Introduzione Al Vangelo Di Giovanni [PDF]

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Zitiervorschau

Sintesi tratte da: R.E. BROWN, Giovanni, 1979 Parrocchiale V. FUSCO, Vangelo secondo Giovanni,1992 Grazie

Catechesi biblica Santuario Maria SS. Delle

UNITÀ E COMPOSIZIONE DEL QUARTO VANGELO Il problema Il quarto vangelo è opera di un solo autore? Vi sono in esso varie difficoltà per sostenere la teoria di un unico autore. 1. Differenze nello stile del greco del vangelo. Per esempio il prologo è scritto in forma poetica con uno stile molto abile e una terminologia molto aulica e precisa a differenza del corpo del vangelo che ha uno stile più semplice. 2. Vi sono fratture e incoerenze sia nella cronologia dei fatti, sia nella geografia, anche se bisogna tener presente che il vangelo stesso afferma che il suo resoconto è incompleto come risulta da 20,30 e 21,25. In 14,31 Gesù conclude le sue osservazioni e da ordine di partire, però poi vi sono tre capitoli in cui Gesù fa un discorso che fa tardare la partenza fino al 18,1. 20,30-31 è una chiara conclusione del vangelo, segue tuttavia un altro capitolo indipendente con un’ulteriore conclusione. Dopo il primo miracolo alle nozze di Cana (2,11) Gesù opera miracoli in Gerusalemme (2,23), successivamente si narra di un altro miracolo a Cana (4,54) come se chi scrive non sapesse ciò di cui si parla in 2,21. Inoltre in 7,3-5 si parla come se Gesù non avesse mai operato miracoli in Giudea. Si riscontrano ancora altre difficoltà del genere all’interno del IV Vangelo. Di alcune si possono trovare anche possibili soluzioni ma non di tutte. Risulta così evidente uno schema preordinato e coerente con delle inserzioni di elementi che ne indicano una successiva alterazione o edizione. 3. Si riscontrano ripetizioni nei discorsi e passi che non appartengono al contesto. Esempio di una ripetizione la troviamo in 5,19-25 e in 6, 35-50 Un esempio di inserzione postuma invece la troviamo in 12,44-50 : Gesù fa una proclamazione pubblica ma era appena stato detto che egli era andato a nascondersi. Possibili soluzioni Queste considerazioni hanno fatto abbandonare l’idea di un singolo autore del vangelo, e sono sorte nuove teorie in merito:

1. Teoria degli spostamenti accidentali: per un fortuito spostamento dei vari pezzi del vangelo sarebbe andato perso l’ordine iniziale. Ma non abbiamo nessuna prova di ciò: tutti i manoscritti antichi del IV vangelo hanno tutti lo stesso ordine. Degli studiosi in passato hanno provato a riordinare il vangelo, ma le difficoltà in merito sono 3: I. Il pericolo che il riordinamento rifletta il modo di pensare di chi lo compie. II. I riordinamenti partono dal presupposto che il vangelo così com’è non offra un senso soddisfacente, il che è chiaramente inverosimile. III. Queste teorie dello spostamento non offrono un’adeguata spiegazione di come sia avvenuto tale spostamento.

2. Teorie delle fonti multiple: l’evangelista avrebbe soltanto messo insieme vari scritti preesistenti e avrebbe inserito solo pochi versi di collegamento tra di essi. Alcuni tra coloro che sostengono questa tesi, individuano sostanzialmente tre fonti principali: a.I. La fonte dei segni a.II. La fonte dei discorsi della rivelazione a.III. La fonte della passione e resurrezione L’evangelista avrebbe combinato queste tre fonti insieme facendo veicolare in esse il proprio pensiero Ma anche per accettare questa teoria come esaustiva vi sono varie difficoltà : I- I segni e i discorsi in più punti sono strettamente redatti l’uno nell’altro e non lasciano intendere che siano 2 fonti accostate l’una all’altra. II- Nei discorsi vi sono diversi detti di Gesù, come li si riscontra nei sinottici (ipsissima verba Jesu), che non lasciano teorizzare, per più motivi, una precedente fonte dei discorsi. III- Non è possibile verificare la differenza stilistica tra le diverse fonti, si da poterle identificare e isolare.

3. La teoria delle redazioni multiple: il vangelo sarebbe stato trascritto più volte aggiungendo di volta in volta altro materiale. Però a questo punto rimarrebbe da chiarire quante volte sia stato trascritto e se sia stato fatto da un unico autore.

Sintesi tratte da: R.E. BROWN, Giovanni, 1979 Parrocchiale V. FUSCO, Vangelo secondo Giovanni,1992 Grazie

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La teoria di Brown che adotteremo noi. Studieremo il IV vangelo così come ci è stato trasmesso, nel suo ordine attuale. Terremo però presenti 5 stadi che hanno portato alla redazione finale 1. L’esistenza di un corpo di materiale tradizionale riguardo alle opere e alle parole di Gesù proprio di questo vangelo e sganciato da quello usato dalla tradizione sinottica. 2. Lo sviluppo di questo materiale, nel corso di decenni, arricchito dalla predicazione orale dell’evangelista, vagliato e riorganizzato secondo gli schemi propri dell’evangelista. 3. Una prima redazione del vangelo ad opera dell’evangelista. 4. Una seconda edizione, sempre per opera dell’evangelista, arricchita e un po’ ampliata. 5. La redazione ultima fatta da un redattore finale, magari uno stesso amico-discepolo dell’evangelista che ne rispecchia in tutto l’intento e conosce bene il suo modo di evangelizzare e pensare. Anche questa teoria ha i suoi limiti e le sue inadeguatezze, ma comunque offre un metodo di studio che elimina molti ostacoli e rende più semplice la comprensione. Destinazione e scopo del IV vangelo Il Vangelo di Giovanni ha una sua tradizione storica e teologica ben precisa, la quale deve sempre essere tenuta presente, e che esso intende custodire e preservare. Ciò però non toglie che esso ha anche degli scopi immediati che servirono comunque per confermare i cristiani nella loro fede. 1. Apologetica contro i seguaci di Giovanni il Battista: come testimoniano in At 18,5-19,7, vi erano dei discepoli di Giovanni il Battista che avevano mantenuto e diffuso “l’opera” del Battista a scapito di Gesù. Per questo motivo il Prologo del IV vangelo fa un esplicito riferimento a Giovanni il Battista e al suo status nei confronti di Gesù: in 1,20 e 3,28 è detto chiaramente che Giovanni il Battista non è il messia, e in 10,41 si afferma che egli non ha mai operato miracoli. In 3,30 Giovanni il Battista afferma che la sua importanza diminuisce davanti a Gesù. 2. Controversia con i giudei: vi è nel IV vangelo un atteggiamento di polemica di Gesù nei confronti dei Capi del popolo, che viene sottolineato dall’uso del termine “Giudei” volendo indicare con esso tutti coloro che erano ostili a Gesù, in primo luogo le autorità religiose e i capi del popolo. Infatti nel vangelo di Giovanni non ritroviamo i partiti politico-religiosi che si riscontrano spesso nei sinottici, quali farisei, sadducei ecc., ma il termine “giudei” li racchiude tutti, anche in considerazione del fatto che il IV vangelo fu scritto dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C. e in quel periodo storico i partiti polico-religiosi avevano perso di importanza. Giovanni insiste ed enfatizza molto nell’usare alcuni termini e titoli di Gesù proprio come sottolineatura di questa controversia: i giudei rifiutano Gesù che è il Messia, il Servo di Dio, l’Agnello Apocalittico, il Re d’Israele, il Santo di Dio, colui che compie le promesse delle attese veterotestamentarie di Israele. Un altro aspetto di tale controversia è dato dall’uso del termine “Israele”, volendo identificare con esso coloro che sono i veri eredi delle promesse dell’ AT. Natanaele, per esempio, non è un Giudeo, ma un vero israelita (1,47) perché in lui non vi è falsità e accoglie prontamente Gesù. Bisogna però fare attenzione a quando il termine giudeo indica solamente una provenienza geografica o religiosa: nel caso di Gesù con la Samaritana (4,22) il termine “Giudei” è chiaramente usato per una tradizione religiosa. Da ciò possiamo desumere che l’atteggiamento di Giovanni verso la sinagoga è apologetico e non missionario: nel periodo in cui scrive Giovanni i cristiani erano stati cacciati dalla sinagoga e nella preghiera delle “Diciotto Benedizioni” del culto sinagogale era stata inserita nella 12 benedizione una vera e propria maledizione verso i cristiani considerati eretici. 3. Disputa contro i cristiani eretici: in questo periodo cominciano a nascere le prime eresie cristiane sulla divinità e sulla umanità di Gesù, come testimoniato anche da fonti extrabibliche, quali il Docetismo che considerava apparenza sia l’umanità di Gesù che la sua passione. Vi sono alcuni passi di Giovanni che tendono a ben specificare l’umanità reale di Gesù: la Parola si è fatta Carne (1,14), il costato trafitto da cui sgorga sangue e acqua (19,34) che sottolinea senza alcun margine di errore che non si tratta di un fantasma ma di vera umanità e vera sofferenza. Di questo fine antieretico del vangelo però non riscontra una forte intenzionalità nell’evangelista. 4. Incoraggiamento ai cristiani credenti: vi è un interesse latente nel vangelo verso i gentili(7,35), quasi a voler profetizzare che anche essi un giorno crederanno in Gesù (anche se in modo ironico 19,1-3): basta solo pensare alla premura di spiegare alcuni termini ebraici di cui Giovanni stesso fa uso: 1,38.41; 9,7; 20,16. Quindi il Vangelo è rivolto al credente Cristiano, senza distinzione di provenienza: egli appartiene al nuovo popolo, uscito dall’ovile ebraico o venuto da fuori (10,16). Il nuovo popolo è formato da coloro che hanno accolto Gesù e che non sono generati da desiderio umano ma da Dio (1,12-13), essi sono figli di Dio e quindi possiedono già la vita eterna, l’escatologia è già realizzata perché hanno già incontrato Gesù.

