Filosofia contemporanea [Vol. 3] [PDF]

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20-02-2009

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Pagina I

Costantino Esposito Pasquale Porro

filosofia contemporanea in collaborazione con Giusi Strummiello

Editori Laterza

000_Esposito-Porro-Vol3_romane_Layout 1 08/07/11 14.53 Pagina II

© 2009, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari Prima edizione 2009 Seconda ristampa 2011

L’Editore Gius. Laterza & Figli si impegna a mantenere invariato il contenuto dell’opera per un quinquennio, come disposto dall’art. 5, Legge 169/2008.

Questo manuale è il risultato del lavoro comune dei due Autori. Al di là della responsabilità condivisa, il primo volume è stato curato principalmente da Pasquale Porro, il secondo e il terzo da Costantino Esposito. In questo volume i capp. 4, 5, 12, 13, 14, 20, 21, 22, 24, 25 e 28 sono stati redatti da Giusi Strummiello e i capp. 15 e 16 da Paolo Ponzio. Hanno inoltre collaborato al lavoro redazionale: Giovanna D’Aniello per i capp. 2 e 26; Giambattista Formica per i capp. 29, 30, 31, 35 e il Percorso tematico 4; Francesco Marrone per i Percorsi tematici 1 e 3; Arcangelo Licinio per i capp. 18, 25, 28; Stefania Scardicchio per i capp. 32 e 33; Donatella Colantuono per i capp. 3, 6, 7, 8, 11; Annalisa Cappiello per i capp. 1, 9, 17 e il Percorso tematico 3; Mauro Cappelluti per il cap. 34 e il Percorso tematico 4; Marco Lamanna per il Percorso tematico 5; Vincenzo Lomuscio per i Percorsi tematici 2 e 6. Gli esercizi e le sintesi sono stati realizzati da Roberto Massari, Federica Pellicoro e Benedetto Pizzolla. L’editing è stato curato da Arcangelo Licinio. Copertina e progetto grafico a cura di Luigi Fabii / Pagina soc. coop., Bari. Servizi editoriali a cura di dMB Editoria e grafica s.r.l., Firenze. Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council. Finito di stampare nel luglio 2011 da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa

L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, nel caso non si fosse riusciti a reperirli per chiedere debita autorizzazione. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected], sito web: www.aidro.org.

ISBN 978-88-421-0914-3 Editori Laterza Piazza Umberto I, 54 70121 Bari e-mail: [email protected] http://www.laterza.it

Questo prodotto è stato realizzato nel rispetto delle regole stabilite dal Sistema di gestione qualità conforme ai requisiti ISO 9001:2008 valutato da DAS e coperto dal certificato numero IT03-043

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Pagina III

parte I

Indice del volume

6.1 La fuoriuscita dall’alienazione, p. 23 6.2 La funzione storica della borghesia e il ruolo del proletariato, p. 23

LA FILOSOFIA DELL’OTTOCENTO 7

La scienza economica del capitale

25

7.1 La merce e il denaro, p. 25 7.2 La produzione del plusvalore, p. 27 7.3 La caduta tendenziale del saggio di profitto, p. 29

1 1 2 3 4

Destra e sinistra hegeliana “Destra” e “sinistra” hegeliana: il caso Strauss Feuerbach Stirner Engels e il materialismo storico-dialettico

3

3 5 7 8

Sintesi Bibliografia Esercizi

11 12 13

2

Karl Marx

14

1

L’analisi economica e l’attesa della liberazione Un filosofo rivoluzionario Con Hegel contro Hegel: la dialettica in questione Il problema dell’alienazione

2 3 4

Il materialismo storico Il comunismo

La rivoluzione sociale e l’io individuale

30

Sintesi Bibliografia Esercizi

30 32 33

3

Realismo e psicologismo

34

1 2 3

Il ritorno al kantismo Fries e lo psicologismo Herbart e il realismo

34 35 36

3.1 Dall’esperienza alla metafisica, p. 36 3.2 Dalla metafisica alla psicologia, p. 38 3.3 La filosofia pratica, p. 39

4

La psicologia scientifica e Wundt

40

Sintesi Bibliografia Esercizi

41 42 42

4

Arthur Schopenhauer

43

1 2 3 4

Il ripensamento dell’eredità kantiana La vita e le opere La struttura della coscienza empirica Il mondo come rappresentazione

43 44 45 48

14 15 17 19

4.1 L’alienazione religiosa, p. 19 4.2 L’alienazione economica del lavoro, p. 20

5 6

8

21 23

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IV

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Pagina IV

Indice del volume 5 6

Il mondo come volontà L’affrancamento dalla volontà

51 53

6.1 L’arte, p. 54 6.2 La morale, p. 55 La mortificazione, p. 56

7 8 9

6.3

3

Le scienze, la morale, la religione I Parerga e paralipomena Una concezione aristocratica della filosofia

57 59

Sintesi Bibliografia Esercizi

61 62 63

Søren Kierkegaard

64

1 2 3

«La soggettività è verità» Una vita singolare La radicalità del cristianesimo

64 65 67

4

3.2 Regine, p. 68

Kierkegaard “autore di autori”

6

10

7

Auguste Comte

97

1

La scienza come sistema dell’ordine e del progresso sociale Per amore della scienza La filosofia positiva

97 98 99

2 3

3.1 Tra conservatori e progressisti, p. 99 3.2 La positività della filosofia e la “legge dei tre 3.3 La classificazione delle stadi”, p. 100 scienze, p. 102

4 5 6

5.2 Il con-

Gli stadi dell’esistenza. Lo stadio estetico

La nascita della sociologia

105

La società “positiva” La scienza come metafisica dell’umanità

107 108

Sintesi Bibliografia Esercizi

110 111 111

74

8

L’epistemologia nell’Ottocento

112

77 78

1 2 3

Darwin e l’evoluzionismo Le geometrie non euclidee Logica e psicologia

112 115 117

6.2

Lo stadio etico: Wilhelm, giudice e marito Oltre lo stadio etico: la sfera religiosa 8.1 Dalla ripetizione alla ripresa, p. 78 8.2 La scelta di Abramo, p. 79 8.3 Il peccato e la dogmatica, p. 80

9

95 96 96

72

6.1 Il Don Giovanni di Mozart, p. 75 Johannes il seduttore, p. 76

7 8

Sintesi Bibliografia Esercizi

4.1 Il metodo dell’osservazione sociale, p. 105 4.2 Statica e dinamica della società, p. 106

69

Il singolo e il sistema 5.1 Il “come” della verità, p. 72 fronto con Hegel, p. 73

93

3.3

4.1 L’uso degli pseudonimi, p. 69 4.2 L’ironia, p. 70 4.3 Il coraggio di dire “io”, p. 71

5

Il positivismo in Germania e in Italia

60

5

3.1 Il padre, p. 67 Mynster, p. 68

2.1 La logica dell’esperienza, p. 88 2.2 La scienza della società, p. 90 2.3 Il problema della libertà, p. 92

L’angoscia, la disperazione e lo scandalo del cristianesimo Il paradosso cristiano e l’illusione della cristianità

3.1 Bolzano: l’antipsicologismo, p. 117 3.2 Brentano: la psicologia descrittiva, p. 118 3.3 Meinong: la “teoria degli oggetti”, p. 119

80

Sintesi Bibliografia Esercizi

120 121 121

9

Gnoseologia e politica

122

1

Ideologia e spiritualismo

82

Sintesi Bibliografia Esercizi

83 84 85

6

Il positivismo

86

1 2

Il progetto positivista John Stuart Mill

86 88

1.1 Destutt de Tracy e Cabanis, p. 122 Maine de Biran, p. 123

2

122 1.2

Tradizionalismo e liberalismo 2.1 Burke, de Maistre, de Bonald, p. 124 Constant e Tocqueville, p. 126

124 2.2

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Pagina V

Indice del volume

parte II

3 4

10

Antonio Rosmini: l’idea dell’essere Vincenzo Gioberti: l’ontologismo

128 130

Sintesi Bibliografia Esercizi

131 132 133

LA SVOLTA DEL NOVECENTO

137

Friedrich Nietzsche

4

La verità di Nietzsche Una vita alla ricerca della “salute” Il primo Nietzsche: filologia, filosofia, storia

137 138

Sintesi Bibliografia Esercizi

175 176 177

12

Dilthey e lo storicismo

178

1 2

Lo storicismo Dilthey e il progetto di una “critica della ragione storica” Il problema della fondazione delle scienze dello spirito Tra psicologia ed ermeneutica

178

4

La svolta genealogica

145

4.1 Dalla filosofia metafisica alla filosofia storica, p. 145 4.2 L’impossibile libertà, p. 146 4.3 Il cristianesimo come problema, p. 147

5

Morte dell’io – morte di Dio

L’avvento di Zarathustra

La trasvalutazione di tutti i valori

156

7.1 Dal nichilismo passivo al nichilismo attivo, p. 156 7.2 Gli schiavi contro i signori, p. 157 7.3 La favola del mondo vero, p. 159

Sintesi Bibliografia Esercizi

162 164 165

11

Il neokantismo

166

1 2

Un nuovo criticismo La Scuola di Marburgo

166 167

2.1 Cohen, p. 167

3

2.2 Natorp, p. 168

La Scuola del Baden 3.1 Windelband, p. 169 3.3 Lask, p. 171

169 3.2 Rickert, p. 170

179 181

5 6

Storicismo e valori: Troeltsch e Meinecke 184 Spengler e il tramonto dell’Occidente 185 Sintesi Bibliografia Esercizi

187 188 189

13

Max Weber

190

1 2

Uno scienziato alla ricerca del senso La riflessione metodologica sulle “scienze della cultura” La sociologia comprendente Etica protestante e spirito del capitalismo Disincantamento del mondo e responsabilità intellettuale

190

Sintesi Bibliografia Esercizi

198 199 199

14

Henri Bergson

200

1 2 3

La scienza e la vita La “scoperta” della durata Materia e memoria

200 201 202

151

6.1 Dal mezzogiorno al tramonto, p. 151 6.2 Il superuomo, p. 152 6.3 La volontà di potenza e l’essere del mondo, p. 153 6.4 L’eterno ritorno dell’uguale, p. 155

7

179

4.1 La psicologia descrittiva, p. 181 4.2 Dalla psicologia all’ermeneutica, p. 182 4.3 Il mondo storico come connessione dinamica, p. 183 4.4 Finitezza e relatività della storia, p. 184

148

5.1 La fede come debolezza del volere, p. 148 5.2 L’uccisione di Dio, p. 150 5.3 Il bisogno di una nuova salute, p. 150

6

4

141

3.1 Le origini tragiche del pensiero, p. 141 3.2 Come nasce la verità, p. 142 3.3 Vivere di storia, morire di storia, p. 143

171

4.1 La filosofia trascendentale della cultura, p. 171 4.2 Il linguaggio, il mito, la scienza, p. 173

3 1 2 3

Cassirer

3 4 5

3.1 La materia come insieme di immagini, p. 202 3.2 La memoria: il passato nel presente, p. 204

191 194 195 197

V

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Pagina VI

Indice del volume L’evoluzione creatrice 4.1 Lo slancio vitale, p. 205 ligenza e intuizione, p. 207

208

Sintesi Bibliografia Esercizi

210 211 212

DALL’IDEALISMO AL MARXISMO

15

Benedetto Croce

1 2 3 4 5 6

Tra estetica e storicismo Vita di un pensatore liberale Il confronto con Hegel: forme e gradi dello spirito L’estetica La filosofia come storicità La filosofia pratica: l’economia e l’etica

216 218 219 220

Sintesi Bibliografia Esercizi

221 222 223

214 215

2.2 Bloch, p. 241

239 2.3

Sintesi Bibliografia Esercizi

243 244 245

FENOMENOLOGIA E ONTOLOGIA

18

Edmund Husserl

1 2 3 4

Un nuovo modo di “vedere” le cose 248 Il filosofo come funzionario dell’umanità 249 Matematica e filosofia 251 Dalla logica pura alla fenomenologia 252

248

4.1 La critica allo psicologismo, p. 252 4.2 L’idea di una logica pura, p. 254 4.3 La visione delle essenze, p. 255 4.4 «Alle cose stesse!», p. 257 4.5 L’intenzionalità, p. 258

5

1

La filosofia attualistica: idealismo e immanentismo Un filosofo politico La riforma della dialettica hegeliana La teoria dell’attualismo La storia della filosofia La pedagogia e la riforma della scuola Idealismo e totalitarismo

224 225 226 227 229 229 230

Sintesi Bibliografia Esercizi

232 233 234

17

Sviluppi e trasformazioni del marxismo

235

1

La via italiana al marxismo

235

La fenomenologia pura o trascendentale 260 5.1 La riduzione eidetica, p. 260 5.2 L’epochè, p. 262 5.3 La coscienza trascendentale, p. 263

