Introduzione al Corano [PDF]

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IL CORANO

senso che la parola di Dio si cala nel mondo scendendo dalla sua dimora celeste. Per fare questo, essa deve assumere un carattere percepibile e in questo modo non si manifesta nella sua nuda purezza. La comprensione della parola, e cioè l'interpretazione del testo, dovrà allora consistere in un movimento inverso a quello della discesa, che per così dire riesca a mettere di nuovo in evidenza lo spirito che si era nascosto in quel corpo. È per questo che il Corano, quando parla della difficile interpretazione delle sue parole, utilizza il termine ta'wll, che significa «fare risalire» e che dunque allude a un processo eguale e contrario a quello della rivelazione. Questo ta'wll, ci dice però lo stesso Corano (3:7), è un'operazione che può fare soltanto Dio, perché Lui solo è in grado di cogliere il proprio verbo nella sua essenza. Solo Dio può afferrare quella «parola puramente interiore» (kaliim nafsI) che costituisce il nocciolo essenziale del Suo pensiero; agli esseri è riservata la «parola proferita» (kalam malfaz), cioè già articolata e sensibile, che della prima è una traduzione, un simbolo. La tradizione islamica ortodossa afferma che il Corano è eterno. Naturalmente, l'eternità è un attributo della parola divina in sé, e non delle sue manifestazioni terrene. Il Corano eterno è quello iscritto nella «tavola custodita» (law}J, malJ}Uz), un libro celeste fatto di una materia incorruttibile, sul quale Dio ha inciso con il calamo la Sua parola in caratteri di luce, prima ancora che il tempo avesse inizio: «Ma questo è un Corano glorioso, scritto su una tavola custodita» (85:21-22). Questo archetipo celeste, detto anche la «madre del libro» (umm al-kitiib), contiene i destini di tutti gli esseri e la sintesi di tutte le scritture; esso si situa simbolicamente nei pressi del trono divino, al di sopra del settimo cielo e quindi al di là dell'universo creato. La rivelazione fa discendere i contenuti di quel libro celeste su questa terra, adattandoli alle condizioni e alle forme del mondo, traducendo la parola inespressa e inesprimibile in un linguaggio che gli uomini possano intendere, promulgando leggi e princìpi che di volta in volta si adeguano alla natura dei luoghi e dei tempi. Agli inizi del VII secolo d.C. questa discesa della parola divina è accaduta in Arabia, in una regione centro-occidentale che porta il XII

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nome di I:Iijaz, «barriera», perché è in effetti segnata da una catena montuosa che separa il resto della penisola dalle coste del Mar Rosso. Il centro abitato più significativo di quella regione era Mecca (Makka), città emergente grazie al traffico di mercanzie che dagli approdi dell'Arabia meridionale venivano recapitate nei fiorenti mercati della Siria. La città era dominata dalla tribù dei Quraysh, un popolo divenuto da tempo sedentario che, grazie alla prosperità raggiunta, già cominciava ad affermare il proprio prestigio su tutte le tribù d'Arabia. Vanto dei Quraysh, oltre alla ricchezza mercantile, era il tempio della Ka'ba, il grande edificio cubico che si diceva costruito da Abramo e che rappresentava uno dei maggiori luoghi di culto del politeismo arabo dell'epoca. Alla Ka'ba giungevano ogni anno pellegrini da tutto il paese, per celebrare riti primordiali la cui origine si perdeva nelle oscure memorie ancestrali degli Arabi. Il politeismo dominante nella penisola era affiancato da altre presenze religiose, singoli individui o interi gruppi tribali che seguivano la fede cristiana o quella ebraica, e che dunque rappresentavano i testimoni minoritari del credo monoteistico. Ma a costoro, dirà in seguito la tradizione islamica, si aggiungeva anche un altro tipo di credente, il cosiddetto ]Janif, che rifiutava il politeismo diffuso fra i suoi conterranei pur non appartenendo a nessuna confessione religiosa organizzata. Ed è proprio tra gli ]Janif, tra questi irregolari che intuivano la presenza di un Dio unico, che la successiva tradizione dell'Islam collocherà il fondatore della nuova fede, Mul)ammad (Maometto). Nato attorno al 570, Mul)ammad apparteneva, come la maggior parte dei suoi concittadini, alla nobiltà tribale dei Quraysh, ma la sua famiglia aveva subito dei rovesci finanziari e la sua situazione fu dunque difficile sin dalla nascita. Il padre,' Abd Allah, morì prima ancora che lui venisse al mondo, mentre la madre Amina lo lasciò quando aveva appena sei anni. Mul).ammad si trovò così ad affrontare la dura condizione dell'orfano, sotto la tutela dapprima del nonno e poi, alla morte di questi, di uno zio paterno. I lutti familiari e le avversità economiche forgiarono tuttavia il carattere del giovane, portandolo all'introspezione e a garantirgli una solida reputazione di serietà e affidabilità. In città era noto appunto con il XIII

