Il mistero della coscienza
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Zitiervorschau

John R. Searle

Il mistero della coscienza

. Comune di Roma • l.S.B.c.c. BIBLIOTECA OSTIENSE

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~ Raffaello Cortina Editore

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Titolo originale

The Mistery of Consciousness © 1997 by NYREV, Inc. Published in the United States and Canada by the New York Review of Books, 1755 Broadway, New York, 1997 First published in Britain by Granta Books, 1997 Traduzione di Eddy Carli ISBN 88-7078-511-4

© 1998 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 1998

INDICE

Prefazione

XI '

1. La coscienza come problema biologico

1

2. Francis Crick, il problema del collegamento e l'ipotesi dei 40 Hertz

15

3. Gerald Edelman e le mappe di rientro

29

4. Roger Penrose, Kurt Godei e i citoscheletri

41

Appendice: La dimostrazione di GOdd e i computer

71

5. La negazione della coscienza: la descrizione · di Daniel Dennett Appendice: Uno scambio con Danid Dennett ~ 6.

David Chalmers e la mente cosciente

77 93 109

Appendice: Uno scambio con David Chahners

134

7. Israel Rosenfi.eld, l'immagine corporea e il sé

149

Conclusione Come trasformare il mistero della coscienza nel problema della coscienza

155

Postfazione

John R. Searle: l'evoluzione di un filosofo analitico

179

(Eddy Carlt) Indice dei nomi

193

Indice analitico

195

VII

PerDagmar

PREFAZIONE

Quest'epoca storica è, nella mia vita intellettuale, allo stesso tempo la più esaltante e la più frustrante per lo studio della coscienza: esaltante perché la coscienza è nuovamente diventata rilevante ed è un soggetto di indagine oramai centrale in filosofia, psicologia, nelle· scienze cognitive e persino nelle neuroscienze; frustrante perché l'intero campo è tuttora afflitto da errori e sbagli che pensavo fossero stati posti in evidenza già da tempo. Tale esaltazione - e alcuni degli errori - sono l'argomento dei lavori discussi in questo libro, che si basa su una serie di articoli apparsi nella New York Review o/Books tra il 1995 e il 1997. Il tempo intercorso e il maggior valore di un libro mi hanno permesso di ampliare e rivedere alcuni dei saggi originali e di cercare di unificare l'intera discussione. Quando considero questo materiale dal punto di vista privilegiato dei dibattiti che si sono svolti - e che ancora si svolgono - sugli argomenti qui trattati, mi sembra che il maggiore e unico ostacolo filosofico nel trovare una spiegazione soddisfacente della coscienza stia nel nostro continuare ad accettare un insieme di categorie obsolete, accompagnate da una serie di presupposti che abbiamo ereditato dalla nostra tradizione religiosa e filosofica. Cominciamo dall'errato presupposto che i concetti di "mentale" e "fisico", di "dualismo" e "monismo", di "materialismo" e "idealismo" siano nozioni chiare e rispettabili così come sono, e che le questioni debbano essere poste e risolte in tali termini tradizionali. Inoltre supponiamo XI

PREFAZIONE

che la nozione di riduzione scientifica - grazie a cui fenomeni complessi possono essere spiegati, e in certi casi eliminati, in favore dei meccanismi di base che ne determinano il funzionamento - sia chiara e presenti scarse difficoltà. Osserviamo poi che la coscienza, i nostri stati comuni di sensibilità e consapevolezza, quando siamo svegli, o i nostri stati di sogno, quando dormiamo, appaiono·molto singolari se li paragoniamo a fenomeni ":fisici" quali le molecole o le montagne. Paragonata alle montagne o alle molecole la coscienza sembra "misteriosa", "eterea", persino "mistica". La coscienza non sembra essere ":fisica" nello stesso modo in cui sono :fisici altri tratti del cervello come i neuroni. Né sembra essere riducibile a processi :fisici, attraverso le analisi scientifiche normalmente valide per proprietà :fisiche come il calore e la solidità. Molti filosofi. ritengono che se si concede una reale esistenza alla co~cienza allora si sarà costretti ad acc:ettare una qualche versione del "dualismo", ovvero dell'idea che esistano due tipi di fenomeni metafisicamente diversi nell'universo, il mentale e il :fisico. In verità per molti autori la definizione stessa di dualismo implica che se si accettano, oltre a fenomeni ":fisici" come le montagne, fenomeni ":fisici" come il dolore si è dualisti. Tuttavia il dualismo così com'è tradizionalmente concepito sembra essere una teoria senza speranza poiché, avendo operato una netta distinzione tra il mentale e il :fisico, non riesce a rendere intellegibile la relazione tra i due. Sembra che accettare il dualismo significhi rinunciare completamente a quella visione scientifica del mondo cui siamo giunti dopo quasi quattro secoli. E allora, che cosa possiamo fare? Molti autori ingoiano il rospo e accettano il dualismo, è il caso del :fisico Roger Penrose e del filosofo David J. Chalmers, entrambi discussi nelle pagine che seguono. Ma nella filosofi.a contemporanea la tendenza più diffusa è quella che insiste nel ritenere che il materialismo sia esatto e che si debba quindi eliminare la coscienza riducendola a qualcos'altro. Daniel C. Dennett è un chiaro esempio di filosofo che adotta questa posizione. I candidati favoriti per i fenomeni a cui la coscienza può essere ridotta sono gli stati cerebrali descritti in termini

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PREFAZIONE •

puramente "fisici" e i programmi per computer. Ma, come argomenterò nel libro, tutti questi tentativi riduzionistici di eliminazione della coscienza sono senza speranza, come il dualismo che essi avrebbero dovuto soppiantare. In un certo senso sono addirittura peggiori, perché negano la reale esistenza degli stati di coicienza che avrebbero dovuto spiegare. Essi finiscono con il negare il fatto evidente che tutti noi abbiamo stati intériori qualitativi e soggettivi quali le gioie e i dolori, i ricordi e le intuizioni, i pensieri e i.sentimenti, gli umori, i rimpianti e le bramosie. Ritengo che l'impulso verso il riduzionismo e il materialismo derivi dall'erròre fondamentale di supporre che, se accet~ tiamo che la coscienza abbia una sua propria esistenza reale, allora dvremo in qualche modo accettare il dualismo e rifiutare una visione scientifica del mondo. Se c'è un tema dominante che si sviluppa attraverso il libro, esso è il seguente: la coscienza è un fenomeno naturale, biologico. Essa fa parte della nostra vita biologica quanto la digestione, la crescita o la fotosintesi. · Siamo ciechi nei confronti del carattere naturale, biologico della coscienza e di altri fenomeni mentali, a causa della nostra tradizione filosofica, che ha trasformato il "mentale" e il "fisico" in due categorie che si escludono reciprocamente. La via di uscita sta nel rifiutare sia il dualismo che il materialismo e nell'accettare che la coscienza sia un fenomeno "mentale" qualitatiyo, soggettivo e allo stesso tempo che essa sia una parte naturale del mondo "fisico". Gli stati coscienti sono qualitativi, nel sensò che per ogni stato cosciente, come la sensazione di dolore o la preoccupazione per la situazione economica, c'è qualcosa che qualitativamente sente di essere in quello stato, e sono soggettivi, nel senso che essi esistono solamente se vissuti da un "soggetto" umano o di altro tipo. La coscienza è un fenomeno naturale, biologico, che non rientra in nessuna delle tradizionali categorie del mentale e del fisico. Essa è causata da microprocessi di livello inferiore nel cervello ed è una caratteristica del cervello a macrolivelli superiori. Per accettare questo "naturalismo biologico", come mi piace XIII

PREFAZIONE

chiamarlo, dobbiamo innanzitutto abbandonare le categorie tradizionali. Credo che le generazioni future si chiederanno come mai abbiamo impiegato così tanto tempo, nel ventesimo secolo, per mettere a fuoco la centralità della coscienza nella comprensione della nostra esistenza autentica di esseri umani. Come abbiamo potuto pensare, così a lungo, che la coscienza non fosse rilevante, che non avesse alcuna importanza? Il paradosso è dato dal fatto che la coscienza è la condizione che rende possibile che una qualsiasi cosa abbia significato per ognuno di noi. Soltanto per gli agenti coscienti può presentarsi la questione del significato o dell'importanza di qualche cosa. Il mio obiettivo, nello scrivere questo libro, è quello di valutare alcune teorie sul problema della coscienza particolarmente significative ed influenti, e, nel fare questo, esporre e tentare di giustificare le mie personali considerazioni. Non voglio con questo dire che i testi che ho scelto di presentare qui siano i "migliori" libri sull'argomento. Al contrario, le mie opinioni sui loro diversi livelli di qualità verranno chiaramente alla luce nei seguenti capitoli. Secondo me, i libri si differenziano qualitativamente dal superbo al terrificante. Sono stati scelti per varie ragioni: alcuni sono eccellenti; altri sono influenti, esemplari, suggestivi o sintomatici dell'attuale confusione. Nessuno di loro risolve il problema della coscienza, ma alcuni indicano la strada verso una soluzione. Saremo in grado di comprendere la coscienza quand~ capiremo come funziona il cervello, in termini biologici. In che modo esattamente il cervello causa i nostri stati e processi coscienti, e come esattamente questi stati e processi funzionano nei nostri cervelli e in generale nelle nostre vite? _ Esporrò le mie personali considerazioni nel primo e nell'ultimo capitolo. Gli altri capitoli sono dedicati ad ognuno degli altri autori. Tre capitoli contengono delle appendici: il capitolo 4, perché volevo separare del materiale piuttosto tecnico dal resto del capitolo; e i capitoli 5 e 6 perché due degli autori hanno risposto alla mia recensione dei loro libri, e le lo-

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ro risposte, assieme alla mia replica, sono proposte qui come appel;ldici dei,rispettivi capitoli. Simo debitore a molte persone per avermi aiutato e consigli~i() nella stesura di questo libro. Innanzitutto,. a cinque dei sei autori recensiti- Francis Crick, Gerald Edelman, Penrose, Dennett e Chalmers -, che hanno risposto in vari modi ai miei commenti. Sono particolarmente riconoscente a Chalmers e a Penrose per avermi spiegato il modo in cui pensano io abbia frainteso le loro teorie nelle precedenti versioni di questi testi. L~ risposte di Dennett e di Chalmers alle mie recensioni originali e alle mie repliche sono pubblicate in forma completa. Diversi colleghi hanno letto parte del materiale ed espresso preziosi commenti. Sono particolarmente grato a Ned Block. Sono stato enormemente aiutato nella comprensione del teorema di Godel e dell'uso che ne fa Penrose da molti logici matematici, soprattutto da Mack Stanley e William Craig. Robert Silvers, della New York Review, è il miglior redattore che io abbia mai conosciuto ed ho tratto .enorme beneficio dalla sua inflessibile e implacabile insistenza sulla chiarezza espositiva. La grande lezione che ho imparato da lui è che è possibile esporre argomenti difficili ad un pubblico di non specialisti senza sacrificare la complessità intellettuale. Un ringraziamento speciale lo devo anche alla mia assistep.teJennifer Hudin, e più di tutto a mia moglie Dagmar Searle, alla quale que~ sto libro è dedicato.

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LA COSCIENZA COME PROBLEMA BIOLOGICO

Il problema più importante nelle scienze biologiche è quello che fino a poco tempo fa molti scienziati non consideravano nemmeno un soggetto degno dell'indagine scientifica. Esso è il seguente: in che modo esattamente i processi neurobiologici che avvengono nel cervello causano la coscienza? L'enorme varietà di stimoli che ci colpisce - ad esempio, quando assaggian:io del vino, osserviamo il cielo, annusiamo una rosa, ascoltiamo un concerto - provoca le sequenze dei processi neurobiologici che causano infine stati soggettivi di consapevolezza o sensibilità unificati, bene ordinati, coerenti e interiori. Ma che cosa esattamente collega la stimolazione dei nostri recettori all'esperienza cosciente, e in che modo esattamente i processi intermedi causano gli stati coscienti? Il problema, inoltre, non riguarda soltanto i casi percettivi che ho menzionato, ma comprende le esperienze delle azioni volontarie, e pure i processi interiori come essere preoccupati per le imposte sul reddito o cercare di ricordare il numero di telefono di vostra suocera. È un fatto stupefacente che qualsiasi cosa nella nostra vita cosciente sìa causato da processi cerebrali, dalla sensazione di dolore, solletico e prurito alla sensazione di ansia e timore (Angst) -prendete quella che preferite - dell'uomo post-industriale durante il tardo c;apitalismo o all'esperienza di estasi di una sciata nella neve fresca. Per quanto ne sappiamo, i processi fondamentali hanno luogo ai microlivelli delle sinapsi, dei neuroni, delle colonne di neuroni e delle cellule di unificazione. L'intera nostra vita cosciente 1

IL MISTERO DELLA COSCIENZA

è causata da questi processi di livello inferiore, ma abbiamo soltanto un'idea confusa di come tutto questo funzioni. Bene, potreste chiedere, perché allora gli specialisti non riescono a comprenderlo e a fornire una spiegazione del suo funzionamento? Perché dovrebbe essere più difficile di quanto lo sia scoprire le cause del cancro? Perché vi è un numero di caratteristiche speciali che rende i problemi originati dalla scienza del cervello persino più difficili da risolvere. Alcune difficoltà sono di carattere pratico: secondo le indagini attuali, il cervello umano ha più di cento miliardi di neuroni ed ogni singolo neurone presenta connessioni sinaptiche con gli altri neuroni che variano da un numero di poche centinaia a decine di migliaia di miliardi. E questa struttura straordinariamente complessa è ammassata in uno spazio più piccolo di un pallone da calcio. Inoltre, è molto difficile lavorare con i microelementi del cervello senza rischiare di danneggiarli o,di uccidere l'organismo. In aggiunta alle difficoltà di tipo pratico, vi sono numerosi ostacoli e confusioni di natura filosofica e teorica che rendono arduo porre le questioni, e ad esserispondere in maniera corretta. Ad esempio, la modalità di senso comune con cui ho appena posto la domanda "In che modo i processi cerebrali causano la coscienza?" è già carica di un significato filosofico. Molti filosofi e persino alcuni scienziati pensano che la relazione non possa essere causale, perché una relazione causale tra il cervello e la coscienza sembra implicare una qualche versione del dualismo tra cervello ecoscienza, che essi vogliono rigettare su altre basi. Dai tempi degli antichi Greci fino agli ultimi modelli computazionali della cognizione, l'intero soggetto della coscienza, e delle sue relazioni con il cervello, è stato t.rattato in maniera confusa, ed almeno alcuni degli errori già commessi nella storia del soggetto si ripetono nelle recenti indagini che discuterò qui. Tuttavia, prima di discutere il lavoro recente, vorrei mettere un po' di ordine chiarendo alcuni problemi e correggendone altri, che mi sembrano tra i peggiori errori di carattere storico. Vi è un problema che può essere affrontato abbastanza ra2

LA COSCIENZA COME PROBLEMA BIOLOGICO

pidamente. Si tratta di un problema considerato difficile, ma che a me non appare molto serio, ed è la questione della definizione della "coscienza". Definire questo termine è ritenuto terribilmente arduo. Ma se distinguiamo tra definizioni analitiche, il cui obiettivo è analizzare l'essenza fondamentale di un fenomeno, e definizioni di senso comune, che si limitano a identificare ciò di cui stiamo parlando, non mi sembra affatto problematico dare una definizione di senso comune del termine: la parola "coscienza" si riferisce a quegli stati di sensibilità e consapevolezza che caratteristicamente iniziano quando ci svegliamo da un sonno senza sogni e continuano fino a quando andiamo nuovamente a dormire, o cadiamo in un coma o moriamo, o in qualche modo diventiamo "incoscienti". I sogni sono una forma di coscienza se pure, naturalmente, alquanto diversi dagli stati di veglia. Così definita, la coscienza si accende e si spegne. Secondo questa definizione un sistema può essere cosciente o non esserlo. Ma vi sono stati di intensita della coscienza che oscillano dalla sonnolenza alla completa consapevolezza. Definita in questo modo, la coscienza è un fenomeno interiore, di prima persona e qualitativo. Gli esseri umani e gli animali di livello superiore sono ovviamente coscienti, ma non sappiamo fino a che punto si estenda lascala filogenetica. Le pulci, ad esempio, sono coscienti? Allo stato attuale della conoscen?a neurobiologica, probabilmente non ha molta importanza preoccuparsi di tali questioni. Non conosciamo abbastanza la biologia per sapere dove sia il pun-. to di arresto. Inoltre, il fenomeno generale della coscienza, non dovrebbe venire confuso con il caso particolare dell'autocoscienza. La maggior parte degli stati coscienti, come provare un dolore, ad esempio, non coinvolgono necessariamente l'auto-coscienza. In alcuni casi particolari, una persona è cosciente di sé in quanto sa diessere in quello stato di coscienza. Ad esempio, nel caso in cui uno si preoccupi della tendenza di un altro a preoccuparsi troppo, costui potrebbe diventare consapevole del proprio essere nevroticamente ansioso. Ma una coscienza di questo tipo non implica necessariamente autocoscienza o auto-consapevolezza.

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IL MISTERO DELLA COSCIENZA

Il primo problema serio deriva dalla nostra storia intellettuale. Nel diciassettesimo secolo Descartes e Galileo operarono una netta distinzione tra la realtà fisica descritta dalla scienza e la realtà mentale dell' aniina, che essi consideravano sìtuata al di fuori degli obiettivi della ricerca scientifica. Questo dualismo tra la mente cosciente e la materia non cosciente era funzionale alla ricerca scientifica di quell'epoca, sia perché aiutava a liberarsi dall'autorità religiosa, sia perché, diversamente dalla mente, il mondo fisico si poteva trattare in termini matematici. Ma nel ventesimo secolo, il dualismo è divenuto un ostacolo perché sembra porre la coscienza e altri fenomeni mentali al di fuori del mondo fisico ordinario, e quindi al di fuori del dominio delle scienze naturali. Ritengo sia necessario abbandonare il dualismo e assumere che la coscienza è un fenomeno biologico naturale paragonabile alla crescita, alla digestione o alla secrezione della bile. Ma molti scienziati rimangono dualisti e non credono sia possibile fornire una descrizione causale della coscienza, in grado di dimostrare che essa fa parte della realtà biologica ordinaria. Forse il più famoso tra costoro è il neurobiologo premio Nobel Sir John Eccles, che crede che Dio attribuisca l'anima àI feto a tre settimane dal concepimento. Tra gli scienziati di cui tratterò in questo libro, il matematico Roger Penrose è un dualista, in quanto non crede che viviamo in un mondo unificato, ma piuttosto che esista un mondo mentale separato, che ha "fondamento" nel mondo fisico. Anzi, Penrose ritiene che noi viviamo in tre mondi: un mondo fisico, un mondo mentale e un mondo costituito di oggetti astratti come i numeri e le entità matematiche. Su questo mi soffermerò ulteriormente più avanti. Ma anche se trattiamo la coscienza come un fenomeno naturale e quindi come parte del mondo fisico ordinario, come effettivamente dovremmo, restano ancora molti altri errori da evitare. Uno l'ho appena menzionato: se i processi del cervello causano la coscienza, allora a molte persone sembra che debbano esserci due cose diverse, i processi cerebrali come

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LA COSCIENZA COME PROBLEMA BIOLOGICO

cause e gli stati coscienti come effetti, e questo sembra implicare un dualismo. Questo secondo errore deriva in parte da una concezione errata della causazione. Nelle tradizionali teorie della causazione si è soliti supporre che le relazioni causali siano quelle che avvengono tra eventi discreti, ordinati in modo temporalmente sequenziale. Ad esempio, lo sparo causa la morte della vittima. Certamente molte delle relazioni causa-effetto sono relazioni di questo tipo, ma questo non significa che lo siano tutte. Osservate gli oggetti che vi stanno vicini, e pensate alla spiegazione causale del fatto che il tavolo esercita una pressione sul tappeto. Questo è spiegato dalla forza di gravità, ma la gravità non è un evento. Oppure pensate alla solidità del tavolo. Questa è spiegata causalmente- dal comportamento delle molecole di cui il tavolo è composto. Ma la solidità del tavolo non è un evento supplementare; è semplicemente una caratteristica del tavolo. Tali esempi di càusazioné di non-eventi ci forniscono modelli adeguati per la comprensione della relazione tra il mio stato di coscienza presente e i processi neurobiologici fondamentali che lo causano. I processi di livello inferiore del cervello causano il mio stato di coscienza presente, ma questo stato non è un'entità separata dal mio cervello; esso è semplicemente una caratteristica del mio cervello al tempo presente. Questa analisi - che i processi del cervello causano la coscienza; ma che la coscienza è essa stessa una caratteristica del cervello - ci fornisce inoltre la soluzione al tradizionale problema mente-corpo, una soluzione che evita sia il dualismo sia il materialismo, almeno nel senso in cui questi vengono tradizionalmente concepiti. Una terza difficoltà presente nell'attuale panorama intellettuale è costituita dal fatto che non abbiamo un'idea chiara di come i processi del cervello, che sono fenomeni oggettivi e "pubblicamente" osservabili, possano causare qualcosa dicosì particolare come gli stati interiori, qualitativi, di consapevolezza o sensibilità, stati che sono in un certo senso "privati", propri di colui che li possiede. Il mio dolore ha una certa sensazione qualitativa ed è accessibile a me stesso in un senso iri

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cui non è accessibile a te. Ora, come potrebbero questi fenomeni privati, soggettivi e qualitativi essere causati da ordinari processi fisici come le scariche neuronali elettrochimiche alle sinapsi dei neuroni? C'è una sensazione qualitativa particolare per ogni singolo stato cosciente e la nostra difficoltà sta nel collocare tali sensazioni soggettive in una visione complessiva del mondo, inteso come realtà oggettiva. Tali stati ed eventi sono talvolta chiamati "qualia", e il problema di darne una descrizione all'interno della nostra visione complessiva del mondo è chiamato il problema dei qualia. Tra le varie descrizioni della coscienza fornite dagli autori che ho discusso, sono particolarmente interessanti i loro diversi e divergenti modi per definire - o a volte per non definire affatto - il problema dei qualia. Io stesso sono titubante nell'usare il termine "qualia" e il suo singolare "quale", perché essi danno l'impressione di essere due fenomeni separati, la coscienza e i qualia. Ma naturalmente tutti i fenomeni coscienti sono esperienze qualitative, soggettive e quindi sono dei qualia. Non esistono due tipi &fenomeni, la coscienza e i qualia. C'è soltanto la coscienza, che è costituita da una serie di stati qualitativi. Una quarta difficoltà è caratteristica del clima intellettuale del momento, ed è data dal desiderio impellente di prendere troppo alla lettera la metafora della mente come computer. Molte persone pensano ancora che il cervello sia un computer digitale e che la mente cosciente sia un programma per computer, sebbene, fortunatamente, questa visione sia oggi molto meno diffusa di quanto lo fosse un decennio fa. Secondo tale prospettiva, la mente sta al cervello come il software sta all'hardware. Vi sono versioni differenti della teoria computazionale della mente. La più forte è quella che ho appena esposto: la mente è esattamente un programma per computer. Non c'è nient'altro. Io chiamo questa visione Intelligenza Artificiale forte (IA forte, in forma abbreviata) per distinguerla dalla visione secondo la quale il computer è uno strumento utile per fare simulazioni della mente, così come lo è per fare simulazioni di qualsiasi cosa che possiamo descrivere con pre-

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LA COSCIENZA COME PROBLEMA BIOLOGICO

cisione, come i modelli meteorologici o il flusso del denaro in economia. Questa visione più cauta la chiamo IA debole. L'IA forte può essere confutata rapidamente, ed effettivamente così ho fatto nella New York Review o/ Books e altrove più di quindici anni fa. 1 Un computer è per definizione un dispositivo che manipola simboli formali. Questi sono di solito descritti come O e 1, sebbene qualsiasi vecchio simbolo funzionerebbe altrettanto bene. Alan Turing, l'inventore dell~ moderna concezione di computazione, ha proposto questa vi~ sione affermando che si può pensare ad una macchina computazionale come ad un dispositivo che contiene una testina e un nastro che scorre. Sul nastro sono stampati degli Oe 1. La macchina può eseguire solamente quattro operazioni. Può muovere il nastro di una casella verso sinistra, può muoverlo di una casella verso destra, può cancellare uno Oe scrivere un 1 e può cancellare un 1 e scrivere uno O. Essa esegue queste· operazioni seguendo una serie di regole della forma "sotto la condizione C esegui l'azione A". Queste regole sono chiamate "programma". I computer moderni funzionano decodificane do informazioni nel codice bitlario degli zero e degli uno, traducendo l'informazione decodificata in impulsi elettrici e processando poi l'informazione secondo le regole del programma. L'essere riusciti a fare così tanto con un meccanismo talmente lim,itato costituisce una delle più stupefacenti conquiste intellettuali del ventesimo secolo, ma per i propositi attuali il punto essenziale è che il meccanismo è interamente definito nei termini della manipolazione di simboli. La computazione, così definita, è costituita da una serie di operazioni puramente sintattiche, nel senso che le uniche caratteristiche dei simboli che hanno importanza per l'implementazione del programma sono caratteristiche formali o sintattiche. Ma noi sappiamo dalla nostra esperienza personale che la mente è qualcosa di più della manipolazione di. simboli formali; la 1. "The Myth of the Computer", The New York Review o/ Books, 29 aprile 1982, pp. 3-6; "Menti, cervelli e programmì", tr. it. in L'io della mente, Adelphi, Milano 1985, pp. 341-360.