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LA DATAZIONE DEL IV VANGELO Per cercare una possibile datazione del IV vangelo bisogna partire da una data abbastanza sicura: il “concilio di Jamnia”, cioè il momento in cui i rabbini riuniti in assemblea decretarono non solo in canone biblico Ebraico (Tanak) ma anche la cacciata dei cristiani (ritenuti eretici) dalla sinagoga e l’introduzione della maledizione verso gli eretici nella preghiera delle 18 benedizioni1. Tale assemblea si tenne presumibilmente nel 85 d.C.: partendo da essa ritroviamo nel IV vangelo elementi, nelle varie controversie con i giudei, che alludono a questa in modo indiretto. Quindi bisogna postulare la redazione ultima tra il 85 e il 95 d.C. visto che già scritti extrabiblici cristiani dell’inizio del II secolo fanno allusione indiretta al IV vangelo; ciò vale a dire che era già edito e diffuso verso il 100 d.C.

L’AUTORE DEL VANGELO DI GIOVANNI Testimonianze esterne Sono diverse le testimonianze degli autori dei primi secoli cristiani sull’attribuzione del IV vangelo a Giovanni figlio di Zebedeo. Ognuna di esse, a vario titolo, sembra certa di questa attribuzione, quasi a voler testimoniare che era oramai fissata nella tradizione2. Però dagli studi incrociati di queste testimonianze e da altre testimonianze bibliche risultano alcune incoerenze e imprecisioni, anche se esse non bastano a dichiarare falsa l’attribuzione giovannea del IV vangelo. Tutto ciò anche a causa della difficoltà del tempo di trasmettere con una certa precisione alcune notizie o di puntualizzare, infatti la comunicazione delle informazioni era lenta e farraginosa. Testimonianze interne Vi sono 2 testimonianze esplicite all’interno del vangelo sul suo autore 19,35 : chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Qui vi è esplicitamente un testimone oculare. Anche se non dice la sua identità, noi sappiamo che ai piedi della croce vi era il “discepolo che Gesù amava” come affermato appena qualche versetto prima 19, 26 21,24 : Questi è il discepolo che rende testimonianza a questi fatti e li ha scritti, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. L’uso delle terza persona non ci fa capire se li abbia scritti materialmente lui oppure li abbia fatti scrivere. Ma resta fermo sulla autorevolezza della sua testimonianza. Bisogna però tenere presente che questi 2 riferimenti potrebbero essere delle aggiunte postume fatte solo alla redazione finale del vangelo e che magari essi potrebbero non trovarsi alla prima stesura di esso; l’intento, quindi, sarebbe quello di volersi rifare ad una autorità della primaria comunità apostolica per conferire la stessa autorità allo scritto. Ma: Chi è il discepolo che Gesù amava? Nel IV vangelo troviamo tre tipi di riferimento a discepoli “anonimi”: 1) 1,37-42 : dei due discepoli del Battista che poi seguono Gesù, uno è Andrea, ma dell’altro non conosciamo il nome 2) 18,15-16 e 20,2-10 : troviamo qui “l’altro discepolo”, e nel secondo riferimento tra parentesi è detto “quello che Gesù amava” 3) Troviamo 6 riferimenti al “discepolo che Gesù amava”: 13,23-26; 19,25-27; 20,2-10; 21,20-23; 21,24

1 La dodicesima benedizione recita cosi: >

2 Una delle più importanti è quella di Ireneo di Lione, il quale attribuisce a “Giovanni il discepolo del Signore” il IV vangelo (anche se egli non afferma specificamente che fosse il Figlio di Zebedeo). Nella “Storia della Chiesa” di Eusebio di Cesarea, troviamo che Ireneo aveva ricevuto questa informazione direttamente da Policarpo di Smirne il quale a sua volta aveva ascoltato direttamente Giovanni

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Confrontando questi testi ne deriva che solo in 20,2-10 noi troviamo che “l’altro discepolo” è identificato con il Discepolo Amato (=DA) , ma questo è abbastanza per indurci a credere che si tratti sempre dello stesso discepolo, quello che è il “testimone dei fatti”. Ma come mai preferisce rimanere anonimo (magari per modestia) e poi parla di se stesso come “amato”? Una soluzione possibile consisterebbe nel fatto che, non avendo scritto egli di suo pugno il IV vangelo ma bensì quelli della sua comunità, avessero questi ultimi inserito tra parentesi “quello che Gesù amava” per poter così identificare “l’altro discepolo”. Sono state proposte varie soluzioni per identificare il DA: • Il DA quale figura simbolica,non reale, del perfetto discepolo che resta vicino a Gesù nell’ultima cena, sotto la croce, ed è anche il primo a credere alla sua reale resurrezione. • Lazzaro, unica figura maschile di cui si dice che Gesù lo amasse. A rafforzare questa tesi vi è il fatto che tutti i testi che riferiscono del DA compaiono tutti dopo la resurrezione di Lazzaro. Ma se così fosse allora perché poi usare l’anonimato dopo che il lettore aveva conosciuto questa figura? Qualcuno ha pure ipotizzato che Lazzaro fosse uno pseudonimo di Giovanni di Zebedeo, ma sarebbe troppo complicato sostenere la difesa di tale teoria. • Altra tesi è che il DA sia Giovanni Marco. Il vangelo fa largo riferimento a Gerusalemme e Giovanni Marco abitava li; Sembra che Giovanni Marco avesse parenti nella casta sacerdotale, e questo spiegherebbe perché è conosciuto dal sommo sacerdote (18,15) ; in At 12,12 e 1Pt 5,13 sembra che Giovanni Marco conoscesse bene Pietro e quindi si spiegherebbe il fatto che nel vangelo il DA sia sempre associato a Pietro e tutta l’importanza data a Pietro dal IV vangelo. Le obiezioni a questa tesi sono schiaccianti: dal Vangelo è chiaro che il DA è uno dei 12 mentre Giovanni Marco non lo è; L’intimità del DA con Gesù è molto palese ma anche dai resoconti dei sinottici mai appare la figura di Giovanni Marco (né tantomeno di Lazzaro), se egli fosse stato il DA come mai si tace la sua figura nei sinottici visto il grande attaccamento al Maestro? Vi sono però molti punti a favore di Giovanni di Zebedeo. Egli risponde bene a tutti gli interrogativi sul DA: innanzitutto è uno dei dodici; è sempre associato a Pietro e a Giacomo quando Gesù li sceglie per stare con lui in momenti particolari e questo è testimoniato anche dai sinottici; la sua stretta familiarità con Pietro. Inoltre il IV vangelo afferma di essere il “ricordo” delle memorie del DA mentre per i sinottici in prevalenza è il ricordo di Pietro: la tradizione ha sempre affermato che il Vangelo di Marco è il risultante della predicazione di Pietro, e in seguito Luca e Matteo hanno usato il Vangelo di Marco quale canovaccio fondamentale per i loro Vangeli. Ora solo il DA ha avuto accesso, come Pietro, anche a quei momenti di intimità profonda da cui furono esclusi gli altri (per es. la trasfigurazione), quindi il IV Vangelo sarebbe il risultante del “ricordo” di Giovanni, non contrapposto a quello di Pietro, ma collaterale, e conserverebbe tutto il rispetto della Chiesa nascente verso Pietro 3. La paternità giovannea del IV vangelo e la teoria di composizione. Cerchiamo di capire meglio la teoria dei 5 stadi 4 della composizione del IV Vangelo anche alla luce della tesi che sia Giovanni di Zebedeo il suo autore. Bisogna innanzitutto ricordare che Giovanni non scrisse direttamente il vangelo, quanto piuttosto furono coinvolte altre persone insieme con lui, come ci confermano antichissimi documenti quali il Frammento Muratoriano 5, Clemente Alessandrino, la prefazione alla Volgata, Papia ed altri documenti di minore importanza. Lo stadio 1: dobbiamo qui postulare una tradizione storica di materiale proveniente da un testimone oculare. La difficoltà consiste nel fatto che all’interno del vangelo questa tradizione che precede la stesura del vangelo, a volte è più minuziosa a volte è più scarna, quindi come potrebbe provenire dalla stessa persona? Ma bisogna pure considerare il fatto che il testimone oculare può optare delle scelte motivate adattando e sviluppando le sue memorie sui detti e fatti di Gesù. Questo è ancora più logico se il testimone oculare è Giovanni di Zebedeo: designato da Gesù quale apostolo, era chiamato a predicare agli uomini e quindi doveva necessariamente adattare ai suoi ascoltatori le tradizioni di cui era testimone vivente.6 Gli stadi 2-4: qui la tradizione storica viene organizzata in discordi raffinati, curata nei particolari, drammatizzata. In questi stadi viene fuori il discepolo-evangelista, cioè colui che riceve la tradizione storica dal testimone oculare e la 3 Basti pensare che il mattino della resurrezione il DA arriva per primo al sepolcro, ma aspetta che Pietro lo raggiunga e gli cede in passo: è Pietro il primo a vedere le bende e il sepolcro vuoto.

4 A pag 2 vi è la teoria dei 5 stadi di Brown 5 Datato nel 170 d.C , ci riferisce che Giovanni fu incitato dai discepoli e vescovi a scrivere e riferì

6 Il testimone oculare apostolico non rispecchia l’idea moderna del cronista imparziale e minuzioso, egli era chiamato ad interpretare le parole e i fatti di Gesù ed adattarli secondo le necessità della predicazione.