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soprannome di al-amln, «il degno di fede», e godeva di una stima pressoché unanime fra gli abitanti di Mecca. Mul}ammad iniziò a lavorare per una ricca vedova, Khadija, che dirigeva un'importante impresa commerciale e che ben presto cominciò ad apprezzare le qualità del suo più giovane dipendente. L'offerta di matrimonio che ne seguì in un primo momento lasciò perplesso Mul}ammad, ma alla fine egli si risolse ad accettare quella proposta, a sua volta attratto dalle qualità della donna. Il matrimonio fu tra i più felici, e un unico cruccio sembrò oscurare la serenità degli sposi: fra i vari figli che Khadija partorì, solo le femmine sopravvissero, mentre i maschi morirono tutti in tenerissima età; e per la mentalità dell'epoca chi era privo di una discendenza maschile diventava spesso oggetto di scherno e maldicenza, quasi che la mancanza di figli equivalesse a una mancanza di onore. Dopo il matrimonio, Mul}ammad continuò a coltivare l'interesse per le cose spirituali che aveva manifestato sin da giovane. Nei suoi viaggi al seguito delle carovane commerciali che si spingevano sino alla Siria, da tempo egli aveva avuto occasione di imbattersi in un panorama religioso senz'altro più ricco di quello offertogli dalla sua città natale; e in queste occasioni una parte indubbiamente importante dovettero avere alcuni incontri con i monaci cristiani della regione, che la stessa tradizione musulmana ha ricordato in seguito con insistenza nel ricostruire la biografia del giovane Mul}ammad. L'episodio più famoso e citato, che risale all'adolescenza del Profeta, vuole che egli sia stato riconosciuto come messaggero divino da un monaco cristiano di nome Bal}Ira (dall'aramaico bekhira, «l'eletto»), che viveva in un eremo presso la città siriana di Bosra. Il monaco, secondo questa storia, avrebbe notato alcuni segni che accompagnavano il giovane e lo avrebbe interrogato sulla sua condizione. L' esame ravvicinato, e soprattutto la scoperta fra le spalle di Mul}ammad del «sigillo della profezia» (un'escrescenza grande quanto un uovo di pernice), lo convinsero di trovarsi di fronte a colui che Dio aveva promesso di inviare agli uomini dopo Gesù e il cui avvento era stato annunciato con quei segni in antichi manoscritti. Questo è solo uno fra i numerosi episodi presentati dall'agiografia musulmana come eventi premonitori della nuova rivelazione XIV

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che stava per verificarsi in Arabia. Molte altre storie ci raccontano di avvenimenti miracolosi che accompagnarono l'infanzia e la gioventù di Mul)ammad, ma tutte in fondo non fanno che sottolineare un unico tema: egli è predestinato da Dio a svolgere una missione profetica, che si inscrive nel solco della tradizione biblica e che ne sarà l'annunciato compimento. Nonostante il destino che gli si prospetta, la tradizione ci presenta un Mul)ammad ancora impreparato al momento in cui i segni della profezia si fanno in lui più evidenti. Giunto attorno ai quarant'anni, spesso ha delle visioni durante il sonno - egli stesso dirà più tardi che il sogno veridico è «un quarantesimo della profezia» - e si dedica a periodici ritiri di meditazione e digiuno. Era solito recarsi a I:Iira', una montagna poco distante da Mecca, e lì si rifugiava in una grotta per le sue veglie di isolamento spirituale. Fu in quel luogo, in una notte del mese di ramaçlan che la tradizione ha invano cercato di precisare, che Mul)ammad fu visitato per la prima volta dall'angelo. La caverna di I:Iira' è difficile da raggiungere; ancor oggi i pellegrini che vi fanno visita si inerpicano a fatica su un impervio pendio roccioso, lungo il quale si apre una fenditura lunga e stretta che dà accesso alla grotta, quasi del tutto avvolta dall'oscurità. Fu in quel luogo angusto che Mul)ammad vide per la prima volta Gabriele, apparsogli sotto le sembianze di un essere vestito di broccato, con uno scritto tra le mani. Mul)ammad non aveva capito di chi si trattasse, e rimase spaventato da quella visione, tanto più che quell'essere lo strinse fortemente, sino quasi a farlo soffocare, e gli intimò perentoriamente di leggere. Al diniego del Profeta, che proclamava la sua incapacità di farlo, l'angelo lo strinse una seconda volta e gli ordinò ancora di leggere. A un nuovo rifiuto, la scena si ripeté per la terza volta, ed ecco che delle parole uscirono fluenti dalla bocca di Mul)ammad: «Recita nel nome del tuo Signore che ha creato, ha creato l'uomo da un grumo di sangue. Recita. Il tuo Signore è il Generosissimo, ha insegnato l'uso del calamo, ha insegnato all'uomo quel che non sapeva». Sono queste, secondo la maggioranza dei commentatori tradizionali, le prime parole rivelate del Corano, che nella versione definitiva del testo occupano i primi cinque versetti della sura 96.