6

Le “ricerche fenomenologiche sopra la costituzione”

264

6.1 La costituzione della cosa, p. 264 6.2 Il corpo vivo, p. 266 6.3 L’intersoggettività trascendentale, p. 267

224

Giovanni Gentile

1.1 Labriola, p. 235 1.2 Gramsci, p. 236 1.3 Laicizzazione ed egemonia culturale, p. 238

Nello spazio del marxismo europeo

214

16

2 3 4 5 6 7

2

2.1 Lukács, p. 239 Althusser, p. 242

La morale e la religione

parte III

5

205 4.2 Istinto, intel-

parte IV

4

7

La crisi delle scienze e il ruolo della filosofia

268

7.1 La crisi delle scienze, p. 268 7.2 La “matematizzazione” della natura, p. 269 7.3 La teleologia storica e il compito della filosofia, p. 270 7.4 La storia della filosofia, p. 271 7.5 L’ontologia del “mondo della vita”, p. 272

Sintesi Bibliografia Esercizi

273 275 277

19

Martin Heidegger

278

1 2 3

La passione del domandare Un «luogotenente del nulla» L’ermeneutica della fatticità

278 279 283

3.1 Le tre direzioni di ricerca del giovane Heidegger, p. 283 3.2 La fenomenologia come 3.3 scienza originaria della vita, p. 285

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Pagina VII

Indice del volume 4 5

Paolo, Agostino e il cristianesimo primitivo, p. 287 3.4 L’interpretazione fenomenologi3.5 L’ontologia ca di Aristotele, p. 289 come ermeneutica, p. 291

4

Nello spazio di Essere e tempo

292

4.1 La filosofia come scienza della differenza, p. 292 4.2 La domanda dell’esserci e il problema dell’essere, p. 293 4.3 Il primato dell’esserci e l’ontologia fondamentale, p. 294 4.4 Il metodo dell’ontologia, p. 295 4.5 La distruzione della storia dell’ontologia, p. 297

5

L’analitica esistenziale

21

7

9 10

La metafisica della finitezza: l’essere e il niente La verità dell’essere come evento

1 2 3

305 307

L’appello dell’essere nell’epoca della tecnica Nichilismo e metafisica Il linguaggio, la poesia, il sacro

4

341

Dalla vita all’essere: antropologia, fenomenologia, ontologia

1

La vita come “punto di partenza” della filosofia 1.1 La filosofia della vita agli inizi del Novecento, p. 327 1.2 Simmel, p. 328

5 6

347

4.2 La

Marcel: filosofia concreta e mistero ontologico Jaspers

350 351

Sintesi Bibliografia Esercizi

355 357 358

22

Storia, destino, società

359

1 2

Il dramma della storia Ortega y Gasset

359 359

2.1 Il progetto di una “ragione vitale storica”, p. 359 2.2 Esistenza e credenze, p. 361

3

2.2 2.3

3.1 La conoscenza come problema metafisico, p. 331 3.2 La fondazione dell’ontologia, p. 332

Esistenzialismo, umanismo, marxismo

6.1 Scienza, esistenza, metafisica, p. 351 6.2 L’Umgreifende: l’essere in sé e ciò che noi siamo, p. 353 6.3 Il tragico e la fede filosofica, p. 354

329

Dal neocriticismo all’ontologia: Nicolai Hartmann

341 342 343

327 327

Fenomenologia e antropologia: Max Scheler

Un intellettuale “totale” Sartre e la fenomenologia L’essere e il nulla

4.1 Il marxismo concreto, p. 347 ragione dialettica, p. 348

319 322 325

20

3

Sartre e l’esistenzialismo

Le trasformazioni dell’esistenzialismo 312 313 315

Sintesi Bibliografia Esercizi

2.1 Fenomenologia della vita, p. 329 Etica formale ed etica materiale, p. 330 L’uomo nell’Universo, p. 330

337 339 340

3.1 Essere in sé ed essere per sé, p. 343 3.2 La libertà incondizionata dell’uomo, p. 345 3.3 L’essere-per-altri, p. 346

10.1 L’opera d’arte e la “quadratura” dell’essere, p. 315 10.2 Il linguaggio della poesia, p. 316 10.3 Hölderlin e il sacro, p. 318

2

Sintesi Bibliografia Esercizi

335

Jean-Paul Sartre

7.1 La “svolta” di Essere e tempo, p. 307 7.2 Il senso perduto dell’“alètheia”, p. 308 7.3 L’essere come “evento di appropriazione”, p. 310

8

333

297

5.1 La funzione preparatoria dell’analisi dell’esserci, p. 297 5.2 L’essere-nel-mondo, p. 298 5.3 L’apertura dell’esserci: fatticità, 5.4 esistenzialità, decadimento, p. 299 L’esserci come cura, p. 301 5.5 L’essereper-la-morte, p. 301 5.6 La temporalità dell’esserci, p. 303 5.7 La storicità dell’esserci, p. 304 5.8 Il passo incompiuto di Essere e tempo, p. 305

6

Empatia e intersoggettività: Edith Stein Fenomenologia e ontologia: Maurice Merleau-Ponty

331

Zambrano

363

3.1 Le “viscere” della storia e la filosofia, p. 363 3.2 La vita “innamorata” della verità: la ragione poetica, p. 365

4 5

Weil: il mondo tra violenza e sventura Benjamin: messianismo e rivoluzione

366 367

Sintesi Bibliografia Esercizi

369 371 372

VII

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VIII

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Pagina VIII

Indice del volume 23

Neoscolastica, personalismo, filosofia cristiana

373

1 2

Alle origini della neoscolastica Étienne Gilson

373 376

16

2.1 La rivelazione in aiuto della ragione, p. 376 2.2 La metafisica dell’Esodo, p. 378 2.3 La possibilità di un progresso nella filosofia cristiana, p. 379

Jacques Maritain

382

3.1 Da Bergson a Tommaso d’Aquino, p. 382 3.2 L’umanesimo integrale, p. 384

4

Emmanuel Mounier

385

4.1 Il mondo moderno contro la persona, p. 385 4.2 La rivoluzione personalista e comunitaria, p. 386

24 1

388 389 390

Ermeneutica e teoria critica

391

7 8

Le trasformazioni dell’ermeneutica Un pensatore, un secolo Verità e metodo come poli in tensione L’arte e il gioco Dall’estetica all’ermeneutica: precomprensione e tradizione I concetti fondamentali dell’ermeneutica Essere e linguaggio

10 11

L’Istituto per la ricerca sociale e la revisione della critica marxiana La dialettica dell’Illuminismo in Horkheimer e Adorno Adorno e la dialettica negativa

4

Razionalizzazione e sfera pubblica Conoscenza e interesse La teoria dell’agire comunicativo

410 412 414

Critica della metafisica ed etica dell’alterità

415

Fenomenologia, etica, ebraismo Il pensiero ebraico del Novecento

415 416

395 397 398

400 401 403

405 406 407

2.2 Buber, p. 417

Lévinas

420

Derrida

429

4.1 Dagli insuccessi scolastici alla Legion d’onore: la vita e le opere, p. 429 4.2 La presenza e i segni: Derrida e la fenomenologia, p. 431 4.3 Decostruzione e différance, p. 433 4.4 Etica e messianismo, p. 435

5

Ricoeur

437

Sintesi Bibliografia Esercizi

440 443 445

FILOSOFIA E SCIENZE DELL’UOMO

26

Freud e la psicoanalisi

448

1 2 3 4

All’origine della coscienza Un viaggiatore del profondo La nascita della psicoanalisi La coscienza e l’inconscio

448 449 451 455

4.1 L’inconscio come rimozione, p. 455 4.2 L’Io, tra Es e Super-Io, p. 456 4.3 Il complesso di Edipo, p. 458

Jürgen Habermas 12 13 14

Sintesi Bibliografia Esercizi

3.1 Tra fenomenologia ed ebraismo: il primato dell’etica, p. 420 3.2 Il confronto con la fenomenologia, p. 421 3.3 L’il y a, l’ipostasi e il mondo, p. 423 3.4 Totalità e infinito, 3.5 La sostituzione e il terzo: p. 425 Altrimenti che essere, p. 427

392 392 393 394

La Scuola di Francoforte e la teoria critica 9

3

391

Hans-Georg Gadamer e l’ermeneutica filosofica 2 3 4 5 6

1 2

408 409

2.1 Rosenzweig, p. 416 2.3 Jonas, p. 418

Sintesi Bibliografia Esercizi

Due modi di affrontare i fatti umani

25

Pensiero postmetafisico e razionalità moderna Democrazia e religione

parte V

3

15

5 6

Èros e Thànatos Dalla psiche individuale all’inconscio sociale

459 460

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Pagina IX

Indice del volume L’enigma Mosè Due sviluppi della psicoanalisi 8.1 Jung, p. 464

462 464 469 471 473

27

Michel Foucault

474

1

«Dar forma all’impazienza della libertà» Strutturalismo, antropologia, storia

474 476

2.1 Saussure, la linguistica e la psicologia della forma, p. 476 2.2 Claude Lévi-Strauss 2.3 e l’antropologia strutturale, p. 478 «Ritornare alla storia»: il rapporto critico di Foucault con lo strutturalismo, p. 479

3 4 5 6 7 8

Archeologia e genealogia La Storia della follia Le parole e le cose: la costituzione e la scomparsa dell’“uomo” L’Archeologia del sapere: enunciati, archivi e dispersione L’analitica del potere: poteri disciplinari, sessualità, biopotere Governamentalità ed etica della cura di sé Sintesi Bibliografia Esercizi

Sintesi Bibliografia Esercizi

LA FILOSOFIA ANALITICA

29

Alle origini della filosofia analitica: Frege e Russell

480 482

487 489

1 2 3

490 493 494

1 2 3

Hannah Arendt e la filosofia pratica nella seconda metà del Novecento Una vita in esilio, tra filosofia e teoria politica Le origini del totalitarismo La sfera della vita attiva e la condizione umana

495 495 496

4 5 6

L’assenza di pensiero e la banalità del male L’esigenza del pensiero e la vita della mente La riabilitazione della filosofia pratica in Germania

5

522

L’idea di un linguaggio scientifico universale Il dibattito sui fondamenti della matematica La chiusura del dibattito: i teoremi di incompletezza di Gödel

522 523 526

L’ideografia come modello di un linguaggio scientifico universale Filosofia del linguaggio: senso e significato

526 528

5.1 I nomi, p. 528 5.2 Gli enunciati, p. 530 5.3 I concetti, p. 531

6

500

3.1 Le tre dimensioni della vita attiva, p. 500 3.2 Dall’azione alla contemplazione: il tramonto della pòlis greca, p. 501 3.3 Dalla contemplazione alla produzione: l’esperienza della modernità, p. 502 3.4 Dall’homo faber all’animal laborans: lo scacco della modernità, p. 503

515 517 519

Gottlob Frege 4

28

509

Dalla matematica alla filosofia

483 486

Alcuni aspetti della filosofia giuridica e politica del Novecento 7.1 John Rawls e la teoria della giustizia, p. 509 7.2 Sovranità e ordinamento: Carl Schmitt e Hans Kelsen, p. 511

8.2 Lacan, p. 467

Sintesi Bibliografia Esercizi

2

7

parte VI

7 8

Filosofia della matematica: il platonismo

533

Bertrand Russell 7 8

Matematica, logica, ontologia La teoria della denotazione

535 537

8.1 Il problema delle entità fittizie, p. 537 8.2 L’analisi logica degli enunciati, p. 539

504 505 507

9 10

Il problema della conoscenza Il tardo Russell

540 543

Sintesi Bibliografia Esercizi

545 547 548

IX

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X

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Pagina X

Indice del volume 30

Rudolf Carnap

549

Ludwig Wittgenstein

11 1 2 3

La filosofia come attività di chiarificazione 549 Una vita fatta di inquietudine 550 Il Tractatus logico-philosophicus 552 3.1 L’essenza della filosofia, p. 552 3.2 L’ontologia del Tractatus, p. 553 3.3 La fondazione linguistica dell’ontologia, p. 555 3.4 La teoria raffigurativa del linguaggio, p. 556 3.5 La teoria del significato del Tractatus, p. 557 3.6 Dire e mostrare: proposizioni sensate e proposizioni insensate, p. 560 3.7 Il paradosso della filosofia, p. 561

4

Le Ricerche filosofiche

589

11.1 La scienza come sistema di costituzione, p. 589 11.2 Le proposizioni protocollari, p. 591

12

La svolta sintattica e la critica alla metafisica

591

12.1 Gli errori linguistici della metafisica, p. 591 12.2 Che cos’è la metafisica, p. 593 12.3 La sintassi logica del linguaggio, p. 594