Sintesi tratte da: R.E. BROWN, Giovanni, 1979 Parrocchiale V. FUSCO, Vangelo secondo Giovanni,1992 Grazie

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adatta e le dà forma scritta e discorsiva. Questo è possibile grazie allo stretto rapporto che c’è tra Giovanni e i suoi discepoli, che ricevono da lui lo spirito e l’ossatura portante dell’evangelizzazione, ma anche il suo stesso incoraggiamento a sviluppare le sue memorie secondo le esigenze della comunità. Secondo la tradizione del vangelo stesso, Giovanni vive a lungo quindi i suoi discepoli ritornano più volte dal maestro per nutrirsi della sua conoscenza profonda di Gesù. Dobbiamo però supporre che tra i discepoli di Giovanni vi sia stato uno principale, il quale si sia contraddistinto nel trasmettere la testimonianza storica, nella capacità di drammatizzazione e nello sviluppo teologico del materiale al quale ha dato poi la forma del vangelo. In questa fase di stesura del vangelo egli parla a nome di Giovanni e impersonificandosi in lui, in quanto è lui la fonte storica, il testimone oculare, colui che ha intimità con Gesù, e colui che è garanzia della verità teologica. Lo stadio5: Qui ritroviamo il redattore finale, colui che poi lo pubblica. Questo personaggio appare nel cap 21. Infatti in 21,24b vi è un “noi” che si distingue dal DA al quale egli fa riferimento poco prima in 21,24°. Molto probabilmente Giovanni era morto, dopo una vita abbastanza lunga, quando fu pubblicato il suo vangelo come è testimoniato in 21, 2223. Il luogo della composizione Vi sono testimonianze a favore di Alessandria quale luogo di composizione, grazie all’esistenza di alcuni papiri egiziani che parlano della presenza di Giovanni in quella città. Qualche altra testimonianza parla di Antiochia, soprattutto in relazione con Ignazio di Antiochia che sembra usare nei suoi scritti uno stile e una teologia molto affine a quella giovannea, cosi da supporre che egli abbia dimorato in quella regione. Efeso però rimane la candidatura principale per il luogo della composizione: sono molte le testimonianze antiche che parlano di Giovanni a Efeso. Anche la diatriba accesa tra la sinagoga e i cristiani, in questa regione molto accentuata, sembra ben accordarsi con la attigua tematica che si ritrova nel Vangelo di Giovanni, come anche la polemica con i discepoli di Giovanni il Battista i quali erano molto presenti in Asia minore.

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L’ERMENEUTICA DEL VANGELO DI GIOVANNI Il vangelo di Giovanni si presenta come opera abbastanza tardiva se la mettiamo in relazione con gli altri scritti del NT. Quindi Giovanni si trova a dover analizzare e affrontare vari problemi, e 2 in particolare: 1) colmare la distanza storica tra la sua narrazione e la figura di Gesù vissuto circa 60 anni prima; 2)il nascere delle prime questioni Cristologiche e le prime eresie. Come abbiamo visto in precedenza, egli non si rifà alla tradizione storica già esistente come fanno i sinottici, ma segue una propria tradizione storica: il linguaggio del Cristo giovanneo, come anche tutti i personaggi del suo vangelo, usano un linguaggio proprio, differente dal linguaggio sinottico. Egli non vuole né completare, né sostituirsi alla tradizione sinottica, ma vuole presentare un’immagine di Gesù che rinvigorisca la fede e dia la “vita”7 Il circolo ermeneutico del Vangelo Vi è nel vangelo un rapporto circolare tra il tutto e le sue parti: il significato complessivo del tutto si comprende per mezzo delle sue parti, ma le singole parti prendono luce proprio in riferimento al tutto. Una struttura dinamica a cerchi concentrici che allarga progressivamente la comprensione con l’anticipo del significato. Un elemento importante da tener presente è la tensione che ci deve essere tra la familiarità e l’estraneità del messaggio trasmesso dalla tradizione: in questo modo siamo in una situazione centrale dove si crea tensione tra l’appartenenza a una tradizione e la nostra distanza dagli argomenti che approfondiamo. Qui la distanza temporale segna non un precipizio da saltare, ma una soglia dove sono radicate le radici del nostro presente, una continuità che si evolve nel tempo e si arricchisce di elementi che ne fanno “tradizione”. Giovanni guarda indietro, al passato del suo Gesù storico, partendo dal suo presente nel quale compone. L’incontro con il passato e con la tradizione è determinato dalla problematica del presente: la figura storica di Gesù irrompe nel presente. Lo schema del Vangelo Prologo 1,1-18 Libro della Testimonianza 1, 18-51 Libro dei Segni 2-12 • Sezione dei segni 2-4,54 • Sezione delle opere 5-10 • Viaggio a Gerusalemme 11-12  Conclusione della prima parte 12,36b-43  Epilogo dottrinale della prima parte 12,44-50 Libro della Gloria 13-20 • Discorsi di addio 13-16 • Preghiera sacerdotale 17 • Passione e resurrezione 18-20  Epilogo del Vangelo 20,30-31 Appendice 21



Nuovo epilogo 21,24-25

7 Nella Storia della Chiesa di Eusebio di Cesarea si dice che Giovanni, seguendo l’invito dei suoi stessi discepoli, e divinamente ispirato dallo Spirito Santo, scrisse un vangelo spirituale.

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IL RICORDO GIOVANNEO Per capire la concezione unitaria del Vangelo di Giovanni bisogna partire da quelle che sono le “rubriche” di lettura che l’evangelista introduce in alcuni testi, una specie di “confessiones” dove il discepolo manifesta la sua esperienza a partire dalla resurrezione. Prendiamo in esame due di queste rubriche 8: • 2,17.22 Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. Questa prima annotazione interrompe il brano della purificazione del tempio e dice chiaramente che è stato solo dopo la resurrezione che si è avuto il punto di svolta nella comprensione da parte dei discepoli



12,16 Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto. Questa seconda annotazione interrompe il brano dell’ingresso in Gerusalemme. Anche qui è sottolineata la glorificazione quale momento di svolta nella comprensione. Giovanni distingue 2 tipi di comprensione: 1. “Secondo la carne”, che per lui equivale al non comprendere. 2. “Secondo lo Spirito”, che è la comprensione vera e che parte dall’evento della glorificazione e resurrezione. L’incomprensione, o comprensione secondo la carne, è bene espressa in 3,31 dove dice chiaramente che chi appartiene alla terra usa parametri terreni e della sua esperienza umana, quindi resta orbo davanti ai “segni” che Gesù compie (12,37) e tutti gli sforzi di Gesù per portarli ad una conoscenza più alta, sono vani. E non sono solo i giudei a non comprendere, ma anche i discepoli, i quali solo verso la fine manifesteranno di cominciare a capire, quando Gesù comincerà a parlare con loro apertamente 16, 29 -30 Gli dicono i suoi discepoli: «Ecco, adesso parli chiaramente e non fai più uso di similitudini. Ora conosciamo che sai tutto e non hai bisogno che alcuno t'interroghi. Per questo crediamo che sei uscito da Dio». Ma subito sono ammoniti da Gesù perché questa conoscenza non è ancora reale, sta per arrivare lo smarrimento (16,3233) solo dopo la glorificazione resurrezione vi sarà la conoscenza vera. Gesù dice più volte che la conoscenza vera avverrà in seguito: 13,17.36; 16,23.26 Diventa chiaro a questo punto che il “ricordare” le opere di Gesù a partire dall’evento della risurrezione veicola la vera conoscenza e il contenuto della fede mediata dalla Pasqua. Per tutti resterà tutto enigmatico, ma per il discepolo che guarderà indietro illuminato della resurrezione sarà tutto chiaro. “Il ricordo di fede- ricordo che sfocia nella fede ed è già in se stesso un ricordo credente- non riproduce in forma di cronaca il passato, ma lo interpreta alla luce dei tre giorni9” Credere alla scrittura attraverso il ricordo Il ricordo illuminato dalla resurrezione non solo suscita la vera comprensione, quella secondo lo Spirito, ma porta anche ad una intelligenza più profonda della Scrittura. La missione di Gesù viene vista nella sua totalità a partire dalle promesse dell’AT: una conoscenza e intelligenza Cristologica della Scrittura. Quindi anche il citare le Scritture rientra in quella comprensione vera che rende chiare e realizzate in Gesù le promesse fatte ai padri. Il ricordo, l’anamnesi, rende possibile la trasposizione della storia in Kerigma, in conoscenza della fede. Il vangelo allora non è semplice racconto storico, ma è anamnesi, è Kerigma, è conoscenza vera. Il ricordo dello Spirito Il ricordare il passato di Giovanni non è un semplice ricordo affettivo o un’azione psicologica, esso è un ricordo guidato dallo Spirito Santo (Pneumatologico) mandato ai discepoli dal Cristo glorioso 10. Anche lo Spirito Santo fa parte del ricordo Giovanneo ed è egli stesso che lo suscita: 14,26 Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto

8 Sono due citazioni paradigmatiche del “ricordare” di Giovanni e dei discepoli che vanno applicate a tutto il Vangelo. 9 V. Fusco. 10 Si intende qui il significato più pregnante possibile del Cristo crocifisso e risorto.