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mente ha dei contenuti. Ad esempio, quando pensiamo in inglese, le parole che attraversano la nostra mente non sono semplicemente simboli formali non interpretati; noi sappiamo che cosa questi simboli significano. Per noi le parole hanno un significato, ovvero una semantica. La mente non potrebbe essere soltanto un programma per computer perché i simboli formali di un programma nop sono di per se stessi sufficienti a garantire la presenza del contenuto semantico che si trova nelle menti reali. Ho chiarito questo punto con un semplice esperimento mentale. Immaginate di eseguire un programma per rispondere a delle domande in una lingua che non conoscete. lo non capisco il cinese, quindi immagino di essere chiuso a chiave in una stanza e di avere a disposizione molte scatole di simboli in cinese (il database), di ricevere alcuni simboli in cinese (le domande in cinese) che mi vengono passati dall'esterno, e di poter consultare un testo con delle regole (il programma) per sapere che cosa fare. Proseguo compiendo alcune operazioni sui simboli, in accordo con le regole (ovvero, eseguo dei passaggi del programma), e fornisco come risposta, a coloro che stanno fuori dalla stanza, una serie di simboli (le risposte alle domande). Sebbene sia io stesso il computer che implementa un programma per rispondere a domande in cinese, ugualmente non capisco una parola di cinese. E questo è il punto:

se io non riesco a capire .il cinese solamente sulla base dell'implementazione di un programma per computer per comprendere il cinese, allora non lo può fare nemmeno nessun altro computer digitale solamente su quella base, perché nessun computer digitale possiede qualcosa che io non ho. Questo è un argomento talmente semplice e decisivo che mi imbarazza doverlo ripetere, ma da quando l'ho pubblicato per la prima volta, sino ad oggi, sono seguiti oltre un centinaio di attacchi alla mia argomentazione, tra cui quelli esposti da Daniel Dennett in La coscienza, uno dei libri di cui discuterò più avanti. L'argomento .della stanza cinese - come è stato poi chiamato - presenta una struttura semplice fondata su tre punti:

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1. I programmi sono completamente sintattici. 2. La mente ha una semantica. 3. La sintassi non è la stessa cosa e non è di per sé sufficiente per la semantica. Quindi i programmi non sono delle menti. Q.E.D. Vorrei che questi punti fossero compresi nel modo più evidente. Il punto 1 semplicemente articola le caratteristiche essenziali della definizione di Turing: il programma scritto consiste interamente di regole che riguardano entità sintattiche, ovvero di regole per la manipolazione di simboli. E il programma implementato, il programma effettivamente in esecuzione, è completamente costituito da quelle manipolazioni sintattiche. La fisica del medium dell'implementazione -le reali proprietà fisiche ed elettrochimiche del computer che ho dinanzi-è irrilevante per la computazione. Il solo requisito fisico è che la macchina sia sufficientemente potente e stabile per eseguire i passaggi instanziati dal programma. Per questo proposito normalmente utilizziamo dei chips al silicio, ma non c'è alcuna connessione essenziale tra la fisica e la chimica del silicio e le proprietà astratte e formali dei programmi per computer. Il punto 2 semplicemente afferma tutto ciò che conosciamo sulla conoscenza umana: quando pensiamo in termini di parole o di altri simboli dobbiamo sapere che cosa significano quelle parole o quei simboli. È per questo che posso pensare in inglese ma non in cinese. La mia mente possiede molto di più che simboli formali non interpretati: essa ha contenuti mentali o contenuti semantici. Il punto J sostiene il principio generale presentato dall' esperimento mentale della stanza: cinese: la semplice manipolazione di simboli formali non è di per sé e in sé costitutiva del!'avere contenuto semantico. Non ha importanza fino a che punto il sistema riesca ad imitare il comportamento di qualcuno che comprende veramente, né ha importanza quanto complessa possa essere la manipolazione di simboli; non è possibile scindere la semantica dai processi sintattici. Per confutare l'argomento dovreste dimostrare che una 9

IL MISTERO DELLA COSCIENZA

delle premesse è falsa, e questa non è una prÒspettiva attendibile. Molte delle lettere pervenute alla New York Revz'ew of Books rivelano un profondo fraintendimento dell'argomento. Molte persone pensavano che io stessi cercando di dimostrare che "le macchine non possono pensare" o persino che "i computer non possono pensare". Ma questi sono entrambi dei fraintendimenti. Il cervello è una macchina, una macchina biologica, e può pensare. Quindi vi sono almeno alcune macchine che possono pensare, e per quanto ne sappiamo potrebbe essere possibile costruire dei cervelli artificiali che possono anche pensare. Inoltre, qualche volta i cervelli umani calcolano. Addizionano 2 + 2 ed ottengono 4, ad esempio. Così, secondo una certa definizione di computer, i cervelli sono dei computer perché calcolano. Quindi, alcuni computer possono pensare - il vostro cervello ed il mio, ad esempio. Un altro equivoco sta nel supporre che io stia negando che un certo computer possa avere una coscienza intesa come una ",proprietà emergente". Dopo tutto, se i cervelli possono avere fa coscienza come proprietà emergente, perché non potrebbero averla anche altri tipi di macchine? L'IA forte non riguarda le capacità specifiche dell'hardware del computer di produrre proprietà emergenti. Qualsiasi computer in commercio presenta tutti i tipi di proprietà emergenti. Il mio computer emette calore, fa un ronzio e con certi programmi produce dei rumorosi brusii e scricchiolii. Tutto questo è completamente irrilevante per l'IA forte. L'IA forte non afferma che alcuni tipi di hardware potrebbero produrre stati mentali così come producono calore o che le proprietà dell'hardware potrebbero far sì che il sistema presenti proprietà mentali. L'IA forte sostiene piuttosto che l'implementazione in qualsz'asz' hardware del programma corretto è costitutiva degli stati mentali. Per ripetere: la tesi dell'IA forte non è che il computer "emetta" o abbia stati mentali come proprietà emergenti, ma piuttosto che z'l programma z'mplementato, dz' per sé, è costz'tutz'-

vo dell'avere una mente. Il programma z'mplementato, dz' per sé, garantz'sce fa vz'ta mentale. Ed è questa la tesi che l'argomento 10

LA COSCIENZA COME PROBLEMA BIOLOGICO

della stanza cinese confuta. La confutazione ci ricorda che il programma è definito in modo puramente sintattico, e che la sintassi di per sé non è sufficiente a garantire la presenza di un contenuto mentale, semantico. Non offro una prova a priori che questo computer non è cosciente più di quanto non offra una prova che questa sedia non è cosciente. Biologicamente parlando, penso che l'idea che essi possano essere coscienti sia semplicemente fuori questione. Ma in ogni caso questo è irrilevante per l'IA forte, che si occupa dei programmi e non delle proprietà emergenti del silicio o di altre sostanze fisiche. Ora mi sembra che l'argomento della stanza cinese conceda troppo all'IA forte, in quanto concede che la teoria sia perlomeno falsa. Penso che essa sia invece incoerente, ed ecco perché. Chiedetevi quale sia il fatto che fa sì che le operazioni della macchina con cui ora sto scrivendo siano sintattiche o simboliche. Per quanto riguarda la fisica si tratta di un circuito elettronico altamente complesso. Il fatto che determina questi impulsi elettrici è lo stesso genere di fatto che traduce i segni di inchiostro sulla pagina di un libro in simboli: abbiamo p'rogettato, programmato, stampato e costruito questi sistemi quindi possiamo trattare e utilizzare queste cose come dei simboli. La sintassi, in breve, non è intrinseca alla fisica del sistema ma è negli occhi dell'osservatore. Fatta eccezione ,per i pochi casi degli agenti coscienti che effettivamente elaborano il calcolo, addizionando 2 + 2 per ottenere 4, ad esempio, la computazione non è un processo intrinseco in natura come la digestione o la fotosintesi, ma esiste soltanto in relazione ad alcuni agenti che forniscono ·un'interpretazione computazionale della fisica. La conclusione è che la computazione non è intrinseca alla natura ma è relativa all'osservatore o all'utente. Questo è un punto importante e vorrei ripeterlo. Le scienze naturali hanno caratteristicrunente a che fare con quegli aspetti della natura che sono intrinseci o indipendenti dall' osservatore, nel senso che la loro esistenza non dipende da ciò che qualcuno pensa. Esempi di tali caratteristiche sono la

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IL MISTERO DELLA COSCIENZA

massa, la fotosintesi, la carica elettrica e la mitosi. Le scienze sociali hanno invece spesso a che vedere con aspetti che dipendono dall'osservatore o sono relativi all'osservatore, nel senso che la loro esistenza dipende da come gli esseri umani li trattano, li utilizzano, o da come li pensano. Esempi di questo sono il denaro, la proprietà e il matrimonio. Un pezzo di carta, ad esempio, è denaro soltanto in relazione al fatto che la gente pensa che esso sia denaro. Il fatto che questo oggetto consista di fibre di cellulosa è indipendente dall'osservatore; il fatto che questo sia un biglietto da venti dollari è invece relativo all'osservatore. Quando leggete il foglio di carta dinanzi a voi, vedete dei segni di inchiostro. La composizione chimica dei segni di inchiostro è intrinseca, ma il fatto che essi siano delle parole in inglese, proposizioni o altri tipi di simboli è relativo all'osservatore. Il mio stato di coscienza presente è intrinseco in questo senso: io sono cosciente indipendentemente da ciò che chiunque altro pensa. Ora, che cosa accade con la computazione? È indipendente dall'osservatore o relativa all'osservatore? Bene, c'è un numero limitato di casi in cui gli esseri umani coscienti computano effettivamente in modo cosciente, nel senso antiquato della parola; ad esempio, essi calcolano la somma di 2 + 2 ed ottengono 4. Tali casi sono chiaramente indipendenti dall'osservatore nel senso che nessun osservatore esterno deve trattarli. o pensarli come calcolabili perché essi siano realmente calcolabili. Ma che dire dei computer in commercio? Che dire della macchina che mi sta dinanzi, ad esempio? Quale fatto della fisica e della chimica trasforma gli impulsi elettrici in simboli computazionali? Proprio nessun fatto. I termini "simbolo", "sintassi" e "computazione" non denominano aspetti intrinseci della natura come "placca tettonica", "elettrone", "coscienza". Gli impulsi elettrici sono indipendenti dall'osservatore, ma l'interpretazione computazionale è relativa agli osservatori, agli utenti, ai programmatori, ecc. Affermare che l'interpretazione computazionale è relativa agli osservatori non implica che essa sia arbitraria o capricciosa. Una grande quantità di sforzi e di denaro viene spesa per progettare e pro12

LA COSCIENZA COME PROBLEMA BIOLOGICO

durre macchine elettroniche capaci di realizzare il genere di interpretazione computazionale desiderato. La conseguenza per la nostra attuale discussione è che la domanda "Il cervello è un computer digitale?" manca di un senso evidente. Se si chiede "Il cervello è intrinsecamente un computer digitale?", la risposta è owiamente no, perché, a parte i processi mentali del pensiero, nulla è intrinsecamente un computer digitale; qualcosa è un computer solamente in relazione all'assegnazione di un'interpretazione computazionale. Se si chiedesse "È possibile attribuire un'interpretazione computazionale al cervello?", la risposta sarebbe naturalmente sì, perché voi potete assegnare un'interpretazione computazionale a qualsiasi cosa. Ad esempio, la finestra di fronte ·a me è un computer molto semplice. Finestra aperta= 1, finestra chiusa= O. Questo significa che, se accettiamo la definizione di Turing secondo la quale qualsiasi cosa a cui si possa assegnare uno O e un 1 è un computer, allora la finestra è un computer semplicissimo e banale. Non scoprirete mai processi computazionali in natura indipendentemente dall'interpretazione umana, perché qualsiasi processo fisico troviate, esso è computazionale soltanto relativamente ad una qualche interpretazione. Questo è un punto evidente ed avrei dovuto scorgerlo molto tempo fa. La conclusione è che l'IA forte, che si vanta del suo "materialismo" e dell'idea che il cervello sia una macchina, non è nemmeno abbastanza materialista. Il cervello è effettivamente una macchina, una macchina organica, e i suoi processi, come le stimolazioni neuronali sono processi di una macchina organica. Ma la computazione non è un processo meccanico come la stimolazione neuronale o la combustione interna; la computazione è piuttosto un processo matematico astratto che .esiste soltanto relativamente agli osservatori e agli interpreti coscienti. Gli osservatori, quali siamo noi stessi, hanno scoperto il modo per implementare la computazione su macchine elettriche basate su silicio, ma questo non rende la computazione qualcosa di elettrico o di chimico. Questa argomentazione è una variante diversa della stanza 13

IL MISTERO DELLA COSCIENZA

cinese, ma è più profonda. L'argomento della stanza cinese mostrava che la semantica non è i~trinseca alla sintassi; questa dimostra che la sintassi rton è intrinseca alla fisica. Rifiuto l'rA forte, ma accetto l'IA debole. Tra gli autori che discuterò, Dennett e David Chalmers sostengono una versio-. ne dell'IA forte e Penrose rifiuta persino l'rA debole. Egli pensa che la mente non possa nemmeno essere simulata con un computer. Il neurobiologo Gerald Edelman accetta l'argomento della stanza cinese contro l'rA forte e presenta ulteriori argomentazioni personali, ma accetta l'rA debole; in effetti, nelle sue ricerche sul cervello egli fa un uso massiccio del computer, come vedremo. Per riassumere infine la mia posizione generale relativa alle indagini sul cervello e a come esse debbano procedere nel rispondere alle domande che ci preoccupano: il cervello è un organo come altri, è una macchina organica. La coscienza è causata da processi neuronali di livello inferiore che avvengono nel cervello ed è essa stessa una caratteristica del cervello. Poiché è una caratteristica che emerge da alcune attività neuronali, possiamo pensare che essa sia una "proprietà emergente" del cervello. Una proprietà emergente di un sistema è qualcosa che è spiegato causalmente dal comportamento degli elementi del sistema; ma non è una proprietà di qualsiasi elemento individuale e non può essere spiegata semplicemente come la somma delle proprietà di quegli elementi. La liquidità dell'acqua è un buon esempio: il comportamento delle molecole di H 20 spiega la liquidità, ma le molecole individuali non sono liquide. I computer svolgono nello studio del cervello lo stesso ruolo che svolgono in qualsiasi altra disciplina. Essi sono estremamente utili per la simulazione dei processi cerebrali. Ma la simulazione degli stati mentali non è uno stato mentale più di quanto la simulazione di un'esplosione sia essa stessa un'esplosione.

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2 FRANCIS CRICK, IL PROBLEMA DEL COLLEGAMENTO E L'IPOTESI DEI 40 HERTZ

Fino a poco tempo fa, c'era una certa riluttanza tra gli scienziati ad affrontare il problema della coscienza. Ora non è più così, biologi, matematici, fisici e filosofi hanno scritto nu mei'osi libri sull'argomento. Tra gli scienziati, prenderò in considerazione Francis Crick e il suo tentativo di fornire, nel suo libro, La scienza e l'anima. Un'ipotesi sulla coscienza, 1 una descrizione più semplice e diretta di ciò che sappiamo sul funzionamento del cervello. L'ipotesi straordinaria su cui si basa il libro è la seguente: [. .. ] proprio "tu", con le tue gioie, i tuoi dolori, i tuoi ricordi e le tue ambizioni, il tuo senso di identità personale e il tuo libero arbitrio, non sei altro che la risultante del comportamento di una miriade di cellule nervose e delle molecole in esse contenute. (p. 17)

Ho letto recensioni al libro di Crick che facevano notare come, ai giorni nostri, non sia affatto straordinario affermare che quanto avviene nel nostro cranio è responsabile della nostra vita mentale, e chiunque, con un briciolo di conoscenza scientifica, considererebbe l'ipotesi di Crick decisamente banale. Io non credo che tale giudizio sia corretto. L'ipotesi straordinaria di Crick si divide in due parti. La prima è che tutta la nostra vita mentale ha un'esistenza materiale nel cer1. F. Crick, La scienza e l'anima. Un'ipotesi sulla coscienza, tr. it. Rizzoli, Milano 1994.

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IL MISTERO DELLA COSCIENZA

vello - e questo effettivamente non è particolarmente straordinario .,... ma la seconda parte, più interessante, è che nel cervello i meccanismi specifici, responsabili della nostra vita mentale, sono i neuroni e le molecole ad essi associate, quali i neurotrasmettitori. Per quanto mi riguarda, sono sempre molto colpito dalla specificità dei sistemi biologici e, nel caso del cervello, la specificità acquista una forma che non si potrebbe prevedere a partire dalla semplice conoscenza di ciò che fa. Se progettassimo una macchina organica per pompare il sangue, finiremmo probabilmente con il creare qualcosa di simile al cuore, ma se progettassimo una macchina per produrre la coscienza, come potremmo pensare a cento miliardi di neuroni? Crick non è chiaro quando distingue le spiegazioni causali della coscienza dalle eliminazioni riduzionistiche della coscienza. Nel brano che ho citato precedentemente sembra che egli neghi l'esistenza di esperienze coscienti, aggiunte alle stimolazioni neuronali. Ma secondo me, da un'attenta lettura del libro si capisce che ciò che egli intende è simile a quanto ho affermato prima: tutte le nostre esperienze coscienti sono spiegate dal comportamento dei neuroni e sono esse stesse proprietà emergenti del sistema neuronale. Il fatto che la parte esplicativa delle affermazioni di Crick costituisca oggi l'ortodossia neurobiologica, e che solo pochi lettori ne siano stupiti, non dovrebbe impedirci di riconoscere quanto sia sorprendente ciò che il cervello riesce a fare con un meccanismo così limitato. Oltretutto, non tutti coloro che lavorano in questo campo sono d'accordo che il neurone sia l'elemento funzionale essenziale. Penrose ritiene che i neuroni siano troppo grandi e vorrebbe descrivere la coscienza nei termini molto più piccoli della meccanica quantistica. Edelman sostiene che i neuroni siano troppo piccoli per la maggior parte delle funzioni e considera gli elementi funzionali come "gruppi neuronali". Crick considera la percezione visiva come un cuneo per cercare di fare breccia nel problema della coscienza. Ritengo sia questa una buona scelta, non fosse altro che per l'enorme . 16

FRANCIS CRICK E.IL PROBLEMA DEL COLLEGAMENTO

lavoro svolto dalle sciefize del cervello nell'ambito dell' anatomia e fìsiolOgia della vista .. Ma rimane il· problema· intrinseco dell'estrema complessità del funzionamento dd sistema visivo. Il semplice atto di riconoscere la faccia di un amico tra la folla richiede un'elaborazione molto più complessa di quanto al momento siamo in grado di capire. La mia supposizione -e si tratta solo di una supposizione ~ è che quando riusciremo finalmente a comprendere come le scariche neuronali causino la coscienza o la sensibilità, questo molto probabilmente avverrà tramite la comprensione di un sistema più semplice nel cervello umano. Tuttavia, questo non diminuisce l'interesse, la capacità di affascinare con cui Crick ci conduce attraverso gli strati delle cellule nella retina per giungere al corpo genicolato laterale e per ritornare alla corteccia visiva e poi attraverso le diverse aree della corteccia. Effettivamente non sappiamo bene come tutto questo funzfoni nel dettaglio, ma a grandi linee è così (fi.g. 1): le onde lu-

I

SisrRO Campo visivo

'' \•

DESTRO

\ Figura 1. Schema dei primi tratti delle vie visive osservate guardando il cervello dal basso. Si noti che l'emicampo visivo destro influenza la parte sinistra dcl cervello, e viceversa. Nd disegno, le connessioni rdative all'emicampo visivo destro sono indicate con il tratteggio.

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IL MISTERO DELLA COSCIENZA,

minose riflesse da oggetti lontani colpiscono le cellule fotorecettrici nella retina del bulbo oculare. Queste cellule sono i famosi bastoncelli e coni, e formano il primo dei cinque strati delle cellule retiniche attraverso cui passa il segnale. Le altre sono le cellule orizzontali, bipolari, amacrine e gangliari. Le cellule gangliari fluiscono più o meno nel nervo ottico e il segnale corre lungo il nervo ottico sopra il chiasma ottico fino ad un punto situato al centro del cervello chiamato corpo genicolato laterale (Latera! Geniculate Nucleus, LGN). Il corpo genicolato laterale funziona come una sorta di stazione di relè, in quanto invia i segnali alla corteccia visiva che si trova nella parte posteriore del cranio. Quando corniciai ad interessarmi di questi argomenti si riteneva che le aree della corteccia visiva fossero tre, le zone 17, 18 e 19, così identificate nei primi anni del secolo da K. Brodmann, all'epoca della sua farri.osa mappa del cervello. Ora si ritiene che tutto ciò sia trop-

Figura 2. Un tipico motoneurone che presenta nodi sinaptici sul soma neuronale e sui dendriti. Si noti anche l'assone singolo. '

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FRANCIS CRICK E IL PROBLEMA DEL COLLEGAMENTO

po sommario. A tutt'oggi son9 state individuate sette aree visive chiamate Vl, V2, ecc. e stiamo ancora contandole. Ad ogni modo, il segnale passa attraverso le diverse aree visive e vi è un notevole feedback con l'LGN. Alla fine l'intero processo causa un'esperienza visiva cosciente, ma come questo esattamente avvenga stiamo ancora cercando di capirlo. · Come funziona un neurone? Un neurone è una cellula come qualsiasi altra, con una membrana ed un nucleo centrale (fig. 2). Tuttavia i neuroni si differenziano notevolmente sia anatomicamente che fisiologicamente dagli altri tipi di cellule. Vi sono molti diversi tipi di neuroni, ma quello più "tipico" (garden-variety neuron) presenta da un lato una protuberanza piuttosto lunga simile ad un filo, chiamata assone e dall'altro lato una serie di fili ramificati più corti, spinosi e aguzzi chiamati dendriti. Ciascun neurone riceve segnali attraverso i suoi dendriti, li elabora nel corpo cellulare o soma e poi lancia un segnale tramite l'assone al neurone successivo. Il neurone si eccita mandando un impulso elettrico lungo l'assone. L'assone di un neurone, tuttavia, non è direttamente collegato ai dendriti di altri neuroni; in realtà il punto in cui il segnale viene trasmesso da una cellula ad un'altra è un piccolo spazio denominato fessura sinaptica (fig. 3 ). Una sinapsi è formata caVescicole

Nodo sinaptico o bottone

Fessura sinaptica (200-300 Angstrom)

+

Soma

Figura 3. Anatomia fisiologica della sinapsi.

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IL MISTERO DELLA COSCIENZA

ratteristicamènte da una protuberanza sull'assone chiamata "bottone" o "nodo sinaptico" che sporge a forma di fungo e che si incastra con una prominenza a forma di spina dorsale sulla superficie del dendrite. L'area tra il bottone e la superficie dendritica post-sinaptica è chiamata fessura sinaptica ed è attraverso di essa che il neurone eccitato trasmette il segnale . .Il segnale viene trasmesso non da una connessione elettrica diretta tra il bottone e la superficie dendritica, ma dall' emissione di una piccola quantità di fluidi chiamati neurotrasmettitori. Quando il segnale elettrico si muove dal corpo cellulare lungo l'assone fino alla fine del bottone, questi provoca l' emissione di fluidi neurotrasmettitori nella fessura sinaptica. Questi ultimi entrano in contatto con dei recettori posti sul lato dendritico post-sinaptico. Ciò causa l'apertura dei canali e gli ioni - atomi e gruppi di atomi carichi elettricamente - entrano o escono dal lato dendritico, alterando così la carica elettrica del dendrite. Lo schema è dunque il seguente: vi è un segnale elettrico sul lato dell'assone seguito da una trasmissione chimica nella fessura sinaptica, seguito da un segnale elettrico sul lato del dendrite. La cellula riceve un'intera serie di segnali dai suoi dendriti, li somma all'interno del suo corpo cellulare e, sulla base della somma, aggiusta la frequenza delle scariche da inviare alla cellula successiva.· I neuroni ricevono sia segnali eccitatori - ovvero segnali che tendono ad aumentare la loro frequenza di scarica - che segnali inibitori - quelli cioè che tendono a diminuire la loro frequenza di scarica. Sebbene possa apparire strano, anche se ogni neurone riceve sia ·segnali eccitatori che inibitori, esso emette poi un solo tipo di segnale. Per quanto ne sappiamo, salvo poche eccezioni, un neurone è di tipo sia eccitatorio che inibitorio. Ora l'aspetto sorprendente sta in questo: per quanto riguarda la nostra vita mentale, la storia che vi ho appena raccontato sui neuroni costituisce l'intero fondamento causale della nostra vita cosciente. Ho tralasciato vari dettagli a proposito dei canali ionici, dei recettori e dei diversi tipi di neurotrasmettitori, ma l'intera nostra vita mentale è causata dal 20

FRANCIS CRICK E IL PROBLEMA DEL COLLEGAMENTO

comportamento dei neuroni e tutto ciò che essi fanno è aumentare o dimiriuire la loro frequenza di scarica. Ad esempio, quando registriamo dei ricordi, sembra che in qualche modo li i:lnmagazziniamo nella connessione sinaptica tra i neuroni. Crick dimostra notevole abilità non solo quando riassume la descrizione del funzionamento del cervello, ma anche quando cerca di integrarla con ricerche in campi vicini, incluc si, tra gli altri, la psicologia, la scienza cognitiva e l'utilizzo del computer nella modellizzazione delle reti neurali. Crick è solitamente ostile ai filosofi e alla filosofia, ma il prezzo da pagare per il disprezzo della filosofia è quello di commettere errori filosofici. Molti di questi non danneggiano seriamente la sua argomentazione principale, ma sono tuttavia fastidiosi e non necessari. Citerò ora tre dei suoi errori filosofici che ritengo veramente gravi. Primo fra tutti, Crick fraintende il problema dei qualia. Egli ritiene ·che esso sia innanzitutto un problema che riguarda come un individuo possa conoscere i qualia di un altro individuo. "Il problema nasce dal fatto che la 'rossezza' del rosso che io percepisco così nitidamente non può essere comunicata in modo preciso ad un altro essere vivente" (p. 24). Ma· non è questo il problema o, per meglio dire, è solo una piccola parte del problema. Persino per un sistema di cui conosco perfettamente i qualia, come ad esempio me stesso, il problema dei qualia è serio. Ed è il seguente: come è possibile che stimolazioni neuronali fisiche, oggettive e quantitativamente descrivibili possano causare e~perienze soggettive, private e qualitative? Ovvero, più semplicemente, come può il cervello permetterci di passare dall'elettrochimica alla sensazione? Questa è la parte difficile del problema mente-corpo, che viene risolta dopo aver osservato che la coscienza deve essere . causata dai processi cerebrali ed è essa stessa una caratteristica del cervello. Inoltre, il problema dei qualia non costituisce solo un aspetto del problema della coscienza: esso è il problema della coscienza. Si può parlare di altre diverse caratteristiche della coscienza - come ad esempio la capacità del sistema visivo di

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·IL MISTERO DELLA COSCIENZA

distinguere i colori - ma quando si parla di distinzione cosciente, si parla di qualia. Penso che il termine "qualia" sia fuorviante poiché suggerisce che il singolo quale di uno stato . di coscienza potrebbe essere separato dal resto e accantonato, come se si potesse trattare del problema della coscienza ignorandone l'aspetto soggettivo e qualitativo. Ma i qualia non si possono mettere da parte, altrimenti non ci sarebbe nemmeno la coscienza. In secondo luogo, la tesi di Crick è inconsistente quando riduce la coscienza a scariche neuronali. Egli parla come i riduzionisti, ma la descrizione che fornisce non è affatto di·natura riduzionista. O meglio, ci sono quantomeno due signifi- . cati del termine "riduzione" che egli non riesce a distinguere. In un certo senso la riduzione è eliminativista. Ci si libera del fenomeno ridotto dimostrando che si tratta in realtà di qualcos'altro. I tramonti costituiscono un buon esempio. Di fatto il Sole non tramonta dietro al monte Tamalpais; l'apparenza del tramonto è invece un'illusione che si spiega interamente con la rotazione della Terra sul suo asse rispetto al Sole. Ma in un altro senso la riduzione ci spiega il fenomeno senza tuttavia eliminarlo. Così la solidità di un oggetto è interamente spiegata dal comportamento delle molecole, ma ciò non dimostra che non vi siano oggetti veramente solidi o che non esista una differenza tra solidità e liquidità. Ora Crick si esprime come se volesse una riduzione eliminativista della coscienza, ma di fatto il suo libro è orientato verso una spiegazione causale. Egli non tenta di mostrare che in realtà la coscienza non esiste, e lo rivela quando afferma - secondo me giustamente - che la coscienza è una proprietà emergente del cervello. Le sensazioni complesse, sostiene, sono proprietà emergenti che "hanno origine nel cervello dall'interazione delle sue diverse parti" (p. 26). Il problema è che Crick predica il riduzionismo eliminativista, ma poi adotta l'emergentismo causale. L'argomentazione filosofica tradizionale contro la riduzione eliminativista della coscienza sostiene che, anche se la neurobiologia fosse una scienza perfetta rimarrebbe comunque la distinzione, ad 22