13

L’ultimo Carnap

595

Sintesi Bibliografia Esercizi

597 599 601

32

Il pragmatismo americano

602

1

Le origini del pragmatismo: il “Metaphysical Club” Peirce

602 603

563

4.1 La critica al Tractatus, p. 563 4.2 I giochi linguistici, p. 564 4.3 Condividere 4.4 Filosofia come forme di vita, p. 566 terapia, p. 567

Sintesi Bibliografia Esercizi

La costruzione logica del mondo

568 569 570

2

2.1 Il genio incompreso, p. 603 2.2 Un pensiero fatto di segni, p. 604 2.3 La teoria pragmatista della conoscenza, p. 606

31

La crisi della fisica e l’empirismo logico

571

3

La fisica di fine Ottocento L’emergere del problema filosofico La relatività La meccanica quantistica

La nascita della filosofia della scienza

576

5.1 I princìpi metodologici delle teorie scientifiche, p. 576 5.2 Il convenzionalismo, p. 577

La filosofia dell’empirismo logico 6 7

I circoli di Vienna e Berlino La concezione scientifica del mondo 7.1 La critica alla metafisica, p. 581 stema di costituzione, p. 583

8 9 10

Sintesi Bibliografia Esercizi

612 613 614

33

John Dewey

615

1 2 3 4 5

Il “filosofo americano” Il concetto di esperienza Dal pragmatismo allo strumentalismo La morale Il problema educativo

615 617 618 621 622

Sintesi Bibliografia Esercizi

624 625 625

34

Karl Raimund Popper

626

1 2

La scienza contro lo scientismo Un realista critico

626 627

571 572 573 574

4.1 Atomi ed energia, p. 574 4.2 Complementarità, indeterminazione, probabilismo, p. 575

5

608

3.1 La filosofia come libera scelta, p. 608 3.2 Oltre l’empirismo e il razionalismo: una nuova psicologia, p. 609 3.3 La teoria della verità e l’empirismo radicale, p. 610

La crisi dei fondamenti della fisica 1 2 3 4

James

580 581

7.2 Il si-

Moritz Schlick: il principio di verificazione Hans Reichenbach: induzione e probabilità Otto Neurath: l’enciclopedia della scienza unificata

584 586 588

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Pagina XI

Indice del volume 3

L’epistemologia

629

3.1 Il problema dell’induzione, p. 629 3.2 Il contesto della scoperta e il contesto della giustificazione, p. 630 3.3 Verificazione e falsificazione, p. 631 3.4 Le teorie non scientifiche, p. 634

4 5

35

PERCORSI TEMATICI 1

L’io in questione: la crisi del soggetto moderno

T1

Karl Marx • L’io estraniato

Psicologia e oggettività del mondo La filosofia politica e della storia: la società aperta e l’antistoricismo

637

Sintesi Bibliografia Esercizi

639 641 641

T2

Friedrich Nietzsche • Dall’io al superuomo

Filosofia analitica, seconda generazione

642

T3

Sigmund Freud • L’Io, il conscio, l’inconscio

Manoscritti economico-filosofici del 1844, Primo manoscritto, XXII-XXIV Al di là del bene e del male, cap. 1, §§ 16, 17; cap. 3, § 54; Così parlò Zarathustra, Prefazione di Zarathustra, § 3

L’Io e l’Es, §§ 1-3

1 2

La svolta della filosofia analitica Willard van Orman Quine

642 645

2.1 Linguaggio, logica, ontologia, p. 645 2.2 L’empirismo senza dogmi, p. 647 2.3 La traduzione radicale, p. 648

3

La filosofia della scienza 3.1 Kuhn, p. 649 3.2 Lakatos, p. 650 Feyerabend, p. 651

4 5 6

2 3

T6

Emmanuel Lévinas • L’io come relazione etica con Altri

T7

Sintesi Bibliografia Esercizi

672 675 678

Uno sguardo sul presente

679

690

Bibliografia

695

680 685

716

720

Michel Foucault • Il soggetto come cura di sé

725

Bibliografia

728

2

Tempo ed esistenza

729

T8

Søren Kierkegaard • L’eternità, il tempo, l’esistenza

Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia, parte II, sez. 2, cap. 4, A, § 1; Il concetto dell’angoscia, cap. 3; Postilla conclusiva alle Briciole di filosofia, parte II, sez. 2, cap. 3, § 1 731

T9

Arthur Schopenhauer • La necessità dell’esistenza e l’infinità del tempo

Il mondo come volontà e rappresentazione, Supplementi al libro IV, cap. 41

Bioetica, etiche applicate, multiculturalismo Filosofia, religione, nichilismo Ontologia, metafisica e storia della metafisica

711

L’etica della cura di sé come pratica della libertà, Intervista del 20 gennaio 1984

6.2 MacIntyre, p. 661

664

Essere e tempo, §§ 4 e 9; Lettera sull’“umanismo”

Totalità e infinito, §§ 4 e 5; Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cap. 4, § 4

660

7.1 La mente in questione, p. 664 7.2 Tre problemi particolari, p. 665 7.3 Principali tendenze della filosofia della mente, p. 665 7.4 Il funzionalismo: dall’intelligenza artificiale alle neuroscienze, p. 668 7.5 Searle, p. 670

1

Martin Heidegger • L’uomo come esserci

5.3

La filosofia della mente

707

Edmund Husserl • La coscienza come essere assoluto

T5

652 656

704

Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libro I, § 49 714

4.3

Estetica, etica, postfilosofia 6.1 Goodman, p. 660 6.3 Rorty, p. 662

7

3.3

La filosofia del linguaggio negli Stati Uniti 5.1 Chomsky, p. 656 5.2 Kripke, p. 657 Davidson, p. 658 5.4 Putnam, p. 659

T4

649

La filosofia del linguaggio in Inghilterra 4.1 Ryle, p. 652 4.2 Austin, p. 653 Strawson e Dummett, p. 654

700

635

734

T10 Henri Bergson • Il corpo, la coscienza, la durata Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra lo spirito e il corpo, cap. 3

T11

737

Edmund Husserl • La coscienza del tempo Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, §§ 1, 8-11, 24

741

XI

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XII

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Pagina XII

Indice del volume T12 Martin Heidegger • La temporalità dell’esistenza Essere e Tempo, §§ 41, 46, 53, 65

T13

3

745

Jean-Paul Sartre • Il tempo e il nulla

L’essere e il nulla, parte II, cap. 2, § 1 (A, B, C) 749

Bibliografia

755

Il linguaggio

756

T15

T17

T18 Hans-Georg Gadamer • Il linguaggio ermeneutico Verità e metodo, parte III, §§ 1, 3/c

T19 Jacques Derrida • Il linguaggio come scrittura

Della grammatologia, parte I, cap. 1, § 1

Tractatus logico-philosophicus, § 4.003-4.0031; 4.11-4.112; 4.113-4.116; 6.5-6.521; 6.53-7

T29 Karl Raimund Popper • La critica dell’induzione e il principio di falsificabilità

764

T30 Paul Feyerabend • L’anarchismo metodologico

Logica della scoperta scientifica, cap. 1

Contro il metodo, capp. 1 e 15

769

T31

774

T32 Erwin Schrödinger • Gli oggetti della natura e la coscienza dell’io

Martin Heidegger • Il linguaggio che fa essere le cose

L’essenza del linguaggio, § II; Il cammino verso il linguaggio, §§ II-III

Werner Heisenberg • Meccanica quantistica e conoscenza della realtà Fisica e filosofia, capp. 2 e 3

778

5

Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente, cap. 1

785

Bibliografia

788

T21 Auguste Comte • La filosofia positiva Corso di filosofia positiva, lezione I

T22 Charles Darwin • Il principio dell’evoluzione L’origine delle specie, cap. 15

T23 Bertrand Russell • Il compito della filosofia

I problemi della filosofia, capp. 14 e 15

T24 Jules-Henri Poincaré • Osservazioni e convenzioni

La scienza e l’ipotesi, Introduzione, cap. 8

806

808

810 812 815

Come la scienza rappresenta il mondo, §§ 4-5; Spirito e materia, § 3

817

Bibliografia

818

Politica e storia

819

T33 Karl Marx • La concezione materialistica della storia L’ideologia tedesca, §§ 1 e 2; Per la critica dell’economia politica, Prefazione

Scienza e filosofia

804

781

T20 Noam Chomsky • Il linguaggio come facoltà della specie uomo

4

803

T27 Ludwig Wittgenstein • La verità della scienza e i problemi della vita

760

T16 Ludwig Wittgenstein • I giochi linguistici Ricerche filosofiche, parte I, §§ 1-7, 11, 12, 18, 23, 27, 65-67

Pensieri degli anni difficili, Anno 1936

La svolta della filosofia; Positivismo e realismo, § 2

Ferdinand de Saussure • L’invenzione della linguistica Corso di linguistica generale, cap. 3, §§ 1-2, cap. 4

Ricerche sui fondamenti della matematica

T26 Albert Einstein • La comprensibilità del mondo

T28 Moritz Schlick • La chiarificazione del senso e il principio di verificazione

T14 Edmund Husserl • L’espressione significativa e la grammatica pura

Ricerche logiche, vol. II, Ricerca I, §§ 1, 5-8; Ricerca IV, Introduzione e § 14

T25 David Hilbert • Empirismo e astrazione: il paradigma matematico

789

T34 Friedrich Nietzsche • La decadenza democratica e la politica dei signori

Al di là del bene e del male, cap. 8, § 242; cap. 9, §§ 257 e 259

790

825

T35 Wilhelm Dilthey • Le scienze dello spirito e il mondo storico La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, cap. I, § 3

793

T36 Max Weber • La professione della politica

799

T37 Giovanni Gentile • Individuo e Stato

801

822

La politica come professione

Manifesto degli intellettuali del fascismo; Genesi e struttura della società, cap. VI, §§ 1-3, 6, 8

827 830

832

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Pagina XIII

Indice del volume T38 Benedetto Croce • Lo Stato e la moralità

Frammenti di etica, cap. 41; Elementi di politica, cap. 1, § 2; Una risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani, al manifesto degli intellettuali fascisti 836

T39 Antonio Gramsci • Lo Stato e il partito

La conquista dello Stato, in «Ordine Nuovo», 12 luglio 1919; Noterelle sulla politica di Machiavelli (Quaderni del carcere, 13, 1-2a)

841

T40 Hannah Arendt • Il totalitarismo e l’ideologia

L’immagine dell’inferno; Le origini del totalitarismo, parte III, capp. 12 e 13

Le varie forme dell’esperienza religiosa, lezioni II e III, Poscritto

845

Diritto e morale, lezione I, § 4, lezione II, § 1, lezione III, § 4; La religione nella sfera pubblica, §§ IV e V 850

861

T44 Max Scheler • L’etica, i valori, il divino

Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, parte I, cap. 2, A; parte I, cap. 1, § 1; parte II, cap. 5, § 5

T45 John Dewey • La religione come fede sociale Una fede comune, capp. 1-3

T41 Jürgen Habermas • Ordinamenti giuridici e ragioni morali

6

T43 William James • Morale, religione, psicologia

866 871

T46 Emmanuel Lévinas • L’etica e il desiderio dell’Infinito Totalità e Infinito, sez. I, A, §§ 1-5; Etica e Infinito, capp. 6 e 9; Totalità e infinito, sez. I, B, § 6

876

T47 Hans Jonas • Il genere umano nell’epoca della tecnica

Bibliografia

853

Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità, cap. II, § 4 e 5, cap. VI, §§ 1, 9, 19 883

Etica e religione

854

Bibliografia

887

Indice dei nomi

889

T42 Max Weber • Etica, teologia, capitalismo

L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, «Osservazioni preliminari»; parte II, cap. 1 856

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parte I

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LA FILOSOFIA DELL’OTTOCENTO

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Pagina 2

Il “destino” del sistema hegeliano Le vicende filosofiche del XIX secolo sono segnate, quasi in maniera trasversale rispetto alle molteplici e spesso dissonanti tendenze che vi si manifestano, da un tratto comune: la volontà di radicalizzare e quasi di portare alle sue conseguenze estreme la posta in gioco del pensiero moderno, vale a dire la capacità della ragione umana di essere pienamente all’altezza della realtà – la realtà naturale come quella storica, la realtà individuale come quella sociale –, cercando non solo di comprenderla e di spiegarla nel suo senso complessivo, ma di imprimere su di essa il suo segno e di guidare in qualche modo la sua trasformazione. E non è un caso che questo sia avvenuto nello spazio aperto dall’ultimo grande tentativo – quello hegeliano – di costruire un sistema filosofico in cui la ragione umana si innalzava allo spirito infinito e questo spirito si manifestava come il senso immanente del mondo, il compimento del suo stesso destino. Da un lato, infatti, una parte assai rilevante del pensiero sviluppatosi in Europa a partire gli anni Trenta dell’Ottocento si propone come una fuoriuscita dal pensiero hegeliano, o meglio dalla sua pretesa di far dipendere la realtà concreta dallo sviluppo di concetti astratti. Ma dall’altro lato qualcosa di questa pretesa resta, inevitabilmente, anche nei suoi oppositori: e non solo in quelli che si sono rifatti esplicitamente alla dialettica hegeliana per rovesciarla e riutilizzarla in maniera contraria – come nella “sinistra” hegeliana e in Marx – ma anche in coloro che hanno voluto rifiutare in blocco quel tipo di approccio alla realtà, come i positivisti alla Comte, o gli psicologisti alla Herbart o ancora i teorici della non-razionalità dell’io e del mondo, come Kierkegaard e Schopenhauer. In entrambi i casi, infatti, sia che la si rovesci, sia che la sia rifiuti, la concezione hegeliana della ragione – come capacità di produzione e di dominio della realtà – viene paradossalmente confermata come quella decisiva per tutto il secolo. Anche coloro infatti che vogliono abbatterla, lo faranno rivendicando che nel mondo non tutto è giustificabile razionalmente – e quindi lasciando la ragione dalla parte di Hegel.