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Il simbolismo di questo racconto è trasparente e presenta più di un'analogia con un'altra annunciazione, quella di Maria madre di Gesù. In entrambi i casi è l'angelo Gabriele a recare l'inaudito messaggio della discesa del verbo divino. In entrambi i casi la scena si svolge nel chiuso di un ritiro spirituale, al riparo da ogni interferenza umana. In entrambi i casi l'essere prescelto protesta in un primo momento di essere impossibilitato al compito. Maria, di fronte all'annuncio del concepimento, dichiara la propria verginità fisica; Mul;lammad oppone un analogo rifiuto a recitare quel verbo, in quanto la sua condizione di analfabeta gli impedisce di leggere. Ma il verbo di Dio può depositarsi solo in una sostanza pura e incontaminata, «vergine» nel corpo o nella mente, e dunque entrambi sono in realtà i più qualificati ad accogliere dentro di sé il peso della rivelazione. Il verbo fattosi carne si è depositato nel seno di Maria, e lo stesso verbo fattosi parola si va a imprimere nel cuore di Mul;lammad. Il Profeta rimase sconvolto da quel primo incontro con l' angelo. Pensò di essere un invasato, un posseduto, e uscì disperato dalla grotta in preda a una fortissima agitazione. Mentre scendeva dalla montagna, quando era ancora a metà del pendio, udì una voce provenire dall'alto: «0 Mul;lammad, tu sei l'inviato di Dio, e io sono Gabriele». Incapace di muoversi, guardò verso il cielo, ed ecco che vide Gabriele sotto la forma di un uomo immenso, con i piedi sulla linea dell'orizzonte. Cercò di distogliere lo sguardo da quella visione, si voltò a osservare «tutte le regioni del cielo», ma dovunque appuntasse gli occhi vedeva sempre la stessa figura. Poi l'angelo sparì e Mul;lammad riuscì a riprendere il cammino verso casa. La moglie Khadija fu la prima ad ascoltare il racconto di quell' evento straordinario. Si dimostrò risoluta di fronte alle inquietudini del marito, e lo rassicurò dicendogli che doveva provare gioia e non preoccupazione per quanto gli era capitato, perché forse era stato scelto da Dio come profeta. La donna si recò immediatamente da un suo vecchio cugino, che si era convertito al Cristianesimo e che conosceva le sacre scritture, per raccontargli l'accaduto; il vecchio le confermò che, se le cose erano realmente andate in quel modo, allora suo marito era davvero il nuovo profeta della sua comunità. Mul;lammad fu XVI

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alquanto confortato dal giudizio del cugino di sua moglie, ed ebbe presto occasione di incontrarlo personalmente. Dopo che si furono parlati, il vecchio ribadì la sua convinzione riguardo alla missione profetica, ma predisse anche a Mul;lammad che avrebbe dovuto affrontare molte avversità, che il suo popolo non gli avrebbe creduto, che lo avrebbero perseguitato e scacciato. Dopo quel primo episodio, le rivelazioni cessarono per un lungo periodo di tempo, tanto da gettare Mul;lammad in uno stato di profonda frustrazione. I teologi in seguito cercheranno di spiegare questi vuoti con la teoria dell' «interruzione» (jatra), sostenendo che i periodi di silenzio fra le rivelazioni rientrano nel regolare corso dell'agire divino. Ma il Profeta rimase nondimeno turbato sino a che, molto tempo dopo, la voce dell'angelo tornò a farsi sentire, e in queste nuove rivelazioni c'erano parole di incoraggiamento per lui: «Grazie a Dio tu non sei un posseduto. Avrai una ricompensa di cui non renderai conto» (68:2-3); «Il tuo Signore non ti ha abbandonato, non ti odia. Per te l'ultima vita sarà migliore della prima» (93:3-4). Il Corano aveva ripreso a scendere nel cuore di Mul;lammad, pezzo dopo pezzo, e avrebbe continuato a farlo per tutti i ventitré anni che doveva ancora durare la vita terrena del Profeta. La rivelazione sarebbe discesa a intermittenza, con brani più o meno lunghi, ogniqualvolta ve ne sarebbe stato bisogno, ogniqualvolta Mul;lammad fosse stato sollecitato a dare risposte, a illuminare i suoi fedeli su questioni grandi o piccole. Ma la parola di Dio poteva anche arrivare all'improvviso, in momenti inattesi, cogliendo il Profeta nelle sue occupazioni quotidiane o nell'intimità della vita familiare. Gli Arabi del tempo, abituati alle scritture degli ebrei e dei cristiani contenute in veri e propri libri o rotoli dall'aspetto solenne, rimanevano sconcertati da quest'idea di una rivelazione che si manifestava a poco a poco, che veniva appresa a memoria e trasmessa di bocca in bocca, che talvolta veniva sì registrata per iscritto, ma in modo non sistematico e su materiali di fortuna. Dio stesso rispondeva con le Sue parole a quelle obiezioni: «Anche se facessimo discendere su di te un libro di pergamena ed essi lo toccassero con le mani, i miscredenti direbbero: "Questa non è che maXVII