FRANCIS CRICK E IL PROBLEMA DEL COLLEGAMENTO

esempio, tra il modello neurobiologico delle scariche neuronali e la sensazione del dolore. Le scariche neuronali causano le sensazioni, ma non sono esattamente la stessa cosa. In versioni diverse, questa argomentazione è stata sostenuta, tra gli altri, da Thomas Nagel, Saul Kripke, FrankJackson e dal sottoscritto. Crick, erroneamente, appoggia la tesi contro tale antiriduzionismo formulata da Paul e Patricia Churchland. Il loro è un cattivo argomento e posso dirvi perché la penso in questo modo. Essi ritengono che la tesi filosofica tradizionale si basi sulle seguenti argomentazioni, ovviamente errate:

1. Sam sa di provare una sensazione di dolore. 2. Sam non sa che la sua sensazione è costituita da una serie di scariche neuronali. 3. Quindi la sensazione di Sam non è una serie di scariche neuronali. 2 I Churchland fanno notare che tale argomentazione è erronea, tuttavia essi stessi si sbagliano nel ritenere ché questa sia la tesi sostenuta dai loro oppositori. L'argomento che attaccano è di carattere "epistemico"; riguarda la conoscenza. Ma la tesi a favore della irriducibilità della coscienza non è epistemica; essa tratta di come le cose sono nel morido. Riguarda quindi l'ontologia. Esistono diversi modi per spiegare tale tesi, ma tutti hanno in comune un punto fondamentale: che la pura sensazione qualitativa del dolore è una caratteristica del cervello assai diversa dalla combinazione delle scariche neuronali che causano il dolore. È dunque possibile avere una riduzione causale del dolore rispetto alle scariche neuronali, ma non una riduzione ontologica. Ovvero, si può fornire un resoconto causale completo del perché proviamo dolore, ma questo non dimostra che il dolore non esista veramente. In terzo luogo, Crick non è chiaro sulla struttura logica 2. Essi hanno sostenuto questo argomento in diverse pubblicazioni, e recentemente in Paul Churchland, Il motore della ragione, la sede del!'anima, tr. it. Il Saggiatore, Milano 1998. ·

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IL MISTERO DELLA COSCIENZA

della spiegazione che ci fornisce e risulta inconsistente persino ad una lettura più attenta. Fino a questo punto l'ho interpretato come un autore che ricerca una spiegazione causale della coscienza visiva e il fatto che parli di "meccanismo" e "spiegazione" rafforza tale interpretazione. Tuttavia Crick non dice mai chiaramente che sta fornendo una spiegazione causale di come i processi cerebrali producano la consapevolezza visiva. La sua espressione preferita consiste nell'affermae re che sta cercando i "correlati neurali" della coscienza (pp. 97-99). Ma, le sue stesse parole, "correlati neurali", non possono essere l'espressione giusta. Primo, una correlazione è una relazione tra due cose diverse, ma una relazione tra due cose .è inconsistente con la linea del riduzionismo eliminativista che Crick pensa di aver abbracciato. Dal p.unto di vista del riduzion~smo eliminativista dovrebbe esserci una cosa sola: le scariche neuronali. Secondo e più importante, pur eliminando l'errore riduzionista, le correlazioni· di ·per se ·stesse non spiegano nulla. Pensate alla vi~ione di un lampo e al rombo di un tuono, la visione e il rumore sono perfettamente correlati, ma senza una teoria causale non si ha alcuna spiegazione. Oltre a ciò Crick non spiega in modo chiaro il rapporto tra le esperienze visive e gli pggetti del mondo di cui esse sono esperienza. Talvolta egli sostiene che l'esperienza visiva è una "descrizione simbolica" (p. 52) oppure "un'interpretazione simbolica" del mondo (p. 53). Altre volte sostiene che i processi neuronali "rappresentano" gli oggetti del mondo (p. 249). Egli arriva persino a negare che si abbia una consapevolezza percettiva degli oggetti del mondo e per· sostenere tale conclusione utilizza un cattivo argomento,. che risale alla filosofia del diciassettesimo secolo (p. 53). Crick afferma che, poiché le nostre interpretazioni possono essere talvolta errate, noi non possiamo avere una conoscenza diretta degli oggetti reali. Tale argomentazione è presente sia in Descartes che in Hume, ma è errata. Dal fatto che le nostre esperienze percettive sono sempre mediate da processi cerebrali (in quale altro modo potremmo averlè?) e che sono tipicamente soggette a illusioni di vario tipo, non segue necessariamente che noi non 24

FRANCIS CRICK E IL PROBLEMA DEL COLLEGAMENTO

vediamo mai il mondo reale, ma soltanto "descrizioni simboliche" o "interpretazioni simboliche" del mondo. Un caso classico è·quello dell'orologio: quando lo guardo, vedo l'oggetto reale e non una sua "descrizione" o "interpretazione". Penso che Crick sia stato mal consigliato dal punto di vista fìloso:fico, ma, per fortuna, eliminando le confusioni filosofi.che, il suo rimane pur sempre un ottimo testo. Penso che alla :fine ciò che lui voglia, e comunque lo voglio io, sia una descrizione causale della coscienza, sia essa visiva o di altro tipo. I fotoni riflessi dagli oggetti colpiscono le cellule fotorecettrici della retina e questo attiva una serie di processi neuronali (dato che la retina è una parte del cervello) che, se tutto va bene,· producono infine un'esperienza visiva che è una percezione dell'oggetto reale, originariamente riflesso dai fotoni. Questo è il modo corretto di porre la questione e spero che egli sia d'accordo con me. Qual è allora la soluzione di Crick al problema della coscienza? Uno degli aspetti più attraenti è la sua disponibilità, quasi bramosia, ad ammettere quanto poco conosciamo. Ma, dato ciò che sappiamo, egli avanza alcune ipotesi. Per spiegare le sue speculazioni sulla coscienza, è necessario dire qualcosa riguardo a ciò che i neurobiologi chiamano "il problema del collegamento". Sappiamo che il sistema visivo presentà cellule e persino regioni che sono specificamente responsabili delle particolari caratteristiche degli oggetti come il colore·, la forma, il movimento, le linee, gli angoli, ecc. Tuttavia, quando vediamo un oggetto abbiamo un'esperienza unificata di un singolo oggetto. Come fa il cervello a collegare tutti questi diversi stimoli in un'esperienza unificata dell'oggetto? Il problema si estende a tutte le diverse modalità della percezione. Tutte le mie esperienze di. un momento qualsiasi fanno parte di una grande esperienza cosciente unificata. Così, ad esempio, in questo preciso momento sto pensando alla coscienza visiva, sto guardando lo schermo del computer, con la coda dell' occhio sinistro vedo il mio cane, avverto il peso del mio corpo sulla sedia, sento il ruscello fuori dalla :finestra e tutte queste esperienze, insieme ad altre che potrei nominare, sono in que-

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IL MISTERO DELLA COSCIENZA

sto momento parte del mio unico stato cosciente totalmente unificato. (Kant, che trovava sempre delle espressioni particolarmente azzeccate, chiamava questa caratteristica !"'unità trascendentale di appercezione".) Crick sostiene che il problema del collegamento è "il problema di come questi neuroni possano attivarsi temporaneamente come un'unica unità" (p. 249-250). Tuttavia questo non è il problema del collegamento, ma piuttosto uno dei possibili approcci alla sua soluzione. Ad esempio, una possibilità di soluzione al problema del collegamento, per la visione, è stata avanzata da vari ricercatori, in particolare da Wolf Singer e dai suoi colleghi di Francoforte.3 Costoro ritengono che la soluzione possa trovarsi nella sincronizzazione della scarica dei neuroni spazialmente separati, che sono responsabili delle diverse caratteristiche di un oggetto. I neuroni responsabili delle caratteristiche della forma, del colore e del movimento, ad esempio, vengono eccitati in sincronia ad una frequenza di circa quaranta stimolazioni al secondo (40 Hertz). Crick e il suo collega Christof Koch estremizzano tale ipotesi, suggerendo che una scarica neuronale sincronizzata a questa frequenza (circa 40 Hertz, da un minimo di 35 ad un massimo di 75) potrebbe forse essere il "correlato cerebrale" della coscienza visiva. Inoltre, sembra che il talamo abbia un ruolo centrale nella .coscienza e, in particolare, pare che la coscienza dipenda dai circuiti che collegano il talamo e la corteccia, speci~ente gli strati corticàli 4 e 6. Così, Crick suggerisce che forse la scarica sincronizzata alla frequenza di 40 Hertz, che avviene nelle reti che collegano il talamo e la corteccia, potrebbe essere la chiave per risolvere il problema della coscienza. Ammiro la disponibilità di Crick alla speculazione, ma la 3. W. Singer, "Devdopment and plasticity of cortical processing architecture", Science, 270, 1995, pp. 758-764; W. Singer,"Synchronization of cortical activity and its putative role in information processing and learning", Annual Review of Physiology, 55, 1993, pp. 349-375; W. Singer, C.M. Gray, "Visual feature integration and the tempora! corrdation hypothesis", Annual Review ofNeuroscience, 18, 1995, pp. 555-586.

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FRANCIS CRICK E IL PROBLEMA DEL COLLEGAMENTO

natura stessa della speculazione rivela quanta strada rimanga ancora da percorrere. Supponiamo di scoprire che la coscienza sia invariabilmente correlata a frequenze di scariche neuronali di 40 Hertz nei circuiti neuronali che connettono il talamo alla corteccia. Potrebbe forse essere questa una spiegazio. ne della coscienza? No. In questi termini, non l'accetteremmo mai come spiegazione~ La considereremmo uno straordinario passo avanti, ma ancora vorremmo sapere come essa funziona. Sarebbe come sapere che i movimenti dell'automobile sono "connessi alla" ossidazione degli idrocarburi sotto il cofano. Avremmo comunque bisogno di conoscere i meccanismi per cui l'ossidazione degli idrocarburi produce, ovvero causa, il movimento delle ruote. Anche se leipotesi di Crick si rivelassero esatte al cento per cento, avremmo ancora bisogno di conoscere i meccanismi per cui i correlati neuronali provocano le sensazioni coscienti; al momento siamo ancora molto lontani persino dal conoscere la forma che una tale spiegazione potrebbe avere. Crick ha scritto un buon libro, di notevole utilità. Egli conosce molte cose e le spiega con chiarezza. La maggior parte delle mie obiezioni va alle sue affermazioni e ai presupposti filosofici, ma leggendo il suo libro si possono ignorare gli aspetc ti filosofici e limitarsi ad apprendere la psicologia della visione e la scienza del cervello. I limiti degli aspetti neurobiologici del testo sono. i limiti attuali di questa scienza: di fatto non sappiamo come la psicologia della visione e la neurofisiologia si colleghino, e non sappiamo come i processi possano provocare la coscienza sia essa coscienza visiva o di altro tipo.

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3 GERALD EDELMAN E LE MAPPE DI RIENTRO

Di tutte le teorie neurobiologiche della coscienza che ho esaminato, quella di Gerald Edelman è la più esauriente e la più profonda. I due libri di cui tratterò in questo saggio sono il terzo e il quarto di una serie che è iniziata con Darwinismo neurale e Topobiology. L'obiettivo di questa serie è di elaborare una teoria globale del cervello che colleghi le neuroscienze alla fisica e alla biologia evoluzionistica. Il punto centrale della serie è costituito dalla teoria della coscienza esposta in Il presente ricordato e riassunta in Sulla materia della mente. 1 Per spiegare la teoria della co.scienza di Edelman è necessario esporre prima, brevemente, alcuni dei concetti chiave e delle teorie che egli utilizza, specialmente quelli che adopera per elaborare una teoria della categorizzazione percettiva. Il modo migliore per iniziare è confrontare il progetto di Edelman con quello di Crick. Come abbiamo visto nel capitolo 2, Crick vorrebbe estendere il problema del collegamento ad una descrizione generale della coscienza. Il problema del collegamento pone la questione di come diversi segnali, che giungono a parti differenti del cervello, siano legati insieme, così da produrre un'esperienza singola, unificata, come ad esempio il vedere un gatto. Analogamente, Edelman vuole 1. Darwinismo neurale, tr. it. Einaudi, Torino 1996; Topobiology: An Introduction to Molecular Embryology, Basic Books, New York 1988; Il presente ricordato, tr. it. Rizzoli, Milano 1991; Sulla materia della mente, tr. it. Addphi, Milano 1993.

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estendere la descrizione dello sviluppo delle categorie percettive"""' che si estendono dalle forme, colori e movimenti ad oggetti come i cani e i gatti - ad una descrizione generale della coscienza. In breve, Crick utilizza come punto di accesso alla coscienza il problema del collegamento per la percezione visiva, mentre Edelman utilizza la categorizzazione. La prima idea centrale è per Edelman la nozione di mappa. Una mappa è costituita di un foglio di neuroni nel cervello, dove i punti nel foglio sono connessi sistematicamente a punti corrispondenti in un foglio di recettori, come la superficie della pelle o la retina dell'occhio. Le mappe possono anche essere connesse ad altre mappe. Nel sistema visivo umano vi sono oltre trenta mappe nella sola corteccia visiva. È importante sottolineare che una mappa è ritenuta una parte reale dell'anatomia del cervello. Stiamo parlando di fogli di neuroni. Tali fogli vengono identificati come "mappe" perché in essi vi sono dei punti che hanno relazioni sistematiche con i punti di altri fogli, e ciò è significativo per il fenomeno del rientro, come vedremo fra breve. La seconda idea è costituita dalla sua teoria della selezione dei gruppi neuronici. Per Edelman non dovremmo pensare allo sviluppo del cervello, specialmente per quanto riguarda la categorizzazione percettiva e la memoria, nei termini dell'apprendimento del cervello dall'impatto con l'ambiente. Il cervello è piuttosto dotato geneticamente, sin dalla nascita, di una sovrabbondanza di gruppi neuronici e si sviluppa secondo un meccanismo simile alla selezione naturale darwiniana: alcuni gruppi neuronici muoiono, altri sopravvivono e si rafforzano. In alcune parti del cervello quasi il 70% dei neuroni muore prima che il cervello abbia raggiunto la maturità. L'unità che viene selezionata non è il singolo neurone, bensì gruppi di neuroni, in un numero variabile che va da centinaia a milioni di cellule. Il punto fondamentale è che il cervello non è un meccanismo istruttivo, ma selettivo; ovvero, il cervello non si sviluppa attraverso modificazioni di un gruppo fisso di neuroni, ma tramite processi di selezione che eliminano alcuni gruppi neuronici e ne rafforzano altri. 30

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Il terzo e più importante concetto è quello del rientro. Il rientro è un processo di segnalazione parallela e continua tra mappe. La mappa A invia un segnale alla mappa B e quest'ultima ritrasmette il segnale. I segnali entrano in B da A e poi ritornano in A. Edelman insiste nel porre in evidenza che il rientro non è solamente un rinvio (feedback), perché possono esserci molti segnali paralleli che operano simultaneamente. Come accade che tutto questo dia origine a categorie e a generalizzazioni percettive? Edelman non è molto chiaro a tale proposito, ma l'idea che emerge è la seguente: il cervello ha un problema da risolvere. Deve elaborare categorie percettive a cominciare dalle forme, dal colore, dal movimento ed eventualmente comprendendo gli oggetti - alberi, cavalli e tazze e deve avere la capacità di astrarre concetti generali. Deve fare tutto questo in una situazione in cui il mondo non sia già etichettato e diviso in categorie, e dove il cervello non abbia un programma precostituito, né alcun homunculus all'interno che lo guidi. , · In che modo il cervello risolve il problema? Esso riceve un ampio numero di segnali di ingresso, per ogni diversa categoria - alcuni segnali proveµgono dai bordi o dai contorni di un oggetto, altri dal suo colore, ecc. - e dopo numerosi segnali, alcun.e caratteristiche particolari dei gruppi neuronici verranno selezionàte in mappe. Ma ora, segnali simili attiveranno i gruppi neuronici selezionati in precedenza, non solo in una mappa, ma anche in un'altra o persino in un intero gruppo di mappe, perché le operazioni nelle diverse mappe sono connesse dai caifali rientranti. Ciascuna mappa può utilizzare per le proprie operazioni discriminazioni elaborate da altre mappe. In questo modo una mappa potrebbe rappresentare i contorni di un oggetto, un'altra i suoi movimenti, e i meccanismi del rientro potrebbero ancora consentire ad altre mappe di rappresentare la forma dell'oggetto tramite i suoi contorni e movimenti (Il presente ricordato, pp. 94 sggJ Il risultato che ne consegue è che si può ottenere una rappresentazione unificata degli oggetti nel.mondo, sebbene tale rappresentazione sia distribuita su aree diverse del cervello.

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Mappe differenti in aree diverse sono impegnate ad inviare segnali l'una all'altra tramite le segnalazioni rientranti. Questo porta alla possibilità di categorizzazione e ad una generalizzazione semplice senza la necessità di un programma o di un homunculus. Quando si hanno mappe diffuse in tutto il cervello, che interagisono tra loro attraverso il rientro, si ha ,ciò che Edelman chiama una "mappa globale". Questo consente al sistema di avere non soltanto categorizzazioni e generalizzazioni percettive, ma anche di coordinare la percezione e l'azione. Questa è un'ipotesi su cui lavorare, non una teoria dimostrata. Edelman non pretende di aver dimostrato che questo è il modo in cui il cervello elabora categorie percettive. Ma l'ipotesi è resa perlomeno plausibile dal fatto che il gruppo di ricerca di Edelman ha progettato dei modelli di computer per un robot, basati sull'IA debole. Il robot ("Darwin m") può acquisire delle categorie percettive e generalizzarle utilizzando questi meccanismi. Darwin rii è dotato di un "occhio" simulato e di un "braccio manuale" con cui esso compie dei movimenti. Con queste modalità, Darwin III può compiere esplorazioni e "decidere" che c'è un oggetto, che l'oggetto è a righe e che presenta protuberanze. Può distinguere oggetti che sono sia rigati che con protuberanze da oggetti soltanto rigati o con protuberanze, ma non entrambi (Sulla materia della mente, {'P· 144-147).2 E importante porre in evidenza che fino a questo momento nessuno di questi processi è cosciente. Quando Edelman parla di categorizzazione percettiva non sta parlando di esperienze percettive coscienti~ La sua strategia consiste nel cercare di far emergere la· coscienza da una serie di processi, ad iniziare dalla categorizzazione, che non dovrebbero essere pensati come già coscienti. Non si proverebbe nulla assumendo che essi sono coscienti sin dall'inizio. 2. Vale forse la pena far notare che Darwin m non è un robot che si aggira rumorosamente perla stanza, ma un progetto di robot, una simulazione di un robot al computer.

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La domanda allora è. la seguente: come si arriva, dal sistema che ho finora descritto, alle esperienze coscienti? Di che cos'altro c'è bisogno? Edelman dedica gran parte del suo libro Il presente ricordato al tentativo di rispondere a questa domanda, e qualsiasi breve sintesi risulterebbe inadeguata. È essenziale distinguere fra "coscienza primaria", che riguarda ciò che egli chiama l'insieme delle immagini, cioè le pure sensazioni e le esperienze percettive, e la "coscienza di ordine superiore" che comprende l'autocoscienza e il linguaggio. Per Edelman, il problema principale è costituito dalla descrizione della coscienza primaria, poiché quella di ordine superiore emerge da processi che sono già coscienti, cioè che hanno una coscienza primaria. Per possedere una coscienza primaria, oltre ai meccanismi appena descritti, il cervello necessita almeno di quanto segue: 1. Deve avere memoria. Per Edelman la memoria non è soltanto. un processo passivo di immagazzinamento, ma un processo attivo di ricategorizzazione sulla base delle catego-· rizzazioni precedenti. Edelman non è molto abile nel fornire esempi, ma ciò che sembra avere in mente è questo: supponete che un animale abbia acquisito la categoria percettiva del gatto. Esso apprende tale categoria attraverso l'esperienza della visione di un gatto e organizza questa esperienza per mezzo delle mappe rientranti. Così-la volta successiva che vedrà un gatto, e che avrà quindi un simile stimolo percettivo, produrrà una ricategorizzazione dello stimolo rafforzando la categorizzazione stabilita precedentemente. Esso fa questo grazie ai cambiamenti che avvengono nelle popolazioni di sinapsi all'interno delle mappe globali. Non richiama semplicemente uno stereotipo, ma reinventa continuamente la categoria del gatto. Penso che questa concezione della memoria costituisca uno degli aspetti più notevoli del libro, perché fornisce un'alternativa all'idéa tradizionale della memoria intesa come deposito di conoscenze ed esperienze, e del ricordare come processo di recupero dal deposito. 2. Il cervello deve anche avere un sistema per l'apprendimento. L'apprendimento per Edelman coinvolge non soltan-

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to la memoria ma anche il valore, la capacità di valutare alcuni stimoli rispetto ad altri. Per apprendere, un sistema deve preferire alcune cose ad altre. L'apprendimento riguarda i caro~ biamenti del comportamento, che sono fondati su categorizzazioni determinate da valori positivi e negativi. Per esempio, un animale potrebbe valutare che la luce è preferibile al buio, o il caldo preferibile al freddo, e apprendere per l'animale significa porre in relazione la categorizzazione percettiva e la memoria con tale serie di valori. 3. Il cervello deve anche saper distinguere il sé dal non-sé. Questa non è ancora l'autocoscienza, poiché non richiede un concetto distinto di sé, ma il sistema nervoso deve essere capace di distinguere l'organismo di cui fa parte dal resto del mondo. Il sistema per tale distinzione ci viene fornito già dal1' anatomia del nostro cervello, perché nel cervello vi sono aree dlfferenti per registrare i nostri stati interni, come la sensazione di fame, e per ricevere segnali dal mondo esterno, come il sistema visivo, che ci permette di vedere gli oggetti che ci circondano. La sensazione di fame è parte del "sé"; gli oggetti che vediamo nel mondo intorno a noi sono parte del "non-sé". Queste tre caratteristiche sono condizioni necessarie ma non ancora sufficienti per la coscienza primaria. Per fornire una spiegazione completa della coscienza primaria dobbiamo aggiungere altri tre elementi. . 4. L'organismo necessita di un sistema per la categorizzazione di eventi successivi nel tempo e per la formazione dei concetti. Ad esempio, un animale può percepire un evento particolare;. come l'evento di un gatto che attraversa il suo campo visivo. Successivamente, può percepire un altro evento, un cane che attraversa il suo campo visivo. L'animale non solo deve essere capace di fornire una categorizzazione del gatto e del cane, ma deve anche riuscire a categorizzare la sequenza di eventi in quanto sequenza di un gatto seguito da un cane. E deve saper elaborare dei concetti prelinguistici corrispondenti a queste categorie. Credo che Edelman metta insieme queste due categorie - la categorizzazione di eventi sue34

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cessivi e la formazione dei concetti - perché ritiene che esse abbiano un comune substrato neurobiologico nel cervello. 5. È necessario un tipo particolare di memoria. Devono esserci delle interazioni continue tra il sistema descritto al punto 4 e i sistemi descritti ai punti 1, 2 e 3, per poter avere un sistema particolare di memoria per i valori, che si combini con categorie del passato. Edelman non fornisce esempi concreti,· quindi cercherò di inventarne uno per lui. Supponete che un animale consideri come valore il caldo, rispetto al freddo. Esso connette tale valore alle categorie di oggetti; esterne al sé, che hanno originato le esperienze interne di calore e di freddo, come ad esempio l'esperienza del sole per il calore e quella della neve per il freddo. L'animale possiede delle categorie che corrispondono alle sequenze di eventi che causano il caldo e il freddo, e i suoi ricordi sono correlati a categorizzazioni percettive continue in tempo reale. 6. Infine, l'aspetto più importante è dato dal fatto che abbiamo bisogno di una serie di connessioni rientranti fra il nostro sistema speciale di memoria e i sistemi anatoiv.ici dedicati alle categorizzazioni percettive. È il funzionamento di queste connessioni rientranti che ci fornisce le· condizioni necessarie per l'emergere della coscienza primaria. Quindi, riassumendo, secondo Edelman perché vi sia la coscienza sono necessarie e sufficienti le seguenti condizioni: il cervello deve possedere dei sistemi di categorizzazione e anche i diversi tipi di memoria descritti da Edelman; esso deve inoltre avere un sistema di apprendimento, e I'apprendimento implica la capacità di valutare. Il cervello deve essere capace di distinguere fra il sé e il resto del mondo e ci devono essere strutture del cervello capaci di ordinare gli eventi nel tempo. Ma la cosa più importante è che il cervello deve avere delle segnalazioni di rientro globali, che connettano queste strutture anatomiche. Trovo che la prosa di Edelman non sia molto chiara, e che risenta della mancanza di esempi. Questa è la migliore ricostruzione che sono in grado di fornire. Egli riassume la teoria con le sue parole nel modo seguente:

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La coscienza primaria risulta in effetti dall'interazione in tempo reale fra ricordi di correlazioni passate di valori e categorie e l'input del mondo presente cosl collie è categorizzato dalle mappe globali (prima però che i componenti di queste mappe verigano alterati da stati interni). (Il presente ricordato, p. 191)

E continua: In altri termini, la coscienza è il risultato di una memoria ricorsivamente comparativa in cui le precedenti categorizzazioni del sé e del non-sé vengono riferite continuamente a categorizzazioni percettive in corso e alla loro successione a breve termine; prima che tali categorizzazioni siano diventate parte di tale memoria. (ibidem, pp. 191-193)

La coscienza di ordine superiore può svilupparsi soltanto sulla base della coscienza primaria. Ovvero, per sviluppare abilità di ordine superiore come il linguaggio e la capacità di simbolizzazione, un animale deve innanzitutto essere cosciente. La coscienza di ordine superiore si evolve quando animali come noi sono in grado non solo di sentire e di percepire, ma anche di simbolizzare la distinzione sé /non-sé-cioè di avere un concetto del sé- e questo concetto sì ottiene solamente attraverso l'interazione sociale. Edelman ritiene che tale sviluppo possa condurre ad una ulteriore evoluzione della sintassi e della semantica. Questo implica la capacità di simbolizzare le relazioni del passato, presente e futuro, cioè l'abilità del soggetto ad elaborare dei piani indipendentemente dalle sue immediate esperienze presenti. In questa sintesi ho tralasciato i dettagli di come tutto questo potrebbe essere implementato nella reale anatomia del cervello, ma Edelman indica esplicitamente le strutture del cervello che sono responsabili delle diverse funzìoni. E così fa anche per il sistema della coscienza, che è decisamente notevole. Edelman dedica gran· parte del libro a svilupparne in dettaglio le molteplici implicazioni. Tra i diversi argomenti, vi sono capitoli sulla memoria come ricategorizzazione, sullo