Uno dei caratteri dominanti del clima filosofico dell’Ottocento è dunque il persistere di una pretesa, da parte della filosofia, di riuscire a cogliere la totalità del reale: e questo avviene in modi diversi e contrastanti, i più rilevanti dei quali sono stati senza dubbio l’analisi marxiana delle contraddizioni sociali affermatesi nella società capitalistica tra i borghesi e i proletari in vista di una trasformazione radicale dell’ordine economico e politico internazionale, da un lato, e dall’altro l’analisi positivista del progresso delle scienze come l’instaurazione di un nuovo regno dell’uomo, in cui non solo i problemi della natura, ma anche quelli della società e della storia potranno essere risolti con metodo tecnico-misurativo. Al tempo stesso, accanto a questa pretesa si affermano quelle filosofie che riporteranno prepotentemente alla ribalta l’irriducibilità, rispetto alla ragione, dell’esperienza umana e più ancora dell’essenza del mondo. Il “singolo” di cui parlerà il “cristiano” Kierkegaard e la “volontà” come la cieca cosa in sé di cui parlerà il “kantiano” Schopenhauer costituiranno il controcanto dei progetti progressivi della ragione dialettica o delle strategie scientiste. Anch’essi però cercheranno di indicare una via di uscita o di salvezza rispetto all’insopportabile irrazionalità della condizione umana, vuoi nel paradosso dell’esperienza religiosa, vuoi nel tentativo di un’ascesi del pensiero che sospenda il profondo dolore del mondo. Ma l’Ottocento è anche il secolo dell’affermarsi di nuove categorie scientifiche, e corrispettivamente di nuove tendenze epistemologiche, che spaziano dalla fisica teorica alla logica matematica, dalla psicologia alla teoria dell’evoluzione, per citare solo quelle che avranno una più spiccata tendenza “filosofica” oltre che sperimentale. E questa tendenza consiste in una sempre più decisa “naturalizzazione” di tutte le sfere dell’esperienza, non solo quelle legate ai processi materiali, organici e biologici, ma anche quelli riguardanti la vita “spirituale” o la vita morale. Se Hegel aveva cercato di spiegare la natura e il mondo mediante la ragione, ora la ragione è impegnata a spiegare che tutto è meccanismo o evoluzione naturale.

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capitolo 1

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Destra e sinistra hegeliana

1 “Destra” e “sinistra” hegeliana: il caso Strauss Il destino dell’hegelismo senza Hegel si pose assai presto sotto il segno della frattura. Gli anni successivi alla morte del maestro, avvenuta nel 1831, videro già i seguaci e gli epigoni dividersi in due distinte correnti, presto identificate come la “destra” e la “sinistra” hegeliana, in analogia alla suddivisione delle forze politiche nel Parlamento francese (quelle più legate al mantenimento dell’ordine sociale schierate a destra e quelle più radicali a sinistra). Si trattava tuttavia anche di una distanza generazionale: ai “vecchi hegeliani” della destra conservatrice, la vecchia guardia della scuola, si contrapposero i “giovani hegeliani” della sinistra progressista, e il fronte della battaglia fu rappresentato dal problema del rapporto tra l’hegelismo ed il cristianesimo. L’ala destra della scuola, infatti, si sforzò strenuamente di dimostrarne la conciliabilità, ritenendo che la filosofia del maestro consentisse una perfetta giustificazione dell’ortodossia. L’ala sinistra, al contrario, cercò di accentuarne le differenze specifiche, adottando

un atteggiamento radicalmente critico nei confronti della religione e pronunciandosi a favore della superiorità della filosofia. La controversia religiosa si tradusse, più tardi, in termini politici: se la destra, incline ad una pacificata apologia dell’esistente (“ciò che è reale è razionale”), tendeva a vedere nello Stato prussiano un’incarnazione della ragione universale, la sinistra, convinta piuttosto che “ciò che è reale” dovesse diventare “razionale” (ovvero che la razionalità fosse un programma da realizzare più che un presupposto), si caratterizzò per una posizione meno giustificazionista nei confronti dell’autorità costituita. Karl Friedrich Göschel (Lagensalz 1784Naumburg 1862), Kasimir Conradi (Monsheim 1784-Derheim 1849) e Georg Andreas Gabler (Altdorf 1786-Teplitz 1853) – per citare solo alcuni tra i nomi più noti della destra hegeliana – furono tutti convinti sostenitori della conciliazione assoluta tra fede e ragione: se Göschel (con lo scritto Le prove dell’immortalità dell’anima umana del 1835) e Conradi (con Immortalità e vita eterna del 1837) si occuparono soprattutto di applicare la filosofia del maestro a specifiche questioni religiose, tentando di

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parte I La filosofia dell’Ottocento

darne una fondazione speculativa, Gabler – il quale aveva occupato la cattedra di Hegel a Berlino – cercò di dimostrare l’infondatezza dell’accusa di irreligiosità mossa alla filosofia hegeliana con uno scritto del 1843 intitolato La filosofia di Hegel. Contributi alla sua corretta valutazione e al suo apprezzamento. Una menzione a parte merita invece Bruno Bauer (Eisenberg 1809-Rixdorf 1882), un militante della destra convertitosi alla causa dei giovani hegeliani. Inizialmente Bauer era intervenuto nel dibattito teologico difendendo posizioni ortodosse (egli peraltro fu il fondatore della «Rivista di teologia speculativa», che si avvalse della collaborazione di alcuni tra i maggiori rappresentanti della destra hegeliana); ma in seguito approdò ad un ateismo radicale che gli costò nel 1842 la sospensione dall’insegnamento presso l’Università di Bonn. In uno scritto apparso anonimo nel 1841 con il titolo La tromba del giudizio universale contro Hegel ateo e anticristo. Un ultimatum (1841), servendosi di un escamotage letterario (finge di essere un fanatico religioso che taccia Hegel di ateismo), Bauer giungeva a dichiarare la totale inconciliabilità tra hegelismo e religione. Uno dei giovani hegeliani che più si impegnarono ad un ampliamento della critica dalle questioni teologiche a quelle socio-politiche fu invece Arnold Ruge (Bergen 1802-Brighton 1880). Egli aveva fondato nel 1838 insieme a Ernst Theodor Echtermeyer gli «Annali di Halle» – che divennero ben presto l’organo della sinistra – in risposta agli «Annali berlinesi», che erano invece l’organo della destra. Nel 1841, in seguito all’inasprirsi della censura del governo prussiano, Ruge si trasferì da Halle a Dresda, e qui continuò a pubblicare la sua rivista con il nome di «Annali tedeschi» sino a quando essa non venne soppressa nel 1843. La sua pubblicazione si protrarrà nel 1944, con un solo numero, con il titolo di «Annali franco-tedeschi», curati a Parigi da Ruge insieme a Karl Marx [ 2]. Ruge firmò numerosi articoli e saggi sulla filosofia hegeliana del diritto (il più noto, del 1842, porta il titolo: La filosofia del diritto di Hegel e la critica del nostro tempo) nei quali individuava il principale errore di Hegel nel non aver costruito il suo sistema a partire dalle concrete vicende storiche, ma di aver voluto al contrario dedurre la storia dal sistema.

Ma occorre fare un passo indietro e partire da quello che fu il casus belli dell’intera vicenda. Prima ancora che la scissione tra destra e sinistra si approfondisse sul terreno politico e sociale, fu in occasione della disputa teologica che le tensioni deflagrarono, e in questo contesto un ruolo assolutamente decisivo venne svolto da David Friedrich Strauss (Ludwigsburg 1808-ivi 1874), con la pubblicazione della sua Vita di Gesù (1835). In quest’opera – che gli avrebbe causato la perdita del posto di assistente allo Stift di Tubinga – Strauss negava l’assolutezza della religione cristiana e si serviva della filosofia come strumento per discernere ciò che del cristianesimo doveva essere accettato o rifiutato. Pur riconoscendo la storicità della figura di Gesù, Strauss metteva in discussione l’attendibilità dei Vangeli: ricollegandosi alla tradizione illuminista dell’ermeneutica sacra, egli si impegnò in una critica minuziosa del N uovo Testamento per metterne in luce le contraddizioni interne, distinguere il dato storico dalla componente immaginifica e declassare il contenuto di fede a semplice mito. N ell’esegesi di Strauss, infatti, i racconti evangelici vengono presentati come il frutto di una lunga stratificazione orale, e la figura di Cristo come una produzione mitologica nata dalla fede delle prime comunità cristiane, nella quale confluiscono l’attesa messianica del popolo ebreo e l’eccezionale carisma del Gesù storico.



Ci si immagini una giovane comunità, che onora il proprio fondatore con animo tanto più infiammato, quanto più inaspettatamente e tragicamente questi era stato strappato al proprio cammino; una comunità gravida di una massa di nuove idee, che avrebbero riplasmato un mondo; una comunità di orientali, di uomini per lo più incolti, che quindi erano in grado di appropriarsi e di esprimere quelle idee non nella forma astratta dell’intelletto e del concetto, bensì unicamente nella guisa concreta della fantasia, come immagini e racconti; allora si riconoscerà: in simili condizioni doveva formarsi quello che si formò, una serie di racconti sacri, attraverso i quali sia tutta quella massa di idee nuove, stimolate da Gesù, sia di idee vecchie, a lui riferite, veniva rappresentata come singoli momenti della sua vita. [Vita di Gesù, Introduzione: «La genesi del punto di vista mitico per la storia evangelica»]



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Il valore dell’incarnazione, vale a dire la profonda unità di finito e infinito, di umano e divino, non dev’essere dunque riferito secondo Strauss alla figura di un individuo solo – il Gesù storico – bensì al genere umano nel suo complesso, sicché l’umanità deve diventare consapevole del fatto che una tale unità si realizza soltanto in essa. È alla pubblicazione della Vita di Gesù (cui seguirono altre tre edizioni sino al 1840) che si deve la nascita ufficiale della sinistra hegeliana. Era stato lo stesso Strauss, del resto, nei suoi Scritti polemici in difesa del mio scritto sulla vita di Gesù (1837), a codificare una ripartizione interna alla scuola hegeliana, proprio a seguito delle accese polemiche suscitate dalla sua opera. Egli aveva diviso la scuola in tre rami o direzioni: la destra di Göschel, Gabler, Bauer; il centro, in riferimento al quale citava il solo Karl Friedrich Rosenkranz, che era il biografo di Hegel (Vita di Hegel, 1844); la sinistra, della quale si faceva esplicitamente promotore.

1. Con “destra” e “sinistra” hegeliana si indica: a. negli anni immediatamente successivi alla morte di Hegel, rispettivamente la corrente dei seguaci che conciliano cristianesimo ed hegelismo e quella di chi nega tale conciliazione. b. subito dopo la morte di Hegel, rispettivamente gli apologeti della futura realizzazione del razionale e i sostenitori dell’ordine politico esistente. c. rispettivamente la vecchia generazione di hegeliani e quella costituita dai più giovani, subito dopo la morte di Hegel. d. la diversa collocazione in Parlamento degli intellettuali politici seguaci di Hegel.