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gia manifesta"» (6:7). In realtà, ci rivela lo stesso Corano, dietro questo modo insolito di produrre un «libro» si cela una saggezza che gli uomini comuni non riescono a cogliere: «È una recitazione che abbiamo diviso in parti affinché tu la recitassi agli uomini lentamente, l'abbiamo fatta discendere rivelazione dopo rivelazione» (17: 106). E ancora: «I miscredenti dicono: "Almeno il Corano gli fosse stato rivelato tutto insieme, in una volta sola". Ma Noi lo abbiamo rivelato in questo modo per fortificarti il cuore. Noi lo recitiamo con cadenzata esattezza» (25:32). L'esegesi tradizionale tornerà in seguito su questo punto con particolare cura, per sottolineare che non vi è contraddizione fra l'idea di una discesa avvenuta «in una volta sola», come pretendevano gli increduli, e la forma graduale con la quale il Corano è stato reso noto agli uomini. La parola di Dio, infatti, è stata fatta scendere in due fasi distinte. Una prima volta essa è calata tutta insieme dalla sua dimora nella «tavola custodita» fino al cielo di questo mondo, in un luogo invisibile definito «la casa della gloria» (bayt al- 'izza) o «la casa frequentata (dagli angeli)» (al-bayt al-ma 'mur), collocata simbolicamente al di sopra del tempio della Ka'ba. È a questa rivelazione unica e sintetica che Dio allude quando dice di avere fatto discendere l'intero Corano «in una notte benedetta» (44:3) o di averlo rivelato nella «notte del destino» (97:1). Successivamente, le rivelazioni sono state riferite analiticamente al Profeta un po' alla volta, affinché egli le potesse meglio memorizzare, affinché i suoi fedeli non fossero gravati da un carico troppo grande da assimilare tutto insieme, e infine affinché MuQ.ammad potesse più facilmente tollerare il peso della parola divina. La rivelazione era infatti penosa per il Profeta. Ogni volta che la parola di Dio scendeva su di lui, egli era come rapito dall'ambiente che lo circondava, cominciava a tremare, a sudare, e l'esperienza lo lasciava sempre molto provato. Khadija doveva mettergli addosso una coperta dopo le rivelazioni, perché il suo corpo fremeva tutto, quasi che fosse in preda a una fortissima febbre. 'A'isha, un'altra delle sue mogli, racconterà che una rivelazione avvenuta in inverno, con un freddo intensissimo, gli aveva lasciato la fronte madida di sudore. La discesa della parola di Dio costituiva per lui un peso XVIII

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anche nel senso più letterale del termine. Un suo celebre scriba e discepolo, Zayd ibn Thabit, ricorderà che un giorno il Profeta gli si era addormentato sopra una gamba; in quel frangente avvenne una rivelazione e Zayd avvertì un peso insopportabile, tanto da temere che la gamba gli si spezzasse. In un'altra occasione la rivelazione discese quando Mul)ammad stava cavalcando la sua cammella, e questa, quasi schiantata dal fardello improvviso, si piegò sulle ginocchia. La tradizione ci ha riferito numerose testimonianze, dello stesso Profeta o di chi gli era vicino, per descrivere le modalità di queste rivelazioni. La parola utilizzata nel Corano per definire l'ispirazione profetica è wafJy, che secondo gli antichi dizionari arabi esprime l'atto di significare qualcosa rapidamente, attraverso un enigma o una metafora, per mezzo di un suono incomprensibile, con un movimento del corpo o con l'uso di un'iscrizione. Un versetto coranico allude alle differenti modalità con le quali l'uomo può percepire l'ispirazione divina: «A nessun uomo Dio parla se non per rivelazione, oppure dietro un velo, oppure invia un messaggero a rivelare quel che Egli vuole con il Suo permesso , è lAltissimo, il Sapiente» (42:51). La tradizione ha tratto da queste parole un principio di ordine generale, per cui l'ispirazione può sorgere nel cuore, sia in stato di veglia sia nel sonno, senza intermediari e senza che la si possa percepire con un organo dei sensi; un'altra forma è quella rappresentata dall'ascolto della voce di Dio, una voce ovviamente di versa da quella dell'uomo e che solo l'interessato riesce a udire attraverso una sensazione strana e indescrivibile; infine, l'ispirazione può avvenire attraverso la mediazione di un angelo, che appare sotto forma umana o , molto più raramente, nelle sue fattezze reali. Per quanto riguarda Mul)ammad più in particolare, l'ispirazione che accompagnava la discesa del Corano gli si poteva manifestare in modi diversi. Interrogato un giorno su come avvertisse il sopraggiungere della rivelazione, egli affermò: «Talvolta, e questo è il modo per me più penoso, sento un suono simile al tintinnio di una campanella, e quando questo finisce tutto ciò che la voce ha detto mi rimane nella memoria; altre volte, invece, l'angelo mi appare sotto forma d'uomo». Gli interpreti hanno in seguito cercato XIX

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di definire meglio queste modalità, senza tuttavia poter esprimere certezze assolute. Quasi tutti concordano, però, sul fatto che con l'esempio del «tintinnio di una campanella» il Profeta volesse alludere alla natura cadenzata del suono che avvertiva in quelle circostanze, come se la voce gli parlasse in maniera ritmica e continua; altri hanno poi aggiunto che, proprio come è difficile stabilire da che parte giunga il suono metallico di una campanella, allo stesso modo la voce sembrava arrivare da tutte le direzioni, perché Dio trascende la dimensione spaziale. Quali che fossero le modalità di questo tipo di ispirazione, il Profeta la considerava come particolarmente penosa, e si è già detto degli effetti debilitanti che essa provocava sul suo fisico. Il suono doveva essere così acuto e penetrante che 'Umar, uno dei più intimi fra i compagni di Mul)ammad, raccontò un giorno di averne lui stesso sentito gli effetti: trovandosi a fianco del Profeta al momento di una rivelazione, aveva infatti potuto distintamente percepire vicino al suo volto un rumore molto intenso, simile al ronzio di uno sciame di api. Quanto alla visione dell'angelo, qualche ·interprete antico ha avanzato l'ipotesi che per i primi tre anni la rivelazione fu portata a Mul)ammad da Serafiele (Israfil), l'angelo che annuncerà la fine dei tempi, del quale solo in seguito Gabriele avrebbe preso il posto; ma la maggior parte delle testimonianze concorda sul fatto che sin dall'inizio si trattò di Gabriele, considerato in effetti dalla teologia tradizionale come l'angelo specialmente deputato alla trasmissione del verbo divino. La visione angelica, ebbe a dire il Profeta secondo un'altra tradizione, «era per me la più.agevole», perché Gabriele era solito assumere sembianze umane nelle sue apparizioni. Si dice che le fattezze preferite fossero quelle di Dil:tya alKalbi, un enigmatico compagno del Profeta dotato di tale bellezza che, quando usciva di casa, usava coprirsi il volto con un velo. Ma in alcune circostanze l'angelo si palesava sotto spoglie di sconosciuti, come quando comparve all'improvviso nelle vesti di uno straniero mai visto prima, con abiti bianchi e senza alcun segno di viaggio sulla sua persona. In quell'occasione tutti poterono vederlo, e tutti si meravigliarono dell'autorevolezza con la quale si rivolse a MuI:tammad, interrogandolo sulle verità della religione; solo