Sintesi tratte da: R.E. BROWN, Giovanni, 1979 Parrocchiale V. FUSCO, Vangelo secondo Giovanni,1992 Grazie

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Viene qui annunziata, sottoforma di promessa, l’attività dello Spirito Santo nei confronti dei discepoli. Il verbo “insegnare” in Giovanni ha il valore di “rivelare” e l’oggetto di questa azione è l’opera gesuatica. Lo Spirito Santo non viene a dare una rivelazione o un insegnamento nuovo, quasi fosse un concorrente di Gesù, o magari come completamento; la sua missione è spiccatamente cristologica: “prenderà del mio e ve lo annunzierà (16,14)” Egli è Spirito di Verità che conduce alla Verità tutt’intera (16,13), cioè conduce e rivela Cristo. Nel ricordare ai discepoli, lo Spirito Santo diventa il comunicatore delle cose del Cristo glorioso ai discepoli, egli fa rispendere nel discepolo la gloria del Risorto e guida la Chiesa nel futuro (16,13). 11 Rileggendo tutti i brani sul Paraclito 12 alla luce di tutto ciò, appare chiaro che Giovanni veda il suo vangelo come l’opera nata dalla comunione e collaborazione dello Spirito Santo, il quale annunziando fa ricordare, e dei discepoli che ricordano. Il ricordo ecclesiale Il “ricordo” giovanneo non è mai del singolo, ma è sempre un fenomeno di tutta la Chiesa: egli infatti usa sempre il plurale. L’azione svolta dallo Spirito investe tutta la comunità ecclesiale, essa è un’azione che parte dai discepoli e si allarga alla Chiesa. L’evangelista si fa portavoce del ricordo comune di tutta la Chiesa; una sola voce, alta, solenne, ma pur sempre voce corale. Il vangelo di Giovanni è un racconto vissuto nel ricordo di tutta la Chiesa, che diventa memoria e interpretazione dell’opera del Cristo, un’interpretazione mediata dallo Spirito Santo che ripresenta e rivela la Gloria del Cristo glorioso e risorto e la guida nel futuro, accompagnata dalla “tradizione nel ricordo” del Suo Signore. Il ricordo e la risurrezione Il ricordo giovanneo, illuminato dallo Spirito, è svegliato dall’urto degli eventi drammatici che investiranno anche i discepoli (15,20; 16,4). In questi momenti essi devono ricordare le parole di Gesù: 16,4 Ma io vi ho detto queste cose perché, quando giungerà la loro ora, ricordiate che ve ne ho parlato. Non ve le ho dette dal principio, perché ero con voi. Nei 2 testi che abbiamo usato per capire il ricordo Giovanneo (2,22; 12,16) la resurrezione è presentata come glorificazione, cioè la resurrezione è epifania della gloria. Ne abbiamo quindi che la resurrezione-glorificazione è: • L’inizio del ricordo nel tempo • L’evento nella cui luce si muove il ricordo Quindi non solo il vangelo di Giovanni nasce dalla risurrezione, ma esso fa della resurrezione il centro intorno a cui si muovono le singole parti. Questa è quell’intrinseca unità tra il tutto e le sue parti di cui abbiamo parlato sopra 13. Emblematico è il racconto della tunica di Gesù (19,23): come essa era tutta d’un pezzo senza cuciture, così è il vangelo nel rapporto tra il tutto e le sue parti. L’evento della risurrezione e la forma del Vangelo. Ciò che determina la particolare concezione di Giovanni e la scelta delle parole che egli usa è la resurrezione. Poniamo attenzione a 2 termini in particolare • Glorificazione (= doxa) • L’ora (connessa direttamente con la glorificazione) Nel greco dei LXX14 il termine “doxa” traduce l’ebraico “kabod” che indica la manifestazione visibile di Dio, per quello che era accessibile all’uomo, che era concepita in forma di splendore e di luce folgorante (Es 33,22; Dt 5,21; 1RE 8,11) Nel NT la gloria indica la manifestazione escatologica di Cristo alla fine dei tempi (per es.: Mc 8,38; Rm 8,18); essa è anche attribuita da S. Paolo e dai sinottici al Cristo esaltato in cielo (Mc 10,37; Mt 19,28; 2Cor 3,18). Come anticipazione della gloria del Cristo in cielo, la ritroviamo nei racconti della trasfigurazione (da notare che Giovanni non riporta la trasfigurazione nel suo Vangelo)

11 Da notare come lo Spirito, illumina la mente del discepolo con la luce della risurrezione, e lo conduce dal presente al ricordo del passato del Gesù storico e grazie a questo ricordo, che diventa conoscenza e fede, lo guida nel futuro.

12 Gv 14,16-18; 14,25-26 ; 15,26; 16,7b-15 13 Vedi pag 6 sull’ermeneutica del Vangelo di Giovanni. 14 La bibbia dei LXX è la prima traduzione fatta dagli ebrei dei Testi Sacri dall’ebraico al greco tra il III e il II sec a.C.

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Giovanni invece presenta la resurrezione stessa quale glorificazione. Le apparizioni del Risorto, invece, sono prive di elementi di glorificazione. Infatti, mentre nelle apparizioni riportate dai sinottici si evidenzia come i discepoli hanno timore, in Giovanni compaiono gli elementi della pace (augurata dallo stesso risorto) e della gioia grande. Egli sottolinea così che le apparizioni sono un evento accaduto nella storia e non qualcosa di sovraumano o trascendente. Il Risorto è reale ed ha familiarità coi suoi, la stessa familiarità di un tempo. La gloria del Cristo, in Giovanni, precede già l’evento della risurrezione, infatti la si trova specialmente nella MortePassione. La Glorificazione quale “innalzamento” Giovanni evita di usare il termine crocifissione quando racconta le profezie di Gesù riguardo la propria morte: 12,32-34 Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me». Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire È evidente che egli indica la morte di Gesù quale “innalzamento”. Ma nel fare ciò egli attinge ad una tradizione già presente nel NT dove l’innalzamento è visto come passaggio da uno stato di umiliazione ad uno stato di glorificazione e questa glorificazione è sempre legata alla croce. Basta rifarsi, come esempio chiarificatore, all’inno di Paolo nella lettera ai Filippesi 2,8-9: Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome Egli si ricollega anche alle profezie messianiche sul “Servo di Yhwh”, dove il Messia è presentato sofferente e sfigurato e grazie a questo egli sarà glorificato e innalzato Is. 52, 13-14 Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato. Come molti si stupirono di lui tanto era sfigurato per essere d'uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell'uomo. È da sottolineare che solo in Giovanni, però, troviamo il concetto della croce così permeato di innalzamento glorioso. In questo modo egli sottolinea il suo carattere definitivo di salvezza, non un evento casuale, ma qualcosa di fermamente voluto e storico. Essa non è un momento che prelude alla esaltazione-glorificazione, come compare nell’inno della lettera ai Filippesi o nelle espressioni degli Atti degli apostoli: per Giovanni la crocifissione è la stessa glorificazione. Per tali motivi egli mette in relazione la glorificazione con l’essere elevato da terra, proprio per indicare la croce come il luogo e il momento della glorificazione. Il fatto che egli non nomini espressamente la croce, è un fattore determinante perché l’attenzione sia sul Crocifisso: è la persona del crocifisso che rende tutto glorioso. Ecco perché in altro luogo è usata l’analogia col serpente di bronzo: 3,14 E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così deve essere innalzato il Figlio dell'uomo Nel racconto di Num 21,8-9 si legge chiaramente che veniva salvato dal veleno dei morsi di serpenti chi guardava il serpente di bronzo, innalzato per mezzo di un’asta, la quale era solo un mezzo per mostralo. Allo stesso modo la croce è un mezzo per mostrare il Crocifisso glorificato. Un altro elemento importante da sottolineare è il termine “deve”, cioè la necessità che il Figlio dell’uomo sia innalzato per mostrare la sua gloria affinché si possa credere in lui e ricevere la vita. L’innalzamento glorificazione renderà palese l’identità di Gesù: 8,28 «Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo». Per Giovanni “conoscere che Io Sono” equivale a “credere che Io Sono”. L’Io Sono dell’esaltazione Io Sono, in greco Ego Eimi, è il concetto teologico base di tutta la teologia biblica. In Giovanni troviamo questo termine in forma assoluta sulle labbra di Gesù 4 volte 8, 24 Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che Io sono, morirete nei vostri peccati 8, 28 Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora saprete che Io Sono 8,58 In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono 13,19 Ve lo dico fin d'ora, prima che accada, perché, quando sarà avvenuto, crediate che Io Sono Di fronte all’uso assoluto i giudei non capiscono cosa intende dire Gesù; ai loro orecchi suona solo come una frase incompleta, e per questo domandano: “allora chi sei tu?” 8,25

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La forma in modo assoluto dell’ Io sono la si ritrova nella bibbia dei LXX dove essa è usata quale rivelazione di Dio per voler intendere : “Io sono Jhwh”. Questa forma assoluta la si ritrova più volte in Isaia anche ripetuta 2 volte di seguito, nel qual caso andrebbe interpretata come “io sono l’Io Sono” (crf.: Is 43,25; 52,12 anche se nella bibbia tradotta in italiano compare solo “Io, Io” a causa di problematiche di traduzione) In Es 3,13-14 Dio rivela il suo nome a Mosè usando l’espressione Io Sono ed in questa si identifica il nome divino: Mosè disse a Dio: «Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io Sono ciò che Io Sono!». Poi disse: «Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi Il tardo giudaismo usava “Io sono” quale nome di Dio, ed ora Gesù lo usa quale suo nome, sua identità, sua missione. Quindi Gesù usando questa formula identifica se stesso con Dio. La correlazione con Is 43,10 è evidente Is 43,10 perché conosciate e crediate in me e comprediate che Io Sono Gv 13,19 perché crediate che io sono Questo è uno dei punti più eccelsi della teologia giovannea: l’Io Sono, che era parola data a Israele per mezzo dei profeti, ora sta in “carne” ed ossa davanti a loro, nella storia. L’AT è realizzato, le promesse sono adempiute. Egli è così l’escatologia realizzata, gli ultimi tempi sono giunti con lui. Egli è il Salvatore escatologico atteso, colui che compie la stessa opera del Padre, non solo perché l’ha ricevuta quale missione, ma perché “vede” il Padre che la compie e lui la compie e la annunzia (8,38). Ma la rivelazione piena che Gesù è “Io Sono”, avviene nella sua “ora”, l’ora della glorificazione e cioè quando sarà elevato da terra (8,28). La croce-innalzamento-glorificazione, è annunciata da Giovanni come tutta circonfusa della luce della gloria, e per questo non determina un insuccesso o una catastrofe o una tragedia, ma è “l’ora” della conoscenza vera che diventa fede, “l’ora” della rivelazione dell’Io Sono. Giovanni usa Io Sono anche accompagnato da un predicato nominativo 7 volte: 6,35 Io sono il pane di vita 8,12 Io sono la luce del mondo 10,7 Io sono la porta 10,11 Io sono il pastore bello (= buono) 11,25 Io sono la risurrezione e la vita 14,6 Io sono la via, la verità e la vita 15,1 Io sono la vite vera Qui l’accentuazione è sempre solo sull’Io sono, mentre il predicato lo sviluppa allargando la comprensione teologica. Ciascuno , letto nel contesto discorsivo dov’è inserito, delinea l’attributo e lo specifica attraverso ciò che, sia la tradizione giudaico-israeleita e sia le concezione veterotestamentarie, attribuivano a Dio stesso. Anche i sinottici attestano l’uso dell’Io sono da parte di Gesù: Mc 14,62; Lc 22,70, Mt 14,27.