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2. Göschel, Conradi e Gabler: a. furono seguaci della sinistra hegeliana. b. affermavano l’assoluta conciliazione fra fede e ragione filosofica. c. furono dapprima sostenitori della conciliazione fra cristianesimo ed hegelismo, poi divennero sostanzialmente atei. d. ravvisarono il limite dell’hegelismo nel fatto di non partire dalle concrete vicende storiche. 3. La posizione di Strauss rispetto al cristianesimo consiste essenzialmente: a. nella negazione della figura storica di Gesù. V F b. nel riconsiderare l’attendibilità dei racconti evangelici, visti come il risultato di una stratificazione orale. V F c. nel fatto che l’unità fra finito e infinito non si V F realizza in Gesù, ma nell’intero genere umano. d. nel totale rifiuto del cristianesimo stesso. V F

2 Feuerbach Il passaggio decisivo dal progetto critico della sinistra hegeliana ad un vero e proprio rovesciamento filosofico del sistema di Hegel fu tentato da Ludwig Andreas Feuerbach (Landshut 1804Rechenberg 1872). Dopo un’iniziale, appassionata adesione alla filosofia di Hegel, per la quale aveva abbandonato gli studi di teologia, egli maturò una critica interna a tale filosofia – soprattutto contro i “vecchi hegeliani” – sul modo di intendere la religione, fino a distaccarsene decisamente con lo scritto intitolato appunto Per la critica della filosofia hegeliana (pubblicato nel 1839 sugli «Annali di Halle» diretti da Ruge:  1.1), in cui getta le basi per capovolgere definitivamente ogni pretesa di assolutezza dell’hegelismo facendo dell’uomo e non dello “spirito” l’oggetto principale della filosofia. Espressione emblematica dell’umanesimo di Feuerbach è L’essenza del cristianesimo (1841), la sua opera più nota e più incidente sul dibattito successivo. Anche Feuerbach individuava il rapporto tra filosofia e religione come il punto su cui far leva per sollevare e infine scardinare il sistema hegeliano. A differenza tuttavia dal criterio storicofilologico utilizzato da Strauss [ 1.1], egli intendeva smascherare l’illusorietà del cristianesimo attraverso un’interpretazione in chiave psicologica dei meccanismi che generano tale illusione. Quello che gli uomini credono sia Dio, cioè un’essenza divina distinta e trascendente rispetto all’essenza umana, è in realtà tutt’uno con quest’ultima; più precisamente sono gli stessi uomini a produrre l’idea di un essere altro da sé, sussistente e autonomo, oggetto di culto, sul quale in realtà essi non fanno altro che proiettare le qualità umane purificate dalle limitazioni e rese assolute e infinite. Questo movimento di proiezione dell’umano sul divino è appunto la religione:



La religione […] è il rapporto dell’uomo con sé stesso o, più esattamente, con la sua essenza (soggettiva), ma tale rapporto con la sua essenza è come con un’essenza diversa da lui. L’essenza divina non è altro che l’essenza umana o, meglio, l’essenza dell’uomo, purificata, liberata dai limiti dell’individuo, obiettivata, cioè intuita e adorata come un’altra essenza, da lui distinta, parti-

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colare – tutte le determinazioni dell’essenza divina sono perciò determinazioni umane. [L’essenza del cristianesimo, Introduzione: «L’essenza della religione in generale»]



L’antica separazione tra l’essere umano e l’essere divino costituisce per Feuerbach l’«essenza non vera» della religione, mentre quella «vera» consiste nella loro identità, di modo che l’autentico fondamento della teologia dev’essere trovato nell’antropologia. N ello svelare questa nascosta struttura antropologica della religione, Feuerbach parte dalla differenza fondamentale che sussiste tra l’uomo e la bestia: quest’ultima ha consapevolezza di sé esclusivamente come “individuo”, mentre l’uomo, oltre ad avere coscienza individuale, è in grado anche di conoscersi come “genere”. È proprio da questa dialettica tra l’individuo e il genere – cioè tra il singolo uomo e l’umanità – che la religione ricava il proprio “fondamento” e il proprio “oggetto”. Infatti, la coscienza di sé come genere, nella misura in cui consente di superare il limite dell’individualità, porta a pensare sé stessi come altro da sé. Proprio perché è capace di pensare sé stesso in termini “generici”, l’uomo arriva a “creare” un soggetto trascendente che gli si contrappone, cioè arriva a immaginarsi un Dio: ma in realtà ciò che egli pensa è solo un’oggettivazione della propria essenza. Di conseguenza per Feuerbach Dio è solo la personificazione dell’uomo in quanto genere, cioè del genere umano. Qui entra in gioco il concetto hegeliano di alienazione, ma in senso rovesciato: esso non indica più l’oggettivazione dello “spirito assoluto”, il suo manifestarsi dialettico in una forma estraniata, ma l’estraniazione dell’uomo in Dio, dovuta a uno sdoppiamento dell’uomo in sé stesso, che lo porta ad “oggettivarsi” fuori di sé. La religione, secondo Feuerbach, coincide con questo atto di oggettivazione, e di conseguenza la coscienza che “l’uomo religioso” ha di Dio coincide con l’autocoscienza che egli ha del suo proprio essere. La religione è dunque «il solenne disvelarsi dei tesori nascosti dell’uomo», in cui l’origine antropologica non è ancora evidente. In quanto tale, essa rappresenta per l’uomo la “prima” forma di autocoscienza, o per così dire l’infanzia dell’umanità. Ma oltre questa infanzia la religione non può andare, perché se essa prendesse coscienza della sua natura perderebbe con ciò stesso tutta la sua efficacia. Sarà invece compito della filosofia

«dimostrare che l’opposizione tra il divino e l’umano è assolutamente illusoria» - ossia che non è altro se non la distinzione tra l’essenza dell’umanità e l’uomo individuo - «e che di conseguenza anche l’oggetto e contenuto della religione cristiana è assolutamente umano»:



Tu credi all’amore come proprietà divina giacché tu stesso ami, credi che Dio sia un’essenza saggia, buona, giacché non conosci niente di meglio in te che la bontà e l’intelletto, e credi che Dio esista, che sia quindi soggetto […] giacché tu stesso esisti, tu stesso sei un soggetto. Tu non conosci un bene umano superiore al fatto di amare, di essere buoni e saggi e, parimenti, non conosci una felicità superiore a quella in generale di esistere, di essere soggetto; infatti la coscienza di ogni realtà, di ogni felicità è per te legata alla coscienza di essere soggetto, alla coscienza dell’esistenza. [L’essenza del cristianesimo, Introduzione: «L’essenza della religione in generale»]



Una volta compreso che l’uomo attribuisce a Dio le migliori tra le qualità che scorge in sé stesso – l’amore, la bontà, la sapienza, l’intelligenza, finanche l’esistenza – trasformandole in un essere sussistente ed autonomo, si comprende anche la natura puramente “negativa” attribuita da Feuerbach all’esistenza di Dio, che non sarebbe reale in sé, ma solo un’idea su cui l’uomo trasferisce sé stesso. A questo atto di estraniazione deve seguire allora un atto di riappropriazione, con il quale ciò che era stato proiettato al di fuori dell’uomo torni a ristabilirsi al suo interno, il Dio esteriore venga riconosciuto nella sua vera essenza, cioè l’umanità, e l’uomo in definitiva divenga Dio a sé stesso. La filosofia moderna (da Descartes a Hegel) ha di fatto avviato quest’opera di chiarificazione antropologica della religione, ma ha finito con il ripetere l’errore da cui voleva liberarsi, cioè si è ridotta ad essere una filosofia meramente “speculativa” che deduce la realtà fattuale e sensibile del mondo e degli uomini da un principio sovrasensibile. Con Hegel la teologia sembra avere di nuovo partita vinta rispetto alla filosofia: per questo il compito urgente che attende il pensiero posthegeliano è quello di rivendicare il primato assoluto della realtà “sensibile” come fondamento e matrice di tutte le espressioni “spirituali” dell’umanità. E difatti nell’Essenza della reli-

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gione (1845) Feuerbach assume come punto di partenza per spiegare il fenomeno religioso non più l’autocoscienza dell’uomo, ma la sua stessa natura sensibile. Riprendendo la terminologia di Schleiermacher [ vol. 2, 25.7], egli afferma ora che «il fondamento della religione» risiede nel «sentimento di dipendenza» dell’uomo, ma non più rispetto a Dio, bensì rispetto alla natura. In altri termini, l’essenza dell’umanità risiede nei suoi bisogni naturali. N on è un caso che il titolo di uno scritto feuerbachiano del 1862, dedicato alle religioni antiche suoni così: Il segreto del sacrificio, ossia l’uomo è ciò che mangia. La sensibilità di cui parla Feurbach non si limita tuttavia agli aspetti sensoriali o fisiologici dell’uomo, ma comprende per lui anche la sfera interiore dei sentimenti e quella della conoscenza delle cose e degli altri uomini. Come egli afferma nei Princìpi della filosofia dell’avvenire (1843) la forma suprema di questa sensibilità è l’“amore” – e più in particolare il rapporto tra l’io individuale e un tu individuale. Il genere umano è legato da questi interni rapporti d’amore: finora essi sono stati semplicemente proiettati nell’amore di Dio verso l’uomo e dell’uomo verso Dio; ora vanno finalmente liberati come la natura etica tutta interna all’umanità. In altri termini, bisogna strappare il concetto di amore da ogni fondamento teologico (cioè dal rapporto fra creatore e creature) e rifondare l’umanesimo su una base rigorosamente atea. 1. Nella speculazione di Feuerbach: a. il sistema hegeliano è scardinato attraverso l’analisi del rapporto fra filosofia e religione. b. l’approccio storico-filologico consente da solo di smascherare l’illusorietà del cristianesimo. c. l’essenza dell’uomo e quella di Dio sono nettamente distinte ed autonome. d. il fondamento della religione è l’antropologia.

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2. L’alienazione in Feuerbach indica propriamente: a. l’estraniazione dello spirito nella natura. b. l’autocoscienza dell’uomo. c. l’oggettivazione dell’uomo in un essere ritenuto altro da sé. d. l’opposizione fra l’essenza dell’umanità e l’uomo individuo. 3. La critica di Feuerbach alla religione determina: a. il fatto che l’uomo stesso diventi Dio. b. il rintracciare il fondamento della religione stessa nel sentimento di dipendenza umana dalla natura. c. la negazione del fondamento teologico del concetto di amore. d. la deduzione della realtà sensibile dell’uomo da un principio sovrasensibile esistente ma inconoscibile.

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3 Stirner Ancor più eversiva fu l’opposizione al pensiero idealistico hegeliano da parte di Max Stirner (pseudonimo di Johann Caspar Schmidt, Bayreuth 1806-Berlino 1856). N ella sola opera importante che egli scrisse – L’unico e la sua proprietà (1845) – Stirner si sarebbe fatto propugnatore di un individualismo anarchico persino più audace dell’ateismo antropologico-naturalistico di Feuerbach. L’“unico” e la “proprietà” si configurano rispettivamente per Stirner come la condizione negativa e la condizione positiva dell’individualità umana. La prima consiste nell’affrancamento dell’io da ogni forma di dipendenza o di sacrificio di sé: l’io deve svincolarsi sia dal suo asservimento alla causa di Dio, sia da quello alla causa dell’umanità, perché in entrambi i casi egli finisce per servire “disinteressatamente” due “grandi egoisti”. Dio si occupa “solo” della totalità del reale e non del singolo uomo; ma anche l’umanità «non vede che sé stessa», e pur di svilupparsi «poco le importa che gli individui e i popoli soccombano al suo servizio». La conclusione per Stirner è che l’“io stesso” debba essere “l’egoista” e che la sua causa non debba configurarsi né come divina né come umana o generale, ma come «unica, come sono unico io». Al «modo di vedere cristiano» – nel quale l’io non sarebbe niente più che «un fantasma», «un pensiero», «un concetto» – egli oppone «l’individuo in carne ed ossa», «Paolo e non Pietro», «il reale o l’unico». Ma anche il punto di vista del “liberalismo” umanistico va superato, in quanto esso – erede dell’«antico disprezzo dei cristiani per l’io» – si attiene «alla mia umanità» come il cristianesimo si atteneva «al mio spirito». Contro il pensiero umanistico Stirner afferma la totale inconciliabilità tra l’io e la “società umana”, giacché quest’ultima implica sempre un appiattimento delle differenze tra gli individui. La sola forma “associativa” concepibile è allora una “società degli egoisti”, che contempli un sistema di rapporti di «un io verso un tu o un voi radicalmente distinti e opposti» tra di loro. La seconda condizione con cui Stirner connota l’individualità umana è quella della “proprietà”. Prima di indicare il possesso di alcuni determinati beni, tale proprietà va intesa come un radicale autopossesso dell’io. Il fatto di possedere sé stessi

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va però differenziato dal fatto di essere liberi, perché la libertà umana – come l’ha insegnata il cristianesimo – non è mai assoluta (si può essere liberi da molte cose, ma non da tutto!) e quindi va intesa come un ideale non ancora compiuto, ma da realizzare nel futuro. Per Stirner invece l’individualità – ovvero «la mia proprietà» – «è tutta la mia essenza e la mia realtà: sono io». In altre parole, se il concetto di libertà presuppone sempre il senso della dipendenza, la proprietà si fonda esclusivamente su ciò che è in mio potere e di cui io stesso sono capace:



Come individui, voi siete realmente liberi da ogni cosa […]. L’“individuale” […] è originariamente, essenzialmente libero, perché non riconosce che sé stesso; egli non ha bisogno di rendersi libero, perché, a priori, rigetta tutto fuorché sé stesso; perché apprezza solo sé stesso: in breve, perché egli muove da sé stesso e ritorna a sé stesso. [L’unico e la sua proprietà, parte II, cap. 1]



Per rispondere dunque alla domanda “che cos’è l’uomo?” bisogna innanzitutto riformularla nella domanda “chi è l’uomo?”. Il che cosa, infatti, «significa un concetto da realizzare»; il chi è, invece, significa la persona stessa che pone la questione, di modo che colui che si interroga è la risposta stessa alla domanda che egli pone. Si motiva così la conclusione “nichilista” dell’opera: «ho riposto la mia causa nel nulla». Recisa ogni dipendenza, la causa dell’io «riposa sul suo creatore effimero e perituro [cioè l’io stesso] che da sé stesso si consuma»:



Io sono il proprietario della mia potenza; e tale divento appunto nel momento in cui acquisto la coscienza di sentirmi Unico. Nell’Unico, il possessore ritorna nel nulla creatore dal quale è uscito. Qualunque essere superiore a me, sia esso Dio o l’Uomo, deve inchinarsi davanti al sentimento della mia unicità, e impallidire al sole di questa mia coscienza. [L’unico e la sua proprietà, parte II, cap. 5]



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1. In Stirner il concetto di “unico” designa: a. la liberazione dell’io dalla dipendenza da Dio e dall’umanità. b. l’appiattimento delle differenze fra gli individui. c. la sostanziale identificazione dell’io con l’“egoista” e l’“individuo in carne ed ossa”.