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dopo che se ne fu andato, il Profeta rivelò ai suoi discepoli che si trattava di Gabriele. La tradizione sostiene, infine, che l'angelo si è in qualche caso manifestato anche nella sua forma originale, ma ciò sarebbe avvenuto solo in rarissime circostanze (due o tre, secondo le varie ipotesi degli esegeti). L'ispirazione profetica, dedicata in primo luogo alla dettatura del Corano, poteva avvenire anche per illuminare Mul)ammad su questioni diverse, senza divenire parte integrante del libro sacro. Per i musulmani è evidente che il Profeta ha ricevuto da Dio informazioni delle quali non vi è traccia nel testo coranico, come avviene per la maggior parte dei dettagli del rituale, che il Corano ignora o ai quali accenna solo fugacemente e che invece Mul).ammad istituì nei minimi particolari così come gli erano stati dettati. La tradizione ha voluto per questo distinguere fra due tipi di rivelazione: quella «recitata» (wa!Jy matliiw), cioè letta dal Profeta per essere registrata nel libro, e quella «non recitata» (wa!Jy ghayr matluw), che egli ha riferito con parole proprie o che ha illustrato attraverso il suo esempio personale. Del resto, si dice che una volta Mul)ammad abbia affermato: «Mi è stato dato il Corano e, assieme a esso, altre cose similari»; e fra queste «cose similari» sono da annoverare tutti quegli insegnamenti nei quali Dio parla in prima persona e che il Profeta riferì per l'edificazione spirituale dei credenti. Queste parole, non così vincolanti come quelle registrate nel libro rivelato ma altrettanto autorevoli, sono divenute oggetto di studio presso i dotti musulmani, che ne hanno compilato diverse raccolte, più o meno ampie, conosciute sotto il nome di «sacre tradizioni» (IJadith qudsl).

Il testo Il Corano si presenta oggi come un libro suddiviso in 114 capitoli, detti «siire» . L'etimologia di questa parola è incerta, e i lessicografi arabi non sono riusciti a darne una spiegazione soddisfacente. Il termine compare in arabo per la prima volta proprio nel Corano, e forse con esso si voleva alludere inizialmente a un'unità recitativa di lunghezza indefinita, quindi più al fine di individuare una scansione nella lettura che non la porzione di un testo scritto. XXI

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Con il tempo, la parola ha comunque assunto il significato che ancor oggi le viene attribuito, quello di «capitolo» del libro sacro. Quanto ai titoli delle siire, essi non compaiono nei manoscritti più antichi del Corano e sembrano dunque frutto di una sistemazione successiva. Alcuni di questi titoli appaiono infatti variabili, e più di una volta si presenta il caso di una siira nota con più nomi differenti. I titoli non intendono riflettere necessariamente i contenuti del testo cui si riferiscono, ma ne estraggono una parola-chiave utile all'identificazione immediata: un termine insolito o desueto che rimane più facilmente impresso, un sostantivo che allude a uno degli argomenti trattati o, più raramente, la parola iniziale del capitolo. Le siire sono divise in versetti di ampiezza ineguale, che può andare da una singola parola a un lungo paragrafo. I versetti vengono chiamati in arabo iiyat (singolare aya), che in origine significa «miracolo», «segno visibile di una realtà trascendente». Il termine compare inizialmente nel Corano per indicare i segni dell'onnipotenza divina, per poi passare a indicare ogni segno miracoloso che testimoni la veridicità della profezia e dunque i versetti stessi della rivelazione. Ogni siira è composta da un numero estremamente vario di versetti, in un arco che va dai 286 della siira più lunga (la seconda) ai tre soli di alcune siire finali. Se facciamo eccezione per la siira che apre il libro, costituita da una breve preghiera, i capitoli si succedono in una serie quasi esattamente decrescente di lunghezza, secondo una sequenza che non rispecchia l'ordine cronologico delle rivelazioni, ma che sembrerebbe piuttosto dettata da un criterio puramente quantitativo e meccanico. In realtà, la tradizione ha sempre sostenuto che l'insieme del testo, raccolto in maniera così apparentemente singolare, non è affatto casuale e risponde a ben precise ragioni. Il disordine apparente del Corano nasconderebbe così una sua logica interna, che i musulmani hanno sempre cercato di precisare, individuando simmetrie e corrispondenze significative fra le varie parti del libro. La critica degli studiosi occidentali ha finora ignorato questo genere di tentativi, considerando l'ordinamento del Corano come frutto di un'operazione del tutto casuale e priva XXII

