viene dalla serie di scopritori che precedette Colombo al di là delle Colonne d'Ercole, sulla via delle Indie. Quando nel 1291 Tedisio Doria, Ugolino e Vadino Vivaldi, «cum quibusdam aliis civibus Ianue» e con due frati minori, «ceperunt facere quoddam viagium, quod aliquis usque nunc facere minime attemptavit», l'impresa andò ben oltre il semplice momento commerciale privato. Si aprì sotto il segno religioso, con la solidarietà dell'intera cittadinanza, conscia dell'importanza storica del tentativo e trepida per la sorte dei coraggiosi che affrontavano l'ignoto: «(...) quod quidem mirabile fuit - scrive l'annalista Iacopo Doria - non solum videntibus, se etiam audientibus (...)». Sicché l'augurio sgorga dal profondo del cuore: «Dominus autem eos custodiat, et sanos et incólumes reducat ad propria». Il fallimento non portò la rinuncia. Da Sorleone Vivaldi, che all'inizio del Trecento si spinse sulle coste africane dell'Atlantico, a Lanzarotto Malocello, che scoprì l'isola, a cui diede il proprio nome, tra il 1324 e il 1339, a Nicoloso da Recco, giunto alle Canarie nel 1341; da Antoniotto Usodimare, pervenuto alla foce della Gambia nel 1456, ed Antonio da Noli, che tra il 1456 e il 1460 toccò le isole del Capo Verde, la tradizione, che

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conduce sulla via delle «terrae incognitae» per il Capo di Buona Speranza e per l'America, è ininterrotta. Se anche, infatti, una volta falliti i tentativi diretti dalla madre-patria, l'impresa fu continuata da liguri al servizio del Portogallo e della Spagna, non bisogna dimenticare che la prosecuzione si svolse sulla linea ininterrotta della perizia nautica genovese, dalla quale ebbero vita le marinerie iberiche. Sicché proprio Cristoforo Colombo, il quale, intorno al 1474-75, naviga a Chio, nel 1477 si spinge a cento leghe dal porto irlandese di Galway oltre l'Islanda, tra il 1482 ed il 1484 compie almeno un viaggio alla Mina, nel golfo di Guinea, può assumersi a simbolo del potenziale di energie, materiali e spirituali, che dai punti opposti dei mari d'Oriente e d'Occidente, dalla confluenza di tre mondi, si proietta alla conquista del futuro in un unico campo d'azione. La sua impresa transoceanica non è soltanto la conclusione vittoriosa d'una serie di premesse nel quadro delle esplorazioni geografiche; ma costituisce il risultato più imponente della progressiva gravitazione della comunità genovese dal Levante al Ponente, dal bacino del Mediterraneo alle coste dell'Atlantico. È, in altre parole, il logico punto d'arrivo di quattro o, se si vuole, addirittura di cinque secoli di storia. Anche per questo ci si spiega come una città sostanzialmente estranea al mondo altomedievale, una città di 50.000-80.000 anime о poco più nel maggiore momento demografico del basso medioevo8, abbia potuto sprigionare un tale fascio di energie, una tale capacità di progresso, una tale suggestività di potenza da fare scrivere a Jacques de Vitry, che la visitò nel 1218: «Sunt autem homines illi potentes et di vites et strenui in armis et bellicosi, habentes copiam navium et galearum optimarum, nautes habentes peritos, qui viam in mari noverunt (...). Non credo quod sit aliqua civitas que tantum possit (...)».

NOTA BIBLIOGRAFICA La maggiore lacuna della storiografia sulla Liguria consiste nella mancanza di un'opera complessiva che esamini, da un punto di vista superiore, il processo di formazione e di sviluppo della regione ligure in senso unitario - pur nelle singole individualità locali - sotto il dinamismo espansivo della Repubblica di Genova, e, al tempo stesso, collochi nella giusta G. FELLONI, Per la storia della popolazione a Genova nei secoli XV-XVH, in "Archivio Storico Italiano", 1952, pp. 236-243; ID., Popolazione e case a Genova nel 1531-35, in "Atti della Società Ligure di Storia Patria", IV. 2, 1964, pp. 303-323.

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luce la partecipazione collettiva regionale a quel complesso euro-mediterraneo che fu la vera estrinsecazione dello Stato genovese. Cfr., per le linee generali del problema, G. PISTARINO, Liguria: quadro storico. Unità territoriale creata da Genova, in «Tuttitalia», Milano, De Agostini, n. 62, 11 aprile 1962, pp. 23-34; ID., Liguria. La storia, nel voi. Liguria, Milano, Electa (per conto della B.N.L.), 1967, pp. 7-32. Rinviamo inoltre alla bibliografia contenuta in A. SAPORI, Le marchand italien au moyen âge, Parigi, 1952; V. VITALE, Breviario della storia di Genova, Genova, 1955, voi. 2°; J. HEERS, Gênes au XVe siècle, Parigi, 1961, p. 695 e sgg.; G. PISTARINO, Nella "Romania" genovese fra i Greci e i Turchi: Visola di Chio, in "Rivista Storica Italiana", LXXIII, 1961, p. 69 e sgg.; Т.О. DE NEGRI, Storia di Genova, Milano, 1968, p. 789 e sgg. Si aggiungano: G. SZÉKELY, Wallons et italiens en Europe centrale aux XIe-XVIe siècles, in "Annales Universitatis Scientiarum Budapestensis de Rolando Eòtvòs nominatae", sectio historica, VI, Budapest, 1964, pp. 1-71; M. BALARD, La Romanie Génoise (XIIe - début du XVe siècle), Genova-Roma, 1978; L. BALLETTO, Bilancio di treni'anni e prospettive della medievistica genovese, Genova, 1983; G. AIRALDI, Genova e la Liguria nel medioevo, Torino, 1986; G. PISTARINO, I "Gin" dell'Oltremare, Genova, 1988; ID., Genovesi d'Oriente, Genova, 1990; GUIDO NATHAN ZAZZU, // volo del grifo. La storia di Genova dagli inizi al 1892, Genova, 1991; S. ORIGONE, Bisanzio e Genova, Genova, 1992; R. PAVONI, Liguria medievale, Genova, 1992; G. PISTARINO, I Signori del Mare, Genova, 1992; Dizionario biografico dei liguri, Genova, I, 1992 e sgg.. Si tengano anche presenti il Repertorio di bibliografia per i beni culturali della Liguria, a cura di L. Degrassi Maltese, Genova, 1980 (primo aggiornamento: a cura di Anna Luisa Nuti, Genova, 1984, e successivi); i «Quaderni Franzoniani. Semestrale di bibliografia e cultura ligure», Bibliografia ligure 1987, Genova, 1988 sgg.; le recensioni e segnalazioni contenute negli «Atti della Società Ligure di Storia Patria» e nelle altre pubblicazioni periodiche dell'area della Liguria, dagli «Atti e Memorie della Società Savonese di Storia Patria» agli «Atti della Società Economica di Chiavari», dagli «Atti e Memorie della Accademia Ligure di Scienze e Lettere» alle «Memorie della Accademia Lunigianese di Scienze G. Capellini», dai «Quaderni della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Artistici della Liguria» a quelli del «Centro Studi sulla Storia della Tecnica del C.N.R.», presso l'università di Genova. Né si può dimenticare la benemerita attività svolta dal periodico «Liguria. Rivista mensile di attualità e cultura» dell'editore Sabatelli, Savona, 1933 sgg.; e dal «Bollettino Ligustico per la Storia e la Cultura Regionale», fondato da Т.О. De Negri, Genova, 1948 sgg.; nonché dai periodici che fanno capo all'Istituto Internazionale di Studi Liguri, dovuto all'iniziativa di Nino Lamboglia. Per la ricorrenza del cinquecentenario della scoperta dell'America ha svolto attività notevole la rivista "Columbus '92", edita dal 1985 al 1992, anche con puntuali segnalazioni di opere recenti. Nell'ottobre 1993 ha preso l'avvio in fascicoli settimanali la Storia illustrata di Genova, a cura di Luca Borsani, Geo Pistarino (per la parte antica e medievale), Franco Ragazzi: opera di divulgazione, ad alto livello, redatta da specialisti, e ricca di immagini in bianco-nero ed a colori, con bibliografia essenziale sui singoli argomenti. Alla storiografia su Genova rimangono necessarie le vecchie opere di tipo erudito, di cui diamo sommaria segnalazione. Cfr. G. SERRA, La storia dell'antica Liguria e di Genova, voli, tre, Capolago, Tipografia Elvetica, 1834; C. VARESE, Storia della Repubblica di Genova dalla sua origine al 1814, voli, otto, Genova, tip. Yves Gravier, 1835-38; E. VICENS, Historie de la République de Gênes, voll, tre, Parigi, Firmin Didot, 1842; M.G. CANALE, Storia civile commerciale e letteraria dei Genovesi dalle origini al 1797, volumi cinque, Genova, presso Gio. Grondona (tip. G. Ferrando), 1844-49; F.M. ACCINELLI, Compendio della storia di

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Genova dalla sua fondazione fino all'anno 1776, voll, tre, Genova, A. Lertora, 1851; M.G. CANALE, Nuova istoria della Repubblica di Genova, voli, quattro, Firenze, Le Monnier, 185864; F. DONAVER, La storia della Repubblica di Genova, voli, tre, Genova, Litografia Moderna, 1913 (ristampa anastatica, Genova, Libreria Editrice Laniera, 1971); С MANFRONI, Genova, Roma, Edizione Tiber, 1928. La monumentale Storia di Genova dalle orìgini al tempo nostro, a cura dell'Istituto per la Storia di Genova, diretto da M. Martini, cominciata ad uscire nel 1941, si è definitivamente arrestata dopo i primi tre volumi: N. LAMBOGLIA, Liguria antica (con appendice di monografie di G. ROVERETO, P. REVELLI, V. PISANI), Milano, Garzanti,

1941; U. FORMENTINI, Genova nel basso Impero e nell'alto medioevo (con appendice di monografie di F. PATETTA, E. BESTA, A. GIUSTI), Milano, Garzanti, 1941; A.R. SCARSELLA, Il Comune dei Consoli (con appendice di monografie di E. BESTA, U. FORMENTINI, V. VITALE),

Milano, Garzanti 1942. Si può aggiungere, storiograficamente come quarto volume, seppure edito in altra sede: V. VITALE, // Comune del Podestà a Genova, Milano-Napoli, Ricciardi, 1951. Di grande utilità per un primo orientamento, seppure cominci arisentiredell'usura del tempo, l'opera in due volumi, di cui uno di sintesi storica ed uno di bibliografia ragionata, di V. VITALE, Breviario della storia di Genova, Genova, Società Ligure di Storia Patria, 1955. Proficuo, anche ai fini di un ulteriore aggiornamento bibliografico, l'ampio profilo tracciato da Т.О. DE NEGRI, Storia di Genova, Milano, Martello, 1968. Ha carattere divulgativo l'opera di D.G. MARTINI - D. GORI, La Liguria e la sua anima. Storia di Genova e dei Liguri, Savona, Sabatelli, I a ediz. 1965, 2a ediz. 1966, come pure quella di F.M. BOERO, Genova e foresti, I, Da Giano a Colombo, II, Da A. Doria ai Savoia, Genova, 1983-84, mentre presenta una struttura più incisivamente problematica l'opera di G.N. ZAZZU, // volo del grifo, Genova, 1992. Vanno tenute presenti alcune collane di carattere storico specialistico: quelle dell'Istituto Internazionale di Studi Liguri («Collana Storico-archeologica della Liguria Occidentale», «Collana Storica della Liguria Orientale», «Collona Storica dell'Oltregiogo Ligure», «Collana Storica dell'Oltremare Ligure»); le due serie delle «Fonti e Studi», poi «Collana Storica di Fonti e Studi» dell'Istituto di Medievistica dell'Università di Genova, tra il 1958 ed il 1989, a cui è subentrata nel 1993 la «Collana Storica Italo-ellenica di Fonti e Studi»; le «Fonti e Studi di Storia Ecclesiastica», in cinque volumi tra il 1962 ed il 1967; i volumi della serie «Cronaca e Storia della Val di Magra»; la collana «Studi e Testi - Serie Storica» del Civico Istituto Colombiano, in 15 voli, tra il 1976 ed il 1992, a cui si possono aggiungere gli «Atti dei Convegni Internazionali di Studi Colombiani» (cinque convegni dal 1973 al 1987), Genova, 1984-1990. Né in tema colombiano si può tacere l'imponente «Raccolta di Documenti e Studi pubblicati dalla R. Commissione Colombiana pel quarto centenario della Scoperta dell'America», edita tra il 1892 ed il 1894, a cui sta ora aggiungendosi, in occasione del quinto centenario, la «Nuova Raccolta Colombiana», 1992-1994, prevista in 25 volumi (cfr. il voi. del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali - Ufficio Centrale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali - Comitato Nazionale per le Celebrazioni del V Centenario della Scoperta dell'America, 1492-1992, Programma delle Manifestazioni Colombiane, Roma, 1992, pp. 17-18). Per la storia di quello che si suole chiamare l'impero coloniale di Genova rimane tuttora insuperata la sintesi di R. LOPEZ, Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo, Bologna, Zanichelli, 1938. Cfr. anche G.I. BRATIANU, Recherches sur le commerce génois dans la Mer Noire au XII f siècle, Paris, Libraire Orientaliste Paul Geuthner, 1929; M. MALOVIST, Kaffa, kolonia genueńska na Krimie i problem wschdni w latach 1453-1457, Warszawa, Prace Instytutu Historicznego Unuwesytetu Warzawskiego, 1947; Рн. Р. ARGENTI, The occupation

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of Chios by the Genoese and their administration of the island (1346-1566), voli, tre, Cambridge University Press, 1958; G. PISTARINO, Nella «Romania» genovese tra i Greci e i Turchi: risola di Chio, in «Rivista Storica Italiana», LXXIII, 1961, pp. 69-84; ID., Chio dei Genovesi, in A Filippo Ermini («Studi medievali» serie III, X, 1969), voi. I, Spoleto, Centro italiano di studi sull'alto medioevo, 1970, pp. 3-67; G. PISTARINO, Chio dei Genovesi nel tempo di Cristoforo Colombo, in corso di stampa nella Nuova Raccolta Colombiana. Inoltre: P. STRINGA, Genova e la Liguria nel Mediterraneo: insediamenti e culture urbane, Genova, 1982; L. BALLETTO, Piemontesi del Quattrocento nel vicino Oriente, Alessandria, 1992; Atti del Congresso Internazionale "Dai feudi monferrini e dal Piemonte ai Nuovi Mondi oltre gli oceani", voli. 2, Alessandria, 1993. Tra le maggiori monografie, sempre attuali, dedicate a grandi temi della storia genovese, si segnalano: E. BACH, La cité de Gènes au XVe siècle, Copenaghen, Gyldendalske Boghandel-Nordisk Forlag, 1955; J. HEERS, Gênes au XVe siècle, Paris, S.E.V.P.E.N., 1961; F. SURDICH, Genova e Venezia fra Tre e Quattrocento, Genova, Bozzi, 1970; D. GIOFFRÈ, Il mercato degli schiavi a Genova nel secolo XV, Genova, Bozzi, 1971; L. BULFERETTI С COSTANTINI, Industria e commercio in Liguria nell'età del Risorgimento (1700-1861), Milano, Banca Commerciale Italiana, 1966; G. DORIA, Investimenti e sviluppo economico a Genova alla vigilia della prima guerra mondiale, voi. I, Le premesse (1815-1882), Milano, A. Giuffrè, 1969; G. GIACCHERÒ, Genova e Liguria nell'età contemporanea. Un secolo e mezzo di vita economica: 1815-1969, voli, due, Genova, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, 1970. Per la storia religiosa occorre rifarsi alle vecchie opere, di carattere generale, di G.B. SEMERIA, Storia ecclesiastica di Genova e della Liguria dai tempi apostolici sino all'anno 1838, Torino, tip. e libreria Canfari, 1838; ID., Secoli cristiani della Liguria, Torino, tip. Chirio e Mina, 1843. Tra la produzione recente: la collana "Fonti e Studi di Storia Ecclesiastica", Genova, 1962 sgg. (cinque volumi); Liguria Monastica, Cesena, 1979; G. PISTARINO, Diocesi, pievi e parrocchie nella Liguria medievale (secc. XII-XV), in "VI Convegno di Storia della Chiesa in Italia; Pievi e parrocchie in Italia nel basso medioevo (secc. XIIIXV), Firenze, 21-25 settembre 1981", Roma, 1984, vol. Il, pp. 625-676. Per la storia del costume presentano una ricca informazione ed offrono una piacevole lettura le ricerche di L.T. BELGRANO, Della vita privata dei Genovesi, Genova, tip. R. Istituto Sordomuti, 1875; E. PANDIANI, Vita privata genovese nel Rinascimento, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», XLVII, 1915; ID., La vita della Repubblica di Genova nell'età di Cristoforo Colombo, Genova, Comitato cittadino per le celebrazioni colombiane (Stabilimento arti grafiche ed affini), 1952. La maggiore storia letteraria rimane sempre quella di G.B. SPOTORNO, Storia letteraria della Liguria, voli, cinque, Genova, tip. Ponthenier (voli. І-ГѴ) e tip. G. Schenone (voi. V), 1824, 1858; sono però fondamentali, anche se limitati nel tempo, i lavori di С BRAGGIO, Giacomo Bracelli e l'umanesimo dei Liguri al suo tempo, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», XXIII, 1890; e di F. GABOTTO, Un nuovo contributo alla storia dell'umanesimo ligure, ibidem, XXIV, 1891; G.G. Musso, La cultura genovese nell'età dell'umanesimo, Genova, 1985 (ed ivi bibliografia). Sulla storia dell'arte presentano tuttora un'utilità d'informazione le opere erudite di R. SOPRANI, Le vite dei pittori, scultori ed architetti genovesi e dei forestieri ancora che in Genova operarono, 2a ediz., Stamperia Casamara, 1768; F. ALIZIERI, Guida artistica per la città di Genova, Genova, presso Gio. Grondona (tip. G. Ferrando), 1846; ID., Notizie dei professori del disegno in Liguria, voli, tre, Genova, tip. Sambolino, 1864-66; mentre fra la produzione successiva vanno tenuti presenti: O. GROSSO, Genova nell'arte e nella storia,

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Milano, Alfieri e Lacroix, 1914; V. STRANEO, L'arte in Liguria nelle sue vicende storiche, Torino, Internazionale, 1939; Chiese di Genova, a cura di C. CESCHI e L. VON MATT, Genova, Stringa, 1966; E. POLEGGI, Strada Nuova. Una lottizzazione del Cinquecento a Genova, Genova, Sagep, 1968; Pittori genovesiji Genova nel '600 e nel '700. Catalogo della mostra, Genova, Arti grafiche A. Pizzi-Cinisello Balsamo, 1969. Per la conoscenza dell'ambiente genovese e ligure, alle opere ormai classiche e di collocazione storica, quali la Descrizione di Genova e del Genovesato, voli, tre, Genova, tip. G. Ferrando, 1846, G. BANCHERO, Genova e le due Riviere, voli, tre, Genova, tip. L. Pellas, 1846, possiamo aggiungere, ai fini di un'informazione attuale, anche se limitato al capoluogo regionale, l'ottimo volume di D. CASTAGNA, Nuova guida storico-artistica di Genova, Genova, Realizzazioni grafiche artigiane, voli, due, 1970. Si tengano anche presenti, per il paesaggio, la letteratura, la storia dell'arte e la dialettologia della Liguria, le sintesi, ad alto livello di divulgazione, di G. PIOVENE, Introduzione alla Liguria, in«Tuttitalia», Novara, De Agostini, n. 62, 11 aprile 1962, pp. 1-6; N. SAPEGNO, Liguria: letteratura. Faticata e scontrosa maturazione, ibid., pp. 35-40; P. ROTONDI, Ligu­ ria: sintesi delle arti. Esaltata trasfigurazione della realtà, ibid., η. 63, 18 aprile 1962, pp. 41-57; G. DEVOTO, Liguria: lingua e dialetto. Una Babele fonetica, ibid., pp. 64-68. Indicazioni bibliografiche più particolareggiate in A. MANNO, Bibliografia storica de­ gli Studi della monarchia di Savoia, voi. VI, Genova, Torino, Bocca, 1898; M.G. CELLE, Bibliografia ligure, in Genova, marzo 1927; G. BORGHEZIO, Bibliografia piemontese-ligure, Torino, B.S.S.S., CXLIX e CL, 1935 e 1940; V. VITALE, Gli studi di storia ligure nell'ul­ timo ventennio, in «Archivio Storico Italiano», XCVI, 1938, pp. 227-261; A. SAPORI, Le marchand italien au mayen âge, Paris, A. Colin, 1952; V. VITALE, Breviario cit., vol. II; ID., I notai genovesi del medioevo, a cura di Т.О. DE NEGRI, Genova, Consiglio notarile dei distretti riuniti di Genova e Chiavari, 1955; G. FERRO, Liguria, nella «Collana di bibliografie geografiche delle regioni italiane», voi. Ili, Napoli, R. Pironti e figli, 1961; Т.О. DE NEGRI, Storia di Genova cit., pp. 787-820; G. AIRALDI, Gli studi in Russia sulla storia di Genova, in «Liguria», XXXVI, n. 9, settembre 1969, pp. 7-12; ID., Colonie genovesi nel Mar Nero. Studi storici in Romania, Polonia e Bulgaria, ibid., XXXVII, 5, maggio 1970, pp. 9-12; G. PiSTARiNO, La storiografia marittima su Genova medievale, in «Tendenze e orientamenti nella storiografia marittima contemporanea: gli Stati italiani e la Repubblica di Ragusa (secc. XIV-XIX)», Napoli, 1986, pp. 3-28.

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COMUNE, "COMPAGNA" E "COMMUNITAS NEL MEDIOEVO GENOVESE

Rielaborato da Comune, "Compagna" e «Commonwealth» nel medioevo geno­ vese, in «La storia dei Genovesi», voi. Ili, Genova, 1983, pp. 9-28.

Genova è l'antitesi di Venezia. Nella città adriatica la tradizione bizantina, - che significa tradizione di istituzioni profondamente radicate, - il modello precoce che, attingendo a questa tradizione, si viene configurando dal secolo VII in poi, la linea di continuità, che non conosce le cesure sconvolgenti di esterne dominazioni successive e consente una sintesi graduale ed armoniosa di elementi orientali ed occidentali, l'estraneità dall'Impero d'Occidente, la stessa posizione topografica, che garantisce uno splendido isolamento (si pensi anche solo all'impossibilità, per le strutture feudali, d'insediarsi nella Laguna), danno vita ad un fortissimo senso dello Stato, entro il quale si compongono e si sviluppano in modo organico le istanze economiche, l'espansionismo commerciale, il pulsare dei traffici, e la corrispondente configurazione sociale. È lo Stato inteso quale struttura territoriale e complesso istituzionale nettamente definiti, con una potestà d'imperio che viene intesa e si esplica come un postulato giuridico in funzione della collettività. È lo Stato che trascende l'individuo. Venezia eredita da Costantinopoli - scrive Lopez -«non seulement de traits artistiques frappants, mais aussi de certaines prédilections économiques et politiques: la tendance à la centralisation, au contrôle de l'Etat sur les citoyens; l'amour de la splendeur, de la couleur, du luxe; le penchant pour le monopole du commerce maritime, modéré par la tendance à laisser le commerce vers l'intérieur aux étrangers. Enfin, Venise eut en commun avec Byzance une instinctive méfiance envers les nouveautés soudaines, un fort attachement aux traditions qui ralentirent son développement mais prolongèrent sa vie indépendante (...). L'Etat, à Venise, est l'orgueil de la population, qui s'identifie tout entière avec ses fortunes»1. A Genova è il contrario. «Née sous la forme d'une Commune, c'està-dire non pas d'un Etat permanent et trascendant les individus, mais d'un accord temporaire pour la protection d'intérêts particuliers, la république ne sortira jamais entièrement du cocon. (...) la patrie du Génois n'est pas une mère et une religion, mais une sorte de société en nom collecR. LOPEZ, Venise et Gênes: deux styles, une réussite, in « Su e giù per la storia di Genova», Genova, 1975, pp. 36, 38.

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tif». Come dimostra la vicenda della Compagna Communis, Genova è, fino dalle sue origini quale repubblica marinara, più che una vera e propria città-stato, una consorteria mercantile. О meglio, lo Stato rimane, per così dire, bloccato e circoscritto nelle strutture giuridiche del Comune come si è venuto configurando sulla base municipale romano-bizantina attraverso le esperienze medievali e con le quali si affaccia, senza essersi adeguatamente evoluto, come invece a Venezia, alla tumultuosa esplosione politico-economico-sociale dei secoli XI e XII, che nella Compagna trova invece la sua piena estrinsecazione. Non si può dimenticare che, mentre i Veneziani, pur nella realtà ancora modesta dei secoli VII-Х, si aprono la strada nell'Adriatico, esplicano una vocazione marittima, apprendono ed affinano l'arte dell'autogoverno e della mercanzia, i Genovesi subiscono il ritorno offensivo dei Longobardi di Rotari, sono irretiti nelle strutture rurali dell'Europa pre-feudale e feu­ dale, bloccati sulle loro stesse coste dagli attacchi islamici, cosicché tutta la loro ripresa, sull'alba del secondo millennio, deve avvenire attraverso la forza delle armi, sia sulle vie del mare contro i musulmani sia per i passi delle Alpi Marittime e dell'Appennino. Lo Stato, in tutto questo tempo dei "secoli bui", non è, come a Venezia, la città-patria sotto la lontana tutela di Costantinopoli: è la monarchia longobarda о franca о la marca obertenga, percepite come organismi estranei che tendono a inceppare il futuro: anzi, per usare una felice espressione di Lopez, è "un ennemi à duper ou une proie à conquérir", e come tale rimane anche quando i poteri regi о marchionali sono praticamente passati al Comune che ipostaticamente ne assume le vesti e le funzioni. La natura, avara di ricchezze del suolo, imponendo il sacrificio per il guadagno, acuisce il senso del denaro, del risparmio, del tornaconto. Così si forma il carattere dei Genovesi, duro, aspro e deciso; ma nello stesso tempo egualitario, per cui le classi sociali non si cristallizzano in categorie storiche, ma rimangono aperte costantemente a chi riesce ad assurgere nella lotta per la vita; e lo straniero viene accolto senza tutte le remore che gli si frappongono, invece, a Venezia2. Fortissimi l'individualismo, il legame del clan familiare, il successo come misura di * R. LOPEZ cit., pp. 39, 40, 41, 45-46. Di opposta opinione è invece Vito Piergiovanni (/ rapporti giuridici tra Genova e il Dominio, in «Genova, Pisa e il Mediterraneo tra Due e Trecento. Per il VII anniversario della battaglia della Meloria, Genova, 24-27 ottobre 1984», «Atti della Società Ligure di Storia Patria», XXIV (XCVIII), fase. II, 1984, pp. 427-470), per il quale è errata la tendenza a vedere la storia veneziana e la storia genovese sotto il segno dell'originalità e dell'eccezionalità.

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valore, l'interesse al vantaggio economico ed il senso della realtà effettuale al di sopra della prospettiva politica, per cui ci si può professare, di volta in volta, antislamici о filoislamici, oppure contemporaneamente antibizantini a Genova, о filobizantini a Pera. Ciò non significa mancanza di ideali о di fierezza о di attaccamento a certi principi: tutte doti di cui i Genovesi diedero prova più volte nel corso della loro storia, intessuta di vicende singole e/o di gruppi. Venezia medievale parte con un grande vantaggio. La Genova dei secoli XI e XII deve ricuperare il tempo e le occasioni perdute. L'insufficienza delle strutture comunali, con cui essa si affaccia alle nuove vicende, di fronte all'immensità dei problemi che le si prospettano ed ai quali non può sottrarsi, in quanto rientrano in prospettiva euromediterranea, viene superata attraverso l'intraprendenza delle energie individuali, che trovano il loro punto di coagulazione, prima, nelle «Compagne» rionali, poi nella Compagna Communis. Si è molto insistito sul rovescio della medaglia: sulle faide, sui conflitti interni, sulle lotte civili che turbarono di continuo la vita della città nel corso della sua storia. Ma, a parte l'esigenza di sceverare i veri e propri contrasti di fazione dall'asprezza della concorrenza commerciale, resta pur sempre la necessità di trarre un rendiconto tra il positivo ed il negativo. Mi sembra allora che, se quest'ultimo fosse stato così alto, così costoso, come taluno dice, rimarrebbero inesplicabili non solo il fatto dello slancio costruttivo genovese, quale fu quello verificatosi nel corso di secoli, ma la stessa lunga vitalità della Repubblica, alla pari con la più ordinata Venezia, sino all'inizio dell'età contemporanea. «Venise et Gênes; deux styles, une réussite»: così ha scritto Lopez, con espressione che felicemente sintetizza due linee storiche diverse, ma ugualmente valide, e non soltanto in quella che deve essere la prospettiva dello studioso, ma nei risultati a cui esse condussero. Giudicare la storia di Genova, come talora si è fatto, tenendo come parametro implicito quella di Venezia, è un nonsenso. Indicare Genova come il modello deteriore dello Stato travagliato di continuo da torbidi interni ed additare i Genovesi come i disturbatori delle vicende d'Italia può nascere da frettolosità di giudizio; ma condannarli, dal comodo tavolino dell'erudito, come gretti nella condotta, miopi nelle vedute, sfruttatori dei beni altrui significa non aver capito nulla della loro mentalità, dei loro problemi, della loro storia. *

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La politica di formazione dello Stato regionale non interessa Genova in sede primaria, non soltanto nel periodo delle origini comunali, ma in

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tutto il corso della sua storia, sia perché la costruzione dell'organismo territoriale non risponde al modo di sentire dei liguri, più propensi al dominio occulto attraverso il denaro, sia perché la natura stessa del territorio rende qui più faticoso e costoso che altrove il processo della formazione unitaria. D'altronde la Liguria, «quasi un arcobaleno», com'è stata definita, non ha in sé ab origine ragioni intrinseche di autocostruzione spontanea intorno ad un polo centrale che funga da catalizzatore, in sede politica ed economica. È piuttosto un complesso di aree terminali a cui fanno capo, sul mare, talune ben distinte zone economiche dell'interno: si pensi, ad esempio, alla funzione di Luni nell'alto medioevo о della Spezia in età moderna rispetto a quella di Ventimiglia. Quale vincolo strutturale potrebbe esservi tra l'estremo Levante e l'estremo Ponente? L'assurgere di Genova alla preminenza, con la fine dell'alto e l'inizio del basso medioevo, risulta in connessione di dipendenza con grandi mutamenti sul piano internazionale. Non si tratta soltanto della ripresa generale della cristianità, nel secolo X, sul Mediterraneo occidentale contro la preponderanza islamica, che ancora nei primi decenni di quel medesimo secolo conduce frequenti scorrerie sulle coste liguri, assalta e saccheggia Genova, penetra nell'interno padano, a quanto pare sino a Tortona. Si tratta dello spostamento dell'epicentro dell'Impero dalla Francia alla Germania, dell'ingresso del mondo tedesco nella storia europea, come asse portante, con la dinastia di Sassonia. Il processo di gravitazione del Centro-Europa verso il Mediterraneo trova i suoi caposaldi sul mare: a Venezia nell'Adriatico, a Genova nel Tirreno. Naturalmente non possiamo né vogliamo sottovalutare i rapporti con la valle Padana: con Milano soprattutto, ma poi anche nella fitta rete di comunicazioni verso Alba, Asti, Gamondio, e così via. Si tratta però, a mio giudizio, di fenomeni a raggio limitato, consequenziali, anch'essi, a quello che fu il grande mutamento di posizioni sul piano continentale europeo tra l'alto ed il basso medioevo. Una prospettiva di tali dimensioni in area terrestre imponeva una prospettiva di altrettante dimensioni in area marittima. Così Genova ricercò i contatti, sia pure spesso attraverso la forza delle armi, con la penisola iberica, con il Nord-Africa, con la Siria e la Palestina, prima ancora che con questa о quella località delle Riviere: ad esempio, con Portovenere о Lerici, о con Àlbenga о Ventimiglia. La stessa conquista armata dei punti nodali sui percorsi per l'Oltregiogo ha inizio soltanto nel 1121 e viene messa in atto non per pura politica espansionistica territoriale, ma sotto la stretta della necessità d'impedire о di annullare gli ostacoli che formazioni feudali о comunali dell'Appennino e dell'interno tendono a frapporre, nella

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propria attività particolaristica, al movimento commerciale tra il mare ed il continente e tra il continente ed il mare. È la stessa ragione per cui Genova interviene, in maniera determinante, prima in Novi [Ligure], poi nella fondazione di Alessandria nel 11683. *

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È noto che, a differenza di Venezia, Genova non aspirò a costruirsi un impero coloniale territoriale, come, in sostanza, non aspirò a costruirsi uno Stato regionale compatto e totalmente unitario. Bastavano ai Genovesi i punti di appoggio per le linee di traffico, senza l'onere del presidio, e delle relative spese, in terre straniere: tutt'al più importavano quelle zone che potevano assicurare il monopolio di prodotti essenziali, come sarà per il mastice di Chio e per l'allume di Focea. Inoltre la spedizione in oltremare, l'insediamento, l'organizzazione locale sono spesso lasciati all'iniziativa privata, del singolo о dei gruppi economici, anche se il Comune avrà l'avvertenza di farsi riconoscere da Federico Barbarossa, nel famoso diploma del 1162 (che gli concedette ufficialmente l'autonomia di governo, nonché la districtio sull'intera Liguria), il pieno dominio sulle proprie fondazioni in terre altrui. Era, quello del Barbarossa, un atto d'imperio unilaterale ed arbitrario, sia di fronte a Costantinopoli sia rispetto al mondo islamico; ma fu quanto a Genova bastava ed era utile per controbattere la concorrenza occidentale (pisana, veneziana, poi anche catalano-aragonese) nello slancio sui mari. Che le azioni contro Mugiahid nel 1016 e contro Temim, sultano di Mehdia, nel 1087, abbiano un risultato trionfale e che invece quelle su Valenza nel 1092 e su Tortosa nel 1093 si risolvano in un fallimento, ha importanza relativa: sono le alterne vicende, transeunti, della storia. Contano piuttosto la presa di contatto con le terre del Nord-Africa e con quelle iberiche; l'ampliarsi degli orizzonti dei possibili mercati; l'acquisto di una mentalità internazionale, dopo secoli di chiusura nell'ambito ristretto del golfo genovese o, al massimo, del Tirreno settentrionale; l'affinarsi della tecnica navale in tutti i suoi aspetti, dalla costruzione dei natanti al modo di calcolare le rotte: l'esperienza, insomma, di una navigazione in lungo ed in largo nel Mediterraneo. 3 G. PISTARINO, La prima pagina della storia di Novi, in «Novinostra», DÍ.9, 1969, pp. 2-6; ID., Alessandria nel mondo dei Comuni, in «Studi Medievali», XI. 1, 1970, pp. 1-101; ID., Genova e Novi, preludio ad Alessandria, in «Rivista di Storia Arte Archeologia per le Province di Alessandria e Asti», LXXX-LXXXI, 1971-72, pp. 1-29; ID., Sulla tradizione testuale dei trattati fra Genova e Novi del 1135 e 1157, ibidem, pp. 195-205.

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Senza tutto ciò sarebbero state impossibili la presenza di mercanti genovesi ad Alessandria d'Egitto già nel settimo decennio del secolo XI4 e quella, pressappoco contemporanea, di un ricco genovese a Saleh, alla corte di Abdulach, re dei Berrhuatz, secondo una notizia che ci proviene da uno scrittore del Seicento5: una coincidenza - sia detto per inciso che potrebbe essere non occasionale e riproporre, anticipandolo nel quadro del passato, il tanto dibattuto problema dell'origine della Campagna. Sarebbe stata impossibile la partecipazione di Genova alla prima crociata con quella frequenza di spedizioni, Γ una dopo l'altra, che si protrassero in un flusso continuo dal 1097 al 1110 ed oltre, impegnando la città in uno sforzo enorme, ma portandole anche enormi vantaggi, sia in rendimento economico immediato, sia nell'acquisto dei primi possessi in Oltremare, quali basi per i traffici a lunga distanza, e quali modelli per i successivi stabilimenti coloniali. Una così ampia e subitanea dilatazione del piano economico, che tra la fine del secolo XI ed il principio del XII interessava sia il Mediterraneo occidentale sia l'orientale, poneva però, quasi ex abrupto, problemi enormi ed impensati. C'era il problema della struttura interna dello Stato, nel dualismo, sul piano formale-operativo, tra Comune e Compagna', e vi si rimediò in parte, dal 1122 in poi, con l'elezione annuale dei consoli della Compagna, com'era per i consoli del Comune, e con la costituzione di un Parlamento che comprendeva tanto i membri della Compagna quanto gli altri cittadini; con la distinzione tra consoli del Comune e consoli dei placiti; con la graduale stabilizzazione del Consiglio, chiamato a coadiuvare i consoli. C'erano problemi di costruzione burocratica nell'amministrazione pubblica e di circolazione monetaria; ed il Comune si adoperò a risolverli, dando vita nel 1122 ad una propria cancelleria ed ottenendo nel 1138 dall'imperatore Corrado III il diritto di battere moneta per delega imperiale. C'era un problema demografico, non indifferente per una città portata ad una rapida espansione emigratoria, temporanea о definitiva; e vi provvide, con normale ed automatico fenomeno di compensazione, l'attivarsi di una Sulla storia delle origini cfr. G. AIRALDI, Vecchio e nuovo potere in Genova medie­ vale: Prospettive per una rilettura delle origini, in «La storia dei Genovesi», I, Genova, 1981; G. AIRALDI, Groping in the dark. The Emergence of Genoa in the Early Middle Ages, in «Miscellanea di studi storici», II, Genova, 1983; B.Z. KEDAR, Mercanti genovesi in Ales­ sandria ďEgitto negli anni Sessanta del secolo XI, ibidem. 5 G.B. BIRAGO AVOGADRO, Historia africana della divisione dell'imperio degli Arabi e dell'origine e del progresso della monarchia de' Maomettani distesi per l'Africa e per le Spagne, Venezia, 1650.

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libera corrente d'immigrazione, senza remore e senza vincoli, sia dalle due Riviere sia dall'interno, soprattutto dall'area piemontese6, lombarda ed emiliana; ma anche vi si pose rimedio attraverso Γ immisione in città di quote crescenti di schiavi, soprattutto di schiave, che spesso venivano emancipati in liberti e liberte, manomessi e manomesse. «Ciascuna casa è provvista di torre ed in occasione di lotte civili si combatte dall'alto di queste torri»: mentre sui mari la proiezione cittadina registra successi crescenti, all'interno le vicende acquistano il ritmo che, negli anni della metà secolo, già rileva Beniamino di Tudela, e l'immagine urbana appare pienamente conformarvisi. «Se, all'interno della cerchia muraria più antica, per tre quarti la proprietà fondiaria appare inizialmente appartenere a centri religiosi e al Comune, il restante quarto, di pertinenza delle più antiche famiglie viscontili e avvocaziali eredi di ripatici e portatici, e progressivamente popolato dai gruppi familiari immigrati volontari e forzati, è destinato ad aumentare. Le curie più antiche - Embriaci e De Castro, Mallone, Doria, Fieschi, De Mari e Usodimare, Malocelli, Piccamiglio, Cibo, Calvi, Pallavicino, Pevere, Spinola, Cicala, Leccavela, Stancone, Streggiaporci (ma i nomi son molti di più), che danno inizio a forme d'alleanza commerciale о familiare, vengono a collocarsi in enclaves attorno all'antica concattedrale di Santa Maria di Castello, tra la cattedrale di San Lorenzo e la Ripa, con fulcro nei tre mercati princi­ pali di San Giorgio, Banchi e Soziglia, nella domoculta di Luccoli, nel burgus centrato su San Siro, in prossimità di Santa Maria delle Vigne e San Luca. E poi, dando inizio un po' alla volta a mobili aggregazioni artificiali e crescendo in numero e in potenza si spostano, come i Fieschi da San Lorenzo a Carignano о verso il Bisagno (...). Decisiva per l'intervento sul tessuto urbano e suburbano, oltre che per la proiezione periferica e oltremarina, appare anche l'azione degli enti religiosi, in qualche caso propensi ad attuare una sorta di vera e propria "colonizzazione residenziale", com'è ben noto per i casi, ormai indagati del Capitolo di San Lorenzo о di San Siro. Alle più antiche chiese di S. Lorenzo, S. Maria di Castello, S. Giorgio, S. Donato, SS. Nazario e Celso, SS. Damiano e Cosimo, S. Maria delle Vigne presto se ne aggiungono altre di rilievo (...). In questo panorama complesso, nonostante il Comune appaia attento al controllo delle aree, la vita pubblica continua ad essere carente di una grande piazza collettiva per le riunioni più ampie, per le quali continuano ad esser usate la piazzetta della cattedrale о quella di 6

Già nel secolo XII si constata il fenomeno studiato per il secolo XV da L. BALLETTO, Genovesi del Quattrocento nel Vicino Oriente, Alessandria, 1992.

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Sarzano, peraltro già con precisa disposizione dedicata allo svolgimento di feste e tornei, tra cui quelli del gioco della balestra ("De Gênes sont les bons balestriers" dicevano i francesi al tempo della guerra dei Cent'anni)»7. Ma soprattutto vi fu il problema della politica esterna. L'interesse di Genova a bloccare, ponendole sotto il suo protettorato, le attività mercantili dei centri costieri liguri, della Provenza, della Linguadoca, era, per così dire, un fatto fisiologico, e venne risolto, nel terzo e nel quarto decennio del secolo XII, con una serie d'interventi e di trattati che assicurarono ai Genovesi la supremazia su tutto l'arco costiero occidentale sino ai margini dei Pirenei. Ed era quasi un fatto fisiologico - per i rifornimenti di grano, di sale, di carni, di lane, di pelli e di altri prodotti essenziali alla vita ed all'incremento di una città in vigorosa fase di espansione - la necessità della presenza genovese nell'Occitania provenzale e linguadochiana tra signorie feudali e comuni marittimi, nella Sicilia normanna, e poi sveva e poi angioina, come pure nella Sardegna giudicale e soprattutto nella Corsica, a tutela del Mar Ligure e delle linee di navigazione verso il Sud. Lo scontro con Pisa era fatale, come sarà più tardi fatale quello con Venezia e con la Corona catalano-aragonese. Ma nel secolo XII il vero dilemma fu per Genova la scelta tra Occidente ed Oriente. Ad Occidente c'erano le merci povere: grano, sale, carni, pelli e così via. Ma c'erano anche le rotte più brevi e quindi i costi minori. Ad Oriente c'erano le merci ricche: spezie, sete, gioielli, ed inoltre materie prime essenziali all'industria, come il mastice e l'allume. Ma c'erano anche le linee di navigazione più lunghe e quindi i costi maggiori. Ad Occidente c'era il conflitto, in atto, con Pisa; in Oriente era prevedibile, a breve о lunga scadenza, quello con Venezia. Ad Occidente si poteva condurre, se necessario, una po­ litica antislamica, sostenuta dalla Chiesa di Roma e da questo о quello Stato cristiano. In Oriente ciò non era possibile, vuoi per la mancanza di appoggio concreto da parte della Chiesa e delle forze latine, vuoi per l'immane difficoltà di sostenere ripetute azioni di guerra a tanta distanza dalla madre-patria. Ad Occidente ci si poteva muovere, bene о male, sotto l'egida del Sacrum Imperium, a cui Genova fece ripetute affermazioni di fedeltà - seppure spesso del tutto formali - nel corso della sua storia, rivendicando reali о supposte benemerenze e fantomatici privilegi imperiali dell'età classica. Ad Oriente si entrava nell'area di un altro Impero, quello G. AIRALDI, Genova e la Liguria nel medioevo, Genova, 1986, pp. 88-90. Sui balestrieri genovesi cfr. N. CALVINI, Balestre e balestrieri medio evali in Liguria, Sanremo, 1982; G. PISTARINO, Pagine sul medioevo a Genova e in Liguria, Genova, 1983, pp. 77-90.

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di Costantinopoli, e nel mondo dei sultanati e degli emirati islamici, l'uno e gli altri entro sé avversi, ma tutti in ostilità, aperta о latente, contro la Chiesa di Roma ed il Sacrum Imperium. Di qui il senso ondeggiante, agli occhi dello storico, della politica genovese: talvolta della politica del doppio binario, del piede in due staffe. In realtà, il disegno è unitario e risponde ad istanze precise: quella di svolgere una politica mondiale partendo da grande povertà di mezzi, da un territorio ristretto ed estremamente frazionato, da componenti sociali di varia provenienza ed eterogenee; quella di destreggiarsi tra cristianesimo romano, cristianesimo bizantino, islamismo nelle sue varie confessioni, tra feudi e comuni, tra monarchie feudali e monarchie accentrate, tra città di antica tradizione ed alto sviluppo demo-sociale ed organismi rurali о tribali di struttura svariata; soprattutto quella di adeguarsi via via al quadro mutevole degli orientamenti internazionali. Così Genova coglie di momento in momento e di luogo in luogo il ritmo della storia in perenne divenire; e quanto più il suo quadro di espansione si allarga, tanto più il tracciato unitario della sua condotta viene condizionato e costretto a diramarsi in linee diversificate, talora in apparenza contrastanti. Se nel secolo XI c'è l'impegno collettivo contro l'Islamismo occidentale con una puntata verso quello orientale in occasione della prima Crociata, già nel XII il comportamento si fa più complesso, mutevole, differenziato. All'alleanza con i sovrani di Spagna contro i musulmani di Tortosa e di Almeria, nella prima metà del secolo, subentra, nella seconda metà, la serie degli accordi con gli emiri delle Baleari; agli atti di deferenza verso il Barbarossa si accoppiano la propensione per papa Alessandro III ed il concreto appoggio alla Lega Lombarda attraverso la fondazione di Alessandria; alle aspirazioni sulla Sardegna, che culminano in maniera eclatante nell'episodio di Barisone di Arborea, ed all'acuito conflitto con Pisa si congiunge la ricerca di spazio verso la pianura padana; alla politica filo-normanna durante il regno dei due primi Guglielmi subentra lo schieramento a fianco di Enrico VI di Svevia al tempo del regno di Tancredi e di Guglielmo III; alla presenza negli Stati crociati di Terrasanta si accoppia la ricerca di accordi e di privilegi presso l'Impero bizantino. Il «volo del grifo» genovese nel Duecento coincide, inserendovisi, con il massimo slancio occidentale verso l'Oriente. È l'epoca di Giovanni di Pian del Carpine, di Guglielmo di Rubruck, dei fratelli Polo e del giovane Marco. Ed è anche l'epoca in cui la Chiesa, proprio sotto la guida di un pontefice genovese, Innocenzo IV, cerca l'accordo con i nuovi conquistatori dell'Est: i Mongoli dei successori di Gengis-khan8. 8

III.

G. PISTARINO, Genovesi d'Oriente, Genova, Civico Istituto Colombiano, 1990, cap.

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Difficoltà non lievi per Genova. Crollano i residui degli Stati crociati di Terrasanta; l'Impero Latino d'Oriente sembra precludere la strada delle spezie verso il Mar Nero; la sostituzione dei Mamelucchi agli Eiubidi in Egitto, in conseguenza della prima crociata di Luigi IX di Francia, rende più difficile i rapporti con quella parte del Nord-Africa. Ma proprio qui si rivela appieno il valore positivo della versatilità della condotta genovese. Al tramonto delle posizioni latine in Terrasanta si sostituisce la graduale, sotterranea, eppure concreta e vigorosa, penetrazione in Cipro; ai Veneziani, insediatisi da padroni nell'Impero Latino ed in Romania e vincitori a Acri nel 1258, si contrappone la ricerca dell'amicizia e poi dell'alleanza con i Greci di Nicea; alle difficoltà in Egitto si rimedia con una più incisiva dilatazione del campo operativo nel NordAfrica occidentale, a Tunisi, a Bugea, a Ceuta. E se l'Italia è sconvolta dalle guerre di Federico II contro l'assetto comunale del centro-nord, a cui subentra il predominio guelfo, Genova ne approfitta per estendere e consolidare il dominio sulle Riviere, per rafforzare la penetrazione mercantile in vai Padana, per infliggere a Pisa il colpo della Meloria. Né manca una linea, più sottile, di attenta diffusione nel Mediterraneo occidentale, nella stessa Spagna, di fronte al consolidarsi delle monarchie di Castiglia e di Aragona, ed oltre le colonne d'Ercole, verso il Portogallo, la Francia, le Fiandre, l'Inghilterra. *

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*

Con gli ultimi decenni del Duecento e col secolo successivo ha inizio e poi si attua quella che potremmo chiamare la struttura policentrica della storia genovese. In Occidente si finisce per perdere la Sardegna, di fronte all'accresciuta potenzialità della Corona catalano-aragonese; ma si consolidano le posizioni in Corsica, a partire dal nucleo fondamentale di Bonifacio; si stringono validi legami con la Castiglia, di cui può assumersi come simbolo la figura di Benedetto Zaccaria e dei successivi genovesi che prestarono servizio nella flotta reale; si acquisiscono prestigiose posizioni in Portogallo, come dimostrano a sufficienza i Pessagno, ammiragli del re, o Lanzarotto Malocello e Nicoloso da Recco con le loro imprese nell'Atlantico, più tardi, nel secolo XV, Antoniotto Usodimare, Antonio da Noli, Lanzarotto II Pessagno. E se l'equilibrio di quella parte del Mediterraneo viene scolvolta dalla guerra del Vespro, dalla divisione delle corone di Napoli e di Sicilia, l'occasione appare eccellente per incrementare i profitti economici con il corsarismo e la pirateria, senza guardare troppo per il sottile tra nemici ed amici.

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Ma soprattutto ad Oriente si aprono prospettive nuove. Non credo si possa effettivamente sostenere che la vittoria di Curzola del 1298 «chiude l'età eroica di Genova»9, scrivere che «comincia inesorabile la parabola discendente», parlare di «incipiente declino al principio del secolo XIV (...) con l'anticipo di un secolo nei confronti con il resto d'Italia»10, Se mai v'è da dire che cambiano le prospettive. Col trattato del Ninfeo del 1261 si sono aperte le porte di Costantinopoli; è saltato il chiavistello del Mar Nero, sicché ora si profilano addirittura gli orizzonti dell'Estremo Oriente, mentre nel 1291 i fratelli Vivaldi tentano per primi la via africana dell'Atlantico verso le Indie. Famagosta in Cipro, Chio nell'Egeo, Pera di fronte a Costantinopoli, Caffa in Crimea si foggiano come altrettanti punti chiave di un impero che va raggiungendo la sua massima dimensione medievale. E ad esse fa corona tutta una serie di stabilimenti di diretto od indiretto dominio: il consolato in Laiazzo nella Piccola Armenia, la signoria dei Gattilusio nell'Egeo, Chilia e Licostomo alle foci del Danubio, l'attivissima colonia a Trebisonda, tanto per citare alcuni esempi. Di qui i nostri mercanti imprendono la via della steppa, dell'India, dell'Oceano Indiano verso al Cina, sino a quando quegli itinerari verranno preclusi dalle vicende interne di quei paesi nel secondo Trecento. È vero: tutto ciò coinvolge Genova nelle torbide vicende del restaurato e debole Impero costantinopolitano dei Paleoioghi. Ma nel contempo i Genovesi penetrano nelle strutture interne del mondo bizantino, ne condizionano i movimenti, ne sfruttano al massimo le possibilità. Il più duro scontro con Venezia è ormai inevitabile, e si gioca tanto in Oriente quanto in Occidente, col ripetuto mutare dei rapporti verso la stessa Chiesa romana. Però, all'occorrenza, tanto Chio quanto Caffa e soprattutto Pera possono assumere la funzione della politica alternativa in una sorta di gioco delle parti. E poi c'è, ad onta di conflitti, di guerre, di armistizi e di paci, il fiume dei prodotti orientali, dalle spezie e dalle merci pregiate agli schiavi, che continua ad arrivare alla madre patria, la quale svolge la funzione di pompa aspirante per riversarlo sui mercati occidentali, per via di terra e per via di mare: all'Italia, alla Spagna, al Portogallo, alla Francia, alle Fiandre, alla Germania, all'Inghilterra, agli stessi Paesi nord-africani. Non so vedere, al di fuori di posizioni ideologiche, i reali motivi per cui tutta una storiografia, sia del secolo scorso sia del nostro secolo, ha preteso di portare alla condanna la politica della Repubblica per il suo ripetuto - anche se non direi costante - atteggiamento positivo verso il 9 10

V. VITALE, Breviario della storia di Genova, Genova, 1955, I, p. 95. Т.О. DE NEGRI, Storia di Genova, Milano, 1974, p. 391; V. VITALE cit., p. 96.

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sultano turco che fra il Tre ed il Quattrocento si va impadronendo di tutta l'area orientale. Ripetendo Gustavo Vinay dei «Pretesti della memoria per un Maestro», direi che riesce comodo sentenziare sul passato, standosene tranquillamente a tavolino in un mondo su cui regna la pace. Ma quando il dramma incombe, quando il pericolo è imminente, allora è tutt'altra cosa. E soprattutto chi si trova ed è impegnato sul campo di battaglia non può pensare allejuture accuse di miopia, di egoismo, di grettezza, di tradimento, che gli verranno riserbate dallo storico. Se Tamerlano minaccia Costantinopoli, se Maometto II se ne impadronisce, se la potenza turca è incontenibile, a Genova, troppo lontana per intervenire militarmente, senza appoggi territoriali lungo una rotta di navigazione che non dura giorni, ma settimane e mesi, ed ai coloni del Levante, che si vedono stretti in situazioni non controllabili, non resta altro, per sopravvivere, che cercare l'accordo, in una politica di «appeasement» verso i nuovi dominatori. E tuttavia Giovanni Giustiniani Longo fu l'estremo difensore della capitale bizantina nel 1453; Caffa si sostenne fino al 1475 attraverso le continue difficoltà frapposte dai Turchi alle navi genovesi per il passaggio del Bosforo; Chio, governata dalla Maona, riuscì a sopravvivere sino ad oltre la metà del secolo XVI. Fu proprio il Quattrocento a dimostrare la validità e la vitalità del sistema del Commonwealth genovese, nel momento della crisi maggiore. Ad Oriente le posizioni cadono l'una dopo l'altra. Ad Occidente l'espansionismo catalano-aragonese, che sta costruendo la cosiddetta diagonale insulare, dalla Catalogna alle Baleari, alla Sardegna, alla Sicilia, possibilmente al Levante, minaccia di soffocare la Repubblica nel suo stesso mare Tirreno. I profughi, che giungono dal Mar di Levante, dall'Egeo, da Pera, dal Mar Nero, creano problemi non lievi, di carattere economico e sociale. La perdita della via delle spezie о anche soltanto di centri di rifornimento essenziali alle industrie, come l'allume di Focea, provoca momenti di ten­ sione, per non dire di angoscia. Però il quadro generale regge, mentre le strutture sotterranee già pongono i rimedi. All'Aragona ostile, in costante posizione di non pace e non guerra, si contrappone lo sviluppo della presenza genovese in Castiglia, nel regno islamico dei Nasridi, nel Portogallo, nella Francia e nelle Fiandre, addirittura in Inghilterra. Come dice Ferdinando Braudel, «anche la vita dei giorni più neri ha le sue luci (...). Non ci sono rimedi miracolosi: bisogna aspettare, inarcare la schiena, fare buon viso al cattivo tempo»11. È ciò che fecero i 11

3.

F. BRAUDEL, // bloc notes dello storico, in "Corriere della Sera", 13 aprile 1982, p.

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Genovesi del secondo Quattrocento, fino a quando la perdita del Levante fu compensata dall'apertura della via delle Indie Occidentali per opera di Cristoforo Colombo. Comune e Compagna, da un lato; Communitas, dall'altro. Il Comune, che diventa gradualmente Res publica, assicura quanto basta di struttura istituzionale per fare giuridicamente di Genova e del suo Dominio uno Stato territoriale. La Compagna, prima interna, poi esterna, crea il complesso dell'organizzazione artigianale e mercantile; esprime e sviluppa una mentalità imprenditoriale, porta il fenomeno associativo su base economica al massimo livello; propone i postulati, per non dire il modello, delle Maone, che tanta parte ebbero nella storia esterna genovese; sfocia, in ultima analisi, nelle Compere e nel Banco di San Giorgio, destinato a perdurare sino alla soglia dell'età contemporanea. Il Commonwealth - Communitas secondo la definizione dei Genovesi stessi - è l'unica soluzione possibile, ed anche la più solida ed efficiente, per l'assetto stabile e continuativo di un impero euromediterraneo che si fonda sull'energia e sulla iniziativa individuale, sulla capacità dell'inventiva e dell'adattamento, sulla forza del denaro. E se il Comune e la Compagna sono le componenti essenziali della storia genovese dei secoli XI e XII, nella costruzione di un pur modesto Stato territoriale, il Commonwealth, che consente posizioni diversificate, quando occorra, di luogo in luogo, e di momento in momento, unitamente ad una certa elasticità di movimento rispetto alla madre-patria, assume, dal Duecento in poi, e sempre più, la veste di fondamento di un impero che si articola dalla penisola iberica al Mar Nero, dalla valle Padana al Nord-Africa, per non parlare delle lontane propaggini fino all'Inghilterra о fino alle presenze in Polonia, in Ungheria, in Germania, nella Russia, nell'Iran ed altrove. *

*

*

C'è una storia che si vede ed una storia che non si vede. La seconda è, per buona parte, la storia di Genova: una storia di cui molto s'ignora, come sempre avviene quando i fatti si muovono, mi si consenta l'espressione, per linee interne, attraverso tutto un lavorio sotterraneo, di cui poche tracce rimangono, senza sviluppi clamorosi. La storia di Genova è, sì, una storia intessuta da grosse case commerciali, con i più bei nomi della città; ma c'è anche, in essa, per non dire soprattutto, una folla di medi e piccoli imprenditori, di uomini di fatica, di gente che emigra in ogni parte del mondo in cerca di lavoro e di fortuna. Una storia che non si vede: per questo un illustre studioso del nostro tempo ha considerato come modello

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incisivo del mondo medievale la vicenda di Venezia, ed ha proposto Genova soltanto per un certo periodo dell'età moderna, quando questa sua storia si fa più appariscente. Io credo invece che la storia medievale di Genova non sia meno valida di quella di Venezia: è soltanto un modello diverso, che offre assai maggiori difficoltà a chi si accinga a ricostruirla. Dovrei dire piuttosto che Genova non appartiene о appartiene solo in misura limitata alla storia d'Italia. Il suo sviluppo nel tempo pulsa in un ritmo diverso, poiché per il Genovese dell'età di mezzo è forse più mirato il rapporto con la Barberia, con Costantinopoli, con i Tartari di Crimea che quello con Firenze о con Roma о con Napoli, dove ci si collega о s'interviene soltanto sotto l'impatto della necessità contingente. E se si accetta a Genova, di momento in momento, la bandiera di Francia о quella di Milano, ciò non rientra nel tema della indipendenza о supposta indipen­ denza nazionale: fa parte della complessità del sistema, che punta di volta in volta sul Re о sul Duca in correlazione con l'andamento del mercato, con le difficoltà che, spontaneamente о aizzate ad arte, l'individualismo li­ gure suscita in questa о quella città di una regione territorialmente difficile com'è la Liguria; con le esigenze degl'insediamenti oltremarini, il cui interesse è talora soverchiale rispetto a quello delle terre italiane. Sicché le signorie di Francia о di Milano, con patti concordati e vantaggi bilaterali, possono essere di volta in volta il mezzo più efficace per la salvaguardia della situazione di fronte a maggiori pericoli, come nella dedizione a Giovanni Visconti nel 1353 ed a Carlo VI di Francia nel 1396, e rimangono in vita sino a quando perdura la convenienza. Non è cinismo: è l'unica strada effettiva di sviluppo vitale per chi appartenga ad una terra povera, ristretta, senz'altra prospettiva che quella del mare, costretto a guardarsi costantemente alle spalle, sulla linea dei monti, evitando che ciò venga a costare un prezzo sproporzionato. Parlare, come spesso si fa, dei ceti dirigenti nella Repubblica di Genova significa coinvolgere tutta la storia genovese nella sua globalità. Non soltanto perché in una società, fondata essenzialmente sull'etica del lavoro о del guadagno, si tratta di ceti soggetti ad estrema mobilità, dato che ad essi può ascendere chiunque abbia ottenuto fortuna, ma anche perché in essi rientrano tanto il mercante genovese che lavora in patria о si reca nelle «piazze» italiane, sui mercati della penisola iberica о del Nord Africa, negli stabilimenti d'Oltremare, quanto il notaio che fa parte dell'ammini­ strazione pubblica о scrive atti privati sulla pubblica via; tanto la donna d'affari che opera accanto al marito od in sua sostituzione, quanto l'ec­ clesiastico о l'istituto religioso che impegnano capitali nei mutui, nelle

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società, nelle accomendaciones, nei «luoghi» delle Compere; tanto l'immigrato forestiero che, attraverso Genova, giunge ad assicurarsi posizioni del più grande rilievo in questo о quel paese straniero, quanto il mari­ naio che si serve dell'imbarco per stringere affari nei porti che vengono toccati dalla sua nave. La stessa ripetuta insistenza con cui i termini di populus e populares ricorrono nelle costituzioni e nella storia genovesi, ancorché spesso disattesi, nei fatti, dal loro reale valore, è significativa di una determinata mentalità. Non è facile definire che cosa о quali siano a Genova i ceti dirigenti. Certo possiamo pensare alle figure od ai gruppi più appariscenti. Possiamo citare i vicecomites e gli Avvocati nel secolo XI; possiamo rifarci a singoli esponenti, come Guglielmo Embriaco, Mauro di Piazzalunga, Pagano della Volta all'epoca della prima crociata, о come Ottone Bonvillano che nel 1147 ottenne il governo feudale di Almeria grazie alla crociata di Spagna. Possiamo elencare le grandi famiglie dei Burono, dei Della Volta, dei Mallone, degli Usodimare, dei Vento, ancora nel secolo XII, e ritornare agl'imprenditori del tipo di Solimano di Salerno, uomo di fiducia di re Guglielmo I di Sicilia, e Nicola Lecanoze, che mantenne, a quanto pare, accordi segreti col regno normanno all'epoca di Tancredi. Altrettanto possiamo dire, con maggiori possibilità di esemplificazione, per i secoli successivi. Ci sono, nel Duecento, le famiglie degli Avvocati, dei Castello, Della Turca, Della Volta, De Mari, Doria, degli Embriaco, dei Fieschi, Grillo, Guercio, Pevere, degli Spinola, dei Tornello, degli Zaccaria, che si vanno diramando anche al di fuori della patria: gli Avvocati, i Della Turca, i De Mari, i Pevere in Corsica; i Doria in Sardegna ed in Sicilia; i De Mari e gli Spinola nelle terre feudali dell'Oltregiogo; gli Embriaco ed i Malocello a Varazze (...). Famiglie che raggiungono talvolta una consistenza poderosa, come i 250 Doria che parteciparono alla battaglia della Meloria nel 1284! Ci sono famiglie di banchieri-commercianti che prestano denaro a principi e sovrani: oltre ad alcune di quelle già nominate, i De Turri, i Di Negro, i Dentisto, i Grillo, i Leccacorvo, i Mallone, i Malocello, i Pignolo, i Ricci, i Tartaro, i Vento, i Vignati. Ci sono famiglie che s'imparentarono con case regnanti: esempi noti, quelle dei Doria e degli Spinola nel giudicato di Torres, degli Zaccaria nell'Impero greco dei Paleoioghi. E ci sono famiglie che addirittura assursero al principato, come appunto gli Zaccaria a Chio e, più a lungo, i Gattilusio a Lesbo e ad Enos. Troviamo figure di alta statura politica e militare, pervenute al massimo livello della storia - seppure non tutte di ceto nobile - come Enrico

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Pescatore di Castello, conte di Malta, Guglielmo Porco, grande ammiraglio di Sicilia, Leone Vetrano, conquistatore di Corfu, sul principio del secolo XIII; come Ugo Lercari, che diresse la spedizione di Ceuta nel 1235; come Oberto Doria, vittorioso alla Meloria, o Lamba Doria, vincitore a Curzola nel 1298: personaggi, tutti, che meriterebbero una monografia del tipo di quella dedicata da Roberto Lopez all'ormai celebre Benedetto Zaccaria. Né mancano altri che imposero una propria signoria personale ed effettuale senza superiore investitura о riconoscimento, come i despoti dell'Egeo e del Mar Nero nel Tre e nel Quattrocento: Lo Cavo a Rodi, i fratelli Senarega ad Ilice, i fratelli Ghizolfi a Matrega, Ilario de Marini a Bathiarium ... Ma ci sono anche i draperii, i fornarii, i ferrarti, i bambaxarii, i formaiarii, i manentes, che compaiono negli organi di governo о giungono a far parte del Maggiore Consiglio della Repubblica, sebbene noi non si sappia con certezza quando l'appellativo ancora designa la professione e quando, invece, è ormai assurto a voce cognominale12. Era Tre e Quattrocento gli «alberghi», che portano ad una riduzione numerica dei nomi familiari dei gruppi emergenti, sono la prova migliore dell'ampiezza raggiunta dal fenomeno del moltiplicarsi dei casati e, insieme, dell'ascesa di tanta gente nuova: un fenomeno ininterrotto, che ha contrassegnato i tre secoli precedenti e che ora impone la necessità di dare una certa organizzazione al sistema, minacciato da un eccessivo frazionamento. Grossi complessi, come quelli degli Adorno, dei Centurione, dei Fieschi, dei Eregoso, dei Giustiniani, sembrano riassumere in sé, nel secolo XV, le vicende della Repubblica e del suo impero d'Oltremare, mentre «le classi inferiori - scrive il Vitale - mancavano di una salda Nel Trecento aumenta ancora il numero delle famiglie genovesi eminenti, e che spesso si diramano, oltre che in Ispagna, come già nel Duecento, anche in Portogallo, Francia, Fiandra, Inghilterra, in Oriente, nell'Impero turco: Camilla, Di Negro, Doria, Fieschi, Fregoso, Grimaldi, Lercari, Lomellini, Mallone, Marini, Pessagno, Sardena, Spinola, Usodimare, Vento ... Nel 1333 i Grimaldi viventi assommano addirittura al numero di oltre 111! È un fenomeno di fronte al quale Venezia ha già provveduto, sul piano dell'oligarchia di governo, con la serrata del Maggior Consiglio nel 1297, mentre Genova mette in atto nel secolo XIV il sistema degli "alberghi". Anche ora emergono personalità di grande casato, che si segnalano come esperti condottieri sul mare, come Pagano Doria, vincitore alla Sapienza nel 1354, Luciano Doria, vincitore a Pola nel 1379, Raffaele Doria, conquistatore delle isole Gerbe nel 1388: dove la capacità militare sembra diventata appannaggio d'una stirpe. Ci sono però anche personaggi di minore provenienza domestica, i quali assurgono al massimo rilievo: esempio insigne, il "popolare" Simone Vignoso, conquistatore di Chio e di Focea nel 1346.

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organizzazione, capace di resistere alle forze nobiliari»13. Un giudizio non privo di fondamento, sebbene io non sappia sino a che punto possa ritenersi totalmente valido, dinanzi alla formidabile capacità di resistenza e di ripresa che i genovesi di ogni ceto espressero nel drammatico periodo che va dalla caduta di Costantinopoli alla caduta di Caffa in mano turca. Né manca anche ora l'esempio classico dell' homo novus: Biagio Assereto, salito da semplice notaio a cancelliere del Comune e da patrono di navi mercantili ad alti comandi navali, sino alla vittoria di Ponza nel 1435. La verità si è che l'intera entità socio-economica partecipa attivamente alla vita della Repubblica, con il punto fermo della produttività instancabile, della sistematica ricerca del profitto, della dura temperie di fronte agli eventi sfavorevoli. Né si deve sottovalutare la caratteristica struttura politica ed amministrativa della cosa comunitaria, continuamente mobile, istituzionalmente labile: la quale struttura può essere oggetto di debolezza, secondo l'accusa ricorrente tra gli storici, ma pur tuttavia rappresenta la capacità di adattamento ai tempi ed alle circostanze, la risposta ad una situazione ambientale prefigurata e, direi quasi, alla fantasia della storia. I consoli ed i podestà, cittadini о forestieri, dei primi tempi del Co­ mune, il Capitanato del Popolo che, tra il 1258 ed il 1310, subisce continue trasformazioni, infine il dogato dal 1339 in poi sono affiancati о sostituiti, di quando in quando, da magistrature temporanee, create ad hoc con in­ tento pragmatico: si vedano i Due Capitani del tempo di Federico II, il Consiglio dei 13 cittadini del 1310-1311, quello dei 12 nobiles e dei 12 populares del 1313-1314, per non parlare della sfuggente figura dell'Abate del Popolo già dal 1270. Tutto ciò esprime il travaglio e le istanze d'una società che dallo spazio cittadino esorbita nel Commonwealth, dalla politica regionale si volge al piano internazionale e partecipa agli eventi contemporaneamente sotto diverse prospettive (senza che in ciò possa esservi ragione di condanna da parte di noi moderni studiosi, estranei ai problemi ed alla temperie di quel tempo lontano). *

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13 V. VITALE cit., p. 158. Cfr. anche E. GRENDI, Profilo storico degli "alberghi" genovesi, in «Mélanges d'Archéologie et d'Histoire publiés par l'Ecole Française de Rome», 87, 1975, pp. 241-302; ID., La Repubblica aristocratica dei Genovesi, Bologna, 1987; С.

CATTANEO MALLONE DI NOVI, I "Politici" del medioevo genovese (ricerche d'archivio). Il

"Liber Civilitatis" del 1528, Genova, 1987.

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Più che di una storia di Genova si deve parlare - già è stato scritto - di una storia dei Genovesi14. Soltanto così si potranno inquadrare nella loro esatta realtà, nel giusto posto, un pirata come Alamanno da Costa, che diventa signore di Siracusa nel 1204; Lanfranco Boccanegra, messo da Luigi IX di Francia a capo delle opere di fortificazione di Aiguës Mortes; Nicolino Spinola ed Andalò de Mari, che comandano un'armata di Federico d'Aragona; Francesco Gattilusio, che aiuta l'imperatore bizantino Giovanni V Paleólogo in guerra con Genova; Filippino Doria che, inviato contro i Catalani, occupa invece, intorno al 1355, Tripoli di Barberia e se la vende per proprio conto; l'oriundo astigiano naturalizzato genovese, che nel secondo Trecento diventa l'arbitro delle finanze del regno d'Aragona il quale, cacciatolo per le malversazioni da lui compiute, deve richiamarlo per evitare il collasso finanziario dello Stato15; l'abilissimo Di Negro che nel 1416 costruisce, per incarico dei Turchi, una piazzaforte marittima sulla costa asiatica di fronte ai Dardanelli; il celebre Francesco Draperio, grande mercante ed intimo di Maometto II proprio nell'epoca della caduta di Costantinopoli16. Allo stesso modo non verranno straniati da questa storia, nella sua intrinseca organicità, personaggi come Ansaldo Mallone, ambasciatore del re d'Inghilterra al sultano di Damasco nel 1224; Buscarello Ghisolfi che visitò Roma, Parigi, Londra per incarico del Khan di Persia ed accompagnò alla corte di quest'ultimo un ambasciatore di re Edoardo I Plantageneto; Andalò dei Savignoni che nel 1338 fece parte della legazione papale al Gran Khan del Catai; Oliviero Maruffo, ambasciatore del duca di Borgogna a Filippo Maria Visconti; e tanti altri che agirono fuori della patria, talvolta anche, in realtà о in apparenza, contro gl'interessi о le posizioni contingenti della patria stessa. Certo manca, nel quadro che ho delineato, il ceto dei popolari, in­ teso come entità complessiva, in senso moderno. Basta però sfogliare i cartulari notarili dell'epoca per avere la percezione di quale sia stata la 14

G. AIRALDI, Genova e la Liguria cit., p. 2. Si veda la serie dei dodici «Convegni di studio sui ceti dirigenti nelle istituzioni della Repubblica di Genova», tenutisi dal 1980 al 1991, a cui hanno fatto seguito sistematicamente undici volumi di «La Storia dei Genovesi», Genova, 1981-1991, mentre si è in attesa del voi. XII. Si tenga presente la sempre valida opera di R. LOPEZ, Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo, Bologna, 1938. 15 G. PISTARINO, Un mercante del Trecento alla corte d'Aragona, in «Liguria», XLI. 2/3. febbraio-marzo 1974, pp. 7-9; ID., Luchino Scarampi tra Genova e Barcellona per la pace del 1386, in «Medioevo. Saggi e Rassegne», I, 1975, pp. 32-48. Cfr. la voce Draperio (Draperius, de Draperio, De Draperiis), Francesco, a cura di L. BALLETTO, in «Dizionario Biografico degli Italiani», XLI, die. 1992, pp. 681-684.