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2. Secondo Stirner la proprietà: a. indica soltanto possesso di beni materiali. b. si identifica con la libertà dell’uomo. c. è innanzitutto coincidente con la capacità dell’uomo che non dipende da nulla. d. designa il fatto che l’io poggia su sé stesso.

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4 Engels e il materialismo storico-dialettico Il nome di Friedrich Engels (Barmen 1820Londra 1895) è indissolubilmente legato a quello di Karl Marx [ 2]. Lo stretto sodalizio tra i due, cominciato nel 1845, si sarebbe concluso infatti solo nel 1883 con la morte di quest’ultimo. Oltre a collaborare con Marx alla stesura di alcuni importanti scritti (tra i quali l’Ideologia tedesca del 1846 e il Manifesto del partito comunista del 1848), nonché all’onerosa opera di composizione del Capitale (vol. I, 1867) – prima garantendo al suo sodale un sostegno economico perché potesse occuparsene a tempo pieno, poi, dopo la morte di Marx, recuperan-

I socialisti utopistici L’espressione “socialismo utopistico” è stata utilizzata da Marx ed Engels per indicare quelle teorie sorte soprattutto in Francia, che vagheggiavano l’ideale di una società giusta, senza basarsi sull’analisi scientifica dei meccanismi di funzionamento economico della società borghese. Claude-Henri de Rouvroy conte di Saint-Simon (Parigi 1760-ivi 1825) concepiva lo sviluppo della società in senso organicistico secondo l’alternarsi di “età organiche” (di equilibrio tra le forze sociali) e di “età critiche” (di anarchia). Partendo dalla situazione della Francia postrivoluzionaria – considerata da lui un’età critica – Saint-Simon prefigurava l’avvento di una nuova età organica – quella della società industriale – in cui agissero di concerto scienziati e industriali: i primi in qualità di studiosi delle leggi di sviluppo dell’organismo sociale, i secondi (comprendenti tutti i produttori, cioè i coltivatori, i commercianti e i fabbricanti) con la mansione di organizzare e dirigere l’intero complesso delle attività produttive. Per Saint-Simon la pace e la

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done gli appunti e pubblicando un secondo (1885) ed un terzo (1894) volume dell’opera – Engels fu anche colui che consentì un’effettiva divulgazione degli aspetti scientifici e filosofici della critica marxiana dell’economia politica. Lettore entusiasta della Vita di Gesù di Strauss [ 1.1], anch’egli aderì al movimento dei giovani hegeliani facendosi sostenitore dell’incompatibilità tra la rivelazione e la filosofia (nello scritto Schelling e la rivelazione, del 1842). Tuttavia solo per il tramite dell’Essenza del cristianesimo di Feuerbach [ 1.2] sarebbe maturato quel passaggio dall’idealismo al materialismo che fu caratteristico del suo pensiero. In Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1888) Engels riconosce la portata rivoluzionaria dell’ateismo antropologico feuerbachiano, affermando che esso, in un colpo solo aveva «rimesso sul trono senza preamboli il materialismo». Questo significava che «la natura esiste indipendentemente da ogni filosofia», che «essa è la base sulla quale siamo cresciuti noi uomini, che siamo pure prodotti della natura», che «oltre alla natura e agli uomini, non esiste nulla, e gli esseri più elevati creati dalla nostra fantasia religiosa sono soltanto il riflesso fantastico del nostro proprio essere». In breve, con

tranquillità sociale coincidono con una perfetta razionalità produttiva, e la stessa attività politica va riassorbita dalla “scienza della produzione”. Il pensiero di SaintSimon avrebbe in seguito subìto un’inflessione religiosa approdando ad una vera e propria forma di “socialismo umanitario”, ispirato al valore della fratellanza cristiana e sviluppato come una morale sociale intesa come miglioramento dell’«esistenza fisica e morale delle classi più povere». Questa visione progressiva dell’ordine sociale, quale emerge per esempio dal Catechismo degli industriali (1823-1824), assume in Saint-Simon i toni di una vera e propria filosofia della storia, in cui si prepara il passaggio definitivo dal sistema teologico-militare, basato sul primato dell’aristocrazia, a quello industriale, perfettamente coerente con l’andamento progressivo dello sviluppo scientifico. Sarà SaintSimon a parlare per primo del pensiero dell’epoca industriale nei termini di una “filosofia positiva”: un’idea che sarà poi ripresa da Comte [ 7.2] e dai positivisti [ 6]. Anche François-Marie-Charles Fourier  p. 10

Feuerbach, l’«incanto era rotto; il “sistema” era spezzato e gettato in un canto; la contraddizione [tra l’ideale e il reale] era rimossa, in quanto esistente soltanto nell’immaginazione» [Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, I]. Ciononostante, a parere di Engels, Feuerbach non avrebbe compiuto sino in fondo il passo di un effettivo superamento dell’idealismo: proprio lui che «predica ad ogni pagina la supremazia dei sensi, l’immersione nel concreto, nella realtà, diventa poi completamente astratto non appena comincia a parlare del rapporto tra gli uomini» [Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, III]. Il passo non compiuto da Feuerbach potrà essere compiuto solo con Marx, il quale interpreta decisamente la dialettica hegeliana come il movimento reale della natura e della storia, e al tempo stesso sostituisce il «culto dell’uomo astratto» di Feuerbach con la «scienza dell’uomo reale» e la «sua evoluzione storica» in senso materialistico. L’uomo stesso, afferma Engels, va inteso essenzialmente come «un prodotto degli uomini, della cultura, della storia», che può essere spiegato solo in riferimento alla situazione economica di un’epoca. Feuerbach, dunque, è solo “l’anello intermedio” tra la dialettica hegeliana e il materialismo storico di Marx. Prende corpo di qui l’idea che l’evoluzione storico-economica degli uomini reali vada non solo analizzata, ma orientata e costruita in direzione del “socialismo”. Engels è stato il principale teorico di quello che egli stesso ha definito la concezione “scientifica” del socialismo, per contrapporla a quella “utopica”. Come scrive nell’AntiDühring (un’opera del 1878 in cui polemizza con il filosofo positivista Karl Eugen Dühring), di fronte ad un socialismo inteso come «espressione dell’assoluta verità, dell’assoluta ragione, dell’assoluta giustizia», bisogna «fare del socialismo una scienza», non basandolo più su princìpi astratti, indipendenti dal tempo e dallo spazio, ma su quello sviluppo dialettico dei rapporti economici che costituisce la base sia delle istituzioni sociali, politiche e giuridiche, sia delle rappresentazioni religiose e filosofiche dell’uomo. Questa idea verrà sviluppata nello scritto del 1880 sull’Evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, diretto contro i cosiddetti “socialisti utopistici” e anarchici, quali Saint-Simon, Fourier e Proudhon [ I socialisti utopistici].

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Come Engels afferma insieme a Marx nel Manifesto del partito comunista (1833), «la produzione economica e la struttura sociale che necessariamente ne deriva formano, in qualunque epoca storica, la base della storia politica e intellettuale dell’epoca stessa» [Manifesto del partito comunista, Prefazione all’ed. tedesca, 1833}: un principio, questo, sul quale si basa il cosiddetto “materialismo storico” o “concezione materialistica della storia”. L’apporto specifico di Engels consisterà invece nel formulare la legge di sviluppo del processo storico e sociale, ricavandola direttamente dall’evoluzione della natura. Si tratta della legge del “materialismo dialettico”:



sulla Dialettica della natura, pubblicato postumo, codifica tre leggi: 1. «la legge della conversione della quantità in qualità e viceversa» (vale a dire: un cambiamento qualitativo comporta sempre un cambiamento quantitativo, ovvero l’aggiunta di materia e movimento); 2. «la legge della compenetrazione degli opposti» (vale a dire: in natura l’opposizione dei poli implica sempre la loro unità, e l’unità implica l’opposizione, e questo permette di spiegare l’origine del moto senza ricorrere ad un “primo motore”); 3. «la legge della negazione della negazione» (vale a dire: in natura la negazione non è mai un semplice annullamento, ma implica che quanto è negato venga innalzato ad un livello superiore).

nella natura sono operanti, nell’intrico degli innumerevoli cambiamenti, quelle stesse leggi dialettiche del movimento che anche nella storia dominano l’apparente accidentalità degli avvenimenti; quelle stesse leggi che, costituendo del pari il filo conduttore della storia dello sviluppo del pensiero umano, diventano gradu (Besançon 1772-Parigi 1837) almente note agli uomini che pensaera convinto che l’esperienza rivoluzionaria francese si fosse limitata a distruggere l’assetto no; leggi che per la prima volta fusociale precedente, senza ancora realizzare l’alternativa di rono sviluppate da Hegel in mauna società realmente giusta. Egli credeva che questo passaggio niera comprensiva, ma in for«dal caos all’armonia» dipendesse dal modo in cui si combinano tra di ma mistificata, e che è stato loro, all’interno della società, le passioni degli uomini. La società funziona uno dei nostri intenti libese le passioni non vengono mortificate: di qui l’aspra critica nei confronti degli rare da questa forma mistiaspetti più repressivi della società moderna, quali il carattere coercitivo ed alieca e rendere chiaramente nante del lavoro, il dispotismo patriarcale all’interno della famiglia e la soggezione comprensibili in tutta la della donna. Ma bisogna anche che queste passioni trovino il loro ideale contesto di loro semplicità e uni- sviluppo, in quelli che Fourier chiama i “falansteri”: si tratta di gruppi compatti di circa versale validità. […] 2000 persone alla volta – tra la comunità monastica e la falange militare – accomunate Non poteva trattarsi di dalle stesse passioni e inclinazioni, che formano un’unità produttiva omogenea. costruire le leggi dia- Sostituendo al patriarcato l’eguaglianza e al lavoro coatto la valorizzazione delle attitudini lettiche introducen- di ciascuno, il falansterio costituisce per Fourier la condizione per realizzare la felicità sociadole nella natura, ma le. Si deve infine ricordare il sociologo ed economista Pierre-Joseph Proudhon (Besançon di rintracciarle in es- 1809-Passy 1865), fautore di un socialismo di tipo “anarchico”. La sua analisi del sistema sa e di svilupparle da capitalistico muove dalla critica della proprietà privata intesa come “furto”, dovuto al fatto che i mezzi di produzione sono concentrati nelle mani di pochi, mentre i lavoratori sono essa. sfruttati ed esclusi da un’equa partecipazione ai frutti del loro stesso lavoro. Il passag[Anti-Dühring, Prefaziogio che si deve operare, secondo Proudhon, è quello dalla proprietà al legittimo posne alla 2a ed., 1885] sesso del frutto del lavoro. Questo programma però non va realizzato in maniera



semplicemente collettivista, mortificante per la libertà individuale, ma nel

La natura dunque non senso di un’“anarchia positiva”, intesa come il rifiuto di ogni forma di accencostituisce più, come nel tramento economico e politico e l’istituzione di un assetto sociale di stampo mutualista e federalista. La società propugnata da sistema hegeliano, la mera Proudhon è composta da un insieme di comunità autonome negazione dell’idea, e cioè un entro le quali l’espressione della libertà dell’indivimomento interno della dialettica duo si armonizza con una condizione di speculativa; al contrario, la dialettica è egualitarismo. la legge interna dell’evoluzione della natura. A questo proposito Engels, nello scritto