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spazio e il tempo, sulla formazione dei concetti, sull'importanza del valore per l'apprendimento, sullo sviluppo del linguaggio e della coscienza di ordine superiore e sulla malattia mentale. Una delle sue indagini più affascinanti riguarda alcune malattie mentali, come la schizofrenia, e la tesi che questa potrebbe essere il risultato di disfunzioni dei meccanismi del rientro. Che cosa dobbiamo pensare di una simile analisi della coscienza? Come ho detto, nella letteratura neurobiologica, questo è il tentativo più esauriente e profondo di trattare il problema della coscienza. Come Crick, Edelman considera gran parte della sua teoria puramente astratta, ma questo va bene. Senza tesi da dimostrare non può esserci progresso nella conoscenza. La difficoltà principale è tuttavià evidente: finora Edelman non ha spiegato perché un cervello che possiede tutte queste caratteristiche dovrebbe avere anche sensibilità o consapevolezza. Ricordate che si ritiene che tutti gli aspetti della coscienza primaria che ho menzionato - categorizzazione percettiva, valore, memoria, ecc. - vengano compresi soltanto determinandone la struttura e le funzioni svolte. Non dobbiamo pensarli come già coscienti. L'idea è che l'intera serie dei sistemi interconnessi produca la coscienza tramite le mappe rientranti. Ma, come descritto finora, è possibile che un cervello possieda tutte queste caratteristiche funzionali e comportamentali, comprese le mappe rientranti, senza tuttavia esserne consapevole. Il problema è il medesimo in cui ci siamo imbattuti precedentemente: come è possibile, partendo da queste strutture e dalle loro funzioni, giungere agli stati qualitativi di sensibilità o consapevolezza che tutti noi abbiamo - a quelli che alcuni filosofi chiamano i "qualia"? Quando vediamo il colore rosso o proviamo calore abbiamo degli stati di consapevolezza qualitativamente differenti da quelli che abbiamo quando vediamo il colore nero o proviamo freddo. Edelman è ben consapevole del problema dei "qualia". La sua risposta a questo problema, presentata nel libro Il presente ricordato, mi sembra in qualche modo diversa da quella fornita in Sulla materia" 37

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della mente, ma ritengo che nessuna delle due sia corretta. In Il presente ricordato, egli afferma che la scienza non può dirci perché percepiamo il caldo come caldo, e che non dovremmo comunque aspettarcelo. Ma mi sembra che questo sia esattamente ciò che una neuroscienza della coscienza dovrebbe spiegarci: quali sono le caratteristiche anatomiche e fisiologiche del cervello che ci consentono di avere coscienza in generale, e quali caratteristiche originano forme specifiche di stati coscienti. La percezione della rossezza del rosso e del calore del caldo sono - tra le altre cose - esattamente gli stati coscienti che dovrebbero essere spiegati. Nel volume Sulla materia della mente, Edelman sostiene che non possiamo risolvere il problema dei "qualia", perché non possono esserci due persone che hanno gli stessi "qualia" e la scienza, con le sue generalizzazioni, non può fornire una spiegazione a differenze peculiari e specifiche. Ma questa non mi sembra la vera difficoltà. Anche le impronte digitali di ognuno di noi sono diverse da quelle di chiunque altro, ma questo non ci impedisce di avere una spiegazione scientifica della pelle. Senza dubbio le mie sofferenze sono un po' diverse dalle vostre, e forse non avremo mai una spiegazione causale completa di come e del perché esse sono diverse. Ciononostante, continuiamo ad avere bisogno di spiegare scientificamente in che modo esattamente le sofferenze siano causate dai processi cerebrali, e una spiegazione scientifica non deve preoccuparsi delle differenze minimali tra il dolore di una persona e di un'altra. Quindi, la pec.uliarità dell'esperienza individuale non, pone necessariamente il soggetto di tale esperienza al di fuori dell'ambito della ricerca scientifica. Qualsiasi spiegazione della coscienza deve descrivere anche gli stati soggettivi consapevoli, cioè gli stati coscienti. La spiegazione di Edelman deve confrontarsi con la seguente difficoltà: o si suppone che le caratteristiche fisiologiche del cervello siano costitutive della coscienza - cioè che in qualche modo costituiscano lo stato di coscienza - oppure che esse causino la coscienza. Ma, chiaramente, esse non sono costitutive della coscienza, perché un cervello potrebbe possedere 38

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tutte queste caratteristiche e tuttavia essere completamente incosciente. Qtiindi la relazione deve essere causale, e tale interpretazione è sostenuta dal discorso di Edelman a proposito delle condizioni necessarie e sufficienti. Ma se il cervello presenta strutture fisiche che si suppone causino la coscienza, allora dobbiamo sapere come potrebbero fare questo. Come pensiamo possa funzionare? Presumendo di capire in che modo i meccanismi rientranti portino il cervello a sviluppare categorie inconsce corrispondenti ai suoi segnali di ingresso, in quale modo, esattamente, i meccanismi di rientro causano gli stati di consapevolezza? Si potrebbe sostenere che qualsiasi cervello sufficientemente dotato per avere questo sistema interamente in funzione, dovrebbe necessariamente essere cosciente. Ma per una tale ipotesi causale rimane la medesima domanda - in che modo questo origina la coscienza? Ed è vero che i cervelli che possiedono tali meccanismi sono coscienti e quelli che non li hanno non lo sono? Dunque il mistero rimane. Il problema di quale spiegazione dare degli stati qualitativi interni di consapevolezza o ·sensibilità, chiamati "qualia", non è un aspetto del problema della coscienza che possiamo mettere da parte. Esso è il problema della coscienza, perché ogni stato cosciente è uno stato qualitativo, e il termine "qualia" è solo un nome equivoco per la coscienza di tutti gli stati coscienti. Edeltnan ha scritto due libri l;>rillanti, entrambi ricchi di stimoli e di idee. Egli discute con notevole erudizione argomenti che vanno dalla meccanica quantistica alla scienza dei computer, alla schizofrenia, e le sue intuizioni sonò spesso sorprendenti. Una caratteristica notevole della sua teoria è costituita dal tentativo di specificare· in modo dettagliato quali strutture neurali nel cervello siano responsabili di funzioni particolari. Sebbene Edelman differisca da Crick in molti punti, entrambi condividono una convinzione di base che guida le loro ricerche. Per capire la mente e la coscienza dovremo comprendere dettagliatamente come funziona il cervello.

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Tutti i testi che ho deciso di prendere in considerazione hanno a che fare, in un modo o nell'altro, con le relazioni tra coscienza e cervello. Crick, Edelman e Israel Rosenfìeld ritengono, come me, che i processi cerebrali - probabilmente a livello di neuroni, sinapsi e gruppi neuronali - causino la coscienza. Dennett e Chalmers pensano che i cervelli siano semplicemente un tipo di sistema computazionale o di elaborazione di informazioni che può supportare la coscienza. 1 Anche il libro di Roger Penrose, Ombre della mente,2 si occupa dei cervelli e della coscienza, ma è stato scritto ad un livello molto più astratto di tutti gli altri. Solo dopo trecentocinqu~ta pagine c'è una discussione seria sull'anatomia del cervello e, in tutto il libro, la discussione sulle caratteristiche speciali della coscienza ha uno spazio veramente ridotto. Perché l'approccio di Penrose è così diverso? Egli ritiene di avere buone ragioni per adottare una prospettiva più ampia nell'analizzare questo campo. Secondo Penrose la discussione tradizionale trascura la speciale incidenza di due delle più importanti conquiste del ventesimo secolo: la meccanica 1. Strettamente parlando, come vedremo nd capitolo 5, Dennett finisce con il negare l'esistenza ddla coscienza. 2. Ombre della mente. Alla ricerca della coscienza, tr. it. Rizzoli, Milano 1996.

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quantistica e il teorema di Godel, che dimostra come, nei sistemi matematici, vi siano enunciati che sono veri, ma che non possono essere provati all'interno di quei sistemi. Le argomentazioni tradizionali, la mia inclusa, assumono che il computer possa essere usato quanto meno per simulare o per creare modelli di processi mentali, e ritengono che i generi di processi neurobiologici descritti nel capitolo· precedente siano i fenomeni corretti per spiegare la coscienza. Penrose ritiene che se comprendessimo le implicazioni del teorema di Godei e l'importanza della meccanica quantistica per lo studio della mente rifiuteremmo entrambe le ipotesi precedenti. Altri autori cercano di descrivere la coscienza e in che modo il cervello operi per causarla. Penrose non si lancia enfaticamente in alcuna discussione, né a proposito del cervello, né della coscienza. Egli si concentra prima sul teorema di Godei e poi sulla meccanica quantistica, poiché ritiene non si possa discutere in modo intelligente della coscienza o dei suoi rapporti con il cervello o il computer senza aver prima compreso questi temi più profondi. Se Penrose ha ragione, la maggior parte delle discussioni contemporanee sul rapporto tra cervello e coscienza sono irrimediabilmente errate. Mostrare questo è lo scopo di Penrose e dobbiamo ricordarlo bene quando prendiamo in esame le sue argomentazioni contorte e complesse. Ombre della mente, che è il seguito del precedente La mente nuova dell'imperatore, 3 tratta in gran parte gli stessi argomenti, ma aggiunge ulteriori sviluppi e risponde alle obiezioni rivolte alla prima opera. Ombre della mente è diviso in due parti uguali. Nella prima parte Penrose utilizza una variante della famosa dimostrazione di Godei dell'ìncompletezza dei sistemi matematici per cercare di spiegare che noi non siamo dei computer e che nemmeno possiamo essere simulati da un computer. Non solo l'IA forte è falsa, ma lo è pure l'IA debole. Nella seconda metà ci fornisce un'estesa spiegazione della 3. La mente nuova dell'imperatore. La mente, i computer, le leggi dellafisica,tr. it. Rizzoli, Milano 1992.

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meccanica quantistica, con alcune riflessioni su come una teoria meccanico-quantistica del cervello potrebb~ spiegare la coscienza, in un modo in cui, egli ritiene, non sarebbe invece in grado di fare la fisica classica. Oltretutto, questo è l'unico libro che io conosca.dove si può trovare una spiegazione chiara ed estesa di queste due grandi scoperte: il teorema di Gode! dell'incompletezza e la meccanica quantistica. Prima di entrare nei dettagli della sua argomentazione, vorrei metterla in relazione con le attuali discussioni sui tentativi di simulare la cognizione umana in modo computazionale. Mai come in quest'epoca vi sono stati momenti in cui si siano dette maggiori sciocchezze sui computer. Eccovi un esempio. Di recente, un programma per giocare a scacchi, chiamato Deep Blue, è riuscito a battere il miglior giocatore al mondo di scacchi. Che significati psicologici dovremmo attribuire a questo programma? Nei giornali c'è stato un grande dibattito sul fatto che questo potesse costituire una minaccia per la dignità dell'uomo o qualcosa di simile, ma conoscendo che èos' è effettivamente un computer e che cosa i programmi possono realmente fare, non si sarebbe certo tentati di trarre simili conclusioni sensazionali. Un computer è un dispositivo che manipola simboli. Abbiamo inventato sistemi elettronici che consentono a tale dispositivo di manipolare i simboli molto rapidamente, milioni di manipolazioni al secondo. Nel caso dei computer che giocano a scacchi, noi possiamo codificare nel computer le nostre rappresentazioni delle mosse degli scacchi in una serie di simboli privi di senso. Possiamo programmare il computer per ottenere un'elaborazione dei simboli estremamente rapida, ed avere poi una stampa delle istruzioni, che decodificheremo come riferite agli scacchi. Tuttavia, il computer non sa nulla di scacchi, di mosse, di pezzi o altro. Esso si limita a manipolare simboli formali privi di significato, in accordo con le istruzioni che noi gli forniamo. Quando la stampa e i media mi hanno chiesto se pensavo che la dignità umana potesse essere minacciata da Deep Blue, ho fatto notare che essa non è più minacciata dal computer di quanto lo siano stati i matematici superati dalle abilità di una

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calcolatrice tascabilè o di qualsiasi individuo con un·badile rispetto alle capacità di una scavatrice meccanica. Alcuni programmi computazionali cercano di imitare le caratteristich.e formali della natura cognitiva dell'uomo. Ma i recenti programmi per giocare a scacchi non fanno nemmeno questo. Questi programmi hanno successo grazie a ciò che chiamiamo "forza bruta". In risposta alle mosse dei loro awersari sono in grado di calcolare milioni di mosse possibili, 200 milioni di mosse al secondo, in modo totalmente differente da quello dei processi di pensiero di qualsiasi giocatore reale. Vi sono dunque due ragioni per cui Deep Blue non fa parte della psicologia umana o sovrumana, sebbene resti uno splendido risultato di programmazione. Primo, perché, come ogni altro computer digitale, funziona manipolando simboli privi di significato .. L'unico significato che tali simboli hanno è quello che noi diamo loro, come interpreti esterni. Secondo, i programmi per il gioco degli scacchi non cercano nemmeno di simulare la psicologia umana, ma si limitano ad utilizzare la pu- ra potenza computazionale dell'elettronica attuale per sconfiggere l' awersario. 4 Ancor più recentemente, il New York Times ha scritto .che esistono nuovi programmi matematici per la dimostrazione di teoremi attualmente in grado di operare in modo molto simile al ragionamento naturale. Ma, ancora una volta, questo "ragionamento naturale" è, dal pulito di vista del computer, semplicemente una questione di manipolazione di simboli privi di significato. Sono state eleborate modalità di programmazione dei computer, capaci di dimostrare teoremi e talvolta di produrre· risultati che nemmeno un programmatore avrebbe· saputo prevedere. Questo è un risultato notevole per i progr?lllmatori e·gli ingegneri, ma rimane una questione di simulazione di alcune capacità cognitive umàne, e, come abbiamo osservato nell'argomento della stanza cinese, l'imitazione non dovrebbe essere confusa con la duplicazione. Chiunque co4. Per maggiori dettagli si veda Monty Newborn,Kasparov versus Deep Blue: .Computer Chess Comes o/Age, Springer Verlag, Berlin 1997 '.

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nosca la definizione di computer, quella che Alan Turing diede mezzo secolo fa, sa che il moderno computer digitale è un dispositivo per la manipolazione di simboli formali, normalmente pensati come zero e urto. Questi simboli sono privi di significato, fintanto che non vengono interpretati da un programmatore o da un utente umano esterno. "Ma", come afferma un'obiezione comune, "non dovremmo pensare che anche il cervello utilizzi zero e uno, dato che i neuroni sono iii un certo senso binari? Si eccitano oppure no. Se il cervello opera dunque secondo un codice birtario, allora sicuramente il cervello deve essere anche un computer digitale." Vi sono molti errori in questa analogia, ma il più importante è il seguente: la differenza fondamentale tra i neuroni e i simboli del computer è che i neuroni agiscono causalmente, per causare la coscienza e altri fenomeni mentali, tramite specifici meccanismi biologici. Zero e uno sono invece assolutamente astratti. Il loro unico potere causale è il potere del medium di implementazione, l'hardware, di produrre il passaggio successivo del programma, quando la macchina è in funzione. I neuroni possono davvero essere simulati da un programma di computer; ma l'imitazione delle scariche neuronali non assicura il potere dei neuroni di causare la coscienza, più di quanto la simulazione al computer di un temporale o dello scoppio di un incendio non garantisca i poteri causali della pioggia o del fuoco. Un programma che simula il cervello non causa di per se stesso la coscienza più di quanto un programma che simula un incendio non bruci una casa o il programma che simula la pioggia non ci lasci tutti fradici. Tutte queste tesi sono ben note a Penrose. Credo che egli concorderebbe con tutto ciò che ho appena affermato~ Ma egli vuole spingersi oltre, e dimostrare che esistono cose che gli esseri umani coscienti possono fare, che i computer non sono nemmeno in grado di simulare. Data per scontata la differenza tra una semplice imitazione computazionale della coscienza e l'effettiva duplicazione della capacità del cervello di causare la coscienza, Penrose ritiene vi siano aspetti della coscienza che non possono nemmeno essere simulati. Egli am-

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mette che i computer sappiano giocare a scacchi e dimostrare teoremi matematici,. ma pensa ci siano cose che solamente gli agenti coscienti possono fare. Penrose inizia il suo libro distinguendo quattro possibili posizioni circa la relazione tra computazione e coscienza:

A. IA forte. La coscienza, e altri fenomeni mentali, sono interamente costituiti da processi computazionali.

B. IA debole. I processi del cervello causano la coscienza e possono essere simulati da un computer. Ma la siilulazione computazionale non garantisce di per sé la coscienza. C. I processi del cervello causano la coscienza, ma tali processi "non possono essere adeguatamente simulati da un sistema computazionale" (p. 29). D. La coscienza non può essere spiegata da alcun sistema scientifico, sia esso computazionale o di altro tipo. Penrose, come me, rifiuta l'ipotesi A, l'IA forte, ma diversamente da me rifiuta anche l'ipotesi B. Egli vuole sostenere una posizione più forte, la posizione C Dal suo punto di vista, anche l'IA debole è falsa. La posizione D è anti-scientifica, e Penrose intende rifiutarla e distiguerla da C. Perché pensa sia importante sostenere C, se ritiene che A sia falsa e che la computazione di per sé non sia sufficiente per la coscienza? Perché, egli afferma, la scienza adotta un "punto di vista operazionale" e, se è possibile programmare un computer affinché si comporti esattamente come un essere umano, sarebbe molto attraente da un punto di vista scientifico pensare che il computer possa avere anche gli stessi stati mentali. Penrose vuole dimostrare che non è possibile realizzare un simile programma. Le manifestazioni esterne della coscienza, cioè il comportamento umano, non possono essere simulate in maniera computazionale, e non può esserlo nemmeno il cervello, poiché esso è causalmente responsabile di tale comportamento. Dato che il cervello e il corpo sono enti fisici, ne segue che non tutti i processi fisici possono essere simulati in maniera computazionale e,in particolare, non possono esserlo quelli che coinvolgono la coscienza. È sorprendente come, in tutto il libro,

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Penrose abbia ben poco da dire riguardo alla coscienza. Ciò che lo interessa sono piuttosto le sue "manifestazioni esterne" nel comportamento fisico, in particolare, come vedremo, nelle manifestazioni riferite al ragionamento matematico. Il libro è lungo e difficile ma, in generale, la struttura del1'argomentazione si può riassumere nel modo seguente (questa è la mia sintesi e non la sua): 1~ Il teorema di Godei dimostra che, nei sistemi matematici, vi sono enunciati veri che non sono dimostrabili come teoremi del sistema. 2. Una versione particolare del teoréma di Godei, l'insolubilità del problema dell'arresto, può essere usata per dimostrare che il nostro comportamento cosciente non può essere nemmeno simulato con il computer. Il problema del1' arresto, come vedremo, è un problema matematico puramente astratto che riguarda la possibilità di ottenere una serie di procedimenti matematici capaci di determinare se un'operazione computazionale si fermerà (o arresterà). (Ad esempio, se programmiamo il nostro computer per iniziare con la sequenza 1, 2, 3 ... e per trovare un numero maggiore di 8, il computer si fermerà a 9; ma, se gli chiediamo di trovare un numero dispari che sia la somma di due numeri pari, non si fermerà mai perché tale numero non esiste. È possibile dimostrare che vi sono procedimenti computazionali che non si arrestano, che non possono essere dimostrati tali con metodi computazionali, ma che possiamo tuttavia cogliere come inarrestabili. Per i dettagli si veda l'appendice a questo capitolo.) 3. I neuroni sono computabili, owero le loro diverse caratteristiche possono essere simulate con il computer. Quindi essi non possono spiegare la coscienza poiché la coscienza presenta caratteristiche non computabili, mentre i neuroni sono computabili. · 4. Per spiegare la coscienza abbiamo bisogno di qualcosa di "autenticamente non computabile't .. Questo dovrà appartenere ad un livello subneuronale, probabilmente .al li-

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vello dei microtubuli dei neuroni. Per comprendere tutto questo ci vorrebbe una rivoluzione nel campo della fisica. Nel seguito, spiegherò le argomentazioni di Penrose relative ai punti 2, 3 e 4 e cercherò di dimostrare che nessuna di queste è consistente. Forse è importante sottolineare che Penrose non sta affermando· che nessun procedimento matematico compiuto da un e~sere umano cosciente può essere simulato da un computer. Sicuramente questo è possibile. Molte delle operazioni che i matematici svolgono, e quasi tutte quelle che compie la gente comune, possono essere simulate al computer. A Penrose interessa soltanto evidenziare che vi sono alcune aree del p~nsiero umano cosciente, come quelle esemplificate dal teorema di Godel, che non possono essere simulate al computer. Ripeto, egli non sostiene che nessuna delle nostre abilità matematiche sia simulabile, ma, piuttosto, che non tutte lo sono. Il suo argomento riguarda esclusivamente alcune aree misteriose della matematica. Egli afferma (nella conversazione) di occuparsi della matematica perché è ciò che conosce meglio, ma ritiene che argomenti simili possano essere sostentiti per la musica, l'arte o altre attività umane coscienti. In quanto mate~ matico, egli vuole dimostrare che non tutte le sue abilità matematiche possono essere simulate da un computer. Ed è irrilevante il fatto che il 99,9 per cento sia effettivamente simulabi" le. Per Penrose, anche un solo controesempio all'IA debole costituisce una confutazione totale.

2 La prima versione dell'argomento di Godel contro il computazionalismo risale ad un articolo diJohn R. Lucas, un filosofo di Oxford, pubblicato nei primi anni Sessanta;5 Secondo . . 5. "Minds, Machines and Godd", Philosophy, vol. 36, 1961, pp. 112127. Ristampato iii A.R. Anderson, Minds and Machines, Prentice Hall, Englewood Cliffs, NJ, 1964 ..

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Lucas, Codel aveva dimostrato che nei sistemi matematici esistono enunciati che non·possono essere dimostrati come teoremi, all'interno di quegli stessi sistemi, ma che tuttavia riconosciamo come veri. Un teorema di un sistema è un qualsiasi enunciato, che segua logicamente dagli assiomi del sistema. Lucas fornisce il seguente tipo di esempio. Supponiamo di avere upa lista di enunciati di un qualche sistema formale numerato con 1, 2·; 3 ecc. e supponiamo che l'enunciato numero 17 tratti di se stesso. Supponiamo dica: 17. L'enunciato numero 17 non può essere dimostrato in questo sistema. Possiamo sostenere che l'enunciato 17 è vero, perché assumere che sia falso implica un'auto-contraddizione. Assumere che sfa dimostrabile e che non sia dimostrabile significa sostenere che esso è sia dimostrabile che non dimostrabile. Possiamo quindi osservare che l'enunciato 17 è vero e che, in quanto vero, non è dimostrabile. Il senso comune ci suggerirebbe che qui c'è qualcosa di sospetto, poiché l'enunciato 17 sembra privo di fondamento. Su quale argomento dovrebbe fondarsi per risultare dimostrabile o indimostrabile? Tuttavia, questo non è il modo in cui ragiona la maggior parte dei logici o dei matematici. Essi pensano che per quanto riguarda la sostanza, l'enunciato 17 vada bene. In un inglese logico-matematico ordinario, l'enunciato 17 non ha nulla di sbagliato. Esso stesso afferma di non essere dimostrabile. Questo è il suo unico fondamento. Gli esempi di Godel sono, come vedremo, molto più complessi di questo, ma fanno affidamento al medesimo principio: fornire casi che sappiamo ~ssere veri, ma che non sono dimostrabili. Per Lucas, da questi esempi segue che la nostra capacità di comprensione supera quella di qualsiasi computer. Un computer utilizza solamente algoritmi - una serie di regole precise che specificano la sequenza di azioni che è necessario fare per risolvere un problema o per dimostrare una proposizione. Quindi, un computer per dimostrare un teorema deve necessariamente utilizzai;e un algoritmo. Tuttavia, vi sono enunciati 49

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che sappiamo essere veri, che non possono essere dimostrati in quel sistema. Tali proposizioni non sono quindi teoremi del sistema e non sono perciò dimostrabili attraverso.l'utilizzo di un algoritmo per la dimostrazione dei teoremi. Ne consegue, secondo Lucas, che la nostra conoscenza di queste verità non può essere di tipo algoritmico. E, poiché i computer utilizzano soltanto algoritmi (un programma è un algoritmo), noi non si~o dei computer. Ci sono state molte obiezioni ali' argomento di Lucas, ma una piuttosto ovvia è la seguente: dal fatto che la nostra conoscenza di tali verità non deriva da un procedimento algoritmico, non segue necessariamente che non utilizziamo alcun algoritmo per.giungere a tali conclusioni. Non tutti gli algoritmi sono algoritmi per la dimostrazione di teoremi. Nella scienza cognitiva, ad esempid, un programma che simuli la visione avrà sicuramente un algoritmo per costruire una descrizione tridimensionale del campo visivo, partendo dalla descrizione della matrice bidimensionale degli stimoli retinici. 6 L'algoritmo in questione specificherà, ad esempio, in che modo lo stimolo retinico produca l'immagine visiva di un oggetto. Tuttavia, l'algoritmo che parte dallo stimolo retinico per giungere alla descrizione tridimensionale non dimostra alcun teorema. Allo stesso modo, nel caso discusso da Lucas, potremmo avere un algoritmo che ci consente di osservare che un enunciato che dice di se stesso di non essere dimostrabile come teorema in un certo sistema, non può essere dimostrato come teorema di quel sistema, e questo è vero, anche se, in quel sistema, la sua verità non può essere stabilita da un algoritmo per dimostrare teoremi. In breve, è possibile utilizzare procedimenti computazionali diversi da quelli necessari per la dimostrazione di teoremi. Credo che questa sia un'obiezione classica che si è soliti rivolgere ali' argomento di Lucas. Penrose lo riprende con una bella versione della dimostrazione di Godei, la stessa fatta per 6. Si veda David Marr, Vision, W.H. Freeman and Co., New York 1982.