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sua importanza, come elemento produttivo e costruttivo, nella storia genovese, e quale la sua interazione con le altre componenti cittadine. Ci sono, nella vicenda di Genova medievale, famiglie importanti, emergenti di volta in volta, che segnano una certa linea di continuità. Ci sono, e non poche, figure singole di tutto rilievo, non solo di genovesi, ma altresì di forestieri, che fungono quasi da protagonisti dell'uno о dell'altro evento e parrebbero condizionare la politica stessa della Repubblica; e tra esse tro­ viamo anche gente del popolo. Ma soprattutto occorre tenere presente che un sistema di Commonwealth, come quello genovese, non avrebbe potuto formarsi, espandersi, e perdurare attraverso i secoli, anche nei momenti di crisi più grave, senza un continuo sforzo collettivo, dove il peso maggiore viene sostenuto proprio dai ceti più modesti: dagli artigiani, dai piccoli commercianti, dai marinai, dagli emigranti in terre prossime e lontane. Ed altre sono le situazioni nella madre-patria, altre quelle nelle «colonie» occidentali, nord-africane ed orientali: varia di luogo in luogo il rapporto con il potere locale, variano le condizioni di vita e di sicurezza, le difficoltà e le responsabilità. Il modesto scriba della città ligure può trovarsi a dovere assumere una funzione governativa determinante a Bugia od a Caffa; il semplice patrono di nave può diventare il vincitore di una battaglia marittima, Г uomo-chiave nel tessuto dei traffici in momenti dif­ ficili dei rapporti entro la diaspora genovese. Il Mediterraneo medievale non è il lago di oggi: è un mondo immenso, che esige lo sforzo ed il sacrificio di tutti, soprattutto nei periodi di crisi, quando, per citare ancora Braudel, «ecco il pigia pigia, i forti si riparano dietro i deboli, se ne servono, li spingono con garbo verso le acque pericolose (...). Il vero coraggio, dopotutto, è quello che si manifesta giorno per giorno nella vita più quotidiana, nel lavoro più monotono»17. Non voglio dire che non si possa e non si debba delineare anche in Genova il tema dei ceti dirigenti, tanto più che, col trascorrere del tempo, dal secolo XI al XV, ceti e categorie meglio s'individuano; e nelle strutture della comunità e dello Stato si configurano e si approfondiscono compiti e poteri. Voglio dire che, anche sotto questo riguardo, qui a Genova il problema è diverso rispetto ad altri luoghi. Soprattutto voglio dire che per tutti i genovesi medievali mi sembra siano quanto mai valide le parole di quell'illustre uomo politico italiano che fu Giovanni Amendola: tutto ciò che abbiamo fatto rimane e si confonde nel flusso della storia.

F. BRAUDEL cit., p. 3.

v L'APOGEO DELLA MELORIA

Rielaborato da Politica ed economia del Mediterraneo nell'età della Meloria, in «Genova, Pisa e il Mediterraneo tra Due e Trecento: per il settimo centenario della battaglia della Meloria, Genova, 24-27 ottobre 1984. Atti della Società Ligure di Storia Patria», 1984, pp. 23-50.

Un isolotto о, meglio, un banco circondato da scogli a fior d'acqua nel Mar Tirreno, lungo 9 km e largo 2, di fronte all'antico Porto Pisano, da cui dista per breve tratto di mare. Questa è la Meloria, celebre per la battaglia del 3 maggio 1241, più nota esattamente come battaglia dell'isola del Giglio, che segnò una grave sconfitta per i Genovesi ad opera della flotta pisano-imperiale; celeberrima per la battaglia del 6 agosto 1284 che segnò la gravissima sconfitta della flotta pisana ad opera di quella genovese. Nemesi storica: alcuni cronisti dell'epoca videro il disastro pisano alla Meloria come punizione divina per la condotta di Pisa nella vittoria del 1241 (2.000 tra morti e feriti, 4.000 prigionieri, tra i quali 100 dignitari della Chiesa): «Tutti i prigionieri, - scrive l'Annalista, - carichi di catene, ammucchiati nelle stive, senza alcun riguardo al sacro carattere sacerdotale, all'età veneranda, furono condotti a Pisa, e di là, trasportati con viaggio altrettanto penoso, a Napoli, dove vennero chiusi nel Castel dell'Ovo, fortezza e prigione». Ma proprio le diverse conseguenze, sui tempi lunghi, della vittoria pisano-imperiale del 1241 e della sconfitta pisana del 1284 dimostrano che una battaglia non è soltanto un fatto d'armi: è il punto di arrivo meglio diremmo: un passaggio obbligato - d'un processo storico ed è, nel contempo, la premessa per ulteriori sviluppi di eventi: rientra in un panorama che la trascende, ma di cui essa è parte integrante. Il conflitto tra Genova e Pisa, per quanto di continuo ricorrente, non rappresenta l'epicentro, il fatto totalizzante, la strada maestra della storia del Mediterraneo od anche solo del Mediterraneo occidentale nel secolo XIII. È comunque uno degli elementi più caratterizzanti della complessa vicenda del suo tempo. Ci chiediamo perciò: quale carica del passato porta in sé la Meloria? quali premesse dell'orizzonte del futuro? e come si colloca nel quadro dell'epoca? *

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Nella seconda metà del Duecento l'assetto del mondo mediterraneo attraversa una fase di profondo rivolgimento, non soltanto per eventi immediati, ma anche per le conseguenze, le onde lontane di fatti più remoti

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nello spazio e nel tempo, che ora giungono a ripercuotersi nella multiforme dinamica del presente. Nel 1222-23 le orde mongole, muovendo dall'Asia centrale, attraversano come un uragano la regione del Caucaso e la Russia meridionale fino al Mar Caspio ed al Mar Nero: nel 1241 sconfiggono a Leignitz le forze slave e tedesche, dilagando per la Polonia e l'Ungheria e raggiungendo la Dalmazia. E se anche si ritraggono ben presto dall'Ungheria e dalla Polonia, instaurano sulla Russia il duraturo dominio dell'Orda d'Oro, dove costituiscono quel vasto impero che consentirà a Marco Polo, ed ai mercanti latini che seguirono le sue orme, il rapporto diretto con la Cina. Nel 1256 Hulagu invade la Persia, l'Irak e la Siria; nel 1258 conquista Bagdad, la cui popolazione viene massacrata, come quella di altre città dell'Irak e della Mesopotamia superiore; nel 1262 è la volta di Mossul. Tabriz, la capitale del dominio degli Ilkani di Persia, il quale comprende anche l'Afghanistan, l'Aserbaigian, l'Irak e l'Asia Minore sino al Kizil Irmak, diventa il nuovo centro della vita politico-economica, in sostituzione di Bagdad e di Mossul, mentre, soprattutto nell'Irak, l'agricoltura e le industrie entrano in crisi. L'invasione mongola nel Vicino e Medio Oriente e la minaccia, che essa portò all'Egitto, si svilupparono proprio mentre quest'ultimo veniva direttamente attaccato dalla prima crociata di Luigi IX di Francia, nel 1248. Conseguenza del doppio pericolo, anche se i crociati finirono sconfitti, fu l'avvento al potere nel Sultanato, nel 1249, alla morte dell'eiubide al-Malik as-Salih, della classe militare dei Mamelucchi, formata in grande maggioranza da ex-schiavi turchi. Bloccato l'espansionismo degli Ilkani con la battaglia di Ain Gialud nel 1260 e ripresa l'iniziativa con la conquista dello Yemen, dello Heggiaz e di alcune province dell'Asia Minore a nord della Siria, i nuovi signori d'Egitto si rivolsero contro gli Stati crociati di Siria e Palestina, per completare e consolidare il loro dominio nelle province asiatiche, sopprimendo le teste di ponte cristiane in Terrasanta, sostenute dalla Chiesa di Roma, ed eliminando queste «piazze» commerciali, concorrenti al mercato di Alessandria. La pressione dei Mongoli di Persia, - con la distruzione dei potentati turchi di Bagdad e di Mossul, - sul sultanato selgiucide d'Iconio, in Asia Minore, da un lato salvò l'Impero greco di Trebisonda, sul Mar Nero, sorto dallo sfacelo dell'Impero di Costantinopoli sotto i colpi della IV crociata del 1202-1204, dall'altro favorì la ripresa espansionistica dell'Impero greco di Nicea, che aveva innalzato la bandiera della riscossa contro l'Impero Latino d'Oriente, instaurato dai crociati con l'appoggio

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veneziano. Giovanni III Dukas-Vatatzès di Nicea conquistò nel 1246 Tessalonica, togliendola ai Monferrato; sventò nel 1249 un tentativo genovese per impadronirsi di Rodi con l'aiuto del Villehardouin * ; occupò l'isola di Chio nel 1255. Mentre nei Paesi dell'interno del Vicino Oriente i Mongoli affermano il loro dominio ed i Greci di Nicea avanzano nell'Asia Minore, i Latini dei residui Stati crociati di Terrasanta si combattono tra loro, ignari od incuranti od inconsci dei pericoli che già minacciano all'orizzonte. La posta è rappresentata dalle «piazze» commerciali, da cui si dipartono gl'itinerari verso l'Asia centrale; l'epicentro è costituito da San Giovanni d'Acri oggi Akka - punto d'arrivo e di partenza per le carovane orientali, grande luogo di mercato, sede di un quartiere genovese, uno pisano, uno veneziano. Proprio qui, ad Acri, i Pisani fecero la grande prova in Oriente contro i Genovesi nel 1222, in quel duro conflitto nel quale finirono rovinate molte case e fortificazioni di Genova2: i Veneziani furono chiamati a comporre la vertenza; i Pisani vennero condannati al risarcimento dei danni ed alla ricostruzione della grande torre dei Genovesi, andata distrutta. Altro scontro violento tra i Genovesi ed i Pisani nel 1249, quando si battagliò per 21 giorni con largo impiego di macchine da guerra; un console genovese venne ucciso; si raggiunse la tregua grazie alla mediazione di Giovanni d'Ibelin, signore di Arsuf, baiulo e conestabile del regno di Gerusalemme3. Peggio ancora alcuni anni più tardi, nella famosa guerra coloniale del 1257-584: la colleganza pisano-veneziana, sostenuta da altri coloni occidentali, riuscì a prevalere sui genovesi, rimasti quasi soli, i quali, asserragliati nel loro quartiere, resistettero con l'energia della disperazione, in una città devastata dai combattimenti, che si dice provocassero quasi 20.000 morti. Quando i genovesi furono costretti ad arrendersi, salva la vita, ma espulsi dalla città, la loro torre grande venne scavata intorno alle fondamenta dai veneziani e dai pisani, sì che potesse penetrarvi l'acqua dal profondo, ed i vincitori vi confluirono con le barche, gridando: «La torre dei Genovesi naviga!». In una società violenta come quella medievale, 1

G. PISTARINO, Genovesi d'Oriente, Genova, 1990, cap. Ill; S. ORIGONE, Bisanzio e

Genova, Genova, 1992, pp. 116, 127. 2 R. LOPEZ, Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo, Bologna, 1938, p. 171. 3 PH. P. ARGENTI, The occupation of Chios by the Genoese and their administration of the island, 1346-1566, Cambridge, 1958, p. 9. 4 Т.О. DE NEGRI, Storia di Genova, Milano, 1974, pp. 376-381.

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irridere ai vinti rientrava nei comportamenti di guerra, ma l'affronto subito, unitamente alle durissime condizioni di pace, non poteva essere facilmente dimenticato a Genova, così orgogliosa del proprio prestigio. La sconfitta di Acri ebbe come conseguenza immediata il trasferimento delle attività commerciali dei Genovesi a Tiro, a Sidone, a Tripoli5: in più lunga distanza ed in più ampio orizzonte fu una delle ragioni del loro accostarsi all'Impero di Nicea fino all'alleanza del 1261 con Michele VIII Paleólogo, che preluse alla caduta dell'Impero Latino d'Oriente, sostenuto da Venezia, ed alla nuova leadership genovese nell'Egeo, nel Mar di Mannara, nel Mar Nero6. Localmente, in Terrasanta, essi cercarono di rifarsi in puntate offensive, come quando, nel 1287, armarono unaflottadi cinque galere ed un galeone al comando di Rolando Ascherio, e posero il blocco al porto acritano, ritraendosi soltanto dietro intervento dei Templari e degli Ospedalieri. Piccolo episodio, come tanti altri, della più grande vicenda dello scontro tra mondo cristiano e mondo islamico, destinato a concludersi qui tragicamente nel giro di pochi anni. *

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Se nel Mediterraneo occidentale nella seconda metà del Duecento il rapporto tra Cristianesimo ed Islam ha raggiunto un equilibrio statico, nel Mediterraneo orientale la nuova aggressività del sultanato mamelucco d'Egitto e poi la nascita del sultanato osmanlo d'Anatolia riportano e riporteranno l'Islam alla conquista dopo l'uragano mongolo, e ripropongono il tema vincente dell'Oriente musulmano. Tra il 1265 ed il 1268 il sultano d'Egitto, Baibars, conquista Cesarea, Arsuf, Giaffa, Antiochia, Gibello. Il suo successore, Kelavun, riprende Laodicea, che i Latini hanno da poco tolto al sultanato di Aleppo. Nel 1289 cade in mani egiziane Tripoli di Siria, dove Benedetto Zaccaria, uno dei vincitori, se non il vero vincitore, alla Meloria, mette in salvo sulle navi quanta più gente può, prima che i conquistatori facciano scempio con stragi e devastazioni. Numerosi cronisti cristiani hanno rievocato il tragico evento con accenti appassionati; ma, forse, riesce più di tutti drammatico, nella sua brevità, il racconto dell'arabo Abu'lfeda: «Gli abitanti fuggirono dalla parte del porto, ed un piccolo numero di loro poté imbarcarsi sulle navi e G. PISTARINO, Genova e il Vicino Oriente nell'epoca del Regno latino di Gerusalemme, in «I Comuni italiani nel Regno crociato di Gerusalemme. Atti del Colloquio: The Italian Communes in the Crusading Kingdom of Jerusalem, Jerusalem, May 24 - May 28, 1984», Genova, 1986, pp. 57-140. 6

Т.О. NEGRI cit., pp. 381-383; S. ORIGONE cit., pp. 118-123.

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salvarsi. La maggior parte degli uomini della città furono uccisi; i bambini furono portati in cattività... Quando i musulmani ebbero finito di uccidere gli abitatori e di saccheggiare la città, il sultano la fece radere al suolo». Il 19 maggio 1291 fu la volta di San Giovanni d'Acri, con uguali rovine, dove ugualmente si adoperarono per i fuggiaschi due galere genovesi quelle di Andrea Pelato - presenti nel porto: ed allora Tiro, Sidone, Beirut, Tortosa vennero evacuate7. Inutile chiedersi se i Genovesi, i Veneziani e i Pisani si rendessero conto delle disastrose conseguenze dei loro interni conflitti nei riguardi della capacità di resistenza del residuo Regno latino di Gerusalemme, di cui Acri era capitale; del danno irreparabile che le loro rivalità provocavano all'intera comunità occidentale a vantaggio dell'opposto schieramento islamico. Il tornaconto immediato, lo sguardo a breve raggio spaziotemporale, l'ostilità verso il concorrente vicino prevalgono di norma sulla genericità dei vantaggi nella prospettiva dei tempi lunghi. Nel mondo degli affari alleanze ed antagonismi non corrono sul filo della fede religiosa e neppure su quello dell'ideologia politica, ma sul calcolo dell'interesse immediato, del tornaconto a breve scadenza, nella convinzione che il fattore economico è ciò che conta, prevalendo su qualsiasi altra considerazione, sicché non si scevera tra cristiano e musulmano, tra credente ed infedele, tra l'amico ed il nemico di ieri о di domani, ma soltanto, о soprattutto, nel rapporto con la controparte in sede di profitto. Né possiamo dimenticare che Genovesi e Veneziani, Pisani ed Amalfitani od Anconitani si sentono tra loro stranieri alla stessa guisa che nei riguardi dei Catalani о dei Provenzali, dei Castigliani о dei Portoghesi, anzi talvolta ancora più. E neppure possiamo ignorare quanto ha scritto Georg Caro a proposito della perdita degli ultimi possedimenti cristiani in Terrasanta: «Che la colpa debba esserne ascritta alle discordie dei cittadini delle città marittime italiane, è asserzione tanto antica quanto infondata (...). A carico delle città marittime può imputarsi soltanto l'indifferenza che regnava in generale nelle potenze secolari dell'Occidente per le sorti della Terra Santa»8. ABU'LFEDA, Géographie, ediz., EINAUD, Paris, 1848; G. HEYD, Storia del commercio del Levante nel medioevo, ediz. italiana (dall'edizione originale tedesca, Geschichte des Levantehandel im Mittelalter, Leipzig, 1879), Torino, 1913; pp. 366-373; R. LOPEZ, Storia cit., pp. 237-238. 8 G. CARO, Genova e la supremazia nel Mediterraneo 1257-1311 (traduz. italiana di Genua und die Mächte in Mittelmeer 1257-1311, Halle, 1895-1899), in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», XIV-XV, 1974.

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Aggiungo, per quanto concerne i Genovesi, che, dopo la restaurazione dell'Impero greco nel 1261, grazie alla quale essi ebbero davanti a sé spalancate le porte del Mar Nero con i suoi tesori e le sue linee terminali per l'India e per la Cina, gli ultimi stabilimenti latini in Terrasanta diventarono ai loro occhi un quadro secondario, in cui non c'era più un'incentivo inderogabile nell'impiego di energie e di capitali di fronte alla spesa ed ai sacrifici che avrebbe richiesto l'impegno contro l'avanzata islamica. Quando ad uno ad uno cadono, tra il 1265 ed il 1291, gli ultimi brandelli degli antichi staterelli crociati, il cronista Iacopo Doria annota laconicamente, quasi a conclusione di un'epoca: «E così tutta la terra dei Cristiani, eccettuata l'Armenia, fu allora perduta»9. Era la fine di un ciclo, non di una storia. Rimase in mani cristiane la Piccola Armenia, aperta sul golfo di Alessandretta nella penisola anatolica, dove s'infoltirono e i genovesi e i veneziani, ma furono presenti anche i pisani. Rimase in mani cristiane l'isola di Cipro, ugualmente affollata da genovesi, pisani, veneziani e amalfitani, in un sistema economico bilanciato tra l'Isola e l'antistante regno cristiano armeno sul continente. Qui si trasferirono grandi commerci del Mar di Levante e, insieme ad essi, rivalità e contese tra Genova e Venezia che, dopo la Meloria, presero il posto di quelle tra Genova e Pisa. Non a caso proprio di fronte alla Piccola Armenia si svolse la battaglia di Laiazzo tra Veneziani e Genovesi con la vittoria di questi ultimi nel 1294. #

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Il grosso nodo orientale era quello dell'Impero costantinopolitano, nelle sue implicanze con la Chiesa greca e la Chiesa latina, con le Repubbliche italiane e la Corona aragonese, con la diaspora territoriale provocata dalla IV Crociata e non più sanabile. L'imperatore di Nicea, Michele VIII Paleólogo, dal quale partì la riscossa bizantina, al concilio di Lione del 1245 aveva aderito alla Chiesa romana; quando però, dopo avere ripreso Costantinopoli nel 1261 restaurandovi l'Impero greco, inviò a Roma, a papa Martino IV, appena eletto al soglio pontificio, nel 1281, i vescovi di Eraclea e di Nicea «per conoscere - dice il cronista Giorgio Pachimero - il suo stato presso il papa», i due ecclesiastici furono ricevuti «freddamente e con disprezzo, e non vennero ammessi in presenza del pontefice, se non a tarda ora e di malavoglia». Accusando l'imperatore ed i suoi di essere Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, IX, Jacopo Daria (parte seconda), traduz. di G. MONLEONE, Genova, 1930, p. 44.

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soltanto dei simulatori di concordia, papa Martino «nel giorno di giovedì santo del 1281 scomunicò come scismatici esso Paleólogo e tutti i Greci e tutti i loro partecipi». Lo scisma riprendeva dunque in modo clamoroso: tant'è vero che alla morte di Michele VIII, nel 1282, il figlio e successore Andronico II, indotto dall'ostilità del clero greco contro il defunto per la sua adesione al concilio lionese, «ordinò che il Padre di lui Augusto non fosse degnato di onorevole memoria, né di giuste esequie, celebrate secondo il rito col canto dei salmi, e nemmeno di ecclesiastica sepoltura»; «anzi fu posto in un tumulo al di sopra della terra»10. In realtà, fatta eccezione per Genova, l'Occidente latino non aveva gradito la restaurazione greca in Costantinopoli, che si riteneva - nonostante l'atteggiamento di Michele VIII - non potesse non compromettere la possibilità di riunione delle due Chiese sotto il segno di Roma e quindi la ricostituzione di un più solido baluardo antislamico. All'elezione di papa Martino IV, grande fautore di Carlo d'Angiò, la bandiera del caduto Impero Latino d'Oriente venne ripresa dallo stesso Carlo, re di Sicilia, il quale s'era prefisso - scrive Brunetto Latini - «di conquistare lo imperio di Costantinopoli e di trarlo di tra mano del Paglialoco». Le vicende orientali si ripercuotono in Occidente, in un groviglio di causa ed effetto. Il trono del Sacrum Imperium è vacante dal 1254, dopo la morte di Corrado IV, e lo rimane sino al 1273, all'elezione di Rodolfo d'Asburgo. Il maggiore aspirante alla corona imperiale durante il grande interregno è Alfonso X di Castiglia, figlio di Beatrice, figlia di Filippo di Svevia: quindi pronipote di Federico Barbarossa. L'ambasceria pisana che nel 1256 venne a Sória, a portargli ilriconoscimentocome Re dei Romani, dopo che era stato ucciso l'altro pretendente, Guglielmo d'Olanda, aprì al regno castigliano la possibilità di inserirsi nella politica europea, uscendo dall'isolamento della guerra di Reconquista. Sennonché le prospettive favorevoli ad Alfonso X furono di breve durata. A metà del Duecento la decadenza dell'impero islamico degli Almohadi nell'Africa maghrebina era giunta alla fase finale, sì che i Merinidi, provenienti dall'interno, poterono impadronirsi del Marocco e della stessa capitale Saleh. Alfonso tentò di approfittare della situazione nel 1260 con una spedizione, proclamata come una crociata, che gli avrebbe dato grande prestigio anche in Occidente, ma, dopo una prima azione fortunata con la conquista di Saleh, egli fu battuto da una controffensiva musulmana. Una sua seconda spedizione venne impedita nel 1264 da un'insurrezione dei 10

G. PACHYMÉRÈS, Relations Historiques, ed. A. FAILLER, trad. V. LAURENT, Corpus

Historiae Byzantinae, XXIV, I-II, Paris, 1984.

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mori di Andalusia e di Murcia, sostenuti dal regno moresco di Granada e dal Marocco. Una terza finì iiTun disastro, nel 1279. In realtà, già la crociata di Luigi IX contro Tunisi nel 1270, sebbene avesse inflitto un duro colpo ai principi musulmani del Nord-Africa, aveva messo in evidenza l'impossibilità per le forze cristiane di procedere a conquiste stabili sull'opposta sponda del Mediterraneo. Sul versante occidentale di questo mare la linea di confine tra cristianesimo ed islamismo aveva raggiunto una sostanziale posizione di equilibrio, destinata - con la sola eccezione del regno musulmano dei Nasridi - a farsi stabile nel tempo. Svanivano anche le aspirazioni di Alfonso X alla corona imperiale, in conseguenza della ribellione della nobiltà castigliana nel 1269, dell'opposizione decisa di papa Gregorio X, dell'elezione di Rodolfo di Asburgo al trono dell'Impero nel 1273, dell'invasione dei marocchini di Fez e dei mori di Granada nei regni di Castiglia e di Jaén nel 1275, mentre si apriva il «pleito» per la successione al trono castigliano. Il tentativo della Castiglia per inserirsi nel vivo della politica europea finisce nel nulla, anche se Genova è già presente in questa parte della Spagna, sia sul versante cristiano sia su quello islamico, con la folla dei suoi mercanti e con accordi a livello di governo tanto a Siviglia quanto a Granada. Diversa la situazione della Corona catalano-aragonese, essa pure stretta da intensi commerci con la capitale ligure. L'insurrezione e la guerra del Vespro, con la spaccatura del Mezzogiorno italiano fra gli Angioini a Napoli e gli Aragonesi in Sicilia, introduce una grossa variante nel quadro mediterraneo. Lasciando alla Castiglia il maggiore peso della Reconquista antislamica, l'Aragona, col supporto della borghesia mercantile catalana, si lancia alla politica marittima a lunga distanza, non più limitandosi al problema delle Baleari e ponendo un solido tassello per la costruzione della famosa diagonale insulare, che rappresenterà per Genova un pericolo mortale. Ma qui il discorso c'induce a considerare quello che, nella seconda metà del secolo XIII, si prospetta come uno dei punti caldi nel quadro mediterraneo e nella politica mondiale, strettamente connesso con l'Impero d'Oriente: il regno di Sicilia. *

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Successi al trono siciliano gli Angiò nel 1266, con l'appoggio del papa, alto signore feudale del regno, i nuovi sovrani continuarono la politica orientale dei loro predecessori svevi e già dei precedenti Normanni, per mettere piede al di là del canale d'Otranto. Con un accordo del 1267 re Carlo I promise a Baldovino II, lo spodestato imperatore latino d'Oriente,

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un esercito per la riconquista di Costantinopoli; ne ottenne in cambio l'investitura in titolo dei superstiti principati franchi orientali e la promessa, per quando Baldovino fosse risalito in trono, della concessione dell'Acaia, di Tessalonica e di un quarto dell'Impero. L'accordo fu rinsaldato nel 1273 dalle nozze di Beatrice d'Angiò con il figlio di Baldovino II, Filippo di Courtenay, il quale, poco tempo dopo la morte del padre, divenne formalmente titolare dell'Impero Latino d'Oriente. Nel 1278 l'avanzata orientale degli Angiò ha ormai stretto quasi da ogni parte l'Impero greco. Carlo d'Angiò si è impadronito dell'Acaia e prende il titolo di re di Albania. Possiede Corfu ,ed altre isole di quell'area; ha come vassalli il despota di Epiro, il duca di Atene, i terziari di Negroponte; mantiene relazioni con il re di Serbia e lo zar dei Bulgari. Ma non possiede una flotta che gli consenta di competere con la pur debole armata navale bizantina e soprattutto con i corsari greco-genovesi, che rappresentano la maggiore difesa dell'Impero e gl'impediscono una vittoria definitiva. Il trattato di Orvieto del 3 luglio 1281 tra Γ Angiò e Venezia venne a sanare questa deficienza. Un'armata di 40 navi fu garantita da Venezia, che desiderava riprendere le posizioni orientali, perdute con la caduta dell'Impero Latino. Allo schieramento delle forze antigreche aderirono i Pisani, stretti a Venezia da precedente trattato di alleanza; aderì anche il papa, nell'intento di riportare al potere in Costantinopoli i Latini cattolici contro i Greci ortodossi. Re Carlo tentò di coinvolgere gli stessi Genovesi, i quali però, non avendo nessun interesse alla restaurazione della potenza veneziana in Oriente, si affrettarono a mettere sull'avviso l'imperatore greco, Michele VIII. Quest'ultimo si era già premunito con una rete di alleanze orientali tra cui i Mongoli del Kipciak ed i Mamelucchi d'Egitto. Cercò appoggi anche in Occidente. Si rivolse inutilmente alla Castiglia, in piena guerra civile per la ribellione di don Sancio, - sostenuto da grandi dignitari laici ed ecclesiastici, - al padre, Alfonso X, che fu salvato da un intervento dell'emiro del Marocco, ed era appoggiato dal papa e dal re di Francia, sicché si trovava implicitamente legato al partito degli Angiò. Migliore udienza gli ambasciatori dell'imperatore di Costantinopoli trovarono presso il regno di Aragona. Era un momento di particolare tensione per l'esplosione della guerra del Vespro, intervenendo nella quale gli Aragonesi intendevano aggiungere un tassello alla costruzione della famosa diagonale insulare, cioè della grande via delle spezie che da Barcellona doveva indirizzarsi verso i paesi levantini lungo una catena di basi insulari. Già signori delle Baleari, i sovrani d'Aragona puntano ora sulla Sicilia, riservando ad un secondo mo-

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mento, con una manovra a tenaglia, l'attacco alla Sardegna. Non occorre qui soffermarsi sulle vicende della guerra del Vespro, sulla separazione delle due corone, con Alfonso el Benigno sul trono aragonese e Giacomo el Justo su quello siciliano. Ma ciò che sembra opportuno sottolineare è l'investitura papale del regno di Sardegna e di Corsica, concessa da Bonifacio VIII nel 1297 a Giacomo d'Aragona, passato nel frattempo dal regno siciliano a quello aragonese: un tentativo del papa per fare sì che Federico III di Sicilia, fratello di Giacomo, restituisse il trono dell'Isola agli Angiò. La restituzione non ci fu, ma i sovrani aragonesi ebbero in mano, con questa investitura, un'ottima carta per avanzare le successive rivendicazioni sulla Sardegna, contesa tra Genovesi e Pisani11. *

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Tra Oriente ed Occidente: un panorama quanto mai complesso. Il mondo euro-mediterraneo è diventato un orizzonte unitario, senza settori separati, senza compartimenti stagni, tra cattolici romani e greci ortodossi, tra cristiani e musulmani. Persino il piccolo regno moresco di Granada, nella Sierra Nevada della Spagna andalusa, sorto nel 1232 contro il signore di Murcia, Ibn Hud, ed intorno al 1238 dalla ribellione del nasride Muhammad Ibn al-Ahmar, prende parte attiva alla grande politica internazionale, senza preclusioni di carattere religioso: si vedano, ad esempio, il trattato concluso con Genova nel 1278-79 e le conferme del medesimo nel 1295 enei 129812. In questo quadro coesistono una componente politica, una economica ed una militare: accordi diplomatici internazionali, correnti mercantili, fatti d'arme. Le risultanze, positive о negative, derivano dal loro armonico о disarmonico intrecciarsi, dall'interno equilibrio о squilibrio tra gli uni e gli altri, dalla loro intrinseca consequenzialità. La battaglia della Meloria, definita da Roberto Lopez come «la battaglia marittima più importante del medio evo», sarebbe rimasta, nonostante tutto, uno dei tantissimi fatti d'arme che costellano la storia, spesso appena accennati nei libri; non S. FODALE, Il Regno di Sardegna e Corsica, feudo della Chiesa di Roma (dalle origini al XIV secolo), in « Genova, Pisa e il Mediterraneo fra Due e Trecento. Per il VII centenario della battaglia della Meloria, Genova, 24-27 ottobre 1984», «Atti della Società Ligure di Storia Patria», XXIV, 1984, pp. 515-568. Cfr. anche C. CASULA, La Sardegna dopo la Meloria, ibidem, pp. 499-514. 12 BL. GARÍ, Genova y Granada en el siglo XIII: los acuerdos de 1279 y 1298, in «Saggi e documenti VI», Genova, Civico Istituto Colombiano, Studi e Testi, Serie Storica a cura di G. Pistarino, n. 8, 1985, pp. 173-206; G. PISTARINO - В. GARÍ, Un trattato fra la Repubblica di Genova e il Regno moresco di Granada sulla fine del Quattrocento, in "La storia dei Genovesi", X, 1990, pp. 395-412.

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sarebbe cioè assurta ad ipostasi, ad espressione della potenza genovese, alla qualificazione di elemento determinante di un ciclo storico, se non si fosse inserita in un complesso di altri fattori che in quel momento erano altrettanto positivi per Genova, uscita vincitrice, da poco più di trent'anni, nell'aspra contesa con Federico II di S ve via, dominatrice sulle Riviere, prevalente nei mari d'Oriente come nella penisola iberica, emergente tra il mondo cristiano come tra quello islamico13. Il conflitto con Pisa si trascinava dal secolo XII, tra scontri bellici, tregue, paci, riprese militari e diplomatiche. Già nel 1160 Beniamino di Tudela scrive nel suo Itinerario che i Genovesi «dominano il mare; fanno costruire navi, chiamate galee, sulle quali vanno a saccheggiare le regioni più lontane e riportano il bottino a Genova. Vivono in guerra perpetua contro Pisa». La posta era il predominio sul Mediterraneo occidentale, nella contrapposizione tra la proiezione pisana verso la Sardegna e le Baleari e la proiezione genovese verso la Sicilia, la Spagna del Sud ed il Nord-Africa. I riflessi investirono gradualmente il quadro dell'Oriente, dall'Egitto alla Terrasanta, dal Mar di Levante e dall'Egeo al Mar di Mannara, al Mar Nero, al Mare d'Azov. Molteplici le alleanze dall'una e dall'altra parte, i cambiamenti di fronte, l'improvviso esplodere di situazioni nuove. Ma il rapporto tra Pisa e Genova diventava sempre più inversamente proporzionale nel decorso del tempo. Certo i Pisani, come i Genovesi, già tra la finřdel secolo XI ed il principio del XII sciamavano verso il NordAfrica e l'Oriente. I primi erano favoriti dalla maggiore vicinanza, in linea di navigazione, verso quei mercati; però la relativa minore lunghezza del percorso non era sufficiente a compensare il più rapido incremento dell'accumulo di capitale che contraddistingue la Genova dell'epoca. Per essa il rapporto con Pisa nel Duecento, anche se i cronisti dell'epoca lo considerano essenziale, anzi primario, è una costante che oserei dire locale, cioè non «il problema», ma «un problema», fra i molti che si propongono alla Repubblica genovese, per la quale, semmai, la vera questione è già per tempo - basta pensare alla IV Crociata - lo scontro con Venezia, come lo sarà, fra Tre e Quattrocento, lo scontro con la Corona d'Aragona. Per Pisa quello con Genova è invece davvero un rapporto fondamentale, incentrato ab origine sullo spazio vitale che va dalla Toscana alla Sardegna ed alla E. ASHTOR, Il retroscena economico dell'urto genovese-pisano allafinedel Duecento, in «Genova, Pisa e il Mediterraneo» cit., pp. 51-82; M. TANGHERONI, La situazione politica pisana alla fine del Duecento tra pressioni esterne e tensioni interne, in «Genova, Pisa e il Mediterraneo» cit., pp. 83-110.

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Corsica: uno spazio senza la cui garanzia di libero transito risulterebbe impossibile ogni slancio marittimo pisano verso i mari lontani. Non si può dire, tuttavia, che Pisa fosse in condizione di rilevante inferiorità rispetto a Genova. Dal punto di vista militare: la città lontana dalla costa, difesa dalle torri e dalle catene di Porto Pisano, godeva di una posizione eccellente, contro qualunque tentativo nemico di sorpresa. Nell'area del Tirreno: tra la Toscana, l'Arcipelago, l'Elba e la Sardegna, i Pisani potevano intercettare con la guerra di corsa il movimento della flotta mercantile genovese. Nel Levante: essi erano numerosi in Egitto, a Cipro, nella Piccola Armenia, in Terrasanta, dove si appoggiavano in modo particolare alle «piazze» di San Giovanni d'Acri e di Tripoli. Frequentavano in misura minore la Romania settentrionale, anche se li troviamo a Costantinopoli e possedettero la base di Porto Pisano nel Mare d'Azov. Ad Occidente: erano attivi nella Spagna cristiana, ivi comprese le Baleari. Insediati in Sardegna, dal porto di Cagliari intessevano commerci con gli Stati africani degli Abd-el-Uaditi e degli Hafsidi. È stato ricordato da Salvatore Bono l'episodio dell'attacco di due navi pisane a due tunisine nel porto della Goletta nel 1200: mentre le autorità di Tunisi provvedono alle rappresaglie contro i Pisani e si cerca di comporre l'incidente per via diplomatica, il governatore tunisino invia un salvacondotto ai mercanti di Pisa che hanno lasciato la sua città, invitandoli a rientrare. Un dragomanno di Tunisi scrive ad un uomo d'affari pisano: «Vieni, - lo esorta - poiché non troverai altro che bene, e non temere: né tu né chiunque venga teco non vedrete altro che bene, e le merci sono a buon prezzo (...)». Sappiamo da un documento intorno al 1271 che il porto di Bugia era frequentato da pochi cristiani, fatta eccezione per i mercanti di Pisa. Su e giù per il Mediterraneo, indefessamente, pure attraverso il mutare improvviso delle situazioni: così i pisani sono a Costantinopoli durante l'Impero Latino d'Oriente, soggetto a tutela veneziana, e tuttavia nel trattato del Ninfeo del 1261 tra la repubblica di Genova e Michele VIII Paleólogo, imperatore di Nicea, che portò alla restaurazione dell'Impero greco, essi vengono definiti come «fedeli dell'Impero» e pertanto non sono soggetti alle limitazioni che i Genovesi hanno preteso contro i propri avversari, primi fra tutti i Veneziani. *

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Per Genova il primo Duecento, sino a poco oltre la metà, non è scevro da difficoltà. Ricordo nei primi sessant'anni del secolo l'esclusione dallo spazio mercantile dell'Egeo, almeno fino al 1218, in seguito alla IV

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Crociata о crociata dei Veneziani ed alla creazione dell'Impero Latino d'Oriente, nel 1202-1204; la durissima sconfitta nella battaglia del Giglio del 1241; l'espulsione da San Giovanni d'Acri nella guerra coloniale del 1257-58; la contemporanea perdita, ad opera dei Pisani, delle posizioni del castello di Cagliari e di Santa Igia, cadute rispettivamente nel 1256 e nel 1257, mentre lo stesso Logudoro, grande mercato del traffico genovese, entra in condizione d'instabilità per l'intervento del giudice di Arborea, filopisano, e di Ugolino di Donoratico, vicario di re Enzo. Fu quello il momento del massimo successo per Pisa in Oriente ed in Occidente. La ripresa genovese si attua nelle premesse già con l'ascesa al pontificato di papa Innocenzo IV, al secolo Sinibaldo Fieschi, largo di favori alla sua casata, a Genova ed ai Genovesi, e con la vittoria su Federico II e la fazione ghibellina; si potenzia con l'alleanza con Michele VIII Paleólogo, imperatore greco di Nicea, in funzione antiveneziana, e la ricostruzione dell'Impero greco di Costantinopoli, seppure mutilato. E si completa con il trattato con Ferdinando III di Castiglia nel 1251, confermato da Alfonso X nel 1261; con la pace del 1278-79 ed i trattati del 1295 e del 1298 con il regno moresco di Granada; con la vittoriosa guerra contro Carlo d'Angiò, re di Sicilia, nel 1272-76; con l'inizio di regolare navigazione oltre le Colonne d'Ercole sino alle isole britanniche negli ultimi lustri del secolo XIII; con il tentativo dei fratelli Vivaldi per la circumnavigazione dell'Africa, nel 1291; con la diaspora degl'insediamenti nel Mar Nero, la fondazione di Caffa e di qui il pressocche regolare traffico mercantile con la Persia, l'India e la Cina. La situazione si capovolge dunque per Genova nel giro di circa quarant'anni: dalla depressione all'ascesa; dalla crisi politico-economicosociale all'apogeo. Giustamente Roberto Lopez ha potuto citare tre sole città italiane, la cui storia è tutt'uno con la storia del mondo dell'epoca: Genova, Venezia e Firenze, ed ha potuto affermare che «tra queste città, non v'è dubbio, negli ultimi anni del secolo XIII, Genova ha il primato». È proprio lo sconvolgente dilatarsi del quadro storico del Duecento a determinare il diverso destino di Genova e di Pisa, anzi a dare rilievo alla vittoria di Genova su Pisa alla Meloria come punto nodale di crisi nella storia pisana, mentre altrettanto rilievo non ha assunto all'occhio dello storico, ad esempio, la sconfitta di Venezia a Curzola nel 1298, dove le perdite veneziane (84 galere catturate; 7.000 morti; 8.000 prigionieri, secondo l'anonimo cronista genovese) non possono dirsi più lievi rispetto a quelle pisane di quattordici anni prima.

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Il Mar Nero, aperto ai Genovesi dal trattato del Ninfeo del 1261, diventa il loro punto di forza, proprio nel momento in cui la geografia dell'Asia domina l'Europa, grazie all'avvento della par mongolica che garantisce i traffici sino alla Cina. Stabilimenti territoriali, colonie mercantili, punti di appoggio navali, sotto governo о tutela genovese, costellano le rive del Ponto Eusino, controbilanciati solo in parte, ad un certo momento, dai Veneziani. A Pera, di fronte a Costantinopoli, al di là del Corno d'Oro, il nucleo genovese, non appena autorizzato dall'imperatore Michele VIII, nel 1267, s'infoltisce e si potenzia rapidamente. All'estremo opposto del Mar Nero nasce in Crimea, in quel medesimo volgere d'anni, il porto di Caffa, su terreno venduto ai Genovesi dal khan dei Tartari, e s'ingrandisce sino ad ottenere la definizione di Ianuensis civitas in extremo Europe ed a divenire l'epicentro di un vero distretto. Nell'Egeo, quel grande mercante, diplomatico e uomo di guerra, che fu Benedetto Zaccaria, mette le mani sulle miniere di allume di Focea in Anatolia, nel 1275, e di qui si appresta ad occupare Chio, centro mondiale della produzione del mastice. Dall'Egeo e dal Mar Nero maestranze e comandanti genovesi si spingono al Mar Rosso ed al Mar Caspio: nel 1290 un capitano genovese combatte la pirateria nel Mar Rosso per conto del khan di Bagdad; altri armano due galere sul Mar Caspio per garantire la polizia del mare ed il passaggio sulla strada per la Cina. Sul versante opposto dell'orizzonte mediterraneo, nella penisola iberica, in seguito al trattato del 1251 con il regno castigliano ed a quello del 1278-79 con il regno granadino, la Spagna, sia cristiana sia islamica, s'infittisce di genovesi, che giungono nel 1264, con Ugo Vento, a ricoprire la carica di Ammiraglio di Castiglia, e portano nel 1292, con Benedetto Zaccaria, la flotta castigliana, formata in buona parte da navi ed equipaggi genovesi, alla prima grande vittoria cristiana sul Marocco nella battaglia di Marzamosa, mentre Granada, Almería e poi Malaga, musulmane, ospitano i membri di famiglie di Genova tra le più illustri. E fu ancora Benedetto Zaccaria a preparare nel 1297 il famoso piano di guerra navale per Filippo il Bello di Francia contro gl'Inglesi14. *

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R.S. LOPEZ, Genova marinara nel Duecento: Benedetto Zaccaria ammiraglio e mercante, Milano-Messina, 1933; ID., Alfonso el Sabio y el primer almirante de Castilla Genovés, in «Cuadernos de Historia de Espana», ХГѴ, 1950, pp. 5-16, traduz. italiana: Ugo Vento, primo ammiraglio genovese di Castiglia, in «Bollettino Ligustico», III, 1951, pp. 65-71.

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Pisa non ha altrettanto respiro. Non costruisce un sistema politicoeconomico e territoriale nel Mar di Levante, nell'Egeo, nel Mar Nero come Genova e come Venezia: basti pensare che nel manuale di mercatura dell'Anonimo pisano del 1278 il Mar Nero non viene nominato15, mentre è di certo opera di un genovese il famoso vocabolario latino-persianocumanico del primissimo Trecento. E sebbene i mercanti pisani si trovino un po' dappertutto in Oriente, da Costantinopoli a Caffa, da Laiazzo nella Piccola Armenia a Cipro, si tratta pur sempre di attività circoscritte, individuali, d'iniziative commerciali che non sfociano nella costituzione di un sistema in grado di competere con il Commonwealth della Superba. Anche ad Occidente, per quanto i suoi mercanti s'incontrino a Maiorca, nella penisola iberica, nel Nord-Africa, gl'intenti e gli sforzi del Comune di Pisa sono focalizzati sulla Sardegna e sulla Corsica: soprattutto sulla Sardegna, che assume la funzione di componente fondamentale del sistema pisano, centrato sul Tirreno. Ma la Corsica, essenziale per Genova, sfugge alle aspirazioni pisane, e la Sardegna diventa il grande campo di battaglia, in una lotta estenuante che finirà nel Trecento a vantaggio dei Catalano-aragonesi, privando Pisa del suo massimo supporto. Col trascorrere del tempo il confronto tra Pisa e Genova si fa sempre più impari. Non si tratta soltanto di guerra di corsa e di pirateria, di fatti d'arme terrestri, di logorio in imprese militari. C'è in gioco il confronto tra due aree di mercato. Pisa tiene alle spalle la Toscana o, se si vuole, l'Italia centrale, a cui funge da massimo porto sul Tirreno. Genova tiene alle spalle la Padania e, al di là di questa, il poderoso mondo germanico che gravita sul porto genovese da un lato, su quello veneziano dall'altro, ed al quale si collega, nel versante occidentale, la presenza genovese in Francia, nelle Fiandre, nelle isole britanniche, dove i Genovesi frequentano i mercati con regolari imprese marittime-mercantili già negli ultimi lustri del secolo XIII, mentre sul versante orientale essi penetrano, più lentamente, dal Mar Nero, attraverso la Bulgaria e la Moldavia, l'Ungheria e la Polonia. Un quadro immenso. Si aggiunga che Genova, prevalsa su Savona già sulla metà del secolo XII, riesce ad eliminare le resistenze di Ventimiglia a metà del XIII; ha giocato la carta dell'appoggio di papa Innocenzo IV, che ne ha implicitamente favorito lo slancio euro-asiatico con la missione di Giovanni da Pian del Carpine alla corte del Gran Khan nel 1245-47. Pisa vede emergere e R. LOPEZ - G. AIRALDI, // più antico manuale italiano di pratica della mercatura, in «Miscellanea di studi storici II», Collana Storica di Fonti e Studi, 38, Genova, 1983, pp. 99-134.

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sopravvanzare Firenze, con la sua forza industriale e bancaria, con la sua azione di graduale accentramento economico di tutta l'area circostante, con la sua politica internazionale che la colloca tra le grandi potenze mondiali dell'epoca. Non a caso le due sole città che a metà del Duecento riprendono la coniazione della moneta d'oro sono Genova e Firenze, e non ha poi grande importanza il dibattito su quale delle due, a poca distanza Γ una dall'altra, vi abbia provveduto per prima, sebbene le ricerche di Roberto Lopez abbiano dato il primato a Genova. Né si può dimenticare un fattore geofisico di grandissimo peso. Genova si apre direttamente sul mare, nel mezzo di un arco rivierasco, in cui essa funge da epicentro dei traffici a lunga distanza, mentre ancora non si fa sentire la concorrenza di Marsiglia e della Provenza, percosse dalla grande guerra occitanica della fine del secolo XII e dalla crociata antialbigese dei primi lustri del XIII, mentre soltanto adesso, nel secondo Duecento, comincia ad affacciarsi alla storia in modo efficace la concorrenza della borghesia mercantile catalana e del porto di Barcellona. Pisa comunica col mare attraverso il tratto inferiore di un fiume, l'Arno, il cui tratto medio e superiore è controllato da Firenze e la cui portata d'acqua diventa col tempo gradualmente inidonea alle via via più grosse navi da trasporto che sono una necessità già nel Duecento per i carichi delle cosiddette merci povere nonché per la navigazione atlantica, al di là dello stretto di Gibilterra. Porto Pisano è un utile approdo, una sentinella avanzata a tutela della città; tuttavia non è altrettanto idoneo alla frequenza dei traffici verso l'interno come lo è Genova, «città portuale» per antonomasia. La divaricazione tra la potenzialità delle due repubbliche tirreniche si allarga nella seconda metà del secolo XIII. Certo i cronisti dell'epoca non si avvedono - come spesso avviene per chi vive il momento della storia - del fenomeno in atto. Dall'una e dall'altra parte i Genovesi ed i Pisani appaiono rispettivamente come i grandi nemici, da abbattere con qualunque mezzo. Pisa fa paura a Genova; Genova diventa un incubo per Pisa. Ma Genova è in crescendo; Pisa, in diminuendo, in un processo storico di lunga durata, costellato di fatti di guerra, che colpiscono la fantasia degli uomini del tempo. Genova è città di mare; Pisa è città di mare, poi di mare-terra, infine di terra, tant'è vero che nel secolo XVI sarà totalmente sostituita da Livorno nell'attività portuale. *

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La battaglia della Meloria parve ai contemporanei come lo scontro tra due giganti. Gli scrittori dell'epoca ne segnalano i presagi celesti come

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di un evento da collocare nel quadro astrale di un ciclo trascendente; vi reagiscono con attonito stupore come di fronte ad un fatto imprevisto che sancisce la fine di un duello ultrasecolare, lasciando alla storia successiva, sino a noi, l'assioma della Meloria come trionfo definitivo per i vincitori, colpo di grazia, senza speranza, per i vinti. Lo stesso Anonimo genovese del Due-trecento ammonisce i Veneziani che, se prendono tanto ardire en voler guerra comenzar, guárdense de trabucar, e ponnan mente a li Pissan, chi, cubitando esser sovram,

da voler incominciare la guerra, si guardino dal precipitare, e siricordinodei Pisani che, desiderando essere dominatori,

e sobranzar li Genoexi, son quaxi tuti morti e preisi e vegnui soto lor pè per gran zuixo de De.

e sottomettere i Genovesi, quasi tutti sono stati uccisi о fatti prigionieri e sono stati soggiogati da loro per gran giudizio di Dio.

Anzi ricorda, nella descrizione delle bellezze della sua città, - tra le mura, le case, i palazzi, le torri, il porto, il molo, il faro, la fontanella della leggenda, che durante l'incursione saracena del 933 о 935 avrebbe gettato acqua vermiglia come il sangue per un giorno intero, - anche il carcere di Malapaga, dove furono rinchiusi, dopo la Meloria, i prigionieri pisani: Zeyxa g'è e darsena chi a Pisan arbergo dà en gran paraxo da lao chi a prexon albergo è stao.

Ci sono la chiesa e la darsena che dà alloggio ai Pisani in una grande edificio di lato che è stato adibito a prigione16.

L'asprezza dello scontro, il numero delle navi nemiche affondate о catturate, la folla dei prigionieri fecero colpo e suscitarono emozione, «così che chi volesse cercare о vedere Pisa l'avrebbe trovata in Genova e non nella città pisana»: il detto che corse allora sulle bocche della gente, secondo quanto riferisce l'annalista genovese, fu uno di quei motivi di glorificazione della parte vincente che non sono rari nel momento dello choc, ma che non possono proporsi come metro di giudizio. Mi si consenta di dire, anzi di ripetere, che la Meloria non sancì né il tracollo immediato di Pisa né l'immediato apogeo di Genova; non fu un evento totale, risolutivo, che bloccò una situazione о deviò il corso degli 16

ANONIMO GENOVESE, Le poesie storiche, testo e versione italiana a cura di JEAN

NICOLAS, Genova, 1983, pp. 22-23, 32-33.

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eventi. Fu una tappa - certo una di quelle tappe che mettono sott'occhio il fluire profondo della storia - in un processo che si andava sviluppando da tempo e che proseguirà nel tempo ancora per anni luogo la stessa strada. Un fatto d'arme, di cui non voglio sminuire la portata, ma che s'inserisce in un ciclo ultrasecolare, consequenziale ed inarrestabile, il quale non può venire interrotto о capovolto da una sconfitta, perché là dove esiste davvero vitalità politica, economica, sociale, culturale non è una battaglia perduta a determinare la fine. Si pensi alla stessa Genova, battuta al Giglio nel 1241 о ad Acri nel 1258 e sempre in modo clamoroso; senza che nessuno degli studiosi di questi eventi gli abbia attribuito un valore conclusivo. *

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D'altronde è noto che, dopo la Meloria, Pisa non si diede per vinta. Alternò le trattative con la lega guelfa alle cessioni di castelli in Toscana per impedire la saldatura delle forze rivali toscane con i Genovesi, decisi alla guerra ad oltranza; organizzò, insidiosa e persistente, la guerra di corsa, con epicentro in Piombino; giocò tutte le carte possibili in Sardegna, dove, nonostante i patti sottoscritti con Genova il 15 aprile 128817, non abbandonò le posizioni nel sud ed in altre parti dell'Isola, sia nei beni comunali, sia nei feudi dei cittadini pisani, sia negli appoggi presso i residui giudicati. Continuarono a Pisa gl'investimenti finanziari nelle industrie e nelle imprese navali, mentre tra il Due ed il Trecento i mercanti pisani s'incontrano nelle Baleari come nella penisola iberica e nel Nord-Africa, numerosi ad Alessandria d'Egitto, a Cipro, nella Piccola Armenia, in Terrasanta sino alla caduta di San Giovanni d'Acri, più sporadicamente nella Romania settentrionale e nel Mar Nero18. Se era andata perduta la flotta da guerra, era restata intatta la flotta mercantile, specie quella che s'era trovata lontana dal teatro del conflitto, intenta ai commerci in Oriente ed in Occidente. Si può asserire che la sconfitta della Meloria non modificò sostanzialmente il quadro della presenza pisana nel Mediterraneo orientale e nel Mar Nero; non ne provocò una grossa crisi nel Mediterraneo occidentale. Si deve riconoscere, tuttavia, che, se rimasero in campo i Pisani, non rimase in campo Pisa sul più О. В ANTI, / trattati fra Genova e Pisa dopo la Meloriafinoalla metà del secolo XIV, in «Genova, Pisa e il Mediterraneo fra Due e Trecento. Per il VII centenario della battaglia della Meloria, Genova, 24-27 ottobre 1984», «Atti della Società Ligure di Storia Patria», XXIV, 1984, pp. 349-266. 18 M. BALARD, Génois et Pisans en Orient (fin du XIIIe - début du XIVe siècle), in «Genova, Pisa e il Mediterraneo fra Due e Trecento» cit., pp. 179-208.

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vasto orizzonte. I traffici continuarono a svolgersi di «piazza» in «piazza», ma in imprese avulse in genere dalla madre-patria. In altre parole: mentre declina l'attività politica del Comune di Pisa soprattutto in Oriente, il pisano assume la veste del mercante internazionale, il quale traffica liberamente da un luogo all'altro, spesso lasciando fuori del gioco la propria città natale; si muove in sede autonoma; non disdegna d'intrecciare commerci con gli stessi genovesi, in una concezione della mercatura come fine a se stessa, senza vincoli di fazioni od impegni a solidarietà nazionale. Altro è Pisa; altro sono i pisani per il mondo. Così, ancora nel secolo XIV inoltrato il Comune di Pisa gioca le ultime carte in Sardegna per un residuo di dominio territoriale; invece a Cipro i pisani si muovono secondo la logica locale degli scontri tra gruppi e gruppi di mercanti. In Sardegna Pisa si batte contro gli Aragonesi secondo i piani politici del Comune, sotto il comando di un ammiraglio genovese e con l'appoggio di navi genovesi, ed è la sconfitta: Rex Aragonum in Sardinea ascendit et ipsam totam sibi subiugavit. MCCCXXV, ad requisitionem Pisanorum, volentium si possent recuperare Sardineam, factus est armiratus Pisanorum Gaspar de Auria contra voluntatem quaxi omnium Ianuensium, et ipse sic oratus est quod congregava galeas XXII ianuenses singulárům personarum quasi pirratarum, et venientes prope Calări et se desconoscentes. Catalani vero cum astutia impetum fecerunt in dictis galeis ita quod in ipso conflicto Catalani galeas V ex ipsis ceperunt et multi nobiles et populares de Ianua, quasi CCCC, mortui fuerunt et multi alii capti. Relique vero galee cum merore et tristitia redierunt. In Cipro non ci sono disegni politici, coordinati о guidati, più о meno occultamente, dalla madre-patria. È l'esplodere di uno di quei moti improvvisi di rivalità locali che, aizzati talvolta da futili motivi, si accendevano tra i coloni latini in terra straniera, spesso con l'intervento degl'indigeni, in un gioco complesso tra interessi mercantili, xenofobia, rivalità di «nazioni» e di famiglie. Tra pisani e ciprioti, da una parte, genovesi, dall'altra, la peggio toccò ai genovesi: Anno Domini MCCCXXXI in Cipro, propter quandam brigám que acciderat inter quoddam (sic!) iuvenem Salvaygum et aliquem de Famagusta, dicti Cipriani, una cum Pisanis, se armantes, crudeliter impetum fecerunt adversus omnes Ianuenses ex improviso, ita quod fere Ianuenses CCC fuerunt ab ipsis crudeliter interfecti.

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Così scrive l'Anonimo continuatore di Iacopo di Varazze19, nel quale si riflette la tenacia dei sentimenti antipisani in Genova a quaranta-cinquant'anni dalla Meloria, di fronte a questa gente di Pisa - uomini e Comune - che non si rassegna alla sconfitta, è dura a morire, e provoca ancora, direttamente о indirettamente, danni e disastri ai genovesi. Il prevalere di Firenze in Toscana, l'intervento catalano-aragonese in Sardegna, il mutamento delle condizioni ambientali furono i reali fattori avversi che, unitamente all'ineguagliata potenzialità della Communitas genovese, determinarono il tramonto di Pisa come potenza mediterranea. E tuttavia, se la fioritura della vita consociata può esprimersi tanto sul mare quanto sulla terra, la conversione dei capitali pisani dalle imprese marittime agl'investimenti terrestri, già in atto sul principio del Trecento, come ricorda Marcello Berti, ci pone sott'occhio un quadro positivo che non può dirsi distrutto dal famoso 6 agosto 1284. *

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Pisa e Genova, Genova e Pisa: due potenze sullo stesso versante tirrenico, quasi a fronte a fronte, le quali si eguagliano - e sono talora alleate - tra il secolo XI ed il XII; s'impegnano a fondo l'una contro l'altra nel XIII; procedono per strade divergenti nel XIV. Dante Alighieri, che visse il momento del loro massimo scontro, le marchiò entrambe con parole di fuoco, incapace di intenderne la grandezza sul mare e nel mondo mercantile. Se noi vogliamo avere un osservatorio per quanto possibile più equo nel quadro dei giudizi dell'epoca, ci conviene allora rivolgerci all'esterno della cristianità, alla letteratura islamica del secolo XII e del primo Trecento. Cito, per il XII, il notissimo «Libro di re Ruggero» di al-Idrisi: «Genova è città di antica costruzione, con bei dintorni ed edifici imponenti. È ricca di frutta, di campi da semina, di borgate e casali, e giace presso un piccolo fiume. La città pullula di ricchi mercanti che viaggiano per terra e per mare e si avventurano in imprese facili e difficili. I Genovesi, dotati di un naviglio formidabile, sono esperti nelle insidie della guerra e nelle arti del governo: fra tutte le genti latine sono quelli che godono di maggiore prestigio». Ed ecco Pisa, «metropoli dei Rum, di ben vasta fama e con un territorio di notevole estensione. Prospera nei suoi mercati e nei suoi edifici, 19

Continuazione della Cronaca di Iacopo da Varagine dal MCCXCVII al MCCCXXXII, a cura di V. PROMIS, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», voi. X, fase. IV, 1876, pp. 483-592.

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essa spazia su una superficie molto ampia; abbonda di orti e giardini, e i suoi terreni da semina si estendono a perdita d'occhio. Preminente la sua posizione; sbalorditive le sue gesta. Pisa è dotata di eccelsi fortilizi, di fertili terre, di acque abbondanti e di meravigliosi monumenti. I Pisani, che posseggono navi e cavalli, sono bene addestrati nelle imprese marittime contro gli altri paesi. La città giace su un fiume che proviene da un monte della Longobardia: si tratta di un grosso corso d'acqua lungo il quale si trovano mulini e giardini». Dunque: un uguale spazio discorsivo è dedicato alle due rivali; e se per l'Autore i Genovesi sono quelli circondati dal maggiore prestigio, Pisa, in sostanza, non è da meno. Passiamo al primo Trecento. Qui mi rivolgo alla meno celebre «Escursione della vista sui reami e le capitali» di Al- Umari, che visse a Damasco, esercitando le funzioni di segretario della corte mamelucca, e si servì, per la sua opera, di ragguagli fornitigli da mercanti e viaggiatori. Sebbene i dati relativi alle potenze italiane gli provenissero da un genovese, Domenichino Doria di Taddeo, da lui chiamato Belbân, certo non del tutto equanime riguardo a Genova ed a Pisa, il quadro, per quanto pervaso dallo spirito del tempo, risulta comunque efficace: «Il popolo di Ganwah [Genova] reggesi a Comune e non ha avuto né avrà mai re. L'autorità è oggi esercitata a vicenda da due case, in questo modo: che un uomo di ciascuna governa per un anno e poscia assume la custodia del mare. Delle quali case l'una è dei Doria, e d'essa nacque il Belbân che mi ha dato questi ragguagli; la seconda è quella degli Spinola. Dice Balbân che vengono appresso le case dei Grimaldi, Mallono, De Mari, San Tortore (?), Fieschi. Di queste famiglie si compone il consiglio di colui che regge lo Stato. Sono schiatte nobili ed illustri, le quali non si sottomisero a quelle due case [Doria e Spinola] se non quando furono vinte per forza d'armi. A tempo antico reggevano alternativamente il Comune i Grimaldi e i Mallono. Appresso queste case poi vengono i Grillo, i Pignolo [o Pinello?], i Dall'Orto. Il dominio dei Genovesi è sparpagliato. Posseggono essi Galata nella parte meridionale di Costantinopoli e Caffa sul Mar Nero: se essi unissero tutti i territori soggetti, girerebbero press'a poco tre mesi di cammino; ma sono così separati, senza legame che li tenga insieme, né re di alto animo che li stringa in un fascio. L'esercito genovese, quando s'adunasse tutto, il che non accade quasi mai, arriverebbe a sessantamila cavalieri; i fanti, a un dipresso; le forze navali, maggiori di quelle di terre. Ciascuna delle famiglie nobili nominate di sopra possiede un certo numero di galee, le

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quali, se tutte si mettessero insieme, arriverebbero a cinquecento. L'esercito genovese non è fornito di benefizi militari né con leva, ma ogni possessore di beni stabili о di entrate deve fornire un dato numero di cavalieri, i quali montano, allorché n'è d'uopo, a cavallo о in nave (...). Quando capita nelle loro mani alcuno dei loro nemici cristiani, lo spo­ gliano d'ogni cosa e l'uccidono; ma ai musulmani tolgono soltanto la roba e li vendono schiavi. Pertanto ai Genovesi non è da chiudere la porta in faccia senz'altro, né da spalancarla come ad amici di casa». Ed ora il più breve giudizio sui Pisani: «... i Bîzan [Pisani] si reggono a Comune senza monarca; e sono privi di esercito nazionale, e l'assoldano al bisogno. Furono possenti e valorosi, ma [ora], essendo stati vinti, la loro stella volge al tramonto e vengono a sera come se non avessero mai avuto un'alba; sono fiacchi, come se mai non avessero fatto corso impetuoso; né i loro principi hanno lasciato fama di sé, né rimane alcun amico che loro tenga compagnia»20. Pisa, sconfitta, è rimasta sola. *

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La vittoria di Genova alla Meloria, pagata ad assai caro prezzo, non fu il risultato di un momento di fortuna, ma di perizia bellica e di superiorità di mezzi. Coloro, che ne vissero о ne udirono narrare la vicenda, restarono, come ho già detto, attoniti e quasi increduli alla notizia del successo genovese o, meglio, delle proporzioni del disastro pisano. Ne indicarono i presagi nel cielo, ne ricordarono le ragioni nella punizione divina per il trattamento inflitto dai Pisani ai prigionieri ecclesiastici nella battaglia del Giglio di 43 anni prima, che, con larga approssimazione, venne appositamente fatta coincidere con il luogo stesso della Meloria. Salimbene de Adam ricorda le donne di San Ruffino, nell'episcopato di Parma, che già tempo prima avevano visto, di notte, due stelle combattere tra loro in cielo: Et nota quod ista pugna et strages, que facta est inter Ianuenses et Písanos, prenosticata fuit et demonstrata ante quamfieret,diu. Nam in villa Sancii Ruffini in episcopatu Parmensi, mulieres, que de nocte linum purgabant, viderunt duas magnas Stellas mutuo preliantes. Et retrahebant se multis vicibus et iterum atque iterum mutuis congressibus dimicabant. M.G. STASOLLA, Italia euro-mediterranea nel medioevo: testimonianze di scrittori arabi, Bologna, 1983, pp. 288, 289-291.

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Ancora Salimbene come pure Tolomeo da Lucca e gli Annales Pia­ centini Minores ricordano la giustizia divina, che distribuisce pene e ricompense: «E nota - scrive Salimbene - come il giudizio di Dio rende giusti meriti e pene, e tutto che talora s'indugino e siano occulti a noi; ma in quello luogo proprio ove i Pisani surseno e annegarono in mare i prelati e chierici che venivano d'oltremonti a Roma al concilio, (...) ivi furono morti e gettati in mare i Pisani»21. Lo stesso annalista genovese, Iacopo Doria, pensa all'intervento divino, che agisce attraverso gli uomini: «Quante grazie il signor nostro Gesù Cristo abbia largito ai suoi Genovesi (...) e per contro quante disavventure (esso Signore permettendolo) abbiano sostenute i Pisani, quasi niuno, nell'avvenire, che non abbia veduto coi suoi propri occhi, potrà credere; perocché si crederà che siffatte cose senza un miracolo di Dio non è possibile che si facciano, che anzi agli stessi, che hanno veduto e combattuto, paiono quasi un sogno». Due anni prima della Meloria un grande evento sembrava imminente: la riconquista di Costantinopoli da parte dei Latini, che ne erano stati espulsi nel 1261 dall'alleanza tra Michele VIII Paleólogo, imperatore di Nicea, ed i Genovesi. Il fronte antigreco vedeva ora riunite le forze degli Angiò, di Venezia e di Pisa, con l'appoggio del papa. Gli Angioini tentarono anche di trarre a sé i Genovesi, i quali invece - come poteva essere prevedibile - risposero tergiversando, ma nel tempo stesso mettendo sull'avviso l'imperatore greco; e quest'ultimo cercò di avere dalla sua il re di Castiglia, poi il re di Aragona: l'ho già ricordato. L'insurrezione del Vespro mandò all'aria i progetti di Carlo d'Angiò. Ma i Pisani, forse convinti di una facile ripresa degli Angioini in Sicilia, cercarono di approfittare della fuga in Pisa di Giudice di Cinerea, ribelle in Corsica ai Genovesi, per rimettere piede nell'Isola e risolvere con una guerra quello che era per loro il problema centrale: non la Corsica, come crede Iacopo Doria, ma la Sardegna, di cui Pisa aveva ricevuto l'investitura da Federico Barbarossa poco oltre la metà del secolo XII. Le vicende di Sicilia, con il conflitto tra Catalano-aragonesi ed Angioini, lasciò i Pisani senz'appoggio da parte degli Angiò. Né si mossero in loro favore i Veneziani, in guerra con l'Istria, colpiti dall'interdetto papale, allettati dalle speranze del guadagno che sarebbe stato a loro assicurato dalla neutralità, privi di motivazioni о pretesti per intervenire contro i Genovesi che badarono attentamente a non fornirne mai l'occasione. SALIMBENE DE ADAM, Cronica, a cura di G. SCALIA, Bari, 1966.

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Così lo scontro si ridusse sostanzialmente a Genova e Pisa, lasciate a faccia a faccia. Agirono nei-Tirreno, accanto alle grosse squadre delle due Repubbliche, che non potevano rimanere in mare in permanenza per il costo eccessivo, corsari e pirati, che recavano non pochi guasti alla parte avversa, affondandone le navi, intralciandone i commerci, inaridendone le fonti di ricchezza. Dopo un periodo avverso, nei primi mesi del 1284 Genova ,era in posizione di superiorità sul mare: le sue navi mercantili, grazie alla fortunata azione dei suoi corsari a danno dell'avversario, avevano ripreso ad avventurarsi nel Tirreno, mentre quelle pisane più non si arrischiavano a lasciare la protezione del porto. Pisa tentò di ricorrere alla scappatoia di affidare i suoi carichi ai trasporti neutrali di Venezia, di Amalfi, dei Catalani. Ma fu scarso rimedio, perché i corsari genovesi applicarono il principio che la bandiera non copre il carico e si misero in caccia anche delle navi dei neutri. *

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Pisa si decise. Una grande flotta venne preparata segretamente sotto la guida del podestà Alberto Morosini, veneziano, uomo di grande valore per riconoscimento degli stessi Genovesi, il cui annalista lo definisce vir nobilis et magni cordis. Forse si sperava che il podestà portasse con sé l'appoggio di Venezia; ma questa non desistette dalla sua rigorosa neutralità. Pisa si svuotò di difensori per equipaggiare la flotta: salirono sulle navi nobili e popolari, il podestà ed i giudici, il conte Ugolino, il figlio Loiro della Gherardesca, il nipote Anselmuccio. Si puntava ad un attacco di sorpresa contro la flotta genovese; ad una rapida e facile vittoria; ad un'aggressione diretta a Genova, impreparata. La sorpresa fallì a causa di una tempesta che bloccò per diversi giorni la flotta pisana a Bocca d'Arno. Quando il 31 luglio le navi del Morosini comparvero dinanzi a Genova, la flotta genovese, inferiore di numero, sotto il comando del capitano del popolo, Oberto Doria, non si lasciò indurre al combattimento. Alla sera, l'arrivo dei rinforzi di Benedetto Zaccaria, accorso dalla Sardegna in tutta fretta, perché già sul preavviso, costrinse i Pisani a ritirarsi, riparando in Porto Pisano, invano inseguiti dalla flotta genovese. Il 5 agosto i Genovesi giunsero alla Meloria. Il giorno dopo si prepararono, disponendo le navi su due linee: quelle della prima, sotto il comando di Oberto Doria, a vele spiegate; quelle della seconda, sotto la guida di Benedetto Zaccaria, senza vele al vento, in modo da fare credere al nemico che si trattasse della consueta flottiglia di barche che di norma

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accompagnavano le squadre da guerra. I Pisani caddero nel tranello. Ritenendosi superiori di numero, mentre non lo erano, uscirono all'attacco al grido di «Battaglia!, battaglia!». Quando si avvidero del tranello, era ormai troppo tardi. Ogni strumento venne usato nella mischia: dardi, macchine e tormenti, come dice l'Annalista Genovese; il lancio, sulle corsie delle navi avversarie, di vasi pieni di una mistura di sapone, in modo che i combattenti scivolassero e non potessero restare alla difesa; il getto di vasi pieni di polvere di calce asciutta, sì da togliere la visuale ai nemici e da offenderne gli occhi; forse anche - ma è dubbio - il getto di fuochi per suscitare gl'incendi. La battaglia si risolse in una serie di scontri individuali: la galera del podestà di Pisa contro quella dell'ammiraglio genovese, Oberto Doria, subito soccorsa dalla galera di Benedetto Zaccaria; la galera di San Matteo, montata dai Doria, che parteciparono alla spedizione in numero di 250, contro quella che inalberava lo stendardo del Comune di Pisa, protetta da altre navi pisane. Un giorno epico, su cui si sono versati - come suole dirsi - fiumi d'inchiostro, ma per il quale rimando al bel disegno tracciato da Nilo Calvini sul numero di «A Compagna», dedicato a questa ricorrenza del 700° anniversario. Sette galere pisane affondate; 29 catturate; oltre 5.000 i prigionieri sul campo, secondo i dati forniti da Iacopo Doria; 9.272 i prigionieri che si contarono nelle carceri genovesi. Ma i vincitori, stremati essi pure, non tentarono neppure l'assalto alla città vinta, che avrebbero trovato prostrata ed indifesa. «Poi l'ammiraglio e l'armata genovese ritornarono con sì nobile trionfo a Genova, nella vigilia del beato Lorenzo, e furono ricevuti con grande onore e letizia; e, attribuendo ognuno tutti gli atti compiuti all'altissimo Creatore più che alla probità degli uomini, in Genova non fu fatta niuna pompa»: così l'annalista Iacopo Doria conclude il racconto dell'episodio22. Gli fa eco Giovanni Villani: «Le galee co' pregioni menarono in Genova e sanza altra pompa, se non di far dire messe e processioni, rendendo grazie a Dio; onde furono molto commendati»23. E Salimbene de Adam: «(...) dall'una e dall'altra parte fu avversa la fortuna (...) e in Genova e in Pisa furono tanti pianti e lamenti quanti non ne furono mai uditi in quelle due città dal giorno della loro fondazione ai dì nostri». G. AIRALDI, Gli Annali di Jacopo Doria, il cronista della Meloria, in «Genova, Pisa e il Mediterraneo» cit., pp. 587-620. 23 G. VILLANI, Cronica, voll. 2, Trieste, 1857-58, lib. VII.