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Destra e sinistra hegeliana capitolo 1

SINTESI CAPITOLO 1

Queste tre leggi – già individuate da Hegel «come pure leggi del pensiero» – sono per Engels le tre leggi più generali dell’evoluzione della natura, della storia e del pensiero. Se ci si chiede infatti da dove traggano origine il pensiero e la coscienza, si trova che essi «sono prodotti del cervello umano e che l’uomo stesso è un prodotto della natura, sviluppatosi col e nel suo ambiente; da ciò si intende allora senz’altro che i prodotti del cervello umano, i quali in ultima istanza sono anch’essi prodotti naturali, non contraddicono il restante nesso della natura, ma invece vi corrispondono» [Anti-Dühring, Prima sezione, III]. “Destra” e “sinistra” hegeliana: il caso Strauss. Negli anni successivi alla morte di Hegel (1831) i suoi seguaci ed epigoni si dividono e si contrappongono polemicamente in due distinte correnti: la “destra” conservatrice dei vecchi hegeliani e la “sinistra” progressista dei giovani hegeliani. Il fronte della battaglia è rappresentato dal problema del rapporto tra l’hegelismo ed il cristianesimo: la destra si sforza di dimostrarne la conciliabilità; la sinistra, al contrario, cerca di accentuarne le differenze specifiche. La controversia religiosa si traduce, più tardi, in termini politici: la destra, incline ad una pacificata apologia dell’esistente, tende a vedere nello Stato prussiano un’incarnazione della ragione universale; la sinistra si caratterizza per una posizione meno giustificazionista nei confronti dell’autorità costituita. I più importanti esponenti della destra hegeliana sono Karl Friedrich Göschel (1784-1862), Kasimir Conradi (1784-1849) e Georg Andreas Gabler (1786-1853), tutti convinti sostenitori della conciliazione assoluta tra fede e ragione. Bruno Bauer (1809-1882) invece, da militante della destra, si converte alla causa dei giovani hegeliani, giungendo a dichiarare la totale inconciliabilità tra hegelismo e religione. Uno dei giovani hegeliani impegnato ad estendere la critica dalle questioni teologiche a quelle socio-politiche è Arnold Ruge (1802-1880), che nel 1838 insieme a Ernst Theodor Echtermeyer (1805-1844) fonda gli «Annali di Halle», divenuti presto l’organo della sinistra in risposta agli «Annali berlinesi» della destra. David Friedrich

1. Per Engels il limite di Feuerbach consiste: a. nell’aver ridotto la realtà alla sola natura e materia. b. nel non essere riuscito a superare l’idealismo di Hegel. c. nell’aver affermato l’assoluta priorità dei sensi e del concreto sulla filosofia. d. nel non aver concepito l’uomo stesso come un prodotto storico-economico. 2. A Engels si può attribuire in modo specifico: a. la teorizzazione del cosiddetto socialismo scientifico. b. un ulteriore impulso allo sviluppo del socialismo utopistico dopo Proudhon. c. la teorizzazione della concezione materialistica della storia. d. la formulazione, ricavata dall’evoluzione della natura, della legge di sviluppo storico e sociale.

V F V F V F V F

Strauss (1808-1874), con la sua Vita di Gesù (1835), nega l’assolutezza della religione cristiana e si serve della filosofia come strumento per discernere ciò che del cristianesimo deve essere accettato e ciò che invece deve essere rifiutato. Pur riconoscendo la storicità della figura di Gesù, Strauss distingue il dato storico dalla componente immaginifica presente nel N uovo Testamento, declassando il contenuto di fede a semplice mito.

sizione tra il divino e l’umano è illusoria, in modo che l’uomo divenga Dio a sé stesso. N ell’Essenza della religione (1845) Feuerbach afferma che il fondamento della religione risiede nel sentimento di dipendenza dell’uomo, non più rispetto a Dio, bensì rispetto alla natura e che l’essenza dell’umanità risiede nei suoi bisogni naturali. Nei Princìpi della filosofia dell’avvenire (1843) egli rifonda l’umanesimo su una base rigorosamente atea.

Feuerbach. Il protagonista del passaggio dal progetto critico della sinistra hegeliana ad un vero e proprio rovesciamento filosofico del sistema di Hegel è Ludwig Andreas Feuerbach (1804-1872), il quale individua nell’uomo e non nello “spirito” l’oggetto principale della filosofia. N ell’Essenza del cristianesimo (1841) Feuerbach afferma che Dio non è un’essenza distinta e trascendente rispetto all’essenza umana, ma è tutt’uno con quest’ultima: gli stessi uomini producono l’idea di un essere altro da sé, sussistente e autonomo, sul quale proiettano le qualità umane purificate dalle limitazioni e rese assolute e infinite. Il fondamento della teologia è dunque nell’antropologia e nella dialettica tra l’individuo e il genere, il singolo uomo e l’umanità. Di conseguenza per Feuerbach Dio è solo la personificazione dell’uomo in quanto genere. Il concetto hegeliano di alienazione risulta dunque rovesciato: esso non indica più l’oggettivazione dello “spirito assoluto”, ma l’estraniazione dell’uomo in Dio, dovuta a uno sdoppiamento dell’uomo in sé stesso. Compito della filosofia è dimostrare che l’oppo-

Stirner. Max Stirner (1806-1856) nell’opera L’unico e la sua proprietà (1845) propugna un individualismo anarchico più audace dell’ateismo antropologico-naturalistico di Feuerbach. L’“unico” consiste nell’affrancamento dell’io da ogni forma di dipendenza o di sacrificio di sé: l’io deve svincolarsi sia dal suo asservimento alla causa di Dio, sia da quello alla causa dell’umanità. L’“io stesso” deve essere “l’egoista” e la sua causa deve configurarsi come “unica”. La “proprietà” va intesa come un radicale autopossesso dell’io che non coincide con la libertà umana, che non è mai assoluta, ma con ciò che è in potere dell’io e di cui l’io stesso è capace. Così la causa dell’io «riposa sul suo creatore effimero e perituro [cioè l’io stesso] che da sé stesso si consuma»: questo l’esito nichilista di Stirner. Engels e il materialismo storicodialettico. Friedrich Engels (18201895), oltre a collaborare con Marx alla stesura di alcuni importanti scritti, ha contribuito alla divulgazione degli aspetti scientifici e filosofici della critica marxiana dell’economia politica.

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parte I La filosofia dell’Ottocento

SINTESI CAPITOLO 1

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Lettore di Strauss e di Feuerbach ed esponente del movimento dei giovani hegeliani, nell’opera Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1888) Engels matura il passaggio dall’idealismo al materialismo. Insieme a Marx, Engels interpreta la dialettica hegeliana come il movimento reale della natura e della storia, e al tempo stesso sostituisce il

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«culto dell’uomo astratto» di Feuerbach con la «scienza dell’uomo reale» e la «sua evoluzione storica» in senso materialistico. Inoltre Engels è stato il principale teorico della concezione “scientifica” del socialismo, contrapposta a quella “utopica”. L’apporto specifico di Engels risiede nella formulazione della legge di sviluppo del processo storico e sociale, ricavata dal-

l’evoluzione della natura (materialismo dialettico). N ello scritto sulla Dialettica della natura Engels codifica le tre leggi generali dell’evoluzione della natura, della storia e del pensiero: 1. «la legge della conversione della quantità in qualità e viceversa»; 2. «la legge della compenetrazione degli opposti»; 3. «la legge della negazione della negazione».

Per un approfondimento critico sulla Vita di Gesù di D.F. Strauss si possono vedere: U. Regina, David Friedrich Strauss. L’interpretazione mitologica della vita di Gesù, in S. Zucal (a cura di), Cristo nella filosofia contemporanea, vol. I: Da Kant a Nietzsche, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, pp. 253-294; A. Schweitzer, Storia della ricerca sulla vita di Gesù, trad. di F. Coppellotti, Paideia, Brescia 1986.

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C. Luporini, trad. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1993, K. Marx - F. Engels, La Sacra Famiglia. Ovvero critica della critica contro Bruno Bauer e Soci, trad. di A. Zanardo, Editori Riuniti, Roma 1972. F. Engels, Sulle origini del cristianesimo, trad. di A. Donini, Editori Riuniti, Roma 2000. F. Engels, L’origine della famiglia della proprietà privata e dello Stato, a cura di F. Codino, trad. di D. Della Terza, Editori Riuniti, Roma 2005. F. Engels, Il socialismo dall’utopia alla scienza, trad. di A. Giardiello, Ac Editoriale, Milano 2006. F. Engels, Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, trad. di G. Sgrò, La Città del Sole, Napoli 2008. P.-J. Proudhon, Che cos’è la proprietà?, trad. di U. Cerroni, Laterza, Roma-Bari 1978. C. Fourier, L’armonia universale, trad. di M. Larizza, Editori Riuniti, Roma 1978. C.H. de Saint-Simon, Introduzione ai lavori scientifici del secolo XIX. E altri scritti del periodo napoleonico, trad. di C. D’Amato, Olschki, Firenze 2005. C.H. de Saint-Simon, Nuovo cristianesimo, a cura di G.M. Bravo, Editori Riuniti, Roma 1968.

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Per una messa a fuoco del pensiero di F. Engels come interprete e divulgatore della filosofia di Marx si veda: G. Meyer, Friedrich Engels, trad. di A. Cagnacci, Einaudi, Torino 1969.

Studi critici

Per quel che riguarda il materialismo storico-dialettico, si possono consultare: E. Fiorani, Friedrich Engels e il materialismo dialettico, Feltrinelli, Milano 1971; R. Mondolfo, Il materialismo storico in Federico Engels, La Nuova Italia, Firenze 1973; A. Ponzio, Dialettica e verità: scienza e materialismo storico-dialettico, Dedalo, Bari 1975.

BIBLIOGRAFIA Fonti La citazione dalla Vita di Gesù di D.F. Strauss è tratta dal volume: E. Rambaldi, Le origini della sinistra hegeliana, La Nuova Italia, Firenze 1966. L.A. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, trad. di F. Tomasoni, Laterza, Roma-Bari 20074. L.A. Feuerbach, Essenza della religione, trad. di C. Ascheri e C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 2006. M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, trad. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1999. F. Engels, Anti-Düring. Dialettica della natura, a cura di F. Codino, trad. di G. De Caria, L. Lombardo Radice e F. Codino, in K. Marx F. Engels, Opere, Editori Riuniti, Roma 1974. Le altre citazioni da Engels e Marx sono tratte dall’antologia: N. Merker (a cura di), La concezione materialistica della storia, Editori Riuniti, Roma 1998.

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Opere

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L.A. Feuerbach, Spiritualismo e materialismo, trad. di F. Andolfi, Laterza, Roma-Bari 1993. L.A. Feuerbach, La filosofia dell’avvenire, trad. di L. Casini, Laterza, Roma-Bari 1994. L.A. Feuerbach, Pensieri sulla morte e l’immortalità, trad. di F. Bazzani, Editori Riuniti, Roma 1997. K. Marx - F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, a cura di B. Bongiovanni, trad. di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 2005. K. Marx - F. Engels, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti, a cura di

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Per una visione d’insieme sulla sinistra hegeliana, oltre al testo di E. Rambaldi citato nella sezione “Opere”, si può vedere: C. Cesa, Studi sulla sinistra hegeliana, Argalia, Urbino 1972.

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Una ricostruzione del posthegelismo nella più ampia traiettoria della filosofia dell’Ottocento è offerta da: K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino 2000.

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Per inquadrare complessivamente il pensiero di Feuerbach si consiglia: C. Cesa, Introduzione a Feuerbach, Laterza, Roma-Bari 20035.

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Sul nesso ateismo-umanesimo in Feuerbach si veda: H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 1979, in particolare il cap. I: Feuerbach e Nietzsche.

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Sull’individualismo di M. Stirner si possono leggere: Max Stirner e l’individualismo moderno, Cuen, Napoli 1996; G. Penzo, Invito al pensiero di Max Stirner, Mursia, Milano 1996.

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ESERCIZI

Destra e sinistra hegeliana capitolo 1 1. Completa lo schema seguente specificando quale posizione assunsero gli esponenti della “destra” e della “sinistra” hegeliana in materia religiosa e politica. Destra

Sinistra

Controversia religiosa

............................. ............................. ............................. .............................

............................. ............................. ............................. .............................

Controversia politica

............................. ............................. ............................. .............................

............................. ............................. ............................. .............................