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L’ora della gloria:la passione Non è solo la crocifissione ad essere circonfusa di gloria, ma tutta la passione è manifestazione gloria di Gesù. Per comprendere la gloria della passione prendiamo in esame uno dei termini cruciali: “l’ora”. Questo termine appare moltissime volte come nodo teologico che allude alla glorificazione. Ne esaminiamo solo alcuni brani paradigmatici: 12,23

12,27,28

È giunta l'ora che sia glorificato il Figlio dell'uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Ora l'anima mia è turbata; e cosa dirò? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L'ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!»

Nel primo brano, con la simbologia del chicco di grano, l’ora viene identificata con l’ora della morte. Morte e glorificazione sono un unico evento: la luce della gloria si addensa nell’evento più oscuro. Lo stesso morire del chicco di grano e del suo portare frutto sono in sostanza un unico processo.: il centro resta il portare frutto. Quindi l’attenzione è focalizzata sul portare frutto e non sulla morte: la morte di Gesù è fruttifera, essa è salvezza, è glorificazione. L’inizio del versetto 23 annuncia che l’ora della glorificazione è arrivata, è presente; il cap 12 apre al racconto della passione: Gesù è a Gerusalemme. Nel secondo brano viene in luce il turbamento di Gesù dato dalla imminente morte: lui che viene a vincere la morte, si lascia afferrare da essa e scuotere violentemente. La sua preghiera “Padre, salvami da quest’ora” va intesa in senso molto forte, come nei Sinottici che dicono “Padre, allontana da me questo calice” (Mc 14,36); e poi sottolinea che è proprio quella la sua missione. Anche nei sinottici ha lo stesso tipo di conclusione , solo che in Giovanni è introdotto il tema della glorificazione del nome del Padre: la glorificazione del nome del Padre avviene nella glorificazione del Figlio, la quale a sua volta avviene nella passione. La glorificazione del Padre coincide con la glorificazione del Figlio. La risposta del Padre, che avviene tramite voce dal cielo, dice, usando il verbo prima al passato e poi al futuro, che è un’azione continua, un tutt’uno con la missione del Figlio stesso e si impernia sulla sua passione e crocifissione: Gesù è il rivelatore di questa gloria, soprattutto con la sua morte. L’ora è ora! La glorificazione è già avvenuta nei “segni” (parole e fatti) ed ora avviene nella Crocifissione: sono i 2 tempi cardini della vita di Gesù tenuti insieme dall’idea teologica dell’Ora: un evento continuo. Seguendo il percorso del ricordo giovanneo abbiamo che: la glorificazione della Risurrezione illumina di gloria l’evento della passione-morte e, al di là di essa, trasfigura di gloria i “segni” operati da Gesù. Il racconto della passione come “Libro della Gloria” Fino al capitolo 12 l’ora della Passione-glorificazione è solo annunciata in forma profetica; dal capitolo 13 in poi si apre il libro della Gloria. Giovanni stesso afferma che nessun libro può raccontare adeguatamente Gesù e la sua opera (21,25); eppure il suo libro della Gloria reclama degnamente di essere uno scrigno dove la testimonianza data a Gesù dal discepolo amato, lui che era vicinissimo al suo cuore, raggiunge il vertice (19,35) Lo scenario che ritroviamo dal cap 13 in poi è totalmente diverso da quelli precedenti: Gesù è solo coi suoi, tutto il cosmo tace! La narrazione si concentra, i colloqui di Gesù sono intensi e ampi prima di giungere alla passione. Troviamo tre grandi atti: 1. 13,1,30 L’ultima Cena a) Lavanda dei piedi b) Predizione del tradimento 2. 13,31-37 I discorsi di addio e la preghiera finale 3. 18-19 Il racconto di passione e morte. a) L’arresto b) Il processo c) La crocifissione Per le prime 2 scene rimandiamo a quando le affronteremo nello studio dei brani, qui ci concentreremo solo sulla terza. Le caratteristiche proprie del racconto della passione si potrebbero ridurre a tre: A. Tendenza apologetica: i giudei sono i soli criminali, e Pilato appare quasi come una figura “simpatica” e seriamente interessato a liberare Gesù B. Preciso orientamento dottrinale: Gesù non va alla passione come vittima, ma come il dominatore e sovrano degli eventi: non una passione ma un’azione del Figlio dell’uomo.

Sintesi tratte da: R.E. BROWN, Giovanni, 1979 Parrocchiale V. FUSCO, Vangelo secondo Giovanni,1992 Grazie

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C. Forte elemento drammatico: il racconto è formato da episodi accuratamente scelti e carichi di grande valore simbolico. Il processo davanti a Pilato, nel suo scenario drammatico, mette in luce la natura del Regno di Dio e la colpa dei “giudei” nella morte di Gesù. 18, 1 -14 L’arresto: Latente, nella drammaticità del racconto, vi è lo scontro tra la forza delle tenebre e Gesù. Egli sa cosa sta per accadere e gli va incontro. La passione non è qualcosa di inevitabile. Non c’è contatto fisico tra Gesù e Giuda, come il bacio riportato dai sinottici: i due fronti sono nettamente schierati. Gesù ripete al rinnegato la domanda posta ai discepoli (cfr 1,38) all’inizio del vangelo: “chi cercate”; ma mentre quelli cercavano la vita, ora Giuda e quelli con lui cercano la morte. La risposta “Io sono” di Gesù ad un livello ordinario sembra solo una identificazione ad una esplicita richiesta; eppure, quando Gesù la pronuncia essi indietreggiano e cadono, versano nella totale confusione: davanti alle tenebre Gesù rifulge con tutta la sua Maestà Divina. È lo stesso atteggiamento umano che si ritrova spesso nelle teofanie veterotestamentarie: atterriti davanti a Dio…Sal 56,10; Dan 8,18 ed altri ancora. Quindi vi è il consenso di Gesù nel suo essere arrestato perché egli ha il potere di Dio sulle forze delle tenebre. 18, 28-19,11 Il processo: Giovanni riduce il processo giudaico davanti ad Anna, e amplifica meglio quello romano, e quivi mette in luce tutta la regalità del Cristo: è la tematica che domina questa scena. L’accusa dei Giudei è di natura politica “re dei giudei”: alla domanda che gli pone Pilato, Gesù opera la distinzione tra la connotazione politica, che egli e i suoi delatori intendono, e la sua regalità intesa in senso teologico-messianico. Gesù inverte i ruoli: lui, l’accusato, fa le domande e non il contrario; anche qui il vero conduttore di tutto è Gesù: è lui il giudice e il procuratore sotto processo. Alla famosa domanda di Pilato “cos’è la verità?” si sono date molte interpretazioni, ma Giovanni mette in correlazione questa domanda con ciò che accade subito dopo: Pilato non accoglie le accuse dei Giudei ma non vuole ascoltare nemmeno le parole di Gesù: egli volta le spalle alla verità! La scena dei soldati che beffeggiano Gesù è una ironia giovannea: egli mostra come in tutto questo “gioco del re farsa”15 vi sia l’esaltazione della regalità di Gesù. Anche nel discorso sulla natura dell’autorità di Pilato è Gesù che conduce, mostrando che è lui che gli permette di poterla esercitare e di condannarlo perché la sua è una donazione volontaria della propria vita. La colpa grande,per la condanna, è di coloro che lo hanno consegnato a lui: essi scelgono come re cesare e rifiutano il patto davidico e il vero Re d’Israele 16. In questo modo i giudei hanno spazzato via centinaia di anni di aspettativa messianica nella quale Gerusalemme un giorno avrebbe avuto un Re della stirpe di Davide che avrebbe mostrato a tutti la Regalità di Dio. 19, 16.30 La crocifissione: La scena della crocifissione è descritta come l’intronizzazione del re: infatti è questo il messaggio che l’evangelista vuole dare mettendo subito in rilievo la scritta sulla croce: inoltre sottolinea l’internazionalità della regalità di Gesù annotando che fu scritta in tre lingue, tra cui il greco che era diffuso per tutto il mondo allora conosciuto. Proprio riguardo a questa scritta, contrastata dai giudei, Pilato resta fermo su ciò che ha fatto, quasi a non voler più restare di spalle alla “verità”: in tal modo Giovanni presenta abilmente Gesù come Re al mondo intero. La specificazione che la tunica era tutta d’un pezzo è il simbolismo che l’evangelista usa per dire che Gesù non è solo Re, ma anche sacerdote(17,19):infatti le tuniche sacerdotali erano inconsutili. Il nuovo Re si prende cura del suo nuovo popolo: Maria è il simbolo del nuovo Israele e Giovanni (il DA) è il simbolo dei cristiani. In questo compimento dell’ora nasce la Chiesa. Subito dopo Giovanni annota come in tutto ciò si compie sia la scrittura sia la missione di Gesù, proprio ad indicare che Gesù è il Re escatologico: egli è lì nella sua gloria, come predetto secoli prima. A questo punto, il re termina la sua missione di portare tutto a compimento e “paredoken to pneuma” consegna lo spirito : cioè ora la sua missione sarà continuata dallo Spirito che viene consegnato alla Chiesa che pochi istanti prima è nata dalla Sua stessa gloria. Nel Crocifisso-Glorioso Giovanni fa rientrare anche alte tematiche teologiche e simboliche, ne citiamo solo alcune a mo’ di esempio: l’Agnello pasquale, il Servo Sofferente, l’albero delle vita nel giardino dell’Eden, il sacrificio di soave odore, i sacramenti. L’ECCLESIOLOGIA GIOVANNEA 15 Filone ci riporta di questo gioco del re farsa che era usuale nei teatri romani e tra i legionari. Ancora oggi sul pavimento di pietra della fortezza Antonina a Gerusalemme (il litostrato) vi sono i segni di tale gioco.