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«Quasi niuna pompa» dice un cronista, e l'altro: «dall'una e dall'altra parte fu avversa la fortuna». Era esatto ed è vero. In quel famoso 6 agosto 1284 si erano affrontate le due più poderose flotte cristiane del Mediterraneo occidentale, in un duello immane, che assurgeva all'olocausto e proponeva il dramma della guerra che non lascia in realtà né vincitori né vinti, ma solo distruzione, tormenti e vite spente. «Il mare - scrive il cronista - da ogni parte appariva rosso, tanto era coperto di scudi, di remi e dei cadaveri dei morti»...

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DAL GOVERNO DEI DUE CAPITANI AL DOGE PERPETUO

Rielaborato da Genova nell'epoca dei due Capitani, in «Studi Genuensi», Genova 1986, n. 4, pp. 3-32.

«... la storia di Genova va fatta più dal di fuori che dal di dentro; i suoi abitanti vivono, lottano, si illustrano più fuori le mura, che non nell'arco delle due Riviere. Fra la vita dei Genovesi d'oltremare, interessante, vasta, gloriosa, e le vicende interne, grette e turbolente, si nota il più stridente contrasto. (...) le vicende della città appariscono povere e scialbe, mentre nella rievocazione tutta frammentaria dei personaggi e delle colonie sta la vita e la gloria della città di Colombo». Sono parole di Roberto Lopez, il quale evidenzia uno «stridente contrasto» tra storia interna genovese e storia genovese esterna1. Ma è proprio così? Non è possibile ritoccare, almeno in parte, questo giudizio; trovare motivi di giustificazione alle lotte ed alle interne miserie; rilevare un filo conduttore, uno sfondo comune tra i due quadri, un motivo di grandezza anche in quello che appare, a prima vista, grigio e desolato? Fissiamo lo sguardo ad un momento di massimo fulgore nella storia esterna genovese e di gravi torbidi interni: gli ultimi lustri del secolo XIII, quando esplode clamorosamente il conflitto con Venezia, e Genova ne esce vittoriosa, e quando si tenta, con alterne vicende, l'esperimento del Capitanato, destinato al fallimento dopo circa mezzo secolo. In piazza San Marco, a Venezia, tra la cattedrale ed il palazzo dei Dogi, si vedono due pilastri, tozzi e quadrangolari, adorni di bassorilievi. Sono genovesi: furono portati a Venezia in occasione della distruzione del quartiere genovese di San Giovanni d'Acri, a memoria perenne della vittoria riportata sui Genovesi dai Veneziani, insieme con i Pisani, i Marsigliesi, Giovanni d'Ibelin, signore di Beirut, i cavalieri Templari, i cavalieri Teutonici ed il patriarca di Gerusalemme, alla conclusione della grande guerra coloniale in Terrasanta nel 12582. Nel palazzo San Giorgio, in R. LOPEZ, Genova marinara nel Duecento. Benedetto Zaccaria ammiraglio e mercante, Messina-Milano, 1933, pp. DC-X. 2 R. LOPEZ, Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo, Bologna, 1938, pp. 192199. Sulle pietre della torre e della porta del quartiere genovese d'Acri, spedite a Venezia, cfr. G. Caro, Genova e la supremazia sul Mediterraneo (1257-1311), traduz. italiana di O. Soardi, ediz. a cura di G. FORCHERI - L. MARCHINI - D. PUNCUH, Genova, voi. I, 1974, p.

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Genova, si possono ammirare alcune piccole teste di leoni, issate alle finestre del primo piano. Furono portate a Genova quando, nel 1261, dopo la restaurazione dell'Impero greco a Costantinopoli, alla caduta dell'Impero Latino d'Oriente, l'imperatore Michele VIII Paleólogo, secondo una clausola del trattato del Ninfeo, consegnò ai Genovesi il palazzo del podestà veneziano nella capitale greca, ed i Genovesi si affrettarono a distruggerlo, al suono di un'orchestra, composta di trombe, buccine e strumenti a corda. Questi erano dunque a quel tempo i rapporti genovesi-veneziani nel Mediterraneo orientale, nell'Egeo, nel Mar di Mannara, nel Mar Nero. Rapporti di continua alternanza tra pace e guerra, di concorrenza commerciale, di rivalità profonda: non dico cose nuove. Nell'Impero greco i Genovesi, come narra il cronista bizantino Giorgio Pachimero, «riuscirono non solo ad accumulare immense ricchezze, ma a lasciare dietro di sé di gran lunga i Veneziani nel lusso delle vesti e degli ornamenti, nella pompa delle suppellettili preziose»3. Espulsi da Costantinopoli e relegati ad Eraclea, in conseguenza della congiura di Guglielmo Guercio, podestà dei Genovesi in Costantinopoli, che mirava a restaurare l'Impero latino, ottennero nel 1267 il quartiere di Pera-Galata al di là del Corno d'Oro, di cui fecero rapidamente un grosso centro di potere economico, politico, militare, e donde si espansero rapidissimamente per tutto il Mar Nero. In quel medesimo anno, se non già prima, s'insediarono a Focea, sulla costa anatolica presso Smirne, grazie all'investitura concessa dall'imperatore a Benedetto e Michele Zaccaria, che posero immediatamente a frutto le belle miniere di allume in quella località. Ed un altro genovese, Giovanni de lo Cavo, ottenne, ugualmente da Michele VIII, la signoria di Nanfio e di Rodi, mentre i corsari e i pirati genovesi si arricchivano con le prede tolte ai navigli mercantili di nemici ed amici ed ai corsari franco-veneti dell'Egeo. Nell'agosto del 1270 si giunse ad una tregua tra Genova e Venezia, la quale comprese nei patti anche Pisa, ma lasciò libertà di azione ai contraenti nei settori di San Giovanni d'Acri e di Tiro in Terrasanta, di Bonifacio in Corsica. Tra Genova e Pisa, alterne vicende in Oriente: così, ad esempio, nel 1274 marinai genovesi e marinai pisani prestano servizio congiuntamente sulla nave «Santa Fede» nel tragitto da Laiazzo, nella Piccola Armenia, a Damiata e ad Alessandria4; ma le velleità pisane nel 3

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R. LOPEZ, Storia cit., pp. 211, 217.

С. DESIMONI, Actes passés en 1271, 1274 et 1279 à l'Aïas (Petite Arménie) et à Beyrouth par-devant des notaires Génois, Gênes, 1881 (extrait des «Archives de l'Orient Latin», I, 1881), p. 36, doc. XLI; P. RACINE, Marchands placentins à l'Aïas à la fin du

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Mar Nero vengono represse quando, il 14 agosto 1277, la galea genovese dei Banchieri sconfigge nelle acque di Soldaia, in Crimea, una galea pisana e la mette a fuoco, dopo averne sbarcato gli uomini e le merci, al cospetto degli abitanti di quella città, accorsi sulla spiaggia, ai quali la vicenda deve servire da salutare ammonimento5. In Terrasanta, la caduta di San Giovanni d'Acri e dei residui brandelli degli staterelli crociati in mani egizie nel 1291 pose fine ad ogni questione. Per la Corsica intervennero a favore di Genova il trionfo alla Meloria nel 1284 e la pace con Pisa nel 1288, anche se non mancarono successive riprese pisane6. In Sardegna, nell'ultimo trentennio del Duecento, Genova ed i Genovesi s'imposero in Logudoro ed in Gallura sia a titolo legale sia nello stato di fatto. Comunque, intorno agli anni novanta del secolo XIII Genova è padrona del Mediterraneo occidentale. Nella penisola iberica ha stretto patti con la Castiglia nel 1251,rinnovandolinel 1261. Un altro trattato ha stipulato con il regno moresco il Granada nel 1278-79 e nel 1295, e lo rinnova XIIIe siècle, in «Bizantinische Forschungen», ГѴ, 1972, pp. 195-205; S. VELLE, / Genovesi a Laiazzo sulla fine del Duecento, in «Saggi e documenti Ш», Civico Istituto Colombiano, Studi e Testi - Serie Storica a cura di G. Pistarino, 4, Genova, 1983, pp. 79-116; L. BALLETTO, Genovesi a Laiazzo: il caso di Cerasia Ciciliana (1279), in «Atti dell'Accademia ligure di scienze e lettere», XLII, 1985, pp. 188-196; EAD., Nuovi documenti sui Genovesi a Laiazzo, in "Studi Genuensi", n.s. 4, 1986, pp. 39-44, e in "Mitteilungen des Bulgarischen Forschunginstitutes in Österreich", п. 2/ѴШ/1986, pp. 47-53, con il titolo Nuovi documenti per la storia dei Genovesi nel Levante (sec. XIII); С. OTTEN-FROUX, L'Aïas dans le dernier tiers du XIIIe siècle d'après les notaires génois, in «Asian and African Studies. Journal of the Israel Oriental Society», vol. 22, 1988, «The Medieval Levant studies in memory of Eliyahu Ashtor (1914-1984)», edited by B.Z. Kedar and A.L. Udovitch; L. BALLETTO, Notai genovesi in Oltremare. Atti rogati a Laiazzo da Federico di Piazzalunga (1274) e Pietro di Bargone (1277, 1279), Collana storica di fonti e studi diretta da G. Pistarino, 53, Genova, 1989. 5 Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, SL cura di L.T. BELGRANO e C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Roma, 1890-1929, ad annum. 6 G. PISTARINO, Politica ed economia nel Mediterraneo nell'età della Meloria in «Genova, Pisa ed il Mediterraneo tra Due e Trecento: per il VII centenario della battaglia della Meloria», «Atti della Società Ligure di Storia Patria», XXIV (XCVIII), fase. II, 1984, pp. 23-50 (cfr. cap. VII nel presente volume). Cfr. anche G. PISTARINO, Aspetti socio-economici del mondo mediterraneo all'epoca della guerra del Vespro, in «XI Congresso di storia della Corona d'Aragona» sul tema «La società mediterranea all'epoca della guerra del Vespro, Palermo-Trapani-Erice, 23-30 aprile 1982», Palermo, 1984, pp. 185-214 (cfr. G. PISTARINO, / signori del mare, Genova, 1992, cap. ΠΙ); ID., Fonti documentarie genovesi per la storia medievale di Cipro, in AA.VV., «Saggi e documenti VI», Civico Istituto Colombiano, Studi e Testi, Serie Storica a cura di G. Pistarino, n. 8, Genova, 1985, pp. 337-376 (cfr. G. PISTARINO, Genovesi d'Oriente, Genova, 1990, cap. VII).

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nel 12987. Il Mezzogiorno italiano è squassato e diviso dalla guerra del Vespro, che porta tuttavia con sé, per Genova, un futuro pericolo: l'investitura, da parte di papa Bonifacio VIII al re d'Aragona, nel 1297, del Regnum Sardiniae et Corsicae, donde deriveranno, come motivazioni formali, ma più avanti nel tempo, tanto la conquista catalano-aragonese della Sardegna quanto i ripetuti tentativi della Corona d'Aragona sulla Corsica genovese. Per il momento, comunque, Genova gode di buona affermazione nel Logudoro sia attraverso la presenza dei Doria, degli Spinola, dei Malaspina, sia grazie al noto trattato con Sassari del 1294, in virtù del quale la città sarda viene a trovarsi, nei confronti di Genova, nella stessa condizione dei centri rivieraschi della Liguria di Ponente convenzionati con la Superba8. Per quanto riguarda l'Africa settentrionale mi limito a ricordare i trattati genovesi-tunisini del 1272 e del 1287 (dopo quelli del 1236 e del 1250); la convenzione commerciale stipulata con l'Egitto il 13 maggio 1290, la quale assicurò grandi vantaggi ai Genovesi. Nel vicino Oriente si segnalano le ottime relazioni con gl'Ilkani di Persia, soprattutto all'epoca di Arghun (1284-1291), nonostante le ostilità tra quest'ultimo ed i Mamelucchi d'Egitto; il trattato con i Lusignano di Cipro nel 1298, a sèguito di quelli stipulati con la regina Alice nel 1218 e con il re Enrico I nel 1232, i quali tutti consolidarono la presenza genovese in Famagosta9. Nel regno cristiano della Piccola Armenia, dopo i privilegi dei precedenti sovrani, del 1201, 1215 e 1220, il re Leone III rilasciò il diploma del 23 dicembre 1288, che dà un'idea, insieme alle sillogi notarili del 1274 e del 127910, sino a noi pervenute, della massiccia presenza genovese, segnalata anche G. PISTARINO, Presenze ed influenze italiane nel Sud della Spagna (secc. XII-XV), in AA.VV., Presencia italiana en Andalucía: siglos XIV-XVII, Sevilla, 1985, pp. 21-52; BL. GĂRI, Genova y Granada en el siglo XIII: los acuerdos de 1279 y 1298, in «Saggi e documenti VI», Genova, Civico Istituto Colombiano, Studi e Testi, Serie Storica a cura di G. Pistarino, n. 8, 1985, pp. 173-206. 8 G. CARO, Genova e la supremazia nel Mediterraneo (1257-1311) cit., vol. II, 1975, pp. 188-189; G. PISTARINO, Genova e la Sardegna: due mondi a confronto, in «La storia dei Genovesi», voi. IV, Genova, 1984, pp. 191-236 (in particolare pp. 217-218). 9 L. BALLETTO, / Genovesi a Tunisi sullafinedel Duecento, in «La storia dei Genovesi», ѴП, Genova, 1987, pp. 81-98; SVĚTLANA BLIZNJUK, Genovesi e Piemontesi a Cipro dal XIII all'inìzio del XIV secolo, in «Atti del Congresso Internazionale: Dai feudi monferrini e dal Piemonte ai Nuovi Mondi Oltre gli Oceani, Alessandria, 2-6 aprile 1900», Alessandria, 1993, pp. 307-318. 10 L. BALLETTO, Notai genovesi in Oltremare: atti rogati a Laiazzo da Federico di Piazzalunga (1274) e Pietro di Bargone (1277, 1279), Collana storica di fonti e studi, 53, Genova, 1989.

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da Marco Polo: «Sopra il mare è una città detta La Giazza [Laiazzo], terra di grande traffico. Al suo porto vengono molti mercanti da Venezia e da Genova e da molť altre regioni, con molte mercanzie di diverse specierie, panni di seta e di lana, ed altre preziose ricchezze». In Occidente la guerra con Pisa era ripresa già nel 1289, con alterne vicende. Ma essa va ora in subordine rispetto all'acuirsi del conflitto con Venezia, dove il quadro bellico riguarda sia l'Occidente sia l'Oriente. La tensione crescente, per diversi atti di pirateria e/o corsarismo a danno sia dell'una sia dell'altra parte, sboccò in conflitto aperto nel 1293, quando una flotta veneziana di navi mercantili e da guerra, comandata da Marco Basilio, giunta a Limassol di Cipro, abbatté il pinnacolo della torre dei Genovesi, distrusse la loggia di questi ultimi, ne oltraggiò lo stemma; poi, direttasi a Laiazzo, nella Piccola Armenia, catturò una nave di Genova e ne gettò in mare il vessillo al grido di «guerra, guerra!». Una flotta genovese, allestita in tutta fretta a Pera, sotto il comando di Nicola Spinola, e rinforzata da altre navi di Genova che le si unirono durante il viaggio, si diresse a Laiazzo. Lo scontro avvenne in quelle acque il 28 maggio 1294. Errori di manovra da parte dei Veneziani ne provocarono la sconfitta: quasi l'intera loro flotta, sebbene superiore di numero, con tutto il ricco carico, cadde in mano degli avversari. Secondo il cronista Iacopo d'Acqui tra i prigionieri si trovava anche Marco Polo (secondo il Ramusio la cattura sarebbe invece avvenuta più tardi, nella battaglia di Curzola: certo si è che la redazione del Milione non è anteriore al 1298). Proprio in quel medesimo anno, 1294, nel conflitto con Pisa, che aveva come posta principale la Sardegna, la già citata convenzione di Genova con Sassari segnò un punto a favore dei Genovesi in funzione antipisana; ma le stesse fonti dell'epoca lasciano in ombra queste vicende pisanogenovesi; mentre pongono al centro dell'interesse le genovesi-veneziane. Anche l'Anonimo genovese del Due-trecento ha compreso perfettamente che il vero nemico, dopo la Meloria, se non già prima, è Venezia, a cui ha lasciato una solenne ammonizione11: Zenoeixi breiga schi van; ma se Vencían s'abrivam en voler guerra comenzar, guárdense de trabucar

I Genovesi evitano le liti; ma se i Veneziani prendono tanto ardire da voler incominciare la guerra, si guardino dal precipitare,

Cito, in questo e nei passi seguenti, dall'edizione del testo e della traduzione italiana dell'Anonimo Genovese a cura di J. NICOLAS, Le poesie storiche, Genova, 1983, pp. 32, 33.

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e ponnan mente a li Pissan, chi, cubitando esser sovram e sobranzar li Genoeixi, son quaxi tuti morti e preisi.

e si ricordino dei Pisani, che, desiderando essere dominatori e sottomettere i Genovesi, quasi tutti sono stati uccisi о fatti prigionieri

La vittoria della flotta di Nicola Spinola a Laiazzo lo riempie di esul­ tanza 12 : L'alegranza de le nove chi novamente som vegnue a dir parole me comove chi no som dafirtaxue,

La gioia per le notizie che sono giunte da poco mi spinge a dire parole che non debbono essere taciute,

ma da tener in memoria sì corno car e gran tesoro, e tuta la loro ystoria scriver-ra con letere d'oro:

ma conservate nella memoria come un prezioso e grande tesoro, e tutta la loro storia è da scrivere con lettere d'oro:

zo è de la gram vitoria che De à daito a li Zenoiesi - e De n'abi loso e gloria! contro Veniciam ofeisi.

cioè la storia della grande vittoria che Dio ha concesso ai Genovesi - e Dio ne abbia lode e gloria! contro i Veneziani sconfitti.

L'Anonimo non sa come siano andate esattamente le cose, e se ne rammarica. Ma gli è giunta notizia che i Veneziani hanno definito i Genovesi "soci porci levroxi" (luridi porci lebbrosi), sì che, con quella tremenda sconfitta, Or par bem chi som pagai li Venician tignosi: ni conseio che zamai mentoem porci levroxi;

Ora sembra che siano stati ripagati bene i Veneziani tignosi: ed io li consiglio che mai più parlino di "porci lebbrosi";

che la lengua non à 'so e par cossa monto mole, ma sì fa rompir lo dosso per usar mate parole.

perché la lingua non ha osso e sembra una cosa molto molle, ma sì fa rompere la schiena quando si fanno discorsi insensati.

Sembrava fosse ormai giunto il momento di decidere con le armi a chi spettasse la signoria del mare. Venezia spedì lettere dappertutto, 12

Ibidem, pp. 38, 39, 42, 43.

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annunciando di voler assalire Genova, penetrare nel suo porto, abbatterne i difensori. Dall'una e dall'altra parte si fecero preparativi. Nel 1295 la grande flotta genovese avanzò sino alla Sicilia, dopo che il governo, con una specie di cartello di sfida all'uso antico, aveva scritto a quello veneziano invitandolo a spedire la propria armata navale a quell'isola per uno scontro che avrebbe deciso da che parte stesse il buon diritto. Ma i Veneziani non vennero all'appuntamento e le navi genovesi ritornarono in patria. Nel luglio 1296 una poderosa flotta veneziana comparve davanti a Costantinopoli, penetrò nel Corno d'Oro, incendiò Pera; ma non riuscì nel tentativo di attacco alla capitale greca, dove i genovesi si erano rifugiati e furono aiutati dalle truppe imperiali. Altra azione, soprattutto dimostrativa, venne compiuta su Caffa, mentre Focea, possesso degli Zaccaria sulla costa anatolica, subì gravi devastazioni. Genova non era in grado d'intervenire debitamente a difesa delle sue lontane colonie perché impegnata nel conflitto con i guelfi che, espulsi dalla città nella guerra civile del 1296-97, avevano fatto di Nizza e di Monaco due caposaldi per le loro azioni corsare contro la madrepatria. Nell'intento di fiaccare il potenziale economico dell'avversaria, Venezia persisteva nelle azioni di guerriglia navale contro il commercio genovese nel Levante. Genova allora si decise, cercando di colpire la nemica nel cuore stesso dell'Adriatico. Una grossa flotta, comandata da Lamba Doria, partì da Portovenere nell'estate avanzata del 1298; approdò a Messina; il 29 agosto lasciò Otranto per l'Adriatico; si rifugiò nel porto di Antivari per sfuggire ad una tempesta, poi, proseguendo verso nord-est, devastò la costa dalmata sino a Curzola, dove incontrò la flotta veneziana, comandata da Andrea Dandolo, numericamente superiore. La battaglia ebbe inizio il mattino del 7 settembre; a mezzogiorno era terminata con la cattura di grande parte della flotta del Dandolo. La via per Venezia era aperta, ma il Doria non osò percorrerla. Tornò a Genova, dove giunse il 6 ottobre, con la gloria di avere battuto un avversario ben superiore, almeno per numero di navi, con una splendida manovra di tattica navale. Se ne parlò in tutta Italia; se ne parlò all'estero, persino a Ratisbona. Alla notizia della vittoria l'Anonimo esulta e si esalta più ancora che per i fatti di Laiazzo. Alla vicenda di Curzola egli dedica un lungo componimento, richiamandosi ai precedenti trionfi del 1284 e del 129413. Or no me voio destender en lo faito de Laiazo, ANONIMO cit., pp. 136, 137.

Ora non mi voglio dilungare sul fatto di Laiazzo,

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donde'li preisem tar stramazo che bem ge poen inprender

in cui essi presero una tale batosta dalla quale avrebbero potuto imparare

de cognoscer Zenoeisi e prender speio e dotrina de Pisa, chi sta sovina (...).

a conoscere i Genovesi, e prendere esempio e insegnamento da Pisa, che giace sconfitta (...).

Il racconto è minuto e preciso: dalla riunione della flotta di Genova a Portovenere sino alla sua vittoria, con la cattura di 84 galere veneziane, sul totale di 96, e di 5.000 prigionieri14: Lo dì de domenega era, passa prima, en l'ora bona, stormezàn fin provo nonna con bătaia forte e fera.

Era il giorno di domenica, trascorsa prima, all'ora opportuna, combatterono fin quasi a nona con una battaglia accanita e feroce.

О quanti fon per le peccae entre cossi greve tremor varenti orni morti en men d'or e in mar gente stravachae!

Oh per i loro peccati, quanti furono in un così grande sconvolgimento, i valenti uomini uccisi in un attimo e i soldati gettati in mare!

Tante eran Tarme de la tempesta e de barestre, lace e pree en mar e su per le galee, resàn guerrer senza vesta (...).

Tanto violenta era la tempesta d'armi e di balestre, di lance e di pietre in mare e sulle galee, che alcuni nemici restarono senza vesti (...).

Como De vosse a la per fin far honor de tanta guerra, fo lo lor stantar per terra e lor convegne star sovim.

Quando Dio volle alla fine concedere l'onore di un combattimento così duro, il loro stendardo rimase a terra ed essi dovettero restare sconfitti

Or che gram rota fo lantor, quando li Venician prediti se vim sì morti e desconfiti, e Zenoeisi zenzeor (...).

О che grande capovolgimento ci fu allora quando i suddetti Veneziani si videro così falcidiati e sconfitti e i Genovesi vincitori (...).

De! che grande envagimento, con setanta e sete legni, chi esser dorai som degni venzer garee provo de cento!

Dio, che grande prodezza con settantasette navi, degne di essere ricoperte d'oro, vincere quasi cento galee!

Come già dopo la Meloria, anche dopo Curzola a Genova si tenne 14

ANONIMO cit., pp.

152,

153, 156,

157.

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un comportamento moderato e pietoso; dei più che 5.000 prigionieri, oltre 400 vennero subito liberati15: Zenoa, odando nova de vitoria sì grande gazaira alcuna no ne spande, per la quar alcun se mova

A Genova, alla notizia di una vittoria così grande, non si diffonde nessuna vanteria, per la quale si sia spinti

en cossa de vanitae, como sor far orni crudei: ma ne dèm loso a De de cel pregando de tranquilitae.

a vane effusioni, come son soliti fare gli uomini crudeli: ma innalzarono lodi a Dio del cielo pregando per la pace.

L'annalista Iacopo Doria non vide la vittoria genovese a Curzola: era già morto. Era morto, verso la metà di luglio 1298, anche Iacopo da Varazze: il suo posto nell'annalistica locale venne preso da un anonimo continuatore, il quale dedicò esclusivamente alla battaglia di Curzola la sua breve cronaca16. E di Curzola parlò anche, seppure più succintamente, un altro anonimo, autore della Cronaca lanuensis ab initio usque ad annum 133211'. Era un evento che, come la Meloria, aveva fortemente colpito l'opinione pubblica genovese. Il 25 maggio 1299, a Milano, fu conclusa la pace tra Genova e Venezia; il 31 luglio del medesimo anno Genova strinse con Pisa un armistizio venticinquennale: le carceri genovesi si aprirono tanto per i prigionieri veneziani quanto per i pisani. Ma ancora al principio del secolo XVI nei cantari popolari a Genova si ricordavano le vittorie alla Meloria ed a Curzola, come il segno di una grandezza perduta18: Nel golfo loro presi a Venetiani ottanta sei galee con mie sessanta: hebbe vittoria con mie armi in mani: 15

ANONIMO cit., pp. 158, 159. Sul significato del termine "envagimento" non come "prodezza", ma come "smarrimento", "panico", "confusione", cfr. G. PISTARINO, / signori del mare cit., pp. 365-368. G. MoNLEONE, Annali genovesi dopo Caffaro e dei suoi continuatori, I, Genova, 1941, pp. 30, 35. 17 V. PROMIS, Continuazione della Cronaca di Jacopo da Varagine, dal 1297 al 1332, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», X. 4, 1976, pp. 493, 512. 18 С. DESIMONI, Tre cantari dei secoli XV e XVI concernenti fatti di storia genovese, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», X. 4, 1976, p. 646. Come è stato rilevato dal Desimoni, vi sono nel cantare esagerazioni ed inconguenze storiche.

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anchora lo mio gran potere sì se vanta che ben novanta ne prese 'a Pisani ...

Genova è città ricca, prospera, affollata, con ricchi palazzi, cinta muraria, molo, darsena, grande faro, colonne per l'attracco delle navi, intenso via vai di vascelli grandi e piccoli, commercio attivo di spezie, perle e pietre preziose, forte afflusso di forestieri, abbigliamenti sontuosi maschili e femminili19: Zenoa è citae pinna da gente e de ogni ben fornia; con so porto a ra marina porta è de Lombardia (...).

Genova è una città piena di gente e fornita di ogni bene; con il suo porto sul mare è porta di Lombardia (...).

Murao à bello e adorno chi la circonda tuto intorno, con riva for de lo murao per che no g'è mester fossao (...).

Ha mura belle e adorne che la circondano tutt'intorno, con ripide scarpate fuori delle mura per cui non c'è bisogno di fossato (...).

Questa cita è eciamdè tuta pinna da cho a pe' de paraxi e casamenti e de monti atri axiamenti,

Questa città inoltre è tutta piena da capo a piedi di palazzi e case e di molte altre comodità,

de grande aoture e claritae, d'entro e de for ben agregae, con tore in grande quantitae chi tuta adornan la citae.

di grande valore e splendore, ben raccolte dentro e fuori, con torri in grande quantità che ornano tutta la città.

En la quae sempre e tutavia abonda monto merchantia de Romania e d'Otramar e de tuti li aotri logar (...).

In essa sempre e continuamente abbonda molta mercanzia del Levante e d'Oltremare e di tutti gli altri luoghi (...).

Tanti e tai son li menestral chi pusor arte san far, che ogni cossa che tu vói, encontenente aver la pòi (...).

Tanti e tali sono gli artigiani che vari mestieri sanno fare, che qualunque cosa tu desideri, puoi averla immediatamente (...).

Lor navilio è sì grande che per tuto lo mar se spande;

La loro flotta è così grande che naviga per tutto il mare;

ANONIMO cit., pp.

18, 19, 22, 23, 26, 27, 28, 29, 30,

31.

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sì riche van le nave soe che ben var d'atre Tuna doe (...).

le sue navi sono così ricche che una vale due delle altre (...)·

De ben vestir, de belo asneise cascaum par un marchese; lor camairere e lor scuer paren pur done e cavarer;

Per i begli abiti e per il bel corredo ciascuno sembra un marchese; le loro cameriere e i loro scudieri sembrano davvero dame e cavalieri

e le done sì ben ornae paren reine in veritae sì fornie de gran vestir che no se pò contar né dir.

e le dame così ben vestite sembrano davvero delle regine, fornite di così numerose vesti che non si possono contare né descrivere.

Le strade sono tanto affollate che chi vuole percorrerle deve camminare di traverso tra la gente. Coloro che professano lo stesso mestiere stanno tutti insieme nei diversi quartieri; le botteghe sono ben ordinate, colme di mercanzie, sicché il desiderio di comperare strappa di tasca il denaro, di fronte a tante cose belle; e bene lo sanno i Lombardi e gli altri forestieri che capitano a Genova per qualche motivo, e poi tornano a casa col borsellino vuoto. È così bello contemplare le botteghe, con la mostra delle loro merci! Se fosse possibile, non si dovrebbe mai vederle chiuse, la domenica ed i giorni di festa, in modo da potervi sempre guardare dentro! Per godere di questo stato felice, di questa potenza, di queste ricchezze che dilettano l'occhio già soltanto a chi se ne vada per le vie della città, tra fondaci e negozi, una cosa sola occorre: la pace all'esterno e all'interno. È questa la suprema aspirazione dell'Anonimo, che esprime il modo di sentire di tanti e tanti suoi concittadini, anzi di tanti uomini del suo tempo, ivi compreso Dante Alighieri.

La pace interna non c'è. L'Anonimo raffigura Genova come una dama

20.

Una dona d'este contrae, pinna de seno e de bontae, d'onor, costumi e cortexia - no è soa par in Lombardia -.

C'era una donna di questa contrada piena di giudizio e di bontà, di onore, di buoni costumi e di cortesia - non c'è una sua pari in Lombardia -,

richa d'ogni beneixon, terra, dinar e possesion,

ricca di ogni bene di Dio, terre, denari e possedimenti,

ANONIMO cit., pp. 64, 65, 66,

67.

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e sì dexeiver de persona, degna era d'aver corona.

e così onorevole di persona che era degna di portare una corona.

Una dama con molti servi e molti figli, i quali ultimi, con le loro famiglie, hanno prosperato sino a quando (...) tuti d'un mesmo cor son habitai dentro e de for.

(...) tutti da un medesimo cuore sono stati abitati, dentro e fuori.

L'eccessiva ricchezza ha prodotto dissensi e rivalità tra i fratelli, ostilità contro la madre, rapine, omicidi, sfrenatezze, disprezzo per la giustizia, la madre al bando 21 : E tanto son desquemai la dita maire e li frai che de paxe no se spera, se no da quela man sobrera

Tanto sono sconvolti quella madre e i fratelli che non si spera pace se non dalla mano superna

de De misericordioso chi za mai no sta ascoso e chi, in ogni gram ruina, sa dar conseio e gram mexina.

di Dio misericordioso che non sta mai nascosta e che, in ogni grande rovina, sa decidere e provvedere.

Fuor di metafora: non avrà mai pace quella città che riceve un signore non per volontà generale, ma per l'elezione di pochi furfanti. A questi il signore deve dare compensi, r a p i n a l o gli altri; mentre quelli che non lo volevano non cessano di adoperarsi per cacciarlo. L'ideale sarebbe il podestà forestiero: giusto, equilibrato, senza clientela, sollecito del bene comune, il quale sapesse 22 (...) per drizar le cosse torte, far iustixia sì forte che ognomo ben se spaventasse chi aotrui noxer penssase.

(...) per raddrizzare le cose torte, fare una giustizia così forte che ben si spaventasse ognuno che meditasse di nuocere altrui.

C'è infatti un'altra ragione di guerre intestine: la presenza di cittadini altolocati i quali, per malinteso orgoglio, disprezzano leggi, statuti, ordinamenti. Così l'Anonimo ricorda i quaranta giorni - dal dicembre 1296 al 21

ANONIMO cit., pp. 70, 71.

22

ANONIMO cit., pp. 54, 55.

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febbraio 1297 - della violenta insurrezione guelfa che abbatté il secondo capitanato di Oberto Dona, sconvolgendo la vita genovese con stragi, distruzioni, l'incendio del duomo; e si scaglia contro le rovine provocate dai partiti 23 : Di' me voi, che sei da parte: che guagnai voi de questo arte donde o' sei tanto animosi e de iniquitai raiosi?

Ditemi voi, che siete un partito: che profitto traete voi da codesta arte che vi fa tanto appassionati e rabbiosi nelle vostre iniquità?

Non si sa se guelfi e ghibellini siano uomini о demoni: certo sono strumenti diabolici 24 chi àn squarzao tuto lo mondo e derivao en gran prefondo

che hanno squarciato tutto il mondo e lo hanno fatto precipitare in un grande abisso.

I maggiorenti della città sono tanto dediti a fare il male, che nessuno di loro sta più in pace. V'è persino da temere che il monastero di Sant'Andrea di Sestri [Ponente] 25 , quelo santo monastero chi semper è stá de De oster, (...) per peccao chi sempre abonda, non daga lao da qualche sponda (...).

quel nostro santo monastero che è sempre stato ostello di Dio, (...) per il peccato che sempre abbonda, non degeneri da qualche parte (...).

En sì greve ruyna no savemo aotra meixina de qual alcun de noi spere se no far a De pregere.

In così grave devastazione non conosciamo altra medicina nella quale qualcuno di noi speri se non innalzare preghiere a Dio.

Un quadro desolato.

È risaputo che i contemporanei non sono i migliori giudici del proprio tempo. Tendono sistematicamente ad accentuare, ampliare, porre in prima evidenza i fatti negativi: basta leggere i giornali d'oggi per averne ANONIMO cit., pp. 74, 75. ANONIMO cit., pp. 76, 77. ANONIMO cit., pp. 90, 91.

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conferma. E non colgono о non avvertono quanto di positivo la storia va faticosamente costruendo, giorno per giorno, attraverso difficoltà e contrasti. Eventi, i quali sul momento paiono avversi, perché innovano rispetto al passato ed a posizioni acquisite, rappresentano invece la soluzione futura di problemi altrimenti insolubili. Al pessimismo dell'Anonimo due-trecentesco potremmo già rispondere con le parole di Georg Caro: «Tutti i rami dell'amministrazione andarono soggetti, in questo periodo, a grandi trasformazioni. Il Popolo riceve una organizzazione sua propria ed il suo capo nélV Abbas populi; il Consiglio degli Anziani e la Credenza tolgono al Consiglio una grande parte delle sue attribuzioni, la magistratura viene resa indipendente da influenze politiche, la finanza del Comune è fatta segno ad un accurato perfezionamento »26. D'altra parte, le lotte di fazione tra Due e Trecento non sono una triste prerogativa di Genova. Si pensi ai Tomani ed ai Visconti per Milano, alla Firenze dei Bianchi e dei Neri, alla stessa Venezia dalla serrata del Maggior Consiglio alla congiura di Baiamonte Tiepolo. Sono il segno dell'Italia comunale che si avvia alla signoria sotto forme molteplici, e poi al principato, e che in Genova assume i connotati del trapasso dalle fazioni locali e dal Capitanato all'alternanza tra le signorie straniere - già con Enrico VII imperatore, con papa Giovanni XXII e Roberto d'Angiò e l'esperimento fallimentare dei Dogi perpetui, sino all'instaurazione, di fatto, del principato con Andrea Doria ed ai Dogi biennali. Se in Genova questo laborioso processo appare più lungo e faticoso che altrove, ciò è dovuto alla circostanza che non si tratta qui di assestamento dello Stato regionale, ma di un quadro che abbraccia contemporaneamente il Dominio in Liguria, da un lato, e l'impero coloniale, dall'altro, con reciproco scambio di azioni e reazioni, ed interconnessione tra eventi internazionali anche a lunghissima distanza: il tutto sul piano eminente dell'economia che gioca ruoli diversi in patria, di fronte ai problemi della necessità della formazione territoriale, ed all'estero, dinanzi alla non convenienza od all'impossibilità di estese conquiste. Questo continuo bilanciamento e reciproco condizionamento tra interno ed esterno è una costante della storia bassomedievale di Genova, che si esaurirà soltanto con la perdita del dominio coloniale nel Levante nel secondo Quattrocento e l'inserimento genovese nell'immenso quadro dell'economia spagnola, mentre Venezia resisterà più a lungo nel mondo G. CARO cit., И, р. 9.

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orientale sia perché più solidamente insediatavi e ad esso più adeguata, sia per mancanza di un'altrettanto valida alternativa. Comunque non mancò in Genova, proprio sulla fine del Duecento e proprio in contemporaneità con i provvedimenti veneziani per il Maggior Consiglio, un'attività di elaborazione costituzionale, volta ad assicurare stabilità all'interno e, di conseguenza, opportune garanzie per la Communitas in Oltremare. Il 28 ottobre 1291 scadeva il periodo di carica dei Due Capitani, Oberto Spinola e Corrado Doria, di parte ghibellina, la cui illuminata signoria sulla città e sul territorio era in atto dalla riforma del 1270 (Corrado Doria era subentrato nel 1285 al padre, Oberto Doria, che si era dimesso dalla carica per ragioni non del tutto chiare, ma probabilmente per contrasti di condotta politica con il collega). Era stato, il loro, un ottimo governo, energico e non fazioso, che aveva saputo condurre Genova al risultato positivo nella guerra con Carlo I d'Angiò, alla vittoria su Pisa alla Meloria, a tutta una serie di accordi internazionali. Era, questo, il risultato di un equilibrio raggiunto attraverso un'evoluzione ed una formula costituzionale che sono stati delineati in maniera eccellente in un saggio di Giovanni Forcheri, a cui qui mi richiamo27. Dopo il lungo periodo del Comune-Compagna, i populares, sotto la guida di Guglielmo Boccanegra e con la complicità, più о meno occulta, della parte ghibellina dell'oligarchia, avevano rovesciato nel 1257 il regime nobiliare del Comune. Esperimento di breve durata, cioè soltanto sino al 1262, quando la ricostituzione della lega elitaria nobiliare ghibellinoguelfa eliminò i populares dall'esercizio del potere. Il 28 ottobre 1270 il regime fu nuovamente rovesciato: questa volta però non più con l'intento dei populares d'intervenire direttamente nel governo a fianco dei nobili о di una loro fazione, ma attraverso la costituzione del Populus come ente giuridico, riconosciuto dalla stessa parte nobiliare e ad essa concorrente, anche se non in grado di costituirsi di per sé in Comune. Il patto che stringe il Populus al partito ghibellino, capeggiato dai Doria e dagli Spinola, segna la fine del Comune-Compagna di tipo nobiliare e podestarile: «Ci si avvia - per citare direttamente Forcheri verso istituzioni radicalmente nuove, caratterizzate dalla presenza, sul territorio genovese, di due ordinamenti fra loro separati ed autonomi, che perseguono, l'uno e l'altro, lo scopo di esercitarvi contemporaneamente la sovranità. Si tratta dello stesso fenomeno che nell'epoca si verifica un G. FORCHERI, Dalla "Compagna" al "Popolo", in «La storia dei Genovesi», voi. I, Genova, 1981, pp. 73, 90.

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po' dappertutto, dove i popolari, come a Genova, da soli non avevano la forza sufficiente per assumere il potere». Di qui la formula Comune et Populus Ianue: una federazione tra due componenti che coesistono, ciascuna con i propri soggetti, i propri organi, i propri capi: il Podestà per il Comune, l'Abate per il Populus. Una federazione in cui, perciò, il cittadino non si riconosce come in uno Stato modernamente inteso quale comunità di tutti e su tutti sovrano; ma come partecipe dell'uno о dell'altro dei due enti, sovrani, ciascuno sui propri adepti, da essi riconosciuto e di essi espressione giuridica. La reggenza congiunta del territorio, con la facoltà di emanare atti giuridici validi per tutti gli abitanti, si esplica nel Consiglio degli Anziani, composto, come riferisce nel 1290 l'annalista Iacopo Doria, bene addentro alle cose di governo, pariteticamente tra nobili e populares, sotto la presidenza congiunta del Podestà e dell'Abate, ciascuno dei quali ha il diritto di veto rispetto alle proposte dell'altro. Quando entrambi, nella loro veste di esponenti delle rispettive entità civiche, abbiano dato assenso a una proposta, la volontà del Consiglio, facendola propria ed approvandola, ne implica il recepimento da parte delle due componenti della popolazione, e quindi ne sancisce l'efficacia giuridica vincolante per tutti i cittadini, qualunque sia la parte a cui essi si appoggiano, cioè il Comune (antico Comune-Compagna) dei nobili ed il Populus. Nel potere esecutivo, retto, dal 1270, dai due Capitanei Comunis et Populi Ianue, esiste un'anomalia rispetto al principio della pariteticità fra nobili e populares, perché entrambi i Capitani appartengono alla parte nobile, ed entrambi, tra il 1270 ed il 1291, alla fazione ghibellina. È un residuo dell'antica supremazia totalitaria del ceto nobiliare nella configurazione del potere, mentre la comune militanza politica, con azione equilibrata rispetto all'opposizione di diverso colore, assicura stabilità e continuità nella dirigenza del governo. «Diretta e naturale conseguenza del nuovo sistema, che determina la fine del Comune-Compagna - cito di nuovo testualmente Forcheri - è il totale rimescolamento della classe dirigente genovese. Continua a sussistere, è vero, la parte della tradizionale oligarchia sopravvissuta agli eventi, ma essa è ora costretta a fare spazio accanto a sé, in regime di pariteticità, a quei popolari che la propria organizzazione designa, in sua rappresentanza, alla reggenza delle cariche della federazione di suo appannaggio. Il periodo aureo di questo sistema è da considerare concluso nel 1311 con la fine del cosiddetto Capitanato. Tuttavia esso si dimostrerà così profondamente incisivo da riproporsi anche in seguito e da farsi avvertibile, nelle linee di fondo, ancora nella carta costituzionale del 1413»28. G. FORCHERI cit., pp. 82, 83.

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Occorre però tenere presente che, come tra i nobili permane la distinzione politica - a cui tuttavia non manca un sottofondo d'interessi economici - tra guelfi e ghibellini (che si estende anche ai populares), così tra i populares si viene gradualmente operando una sempre più netta distinzione - essenzialmente di carattere professionale ed economico - tra gli artefici ed i mercatores. Di qui la difficoltà di un assetto stabile nella condotta del Consiglio, di momento in momento, che si riflette anche sul potere esecutivo del Capitanato. Difficoltà tanto maggiore quanto più gravi sono i problemi non soltanto nel panorama interno, ma anche, anzi talvolta soprattutto, sull'orizzonte internazionale, a cui Genova è particolarmente sensibile. Con il 1291 ha fine la supremazia della parte ghibellina, che ha assicurato vent'anni di stabilità; riprende la parte guelfa, che aspira a reinserirsi nei supremi organi dello Stato, anche attraverso lo strumento della sommossa armata, come quella del dicembre 1296 - febbraio 1297. Ma qui non dobbiamo dimenticare che nel 1273 si è concluso il Grande Interregno con l'elezione di Rodolfo d'Asburgo a Re dei Romani (sebbene non mai coronato imperatore); che tuttavia né il medesimo né i suoi successori, Adolfo di Nassau ed Alberto I d'Asburgo (essi pure non mai coronati imperatori), intervennero personalmente in Italia: anzi Rodolfo cedette al papa l'Esarcato, la Marca d'Ancona ed il Ducato di Spoleto, rinunciò formalmente alla Sicilia nel 1275 e confermò alla Sede Apostolica i privilegi concessi da Ottone IV e da Federico IL Né possiamo dimenticare che nel 1294 salì al trono papale Bonifacio VIII, il quale intervenne direttamente nella politica genovese (e su quella veneziana), come quando nel 1295-96 s'impose con pugno fermo per impedirne il conflitto con Venezia, tramite il giudizio arbitrale della Sede Apostolica. Su Genova, sul Genovesato, sull'intera Liguria si scaricano le tensioni politiche internazionali, che qui trovano terreno più propizio proprio perché si tratta di un punto d'incontro delle linee mondiali dell'epoca e perché qui l'economia rappresenta il costante punto di riferimento. Genova - per usare un'espressione di Ferdinand Braudel - è un sismografo sensibilissimo a tutti gli avvenimenti mondiali. Occorre tenere presente che, a differenza di Venezia, il dogato fu in Genova un'istituzione di origine tarda, connaturata, per lungo tempo, ai conflitti di fazione più che al rigore di un ordinamento giuridico evolutosi gradualmente in un quadro organico dell'ordinamento dello Stato. Il primo doge, Simone Boccanegra, venne acclamato dall'insurrezione popolare del 22 settembre 1339 e confermato a vita nella carica dal parlamento il giorno

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successivo. La nomina corrispose, probabilmente, al disegno dell'istaurazione di un governo personale di tipo signorile, appoggiato alla parte popolare. Fu comunque un mutamento istituzionale con il quale s'instaurò in Genova un governo rappresentativo dei ceti sociali tradizionalmente subalterni e si affermò il principio del reggimento monocratico, affiancato però da un Consiglio ristretto, quello degli Anziani, per impedirne la possibilità di degenerazione in tirannide. Tuttavia la durata vitalizia, anziché di periodicità prestabilita per rinnovo о conferma a data fissa, inasprì l'intolleranza politica, fomentò le rivendicazioni, favorì i colpi di mano: di qui, dogi che durarono in carica pochi giorni о addirittura poche ore; altri che restarono al governo qualche settimana о qualche mese. I più rinunciarono al potere о vennero deposti, mentre solo pochissimi esercitarono l'ufficio sino alla morte. Secondo la costituzione del regime democratico popolare il doge do­ veva essere eletto dal parlamento, di cui era emanazione e rappresentanza: in realtà l'elezione veniva manovrata da un'assemblea di notabili, appartenenti ai maggiori organi dello Stato. Per di più Yiter elettorale spesso non corrispose ai canoni normativi prefissati, ma variò a seconda delle circostanze. Nei momenti di equilibrio tra le parti politiche si cercò di fissare e seguire la procedura per la nomina e per regolare la condotta del supremo magistrato; ma nei frequenti momenti di totale prevalenza d'una fazione, questa impose a forza la scelta del doge, presentando il candidato al parlamento per l'elezione, senza rispetto per le formalità legali29. Così per circa due secoli, dopo il 1339, il dogato non rappresentò a Genova una carica permanente, in un sistema regolare ed omogeneo; ma P.L.M. LEVATI, I dogi di Genova e la vita genovese. Feste e costumi genovesi del secolo XVIII, voli. 4, Genova, 1910-14; ID., / dogi perpetui di Genova. Studio biografico, Genova, 1928; ID., / dogi biennali di Genova dal 1528 al 1699, voli. 2, Genova, 1930; E. CONFORTI - T. FATTOROSI, Istituzioni e magistraturefinanziariee di controllo della Repubblica di Genova dalle origini al 1797, Roma, 1952; G. FORCHERI, Doge, Governatori, Procuratori, Consigli e Magistrature della Repubblica di Genova, Genova, 1968; ID., La "Societas Populi" nelle costituzioni genovesi del 1363 e del 1413, in "Archivi e Cultura", Roma, VII, 1973, e in "Ricerche d'archivio e studi storici in onore di G. Costamagna", Roma, 1974; A. PETRACCHI, Norme e prassi costituzionale nella Serenissima Repubblica di Genova. La riforma del 1528, in "Nuova Rivista Storica", LXIV, 1980; V. PIERGIOVANNI, Gli statuti civili e criminali di Genova nel medioevo. La tradizione manoscritta e le edizioni, Genova, 1980; A. AGOSTO, Nobili e popolari: l'origine del dogato, in "La storia dei Genovesi", I, Genova, 1981; G. FORCHERI, Dalla Compagna al Popolo, in "La storia dei Genovesi", I, Genova, 1981; ID., Dalle "Regulae" costituzionali del 1413 alla riforma del 1528, in "La storia dei Genovesi", ГѴ, Genova, 1984.

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si alternò con magistrature speciali e con governatori stranieri. Il magistrato, che fu comunque al vertice dello Stato, rivestì sostanzialmente le funzioni e le prerogative proprie del doge, in un governo di tipo rappresentativo e collegiale ed in un sistema dei pubblici uffici, ad esso correlati, che rimasero fondamentalmente immutati sino alla riforma del 152830. Comunque, con l'istituzione del dogato a vita di Simone Boccanegra, nel 1339, «l'articolazione burocratica dello Stato viene a coprire pressoché tutti i campi della vita pubblica (...): da una evoluzione burocratica empirica si passa ad un sistema più attento a tutte le attività vitali per lo Stato, siano esse giurisdizionali, militari, diplomatiche od economiche. Anche il dominio risente di questa nuova situazione: si istituzionalizzano i vicariati e le podesterie, mentre le esigenze militari prevalgono nella diversa organizzazione dei castelli»31. Il corpo organico delle leggi genovesi dal 1363, riproponendo in concreto gli schemi organizzativi del 1339, riaffermò il principio del dogato a vita e formulò teoricamente una complessa procedura per l'elezione. I poteri del doge risultarono sostanzialmente limitati: non gli era consentito nessun atto di rilievo senza la compartecipazione del Consiglio degli Anziani, nelle cui deliberazioni egli non aveva facoltà specifiche ed autonome, ivi compreso il fatto che la sua stessa assenza non costituiva impedimento alle deliberazioni consiliari. La stessa costituzione del 1413, dopo la lunga dominazione francese in Genova, ripropose, sostanzialmente, le soluzioni del 1363: spettava al doge, unitamente ai dodici Anziani (sei nobili e sei popolari), il reggimento della comunità: il collegio, formato dalle due magistrature, - del dogato e del Consiglio, - cumulava la funzione esecuQuest'ultima trasformò il regime democratico popolare del dogato in regime oligarchico, sostituendo la carica a vita in carica biennale, con nomina affidata ad un corpo di elettori, designati per via mediata dal Gran Consiglio e dal Consiglio Minore. Il doge e gli otto governatori, anch'essi di durata biennale, però con scadenza in ragione di due ad ogni semestre solare, costituirono l'organo centrale del governo, avendo la possibilità di legiferare in qualsiasi materia, fatta eccezione per la possibilità di accrescere le proprie prerogative. Con la legge del "Garibetto" del 1547 la nomina del doge promanò esclusivamente dal Consiglio Minore, al quale venne riserbata la nomina degli elettori dogali. La riforma costituzionale del 1576 confermò la durata biennale; stabilì il limite minimo di 50 anni di età per l'elezione; richiese al candidato il possesso di beni adeguati al prestigio della carica. 31 V. PIERGIOVANNI, / rapporti giuridici tra Genova e il Dominio, in «Genova, Pisa e il Mediterraneo tra Due e Trecento. Per il VII anniversario della battaglia della Meloria, Genova, 24-27 ottobre 1984», «Atti della Società Ligure di Storia Patria», XXIV, 1984, pp. 327-450. Cfr. anche V. POLONIO, L'amministrazione della "Res publica" genovese fra Tre e Quattrocento. VArchivio "Antico Comune", in« Atti della Società Ligure di Storia Patria», XVII. 1, 1977.

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tiva con quella legislativa, avendo la possibilità di legiferare in qualsiasi materia, tranne che per le riforme costituzionali ed entro precisi limiti nel settore della giustizia. Spettava ai Supremi Sindacatori, nominati dal Consiglio dei Quaranta, di controllarne l'operato attraverso la possibilità della censura. Si può avere così un'idea delle grosse difficoltà nelle quali si dibatte Genova medievale sia nell'elaborazione di un sistema costituzionale che faccia il necessario e dovuto spazio a quegli artigiani ed a quei mercanti che sono la sua fortuna economica, - ma a cui partecipa anche il ceto nobiliare nella costruzione di un Commonwealth di orizzonte mondiale, - sia nel doversi muovere in un quadro politico in cui manca un centro stabile di riferimento e nessuna delle parti in contrasto può venire sottovalutata od estromessa: in modo particolare, poi, quando si tratta di un Comune, come quello genovese, il cui dinamismo è basato essenzialmente sui fatti economici, sul movimento del capitale ovunque emergano un interesse e la possibilità di un guadagno. Il sintomo più evidente si riscontra nella vicenda del Mezzogiorno, dopo l'insurrezione del Vespro: diviso tra la parte continentale, di schieramento guelfo, e la Sicilia, di professione ghibellina, mentre Genova, economicamente interessata all'una e all'altra, è soggetta a lusinghe e ad allettamenti, a minacce ed a rappresaglie su entrambi i fronti. Tra l'altro è questo il momento - come rileva Vito Piergiovanni - in cui «si ha notizia dell'avvenuta organizzazione del materiale legislativo genovese in due volumi, di cui il primo, che è andato disperso, conteneva le leggi politiche, ed il secondo le norme di diritto civile e criminale, sostanziale e processuale: ed è quest'ultimo che ci è pervenuto, in una redazione dei primi anni del XIV secolo, destinata a Pera e comprendente quindi anche la normativa specifica per la colonia»32. Nel 1296, о intorno a quest'anno, il Comune creò la nuova magistratura dell'Officium Robarie, che «aveva il compito di tutelare la libertà e la V, PIERGIOVANNI, Gli statuti civili e criminali di Genova nel medioevo, Genova, 1980, p. 10. La normativa specifica per le colonie - si veda anche il caso degli Statuti di Caffa del 1449 e la legislazione speciale per Chio - era imposta dalla necessità di governare complessi urbani poliedrici, formati da genti di diversa lingua, tradizione, religione, cultura, mentalità, sicché non era possibile applicarvi sic et sempliciter la legislazione genovese, allo stesso modo per cui non era possibile privilegiare la tradizione normativa di un gruppo etnico rispetto ad un altro.

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sicurezza di commercio per tutti i forestieri, cristiani e non cristiani, nei confronti degli atti di pirateria commessi da sudditi di Genova»33. Come magistratura speciale con funzioni prevalentemente regressive, l'Ufficio aveva il compito di punire tutte le robarie, commesse da genovesi, attraverso una procedura sommaria di accertamento delle trasgressioni, svincolata dalle normali garanzie processuali34. Tuttavia "l'istituzione dell'Ufficio di Robaria, a cui seguiranno nei primi anni del secolo successivo, quelli di Mercanzia e di Gazaria, è la prima risposta genovese all'esigenza di un apparato burocratico più funzionale alle nuove dimensioni politiche ed economiche dello Stato. La coscienza di tale necessità si traduce però in uno sbocco istituzionale che, nella sua originalità ed empiricità, mostra la notevole incertezza sulla strada da seguire: invece di istituire magistrature permanenti, si preferisce ricorrere ad uffici temporanei che, nati per sopperire ad esigenze contingenti, sono destinati a scomparire con essi. Doveva essere questo il destino degli Uffici di Robaría, Gazaria e Mercanzia, i quali, però, diventano ben presto cardini fondamentali, dotati di ampia autonomia, della politica e della giurisdizione mercantile genovese"35. L'arcivescovo Guglielmo Adam non mancherà di scagliarsi contro questo istituto che egli considerava «contro Dio, il bene della Cristianità e gli statuti della Chiesa», ma Y Officium - come nota Piergiovanni -, oltre a rivelare una concezione nuova dei rapporti economici internazionali, L. DE MAS LATRIE, L'Officium Robarie ou l'Office de la piraterie à Gênes au moyen âge, in «Bibliothèque de l'Ecole de Chartes», LUI, 1892; R. LOPEZ, Storia cit., p. 241; V. PIERGIOVANNI cit., p. 83; B.Z. KEDAR, L'"Officium Robarie" di Genova: un tentativo di coesistere con la violenza, in «Archivio Storico Italiano», CXLIII, 1985, pp. 331-372; A. ROCCATAGLIATA, Alle origini dell'Ufficio "pro robariis" del Comune di Genova, in «Saggi e documenti VII», tomo II, Genova, Civico Istituto Colombiano, 1986, pp. 151-184; EAD., L'"Officium Robarie" del Comune di Genova (1394-1397), tomo I, Collana Storica di Fonti e Studi diretta da G. Pistarino, 54.1, Genova, 1989, tomo II, Genova, 1993. Cfr. inoltre L. BALLETTO, Les magistratures génoises pour l'Orient, in «Etat et colonisation au Moyen Age et à la Renaissance», sous la direction de M. Balard, Lyon, 1989, pp. 99-100; A. ROCCATAGLIATA, L'"Officium Robarie" del Comune di Genova. Da Ufficio della pirateria a Ufficio dei ribelli, Genova, 1990; L. BALLETTO, Magistrature medievali genovesi per il Levante, in «Atti dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere», XLVm, 1991, Genova, 1992, pp. 563-566. 34 A. ROCCATAGLIATA, Alle origini cit., p. 160. 35 V. PIERGIOVANNI, / rapporti giuridici tra Genova e il Dominio, in «Genova, Pisa e il Mediterraneo tra Due e Trecento. Per il VII centenario della battaglia della Meloria, Genova, 24-27 ottobre 1984», «Atti della Società Ligure di Storia Patria», XXIV, 1984, pp. 427-450.

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consentì una maggiore speditezza nel disbrigo di pratiche altrimenti assai più laboriose ed impedì, per quanto possibile, che all'estero si applicassero rappresaglie nei confronti dei Genovesi. Non dunque, a mio giudizio, «vicende interne grette e turbolente», «vicende povere e scialbe», ma le problematiche di una città nella quale si vengono faticosamente scontrando, cercando di comporsi, interessi economici, talvolta, se non spesso, contrapposti su quadri politici diversi: una città nella quale si elaborano, nel grigiore apparente del trascorrere quotidiano, quei motivi di vitalità che poi esplodono all'esterno nella grandezza che colpisce l'immaginazione. Se, come dice Lopez, «i suoi abitanti vivono, lottano, si illustrano più fuori le mura, che non nell'arco delle due Riviere», ciò lo si deve proprio al fatto che nell'arco delle due Riviere a partire dalla stessa Genova - nelle difficoltà, nei conflitti, nell'apparente povertà dei fatti locali si pongono le premesse e si affinano gli strumenti, da quelli giuridici delle strutture del quasi-Stato, secondo un'acuta definizione di Giovanni Forcheri, alla tempra del carattere individuale degli uomini, per l'avventura nel mondo. *

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Dal 23 gennaio al 13 febbraio 1984 si è tenuta a Genova, nella Sala Mostra della Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, una «Mostra documentaria: Genova e Venezia tra i secoli XII e XIV», a cura dell'Archivio di Stato e del Comune di Genova. Ce ne serba ricordo il «Catalogo», pubblicato per l'occasione con 165 regesti о notizie di documenti, più quattro edizioni in appendice, una serie di belle illustrazioni ed una «Presentazione» a cura di Aldo Agosto36. «In una condizione instabile - sta scritto nel "Catalogo" - di continui episodi ostili, paci e tregue effimere tra le due Repubbliche e risarcimenti reciproci, gli atti notarili genovesi indicano, nella seconda metà del secolo XIII, la presenza pacifica in Genova di una colonia veneziana, che elegge il proprio console e che attende ad affari privati con cittadini genovesi, incurante quasi del grande conflitto per l'egemonia sul mare»37. Conosciamo Archivio di Stato di Genova - Comune di Genova, Mostra documentaria: Genova e Venezia tra i secoli XII e XIV, 23 gennaio-13 febbraio 1984, Catalogo. Il Catalogo contiene, in eccellente veste tipografica, anche la bibliografia relativa ai documenti che vengono citati o regestati. È necessaria tuttavia qualche integrazione: ad es., per tutto il complesso dei documenti, di cui ai nn. 35, 36, 38, 40, 42, 43, 44, si aggiungano i richiami al volume di L. BALLETTO, Genova nel Duecento. Uomini nel porto e uomini sul mare, Collana storica di fonti e studi 36, Genova, 1983, dove i documenti medesimi sono stati pubblicati integralmente. 37 Catalogo cit., n. 29.

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il nome del console dei Veneziani a Genova, Marco Malaflama, eletto, il 13 marzo 1274, da otto suoi concittadini, essendo testimoni all'atto un genovese, Guglielmo de Soio, ed un portovenerese, Rolando Bigarato38. E sappiamo di altri veneziani che sono presenti a Genova, in via stabile od occasionalmente, negli anni Sessanta del Duecento: Marco Sustorio, che il 3 febbraio 1271 compera da Maestro Elia, giudeo, la schiava spagnola Mariema; Martino da Venezia, abitante nella contrada genovese di San Nazaro, che nel maggio 1274 s'imbarca sulla galera di Procacciono di Portovenere, partecipe della flotta dell'ammiraglio Lanfranco Pignataro, e che nel luglio del medesimo anno richiede il soldo dovutogli per il servizio svolto; il battifoglio Fiori, che il 29 ottobre 1277, insieme con altri, s'impegna a prestare la propria opera verso Boneto battifoglio, facendo battiture del peso di 7 libbre39. Né mancano i diretti rapporti con viaggi d'affari tra le due città. Un esempio interessante è quello di Pasquale battifoglio, che il 5 luglio 1281 riceve da Ottone de Bernardo da Venezia, tramite Bartolomeo de Corso da Lucca, una certa quantità di genovini, per la quale pagherà ad Ottone cinque grossi veneziani entro otto giorni dal suo arrivo a Venezia о nel suo distretto40. Sono ugualmente frequenti, se non più frequenti ancora, gl'incontri genovesi-veneziani nell'area d'Oltremare: a Famagosta, a Pera, a Caffa. Un caso particolarmente interessante ci è fornito dal testamento di Pasino, lanuensis de Sancto Scyro de Cremona, il quale si qualifica con doppia nazionalità: l'una evidentemente originaria per nascita, l'altra acquisita. L'atto è rogato in Egitto, a Damiata, il 29 novembre 1273, nella casa di Parzio sarto, dove abita Vassallino Boneto, figlio di Boneto battifoglio. Sono presenti, come testimoni, un nunzio del Comune di Genova, Lucaro di Sant'Agnese; almeno due altri liguri, Ruggero de Merlo di Chiavari e Ambrogio di Camogli; un prete, Tommaso; due artigiani, Ansaldo calafato e Giacomo barilaio; un Giacomo de Turre ed un Palpistro di Reggio (Reggio Emilia?); infine un Nicolino di Gervasio ed un Nicolosio Braciolo Catalogo cit., η. 36; L. BALLETTO cit., pp. 82-83 nota 4. Su questo portovenerese e sul successivo Procacciono (Percacino о Precacino) cfr. G. FALCO - G. PISTARINO, Il cartulare di Giovanni di Giona di Portovenere (sec. XIII), Torino, 1955, passim; L. BALLETTO cit., pp. 7-75. 39 Catalogo cit., η. 28, 37, 39, 49. 40 Catalogo cit., η. 51.

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non meglio identificati41. C'è dunque a Dannata, poco dopo la Crociata tunisina di Luigi IX di Francia, una comunità latina che comprende anche gente di Liguria e di altre parti d'Italia, e nella quale sono presenti un prete cattolico ed un ufficiale genovese42. Da Damiata si traffica con Laiazzo nella Piccola Armenia. Colui che detta il testamento, Pasino lanuensis de Soneto Scyro de Cremona, si appresta a partire per colà in una tarida di Veneziani. Nomina commissarius et factor dei propri beni in Egitto il dominus Vassallino Boneto, figlio di Boneto Battifoglio (che poi incontriamo a Genova il 29 ottobre 1277): nel caso giunga notizia a Vassallino da Laiazzo che Pasino è colà defunto, egli farà trasmettere colà о porterà di persona tutti i beni del morto per consegnarli al dominus Gregorio Obertello. Siamo tornati quasi senza accorgercene, per concludere, alla «vita dei Genovesi d'Oltremare, interessante, vasta, gloriosa», di cui parla Roberto Lopez. La tentazione è sempre troppo forte e su certi documenti, particolarmente notevoli, come quest'ultimo di Damiata, non si può tacere. Ma proprio da questo esempio mi sembra risulti chiaro come quella vita che in Genova a noi appare povera e scialba, vista invece in Oltremare negli stessi uomini, anche se modesti operatori di varie professioni, ci si presenta interessante, varia e gloriosa. Ci colpiscono - ed è giusto l'intraprendenza, il coraggio di fronte al rischio, lo spirito dell'avventura. E d'altra parte su noi non agisce, e non può agire, la suggestione che colpiva chi frequentava la Genova di quel tempo, ben superiore, per bellezza e tenore di vita, ad ogni aspettativa, ad onta dei frequenti rumori per i dissensi civili, i conflitti interni, gli scontri armati: la Genova, ad esempio, del 1302, che l'Anonimo sente lodare da chi ancora non c'era mai stato43: Il doc. è riferito nel Catalogo, in regesto, al n. 41, con la datazione di "Genova, 1274, dicembre 29", ed è riportato per esteso nell'Appendice, a p. 77, con la datazione del "1274, novembre 29". In realtà la data cronica esatta è il 29 novembre 1273, perché lo stile dell'anno è quello dell'Incarnazione al modo pisano con indizione costantiniana. La riprova si ha nel fatto che il 29 novembre 1273 cadeva effettivamente di mercoledì, come risulta dal testo. La data topica non è Genova, ma Damiata. 42 La notevole consistenza del traffico tra Damiata o, in genere, l'Egitto ed il porto di Laiazzo nella Piccola Armenia, sulla fine del Duecento, è documentata anche da altri rogiti notarili genovesi: cfr. С DESIMONI, Actes passés en 1271, 1274 et 1279 a ГMas (Petite Armenie) et à Beyrouth par-devant des notaires Génois cit., passim; L. BALLETTO, Notai genovesi in Oltremare, Atti rogati a Laiazzo da Federico di Piazzalunga (1274) e Pietro di Bargone (1277, 1279) cit., passim. Cfr. nota 4 nel presente capitolo. 43

ANONIMO cit., pp. 190-191.

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(...) queli chi mai no gè fon ne recontàn cotae raxon: che quanvisdè enteiso avesem cosse chi grande gè paressem,

(...) coloro che non c'erano ancora stati ci parlarono così: che sebbene avessero sentito dire cose che sembravano loro grandiose,

tropo maor le àn trovae, quando 'le som examinae, de grande honor e de gran stao, che no g'era reconitao.

le hanno trovate ancora molto più grandi, quando le hanno viste di persona, nel loro grande splendore e condizione, di quanto era stato loro raccontato.

La realtà era superiore all'aspettativa già per gli uomini di allora. Noi siamo in situazione ancora peggiore, perché apparteniamo ad un altro tempo e ad un altro mondo: anche con la più fertile immaginazione non riusciamo a ricostruire quel quadro stupendo nell'odierno degrado del centro storico della città, fra i palazzi in pietra viva ricoperti d'intonaco, le torri mozzate ed i loggiati preclusi, le immagini sbiadite о pressoché scomparse delle facciate dipinte, fra ville cadenti, о destinate ad altri usi, nelle delegazioni о nei dintorni cittadini. Non riusciamo ad immaginare l'ambiente totale, con le vesti variopinte della gente, i costumi degli uomini delle arti, le armature ed i cavalli dei soldati, gli stendardi delle fazioni per le vie della città. È una Genova per noi perduta, le cui vicende ci appaiono "povere e scialbe" perché hanno perduto ai nostri occhi il colore ed il calore di una vita, fatta spesso di tumulti e di battaglie, ma pur sempre degna di uomini forti, che noi andiamo invano ricercando tra le mute vestigia del passato.

VII

GENOVA E L'OCCITANIA

Rielaborato da Genova e VOccitania nel secolo XII, in« Atti del I Congresso storico Liguria Provenza, Ventimiglia - Bordighera, 2-5 ottobre 1964», Bordighera - Aix -Marseille, 1966, pp. 64-130.

Reduci dalla prima crociata, i Genovesi si sentirono i signori del Mediterraneo. I ripetuti episodi degli scontri con i saraceni, verificatisi nel secolo XI, avevano messo capo ad un'esperienza unica, che di gran lunga trascendeva, per importanza politica, economica e militare, le vicende sino allora vissute. Ai capitani, ai marinai, ai mercanti, che nei primi anni del secolo XII rientravano in patria dalle varie spedizioni nel Levante, carichi di bottino e di gloria, tutto l'arco della costa, che si estende da Portovenere a Monaco e da Monaco a Barcellona, dovette apparire come il luogo predestinato all'azione della Compagna, che proprio in quegli anni, - e non è un semplice caso, - era uscita dall'oscuro periodo di gestazione, per assumere la funzione d'un vero e proprio governo cittadino1. Tra Portovenere e Monaco, tra Monaco e Barcellona viveva una terra ancora feudale, in cui nessuno dei centri abitati, che si affacciavano sul mare, poteva vantare uno sviluppo mercantile, un'esperienza politica, una preparazione militare, paragonabili a quelli genovesi: nessuno era in grado di contendere con Genova per il primato2. È certo che già prima della crociata, nel corso di quel secolo XI che vide i Genovesi riprendere la consuetudine dei lunghi viaggi per mare, dopo la parentesi dell'età postcarolingia ed ottomana3, una rete di rapporti dovette esistere tra la nostra città e le città occitaniche del Mediterraneo, non foss'altro che per le esigenze dell'esistenza quotidiana, cioè per l'importazione di due prodotti essenziali: il grano ed il sale. Che tra la fine 1

Sul problema dell'origine della Compagna e la relativa bibliografia v. V. VITALE, Breviario della storia di Genova, Genova, 1955, II, pp. 16-19. 2 Sulle ragioni che favorirono Γ affermazione di Genova e di Pisa nelle terre occitaniche nel secolo XII, di fronte a Marsiglia, a St-Gilles, ad Arles, a Montpellier, a Narbona, v. le acute osservazioni di A. DUPONT, Les relations commerciales entre les cités maritimes de Languedoc et les cités méditerranéennes d'Espagne et ďItalie du Xe au XIIIe siècle, Nîmes, 1942, pp. 54-56, e di JORDI VENTURA, Alfons el Cast, el primer comte-rei, Barcellona, 1961, pp. 68-70. 3 La discussione sulla continuità dell'attività marinara di Genova nell'alto medioevo, affermata da alcuni, negata da altri, è chiarita nei suoi termini fondamentali da Т.О. DE NEGRI, Provenza e Genova, tra Oltremare e Oltremonti. Note sulle vie del commercio occidentale dall'antichità al medioevo, Genova, 1959, pp. 28-31.