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la prima volta da Alan Turing, e che è solitamente chiamata "la prova dell'irrisolvibilità del problema dell'arresto". Come ho detto precedentemente il problema dell'arresto è un quesito matematico puramente astratto che cerca di trovare un insieme di procedimenti matematici in grado di determinare, per qualsiasi calcolo, s~ esso si fermerà (o arresterà) o meno. Dato che persino io che non sono un matematico penso di poter comprendere qµesto argomento, e poiché non saremmo in grado di afferrarne il significato filosofico se non tentassimo di capirlo, ho cercato di riassumerlo nell'appendice a questo capitolo, per coloro che volessero cercare di seguirne i passaggi. In che modo esattamente Penrose utilizza l'irrisolvibilità del problema dell'arresto per dimostrare che non siamo dei computer? Rispondere a questa domanda non è così facile come dovrebbe essere. Nel suo libro (pp. 103 sgg.) afferma che fintanto che sappiamo che una serie di procedure computazionali A è valida, allora sappiamo che vi sono dei computi, CK(k), che non si arrestano. (Un computo CK(k) sarebbe l'en. nesimo computo eseguito sul numero k. Così, se k è uguale a 8, allora CK(k) sarebbe l'ottavo computo del numero 8.) Ma, la dimostrazione dell'irrisolv!bilità del problema dell'arresto dimostra che l'insieme di algoritmi computazionali A è insufficiente per accertare che il computo CK(k) non si arresta. Così A non può racchiudere la nostra comprensione. Dato che A può essere un insieme qualsiasi di algoritmi computazionali, ne segue che noi non siamo computer in grado di elaborare algoritmi. Penrose riassume le sue conclusioni nel modo seguente: Ne deduciamo che nessun insieme di regole computazionali conoscibilmente valide (comeA), può essere mai sufficiente per accertare che i computi non si arrestano, poiché vi sono alcuni computi che non si arrestano [come CK(k)] che devono eludere queste regole. Inoltre, poiché dalla conoscenza di A e della sua validità possiamo effettivamente costruire un computo CK(k) che possiamo vedere che non si arresta mai, pos-

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siamo dedurre che A non può essere una formalizzazione dei procedimenti disponibili ai matematici per accertare che i computi non si arrestano, qualunque sia A. (p. 103)

Quindi: I matematici umani non stanno usando un algoritmo conoscibilmente valido per accertare la verità matematica. (p. 103)

(Vale forse la pena ripetere che Penrose non sta sostenendo che i matematici non usano mai gli algoritmi, al contrario, essi lo fanno per la maggior parte del tempo. Ciò che egli afferma è che talvolta fanno qualcosa di più.) In un successivo dibattito sul libro, pubblicato nella rivista internet Psyche,7 Penrose ne fornisce una versione leggermente diversa.. In questa versione egli non richiede esplicitamente che l'algoritmo sia "conoscibilmente valido", ma semplicemente ipotizza che le abilità matematiche umane siano racchiuse in un qualche algoritmo, e da tale ipotesi giunge, successivamente, ad una contraddizione. In breve, Penrose presenta un argomento del tipo reductio ad absurdum: supponiamo che io sia un computer che elabora un algoritmo computazionale e che, da tale assunto, voi siate in grado di inferire una contraddizione. Vi presenterò ora una sintesi della versione di Psyche, che penso sia la forma più ridotta del suo ragionamento. Supponiamo che la totalità dei metodi accessibili all'uomo per risolvere. un ragionamento matematico inconfutabile sia racchiusa in un sistema formale F. F includerà, senza tuttavia essere limitato a questo, una serie di assiomi veri e una serie di regole di inferenza che danno luogo a inferenze valide. In aggiunta a queste regole "top-down" ("dall'alto al basso") possono anche esserci altre regole computazionali "bottom-up" 7. "Beyond the Doubting of a Shadow: A Replay to Commentaries on Shadows of the Mind", Psyche: An Interdisciplinary Journal o/ Research on Consciousness, 2 (23), gennaio 1996, http://psyche.cs.monash.edu.au.

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("dal basso all'alto"). Le regole top-down potrebberq_ comprendere fenomeni di livello superiore come i principl"del ragionamento logico e gli assiomi matematici. Le regole bot~ tom-up potrebbero invece comprendere gli algoritmi che si~ mulano i processi mentali di livello inferiore che sono alla base del ragionamento matematico. Un matematico ideale che si confrontasse con F, scrive Penrose, potrebbe chiedersi ~'Sono F? ", e questo significherebbe semplicemente: "Il sistema F comprende tutte le regole per le dimostrazioni matematiche, umanamente accessibili?". Ora, tale matematico confrontandosi con F potrebbe ragionare come segue: non so con certezza di essere F, ma se lo sono, allora posso sostenere sia che F è valido sia che l'unione di F con l'affermazione "io sono F" è valida. Chiamiamo tale unione F. Dall'assunto "io sono F", segue che la-proposizione di Godei sul fatto che il computo non si arresta - possiamo chiamare questa proposizione G (F) - è vera. Io posso semplicemente constatare che essa è vera, ma: non è una conseguenza di F: cioè, posso constatare che se io sono F, allora la proposizione di Godei G (F) è vera; nel momento in cui la comprendo, vedo anche che è vera. Ma percezioni di questo tipo sono precisamente ciò che si supponeva F fosse in grado di ottenere, e F non può ottenere tali percezioni. Non lo può fare perché la verità in questione non è una consequenza di F. Quindi, dopotutto, io non posso essere F. In breve, la supposizione per cui io sono F, dove F è una qualsiasi serie di procedimenti computazionali "godelizzabili", ci porta a una contraddizione. Io posso percepire la verità di enunciati che vanno oltre i poteri di F e questo contraddice l'affermazione che F comprende tutti i miei poteri. Tale argomento funziona per ogni candidato per F. Chi siamo noi, per capire .1' argomento di Penrose? Molti logici, filosofi. e scienziati informatici hanno fornito obiezioni di carattere più o meno tecnico. Una delle obiezioni più comuni, rivolta all'argomento originale, è la seguente: dal fatto che nessun algoritmo "conoscibilmente valido" è in grado di dare ragione delle nostre abilità matematiche, non segue che

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non possa esserci un algoritmo, che non sappiamo, e forse non sapremo mai se è valido, capace di spiegare tali abilità. Supponiamo di seguire inconsciamente un programma, così lungo e complicato che non riusciremo mai ad afferrarne immediatamente il significato completo. Possiamo comprendere ogni singolo passaggio, ma i passaggi sono così numerosi che non riusciremo mai a comprendere immediatamente il programma nella sua totalità. Ovvero, l'argomento di Penrose si attiene a ciò che possiamo conoscere e capire, ma la scienza cognitiva computazionale non richiede che i soggetti siano in grado di comprendere i programmi che utilizzano per risolvere i problemi cognitivi. Questa obiezione è stata avanzata, ad esempio, da Hilary Putnam nella sua recensione a Penrose, nella New York Times Book Review. L'argomento di Penrose, affermava Putnam, "è un caso evidente di errore matematico". Penrose rispose con due lettere indignate. 8 Egli conosceva da tempo questa obiezione e l'aveva discussa nel suo libro, dedicandovi un notevole spazio. In effetti, egli considera e risponde dettagliatamente ad una ventina di obiezioni al suo argomento (pp. 104-153). Il suo obiettivo è quello di dimostrare che qualsiasi algoritmo inconoscibile e inconscio può essere ridotto ad un algoritmo consciamente conoscibile. Egli sostiene, ad esempio, che se un algoritmo è finito, allora ogni suo passaggio è conoscibile e comprensibile, ma se ogni passaggio è conoscibile e comprensibile, allora, alla fine, tutti i suoi passaggi possono essere conosciuti e compresi (pp. 168 sgg.). L'argomento di Penrose può essere spiegato meglio con l'esempio dei robot. Se il progetto dell'IA di costruire un robot capace di eseguire operazioni matematiche di livello umano avesse successo, allora, secondo Penrose, le operazioni matematiche di livello umano sarebbero necessariamente riducibili a procedimenti per dimostrare teoremi, poiché un robot può usare soltanto procedimenti per la dimostrazione di 8. The New York Times Book Review, 20 novembre 1994, p. 7; 18 dicembre 1994, p. 39 e15gennaio1995, p. 31.

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teoremi. Tuttavia, l'assunto per cui le operazioni matematiche di livello umano si possono ridurre a procedimenti per la dimostrazione di teoremi, è proprio quello che conduce alla contraddizione che egli descrive. Il robot, usando esclusivamente procedimenti per la dimostrazione di teoremi, non può cogliere la verità dell'enunciato di Godel, mentre io sono in grado di afferrarne la verità. Di conseguenza, le mie abilità non possono essere racchiuse nei procedimenti del robot per la dimostrazione di teoremi. Penrose conclude quindi che almeno alcune delle manifestazioni esterne della coscienza sono·diverse dalle manifestazioni esterne della computazione.

3 Fino a qui, mi pare che l'argomento di Penrose sia vincente. Mi rendo conto che molti logici, matematici e filosofi rimangono scettici, tuttavia nemmeno io credo che il suo argomento si sostenga o crolli sulla possibilità che vengano usati algoritmi sconosciuti, che noi non comprendiamo. Ad ogni modo, nel suo articolo su Psyche, Penrose cerca di evitare la questione. Nella mia discussione, assumerò che Penrose abbia ragione quando afferma che questo tipo di obiezione non danneggia la sua posizione. Che cosa è riuscito a dimostrare? Ha dimostrato che l'IA debole è impossibile? No, non è vi riuscito. Credo sia piuttosto semplice mostrare che l'argomento di Penrose è erroneo: dal fatto che non è possibile fornire un certo tipo di simulazione computazionale di un processo, sotto una certa descrizione, non consegue necessariamente che non sia possibile un altro tipo di simulazione computazionale dello stesso processo, sotto un'altra descrizione. Presenterò ora degli esempi di come questo potrebbe funzionare. Cercate di ricordare l'ultima versione dell'argomento di Penrose. Prendete la totalità delle regole del ragionamento matematico, e chiamatele F. Ora mi chiedo se io sono F. Dall'ipotesi che io sono F e che F è valido (chiamate F

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l'unione di queste ipotesi) posso constatare che la proposizione di Godei G (F) è vera, ma la verità della proposizione di Godei non segue da F. L'ipotesi che io sono F genera dunque una ccmtraddizione. Quindi io non posso essere F. Fino a qui, procede tutto bene. Tuttavia, ciò che l'argomento dimostra è che io non posso essere simulato, al livello del ragionamento matematico, da un programma che utilizza soltanto regole valide di dimostrazione matematica. Ma la . conclusione cui giunge Penrose è che io non posso essere simulato da nessuna descrizione possibile dei processi che mi consentono di cogliere la verità delle affermazioni di Godei. Tale conclusione non segue necessariamente. La conclusione di Penrose ne consegue soltanto se limitiamo le nostre simulazioni alle "regole del .ragionamento matematico". E l'argomento, se valido, dimostra solamente che io non posso essere F, dove F è stato progettato come un sistema per comprendere qualsiasi regola del ragionamento matematico, sia essa topdown Q bottom-up. L'argomento di Penrose dimostra che io non posso essere simulato da un programma che simula F, ma non tutte le simulazioni al computer hanno necessariamente la forma di F.. Una versione intelligente dell'IA debole dovrebbe cercare di simulare i processi cognitivi reali. Ora, un modo per simulare i processi cognitivi è quello di simulare i processi del cervello. Tali simulazioni del cervello non hanno affatto un carattere normativo. Esse comprendono, ad esempio, simulazioni dei processi che producono le illusioni percettive. Per questo genere di simulazioni, le questioni di validità o correttezza non si pongono nemmeno, come non si pongono per le simulazioni del tempo atmosferico o dei processi digestivi. Tali simulazioni imitano semplicemente una serie di processi neurologici, semplici e casuali; quelli che stanno alla base dei nostri ragionamenti matematici o di altro tipo. Per ripetere questo punto ~ssenziale, qui non si tratta di processi validi o non validi. I processi neurobiologici non sono nemmeno dei possibili candidati per esser giudicati validi onon validi. Consideriamo un programma banale. Utilizziamo i simboli

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binari standard O e 1, e poniamo che O stia per l'enunciato "Penrose (o un matematico ideale) sta pensando alla verità delle proposizioni di Godel," mentre 1 sta per I'enunciato "Penrose coglie la verità di tali proposizioni". Successivamente, il Programma Uno dice: andate dallo stato O allo stato 1. Questa è una simulazione perfetta del ragionamento matematico di Penrose. Egli si troverebbe d'accordo, ma non è preoccupato dall'esempio. Egli afferma (in una lettera che mi ha inviato) che difficilmente potrebbe trattarsi di una "simulazione dei suoi processi cognitivi", perché questo è· troppo banale e non spiega nulla. Son d'accordo che sia banale, ma dovrebbe comunque preoccupare, perché tutto ciò che un qualsiasi programma di computer digitale possiede è proprio una sequenza finita di tali banalità. Qualsiasi programma per computer, per qualsiasi cosa, consiste esattamente in una serie di tali stati discreti espressi in una numerazione binaria. Uno degli obiettivi dell'IA è quello di ridurre i processi mentali complessi a passaggi banali come questo. Cerchiamo quindi di approfondire questo punto. Se supponiamo ragionevolmente e penso che Penrose lo accetterebbe - che vi sia una stretta correlazione tra i processi del cervello e i processi del pensiero, vi sarebbero due diversi processi cerebrali; uno che corrisponde al pensiero di Penrose riguardo alla proposizione di Godel, e alla questione se questa sia vera, e 1' altro che corrisponde alla constatazione di Penrose che essa è vera. Chiamiamo questi processi del cervello X e Y. E il Programma Due sarà il programma parallelo al Programma Uno: andate dallo stato X ,allo stato Y. "X" e "Y" si riferiscono qui a stati del cervello iri.teramente descritti in termini di scariche neuronali, neurotrasmettitori, ecc. Essi non dicono nulla riguardo al pensiero, ma qualcuno che, indipendentemente da questo, sapesse che tra essi vi era una stretta correlazione e sapesse come funziona il cervello di Penrose, potrebbe inferire i processi del pensiero dalle descrizioni di X e Y. In altre parole: la stessa sequenza di eventi nel cervello può essere descritta con o senza riferimento al suo contenuto mentale. Dunque, il Programma Due è un programma stupido e ba-

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nale quanto il Programma Uno. Passiamo dunque al Pro· gramma Tre. Vi è un intero agglomerato di processi mentali tramite i quali Penrose giunge a constatare la verità delle proposizioni di Godei. Supponiamo che egli lo faccia in un centinaio di passaggi (o un migliaio o un milione, non fa differenza). A questi passaggi corrisponderà una serie esattamente parallela di processi cerebrali denominati B1, B2 , B3 , B4, ... Supponiamo inoltre di avere un programma che dice: andate da B1 aB2 aB3 , fino ad arrivare aB 100 e poi andate a Y. Ora; notate che i passaggi in questo programma e quelli corrispondenti nel cervello non dicono comunque nulla riguardo a "regole del ragionamento matematico", a "giudizi di verità", a "validità", oad altri aspetti dei sistemi matematici. Si tratta semplicemente di una serie di scariche neuronali seguita da un'altra serie. Non sono che semplici, casuali processi neurobiologici dall'inizio alla fine. Non viene detto assolutamente nulla circa le regole del ragionamento matematico, eppure chiunque conosca la correlazione, in maniera t'ndipendente, potrebbe inferire i processi del pensiero dai processi del cervello. L'argomento di Penrose dimostra che non può esservi simulazione computazionale a livello del ragionamento matematico. Ma questo non implica che non possa esserci una simulazione computazionale della stessa sequenza di eventi a li-· vello dei processi cerebrali. Sappiamo infatti che un tale livello di processi cerebrali deve esistere, dato che qualsiasi ragionamento matematico deve compiersi nel cervello. Non soltanto i neurobiologi, ma lo stesso Penrose concorderebbero con l'idea che a qualsiasi cambiamento degli stati mentali deve corrispondere esattamente un cambiamento degli stati cerebrali. Notate che non è necessario supporre che per due matematici qualsiasi, che abbiano il medesimo pensiero matematico, il tipo di stato cerebrale sia sempre lo stesso. Forse, le istanze specifiche della realizzazione del cervello in cervelli diversi, sono differenti persino per lo stesso tipo di pensiero. Tutto ciò non è rilevante per il nostro argomento, che richiede solamente che ad ogni reale evento di ragionamento matematico, che accade nella mente di un matematico, corrisponda

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una realizzazione cerebrale di quell'evento. Quindi, Penrose non dimostra che non c'è una simulazione non banale dei suoi processi cerebrali, quando constata la verità delle proposizioni di Godei. Penrose crede di consolidare questa argomentazione comprendendo in Fregole di ragionamento matematico sia del tipo bottom-up sia del tipo top-down. Le regole di ragionamento bottom-up accadrebbero ai microlivelli del cervello, ma Penrose pensa di poter ottenere regole di ragionamento matematico che garantiscano la verità a questo livello. Tuttavia, in quello che ho chiamato Programma Tre non vi è alcuna regola per il ragionamento matematico, né del tipo top-down, né bottom-~p. Gli elementi attribuiti al Programma Tre saranno elementi del tipo: "Il neurotrasmettitore serotonina è secreto nei nodi sinaptici di 87 neuroni nella cellula corticale prefrontale numero 391X."· Non si tratta quindi di una questione di "validità" o di altri criteri di valutazione. La differenza fondamentale tra F e il Programma Tre sta nel fatto che F ha carattere normativo. Esso stabilisce dei modelli normativi di ragionamento matematico, che si suppone garantiscano la verità matematica. Ma non c'è nulla di no.rinativo nei processi più semplici e casuali del cervello, e, ugualmente, non non c'è nulla di normativo nei programmi che simulano quei processi. A questo punto si potrebbe obiettare, e penso che Penrose lo farebbe, che la simulazione da me proposta non garantisce giudizi veri. Essa non garantisce la verità matematica. Tale affermazione potrebbe essere corretta, ma non è un'obiezione. Nemmeno i processi reali del cervello garantiscono la verità. I cervelli vivi, reali sono oggetti materiali ed empirici e il loro comportamento può essere simulato, come può esserlo il comportamento di qualsiasi altro fenomeno materiale, come i temporali, i terremoti o le deduzioni matematiche. Ad ogni modo, Penrose non ha ancora dimostrato che il loro comportamento non può essere simulato. E che dire della sua argomentazione relativa ai robot? Penrose, è d'accordo, ovviamente, con il fatto che un computer e,,

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a maggior ragione un robot, possa compiere un ragionamento matematico. Ritiene tuttavia di aver dimostrato che non è possibile programmare un robot in grado di eseguire tutti i ragionamenti matematici di cui gli esseri umani sono capaci. Ma, ancora una volta, tale affermazione deve essere giustificata. Penrose - se è nel giusto - ha dimostrato che non è possibile programmare un robot perché elabori ragionamenti matematici a livello umano, se esso è stato programmato esclusivamente con programmi per ragionamenti matematici di tipo algoritmico. Ma supponiamo di averlo programmato con programmi totalmente non normativi per la simulazione del cervello. Non si tratta di "giudizi veri" o di "validità" dei programmi. Non c'è nulla nella sua argomentazione che dimostri che "ragionamenti matematici di livello umano" non possano emergere come risultato del programma del robot per la simulazione del cervello, così come essi emergono in un cervello umano reale. Personalmente penso che tale idea sia una fantasia fantascientifica, ma ciò che voglio sottolineare è che egli non ha dimostrato che è impossibile in linea di principio . .L'affermazione chiave di Penrose sostiene che qualsiasi robot, capace di simulare ragionamenti matematici di livello umano, dovrebbe avere un programma riducibile ad una procedura per l'elaborazione di teoremi; ma tale affermazione è valida soltanto per i programmi che simulano il ragionamento matematico. I programmi che ho precedentemente descritto, i Programmi Uno, Due e Tre, non simulano alcun ragionamento matematico, né del tipo top-down, né bottom-up. Essi simulano dei correlati cerebrali non normativi del ragionamento matematico. Proprio come il cervello umano che usa al-

goritmi matematici, ma non consi'ste di tali algoritmi: allo stesso modo. la simulazione del cervello umano utilizza algoritmi matematici, ma non è composta da quegli algoritmi. · Vorrei insistere su questo punto perché è il modo più semplice per sostenere la mia obiezione a Penrose. Nel suo libro egli presenta un dialogo di fantasia con un robot per la dimostrazione di teoremi (pp. 229-242). Il robot è stato programmato. con algoritmi per dililostrare teoremi e si vanta della sua

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abilità matematica ("Noi non commettiamo quella specie di stupidi errori che gli umani commettono saltuariamente nelle · loro incrollabili affermazioni matematiche", p. 232). Ma Penrose è in grado di dimostrare che gli uomini possono fare qualcosa che i robot non sanno compiere. Gli esseri umani possono constatare la verità delle proposizioni di Godei, mentre i robot non lo possono fare. Penso che il fatto che Penrose imrpagini un robot che superi le capacità umane dimostri che egli non ha compreso l'IA debole in quanto tentativo di simulare la reale cognizione umana. Vorrei ora immaginare un tipo di robot diverso da quello immaginato da Penrose; un robot che sia la simulazione, di esseri umani reali. Il mio robot afferma: "Io sono esposto al rischio di compiere esattamente lo stesso tipo di errori che compiono gli utnani, poiché il mio cervello è stato programmato per simulare i loro cervel~ li. Io non sono stato programmato con algoritmi per dimostrare teoremi e, tuttavia, posso fare ragionamenti matematici come gli umani, poiché le mie capacità matematiche risultano dai miei algoritmi simulatori del cervello, proprio come le capacità matematiche umane risultano dalle proprietà fisiche dei loro cervelli". · Cerchiamo ora di stabilire seriamente i principi che sono alla base della realizzazione di un simile robot. Se vogliamo costruire un robot che faccia ciò che fanno gli umani, dobbiamo innanzitutto stabilire cosa sono gli umani e come riescono a fare ciò che fanno. Per propositi matematici gli umani sono t"dentt"d ai loro cervelli e all'uso di essi, ma non sono identici agli algoritmi matematici. Quindi, nel nostro robot avremo dei programmi che simulano esattamente i processi cerebrali e questi programmi useranno degli algoritmi matematici. Per propositi matematici il robot sarà identico ai suoi programmi per simulare il cervello, e tali programmi useranno algoritmi matematici, ma non saranno identici a questi. Se programmato in modo adeguato, un simile robot sarebbe praticamente capace di fare ciò che fanno i matematici. Esso compirebbe gli stessi errori che possono compiere i matematici, e otterrebbe il tipo di risultati corretti che ottengono i

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matematici. Dopo un certo periodo di tempo il robot potrebbe effettivamente fornire una dimostrazione à la Penrose, che non è identica agli algoritmi matematici che esso usa. La dimostrazione sarebbe la seguente: Considerate una qualsiasi serie di algoritmi matematici A, che, unita alla mia conoscenza di A, sia valida. Da tale serie posso elaborare dei computi che posso constatare che non si arrestano. Tuttavia A di per se stessa è insufficiente per dimostrare che tali computi non si arrestano. Ne segue che A non è una formalizzazione delle mie procedure per comprendere che i calcoli non si arrestano. Ecc.

Notate che per compiere una qualsiasi di queste azioni il robot non ha bisogno di essere cosciente. La dimostrazione potrebbe semplicemente apparire come una stampa eseguita dal computer, risultante da operazioni non coscienti del cervello-computer.del robot. Così come il computer con cui scrivo produce stampe complesse, senza per questo richiedere una coscienza del computer. In effetti, è difficile vedere una connessione rilevante tra l'argomentazione di Penrose riguardo a Godel e il problema della coscienza. Egli non spiega da nessuna parte perché un essere incosciente non potrebbe produrre tutte le sue argomentazioni. Che cosa dire riguardo la possibilità di commettere errori? Del mio robot, come di qualsiasi matematico umano, si potrebbe dire che forse commetterà errori o forse no. Che poi commetta di fatto degli errori o meno, non è importante. Il punto è che le regole computazionali, che compongono il suo programma, non sono tali da fornire una garanzia matematica della verità matematica. Questo significa sostenere, nel senso di Penrose, che esse non sono valide. In tale senso, la questione dell'errore non è molto importante. Se esistesse re.almente un matematico che non commette mai errori, quel matematico avrebbe comunque un cervello e i suoi processi sarebbero dei processi neurofisiologici semplici e casuali, per cui la questione della validità non si pone a/fatto. Una simulazione com-

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putazionale di quel matematico simulerebbe quei processi. I processi potrebbero, in pratica, non fare mai errori, ma i programmi che simulano il cervello, che gli consentono di ottenere le risposte esatte, non sono garanzie matematiche di verità. Esattamente come il cervello del nostro matematico immaginario, essi accadono soltanto nella pratica. Il teorema di Godel si basa su un'ingegnosa operazione formale. Non c'è nulla di male in questo, molti risultati in matematica e in logica si fondano su operazioni ingegnose. Ma l'operazione formale non ha, per le simulazioni al computer, le conseguenze che Penrose e Lucas si aspettavano. Per comprendere questo, bisogfia considerare un'operazione parallela. Supponiamo che qualcuno dica: "I computer non potranno mai predire il comportamento umano. Supponiamo quindi che un computer predica che Jones esporrà per la prima volta la frase 'Odio il monte Everest con sopra il ketchup'. Ma allora il computer stesso avrà espresso la frase per la prima volta, e quindi la predizione sarà falsa';. Tale argomentazione è erronea perché qualcuno potrebbe produrre una predizione che descrive quella frase senza effettivamente esprimerla; ovvero, la predizione identifica la frase, ma sotto un'altra descrizione, ad esempio "La frase che inizia con la nona lettera del1' alfabeto... ecc.". L'argomentazione di Penrose, nonostante tutte le sue sofisticazioni matematiche, si fonda su un errore analogo. Dal fatto che non possiamo simulare un procedimento al livello di, e sotto la descrizione di una "dimostrazione di teorema" o di un "ragionamento matematico", non consegue che non possiamo simulare proprio quella stessa procedura, con le medesime predizioni, ad un altro livello o sotto un'altra descrizione. Cerco di riassumere questo argomento: Penrose fallisce nel tentativo di distinguere tra algoritmi normativi che dovrebbero fornire un "ragionamento matematico inconfutabile" e algoritmi che simulano processi naturali come i temporali o i meccanismi cellulari. Non vi è nulla nel suo argomento che dimostri che il secondo tipo di algoritmo è impossibile, quando sono implicati i processi cerebrali. Egli non pone nessuna 63

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vera obiezione al secondo tipo di algoritmo. Il fatto è che tali modelli di computer non spiegano nulla, perché gli algoritmi non hanno alcun ruolo causale nel comportamento del cervello. Essi si· limitano a fornire simulazioni o modelli o rappresentazioni di ciò che accade.