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di ogni finalità profonda, ma in tempi recenti anche la scienza degli orientalisti europei si è aperta a questa possibilità. La studiosa tedesca Angelika Neuwirth, dopo avere analizzato a fondo le rivelazioni del periodo meccano, è giunta alla conclusione che le siire, lungi dall'essere raccolte casuali e disordinate di versetti, furono sin dall'inizio scelte da Mul;lammad come unità formali della sua predicazione e ci rivelano un'armonia e una proporzione intenzionali. Uno fra i massimi arabisti francesi, Jacques Berque, a commento della sua notevole traduzione del Corano, ha individuato delle vere e proprie «coordinate coraniche», in base alle quali è possibile riscontrare nel testo una struttura precisa, calcolata, fatta di continui richiami che disegnano una geometria di assoluto rigore. Per decifrare questa architettura nascosta, sosteneva Berque, saranno necessari ulteriori studi e si dovrà fare ricorso a diverse discipline, ma nondimeno possiamo già intravedere l'armonia che regola il ritmo del testo. Per gli interpreti musulmani, le modalità secondo le quali la rivelazione venne raccolta sono state oggetto di discussione e divergenza. Se per tutti indistintamente l'ordinamento attuale riflette un senso e delle finalità precise, quasi tutti concordano sul fatto che esso non è stato stabilito in maniera definitiva durante la vita del Profeta. Mul;lammad avrebbe di certo dettato la struttura di fondo, soprattutto per quanto riguarda l'inserimento dei singoli versetti nelle relative siire, ma il compito di assemblare il libro nella sua forma attuale sarebbe stato assolto dalla prima generazione di fedeli dopo la sua morte. Il messaggio divino venne agli inizi affidato soprattutto alla memoria dei credenti, ma già durante la vita del Profeta cominciarono a circolarne alcune redazioni scritte, anche se risulta difficile immaginare la consistenza e la struttura di queste primitive raccolte. Il papiro e la pergamena, all'epoca materiali d'elezione per la scrittura, non abbondavano nell'Arabia del tempo, e quindi quelle trascrizioni dovevano essere eseguite su materiali di fortuna (scapole di animali, bacchette di palma, frammenti di coccio, stoffe inamidate), delle quali nulla ci è rimasto. Un racconto attribuito a Zayd ibn Thabit ci dice che il Profeta dopo ogni rivelazione si rivolgeva a lui e gli dettava le parole che aveva ascoltato dall'angelo, poi se le faceva rileg-

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gere, correggeva gli eventuali errori e infine ne autorizzava la circolazione. Ma Zayd non era l'unico a svolgere questo compito: la tradizione ricorda i nomi di almeno una ventina di altri compagni che si dedicarono all'impresa, anche se queste scritture non avevano nulla di sistematico. Spesso si trattava di trascrizioni solo parziali della rivelazione, concepite più come appunti o promemoria che non al fine di farne un vero e proprio «libro», tanto più che il carattere difettivo della scrittura araba, che registra solo lo scheletro consonantico della parola e non le vocali, implicava che il lettore già conoscesse il testo, almeno in maniera sommaria. Abii Baia, primo califfo o «successore» del Profeta dopo la morte di quest'ultimo, ordinò in seguito che venisse messa per iscritto una versione completa del Corano. In quel tempo, si racconta, numerosi musulmani che avevano memorizzato l'intera rivelazione erano caduti nel corso di un'azione militare, e il timore che alla lunga la parola di Dio potesse affievolirsi nelle memorie dei fedeli spinse il califfo a prendere quel provvedimento. La realizzazione di un «codice fra due copertine», come antiche tradizioni chiamano quella prima versione, sarebbe stata affidata a Zayd ibn Thabit, che come si è appena visto già durante la vita di Mul).ammad aveva svolto un ruolo importante nella redazione scritta del Corano. Questa versione, tuttavia, era rimasta proprietà privata di Abii Baia e non si era in alcun modo imposta come ufficiale. I vari compagni del Profeta continuavano a utilizzare ciascuno una propria variante, secondo il ricordo di quanto avevano appreso a mente o la trascrizione che ne possedevano. Iniziarono così a circolare diversi arrangiamenti del Corano, alcuni dei quali incontrarono un particolare consenso in ragione del prestigio goduto da colui che le aveva trasmesse. Le «copie» dello stesso Zayd ibn Thabit, di Ibn 'Abbas, di Ubayy ibn Ka'b, di Ibn Mas'iid, per esempio, erano seguite da schiere piuttosto vaste di fedeli, che erano spesso portati a sostenere con zelo la superiorità della recensione da essi adottata. A pochi decenni dalla morte di Mul).ammad, all'epoca della prima espansione islamica al di fuori dei confini dell'Arabia, si sarebbero già creati degli schieramenti regionali, con versioni più particolarmente seguite a Damasco, a Homs, a Ba~ra, a Kufa. XXIV