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del secolo XI ed il principio del XII Genova fosse una piazza frequentata da commercianti stranieri è dimostrato dalla tariffa del pedaggio riscosso nella città, la quale reca la data del 1128, ma può considerarsi come la codificazione d'una situazione anteriore di almeno un quarto di secolo4. La tariffa allude a mercanti di Barcellona, che importano schiavi saraceni; alle navi provenienti dalla Provenza, cariche di sale; agli homines de Ultramontibus, che vendono tele e tessuti di lana, il percorso di viaggio dei quali non è sicuramente noto, ma deve probabilmente identificarsi nella via del Rodano; a commercianti di Nizza, di Ventimiglia, di Albenga, di Noli, di Savona. La presenza delle navi genovesi a Fréjus ed a St-Raphaël è attestata in sede documentaria già sui primi del secolo XII5. Sempre all'inizio del secolo XII i Miracula beati Aegidii rivelano la frequenza di mercanti genovesi sulle coste catalane ed occitaniche: come nel caso di quella nave che, nel viaggio di ritorno da Almeria, colta dalla tempesta tra Barcellona e le Baleari, riuscì a riparare a Marsiglia, donde proseguì per St-Gilles, meta del suo viaggio6. Né può tacersi, nel quadro più vasto dell'azione dell'episcopato genovese in armonia con gli interessi cittadini, l'episodio dell'insediamento del nuovo vescovo di Antibes, Manfredo Grimaldi, nella propria diocesi, per opera del vescovo di Genova, su mandato papale, contro l'opposizione degli abitanti della città, nel 11 IO7. Con la prima crociata questi rapporti spiccioli, di natura contingente, mantenuti cioè nell'ambito del piccolo commercio di approvvigionamento, H.P.M., Liber iurium Reipublicae Genuensis, I, Torino, 1854, 32 (per la nuova edizione dei Libri iurium della Repubblica di Genova cfr. Introduzione a cura di D. PUNCUH A. ROVERE, Genova, 1992, vol. 1/1, a cura di A. ROVERE, Genova, 1992); C. IMPERIALE DI

SANT'ANGELO, Codice diplomatico della Repubblica di Genova, F.I.S.I., Roma, 1936-1942, I, doc. 51. Cfr., in proposito, R. LOPEZ, Le relazioni commerciali tra Genova e la Francia nel medioevo, in Cooperazione intellettuale, VI, 1937, p. 77. Sugli immigrati a Genova dal sud della Francia nei secoli XII e XIII, cfr. V. SLESSAREV, Die sogenannten Orientalen im mittelalterlichen Genua. Einwanderer aus Südfrankreich in der ligurichen Metropole, in "Vierteljahrschrift für Sozial-und Wirtschaftsgeschichte", LI, 1964, fase. 1. 5 L.T. BELGRANO, // registro della curia arcivescovile di Genova, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», II, parte II, 1862, p. 10; R. LOPEZ, Le relazioni commerciali cit., p. 77. 6 PIETRO GUGLIELMO, Miracula beati Aegidii, ediz. Рн. JAFFÉ, M.G.H., Scriptorum, XII, Hannover, 1856, p. 321; Analecta Bollandiana, IX, 1890, pp. 393-422. Cfr. J. VENTURA, Alfons el Cast cit., p. 78. 7 E. TISSERAND, Histoire ďAntibes, Antibes, 1876, p. 106. Occorre altresì sottolineare il fatto che Manfredo Grimaldi non fu l'unico genovese a sedere sulla cattedra episcopale di Antibes nel corso del secolo XII.

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si configurano in problema politico, nella misura in cui il giovane Comune genovese ne prende coscienza e ne tenta una prima impostazione in un quadro d'interesse generale ed in vista d'una più lontana finalità. Sicché non può considerarsi una semplice coincidenza, dovuta ad un puro caso di vicende documentarie, il fatto che solo all'inizio del secolo XII emergano dal buio d'una storia anonima i più antichi documenti relativi ai rapporti tra Genova e le città della Provenza, della Linguadoca, della Catalogna. Né riteniamo una mera casualità la circostanza per cui, proprio in coincidenza con gli epigoni della crociata, noi troviamo i Genovesi già nell'atto di tentare un'affermazione di potenza con la semplicità, per non dire con l'ingenuità, di chi si sente pieno di rigoglio di vita, ma ancora non sa commisurare la propria forza alle difficoltà della situazione8. In Terrasanta, dopo la presa di Gerusalemme, si pongono, per quanto sappiamo, i primi contatti di natura politica tra Genova e l'ambiente feudale occitanico, che alle navi genovesi deve fare ricorso per le proprie imprese d'oltremare. Tra il marzo e l'aprile del 1102 una spedizione genovese, comandata da Pagano della Volta e Mauro di Piazzalunga, appoggia Raimondo IV, conte di Tolosa e di St-Gilles, signore di Edessa, nella conquista di Tortosa di Siria9. Un'altra spedizione, salpata da Genova nel 1103, aiuta di nuovo Raimondo nella presa di Gibello nel 110410; poi presta manforte al re Baldovino nell'occupazione di Accon, ottenendo dovunque compensi. Negli anni successivi, tra il 1103 ed il 1109, si tratta addirittura di conquistare Tripoli di Siria, fortificatissima dai saraceni. Raimondo di StGilles è morto nel febbraio del 1105, durante l'assedio della città: gli è 8 Sull'intervento genovese alla prima crociata e sulla marineria di Genova in quell'epoca cfr. E. EYCK, Genua und seine Marine im Zeitalter der Kreuzzüge, Innsbruck, 1886; C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, I primi documenti dell'espansione coloniale genovese in Oriente (1098-1105), in «Atti del II Congresso di studi coloniali», 1934, voi. 2°, Firenze, 1935, pp. 80-85. 9 Annali genovesi di Caffaro e de' suoi continuatori, a cura di L.T. BELGRANO, F.I.S.I., voi. I, Roma, 1890, p. 14; CAFFARO, De liberatione civitatum Orientis liber, in Annali geno­ vesi cit., I, pp. 118-119. Per la discordanza della data tra le due versioni del cronista cfr. F. ANSALDO, Cronaca della prima crociata scritta da Caffaro ed altra dei re di Gerusalemme da un Anonimo, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», I, 1858, p. 70 nota 22. Cfr. anche G. PISTARINO, Genova e il Vicino Oriente nell'epoca del Regno Latino di Gerusalemme, in «I Comuni italiani nel regno crociato di Gerusalemme. Atti del colloquio: The Italian Communes in the Crusading Kingdom of Jerusalem (Jerusalem, May 24-may 28, 1984)», Collana storica di fonti e studi diretta da G. Pistarino, 48, Genova, 1986, pp. 57-140. 10 Annali genovesi cit., I, pp. 13-14. Sulla confusione tra Gibello (Giebleh) о Gibello maggiore e Gibelletto (Giebail) о Gibello minore, l'uno a nord, l'altro a sud di Tripoli, nella 'quale è incorso l'annalista genovese, cfr. F. ANSALDO, Cronaca cit., pp. 70-71.

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subentrato nel comando in Oriente il cugino in secondo grado Guglielmo Giordano, conte di Cerdagna11; gli sono succeduti nel feudo tolosano i figli Bertrando «Zavata»12, - sul quale però si appuntano riserve di illegittimità, essendo egli nato da quel primo matrimonio di Raimondo che è stato annullato dal papa Gregorio VII per ragione di consanguineità13, ed Alfonso Giordano, venuto alla luce in Siria nel 1103, dalle nozze di Raimondo con Elvira, figlia naturale di Alfonso VI di Castiglia, e condotto nella patria degli avi, nel 1107, dal conte di Montpellier e da altri fedeli14. Nel novembre del 1105 una lettera di papa Pasquale II c'informa che Bertrando sta preparandosi a partire per la crociata15: evidentemente egli intende non frapporre indugio nell'azione di ricupero dell'eredità paterna nel Levante, di fronte alle aspirazioni di Guglielmo di Cerdagna. Le isorgenti pretese di Guglielmo IX di Poitiers, duca di Aquitania, sul feudo tolosano16, l'arrivo del fratellastro dalla Siria, con la conseguente necessità di sistemare i problemi della successione, soprattutto la difficile situazione che si determina nel borgo di St-Gilles, centro d'una nascente signoria ecclesiastica intorno alla celebre abbazia, che Bertrando tenta invano di R. GROUSSET, Histoire des croisades et du Royaume franc de Jérusalem, I, Parigi, 1934, p. 344; S. SOBREQUÉS VIDAL, Els barons de Catalunya, Barcellona, 1961, p. 12. 12 II soprannome «Zavata» è riferito da CARFARO, Annali genovesi cit., p. 122. Ci richiama all'antico francese «chávate», «savate», provenzale «sabate», che riprende la voce persiana «cäbät» (turco «čabata»): cfr. Dizionario etimologico italiano, voi. II, Firenze, 1951, alla voce «ciabatta»; G. BLOCH - W. VON WARTBURG, Dictionnaire étymologique de la langue française, 4a ediz., Parigi, 1964, p. 576, alla voce «sabate». Ma può anche pensarsi al latino «zabatus» (= «cristianus», «galeatus»); Du CANGE, Glossarium mediae et inflmae latinitatis, VI, Parigi, 1846, p. 928; cfr. Annali genovesi cit., V, a cura di C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Roma, 1929, p. 136. 13

Questa è la ragione per la quale Carfaro (Annali genovesi cit., p. 122) qualifica Bertrando come bastardus. La questione è attentamente esaminata da JOHN H. HILL e LAURITA L. HILL, Raymond IV de St-Gilles, comte de Toulouse, ediz. francese a cura di F. COSTA e PH. WOLFF, Tolosa, 1959, pp. 8-13. 14

CL. DE VIC - J. VAISSETE, Histoire generale de Languedoc, 2a ediz., Tolosa, 18721905, vol. IV, p. 217; A. RAMET, Histoire de Toulouse, Toulouse, s.d., p. 55. 15 GOIFFON, Bullaire de d'abbaye de St-Gilles, Nîmes, 1882, doc. XXII. 16 Guglielmo IX di Poitiers, duca di Aquitania, fondava le proprie pretese sul suo matrimonio con Filippa,figliaed erede di Guglielmo IV, conte di Tolosa, fratello primogenito di Raimondo IV di St-Gilles: Сн. HIGOUNET, Un grand chapitre de l'histoire du XIIe siècle: la rivalité des maisons de Toulouse et de Barcelone pour la prépondérance méridionale, in «Mélanges d'histoire du moyen âge Louis Halphen», Parigi, 1951, p. 314.

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contendere alla Chiesa17, si annoverano certo tra i motivi che ritardarono di circa tre anni l'attuazione del progetto orientale. Costretto a sgomberare St-Gilles, tra la metà di maggio e la prima decade di agosto del 110818, per l'azione delle armi spirituali e temporali della Sede Apostolica, Bertrando si decide: a capo di un gruppo di cavalieri prende la via del mare per la grande avventura della Terrasanta. Forse calcolando la difficoltà dell'impresa, certo prevedendo l'ostilità di Guglielmo Giordano e conoscendo l'importanza della partecipazione genovese nelle vittoriose imprese di Raimondo IV a Tortosa ed a Gibello, egli compie una sosta a Genova, per sollecitare l'appoggio del Comune. La sua richiesta s'incontra con una analoga, inviata per mezzo di ambasciatori, da parte di Guglielmo Giordano, о la precede di poco19. Semplice coincidenza? О non, piuttosto, una gara tra i due signori feudali per acca­ parrarsi il sostegno di Genova, ritenuto essenziale per la vittoria in Oriente ed anche, quasi certamente, per la risoluzione dei problemi del feudo tolosano? Nel marzo del 1109 Bertrando partì da Genova, con la flotta di 60 navi, messa insieme dai Genovesi sotto il comando di Ansaldo ed Ugo Embriaco20. Secondo Carfaro la spedizione rispondeva ad entrambe le richieste, quella di Guglielmo Giordano e quella di Bertrando21; in realtà, 17

La Sede Apostolica affermava l'esistenza della signoria ecclesiastica in St-Gilles, sottratta pertanto alla giurisdizione del feudo di Tolosa, sulla base di un atto patrimoniale del conte Raimondo IV, non posteriore al 18 febbraio 1095, e della donazione dell'antica «villa» di Flaviana al monastero di Sant'Egidio, solennemente largita dallo stesso Raimondo ГѴ nel concilio di Nîmes del 1096, prima di partire per la crociata: MANSI, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, t. XX, Venezia, 1775, coli. 937-938; GOIFFON, Bullaire cit., doce. XV. 1, XVII; Рн. JAFFÉ, Regesta Pontificum Romanorum, I, Lipsia, 1885, nn. 5540, 5659. I ripetuti tentativi di Bertrando, tra il 1105 ed il 1108, per assicurarsi il dominio del borgo, con l'appoggio del proprio seguito di cavalieri, dei vescovi di Fréjus e di Apt, di alcuni abitanti del luogo e, forse anche, di monaci dell'abbazia, fallirono di fronte all'energica reazione di papa Callisto II, il quale, oltre a servirsi della scomunica, richiese l'intervento, prima, del visconte di Béziers, del visconte di Narbona, del conte di Montpellier, di Bernardo d'Anduze, di Raimondo Décan di Posquières, poi dei vescovi di Valence, di Viviers, di Nîmes, di Uzès: GOIFFON, Bullaire cit., doce. XX, XXII, ХХІѴ-ХХѴШ, ХХХ-ХХХШ; Рн. JAFFÉ, Regesta cit., nn. 6121, 6126, 6161, 6187, 6198-6200. 18 II 14 maggio 1108 Bertrando occupa ancora il borgo di St-Gilles: GOIFFON, Bullaire cit., doce. ХХХ-ХХХШ; Рн. JAFFÉ, Regesta cit., nn. 6198-6200. La data dell'agosto 1108 è fondata sulla notizia della presenza di Bertrando a Genova e sull'attribuzione a quest'epoca del trattato con il Comune in merito a St-Gilles: v. oltre. CAFFARO, De liberatione cit., in Annali genovesi cit., I, pp. 122-123. 20

С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., I, p. 29.

CAFFARO, De liberatione cit., in Annali genovesi cit., pp. 122-124.

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noi sappiamo che nel dissidio, tosto esploso apertamente in Terrasanta tra l'uno e l'altro e conclusosi con la misteriosa morte di Guglielmo dopo la presa di Tripoli nel luglio del 110922, i Genovesi parteggiarono per Bertrando23 e furono da lui largamente beneficiati, ancora durante l'assedio della città, nel mese di giugno, ricevendo in donazione «tutto Gibelletto maggiore colle sue pertinenze, e la terza parte di Tripoli colle isole e col porto»24. Sicché v'è da chiedersi se non abbia effettivamente ragione l'Imperiale di Sant'Angelo quando affaccia l'ipotesi che le note concessioni di Bertrando a favore di Genova entro l'ambito del dominio tolosano, ed in particolare a St-Gilles, - quando questo centro fosse ritornato in suo possesso25, - debbano collocarsi cronologicamente non nell'agosto del 1109, dopo la conquista di Tripoli di Siria, ma nell'agosto del 1108, durante la permanenza di Bertrando in Genova e le trattative da lui condotte per ottenerne l'appoggio alla sua impresa orientale26. Vari indizi ci fanno ritenere che le cose stiano effettivamente così27; ma soprattutto non può tacersi la considerazione che, per imbarcarsi nella J. RICHARD, La comté de Tripoli sous le dynastie toulousane (] 102-1187), Parigi, 1945, pp. 5-6. ST. RUNCIMAN, A history of crusades, vol. II, The kingdom of Jerusalem and the Frankish East, 1100-1187, Cambridge, 1952 (1954), pp. 62-70. 24 M.G. CANALE, Nuova istoria della Repubblica di Genova, I, Firenze, 1858, p. 107. Cfr. Uber iurium cit., I, 18; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Ι, η. 24; D. PUNCUH,

Liber privilegiorum Ecclesiae Ianuensis, Genova, 1962, η. 26. Gibelletto fu occupata dai Ge­ novesi pochi giorni dopo la caduta di Tripoli: BERNARDI THESAURARII, Liber de acquisitione Terrae Sanctae, in L.A. MURATORI, RR. IL SS. Γ VII, pp. 738-739. 25 Com'è noto, la lontananza di Raimondo di Tolosa, impegnato nella crociata, e poi la sua morte in Oriente suscitarono «les tentatives, un moment couronnées de succès, de Guilhem IX d'Aquitaine, époux de Philippa, fille de Guilhem de Toulouse, pour s'emparer du comté»: Сн. HIGOUNET, Un grand chapitre cit., p. 314. Guglielmo IX di Poitiers, duca di Aquitania, era cognato di Raimondo di Tolosa. Sull'importanza politica ed economica di Tolosa cfr. PH. WOLFF, Commerces et marchands de Toulouse, Parigi, 1954; ID., Histoire de Toulouse, Tolosa, 1958. 26 In sostanza i Genovesi fecero pagare due volte a Bertrando il proprio appoggio: prima per il loro intervento nella spedizione in Terrasanta, poi per l'atteggiamento assunto in suo favore nel contrasto con Guglielmo Giordano. La tesi che la donazione debba collocarsi prima della partenza di Bertrando per la Terrasanta è sostenuta, seppure attraverso una imprecisaricostruzionedei fatti, anche da E. ROSCHACH, Étude sur les relations diplomatiques des Comtes de Toulouse avec la République de Gênes au XIIe siècle (1101-1174), in «Mémoires de l'Académie des sciences de Toulouse», serie VI, vol. V, 1867, pp. 57-58. 27

Tra i presenti all'atto di donazione c'è il console Iterio che fu in carica dal 1106 a tutto il 1109 (A. OLIVIERI, Serie dei consoli del Comune di Genova, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», I, fase. Ш, 1860, p. 232): ciò fa presumere che gli avvenimenti

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nuova spedizione d'oltremare a fianco di Bertrando, Genova dovette certo chiedere a priori una contropartita, approfittando dell'antagonismo tra i due signori feudali, rivelato dalla stessa loro concorrenza nella richiesta di aiuto; e che un compenso nelle terre occitaniche appare più rispondente all'interesse immediato della città che non a quello del corpo di spedizione nel Levante, e più giustificabile, come acquisto sicuro di fronte ad un futuro incerto, prima della partenza dei crociati per la guerra, anziché dopo la vittoria in oltremare. Comunque stiano le cose dal punto di vista cronologico, il diploma di Bertrando, rilasciato in Genova il 10 agosto 1108, come noi crediamo, о in Tripoli di Siria esattamente un anno dopo, rappresenta il primo documento storico, fors'anche il primo momento effettivo, dell'intervento politico ge­ novese nelle terre occitaniche. Bertrando, impegnando nel patto anche il fratellastro Alfonso Giordano, - dell'età di appena cinque о sei anni, ed il proprio figlio Poncio, - che segue il padre in Terrasanta, dove gli succederà nella contea di Tripoli28, - promette di corrispondere alla chiesa di S. Lorenzo di Genova un censo annuo di mille soldi; concede ai Genovesi libera ed esclusiva facoltà di commercio, con esenzione dalle imposte d'entrata e di uscita, nei suoi domini; dona una porzione di terreno in StGilles, in località assai vantaggiosa, sufficiente alla costruzione di trenta case: tutto ciò a partire dal giorno in cui egli riuscirà a riconquistare il borgo di St-Gilles29. È vero: le terre occitaniche non sono la Terrasanta, sicché giustamente può osservarsi che l'accordo prevede, per quanto concerne St-Gilles, concessioni irrealizzabili rispetto al tentativo genovese di bloccare in mano si svolgano in Genova. Nessuno dei principi crociati che, in Terrasanta, si valsero dell'aiuto dei Genovesi rilasciò per questo compensi nella madre-patria: ma tutti elargirono donazioni nella terra di conquista. I benefici concessi da Bertrando nella contea tolosana, soprattutto a St-Gilles, rivestivano un significato finché egli si trovava in Europa e si calcolava, data anche la precarietà dei suoi rapporti con Guglielmo Giordano, - che vi rientrasse, per ricuperare le terre del dominio tolosano; risultavano meno concretamente realizzabili, - e quindi più difficilmente se ne può dare ragione, - quando, affermatosi Bertrando in Tripoli di Siria, non parve più attuale il progetto del suo rimpatrio. Si vedano altresì le argomentazioni avanzate dall'Imperiale di Sant'Angelo (Codice cit., I, p. 29). È vero che due dei personaggi, che intervengono all'atto di donazione sui beni tolosani, - Guglielmo Embriaco e Ansaldo Coldebruc (Caput de Brugo), - compaiono anche in quello relativo a Gibello ed alla terza parte di Tripoli: ma ciò significa semplicemente che essi, appartenendo alla maggiore classe mercantile e marinara genovese, furono tra coloro che condussero in Genova le trattative con Bertrando e parteciparono con lui alla spedizione. 28 R. GROUSSET, Histoire des croisades cit., pp. 365-368. 29

Liber iurium cit., I, 19; С IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Ι, η. 22. St-Gilles

faceva parte del Tolosano, col titolo di contea.

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propria tutto il commercio di quel centro marittimo: ciò che, d'altra parte, è una riprova delle estreme difficoltà che si presentavano ai Tolosani per la rioccupazione del borgo, di fronte alla costituzione della signoria ecclesiastica, validamente sostenuta dalla Sede Apostolica30. Per di più, la morte di Bertrando in Oriente, nel 1112, rese precaria la situazione di Alfonso Giordano, che aveva solo nove anni di età, rispetto alle rivendicazioni sulla contea di Tolosa da parte di Guglielmo IX di Aquitania, - il quale nel 1114 giunse ad occupare la stessa città ed una parte del territorio31, - ed ai contrasti per la contea di Provenza con Raimondo Berengario III di Barcellona32, che nel 1113 risulta sicuramente insediato ad Arles33. Soltanto nel 1121 noi troviamo St-Gilles in possesso di Alfonso Giordano, fra le violente proteste della Sede Apostolica34, nel corso della guerra di riscossa che il giovane conte di Tolosa iniziò nel 1119, appena uscito di minorità, contro Guglielmo IX e Raimondo Berengario III e che si concluse nel 1125 con la riaffermazione di Alfonso Giordano nel feudo di Tolosa, di fronte a Guglielmo IX, e con la spartizione della Provenza tra lo stesso Alfonso Giordano e Raimondo Berengario III35. Comunque, l'episodio dell'alleanza di Genova con i conti di Tolosa nel 1108 о 1109 segna l'inizio dell'aperto intervento genovese nei pro­ blemi occitanici; della politica di equilibrio che il Comune condurrà per 30

Si noti, ad ogni modo, come per i Genovesi, dinanzi all' interesse economico, non fosse assolutamente di ostacolo il fatto che l'eventuale azione di Bertrando sul borgo di St-Gilles sarebbe stata diretta contro la Sede Apostolica. 31 CL. DE Vie - J. VAISSETE, Histoire cit., vol. ГѴ, р. 221. Guglielmo IX aveva già occupato una volta Tolosa, dopo la morte del conte Guglielmo ГѴ, tra il 1098 ed il 1100: CL. DE Vie - J. VAISSETE, Histoire cit., vol. IV, p. 208. 32 Alfonso Giordano avanzava pretese sulla Provenza come discendente in terzo grado da Emma, figlia di Rotboldo, secondogenito di Bosone II, conte di Provenza, la quale aveva sposato intorno al 992 Guglielmo Tagliaferro, conte di Tolosa, portandogli in eredità i diritti sulla metà pro indiviso dell'antica contea provenzale tra l'Isère, le Alpi, il Rodano e il mare. Raimondo Berengario III si richiamava invece ai diritti sulla contea conferitigli, per donazione nel 1113, dalla moglie Dolce, discendente, attraverso la madre Gerberga, da Guglielmo I, primogenito del conte Bosone: CL. DE Vìe - J. VAISSETE, Histoire cit., vol. IV, pp. 57-59; G. DE MANTEYER, La Provence du première au douzième siècle, Mémoires et documents publiés par la Société de l'École des Chartres, ѴПІ, Parigi, 1908-26, vol. I, pp. 198-328; R. BUSQUET, Les institutions comíales de la Provence au XIIe siècle (1112-1209), Aix-enProvence, s.d., pp. 5-7. 33 Nel 1113 Raimondo Berengario III concede ai Pisani privilegi economici ad Arles: v. oltre. 34 CL. DE Vie - J. VAISSETE, Histoire cit., vol. V, doc. CCCXC; GOIFFON, Bullaire cit., doce. XLI-XLIX; Рн. JAFFÉ, Regesta cit., nn. 6913-6917, 6925. 35 L'atto di spartizione in CL. DE Vie - J. VAISSETE, Histoire cit., vol. V, doc. 492. CCCCII; J.-P. PAPON, Histoire générale de Provence, Parigi, 1777-1786, vol. II, doc. XIII.

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tutto il corso del secolo XII tra le parti in conflitto; dell'atteggiamento che esso adotterà nei riguardi delle città costiere provenzali e della Linguadoca, ponendosi come antesignano sia nel conflitto sia nell'instaurazione di pacifici rapporti col mondo musulmano, ed aspirando a raccogliere nelle proprie mani il monopolio delle relazioni tra l'Oriente e l'Occidente: ad assumere cioè la rappresentanza di quest'ultimo nei riguardi dell'Islam e del Levante cristiano. Ciò non significa, tuttavia, una precisa intenzione di predominio politico: il disegno della costituzione d'uno Stato territoriale in Provenza o, addirittura, fino ai Pirenei, in un'area che per la stessa configurazione geofisica, - per non parlare delle forze politiche che in essa si muovono, - non poteva consentirlo. Si trattò più semplicemente d'un impegno costante, diretto a porre tutta la Francia meridionale sotto la tutela economica genovese, impedendo, con le manovre diplomatiche, con i mezzi finanziari, con l'uso delle armi, la formazione di qualunque organismo statale che riunisse le coste mediterranee dalla Provenza alla Catalogna, e tagliando fuori i Pisani dal commercio locale nella maggiore misura possibile, nonché lasciando alle città provenzali e della Linguadoca soltanto la navigazione di cabotaggio36. «La Liguria - come è stato osservato dal Gioffré - si trovava in una posizione ideale per intrattenere solidi rapporti commerciali con la Provenza (...). La via marittima, che legava le due regioni, per sé brevissima, presentava soprattutto il vantaggio di essere punteggiata da numerosi piccoli porti, che offrivano alle navi un sicuro rifugio contro le tempeste e la possibilità di scaricare parzialmente un carico о di completarlo»37. D'altra parte, come rileva il Ventura, «el contrast (...) entre l'activitat econòmica del pais d'oc i la seva insuficient exterioritzaciò marítima, entre el valor de les seves manifestacions comerciáis i la imperfectie tècnica de les seves organitzacions portuàries, únicament podien afavorir les temptatives d'infiltraciò de genovesos i pisans i acréixer els conflictes d'interessos entre ambdues ciutats italianes»38. Spregiudicatezza di metodo e di mezzi guidano la nostra città nel proprio disegno: Genova comunale e mercantile tratta, contemporaneamente о successivamente, a seconda delle circostanze, ora con la Corona catalano-aragonese, ora con le forze feudali franche, ora con le comu­ nità della costa. Non esiste da parte dei Genovesi, al di fuori della pura 36

R. LOPEZ, Le relazioni commerciali cit., p. 78.

37

D. GIOFFRÉ, // commercio genovese del sale e il monopolio fiscale nel secolo XIV, in «Bollettino Ligustico», X, 1958, n. 1-2, pp. 6-8. 38

J. VENTURA, Alfons el Cast cit., p. 71.

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ragione dell'interesse concreto, che abbiamo sopra indicato, una linea di condotta che li veda impegnati col rigore della coerenza ideale a fianco d'una delle forze che tra Nizza, Narbona e Barcellona si combattono in tutto il secolo XII per la costituzione d'una supremazia politica nella Pro­ venza, sul Golfo del Leone, nella Catalogna. Ove si verifichi carenza di governo о vuoto di potere, Genova tenta d'inserirsi; ove possa ricavarsi vantaggio, Genova non esita ad intervenire; ove si determini una situazione di resistenza ai disegni del proprio integralismo economico о un pericolo contro i privilegi ottenuti, Genova si affretta a ricercare le alleanze più convenienti, a sollecitare trattati di pace e di commercio, a promuovere azioni di guerra о di pirateria, a stimolare ed appoggiare sommovimenti interni39. La politica genovese rivela mobilità, capacità di adattamento alle situazioni locali, sensibilità nell'imposizione di condizioni diverse da luogo a luogo sino a raggiungere l'estremo limite delle richieste che possano trovare accoglimento, in modo da vincolare comunità, magari anche contermini, con clausole più о meno pesanti a seconda della loro minore о maggiore resistenza di fronte alla pressione politica del Comune genovese. E tuttavia, se anche quest'ultimo non esitò più d'una volta ad allearsi alle forze feudali contro la nascente borghesia e gli albori dei comuni occitanici, esso esercitò, congiuntamente con Pisa, un'indubbia influenza nello sviluppo delle istituzioni consolari in Provenza e in Linguadoca40. *

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Nel terzo decennio del secolo XII la conclusione delle operazioni in Terrasanta, dove è stata occupata ogni posizione possibile, dove anzi ha inizio il lento regresso delle forze cristiane, stimola più concretamente l'interesse di Genova per i paesi del bacino occidentale del Mediterraneo, che sembrano aprire un nuovo campo di possibilità grazie al conflitto tra la Cristianità e l'Islam nella penisola iberica41. Il trattato del 1108 о 1109 39

Di diverso avviso è invece R. LOPEZ (Stato e individuo nella storia della colonizza­ zione genovese, in «Nuova Rivista Storica», XXI, 1937, fase. V-VI, p. 306), per il quale «alla prima origine della prosperità commerciale dell'espansione coloniale di Genova nel medioevo non stanno tanto ragioni economiche quanto moventi politici, militari, religiosi», in altre parole la lotta contro l'Islam. 40 E. ROSCHACH, Étude cit., pp. 59-60; A. DUPONT, Les cités de la Narbonnaise première depuis les invasions germaniques jusqu'à Vapparition du Consulat, Nîmes, 1941, pp. 722-725. 41 Per un'informazione generale cfr. E.H. BYRNE, Genoese trade in the twelfth century, in «American Historical Review», 1920; ID., Genoese shipping in the twelfth and thirteenth century, Cambridge Mass., 1930; V. VITALE, Economia e commercio a Genova nei secoli XII e XIII, in «Rivista Storica Italiana», 1937, pp. 61-88. Si tenga anche presente R.L. REYNOLDS, in «Giornale Storico e Letterario della Liguria», 1938, pp. 1-25.

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con Bertrando di Tolosa era stato un primo incentivo in questa direzione; un altro dovette suscitare la ricerca dell'alleanza genovese, e pisana, nel 1116, da parte del conte di Barcellona per la lotta di «Reconquista»42, come séguito alla spedizione pisana-catalana-linguadochiana-provenzale contro Maiorca nel 111543 che ricorda l'impresa di Genova e di Pisa contro Mugahid in Sardegna cento anni prima44. Né deve trascurarsi, tra gli incentivi che volsero gli sguardi dei Genovesi verso Occidente, l'aiuto prestato, insieme con Pisa nel 1113 e forse soli о forse con Pisa ed Arles nel 1120, ai Galiziani di Iria Flavia (Santiago de Compostela) contro i Sarraceni ab Hispali usque ad Colimbriam confinia maris incolentes45. Si aggiunga che il mare di Provenza assume un'importanza di primo piano in quel conflitto tra Genova e Pisa, che appunto ora si va accendendo e che si risolve, in sostanza, in una continua guerra di corsa46: sicché può dirsi con ragione che il problema dei rapporti con Pisa esercita per tutto il secolo XII un peso notevole nel quadro delle relazioni genovesi-occitaniche. Occorre ancora tenere presente che il matrimonio del conte di Barcellona, Raimondo Berengario III, nel 1112, con Dolce, primogenita di Gerberga, contessa di Provenza, e di Gilberto, visconte di Millau e Gévaudon, e la donazione, da parte della novella sposa al marito, dei diritti ereditari 42

S. SOBREQUÉS VIDAL, Els grans comtes de Barcelona, Barcellona, 1961, pp. 180-

181; FERRAN SOLDEVILA, Historia de Catalunya, II ediz., Barcellona, 1962-63, voi. I, p. 133. 43

S. SOBREQUÉS VÍDAL, Els grans comtes cit., pp. 176-178.

44

G. SFORZA, Mogâhid, il re Mugetto dei cronisti italiani, e le sue scorrerie contro la città di Luni, Torino, 1917; ID., La distruzione di Luni nella storia e nella leggenda, in «Miscellanea di storia italiana», serie III, t. XIX, 1920. Cfr. anche F. ARTIZZU, Penetrazione catalana in Sardegna nel secolo XII, in «Studi storici in onore di Francesco Loddo Сапера», Firenze, 1959, vol. Il, pp. 11-27. 45 L.T. BELGRANO, Documenti e genealogia dei Pessagno genovesi, ammiragli del Portogallo, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», XV, 1881, pp. 245-250; Historia Compostellana, ediz. a cura di M. SUÁREZ e J. CAMPELO, Santiago, 1950, lib. I, cap. 103

e lib. Π, cap. 20; M. MOLLAT, Note sur la vie maritime en Galice au XIIe siècle d'après Γ "Historia Compostellana", in «Anuario de estudios medievales», I, 1964, pp. 531-540. 46 OTTO LANGER, Politische Geschichte Genuas und Pisas im XII. Jahrhundert, Lipsia, 1882; COLONNA DE CESARI ROCCA, Recherches sur la Corse au moyen âge. Origine de la

rivalité des Pisans et des Génois en Corse, Genova, 1901; W. HEYWOOD, A history of Pisa: eleventh and twelfth centuries, Cambridge, 1921; G. ROSSI-SABATINI, L'espansione di Pisa nel Mediterraneofinoalla Meloria, Firenze, 1935; A.R. SCARSELLA, Storia di Genova. Il Comune dei Consoli, Milano, 1942; Т.О. DE NEGRI, L'ora della Sardegna, in «Bollettino Ligustico», V, 1953, pp. 123-137 (e bibliografia relativa); V. POLONIO, Dalla diocesi all'archidiocesi di Genova, in «Momenti di storia e arte religiosa in Liguria», Fonti e studi di storia ecclesiastica, III, Genova, 1963, pp. 4-51.

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provenzali, nel 111347, venivano a porre le basi, nel medesimo periodo, del progetto catalano per la costituzione di un vasto stato marittimo al di qua e al di là dei Pirenei48, implicando tanto Genova quanto Pisa nel lungo conflitto che ne sarebbe scaturito con i conti di Tolosa, con la casa di Baux, con lo stesso Impero, che considerava la Provenza come un proprio feudo49. «Amb la seva uniò amb Provença, un vast horitzò, aixì espiritual com material, s'obria per a Catalunya. Un idioma fratern era parlat en ambdues contrades; hi brillava, esplendorosa, la poesia dels trobadors; les reciproques influencies artistiques contribuïrien a Γ estructurado de l'art romanic; el comerç i el poder maritim dels dos països, per l'estìmul de l'intercanvi i de la comunicaciò naturai entre ells, en resultaría aviat acrescut; per les relacions provençals, per les cobejances que la possessio de Provença desvetllava, els comtes barcelonins entrarien dins el corrents de la gran polìtica europea». Così il Soldevila50: bisogna tuttavia ricordare che buona parte di quei rapporti correvano sulle navi genovesi e pisane, e che Genova non avrebbe potuto disinteressarsi del progetto catalano-provenzale, complicato dal problema del conflitto con Pisa per la superiorità nel Mediterraneo occidentale. Sembra, d'altra parte, che nei primi quattro о cinque lustri del secolo XII le migliori posizioni in tutta l'area occitanica siano state accapar­ rate da Pisa, forte di più antica tradizione di ripresa marinara già nei secoli dell'alto medioevo, quando per Genova ancora si discute se esistesse un'attività navale degna di questo nome. Non è da escludersi che in quella St-Gilles, che nel 1108-1109 risulta preclusa al conte Bertrando, e nella contigua Arles abbiano già libero accesso i Pisani: ciò spiegherebbe maggiormente l'interesse genovese per un intervento diretto. Sappiamo che Pisa ottenne nel 1113, per opera di Raimondo Berengario III, conte di F. CARRERAS Y CANDI, Geografia general de Catalunya. La ciutat de Barcelona, Barcellona, s.a., pp. 249, 252. 48 Sul problema dello Stato pirenaico-mediterraneo dall'Ebro alle Alpi, e sui suoi precedenti storici, si vedano le acute osservazioni di Сн. HIGOUNET, Un grand chapitre cit., pp. 313-316. 49 I diritti imperiali sulla Provenza risalivano, com'è noto, alla promessa, da parte del re di Borgogna, Rodolfo III, nel 1016, all'imperatore Enrico II, di lasciargli il regno per successione ereditaria; alla spedizione in Borgogna dell'imperatore Corrado II nel 1033 contro le rivendicazioni di Eude, conte di Blois, ed alla sua elezione a Payerne per opera dei feudatari fedeli alla sua causa; alla nuova spedizione imperiale della primavera del 1034 contro il partito di Eude, che rimase definitivamente sconfitto: R. POUPARDIN, Le royaume de Bourgogne (888-1038). Etude sur les origines du royaume d'Arles, Parigi, 1907, pp. 126-127, 143-144, 159-166. 50

F. SOLDEVILA, Historia cit., vol. I, p. 128.

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Barcellona, da essa appoggiato nelle azioni antislamiche, protezione sulle coste catalano-occitaniche e l'esenzione in Arles dal tributo quem vulgo usagium appellant, spettante al conte tanto in Arles quanto in St-Gilles51. E certo che i Pisani trovarono alleanza a Narbona nella fase della guerra contro Genova che si combatté dal 1119 al 113352. Anzi non è forse pura coincidenza il fatto che le ostilità pisanogenovesi per il problema della Corsica abbiano inizio nel 111953, contemporaneamente allo scoppio della guerra aperta tra Alfonso Giordano di Tolosa, al quale si uniscono Bernardo Aton IV di Béziers, Ruggiero III di Foix e Raimondo di Baux, e Guglielmo IX di Poitiers, duca di Aquitania, sostenuto da Raimondo Berengario III di Barcellona e da Americo II di Narbona. Si combatte per Tolosa, che Alfonso Giordano ricupera nel 1121; per Carcassonne, sottrattasi al dominio di Bernardo Aton su istigazione catalana e ritornata in suo potere nel 112554; ma anche per la Provenza, sulla quale Alfonso Giordano avanza rivendicazioni come erede del conte Bosone II per il ramo cadetto, mentre Raimondo Berengario III sostiene i diritti cedutigli dalla moglie Dolce, discendente dallo stesso Bosone per il ramo primogenito. Ed è guerra sostanzialmente vittoriosa per il prode Alfonso Giordano, giacché la pace nel 1125 gli riconosce il possesso dell'alta Provenza, a settentrione della Durance e ad occidente del Rodano, col titolo marchionale, mentre lascia a Raimondo Berengario III la bassa Provenza, о Provenza marittima, a mezzogiorno e ad oriente rispettivamente dell'uno e dell'altro fiume, col titolo comitale55. Per Genova e Pisa sono anni oscuri: anni nei quali l'attività italiana lungo il corso inferiore del Rodano ci riesce pressocché ignota, avvolta in un'assenza di notizie che è, a nostro giudizio, il risultato di un ristagno 51 Liber Maiolichinus, a cura di C. CALISSE, F.I.S.I., Roma, 1904, p. 138 (si tenga presente che il doc. è datato secondo lo stile pisano dell'incarnazione); L. VALLE, Di due documenti che riguardano le relazioni di Genova con la Catalogna nel secolo XII, in «Il R. Liceo-Ginnasio "C. Colombo" di Genova negli anni 1931-32, 1932-33, 1933-34», Genova, 1935, p. 41, nota 13; A. DUPONT, Les relations cit., p. 70. Nel 1121 St-Gilles era però passata di nuovo in potere di Alfonso Giordano di Tolosa: cfr. ibidem, p. 72. 52

53

A. DUPONT, Les relations cit., p. 71.

Annali genovesi cit., I, p. 16. 54 S. SOBREQUÉS VIDAL, Els grans comtes cit., p. 189. Tuttavia i primogeniti della casa di Barcellona, da Raimondo Berengario III ad Alfonso П, assunsero per sé il titolo marchionale di Provenza, conferendo quello comitale ai propri congiunti da loro investiti della contea: R. BUSQUET, Les institutions cit., pp. 9-10. 55 CL. DE Vie - J. VAISSETE, Histoire cit., vol. V, doce. 488. СССХСѴИ, 489. CCCXCVIII.

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dell'attività economica in conseguenza della guerra che si combatte per terra e sul mare. Non c'è dubbio sul fatto che i Pisani sono schierati con Raimondo Berengario; i Genovesi, con Alfonso Giordano. La grande flotta di 80 galere, 35 gatti56, 28 golabi57 e 4 grandi navi da trasporto, con un armamento di 22.000 uomini, che Genova approntò nel 1119, era certo destinata non solo agli attacchi diretti contro Pisa, secondo il racconto di Carfaro58, ma anche all'appoggio dell'alleato tolosano, dalla parte del mare, ed alla protezione dei rapporti con la Provenza, isolata dai domini catalani del conte di Barcellona e soggetta quindi alla pressione politicoeconomica del Comune genovese. Comunque, se anche Genova riesce a mantenere una certa attività almeno con alcuni centri costieri provenzali, soprattutto per gl'indispensabili commerci del grano e del sale, essa si vede precluso il porto di Barcellona, - fors'anche quello di Narbona, - non tanto per i tentativi di elusione delle imposte doganali dovute in loco, come opina il Valle59, quanto per la posizione assunta dal Comune, che è vincolato ai Tolosani dai patti del 1108 о 1109 e che effettivamente non può non temere un eccessivo rafforzamento dello schieramento catalano-provenzale, preludio al grande sogno occitanico dei conti-re catalano-aragonesi. Dal 1125 la guerra tra Genova e Pisa conosce fasi assai aspre. «Menavan rumore i Pisani - dice un illustre storico genovese - di uscir d'Arno, navigare in Provenza, distrurvi il commercio dei Genovesi: otto galere loro pareano tentare il disegno (...). Sette galere si armano in Genova, (...) scorrono il mare di Provenza, Sardegna, Corsica»60. Forse il tempestivo intervento genovese in Provenza, se anche non portò a risultati concreti con Pisa, contribuì a determinare, in quello stesso anno, la fine della guerra tra Alfonso Giordano ed i suoi nemici. Certo Genova seppe approfittare nella nuova situazione catalano-provenzale per intervenire all'estremità occidentale dell'arco occitanico, là dove negli ultimi anni le era stato precluso l'accesso: a Barcellona ed a Narbona. «El tractat de 1125 consolidava la situaciò de Ramon Berenguer a Provença, i els comtes de Tolosa no tenien mes remei que acceptar-la 56

II «gatto» (dal danese «kat») era un bastimento da trasporto: A. JAL, Glossaire nautique, Parigi, 1848, alla voce. 57 II «golabo» (dall'arabo «ghorâb») era una sorta di galiotta о piccola galera: A. JAL, Glossaire cit., alla voce. 58 Annali genovesi cit., I, pp. 16-17. 59 L. VALLE, Di due documenti cit., pp. 37-38. 60 M.G. CANALE, Nuova istoria cit., I, p. 114.

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com un fet legalitzat. En canvi posava un limit a les ambicions, si es que existien, dels comtes de Barcelona de dominar el Delfinat o Provença marquesal». Così il Sobrequés Vidal61: in realtà Raimondo Berengario III usciva sostanzialmente diminuito non solo riguardo ai propri disegni, ma anche rispetto ai diritti comitali sulla Provenza che la moglie Dolce gli aveva trasmesso per la donazione del 111362. St-Gilles, preziosa come centro di mercato e di pellegrinaggio alla famosa abbazia, da cui il borgo traeva il nome, era tornata in mani tolosane; il primo tentativo di una costruzione politica occitanica, dalla Catalogna alla Provenza, era naufragato, anche per l'opposizione di Genova. Nella sua politica di bilancia tra il Mezzogiorno francese e gli interessi ispanici, il conte di Barcellona tornava a rivolgere lo sguardo a questi ultimi, là dove era urgente consolidare la frontiera occidentale del dominio, dopo la sconfitta subita a Corbins, a quanto pare nel 1124, per opera dei Saraceni, e rimediare al peggioramento dei rapporti con Alfonso I di Aragona, che era avanzato profondamente con i propri acquisti nell'area d'influenza catalana63. Riprendendo un vecchio progetto di crociata marittima contro gl'infedeli, più precisamente contro Tortosa, Raimondo Berengario III ebbe già nel 1126 un incontro con il re d'Aragona64, mentre riuscì a condurre in porto, sul principio del 1128, un patto di alleanza con Ruggero II di Sicilia, ottenendone l'appoggio navale per l'impresa saracenica, dietro promessa della ripartizione a metà delle terre di futura conquista65. Il momento era favorevole per Genova, la cui potenza navale si era ampiamente rivelata nel corso della guerra, tuttora in atto con Pisa, e le cui aspirazioni verso la Spagna cristiana e musulmana cominciavano ad assumere contorni precisi. Un'ambasceria genovese, capeggiata da Lanfranco Advocatus, giunta a Barcellona nel 1126 о sul principio del 1127, concluse un primo abbozzo di accordo. Entrambi i contraenti garantivano il libero transito e la pacifica dimora sulle proprie terre ai sudditi reciproci; i Genovesi s'impegnavano a fare guerra ai Saraceni su richiesta del conte, 61

S. SOBREQUÉS VIDAL, Els grans comtes cit., p. 190.

62

Si tenga presente che, fra i tre rami eredi dell'antico dominio provenzale, alla casa di Tolosa spettavano i 2/8 dell'intero patrimonio, mentre gli altri 6/8 competevano, in parti uguali, alla casa di Arles ed alla casa di Avignone: G. DE MANTEYER, La Provence cit., pp. 311-318. 63 S. SOBREQUÉS VIDAL, Els grans comtes cit., pp. 184-185. 64

65

S. SOBREQUÉS VIDAL, Els grans comtes cit., p. 191.

Doc. in M. AMARI, Storia dei musulmani in Sicilia, II ediz. a cura di CA. NALLINO, voi. Ili, parte П, Catania, 1938, pp. 396-398. Per la questione della data, ibidem, p. 396. Cfr. anche S. SOBREQUÉS VIDAL, Els grans comtes cit., p. 191.

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ed a pagare senza contrasti le imposte, - leudas et usaticos, - che per consuetudine solevano corrispondere ai conti di Barcellona entrando nei mari della Catalogna, vale a dire la somma di 10 once d'oro, pari a 70 marabotini, per le navi caricate a Genova66, e secondo le tariffe in uso a Barcellona, per le navi di altra provenienza. Tutto ciò sine utriusque partis engan61. Ma non tanto le clausole di questa prima stesura dei patti ci interessano, dato che le medesime furono poi modificate nel testo definitivo, quanto i nomi di coloro che Γ una e l'altra parte chiamano come fideius­ sori delrisarcimentofinanziario,a cui esse si obbligano in caso di mancata osservanza delle convenzioni. Per il conte di Barcellona sono citati Gu­ glielmo Porcellet, signore di una parte di Arles, e Raimondo Sacrista, capo, probabilmente, dei milites vassalli dell'arcivescovo artesiano, Guglielmo e Raimondo Goffredo visconti di Marsiglia, i vescovi di Antibes e di Fréjus, gli uomini di Hyères, Folco e Guglielmo signori di Grasse: dunque, praticamente, tutti i governi locali della Provenza marittima, dipendente da Raimondo Berengario III, sui quali può essere facile per Genova rivalersi in caso di necessità. Per Genova compaiono Alfonso Giordano e gli uomini di St-Gilles, Almerico II visconte di Narbona e gli uomini di Montpellier: il che significa la continuazione degli ottimi rapporti del Comune con il conte di Tolosa, la sua penetrazione in St-Gilles in base al trattato del 1108 о 1109, ma forse non con le stesse pesanti condizioni, l'esistenza di relazioni positive, di cui non sappiamo altro, con Narbona e con Montpellier. Dopo vicende poco chiare, durante le quali gli ambasciatori di Ge­ nova furono addirittura cacciati in prigione a Barcellona68 e sulle quali forse ebbe riflessi negativi la continuazione del blocco delle coste pro­ venzali da parte genovese ancora nel 112769, il trattato definitivo venne concluso il 28 novembre 1127 tra una nuova legazione del Comune, for­ mata dal console Carfaro e da Ansaldo Crispini, e Raimondo Berengario III70. Le clausole sono alquanto diverse, a favore di Genova, da quelle L. VALLE, Di due documenti cit., p. 40, nota 10. L. VALLE, Di due documenti cit., pp. 32-33. 68 L. VALLE, Di due documenti cit., pp. 38-39. Annali genovesi cit., I, p. 24. 70 A. DE CAPMANY Y DE MONTPALAU, Memorias históricas sobre la marina, comercio y artes de la antigua ciudad de Barcelona, Madrid, 1779-92, vol. II, pp. 3-4, nuova ediz. 67

a cura di E. GIRALT Y RAVENTOS e С. BATLLE Y GALLART, Barcellona, vol. Π, parte I, 1962, pp. 4-5; C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., I, η. 46.

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dell'accordo preliminare: le navi genovesi, che si recheranno nella Spa­ gna71, facendo scalo tra Nizza ed il capo di Tortosa, godranno della tutela del conte, dietro pagamento della somma di 10 marabotini in Barcellona о a San Feliu de Guìxols; mentre, se porteranno negociatores extráñeos o pecuniam alienam, approdando tra Nizza e Salou (a sud di Tarragona), dovranno corrispondere agli uomini di Barcellona lo stesso censo che quelli di Montpellier. Non si parla più d'intervento genovese contro i saraceni. Sono scomparsi i nomi dei fideiussori: non sappiamo se ciò risponda ad una pura esigenza di ordine pratico, oppure ad uno spostamento di posizioni politiche, in una situazione che è continuamente fluttuante. Certo Genova appare insediata in St-Gilles, - e quindi sempre in ottimi rapporti con Alfonso di Tolosa, - ancora tre anni dopo l'accordo con Raimondo Berengario III, quando, nel 1130, l'esule papa Innocenzo II consacrò in quel sito il nuovo vescovo genovese, Siro II, prossimo arcivescovo72. Forse invece le relazioni con Narbona subirono un momentaneo peggioramento, oppure la fideiussione da parte del visconte Almerico II, prevista dai preliminari del 1126-27, rispondeva semplicemente ad un atto di speranza per un futuro che tardò ad attuarsi, giacché la convenzione, firmata nel 1131-32 tra Genova, da un lato, il visconte, l'arcivescovo ed i consoli della città, dall'altro73, concerne la natura d'un conflitto di natura La Spagna, di cui si parla nel documento, non deve intendersi nel senso di Marca hispanica, che nella zona costiera, dai Pirenei all'Ebro, corrispondeva all'odierna Catalogna, come ritiene L. VALLE (DI due documenti cit., p. 43, nota 24); ma come la parte della penisola iberica dominata dai Musulmani, in particolare il regno di Murcia e di Valencia: A. SCHAUBE, Storia del commercio dei popoli latini del Mediterraneo, traduz. BONFANTE, Torino, 1915, p. 385. Sull'argomento in generale cfr. J.A. MARAVALL, El concepto de España en la edad media, Madrid, 1954. 72 Annali genovesi cit., I, p. 25; L. GRASSI, Siro II, ultimo vescovo e primo arcivescovo di Genova, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», XVII, fase. II, 1886, pp. 711-728. 73

A. SCHAUBE, Storia cit., p. 675; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., I,

η. 62. È interessante notare che questa convenzione costituisce per noi la prima notizia sull'esistenza del consolato a Narbona: A. DUPONT, Le cités cit., p. 699. Sui rapporti economici tra Genova e Narbona, in relazione con il conflitto genovese-pisano nel Mediterraneo, cfr. J. KOHLER, Handelsverträge zwischen Genua und Narbonne im 12. und 13. Jahrhundert, in «Berliner juristische Beiträge zum Civilrecht, Handelsrecht, Strasrecht und Strasprozess», 3. Heft, Berlino, 1903 (1904): traduz. italiana di M.A. FORGIONE, Accordi commerciali tra Genova e Narbona nei secoli XII e XIII, in «Saggi e documenti I», Civico Istituto Colombiano, Studi e Testi, Serie Storica, a cura di G. Pistarino, n. 2, Genova, 1978, pp. 5-50. Per quanto riguarda la data della convenzione sopra citata, il Kohler (Handel­ sverträge cit., p. 2), basandosi sul rapporto tra l'anno ab incarnatione e l'anno indizionale, propone la lettura: millesimo centesimo XXXI, 1 mensis iunii, indictione Villi, in luogo di quella: millesimo .C.XXXII, mensis iunii, indictione Villi, accolta nell'edizione del Liber

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economica e politica. Comunque, l'accordo con Narbona, al quale forse devono aggiungersi altri accomodamenti locali, di cui si è perduta notizia, completa opportunamente i provvedimenti, che i Genovesi adottano nell'area del Mediterraneo nord-occidentale, sia per controbilanciare l'influenza pisana, sia per assicurarsi condizioni favorevoli di traffico. Esso fu certamente facilitato da quello stipulato in precedenza da Genova con il conte di Barcellona, data la ben nota politica filocatalana dei visconti narbonesi74; ma trasse probabilmente conforto anche dalle trattative, ormai avanzate, per la pace tra Genova e Pisa. La convenzione del 1131-32 regola le compensazioni reciproche tra Genova e Narbona; elimina l'uso del saccheggio delle navi naufragate, esercitato dai Narbonesi a danno dei Genovesi75; prevede, da parte narbonese, la riduzione d'un terzo dei diritti commerciali corrisposti dai mercanti di Genova, l'impegno a non imporre nuovi gravami fiscali e a non aumentare quelli esistenti, la concessione di un'area sulle rive dell'Aude, a scelta dei Genovesi, per la costruzione di un fondaco e di due torri. Se si considera che tanto Genova quanto Pisa avevano come scopo l'insediamento sulle due estremità dell'antica Provincia Narbonese, cioè a St-Gilles sul Rodano, ed a Narbona, crocevia dei traffici per il Tolosano e per la Spagna, il risultato era per Genova positivo76. Anche se il trattato con Raimondo Berengario III non concedeva ai Genovesi nessun vantaggio territoriale, limitandosi a garanzie di sicurezza e ad agevolazioni fiscali77, e se la posizione di forza, con la quale Genova si era insediata a Narbona, sul percorso tra Provenza e Catalogna, e nel commercio con iurium, e ripresa dallo Schaube e dall'Imperiale di Sant'Angelo. La congettura è acuta e sintatticamente corretta. La cronologia del 1132 può tuttavia essere sostenuta, tenendosi presente l'uso dell'indizione genovese nei documenti del secolo XII: cfr. G. COSTAMAGNA, La data cronica nei più antichi documenti privati genovesi (sec. X - sec. XII), in « Atti della Società Ligure di Storia Patria», LXXII, fase. 2°, 1940, pp. 5-18. 74 Si tenga inoltre presente che Almerico II, visconte di Narbona, era fratello uterino di Raimondo Berengario III, conte di Barcellona: Matilde, figlia di Roberto il Guiscardo, duca di Puglia e di Calabria, aveva sposato in prime nozze Raimondo Berengario II, dal quale aveva avuto Raimondo Berengario III; in seconde nozze, Almerico I, dal quale aveva avuto Almerico П. 75 Evidentemente la consuetudine era rimasta in vita, almeno verso i nemici in guerra, nonostante l'abolizione decisa nel 1112 da Almerico I, d'accordo con l'arcivescovo narbo­ nese, nei riguardi delle navi di qualunque nazione, fatta eccezione per quelle saracene: CL. DE Vie - J. VAISSETE, Histoire cit., vol. V, doc. 44. CCCLIX; J. KOHLER, Handelsverträge cit., pp. 20-21. 76 77

A. DUPONT, Les relations cit., p. 72. A. DUPONT, Les relations cit., p. 73.

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la Linguadoca, rimaneva estremamente precaria, soggetta, come gli eventi successivi dimostreranno, a tutte le vicende politiche della regione, c'era il fatto che Genova aveva rotto in Narbona, come pure in St-Gilles, una tradizione di prevalenza pisana; s'inseriva con precisi accordi politicoeconomici nell'area del comitato barcellonese; si vedeva facilitata la strada, grazie al matrimonio di Raimondo Berengario III con la contessa Dolce, verso l'intera Provenza comitale. Non a caso si colloca in questo momento, per quanto si richiami ad una situazione anteriore, la tariffa di pedaggio del 1128, con i suoi riferimenti agli uomini di Barcellona, della Provenza, de Ultramontibus, mentre non si ha notizia, - ma si tratta di un'attesa di pochi anni, - di quelli di Narbona e di Montpellier. Alla vigilia d'un anno glorioso nella storia di Genova, il 1133, le condizioni per più ampi sviluppi verso il mondo occitanico sono ormai poste. D'ora in poi la presenza genovese nei mari di Provenza, Linguadoca e Catalogna sarà costante e dinamica sul piano politico, economico e militare, in guerra e in pace. *

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La pace con Pisa, raggiunta nel 1133 in seguito alla mediazione del papa Innocenzo II, l'accresciuta potenza del Comune, grazie sia alla spartizione della Corsica, sia all'erezione dell'episcopato cittadino in archidiocesi78 e alla creazione delle diocesi suffraganee di Bobbio e di Brugnato79, e l'impresa contro i saraceni di Bugia nel 1136, di Almeria e del Garbo nel 113780 sono altrettanti stimoli, per i Genovesi, ad un più deciso intervento nell'odierna Francia meridionale. Una grande impresa si profila all'orizzonte: la crociata di Spagna, sicché non riesce illogico pensare che, prima di dare inizio alla politica di azione diretta nel mondo iberico, il Comune volesse assicurarsi solide basi di appoggio e di rifornimento lungo tutto l'arco costiero dalle Alpi ai Pirenei. Di qui lo sviluppo d'una più intensa attività diplomatica genovese, che si concreta in una serie di 78 P.F. PALOMBO, LO scisma del 1130, Roma, 1942, pp. 490-491; V. POLONIO, Dalla diocesi cit., pp. 30-38. V. anche FJ. SCHMALE, Studien über das Schisma des Jahres 1130, Köln-Graz, 1961. 79 U. FORMENTINI, Brugnato (gli abati, i vescovi, i "cives"), in «Memorie dell'Accademia Lunigianese di Scienze G. Capellini», XX, 1940; P. TOMAINI, Brugnato, città abbaziale e vescovile, Città di Castello, 1957, pp. 68-70; V. POLONIO, Dalla diocesi cit., pp. 39-49. M.G. CANALE, Nuova istoria cit., I, p. 132; R. LOPEZ, Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo, Bologna, 1938, p. 110; A.R. SCARSELLA, II Comune cit., p. 87. Cfr. Annali genovesi cit., pp. 28-29. Ricordiamo ancora, nel 1137, l'intervento all'assedio di

Salerno: PERTZ., SS., VI, 774.

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accordi con le città della Provenza, conclusi nel 1138, proprio mentre il problema occitanico, - in questo caso più strettamente provenzale, - va sfociando nella «guerre dei Baux». L'anno precedente, il matrimonio di Raimondo Berengario IV di Barcellona, poco più che ventenne, successo nel 1131 al padre nella contea, con la figlia di Ramiro II di Aragona, Petronilla, la quale non contava ancora un anno di età, aveva fatto del giovane principe catalano «la figura clau de la historia d'Aragò i Barcelona»81, rafforzandone, alla lunga, anche le posizioni nella Provenza che Raimondo Berengario III aveva lasciato per testamento al figlio minore, Berengario Raimondo, separandola dai beni catalani, con atto rigorosamente feudale, ma scarsamente politico. È un momento oscuro della storia occitanica: un «intermezzo», come lo definisce lo Schramm82. Mentre Raimondo Berengario IV è implicato nei problemi dell'unione delle due corone, - quella ereditaria e quella portatagli dalla moglie, - e dei rapporti con Alfonso VII di Castiglia; mentre in Provenza la casa dei potenti signori di Baux, sostenuta dal conte di Tolosa e favorita dall'Impero di Corrado III, si leva contro Berengario Raimondo con crescenti rivendicazioni, che si richiamano al matrimonio di Raimondo di Baux con Stefanetta, sorella minore di Dolce83; mentre nell'interno della contea, a Marsiglia, come ad Aix о ad Arles, la signoria ecclesiastica, rappresentata dal vescovo locale, si riafferma sulla feudalità laica84, e la borghesia cittadina cerca faticosamente di aprirsi strada tra Г una e l'altra, Genova, stimolata dai recenti successi ed abile nel cogliere il momento politico, interviene in forza di luogo in luogo, a colmare il momentaneo vuoto di potere, a secondare in apparenza, ad imbrigliare in realtà secondo le proprie mire, lo sviluppo economico-politico dei centri marinari tra il Rodano e le Alpi. Così, dunque, nel mese di luglio di quel felice 1138, il Comune genovese stipula, contemporaneamente о quasi, ben cinque convenzioni: con gli uomini di Fréjus, con gli uomini e con il signore di Antibes85, 81

PERCY E. SCHRAMM, Ramon Berenguer IV, in PERCY E. SCHRAMM - JOAN F. САВЕ-

STANY - ENRIC BAGUÉ, Els primers comtes-reis: Ramon Berenguer IV, Alfons el Cast, Pere el Catolic, Barcellona, 1960, pp. 15-20. 82 83

PERCY E. SCHRAMM, Ramon Berenguer IV cit., p. 31. J.-P. PAPON, Histoire cit., vol. II, p. 203.

Actes concernant les vicomtes de Marseille et leurs descendants, a cura di H. DE GÉRIN-RICARD e E. ISNARD, Monaco-Parigi, 1926, nn. 230, 231, 333. 85

Sulle ragioni che possono avere determinato l'esclusione di Grasse, centro commerciale assurto già ad una notevole importanza, dall'accordo stipulato con Genova da Raimondo di Grasse, signore di Antibes, cfr. GILETTE GAUTHIER-ZIEGLER, Histoire de Grasse au moyenâge, 1155-1482, Parigi, 1935, pp. 7-8.

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con gli uomini di Marsiglia, con gli uomini di Hyères, con gli uomini di Fos86. Sono cinque trattati, redatti secondo un medesimo formulario di cancelleria, come se si trattasse d'uno schema preparato a priori, per essere imposto all'altra parte contraente, più che liberamente negoziato, con poche varianti di formule a seconda della diversa resistenza incontrata da luogo a luogo. Poiché si tratta di un momento economico-politico relativo all'intera Provenza marittima, con la sola esclusione di Grasse, anzi della prima decisa affermazione genovese nella regione, è assai probabile che non fosse estraneo l'assenso di Berengario Raimondo, preoccupato sia della pressione esercitata sulla contea dai conti di Tolosa e dai signori di Baux, sia degli interni sviluppi del ceto borghese nelle città costiere. Nei riguardi delle quali ultime, il punto di leva della diplomazia genovese è rappresentato dalla questione saracenica, per cui Genova si atteggia a garante ed intermediaria di pace tra le città alleate ed il re del Marocco, mentre fa balenare agli occhi delle prime, - non sappiamo se in buona о in malafede, - la speranza di una possibile espansione economica verso le terre di quel regno africano. Una serie di clausole comuni prevede l'amicizia e l'appoggio delle città alleate, in pace e in guerra, ai Genovesi ed agli amici dei Genovesi che verranno segnalati dai consoli del Comune; l'obbligo di non aumentare i tributi esistenti e di non imporne altri; l'impegno delle città alleate a mantenere la pace col re del Marocco, salvaguardandone gli uomini e gli averi in mare e in terra, e a non armare navi in corsa contro i Saraceni senza il preventivo impegno a non depredare le navi marocchine; la promessa delle medesime di risarcire a Genova i danni derivanti dall'inosservanza di qualche clausola del trattato, entro quaranta giorni dalla richiesta del Comune. Fréjus, Hyères e Fos sono assoggettate al censo annuo, da pagarsi alla chiesa di S. Lorenzo, rispettivamente di 50 staia, 60 staia e 20 mine di frumento per un periodo di dieci anni, successivamente prorogabile se e finché Genova riuscirà ad assicurare loro la pace col regno marocchino. Obblighi militari gravano su Antibes, Hyères, Fos e Marsiglia, con la formula generica della partecipazione all'oste dei Genovesi secondo i precetti 86

Liber iurium cit., I, 53, 54, 55, 56; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., nn.

81, 82, 83, 84, 85. Cfr. anche С MANFRONI, Storia della marina italiana, I, Livorno, 1899, pp. 194-195; A. SCHAUBE, Storia cit., pp. 337-338, 700-701. Sulle strutture interne delle città sopra elencate cfr. P.-A. FÉVRIER, Le développement urbain en Provence de l'époque romaine à lafindu XIe siècle, Parigi, 1964, p. 109 e sgg.

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dei consoli del Comune per le prime tre città87, con la precisazione, invece, per Marsiglia, dell'intervento con cento uomini sulle navi genovesi quando fecerint exercitum contra Sarracenos, ugualmente con cento uomini per terram quocumque irent. Infine gli uomini di Marsiglia e quelli di Fos promettono di rendere ragione a Genova dei danni recati ai suoi mercanti negli ultimi dieci anni, mentre è notevole, nel trattato con Fréjus, la clausola che assicura ai Genovesi ed ai loro alleati la piena sicurezza nella partecipazione alle fiere locali, senza aggravi finanziari superiori a quelli già esistenti per consuetudine. Come si vede, è una sistemazione collettiva che assicura a Genova la supremazia sull'intera costa provenzale sino alla foce del Rodano, completando sia la convenzione del 1127 col conte di Barcellona, sia l'accordo del 1131-32 con Narbona88, ed affermando ormai una decisa prevalenza su Pisa. «In collegamento con questi piani proprio nell'anno 1138 - osserva il Lopez - Genova si fabbrica lo strumento più importante di penetrazione economica: ottenuto da Corrado imperatore il diritto di zecca, essa comincia a coniar moneta sul modello di quella melgorese, la più diffusa in tutta la Francia Occitanica, ma che ormai sta declinando insieme col potere dei conti di Melgueil, e che si può tentar di soppiantare»89. In quest'orizzonte luminoso, - almenó per Genova, - che va dalle Alpi ai Pirenei, un punto critico permane: Montpellier. Lo sviluppo comunale ed economico di questo centro di mercato, in cui Genovesi e Pisani cercano da tempo d'infiltrarsi, è un pericolo per la politica di monopolio delle due repubbliche italiane: la tassa particolare che le navi dell'una e dell'altra devono pagare alla città, a risarcimento dei danni provocatile da azioni di pirateria marittima, rappresenta un peso fastidioso non tanto sul piano economico quanto su quello del prestigio. Genova e Pisa, una Gli impegni militari risultano invece assai meno onerosi e vincolanti da parte degli uomini di Fréjus, per i quali non è prevista la partecipazione diretta nelle file dell'esercito genovese, ma soltanto l'obbligo di recare offesa ai nemici del Comune di Genova, secondo le richieste dei consoli di questa città, nei limiti delle possibilità dei Forogiuliesi. 88 Si tenga presente, ad ogni modo, che Narbona, alla morte di Almerico II nel 1134, era passata in diretto dominio del conte di Tolosa, Alfonso Giordano, che la tenne fino al 1143, quando la restituì alla primogenita di Almerico, Ermengarda. Sicché è certo che il commercio di Genova con Narbona ebbe a subire una battuta d'arresto quando, una decina d'anni dopo, i Genovesi si trovarono impegnati contro il conte di Tolosa: v. oltre. 89 R. LOPEZ, Le relazioni commerciali cit., p. 78. Sulla coniazione della prima moneta genovese nel 1139, in base al diploma imperiale del 1138, cfr. M. CHIAUDANO, La moneta di Genova nel secolo XII, in «Studi in onore di Armando Sapori», Milano, 1957, voi. I o , pp. 187-214.

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volta tanto concordi, si trovano unite contro Montpellier, quando l'occasione per un intervento è offerta da un moto sedizioso, scoppiato nel 1141 contro il signore feudale, Guglielmo VI, per opera della piccola nobiltà e della borghesia locali, sostenute dal conte di Tolosa e di St-Gilles, Alfonso Giordano. Guglielmo VI, costretto alla fuga, e riparatosi nel castello di Lattes, chiede aiuto a Raimondo Berengario IV ed al papa Innocenzo II90, che egli considera come l'alto protettore di Montpellier in conseguenza dell'omaggio reso da lui stesso al vescovo di Maguelonne per la «villa» di Montpellier ed il castello di Lattes con l'accordo del settembre 114091. In due lettere del gennaio 1142 il pontefice manda ai vescovi della regione di proibire ogni contatto tra i loro diocesani e la città ribelle, e di adoperarsi per distogliere il conte di Tolosa dall'azione a favore degli insorti92. L'episodio s'inserisce nel conflitto, che noi troviamo in pieno svolgimento nel 1142, tra Raimondo Berengario IV conte di Barcellona e principe di Aragona, Berengario Raimondo conte di Provenza, Guglielmo VI di Montpellier, i visconti di Carcassonne, di Béziers e di Nîmes, da un lato, Alfonso Giordano conte di Tolosa, che detiene in questo momento direttamente anche il feudo di Narbona, e Raimondo di Baux, coi suoi figli, dall'altro, per la formazione dello Stato mediterraneo, accentrato sulle coste occitaniche, al quale aspirano tanto il ramo catalano-provenzale quanto i signori di Tolosa e di Baux93. Era un problema del quale Genova e Pisa, vincolate alla reciproca pace proprio grazie all'opera d'Innocenzo II, non potevano disinteressarsi sia, da un punto di vista generale, per A. GERMAIN, Histoire de la commune de Montpellier, Montpellier, 1851, voi. I, p. IL Sulle diverse interpretazioni dell'avvenimento cfr. A. DUPONT, Les relations cit., p. 74; J. VENTURA, Alfons el Cast cit., pp. 73-100. 91 CL. DE Vie - J. VAISSETE, Histoire cit., vol. V, doc. CCCCXLVIII. Per più ampie notizie sulla questione e sui suoi precedenti cfr. A. GERMAIN, Le temporel des évêques de Maguelone et de Montpellier, in «Publications de la Société Archéologique de Montpellier», n. 38, 1879, pp. 129-226; В. GAILLARD, La condition féodale de Montpellier, in «Mémoires de la Société Archéologique de Montpellier», serie II, vol. VIII, 1922, pp. 344-364. Sulla genealogia dei conti di Montpellier: F. PEGAT, Notice sur les Guillelms, seigneurs de Montpellier, in «Mémoires de la Société Archéologique de Montpellier», voi. I, 1840, pp. 291-312. 92

Рн. JAFFÉ, Regesta cit., nn. 8186, 8187. Cfr. anche A. GERMAIN, Liber instrumento­

rum memorialium. Cartulaire des Guillelms de Montpellier, Montpellier, 1884-1886, doce. 8,9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e 17. 93 Cfr. Les Bouches-du-Rhône. Enciclopédie départementale, sotto la direzione di PAUL MASSON, parte I, tomo II, Parigi-Marsiglia, 1924, capp. XII e ХГѴ, a cura di V.-L. BOURILLY, in particolare p. 312.

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il pericolo che l'attuazione d'un tale progetto avrebbe comportato per i commerci di entrambe, sia, sul piano più immediato, per l'ostilità manifestata da Alfonso Giordano - che si appoggiava evidentemente nella sua azione contro la lega catalano-provenzale e le città italiane che la sostenevano seppure per semplice ragione di equilibrio - alle aspirazioni autonomistiche delle nascenti borghesie mercantili dei nuclei urbani dei feudi avversari ed alla insofferenza di tutti i centri costieri, entro e fuori i suoi domini, per la tutela economica pisana e, soprattutto, genovese. Il diritto di rappresaglia, concesso dal conte tolosano a danno dei mercanti di Genova e di Pisa per un valore di 2000 marche d'argento, è sintomatico della situazione e rappresenta uno dei motivi dell'intervento militare pisano-genovese a Montpellier, unitamente all'intento, per gli alleati, di ottenere da Guglielmo VI, una volta che fosse rientrato nel proprio dominio, l'abolizione della tassa speciale, gravante su di loro, oltre a particolari condizioni di favore per il traffico dell'una e dell'altra repubblica. Sicché ci pare certo, - anche se manchiamo di prove documentarie, che l'appello del papa per Guglielmo VI non si limitò ai vescovi locali, ma si rivolse, con più vasti intenti e trovando terreno già ampiamente favorevole, ai governi genovese e pisano, ai quali l'intervento del pontefice offrì le giustificazioni morali per una decisa azione di guerra. Comunque, con un impegno scritto, di cui s'ignora e si discute la data, ma che noi riteniamo debba collocarsi appunto nel 1141-42, il conte di Montpellier si obbligò a notevoli concessioni in favore di Genova e di Pisa, dichiarandosi, fra l'altro, disposto a muovere guerra, a loro richiesta, contro Alfonso Giordano94. Appoggiato dalle forze di terra di Raimondo Berengario IV e dalle galere italiane alleate, Guglielmo VI rientrò, poco oltre la metà del 1143, nella propria città, costretta ad arrendersi, dopo alcuni mesi di assedio, per mancanza di viveri95. Ad una calorosa lettera di ringraziamento, inviata al governo genovese96, egli aggiunse più tangibili segni di riconoscenza: tanto a Genova quanto a Pisa l'esenzione dai pedaggi sulle sue terre; la soppressione della tassa speciale; la concessione all'una e all'altra di una A. GERMAIN, Histoire de la commune de Montpellier cit., vol. II, p. 419; ID., Liber cit., doc. 203 (con la data del 1177 о 1178). 95 Annali genovesi cit., I, pp. 31-32; CL. DE VIC - J. VAISSETE, Histoire cit., vol. ΠΙ, pp. 721-729; A. GERMAIN, Histoire de la commune de Montpellier cit., p. 11 e sgg. 96

Liber iurium cit., I, 87; C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., n. 125.