16Nell’Israele Veterotestamentario il Re è Dio stesso, e colui che Dio sceglie per regnare su di loro è solo un suo servo che regge il popolo in sua vece. Poi vi è tutta la concezione messianica del Re davidico, ma in questa sede sarebbe troppo lungo esaminarlo.

Sintesi tratte da: R.E. BROWN, Giovanni, 1979 Parrocchiale V. FUSCO, Vangelo secondo Giovanni,1992 Grazie

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Il tema della Chiesa, nel vangelo giovanneo, è uno dei nodi teologici cruciali, in relazione al fatto che Giovanni ne parla con modi e tematiche che si differenziano da quelle sinottiche, e da per scontato delle cose che il credente che si avvicina a questo vangelo dovrebbe già conoscere ed avere assimilato. Quindi il “silenzio” su alcune questioni nasce dal presupposto che siano date, in un certo qual modo, “per scontate” dall’autore. La terminologia ecclesiologica Non troviamo in Giovanni termini quali “Chiesa”, “popolo di Dio”, o magari immagini della comunità quali edificio: essi non sono termini propriamente usati dai vangeli, ma sono una terminologia più propriamente paolina 17. Giovanni, facendo riferimento ad una fonte propria di ipsissima verba Jesu, usa una terminologia diversa, molto più confacente all’immagine di un Gesù storico, inoltre per avere un’idea completa della sua ecclesiologia bisogna fare riferimento anche alle sue lettere e all’Apocalisse. I Discepoli Allo stesso modo, Giovanni, non menziona né l’elezione dei discepoli, né la missione, come invece troviamo nei sinottici, tantomeno troviamo in lui l’elenco dei discepoli. Questo non significa affatto che egli la ignori o che non la ritenga importante, anzi a lui preme sottolinearla da una diversa angolazione: lo stare con Gesù e l’essere (uniti) in Gesù. In 1,35-50 abbiamo l’equivalente di una elezione e in 6,70 si esplicita come presupposta, allo stesso modo in 13,18 e 15,16. Anche la missione dei 12 appare chiara in 15,16; 17,18; 20,21; 21,1-11. La comunità credente di Giovanni Al cap. 15 troviamo il simbolo della vite vera che è Cristo e i tralci che rappresentano i cristiani. A prima vista sembra che questa simbologia voglia sottolineare un rapporto individuale del cristiano con Gesù che escluda il rapporto comunitario, ma analizzando in modo corretto ci si rende conto che il presupposto dell’essere inseriti in Gesù è dato dall’amore (9) e che questo stesso amore deve unire i credenti in un vincolo di unità (12). Questa è dunque la comunità credente per Giovanni: rimanere nell’amore di Gesù che si esprime nell’essere uniti nell’amore con il proprio compagno di fede (15, 12). Inoltre tutto il discorso di Gesù mantiene uno stile “io-voi” che lascia intendere come Gesù si rivolga ai suoi come comunità. Infatti l’espressione di “figlio dell’uomo” utilizzata da Giovenni, riprende l’espressione di Dn 7, dove il profeta intende il “figlio dell’uomo” quale personalità corporativa del popolo di Dio, in questo modo Giovanni vuole presentare una comunità che è tale perché è “in Gesù”. È il nuovo Israele, al quale si appartiene non per vincoli di sangue, come nella prima alleanza, ma perché si crede in Gesù (1,12-13). Allo stesso modo va interpretata l’immagine dell’ovile e del pastore. Inoltre l’espressione forte che troviamo in 17,22 , rende noto come debba intendersi la comunità giovannea: una cosa sola in Cristo. L’ordinamento della Chiesa Nelle lettere paoline viene evidenziato in varie parti l’ordinamento della Chiesa: la diversità tra ministeri e carismi e le rispettive caratteristiche, le 2 diverse tipologie di imposizioni delle mani. In Giovanni non troviamo tutto ciò. Per lui i Discepoli sono l’immagine in miniatura della Chiesa, e ciò che egli dice di essi deve intendersi della Chiesa. Vi sono però dei passi in cui si sottolinea come la missione che Gesù affida ad essi sia di essere capi. In 21, 15-17 a Pietro è affidata la cura pastorale del gregge, in 4,35-38 i discepoli hanno una autorità che proviene da Gesù, in 20,23 hanno il grande dono-potere di rimettere i peccati. Il Regno di Dio Come per i precedenti, anche questo è un tema diversamente sviluppato in Giovanni. Tranne che per 3,3.5, questo termine non ricorre mai. L’accento che i sinottici davano alla basilea tou Theou18 viene invece data da Giovanni al basileus19 : egli si riferisce a Gesù come re per ben 15 volte, almeno il doppio dei sinottici. Tutte le parabole dei sinottici che si riferiscono alla Basilea, danno luogo in Giovanni a un discorso figurativo incentrato su Gesu: Sinottici Giovanni Lievito che fermenta Il pane vivo La pecora smarrita Il buon pastore 17 Il termine “chiesa” in senso stretto è usato una sola volta da Mt 16,18. In Mc 2,19-20 ricorre invece la simbologia dello spososposa.

18 Alla lettera “signoria di Dio”, ma viene meglio tradotto con “Regno di Dio”. 19 Re

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La vigna affidata ad altri

La vera vite

Anche se Giovanni non usa il termine regno, che da l’idea chiara di una collettività (comunità), questo non significa che egli la escluda, infatti per semplice ragionamento logico ne deriva che un Re ha sempre un regno, allo stesso modo vale per il pastore che sempre presuppone un gregge, e per la vite che ha sempre dei tralci. Per concludere L’ecclesiologia giovannea mostra una comunità riunita intorno a coloro che Gesù ha inviato. Essa è strutturata perché alcuni sono pastori e altri pecore. Questa ecclesiologia non è menzionata nelle sue strutture interne perché, essendo essa già esistente e strutturata, egli non intende sottolinearlo e lo dà per scontato. IL SACRAMENTALISMO Questo del sacramentalismo è un punto teologico che divide gli studiosi del vangelo in 2 schiere contrapposte: quelli che ritengono il vangelo di Giovanni “anti-sacramentale” e quelli invece che ritengono che in esso vi sia più materiale sacramentale che nei sinottici. • Le tesi dei primi, cioè quelli che minimizzano il sacramentalismo in Giovanni, si basano sul fatto che in questo vangelo non vi sono gli espliciti riferimenti che si riscontrano nei sinottici. Infatti Giovanni tace l’istituzione dell’eucaristia durante l’ultima cena e non dà il mandato di battezzare come in Mt.28,19. Inoltre essi sostengono che la cristologia giovannea incentra tutta la salvezza sull’accettazione personale di Gesù nella propria esistenza, tutto è basato sulla forza della “Parola”, senza intermediazioni sacramentali. I passi pochi passi di esplicito riferimento sacramentale sarebbero soltanto delle aggiunte fatte dal redattore finale e non apparterrebbero alle precedenti stesure del vangelo. Queste tesi non sacramentaliste sembrano abbastanza convincenti ma sono troppo sbrigative nelle soluzioni, azzardate nella lettura semplicistica del testo e tendenziose nel loro svolgimento, anche se sollevano dei problemi reali (ndr). • Le tesi dei sacramentalisti invece sono basate sullo studio del “simbolismo” in Giovanni. Giovanni fa la scelta di veicolare i sacramenti attraverso una forma simbolica che era molto chiara ai cristiani del I e II secolo. Inoltre grazie al simbolismo era facile riconoscere nei sacramenti la realizzazione delle profezie dell’antico testamento. Le parole e le opere di Gesù sono presentate come tipologie profetiche dei sacramenti della Chiesa. I sacramenti, soprattutto battesimo e eucaristia, erano talmente noti nelle prime comunità cristiane che non vi era bisogno di esplicitarli più di quanto essi già normalmente leggevano chiaramente nel simbolismo del vangelo, in più era ancora più facile cogliere come la fonte e la vita dei sacramenti era in Gesù stesso. Per quanto riguarda le inserzioni del redattore finale va sottolineato che, anche se sono aggiunte finali, esse rispecchiano in tutto il discorso in cui sono inserite, non si discostano mai dalla teologia giovannea, e sono delle esplicitazioni estratte dal discorso in cui sono inserite. In esempio chiaro di ciò lo troviamo in 6,51-56: questa è un’inserzione finale, sembra quasi un duplicato del discorso precedente, ma il suo intento non è quello di ripetere, quanto piuttosto facilitare il lettore nella comprensione di ciò che sta leggendo. Non sembra affatto un’inserzione –infatti se ne accorge sono un biblista ferrato- ma uno svolgimento logico del discorso che Gesù sta facendo sul “pane del cielo”. Per concludere: l’interesse di Giovanni è mostrare che i sacramenti scaturiscono da tutto ciò che ha detto e fatto Gesù nella sua vita, essi sono radicati in lui e non in un singolo momento istituzionale. Egli si preoccupa di trasmettere una teologia dei sacramenti che scaturisce da Gesù stesso piuttosto che darne il momento istituzionale. Giovanni è un evangelista e non un cronista! ESCATOLOGIA La visione orizzontale e verticale dell’azione salvifica di Dio Escatologia Orizzontale: dalla creazione in poi, Dio ha sempre guidato gli uomini verso un “fine” 20 che viene interpretato come un intervento esplicito di Dio stesso nella storia. Quindi la salvezza si dispiega nella storia e si realizza al culmine di essa. Escatologia Verticale: Il mondo terreno è opposto al mondo celeste, e la salvezza consiste nel “fuggire” dal mondo terreno, oramai corrotto e decaduto, e ricercare il mondo celeste. Ma questa “fuga” è resa possibile solo se qualcuno discende dal cielo per liberare gli uomini dall’esistenza terrena. Per molti versi, questo vangelo utilizza la visione verticale della salvezza: la Parola è discesa dal cielo, si è incarnata allo scopo di offrire la salvezza e nella morte-resurrezione è stata elevata da terra e attrae tutti gli uomini a sé. Nel 20 In greco Escaton.