4 Nella seconda parte del suo libro, Penrose riassume lo stato presente della nostra conoscenza della meccanica quantistica e cerca di applicare le sue lezioni al problema della coscienza. La maggior parte di ciò è di difficile lettura, ma tra le parti relativamente non tecniche sulla meccanica quantistica, che ho esaminato, quella che segue mi sembra la più chiara. Se avete sempre voluto sapere qualcosa sulla sovrapposizione, sul collasso della funzione d'onda, sul paradosso del gatto di Schrodinger e sui fenomeni di Einstein-Podosky-Rosen, allora questa potrebbe essere la migliore occasione per scoprirli. Ma che cosa c'entra tutto questo con la coscienza? Lariflessione di Penrose sostiene che il mondo computabile della fisica classica è incapace di spiegare il carattere non computabile della mente, ovvero quelle caratteristiche mentali che egli pensa non possano nemmeno essere simulate da un computer. Penrose ritiene, tuttavia, che una versione non computabile della meccanica quantistica potrebbe essere in grado di fare questo. Quindi la struttura logica del suo libro è la seguente: nella prima metà egli sostiene che il teorema di Godei dimostra che esistono processi mentali non computabili, e ciò che egli pensa sia vero dei risultati di Godei, lo ritiene vero anche della coscienza in generale. La coscienza non è computabile perché la coscienza umana è in grado di raggiungere risultati che il computo non può raggiungere; ad esempio, la nostra coscienza è in grado di cogliere la verità delle proposizioni di Godei, e tali verità non sono computabili. Nella seconda metà del libro, Penrose sostiene inoltre che alcune nuove versioni della meccanica quantistica, alcune ver-

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sioni non computabili, potrebbero fornire la soluzione al problema della coscienza. Secondo Penrose, sebbene un computer quantistico potrebbe avere alcune caratteristiche casuali, considerato che la meccanica quantistica pres~nta aspetti di indeterminatezza, nemmeno un tale computer con i suoi aspetti casuali potrebbe descrivere gli aspetti essenzialmente non computazionali della coscienza umana. Un computer quantistico, anche se contiene elementi casuali potrebbe, almeno in linea di principio, essere simulato da un computer convenzionale a cui siano stati aggiunti degli elementi casuali. Per concludere, quindi, persino un computer quantistico "non sarebbe in grado di compiere le operazioni necessarie alla comprensione umana cosciente" (p. 434), poiché tale comprensione non è computabile. Penrose, tuttavia, spera che quando la fisica quantistica sarà alla· fine completata, quando avremo una soddisfacente teoria quantistica della gravità, allora tutto questo "ci condurrà a qualcosa di autentt'camente non computabile" (p. 434). E come si suppone che tutto questo funzioni nel cervello? Secondo Penrose, la risposta al problema della coscienza non può esser~ trovata al livello dei neuroni perché sono troppo grandi; essi sono oggetti già spiegabili dalla fisica classica e so~ no quindi computabili. Dobbiamo guardare alla struttura interna dei neuroni e qui troveremo una struttura chiamata "citoscheletro", che è l'intelaiatilra che tiene unita la cellula ecostituisce il sistema di controllo per le sue operazioni. Il citoc scheletro è formato da strutture simili a minuscoli tubi, chiamate "microtubuli" (figg. 4a e 4b) che, per Penrose, hanno un ruolo cruciale nel funzionamento delle sinapsi (pp. 443-445). Ecco l'ipotesi che presenta: Secondo la concezione che sto proponendo a titolo di prova, la coscienza sarebbe una qualche manifestazione di questo stato interno, quantisticamente correlato, del citoscheletro e del suo coinvolgimento nell'interazione [ ... ] tra il livello classico e quantistico dell'attività. (p. 458)

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Figura 4a. Un microtubulo. È un tubo cavo formato, di solito, da 13 colonne di dimeri di tubulina. Ciascuna molecola di tubulina è suscettibile di (almeno) due conformazioni.

In altre parole, la storia del citoscheletro è strettamente connessa ai fenomeni quantistici e, quando questo microlivello si connette al macrolivello dei neuroni, ecc., emerge la coscienza. I neuroni non si trovano al livello corretto per spiegare la coscienza. I neuroni potrebbero essere semplicemente un "dispositivo di ingrandimento" per l'azione reale, che si svolge a livello. dei citoscheletri. La d~scrizione al livello dei neuroni potrebbe essere "una semplice ombra" del livello più profondo, dove dobbiamo cercare le basi fisiche della mente (p. 458). Che çosa ce ne facciamo di tutto questo? lo non ne contesto il carattere speculativo, perché a questo punto qualsiasi descrizione della coscienza è destinata a contenere elementi speculativi. Il problema di queste riflessioni è che esse non considerano in modo adeguato come sia anche solo concepibile risolvere il problema della coscienza. Sono riflessioni del tipo: se avessimo una teoria migliore della meccanica quantistica e se quella teoria fosse non computabile allora, forse, potremmo considerare la coscienza in modo non computabile. Ma in che modo? Non è sufficiente affermare che il mistero della coscienza potrebbe essere risolto se avessimo

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Figura 4b. Visione dall'interno di un microtubulo! È visibile la disposizione a spirale 5 + 8 delle tubuline.

una teoria della meccanica quantistica ancora più misteriosa di quella attuale. Come potrebbe mai funzionare? Come dovrebbero essere i meccani~mi causali? Sono stati compiuti numerosi tentativi, oltre a quello di Penrose, per fornire una spiegazione della coscienza sulla base della meccanica quantistica. 9 L'obiezione tradizionale sostiene che questi tentativi vogliono, in realtà, sostituire due misteri con uno. Penrose è unico, poiché vuole aggiungerne un terzo. Egli vuole aggiungere un elemento misterioso ai misteri della coscienza e della meccanica quantistica: una meccanica quantistica non computabile, ancora sconosciuta. Penrose risponde a queste obiezioni sostenendo che non si può pretendere che egli risolva tutti i problemi. Sono d'accordo che una tale richiesta sarebbe eccessiva, ma non si pretende che egli risolva tutti i problemi, e tuttavia non è affatto chiaro come la sua proposta potrebbe risolvere il problema che veramente conta. Come è possibile anche solamente concepire che questa ipotetica 9. Ad esempio, Henry P. Stapp, Mind, Matter, and Quantum Mecha-

nics, Springer, Berlin 1993.

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meccanica quantistica possa causare i processi coscienti? Quali potrebbero essere i meccanismi causali? In ogni caso, la motivazione su cui si fonda il ragionamento è basata su un errore. Supponiamo; per il gusto di discutere, che Penrose àbbia ragione quando sostiene che non esiste 11essun livello di descrizione in cui la coscienza possa essere simulata. Da questo non segue ancora che la spiegazione della coscienza debba logicamente riferirsi ad entità che non possono essere simUlate. Dall'enunciato che la coscienza non può essere simulata al computer, non segue necessariamente che le entità che causano la coscienza non possano essere simulate al computer. Più in generale, non c'è alcun problema nel supporre che una serie di relazioni che non sono computabili ad un certo livello di descrizione, possano essere il risultato di processi .che sono invece computabili, ad un altro livello di descrizione. Ecco un esempio. In California, ogni auto registrata ha sia un numero che identifica il veicolo (X) sia un numero di targa (Y). Perle auto registrate c'è una precisa combinazione: ad ogni Y corrisponde una X e viceversa, e tale combinazione continuerà indefinitamente nel futuro, perché non appena vengono prodotte delle nuove auto, ad ognuna viene assegnato un numero di identificazione X e, quando vengono immesse sul mercato ottengono un numero di targa Y. Tuttavia, non è possibile identificare l'uno sulla base del1' altro. Per dirlo con il linguaggio matematico, se costruissimo ogni serie come potenzialmente infinita, la funzione da X a Y sarebbe una funzione non computabile. E allora? La non computabilità di per se stessa è di scarso rilievo, e non implica che i processi che danno luogo a relazioni non computabili debbano necessariamente essere non computabili. Per quanto ne so, le assegnazioni dei numeri di identificazione X nelle aziende automobilistiche possono essere eseguite dal computer e, se così non fosse, certamente potrebbe esserlo. L'assegnazione dei numeri di targa Y è idealmente realizzata in base a uno dei più antichi algoritmi conosciuti: prima si arriva, prima si è serviti. Il risultato di queste considerazioni è quello di rinforzare la

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conclusione che avevamo raggiunto nella discussione di Penrose riguardo all'argomento di Godei. La domanda "La coscienza è computabile?" ha senso soltanto relativamente ad alcune caratteristiche o funzioni specifiche della coscienza e ad alcuni livelli specifici di descrizione. E persino se si hanno funzioni specifiche che sono non computabili, come, ad esempio, la mia capacità di cogliere la verità delle proposizioni di Godel, non consegue che i processi soggiacenti che producono tale capacità non siano essi stessi simulabili computazionalmente ad un qualche livello di descrizione. Inoltre, nell'argomentazione di Penrose, la nozione di computabilità continua a rimanere confusa. Egli pensa che il carattere computabile dei neuroni trasformi, in qualche modo, ogni neurone in un piccolo computer, il "computer neuronale", come io chiama egli stesso. Ma si tratta di un altro errore. La traiettoria delle palle da baseball è computabile e può essere simulata al computer. Ma non per questo le palle da baseball diventano dei piccoli computer. Riassumo qui di seguito le obiezioni all'argomentazione di Penrose; che ho raccolto in questo libro:

1. Non credo che Penrose sia riuscito a dimostrare che il teorema di Godel implichi che l'IA debole è falsa. L'argomento resta erroneo, nonostante il tentativo di conciliarlo con l'obiezione à la Putnam. 2. Anche se avesse dimostrato che l'IA debole è falsa, non consegue che la spiegazione delle nostre capacità cognitive non computabili debba necessariamente essere riferita a elementi non computabili. Il comportamento dei neuroni potrebbe ancora fornirci la spiegazione della coscienza. 3. Dal fatto che un'entità come il neurone possa essere .simulata al computer, non consegue necessariamente che l'entità sia essa stessa un computer, un "computer neuronale". Penrose è estremamente intelligente e il suo libro contiene così tanti brani sorprendenti che bisogna proprio fare uno

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sforzo per ricordarsi delle sue qualità irrealistiche, da "Alice nel paese delle meraviglie". Come Penrose dovrebbe sapere, non ha alcun senso chiedersi in astratto "La cos~ienza è computabile?", sarebbe come chiedersi "Le scarpe sono computabili?". La domanda ha senso solamente se specifichiamo con esattezza le caratteristiche della coscienza di cui stiamo parlando e il livello di astrazione cui ci riferiamo. E una volta stabilito questo, le risposte dovranno essere evidenti. Se pongo la domanda "È possibile dimostrare le verità che possono essere conosdute coscientemente, ma che non possono essere dimostrate come teoremi, tramite un algoritmo per la dimostrazione di teoremi?", la risposta sarà banalmente no. Se la domanda fosse "Esiste un livello di descrizione in cui i processi coscienti, e i loro processi cerebrali correlati, possono essere simulati?", la risposta sarebbe banalmente sì. Qualsiasi cosa descrivibile da una serie precisa di passaggi può essere simulata. Ncm ho esaminato attentamente i profondi presupposti metafisici che sottendono l'intero argomento di Penrose. Egli si presenta armato di credenziali scientifiche e matematiche, ma è anche un metafisico classico, un platonico dichiarato. Egli crede che viviamo in tre mondi; il mondo fisico, il mondo mentale e il mondo matematico. E vuole mostrare come ognuno di questi mondi sia alla base di quello successivo, in un cerchio senza fine. Il mondo fisico fonda il mondo mentale che, a sua volta, fonda il mondo matematico, che poi è alla base del mondo fisico e così via, in maniera circolare. Penso sia corretto sostenere che Penrose non fornisce una descrizione coerente di che cosa siano tali relazioni tra i mondi e di come si suppone funzionino. 10 Non penso sia possibile fornire una descrizione coerente di tutto questo, e vorrei suggerire un'im10. In un lavoro successivo, Penrose continua a difendere la concezione della realtà dei tre mondi. Roger Penrose, Il grande, il piccolo e la mente umana, con Abner Shiniony, Nancy Cartwright e Stephen Hawking, a cura di Malcolm Longair, tr. it. Cortina, Milano 1998.

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magine metafisica alternativa che sia almeno consistente con quanto sappiamo riguardo al mondo reale. Noi viviamo in un solo, unico mondo. Per descrivere tale mondo, credo sia meglio abbandonare le tradizionali categorie cartesiane di "mentale" e "fisico", poiché il mondo contiene tutta una serie di cose - denaro, rate di interessi, ragioni per votare prÒ o contro il candidato democratico, leggi della logica, punti segnati in una partita di calcio - le quali, ovviamente, non sono né mentali né fisiche. In quest'unico mondo vi sono animali biologici come noi stessi che hanno stati mentali cscienti. Alcuni di questi animali, noi ad esempio, hanno un linguaggio che ci permette di fare cose come contare, sommare, sottrarre, moltiplicare e dividere. Poiché tali operazioni mate1J1atiche sono oggettive, abbiamo l'illusione che ci diano laccesso ad un altro mondo, un mondo fatto di numeri. Ma si tratta di un'illusione: I numeri non fanno parte di un altro mondo, non più di quanto ne facciano parte i significati delle parole. Essi fanno parte del nostro sistema di rappresentazione e della nostra capacità di rapportarci all'unico mondo esistente. Viviamo in un unico mondo, non in due o tre o ventisette. Allo stato attuale, il compito fondamentale di una filosofi.a e di una scienza della coscienza è quello di dimostrare come la coscienza sia una parte biologica di quel mondo, assieme alla digestiòne, alla fotosintesi e a tutto il resto. Pur ammirando Penrose e la sua opera, concludo che il maggior merito di Ombre della mente è costituito dalle sue spiegazioni del teorema di Godei e della meccanica quantistica. Ma sulla coscienza si apprende ben poco.

APPENDICE La dimostrazione di Godei e i computer

Quella che segue è la mia versione personale della versione che Penrose fornisce della versione di Turing della dimostra-

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zione dell'incompletezza fornita da Godel, e che Penrose utilizza per cercare di dimostrare l'affermazione di Lucas. Questa è nota come "dimostrazione dell'insolubilità del problema dell'arresto". Penrose non presenta una dimostrazione rigorosa, ma una sintesi, e questa è una sintesi della sua sintesi. Uno dei problemi della sua descrizione è dato dal fatto che egli non distingue tra procedimenti computazionali e risultati computazionali, ma assume, senza alcun argomento, che essi siano equivalenti. Egli esclude i quantificatori "esiste un x tale che" e "per ogni x, x è tale che", e introduce le nozioni epistemiche di "conosciuto" e "conoscibile", che non fanno parte delle dimostrazioni originali. Qui dì seguito, per maggiore chiarezza, ho cercato di eliminare alcune delle ambiguità del testo originale ed ho inserito i miei commenti personali tra parentesi. Punto 1. Alcuni procedimenti computazionali si fermano (o si arrestano). Analizziamo di nuovo l'esempio precedente: se ordiniamo al nostro computèr di iniziare con i numeri 1, 2, ecc. e di cercare un numero maggiore di 8, esso si arresterà a 9. Tuttavia alcuni procedimenti non si arrestano. Ad esempio, se ordiniamo al computer di cercare un numero dispari che sia la somma di due numeri pari, il computer non si arresterà mai perché tale numero non esiste. Punto 2. Proviamo ora a generalizzare questo punto. Per ogni numero n è possibile considerare i procedimenti computazionali Cb C2, C3 , ecc., su n, come divisi in due tipi, quelli che si arrestano e quelli che non si arrestano. Il procedimento è il seguente: cerca un numero maggiore di n, arrestati a n+ 1 poiché la ricerca è terminata. Il procedimento: la ricerca di un numero dispari che sia la somma di n numeri pari non si arresterà mai, perché nessuna procedura potrà mai trovare un tale numero. Punto 3. Come è possibile ora scoprire quali sono i proce· di.menti che non si arrestano? Supponiamo di avere un altro procedimento (o una serie finita di procedimenti) A che quando si arresta ci dica che il procedimento C (n} non si arresta. Consideriamo A come la somma totale di tutte le regole

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ROGER PENROSE, KURT GODEL E I CITOSCHELETRI

conosCibili e valide per decidere quando i procedimenti com-

putazionali si arrestano. Quindi" se il procedimento A si arresta allora C(n) non si arresta. (Penrose ci chiede di ipotizzare, come premessa, che tali procedimenti esistano e che noi li conosciamo. Questo è· il momento in cui la questiÒne diviene epistemologica. Dobbiamo considerare tali procedimenti come a noi conosciuti e come "validi". Si tratta di un uso non ordinario del concetto di validità da applicare a procedimenti computazionali. Penrose sostiene che un tale procedimento dà sempre risultati veri o validi [p. 100].) Punto 4. Pensate ora ad una serie di computi numerati C 1(n), C2 (n), C3 (n), ecc. Questi sono tutti i computi possibili che possono essere eseguiti su n. Questi potrebbero includere la moltiplicazione di un numero per n, il quadrato di n, la somma di n con se stesso, ecc E"dobbiamo considerarli come numerati in modo sistematico. Punto 5. Dato che abbiamo numerato tutti i possibili computi su n, possiamo considerare A come un procedimento computazionale che, dati due numeri q e n, cerca di determinare se Cq(n) si arresta. Supponiamo, per esempio, che q = 17 e n =8. Quindi il compito di A è quello di controllare se il diciassettesimo calcolo su 8 si arresta. Quindi, se A(q,n) si arresta, allora Cq(n) rion si arresta. (Notate che A opera su coppie ordinate dì numeri q e n, ma Cv Ci. ecc., sono computi su numeri singoli. Ci soffermeremo su questa differenza nel punto successivo.) Punto 6. Considerate ora i casi in cui q = n. In questi casi, perognin, seA(n,n) si arresta, Cn(n) non si arresta.

Punto 7. In tali casi A ha un solo numero n di cui occuparsi, il c0mputo alla n sul numero n, e non due numeri diversi. Ma, nel punto 4 avevamo detto che la serie C1(n), C2(n) ... includeva tutti i computi su n, quindi, per ogni n, A(n,n} deve ,

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IL MISTERO DELLA COSCIENZA

essere un membro della .serie Cn(n). Supponiamo ora che A(n,n) sia il computo alla k su n, cioè, supponiamo che: A(n,n)

=Ck(n)

Punto 8. Esaminiamo ora il caso di n =k. In questo caso, A(k,k)

=Ck(k)

Punto 9. Dal punto 6 segue che: se A(k,k) si arresta, Ck(k) non si arresta. Punto 10. Ma sostituendo l'identità affermata nel punto 8, otteniamo: se Ck(k) si arresta, Ck(k) non si arresta. Ma se una proposizione implica la sua stessa negazione, essa è falsa. Quindi: Ck(k) non si arresta.

Punto 11. Segue immediatamente che nemmeno A(k,k) si arresta, poiché si tratta dello stesso computo di Ck(k). Da ciò consegue che i nostri procedimenti ritenuti validi sono insufficienti per accertare che Ck(k) non si arresta, anche se effettivamente non si arresta e noi sappiamo che non si arresta. Ma allora A non può dirci ciò che sappiamo, owero che Ck(k) non si arresta.

Punto 12. Quindi sapendo che A è valido, possiamo dimostrare che esistono procedimenti computazionali che non si arrestano, come Ck(k), sebbene A non sia in grado di dimostrarlo. Noi sappiamo quindi qualcosa che A non è in grado di accertare, quindi A non· è sufficiente per esprimere la nostra comprensione. Punto 13. Tuttavia A includeva tutti gli algoritmi conosdbilmente validi che avevamo. (Penrose dice non solo "conosciuti come validi", ma "conoscibilmente validi". Fino a questo punto l'argomento non giustifica tale· mossa, ma penso che egli intendesse sostenere

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ROGER PENROSE, KURT GÒDEL E I CITOSCHELETRI

che l'argomento funziona non solo per tutto ciò che conosciamo realmente, ma per tutto ciò che potremmo ipoteticamente conoscere. Quindi ho mantenuto l'argomento nel modo indicato da Penrose.) Quindi nessuna serie conoscibilmente valida di procedimenti computazionali simili ad A potrà mai essere sufficiente per accertare che i computi non si arrestano, perché ve ne sono alcuni, come Ck(k), che essi non possono catturare. Quindi, per stabilire ciò che conosciamo, noi non usiamo un algoritmo conoscibilmente valido. Punto 14. Quindi non siamo dei computer.

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5 LA NEGAZIONE DELLA COSCIENZA: LA DESCRIZIONE DI DANIEL DENNETT

Il .filosofo Daniel Dennett ha scritto numerosi libri di filosofia dèlla mente, ma sembra evidente che egli considera Coscienza. Che cosa è1 il momento culminante del proprio lavoro. Lavoro che si sviluppa nell'ambito del comportamentismo -'l'idea per cui il comportamento e la disposizione al comportamento sono in qualche modo costitutive degli stati mentali - e del verificazionismo -l'idea per cui le uniche cose esistenti sono quelle la cui presenza è verificabile con strumenti scientifici. Sebbene, a prima vista, Dennett sembri sostenere. un approccio scientifico alla coscienza paragonabile a quello di Crick, Penrose e Edelman, vi sono, come vedremo, alcune differenze fondamentali. Prima di esaminare il volume Coscienza vorrei chiedere ai lettori di fare un piccolo esperimento, per ricordare a se stessi di che cosa trattano esattamente le teorie della coscienza. Con la mano destra pizzicatevi la pelle del braccio sinistro. Cosa succede esattamente quando fate cosi? Succedono molte cose diverse. Primo, ci dicono i neurobiologi, la pressione del pollice é dell'indice provoca una sequenza di scariche neuronali che, partendo dai recettori sensoriali della pelle, salgono su per la spina dorsale attraverso una regione chiamata il tratto di Lissauer, ·e vanno poi fino al talamo e in altre regioni basali del cervello. Il segnale passa poi alla corteccia somato-sensoriale e forse anche ad altre regioni corticali. Poche centinaia di 1. D.C. Dennett, Coscienza. Che cosa è, tr. it. Rizzali, Milano 1992.

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millesimi di secondi dopo esservi pizzicati la pelle, accade una seconda altra cosa, e questo lo capite da soli, senza l'aiuto dei neurobiologi. Avete provato dolore. Niente di serio, soltanto una sensazione di pizzicorio leggermente spiacevole sulla pelle del braccio. Questa sensazione spiacevole possiede una particolare qualità soggettiva, che ognuno di voi percepisce in modo diverso dagli altri. Tale percezione ha delle conseguenze di carattere epistemico - riconoscete il vostro dolore come nessun altro può fare - ma la soggettività è ontologica piuttosto che epistemica. Ciò significa che la modalità di esistenza della sensazione è in prima persona o soggettiva, mentre la modalità di esistenza dei percorsi neuronali è in terza persona o oggettiva; tali percorsi esistono indipendentemente dal fatto di averne esperienza, a differenza di quanto accade con il dolore. La sensazione del dolore è uno dei "qualia" a cui ho accennato precedentemente. Oltre a ciò, quando vi pizzicate la pelle, accade una terza cosa. Avete acquisito una disposizione comportamentale che prima non avevate. Se qualcuno vi avesse chiesto "Senti qualcosa?", voi avreste risposto all'incirca così "Sì, ho sentito un leggero pizzicotto proprio qui". Indubbiamente sono successe anche altre cose - avete alterato il rapporto gravitazionale tra la vostra mano destra e la Luna, ad esempio-ma concentriamoci su queste prime tre. Se vi chiedessero qual è la cosa fondamentale riguardo alla sensazione di dolore, penso rispondereste che il dolore corrisponde alla seconda caratteristica, la percezione. I segnali che arrivano causano il dolore, e il dolore a sua volta provoca una disposizione comportamentale. Ma la cosa essenziale riguardo al dolore è che si tratta di una specifica sensazione interiore, qualitativa. Il problema della coscienza, sia in filosofia che nelle scienze naturali, è quello di riuscire a spiegare tali sensazioni soggettive. Non tutte sono sensazioni fisiche come il dolore. Il flusso del pensiero cosciente non è una sensazione corporea paragonabile alla sensazione di essere pizzicati, e non lo sono nemmeno le esperienze visive; eppure entrambe possiedono la qualità della soggettività ontologica di cui ho parlato.

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LA NEGAZIONE DELLA COSCIENZA: LA DESCRIZIONE DI DANIEL DENNE'IT

Le sensazioni soggettive sono i dati che una teoria della coscienza deve essere in grado di spiegare e il resoconto dei percorsi neuronali che ho abbozzato è una teoria parziale per spiegare tali elementi. Le disposizioni comportamentali non fanno parte dell'esperienza cosciente, ma ne sono causate. A questo punto si può affermare che la peculiarità del libro di Daniel Dennett sta nella sua negazione dell'esistenza dei dati. Dennett pensa che il secondo tipo di entità, la sensazione o percezione del dolore, non esista; e che non esistano i qualia, le esperienze soggettive, i fenomeni in prima persona o altri elementi di questo tipo. Dennett sostiene che ci sembra che esistano cose tipo i qualia, ma si tratta di un err~re di giudizio che faèciamo rispetto a ciò che succede in realtà. Dunque, che cosa accade in realtà secondo lui? Ciò che veramente accade, secondo Dennett, è che riceviamo degli stimoli, come la pressione sulla pelle del mio esperimento, ed abbiamo delle disposizioni comportamentali, le "disposizioni reattive", secondo la sua definizione. E tra questi vi sono degli "stati discriminativi" che ci portano a rispondere in modo diverso alle diverse pressioni sulla pelle e a distinguere il rosso dal verde, ecc., ma il tipo di stato che abbiamo per discriminare la pressione è esattamente come lo stato di una macchina per determinare la pressione. Essa non prova alcuna particolare sensazione; in realtà non possiede alcuna sensazione interiore, perché le "sensazioni interiori" non esistono. Si tratta sempre di fenomeni in terza persona: gli stimoli, gli stati discriminativi, e le disposizioni reattive. La caratteristica che accomuna tutti questi elementi è che il nostro cervello è come un computer e la coscienza è una specie di software, una "macchina virtuale" nel cervello. Il punto fondamentale del libro di Dennett sta nel negare l'esistenza di stati mentali interni e nell'offrire una spiegazione alternativa della coscienza, o meglio di ciò che egli chiama "coscienza". L'effetto finale è simile a una rappresentazione dell'Amleto senza il Principe di Danimarca. Dennett, tuttavia, non comincia dalla prima pagina a dirci che secondo lui gli stati di coscienza, come li ho descritti, non esistono, e che non 79

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esiste nulla se non un cervello che implementa un programma di computer. Egli dedica invece le prime duecentottanta pagine alla discussione di questioni che sembrano presupporre l'esistenza di stati di coscienza soggettivi e per presentare una metodologia di indagine della coscienza. Ad esempio, discute le varie illusioni percettive, come il cosiddetto fenomeno phi. Si tratta di un'illusione per cui quando due punti di fronte a voi sono illuminati in rapida successione sembra che sia uno solo che si muove avanti e indietro. Il motivo per cui normalmente comprendiamo tali esempi dipende dal fatto che abbiamo un'esperienza soggettiva interiore per cui ci sembra di vedere un singolo punto che si muove avanti e indietro. Ma questo non è quello che Dennett ha in mente. Egli vuole negare l'esistenza di qualsiasi quale interiore, anche se questo emerge solo successivamente nel libro. In poche parole, non scrive con il candore di un uomo che è totalmente convinto della propria tesi ed è impaziente di diffonderla più rapidamente possibile. Al contrario, troviamo una certa evasività nei primi capitoli, dal momento che sta contraffacendo ciò che pensa realmente. È soltanto dopo la pagina 282 che si giunge alla sua descrizione della "coscienza", e solo ben oltre la pagina 400 che si capisce che cosa sta veramente succedendo. La questione principale della prima parte del libro riguarda la difesd di quello che egli chiama il modello della coscienza delle "Molteplici Versioni" (Multiple Dra/ts), come contrapposto al modello del "Teatro Cartesiano". L'idea, dice Dennett, è che siamo tacitamente inclini a pensare che debba esserci un unico posto nel cervello dove tutto converge, una specie di Teatro Cartesiano dove siamo testimoni dei giochi della nostra coscienza. E, in opposizione a questo, egli avanza l'idea che nel cervello si susseguano tutta una serie di informazioni, proprio come molteplici versioni di un solo articolo. Superficialinente, questa sembra essere una questione interessante per la neurobiologia: dove sono localizzate nel cervello le nostre esperienze soggettive? Esiste un unico luogo o sono molti? E comunque, un unico luogo sembra non plausibile ne~robiologicamente, visto che qualsiasi organo del cervello 80

LA NEGAZIONE DELLA COSCIENZA: LA DESCRIZIONE DI DANIEL DENNETT

che risulti essenziale per la coscienza, come ad esempio il talamo, secondo l'ipotesi di.Crick, ha un gemello nell'altra parte del cervello. Ogni lobo possiede il proprio talamo. Ma questo non è ciò che interessa a Dennett. Egli attacca il Teatro Cartesiano non perché pensa che gli stati soggettivi avvengano in tutto il cervello, ma piuttosto perché pensa che non esistano affatto gli stati soggettivi e vuole addolcire l'opposizione alle sue teorie antintuitive (per dirla gentilmente) sbarazzandosi illnanzitutto dell'idea che esista un luogo unico delle nostre esperienze coscienti. Se Dennett nega l'esistenza degli stati di coscienza, così come noi li pensiamo generalmente, quale spiegazione alternativa ci propone? Non sorprendentemente, si tratta di una versiòne dell'IA forte. Per spiegarlo meglio, dovrò prima descrivere brevemente le quattro nozioni che egli usa: le macchine di vori Neumann, il connessionismo, le macchine virtuali e i memi. Un computer digitale, del tipo che comprereste oggi in un negozio qualsiasi, procede tramite una serie di passaggi eseguiti molto rapidamente, milioni al secondo. Questa sorta di macchina è chiamata computer seriale, e poiché fu inizialmente progettata daJohn von Neumann, uno scienziato e matematico americano, di origine ungherese, è chiamata talvolta macchina di von Neumann. Recentemente si è cercato di costruire macchine capaci di operare in maniera parallela, cioè con numerosi canali computazionali che lavorano simllltaneamente e che interagiscono tra di loro. Per la struttura fisica, queste macchine sono abbastanza simili ai cervelli umani. Non sono proprio come il cervello, ma lo sono più di quanto lo fossero le tradizionali macchine di von Neumann. Le computazioni di questo tipo sono denominate in diversi modi: Processo di Distribuzione Parallela, Modello di Rete Neuronale, o semplicemente Connessionismo. A rigore, tutti i computi che possono essere eseguiti con una struttura connessionista - o "architettura", come viene comunemente chiamata possono essere eseguiti anche con un'architettura seriale, ma le reti connessioniste possiedono altre proprietà interessanti: ad esempio, sono più veloci e possono "apprendere" - cioè,

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possono modificare il proprio comportamento - attraverso l'alterazione delle forze di connessione. Ecco come funziona una tipica rete connessionista (fi.g. 5). Abbiamo dei nodi al livello di ingresso che ricevono i segnali in ingresso (o input). Questi possono essere rappresentati da valori numerici come 1, -1, 1/2, ecc. Tali valori sono trasmessi ai nodi in linea del livello successivo, attraverso tutte le connessioni. Ogni connessione possiede una certa forza, e anche tali forze di connessione possono essere rappresentate da valori numerici, come 1, -1, 1/2, ecc. Il segnale in ingresso viene moltiplicato dalla forza di connessione per raggiungere il valore che viene ricevuto dal nodo successivo da quella connessione. Così, ad esempio, un input di 1, moltiplicato per la forza di connessione 1/2, darà un valore di 1/2 da quella connessione al nodo successivo. I nodi che ricevono questi segnali sommano tutti i valori numerici che hanno ricevuto e li trasmettono ai nodi dello strato successivo. Per cui abbiamo un

livelli di rappresentazione interna

livello di ingresso

Figura 5. Semplice rete multistrato: Ogni unità, o livello, presenta connessioni con tutti i livelli dello strato superiore. Non ci sono connessioni laterali, né all'indietro. I "livelli di rappresentazione interna" sono spesso chiamati "livelli nascosti".