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casa nella città per le esigenze del mercato; l'impegno a proseguire la lotta a fianco delle due repubbliche italiane contro il conte di Tolosa97. A sua volta, Alfonso Giordano, vedendo compromessa una delle principali basi di appoggio, si decise alla pace, il 3 settembre dello stesso anno, con l'intervento dell'abate e dei consoli del borgo di St-Gilles98. Gli abitanti del quale s'impegnarono a pagare, in diverse rate, la somma di mille marche d'argento ai vincitori, a risarcimento dei danni loro recati dal conte, ed a garantirne i beni e le persone in St-Gilles, mentre Alfonso Giordano dava consimile promessa per riguardo a Narbona ed al territorio99: da parte loro, i Genovesi e i Pisani promisero le stesse condizioni per i mercanti di St-Gilles nelle rispettive città e s'impegnarono a ripristinare i traffici interrotti dalla guerra. Così il nemico di ieri diventava l'alleato di oggi. Fallito nell'azione del conte di Tolosa, il progetto di uno Stato costiero mediterraneo si affacciava, ora, non meno pericoloso, per opera catalano-provenzale. Per questa ragione, e non tanto per le azioni di pirateria commesse da navi provenzali a danno di navi genovesi, assistiamo tra il 1143 ed il 1144 ad un rapido, seppure momentaneo, cambiamento di fronte da parte di Genova: non è l'azione militare in grande stile, come il blocco marittimo di Montpellier, ma è la guerra di corsa, più insidiosa e logorante, punteggiata talvolta da episodi atroci, come quello del vascello corsaro, catturato dai Genovesi nel mare di Provenza, ai cui membri dell'equipaggio i vincitori strapparono gli occhi, per vendicarsi delle perdite subite100. Nel 1144, attaccato nello stagno di Melguen da una nave genovese, Berengario Raimondo, conte di Provenza, è ucciso dalla freccia di un baLiber iurium cit., I, 89; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., η. 124. Il ritomo di Montpellier in mano del signore feudale, nel 1143, bloccò per quasi mezzo secolo il movimento di sviluppo comunale della città: cfr. Thalamus parvus. Le petit Thala­ mus de Montpellier, a cura della Société Archéologique de Montpellier, Montpellier, 1840, p. X; GRASSET, Les consuls et VHotel-de-Ville de Montpellier, in «Mémoires de la Société Archéologique de Montpellier», serie II, voi. 1°, 1899, pp. 17-76. 98 Liber iurium cit., I, 82; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., n. 126. 99 È possibile che il fallimento dell'azione tentata a Montpellier si annoveri tra le ragioni che indussero Alfonso Giordano a restituire proprio nel 1143 il feudo di Narbona alla viscontessa Ermengarda, la quale riprese tosto la politica filocatalana del padre: CL. DE Vie - J. VAISSETE, Histoire cit., vol. Ill, pp. 724-726. 100 Annali genovesi cit., I, p. 32.

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lestriere nemico101. Scomparso uno dei maggiori antagonisti, campeggia sulla scena Raimondo di Baux, sostenuto sempre dal conte di Tolosa ed al quale l'imperatore Corrado III concede, nel 1145, valendosi del proprio titolo in regno Provinciae e forse approfittando della morte di Berengario Raimondo, l'investitura feudale delle terre avite, tanto di Raimondo quanto della moglie, nonché di quelle da Raimondo stesso acquistate legalibus modis, con il diritto di battere moneta ad Arles, ad Aix ed a Trinquetaille102. Mentre il conflitto raggiunge la massima estensione, con l'intervento dei più cospicui rappresentanti della feudalità occitanica, Genova, che certo non gradisce la formazione, sul proprio confine occidentale, d'un complesso politico tolosano-provenzale, appoggiato dall'Impero, e che ritiene giunto il momento d'intervenire nella Spagna musulmana a fianco dell'azione diretta della «Reconquista», per non perdere, di fronte ai probabili vincitori, anzi per accrescere le proprie posizioni economiche in quell'area di mercato103, si riaccosta alla parte catalana. Dopo una spedizione contro i musulmani di Maiorca e di Almeria nel febbraio del 1146104, essa raggiunge, nello stesso anno, l'accordo sia con 101

Gesta comitum Barchinonensium, a cura di L. BARRAU DIHIGO e J. MASSO TOR-

RENTS, Barcellona, 1925, pp. 40, 131; Annali genovesi cit., I, p. 82. Nella morte di Berengario Raimondo dovrebbe vedersi la longa manus dei signori di Baux, secondo Сн. D'AIGREFEVILLE, Histoire de la ville de Montpellier, Montpellier, Л 73 7-1739, voi. I, p. 26. Non, dunque, un momento di un conflitto tra Genova e la casa di Barcellona-Aragona, ma semplicemente un atto di aggressione piratesca per opera di mercenari, agenti per conto altrui. 102 J.-P. PAPON, Histoire cit., vol. II, doc. XV; K.F. STUMPF-BRENTANO, Acta Imperii, Innsbruck, 1883, η. 332 (STUMPF, Reg. 3495); V.L. BOURILLY e R. BUSQUET, Histoire de

Provence, Parigi, 1948, p. 44; J. DE FONT-RÉAULX, Le trésor des Chartres des Baux, in Provence historique, IV, 1954, fase. 17, p. 147. Sul problema dell'autenticità dei diplomi imperiali per i Baux cfr. HANS HIRSCH, Urkundenfälschungen aus dem Regnum Arelatense. Die burgundliche Politik Kaiser Friedrichs I, Vienna, 1937; URSULA BRUMM, Zur Frage der Echtheit der ersten Stauferdiplome für südburgundische Empfänger, in «Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung», LVII, 1949, pp. 279-338. 103

Si tenga presente che il 28 dicembre 1136 Raimondo Berengario IV di BarcellonaAragona aveva donato in feudo a Guglielmo VI di Montpellier la città di Tortosa, «cum omnibus terris et castris et municionibus, et omnibus ad eius dominatum pertinentibus», per quando essa fosse ritornata «in potestate Christianorum»: A. GERMAIN, Liber cit., doc. 152. I diritti furono trasmessi da Guglielmo VI, nel testamento dell'I 1 dicembre 1146, alfiglioe successore Guglielmo VII: A. GERMAIN, Liber cit., doc. 95. È assai probabile che i Genovesi fossero al corrente della situazione, tanto più che il conte di Montpellier, Guglielmo VI, prese parte alla crociata di Spagna, imbarcandosi sulle loro navi: certo non potevano rimanervi estranei. 104 Annali genovesi cit., I, p. 33.

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Alfonso VII di Castiglia105, sia con il conte di Barcellona e principe d'Aragona, Raimondo Berengario IV106, nell'imminenza di un'azione contro il regno di Valencia. Ottiene un terzo delle future conquiste territoriali; una chiesa, un fondaco, un forno, un bagno ed un iardinum nelle città che toccheranno interamente agli alleati; completa franchigia da pedaggi, tasse portuali e qualsiasi gravame sia nei domini di Alfonso, sia in quelli di Raimondo Berengario IV a Rodano usque in Occidentem. Ma soprattutto consegue due scopi: da un lato la formazione d'un contrappeso alla minaccia di Raimondo di Baux in Provenza; dall'altro un più diretto inserimento, a scopo economico-politico, nell'azione della «Reconquista». Da parte sua, Raimondo Berengario IV, rafforzato dall'appoggio genovese, ottiene, quale Provincie marchio, nel febbraio del 1147, Yhominaticum e la fidelitatem da parte dei baroni provenzali, riuniti presso Tarascona, tra i quali sono anche i visconti di Marsiglia, già fedeli partigiani della casa di Tolosa107. Almeria, nido di pirati, cade in mano ai crociati il 26 ottobre 1147; Tortosa, in seguito a nuova spedizione, il 30 dicembre 1148108. Al bottino, ai vantaggi commerciali, agli acquisti nell'uno e nell'altro luogo109 Liber iurium cit., I, pp. 122, 123; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., I,

nn. 166, 167. BOFARULL Y MASCARÓ, Colección de documentos inéditos del Archivio de la Corona de Aragón, Barcellona, 1847-59, voi. IV, pp. 332, 337; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO,

Codice cit., n. 168. 107 Actes cit., n. 234. Nel 1151 giurò fedeltà alla casa di Barcellona anche Guido di Fos, con la promessa di consegnare, a richiesta, il castello di Hyères: Actes cit., n. 239. Com'è noto, i conti di Barcellona, poi re di Aragona, considerarono sempre la Provenza come un feudo che ritornava loro alla morte di ogni principe della propria famiglia, che ne era stato da loro investito. Nel 1144, alla morte di Berengario Raimondo, che lasciava un figlio in giovane età, Raimondo Berengario IV di Barcellona-Aragona assunse direttamente il governo della contea, di fronte alle pretese regalistiche dell'imperatore Corrado III ed alle aspirazioni feudali della casa di Baux. Se anche il nome di Raimondo Berengario ΙΠ, figlio di Berengario Raimondo, compare ad un certo punto, in taluni atti, col titolo comitale di Provenza, accanto al nome dello zio, ciò non significa una reale assunzione di potere: R. BUSQUET, Les institutions cit., p. 10. Raimondo Berengario ΙΠ resse effettivamente il feudo solo a partire dal 1162, cioè dal riconoscimento imperiale di Federico I di Svevia, cui seguì quasi immediatamente la morte di Raimondo Berengario IV: v. oltre. 108 CAFFARO, Y storia captionis Almarie et Turtuose, in «Annali genovesi» cit., I, pp. 77-79; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Caffaro e i suoi tempi, Torino, 1894, pp. 191-233; E. BAYERRI, Historia de Tortosa y su comarca, VI, Tortosa, 1954, pp. 761-785. 109 Liber iurium cit., I, 138; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., I, nn. 190, 191 ; D. PUNCUH, Liber cit., n. 43.

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i Genovesi aggiunsero una speculazione indiretta, sulla quale sarebbe interessante potere fare più luce: la concessione di un fondaco, in Tortosa, con libertà totale d'ingresso e d'uscita, da parte del conte di Barcellona al popolo di Narbona110. La comparsa di quest'ultimo nel quadro della crociata e del godimento dei vantaggi, che da essa si speravano, potrebbe riuscire poco chiara, se un'acuta osservazione del Ventura non ci mettesse sull'avviso: i consoli di Narbona, che già nel settembre del 1148 sottoscrivono gli accordi con Raimondo Berengario IV, in previsione della prossima conquista, sono Guglielmo Sigerio, Guglielmo della Volta, Raimondo Lorenzo Multone, sono cioè nomi tipicamente genovesi, taluno dei quali è ben noto nella storia di Genova111. Mentre si combatte contro l'Islam in Occidente, Alfonso Giordano chiude in Oriente la propria esistenza di guerra, avvelenato in circostanze misteriose, nel 1148, durante la seconda crociata112. E Raimondo di Baux, perduto definitivamente l'antico alleato, controbattuto sui mari e sulle coste d'Occitania dalla lega catalano-genovese, chiede la pace al conte di Barcellona113. Un trattato tra Genova e Pisa, il 17 aprile 1149, sembrò sancire, dopo le azioni compiute in comune, la fine completa delle rivalità tra le due repubbliche, ed una loro specie di condominio sulle terre occitaniche. Esse si ripromettevano infatti mutua assistenza contro ogni nemico presente e futuro, «da Venezia a Costantinopoli, da Costantinopoli alla Siria, in tutta la Siria, in tutto l'Egitto, in tutta la Barberia, in tutto il Garbo, in tutta la Spagna e dalla Spagna fino al porto di Monaco»114. Concessioni e privilegi, rilasciati dal re di Valencia, Abu-Abd-Allah Mohammed ibn Said Mardanish, al Comune di Genova nel giugno 1149115 ed al Comune di G. MOUYNÈS, Ville de Narbonne. Inventaire des archives communales, Narbona, 1871-79, vol. I, p. 3. 111 J. VENTURA, Alfons el Cast cit., p. 101 nota 78. Guglielmo della Volta fu console dei placiti a Genova, dove compare dal 1125 al 1141: Annali genovesi cit., I, pp. 18, 23, 25, 26, 30, 31. 112 R. GROUSSET, Histoire des croisades cit., II, Parigi, 1935, pp. 250-251. 113 J.-P. PAPON, Histoire cit., vol. II, pp. 230-231. 114

С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., η. 195. Cfr. anche O. LANGER, Po­

litische Geschichte Genuas und Pisas in den Jahren 1133-1149, in «Historische Studien», VII, 1882. 115 M. AMARI, I diplomi arabi dell'Archiviofiorentino,Firenze, 1863, p. XXXIV; C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., n. 196.

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Pisa nel gennaio 1150116, parvero completare quegli accordi e consolidare quelle promesse su un piano di parità anche nell'interno del mondo saraceno117. Ma, come si sa, erano promese ed accordi destinati al vento. *

*

*

Fallita, per ragioni assai note, l'operazione economico-politica, tentata con la crociata di Spagna118, ridotto a bassissimo livello, come conseguenza, il traffico genovese con i porti catalani119, l'attività di Genova in Occitania ristagna per qualche anno. Il Comune si dibatte nella grave crisi finanziaria, lasciatagli in eredità dalla partecipazione alle spedizioni antislamiche, e cerca faticosamente di liquidarne le passività120, giungendo infine, nel 1153, a vendere i possessi in Tortosa a Raimondo Berengario IV, conte di Barcellona e principe d'Aragona, per una somma che settantasette anni più tardi restava, tuttavia, ancora da pagarsi per metà121. È celebre l'episodio dei consoli per l'anno 1154, che non volevano assumere il governo quoniam civitatem dormire et litargiam pati, et sicuti navem sine gubernatore per mare cognoscebant\ ma che infine, indotti all'ingrato incarico dalle insistenze dell'arcivescovo e dalla pressione popolare, statim multum cogitando quomodo civitatem e somno eriperent, riuscirono a risvegliare l'interesse e l'attività dei cittadini ed a rimettere in sesto la barca dello Stato122. Ci sembra significativo il fatto che la 116

M. AMARI, I diplomi arabi cit., pp. 239-240. Mentre da parte delle repubbliche italiane urgevano le istanze commerciali, il re di Valencia, com'è noto, aveva in realtà lo scopo di assicurarsi le spalle da un eventuale intervento dellaflottagenovese о pisana, nell'imminenza di un attacco da parte degli Almoadi: 117

G. ROSSI-SABATINI, L'espansione di Pisa cit., p. 13. 118

A. SCARSELLA, / / Comune cit., pp. 101-104; H.C. KRUEGER, Post-war collapse and

rehabilitation in Genoa, in «Studi in onore di Gino Luzzatto», Milano, 1950, vol. I, pp. 117-128. 119

A. DUPONT, Les relations cit., p. 88; J. VENTURA, Alfons el Cast cit., p. 82.

120

Si vedano le vendite degli introiti del Comune e degli stessi possessi in Tortosa a

privati e gruppi di privati in С IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., nn. 193, 202, 204, 214, 215, 216, 227. Cfr. A. DUPONT, Les relations cit., pp. 87-88; R. LOPEZ, I primi cento

anni di storia documentata della banca a Genova, in «Studi in onore di Armando Sapori», Milano, 1957, vol. I, pp. 217-218. 121

BOFARULL Y MASCARÓ, Colección cit., vol. IV, p. 212; С. IMPERIALE DI SANT'ANGE­

LO, Codice cit., nn. 243, 244. 122 Annali genovesi cit., I, pp. 37-39.

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prima manifestazione concreta di questa ripresa politica ed economica del Comune si attui in direzione dell'Occitania, sia pure ad una distanza ravvicinata, qual è quella rappresentata da Marsiglia, dopo le grandi puntate a Montpellier, a Narbona, sulle coste iberiche. La vicenda è poco chiara; il documento, che ce ne parla, presenta varie lacune, sicché riesce di lettura incompleta: simbolo, quasi, del faticoso ritorno alla normalità dopo quello che il Krueger chiama il «collasso post-bellico»123. Ma colpisce la circostanza che, una delle prime volte in cui Marsiglia ci si presenta nel vivo dei suoi conflitti interni, Genova vi appare direttamente interessata e coinvolta. Semplice coincidenza? Non crediamo. L'iniziativa genovese, per ritessere le fila nel mondo provenzale, occitanico, mediterraneo, non poteva prescindere, in via aprioristica, dall'immediato Occidente, dalle incipienti, e ancora torbide, manifestazioni di vita autonoma d'una città che, per la sua stessa posizione geografica, si presentava come la futura rivale e che occorreva quindi controllare in modo diretto e positivo. Nell'aprile del 1154 un trattato è concluso tra i consoli del Comune ed i visconti marsigliesi: i fratelli Goffredo, Ugo Goffredo e Bertrando124. Genova metterà a disposizione dei visconti da una a dieci galere, nel caso che essi si armino contro Raimondo Goffredo di Marsiglia, purché la guerra sia stata dichiarata con l'assenso genovese125. I visconti assumono la tutela, nel proprio territorio, degli uomini del distretto genovese; non preleveranno per ogni nave, che intervenga alla fiera di Marsiglia, una 115

H.C. KRUEGER, Post-war collapse cit., pp. 117-128. RÉGINE PERNOUD, Essai sur l'histoire du port de Marseille des origines à la fin du XIIe siècle, Marsiglia, 1935, pp. 83, 4; 291, 2; С IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., η. 251. 125 Goffredo, Ugo Goffredo e Bertrando, figlio di Poncio, sono gli stessi che nel 1151 sono scesi ad un accordo col vescovo di Marsiglia, Raimondo, essendo intermediario l'arcivescovo di Arles, a proposito di varie questioni, tra cui primeggiano quella del possesso del porto di Portegalle, assegnato al vescovo, e quella della libertà di entrata e di uscita nel porto vecchio, spettante ai visconti, per gli abitanti della parte della città di pertinenza vescovile: Actes cit., n. 238. Raimondo Goffredo, figlio di un fratello di Poncio, Ugo Goffredo, e quindi cugino in primo grado dei tre precedenti, è colui che nel 1152 giura fedeltà al nuovo vescovo marsigliese, Pietro: Actes cit., n. 241. Con ogni probabilità ci si trova dunque di fronte ad un contrasto di natura economica tra Genova, che si appoggia al ramo viscontile, a cui appartiene il porto vecchio della città, e la borghesia cittadina, legata all'arcivescovo, che va sviluppando al traffico lo scalo di Portegalle. Oltre tutto è presumibile che i Genovesi si preoccupassero non poco delle concessioni ottenute dal Comune di Marsiglia, nel 1152, in Gerusalemme ed in Accon per opera del re di Gerusalemme, Baldovino Ш: J.-P. PAPON, Histoire cit., vol. II, doc. XVIII. 124

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somma superiore a 12 denari di genovini; faranno guerra a Raimondo Goffredo a richiesta dei consoli del Comune. Né Tuna né l'altra parte concluderanno pace separata. Anche se non conosciamo il seguito dell'episodio126, avvertiamo subito la rinata volontà politica, che si congiunge alla preoccupazione per la salvaguardia delle posizioni economiche acquisite о da acquisire. In realtà la città sta ritrovando tutte le sue energie non solo e non tanto per capacità di taluni governanti, ma per propria intima vitalità, stimolata dalla restaurazione imperiale di Federico I, alle cui richieste essa decide di resistere e riesce effettivamente ad opporsi con abilità non disgiunta da fermezza127. Mentre tergiversa col Barbarossa128, il Comune fa giu­ rare la Compagna ai marchesi del Carretto129, tratta con Costantinopo­ li130, ottiene da papa Adriano IV il richiamo del re di Gerusalemme, del conte di Tripoli e del principe di Antiochia all'osservanza dei diritti e dei privilegi genovesi nelle terre degli Stati crociati131; stipula convenzioni con Guglielmo I di Sicilia132; stringe patti con Milano e con Tortona133; riceve nell'habitaculum Guido Guerra, conte di Ventimiglia134. E se con 126 È noto, comunque, che Raimondo Goffredo morì anteriormente al 1156: Actes cit., Tableau A. 127 V. VITALE, Genova nel secolo XII (rileggendo gli "Annali Genovesi"), in «R. Li­ ceo Ginnasio "C. Colombo", Genova, Annuario 1923-24», Genova, 1925, pp. 17-21. Sulla vigorosa ripresa economica a partire dal 1155 cfr. R. LOPEZ, AUX origines du capitali­ sme génois, in «Annales d'histoire économique et sociale», IX, 1937, pp. 429-454; H.C. KRUEGER, Genoese merchants, their partnerships and investiments, 1155 to 1164, in «Studi in onore di Armando Sapori», Milano, 1957, vol. I, pp. 255-271; ID., Genoese merchants, their associations and investiments, 1155 to 1230, in «Studi in onore di Amintore Fanfanı», Milano, 1962, vol. I, pp. 413-426. 128

A.R. SCARSELLA, / / Comune cit., pp. 113-121.

129

Liber iurium cit., I, 186, 188; C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., I, η. 269.

130

Liber iurium cit., I, 183-186; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Ι, η. 271.

131

Annali Genovesi cit., pp. 44-45; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Ι, η.

273; G. PiSTARiNO, Genova e il Vicino Oriente nell'epoca del Regno latino di Gerusalemme, in « / Comuni italiani nel Regno crociato di Gerusalemme. Atti del Colloquio The Italian Communes in the Crusading Kingdom of Jerusalem (Jerusalem, May 24-May 28, 1984)», Collana Storica di Fonti e Studi, 48, Genova, 1986, pp. 68-69. 132

Liber iurium cit., I, 190, 202; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., I, nn.

279, 280, 282. 133 F. GABOTTO, Chartarium Dertonense, B.S.S.S., XXXI, Pinerolo, 1909, nn. 69, 107; С MANARESI, Atti del Comune di Milanofinoall'anno 1216, Milano, 1919, p. 61; С IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Ι, η. 281. 134

289, 290.

Annali genovesi cit., I, p. 48; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., I, nn.

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il comitato di Barcellona tacciono, e taceranno ancora per qualche tempo, i rapporti politico-economici da parte del Comune, dopo l'esito infelice dell'affare di Tortosa, aggravato nel 1157 dal ritorno di Almeria in mano saracena135, i contatti sono ripresi, ad alto livello, già nel 1158 da parte dell'arcivescovo Siro II e del Capitolo della cattedrale di S. Lorenzo, i quali sirivolgonoa Raimondo Berengario IV per risolvere le difficoltà incontrate nella riscossione delle rendite dell'isola di Tortosa136, che il conte-principe aveva donato al Capitolo per due terzi nel 1148137 ed al Comune di Genova per l'altro terzo tra la fine del 1149 ed il principio del 1150138. In tale circostanza una nota di colore e di costume sembra rasserenare l'atmosfera: Ρetimus de vestra munificentia - scrive l'arcivescovo al sovrano - quod vos, qui habeas in servicio vestro ultra centum milia hominum, mittatis nobis unum sarracenum vel Christianům, qui noverit nobis sapienter ortum excolere et plantare pomerium139. Nel quadro di quest'attività a largo raggio, il problema dei rapporti con le terre occitaniche riemerge rapidamente in tutta la sua ampiezza e con prospettive nuove, reso più urgente sia dall'evoluzione delle forze economiche e politiche locali, sia dalla riaffermazione della giurisdizione imperiale sul regno di Provenza, ma facilitato, in una certa misura, dalla contesa per il dominio provenzale fra il conte-principe catalano-aragonese, Raimondo Berengario IV, - che esercita la tutela del giovane Raimondo Berengario III, figlio di Berengario Raimondo, da lui designato alla contea di Provenza, - e Ugo di Baux, che nel 1160 otterrà presso l'Impero la L.T. BELGRANO, Frammento di poemetto sincrono su la conquista di Almería del 1147, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», XIX, fase. II, 1888, p. 408. 136 L'isola di Tortosa era di natura alluvionale: scomparve successivamente in seguito a modificazioni del corso delfiumeEbro, sul quale era situata, dirimpetto alla città. A quanto pare, ebbe il nome di S. Lorenzo: secondo Enrique Bayerri corrisponderebbe al Barrio de Ferneres dell'odierno centro abitato: L. VALLE, Di due documenti cit., p. 48. 137 F. UGHELLI, Italia sacra, Venezia, 1717-1728, voi. IV, col. 862; C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Ι, η. 236; D. PUNCUH, Liber cit., n. 43. 138 F. UGHELLI, Italia sacra cit., vol. IV, col. 863; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO,

Codice cit., Ι, η. 203. Per la datazione del doc. cfr. L. VALLE, Di due documenti cit., p. 49 nota 53. Raimondo Berengario IV aveva donato solo i due terzi, perché erano ciò di cui poteva disporre in seguito al consenso del conte di Montpellier e del siniscalco Raimondo Guglielmo de Moneada, ai quali egli aveva concesso in feudo Tortosarispettivamentenel 1136 e nel 1147. L'altro terzo spettava al Comune di Genova in virtù del trattato del 1146. Cfr. anche D. PUNCUH, Liber cit., n. 45. 139 Ediz. del doc. in L. VALLE, Di due documenti cit., pp. 46-47.

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conferma dell'investitura feudale dei propri beni140, già conseguita nel 1145 dal predecessore Raimondo. Una convenzione, stipulata nei primi mesi del 1155 con l'arcivescovo di Arles, con Ugo di Baux ed i suoi fratelli, e con i domini de bur­ go141, comprova la sostanziale adesione dei Genovesi, dopo la delusione dell'impresa spagnola, alla parte tolosana e della famiglia dei Baux, - i quali, sostenuti, a quanto pare, da Raimondo V di Tolosa, riprendono proprio ora la guerra contro Raimondo Berengario IV di Barcellona-Aragona per il feudo provenzale142, - senza il cui consenso sarebbe difficile in questo periodo trafficare sulla foce del Rodano. L'accordo rivela al tempo stesso la capacità, da parte del Comune, di adeguarsi alla realtà politica del momento, senza spingersi a sfruttare la superiorità tecnica ed economica del proprio ceto marinaro e mercantile per imporre quelle condizioni maggiormente onerose, talvolta addirittura vessatorie, all'altro contraente, che ritroviamo in altri casi. Nella convenzione si sancisce l'impegno alla reciproca assistenza tra i firmatari: in più Ugo di Baux ed i domini rinunciano, senza contropartita, al diritto di saccheggio dei beni dei naufraghi nei riguardi delle navi genovesi, garantendo anzi l'assistenza ai naufraghi stessi. Alle navi genovesi, che seguano la rotta costiera, è assicurato il libero ingresso nel porto di Arles, anche se cariche di forestieri, mentre le navi provenienti dall'alto mare potranno accedervi solo se trasportino pellegrini о se appartengano a uomini di Arles e viaggino da о per la Spagna musulmana143. Patti analoghi dovettero essere stipulati riguardo a St-Gilles144. 140

J.-P. PAPON, Histoire cit., vol. II, doc. XV (STUMPF, Reg. 3894); V.-L. BOURILLY e

R. BusQUET, Histoire cit., p. 44; J. DE FONT-RÉAULX, Le trésor cit., p. 148. Per la data del doc. cfr. M.G.H., Legum sectio IV, Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, I, Hannover, 1893, p. 307, nota 2; J. DE FONT-RÉAULX, Le trésor cit., p. 148. 141

Liber iurium cit., II, 5; С IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Ι, η. 265. Lo

SCHAUBE (Storia cit., p. 286, η. 1), seguito dal DUPONT (Les relations cit., p. 80 nota 3), ritiene che il trattato debba collocarsi nel 1151-1154, di seguito al supposto trattato del 1150 tra Genova e Montpellier, che noi consideriamo invece tutťuno con quello del 1155. 142

CL. DE Vie - J. VASSETE, Histoire cit., vol. ΙΙΙ,ρ. 803; J.-P. PATON, Histoire cit.,

vol. И, р. 236. 143 La clausola esclude pertanto dal commercio d'alto mare con Arles tutte le navi fo­ restiere, comprese le genovesi, a tutto beneficio delle navi artesiane. Sul significato giuridico dei termini terratenus e pelagus e la questione della libertà dei mari v. la nota riassuntiva di A. DUPONT, Les relations cit., pp. 106-108, η. 6. 144

Non ne possediamo il testo. La loro esistenza si deduce dai riferimenti contenuti nel trattato tra Genova e Montpellier del 1155 (vedi oltre).

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Completano il quadro due accordi firmati a breve distanza di tempo dal precedente, nel maggio di quello stesso anno 1155, entrambi per la durata di un quinquennio: l'uno con il conte Guglielmo VII di Montpellier145, reduce dalla disgraziata guerra contro Raimondo V di Tolosa, intrapresa a fianco di Raimondo I Trencavel, visconte di Béziers, con l'appoggio, sembra, di Raimondo Berengario IV di Barcellona-Aragona, e conclusasi con la sconfitta dell'ottobre 1153 e la lunga prigionia di Guglielmo presso il vincitore146; l'altro con il conte Bernardo e la contessa Beatrice di Melgueil147. Essi ripetono sostanzialmente le clausole stabilite con Arles e St-Gilles, però con maggiori vincoli per Montpellier. Ritroviamo infatti l'impegno dei contraenti alla reciproca protezione sui beni e sugli averi dei mercanti; la rinuncia da parte occitanica all'esercizio del diritto di saccheggio dei beni dei naufraghi delle navi genovesi; l'obbligo, per la medesima, di non ricevere navi provenienti dall'alto mare, ad eccezione, per Montpellier, delle navi montpellieresi che trasportino pellegrini о che commercino con la Spagna musulmana. A Melgueil non si aumenteranno i dazi d'uso sui Genovesi; a Montpellier, invece, le navi ge­ novesi, provenienti da Genova, non dabunt ullum usaticum. Una clausola particolare vieta agli uomini di Montpellier la navigazione verso Oriente, consentendola solo fino a Genova e con percorso costiero. Da parte sua Genova, sfruttando abilmente le rivalità esistenti tra le città marinare occitaniche, s'impegna ad interdire al proprio naviglio l'accesso ai porti di Arles e di St-Gilles ed a concentrare il traffico su Montpellier, nel caso che gli uomini di quei due luoghi non tengano fede ai patti firmati col Comune. 145

Liber iurium cit., I, 87, 182; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., nn. 266, 267. Circa il problema della data del primo dei documenti, qui ricordati, riteniamo, in ac­ cordo con l'Imperiale di Sant'Angelo, che essa si collochi nello stesso periodo del secondo, sia per le ragioni che l'Imperiale di Sant'Angelo affaccia, sia perché ci troviamo di fronte, evidentemente, al consueto sistema diplomatico dell'impegno scritto, rilasciato tanto dall'una quanto dall'altra parte contraente (cfr. in merito a tale forma di stipulazione dei trattati internazionali in questo periodo E. MASSART, Per le relazioni internazionali fra Pisa e la Provenza, in Bollettino Storico Pisano, III, 1934, n. 3, p. 13), sia perché nel primo documento il conte Guglielmo ricorda la concessione, a favore del Comune di Genova, per opera del proprio padre, di una casa in Montpellier: il che ci richiama agli accordi tra Genova e Guglielmo VI di Montpellier nel 1143, e ci indica in Guglielmo VII il contraente del nuovo trattato. Invece lo SCHAUBE (Storia cit., pp. 685-686) e il DUPONT (Les relations cit., pp. 78-80) ritengono che ci si trovi di fronte a due trattati: l'uno del 1150, l'altro del 1155. 146 CL. DE Vie - J. VAISSETE, Histoire cit., vol. Ill, pp. 790-794. 147

С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Ι, η.

268.

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È evidente che quest'ultimo tratta alla pari con gli alleati del momento, mentre calca la mano là dove la sconfitta militare о altre ragioni, a noi ignote, hanno indebolito le forze di resistenza locali. Al tempo stesso però, rendendosi conto della precarietà delle situazioni nel mondo occitanico in perenne fermento, esso cerca di non farsi sorprendere dagli eventi, di non trovarsi impreparato dinanzi ad eventuali capovolgimenti di fronte. In breve volgere di tempo Genova ha dunque ripristinato la propria influenza sulle terre occitaniche, approfittando dei conflitti feudali che intorbidano la regione, delle lotte interne tra le diverse fazioni nelle singole città, del periodo di pace con Pisa, stranamente assente, - ma forse è solo nostra carenza di documenti, - dai mari di Provenza e Linguadoca, dello stesso favore di Federico I di Svevia, che ha un assoluto bisogno dell'aiuto genovese per la progettata impresa di Sicilia. Alcuni particolari danno la misura della posizione di autorità che il Comune ha rapidamente riacquistato in Occitania e che intende mantenervi ad ogni costo. Tra il novembre ed il dicembre del 1155 il visconte di Nîmes e di Agde, Bernardo Aton V Trencavel, colpevole di avere messo le mani su beni genovesi, a quanto pare attraverso il saccheggio d'una nave, è colpito dall'intervento di papa Adriano IV, che incarica i vescovi di Nîmes, di Agde e di Béziers di costringerlo a restituire il maltolto, sotto pena di scomunica148. Nel trattato stipulato nel 1156 tra Genova e Guglielmo I, re di Sicilia, la prima richiede ed ottiene che una precisa clausola escluda i Provenzali dal commercio col Regno e gli uomini del Regno dal commercio con la Provenza149, mentre nel noto diploma imperiale di Federico I del 1162 a favore del nostro Comune una disposizione ancora più ampia consentirà a Genova di intervenire direttamente con la forza per espellere a negotiatione tocius Sicilie et tocius Maritime et Calabrie et Apulie tanto i Provenzali quanto i Francesi, che vi commercino per via di mare150. Tuttavia proprio quest'ultima misura rivela quanto sia ormai complessa la situazione e come il disegno genovese di mantenere in pugno tutta la rete dei commerci tra le Alpi e i Pirenei sia destinato ad un futuro fallimento. Una più matura coscienza di sé, una più vasta gamma di possibilità economiche, un corrispondente impegno politico più intenso 8

Annali Genovesi cit., I, pp. 43-44; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Ι, η. 272. Cfr. anche CL. DE Vie - J. VASSETE, Histoire cit., vol. IV, pp. 105, 184. 149 Liber iurium cit., I, 190, 202; C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., I, nn. 279, 280. Cfr. anche M. CHIAUDANO, Genova e i Normanni. Note sulle relazioni tra Genovesi e Normanni dalla metà del secolo XII, in «Archivio Storico Pugliese», XII, 1959, pp. 73-78. 150 Vedi oltre.

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animano i centri maggiori del Mediterraneo francese. Mentre gli uomini di Narbona e di Montpellier penetrano nel tessuto economico della vita catalana, attraverso i porti di Barcellona, di Tortosa, persino di Almeria151, francesi e provenzali muovono concorrenza al traffico genovese sulle stesse coste sicule ed italiane. #

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Ma v'è di più. Nel torbido quadro feudale delle terre occitaniche alcune linee si vengono precisando, in un conflitto che riempie di sé tutta la seconda metà del secolo XII e che trasforma il contrasto catalano-tolosano in un problema internazionale. È la «grande guerra meridionale», nella quale si combattono per quasi tutta la vita due uomini della tempra di Alfonso II di Barcellona-Aragona e Raimondo V di Tolosa; nella quale emergono di momento in momento i signori di Baux, i conti di Montpellier, i conti di Provenza sotto tutela catalano-aragonese; nella quale s'inserisce da posizioni di forza, come massima potenza economica, il Comune di Genova con il suo dissidio con Pisa; nella quale, infine, intervengono tanto la Francia quanto l'Inghilterra e, ad un certo punto, lo stesso Impero, con i problemi dello scisma, le questioni italiane ed orientali, le pretese regalistiche di Federico I sulla corona di Borgogna. Nel 1159 la grande lega, che l'abile diplomazia del conte di Barcellona e principe di Aragona, Raimondo Berengario IV, è riuscito a mettere insieme con l'adesione di Raimondo I Trencavel visconte di Béziers, del conte di Foix, di Guglielmo VII conte di Montpellier, di Ermengarda viscontessa di Narbona, dei baroni bearnesi, e dello stesso Enrico II d'Inghilterra, tenta un attacco decisivo contro Tolosa. Ma Raimondo V, soccorso dall'intervento di Luigi VII di Francia, costringe gli avversari a ritirarsi. Il disegno catalano è fallito, anche se l'aiuto francese ha insegnato ai Capetingi la via per la Linguadoca e il Mediterraneo152. Genova approfitta della situazione di momentanea debolezza del sovrano catalano-aragonese per cercare di estendere la propria zona d'influenza oltre la Riviera di Ponente, sconfinando nell'ambito della contea provenzale, grazie all'intervento della curia arcivescovile nelle interne contese del Comune di Nizza, presso il quale è già in uso la moneta genovese e con il quale vigono stretti legami di vita e di commercio153. 151

J. VENTURA, Alfons el Cast cit., p. 77. Сн. HiGOUNET, Un grand chapitre cit., pp. 318-320. 153 P.L. DATTA, Della libertà del comune di Nizza, Nizza, 1859, pp. 24 sgg., 34; V. VITALE, Nizza medievale, in «Nizza nella storia», Istituto di Studi Liguri, Garzanti, Milano, 1943, pp. 39. 152

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Sennonché Raimondo Berengario IV, battuto sul piano militare, si rifa rapidamente su quello diplomatico, inserendosi nel grande conflitto che contrappone l'Impero di Federico I di Svevia al papa Alessandro III, con una decisa presa di posizione a favore del primo. Nel luglio-agosto del 1162 il Barbarossa abbandona la parte dei signori di Baux, che pretendono il titolo marchionale e comitale di Provenza sulla base di una capziosa interpretazione dei diplomi imperiali di Corrado III del 1145 e dello stesso Federico I del 1160: respinte le loro richieste, egli concede la contea provenzale, secondo i limiti geografici stabiliti dalla pace catalano-tolosana del 1125, a Raimondo Berengario III, nipote di Raimondo Berengario IV di Barcellona-Aragona154, grazie alla promessa di quest'ultimo per il riconoscimento di Vittore IV come papa legittimo in Provenza, nonché al matrimonio contratto dallo stesso Raimondo Berengario III con Richilde, nipote dell'imperatore e vedova di Alfonso VII di Castiglia155. Fu l'ultima impresa del conte-principe catalano-aragonese: il 6 agosto 1162 la morte lo colse a Borgo S. Dalmazzo, mentre si recava col nipote a Torino per assistere all'assemblea imperiale, evidentemente al doppio scopo di riaffermare la dipendenza della Provenza dall'Impero e la sua obbedienza all'antipapa156. Le fortune della casa di Barcellona-Aragona, l'attuazione dei grandi disegni occitanici, le stesse regole dell'ordinato viver civile sembrarono subire una battuta d'arresto nelle terre dei suoi domini. «Apres la sua mort - dice il cronista catalano dei Gesta comitum Barchinonensium - exiren ladres e robadors, e pobres e desapoderáis s'amagaven; e en clergues e en lechs e en aquells de la terra e de fora, fo gran mal vengut e gran desinicelo, entró vench N'Amfós, son fill, qui començà de regnar, qui era infant quan son pare mori»157. 154

M.G.H., Constitutiones cit., nn. 215, 216, pp. 304-308. ZURITA, Anales de la Corona de Aragón, libro II, cap. XVIII. Com'è noto, però, il matrimonio con la nipote del Barbarossa inimicò a Raimondo Berengario III la parte guelfa, tra cui il vescovo di Antibes, Raimondo Grimaldi, che nel 1165 non intervenne alla convocazione degli Stati generali a Tarascona. 155

156

PERCY E. SCHRAMM, Ramon Berenguer IV cit., p. 34; J. VENTURA, Alfons el Cast

cit., pp. 65-66; G. PISTARINO, Genova, Alessandria e papa Alessandro IH, in «Miscellanea di Studi Storici II», Collana Storica di Fonti e Studi, 38, Genova, 1983, pp. 31-52. 157 Gesta Comitum Barchinonensium, ediz. cit., p. 132. Testo latino, a p. 41: «In eius nempe obitu exivit latro, praesumpsit praedo, latuit pauper, contincuit clerus, luit incola, saevit hostis, fugit victoria, crevit fuga, gladius in domésticos efferatur et patria exterminio praeparatur, usque quo Ildefonsus regni suscepit gubernacula, qui nimis primitus erat puer».

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Poco prima, il 9 giugno dello stesso anno, Federico Barbarossa aveva rilasciato al Comune di Genova il famoso diploma con il quale riconosceva ai Genovesi la giurisdizione su tutta la Liguria, da Monaco a Portovenere, e prometteva loro, fra l'altro, il suo aiuto contro il re di Valencia ed il re di Maiorca158. L'evoluzione del problema occitanico è evidente, sia nell'eliminazione della casa di Baux dal novero dei grandi antagonisti, sia nel profilarsi dello scontro decisivo tra la nuova dinastia dei conti-re catalano-aragonesi, che ha inizio con Alfonso II, e la vecchia casa di Tolosa e St-Gilles, a cui si aggiungerà nel 1172, per ragioni matrimoniali, la contea di Melgueil159, sia nell'intervento diretto dell'Impero, sia nella diversa posizione in cui viene a trovarsi Genova. Per quest'ultima infatti il diploma federiciano del 1162 rappresenta la base giuridica per la costruzione dello Stato territoriale nelle due Riviere contro le resistenze locali, - prime fra tutte quelle di Savona e Ventimiglia, - ma al tempo stesso mette un punto fermo, sotto l'aspetto giurisdizionale, ad ogni possibilità di sconfinamento verso occidente160, mentre la concessione imperiale della Provenza a Durentia 158

H.P.M., Liber iurium cit., I, p. 207; M.G.H., Constitutiones cit., p. 292; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Ι, η. 308. Un inquadramento storico generale del diploma federiciano del 1162 in V. VITALE, Genova nel secolo XII cit., pp. 21-23; Т.О. DE NEGRI, Genova e il Barbarossa, in «Genova», 1961, n. 12. Si veda anche il diploma di Alessandro III per Г arcivescovo Siro II del 25 marzo 1162: P.F. KEHR, Italia Pontificia, VI, 2, Berlino, 1915, p. 268, n. 13; G. PISTARINO, Genova, Alessandria cit., p. 33. 159 Beatrice di Melgueil, unica erede del conte Bernardo IV (f 1132), sposò in prime nozze, nel 1135, Berengario Raimondo, conte di Provenza (t 1144), dal quale ebbe una figlia, Dolce; in seconde nozze, nel 1146, Bernardo Pelet della casa di Narbona, dal quale ebbe una figlia, Ermessinda, e un figlio, Bertrando. Quando Ermessinda andò sposa, nel 1171, al figlio di Raimondo V di Tolosa, - il futuro Raimondo VI, - Beatrice investì la casa tolosana del castello e della contea di Melgueil: CL. DE Vie - J. VAISSETE, Histoire cit., vol. IV, pp. 177-180; A. GERMAIN, Étude historique sur les comtes de Maguelone, de Substantion et de Melgueil, in «Mémoires de la Société Archéologique de Montpellier», III, 1850-54, pp. 523-640; E.-G. LÉONARD, Catalogue des actes de Raymond V de Toulouse, Nîmes, 1932, n. 55, p. 37. Tentò di opporsi Guglielmo VII di Montpellier, rivendicando le ragioni di Bertrando Pelet, il figlio di Beatrice, che era stato diseredato dalla madre; ma fu costretto a desistere dall'impresa per le operazioni militari condotte contro di lui dalle forze congiunte di Genova e di Tolosa (v. oltre): J. VENTURA, Alfons el Cast cit., pp. 129-130. Si ricordi che la moneta melgorese era la più diffusa nelle terre occitaniche, come base economica per tutte le transazioni commerciali: A. GERMAIN, Mémoire sur les anciennes monnaies seigneuriales de Melgueil et de Montpellier, in «Mémoires de la Société Archéologique de Montpellier», III, 1850-54, pp. 133-258. 160 La definizione della giurisdizione territoriale genovese da Monaco a Portovenere non è cosa nuova, che nasca dall'iniziativa dell'Impero. Si ritrova già in documenti ufficiali

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usque ad mare et ab Alpibus usque ad antiquum Rhodanum a Raimondo Berengario III nel 1162 e l'affermazione dei diritti dell'Impero sul territorio della valle del Rodano, gradualmente sempre più accentuata, fino all'incoronazione di Federico I a re della Borgogna, ad Arles, nel 1178161, convalida sul piano politico il limite estremo consentito alla formazione dello Stato regionale genovese. Gli eventi successivi non faranno che confermare questo insopprimibile dato di fatto. Precisati i termini massimi della costruzione territoriale del Dominio di Genova, senza tenere conto delle libertà cittadine di centri di fiera tradizione autonomistica come Savona o Ventimiglia, e riaffermata l'unità feudale della Provenza come terra dell'Impero, Federico I riconosce largamente la posizione di privilegio economico di Genova, non soltanto per favorire la grande città marinara, il cui aiuto gli è prezioso, ma anche, о soprattutto, perché essa gli consente di mantenere sotto controllo il movimento delle libertà comunali nelle terre occitaniche e di controbilanciare la crescente potenza della casa di Barcellona-Aragona, alleata oggi, ma forse nemica domani. L'autorizzazione ai Genovesi di dare la caccia ai mercanti provenzali e francesi sulle vie del traffico per l'Italia, che abbiamo sopra ricordata, si commenta da sé. La promessa di appoggio a Genova per un'azione contro i regni musulmani di Valencia e delle Baleari riesce più chiara, nelle sue reali finalità, se si tiene presente che poco prima, nel 1161, il Comune genovese aveva firmato accordi pacifici sia con i musulmani di Spagna sia con quelli del Marocco162. In realtà, come rileva giustamente lo Schramm, poiché è assolutamente impensabile che il Barbarossa del Comune di Genova della prima metà del secolo XII: da Ventimiglia a Portovenere in un atto del 1143 (Liber iurium cit., I, 86; С. IMPERIALE DI SANT*ANGELO, Codice cit., Ι, η. 127), da Monaco a Portovenere nel breve dei consoli del Comune dello stesso anno (H.P.M., Leges municipales, I, Torino, 1838, p. 242 sgg.). Ed è evidente che furono i Genovesi stessi a proporla a Federico I, per il suo inserimento tra le clausole del diploma del 1162. Ma quest'ultima circostanza significa che Genova riconosceva l'impossibilità di ulteriori sconfinamenti ad Occidente, di fronte allo sviluppo della questione provenzale, mentre la sanzione imperiale racchiudeva in uno schema giuridico ben definito, di livello internazionale, una situazione rimasta sinora allo stato di fatto e quindi suscettibile di mutamento. 161 W. VON GIESEBRECHT, Die Zeit Kaiser Friedrichs des Rothbarts, Brunschwig, 18801888, vol. II, ρ. 559; P. FOURNIER, Le royaume d'Arles et de Vienne (1138-1378). Étude sur la formation territoriale de la France dans l'Est et le Sud-Est, Parigi, 1891, p. 62; F. GUETERBOCK, Zur Geschichte Burgunds im Zeitalter Barbarossas, in «Zeitschrift für schweizerische Geschichte», XVIII, 2, 1937, p. 176 e sgg.; J.-Y. MARIOTTE, Le Comté de Bourgogne sous les Hohenstaufen, Parigi, p. 48. 162 Annali genovesi cit., I, pp. 61-62.

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potesse mai progettare una campagna militare tanto eccentrica, la clausola è di evidente ispirazione genovese ed appare diretta contro il sovrano catalano-aragonese: rientra nel quadro delle preoccupazioni di Genova per la crescente concorrenza barcellonese nel Mediterraneo occidentale; serve a Federico I come arma di pressione sulla casa di Barcellona-Aragona, con la minaccia di un intervento congiunto, imperiale-genovese, in quei paesi saraceni che rappresentano per i Catalani una grande fonte di ricchezza163. La ripresa della guerra tra Genova e Pisa, proprio nel 1162, completa il quadro storico dal punto di vista economico e militare, al di là del disegno genovese ed imperiale164, in quanto pone le premesse della crisi risolutiva nei rapporti tra Genova ed i paesi occitanici, concepiti e forzatamente costretti entro lo schema rigido del monopolio commerciale della prima sopra i secondi. Nel nuovo conflitto, che si combatte fino al 1175, fra alternative di operazioni militari e di tregue effimere, di azioni di guerra di corsa e di episodi pirateschi, la Provenza rappresenta una posta e, insieme, un campo di battaglia di primo piano. Mentre le navi genovesi e le navi pisane si danno la caccia sui mari occitanici, si appostano nelle insenature della costa provenzale о nel dedalo dei canali delle Bocche del Rodano per assalirsi con mosse di sorpresa, tutto un sottile lavorìo diplomatico si mette in movimento, per conquistare all'uno о all'altro contendente le città ed i signori del luogo. Non v'è dubbio che, all'insorgere del conflitto, da Narbona a Nizza il favore e, talvolta, anche l'appoggio, più о meno aperto, della maggior parte delle città costiere sono per Pisa: un esempio concreto ci viene fornito dal trattato stipulato, sul principio della reciprocità, nell'aprile del 1164 tra quest'ultima e Narbona, il quale dovrebbe durare per tutta la vita della viscontessa Ermengarda165. Già da tempo i commerci genovesi con Narbona vanno languendo: a quanto pare, per causa dell'ostilità 163

PERCY E. SCHRAMM, Ramon Berenguer IV cit., p. 33.

Si tenga presente che il 6 aprile 1162 l'imperatore, nel diploma rilasciato a favore di Pisa, aveva contemplato la cessione a quest'ultima di Portovenere nel caso di guerra comune e di vittoria contro Genova: M.G.H., Constitutiones cit., η. 205, pp. 282-287. 165 J. Сн. LÜNIG, Codex Iîaliae diplomaticus, Francoforte-Lipsia, 1725-35,1, p. 1057; G. ROSSI-SABATINI, L'espansione di Pisa cit., p. 82; P. TRONCI, Memorie isteriche della città di Pisa, Pisa, I, 1868, pp. 310-311; P. PECCHIAI, Relazioni fra Pisa e città liguri e provenzali, in «Bollettino Storico Pisano», V, 1937, fase. 3, p. 272; A. DUPONT, Les relations cit., p. 89. Il doc. reca la data dell'« anno dom. lesu Christi 1165, mense aprilis, III kal. maii, feria V, regnante rege Ludovico in Francia»: dal confronto del giorno del mese (30 aprile) con quello della settimana (giovedì) si deduce che l'anno è calcolato secondo lo stile pisano dell' Incarnazione.

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dell'energica signora contro la pretesa genovese di escludere dal grande traffico marittimo i centri costieri della Linguadoca, secondo le clausole del trattato del 1131-32166. Ma ora la ripresa della guerra pisano-genovese consente a Narbona di rinsaldare lo stato di fatto, schierandosi dalla parte d'uno dei belligeranti, sia pure senza intervenire apertamente nel conflitto e senza introdurre nel testo degli accordi specifiche clausole antigenovesi. In Provenza certo sono ostili ai Genovesi gli uomini di St-Gilles e di Arles, probabilmente quelli di Agde167, mentre passano tosto a Pisa i Nizzardi168; risulta sicuramente dalla loro parte la sola Marsiglia169, forse però non tanto per il favore della borghesia comunale, quanto per l'appoggio della classe viscontile, alla quale Genova risulta legata nel 1154. Soffocati dalle pesanti clausole economiche, dirette ad impedire lo sviluppo dei traffici occitanici in sede autonoma, che noi troviamo inserite non solo nei trattati stipulati da Genova con i governi locali, ma anche in accordi di più alto livello internazionale (si ricordino il trattato del 1156 con Guglielmo I di Sicilia e il privilegio di Federico I di Svevia del 1162), bloccati nei loro porti dal devetum Provincie, che le navi genovesi di guardia costiera applicano quanto più possono rigorosamente, i mercanti provenzali e occitanici vedono in una eventuale vittoria di Pisa, nella maggiore lontananza geografica di questa città, nella sua politica meno intransigente ed esclusivistica, la sola via per un più libero respiro. Dal canto suo Genova, lasciando a parte ancora una volta ogni simpatia, ogni senso di affinità spirituale per i movimenti di affermazione autonomistica dei comuni locali, di fronte al calcolo rigoroso del proprio interesse, cerca e trova appoggio presso le forze feudali che, legate eclusivamente о in massima parte a problemi dinastici e ad interessi fondiari, sono più propense a largire facilitazioni di traffico e privilegi commerciali a danno 156

167

A. SCHAUBE, Storia cit., pp. 675-677; A. DUPONT, Les relations cit., pp. 90-91.

Per gli uomini di St-Gilles e di Arles si tenga presente l'atteggiamento manifestato in occasione delle operazioni militari in loco dei Genovesi contro i Pisani nel 1165: atteggiamento che, come nota il Rossi Sabatini {L'espansione di Pisa cit., p. 84), è in contrasto con quello dei signori feudali dei due luoghi, cioè di Raimondo di Tolosa per St-Gilles e, soprattutto, di Raimondo Berengario III di Provenza per Arles: Annali genovesi cit., pp. 179-185. Ad Agde si trovano ancorate, sempre durante gli avvenimenti sopra ricordati, alcune galere pisane, che i Genovesi si apprestano ad incendiare, quando ne desistono dietro preghiera di Raimondo Trencavel, visconte di Carcassonne: Annali genovesi cit., p. 182. 168 E. TISSERAND, Histoire civile et religieuse de la cité de Nice, Nizza, 1862, voi. I, pp. 164-165. 169 Marsiglia serve di base alla flotta genovese nell'ultima fase delle operazioni di cui sopra: Annali genovesi cit., I, pp. 186-187.

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della borghesia cittadina indigena: anche se è poi legittimo chiedersi fino a quale punto le concessioni signorili riuscissero effettivamente a trovare applicazione nelle città dipendenti170. Il periodo critico e più aspro del conflitto si svolge nell'estate del 1165171. Nel luglio i Pisani s'impadroniscono d'una grossa nave genovese e di legni minori: una flotta di 14 galere, inviata d'urgenza da Genova, per vendicare lo scacco, non giunge in tempo a sorprendere a St-Gilles i pisani, ritiratisi per il braccio occidentale del Rodano, mentre i genovesi, penetrativi per il braccio orientale, riescono soltanto a cogliervi cinque navi avversarie. Frattanto una flotta di 31 galere pisane devasta le coste liguri; occupa Albenga; cattura e dà alle fiamme cinque vascelli nemici, sorpresi in navigazione all'altezza di Melgueil; saccheggia presso Fréjus, proprio nel giorno più importante della fiera, 28 trasporti mercantili; risale il Rodano fino a St-Gilles. I genovesi, giunti a loro volta rapidamente nei pressi della città, con una flotta di 45 galere, nell'intento di bloccare nel fiume gli avversari e di impedire loro l'uscita in mare aperto, cercano invano di cattivarsi i consoli di St-Gilles; riescono per un momento a comperare la neutralità del signore feudale, Raimondo V di Tolosa, che però tosto se ne ritrae di fronte al ritardo genovese nel versargli la somma pattuita e, soprattutto, alle pressioni dei pisani e degli uomini di St-Gilles. A fianco dei genovesi sono i signori di Baux, mentre i pisani contano sull'appoggio degli uomini di St-Gilles, di Raimondo V di Tolosa, di Raimondo I Trencavel visconte di Béziers, e sull'azione diretta di un contingente di mercenari provenzali. Vincono i pisani, in una battaglia terrestre, sulle rive del fiume, durata dal vespro alla notte, dopo la quale i genovesi si ritirano ad Arles172. υ

G. ROSSI-SABATINI, L'espansione di Pisa cit., pp. 84-85. Per gli avvenimenti di questo periodo cfr. Annali genovesi cit., I, p. 178 e sgg.; BERNARDO MARANGONE, Annales Pisani, in M.G.H., Scriptomm, XIX, Hannover, 1866, pp. 236-266, e in RR. IL SS., VI, 2, nuova ediz. a cura di M. LUPO GENTILE, Bologna, 1930, ad annum; Сн. Roux, Saint Gilles, Parigi, 1911, p. 261 e sgg.; A. DUPONT, Les relations cit., pp. 90-94. Il conflitto in corso non impediva tuttavia, intorno al 1165, alle navi genovesi e pisane di frequentare, le une accanto alle altre, il porto di Montpellier: E. ROSCHACH, Étude cit., p. 61. 172 Su questi fatti d'arme si diffonde ampiamente il cronista genovese Oberto Cancelliere: «In quel giorno, verso il vespro (...) fu incominciata la battaglia tra Genovesi e Pisani; ma, sopraggiungendo la notte, Γ una parte e l'altra si ritrassero dal combattere (...). Venuto il mattino, le nostre galee arrancarono verso Arélate (...). E ivi approdando, rimasero le galee ad Arélate e a Trencatalia incirca venti giorni»: Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, voi. II, Oberto Cancelliere, Ottobono Scriba, traduz. di G. MONLEONE, Genova, 1924, pp. 56-57. 171

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Battuta sul piano militare in un'azione di sbarco non risolutiva, Genova si rifa immediatamente su quello della sua superiorità navale, tecnica e numerica, in conseguenza della quale ai pisani non sono possibili operazioni di blocco e scontri in mare aperto, ma solo azioni di guerra di corsa. Soprattutto la Superba ricupera il terreno sul piano diplomatico, grazie agli antagonismi, che si agitano intorno al dominio provenzale; alla situazione della politica generale nel Mediterraneo, nella quale non mancano nemici a Pisa; alla stessa forza del denaro, che i genovesi sanno spendere, al momento opportuno, largamente ed oculatamente. Già nell'ottobre successivo, ad Aries, una convenzione viene firmata tra il Comune ed il conte di Provenza e di Melgueil, Raimondo Berengario III173, la quale si riduce praticamente ad una sola clausola: il conte, pure essendosi rifiutato in precedenza - è vero - di muovere in armi contro Pisa e Raimondo V di Tolosa174, s'impegna a non accogliere i pisani nelle proprie terre nisi fuerint negotiatores et venerint cum mercationibus vel pro mercationibus, ricevendo a compenso dai Genovesi, come sappiamo da altra fonte, la somma di 400 lire di melgoresi175. Subito dopo, nel novembre, un risultato ancora maggiore per Genova e più pericoloso per Pisa: il trattato di alleanza tra Genova e Roma, concluso il giorno 22 e ratificato nei primi mesi dell'anno successivo176. Si tratta di un accordo nel quale, come si sa, confluiscono più vasti motivi di politica generale: il rientro di papa Alessandro III in Roma con l'appoggio normanno, proprio il 22 novembre 1165, contro l'opposizione dell'antipapa Pasquale III; la grave crisi economica della città, danneggiata dalle azioni condotte, tra la fine del 1164 e la primavera del 1165, da Cristiano, futuro arcivescovo di Magonza, per imporre l'antipapa sul trono di S. Pietro; la celata resistenza di Genova a Federico I e, di conseguenza, la posizione di 173 Liber iurium cit., I, 219; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., II, Roma, 1938, n. 7. Raimondo Berengario III portava il titolo feudale di conte di Melgueil come erede del primo matrimonio di Beatrice di Melgueil con Berengario Raimondo di Provenza. In realtà, però, alla morte di Berengario Raimondo, la contea di Melgueil era rimasta a Beatrice, diventando patrimonio delle seconde nozze della medesima con Bernardo Pelet: A.

GERMAIN, Étude cit., p. 568. 174

Annali genovesi cit., p. 185. Si tenga presente che proprio nell'ottobre del 1165 abbiamo un trattato di alleanza tra Raimondo V di Tolosa e Raimondo Berengario III di Provenza: E.-G. LÉONARD, Catalogue cit., η. 44, p. 32. 175 Annali genovesi cit., p. 185. 176

С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., II, η. 8, 9, 12, 13.

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favore, di cui essa gode presso il pontefice legittimo177. Ma nel trattato, che pone fine ai contrasti commerciali ed alle azioni di rappresaglia tra le due città, regolandone impegni e concessioni su piano paritario, Genova ottiene alcune clausole notevoli contro Pisa sia in campo economico sia in campo militare, le quali, nel caso di guerra tra Genovesi e Pisani, com'è appunto ora, consentono di interrompere il traffico da Roma a Pisa, per indirizzarlo su Genova, e di fare di Roma stessa una sicura base di appoggio per le navi genovesi178. Un ulteriore aiuto giunse a Genova da parte della fortuna. Il 29 ottobre di quel venturoso 1165, una violenta tempesta colse, all'altezza delle isole di Lérins, le navi pisane, che ritornavano in patria dalla Provenza: quasi la metà delle unità della flotta naufragarono, con la perdita dell'intero equipaggio179. I Genovesi inviarono le proprie condoglianze alla città rivale, ma approfittarono della situazione politica e militare per stringere ancora più i tempi, ritornare all'iniziativa e riprendere in pugno la situazione in Occitania, dando il via nel 1166 a rigorose operazioni di blocco dei porti provenzali. Una rapida serie di accordi e di azioni, nel 1166 e nel 1167, rivela chiaramente che il blocco dei porti e la guerra di corsa contro le navi nemiche hanno dato risultati positivi; che qualcosa va mutando: anche se, da parte occitanica, riemerge sulla scena, in funzione filogenovese, soprattutto la classe feudale, la quale si giova dell'appoggio del nostro Comune per uscire dall'incertezza politica e riaffermarsi, ormai per breve tempo, sulla borghesia cittadina. Nel 1166 l'arcivescovo di Arles, i consoli ed i domini de burgo si dichiarano disposti ad accettare le richieste genovesi, di cui purtroppo ignoriamo il tenore, ma che molto probabilmente intendono richiamare in vita le clausole del trattato del 1155, seppure con talune limitazioni alla libertà di movimento e di traffico a danno degli Artesiani180. Il 12 novembre dello stesso anno l'arcivescovo, la viscontessa Ermengarda ed il popolo di Narbona sono costretti a rompere l'alleanza di due anni prima I. GIORGI, II trattato di pace e d'alleanza del 1165-1166 fra Roma e Genova, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», XXV, 1902; P. BREZZI, Roma e l'Impero medievale (774-1252), Bologna, 1947, pp. 352-356; G. PISTARINO, Genova, Alessandria cit., pp. 36-38. 178 Si noti che, con una clausola, inserita nel testo delle proprie obbligazioni, i Genovesi salvaguardano la loro libertà d'azione neiriguardidella Provenza: «Nec pretextu huius compromissi contra deveta Provincie, a Gesta in Occidentem, tenebimur». 179 Annali genovesi cit., p. 187. 180

С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Π, η. 15.

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con Pisa ed a riaffermare la validità dei patti firmati nel 1131-32 con Genova, con l'aggiunta d'una lunga serie di clausole, relative allo stato di guerra pisano-genovese, per le quali il commercio e la navigazione narbonesi passano sotto il controllo di Genova, rimanendone rigorosamente esclusi i rapporti con Pisa, nonché, - indicazione interessante circa gli schieramenti politici del momento in Occitania, - con Montpellier e con St-Gilles181. Sempre nel 1166 due fatti sono significativi della rinata fortuna e del rinvigorito prestigio di Genova, ai poli opposti del mondo occitanico. Sancio VI, re di Navarra, scrive al Comune chiedendo ed offrendo amicizia; assicurando protezione ai Genovesi nelle proprie terre ericercandolaper i propri sudditi nell'ambito del dominio terrestre e marittimo di Genova; dicendosi disposto a tutelare gl'interessi di quest'ultima presso il nipote Alfonso VIII di Castiglia ed il cognato Ferdinando II di León; dichiarando di essere già intervenuto presso il nipote Guglielmo II di Sicilia, a quanto pare dietro richiesta di Genova stessa, per il ristabilimento dell'amicizia tra l'uno e l'altra182. In seguito alla morte del conte di Provenza, Raimondo Berengario III, ucciso dai Nizzardi in un moto insurrezionale183, nel quale probabilmente confluirono le aspirazioni comunistiche della borghesia in fase di sviluppo e le istigazioni pisane in funzione antigenovese184, il problema della successione nel dominio si pose immediatamente tra Raimondo V di Tolosa ed Alfonso II, conte di Barcellona e re d'Aragona. Alfonso, che si trovava in Catalogna all'epoca del luttuoso evento, si recò in Provenza a raccogliere l'eredità del cugino185, lo troviamo ad Arles nell'agosto del 1167, - avendo iniziato od iniziando trattative di alleanza col Comune genovese, mentre destinava al governo feudale della Provenza il fratello Raimondo Berengario IV. 181 CL. DE Vie - J. VAISSETE, Histoire cit., vol. VIII, coll. 263-266; J. KOHLER, Handelsverträge cit., pp. 2-4; G. MOUYNÈS, Ville cit., p. 6; С IMPERIALE DI SANT'ANGELO,

Codice diplomatico cit., Π, η. 16; A. DUPONT, Les relations cit., pp. 95-96. 182

Liber iurium cit., I, 224; C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice du

Π, η. 22.

Si ricordi che i rapporti tra Genova ed il Regno normanno erano stati turbati dalla politica imperiale di Federico I e dalle clausole economiche del diploma federiciano per Genova del 1162. 183 Gesta comitum Barchinonensium, ediz. cit., pp. 13, 46, 135. Com'è noto, la vedova Richilde passò a nuove nozze con il conte di Tolosa. 184 J. VENTURA, Alfons el Cast cit., p. 107. Sulla discussa partecipazione dell'ammiraglio genovese Grimaldi alle operazioni navali contro Nizza cfr. J.-R PAPON, Histoire cit., vol. II, pp. 243-244; E. TISSERAND, Histoire civile et religieuse de la cité de Nice cit., vol. I, pp. 165-166. 185

ZURITA, Anales cit., libro I, cap. XXV.

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Gli accordi con Genova, ai quali Alfonso II dovette per grande parte la propria riaffermazione in Provenza, si conclusero con la firma d'un patto nel maggio, - secondo altra fonte nell'ottobre, - del 1167186. I Genovesi promettevano il loro aiuto per la conquista del castello di Albaron, alla foce del Rodano, in modo da bloccare St-Gilles. Il conte-re s'impegnava ad escludere i pisani dalle sue terre, fra Tortosa e Nizza, fatta eccezione per l'approdo in Barcellona delle navi cariche esclusivamente di pellegrini; ad assicurare soltanto ai propri alleati, senza alcun limite, piena libertà di commercio e completa esenzione fiscale. Così Genova, rafforzate le posizioni in Occitania, rientrava a vele spiegate anche sulle coste catalane, con le quali i traffici si erano praticamente interrotti dopo il 1154. Nella primavera del 1168, fallito l'assedio di Albaron, per l'eroica resistenza dei difensori del castello187, le navi pisane e le navi genovesi si scontrano duramente lungo le coste provenzali: Pisa riesce ad inviare, sia pure con gravi perdite, una squadra navale sino a Melgueil; Genova consegue un notevole successo al largo di Agde, ma non giunge ad impedire che, poco più tardi, sette galere pisane riescano ad eludere il blocco, trasportando nella rada di Agay, presso Fréjus, il cancelliere di Federico Barbarossa, Filippo di Heinsberg, che si è vista preclusa la strada della Lombardia188. Rimanevano sempre ostili a Genova, in atteggiamento filopisano, St-Gilles e Montpellier: la prima sorretta dal conte di Tolosa e difesa dalla vittoriosa resistenza di Albaron agli attacchi congiunti del conte-re e del Comune genovese; la seconda stretta ai Pisani dagli accordi firmati nel novembre del 1168, per i quali i medesimi s'impegnavano, generosamente, ma abilmente, a risarcire senza contropartita i danni da loro arrecati in passato ai Montpellieresi189. Su queste posizioni, tra Tuna e l'altra città italiana interviene nel 1169 la tregua di Portovenere, che ribadisce lo stato oggettivo della superiorità tecnica di Genova, ma, al tempo stesso, pretendendo di escludere le navi 180 Liber iurium cit., I, 227; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., II, η. 25; Α. DUPONT, Les relations cit., p. 97. Il rilievo sulla differenza di data tra la copia del doc. nel codice del Liber iurium della Repubblica di Genova e la copia nella pergamena n. 47 di Alfonso II nell'Archivio della Corona d'Aragona in Barcellona è di J. VENTURA, Alfons el Cast cit., p. 135 nota 14. 187 J. VENTURA, Alfons el Cast cit., p. 111. Com'è noto, l'assedio di Albaron fu abbandonato nello stesso anno 1167: Annali genovesi cit., I, p. 205. 188

189

A. SCHAUBE, Storia cit., p. 694.

A. GERMAIN, Histoire du commerce de Montpellier, Montpellier, 1861, I, Pièces justificatives, II, pp. 180-181; G. ROSSI-SABATINI, L'espansione di Pisa cit., pp. 88-89; Α. DUPONT, Les relations cit., pp. 99-100.

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di Pisa dal commercio d'alto mare con tutta la costa tra Noli, nella Riviera ligure di Ponente, ed il capo di Salou, in Catalogna, pena la confisca d'un terzo del carico190, pone le premesse per una ripresa del conflitto a breve scadenza. *

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In una situazione in continuo sviluppo, qual è quella provenzale in questi anni, tra forze contrastanti, non v'è da stupirsi dei repentini cambiamenti di fronte, dei rapidi capovolgimenti delle alleanze. L'appoggio di Genova è determinante, e quindi ambito, per chi voglia insediarsi nella contea, si tratti di Alfonso II di Barcellona-Aragona о di Raimondo V di Tolosa. Per Genova il problema risulta più complesso, giacché le occorre tenere conto sia della politica generale italiana, nel momento cruciale della presenza di Federico I di Svevia, sia del conflitto con Pisa e della situazione nelle Riviere: comunque la sua direttrice fondamentale nei riguardi dell'Occitania, in particolare della Provenza, rimane sempre quella del rigido esclusivismo economico e dell'opposizione a qualunque tentativo di effettiva costruzione dello Stato territoriale, tanto più se si tratta del non sopito progetto catalano di una unità, nella molteplicità, che si estenda sulla costa dalle Alpi al regno musulmano di Valencia. Nonostante la tregua di Portovenere, le navi pisane erano ben presto tornate a fare vela per la Provenza, non tanto per riaccendervi la guerra, quanto per affermarvi la presenza della città toscana, incoraggiare gli alleati ed i simpatizzanti, tenere in costante allarme i Genovesi, costringendoli ad un continuo, pesante servizio di polizia costiera191. Tutto ciò finché la vittoria a Motrone, nel 1170, su Lucca, alleata a Genova fino dal 1166, eliminò una minaccia diretta, aprendo ai Pisani l'orizzonte per più rosee speranze e per più arditi disegni192. Il lavorìo diplomatico di Genova, per portare nel proprio campo le forze occitaniche ancora ostili о neutrali, si fece più intenso, nella previsione della ripresa della guerra. Un'ambasceria, inviata a Montpellier nel 1170, fallì nell'intento, di fronte alla renitenza di Guglielmo VII193. Liber iurium cit., 1,244; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., II, η. 48; Annali genovesi cit., p. 224; A.R. SCARSELLA, Il Comune cit., pp. 156-157. Sulle gravi conseguenze economiche che il divieto del traffico d'alto mare con le coste italiane, occitaniche e catalane recava ai mercanti pisani cfr. A. DUPONT, Les relations cit., p. 101. 191 Annali genovesi cit., I, p. 240; G. ROSSI-SABATINI, L'espansione di Pisa cit., pp. 88-89; J. VENTURA, Alfons el Cast cit., p. 127. 192 G. ROSSI-SABATINI, L'espansione di Pisa cit., pp. 89-90. Annali genovesi cit., I, p. 237; G. ROSSI-SABATINI, L'espansione di Pisa cit., p. 90.