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vangelo troviamo il continuo contrasto tra cielo e terra, luce e tenebra, il pane mortale e il pane della vita, l’acqua ordinaria e l’acqua viva. Quindi la salvezza(intesa anche con escatologia) è già realizzata nell’incontro con Gesù, nell’accettazione di lui e dei suoi doni salvifici. Ma vi è anche la visione orizzontale della salvezza: la Parola discesa dal cielo non ignora l’origine di tutto dalla creazione. L’era del dominio dello Spirito sulla carne comincia con Gesù e fa si che tutti gli uomini adorino Dio “in Spirito e Verità”. Quest’era è già preannunciata dalle Scritture che indicano in Gesù, nella sua morte-resurrezione il centro della storia, e continua poi nella vita della Chiesa guidata dallo Spirito. Qui il contrasto non è più tra terra e cielo, ma tra i cristiani e il “mondo”. Quindi la salvezza si dispiega lungo la storia e ne fa storia della salvezza. MOTIVI SAPIENZIALI Il Vangelo di Giovanni si distingue dagli altri soprattutto per la sua particolare forma che richiama e la sua presentazione di Gesù come rivelazione incarnata discesa dall’alto che dona luce e verità. Per questo Giovanni si rifà molto ai libri sapienziali dell’AT. I libri sapienziali dell’AT avevano attinto e riletto i motivi sapienziali extrabiblici, dando loro una luce nuova. Infatti ritroviamo in essi l’eco di letteratura sapienziale di scrittori egiziani, sumeri, babilonesi. Lo stesso lessico è permeato dalla filosofia greca; infatti alcuni di essi furono redatti durante l’ellenizzazione 21. Il Gesù di Giovanni è presentato come la Sapienza personificata (Sir 24; Sap 9,9): come la sapienza esisteva con Dio fin dal principio e prima ancora di ogni cosa, così Gesù-Parola era col Padre prima che il mondo esistesse (1.1; 17,5). È detto della Sapienza che essa era emanazione della gloria dell’Onnipotente (Sap 7,25), così Gesù ha la gloria del Padre che egli manifesta agli uomini(1,14: 8,12; 9,5). Questi sono solo alcuni esempi, ma ve ne sono molti altri ancora sparsi per tutto il vangelo. Giovanni modifica notevolmente i tratti della Sapienza personificata la quale è a-storica, facendola diventare storica, incarnata. Questa presentazione di Gesù quale la Sapienza incarnata è propria del vangelo di Giovanni, anche se non mancano nei sinottici dei tratti molto simili: in essi Gesù è il Maestro, parla in Parabole e Proverbi, i suoi detti sono sapienziali quindi diventano paradigmi di applicazioni universali. Vi sono poi anche altri passi dove Gesu si identifica con la Sapienza: Lc 7,35; Mt 11,19; Mt 23,34. LINGUAGGIO, TESTO E FORMA DEL VANGELO La lingua originale del Vangelo Nell’epoca in cui visse Gesù, e in quel contesto geografico, la lingua parlata dal popolo era l’aramaico, mentre l’ebraico era la lingua dei colti e veniva soprattutto usata quale lingua sacra nel culto del tempio e della sinagoga. Quindi possiamo desumere che Gesù parlasse l’aramaico e conoscesse anche l’ebraico 22 proprio a motivo del culto. Da ciò risulta che il greco della koinè, con cui ci sono stati trasmessi i vangeli, è stato fortemente influenzato dall’aramaico e, in un certo qual modo, dall’ebraico. A ciò va aggiunto che, per coloro che scrissero materialmente i vangeli, il greco della Koinè era una seconda lingua e non sempre la padroneggiavano correttamente. Anche le prime predicazioni si rivolsero essenzialmente agli ebrei nelle sinagoghe è questo completò ulteriormente la semitizzazione del greco del vangelo. Per tali motivi, non si può presupporre che vi sia stato un primo vangelo giovanneo scritto in aramaico o in ebraico come vogliono sostenere taluni, avallando la teoria dei molteplici semitismi contenuti. Il testo greco del vangelo: quello trasmessoci Non abbiamo del vangelo di Giovanni, come di nessun testo neotestamentario, la prima edizione pubblicata. La motivazione è semplice:i testi non erano firmati in pendice. Poi appena un testo veniva dato alla comunità, subito si cominciava a trascriverlo e a trasmetterlo alle altre comunità cristiane. Nella trascrizione inevitabilmente si commettevano errori o fraintendimenti, che portavano a piccole differenze tra tutte le trascrizioni. Questo fenomeno era comune e diffuso nell’antichità, anche in relazione alla difficoltà dello scrivere dovuta ai mezzi del tempo. 21 L'ellenizzazione è un termine utilizzato per descrivere un processo di mutamento culturale mediante il quale alcune componenti proprie dei popoli venuti a contatto con la civiltà greca si combinarono in varie forme e gradi con quelli tipicamente ellenici. Questo fenomeno portò ad un graduale processo di assimilazione culturale, attraverso il quale le popolazioni non greche adottarono peculiari caratteristiche elleniche. Anche Israele e Giuda subirono questo processo imposto loro dagli oppressori stranierei, al quale molti tra il popolo si ribellarono (crf. I e II Libro dei Maccabei). Questo fenomeno generò la diffusione di un particolare tipo di greco che è chiamato il greco della koinè, col quale sono stati scritti i testi nel NT.

22 In Lc 4,16-20 troviamo che Gesù si alza a leggere nella sinagoga. Da fonti ebraiche sappiamo che nel culto sinagogale non si ammetteva l’uso di alcun altra lingua che non fosse quella sacra del popolo eletto e quindi l’ebraico. Questo lascia anche sottintendere che Gesù, molto probabilmente, abbia ricevuto da bambino una certa istruzione.

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Quindi non possediamo più né il testo orinale né delle fedelissime trascrizioni. A questo punto risulta chiaro che non si può parlare di testo originale. L’unica soluzione è affidarci ad un testo quanto più vicino all’originale possibile. Anche questo è impossibile ricavarlo, perché non avendo l’originale non possiamo operare il confronto che determini quale sia il più fedele. Una soluzione che ci dà una buona base di fedeltà è quella del textus receptus “il testo che abbiamo ricevuto” o testo critico. Tale testo è dato dal confronto dei più importanti manoscritti e frammenti di manoscritti antichi, dai quali, seguendo alcune regole prestabilite, si è riuscito a ricavare un testo unico. Da questo poi si hanno le varie traduzioni di cui oggi disponiamo e usiamo. “O LOGOS” LA PAROLA Sono molti gli sforzi che si compiono per cercare di ben spiegare il termine “Parola” usato da Giovanni, ed ogni spiegazione risulta parziale e inadeguata. Lo sfondo ellenistico Il termine logos (= parola) viene usato per la prima volta in filosofia da Eraclito nel IV sec a.C., egli lo usa per indicare il principio eterno dell’ordine dell’universo. Da questo momento in poi sarà usato nella filosofia occidentale. Filone, filosofo ebreo, cerca di conciliare questa concezione filosofica ellenistica col quella ebraica. Per lui il logos è creato da Dio ed è l’intermediario tra Dio e gli uomini, dava significato e ordine all’universo, il modello dell’anima umana e, per certi versi, quasi un secondo dio. In Filone non c’è una idea ben chiara né della personalità del logos, né della sua preesistenza, tantomeno esso era collegato alla vita