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Si dice che all'epoca del califfo 'Uthman, terzo successore del Profeta alla guida dell'Islam, e cioè a poco più di un decennio dalla scomparsa di Mul)ammad, nel corso di una spedizione fossero scoppiati forti dissensi tra le file dell'esercito musulmano, con siriani e iracheni che si contestavano reciprocamente l'esattezza delle rispettive versioni del Corano. Il comandante di quella spedizione fece riflettere il califfo sulla necessità di avere una redazione scritta che da allora in poi unificasse le divergenze e fosse identica per tutti, affinché nell'Islam non si venissero a creare le stesse discordie che affliggevano ebrei e cristiani. Il califfo accettò il consiglio e avviò i lavori per preparare una vulgata da imporre indistintamente a ogni musulmano, ma l'operazione risultò complessa e dovette superare molte resistenze. Zayd ibn Thabit, alla cui competenza si era ancora una volta fatto ricorso per dirigere l'operazione, avrebbe affermato che non voleva assumersi la responsabilità di una cosa che neppure l'inviato di Dio aveva intrapreso. A queste riserve dovute al rìspetto nei confronti del Profeta, si aggiungevano le resistenze create dall'attaccamento che molti credenti avevano ormai sviluppato nei confronti della propria versione del libro. Ibn Mas'ud, seguito da tutti gli abitanti di Kufa, manifestò più volte la proprìa reticenza a rinunciare alla lezione coranica che aveva appreso dallo stesso Mul)ammad e che dunque considerava come la più attendibile. Zayd ibn Thabit accettò infine di guidare una commissione di saggi, che dovette individuare innanzitutto il testo di riferimento considerato più valido come base del lavoro di elaborazione della vulgata. La scelta cadde sulla raccolta che qualche anno prima lo stesso Zayd aveva compilato per conto di Abu Bakr, e che questi aveva lasciato in eredità al proprio successore, 'Umar, il quale a sua volta l'aveva trasmessa alla figlia I:Iaf~a. Costei, che era stata una delle mogli del Profeta, mise il testo in suo possesso a disposizione della commissione, che se ne servì per redigere la versione definitiva, sotto il vigile coordinamento del califfo in persona. Le testimonianze non concordano sulle procedure adottate da quel comitato: secondo alcuni, i saggi si limitarono a lievi correzioni e aggiustamenti della copia in loro possesso; per altri, invece, il lavoro

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andò più in profondità, attraverso una paziente collazione di brani da inserire nel testo dopo averne ricercato per ciascuno testimonianze attendibili. In ogni caso, la commissione licenziò alla fine un testo ufficiale del Corano e l' autorità ordinò che tutte le copie divergenti venissero distrutte, provvedendo a inviare nei principali centri delle varie province dell'impero musulmano dei «lezionari», vale a dire delle copie del libro che dovevano costituire da allora in poi l'unico testo di riferimento comune. Le tradizioni ci ricordano che non tutti accettarono di buon grado questa iniziativa del califfo. Molti si rifiutarono di distruggere le versioni del Corano in loro possesso, che in qualche modo continuarono a essere utilizzate ancora a lungo, tanto da lasciare traccia della loro esistenza almeno sino al X secolo, vale a dire trecento anni dopo l'ordine che ne aveva proscritto l'uso. Ma alla fine gli indubbi vantaggi di una versione comune prevalsero su ogni altra ragione e la vulgata fatta stabilire da 'Uthman si affermò come l'unico testo riconosciuto, mentre le altre versioni a poco a poco persero di importanza e finirono con lo scomparire del tutto. Conosciamo dunque queste versioni divergenti solo in maniera indiretta e frammentaria, il che non ci permette un'esatta valutazione delle loro differenze rispetto al testo ufficiale. Si racconta che la copia attribuita a Ibn Mas 'iid non contenesse quelle che nella redazione a noi nota sono la prima e le due ultime siire; che quella di Ubayy ibn Ka'b comprendesse due sùre in più rispetto alla vulgata; e che quella attribuita ad 'Ali, cugino e genero del Profeta, disponesse le sùre secondo l'ordine cronologico della loro rivelazione. A parte quest'ultima eccezione, sembra che le varie versioni seguissero nelle linee essenziali l'ordinamento che conosciamo oggi, che come si è detto dispone i capitoli in ordine quasi esattamente decrescente di lunghezza. Questo arrangiamento del testo pressoché unanime, ancor prima che venisse stabilita la versione ufficiale, può indurci a ritenere come non del tutto improbabile che il susseguirsi delle sùre rispondesse a un criterio già consolidato in linea di massima durante la vita del Profeta. Questa è, infatti, la posizione maggioritaria degli studiosi musulmani, per i quali fu proprio MulJ_ammad a suggerire quell'arrangiamento, seguendo una clasXXVI