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Riuscirono invece ai Genovesi alcune mosse nella più vicina Provenza. Sappiamo che Nizza nel 1170 è schierata al loro fianco194; che gli approcci, tentati con Grasse, si conclusero nel gennaio del 1171, con un accordo che impegnava gli uomini di quel luogo ad interrompere le relazioni economiche con Pisa e ad assumere un atteggiamento di ostilità contro i Pisani195. Ma soprattutto fu per Genova un prezioso acquisto la conclusione dell'alleanza con l'antico nemico, Raimondo V di Tolosa, accomunato ai Genovesi dall'ostilità contro Montpellier, e certo ben lieto di poter contare sul loro appoggio in previsione della ripresa del conflitto con Alfonso II per il dominio provenzale, mentre non dovevano esulare dall'animo dei Genovesi il desiderio d'impedire la definitiva affermazione del conte-re sulle terre occitaniche, ed anche la preoccupazione per la concorrenza marittima di Barcellona. Il trattato, stipulato nel maggio del 1171, ricorda soltanto come nemici Pisa e Montpellier: non bisogna però dimenticare che, se la prima era ormai estromessa dalla maggiore parte delle terre occitaniche e vedeva compromesse anche le prospettive di St-Gilles, in seguito alla nuova posizione assunta dal conte di Tolosa, dietro alla seconda stavano la crescente rete di traffico con i paesi catalani e, quindi, il diretto interesse della casa di Barcellona-Aragona196. Comunque, l'alleanza impegnava le due parti ad azioni militari congiunte contro Montpellier. Raimondo V prometteva di escludere i Pisani dalle proprie terre, fatta eccezione per i pellegrini che venissero a St-Gilles; di non consentire alle navi delle sue città la navigazione d'alto mare, - in modo da lasciare a Genova il monopolio del grande traffico marittimo, - e di non accogliere le navi provenienti de pelago. Genova prometteva di vietare ai propri sudditi la navigazione di cabotaggio con St-Gilles, concedeva agli uomini di quest'ultima le stesse condizioni di nolo marittimo di cui godevano i cittadini genovesi, s'impegnava a non imporre sui loro traffici nessun ulteriore gravame fiscale197. Come immediata conseguenza dell'alleanza, Raimondo V migliorò rapidamente la propria posizione in Provenza, mentre il conte di Montpellier, Guglielmo VII, vedeva il suo porto invaso, le navi bruciate, i 194 Annali genovesi cit., I, p. 236; E. TISSERAND, Histoire civile et religieuse de la cité de Nice cit., vol. I, p. 166; V. VITALE, Nizza medievale cit., p. 70. 195 Liber iurium cit., I, 250, 251 (con la data errata del 1170); С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., II, η. 55. Cfr. G. GAUTHIER-ZIEGLER, Histoire de Grasse cit., pp. 8-9. 196 J. VENTURA, Alfons el Cast cit., p. 128. 197 Uher iurium cit., I, 256, 258; С IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., II, nn. 58, 59; E.-G. LÉONARD, Catalogue cit., pp. 39-41; A. DUPONT, Les relations cit., pp. 103-104.

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pellegrini ed i mercanti, che transitavano sul suo territorio, catturati dai genovesi e trascinati in prigionia, in una situazione che finì per provocare, - inutilmente, a quanto pare, - l'intervento epistolare dello stesso pontefice Alessandro III, nell'ottobre del 1173, - proprio mentre Alfonso II si trovava a Montpellier198, - sia presso l'arcivescovo sia presso il Comune di Genova199. Ma ormai non si trattava più soltanto di Montpellier. Mentre Pisa nel marzo del 1174 riesce a trarre a sé Narbona, danneggiata dalle rappresaglie concesse da Genova contro cittadini narbonesi in dispregio dei patti, e desiderosa di svincolarsi dalla pesante tutela economica genovese200, il problema della Provenza matura nell'animo dei Genovesi non più solo come il disegno di un monopolio mercantile e dell'opposizione alla costituzione d'uno Stato solido ed accentrato, - il sogno dei conti-re catalano-aragonesi, - ma come la necessità d'una tutela contro il pericolo d'una troppo vigorosa espansione delle forze economiche locali, e per conseguenza come la ricerca d'un controllo politico, almeno parziale, sulla regione. L'occasione parve offerta da una recrudescenza del grande conflitto tolosano-catalano che per quasi tutta la loro vita contrappose Alfonso II di Barcellona-Aragona e Raimondo V di Tolosa, dietro il quale si profila ormai chiaramente l'influenza prima di Luigi VII, poi di Filippo Augusto di Francia201. Il contrasto tra i due sovrani per il predominio in Provenza getta un improvviso bagliore di fuoco nei rapporti tra Genova e le città occitaniche, aprendo per un istante nel cuore dei Genovesi la fiamma d'una speranza o, meglio, d'una illusione. Nell'agosto del 1174 un trattato di alleanza tra il Comune ed il conte Raimondo contro Alfonso II presenta a favore del primo condizioni che non trovano precedenti, né troveranno 98

A. GERMAIN, Liber cit., doce. 21 e 22 (con la data del 1169); Liber feudorum

maior, a cura di FRANCESC MIQUEL ROSELL, Barcellona, 1945, II, p. 343, n. 872. È possibile

pertanto che l'intervento papale fosse stato provocato dallo stesso sovrano catalano-aragonese. Si ricordi, ad ogni modo, che Alessandro III aveva soggiornato a Montpellier per tre mesi nel 1162, ed in tale occasione aveva preso sotto la protezione della Sede Apostolica il conte Guglielmo VII ed i suoi beni: A. GERMAIN, Liber cit., doce. 18 e 19. Cfr. anche J. VALÉRY, Alexandre III et la liberte des mers, in «Revue générale de droit international public», 1907, pp. 243-245. Sul problema della datazione delle lettere papali, assai controversa, cfr. A. DUPONT, Les relations cit., p. 106, nota 1. 199

RF. KEHR, Italia Pontificia, VI, 2, Berlino, 1914 (ristampa anastatica, 1961), p.

270, n. 19; p. 331, n. 36; C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., II, nn. 80, 81. 200

G. ROSSI-SABATINI, L espansione dì Pisa cit., p. 91.

201

F. SOLDEVILA, Historia cit., vol. I, pp. 202-203.

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séguito202. Genova appoggerà il conte con una squadra di sedici galere per la conquista di Tarascona, Hyères, Arles, Nizza203 e dei luoghi compresi tra Arles e Turbia, mentre il conte pagherà per ogni galera al Comune, a partire dal secondo mese delle operazioni militari, la somma giornaliera di 50 soldi di Melguen. Se per la ribellione di qualcuna delle località, che verranno occupate, sarà necessario un ulteriore intervento genovese, questo avverrà, alle stesse condizioni precedenti, con una squadra da una a sedici galere. Nel caso di operazioni militari genovesi, con almeno due navi, tra Marsiglia ed Albenga, il conte fornirà un contingente di cento cavalieri a spese proprie per le azioni tra Marsiglia e Ventimiglia, a spese genovesi per le azioni tra Ventimiglia ed Albenga. La guerra avrà inizio entro il mese di ottobre dello stesso anno 1174, e non potrà concludersi pace separata da nessuna delle due parti. I Genovesi prevedono come ragione giustificativa del proprio mancato intervento, senza che ciò comporti l'annullamento del trattato, circostanze derivanti о dalla venuta dell'imperatore in Italia, о dal grande numero dei loro concittadini presenti nelle terre di Alfonso II, oppure dall'importanza dei capitali investiti nei possessi di quest'ultimo. Il trattato avrà la durata di cinque anni e sarà rinnovabile. Raimondo è larghissimo di concessioni e promesse: completa libertà ai mercanti di Genova per il commercio in tutti i porti dei suoi domini narbonesi, tolosani e provenzali; divieto ai mercanti degli stessi territori di trafficare perpelagus, cioè per le rotte d'alto mare, senza licenza genovese; concessione del poggio di Monaco, dove i Genovesi potranno edificare una propria fortezza, di metà di Nizza, del pieno possesso della città di Marsiglia, del castello e del borgo di Hyères, delle saline di Bouc; concessione d'un fondaco in St-Gilles e d'una strada in Arles; concessione della metà del dominio e delle entrate in tutte le piazzeforti situate sul mare tra Arles e Turbia; garanzia d'impegnare la propria opera presso la curia papale per 202

Liber iurium cit., I, 294, 296; E.-G. LÉONARD, Catalogue cit., η. 66 bis, p. 47, 66

ter, p. 48; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., II, nn. 91, 92. 203

Non è chiaro per quale ragione Nizza, già alleata, praticamente о ufficialmente, di Genova nel 1170, si trovi elencata tra le località da conquistare, tanto più che l'autorità del conte-re catalano-aragonese sembra esservisi riaffermata solo nel 1176. A nostro giudizio occorre tenere presente che la politica genovese mira sistematicamente ad un duplice scopo: impedire la costituzione di uno Stato occitanico, о anche solo di un valido complesso po­ litico che raggruppi le terre provenzali, linguadochiane e catalane, in mano di chicchessia; comprimere i tentativi di affermazione dei liberi Comuni cittadini in Occitania e, in modo particolare, in Provenza. Questo secondo elemento sembra essere stato preponderante nel caso dell'alleanza genovese con Raimondo V di Tolosa. Si veda, ad ogni modo, V. VITALE, Nizza medievale cit., p. 41.

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ottenere a Genova l'estensione della giurisdizione dell'archidiocesi anche sul territorio dell'episcopato nizzardo204. Le prospettive aperte dalle alleanze presentano dunque un programma splendido per Genova, la quale vede ancora una volta l'episcopato ed il Comune uniti in un solo corpo cittadino, nell'intento di affermare il prestigio ed il predominio della città. Un programma, però, di fronte al quale noi ci chiediamo se effettivamente i Genovesi credessero alla sua possibilità di attuazione, data una serie di circostanze che la rendevano difficilissima, per non dire impossibile. Basta pensare all'ancora incompleta unità territoriale del Dominio della Repubblica nella Liguria di Ponente, dove persistevano tenaci le opposizioni di Savona e di Ventimiglia; alle possibilità politiche, economiche e militari del sovrano catalano-aragonese, grazie ai possessi ispano-occitanici, intorno al quale si sarebbero automaticamente raccolti non solo i Pisani ed i Montpellieresi, ma tutti gli oppositori, aperti ed occulti, di Genova e del conte di Tolosa; alla stessa resistenza che quest'ultimo avrebbe fatalmente opposto quando si fosse trattato di dare concreta attuazione, in caso di vittoria, ad un disegno che praticamente devitalizzava la contea di Provenza con la cessione a Genova degli sbocchi sul mare. L'impressione nostra è quella d'un progetto formulato più come incentivo alla lotta, che come reale possibilità di sviluppo: di una richiesta genovese di ampissimi vantaggi nell'intento, da parte del Comune, di avere in mano buone carte per i successivi negoziati, di fronte all'inevitabile ridimensionamento delle sue pretese. D'altra parte, anche nelle intenzioni del conte di Tolosa l'accordo dovette avere il valore di un'arma di pressione per indurre gli avversari alla ricerca di trattative. Ciò spiega la generosità nelle concessioni a favore di Genova, per la grandissima parte, - si noti, - in terre ancora da conquistare, e giustifica la rapidità con la quale, già pochi mesi dopo la firma del patto genovese-tolosano, incominciavano segreti approcci tra il conte-re catalano-aragonese ed il signore di Tolosa, quasi certamente all'insaputa dei Genovesi. Poiché se è vero che l'alleanza tra Genova e Raimondo V dovette preoccupare Alfonso II e spaventare le città marinare occitaniche sue alleate, Narbona e Montpellier205, è ugualmente vero che non minori preoccupazioni doveva nutrire in cuore Raimondo V per le mire egemoniche della propria alleata. 204

Per una più minuta analisi del testo del trattato cfr. E. ROSCHACH, Étude cit., pp. 70-77, 79-81; E.-G. LÉONARD, Catalogue cit., pp. 47-49; A. DUPONT, Les relations cit., pp. 109-115. 205

J. VENTURA, Alfons el Cast cit., p. 164.

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In un ambito più modesto non veniva tuttavia a mancare a Genova qualche risultato. Non c'è dubbio: era illusoria per i Genovesi la speranza di riuscire ad applicare integralmente quelle clausole del trattato che, lasciando in loro mano lo sfruttamento commerciale della costa tra le Alpi e i Pirenei ed imponendo ai sudditi del conte l'obbligo del benestare genovese per i propri commerci, miravano ad assicurare al nostro Comune il monopolio commerciale sull'intera Occitania: l'accanita resistenza di Montpellier ed il ravvicinamento tra Narbona e Pisa, che si concluderà nel marzo del 1175 per iniziativa, - rileviamo, - della contessa Ermengarda e del nipote Almerico206, sono indizio eloquente di una situazione assai più complessa di quanto a noi risulti per documentazione diretta. Certamente, però, costituì un fatto concreto per Genova l'acquisto di punti di appoggio sul corso inferiore del Rodano, ad Arles ed a St-Gilles, dove i Pisani avevano sin'allora tenuto il campo207. Inoltre un altro elemento favorevole fu, sempre nel novembre di quell'anno 1174, il rinnovamento con Guglielmo II di Sicilia dei patti conclusi da Genova con Guglielmo I nel 1156, ribadendosi il divieto del traffico tra la Provenza ed il Regno208. Comunque, se in Genova illusione vi fu, per quanto riguarda l'intero piano previsto dal trattato, essa fu l'illusione di un momento. Come abbiamo detto, le stesse eccessive pretese del Comune dovettero avere un peso notevole nel facilitare il ravvicinamento di Raimondo V ed Alfonso II, mentre il potenziale politico, economico e militare, rappresentato dalle forze congiunte di Genova e del conte di Tolosa, era tale da consigliare al conte-re catalano-aragonese la ricerca della tregua e del compromesso209; da scoraggiare anche i più accaniti belligeranti, quali Pisa e Montpellier; da determinare, per ragioni di equilibrio generale, l'intervento dello stesso imperatore Federico I. Tra la fine del 1174 e il principio del 1175 Raimondo V ed Alfonso II s'incontrarono a Mezol, presso Montpellier, probabilmente per addivenire ad una tregua. Se essa tardò a concludersi ufficialmente tra i due sovrani, С PORT, Essai sur Vhistoire du commerce maritime de Narbonne, Parigi, 1854, p. 107; A. BLANC, Le livre des comptes de Jacme Olivier, marchant narbonnaise du XIVe siècle, Parigi, 1899, pp. 290-292; A. DUPONT, Les relations cit., p. 109. 207 J. VENTURA, Alfons el Cast cit., pp. 163-164. 208

209

С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Π, η. 94.

Di fronte alle precedenti posizioni storiografiche, che attribuiscono ad una presunta superiorità di Alfonso II la rapida fine delle ostilità, il Ventura {Alfons el Cast cit., p. 161) chiarisce che si tratta del contrario: del pericolo, cioè, rappresentato per Alfonso II, da parte «de la qui era la vertadera potencia econòmica d'Occitania: Genova».

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fu invece raggiunta, già nel dicembre del 1174, la pace tra Raimondo V e Guglielmo VIII di Montpellier, successo nel 1172 al padre Guglielmo VII210. Nel 1175 la stessa Pisa si volse all'accordo con Genova, per intervento di Federico I, accettando la conferma delle condizioni stabilite nel 1169: cioè il divieto per le sue navi di oltrepassare la linea costiera da Salou a Noli211. Infine nell'aprile 1176 la pace - о meglio una tregua - fu firmata anche tra Raimondo V ed Alfonso II: il primo cedeva al secondo, per la somma di 3100 marche d'argento, i diritti sulla Provenza marittima, secondo l'accordo del 1125 tra il conte Alfonso Giordano di Tolosa ed il conte Raimondo Berengario III di Barcellona212. Per riguardo al problema provenzale, i due contendenti rimanevano dunque sulle rispettive posizioni, poiché nessuno era riuscito ad ottenere concretamente il territorio posseduto dall'altro. Tuttavia Raimondo V si sottraeva al pericolo d'una pesante tutela economica genovese, che minacciava di inimicargli la borghesia cittadina nell'ambito dei suoi domini, mentre Alfonso II aveva finalmente libertà d'azione nella contea di Provenza: libertà ancora maggiore dopo la sconfitta di Federico Barbarossa a Legnano nel maggio del 1176. Il conte-re catalano-aragonese approfittò del momento favorevole per ricondurre all'obbedienza la città di Nizza, che, ricca di commerci marittimi e terrestri, si era sottratta, nel 1166, come s'è detto, alla sfera d'influenza della casa di Barcellona-Aragona. Non sappiamo se il conte-re ricuperò la città per accordi о con le armi: il 7 giugno 1176 con privilegio solenne, datato in plano iuxta Varum, Alfonso II, quale marchese di Provenza ed anche a nome dei fratelli Sancio e Raimondo Berengario, confermò ai Nizzardi tutti i privilegi e le esenzioni precedentemente goduti, in particolare il diritto di governarsi con propri funzionari; il Comune, dal canto suo, riconobbe l'autorità del sovrano ed assunse precisi obblighi militari e finanziari213. 210

A. GERMAIN, Liber cit., doc. 81; E.-G. LÉONARD, Catalogue cit., η. 68, p. 50; J.

VENTURA, Alfons el Cast cit., pp. 160-161. 211 P. TOLA, Codex diplomaticus Sardiniae, in H.P.M., Torino, 1861-68, I, 248; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Π, η. 101. 212

PIETRO DE MARCA, Marca hispanica sive limes hispanicus, Parigi, 1688, doc. CCCCLXVIII, coll. 1368-1370; E.-G. LÉONARD, Catalogue cit., η. 81, p. 58; Liberfeudorum maior cit., Π, n. 890, pp. 362-364. 213 J.-P. PAPON, Histoire cit., vol. II, doc. XXI; H.P.M., Leges municipales, Statuta et privilegia civitatis Nicie, Torino, 1838, col. 41 e sgg.; P.L. DATTA, Della libertà del Comune di Nizza cit., pp. 279-282; E. TISSERAND, Histoire civile et religieuse de la cité de Nice cit., vol. I, pp. 166-168; Liber feudorum maior cit., Π, η. 893, pp. 355-356; J. MIRET Y SANS, Itinerario del rey Alfonso I de Cataluña, en Aragón, in «Boletin de la Real Academia de Buenas Letras de Barcelona», III-IV, 1903-1904, pp. 397-398. Cfr. anche V. VITALE, Nizza medievale cit., p. 44.

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Tregua, tuttavia, e non pace. Fallito il disegno politico, ma soprattutto il fine economico dell'instaurazione d'un più rigoroso monopolio sull'intero mondo occitanico, tentato attraverso gli accordi del 1174 con Raimondo V di Tolosa, Genova vede farsi avanti di nuovo i Pisani, mentre le città occitaniche non esitano a manifestare le loro preferenze, о si de­ streggiano con abilità sul piano economico, come su quello politico, tra le due repubbliche marinare italiane. Nel 1177 Guglielmo VIII di Montpellier stipula una convenzione commerciale con Pisa214. Nello stesso anno Pisa stringe patti con Nizza215 e firma un trattato di alleanza con Alfonso II di Barcellona-Aragona216. Nel 1178 una convenzione economica lega a Pisa anche Grasse217. In sostanza, tutto lo schieramento occitanico, che fa capo al conte-re catalano-aragonese, ha ripreso a muoversi rapidamente in direzione filopisana. Genova reagisce al più presto, approfittando della nuova mossa politica di Federico Barbarossa che, battuto in Italia, cerca compenso nell'area franco-provenzale. Alla cerimonia di Arles, nel luglio del 1178218, in cui l'imperatore assume la corona reale di Borgogna, è presente Raimondo V di Tolosa; è assente Alfonso II, il quale, nonostante i patti dell'ormai lontano 1162, concordati dal predecessore Raimondo Berengario IV, non intende riconoscere con l'ossequio feudale la sovranità dell'Impero su una parte delle terre occitaniche. La nuova fase della «grande guerra meridionale», che trae di qui l'occasione esterna, offre ai Genovesi la possibilità di giocare l'ultima carta a fianco dell'Impero e, di nuovo, del conte di Tolosa. Non per nulla, prima di recarsi in Borgogna, Federico I aveva soggiornato per alcuni giorni a Genova, nel gennaio di quello stesso anno 1178, insieme con la A. GERMAIN, Histoire de la commune de Montpellier cit., vol. II, p. 417; ID., Histoire du commerce de Montpellier cit., vol. I, p. 107; ID., Liber cit., doc. 202; Α. DUPONT, Les relations cit., pp. 115-116. 215 G. ROSSI-SABATINI, L'espansione di Pisa cit., p. 94; P. PECCHIAI, Relazioni cit., pp. 273-275 e documento I. 216 J. VENTURA, Alfons el Cast cit., p. 184. 217 L.A. MURATORI, Antiquitates Italicae medii aevi, IV, 345; J-P. PAPON, Histoire cit., vol. II, doc. 23; E. TISSERAND, Histoire civile et religieuse de Nice cit., vol. I, p. 171; G. DOUBLET, Recueil des actes concernant les évêques d'Amibes, Monaco-Parigi, 1915, η. 101; G. ROSSI-SABATINI, L'espansione di Pisa cit., p. 94; P. PECCHIAI, Relazioni cit., pp. 275-278 e doc. II. 218 P. FOURNIER, Le royaume d'Arles et de Vienne (1138-1378). Étude sur la formation territoriale de la France dans l'est et le sud-est, Parigi, 1891, p. 62.

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moglie Beatrice ed il figlio Enrico, gratificato honorabilibus donis dagli abitanti della città219. * * * In questa fase della guerra, caratterizzata dall'intervento diretto della Chiesa nella contea di Tolosa220, e dai primi tristi presagi della caccia agli eretici della Guascogna, della Linguadoca, della Provenza221, secondo i precetti del canone 27 del III concilio lateranense del 1179222, la diplomazia genovese si preoccupò, quando il conflitto tra i signori feudali raggiunse la fase più decisa, di consolidare le proprie posizioni marittime in tutta l'area del mare occitanico-catalano; di isolare il conte-re catalanoaragonese; di raccogliere alleanze dovunque, senza badare ad ex-amici e ad ex-nemici, a cristiani ed a saraceni. Con attività intensissima nel giugno del 1181 Genova concluse un trattato di amicizia con il signore delle Baleari, Ishak-ibn Mohammed, in virtù del quale era assicurata protezione in Maiorca, Minorca, Iviza e Fomentera ai Genovesi ed agli abitanti del loro distretto tra il capo Corvo e Nizza223. Il mese successivo ottenne dalla potentissima abbazia di Lérins la metà dell'isola di S. Margherita, per costruirvi un castello ed un borgo, promettendo in cambio ai monaci di non recare loro molestia e di includere Lérins e le isole di S. Margherita negli accordi tra il Comune ed i Saraceni224. Nel dicembre stipulò un 219

Annali genovesi cit., vol. II, Roma, 1901, pp. 11-12.

220

CL. DE VIC - J. VAISSETE, Histoire cit., vol. VI, pp. 77-96.

221

PIERRE DE VAUX-DE-CERNAY, Historia Albigensis, ediz. francese di PASCAL GUÉBIN e

HENRI MAISONNEUVE, Parigi, 1951, pp. 14-15, nota 6; J. VENTURA, El caratismo en Cataluña,

in «Boletín de la Real Academia de Buenas Letras de Barcelona», XXVIII, 1959-60, pp. 75-168. 222 MANSI, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, t. XXII, Venezia, 1778, coll. 209-233; H. LECLERQ, Histoire des Conciles, tomo V, parte 2 a , Parigi, 1913, pp. 1106-1107; G. PISTARINO, Genova, Alessandria cit., pp. 51-52. 223 S. DE SAC Y, Notices et extraits des documents de la Bibliothèque du Roi, Parigi, 1827, vol. XI, p. 7; L. DE MAS LATRIE, Traités de paix et de commerce et documents divers concernant les relations des Chrétiens avec les Arabes de l'Afrique septentrionale au moyenâge, Parigi, 1866, doc. III, p. 109; A. OLIVIERI, Serie cit., p. 384; M. AMARI, Nuovi ricordi

arabici su la storia di Genova, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», V, 1873, pp. 593-600; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., II, η. 133. Si noti la menzione

di Nizza, in luogo di Monaco, come indicazione dell'estremo limite occidentale del distretto giurisdizionale genovese: segno eloquente sia del predominio genovese su Nizza, sottratta all'influenza catalano-provenzale, in questo momento, sia della tendenza di Genova, - di cui faremo cenno in seguito, - a superare i limiti stabiliti dal diploma federiciano del 1162. 224

Liber iurium cit., I, nn. 207, 318; С IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., II,

nn. 134, 135.

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patto con Narbona: la viscontessa Ermengarda ed il Comune regolavano la compensazione dei danni reciprocamente arrecatisi in passato, e le rispettive tariffe doganali, su piano di parità; i cittadini narbonesi rinunciavano alle rappresaglie per le perdite subite ad opera della galea di Belmosto e Martino Golia225. Ma il colpo più grosso fu quello che Genova, coadiuvata da Raimondo V, riuscì a portare a termine in Provenza, qualche anno dopo: un colpo che mise in pericolo il fronte di Alfonso II ben più della guerra di corsa sulle coste occitaniche e delle operazioni terrestri condotte duramente, dal 1181 in poi, - dopo brevi avvisaglie nel 1180, - dalle truppe catalane, aragonesi, linguadochiane, provenzali. Il conte di Provenza, Raimondo Berengario IV, fratello del conte-re Alfonso era caduto vittima, il 5 aprile 1181, di un'imboscata tesagli presso Montpellier da un partigiano di Raimondo V: Ademaro, signore di Murviel226. Alfonso destinò a succedergli, dapprima soltanto come procuratore, poi come proprio vassallo feudale, il fratello Sancio. Quali trame nascoste, quali vicende preliminari si siano svolte tra il 1181 ed il 1184 alla corte di Sancio, ci è completamente ignoto. Ma non tutto ignoto dovette essere agli uomini del tempo, che ci parlano per bocca del trovatore Peire Vidal, in una canzone indirizzata al conte-re, con il chiaro carattere d'avvertimento: Franc reis, Proensa'us apella, Qu'En Sancho la'us desclavella, Qu'el en trai la cer'e'l mei E sai tramet vos lo fel. L'ambizione personale, il desiderio di svincolare il feudo provenzale dalla tutela catalano-aragonese, l'opera di persuasione e di mediazione certo svolta occultamente dal conte di Tolosa, l'alta considerazione per la potenza economica e militare, nel campo marittimo, di Genova, alla quale si attribuivano le migliori possibilità di riuscita, fors'anche altre ragioni, che a noi non risultano con chiarezza, spinsero Sancio ad abbandonare il fratello, per schierarsi tra i suoi nemici. In un trattato di alleanza con Genova, stipulato, a quanto pare, nel 1184, vediamo il conte e, al suo fianco, Raimondo V e il conte di Forcalquier impegnarsi contro ogni tentativo antigenovese di Alfonso II, nonché, Liber iurium cit., I, nn. 319, 322; J. KOHLER, Handelsverträge cit., pp. 4-6; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., II, nn. 136, 137; A. DUPONT, Les relations cit., p.

117. 226

J. MiRET γ SANS, Itinerario cit., p. 414.

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241

in generale, contro ogni manovra diretta a danno dei sudditi о degli alleati di Genova; a rendere giustizia, al massimo entro un mese, alle lagnanze loro presentate da cittadini genovesi; ad abolire ogni malum usum seu pravam consuetudinem contro i Genovesi e i loro distrettuali; ad occu­ parsi personalmente, con un corpo di almeno 10.000 uomini, della presa e della distruzione del porto di Marsiglia, impedendo qualunque successivo tentativo di ricostruzione; a far giurare i patti entro la prossima festa del­ l'Assunta a cento dei più ricchi borghesi delle loro terre, radunati presso Montpellier227. L'accenno a Marsiglia, che rappresenta il vero punto centrale dell'accordo, è chiarificatore. Rivela infatti qual è ormai, о quale sta diventando, la preoccupazione fondamentale dei Genovesi, che vedono ergersi aper­ tamente al proprio fianco, e ben più vicina che Narbona e Montpellier, la rivale marsigliese, su un piano di rapida concorrenza; qual è una delle ragioni di fondo per cui essi hanno aderito al fronte anticatalano ed antiprovenzale; qual è la condizione basilare, per non dire unica, in nome della quale sono disposti a tacere anche sulla rinascente concorrenza pisana negli altri centri occitanici. Ma esso indica altresì una delle più gravi difficoltà che Sancio dovette incontrare nel proprio tentativo di governo feudale, e per cui dovette ritenere estremamente utile l'appoggio di Genova, anche a costo di tradire il fratello: l'ostilità della borghesia mercantile nei maggiori centri marittimi della contea, un'ostilità che raggiunse, a quanto pare, nel caso di Marsiglia, il carattere della ribellione. Il fatto stesso che cento borghesi tra i più ricchi del paese dovessero venire chiamati a ratificare l'accordo riesce eloquente. Genova vuole cautelarsi contro possibili e prevedibili opposizioni degli ambienti cittadini e mercantili occitanici all'esecuzione dei patti. Sancio e i suoi due alleati intendono rendere corresponsabili nei medesimi, tanto più che si tratta di ostilità contro un grosso centro di traffico qual è Marsiglia, coloro che, logicamente, si dovrebbero trovare all'opposizione. 227

Liber iurium cit., 1,301; E.-G. LÉONARD, Catalogue cit., η. 116, p. 81; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Π, η. 100. L'edizione del Liber iurium attribuisce al doc. la data del 1176; l'Imperiale di Sant'Angelo, sulla scorta dello Schaube (Storia cit., p. 703), gli assegna quella del 1175; mentre il Léonard indica il periodo tra il 1181 e il 1185. A noi sembra molto più probabile la data sostenuta dal Ventura (Alfons el Cast cit., pp. 207-208), in quanto essa s'inserisce molto più logicamente nel discorso storico. Si noti che il doc. in oggetto non è la conclusione d'un patto a quattro, - Tolosa, Provenza, Forcalquier e Genova, - ma la stipulazione di accordi fra i tre signori feudali, da un lato, ed il Comune, dall'altro. Ciò fa presumere che l'adesione del conte Sancio alla parte di Raimondo V debba collocarsi in un momento anteriore.

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Si trattò, questa volta, d'un progetto reale oppure di nuovo, come abbiamo supposto per il trattato tolosano-genovese del 1174, di un'arma diplomatica di pressione e di minaccia, non solo nei riguardi di Nizza, ma anche di altri oppositori di Genova, di Sancio, di Raimondo V? Non sappiamo. Certo siamo indotti, come fa il Ventura, ad accostare l'accordo genovese-provenzale del 1184 con un risultato a favore della lega capeggiata dal conte di Tolosa, che si produsse nel maggio di quello stesso anno: la dichiarazione di vassallaggio di Guglielmo VIII di Montpellier, uno dei maggiori sostenitori di Alfonso II, verso Raimondo V228. Anche se la cosa appare strana, trascorse un certo tempo prima che il conte-re catalano-aragonese venisse a conoscenza dell'operato del fratello o, comunque, prima che provvedesse in merito. Probabilmente fu impedito nell'adozione di contromisure proprio dall'appartenenza di Sancio alla lega avversaria: si noti infatti che nel febbraio del 1185 si colloca la pace, dopo i duri anni di guerra, tra Alfonso II e Raimondo V229; nel mese successivo si ha notizia della revoca del conte Sancio dal governo della Provenza230, alla quale Alfonso designò il proprio secondogenito Alfonso per riguardo al titolo comitale vitalizio, e il conte di Foix come procuratore nel disbrigo degli affari. La pace del 1185, seguita dall'accordo definitivo del gennaio 1190, dopo un ultimo tentativo di riscossa di Raimondo V, non mutò sostanzialmente lo status quo, lasciando ad Alfonso II la contea di Provenza; a Raimondo V, la contea di Melgueil. Genova forse ne ricavò una cospicua somma di denaro, sborsata dal conte-re231; ma risultò delusa nell'ultimo tentativo d'intervento politico in Occitania, effettuato con il pesante disegno contro Marsiglia. Era anche il fallimento di tutta la politica di accordi, taciti od espressi, con la casa di Tolosa, basati sul presupposto di un forzato arretramento del conte-re catalano-aragonese fino ai Pirenei, e di una sorta di condominio, economico-politico, di Genova e di Tolosa sulle terre occitaniche. I fatti avevano dimostrato che tutto ciò non era possibile, mentre le prime nubi della persecuzione antialbigese e dell'intervento francese in Linguadoca si affacciavano all'orizzonte ... 228

CL. DE Vie - J. VAISSETE, Histoire cit., vol. VI, p. 110; J. VENTURA, Alfons el

Cast cit., p. 208. 229 PIETRO DE MARCA, Marca cit., doc. CCCCLXXIX, coll. 1378-1380; J. MIRET Y SANS, Itinerario cit., pp. 420-421; E.-G. LÉONARD, Catalogue cit., n. 112, p. 77. 230

R. BUSQUET, Les institutions cit., p. 12.

231

J. VENTURA, Alfons el Cast cit., pp. 209-210.

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243

Così Genova ed Alfonso II tornarono all'antica amicizia. Il conte-re aveva appreso quale forza Genova rappresentasse nello scacchiere internazionale, e come fosse necessario eliminare ogni influenza residua del conte di Tolosa nella grande città marinara. Genova riconosceva che l'unica attività consentitale nelle terre occitaniche era quella del traffico, e che l'amicizia del sovrano catalano-aragonese era a ciò indispensabile. Oltre tutto l'accordo tra Genova ed il conte-re era impellente per un altro fronte: come l'unico mezzo concreto per arrestare in Sardegna l'avanzata pisana, in occasione della lotta per la successione nel giudicato di Cagliari. Nell'ottobre del 1186 il conte di Foix, nella sua qualità di procuratore della Provenza, concluse il patto d'alleanza, - che nel novembre successivo fu confermato da Alfonso II, - in funzione antipisana, con specifico riguardo alla Sardegna. Naturalmente non mancò nel trattato la solita clausola, che metteva al bando i Pisani in tota terra Provincie, mari vel terra232. Ma erano le ultime avvisaglie. Nella pace conclusa con Pisa già due anni dopo, nel 1188, per il deciso intervento di papa Clemente III, il principio della libera navigazione e del libero commercio viene esplicitamente imposto ai due contendenti dalla Sede Apostolica, - precipimus sub debito iuramenti ut liberam vobis ad invicem promittatis facultatem atque licentiam per pelagus quocumque volueritis navigandi et ad portum quemcumque volueritis aplicandi et ex inde mercimonia transahendi, mentre una clausola tutela il traffico senza restrizioni per la Provenza233. I tempi vanno mutando. Abbandonando gradualmente il principio dell'esclusivismo monopolistico nei riguardi dell'Occitania, che non può più considerarsi terra di sfruttamento, Genova mira a dilatare la rete del traffico verso la Spagna musulmana234 come verso la Borgogna235; al tempo 232

Liber iurium cit., I, 341, 344; TOLA, Codex cit., I, 257, 259; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., II, nn. 164, 167. 233

P. TRONCI, Memorie cit., p. 151; F. DAL BORGO, Raccolta di scelti diplomi pisani, Pisa, 1765, p. 140; Liber iurium cit., II, 17 (con la data errata del 1176); C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., II, η. 174. Cfr. anche С IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice

cit., II, nn. 172, 173. 234 Nell'agosto del 1188 Genova rinnovò con Abd-Allah, figlio e successore di Ishakibn-Mohammed, signore delle isole Balean, il trattato del 1181: DE SACY, Notices cit., vol. XI, p. 14; L. DE MAS LATRIE, Traités cit., Documents p. 113; A. OLIVIERI, Serie cit., p.

382; M. AMARI, Nuovi ricordi arabici cit., pp. 600-606. Il principe saraceno offre questa volta la propria garanzia ai mercanti genovesi non più soltanto per il territorio delle Baleari, ma «per totam terram suam et per Garbum et Yspaniam et per universas partes». Quanto a Genova, essa considera di sua pertinenza, dalla parte della Riviera di Ponente, non più soltanto il territorio fino a Nizza, ma addirittura sino a Cannes, in conseguenza dell'accordo del 1181 con il monastero di Lérins. 235 Si tengano presenti gli accordi stipulati con Ugo III, duca di Borgogna, nel febbraio

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stesso ricerca nel Levante quel mercato di tipo coloniale, che le è ormai precluso in Occidente. Tutto ciò fu intuito, seppure confusamente, dalla stessa coscienza degli uomini di allora, i quali individuarono in un momento particolare, in un motivo contingente, quella che era in realtà la fine di un periodo storico. Interpretando un sentimento largamente diffuso nella sua terra, il trovatore Peire Vidal saluta con esultanza la fine del dispotico predominio genovese, di cui attribuisce il merito alla vittoria di Pisa, coraggiosa ed amica236: Bonaventura don Dieus als Pisans, Car son ardit e d'armas ben apres, Et an baissât l'orguoill dels Genoes, Qels fan estar aunitz e soterains; Per qu'eu voirai totz temps l'onor de Pisa, Car ant baissatz los perfieitz orgoillos, Que sol l'enois dels vilans borboillos Mi trencal cor el me fraing el me brisa. *

*

*

Oltre tutto, le torbide vicende degli ultimi anni si sono risolte in una contrazione del traffico genovese-occitanico, a cui la borghesia che regge il governo del Comune non può rimanere insensibile per la semplice velleità d'una politica di potenza, che si è rivelata inattuabile. Secondo i dati raccolti da Erik Bach sui cartulari dei notai genovesi Oberto Scriba de Mercato e Guglielmo Cassinese per il decennio dal 1182 al 1191, le navi che volgono la prora da Genova alle coste occitaniche si possono contare sulle dita delle due mani: nel 1182 abbiamo due contratti relativi a Montpellier; nel 1186, uno rispettivamente per Fréjus, per Aries, per St-Raphaël, per Montpellier; nel 1190, quattro per Marsiglia ed uno per la Provenza; nel 1191, uno per Nizza, otto per Marsiglia, quattro per del 1190, in occasione della fornitura, da parte di Genova, delle navi necessarie al trasporto delle truppe del re di Francia in Siria per la partecipazione alla terza crociata: Liber iurium cit., I, 354, 355; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., II, nn.

190, 191, 192; J.

RICHARD, Les ducs de Bourgogne et la formation du duché du XIe au XIVe siècle, Parigi, 1954, p. 187. 236 II componimento risale al 1195, quando, alla ripresa delle ostilità tra Genovesi e Pisani, questi ultimi avevano fatto occupare dai propri corsari il castello di Bonifacio in Corsica: V. DE BARTOLOMEIS, Poesie provenzali storiche relative all'Italia, F.I.S.I., Roma, 1931, I, pp. 48-49. Si tenga presente, tuttavia, il contrario giudizio di Peire Vidal nella poesia «Quant hom es en autrui poder»: ibidem, I, pp. 121-124.

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245

Montpellier, uno per la fiera di St-Agoul, uno per la Provenza, uno per la contea di Lione237. La preoccupazione del Comune di riportare, e risanare, la situazione sul piano concreto degli accordi economici bilaterali con i centri marittimi delle coste occitaniche, in una posizione di progressiva parità, sirivelagià nel 1190 nei patti stipulati con il vescovo di Fréjus, consenziente Alfonso II, per il regolamento delle tariffe portuarie e dei dazi sulle merci, da pagarsi dai negozianti genovesi, partecipanti alle varie fiere che durante l'anno si tengono in Fréjus, più precisamente, nella festa di S. Lorenzo, nella festa di S. Raffaele, nella festa di S. Matteo e la quarta domenica dopo Pasqua238. Nel frattempo, appoggiandosi al diploma di Federico I del 1162, confermato dall'imperatore Enrico VI nel 1191239, Genova lavora ormai decisamente a consolidare il limite occidentale dello Stato, che si attesta, dopo qualche oscillazione e qualche tentativo verso Nizza240, in modo definitivo su Monaco. Qui essa si adopera per assicurarsi in maniera concreta e stabile il possesso allodiale, oltreché feudale, della località, quale caposaldo contro eventuali velleità espansionistiche provenzali verso la Liguria, agendo per averne la cessione presso quanti vi vantano diritti di diversa specie. Nel 1191 ottiene dall'imperatore Enrico VI il poggio e il monte di Monaco, per costruirvi un castrum ed un borgo, in feudum imperii241. Nel 1197 consegue dai consoli di Peglia e dall'abate del monastero di S. Poncio, rispettivamente, cinquanta tavole di terra ed un quarto del poggio monegasco, che tanto i consoli quanto l'abate le cedono o, meglio, sono costretti a cederle, per poter conservare, sotto l'egida genovese, i propri residui diritti sul territorio242. 237

E. BACH, La cité de Gênes au XIIe siècle, Kobenhavn, 1955, Appendice.

238

Liber iurium cit., I, 360; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Π, η. 197. Si

noti che nel testo del trattato i limiti occidentali del territorio distrettuale genovese sono di nuovo arretrati a Monaco. 239 Liber iurium cit., I, 369-374; M.G.H., Constitutione s et acta publica imperatorum et regum, I, Hannover, 1893, pp. 479-493; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., III,

Roma, 1942, η. 2. Sui rapporti tra Genoya ed Enrico VI di Svevia cfir. V. VITALE, Genova nel secolo XII cit., pp. 27-29; ID., Genovďed Enrico VI di Svevia, in «Scritti storici in onore di Camillo Manfroni», Padova, 1925, pp. ¡87-102. 240 v VlTALEł Nizza c i t j ρ 45-55. ! 241

Liber iurium cit., I, 378; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Ili, n. 5.

242

Liber iurium cit., I, 413, 415; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., vol. III, Roma, 1942, nn. 43, 45. Sull'intera questione cfr. LÉON-HONORÉ LABANDE, Histoire de la

principauté de Monaco, II ediz., Monaco, [1934], pp. 15-24.

246

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In armonia con l'acquisto di Monaco, anzi in connessione con esso, Genova s'impegna a fondo per assicurarsi l'adesione di Ventimiglia. Tra il 1192 ed il 1193 promette il proprio aiuto ai conti Ottone, Guglielmo ed Enrico, ottenendone in cambio il giuramento di fedeltà243. Nell'appoggio, che essa assicura ai conti ventimigliesi, deve anche includersi l'intervento contro le insorgenti aspirazioni del Comune locale? Dagli eventi successivi risulta di sì: è chiaro che per Genova il governo feudale di quel centro rivierasco riesce più facilmente controllabile, e quindi preferibile, rispetto all'organizzazione comunale; ed è noto che il giovane Comune di Ventimiglia reagirà contro la supremazia genovese con la forza della disperazione, in una opposizione senza speranza, - dacché Monaco è saldamente in mano di Genova, - destinata a concludersi con la sconfitta a metà del secolo XIII244. Il progressivo accostamento dei due nuovi sovrani di BarcellonaAragona e di Tolosa, Pietro II e Raimondo VI, tra il 1196 ed il 1198, determinato, a quanto pare, dal problema albigese e giunto al risultato conclusivo nel convegno di Perpignano del febbraio 1198, toglie a Genova ogni ulteriore speranza di poter giocare, come in passato, sul dissidio tra catalano-aragonesi e tolosani, e la spinge a ricercare l'accordo con colui che appare come il più forte in campo. Poiché, se è vero che fu lo stesso Alfonso II a distruggere l'edificio, che egli aveva faticosamente costruito nel raggruppamento politico di Aragona, Catalogna e Provenza, dividendo i possessi della corona tra il primogenito Pietro, conte di Barcellona e re di Aragona, ed il cadetto Alfonso, conte di Provenza245, è ugualmente 243

Liber iurium cit., I, 402, 407; G. Rossi, Storia della città di Ventimiglia, Oneglia,

1888, p. 57; C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Ili, nn. 26, 32. 244 G. Rossi, Storia cit., p. 58 e sgg.; F. SAVIO, I conti di Ventimiglia nei secoli XII e XIII, in «Giornale Ligustico», XX, 1893, pp. 441-462; A.M. BOLDORINI, Guglielmo Boccanegra, Carlo d'Angiò e i conti di Ventimiglia (1257-1262), in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. s., II, 1963, pp. 139-200. Com'è noto, la ribellione contro Genova scoppiò a Ventimiglia nel 1199, in conseguenza delle onerose condizioni imposte alla città dai Genovesi con il trattato del 1198. In tale circostanza i conti di Ventimiglia intervennero accanto a Genova, a sedare la ribellione: C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Ili, n. 54. Sull'intero problema della costituzione del dominio genovese nella Riviera di Ponente cfr. N. CALVINI, Relazioni medievali tra Genova e la Liguria occidentale (secoli X-XIII), «Collana storico-archeologica della Liguria occidentale», IX, Bordighera, 1950. R. PAVONI, Liguria medievale, Genova, 1992. 245 CH. HIGOUNET, Un grand chapitre cit., pp. 320-322. Soltanto con il ritorno di Sancio al governo della Provenza, durante la minorità di Raimondo Berengario V (12091217), la contea emerge autonoma dal naufragio del complesso politico occitanico in mano dei conti di Barcellona e re di Aragona, determinato dalla crisi del problema albigese. Sancio

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247

vero che il blocco occitanico in mano catalano-aragonese non fu sostanzialmente incrinato prima della grande crisi della crociata antialbigese. Il rinnovo e la conferma, nel settembre del 1198, con Pietro II, delle convenzioni, stipulate da Genova prima con Raimondo Berengario IV e poi con Alfonso II246, chiudono tutte le pendenze del passato anche sul piano economico con l'implicito riconoscimento, da parte genovese, della supremazia del sovrano catalano-aragonese sull'intera Occitania247: i due contraenti s'intendono reciprocamente compensati dei danni arrecatisi in passato, mentre il conte-re Pietro viene liberato dei debiti contratti dai suoi antecessori verso il Comune248. Gli accordi firmati con Antibes249 e con Grasse250, nello stesso anno, con i signori di Fos e di Hyères, nell'anno successivo251, confermano la tendenza di Genova al puro rapporto mercantile, alla contrattazione bilaterale alla pari. È noto che nel diploma imperiale di Enrico VI del 1191, ripetendosi integralmente il testo di quello federiciano del 1162, si convalida il diritto dei Genovesi ad impedire i traffici diretti tra il regno di Sicilia e le coste italiane del Tirreno, da un lato, ed i mercanti francesi e provenzali, dall'altro; che nel trattato tra Genova e Grasse del 1198, testé citato, si ritrova la clausola di impegno antipisano dei Grassesi, in rapporto con la ripresa delle ostilità tra le due repubbliche marinare italiane del Tirreno; che non mancano episodi di guerra di corsa, in quest'ultimo decennio del secolo, tra navi occitaniche e navi genovesi252. Ma tutto ciò, per quanto riguarda le posizioni di forza di Genova sulla costa tra le Alpi ed i Pirenei, appartiene ormai al passato: la clausola contro Pisa negli accordi con Grasse del 1198 è già sostituita dal più generico impegno a non aiutare i nemici di Genova nella convenzione con i signori di Fos e di Hyères del 1199. stesso ne approfitterà per attuare una politica antigenovese, in merito al problema di Monaco, riprendendo a danno del Comune la politica di espansione già da quest'ultimo tentata a danno della contea. L'assunzione di Raimondo Berengario V al governo effettivo della Provenza, sancendo definitivamente la situazione della frontiera ligure-provenzale secondo i dettami del diploma federiciano del 1162, porrà fine ad ogni contrasto. 246 Si tratta degli accordi conclusi nel 1146 e nel 1167. 247 CH. HIGOUNET, Un grand chapitre cit., p. 320. 248 Liber iurium cit., I, 425, 427; С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Ш, nn. 52, 53. 249 E. TISSERAND, Histoire ďAntibes cit., p. 117. 250 Liber iurium cit., I, 417; С IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., III, n. 48. 251

С. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice cit., Ili, n. 61.

252

Annali genovesi cit., vol. Π, passim.

248

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Ed è "noto altresì che, negli accordi locali, che Genova va ora stipulando, e stipulerà ancora più numerosi nei primi lustri del secolo XIII253, le preferenze del Comune sono per le trattative con i signori feudali, laici ed ecclesiastici, i quali rappresentano sempre, - e ciò vale come giustificazione, - l'autorità legale del luogo. Ma il problema è ormai un altro. Mentre l'area di più immediato interesse genovese si restringe dall'intera Occitania alla contea di Provenza, sia nelle relazioni col governo comitale, sia nei contatti con le città costiere, un nome, che finora ha trovato scarsa eco tra cronache e documenti, emerge rapidamente e vigorosamente nel tessuto degli avvenimenti: Marsiglia254. La storia futura è in buona parte la storia dei rapporti, dei contrasti e degli accordi, tra le due città.

253

A. DUPONT, Les relations cit., pp. 118-127. Рн. MABILLY, La ville de Marseille au moyen-âge (1257-1348), Marsiglia, 1905; M. LABANDE, La commune de Marseille, ses origines, son développement jusqu'à l'acquisition de la seigneurie des vicomtes, in «Journal des Savants», 1926-27; V.-L. BOURILLY, Essai sur l'histoire politique de la commune de Marseille des origines à la victoire de Charles d'Anjou (1264), Aix, 1925. 254

VIII

GENOVA E IL REGNO NORMANNO DI SICILIA

Rielaborato da / Normanni e le Repubbliche marinare italiane, in «Atti del Congresso internazionale di studi sulla Sicilia normanna», Palermo, 1974, pp. 241-262; Commercio e vie marittime di navigazione aliepoca di Ruggero lì, in «Terze giornate normanno-sveve: Società, potere e popolo nelVetà di Ruggero II, Bari, 23-25 maggio 1977», Bari, 1979, pp. 239-258; Commercio e comunicazioni tra Genova e il Regno normanno-svevo ali*epoca dei due Guglielmi, in «Potere, società e popolo nelVetà dei due Guglielmi. Atti delle Quarte giornate normanno-sveve, Bari-Gioia del Colle, 8-10 ottobre 1979», Bari, 1981, pp. 231-290.

I «Il passaggio della Sicilia dagli Arabi ai Normanni aveva aperto alle nazioni marittime l'adito a un paese importante per i suoi prodotti e le ricchezze, centro di comunicazione e punto d'intersezione di vaste correnti commerciali, tanto più quando, per le Crociate, l'isola era venuta a trovarsi sulla via obbligata delle repubbliche marinare del Tirreno verso l'Oriente. Essa aveva messo così a disposizione una quantità di prodotti naturali e fabbricati che gli Arabi durante il loro lungo soggiorno avevano avuto il tempo di alimentarvi; aperto, più facile e più breve, attraverso lo stretto, il passaggio all'Oriente; mentre anche le navi dirette verso Occidente e verso l'Africa potevano passare sicure in vista delle coste siciliane»1. In realtà i rapporti di Pisa con l'Italia meridionale e la Sicilia risalgono al periodo arabo-bizantino-longobardo. Nei secoli X e XI troviamo mercanti pisani stanziati a Napoli, a Gaeta, a Salerno, a Palermo. Si tratta però di posizioni secondarie: siamo infatti ancora nell'epoca gloriosa di Amalfi, quando, «Arabi e città marinare costituiscono commercialmente, per così dire, un fronte unico»2. Per Genova i primi approcci con i paesi del Sud sono attestati da presenze singole, come quella d'un Bonifacio che nel 1059 abita ad Atrani, sulla costiera amalfitana, e dalla notizia di navi genovesi che, passando davanti a Salerno, sono catturate da Gisulfo e vedono i loro uomini spogliati di ogni avere a titolo di riscatto: né può supporsi che quelle navi fossero tutte dirette al Levante e non, in parte almeno, agli stessi porti del Mezzogiorno. Ciò che, ad ogni modo, non risulta per Genova, all'opposto che per Pisa, è una penetrazione in Sicilia prima della caduta del dominio islamico, mentre è evidente che anche per i genovesi dovette trattarsi, nell'Italia meridionale, di posizioni secondarie di fronte al prevalere delle navi arabe ed amalfitane. V. VITALE, Genova ed Enrico VI di Svevia, in «Miscellanea di studi storici in onore di Camillo Manfroni», Padova, 1925, p. 89. 2 G. ROSSI-SABATINI, L'espansione di Pisa nel Mediterraneofinoalla Melona, Firenze, 1935, p. 47.

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Proprio per questa comune ragione tanto Pisa quanto Genova dovettero seguire con favore la conquista normanna, se non altro nelle sue prime fasi. Essa infatti, da un lato, giungeva opportunamente a fiaccare la potenza saracena, contribuendo alla lotta delle due repubbliche per un più ampio respiro sul Mediterraneo occidentale; dall'altro, spezzava «la continuità di quella linea costiera, che, abbracciando da Palermo a Gaeta in una sfera di interessi comuni i porti più importanti, aveva monopolizzato, о quasi, il commercio di quella zona»3. Così nel 1063 Ruggero, vincitore degli Arabi a Cerami, vide comparire in portu vallis Deminae, nella Sicilia nord-orientale, una flotta pisana, giunta di propria iniziativa a dargli manforte per la conquista di Palermo. E nello stesso anno i pisani catturarono una nave di Gaeta presso l'isola del Giglio. È vero che nell'impresa di Palermo, essendo mancato un accordo tra le due parti cristiane, - о per le eccessive pretese dei pisani о per il desiderio del sovrano di conservare soltanto a sé i frutti della vittoria, - l'azione tentata dai soli pisani si risolse in un insuccesso. Ed è anche vero che nella faccenda della cattura della nave l'offesa principale andava al regolo di Torres, il quale aveva chiamato i monaci, sorpresi sulla nave, a fondare un monastero. Rimane tuttavia in noi l'impressione d'un tentativo di Pisa per inserirsi nella torbida situazione dell'Italia del Sud, in appoggio, diretto о indiretto, ai nuovi conquistatori, sia per ottenerne garanzia per i propri nuclei commerciali ivi già esistenti, sia per inserirsi nel vuoto determinato dal declino arabo-amalfitano, sia per assicurarsi le vie marittime verso il Levante. Furono invece tempestosi i primi approcci tra i Normanni e Venezia, a causa dello scontro, sul basso Adriatico, tra la linea orizzontale dell'espansionismo normanno e quella verticale dei progressi veneziani sulla rotta per Costantinopoli. Le iniziative delle ostilità vennero prese dai primi, che nel 1075 si spinsero sulle coste della Dalmazia. Immediatamente ricacciati da una flotta veneziana, si rifecero poco più tardi sui possessi bizantini, impadronendosi di Durazzo e Corfù. La minaccia d'una strozzatura nel mare, che Venezia voleva come un proprio lago, determinò quell'alleanza veneto-bizantina che portò alla guerra del 1084-1085, alla sconfitta normanna, alla morte del Guiscardo. V. VITALE, Le relazioni commerciali di Genova col regno normanno-svevo. L'età normanna, in «Giornale storico e letterario della Liguria», n.s., Ili, 1927, p. 3. Cfr. anche M. CHIAUDANO, Genova e i Normanni. Note sulle relazioni tra Genovesi e Normanni dalla metà del secolo XII, in «Archivio Storico Pugliese», XII, 1959.

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Manca dunque in questo primo periodo, - e mancherà anche in seguito, - un orientamento comune delle tre massime repubbliche marinare italiane nei riguardi della situazione meridionale in fase di profondo rivolgimento. Ciascuna di esse agisce in funzione dei propri interessi specifici, della propria dinamica interna, della propria visione immediata del problema, anche se una certa convergenza d'intenti può determinare comportamenti paralleli, non concordati e solo temporanei, о se i nuovi conquistatori sono visti come un fattore positivo in qualcuna о come un pericolo in qualcun'altra; ed anche se il risultato finale della loro politica sarà quello di avere concorso a bloccare la conquista degli Altavilla entro le coste italiane. Manca soprattutto ai Normanni la chiara individuazione del problema dei rapporti con le città marittime del Nord, in una visione d'insieme che faccia intuire il peso che queste possono esercitare a vantaggio о a svantaggio della loro diaspora sulle nuove terre. Spinti dall'empito dell'azione, inesperti della complessità del gioco politico che si tesse e si ritesse nel Mediterraneo occidentale ed orientale, fiduciosi nell'autosufficienza della propria opera di rottura ed insofferenti d'interventi estranei, essi saggiano il terreno in direzioni diverse, in un processo espansivo che finirà per essere racchiuso entro i limiti imposti, in modo invalicabile, per la concordanza d'interessi circostanti, dalla funzione che sono chiamati ad assolvere nel quadro generale, ma non più in là. All'alleanza contro il Guiscardo non avevano partecipato i Pisani, fermi ancora all'atteggiamento filonormanno, di cui può trovarsi ulteriore manifestazione nell'episodio del 1094, quando una squadra di Ruggero accompagnò a Pisa Matilde, per il matrimonio con Corrado, re d'Italia. Ma già non molti anni più tardi è dato d'intravvedere un cambiamento negli orientamenti generali della politica pisana, determinato sia dal consolidarsi del dominio dei conquistatori che, riorganizzando e potenziando le flotte delle città campane, riprospettarono, in termini più gravi, il pericolo di quel blocco contro il quale Pisa aveva espresso il suo appoggio alla loro impresa, sia dalla necessità, per i Pisani, di controbattere, cercando altre alleanze, l'intervento di Genova la quale, partita più tardi, cercava di ricuperare rapidamente la situazione di svantaggio, buttandosi con decisione sull'area meridionale nei primi lustri del secolo XII. In questa mutata prospettiva s'inquadrano le amichevoli relazioni tra Pisa ed Amalfi, più volte ribelle al nuovo sovrano, - ma ormai avviata a fatale declino, - delle quali abbiamo una dimostrazione evidente nel 1111

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con la presenza di due personalità amalfitane, Γ arcivescovo Mauro ed il giudice Musco, nella stesura del trattato tra Pisa e Costantinopoli4. Agli spostamenti della politica pisana fa da contrappeso la più sottile continuità di quella genovese. I primi approcci dovettero svilupparsi gradualmente, in una trama metodica di relazioni più a livello d'iniziative personali di singoli mercanti che all'alto grado dei rapporti ufficiali, secondo un processo che emerge ad un certo momento in superficie in un episodio illuminante, solo in apparenza improvviso dopo un lungo silenzio. Nel 1116 il conte Ruggero concede ad Ogerio Capra, console genovese, ed a suo fratello, Amico, un terreno sulla riva del mare a Messina, presso il castello reale, per la costruzione d'una casa; la rendita annuale d'una libbra d'oro, con inizio dell'anno al I o settembre 1116; la libera esportazione di merci fino all'importo di sessanta tari aurei. Si tratta - è chiaro - d'una concessione personale; ma è nota la tattica d'una società mercantile, come quella genovese, di partire da posizioni di questo tipo per affermare successivamente e progressivamente l'intervento del Comune: tanto più, poi, nel caso specifico, quando l'operazione è volta a favore d'un membro del collegio dei consoli della Repubblica. Si tenga anche presente la scelta del luogo: Messina, a dominio dello stretto, prospettò immediatamente ai genovesi la propria importanza sia come base di transito sia come centro di penetrazione nell'isola. La concessione ad Ogerio e ad Amico dovette essere accompagnata, prima о piuttosto poi, da accordi, taciti о scritti, tra il sovrano normanno ed il Comune di Genova, dei quali si deduce l'esistenza dal successivo trattato del 1156-57, che accenna appunto ad usi e consuetudini di cui i genovesi godono nelle città del Regno fin dal tempo di Ruggero II5. Ed ancora un episodio appare significativo: quello della mediazione di Genova tra Ruggero e Savona, nel 1128, per il caso d'una nave savonese, catturata dalla marina del sovrano in seguito ad atti di pirateria da quella compiuti. Il diploma del 1116 fu dunque un atto di grande importanza, e perché è il primo, a nostra notizia, rilasciato dai conquistatori del Sud a G. CONIGLIO, Amalfi e il commercio amalfitano nel medioevo, in «Nuova Rivista Storica», XXVIII-XIX, 1944-45; G. GALASSO, // commercio amalfitano nel periodo nor­ manno, in «Studi in onore di Filangeri di Candida», I, Napoli, 1950; G. PISTARINO, Genova e Amalfi nei secoli XII-XV, in «Convegno Internazionale: Amalfi nel medioevo, 4-16 giugno 1973, Atti del Convegno», Salerno, 1977, pp. 285-348; G. SANGERMANO, Caratteri e momenti di Amalfi medievale e del suo territorio, Salerno-Roma, 1981 (bibliografia a pp. 119-121). 5 R. Di TUCCI, Relazioni commerciali tra Amalfi e Genova nei secoli XII-XV, in « Studi sulla Repubblica marinara di Amalfi», Amalfi, 1935, pp. 68-78.

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uomini d'una repubblica marinara italiana, e perché può assumersi quale esponente d'una nuova situazione in fase di sviluppo nel Mediterraneo occidentale. Il trattato tra Pisa ed Amalfi del 1126 si prospetta allora come una precisa risposta. Pisa assicura agli Amalfitani difesa e sicurezza sul mare; libertà di commercio; garanzia nel proprio porto per le navi dell'altra parte contraente che vi si rifugino in seguito ad avaria о perché inseguite о per fatti di guerra; agevolazioni per la riparazione dei navigli; imparziale amministrazione della giustizia in caso di controversia con cittadini pi­ sani6. Come con Amalfi, così i rapporti sono buoni, per non dire eccellenti, con Napoli, l'ultima città successivamente caduta in mano normanna. I pisani vi sono insediati stabilmente; vi esercitano influenza; vi godono credito presso la classe dominante, secondo che risulta dalla presenza d'un pisano al trattato del 1129 tra Napoli e Gaeta. Certo mancano testimonianze di atti diretti di ostilità da parte pisana verso la monarchia meridionale: probabilmente, anzi, Pisa fece di tutto per non compromettersi apertamente agli occhi dei nuovi signori. Ma appare logico che tra Pisa, territorialmente più prossima al Mezzogiorno e più palesemente vincolata alle città della costa campana ancora libere, e Genova, più lontana e prudente, il Normanno tendesse, come orientamento generale, ad appoggiarsi alla seconda, suscitando о accentuando velate reazioni della prima in senso opposto. Non vorremmo, con ciò, porre il problema in termini dirigorososchematismo. Non lo consentono, da un lato, la scarsità della documentazione, dall'altro, la costante mobilità delle società mercantili e la loro relativa indipendenza dalle posizioni diplomatiche ufficiali, il rapido mutare delle situazioni, la complessità d'un gioco politico che oscilla tra le repubbliche marinare del Nord, le città marittime del Sud, la nuova monarchia. Così, il famoso breve genovese del 1128 comprova che gaetani, napoletani, amalfitani e salernitani frequentano il porto di Genova, pagando una tassa di dodici denari a testa i primi, di diciotto denari gli altri: e si tratta delle più alte tassazioni di cui si abbia notizia7. Viceversa nello scontro tra genovesi e pisani del 1129, nelle acque prospicenti Messina, i messinesi parteciparono per i secondi, mentre i genovesi, impadronitisi della città, 6

G. ROSSI-SABATINI, Relazioni fra Amalfi e Pisa nel medioevo, in «Studi sulla Repubblica marinara di Amalfi», Amalfi, 1935, pp. 55-67; M. DEL TREPPO-A. LEONE, Amalfi medievale, Napoli, 1977. 7 Ediz. in H.P.M., Liber iurium Republicae Genuensis, I, 32; Codice diplomatico della Repubblica di Genova, a cura di C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, I, Roma, 1936.

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furono costretti da Ruggero a restituire ogni cosa ed a corrispondere il risarcimento dei danni. Comunque, un'esigenza apparve chiara ad un certo momento alla monarchia degli Altavilla: impedire ogni possibile collusione tra Gaeta, Napoli, Amalfi e le due massime repubbliche marinare del Tirreno. Lo scisma del 1130, che scompaginò il quadro generale anche nei rapporti intermediterranei, offrì al sovrano, incoronato da Anacleto II, l'occasione per eliminare le ultime libertà dei centri maggiori della costa campana, con la loro possibilità di relazioni economiche autonome in quelle correnti di traffico da cui dipendeva, per gran parte, la loro capacità di resistenza all'opera unificatrice della dinastia meridionale8. Amalfi venne assoggettata nel 1131: conservò il diritto di batter moneta e di governarsi secondo i propri statuti (donde la successiva fedeltà al conquistatore), ma dovette lasciare tutte le fortezze in mano al nuovo signore. Anche Napoli, a quanto pare, fece atto d'omaggio: salvo a ribellarsi nel 1132, quando scoppiò l'insurrezione nelle Puglie e nella Calabria. Inquadrandosi nella vicenda dello scisma, l'accordo tra Genova e Pisa in funzione antinormanna, nel 1133, rispose ad una sollecitazione religiosa, all'eloquenza di Bernardo di Chiaravalle, alle pressioni d'Innocenzo II, presente ora nell'una ora nell'altra città, ma era destinato a non portare ad un risultato duraturo per la divergenza delle linee politiche delle due città nei confronti del problema del Sud e per la stessa fragile validità della sua connessione al perdurare del conflitto tra il Papareschi ed il Pierleoni. Genova ricercava contropartite che non intaccassero la sostanziale continuità dei rapporti positivi col re di Sicilia, ma significassero un'affermazione di più alta potenza riguardo ai Pisani: di qui la richiesta del titolo di arcivescovo per il proprio ordinario diocesano, con l'assegnazione al medesimo, in qualità di suffraganei, dei vescovati còrsi di Accia, Mariana e Nebbio, più le diocesi di Bobbio e di Brugnato, di nuova creazione, e il monastero del Tino, nell'area lunigianese9. Pisa invece era portata ad intervenire direttamente e decisamente nel Regno in virtù delle non obliate relazioni con Napoli ed Amalfi, soprattutto in funzione antigenovese, per il timore d'un progressivo accerchiamento entro il Tirreno ad opera delle due grandi potenze del Nord e del Sud. Ottenuto quantorichiedevaad Innocenzo II, Genova approfittò dunque della mancata spedizione di Lotario da Roma verso il Mezzogiorno per 8

RF. PALUMBO, LO scisma del MCXXX, Roma, 1942. V. POLONIO, Dalla diocesi alVarchidiocesi di Genova, in «Momenti di storia e arte religiosa in Liguria», Fonti e Studi di Storia Ecclesiastica, III, Genova, 1963, pp. 5-52. 9

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richiamare le navi che, insieme a quelle pisane, avevano costeggiato il Lazio: si ritrasse in una velata posizione di neutralità sulla quale agirono certamente le promesse e forse il denaro del re, ma senza dubbio, in misura non minore, anche le prospettive dei propri traffici in espansione nel mercato meridionale e l'insanabile avversione a Pisa come costante profonda, al di sotto di ogni altra evenienza politica. Pisa invece concertò con Roberto di Capua un piano di operazioni per rimettere il principe sul trono, squassare il Regno per lo meno nell'area continentale, ricostruire il tessuto connettivo con le città della costa campana: se non con Amalfi, ormai fedele a Ruggero, almeno con Napoli. E si gettò in quel séguito di campagne navali che dopo due anni di guerra il 1134 ed il 1135 - videro la flotta pisana tornare in patria senza nessun acquisto positivo. Il Regno, nella sua struttura tra Sicilia e Mezzogiorno, costituisce ormai un'entità organica e funzionale che non è più possibile sopprimere e neppure erodere nei limiti che quella funzionalità ha raggiunto ed entro i quali si esplica. La prova evidente è rappresentata dal fallimento della grande lega del 1136 contro Ruggero, alla quale parteciparono Lotario e l'imperatore bizantino Giovanni II. L'intervento iniziale di Venezia, preoccupata dell'espansionismo normanno a Malta, alle Gerbe, nel NordAfrica, venne tosto annullato, a quanto pare, da un diploma di Ruggero che indusse i Veneziani a ritirarsi dalla lega probabilmente attraverso concessioni commerciali; più probabilmente ancora con precise garanzie per la libertà veneziana nell'Adriatico e sulle vie marittime per il Levante. Genova, come sempre, si tenne in disparte, intenta al maggiore impegno contro Pisa ed occupata nella spedizione su Bugea. Pisa stessa, ammaestrata dalle precedenti esperienze, si mosse con cautela in aiuto di Napoli, sottrattasi alla dipendenza dal re. Soltanto nel 1137, quando si tentò lo sforzo supremo, i pisani entrarono in forze nel golfo napoletano, favoriti ed appoggiati dalla spedizione di Lotario nel cuore del Regno, e convinti dell'ineluttabilità del successo. Occuparono Ischia e Sorrento; costrinsero Amalfi ed Atrani a dichiararsi vassalle dell'Impero; saccheggiarono Scala e Ravello. Poi si presentarono davanti a Salerno, già stretta d'assedio dagl'imperiali, dai napoletani e dai capuani. Per Ruggero fu un momento difficile. Perfino in Genova dovette correre il dubbio dell'eventualità d'una sconfitta della monarchia meridionale e porsi l'interrogativo dell'opportunità d'un accostamento ai possibili о presumibili vincitori. Si discute infatti se al blocco navale di Salerno intervenissero anche i Genovesi: ne dà notizia l'Annalista Sassone, mentre tacciono Carfaro e quasi tutte le fonti

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italiane. Le opinioni degli storici sono divise; la maggior parte propende per una risposta negativa. Non sembra tuttavia probabile che i Genovesi, pronti sempre ad approfittare d'ogni spiraglio d'inserimento vantaggioso nella maggiore politica internazionale, si straniassero da una vicenda, intessuta al massimo livello dalla partecipazione d'Innocenzo II, di Lotario e dell'Impero d'Oriente, in un momento in cui essa sembrava destinata al successo, e lasciassero agli odiati Pisani la possibilità di coglierne il frutto finale. Piuttosto è presumibile che, come in non poche altre circostanze, essi si attenessero ad un intervento indiretto, attraverso l'azione di privati armatori e di corsari. Non dimentichi del privilegio normanno del 1116 e dei traffici ormai attivi con la Sicilia, si posero nella felice situazione di uscire ufficialmente allo scoperto in caso di vittoria della lega; d'ignorare о di sconfessare, in caso d'insuccesso, l'iniziativa dei propri cittadini. Per questo il silenzio di Carfaro ci appare quanto mai eloquente. Nell'agosto di quell'anno, quando Salerno era stata occupata e resi­ steva soltanto la cittadella, i pisani strinsero accordi segreti con Ruggero ed abbandonarono l'assedio. Si può facilmente comprendere la ragione immediata del capovolgimento del fronte da parte di Pisa: Ruggero apriva anche ai pisani i mercati del Sud. Ma un peso notevole dovette esercitare, a Pisa, il timore di vedersi ancora una volta scavalcata da Genova in caso di vittoria della lega. Perduto il dominio del mare ed insorte nel frattempo le note discordie tra Innocenzo II e Lotario, scomparsi di scena prima Anacleto II, e poi Vittore IV, che rappresentavano un motivo di coesione per i loro avversari, le fortune della lega precipitarono. Nel 1139 tutte le città marittime dell'Italia meridionale erano ormai in saldo possesso di Ruggero, che venne reinvestito solennemente del Regno da Innocenzo II10. La prudente politica genovese si rivelava oculata nel momento della sconfitta della parte antinormanna: sconfitta che non venne a turbare i raporti economici di Genova col Regno. Da un documento del 1142, relativo alle funzioni del cintraco del Comune genovese, ricaviamo la notizia di un commercio d'importazione di grano dalla Sicilia; e dalla tariffa arcivescovile della decima, redatta nel 114311, abbiamo conferma del commercio Sembra che nel 1139 Venezia concludesse con Ruggero II un vantaggioso trattato commerciale, che durò tuttavia per pochi anni, perché i Veneziani interpretarono come un atto di ostilità anche contro di loro il fatto che il sovrano normanno, approfittando di una nuova crociata, partì all'assalto dell'Impero greco: G. CRACCO, Venezia nel medioevo, Torino, 1986, p. 47. 11 С IMPERIALE DI SANT'ANGELO, Codice diplomatico della Repubblica di Genova, I, Roma, 1936, pp. 141-147; L.T. BELGRANO, Il registro della curia arcivescovile di Genova, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», II. 2, 1862, p. 9; E. BACH, La cité de Gênes au XIIe siècle, Kobenhavn, 1955, p. 45.