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· LA NEGAZIONE DELLA COSCIENZA: LA DESCRIZIONE DI DANIEL DENNETT

livello in ingresso, un livello in uscita (o output), e una serie di uno o più livelli interni chiamati "livelli nascosti". Tale processo seriale continua fino a che non viene raggiunto il livello in uscita. Nelle scienze cognitive, i numeri sono usati per rappresentare le caratteristiche di un processo cognitivo che si sta simulando, ad esempio, i tratti del volto nel riconoscimento delle facce, o i suoni delle parole nella pronuncia dell'inglese. Il senso in cui la rete "apprende" è quello per cui si può avere il corretto abbinamento tra i valori in entrata e i valori in uscita giocando con la forza di connessione fino ad ottenere l'abbinamento desiderato. Questo è generalmente eseguito da un altro computer, chiamato "maestro". Si dice a volte che tali sistemi siano "ispirati neuronalmente". L'idea è che dobbiamo pensare alle connessioni come a. degli assoni e a dei dendriti, e ai nodi come a dei corpi cellulari che fanno la somma dei valori in ingresso e poi decidono quanto di un segnale spedire ai prossimi "neuroni," ad esempio, le successive connessioni e i nodi allineati. Un'altra nozione che Dennett usa è quella di "macchina virtuale". La macchina vera e propria che sto usando in questo momento è fatta di veri cavi, transistor, ecc.; inoltre, possiamo avere macchine come la mia che simulano la struttura di un altro tipo di macchina. L'altra macchina non fa effettivamente parte dei circuiti di questa macchina, ma esiste unicamente negli schemi di regolarità che possono essere imposti ai circuiti della mia macchina. Questa è denominata "macchina virtuale". L'ultima nozione che Dennett usa è quella di "meme". Si tratta di una nozione poco chiara. Fu inventata da Richard Dawkins come analogo culturale della nozione biologica di gene. Come l'evoluzione biologica avviene attraverso i geni, così l'evoluzione culturale avviene attraverso la diffusione di memi. Secondo la definizione di Dawkins, citata da Dennett, unmemeè un'unità di trasmissione culturale, o unità di imitazione [. .. ]. Esempi di memi sono le melodie, le idee, i modi di dire, i ve~

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stiti, le mode, le tecniche per fabbricare vasi o per costruire archi. Come i geni si propagano nel fondo comune dei geni passando da un corpo all'altro con gli spermatozoi o gli ovuli, così i memi si propagano nel fondo comune dei memi_passando da un cervello all'altro con un processo che, in senso lato, si può chiamare imitazione. (p. 227)

Credo che l'analogia tra "geni" e "memi" sia sbagliata. L'evoluzione biologica deriva da forze naturali, brute e cieche. La propagazione di idee e teorie per "imitazione" è un tipico processo cosciente e diretto al raggiungimento di un obiettivo. Raggruppare i due diversi processi significa non tener conto della spiegazione di Darwin dell'origine della specie. Il risultato più importante di Darwin è la dimostrazione che l'apparizione di obiettivi, pianificazioni, teleologia e intenzionalità nell'origine ·e nello sviluppo delle specie umane e animali è stata una totale illusione. Tale apparizione poteva essere spiegata da processi evolutivi che non tenessero conto di tali propositi. Ma la propagazione di idee attraverso l'imitazione richiede l'intero apparato della coscienza umana e dell'intenzionalità. Le idee devono essere capite e interpretate. E devono essere capite e giudicate come desiderabili o indesiderabili, per poter essere considerate oggetto di imitazione orifiuto. Proprio l'imitazione richiede uno sforzo cosciente da parte dell'imitatore. L'intero processo generalmente coinvolge il linguaggio con tutte le sue variabilità e sottigliezze. In breve, la trasmissione delle idee attraverso l'imitazione è tutt'altra cosa dalla trasmissione dei geni attraverso la riproduzione, per cui l'analogia tra geni e memi è fuorviante sin dall'inizio. Sulla base di queste quattro nozioni, Dennett propone la seguente spiegazione della coscienza: La coscienza umana è essa stessa un enorme complesso di memi (o più esattamente, di effetti provocati dai memi nd cervello) che si può comprendere egregiamente pensando al funzionamento di una macchina virtuale "neumanniana" imple-

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mentata sull'architettura parallela di un cervello che non era progettato per attività del genere. (pp. 236-237)

In altre parole, l'essere coscienti è solo una questione di implementaZ,ione di un certo tipo di programma o di programmi, in una macchina parallela che si sviluppa in natura. È essenziale notare come una volta negata l'esistenza degli stati coscienti, Dennett non senta alcun bisogno di aggiungere ulteriori argomentazioni riguardo l'IA forte. Tutte le mosse del gioco di prestigio sono già state compiute. L'IA forte gli sembra l'unico modo ragionevole per descrivere una macchina che manca di qualsiasi contenuto mentale interiore, qualitativo e soggettivo, ma che si comporta in maniera complessa. L'anti-mentalismo estremo della sua teoria è sfuggito a molti critici di Dennett, i quali hanno evidenziato come egli, conformemente alle sue teorie, non possa distinguere tra esseri umani e zombi privi di coscienza, che si comportano esattamente come se fossero esseri umani. La risposta di Dennett è che non potrebbero esistere tali zombi, che qualsiasi macchina che si comporti come noi, di qualsiasi materia sia fatta, dovrebbe avere una coscienza proprio come l'abbiamo noi. Sembra che egli voglia sostenere che degli zombi sufficientemente complessi non sarebberò zombi, ma avrebbero stati mentali interiori esattamente come i nostri; tuttavia questo non è ciò che giunge a sostenere chiaramente. Per Dennett noi siamo veramente degli zombi e non esiste alcuna differenza tra noi e le macchine prive di stati di coscienza che ho descritto. Non assume che uno zombi sufficientemente complesso potrebbe improvvisamente giungere ad una vita cosciente, così come Galatea fu portata alla vita da Pigmalione. Dennett sostiene piuttosto che non esiste una vita cosciente per noi, per gli animali, per gli zombi, o per qualsiasi altra entità: esiste solo un modo complesso di essere zombi. In una delle sue varie discussioni sugli zombi, considera se possa esserci una differenza tra il dolore e la sofferenza dell'uomo e il dolore e la sofferenza di uno zombi. Tale ·considerazione si trova in un capitolo sulla sofferenza, dove l'idea è che la sofferenza non

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sia il nome di una sensazione, ma significhi piuttosto avere i propri piani frustrati e le proprie speranze vanificate, e in questo senso la "sofferenza" degli zombi non sarebbe diversa dalla nostra sofferenza cosciente: Perché le speranze infrante di uno "zombi" dovrebbero essere meno importanti delle speranze infrante di una persona cosciente? Qui c'è un trucco ben fatto che dovrebbe essere svelato e rifiutato. La coscienza, dici, è ciò che conta, ma poi ti aggrappi a dottrine sulla coscienza che ci impediscono sistematicamente di ottenere qualsiasi ragguaglio sul perché essa conta. Postulare speciali qualità interne che non sono solo private e intrinsecamente preziose, ma anche non confermabili e non indagabili è solo oscurantismo. (p. 502)

Questi svolazzi retorici sono tipici di questo libro, ma per riportare la discussione a livello terreno poniamoci questa domanda: quando avete compiuto I'esperimento di pizzicarvi, stavate "postulando speciali qualità interne" che sono "non confermabili e non indagabili"? Eravate "oscurantisti"? E, ancora più importante, non c'è alcuna differenza tra voi che provate dolore e uno zombi privo di coscienza che si comporta come voi, ma non prova dolore e non possiede altri stati di coscienza? In realtà, sebbene la domanda iniziale del passaggio di Dennett sia volutamente retorica, così come lo sono le mie domande,. ad essa è possibile rispondere correttamente, con una certa facilità ii:i un modo che Dennett non ha considerato. Il motivo per cui "le speranze infrante" di uno zombi sono meno importanti delle speranze infrante di una persona cosciente è che gli zombi, per definizione, non hanno alcun tipo di sensibilità. Di conseguenza nulla che riguardi la loro sensibilità interiore ha realmente importanza, perché non ne possiedono alcuna. Hanno soltanto un comportamento esteriore che appare come il comportamento di persone che hanno sensibilità e per le quali le cose hanno effettivamente importanza.

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LA NEGAZIONE DELLA COSCIENZA: LA DESCRIZIONE DI DANIEL DENNETT

Poiché Dennett difende una versione dell'IA forte, non sorprende che utilizzi 1' argomento della stanza cinese, riassunto precedentemente, che presenta l'ipotesi di un uomo, chiuso in una stanza, che non conosce il cinese e che, ciononostante, è in grado di eseguire i passaggi di un programma per simulare una persona che parla cinese. Questa volta l'obiezione è che l'uomo .nella stanza in realtà non potrebbe eseguire i passaggi del programma in modo convincente. La risposta a questo sta nel fatto che naturalmente non potremmo fare ciò.nella vita reale. La ragione per cui elaboriamo degli esperimenti mentali è che per molte idee che vorremmo dimostrare non è possibile effettuare esperimenti reali. Nella famosa discussione di Einstein del paradosso dell'orologio, egli ci chiede di immaginare di andare sulla stella più vicina con una navicella spaziale che viaggia ad una velocità pari al 90 per cento della velocità della luce. È completamente fuorviante - anche se è assolutamente vero - dire che non potremmo in realtà costruire una tale navicella spaziale. Allo stesso modo, è fuorviante dire, a proposito dell' esperimento mentale della stanza cinese, che non potremmo in pratica progettare. un programma abbastanza complesso da ingannare i parlanti di madrelingua cinese, ma abbastanza semplice perché un parlante di madrelingua inglese lo possa eseguire in tempo reale. Infatti, non possiamo neppure progettare programmi per computer commerciali in grado di ingannare un parlante esperto di qualsiasi lingua naturale; ma non è questo il punto. Il punto essenziale dell'argomento della stanza cinese, come spero di aver chiarito, sta nel ricordarci che la sintassi del programma non è sufficiente per il contenuto semantico (o contenuto mentale o significato) della mente del parlante cinese. Perché Dennett non affronta dunque realmente l'argomento, così come l'ho posto? Perché non prende in considerazione questo punto? Perché non ci dice quale delle tre premesse dell'argomento della stanza cinese rifiuta? Non sono molto complicate e si possono riassumere nel modo seguente: (1) i programmi sono sintattici, (2) la mente ha contenuti semantici, (3) la sintassi di per sé non è né la stes"

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sa cosa, né è sufficiente per il contenuto semantico. Mi sembra che la risposta sia chiara. Dennett non affronta il vero argomento formale perché per fare ciò dovrebbe ammettere di criticare effettivamente la seconda premessa, laffermazione per cui la mente ha contenuti mentali. 2 Partendo da tali presupposti, è costretto a negare che la mente abbia veramente dei contenuti mentali intrinseci. La maggior parte delle persone che difende l'IA forte pensa che il computer possa avere contenuti mentali proprio come noi, e considera erroneamente Dennett un alleato. Egli infatti non pensa che i computer abbiano contenuti mentali, poiché non pensa esistano cose del genere. Secondo Dennett, per quanto riguarda la mente, noi e il computer siamo entrambi nella stessa situazione, non perché il computer possa acquisire i tipi di contenuti mentali intrinseci che qualsiasi essere umano possiede, ma perché i contenuti mentali intrinseci non sono mai esistiti sin dal principio. A questo punto è possibile chiarire alcune delle differenze tra l'approccio di Dennett al problema della coscienza e quello sostenuto da me; un approccio che, se ho capito correttamente, è sostenuto anche da alcuni degli autori in discussione, tra cui Crick, Penrose, Edelman e Rosenfield. Sono convinto che il cervello sia la causa delle esperienze coscienti. Queste sono stati interiori, qualitativi e soggettivi. In linea di principio sarebbe possibile costruire un artefatto, un cervello artificiale, che possa anche causare tali stati interiori. Per quanto ne sappiamo, potremmo costruire un simile sistema usando una chimica completamente diversa da quella del nostro cervello. È solo che nbn conosciamo ancora abbastanza bene come funzioni il cervello per sapere come costruire un sistema artificiale che abbia poteri causali equivalenti a quelli del cervello, 2. Nella replica seguita alla pubblicazione dell'articolo su cui si basa questo capitolo, Dennett.faceva notare di aver confutato in altri scritti tutte e tre le premesse. Tale replica, insieme alla mia controreplica, è pubblicata come appendice a questo capitolo. Sono convinto che le questioni siano adeguatamente chiarite dalla mia controreplica a Dennett.

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usando alcuni meccanismi diversi. Eppure è chiaro che un qualsiasi altro sistema capace di causare la coscienza per funzionare dovrebbe possedere poteri causali equivalenti a quelli del cervello. Questo punto segue banalmente dal fatto che il cervello funziona in maniera causale. Ma non c'è e non può esserci alcun dubbio sul fatto che una macchina possa essere cosciente e possa pensare, perché il cervello è una macchina. Inoltre, come ho sostenuto precedentemente, in teoria non esistono ostacoli alla costruzione di una macchina artificiale che possa essere cosciente e possa pensare. Quindi, da un punto divista puramente formale, dato che siamo in grado di descrivere qualsiasi sistema in termini computazionali, o in altro modo, potremmo descrivere anche la nostra macchina cosciente artificiale come un "computer", e questo potrebbe far pensare che la posizione che sto sostenendo sia compatibile con quella di Dennett. In realtà i due approcci sono radicalmente divergenti. Dennett non crede che il cervello causi gli stati coscienti interiori e qualitativi, perché non pensa che tali stati esistano. Secondo me gli aspetti computazionali di una macchina cosciente artificiale sarebbero qualcosa in aggiunta alla coscienza. Secondo Dennett non c'è coscienza in aggiunta·alle caratteristiche computazionali, perché queste corrispondono alla coscienza stessa: sono gli effetti dei memi di una macchina virtuale di von Neumann implem~ntata in un'architettura parallela. Tra i vari libri discussi in questo testo, quello di Dennett è l'unico che non fornisce alcun contributo al problema della coscienza, ma piuttosto nega fin dal principio che esista tale problema. Dennett, come disse Kierkegaard in un altro contesto, mantiene la forma, svuotandola del suo significato. Mantiene il vocabolario della coscienza, negandone allo stesso tempo l'esistenza. Tuttavia qualcuno potrebbe obiettare: non è possibile che la scienza scopra che Dennett aveva ragione, che effettivamente non esistono fenomeni quali gli stati mentali interiori, qualitativi, che questa sia un'illusione, come lo sono i tramonti del sole? Dopo tutto, se la scienza è in grado di scoprire che

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i tramonti sono un'illusiohe sistematica, perché non potrebbe scoprire che anche gli stati di coscienza come il dolore sono delle illusioni? Vi è una differenza essenziale: nel caso dei tramonti la scienza non nega l'esistenza del dato, cioè che il sole sembra muoversi nel çielo. Fornisce piuttosto una spiegazione alternativa di questo e di altri dati. La scienza preserva I'apparenza pur facendoci comprendere più profondamente la realtà che sta oltre tale apparenza. Dennett, invece, nega I' esistenza dei dati fin dal principio. Ma non potremmo confutare I'esistenza di tali dati dimostrando che sono soltanto delle illusioni? No, non è possibile confutare I'esistenza delle esperienze coscienti dimostrando che esse sono solamente un'apparenza che nasconde la realtà sottostante, perché dove è coinvolta la coscienza, l'esistenza dell'apparenza corrisponde alla realtà. Se ho l'impressione di avere delle esperienze coscienti, significa che ho effettivamente delle esperienze coscienti. Questo non è un punto di carattere epistemico. Potrei compiere diversi tipi di errore riguardo le mie esperienze, ad e~empio, se soffrissi per il dolore di un arto fantasma. Tuttavia, per quanto descritta in maniera attendibile o meno, l'esperienza di provare dolore è identica al dolore, nel senso in cui l'esperienza di vedere un tramonto non è uguale al tramonto stesso. Non considero il fatto che Dennett neghi l'esistenza della coscienza una nuova scoperta e nemmeno una possibilità seria, ma penso piuttosto che essa sia una forma di patologia intellettuale. L'interesse per la sua descrizione sta nel capire quali assunti possano portare una persona intelligente a sostenere tesi indifendibili. Nel caso di Dennett, non è difficile trovare delle risposte. Lui stesso ci dice che "il nocciolo dell'idea è questo: poiché non puoi mai 'vedere direttamente' nella mente della gente, ma ti devi fidare delle loro parole, tutti i possibili fatti sugli eventi mentali non possono rientrare nei dati della scienza" (p. 85). E più avanti: Anche se· gli eventi mentali non sono tra i dati della scienza, non significa che non siano studiabili scientificamente [ .. .]. La

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sfida consiste nell'elaborare una teoria degli eventi mentali usando i dati che il metodo scientifico permette [. .. ]. L' elaborazione di una simile teoria deve basarsi, come tutta la scienza, su un punto di vista in terza persona. (p. 85)

Secondo la concezione di Dennett, l'oggettività scientifica richiede il "punto di vista in terza persona". Alla fine del suo libro associa questo pensiero al verificazionismo - l'idea secondo la quale solamente le cose che possono essere verificate scientificamente esistono veramente. Queste due. teorie lo portano a negare la possibilità che esistano fenomeni che abbiano un'ontologia in prima persona. Vale a dire, la sua negazione dell'esistenza della coscienza deriva da due premesse: la verifica scientifica richiede sempre il punto di vista in terza persona, e non esiste qualcosa che non possa essere accertato da una verifica scientifica così costruita. Questo è l'errore più profondo del libro ed è anche l'origine della maggior parte degli altri, perciò vorrei concludere questa discussione esponendo tale punto. Dobbiamo distinguere il senso epistemico della differenza tra punto di vista in prima e terza persona (ad esempio, tra il soggettivo e l'oggettivo) dal senso ontologico. Alcune proposizioni possono essere riconosciute vere o false indipendentemente da qualsiasi pregiudizio o atteggiament.o da parte del' losservatore. Esse sono oggettive nel senso epistemico. Ad esempio, se dico "Van Gogh morì a Auvers-sur-Oise, Francia", tale affermazione è epistemicamente oggettiva. La sua verità non ha nulla d che fare con le preferenze o i pregiudizi personali di qualcuno. Ma se dico, ad esempio, "Van Gogh era un pittore migliore di Renoir", t.ale affermazione è epistemicamente soggettiva. La sua verità o falsità dipende almeno in parte dall'atteggiamento e dalle preferenze dell'osservatore. Oltre a questo senso della distinzione oggettivo-soggettivo, c'è un senso ontologico. Alcune entità, le montagne, ad esempio, hanno un'esistenza che è oggettiva nel senso che non dipende da alcun soggetto. Altre, come il dolore, sono soggettive perchéla loro esistenza dipende dal fatto di essere

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provate dal soggetto. Esse hanno un'ontologia in prima persona o soggettiva. Eccoci ora al punto. La scienza in effetti tende all'oggettività epistemica. Il suo obiettivo è fornire una serie di verità che siano svincolate dalle nostre particolari preferenze e dai nostri pregiudizi. Ma l'oggettività epistemica del metodo non richiede l'oggettività ontologica del soggetto. È effettivamente un fatto oggettivo - in senso epistemico - che io ed altre persone proviamo dolore. Ma la modalità di esistenza di tale dolore è soggettiva - in senso ontologico. Dennett propone una definizione di scienza che esclude la possibilità che essa possa indagare la soggettività, e pensa sia l'oggettività in terza persona della scienza a costringerlo a tale definizione. Ma questo è un brutto gioco di parole riguardo al termine "oggettività". L'obiettivo della scienza è quello di fornire una descrizione sistematica di come funziona il mondo. Una parte del mondo è costituita da fenomeni ontologicamente soggettivi. Se abbiamo una definizione di scienza che non ci permette di indagare tale parte del mondo, è la definizione che deve essere cambiata, non il mondo. Non vorrei dare l'impressione che Dennett nelle 570 pagine del suo libro continui a ripetere lo stesso errore. Al contrario, egli esprime molte considerazioni interessanti ed è particolarmente abile nell'esporre gli studi in corso nelle scienze cognitive e in neurobiologia. Ad esempio, fornisce una descrizione interessante delle relazioni complesse tra l'ordine temporale degli eventi nel mondo, che il cervello rappresenta, e l'ordine temporale della rappresentazione che avviene nel cervello stesso. La prosa di Dennett, come hanno evidenziato alcune recensioni, è frizzante e talvolta divertente, tuttavia nei punti cruciali diviene imprecisa ed evasiva, come ho cercato di spiegare. La parte peggiore è quando cere~ di tormentare il lettore con un linguaggio offensivo e con domande retoriche, come .nel passaggio sugli zombi che ho esposto sopra. Una sua tipica mossa è descrivere il punto di vista opposto come fon-

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dato su entità "ineffabili". Ma non c'è nulla di ineffabile nel dolore che provate quando vi pizzicate.