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sificazione dettatagli dall'ispirazione divina (tartib tawfiql); la tesi contraria, quella cioè di un ordinamento dovuto all'esercizio umano (tartib ijtihaaz), pur trovando eminenti sostenitori nello stesso mondo islamico - come l'autorevole imam Malik e il teologo alBaqillanI -, è risultata alla fine la meno accettata. La fissazione del testo e l'ordinamento ormai definitivo delle sure non furono tuttavia sufficienti a eliminare ogni possibile discrepanza. Come già detto, la scrittura araba non registra normalmente le vocali e quindi, anche di fronte a un testo consonantico ormai unificato, la lettura di molte parole poteva variare sensibilmente. La grafia coranica ignorava poi i punti diacritici, che servono a differenziare alcune consonanti di forma identica, e questo rendeva ancor meno esplicita la lettura del testo. Infine, la mancanza di qualunque forma di punteggiatura rendeva indispensabile un'esatta determinazione delle pause, importanti non solo per l'uso rituale ma talvolta anche per l'intelligenza del significato. Nel corso dell'VIII secolo, sotto il califfato dell'omayyade 'Abd al-Malik e per iniziativa del suo ministro al-ijajjaj, ci si risolse a una più rigorosa fissazione della scrittura coranica, definendo meglio l'ortografia di alcune parole e inserendo l'uso dei punti diacritici. Ma questa impresa, avvenuta relativamente tardi, non aveva potuto impedire che nel frattempo si fossero consolidate alcune varianti di lettura. Un lungo racconto contenuto nelle antiche raccolte di tradizioni vuole che l'angelo Gabriele abbia trasmesso il Corano a Mul;lammad secondo un'unica lettura possibile. Il Profeta, come sempre preoccupato di facilitare i suoi fedeli con una più ampia scelta di opzioni, avrebbe chiesto all'angelo di aumentare quel numero. Gabriele, tornato da Dio, scese di nuovo con due letture, ma Mul;lammad rinnovò la sua richiesta di arricchire la scelta. La scena si ripeté più volte, e alla fine le letture furono fissate nel numero di sette, in modo tale che i credenti, «in qualunque maniera l'avessero recitato, sarebbero stati nel giusto». In questo racconto, il termine che abbiamo tradotto con «lettura» è IJarf, che può significare «lettera dell'alfabeto», «particella», «carattere» o «consonante». La parola è dunque ambigua, perché si può riferire al tempo stesso alla recitazione o alla scrittura del testo, e in effetti il concetto è stato a lungo dibattuto XXVII

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fra i dotti musulmani. Con il trascorrere del tempo, il termine f],arf è stato assimilato a una più precisa parola del lessico tecnico degli esegeti, qira'a, anch'essa traducibile approssimativamente con il nostro «lettura». Le «sette letture» hanno finito cosl per identificare sette modi diversi nei quali il Corano può essere recitato o scritto, sette varianti - tutte egualmente ammissibili- che non inficiano l'unità essenziale del testo sacro. Ma cosa sono esattamente queste sette varianti? Anche su questo punto le opinioni della tradizione sono estremamente divergenti, tanto da fare della questione uno dei temi più complessi dell 'esegesi coranica. Alcuni hanno sostenuto che si trattava in origine di sette diverse forme dialettali diffuse in Arabia, che avrebbero permesso alle varie tribù di leggere agevolmente il Corano secondo la lingua cui erano più abituate. Ma questa opinione è rimasta minoritaria, perché i più hanno preferito intendere le letture come varianti di una sola lingua, quella della tribù alla quale apparteneva il Profeta, i Quraysh. Le diverse letture, secondo questo punto di vista, consisterebbero in lievi differenze possibili all'interno di un testo sostanzialmente unico, come le varianti grammaticali del numero o del genere, dei punti diacritici o delle forme verbali, dei particolari sintattici o dei dettagli di pronuncia e d'accento. Ibn Mujahid, capo dei lettori coranici nella Baghdad del X secolo , fissò i princlpi che da allora in poi avrebbero regolato la questione delle letture: tutte devono essere compatibili con il testo scritto stabilito dal califfo 'Uthman, tutte devono risultare conformi alle regole della lingua araba e tutte devono infine essere garantite da una catena ampia e ininterrotta di testimoni. Le varianti «largamente trasmesse» (mutawatira) vennero considerate ammissibili per l'uso rituale e autorevoli per l'interpretazione del testo; quelle «note» (mashhiira), cioè meno diffuse delle precedenti ma egualmente testimoniate da più fonti, erano da trattarsi con maggiore cautela; infine, quelle «isolate» (shadhdha), vale a dire riportate da un'unica fonte, erano in sostanza da scartare. Dopo Ibn Mujahid, la tradizione ha accolto su un piano di pari dignità e legittimità sette tipi diversi di lettura, mentre un riconoscimento meno universale hanno ricevuto alcune letture ulteriori, XXVIII

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che hanno portato il numero complessivo a dieci o a quattordici. Le sette letture che la tradizione ha riconosciuto come canoniche vengono identificate in base ai nomi degli studiosi che le hanno codificate attorno all'VIII secolo: Nafi' di Medina; lbn Kathir di Mecca; Abu 'Amr di Ba~ra; Ibn 'Amir di Damasco; 'A~im di Kufa; I:Iamza ibn I:Iabib dell'Iraq; al-Kisa'I, anch'egli iracheno. Tutte queste letture vengono ancora insegnate nelle scuole religiose superiori, ma solo due sono oggi praticate nell'uso rituale: quella di Nafi' , diffusa prevalentemente in tutta l'Africa settentrionale a ovest dell'Egitto, e quella di 'A~im, utilizzata con alcune varianti nel resto del mondo islamico . Tuttavia, grazie all'edizione a stampa del Corano realizzata nel 1923 per iniziativa del re dell'Egitto, che è divenuta in seguito il testo standard di riferimento e che utilizza la lettura di 'A~im, si può dire che qu