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del grano, mentre apprendiamo l'esistenza di altri generi d'importazione; non si parla solo della Sicilia, ma anche della Calabria. Sicché riesce perfettamente logico trovare già nel 1150 numerosi genovesi a Messina, soprattutto a Palermo, dove essi, al pari di altre popolazioni straniere, appaiono costituiti in una vera università. Attraverso gli atti del 1116 con i genovesi Ogerio ed Amico, del 1136 о intorno a quel periodo con Venezia, del 1137 con Pisa la politica nor­ manna è riuscita a neutralizzare ed a rendersi amiche quelle che potrebbero essere le più pericolose avversarie: le grandi repubbliche marinare italiane. Le condizioni degli accordi con i Veneziani ed i Pisani sono ignote, ma intuibili, grazie anche al precedente di quelli con Genova. I Normanni aprivano agl'intraprendenti negozianti delle tre città i commerci del Regno; consentivano la Sicilia come base d'appoggio per il Nord-Africa ed il Levante, verso gli Stati crociati e la Romania', assumevano un atteggiamento d'equidistanza nei confronti della rivalità che già si esplicava in lotta aperta tra Genova e Pisa nel Tirreno, mentre si profilava in lontano orizzonte quella tra Genova e Venezia nell'area di Costantinopoli. Certo non potremmo asserire che non dessero ombra a Genova, a Pisa, a Venezia lo sviluppo crescente della marineria normanna (formata di musulmani, siciliani, amalfitani, napoletani, gaetani, baresi, tranesi e uomini degli altri porti dell'Italia meridionale), le sue imprese fortunate, anche se prive di risultati duraturi, nel Nord-Africa e nell'Oriente bizantino, taluni tentativi d'intervento nelle acque settentrionali dell'Occidente mediterraneo. Alcuni indizi sono significativi. Carfaro ricorda che nel 1140 «galee .11. Gaitanorum ad depredandum Ianuenses Provintiam vénérant. Ilico galee. IL Ianuensium armate fuerunt, et eas sequentes apud Arzentariam invenerunt, et unam preliando ceperunt, et cum hominibus ac cum tota preda, quam fecerant, Ianuam adduxerunt»12. L'occupazione normanna di Corfù nel 114713 vide alla riscossa, seppure in fragile alleanza, i Bizantini ed i Veneziani, sino alla riconquista dell'isola nel 1149 ed al suo ritorno all'Impero, mentre non ebbe seguito il progetto d'invasione della Sicilia. L'accordo di Porto venere tra Genova e Pisa, nello stesso anno 1149, appare a qualche storico in funzione antinormanna14, ed è certo, nonostante le riserve di altri15, che esso non Annali genovesi di Cajfaro e de' suoi continuatori, I, a cura di L.T. BELGRANO, Roma, 1890, p. 30. 13 S. ORIGONE, Bisanzio e Genova, Genova, 1992, p. 36. 14 C. MANFRONI, Storia della marina italiana dalle invasioni barbariche al trattato di Ninfeo, Livorno, 1899, p. 216. 15

V. VITALE, Le relazioni cit., p. 7; С. ROSSI-SABATINI cit., p. 58.

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poteva prescindere dal fatto che «intorno al regno normanno si raggruppa in questi anni la tela della nostra storia marinaresca»16. Le proposte dell'imperatore Corrado III nel 1151 a Pisa per un'azione anti-normanna, in alleanza con l'Impero bizantino17, trovarono accoglienza positiva, anche se con qualche riserva dilazionatrice e se la morte dello Svevo nell'anno successivo risolse tutto nel nulla. Comunque si tratta sempre d'intenzioni più che di fatti, di progetti e di azioni che sembrano fallire per casuale volgere di circostanze, ma che in effetti non approdano al concreto per mancanza di volontà, di un preciso disegno politico eversivo da parte delle nostre maggiori potenze marittime. Questi Normanni - è vero - possono dare fastidio; ma i vantaggi, che derivano dalla loro opera di unificazione dell'Italia del Sud e dall'impiego delle antiche marinerie locali più in azioni di potenza che in traffici mercantili, superano di gran lunga ogni aspetto negativo della loro espansione mediterranea. D'altra parte, se il Regno trova nelle correnti del traffico con genovesi, pisani, veneziani un motivo di ricomposizione unitaria nell'interno, dopo i secoli della diaspora, ed una collocazione funzionale nel quadro dell'Europa cristiana, protesa sull'intero Mediterraneo, la dinastia è destinata a pagarne il prezzo. Trattato dopo trattato, concessione dopo concessione, il Sud si subordina lentamente ai mercanti del Nord, soprattutto all'intervento genovese. È ormai interesse di Genova, di Pisa, di Venezia l'esistenza di questo blocco politico compatto delle terre meridionali, tra isola e continente, che consente ampiezza di orizzonti economici e sicurezza di transito. Non è altrettanto essenziale il permanere d'una medesima monarchia. All'una о all'altra о all'altra repubblica, nel quadro delle reciproche rivalità, о a tutte insieme per momentanea convergenza di intenti, può ad un certo momento apparire opportuno l'insediamento d'una nuova dinastia nel Mezzogiorno. Quando il processo di penetrazione economica avrà raggiunto un certo livello, l'atteggiamento delle città marinare del Nord di Genova innanzi tutto - avrà un peso politico sul destino degli Altavilla. *

*

*

Sotto questo aspetto assume un valore sintomatico la crisi determinata dall'intervento in Italia di Federico I di Hohenstaufen, con le sue 16

17

C. MANFRONI cit., p. 216.

Nel 1151 le forze di Manuele Comneno occuparono Ancona, rompendo il monopolio veneziano nell'Adriatico, e dando l'impressione del nemico alle porte: G. CRACCO cit., p. 48.

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aspirazioni sul Meridione. Di fronte alla conclamata volontà imperiale di eliminare i Normanni del Sud, come estranei all'ambito dell'Impero, e di cingere la corona del Regno, di fronte alla ripresa della lega antinormanna, capeggiata dal Barbarossa e sostenuta dall'imperatore d'Oriente, Manuele I, riaffiorano le linee politiche diversificate delle tre repubbliche marinare, dettate al tempo stesso da interessi e da convinzioni. Pisa si schierò con Federico, sia in virtù della propria adesione convinta all'Impero, sia in ragione dell'ostilità per Genova, sia nella rinnovata certezza - destinata a trasformarsi in inutile attesa - di operare la giusta scelta tra i futuri vinti ed i futuri vincitori. Così, a quanto pare, proprio alla sottile azione dei Pisani si dovette nel 1154 la rottura delle amichevoli relazioni esistenti da tempo fra la corte di Palermo e quella d'Egitto: donde una spedizione normanna contro Dannata, Rosetta, Tinnis, Alessandria, ed un successivo scontro vittorioso con una flotta greca. In realtà, esaminando attentamente la situazione, ci si avvede che si trattò, da parte pisana, più di manifestazione d'intenzioni о di operazioni indirette che di mosse concrete efficaci. Ma fu l'atteggiamento, in breve volgere d'anni, più gravemente dannoso, senza contropartita. Più che di Pisa, alla corte palermitana ci si preoccupò di Venezia e di Genova, rimaste invece in disparte: la prima perché sospettosa delle manovre bizantine su Ancona, rivolte a trasformare l'Adriatico in un mare greco; la seconda perché preoccupata delle pretese e delle manifestazioni assolutistiche del Barbarossa, sempre più impegnata nei traffici dei propri mercanti con il Regno, portata dall'insopprimibile antagonismo a spostarsi di continuo dalla parte opposta di Pisa. Tuttavia non poteva sfuggire all'accortezza di re Guglielmo I il pericolo di vedersi un giorno di fronte, oltre alle flotte pisana e greca, anche quelle genovese e veneziana. Gl'interessi delle due repubbliche e dell'Impero bizantino, con il quale i Genovesi concludono un trattato nel 115518, e le pressioni del Barbarossa su Genova potevano condurre a quel risultato inatteso, facendo superare sospetti e timori, in una momentanea convergenza politica. Forse era inutile trattare con Pisa, о le trattative - se vi furono non diedero risultato. Certo il gioco migliore per Palermo poteva svol­ gersi sulle rivalità fra le tre grandi città marinare; in modo particolare sull'antagonismo genovese-pisano, in modo da operare secondo la tattica dell'accordo con un amico lontano contro un nemico vicino, stringendo Pisa nella morsa tra Genova ed il Regno. Tutto ciò poteva costare un alto S. ORIGONE cit., p. 38.

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prezzo, soprattutto riguardo a Genova, pronta sempre a spremere sino in fondo ogni occasione; ma il re era disposto a pagarlo. Nel 1154 о 1155 un trattato venne concluso tra la corte di Palermo ed il doge veneziano, Domenico Morosini19. Si tratta d'una convenzione commerciale, della quale non conosciamo il contenuto: essa tuttavia appare come il compenso normanno per un impegno veneziano alla neutralità. Poi, tra il novembre del 1156 ed il gennaio del 1157, Guglielmo I stringe patti con Genova, le clausole dei quali possono riuscire illuminanti, per l'ampiezza delle concessioni, circa l'atteggiamento di estremo favore, per non dire di subordine, del sovrano nei riguardi delle due repubbliche, per lo meno nei riguardi di Genova. Il re garantisce salvaguardia e sicurezza ai genovesi ed ai distrettuali di Genova che frequentino i suoi domini, fatta eccezione per i pirati e per coloro che commettano atti ostili contro la Corona; promette sollecita giustizia agli uomini dell'altra parte contraente che subiscano danno dai suoi regnicoli; garantisce che eventuali ostilità individuali da parte genovese non renderanno nullo l'accordo. Con un diploma particolare conferma gli usi e le consuetudini di cui i genovesi godono, dai tempi di Ruggero II, a Salerno e nelle città della Sicilia, Calabria e Puglia; definisce le tariffe doganali a cui è soggetto il traffico genovese a Messina, Palermo, Agrigento, Mazara; garantisce che le navi dei mercanti di Genova non saranno bloccate nei porti del Regno se non quando e soltanto per il tempo in cui l'esercito reale stia per muovere in guerra, a meno che i naviganti si vincolino con giuramento a non diffondere notizie che possono danneggiare le operazioni della Corona; s'impegna a vietare l'accesso al Regno alle navi dei mercanti provenzali ed il commercio con la Provenza alle navi dei mercanti del Regno. Unico elemento restrittivo per Genova: il divieto di acquisto о noleggio di navi nel Regno da parte genovese senza il consenso del sovrano. Da parte loro i Genovesi, per sé e per tutti gli abitanti del distretto, da Portovenere a Ventimiglia, giurano fedele amicizia al re ed ai suoi successori; s'impegnano a non compiere contro di loro azioni ostili di qualunque sorta; garantiscono il divieto per chiunque dei loro di recarsi a prestare servizio presso l'imperatore di Costantinopoli contro re Guglielmo ed i suoi successori. Faranno sollecita giustizia, a richiesta dell'altra parte contraente, contro chiunque dei loro violi quest'ultima clausola. In caso di inosservanza dei patti da parte di uomini del Regno, i patti stessi rimarranno ugualmente in vigore, finché non vengano emendati di comune volontà. G. CRACCO cit., p. 48.

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L'accordo è interessante anche perché ci fornisce precise notizie sui principali generi d'importazione ed esportazione nel commercio tra il Regno e Genova. Da Messina si estrae grano: ed è concessione di cui fruiscono i soli genovesi. A Palermo si comperano in preferenza maiali. Dall'interno si ricavano cotone, pelli d'agnello, lana greggia e frumento. S'importano panni di lana. Si tratta di un traffico di notevole intensità: ciò è confermato dagli atti notarili a noi pervenuti, proprio per il periodo dal 1154 al 1164, con il cartulare di Giovanni Scriba dell'Archivio di Stato di Genova. A parte il regolamento tariffario per il traffico genovese nel Regno, i patti si basano su una reciproca convenienza, che comporta una reciproca concessione. I Genovesi salvaguardano il loro monopolio commerciale con la Provenza; i Normanni si garantiscono contro un possibile intervento genovese in Levante a loro danno. È chiaro comunque che la bilancia del dare-avere pende a favore di Genova, della sua libertà di azione nel Mediterraneo occidentale, della sua economia monopolistica. Non si fa parola dell'Impero occidentale, che già va premendo contro la Sicilia: i Genovesi, convenuti alla dieta di Roncaglia del 1154 e disposti a riconoscersi fedeli all'Impero stesso, sia pure con larga possibilità di azione autonoma, non potevano assumere impegni contro il proprio supremo sovrano. Ma se anche nulla fu messo per iscritto, il trattato comportava comunque una sorta di obbligo morale, sostanziato di concreti interessi economici, da parte genovese, a favore della Corona normanna, alla salvezza della quale contribuirono appunto in quella circostanza la resistenza passiva di Genova riguardo ai progetti imperiali, come pure l'accordo trentennale normanno-bizantino del 1158. L'atteggiamento genovese apparve chiaro all'acuirsi della crisi: nella vicenda della fuga da Roma di papa Alessandro III nel 1161, quando il pontefice venne scortato a Genova da navi siciliane e da Genova a Mageloně, in Francia, da navi genovesi, nonostante le richieste di Federico I che voleva avere il papa in propria mano. Apparirà più chiaro ancora poco tempo più tardi, in occasione dell'accordo tra Genova e l'Impero del giugno 1162, strettamente collegato, nel quadro politico, a quello tra l'Impero e Pisa dell'aprile del medesimo anno. *

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Poiché non conosciamo il testo dell'accordo stipulato tra Ruggero II e Pisa nel 1137, non sappiamo se, e fino a quale punto, la scelta di condotta politica antinormanna da parte pisana dopo quasi cinque lustri di relazioni

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normali, se anche non sempre amichevoli, venisse a rompere gl'impegni assunti. Comunque il trattato con l'Impero dell'aprile 1162 sembrò aprire finalmente ai Pisani le più rosee prospettive. Federico prometteva «piena esenzione d'imposte e di dazi in Sicilia, in Calabria, in Puglia e nel Principato quando l'avesse conquistato; infeudò loro tutto il litorale da Civitavecchia a Porto Venere, invadendo così i confini dello stato pontificio e della repubblica di Genova, e dando loro il diritto di escludere dai propri porti quei popoli, che loro non piacessero; promise loro la metà di Palermo, di Messina, di Salerno, di Napoli e dei loro porti e territori colle rispettive rendite; più le intere città di Mazara e di Trapani, e in ciascuna altra città una strada con case. Promise pure che non avrebbe fatto né pace, né tregua con Guglielmo senza il consenso dei Pisani, e si riservò solo di determinare la stagione più propizia per l'impresa navale, promettendo anche di combattere contro i Genovesi, se questi avessero assalito i Pisani, e di espugnare Porto Venere per darlo a questi. I Pisani dal canto loro prestavano giuramento di fedeltà all'imperatore, promettevano di aiutare colle loro navi le sue imprese, di intraprendere sotto i suoi ordini una spedizione nel reame normanno, di aiutarlo a conquistare la Sicilia, la Puglia, la Calabria e il Principato di Capua con quelle maggiori forze navali che avessero potuto; di non far pace né tregua con Guglielmo e coi suoi successori; di non abbandonare per nessuna ragione l'esercito imperiale, e infine, se l'imperatore ordinasse di fare la guerra a Genova, di intraprenderla con tutte le forze loro e di aiutarlo nella conquista di quella città e del suo territorio»20. Non crediamo che l'accordo dell'Impero con Genova del successivo mese di giugno fosse una diretta conseguenza di quello con Pisa: cioè che i Genovesi, saputo di quest'ultimo, si affrettassero a correre ai ripari, mettendo in piedi in fretta e furia un patto analogo con il Barbarossa. Crediamo piuttosto ad una politica del doppio binario da parte imperiale; a trattative condotte contemporaneamente'con le due città, in una sorta di stimolo alla reciproca concorrenza, e giunte a conclusione con Pisa prima che con Genova, proprio per poter premere ulteriormente su questa e vincerne le obiezioni e la resistenza. Che a Genova non si fosse entusiasti della stipulazione dell'accordo, almeno per la parte antinormanna in esso contenuta, risulta infatti da una frase del cronista Oberto Cancelliere, quando accenna all'ambasciata inviata nel 1164 a Federico per sapere «utrum imperator vellet, aut ad quem terminům, facere exercitum quem civitas nostra super Guilielmum, regem Sicilie, invita et coacta facere promiserat»21. 20

С. MANFRONI cit., pp. 228-229.

21

Annali cit., p. 157.

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Con gli accordi (che formalmente si configurano in un diploma imperiale) del 9 giugno i Genovesi «ottennero la promessa di avere, ad impresa finita, la città di Siracusa con tutti i suoi dintorni, duecentocinquanta feudi nel vallo di Noto о nel territorio del conte Simeone, figlio naturale del re Ruggero, e in ogni città esenzione completa da tutte le imposte, una strada, un fondaco con diritto di amministrarli a loro modo. Né basta; che l'imperatore prometteva di escludere dal commercio della Sicilia e della Calabria i mercanti provenzali e anche i Veneziani, se non si fossero riconciliati con lui, e intanto dispensava i Genovesi da ogni gravezza, riconosceva il loro dominio da Monaco a Portovenere, lasciava loro libertà di governarsi come meglio credevano e si contentava solo d'un atto di puro omaggio. Gli obblighi dei Genovesi erano solo di aiutare Federico nella spedizione in Sicilia con la loro armatura; e quantunque in atto posteriore essi promettessero di far la guerra contro i Saraceni, facevano però riserva pel re di Marocco, col quale non volevano combattere, prima che fossero trascorsi gli otto anni, che ancora doveva durare il patto conchiuso con lui»22. Non potremmo sostenere che i due trattati, quello con Pisa e quello con Genova, fossero tra loro in contraddizione о che l'imperatore largisse le medesime promesse all'una e all'altra città. Dal punto di vista delle spartizioni territoriali, infatti, le cose sono tenute distinte; così pure per quanto riguarda, in senso stretto, i vantaggi commerciali. Ma la clausola che prevedeva la possibilità di un attacco genovese a Pisa, con il compenso della cessione, in tale caso, di Portovenere ai Pisani, e quella che sanciva l'esclusione dei mercanti veneziani dal commercio con la Sicilia e la Calabria, qualora Venezia non fosse venuta ad un accordo con l'Impero, riflettevano e, al tempo stesso, stimolavano i contrasti profondi che dividevano le tre repubbliche marinare ed esprimevano in fondo, contro le intenzioni imperiali, l'impossibilità di dare una pratica attuazione alla conquista della Sicilia con il concorso congiunto pisano-genovese. Le reazioni provocate a Palermo dal trattato imperiale-pisano sono note: il re s'impadronì delle persone e degli averi dei sudditi della repubblica e ne sequestrò le navi. Non si ha invece notizia di analoghe rappresaglie contro i genovesi; anche se non si trova più, nel cartulare di Giovanni Scriba, dopo il gennaio 1162, nessun atto commerciale relativo al Regno normanno, mentre si sa «che durante questo tempo le navi di 22

C. MANFRONI cit., pp. 229-230. Cfr. anche Т.О. DE NEGRI, Storia di Genova,

Milano, 1974, pp. 282-292.

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Genova per evitare i mari siciliani navigavano lungo la costa occidentale della Corsica e della Sardegna e quindi, oltrepassate Pantelleria e Malta, costeggiavano l'Africa settentrionale verso Alessandria»23. Si direbbe che le due parti fossero in posizione di attesa: re Guglielmo non procede nel Regno contro i genovesi nella certezza о nella speranza che il loro trat­ tato con l'Impero sia destinato a rimanere inoperante, come puro atto di diplomazia contingente; i genovesi, a loro volta, si astengono dal frequen­ tare i mercati del Sud nel timore che gli eventi possano, nonostante tutto, precipitare, con l'attuazione della spedizione imperiale in Sicilia, con о senza la partecipazione di Genova. Si spiega così la loro sollecitudine nel voler sapere, attraverso l'ambasceria del 1164 al Barbarossa, se, ed eventualmente quando, si sarebbe fatta la famosa impresa: onde porre fine ad uno stato di dannosa incertezza. La mancanza di atti notarili dal 1164 al 1179 non ci dà modo di conoscere fino a quando perdurasse la stasi dei rapporti commerciali tra Genova ed il Regno: comunque Genova cercò di rifarsi in qualche modo attraverso il trattato del 1165 con Roma, tornata all'obbedienza di papa Alessandro III, ottenendo piena franchigia nel porto di Corneto e concedendo libero accesso in Genova ai Romani ed agli abitanti del loro territorio per la vendita delle loro merci. La clausola, che prevedeva l'esistenza di tale facilitazione fino ad un triennio dopo la conclusione della pace con Pisa e con il re di Sicilia, dimostra, da un lato, tutta la complessità della situazione, dall'altro, il perdurare dello stato di belligeranza legale col Regno. Ma già nel 1166 la promessa di favori commerciali da parte di Sancio VI di Navarra, fratello della reggente della Corona di Sicilia, la regina Margherita, al Comune genovese, perché stringesse una lega coi Normanni contro l'Impero, rivela un primo momento di evoluzione nel quadro politico generale. *

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I vantaggi, che Pisa si riprometteva dall'adesione alla parte federiciana ed in vista dei quali subì le rappresaglie di Guglielmo I contro i suoi cittadini e le sue navi, si risolsero nel nulla. Fino al 1167 la città visse in attesa della spedizione, continuamente rimandata, mentre Genova aveva sùbito approfittato, già nel 1162, dell'attacco mosso ai propri mercanti in Costantinopoli dai pisani, uniti ai veneziani, per considerarsi non più strettamente vincolata dagl'impegni sottoscritti col trattato del 9 giugno. V. VITALE, Le relazioni cit., p. 16.

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Le azioni di guerra marittima, i contrasti per la Sardegna, gli scontri sulle coste provenzali tra le due repubbliche italiane del Tirreno e il conseguente schieramento genovese in favore di papa Alessandro III rendevano impossibile all'Impero la spedizione siciliana con l'appoggio delle due flotte riunite. Non sappiamo se la diplomazia di Palermo avesse parte attiva nell'intorbidare la situazione, agendo sottobanco per fomentare questo stato di crisi. È certo comunque che i re di Sicilia si trovarono al riparo dalle manovre del Barbarossa finché quest'ultimo, avuto l'esercito decimato da una grave pestilenza, abbandonò il progetto dell'impresa nel 1167. La situazione era capovolta. Se prima era toccato al Normanno ricercare amicizia e sostegno presso le grandi città marinare disposte ad ascoltarlo, sia pure con richieste non lievi, ora toccava alle potenze marittime del Nord muoversi verso Palermo, per restaurare gli antichi traffici, riprendere la reciproca concorrenza, riattivare l'opera di penetrazione e di subordinazione economica del Regno. Il quale, a sua volta, nonostante le fratture ed i rancori del passato, non poteva rinunciare agli attivi mercanti di Genova, di Pisa, di Venezia, straniarsi dalle correnti del traffico mediterraneo, indebolire le proprie strutture nel declino dei commerci. Poteva - е ю fece - tenere alto l'onore della bandiera e approfittare della mo­ mentanea eclissi dell'azione imperiale mostrando reticenza alle trattative, prolungandone la discussione, mandando a casa a mani vuote una prima volta tutte le ambascerie e costringendole al ritorno, prima di giungere al­ l'accordo. In fondo in fondo era la rivincita della monarchia, pervasa del senso della propria maestà sacrale, di fronte a queste società di mercanti, disposti a tutto, о quasi tutto, per il guadagno. Pisa si fece avanti per prima, già nel 1167, con la legazione del console Bulgarino Anfossi. Poi, nel 1168, arrivarono alla corte siciliana i genovesi, con il console Bellamuto, Rogerone di Castro ed Amico Grillo, su invito del re Guglielmo - dice l'annalista Oberto Cancelliere - per concludere la pace. Fu un nulla di fatto per l'una e per gli altri: le fratture erano ancora troppo recenti perché potessero venire rapidamente sanate. Appare evidente, dallo stesso serrato susseguirsi delle due ambascerie, che Pisani e Genovesi miravano a sopravvanzarsi reciprocamente nel riprendere la concorrenza commerciale sui mercati del Mezzogiorno, aspirando, gli uni e gli altri, al ristabilimento dello status quo ante. Ma se per Palermo la pace poteva riuscire più agevole con i Pisani, delusi nella lunga fiducia per la politica antisiciliana del Barbarossa, più duramente provati dalle contromisure messe in atto dal re e meno esosi nelle richieste avanzate e nelle concessioni ottenute in occasione dei patti precedenti, non altrettanto

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poteva dirsi riguardo ai rapporti normanno-genovesi, per la stessa deci­ sione di Genova nel voler giungere, prima о poi, alla conferma integrale degli accordi del 1156-57, se non a qualcosa di più. Si aggiunga, per la corte siciliana, la convenienza di condurre trattative parallele - ma con la difficoltà о l'inopportunità di condurle in porto contemporaneamente con Genova e con Pisa, più che mai tra loro rivali, e la probabile diffidenza suscitata dalle trattative che portarono all'accordo genovese-bizantino del 1169. Così, nel giugno di quest'anno, il patto venne concluso tra Guglielmo II e Pisa per opera del console Gerardo di Cortevecchia, giunto a Palermo nel precedente mese di maggio. Ignoriamo quali fossero esattamente le clausole del trattato: è certo, comunque, che la Repubblica dovette riottenere i suoi antichi fondaci e che l'amicizia normanno-pisana dovette diventare operante anche su posizioni о attraverso atteggiamenti antigeno­ vesi. Ne danno sentore due episodi: quello dell'armata navale di re Gu­ glielmo che nel 1170, presso l'isola del Giglio, liberò una galera pisana, divenuta preda di due galere corsare liguri24, e la protesta dei Genovesi che nel 1172, in un colloquio con l'arcivescovo Cristiano di Magonza, gli rinfacciarono apertamente: «Nos (...) Constantinopolis imperatoris dona nobis transmissa (...) maiestatis imperialis intuitu sprevimus, et regni Siculi omnia renuimus, quoniam in ipsorum amborum pace vel conventione videbatur quodammodo honor Imperii decrescere»25. Sia che le trattative con Genova venissero interrotte, sia che continuassero in qualche modo nascostamente, la situazione fu sbloccata, in certo senso, per Genova dall'intervento di Venezia, il quale venne a riprodurre, questa volta a vantaggio genovese, quello che era stato, a vantaggio di Pisa, il parallelismo delle trattative diplomatiche pisane e genovesi alla corte di Palermo. Nel 1173 giunse infatti nell'isola un'ambasciata veneziana, composta da Enrico Dandolo e Giovanni Badoer, per la nuova stipulazione di un accordo. Era una mossa conseguente all'ostilità in atto tra Venezia e Costantinopoli per il trattamento subito dai veneziani nella capitale dell'Impero a partire dal 1168 e per l'invadenza bizantina nell'Adriatico con epicentro in Ancona: una mossa che poteva trovare accoglienza favorevole presso Guglielmo II, deciso a sua volta ad impedire l'egemonia greca L'episodio è riferito dall'annalista genovese Oberto Cancelliere (Annali genovesi cit., p. 236). Il Manfroni (op. cit., p. 246) lo considera «un caso strano», ritenendo che l'armata di re Guglielmo tenesse per sé la galera pisana tolta ai corsari liguri. Ci sembra invece che il fatto debba intendersi diversamente. 25 Annali cit., p. 247.

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sul basso Adriatico e sul mar Ionio, soprattutto ora che il pericolo d'un intervento militare del Barbarossa nel Sud era svanito e che lo stesso imperatore offriva segretamente in moglie, secondo ciò che narra Romualdo Salernitano, una delle proprie figlie. D'altra parte, non ci si poteva non preoccupare a Palermo della necessità di determinare, attraverso la concorrenza, una sorta di equilibrio all'intervento delle grandi repubbliche del Nord nella situazione economica del Regno, considerando la posizione di quest'ultimo a cavallo di due mari e la sua funzione come punto di convergenza di grandi linee politiche tra l'Occidente cristiano-romano, l'Oriente cristiano-bizantino, il Mezzogiorno islamico. Così, nel 1174, mentre rimangono sospese о con­ tinuano le trattative con Venezia, giunge in porto l'accordo con Genova, cronologicamente e diplomaticamente prioritario rispetto a quello vene­ ziano, in seguito a due successive ambascerie del console Ottobono degli Alberici. Esso venne firmato sulla base delle clausole della convenzione del 1156-57, senza modificazioni. L'intervallo, assai più lungo per Genova che per Pisa e, come si vedrà, per Venezia, tra la prima legazione a Palermo e la conclusione dei patti, rispecchia la complessità della situazione, il divario tra le richieste genovesi e la disponibilità normanna, la lentezza del processo di decantazione dei rancori, delle diffidenze, delle preoccupazioni. È possibile che Genova tentasse di andare oltre le clausole del 1156-57, assicurandosi il riconoscimento, da parte siciliana, di alcune situazioni di privilegio, garantitele dal diploma federiciano del 1162: ad esempio, la limitazione al commercio dei veneziani, oltreché dei provenzali. È possibile, d'altra parte, che la corte normanna non intendesse rinnovare tutte le concessioni del trattato precedente: ad esempio, anche il blocco dei rapporti di traffico con la Provenza. Nell'ignoranza dei fatti, possiamo soltanto supporre che il ritorno ai trattati del 1156-57 rappresentasse una soluzione di compromesso tra opposte richieste, in vista anche delle trattative tra Palermo e Venezia. Le quali ultime giunsero infatti in porto nel 1175, attraverso un duplice trattato, politico e commerciale. Il primo concerneva un'alleanza ventennale, difensiva ed offensiva, contro l'Impero bizantino. Il secondo concedeva ai veneziani la riduzione del 50% sulle tariffe stabilite dagli accordi del 1155; piena libertà di movimento nei porti del Regno, fatta eccezione per i corsari e per coloro che avessero portato aiuto all'Impero greco. A parte gli elementi politici, più о meno contingenti, un dato fonda­ mentale accomuna Pisa, Genova e Venezia nei riguardi della monarchia

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del Sud: la nuova penetrazione dei mercanti delle tre repubbliche nel mercato meridionale, con la loro funzione vivificante, ma al tempo stesso condizionante, nella storia del Regno. *

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Seguono anni di pace. Incidenti determinati da atti pirateschi, ora a danno dell'una, ora dell'altra parte, non turbano i rapporti tra il Regno e Pisa: i più difficili tra quelli intrecciati dai Normanni con le repubbliche marinare italiane. Con Venezia un solido elemento di coesione è rappresentato dalla posizione antibizantina di entrambi gli alleati. Coi Genovesi le relazioni sono eccellenti, come rivelano due episodi, riferiti dagli annalisti cittadini. Nel 1177 galere siciliane approdano a Genova a prendere in consegna la principessa Giovanna, figlia di Enrico II d'Inghilterra, promessa sposa di Guglielmo II; nel 1181 vi giunge la flotta reale, diretta all'impresa contro Maiorca, al comando di Gualtiero di Moach, e sosta per tutto l'inverno nel porto di Vado. È l'anno stesso in cui Genova stringe un accordo con l'emiro di Maiorca: possiamo pensare ad un'intesa tra Genovesi e Normanni per una spedizione antislamica e ad una ritirata di Genova dal progetto, e quindi all'accordo con Maiorca, in seguito alla pestilenza che in quello stesso anno desolò gravemente la città? Sappiamo anche di genovesi che vengono a stabilirsi in Sicilia: è sintomatico il caso di Nobile Barbonoso, che Guglielmo II nomina suo feudatario, nel 1185, regalandogli una casa in Messina ed assegnandogli una libbra d'oro sul tesoro reale. D'altra parte l'eccellenza delle relazioni genovesi-normanne è ampiamente documentata dagli atti notarili dell'Archivio di Stato di Genova per il periodo degli anni Ottanta. I porti della Sicilia e dell'Italia meridionale compaiono ai primi posti per frequenza di numero, per entità di capitali impiegati, per rinomanza di persone, nei contratti di accomendacio e di societas pervenuti sino a noi. Non disponiamo di un analogo materiale per Pisa e per Venezia. Sappiamo tuttavia che anche Pisa, come Genova, concentra il suo maggiore interesse sulla Sicilia, via obbligata, oltre tutto, per il Levante, mentre Venezia attua i contatti più importanti con i porti delle Puglie. Non dobbiamo lasciarci trarre in inganno dalla disorganicità delle fonti: dalla relativa ricchezza delle carte notarili genovesi; dalla povertà della documentazione pisana e veneziana. La penetrazione e Γ atti vita, mercantile delle nostre maggiori città marittime nel mercato meridionale furono un fenomeno di grandi proporzioni, come risulta indirettamente dagli stessi trattati a livello di governo: un fenomeno che andò al di là delle vicende della monarchia

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normanna per inserirsi come una costante nella storia del Mezzogiorno al di sopra о al di sotto dei fatti dinastici26. Una riprova dell'intreccio dei rapporti del Regno con le repubbliche marinare italiane si ha nel 1185 quando alla spedizione normanna contro l'Impero greco, che qualche storico vuole addirittura stimolata dai Ge­ novesi27, partecipano marinai genovesi, pisani e, a quanto pare, corsari veneziani. Ma è anche, questo, l'ultimo episodio rilevante di una stretta collaborazione di tutto il nostro mondo marinaro, in vista di un'azione comune. La ripresa dei disegni del Barbarossa sul Regno con le nozze tra Enrico IV e Costanza nel 1186 pone la premessa per una prossima crisi di tutto il sistema di accordi che ha determinato un rapporto di pacifico equilibrio tra il Regno e le repubbliche marinare. Venezia, preoccupata dell'alleanza matrimoniale normanno-sveva, si schiererà con Costantinopoli. Pisa sarà sollecitata a riprendere le vecchie posizioni filoimperiali. Genova, sospettosa di Pisa e vincolata all'Impero, finirà anch'essa per accogliere le mani «largas et plenas vento» del nuovo imperatore28. L'intervento dell'Impero provocherà di nuovo una crisi in quello che era l'assetto progressivamente raggiunto, attraverso alterne vicende, sul piano politico-economico. Non sarà in gioco il Regno, unificato in una propria funzione di tale alto livello, nel regresso dell'Islam e nell'avanzata cristiana, che lo stesso Enrico VI progettò di fare della Sicilia l'epicentro di un impero euro-mediterraneo e che, comunque, assegnò al Mezzogiorno una prospettiva autonoma tra Oriente ed Occidente, contro ogni tentativo annessionistico, da qualunque parte. Sarà la crisi della dinastia degli Altavilla, la quale, adempiuto un compito di unificazione e restaurazione, è destinata a cedere il passo. Rimasta come un velo di antichi conquistatori Si tengano presenti, per una prima informazione, oltre alle opere già citate: CARABELLESE, Relazioni commerciali tra la Puglia e la Repubblica di Venezia, Trani, 1897; P. NARDONE, Genova e Pisa nei loro rapporti commerciali col mezzogiorno d'Italia tra la fine del secolo XII e gl'inizi del XIII, Prato, 1923; V. VITALE, Genova nel secolo XII, in «R. Liceo-Ginnasio C. Colombo. Annuario 1923-24», Genova, 1925, pp. 6-33; E. BYRNE, Genoese shipping in the twelfth and thirteenth centuries, Cambridge, 1930; E. BACH, La cité de Gênes cit.; H.C. KRUEGER, Genoese merchants, their partnership and investment, 1155 to 1164, in «Studi in onore di Armando Sapori», Milano, 1957, pp. 255-272; M. CHIAUDANO, Genova e i Normanni cit., pp. 73-78. 27

28

V. VITALE, Le relazioni cit., p. 23.

L'espressione è di OTTOBONO SCRIBA: Annali cit., II, Roma, 1901, p. 46. In realtà i Genovesi, indipendentemente dalle promesse ricevute e poi andate deluse, si schierarono dalla parte che ritenevano di poter considerare vincente, soprattutto dopo che il matrimonio di Enrico ГѴ con Costanza ebbe mutato radicalmente i termini del problema meridionale, sia sul piano legittimistico sia su quello politico.

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sopra un paese sostanzialmente estraneo, fondata sul principio di autorità in una configurazione intimamente statica, priva dell'interno sostegno d'una classe mercantile indigena, non sarà in grado di reggere all'urto d'una generale coalizione d'interessi, sia pure momentanea, quando le vengano meno la tensione ideale della creazione politica, la compattezza del nucleo regale, la saldezza delle istituzioni, soprattutto quando si trovi schierate di fronte le due massime potenze marinare del Tirreno. Certo molti problemi rimangono aperti. Fu vantaggio о danno per il Regno il conflitto pisano-genovese nel Mediterraneo occidentale? Fino a che punto gli nocquero il taglio dei rapporti con la Provenza, imposto dalla politica genovese, e la proiezione genovese e veneziana verso l'Im­ pero bizantino, in profondo antagonismo sia entro se stesso sia verso le aspirazioni degli Altavilla in direzione della Grecia, dell'Africa, del Medi­ terraneo orientale? Quale peso esercitarono sulla politica occidentale del Regno la penetrazione genovese nella penisola iberica, la spartizione della Corsica tra Genova e Pisa, il conflitto tra Genovesi e Pisani in Sardegna? *

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I rapporti delle repubbliche marinare italiane con i Normanni del Sud, sostanziati di traffici, d'insediamenti umani, di trattati diplomatici, si at­ tuano con una gradualità progressiva che è in funzione degli sviluppi della conquista e del consolidamento della monarchia, delle vicende storiche di Pisa, Genova, Venezia, del quadro politico internazionale. Presentano una serie di fluttuazioni, attraverso le quali si possono scorgere talune costanti. Pisa e Genova dapprima vedono entrambe con favore lo stanziamento dei nuovi conquistatori nel Mezzogiorno continentale ed insulare, come rottura della potenza araba e della solidarietà d'interessi, in senso monopolistico, dei centri costieri da Palermo a Gaeta. Successivamente Pisa assume più volte posizione ostile, in adesione ai tentativi meridionalistici dell'Impero e per contrapposizione a Genova, la quale mantiene, entro i limiti del possibile, una più costante linea filonormanna, in funzione dei lunghi sviluppi dei traffici orientali e della complementarietà dei mercati, mentre Venezia considera il problema innanzi tutto in ragione della libertà dell'Adriatico veneziano e dei rapporti con Costantinopoli. Gli accordi tra la Corona ed i Genovesi, i Pisani, i Veneziani, nel corso del secolo XII, aprono il Meridione, in misura diversa, ai mercanti delle tre repubbliche, soprattutto ai genovesi in Sicilia, con clausole di favore. Si trovano di fronte due mondi antitetici: da un lato, una monarchia forestiera, di tipo gerarchico-burocratico, conservatrice del potere nel carattere

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sacerdotale del monarca, improntata ad un senso giuridico-strutturale dello Stato; dall'altro, una diasporica società di mercanti, agile, spregiudicata, volta all'interesse economico del momento, aliena dal rigore degli schemi formali e, soprattutto per quando riguarda Genova, tanto lontana dalle appariscenze esteriori quanto dinamica ed aperta nei suoi processi di sviluppo. Originato dalla ricomposizione di antichi domini bizantini, longobardi, arabi, il Regno del Sud trae dall'attività dei mercanti del Nord, che trovano in esso lo spazio aperto, un fattore di unificazione interna e di riconnessione all'Europa della cristianità occidentale. Ma, al tempo stesso, la monarchia degli Altavilla, priva di una visione mercantilista di respiro internazionale ed incapace di assorbire ed utilizzare nella globalità dello Stato i fatti economico-sociali di provenienza esterna, preoccupata di usare la flotta, derivata dalle antiche marinerie locali, essenzialmente in funzione d'una politica di prestigio e di conquiste militari, disposta о costretta talora ad accettare sfavorevoli posizioni di contrattualità commerciale con le repubbliche del Nord, non scandisce un ritmo di sviluppo adeguato all'incalzare dei tempi. Al di sotto delle manifestazioni di splendore e del fascino che queste esercitano su di noi, dell'abilità di singoli sovrani, della grande impresa della costituzione d'un regno unitario, cristiano-latino, in un'area disgregata, in massima parte greco-scismatica о islamica, si avvia quel processo di compenetrazione e di erosione economica del Sud da parte del ceto imprenditoriale del Nord (in primo piano i genovesi in Sicilia), che apparirà scopertamente più tardi in tutta la sua profondità e che sarà la ragione non ultima della ricorrente debolezza del nostro Mezzogiorno.

II Nella Storia del commercio dei popoli latini del Mediterraneo sino alla fine delle crociate Adolfo Schaube colloca «l'Italia meridionale e la Sicilia sino alla fine della dinastia normanna» nella sezione che s'intitola: Le regioni d'Italia prevalentemente passive nei riguardi commerciali1. Scrive l'Autore: «L'Italia meridionale e la Sicilia, rese autonome soltanto dai tempi dei Normanni e costituite ad unico regno nel 1130 ad opera di Ruggero II, erano paesi di somma importanza per le grandi nazioni commercialmente attive, non solo per la ricchezza dei loro prodotti, ma A. SCHAUBE, Storia del commercio dei popoli latini del Mediterraneo sino alla fine delle crociate, traduz. di PIETRO BONFANTE, Torino, 1913, p. 547.

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anche e principalmente come stazioni di passaggio, di cui difficilmente avrebbero potuto fare a meno pei loro commerci in più lontane regioni». Nella sua opera The two Italies David Abulafia traccia il ritratto di due Italie, proprio in epoca normanna: una del Sud, come agricola e pastorale, ed una del Nord, dalla crescente struttura industriale, basata in parte sullo sfruttamento commerciale del Sud2. Sembra esservi un'implicita contraddizione tra il giudizio, in sé positivo, della raggiunta autonomia unitaria nell'Italia del Sud, peninsulare ed insulare, grazie alla costituzione della monarchia degli Altavilla, ed il giudizio, negativo о riduttivo, insito nella collocazione di quest'area tra le regioni italiane prevalentemente passive nei riguardi commerciali: in altre parole, tra il giudizio in prospettiva politico-territoriale e quello in pro­ spettiva économico-mercantile. In realtà, contraddizione non c'è, in quanto non è detto che la risoluzione di un problema politico sia di conseguenza anche un fatto ugualmente valido in sede economica. Ci chiediamo invece se effettivamente si possa accettare il giudizio dello Schaube e, in fondo, anche dell'Abulafia sul Mezzogiorno d'Italia come area mercantilmente passiva; se, in caso di risposta affermativa, la costituzione del Regno si sia effettuata già su una situazione cosiffatta, oppure se non l'abbia essa stessa determinata, oppure ancora se non abbia accelerato ed approfondito un processo già in atto. Il regno di Ruggero II rappresenta un momento cruciale non soltanto nella storia politico-territoriale, economico-sociale, culturale e religiosa dell'intero bacino del Mediterraneo. Se noi avessimo sott'occhio un atlante storico delle rotte e dei traffici di questo mare, ci accorgeremmo, voltando pagina tra la seconda metà del secolo XI e la metà del XII, dei profondi mutamenti intervenuti nelle strutture economiche, sia per il bacino occidentale sia per quello orientale, in conseguenza dei mutamenti nell'assetto politico dell'Italia meridionale e della Sicilia. In parte si tratta di modificazioni già in corso di sviluppo da tempo, in seguito all'espansione normanna del secolo XI e al regresso delle forze locali, bizantine, arabe; in grande parte, però, il processo viene accelerato e portato a compimento dall'azione di Ruggero II per la costruzione dello Stato dinastico al di qua e al di là dello Stretto. La politica espansionistica della monarchia verso le terre dell'Impero greco e verso il Nord-Africa si effettua sul piano militare-territoriale, come politica di conquista per l'ampliamento dei confini del Regno. Non nego 2 D. ABULAHA, The two ¡talies, Cambridge, 1977; ediz. italiana con note introduttive di G. GALASSO, Le due Italie, Napoli, 1991.

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che essa mirasse, in sostanza, approfittando della centralità mediterranea, a creare un dominio sul mare, con epicentro in Sicilia, secondo un disegno che sarà poi ripreso come fondamentale da Enrico VI, e che si proponesse pertanto d'indebolire il potenziale marittimo tanto bizantino quanto nordafricano, di stimolare le attività economiche entro il Regno e di tutelare le linee del traffico navale. Basterà ricordare quanto scrive Pietro di Cluny, intorno al 1140-41, sulla generale sicurezza di cui godevano «nel dominio di Ruggero (...) i mercanti carichi di denaro e di svariate mercanzie e tutti coloro che vi si trattenevano ovvero vi passavano per recarsi altrove», oppure tenere presente il trasferimento in Sicilia dei Setaioli di Tebe in occasione della spedizione del 1147 nell'Egeo. Ma l'eccessiva ampiezza del disegno, rispetto alle forze intrinseche del Regno, la mentalità di tipo territoriale-terriero con cui venne impostato, l'utilizzazione delle strutture marinare delle città costiere per le imprese militari, le tensioni nei rapporti politici esterni, ora con Costantinopoli, ora nel Nord-Africa, le stesse alterne vicende delle relazioni con le Repubbliche italiane del Nord (soprattutto con Pisa e con Venezia) portavano fatalmente a risultati riduttivi in sede di potenziale marittimo-mercantile autonomo. Tutto ciò potrebbe apparire contraddittorio per una dinastia uscita anticamente da una stirpe di grandi navigatori. Ma la contraddizione si risolve quale fatto logico nella costruzione di una monarchia come organismo politico-territoriale ed istituzione di carattere sacrale, a cui sono condizionati, ed anche sacrificati, taluni fattori economici di base. I nuovi signori, filtrati attraverso la esperienza feudale francese, preferiscono la campagna ed il castello alla città, alla quale si sentono sostanzialmente estranei e nella quale sono costretti, più di una volta, ad intervenire militarmente per domare la rivolta: la vita cittadina è condizionata da mentalità agraria ed autarchica, economicamente subordinata alle scelte della classe fondiaria; la centralizzazione dello Stato si basa sull'impiego delle armi, sui punti di forza dei capisaldi baronali, sull'organizzazione burocratica, sul gioco di equilibrio tra le varie componenti etnico-religiose. Il Regno presenta un'unità formale; ma, nel profondo, l'unità e la coesione sostanziali non sono raggiunte, né si può dire raggiunto, neppure nel corso del secolo XII, l'affiatamento concorde tra la classe dominante, giunta come conquistatrice, e la popolazione locale, in toto o nelle sue componenti. Differenze di stirpe, di lingua, di religione, di tradizioni, di mentalità sussistono a lungo tra le genti del Sud: il processo di latinizzazione, iniziato con l'avvento normanno, è lento e faticoso, e può dirsi bene avviato soltanto all'epoca di Guglielmo I.

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L'azione di Ruggero II, per ritornare al nostro tema, non pone al centro il fatto mercantile, ma, pur intuendone l'importanza e facendogli spazio, soprattutto ai fini fiscali, lo subordina e lo trascende entro gli schemi di un disegno che, non essendo concepito con mentalità marinara, solo in apparenza è congeniale alle esigenze del mercato: cioè la costruzione di un dominio marittimo tra il Mezzogiorno e l'Africa, il Mediterraneo occidentale e l'orientale. In questa struttura ed a questi fini l'elemento mercantile indigeno non trova libera espressione. Le antiche forze autonome locali sono costrette ed indirizzate ad un fine spesso ad esse non congeniale, compresse entro la linea centripeta che fa capo alla Corona, tagliate о de­ bilitate nelle antiche propaggini orientali-bizantine, meridionali-islamiche, finanche settentrionali-italiane. Il vuoto, che ne deriva, viene colmato dal­ l'apparato mercantile del Nord, in vigorosa fase di espansione e pronto ad inserirsi nelle deboli strutture del Regno del Mezzogiorno. Sicché, mentre ancora nella seconda metà del secolo XI le rotte occidentali, genovesi e pisane, per l'Oriente, girano al largo della Sicilia, a metà del secolo XII una carta geo-economica del Mediterraneo ci presenterebbe il Regno come un bastione al quale si appoggiano ed intorno al quale s'intrecciano, specialmente in Sicilia, le linee di navigazione mercantili, che sono in massima parte genovesi, pisane, veneziane; in parte minore, regnicole о di altre nazioni. La domanda, che qui ci poniamo, ed alla quale non siamo però in grado di dare risposta, in mancanza di documentazione adeguata, riguarda il risultato, in termine di dare ed avere, in quel settore economicofinanziario, essenziale per ogni formazione politica, che si chiama bilancia dei pagamenti. Nell'area pugliese Bari, Trani, Brindisi e Taranto erano, come si sa, le piazze marittime di attività più intensa. Primeggiava Bari, legata da antichi rapporti di traffico con il mondo bizantino: ricordiamo che ancora sulla fine del secolo XI i baresi sono presenti a Mira, nell'Anatolia meridionale, mentre in una lettera-modello della nota Ars dictandi della Biblioteca Nazionale di Vienna, lettera che si finge scritta da un mercante genovese (siamo nel quarto decennio del secolo XII), si parla di un viaggio a Costantinopoli in navi Barensium. Altre città esplicavano i loro commerci soprattutto con le opposte sponde greche dell'Adriatico. Sappiamo della esistenza di linee di navigazione tra i porti delle Puglie e le città costiere della Dalmazia: possiamo assumere come emblematico il trattato del 1148 tra Molfetta e Ragusa, con la reciproca concessione di franchigia da ogni tassa di navigazione e di commercio. È indubbio, tuttavia, che in questo settore gravano, in senso riduttivo dell'attività marittima a lunga distanza,

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l'antica eredità della pressione islamica e la recente massiccia ipoteca di Venezia, mentre riesce di danno la politica antibizantina della Corona. Nell'area campana Gaeta, Napoli, Amalfi e Salerno tenevano il primato con più ampio respiro. Ancora nel secolo XI e principio del XII gli Amalfitani spaziano in lungo ed in largo per il Mediterraneo: li troviamo a Genova, a Pisa, nella penisola iberica, nel Nord-Africa, nell'Adriatico, nel Levante sino a Costantinopoli. Anche i mercanti di Gaeta compaiono nella capitale greca, mentre quelli di Napoli e di Salerno si limitano in genere alle acque del Mediterraneo occidentale. In Calabria emerge nel secolo XII Policastro, lodata da Edrisi come piazzaforte grande e popolosa: la quale però non tanto esplica una propria attività marinara quanto si presenta come base di approdo e di commercio per le navi genovesi e pisane. In Sicilia il movimento più vivace di traffico si svolge a Messina, a Palermo, a Sciacca; ma dobbiamo ricordare anche Trapani, Mazara ed Agrigento. Nel corso del secolo XI il flusso più intenso dei rapporti transmarini s'intreccia con l'opposta sponda africana, nell'area libico-tunisina; non mancano tuttavia correnti di scambio con l'Egitto ed anche qualche legame con l'area dell'Impero greco. In tutti questi porti, dove più dove meno, si attua, nel corso della prima metà del secolo XII, un graduale processo di sostituzione, in virtù del quale le navi di Venezia, di Genova, di Pisa affermano la loro presenza massiccia di fronte alle marinerie locali. Nei riguardi del Regno con Venezia la situazione è strettamente connessa a quella dei rapporti veneziani con l'Impero greco, dove la Repubblica gode, fatta eccezione per momenti di contrasto, di un particolare status di favore - in seguito già al crisobollo del 992, rafforzato da quello del 1080 - anche rispetto alle città pugliesi e ad Amalfi. Nell'ottica veneziana i centri marinari delle Puglie presentano un molteplice interesse: come antiche piazze del commercio bizantino, da tenere sotto controllo; come basi di appoggio alla navigazione adriatica sia verso il Levante sia verso il Mediterraneo occidentale; come propria supremazia sui piccoli Comuni marittimi della costa occidentale dell'Adriatico, i quali, ad eccezione di Ancona, stringono patti con la maggiore Repubblica, riconoscendone sostanzialmente il protettorato e stabilendo con essa reciproci rapporti di libertà di navigazione e di traffico. Questa linea costante della politica marittima e commerciale veneziana viene a scontrarsi con le due componenti della politica normanna, rappresentate dall'espansionismo territoriale sull'opposta sponda adriatica e dall'atteggiamento antibizantino, concretatosi nelle spedizioni orientali delle forze militari regie. Il trattato barese-veneziano del 1122 assume il

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significato di un epigono dei rapporti autonomistici pugliesi con Venezia: direi quasi di un ultimo tentativo compiuto da una città marinara delle Puglie per inserirsi attivamente nel flusso mercantile veneziano verso il Mediterraneo e l'Oriente3. Già nel 1127 l'ascesa di Ruggero II al ducato di Puglia crea ripetuti momenti di tensione con Venezia, dando l'avvio ad una situazione d'instabilità per i commerci e gli approdi pugliesi, come pure siciliani, delle navi veneziane. Ricordiamo l'episodio sintomatico del 1135, quando gl'inviati della Repubblica si presentarono alla corte imperiale nella dieta di Merseburg per lamentarsi del fatto che il re li aveva depredati di merci per un valore di 40.000 lire; о addirittura il periodo dal 1144 al 1159 per il quale, in conseguenza del conflitto normannobizantino, non si trovano contratti per Г Apulia e la Sicilia nelle raccolte documentarie veneziane. Tutto ciò potrebbe anche apparire come il segno di una politica protezionistica reale a favore della propria marineria mercantile: in realtà è soprattutto un aspetto dell'attività normanna, intesa a stringere i rapporti con Venezia in favore della costruzione del potere della monarchia, inserendo un cuneo nei rapporti veneziano-bizantini, minacciando la chiusura del canale d'Otranto, dirottando la diplomazia della Repubblica dal campo degli accordi diretti con le città del Regno a quello dei trattati, a livello giuridico superiore, con la curia regia. Se effettivamente Ruggero ed i Veneziani stipularono un accordo intorno al 11394, esso si colloca in un quadro di questa specie, in virtù del quale il sovrano tende ad assorbire, livellare ed annullare nel proprio disegno politico le antiche posizioni delle autonomie locali; utilizza la borghesia mercantile forestiera come supporto della dinastia; vincola i mercanti del Nord, ai quali apre porti e mercati, alle fortune della casa degli Altavilla. Appare significativo il fatto che nel 1144 il re insedia formalmente i Veneziani nella stessa'Sicilia, concedendo loro in Palermo una chiesa nel quartiere di Seralkadi. È certamente una situazione già attuale nel secolo XI quella delle rotte di collegamento marittimo-commerciale tra i porti delle città campane ed i porti di Genova e di Pisa. Tuttavia una documentazione concreta di una certa ampiezza si ha soltanto all'epoca di Ruggero II, quando il sistema dei rapporti marittimi tra le singole città campane e le Repubbliche del Nord sta per essere modificato, direi quasi sconvolto, dalla politica del Sugli avvenimenti del 1122 cfr. G. CRACCO, Venezia nel medioevo, Torino, 1986, pp. 45-46. 4

G. CRACCO cit., p. 47.

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sovrano, diretta ad inglobare, anche con la forza delle armi, gli antichi ducati nelle strutture del regno. Per Genova il «breve recordacionis (...) de dacito quod debent dare forici homines qui veniunt Ianuam pro mercato», assegnato al 1128, ma che riflette senza dubbio la situazione della fine del secolo XI5, ci consente di disporre di qualche punto fermo circa i suoi contatti via mare col Mezzogiorno, anche se, con ogni probabilità, questi contatti erano più ampi ed articolati, nel terzo decennio del secolo XI, di quanto appaia dal breve: conosciamo infatti il conservatorismo delle codificazioni legislative ed amministrative rispetto all'evoluzione delle situazioni concrete. Ciò che ci preme sottolineare è il fatto che si tratta qui non dei mercanti del Nord che frequentano le piazze del Sud, ma dei mercanti del Sud che frequentano le piazze del Nord. Troviamo elencate nel breve le note città della costa campana: Gaeta, Napoli, Amalfi, Salerno. Le navi, che fanno la spola, tengono la rotta 5

II breve deve considerarsi, a nostro avviso, non come lariformulazionedi un unico provvedimento precedente, andato smarrito archivisticamente, ma come la codificazione a posteriori di un sistema di tariffe adottato via via col tempo, secondo il progressivo sviluppo dei traffici genovesi, probabilmente in via unilaterale per quanto riguarda la prima tabella, dove emerge un solo centre specificamente individuato (Barcellona); con accordi bilaterali per le città singolarmente indicate nella seconda tabella (per tutte о per alcune). Esso riflette quindi un insieme di situazioni economico-politiche scaglionate e diversificate nel tempo; ma sarebbe estremamente arduo ricostruire la cronologia delle varie componenti. Tuttavia soltanto questo procedimento potrebbe chiarire in modo convincente il perché di talune anomalie. Secondo H. SIEVEKING (Studio sulle finanze genovesi nel medioevo, trad, italiana di O. SOARDI, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», XXXV, 1, 1905, p. 8) le tasse, di cui al breve del 1128, molto probabilmente «hanno origine nelFll 0 secolo, essendo calcolate in denari pavesi, che a Genova furono sostituiti fin dal 1102 dai bruneti4». Mentre riteniamo effettivamente possibile, soprattutto per quanto riguarda le tariffe della tabella I, che nel breve si conservino regolamentazioni addirittura di epoca notevolmente anteriore, pensiamo che una serie di accordi tra Genova ed alcune delle città marinare occidentali, soprattutto liguri, che sono ricordate nel breve, dovettero essere stipulati in occasione della prima crociata. Si tenga presente che nel 1104 Baldovino, re di Giudea e di Gerusalemme, concedette esenzioni doganali ai Genovesi e, con il medesimo diploma, agli abitanti di Savona, di Noli e di Albenga (Codice Diplomatico cit., η. 15); che nel 1109 Bertrando di Saint Gilles favorì congiuntamente i Genovesi, i Savonesi, i Nolesi, gli Albenganesi e tutti gli abitanti tra Nizza e Portovenere, nonché ogni lombardo che trafficasse con loro (Codice Diplomatico cit., n. 24). La data del breve, il 1128, rientra nel periodo in cui il Comune di Genova intraprende una propria precisa strutturazione amministrativa. Nel 1122 viene fondata la prima cancelleria: Annali genovesi di Caffaro e de' suoi continuatori, a cura di L.T. BELGRANO, Roma, 1890, p. 18. Cfr. anche G. COSTAMAGNA, Il notaio a Genova tra prestigio e potere, Roma, 1970, pp. 123-135.

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costiera, per il Lazio, la Toscana e la Riviera ligure di Levante, oppure si muovono-direttamente per pelagus, appoggiandosi alla Sardegna ed alla Corsica. Stando alle indicazioni del breve, Salerno sarebbe l'ultima stazione del Mezzogiorno ad avere collegamenti più о meno regolari con il porto genovese. Tuttavia già nel 1143, dalla tariffa delle decime spettanti all'arcivescovo di Genova, apprendiamo che si prelevava un quartino di grano per ogni persona sui carichi di cereali provenienti dalla «Calabria». È in atto dunque, nel quinto decennio del secolo XII, una rotta marittima tra Genova e l'estremo Mezzogiorno peninsulare. Ma si tratta di una rotta gestita prevalentemente da navi meridionali, oppure, invece, già battuta, per la massima parte, da navi genovesi? Propenderei per la seconda ipotesi, in armonia con l'inversione di tendenze che si verifica, nel medesimo periodo, per i porti delle città campane. Sino al 1131, cioè sino a quando Amalfi non viene inclusa definitivamente nelle strutture del Regno normanno, per subire poi, nel 1135, il grave colpo infertole dai Pisani, che, partecipi della lega contro re Ruggero, sono ben lieti di approfittare di una situazione contingente per ferire un porto rivale, essa dovette essere una delle principali, se non addirittura la principale piazza di collegamento tra il Mezzogiorno tirrenico ed il porto genovese, in un traffico gestito in buona parte dagli stessi amalfitani. I quali, insieme con i commercianti della Costiera, sono alla base di una grande rete connettiva nel commercio interno del Mezzogiorno e della Sicilia e nel movimento di esportazione-importazione via mare: li troviamo numerosi in Puglia, dove praticano il traffico del vino e dell'olio a Bari e dove sono proprietari d'immobili a Brindisi; sono presenti a San Germano, a Melfi, a Capua; occupano posizioni di privilegio a Benevento; s'incontrano numerosi a Napoli; hanno vaste ramificazioni in Sicilia, dove godono di una propria strada commerciale tanto a Palermo quanto a Messina. È evidente che con Genova essi trafficano sia nei prodotti del Mezzogiorno, di cui sono i grandi incettatori, sia in quelli provenienti dai mercati oltremarini con i quali sono in contatto. Il declino della linea Amalfi-Genova nel quarto decennio del secolo, in conseguenza dei fatti politico-militari a cui ho accennato, è un fenomeno che presenta un duplice aspetto: una riduzione del traffico a vantaggio di Salerno e l'inversione di tendenza, per cui ai mercanti delle città campane presenti nel porto genovese si sostituiscono i mercanti genovesi presenti nei porti campani. A partire dal quarto-quinto decennio del secolo XII non c'è più notizia della presenza di amalfitani a Genova, mentre nel trattato genovese-normanno del 1156-57 Salerno figura come l'unica piazza specificamente ricordata in sede mercantile, quasi che essa sola funga ormai

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da capolinea (о da capolinea principale) nel traffico marittimo tra Genova ed il Mezzogiorno continentale. Anche il movimento sulle linee GenovaGaeta e Genova-Napoli risulta pressoché nullo nel medesimo periodo di tempo, secondo la documentazione offerta dal cartulario del notaio genovese Giovanni Scriba6, mentre tanto Napoli quanto Gaeta emergeranno fra le carte dell'amministrazione finanziaria genovese a partire dalla fine del secolo, sino ad assumere nel Duecento la posizione di punti chiave del commercio di Genova con il Sud, gestito dai genovesi. Per Pisa l'esistenza di linee di traffico di notevole importanza con i centri della costa campana è documentata chiaramente dal trattato di amicizia e commercio pisano-amalfitano del 1126 e, verso la metà del secolo, dalla tabella pisana dei prestiti marittimi, la quale fornisce un'indicazione sicura sulle piazze frequentate dai pisani non occasionalmente, ma con regolari linee di navigazione: Napoli, Amalfi e Salerno in Campania; Policastro in Calabria. Anche qui, ad una fase più antica, che vede gli amalfitani presenti sul mercato di Pisa, com'è attestato dal trattato del 1126 (dal quale veniamo a conoscere l'esistenza di magazzini amalfitani in Pisa), subentra una seconda fase, che vede la situazione capovolta. Il momento ed il motivo della transizione sono rappresentati, sostanzialmente, come ho già detto, dall'inclusione di Amalfi nel regno di Ruggero nel 1131, dalla spedizione pisana contro Amalfi normanna nel 1135, e dal conseguente spostamento della linea del traffico pisano su Napoli, ancora libera, sebbene già minacciata anch'essa dall'espansionismo normanno. L'accordo tra Pisa e Ruggero II nel 1137 rientra nel quadro politico degli Altavilla, che si viene sovrapponendo, nella propria logica di costruzione dello Stato, in Campania come nelle Puglie, alle strutture autonomistiche locali, ed al quale anche i Pisani, come i Veneziani, si adeguano, traendone motivo di vantaggio. I parallelismi non sono casuali. Nel 1122 abbiamo il trattato bareseveneziano; nel 1136, a quanto pare, un trattato veneziano-normanno. Nel 1126 c'è il trattato amalfitano-pisano; nel 1137, l'accordo pisano-normanno. Nel complesso le rotte marittime non mutano, né mutano i capilinea del Mezzogiorno. Mutano la intensità dei traffici; la posizione del ceto mercantile locale rispetto al forestiero; la funzione del porto pugliese о campano nel trapasso dal tornaconto mercantile in sede autonoma all'e­ sigenza del superiore interesse del nuovo Stato monarchico accentratore, nel quale le possibilità di emergenza di un ceto imprenditoriale locale non 6

M. CHIAUDANO-M. MORESCO, // cartolare di Giovanni Scriba, voi. I, Torino, 1935;

M. CHIAUDANO, Il cartolare di Giovanni Scriba, voi. II, Torino, 1935.

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trovano spazio e vengono soverchiate dal potenziale del Nord, che entra, con una propria logica, nel gioco complesso della dinastia normanna. *

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Tunisi, Mehdia, Alessandria erano i principali punti di approdo delle navi che dalla Sicilia, ancora dopo la conquista normanna, e da Amalfi si dirigevano verso le coste del Nord-Africa. S'importavano in Egitto ed in Barberia legnami, metalli, pece; si esportavano le spezie provenienti dall'India e dall'Indonesia, i prodotti dell'industria tessile dell'Oriente e dell'Africa stessa, le seterie di Gabes. Particolarmente vivace, il commercio del grano dall'area nord-africana a quella siciliana e viceversa, a seconda del raccolto più favorevole nell'una о nell'altra zona. Sulla fine del secolo XI il traffico tra il Mezzogiorno ed i principati saraceni del Nord-Africa è probabilmente più intenso di quello tra questi ultimi e qualunque paese cristiano dell'Occidente. Siamo ancora nella scia dell'eredità della Sicilia musulmana, del predominio delle flotte islamiche nel Mediterraneo sino agli albori del basso medioevo, della gravitazione del nostro Mezzogiorno nel campo economico del mondo musulmano, con Amalfi alla testa tra i porti delle città campane. Ruggero II non intese scientemente - penso - dissipare un'eredità cospicua: la tutela del flusso commerciale tra le coste campane e la Sicilia, da un lato, l'opposta sponda africana, dall'altro, dovette annoverarsi tra i motivi delle sue aspirazioni sulle terre del principato degli Almoavidi, poi degli Almoadi. Sennonché le azioni militari su una parte del Nord-Africa coinvolsero l'intera rete dei commerci nord-africani in frequenti sussulti nel movimento dei traffici, ed anche là dove misero capo, negli ultimi anni del governo del sovrano, a risultati positivi sul piano della conquista territoriale, si risolvettero in un fallimento già con il suo immediato successore. È appena il caso di menzionare, in alcuni momenti sintomatici, le fasi alterne di questa politica económico-militare di Ruggero II, con diverso atteggiamento verso l'area dei Fatimiti e verso quella degli AlmoavidiAlmoadi. Ricordo l'ambasceria del sovrano all'emiro Ali nel 1118 per reclamare merci e denari sequestrati a Mehdia, ed il rinnovo del trattato di pace col signore di Kairwan nel 1121; il blocco commerciale dell'Africa e la spedizione di Gregorio di Antiochia nel 1123, per rappresaglia della spedizione di Abu Abdallah ben Nimun su Nicotera nell'anno precedente; la concessione reale ai salernitani, usi frequentare il mercato di Alessandria, di una riduzione delle tasse commerciali, nel 1137, in modo da adeguare queste ultime a quelle corrisposte dai siciliani; il trattato commerciale stipulato con l'Egitto nel 1143, il primo a noi pervenuto tra quelli

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conclusi da quel principato con una potenza dell'Occidente cristiano; le operazioni di guerra nel settore libico-tunisino, che, iniziate nel 1135 con la conquista delle isole Zerbe e del gruppo Karkenah, portarono alla presa di Sfax nel 1143-44, di Tripoli nel 1146, di Mehdia, Gabes e Susa nel 1148. Nel 1152 tutte le città marittime dalla Sirti sino a Bona, con la sola eccezione di Tunisi, sono in mano di Ruggero. Certo, tra una fase e l'altra dei conflitti noi abbiamo notizia di navi regnicole che frequentano i porti del Nord-Africa: come quella del monaco Giovanni della Cava о quella di Pietro Sfaglila di Salerno, che intorno al 1125 approdano rispettiva­ mente a Mehdia ed a Tunisi. E se dal volontario esilio presso le corti musulmana di Spagna e d'Africa il maggiore poeta della Sicilia araba, Ibn Hamdis, esprime la nostalgia per la sua terra natale e muove aspri rimpro­ veri per i correligionari rimasti sotto il dominio degl'infedeli7, certo non abbiamo ragione di dubitare su quanto scrive Ibn-el Athir sulla prospe­ rità di Tripoli in mano normanna, con la frequenza delle navi siciliane e, in genere, cristiane, nel suo porto8; come non possiamo sottovalutare la presenza di Idrisi alla corte di Palermo quale segno di quella che è stata definita l'intimità delle relazioni di Ruggero coi Saraceni9. Ma il crollo di questo dominio africano degli Altavilla non è che un aspetto - il più visibile - di un mutamento avvenuto in profondità, e non nella sola area libico-tunisina. Le tensioni politiche e militari tra il Regno ed il mondo nord-africano, la stessa politica di Ruggero, aperta, per il rafforzamento della monarchia, alle istanze dei mercanti del Nord, anche nelle terre conquistate sull'opposta sponda, favorirono ed accelerarono il processo di espansione dei mercanti delle Repubbliche nord-italiane sia nel Regno sia 7

Ibn Hamdìs, nato a Siracusa intorno al 1055, lasciò, poco più che ventenne, l'isola natia, di fronte alla conquista normanna. E l'unico poeta arabo di Sicilia di cui ci sia giunta l'opera completa: il suo Divano. Cfr. F. GABRIELI, Ibn Hamdìs, in «Delle cose di Sicilia», Palermo, 1980; M.G. STASOLLA, Italia euro-mediterranea nel medioevo: testimonianze di scrittori arabi, Bologna, 1983, pp. 205-208. 8 Ibn-el Athir, vissuto in Mesopotamia ed in Siria, tra la fine del sec. XII e l'inizio del XIII, è l'autore di un'immensa opera storica, intitolata Kitab al-Kamilfì 't-ta' rìkh {La storia perfetta), in cui è raccontata, in forma annalistica, la storia del mondo musulmano sino al 628 dell'egira (1231): M.G. STASOLLA cit., pp. 180-204. 9 II poligrafo arabo al-Idrisi (sec. XII), più noto come geografo, compose la sua opera: Nuzhat al-mushtäqfi ikhtiräq al-afăq (Lo svago per chi ama percorrere le regioni) per volere di Ruggero IL Questo "Libro di Ruggero" è forse la più alta testimonianza della vitalità e della fecondità culturale della corte normanna in un momento di rara simbiosi tra Islam e Cristianità. Cfr. IDRISI, // libro di Ruggero, a cura di U. RIZZITANO, Palermo, s.d.; M.G. STASOLLA cit., pp. 105-138.

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nell'area islamica d'oltremare, a scapito dell'attività del ceto mercantile del Mezzogiorno. Se è vero - come è stato scritto - che la vittoria della flotta genovesepisana a Mehdia del 1087 «pose le fondamenta della potenza che il commercio pisano e genovese in progresso di tempo raggiunse nelle parti centrali dell'Africa settentrionale» e che «queste imprese non incepparono il commercio coi Saraceni, anzi agirono sul suo sviluppo come uragani salutari», come pure se è vero che la prima crociata agì da incentivo nello sviluppo dei commerci occidentali con l'Egitto, è anche vero che, tanto nel settore occidentale quanto in quello orientale del Nord-Africa, soltanto con la prima metà del secolo XII la presenza dei mercanti di Genova, di Pisa e di Venezia si fece davvero consistente. Beniamino di Tudela nomina i veneziani alla testa delle nazioni mercantili cristiane rappresentate ad Alessandria d'Egitto. Il già citato epistolario della Biblioteca Nazionale di Vienna suppone un traffico intenso dei genovesi in Egitto, mentre nella tariffa genovese delle decime del 1143 sono ricordate le navi genovesi che giungono ad Alessandria; nel maggio 1151 i consoli di Genova vietano l'esportazione di armi, parti di navi e legname per la costruzione delle galere nei paesi saraceni; il cartulare di Giovanni Scriba del 1154-64 contiene un numero di atti relativi al commercio dei genovesi con l'Egitto, che è inferiore soltanto a quello degli atti relativi al commercio con la Sicilia. L'abate islandese Nicola Saemundarson, passando per Pisa durante il suo viaggio per la Terrasanta intorno al 1151, vide nel porto della città navi provenienti dall'Egitto; un trattato commerciale pisano-egiziano venne stipulato nel 1154 ed uno scritto contemporaneo dell'emiro di Alessandria ricorda la presenza, già antica, dei pisani in Egitto ed i loro guadagni. Non possediamo dati numerici che ci consentano di tracciare tabelle di confronto. Dalle notizie frammentarie in nostro possesso si ha però un'impressione che direi abbastanza fondata: tra l'inizio e la metà del secolo XII il rapporto, nella presenza nel commercio nord-africano, tra i regnicoli, soprattutto gli amalfitani, da un lato, ed i veneziani, i genovesi ed i pisani, dall'altro, ha subito una notevole variazione a favore dei secondi. *

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Il migliore punto di osservazione è comunque la Sicilia: questo mi sembra essere il settore in cui più evidente appare il fenomeno della penetrazione mercantile dal Nord proprio durante il regno di Ruggero, anche in conseguenza dell'ancora abbastanza recente trapasso del potere nell'isola

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da mano islamica in mano cristiana e dello sconvolgimento che una tale vicenda non poteva non determinare anche a distanza di tempo. In Sicilia gli immigrati dalle repubbliche marinare italiane del Nord assurgono alla prevalenza. «Grecs et musulmans sont en effet expulsés des cités et des bourgs fermés - à d'assez nombreuses exceptions près; leur statut juridique, le servage, s'apparente à une servitude généralisée, et les oppose vigoureusement à la liberté des habitants des villes et des bourgs, liberté armée, car les maisons des bourgeois latins immigrés constituent la première ligne de défense du château, le baglio des petits bourgs, comme à Vicari (...). Désarmés, privés de tout droit politique, réduits à une simple tolérance religieuse, les "vilains" grecs et musulmans sont associés et confondus dans la pensée des Latins: ils sont les habitants des casaux, soumis aux taxes les plus lourdes et aux humiliations politiques. Et pourtant le statut social ne coïncide nullement, lui, avec le statut politique, juridique et religieux: il s'agit en effet d'une paysannerie orientale riche, qui dispose d'unités d'exploitations vastes - en peu moins étendues que le manse syro-palestinien, mais de rendement sans doute supérieur -, de cultures spécialisées destinées au marché urbain, et qui paye ses taxes en or (...). Les dirigeants des républiques maritimes italiennes ont perçu la nature coloniale de l'Etat sicilien et projeté son démembrement: Génois et Pisans ont prévu d'obtenir des villes, des quertiers privilégiés, et même des provinces entières où établir sur des fiefs de chevaliers leur noblesse»10. Quando nel 1116, con un atto divenuto ormai famoso, Ruggero concedette ai genovesi Ogerio Capra ed Amico una terra sulla riva del mare a Messina, presso il castello reale, per costruirvi una casa, più la rendita annuale di una libbra d'oro e la libera esportazione di merci fino all'importo di 60 tari d'oro, non si trattò di un semplice episodio, in sé circoscritto. È il segno che la via è aperta; che Genova mette od ha messo un piede sullo stretto; che le navi genovesi possono liberamente adottare questo percorso, più rapido, per il Mediterraneo centro-orientale; che i mercanti della Superba possono appuntare lo sguardo sulle piazze dell'isola e sciamarvisi, con il favore dello stesso sovrano, a cui questi intraprendenti uomini d'affari tornano utili sia sul piano fiscale sia per colmare i vuoti lasciati dall'elemento islamico e dalla depressione interna. La Corona se ne servirà per costruirsi - mi si permetta l'espressione - una propria borghesia mercantile, destinata a radicarsi in loco o, comunque, ad essere coinvolta E. BRESC, De l'Etat de minorité à l'Etat de résistance: le cas de la Sicile normande, in «Etat et colonisation au Moyen Age et à la Renaissance», Lyon, 1989, pp. 331-346.