APPENDICE

Uno scambio con Daniel Dennett Dopo la pubblicazione dell'articolo su cui si basa questo capitolo, Daniel Dennett e io abbiamo avuto il seguente confronto, apparso sulla New York Review o/Books. DANIEL D.ENNETT scrive:

John Searle ed io siamo in profondo disaccordo riguardo allo studio della mente. Per Searle è tutto molto semplice: ci sono dei principi fondamentali, delle intuizioni collaudate nel tempo, che noi tutti abbiamo riguardo alla coscienza, e qualsiasi teoria che li metta iri discussione è semplicemente insensata. Secondo me, al contrario, il problema persistente della coscienza rimarrà un mistero; fino a che non avremo quell'intuizione assolutamente ovvia che dimostrerà che, a dispetto dell'apparenza iniziale, si tratta di un falso problema. Uno di noi si sbaglia di grosso e la posta in gioco è alta. Searle considera la mia posizione "una forma di patologia intellettuale"; nessuno si stupirà di apprendere che il sentimento è reciproco. Searle ha la tradizione dalla sua. A prima vista la mia posizione è notevolmente anti-intuitiva, come dice lo stesso Searle. Ma anche la sua posizione presénta qualche problema, che emerge solo dopo un'analisi piuttosto attenta. A questo pun-· to, come si procede? Ognuno di noi cerca di elaborare delle argomentazioni per dimosti:are la propria ipotesi ed evidenziare l'errore dell'altro. Da parte mia, sapendo che dovevo rimuovere l'enorme peso delle teorie tradizfonali, ho cercato una via indiretta: ho deliberatamente rimandato ·le questioni filosofiche fondamentali, fino a quando non sono stato in grado di elaborare una tea93

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ria sofisticata sulla quale fondare una prospettiva alternativa solo a quel punto ho tentato di dimostrare ai lettori come dopo tutto fosse possibile convivere con tali implicazioni anti-intuitive. A Searle questa mia strategia non piace; mi accusa di mancanza di obiettività e trova "una certa evasività" nei primi capitoli, visto che "nasconde ciò che pensa veramente". Sciocchezze. Ho deviato il mio percorso sin dall'inizio per concentrare l'attenzione proprio su questo punto (la breve parabola dell'uomo folle che sostiene che non esistono gli animali, p. 55), awertendo il lettore delle conseguenze del mio argomento. Nessun asso nella manica, ma, attenzione - sto inseguendo alcune delle vostre intuizioni profonde più preziose. Searle, da parte sua, presenta un argomento, la stanza cinese, che esibisce, fondamentalmente inalterato, da quindici anni. Argomento che ha dato prova di essere estremamente popolare tra i non esperti, sebbene quasi tutti coloro che hanno qualche familiarità con questi temi l'abbiano liquidato da tempo. I: argomento è pieno di ragionamenti fuorvianti. Per ammissione dello stesso Searle, esistono più di un centinaio di pubblicazioni che lo attaccano. È in grado di contarle, ma evidentemente non è in grado di leggerle, visto che in tutti questi anni, per quanto mi consta, non ha mai replicato dettagliatamente alle dozzine di critiche feroci che contengono; si è semplicemente limitato a presentare ripetutamente l'esperimento mentale di base. Sono appena andato a controllare e le ho contate: sono sbigottito dal fatto che non meno di sette di tali critiche pubblicate sono state scritte da me (nel 1980, 1982, 1984, 1985, 1987, 1990, 1991, 1993). Searle mi attaccò con accanimento nelle pagine della New York Review of Books nel 1982, quando Douglas Hofstadter ed io esponemmo per la prima volta gli ingegnosi trucchi che fanno "funzionare" la stanza cinese. Quella fu l'ultima volta che Searle replicò a qualcuna delle mie critiche esplicite, fino ad ora. Attualmente esibisce ancora una volta la stanza cinese ed ha l'audacia di chiedere: "Ora, perché Dennett non affronta l'argomento reale, così come l'ho posto? Perché non ci dice quale delle tre premesse dell'esperimento della stanza cinese egli rifiuta?". 94

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~bbene, perché l'ho già fatto, nei minimi dettagli, nei vari ar-

ticoli a cui lui non si è mai degnato di replicare. Ad esempio, in "Fast Thinking" (molto tempo fa in !}atteggiamento intenzionale, 1987) citai esplicitamente l'intero argomento con le tre premesse, e dimostrai esattamente perché tutte e tre lepremesse sono false, nel momento in cui vengono applicate affinché l'argomento sia valido! Come mai non ho ripreso l'articolo del 1987 nel mio libro del 1991? Perché, a differenza di Searle, sono passato ad occuparmi di altre cose. Comunque ho citato chiaramente il mio articolo del 1987 in una nota (p. 547) e la sola replica di Searle è stata semplicemente dichiarare, senza alcuna argomentazione, che i punti da me esposti erano irrilevanti. Il modello continua; ora non solo ignora la contestazione, ma prosegue travisando ahche le ulteriori critiche alla stanza cinese che ho esposto nel libro che recensisce, e forse dimentica di considerare quello che ho effettivamente pubblicato durante i quattro anni che gli ci sono voluti per scrivere la sua recensione. Ma ora basta con la stanza cinese. Che cosa posso offrire da parte mia? Posso portare il caso dell'intuizione fatalmente falsa, che è proprio l'intuizione che Searle invita il lettore a condividere, la convinzione che noi sappiamo di che cosa stiamo parlando quando parliamo di quella sensazione - cioè la sensazione di dolore che è l'effetto di uno stimolo e la causa della disposizione a reagire - il quale, il contenuto "intrinseco" dello stato soggettivo. Come è possibile negare questo!? State a vedere - ma fate molta attenzione. Ho sviluppato i miei argomenti distruttivi contro tale intuizione, dimostrando come sia in fondo possibile una scienza oggettiva della coscienza, e come l'alternativa "in prima persona" proposta da Searle porti continuamente all'auto-contraddizione e al paradosso. Questo è !"'errore più grave" del mio libro, secondo Searle, ed egli prosegue "esponendolo". Il problema è che il metodo scientifico oggettivo che descrivo (con l'allarmante nome di eterofenomenologia) non è stato inventato da me; si tratta, piuttosto, proprio del metodo tacitamente sostenuto ed utilizzato da tutti gli scienziati che studiano la coscienza,

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compresi Crick, Edelman e Rosenfìeld. Questi non hanno nulla a che spartire con il contenuto "intrinseco" e la "soggettività ontologica" di Searle: vanno ben oltre. Searle ne parla divertito nel suo saggio. Colma di elogi la teoria neuroscientifica della coscienza di Gerald Edelman, ma sottilinea alla fine un piccolo problema - che non si tratta della coscienza! "Così il mistero continua." La teoria di Edelman non c'entra con la teoria della coscienza di Searle, questo è certo. Nessuna teoria scientifica potrebbe. Ma la teoria di Edelman è una teoria della coscienza, e presenta anche alcuni aspetti validi. (I punti che Searle prende in considerazione non sono in realtà i più originali della teoria di Edelman - sono più o meno gli stessi che chi si occupa di questa materia dà per scontati, anche se Edelman fa bene ad enfatizzarli. Se Searle avesse letto ciò che ho scritto a questo proposito, l' avrebbe capito.) Edelman supporta la sua teoria con delle simulazioni al computer, come Darwin III, che Searle descrive prudentemente come "IA debole". Ma con me Edelman insisteva nel sostenere che il suo robot dimostra un'intenzionalità tanto reale quanto qualsiasi altra cosa sul pianeta - è solo un'intenzionalità artificiale, ma non per questo peggiore. Edelman era partito con il piede sbagliato, accettando per un po' l'esperimento della stanza cinese di Searle, ma ora penso veda le. cose più chiaramente. La cara IA vecchio stile (Good Old-Fashioned AI o GOFAI -l'agente-tipo-enciclopedia-ambulante). è _morta, ma l'iA forte no; le neuroscienze computazionali ne sono la prova. Crick se ne sta occupando, Edelman se ne sta occupando, i Churchland se ne stanno occupando, io me ne sto occupando e così centinaia di altri studiosi. Ma non Searle. Lui non ha un progetto di ricerca. Ha una serie di verità nude e crude da difendere. Tale posizione lo conduce a un paradosso dopo l'altro, ma fino a quando pensa di continuare ad ignorare le critiche che gli vengono rivolte? Per un'analisi dettagliata dell'imbarazzo della posizione di Searle, si veda la mia recensione a La riscoperta della mente, in Journal o/ Philosophy, vol. 60, n. 4, aprile 1993, pp. 193-205. Qui riporto tutti i casi in cui Searle ignora o distorce le critiche 96

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e lo invito a dissipare il forte dubbio che questo sia un atteggiamento deliberato da ,parte sua. Il saggio che ha scritto in queste pagine è la sola replica a quell'invito, il che conferma ancora una volta il suo metodo, come i lettori familiari con questo tipo di letteratura avranno potuto constatare. Searle non può pensare, con queste pagine, cli porre rimedio a quindici anni di indifferenza, per cui non ci si può aspettare che tutto si aggiusti ora, ma se lui fosse così cortese da dirci dove e quando intende rispondere alle critiche con l'attenzione e l'accuratezza che esse meritano, allora sapremo quando potremo ricominciare a prestare attenzione alle sue affermazioni. JOHN SEARLE replica:

Nonostante il tono aspro, sono grato a Daniel Dennett per la risposta alla mia recensione poiché mi consente di evidenziare in maniera cristallina le differenze che esistono tra noi. Sono convinto che tutti noi abbiamo veramente degli stati coscienti. Per ricordare meglio questo fatto, ho chiesto al lettore di compiere il piccolo esperimento di pizzicare l'avambraccio sinistro con la mano destra per provocare un leggero dolore. Tale dolore possiede un certo tipo di sensazione qualitativa, e tali sensazioni qualitative sono tipiche dei vari generi di eventi coscienti che formano il contenuto della nostra vita in stato di veglia e di sonno. Per rendere più esplicita la differenza tra eventi coscienti e, ad esempio, le montagne e le molecole, ho affermato che la coscienza possiede un'ontologia soggettiva, o in prima persona. Dicendo questo intendo dire che gli stati di coscienza esistono solo se un soggetto ne ha esperienza ed esistono solamente dal punto di vista· in prima persona di tale soggetto. Eventi di questo genere sono i dati che una teoria della coscienza dovrebbe essere in grado di spiegare. Nclla mia descrizione della coscienza, parto da dei dati; Dennett nega proprio l'esistenza dei dati. Per essere più chiaro: Dennett nel suo libro, Coscienza. Che cosa è, nega l'esistenza della coscienza. Continua ad usare questo termine, ma attribuendogli tutt'al-

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tro significato. Secondo lui, la coscienza si riferisce solo a fenomeni in terza persona e non alle esperienze e sensazioni coscienti in prima persona che tutti noi abbiamo. Per Dennett non c'è differenza tra gli esseri umani è gli zombi complessi, che mancano di qualsiasi sensazione interiore, perché in realtà siamo tutti degli zombi complessi. Immagino che molti lettori siano in un primo momento portati a pensare che si tratti di un fraintendimento da parte mia. Sicuramente nessuna persona sana di mente potrebbe negare l'esistenza delle sensazioni. Eppure nella sua replica Dennett conferma chiaramente che non mi ero sbagliato. Dice: "Come è possibile negarlo? State a vedere ... ". Penso che la sua posizione sia auto-contraddittoria, perché nega proprio l'esistenza di quei dati che una teoria della coscienza dovrebbe essere in grado di spiegare. Come può quindi pensare, per così dire, di cavarsela così? Giunti a questo punto dell'argomentazione, la sua lettera stravolge la natura della questione. Scrive che il nostro disaccordo è dovuto a "intuizioni" rivali, tra le mie "intuizioni collaudate nel tempo", che difendono "l'opinione tradizionale", e le sue intuizioni più attuali. Scrive che "siamo in profondo disaccordo riguardo allo studio della mente". Ma il disaccordo non riguarda le intuizioni, non riguarda lo studio della mente e non riguarda la metodologia. Riguarda innanzitutto l'esistenza dell'oggetto di studio. Secondo lui un'intuizione è semplicemente qualcosa che uno è portato a credere, e tali intuizioni spesso si dimostrano false. Per fare un esempio, abbiamo delle intuizioni sullo spazio e il tempo che sono state confutate dalla fisica con la teoria della relatività. Nella mia recensione ho portato l' esempio di un'intuizione sulla coscienza che è stata confutata dalla neurobiologia: l'intuizione di senso comune per cui il nostro dolore al braccio sarebbe effettivamente localizzato nello spazio fisico del braccio. 3 Ma l'esistenza stessa dei miei stati coscienti non è allo stesso modo significativa per le mie intuizioni. Le intuizioni confutabili che ho citato richiedono una di3. Si veda il capitolo 7 di questo libro.

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stinzione tra come le cose appaion9 ad un soggetto e come esse sono in realtà, una distinzione tra apparenza e realtà. Tuttavia quando consideriamo l'esistenza di stati coscienti, non possiamo distinguere tra apparenza e realtà, perché l'esistenza dell'apparenza è la realtà stessa. Se coscientemente mi sembra di essere cosciente, allora sono cosciente. Non si tratta di "intuizioni", di qualcosa che sento di poter dire. Né si tr.atta di una questione di metodologia. Avere delle sensazioni e altri tipi di stati coscienti è piuttosto un semplice fatto che riguarda me - e qualsiasi altro essere umano. A questo punto, che cosa posso fare, in qualità di recensore, posto di fronte a ciò che sembra essere un errore ovvio e auto-contraddittorio? Dovrei forse pizzicare l'autore per ricordargli che è cosciente? O dovrei pizzicare me stesso e darne una descrizione più dettagliata? Il metodo adottato nella mia recensione tentava di fornire una diagnosi delleipotesi filosofiche che conducono Dennett a negare l'esistenza degli stati coscienti, e da quanto risulta dalla sua lettera, egli stesso non sembra trovare obiezioni alla mia diagnosi. Egli ritiene che la conclusione per cui non esistono gli stati coscienti sia una conseguenza dei due assiomi, che egli sostiene in modo esplicito, dell'oggettività della scienza e del verificazionismo. Questo significa, primo, che la scienza usa metodi oggettivi, o in terza persona; secondo, che non esiste nulla che non sia verificabile da metodi scientifici definiti tali. Nella mia recensione ho argomentato estesamente che l'oggettività della scienza non porta alle conseguenze sostenute da Dennett. L'oggettività epistemica del metodo non preclude la soggettività ontologica del soggetto. Per dirla in un linguaggio meno ricercato: il fatto che molte persone soffrano di dolori alla schiena, ad esempio, è un fatto oggettivo della medicina. L'esistenza ditali dolori non è frutto di un'opinione o di un atteggiamento. Tuttavia la modalità di esistenza dei dolori stessi è soggettiva; esistono solo in quanto percepiti da dei soggetti umani. In breve, l'unico argomento formale che trovo nel suo libro per la negazione della coscienza si basa su di una convinzione er99·

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rata. E nella lettera non dice nulla in risposta alla mia argomentazione. Ma allora come spera di difendere la sua posizione? L'affermazione centrale della sua replica si trova in questa frase: Ho sviluppato i miei argomenti distruttivi contro tale intuizione, dimostrando come sia in fondo possibile una scienza oggettiva della coscienza, e come l'alternativa "in prima persona" proposta da Searle porti continuamente all'auto-con.traddizione e al paradosso.

Dennett sottolinea due punti: uno riguarda la "scienza oggettiva" e l'altro I'" auto-contraddizione e il paradosso"; li discuterò quindi in successione. Nella sua lettera Dennett riflette esattamente la medesima confusione riguardo al concetto di oggettività che aveva esposto nel suo libro. Ritiene che i metodi oggettivi della scienza non siano applicabili allo studio delle sensazioni e delle esperienze soggettive delle persone. Questo è un errore, come risulta da qualsiasi libro di testo di neurologia. Gli autori di tali testi usano i metodi oggettivi della scienza per cercare di spiegare, e di aiutare i loro studenti a curare i dolori soggettivi interiori, le ansietà, e le altre sofferenze dei loro pazienti. Non c'è alcuna ragione per cui una scienza oggettiva non possa studiare le esperienze soggettive. La "scienza oggettiva della coscienza" di Dennett cambia il soggetto. Non si tratta della coscienza, ma piuttosto della descrizione in terza persona di un comportamento esteriore. Egli ritiene che la mia affermazione circa l'essere coscienti "porti continuamente all'auto-contraddizione e al paradosso". La pretesa di poter dimostrare l'auto-contraddittorietà del mio argomento, o l'auto-contraddizione di chiunque altro, temo sia un semplice inganno. Se pensa veramente di poter dimostrare o ottenere una contraddizione formale, perché non lo fa? Mancando le argomentazioni, la sua accusa di autocontraddizione cade nel vuoto. · Che dire dei paradossi. della coscienza? Nel suo libro egli descrive molti casi sconcertanti e paradossali ripresi dalla psi100

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cologia e dalla neurobiologia. E queste penso siano la parti migliori del libro. In effetti uno degli aspetti che rendono la neurobiologia così affascinante è dato dall'esistenza di moltissimi esperimenti che danno risultati sorprendenti e a volte paradossali. La forma logica dell'argomento di Dennett è la seguente: i casi paradossali non sembrerebbero tali se rinunciassimo alla nostra "intuizione" che siamo realmente coscienti. Ma tale conclusione è arbitraria. Quei casi sono interessanti perché tutti noi sappiamo a, priori di essere coscienti. Non c'è nulla, in alcuno di tali esperimenti, per quanto paradossali possano sembrare, che possa dimostrare che non abbiamo stati coscienti qualitativi del tipo che ho descritto. Questo genere di argomentazioni non può negare l'esistenza dei dati, per le ragioni che ho cercato di esporre nella mia recensione, che ho ripetuto q'ui e a cui Dennett non ha tentato di replicare. Per riepilogare, ho affermato: 1. Dennett nega l'esistenza della coscienza. 2. Si sbaglia quando pensa, che il problema dell'esistenza della coscienza sia una questione di intuizioni rivali. 3. L' ar~omento filosofico che sta alla base del suo pensiero è errato. E sbagliato inferire dal fatto che la scienza è oggettiva la conclusione che non si possa riconoscere l'esistenza di stati soggettivi di coscienza. 4. Le effettive argomentazioni presentate nel suo libro, che dimostrano come gli stati di coscienza siano spesso paradossali, non dimostrano che tali stati non esistono. 5. La distinzione tra apparenza e realtà, alla quale si richiama l'argomento di Dennett, non riguarda l'esistenza stessa degli stati cosci~nti, perché in tali casi l'apparenza equivale alla realtà. Questi sono i punti principali che vorrei discutere. Il lettore frettoloso può fermarsi qui. Ma Dennett sostiene, giustamente, che non sempre rispondo alle accuse che mi rivolge. Per cui voglio riprendere tutti i punti sostanziali della sua lettera. 1. Afferma che Crick, Edelman e Rosenfield concordano con lui riguardo all'idea che gli stati di coscienza, come li ho 101

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descritti io, non esistono. "Non hanno nulla a che spartire" con loro, dice. Afferma anche che Crick e Edelman aderiscono all'IA forte. Dalla mia conoscenza di questi autori e del loro lavoro, devo dire che non ho trovato nulla nei loro scritti che suggerisca un loro desiderio di negare lesistenza della coscienza, nulla che faccia pensare che aderiscano all'IA forte, e. vi sono invece molti elementi che suggeriscono il loro disaccordo con Dennett circa tali punti. E le comunicazioni personali con Edelman e Crick dopo la pubblicazione della mia recensione confermano questa mia impressione. Dennett non cita alcuna prova testuale a supporto delle sue affermazioni. Dennett è effettivamente il solo autore, tra quelli che ho recensito, a negare l'esistenza delle esperienze coscienti che stiamo tentando di spiegare, ed è il solo a pensare che tutte le esperienze che riteniamo coscienti siano in realtà semplici operazioni di una macchina computazionale. Nella storia di questo tema, comunque, non è il solo a pensarla così, né il suo approccio è originale. La sua posizione è un misto di IA forte e di un'estensione del comportamentismo tradizionale di Gilbert Ryle, che fu professore di Dennett a Oxford qualche decina di anni fa. Dennett ammette che la GOFAI, la cara IA vecchio stile, sia morta. (Una volta ci credeva. Peccato che non ci dica perché è morta e chi l'ha fatta fuori.) Ma ritiene che le neuroscienze computazionali contemporanee siano una forma di IA forte, e anche qui penso sia in errore. Esistono in effetti degli esperti in neuroscienze computazionali che credono nell'IA forte, ma non è per nulla essenziale per la costruzione di modelli computazionali di fenomeni neurobiologici credere che ciò che serve per avere una mente sia avere il corretto programma per computer. 2. Una delle affermazioni contenute nella lettera di Dennett è così evidentemente falsa che mi lascia stupefatto. Secondo lui, ho ignorato e non ho risposto alle critiche rivolte all'argomento della stanza cinese e agli altri argomenti relativi. "Quindici anni di indifferenza" commenta. Tale affermazione è decisamente bizzarra da parte di qualcuno che replica a una recensione in cui ho appena risposto alle obiezioni che 102

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espone nel suo libro. È anche contraddetta da una documentazione di, senza esagerare, decine di testi in cui ho replicato a tali critiche. Ne riporto alcuni in nota. 4 Potrei citarne molti di più. Non ho replicato ad ogni singola obiezione perché non tutte mi sembravano degne di nota, tuttavia mi sembra chiaro dalla documentazione che l'affermazione di Dennett circa la mia negligenza sia semplicemente sconcertante. In questi ultimi anni il dibattito si è intensificato in modo interessante. Nel mio discorso in qualità di Presidente del1'Associazione Filosofica Americana del 1990, ho ripreso l' argomento generale della teorie computazionali della cognizione. Una versione estesa di tale discorso è apparsa nel mio libro La riscoperta della mente (Ì992), dove ho trattato ampiamente l'argomento, che ho ribadito poi nella recensione al libro di Dennett, con il risultato che l'argomento della stanza cinese faceva semmai fin troppe concessioni al computazionalismo. L'argomento originario dimostrava ,che la semantica 4. Nel 1980 ho replicato a ventotto critiche rivolte all'argomento della stanza cinese in Behavioral and Brain Sciences, che tra le altre comprendevano quella di Dennett. Risposte a un'altra mezza dozzina di critiche sono apparse in BBS nel 1982. Ancora altre repliche a Dennett e a Douglas Hofstadter sono state pubblicate nelle pagine della New York Review o/Books nel 1982. Ho ripreso la questione nelle Reith Lectures alla BBC nel 1984, pubblicate nel mio libro Mente, cervello, intelligenza. Ho anche affrontato molti famosi sostenitori dell'IA forte presso l'Accademia delle Scienze di New York nel 1984, e il dibattito è stato pubblicato negli atti dell'accademia. Un altro scambio su The New York Review o/ Books nel 1989 con Elhanan Motzkin è stato seguito da un dibattito con Paul e Patricia Churchland apparso nella rivista Scientific American nel 1990. Esiste anche un ulteriore dibattito conJerry Fodor pubblicato nel 1991 (vedi la mia replica a Fodor, "Yin and Yang Strike Out", in The Nature o/ the Mind, a cura di David M. Rosenthal, Oxford University Press, Oxford 1991). Questo è il materiale pubblicato fino agli inizi degli anni Novanta. Per il decimo anniversario della prima edizione e su invito del direttore di BBS, ho pubblicato un altro articolo estendendo la discussione alle scienze cognitive. Ne è seguito un dibattito apparso sulle pagine della rivista dove ho replicato a più di quaranta critiche. Più recentemente, nel 1994 e nel 1995, ho partecipato ad una serie di discussioni su La riscoperta della mente nella rivista Philosophy and Phenomenological Research. Oltre a ciò esiste un volume piuttosto poderoso, John Searle and bis Critics (a cura di Ernest Lepore e Robert van Gulick, Blackwell, London 1991), in cui replico a vari critici e commentatori su molte questioni inerenti.

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della cognizione umana non è intrinseca al programma formale sintattico di un computer. Il mio nuovo argomento dimostra che la sintassi del programma non è intrinseca alla fisica dell'hardware, ma richiede invece un interprete esterno che assegni un'interpretazione computazionale al sistema. (Se ho ragione su questo punto, risulterebbe devastante per l' affermazione di Dennett poter effettivamente scoprire che la coscienza, persino nel senso di Dennett, è una macchina di von Neumann, virtuale o altro. Nella sua lettera, non dice nulla in proposito.) 3. La lettera di Dennett possiede una particolare qualità retorica che consiste nel fare un· costante riferimento ad argomenti devastanti nei miei confronti, senza tuttavia esporli concretamente. I.: argomento decisivo è sempre dietro le quinte, in qualche recensione scritta da lui o da altri, o in qualche libro pubblicato anni addietro, e non si prende mai il disturbo di esporlo nuovamente. Se ripenso alle argomentazioni di cui parla, non le trovo particolarmente interessanti. Ma dato che egli ritiene siano invece decisive, vorrei citarne almeno una: il suo attacco all'argomento della stanza cinese, apparso nel 1987. Dennett afferma, correttamente, che quando ho scritto la mia recensione ho considerato il suo libro come l'espressione definitiva della sua posizione riguardo alla stanza cinese e non ho consultato i suoi lavori precedenti. (In effetti, prima di leggere la lettera, non sapevo .che avesse pubblicato addirittura sette critiche al mio breve argomento.) Ora sostiene di aver confutato, nel 1987, tutte e tre le premesse dell'argomento. Tuttavia, ho appena riletto il capitolo in questione e non ho trovato nulla a questo proposito e nessuno sforzo serio per attaccare le premesse. Egli sostiene invece, erroneamente, che la mia posizione riguarda la coscienza e non la semantica. Secondo lui, la mia unica preoccupazione sta nel dimostrare che l'uomo nella stanza cinese non capisce coscientemente il cinese; io sto invece dimostrando che non capisce il cinese per niente, perché la sintassi del programma non è sufficiente per comprendere la semantica di una lingua, sia a livello conscio

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che inconscio. Dennett inoltre presuppone un certo comportamentismo. Ritiene che un sistema che si comporta come se avesse degli stati mentali, debba realmente avere stati mentali. Ma questo tipo di comportamentismo è precisamente ciò che viene messo in discussione dall'argomento. Devo quindi confessare che non mi sembra che la debolezza degli argomenti del suo recente libro sia rafforzata dall'argomentazione del 1987. 4. Dennett è risentito per il fatto che io attribuisco al suo stile retorico "una certa evasività", perché non sostiene in modo chiaro e non ambigu_o la sua negazione dell'esistenza degli stati di coscienza, all'inizio del libro, e non giustifica argomentativamente tale negazione. Deve aver dimenticato ciò che aveva ammesso nella risposta allo psicologo Bruce Mangan, che gli muoveva una critica simile. Ecco che cosa diceva: [Martgan] mi accusa di avere deliberatamente mascherato le conclusioni filosofiche per buona parte del libro, di aver creato uno "stato d'animo di presupposizione", di· utilizzare "stratagemmi retorici" anziché definire le mie posizioni come "antirealiste" fin dal principio e addurre argomenti a loro favore. Esattamente! Questa era la mia strategia [. .. ].Se avessi iniziato con una dichiarazione esplicita delle conclusioni finali, avrei semplicemente provocato un coro di sdegno, mascherato malamente, e tale clamore avrebbe rimandato indefinitamente qualsiasi esame obiettivo e distaccato della posizione che voglio difendere.

Ciò di cui si vanta nella replica a Mangan è esattamente quella "evasività" di cui parlavo. Quando Mangan lo attacca, lui risponde "Esattamente!". Quando io lo attacco per lo stesso motivo, lui risponde "Sciocchezze". Tuttavia, quando un filosofo sostiene una posizione di cui è certo, ma che magari non è popolare, il mio consiglio è che la affermi nel modo più chiaro possibile e la difenda nel modo più tenace. Un "clamo" re" non è un prezzo eccessivo da pagare per la sincerità. 5. Dennett sostiene che non ho un progetto di ricerca.

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Questo non è vero. Il punto fondamentale della mia recensione era sollecitare la necessità di un resoconto neurobiologico di ·come esattamente i processi di microlivello del cervello causino gli stati di coscienza qualitativi, e di come esattamente tali stati siano le caratteristiche dei sistemi neurologici. L' approccio di Dennett rende impossibile affrontare e risolvere tali problemi, che, come ho già detto, ritengo siano le questioni più importanti nell'ambito delle scienze biologiche. 6. Dennett afferma che io sostengo un solo argomento, l'argomento della stanza cinese. Anche questo non è vero. Vi sono in effetti due tipi di argomenti indipendenti, uno riguarda l'IA forte, l'altro l'esistenza della coscienza. La stanza cir.ie~ se fa parte del primo tipo, mal' argomento più profondo cqiiitro il computazionalismo è che le caratteristiche computa#onali di un sistema non sono intrinseche solo alla fisica, ma necessitano di un utente o interprete. Alcune persone hanno mosso delle critiche molto interessanti al secondo argomento, ma non Dennett nel suo libro o in questo scambio. Egli Semplicemente lo ignora. Riguardo alla coscienza, devo dire che se qualcuno nega ostinatamente l'esistenza della coscienza stessa, le argomentazioni tradizionali, con premesse e conclusioni, non lo convinceranno mai. Tutto quello che posso fare è ricordare ai lettori i fatti della loro esperienza personale. E qui sta il paradosso di questo scambio: io sono un recensore cosciente che risponde coscientemente alle obiezioni di un autore che sembra essere coscientemente e sorprendentemente arrabbiato. E mi rivolgo ad un lettore che suppongo sia cosciente. Come posso allora prendere seriamente in considerazione la sua affermazione che la coscienza in realtà non esiste? POST SCRIPTUM

Dopo la pubblicazione diquesto scambio, Dennett ha proseguito la discussione in altri scritti. Sfortunatamente persiste nel citare le mie affermazioni in modo non accurato. Alcuni anni fa, insieme a Douglas Hofstadter, pubblicò un volume in

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