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Lo sfondo semitico Nemmeno nella letteratura biblica ed extrabiblica troviamo una spiegazione soddisfacente. Ma alcuni contenuti presi insieme, ci aiutano a darci una prospettiva di comprensione. “La parola del Signore” in ebraico debar YHWH : nell’AT testamento il termine parola associato a Dio ha una pregnanza particolare, perché esso è un insieme di parola e azione. • La Parola rivolta ai profeti, non è una semplice informazione data ad essi, ma è qualcosa che lo smuove, lo sfida, egli non può resistere alla sua veemenza ed è costretto a uscire e portarla agli altri. • Nel libro del Deuteronomio la Parola è fonte di vita (Dt 32,46-47). • Nei Salmi essa ha il potere di guarire (Sal 107,20) ed è luce (Sal 119,105.130; 19,8) • Nel libro della Sapienza essa è presentata come colei che nutre e mantiene in vita (Sap 16,26). Vi sono anche molti riferimenti dove la Parola assume dei tratti personificati, avendo funzioni indipendenti, come si esplicità chiaramente in Is 55,11 (questi versetti sono addirittura lo sfondo del discorso di Gesù sul pane della vita) Uno snodo importante per comprendere meglio l’uso Giovanneo di Parola, lo troviamo in Sir 24 dove la Sapienza personificata ha i tratti peculiari della Parola , infatti proprio all’inizio la Sapienza, parlando si se stessa, afferma di essere uscita dalla bocca dell’Altissimo. Ora, se uniamo ciò che abbiamo visto delle varie attribuzioni della Parola e della Sapienza, possiamo avere una buona base per comprendere quale grande valore assume in Giovanni il “logos”, la Parola. Giovanni mostra una reinterpretazione stupenda di tutto l’AT alla luce di Gesù: Lui è il compimento delle Scritture nella sua totalità. Tutto ciò che è stato detto nell’AT in riferimento alla “Parola” e alla “Sapienza”, trova nel prologo la sua fusione e corretta interpretazione in Gesù; la Sapienza-Parola, presentata nell’AT come personificata e “volente”, ora diventa incarnata: και ο λογοσ σαρξ εγενετο e il verbo carne divenne (1,14). Il prologo è una sintesi meravigliosa e stupenda di tutta la storia della salvezza, da prima che ogni cosa fosse: altissima teologia resa in forma poetica dove l’uomo davanti alla Parola resta senza parole. L’unica Parola pronunciata da Dio che rompe il silenzio e avvolge l’uomo nel silenzio della contemplazione. SEGNI E OPERE Da un veloce confronto tra i Sinottici e Giovanni, notiamo subito che vi sono delle evidenti differenze nella trattazione dei miracoli. • La differenza di numero: nei sinottici la maggior parte del ministero pubblico di Gesù è dato dal racconto di eventi prodigiosi da lui compiuti; Giovanni, invece, ne riporta solo sette, accuratamente scelti per incoraggiare la fede del credente (20,30-31). • La differenza nelle circostanze dei racconti: i sinottici pongono più attenzione all’entusiasmo suscitato dai miracoli, a come le folle restano sbalordite e la notizia si diffonda; Giovanni è meno colorito, e narra con discrezione (2,8-9). Ma la differenza veramente sostanziale, è la questione della funzione dei miracoli. Per i sinottici i miracoli sono dynameis cioè manifestazioni di potenza della presenza del Regno di Dio. Il Regno si istaura sconfiggendo il male con potenza, per tale motivo troviamo spesso esorcismi o guarigioni legate a spiriti maligni. Vi sono anche i teratha cioè i prodigi volendo indicare con questo soprattutto i miracoli sulla natura. In Giovanni la prospettiva è diversa: Gesù agisce con la potenza stessa del Padre (5,15) , quindi i suoi miracoli sono parte integrale della sua “opera” (ministero). La funzione primaria dei miracoli, in Giovanni, è quella simbolica. Gesù, in riferimento ai suoi stessi miracoli, ne parla come “opera” mentre il narratore-evangelista si riferisce a questi come “segni”. Le opere Il termine “opera”23 è usato nella bibbia dei LXX sia in riferimento alla creazione che alle vicende dell’esodo. Quindi nell’uso del termine “opera”, nel vangelo giovanneo, è celato il mistero della Creazione Nuova e della Pasqua eterna: come il Padre crea e libera, così anche il Figlio. Infatti in 5,17 Gesù associa il suo “operare” a quello del Padre, anche le sue parole sono “opera” del Padre (14,10). Queste due affermazioni di Gesù non solo fanno supporre che vi è uno strettissimo legame tra parole e opere, ma che il valore del miracolo non sta nella sua forma, ma nel suo contenuto: l’opera miracolosa ci rammenta che la parola non è vuota, ma è attiva, energica, destinata a cambiare il mondo. I Segni 23 In greco biblico erga

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Una premessa: il miracolo in Giovanni è in sé segno e opera. Di solito si usa la parola segno24 per indicare il fatto esteriore del miracolo, o meglio l’azione compiuta, la quale poi diventa opera perché innestata in tutto il ministero gesuatico. Il miracolo è segno perché esso è un’opera di rivelazione che è intimamente collegato con la salvezza. Attraverso l’azione fisica ed esteriore vi è un significato pregnante da cogliere, da cui farsi interpellare nella fede. Il miracolo giovanneo è segno perché è profezia: anche quest’ultima nell’AT aveva una forte azione simbolica che poi si realizzava nell’opera di Dio per il suo popolo. L’elemento profetico del segno miracoloso è quello che da uno sfondo sacramentale al racconto giovanneo: dopo la crocifissione-glorificazione e ascensione al Padre, Gesù invierà il Paraclito, e allora i segni efficaci saranno i sacramenti. Il miracolo era il segno della presenza di Dio in Cristo, i sacramenti sono il segno della presenza di Cristo nella Chiesa. Da non dimenticare che i sette segni che Gesù opera, sono intimamente connessi nel discorso in cui ciascuno di essi è inserito: per esempio, al segno della moltiplicazioni dei pani segue il discorso sul pane vivo 25. IL PARACLITO Il termine “paraclito” è di tipico uso giovanneo. Questo termine può essere interpretato in molteplici modi: • “Uno chiamato vicino ad aiutare”, cioè un patrono, un avvocato. • “colui che intercede”, portavoce, paciere. • “Colui che conforta”, consolatore • “Colui che testimonia”, esortatore, incitatore. Nessuna di queste forme è esaustiva. Il concetto di Paraclito, nell’uso giovanneo, le mette tutte insieme e nello stesso tempo le supera. Esse restano molto parziali. Nell’AT troviamo varie volte che una figura principale, a cui viene affidata una missione, affida a sua volta la medesima missione ad un successore, trasmettendogli lo spirito di cui all’inizio venne egli stesso investito. Per esempio Mosè e Giosuè, Elia ed Eliseo. Giovanni opera lo stesso passaggio tra Gesù e il Paraclito. Nell’ AT troviamo pure che lo Spirito di Dio discende sui profeti perché essi possano dire le parole di Dio agli uomini. Lo stesso concetto è usato da Giovanni: lo Spirito Paraclito spingerà i discepoli a rendere testimonianza. La figura della Sapienza personificata discende a dimorare tra gli uomini e gli porta il dono della comprensione(Sir 23, 12.26-27.31) . Nel Vangelo di Giovanni, Gesù pone la sua dimora tra gli uomini e alla fine della sua missione dona il Paraclito che insegnerà ogni cosa sia in relazione a Gesù che sul futuro. Tralasciando molte altre cose, che seppur importanti, non possiamo affrontare per questioni di sintesi, possiamo accennare a una conclusione. Tutte le considerazioni fatte sopra, relative al Paraclito, anche se prese separatamente sono parziali, ma in una visione di insieme ci aiutano a cogliere almeno in parte ciò che Giovanni intende quando parla del Paraclito. Ne parleremo comunque in modo un po’ più esaustivo in seguito quando passeremo all’esegesi dei singoli brani del vangelo di Giovanni. IL VOCABOLARIO GIOVANNEO Abbiamo visto finora, analizzando alcuni termini, come Giovanni, nell’uso della terminologia, faccia una scelta ben diversa da quella dei sinottici. Il suo “vocabolario” risulta avere una pregnanza e una consistenza che si rifà alla sua esperienza personale del Maestro. Ricordiamo che egli è il discepolo che ha ascoltato il cuore di Gesù nell’ultima cena (13,23), quindi la sua sensibilità teologica si presenta sotto un profilo diverso, dando un risalto nuovo a quelle tematiche, che seppure presenti anche nei sinottici, hanno una diversa esperienza personale dell’evangelista. Giovanni è una continua tensione tra tradizione ed esperienza personale di Gesù, che rende il suo Vangelo un pozzo inesauribile per alimentare e incoraggiare la fede del credente. Nella tradizione più antica e genuina della Chiesa mentre il vangelo di Marco è quello della prima evangelizzazione, quello di Luca il vangelo dei primi passi nella fede, quello di Matteo che accompagna l’itinerario cristiano, il vangelo di Giovanni è quello della maturità della fede, il Vangelo dello Spirito,

24 In greco biblico semeion. 25 Il segno del miracolo forma un tutt’uno con la parola che lo chiarifica, analogamente avviene per i sacramenti: per ritus et preces (SC).

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dell’ascolto incondizionato della Parola che interpella la nostra vita e ci fa giungere alla conoscenza di Gesù attraverso un itinerario dove è il Paraclito il maestro lungo il cammino. Diamo un piccolo sguardo su alcuni vocaboli usati da Giovanni e la loro frequenza nei confronti dei sinottici: ciò ci aiuterà a capire quanto Giovanni dia importanza ad alcuni di essi e ci faciliterà in seguito l’esegesi dei brani. Termine Italiano

Termine in Greco

Mt

Mc

Lc

Gv

Amare

Agapao ( e affini)

9

6

13

43

Conoscere

Ginosko

20

13

28

57

Credere

Pisteuo

11

14

9

98

Giudei

Iudaioi

5

6

5

67

Giudicare

Krino

6

0

6

19

“Io Sono”

Ego Eimi

5

3

4

24

Inviare

Pempo

4

1

10

32

Glorificare

Doxazo

4

1

9

23

Luce

Phos

7

1

7

27

Manifestare

Phaneroo

0

1

0

9

Mondo

Kosmos

8

2

3

78

Osservare

Tereo

6

1

0

18

Padre

Pater (riferito a Dio)

6

4

17

118

Rimanere

Meno

3

2

7

40

Testimonianza

Martyria

4

6

5

47

Verità

Aletheia (e affini)

2

4

4

46

Vita

Zoe

7

4

5

35

Vi sono i dei vocaboli molto comuni nei sinottici ma del tutto assenti in Giovanni

Termine Italiano Termine in Greco Chiamare Kaleo

Mt 26

Mc 4

Lc 43

Gv 0

Conversione

Metanoia (e affini)

7

3

14

0

Parabola

Parabolè

17

13

18

0

Potenza

Dynamis

13

10

15

0

Predicare

Kerysso

9

12

19

0

Purificare

Kathareo

7

4

7

0

Regno

Basilea

57

20

46

5

Vangelo

Euangelion

5

7

10

0

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A lode di Dio, per Gesù Cristo suo Figlio, nello Spirito Paraclito per l’edificazione della Chiesa

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