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nelle fortune della dinastia, la quale vuole utilizzare, nel proprio interesse, entro i limiti del possibile, la politica delle grandi Repubbliche del Nord, donde provengono, tra uomini di diverso ceto sociale, anche esponenti del potere economico-politico. Potrebbe esservi contraddizione tra l'atto del 1116, che vede genovesi di alto rango insediarsi a Messina, e la tariffa daziaria genovese del 1128, che contempla Salerno come ultima piazza del Sud, se non tenessimo presente un fatto già ricordato: la tariffa riguarda soltanto i forici homines frequentanti la piazza di Genova. Poiché il breve risale, nella sua compilazione, alla fine del secolo XI, sembra evidente - a parte il conservatorismo dell'atto giuridico-amministrativo - che già da allora non può parlarsi di un movimento di mercanti dalla Sicilia al Nord: il che non vieta di pensare, viceversa, ad un progressivo incremento di un flusso mercantile dal Nord alla Sicilia, del quale invece il documento del 1116 sarebbe l'esponente, come segno del raggiungimento di un livello a potere contrattuale. Comunque, la tariffa daziaria genovese, redatta verso il 1140, il documento del 1142, relativo alle funzioni del cintraco dell'amministrazione comunale di Genova, e la tariffa arcivescovile della decima del 1143, con i loro riferimenti al commercio d'importazione dalla Sicilia a Genova, ci fanno intuire quale grado di sviluppo avessero raggiunto nel quinto decennio del secolo i traffici siciliano-genovesi, soprattutto per opera delle navi genovesi che frequentavano i porti dell'isola. Il cartulario del notaio Giovanni Scriba del 1154-64, la tariffa daziaria di Messina del 1156, il trattato normanno-genovese del 1156-57, anche se posteriori, ma di poco, al regno di Ruggero II, esprimono, in modo che direi quasi analitico, un punto di arrivo dell'espansionismo economico dei genovesi in Sicilia. Nel cartulario dello Scriba il numero dei contratti commerciali per l'isola è più alto che per qualsiasi altra destinazione: oltre all'indicazione generica (ma è la più numerosa) della destinazione Sicilia, compaiono di frequente la specificazione di Palermo, più di rado quella di Messina, qualche volta quella di Mazara о di Trapani. È chiaro che i genovesi puntano soprattutto - com'è logico in una prima ondata di diaspora commerciale verso nuovi mercati - sugli approdi del Nord, lasciando ancora ai regnicoli il più del movimento nel Sud. Ed è significativo che la tariffa daziaria di Messina ponga in prima linea i venditori genovesi in arrivo da Alessandria d'Egitto о dalla Siria, mentre sappiamo di nume­ rosi casi di commercianti provenienti da Genova i quali, dopo avere fatto scalo a Messina, proseguivano per il Levante. Abbiamo dunque Palermo

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come punto terminale di una rotta da e per Genova; Messina come stazione di transito sulla via del Nord-Africa e del Levante. Se altri centri costieri dell'isola conoscono anch'essi la diaspora genovese, ciò avviene in maniera meno intensa e sistematica: sono approdi di rotte secondarie od occasionali, oppure centri raggiunti in tappe successive dai commercianti che fanno capo a Palermo od a Messina. I generi di esportazione dall'isola, soprattutto da Mazara, Agrigento e Palermo, sono la lana ed il formaggio; possiamo però ricordare anche le pelli, in particolare quelle di agnello, i cuoiami, i prosciutti e la carne salata. Quelli d'importazione si concentrano in modo particolare nei tessuti: panni di lana, fustagni di Milano e di Piacenza, saie francesi, panni frisii, zendadi, sete. Inoltre: droghe, spezie, travi, ferro, stagno, verghe di acciaio, oggetti di rame, persino libri. È una tipologia significativa, che non richiede commento, nello scambio di merci ricche contro merci povere. A metà del secolo XII i genovesi non vendono dunque soltanto le proprie merci о quelle provenienti dal retroterra europeo: essi hanno assunto la funzione d'intermediari tra il Nord-Africa (in particolare l'E­ gitto) ed il Levante, da un lato, la Sicilia, dall'altro, sostituendosi, almeno in grande parte, ai rapporti diretti tra queste aree di mercato, e facendo di Messina il perno principale di tale movimento di traffico. Poiché conosciamo i dazi d'importazione, i dazi d'esportazione e le tasse personali, che gravano sul commercio siciliano-genovese, per quanto riguarda Palermo, Messina e Mazara, sottolineamo la varietà delle situazioni, sia da luogo a luogo, sia tra importazione ed esportazione: il che, in ultima analisi, è una riprova dell'ormai notevole capillarità delle relazioni di scambio, anzi della graduale penetrazione dell'elemento genovese che riesce ad impadronirsi, dall'interno, dei meccanismi del mercato sino a giungere ad includere ed a fare accettare, nel trattato del 1156-57 con il re Guglielmo, una clausola di divieto contro il commercio tra il Regno e la Provenza. L'evoluzione dei rapporti tra gli Altavilla ed i Genovesi, per quanto riguarda la Sicilia, e lo sviluppo delle posizioni dei secondi nell'isola, si esprimono con evidenza nei due atti giuridici, situati cronologicamente l'uno circa all'inizio e l'altro poco dopo la fine del regno di Ruggero II. Sono la citata donazione del 1116 da parte del conte ad Ogerio Capra e ad Amico, e questo trattato del 1156-57 tra la Repubblica e Guglielmo I, di recente salito al trono. Durante i quarant'anni, che intercorrono tra i due atti, non abbiamo altri documenti di carattere pubblico da parte normanna, né pattuizioni normanno-genovesi a livello di. governo, né gruppi di rogiti notarili privati di tipo commerciale (a parte gli atti del 1154-56

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di Giovanni Scriba), che ci forniscano precisi dati di fatto. Ma la lacuna è - a mio giudizio - semplicemente archivistica, come dimostrano, in modo indiretto, i documenti del 1140, 1142, 1143, che ho ricordato. Essa non significa mancanza di rapporti, né impedisce d'intuire quale profondo processo evolutivo si sia attuato sotto l'apparente silenzio. La stessa diversa tipologia degli atti, che, per così dire, delimitano il periodo, è quanto mai sintomatica. Nel 1116 abbiamo una concessione, certo importante e nella quale, leggendo tra le righe, si colgono significati di ampia portata, ma, comunque, circoscritta nell'oggetto concreto e pur sempre da classificarsi tra le manifestazioni di favore ex gratia principis verso persone singole di nazionalità straniera. Nel 1156-57 siamo invece a livello di rapporti tra due governi, con una regolamentazione generale, in cui una delle due parti (la genovese) riesce ad ottenere dall'altra (la normanna) una clausola di privilegio, quale quel blocco del commercio tra il Regno e la Provenza che, a parte il danno per la seconda, non va certo a favore dell'economia del primo, su cui i Genovesi tendono ad instaurare il più possibile un proprio monopolio: una clausola accettata dalla monarchia per proprio sostegno e salvaguardia contro il pericolo di un'effettiva azione di Genova nel Sud in accordo col Barbarossa, la quale minaccerebbe di sbalzare gli Altavilla dal trono. Qualcosa è intervenuto tra i due termini cronologici: qualcosa di tanto importante da portare a regolamentazione internazionale una vicenda dall'inizio modesto, almeno in apparenza, e di sapore feudale, e da consentire a chi era in origine in posizione subordinata di assumere la posizione di controparte a livello bilaterale. Da un lato, è l'assurgere di Genova al ruolo di potenza mediterranea; dall'altro, è appunto la penetrazione commerciale dei genovesi in Sicilia nel giro di circa mezzo secolo: tanto profonda da contribuire in maniera non esigua al processo di latinizzazione - forse sarebbe meglio dire di occidentalizzazione - dell'isola. L'avere in proprie mani la grande parte del commercio esterno dell'isola, anzi dell'intero Mezzogiorno (insulare e continentale), diede ai genovesi una interdipendenza dei rapporti di scambio di tale ampiezza e di tale essenzialità per il Regno (anche ai fini delle entrate fiscali) da costituire una forte arma di pressione. Per non parlare poi delle posizioni di potere raggiunte in questo о quel centro isolano da questo о quell'imprenditore della Repubblica attraverso l'ascesa mercantile e finanziaria. *

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Per quanto riguarda Pisa e la Sicilia, verso la metà del secolo XII la tabella degl'interessi dei prestiti marittimi fornisce un'indicazione sicura

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circa i porti che venivano frequentati dai pisani non occasionalmente, ma con regolari linee di navigazione: per la Sicilia troviamo elencati quelli di Messina, Palermo, Mazara, Agrigento, Licata, Siracusa, Lentini (accessibile dal mare, per le navi di piccola stazzatura, attraverso il fiumicello omonimo). Il numero degli approdi è più alto di quello per cui abbiamo notizia a riguardo del commercio genovese e comprende, di nuovo diversamente dalla situazione genovese, l'intero periplo dell'isola. Sembrerebbe che la diaspora pisana sia stata più rapida e più ampia di quella dei genovesi, favorita anche dalla maggiore vicinanza di Pisa con l'isola: resterebbe però da vedere - ma non abbiamo documentazione adeguata in proposito - se essa sia stata superiore non soltanto per numero di approdi, ma anche per quantità di merci trasportate; se si sia limitata alle zone costiere, oppure se abbia dato origine anche ad un processo di penetrazione nei mercati interni. Occorre ricordare che il traffico pisano non si limita ai rapporti Pisa-Sicilia, ma funge anche da intermediario al commercio del grano (e certamente anche di altri generi di mercanzia) tra l'isola e Tripoli, come pure tra l'isola ed altri centri nord-africani. L'interesse dei prestiti marittimi si accentua gradualmente con la distanza da Pisa: è del 15% per Napoli, del 17,5% per Amalfi e per Salerno, del 20% per Policastro, del 25% per la Sicilia. Dunque, diversamente che per la costa tirrenica, dove la differenza di qualche decina di chilometri esercita un certo peso (si veda il caso di Napoli ed Amalfi-Salerno), una volta che si è giunti nell'isola non contano più le distanze: per Messina о per Palermo si paga come per Agrigento о per Licata; per Marsala, come per Siracusa о per Lentini. La Sicilia appare ai pisani quasi un unico grande mercato, dove essi si spostano da una piazza all'altra a seconda dell'occasione del momento, senza vincoli di restrizioni prefisse in par­ tenza. In sostanza, durante il regno di Ruggero II, succede per Pisa, in maniera forse più evidente, quello che succede per Genova: il mercato siciliano, sottratto abbastanza di recente all'area islamica, si presenta come un fatto nuovo, una terra vergine di grande avvenire per le imprese mercantili forestiere, di fronte agli spazi più angusti ed alle tradizioni cristallizzate, rappresentati dai porti degli antichi ducati campani. Di qui, quello che possiamo chiamare il boom siciliano della prima metà del secolo XII nel traffico delle Repubbliche del Nord, salito rapidamente in netto vantaggio rispetto ai mercati del Mezzogiorno continentale. Non ho accennato ai veneziani perché in Sicilia essi sono in posizione minoritaria riguardo a pisani e genovesi, anche se forse, ad un certo momento, Ruggero II cercò di servirsi di loro in funzione di bilanciamento

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rispetto alla preponderanza delle due Repubbliche tirreniche: ricordo ancora l'episodio della donazione della chiesa in Palermo, nel quartiere di Seralkadi. Le vicende dei rapporti politici tra la Corona e Venezia interruppero questo tentativo, se realmente esso ci fu: comunque, l'oggettività stessa della situazione imponeva come fatto logico la divisione del Mezzogiorno peninsulare ed insulare in due grandi aree di mercato, nella spartizione delle zone d'influenza a vantaggio del Nord: una ad oriente, sotto prevalenza veneziana; l'altra ad occidente, sotto prevalenza pisana о genovese, più tardi essenzialmente genovese. «Tuttavia dell'Occidente Venezia aveva bisogno estremo: perché da esso, soprattutto dalle terre del regno normanno, venivano i carichi di frumento necessari per la sopravvivenza; perché in esso, e in tutte le direzioni, potevano essere avviate le merci provenienti dall'Oriente (pepe, zenzero, zucchero, cannella, avorio, galanga, allume, sete) e scambiate con altri prodotti (soprattutto spade e schiavi, ma anche bestiame e legni da costruzione). Sennonché, verso la metà del secolo XII, l'Occidente fu investito da una gigantesca crisi politica che si allargò all'intero settore mediterraneo. I due imperi convergevano verso l'Italia nel comune intento di cancellare il regno normanno»11. *

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Durante il regno di Ruggero II giungono a compimento premesse ed operazioni poste in atto dai predecessori e sviluppate nel corso della prima metà del secolo XII in una costruzione politico-territoriale che sembra raggiungere risultati brillanti e suggestivi, ma che si risolve in una crisi già evidente alla morte del sovrano, per non parlare poi del crollo stesso della dinastia quarant'anni più tardi. Il Mezzogiorno peninsulare ed insulare prenormanno, pur nel suo panorama diasporico, vive una propria vita, alimentata dal mondo economico bizantino ed islamico; svolge un ruolo attivo nella rete dei traffici che lo collegano all'Impero greco ed al Nord-Africa; funge da intermediario tra questi vasti complessi economici ed il mondo euro-mediterraneo occidentale. Con la dinastia normanna, che si corona nell'opera di Ruggero II, esso viene dislocato nell'area opposta; finisce anzi per assumere una funzione di primo piano nella ricorrente opposizione della cristianità romana sia all'Impero greco (non dimentichiamo lo scisma del 1054), sia ai principati islamici del Nord-Africa. 11

G. CRACCO cit., p. 48.

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I vincoli mercantili con Bisanzio, con Alessandria, con Tunisi, con Mehdia, per citare i capilinea più emblematici, risultano talora indeboliti, talora recisi, a vantaggio delle più attrezzate marinerie delle Repubbliche italiane del Nord, che hanno alle spalle il continente europeo, mentre alle città costiere del Regno - della Campania, della Sicilia, delle Puglie viene a mancare la funzione di propaggini avanzate e di punti di transito dall'area economica bizantina e nord-africana all'Occidente. I centri marittimi, stretti entro le strutture del Regno, utilizzati, nel loro potenziale navale, ai fini delle imprese militari ed a queste sacrificate nei loro traffici, decrescono di vitalità, anche se dalla piazza maggiore, Amalfi, continua ancora, nei secoli XII e XIII, una certa diaspora di traffici verso il Sud e l'Oriente. Non è soltanto giudizio nostro. Un mercante amalfitano, che operò in Costantinopoli intorno alla metà del secolo XI, Pantaleo, figlio di Mauro di Pantaleone di Mauro di Maurone, previde chiaramente il pericolo: da Costantinopoli e da Amalfi egli cercò, infatti, nel 1062-1063, di promuovere un'azione combinata antinormanna tra la propria patria, l'imperatore Enrico IV, l'Impero greco e la Sede Apostolica. Non intendo con ciò addossare alla dinastia degli Altavilla ogni responsabilità, prescindendo dai grandi motivi del quadro generale e dalla dimensione e difficoltà dei problemi che essi si trovarono a dovere risolvere. Ebbero un peso le crociate, dalla prima alla terza, che promossero od incrementarono i traffici, a lunga distanza, genovesi, veneziani, pisani; ma nelle quali, tuttavia, la posizione normanna venne a trovarsi in antitesi con quella che era stata un tempo la tradizione storico-economica delle terre del Sud in collegamento con Costantinopoli e con i paesi musulmani, senza che rappresentassero ora un sufficiente compenso agli acquisti amalfitani in Terrasanta. Ed ebbero un peso le stesse vicende del mondo bizantino, in regresso mercantile dal secolo XII, e quelle del mondo nord-africano, respinto militarmente verso le proprie coste dalle navi cristiane, senza tuttavia che le marinerie regnicole avessero la possibilità d'inserirsi via via largamente negli spazi lasciati aperti da quei regressi, in concorrenza con il più rapido e vistoso sviluppo tecnico - nell'arte nautica come in quella degli affari - delle Repubbliche del Nord, che proprio nella prima metà del secolo XII affermano la loro superiorità con un accumulo capitalistico che non trova riscontro in altri porti del Mediterraneo. II problema dell'unificazione del panorama eterogeneo del Mezzogiorno peninsulare e della Sicilia in uno Stato organico venne affrontato dalla dinastia normanna come problema di monarchia autoritaria accentratrice: di conseguenza come dinamica propulsiva verso l'esterno, in operazioni militari d'oltremare in sui s'inquadrava - e finiva per cristallizzarsi

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- il fatto economico. Non credo, come ho già detto, che sovrani, come Ruggero II non percepissero l'importanza dell'economia di mercato e del traffico marittimo nella costruzione e nella vita dello Stato: quindi, della funzione indispensabile d'una categoria di commercianti e uomini di affari. Ma, a parte la contraddizione con la mentalità feudale assorbita dai conquistatori nella residenza francese, gli Altavilla avvertirono il pericolo che l'esistenza e lo sviluppo d'un ceto borghese indigeno, soprattutto marinaro, comportava per una dinastia autocratica e per l'impostazione da essa data al proprio regno, sia in corrispondenza con la tradizione da cui essa medesima proveniva, sia nello sforzo della rapida unificazione delle terre, militarmente conquistate, entro un determinato modello giuridicoformale. Preferirono dunque aprire le porte al flusso dei mercanti italiani del Nord, genovesi, veneziani, pisani, nel doppio intento, о risultato, di bloccare la possibilità di formazione ed ascesa di un ceto locale, о di non offrirgli spazio dove già esso esisteva, e di fare di questi forestieri l'elemento propulsore per l'economia vitale del Regno ed uno strumento docile, se non fedele, per la stabilità della dinastia. Oltre tutto allettavano, da una parte, l'alto livello tecnico e l'intraprendenza personale del mondo mercantile di Genova, Venezia, Pisa; dall'altra, la possibilità di una più ampia destinazione della flotta del Regno, meno impegnata nel traffico mercantile, alle imprese politico-militari. In breve arco di tempo: gli Altavilla finirono praticamente irretiti dalla classe mercantile straniera. La clausola contro il traffico tra il Regno e la Provenza, voluta dai Genovesi nel trattato del 1156-57, ne è una prova. E ne è una prova ancora più grande il fatto che, con l'allineamento di Genova e di Pisa a fianco di Enrico VI, la dinastia ebbe i giorni contati. In più lunga prospettiva: con l'unità territoriale, che culmina, anche simbolicamente, nella doppia investitura di Ruggero II, per opera di Anacleto II nel 1130 e per opera d'Innocenzo II nel 1139, il Mezzogiorno entra nel vivo della storia italiana ed europea; ma viene anche coinvolto nelle crisi degli scismi della Chiesa (basta ricordare quello tra Innocenzo II ed Anacleto II), nei conflitti tra Papato ed Impero, nella dialettica delle parti tra guelfismo e ghibellinismo, nelle vicende degli scontri politico-mercantili tra Genovesi, Pisani, Veneziani, a cui si aggiungerà, nel secolo XIII, l'intromissione catalano-aragonese. Esso acquista una sua precisa configurazione e funzione nell'unità territoriale, contro la precedente diaspora bizantina, longobarda, islamica; ma, privo d'una struttura économico-mercantile autoctona, di un proprio ceto consistente di uomini d'affari e, di conseguenza, dello sviluppo d'una mentalità del mercato

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quale quella delle Repubbliche del Nord, esce - per così dire - dal novero dei paesi prevalentemente attivi nei riguardi economici, per entrare in quello dei paesi prevalentemente passivi, con le conseguenze che ne sono derivate a tutta la sua storia.

Ili Ho cercato di prospettare la situazione generale del Mezzogiorno in un momento essenziale della sua storia, quale fu quello rappresentato dal regno di Ruggero II, che segna sostanzialmente il trapasso tra due epoche non soltanto nella vicenda del nostro Sud peninsulare ed insulare, ma anche nel quadro generale del Mediterraneo nel secolo XII. Desidero chiarire che non ho inteso fare delle scelte politiche di Ruggero II il turning point nella storia economica del Mezzogiorno1. Mi è parso però che il periodo di governo di questo sovrano coincida con grandi mutamenti nel quadro storico: primo fra tutti il trapasso definitivo del Sud italiano entro i confini della Cristianità occidentale, mentre le sue strutture, già partecipi del mondo bizantino e del mondo islamico (per non parlare del più ristretto spazio longobardo) ed ora prive di ampio respiro, non sono о non sono ancora in grado di reggere il confronto con quelle, più evolute, delle maggiori repubbliche marinare della Penisola, sorrette alle spalle dal poderoso mondo germanico in fase di espansione. Mi è parso anche che la politica di Ruggero, proprio perché si tratta di un sovrano di stirpe nordica, e quindi portato, direi quasi, istintivamente, a «captare» i valori e le esigenze*del Nord, dell'Europa continentale, ed a collegarli con essa nelle sue aspirazioni mediterranee, abbia avuto una certa incidenza nelle vicende economiche del Regno, come avviene di norma nel rapporto tra attività di governo ed economia. Basterà pensare ad oggi: ai disastri sul piano economico a cui hanno condotto scelte politiche sbagliate, con le corrispondenti norme di legge improvvide od infelici. Come dice Arnold Toynbee, la civiltà è un movimento e non una condizione, un viaggio e non un punto d'arrivo. In questo movimento, in questo viaggio, anche le premesse, attuate con le migliori intenzioni, Cfr. G. VITÓLO, Società, potere e popolo nell'età di Ruggero II (Bari, 23-25 maggio 1977), in «Studi Medievali», 3 a serie, XIX, 2, 1978, pp. 1040-1041. Si tenga, presente, anche per la bibliografia, l'acuto profilo di R.S. LOPEZ, La Sicilia al tempo della conquista normanna, in «Ricerche storiche ed economiche in memoria di Corrado Barbagallo», Napoli, 1970, II, pp. 107-121.

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possono sortire risultati negativi nel gioco delle forze che operano durante il percorso. Nulla vieta di credere che Ruggero II accettasse con favore l'espansione nel Regno del ceto mercantile del Nord, proprio nella convinzione che ciò potesse risollevare о contribuisse a risollevare lo Stato dalla depressione in cui si venne a trovare, nella sua nuovissima costituzione, in conseguenza sia delle vicende anteriori sia di quelle stesse circostanze che avevano presieduto alla sua nascita. Quanti altri Stati recentissimi, nell'o­ dierno panorama mondiale, non hanno fatto о non fanno altrettanto, nella presunzione di riuscire a sviluppare la propria economia ed a dare vita ad un ceto imprenditoriale indigeno, grazie all'intervento dell'imprenditoria straniera? Il periodo dei due Guglielmi rappresenta, a mio modo di vedere, la fase di assestamento del Regno del Mezzogiorno, sulle posizioni configu­ ratesi all'epoca di Ruggero II: il Regno inserito nel mondo della Cristianità occidentale, soggetto, anzi, ai tentativi di Federico I Barbarossa per inglobarlo nell'ambito del Sacrum Imperium', il quadro mercantile incluso, per non dire assorbito, nelle grandi linee del traffico dell'Italia del Nord e di quest'ultima con il Mediterraneo occidentale ed orientale; il graduale insediamento e potenziamento dei commercianti stranieri nei centri della costa e poi, via via, anche dell'interno, con un fenomeno diversificato, che interessa essenzialmente la Sicilia da un lato, la Puglia dall'altro, e che finirà per costituire un elemento di distinzione tra l'Isola ed il Mezzogiorno continentale. Pertanto il mio discorso rappresenta ora, in sostanza, la continuazione di quello precedente: ora, però, nella prospettiva di una riduzione dalle linee generali alla puntualizzazione dell'esame di uno specifico mercato di scambi bilaterali. Ho scelto a tale scopo il panorama dei rapporti tra il Regno e Genova, e ciò per due motivi, che ritengo del tutto oggettivi: 1) il fatto che solo Genova offre, per il periodo dei due Guglielmi, una documentazione di tipo notarile-mercantile vasta e puntuale grazie al cartulario di Giovanni Scriba del 1154-642 ed agli atti di Oberto Scriba de Mercato del 1179-80, 1182-1184 e 11863, cioè proprio ai due estremi del periodo sopra indicato, il che consente raffronti non privi d'interesse; 2) perché effettivamente la Repubblica genovese fu allora uno dei maggiori, 2 // cartolare di Giovanni Scriba, voi. I a cura di M. CHIAUDANO-M. MORESCO, voi. II a cura di M. CHIAUDANO, Torino, 1935.

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Notai liguri del secolo XII, ГѴ, Oberto Scriba «de Mercato» (1186), a cura di M. CHIAUDANO, Genova, 1940; E. BACH, La cité de Gênes au XIIe siècle, Kobenhavn, 1955, p. 14; D. ABULAHA, The two Italies, Cambridge, 1977, p. 155.

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se non addirittura il maggiore, tra i partners mercantili del Regno: certo il maggiore per quanto attiene la Sicilia. Vediamo dunque, in concreto, nella specificità dei fatti, come si svolgevano al livello operativo i rapporti economici tra i due Stati, tanto sul piano degli accordi di governo quanto su quello della vita quotidiana. *

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Già sui primi del secolo XII per Genova «il controllo delle isole tirreniche, baluardo strategico obbligato, appare immediatamente necessario. Giostrata su appoggi papali, operazioni belliche, azioni concomitanti tra Chiesa, famiglie e Comune, la partita sembra prospettarsi in modo favorevole, anche se di conduzione assai difficile nel tempo. I Malaspina e il monastero di San Venerio del Tino in Corsica, la cattedrale di San Lorenzo, i Doria, gli Spinola e i Malaspina nell'Algherese, a Castelsardo e a Bosa, il Comune stesso con la fedelissima Bonifacio, che nel 1195 entrerà a far parte del territorio della Repubblica (oculus la definirà un cifrario genovese del Quattrocento) promuovono insediamenti atti allo sviluppo di quell'aurea mediocritas cui tendono marinai, balestrieri, tessitori, carpentieri, artigiani del mare e della terra, ex pirati che instaurano commerci di cabotaggio tra Corsica e Sardegna, tra i centri della costa ligure e le isole per cereali, sale, prodotti del latte, pelli e lane. Anche le miniere argentifere sarde appaiono un forte punto di attrazione. L'espansione trascina con sé in ruoli diversi un anonimato collettivo di liguri, dai savonesi ai portoveneresi, fino ai monferrini e ad altri occidentali (...). La terza isola, la Sicilia, mercato granario di grande importanza, che ha una storia ed una collocazione ben diversa e meno facile all'inserimento, rivela tuttavia anch'essa, in rapporto ad una depressione delle attività d'una borghesia mercantile locale, probabile conseguenza delle varie politiche di governo, una serie notevole di presenze e di attività genovesi»4. Riesce perciò del tutto logico che nel novembre 1156 si trovino a Palermo due legati genovesi, Ansaldo Doria e Guglielmo Vento, per la conclusione, dopo lunghe trattative, di un patto di amicizia e di commercio. Mi sembra, innanzi tutto, non inutile, sul piano dei moduli di comportamento, sottolineare come si configurassero i rapporti formali tra i due contraenti: un Regno ed una Repubblica, due forme di reggimento politico collocate su schemi diversi dalla mentalità medievale. G. AIRALDI, Genova e la Liguria nel medioevo, Torino, 1986, pp. 39-40.

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Il trattato si articola nella veste di tre documenti: due siciliani ed uno genovese5- I due siciliani risalgono ad un medesimo momento redazionale e sono entrambi, formalmente, diplomi di concessione, per così dire, ex gratia regis: l'uno per determinati privilegi economici; l'altro per la tutela delle persone e dei beni. Il documento genovese, posteriore di due mesi, cioè del gennaio 1157, più che un vero e proprio atto di governo, è un impegno collettivo della cittadinanza6, assunto con giuramento, secondo gli schemi tipici dei vassalli verso il principe7. Non è ipocrisia formale. Ritengo che effettivamente, nonostante l'onere di talune clausole, richieste, per non dire imposte, da Genova, quest'ultima sentisse una sorta di complesso d'inferiorità, quale Comune cittadino e mercantile, di fronte alla regalità ed alla maestà di un Regno. E così da parte normanna ci sono il re ed il principe ereditario, il magnas ammiratus ammiratorum Maione ed i notai Santoro e Matteo; da parte genovese, i consoli del Comune, i consoli dei placiti, il cintraco, i due legati già presenti alla corte di Palermo nel novembre 1156, trecento e più cittadini tra i maggiori, il notaio Giovanni nella sua funzione di scriba comunale. La presenza di Maione, nella sua qualifica di emiro degli emiri, tra i firmatari della parte normanna è, come si sa, di prammatica: tuttavia ritengo che per lui non si trattasse di un puro fatto formale, di tipo cancelleresco, e neppure soltanto di un semplice atto politico nella conclusione di un accordo che rispondeva ad una precisa linea di governo, ma anche di un interesse personale, che mi sembra d'intravvedere tra le pieghe di documenti successivi e che portava Vammiratus ammiratorum a considerare in modo benevolo la posizione e le richieste dei Genovesi. 5

Codice diplomatico della Repubblica di Genova dal DCCCCLVIII al MCLXIII, a cura

di C. IMPERIALE DI SANT'ANGELO, I, Roma, 1936, doce. 279, 280, 282. 6

È difficile stabilire il numero esatto dei cittadini che prestarono giuramento, anche se il testo documentario parla di 300 persone. Nell'elenco dei nomi, che esso fornisce, non è talvolta possibile fissare con sicurezza l'interpunzione che separi il nominativo di un personaggio da quello di un altro. 7 Non poteva essere diversamente, dal momento che Genova, la quale aveva riconosciuto ancora poco tempo prima la propria appartenenza giuridica al Sacrum Imperium, non godeva degli attributi della sovranità e quindi non poteva collocarsi da pari a pari, formalmente, di fronte ad uno Stato qual era il Regno normanno: d'altronde è noto che i Genovesi si servirono spesso degli strumenti e delle procedure feudali ai propri fini politici e politicoterritoriali. Naturalmente questo rapporto col re di Sicilia poteva creare complicazioni ai Genovesi di fronte alle posizioni regalistiche di Federico I Barbarossa: ma di ciò i Genovesi non si preoccupavano nella loro politique d'abord: forti della propria posizione ormai di grande potenza marinara ed economica.

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È interessante rilevare che dei tre legati, venuti per l'occasione da Palermo a Genova, due sono siciliani (il vescovo eletto di Siracusa, Riccardo, ed il maestro giustiziere, Rainaldo di Tusa) ed uno è genovese: il nobilis ianuensis Ansaldo de Nigrone, il quale gode dunque della fiducia e del favore del re. Certo può trattarsi di un semplice fatto occasionale, cioè della funzione di accompagnatore e garante, svolta da Ansaldo a fianco dei colleghi siciliani per introdurli, con il dovuto onore e le debite garanzie, presso il governo della Repubblica: tanto più che la residenza abituale del nostro non è Palermo, ma Genova8. Però il trovarlo membro ufficiale della legazione normanna e la qualifica di nobilis, attribuitagli per l'occasione, danno l'idea dell'esistenza di un establishment di mercanti genovesi presso la corte degli Altavilla, se non, addirittura, di un loro avanzato processo d'inserimento nelle strutture di governo del Mezzogiorno. Noto anche la contrapposizione delle situazioni, in conformità delle antitetiche strutture statali: da una parte, a Palermo, il vertice della gerarchia, che si riassume in tre persone (più i notai regi, quali esperti legali); dall'altra, a Genova, non solo l'intero corpo del governo, nel suo reggimento politico-amministrativo e giudiziario, ma anche l'intero corpo cittadino, rappresentato dai suoi esponenti più autorevoli, in un'assemblea di oltre trecento persone, nella quale si esprime la natura specifica del Comune (più il notaio-scriba, quale estensore del documento di prova). Il che dà la misura dell'entità del problema della reciproca garanzia, anzi della necessità di garantismo, negli accordi di livello internazionale, e della diversa impostazione e stabilità nella linea di condotta presso contraenti profondamente differenziati. Dal punto di vista generale questi accordi s'inseriscono in una serie di mosse che Genova va compiendo per assicurarsi ed ampliare lo spazio necessario ai suoi traffici nel nuovo assetto del mondo euro-mediterraneo: dall'alleanza con l'imperatore Lotario nel 1133 contro Ruggero di Sicilia a quelle con i regni di Castiglia e d'Aragona per le crociate antimusulmane del 1147-49, dal trattato con Manuele Comneno del 1155 al diploma concesso al Comune da Federico I Barbarossa nel 1162. Si tratta del sottile gioco di equilibrio che i Genovesi sono costretti ad attuare con la vigorosa ripresa del 1154-55 (dopo il collasso postbellico, per usare l'espressione del Krueger9, seguito alle crociate di Spagna) al Ansaldo de Nigrone è personaggio che compare di frequente tra le carte del notaio Giovanni Scriba, soprattutto in qualità di teste, dal 1157 al 1164. 9 H.C. KRUEGER, Post-war collapse and rehabilitation in Genoa (1149-1162), in «Studi in onore di Gino Luzzatto», I, Milano, 1950, pp. 123-126.

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fine di mantenersi in cordiali rapporti tra opposti contendenti: il Sacrum Imperium, l'Impero bizantino, il Regno di Sicilia, tutti essenziali per la vita stessa della Repubblica. Così nel 1155-56 essi si destreggiano tra l'imperatore greco, dal quale hanno ottenuto, proprio nel 1155, la tanto sospirata contrada in Costantinopoli, il sovrano normanno, a cui devono garantire fedeltà per non subire danno nei traffici e per assicurarsi basi di appoggio in Sicilia, l'imperatore germanico, che si è affacciato potente e minaccioso in Italia e richiede l'atto di omaggio, con l'intenzione di servirsi della flotta genovese per acquisire la Sicilia. Situazione tutt'altro che facile, alla quale si addice perfettamente il commento di Gerald W. Day: «It is indeed a credit to Genoese diplomatic skill that the city maintained Barbarossa's good will, entered into commercial agreements with the Sicilian ruler, and still was able to gain a quarter in Costantinople»10. «The progress [è sempre il Day a parlare] of Genoa's mercantile enterprise in Constantinople during Manuel's reign was closely connected with Byzantine activities in the West. By 1155 Manuel, who was known for his fascination with Western ways and dreamed of reestablishing Byzantine hegemony over lost portions of his empire, was eager to win Western allies to support his expeditionary force then operating in southern Italy. Added to Manuel's hopes of conquest were the very real fears he had for possible aggression against his territory on the part of either the new German emperor, Frederick Barbarossa, or King William I of Sicily»11. Da parte normanna il trattato con Genova rientrava nella politica del nuovo admiratus admiratorum, Maione, «per fare uscire il regno dall'isolamento che stava per soffocarlo»12, spezzando il fronte «che man mano si era costituito contro i Normanni in Sicilia e che vedeva schierati, sul versante islamico, Ayyubiti ed Almoadi, su quello cristiano, ambedue gl'imperi, una volta tanto solidali, ed il papato». Si aggiungevano i torbidi interni, capeggiati in Sicilia da Bartolomeo di Garsilato ed in Puglia da Roberto di Loritello, e quelli dei dominii africani, esplosi nella sollevazione di Sfax e di altri centri magrebini. Il che giustifica ulteriormente, in una situazione così pericolosa, l'arrendevolezza del governo normanno in talune clausole degli accordi del 1156-57 con Genova, pronta ad approfittare delle difficoltà, in cui si dibatteva la controparte, per imporle G. W. DAY, Manuel and the Genoese. A reappraisal of byzantine commercial polity in the late twelfth century, in «The Journal of Economic History», XXXVII, 2 (1977), p. 299. 11 G.W. DAY cit., p. 291. F. GIUNTA,'m«Potere, società e popolo nell'età dei due Guglielmi. Atti delle Quarte Giornate Normanno-sveve, Bari-Gioia del Colle, 8-10 ottobre 1979», Bari, 1981.

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condizioni ad essa onerose ed a sé favorevoli. L'azione normanna verso Genova è abbinata a quella verso la Sede Apostolica; non a caso il 1156 è anche l'anno di quell'accordo di Benevento con papa Adriano IV che affermò la piena legittimità di Guglielmo I sul trono di Sicilia e tolse ai Genovesi ogni eventuale residuo di dubbio sulla validità di un trattato stipulato con quel sovrano. Devo ancora notare che il primo dei due diplomi del novembre 1156 riguarda usi e consuetudini di cui i Genovesi già godevano per civitates Regni al tempo di re Ruggero, ma che noi non conosciamo13, più le nuove concessioni sottoscritte da Guglielmo I. Il diploma rappresenta dunque la codificazione di tutto uno sviluppo di relazioni tanto a rango ufficiale quanto nell'instaurazione di contatti a livello della vita quotidiana, che via via hanno assunto la funzione di consuetudine14. *

*

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Grazie al primo dei due diplomi siciliani abbiamo sott'occhio un certo panorama della presenza genovese nel Regno del Sud sia per quanto riguarda la tipologia delle merci, soprattutto in esportazione, sia per quanto concerne le grandi piazze del mercato, che qui sono esclusivamente isolane, sia per ciò che concerne le tariffe daziarie e doganali. Quattro sono i centri mercantili, presi in specifica considerazione dal diploma reale, e che per questa ragione si possono considerare come i maggiori della presenza genovese in territorio normanno o, se non altro, come quelli in cui l'attività economica genovese ha subito una più rapida espansione, sì da richiedere nuove pattuizioni. Si tratta di Messina, Mazara, Agrigento, Palermo. Per Salerno, come per altre città della Calabria, della Puglia, della stessa Sicilia, il diploma conferma «sicut fuit antiquitus tempore beate memorie (...) regis Rogerii». Il che dunque comprova l'assai più vasta e capillare estensione dell'attività economica genovese nel Regno rispetto a quanto ci è rimasto documentato, e fa ritenere che per le quattro piazze, sopra citate, i Genovesi dovettero ottenere condizioni migliori che per il passato. Conosciamo soltanto la nota concessione di Ruggero II ad Ogerio Capra e ad Amico nel 1116: G. PISTARINO, Commercio e vie marittime di comunicazione aWepoca di Ruggero II, in «Società, potere e popolo nell'età di Ruggero IL Atti delle terze giornate normannosveve, Bari, 23-25 maggio 1977», Bari, 1979, pp. 250-251. Cfr. questo medesimo volume. 14 Un'analisi accurata del trattato del 1156 è stata compiuta da D. ABULAHA, The two Italies cit., pp. 89-99.

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Per Messina si considera soltanto il traffico via mare: un fatto non privo di significato nel quadro del rapporto tra città e campagna e, della penetrazione dalla costa all'interno. Messina è un grande centro di confluenza mercantile, al quale giungono genovesi a quacumque parte: dalla Siria, da Alessandria d'Egitto, a terra Christianorum vel Saracenorum. L'ingresso è libero: i mercanti che vi arrivano direttamente da Genova pagano una tassa personale, che è di un soldo per ciascun uomo e di due soldi per ciascuna apotheca (con il quale termine ritengo si alluda alle imprese mercantili societarie)15. Per quanto riguarda l'esportazione (in exitu), le tariffe sono le seguenti: un tari ogni due colli; un tari ogni quattro salme di grano che venga spedito a Genova, un tari ogni quattro porci (carni suine salate)16. Non è specificato il contenuto dei colli, quindi si tratta di qualunque merce possibile di imballaggio: penso soprattutto al cotone, alla lana, alle pelli, cioè ai generi tipici della produzione locale isolana. Per il grano risulta evidente la disponibilità a rifornire il mercato genovese, ma, al tempo stesso, l'intento siciliano di evitare la speculazione di chi volesse giocare sul diverso livello dei prezzi, e l'accaparramento a danno del commercio del Regno. Per le carni suine non v'è da stupirsi (come rileva l'Abulafia) perché «the Genoese were assigned these 'bacon rights' only in Messina, since the Arab population of western Sicily would not have raised pigs»17. E concesso ai Genovesi di «habere cristonem curie» per il peso delle merci senza nessun gravame tariffario, ed anche «suum cristonem ad cognoscendas res suas inter se quante fuerint»18. Nulla essi devono quando 5 D. ABULAHA (op. cit., p. 92)ritieneche per apotheca debba intendersi, «presumably, each merchant's load». 16 Naturalmente deve essere sottinteso che l'esportazione del grano è consentita ai Genovesi soltanto se destinata a Genova. Oppure quel dazio vigeva solo per l'esportazione diretta a Genova? Accolgo l'interpretazione di D. ABULAHA (op. cit., p. 92) per la voce porci: «in other words, salted carcasses». 17

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D. ABULAFIA cit., p. 92.

D. ABULAHA (op. cit., p. 92) intende questo passo nel senso che «the Genoese were granted the enviable right to use their own weights and measures for business between their citizens, and to use the royal weights and measures for business with Sicilians without payment of commission for their use». Ricordo anche l'uso dei contrassegni dei mercanti genovesi per il riconoscimento delle loro merci. Un esempio significativo: in un contratto di accomendacio, stipulato il 21 aprile 1160 (// cartolare di Giovanni Scriba cit., n. 638) per Palermo e la Sicilia, il socio portator s'impegna esplicitamente verso il socio stans: «debeo (...) implicare separatim et tuo signo signare» (contrassegnare con la marca dello

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avanzino richiesta alla curia per il ricupero di cose proprie. Invece è loro vietato di comperare о noleggiare navi del re о di uomini del re, senza il benestare reale: donde si può desumere che Messina, quale grande stazione di transito, fosse un grande centro di armamento e noleggio navale. Sulle merci importate, trattandosi evidentemente di prodotti finiti o, comunque, imballati, il dazio è calcolato in percentuale numerica: 3 unità ogni cento. Il pagamento è richiesto, però, soltanto se la merce viene effettivamente venduta: altrimenti vige la piena libertà di riesportazione per qualsiasi destinazione, senza nessun gravame tariffario. Come a Messina, così a Mazara è prevista una tassa d'ingresso per chi vi giunga dal mare: la quale ascende a 10 tari per ogni mercator ed è notevolmente superiore a quella messinese, se si calcola il tari pari a circa un soldo e 10 denari19. Per l'esportazione dei prodotti locali si hanno le seguenti tariffe: mezzo tari per ogni sacco di cotone; un tari per ogni salma di pelli d'agnello о di altri cuoi; un tari per ogni due moggia di grano che venga spedito a Genova. Per Agrigento gl'importi daziari sono analoghi a quelli di Mazara, con la sola differenza di una doppia tariffa a proposito del cotone, che viene inoltre valutato non a sacco, ma a cantaro: un tari al cantaro per il cotone negli acquisti fuori piazza; mezzo tari al cantaro negli acquisti sulla «piazza» per esportazione; un tari per ogni salma di pelli d'agnello о di altri cuoi; un tari per ogni due moggia di grano che venga spedito a Genova. Palermo è il centro al quale i Genovesi non soltanto fanno capo nel traffico marittimo, ma anche si appoggiano per una vasta azione di penetrazione capillare nell'interno dell'Isola. Il cotone, che entra in città dai borghi di campagna (a casalibus), paga un tari e mezzo al cantaro, mentre nulla è dovuto per l'esportazione dalla «piazza»20. Gli altri dazi stans le sue merci). Si tenga anche presente la voce cresta nel linguaggio doganale di Traù nel secolo XIII e di Spalato: ZLATKO HERKOV, Grada zafinancijsko-pravnirjecnik feudalne epohe hrvatse, Zagreb, 1956, pp. 224-225. 19 Vedi oltre. La tassa personale d'ingresso sarebbe circa diciotto volte più alta a Mazara che a Messina! Vi sono dunque, nell'Isola, aree in cui la presenza del mercante forestiero è favorita; altre in cui è scoraggiata. Ciò spiega anche la forte differenza numerica dei contratti commerciali genovesi a seconda delle varie destinazioni siciliane. 20 II documento recita testualmente: «In introitu porte Panormi a casalibus venientes pro cantario cuttonis dabunt tarenum unum et medium, nichil in exitu». D. ABULAHA (op. cit., p. 93), interpreta: «On their entry into the port travelling in from the country villages the Genoese were to pay 1 \ tari per cantarium (80 kg) of cotton - by implication, raw cotton. Nothing was to be paid on cotton brought into the country-side, no doubt as an

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di esportazione sono i seguenti: mezzo tari per ogni cantaro di lana21; un tari e mezzo per ogni centenarium22 di agnelli (tosoni)23; un tari per due moggia di grano24. Come a Messina, il dazio di esportazione è calcolato in percentuale numerica: 5 ogni cento per i panni di lana, 10 ogni cento per le altre merci, sempre, però, nel caso che le vendite siano effettuate. Altrimenti non v'è gravame di sorta per il non venduto che venga riportato fuori dalla piazza (meglio, forse, diremmo: fuori dall'Isola?). Riepilogando: il grano, il cotone, la lana, le pelli d'agnello, i cuoi di vario genere, le carni suine sono i generi più largamente commerciati in Sicilia dai Genovesi ai fini dell'esportazione, sia con acquisti nei grandi centri del loro traffici nell'Isola, sia attraverso incetta nelle campagne, dove (come sembra) essi possiedono terre e fattorie, soprattutto nel Palermitano. L'esportazione è libera per quanto riguarda la destinazione: soltanto per il grano esiste la riserva che esso venga indirizzato a Genova dalle piazze encouragement to internal trade». Ritengo invece che con la dizione in exitu si voglia intendere l'esportazione dalla Sicilia, allo stesso modo che per Messina, dove troviamo usata la medesima locuzione. 21 II testo, nell'edizione data dall'Imperiale di Sant'Angelo nel Codice diplomatico della Repubblica di Genova, reca la seguente punteggiatura: «Pro cantano lane tarenum medium, quod apportabunt de terra eorum». Di qui l'interpretazione di D. ABULAFIA (op. cit., p. 93): «And for each cantarium of wool, \ a tari was to be paid, if the wool were ł brought from their own land' a phrase which could mean Liguria or Genoese estates inside Sicily». Ritengo che si abbia una più coerente interpretazione, se si corregge la punteggiatura: «Pro cantano lane tarenum medium. Quod apportabunt de tena eorum: de pannis lañéis, de viginti unum; de omnibus aliis, que apportaverint, de decem unum». Ci si riferisce cioè non all'importazione della lana in Palermo dalla Liguria о dai possessi genovesi nell'interno della Sicilia; ma all'importazione, in Palermo, di panni о di altri prodotti finiti, non soltanto da Genova, bensì da qualunque parte del Commonwealth genovese. 22 Per il centenariumritengoche si tratti qui della misura numerica, non della misura di peso. Sulle misure del centenarium e del miliarium cfr. E.H. BYRNE, Genoese shipping in the twelfth and thirteenth centuries, Cambridge Mass., 1930, pp. 37-58; L. BALLETTO, // «miliarium» nel commercio del pesce nel Mar Nero, in «Bulgaria Pontica Medii Aevi I, Premier symposium international, Nessèbre, 23-26 mai 1976», «Byzantino-bulgarica», ѴП, Sofia, 1981, pp. 205-213: cfr. U. RINALDI, in «Medioevo. Saggi e rassegne», 5, 1980, pp. 165-170. 23 Per la voce agni accolgo l'interpretazione di D. ABULAHA (op. cit., p. 93): «presumably lamb fleeces». 24 Rilevo che non esiste per Palermo la clausola limitativa circa l'esportazione del grano a Genova. Deve intendersi come sottintesa? Oppure vigeva per Palermo una maggiore libertà di mercato che non per Messina, Mazara ed Agrigento?

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di Messina, Agrigento e Mazara (non si accenna a Palermo), sotto il corrispettivo di quelle date tariffe daziarie. L'importazione riguarda taluni prodotti finiti, a cominciare dai panni di lana: e viene favorita, a Messina ed a Palermo, dalla clausola del pagamento del dazio soltanto sul venduto, nonché dalla clausola della libera riesportazione senza gravame di sorta verso qualunque destinazione. Non si parla d'importazione né per Mazara né per Agrigento. Le tariffe non sono uniformi. Variano da luogo a luogo e da merce a merce: situazioni diverse di mercato ed antiche tradizioni locali giocano in proposito. L'uniformità esiste soltanto per l'esportazione del grano da Palermo, da Agrigento e da Mazara, mentre non possiamo dire altrettanto per Messina, non conoscendo il rapporto esatto tra salma e moggio. Vigono da luogo a luogo sistemi diversi di pesi e di misure25: abbiamo la salma per il grano a Messina, il moggio a Mazara, ad Agrigento ed a Palermo; il cantaro per il cotone a Palermo e ad Agrigento, il sacco a Mazara26. Il che rende praticamente impossibile la redazione d'una tabella di confronto delle tariffe doganali, tra un sito e l'altro, per l'esportazione. Rilevo ancora l'esistenza d'un doppio corso monetario nelle stesse tariffe daziarie, nel senso che, sebbene l'uso normale sia quello del tari, per la piazza di Messina la tariffa d'ingresso è stabilita in soldi, che ritengo debbano intendersi come soldi genovesi. Massimo centro di transito marinaro, Messina si configura come una sorta di centro finanziario internazionale, dove anche gli uffici pubblici accettano monete di vario tipo. Due clausole del diploma reale rivestono particolare importanza nei rapporti economico-politici tra Genova ed il Regno. 1) In caso di preparativi e di movimenti di guerra delle forze reali, le navi genovesi rimarranno bloccate nei porti del Regno, a meno che l'equipaggio ed i passeggeri V'è da ritenere che le indicazioni mensurali, contenute nel trattato, si riferiscano a quelle del Regno: tuttavia è noto il processo di variazione di pesi e misure nel decorso del tempo, sicché anche per esse le più tarde tavole di ragguaglio non possono fare testo. A prescindere, poi, dalle differenze tra un luogo e Γ altro. 26 Credo si possa ripetere a proposito dei «colli» per Messina e del «sacco» per Mazara l'osservazione di L. BALLETTO, Battista de Luco mercante genovese del secolo XV e il suo cartulario, Collana storica di fonti e studi 29, Genova, 1979, p. LXXI: «Misure come il sacco, il fagotto, il pondo, la balla, il ballone, il fardello non hanno un valore fisso, con preciso costante riferimento ad una unità di base (in peso od in capacità), ma variano non solo di luogo in luogo e di tempo in tempo, sibbene anche in un medesimo luogo, in un medesimo tempo o, addirittura, in un medesimo carico. Sono entità approssimative, tradizionali, di comodo, di cui si dovrebbe calcolare il valore esatto, una per una, di volta in volta».

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s'impegnino a non diffondere notizie sui movimenti militari dei regnicoli. 2) Le navi provenzali non saranno ammesse nei porti del Regnum ad mercatum né le navi regnicole si recheranno a commerciare in Provenza. Per quanto riguarda il primo punto, basterà tenere presenti gl'impegni della flotta normanna sia contro gl'interventi bizantini sia nell'esplosiva situazione del Nord Africa: si trattava comunque di una precauzione contingente, che non arrecava pregiudizio, о difficoltà sostanziali, ai traffici genovesi. Per il secondo, non posso non ricordare la posizione assunta da Genova con i trattati del 1138 con varie città provenzali, nel commercio marittimo27. Questa particolare clausola dei patti genovesi-normanni rientra dunque nel programma genovese per il monopolio del traffico mercantile nel Mediterraneo occidentale, ed è, forse, la più sfavorevole alla parte normanna, a danno della quale limita la concorrenza lungo una rotta importantissima, qual è quella che porta alle fiere della Francia. Il secondo diploma reale del novembre 1156, il quale forma un unicum con il primo sul piano del trattato bilaterale, garantisce l'osservanza del patto di amicizia da parte di Guglielmo e dei suoi successori; la tutela degli uomini e delle merci di Genova nelle terre e sui mari soggetti alla giurisdizione del re, fatta eccezione per i predoni e per coloro che si pongano contro il sovrano ed i suoi successori; la pronta giustizia a favore dei genovesi danneggiati dai regnicoli. Nel documento redatto dalla controparte genovese nel gennaio 1157, al giuramento di amicizia verso il re Guglielmo ed i suoi successori si aggiunge l'impegno, da parte di Genova, di vietare agli uomini della Repubblica di prestare servizio presso l'imperatore di Costantinopoli contro il re di Sicilia. Impegno più che altro formale, perché non si vede come le autorità genovesi avrebbero potuto ottemperarvi, quand'anche lo avessero voluto: tanto più che la Repubblica era da poco entrata in rapporti cordiali con Bisanzio ed attendeva la consegna del famoso quartiere nella capitale greca per i propri mercanti. Questa contropartita, inefficace, è l'unica che i Genovesi offrono in cambio dei vasti privilegi economici ottenuti presso il governo normanno. Ma chi sono i genovesi ai quali si applicheranno le clausole, così favorevoli, degli accordi del 1156-57? Non sono soltanto gli uomini della città e del Comune. Si citano e s'indicano infatti gli «universi homines lanue et illi universi qui sunt de districtu lanue, scilicet habitantes in maritima a G. PiSTARiNO, Genova e VOccitanici nel secolo XII, in «Atti del I Congresso storico Liguria-Provenza (Ventimiglia-Bordighera, 2-5 ottobre 1964)», Bordighera-Aix-Marseille, 1966: cfr. cap. V, in questo medesimo volume.

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Victimilio usque Portum Veneris». Genový in questa occasione prefigura il territorio su cui otterrà la districtio da Federico Barbarossa nel 1162: il territorio della Liguria storica, da Ventimiglia a Portovenere, estendendo a tutti i suoi abitanti, i quali dovrebbero esserne lieti e grati, il privilegio di commercio col Regno normanno, ma ponendosi, al tempo stesso, come l'unica intermediaria o, meglio, come l'unico interlocutore, anche a nome delle città rivierasche, compresa Savona, verso la corte di Palermo. Rimane a noi la curiosità di sapere entro quali limiti verso l'interno si estendesse la definizione di maritima: quindi, se si trattasse soltanto dei centri di mare, oppure anche di abitanti tra le colline28. Ma non v'è dubbio sull'abilità dell'azione politica (e non solo mercantile) condotta dalla Repubblica, che ottiene in sede internazionale, da un sovrano legalizzato dalla Sede Apostolica, un implicito riconoscimento della sua posizione, per così dire, di capitale giuridica della Liguria: il che le potrà essere di vantaggio ai fini del successivo riconoscimento da parte dell'Impero. Questi sono i patti che ressero sino alla fine i rapporti genovesinormanni, nonostante il periodo di declino degli anni 1162-64, allorché Federico Barbarossa meditò l'impresa di Sicilia ed ottenne in proposito l'appoggio (non sappiamo fino a quale punto forzato о spontaneo, tra speranze di vasti guadagni futuri e timori di perdere quelli esistenti) della Repubblica genovese. Lo stesso annalista del Comune, Carfaro, riconosce che il vantaggio pendeva tutto dalla parte di Genova: ...legatos de melioribus civitatis, Willielmum Ventum scilicet et Ansaldum Au­ ne, ad Willielmum, Sciculum regem, pro honore civitatis miserunt, qui honorifice a rege fuerunt recepti. Postea vero, cum multa diu et diu de honore regni et Ianuensis civitatis insimul tractavissent, tandem pacem et concordiam ex utroque latere taliter firmaverunt. Rex enim in toto suo districtu Ianuenses salvare, custodire, et de iniuriis iusticiam facere, omnesque Provintiales et Francigenas mercatores a regno suo expeliere, multaque alia, sicuti scriptum est in Ianunesi registro, presente sua regali curia et coram Ianuensibus legatis, sacramento firmavit. Legati autem postquam Ianuam venerunt, contione facta, cónsules cum trecentis hominibus iuraverunt quod non debent mortem regis vel captionem con­ siliari, et quod, si in tota terra regis in personis vel in peccunia depredationem fecerint, cónsules inde eifacient rationem. Quam nempe promissionem non solum regi tante potentie tanteque magnitudinis, verum etiam ceteris hominibus pacem tenentibus, Ianuenses usque modo absque sacramento firmiter tenuerunt et tenent. Unde quidem multa maiora et pulchriora Ianuenses accepisse quam fecisse, longe Sulla Maritima cf. G. PISTARINO, La "Maritima" delle carte notarili liguri, in «Annali di ricerche e studi di geografia», XI. 3, 1955, pp. 95-98.

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lateque a sapientibus per orbem dicitur et tenetur. Rex namque a multis et ma­ gnis potestatibus et civitatibus sola promissione sacramenta suscepit et recepit, et quod alicui sacramentum fecisset nisi lanuensibus solis mandatum est. Ergo quod Ianuenses maiora suscepisse quamfecisse verissime creditur et probatur29.

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Scendiamo dalle clausole del trattato alla concreta realtà delle vicende quotidiane, ai fini delle quali il trattato stesso venne concluso. Quale posto occupa il Regno normanno nel commercio genovese all'inizio del governo di Guglielmo I? Possiamo averne un'idea grazie al cartulario di Giovanni Scriba, fonte preziosa, anche se non esauriente, per il periodo dal dicembre 1154 (l'anno stesso dell'assunzione del sovrano al trono) all'agosto 1164. Secondo i calcoli compiuti da Erik Bach sui 1300 documenti in esso contenuti (esattamente 1306), i contratti di societas, di accomendacio, di cambio marittimo, nei quali risulta specificata la destinazione del prenditore, sono numericamente distribuiti come segue, per il periodo sopra indicato: Nord Africa: 73 Alessandria d'Egitto 58 Sicilia Siria Costantinopoli Spagna Francia meridionale Sardegna Salerno Italia centro-settentrionale

131 84 34 20 17 17 14 9 9

Ancora secondo i calcoli di Bach, la somma complessiva investita nei traffici per la Sicilia ascende a lire 6.689: «chiffre qui montre que la somme moyenne par voyage est sensiblement la même pour le royaume normand et les émirats de Barbarie» (i quali ultimi raggiungono infatti complessivamente le 6.103 lire, pur se si rimane al di sotto delle lire 10.075 registrate per la Siria, e delle lire 9.031, registrate per Alessandria d'Egitto)30. ¿K)

Annali genovesi di Caffaro e de* suoi continuatori dal MXCIX al MCCXCIII, a cura di L.T. BELGRANO, Roma, 1890, all'anno 1156. 30 E. BACH cit., pp. 50-51. La tabella del Bach è stata ripresa da D. ABULAFIA cit., p. 99.

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Siamo, comunque, molto al di sopra delle 2.007 lire, calcolate per Costantinopoli: donde appare evidente, sia dal numero dei contratti, sia dall'entità dei capitali, che la Sicilia è uno dei punti chiave nell'area d'intenso traffico del Mediterraneo del Sud, la quale si appoggia a mezziogiorno al Nord Africa e ad Alessandria d'Egitto, ad oriente alla Siria, soprattutto agli Stati crociati, nel cui ambito la recente caduta della Contea di Edessa non è stata una grave iattura, dal punto di vista economico, per gli Occidentali. Spagna, Corsica, Sardegna, da una parte, Costantinopoli, dall'altra, sono tuttora zone più marginali, come lo è, per i commerci genovesi, il Mezzogiorno continentale, dove Napoli figura una sola volta tra le carte dello Scriba ed Amalfi non compare affatto: sicché Salerno rimane l'unica rappresentante dell'interscambio con Genova per tutta l'area del Regno al di qua dello Stretto31. «La Sicile est la relation commerciale la plus important de Gênes quand aucune guerre n'y fait obstacle. L'Afrique du Nord joue un rôle grandissant, le commerce avec les ports de la Méditerranée orientale est actif, mais soumis aux fluctuations des conjonctures, les rapports avec Alexandrie font plus que contrebalancer ceux avec la Syrie chrétienne et Byzance»32. C'è dunque una diversificazione tra l'Isola ed il Mezzogiorno continentale nei rapporti di scambio che Genova intrattiene con il Regno normanno: una diversificazione la quale, oltre tutto, ci presenta un quadro opposto a quello di qualche decennio prima33, anche se allora si trattava di mercanti che dal sud (da Napoli, da Salerno, da Amalfi) venivano al nord, ed ora si tratta di mercanti che dal nord vanno al sud34. Non credo che sia una semplice questione archivistica, cioè una questione di sopravvivenza о di perdite documentarie: effettivamente nel giro di mezzo secolo la situazione è cambiata, nel panorama mediterraneo e nel quadro delle correnti economiche che in esso si muovono. In realtà, i rogiti relativi a Salerno non sono soltanto 9, ma una ventina, dei quali 6, per Salerno e la Sicilia in un medesimo viaggio, sono stati inclusi dal Bach unicamente sotto la voce «Sicilia»: vedi oltre. 32

E. BACH cit., p. 51.

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Cfr. G. PiSTARlNO, Genova e Amalfi nei secoli XII-XV, in «Atti del Convegno internazionale 14-16 giugno 1973: Amalfi nel medioevo», Salerno, 1977, pp. 285-349 (avverto il lettore di numerosi errori tipografici presenti in detto lavoro, dovuti al fatto che non mi è stato possibile controllare le bozze di stampa). 34

Naturalmente le cose non vanno considerate in senso assoluto. Fin dagl'inizi del secolo XII i Genovesi sono presenti in Sicilia, come più tardi essi non saranno del tutto assenti dalla Campania e dalla Calabria.

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Non potrei garantire l'esattezza delle tabelle fornite da Erik* Bach, non perché vi si contengano dati erronei, ma perché, in questo genere di statistiche, compilate sui rogiti notarili, i risultati sono diversi a seconda del metodo seguito nell'impostazione: ad esempio, se non erro, il Bach non ha tenuto conto dei prestiti effettuati a Genova per i traffici con l'Isola, i quali sono pur sempre somme impegnate nel commercio siciliano. Mi domando poi se i documenti relativi a singole città isolane debbano confluire sotto la voce generica della Sicilia, accanto cioè a quelli che presentano solo questa indicazione, oppure se debbano rimanere classificati a sé. Il Bach si attiene al primo metodo, il che, mentre appare giustificato da una parte, in quanto consente una panoramica generalizzata, è manchevole dall'altra, perché non permette di seguire l'articolazione dei traffici nelle diverse aree siciliane, e ci fa chiedere perché mai, allora, per restare in questioni di metodo, Alessandria sia stata considerata separatamente rispetto al Nord Africa. Ancora: i contratti, che prevedono traffico mercantile con una località, quale, ad esempio, Salerno, e successivamente con l'Isola, dove andranno collocati nella tabella comparativa, sia dal punto di vista numerico sia per quanto concerne l'entità dei capitali impegnati? Sotto la voce «Salerno» о sotto la voce «Sicilia»? Il Bach, se non erro (dal momento ch'egli non ci fornisce delucidazioni in proposito), si attiene al secondo sistema: io preferirei il primo; ma confesso che né l'uno né l'altro possono dirsi del tutto soddisfacenti. Né si può dimenticare che tutti questi dati statistici sono aleatori in quanto fondati sul solo registro notarile dello Scriba, mentre non mancarono altri notai che rogarono a Genova nel medesimo periodo, anche per i commerci con il Regno del Sud. Basterebbe il ritrovamento di uno dei loro registri a costringerci a modificare tabelle e statistiche. Ritengo tuttavia che le variazioni non sarebbero essenziali, tali cioè da capovolgere il quadro della nostra ricostruzione storica, e che le linee di tendenza siano proprio quelle che ci vengono indicate dalla superstite documentazione35. Si veda il caso dei traffici tra Genova e la Sardegna nel secolo XIII, illustrato da L. BALLETTO, Genova e la Sardegna nel secolo XIII, in «Saggi e documenti I», Civico Istituto Colombiano, Studi e Testi, Serie Storica a cura di G. Pistarino, 2, Genova, 1978, pp. 59-262; EAD., Documenti notarili liguri relativi alla Sardegna (secc. XII-XIV), in «La Sardegna nel mondo mediterraneo. Atti del primo Convegno internazionale di studi geografico-storici, Sassari, 7-9 aprile 1978», Sassari, 1981, II, Gli aspetti storici, pp. 211-260; EAD., Studi e documenti su Genova e la Sardegna nel secolo XIII, in «Saggi e documenti II», tomo secondo, Civico Istituto Colombiano, Studi e Testi, Serie Storica a cura di G. Pistarino, 3, Genova, 1981, pp. 7-246.

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Non sembra perciò inutile ogni tentativo di maggiore individuazione del quadro economico siciliano attraverso i contratti notarili delle controparti. Un alto numero dei rogiti genovesi, che hanno per destinazione la Sicilia, sono indirizzati genericamente all'Isola, la quale risulta così, in poco meno della metà di questi atti notarili, come la meta finale dei viaggi dei soci portatores36: grande «piazza» di mercato per lo scambio delle merci. L'indicazione generica dell'Isola risponde all'intento di facilitare l'imbarco del socio portator a Genova su qualunque nave colà diretta, e di non porre vincoli al libero movimento del medesimo tra le varie «piazze» isolane, ove si presenti la possibilità di guadagno о quando egli venga a conoscere in loco situazioni economiche ignote sul mercato genovese. Sembra evidente, tuttavia, che il capolinea principale di questo traffico è Palermo: il che risulta confermato da una ventina di documenti in cui la destinazione delle societates, delle accomendaciones, degli atti di cambio, dei prestiti è appunto questa città, senza varianti di itinerari, fatte salve pochissime eccezioni. Molto inferiore la presenza numerica di altri porti isolani quali meta finale dei mercanti genovesi: anzi, in realtà, potremmo limitarci a citare neppure una mezza dozzina di rogiti in cui compare Messina, uno per Trapani e, probabilmente, uno per Mazara (Másale). La Sicilia e/o i porti siciliani, come stazioni di transito о di traffico e transito verso altre destinazioni, non compaiono molto di frequente nel cartulario dello Scriba in rapporto al numero totale dei rogiti in esso con­ tenuti: certo meno di quanto mi sarei atteso. Sono una ventina di casi per la Sicilia; neppure una mezza dozzina per Palermo. Sotto questo aspetto emerge la posizione di Messina, sicché si può asserire che Palermo assolve precipuamente alla funzione di terminale del traffico genovese nell'Isola; Messina, a quella di stazione di transito. In genere, le mete successive del viaggio, dopo la tappa siciliana, non vengono specificate nei contratti, lasciandosi, con la formula «et inde quo voluerit» (e simili), piena libertà di movimento al socio portator. La quale libertà è limitata dalla clausola del «prêter in devetum» soltanto in un paio di documenti del 1160: un contratto di societas del 12 maggio per Palermo «et inde Sciciliam et inde quo lignum et homines ipsius ligni Estendo, per comodità, a tutti i tipi di contrattazione economica bilaterale, con impiego di capitali, la terminologia di socio stans e di socio portator, che è tipica dell' accomendacio e della societas. E ricordo che nei contratti dello Scriba la distinzione tra queste due forme contrattuali non risulta ancora così netta come sarà non molto più tardi. Sull'accomendacio cfr. il lavoro di J.H. PRYOR, The origins of the «commenda» contract, in «Speculum», LII, 1977, pp. 5-37.

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iverint, excepto deveto», dove risulta chiara l'eventualità che la nave si rechi in terra proibita, mentre ciò non è concesso al socio portaton un contratto di societas del 9 giugno per la Sicilia «et inde quo velit» il socio portator, «prêter in devetum». Ma i limiti maggiori venivano da circostanze esterne. Imbarcandosi per il viaggio, il socio portator entrava a far parte, non formalmente, ma nella realtà di fatto, d'una sorta di associazione, costituita dagli altri mercanti, talvolta anche dai patroni, dagli ufficiali, dai marinai della nave, i quali ultimi (patroni, ufficiali, marinai) spesso conducevano qualche traffico in proprio, accanto all'attività di bordo. Se il socio stans o il socio portator non erano essi stessi proprietario о azionista del legno, oppure se questo non era stato preso in noleggio esclusivo о maggioritario, la meta precisa per la prosecuzione del viaggio dopo il primo approdo, pre­ ventivato alla partenza, e le variazioni di itinerario venivano concordate a maggioranza tra i mercanti le cui merci erano imbarcate sulla nave37. In un contratto di prestito marittimo per la Sicilia, del 19 agosto 1160, Gandolfo di Gotizone stipula la restituzione del capitale con gli interessi, «sana eunte Sciciliam navi qua Ocellus [comproprietario della medesima] vadit et sana reduente infra mensem post: que si vendetur vel iter mutaverit, sana veniente ea qua ipse Ocellus ea estate venire incipet aut maiorem partem rerum suarum honeraverit; vel, si non veniret, sana veniente ea qua maior pars mercatorum, qui secum vadunt, venire incipient aut maiorem partem rerum suarum honeraverint»38. Se una scelta del natante per l'im­ barco del socio portator era possibile all'inizio del viaggio о addirittura prestabilita, altrettanto non avveniva per il viaggio di ritorno: non di rado s'incontra nei contratti la clausola che prescrive al socio portator, esaurito il negozio, di prendere la prima nave che salperà per Genova dalla Sicilia о da un determinato porto siciliano. Non mancano contratti in cui la destinazione del viaggio, dopo la tappa siciliana, è indicata con precisione. Dalla Sicilia si va о si può andare (ad libitum del socio portator) ad Alessandria d'Egitto ed al Nord-Africa, od anche in Ultramare, cioè nel vicino Oriente, od in Romania, come si può tornare direttamente a Genova. Sono questi gl'itinerari più semplici. Altri, invece, sono più complessi, e ci consentono d'individuare le linee di G. PISTARINO, Gente del mare nel Commonwealth genovese, in «Le genti del Mare Mediterraneo. Atti del Colloquio intemazionale di storia marittima, Napoli, 28-30 gennaio 1980», Napoli, 1981, vol. I, pp. 203-290; L. BALLETTO, In tema di marineria genovese, ibidem, pp. 357-396. 3 II cartolare di Giovanni Scriba cit., n. 274.

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maggiori circuiti mercantili nel Mediterraneo, includenti la Sicilia: viaggi compiuti spesso con cambio di nave (e quindi da non intendersi come itinerari stabili di navigazione) e con la possibilità, per il socio portator, di optare tra direttrici diverse. Ecco qualche schema esemplificativo: ^ «..·.. л, ι. Genova - Sicilia - Alessandna Genova - Denia

f Genova