6. Illustra il significato che il concetto hegeliano di alienazione assume nella riflessione filosofica di Feuerbach (max 5 righe). 7. Spiega perché per Feuerbach la religione rappresenta l’infanzia dell’umanità (max 5 righe). 8.Qual è per Feuerbach il compito della filosofia? (max 3 righe). 9. Nel tempo Feuerbach matura una nuova spiegazione del fenomeno religioso. Illustra questo passaggio, utilizzando i seguenti concetti: essenza umana, essenza divina, bisogni naturali, natura sensibile, sentimento di dipendenza, genere, individuo (max 10 righe).

2. Illustra l’avvenimento che ha determinato la spaccatura all’interno della scuola hegeliana (max 8 righe).

10. Perché Stirner definisce sia Dio che l’umanità due “grandi egoisti”? (max 5 righe)

3. Nello scritto Per la critica della filosofia hegeliana quale posizione Feuerbach matura rispetto ad Hegel? (max 3 righe)

11. Qual è il fondamento dell’io per Stirner? (max 5 righe)

4. Esplicita la differenza fra la critica di Strauss alla religione cristiana rispetto a quella di Feuerbach (max 8 righe). 5. Chiarisci il senso dell’affermazione di Feuerbach: «L’essenza divina non è altro che l’essenza umana». Come si produce la separazione tra l’essenza umana e quella divina? (max 8 righe)

12. Qual è agli occhi di Engels il limite dell’ateismo antropologico di Feuerbach? (max 5 righe) 13. Che cosa intende Engels con le espressioni “materialismo storico” e “materialismo dialettico”? (max 8 righe)

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capitolo 2

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1 L’analisi economica e l’attesa della liberazione Marx è un nome che dice certamente di più del filosofo che lo portava: esso indica uno dei fattori filosofici, economici e politici più rilevanti – e insieme più drammatici – di una storia iniziata alla fine dell’Ottocento e proseguita per tutto il N ovecento sotto il titolo di “comunismo”. Comunque si voglia giudicare l’effettiva applicazione storica delle idee marxiane – come una realizzazione degli intenti iniziali del suo autore oppure come un tradimento – è a lui però che bisogna tornare per ritrovare le intuizioni fondamentali che hanno segnato direttamente o indirettamente le vicende mondiali per più di un secolo. Anzi, a ben vedere, è proprio l’ambiguità del fenomeno storico-politico che si è ispirato a Marx, in cui l’anelito alla libertà individuale e all’uguaglianza sociale si è spesso intrecciato con una concezione totalitaria del potere, che ci suggerisce di leggere questo autore con un’attenzione tutta particolare, anche per capire quello che è successo (o che non è successo) dopo di lui. E questo non per giudicare il

prima con il dopo, ma per attenersi allo stesso metodo di Marx, secondo cui il pensiero dev’essere valutato criticamente dagli effetti che produce e dall’incidenza storica che ha esercitato. Quella che metteremo a fuoco in questo capitolo è soprattutto l’immagine di Marx come filosofo, ben sapendo che per lui il pensiero filosofico costituisce la forma “pensata” della prassi storica e sociale degli uomini. In effetti, non si potrebbe comprendere l’apporto di Marx alla riflessione politica ed economica se non si partisse dalla paternità hegeliana del suo pensiero: una paternità dalla quale egli ha cercato per tutta la vita di emanciparsi, e dalla quale ha attinto alcune delle sue intuizioni fondamentali, a partire da quel metodo dialettico che egli ha cercato di rielaborare in senso storico-materialistico. Da questo punto di vista si può dire che il cuore della riflessione marxiana risieda propriamente in un “parricidio mancato”, cioè in un rapporto non del tutto risolto con Hegel. N on si può scordare poi che il pensiero di Marx si è sviluppato anche attraverso altri confronti decisivi, con i “giovani filosofi” tedeschi della sinistra hegeliana, con i socialisti utopisti-

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ci francesi e con gli economisti classici inglesi. Si tratta di tre tendenze che trovano in Marx un punto originale di incrocio: gli ideali egualitaristici del socialismo utopistico si trasformano, grazie all’analisi economica, in una vera e propria scienza della politica; la critica alla religione e la filosofia dell’“umanità” divengono, grazie a una visione storicamente determinata della natura umana, veri e propri fattori di emancipazione sociale; e l’economia politica, una scienza nata come interpretazione delle leggi strutturali del sistema capitalistico-borghese, viene rielaborata come lo strumento teorico principale per la rivoluzione comunista. Proprio la coesistenza di queste diverse tendenze ha fatto sì che nel corso del N ovecento Marx sia stato interpretato ora come l’appassionato ideologo della rivoluzione, ora come un freddo analista della struttura economica del capitalismo. Un Marx “umanista” è spesso stato contrapposto ad un altro Marx “scienziato”. E tra i due si è tentato di individuare di volta in volta fratture o continuità. A noi sembra che questi due volti non vadano separati, e neanche semplicemente distinti in senso cronologico, proprio perché la cifra peculiare di Marx sta nella loro strettissima coappartenenza; e tolto uno di essi, non si capirebbe la sua intera, inconfondibile fisionomia. Forse però c’è un fattore che può aiutarci a comprendere tale fisionomia, ed è la cultura ebraica di provenienza di Marx: una cultura che in lui è totalmente secolarizzata, ma non per

L’economia politica “Economia politica”, a partire da Adam Smith [ vol. 2, 18.5.2], è la scienza che ha per oggetto la “ricchezza delle nazioni”, cioè le leggi della sua formazione, e quindi le sue cause e i suoi effetti. Marx non proporrà mai nei suoi scritti una semplice economia politica, ma una “critica dell’economia politica”, nell’intento di riformulare in senso storico le categorie che gli economisti classici intendevano come strutture fisse di un ordine sociale non modificabile nella sua natura di fondo.

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questo è meno presente nei termini di una prospettiva messianica in cui si instauri il “regno dell’uomo”, liberato dalla maledizione del lavoro e riconciliato con la sua stessa natura, che egli rischia sempre di perdere nell’oppressione economica della società. Ma l’avvento di questo regno può essere preparato solo dalla scienza, la quale è chiamata a individuare precisamente le contraddizioni materiali del mondo e a presentare la rivoluzione come la legge necessaria della storia. 1. In generale, il pensiero di Marx: a. si caratterizza per un netto superamento dei guadagni principali del pensiero di Hegel. V b. rifiuta nettamente l’economia classica inglese. V c. nasce dal confronto e dalla rielaborazione originale dell’economia classica, del socialismo utopistico e della sinistra hegeliana. V d. è profondamente segnato dalla secolarizzazione V della cultura ebraica.

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2 Un filosofo rivoluzionario Karl Marx nasce a Treviri, in Renania, il 5 maggio 1818 da una famiglia ebraica: il padre, avvocato e procuratore generale, aveva abbracciato il luteranesimo per fuggire alle misure antisemite del governo prussiano e poter esercitare le professioni liberali. N el 1835 Karl si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bonn – dove entra subito in contatto con le corporazioni studentesche – anteponendo tuttavia al diritto gli studi filosofici e letterari, sotto la guida di Wilhelm August Schlegel. Nel 1836 prosegue gli studi a Berlino con Friedrich Carl von Savigny e Eduard Gans, sostenitori di due concezioni radicalmente differenti del diritto: il primo, storico conservatore, considerava il diritto una creazione dell’“anima popolare”; il secondo, hegeliano e liberale, lo considerava invece un prodotto dello sviluppo dialettico dell’“idea”. In questo contesto Marx matura il progetto di scrivere una filosofia del diritto, ma avverte subito l’esigenza di un radicamento filosofico: si

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parte I La filosofia dell’Ottocento

accosta pertanto alle opere di Hegel, orientandosi decisamente verso l’interpretazione di sinistra e frequentando anche un circolo berlinese di giovani hegeliani, che passa da una posizione liberale a una posizione giacobina, assumendo il nome di “Amici del popolo”. N el 1841 Marx si laurea a Jena con una tesi sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro, che già evidenzia una delle preoccupazioni dominanti del suo pensiero, quella cioè di combattere ogni forma di idealismo. Tuttavia, a causa della politica reazionaria del governo prussiano – che per esempio aveva esonerato dalla docenza il suo amico Bruno Bauer [ 1.1] – Marx rinuncia alla carriera universitaria per dedicarsi al giornalismo politico: nel 1842 assume la redazione della «Gazzetta renana» – giornale finanziato dalla

Rappresentazione allegorica di Marx Rappresentazione allegorica di Karl Marx in cui viene raffigurato come un novello Prometeo. L’illustrazione risale probabilmente al 1843, quando venne sospesa la pubblicazione della «Gazzetta renana». L’aquila prussiana, intenta a divorargli il fegato, è tenuta per un filo da uno scoiattolo (in tedesco Eichhörnchen), per i lettori dell’epoca una chiara l’allusione al ministro prussiano Johann Eichhorn.

borghesia liberale e gestito da Moses Hess, ebreo e comunista, soprannominato il “rabbino rosso” – che però dopo solo un anno viene interdetto dal governo prussiano per diffamazione delle autorità. Sposatosi nel frattempo con Jenny von Westphalen, Marx decide di trasferirsi a Parigi. Qui collabora agli «Annali franco-tedeschi», di Arnold Ruge [ 1.1], pubblicando nel 1844 due saggi importanti: Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione e La questione ebraica. A Parigi Marx entra in contatto con il circolo socialista della “Lega dei giusti” e con alcune personalità di rilievo, quali Proudhon [ I socialisti utopistici, pp. 8-10] ed Engels [ 1.4], che lo porteranno a radicalizzare la sua visione filosofica e politica. Occupatosi più sistematicamente di economia politica, egli redige una serie di serrate riflessioni che saranno pubblicate postume nel 1932 con il titolo di Manoscritti economico-filosofici del 1844. Assieme ad Engels scrive La sacra famiglia (1845) prendendo le distanze da Bauer e per suo tramite dalla sinistra di ispirazione hegeliana. Cacciato dalla Francia per la sua collaborazione al giornale dei socialisti tedeschi stampato a Parigi, si trasferisce a Bruxelles, dove scrive sempre con Engels L’ideologia tedesca (pubblicata postuma nel 1932), prendendo di mira ancora la filosofia posthegeliana di Feuerbach, Bauer e Stirner, e nel 1847 pubblica la Miseria della filosofia, in risposta polemica alla “filosofia della miseria” di Proudhon. N ascono intanto i primi comitati di corrispondenza tra i comunisti tedeschi, francesi e inglesi e la stessa Lega dei giusti, riorganizzata come Lega comunista, affida a Marx ed Engels la redazione del Manifesto del partito comunista, diffuso anonimo nel 1848, mentre divampano focolai rivoluzionari in Francia e in Germania. Ben presto anche Bruxelles diventa un luogo difficile per Marx, che si trasferisce nuovamente a Parigi, di qui a Colonia (dove fonda la «N uova Gazzetta renana») e poi ancora a Parigi, dove, a seguito del fallimento dei moti popolari del 1848-49, sarà colpito dai provvedimenti del governo contro le figure più in vista delle leghe comuniste. Per questo motivo riparerà a Londra insieme ad Engels, e nella capitale inglese vivrà per tutto il resto della vita.

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Karl Marx capitolo 2

N el 1850 Marx pubblica tre saggi, raccolti poi in un unico volume dal titolo Le lotte di classe in Francia, nei quali prende in esame il significato dei moti del 1848. Si dedica, inoltre, alla riorganizzazione della Lega comunista, e fonda insieme a Louis-Auguste Blanqui la Società universale dei comunisti rivoluzionari, il cui scopo dichiarato è l’abolizione delle classi privilegiate, la dittatura del proletariato e la realizzazione del comunismo. Tuttavia, a motivo di spaccature interne, la Lega si estingue presto. Da questo momento Marx inizia a condurre una vita più ritirata: dal 1851 lavora al British Museum mentre la sua famiglia versa in condizioni di povertà (sarà aiutato economicamente dall’amico Engels). Tra il 1852 e il 1853 pubblica sulla «N ew York Tribune» articoli quali Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte e le Rivelazioni sul processo dei comunisti a Colonia. Nel 1864 Marx redige gli Statuti e l’Indirizzo inaugurale della nascente Associazione internazionale del lavoratori (la cosiddetta “Prima Internazionale”): si tratta dell’ultimo grande progetto di organizzazione della classe lavoratrice, che si dissolve nuovamente a causa di contrasti interni. Nel frattempo Marx non smette di indagare la situazione economica a livello mondiale, considerandola all’interno di un più vasto quadro di critica dell’economia politica: al 1857-58 risalgono gli importanti manoscritti che saranno pubblicati tra il 1939 e il 1941 con il titolo di Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica; nel 1859 pubblica Per la critica dell’economia politica e nel 1867 appare il primo libro della sua opera economica più rilevante, Il capitale, di cui Engels curerà, postumi, il secondo e il terzo volume (1885 e 1894), e che nel piano originale doveva essere completato dal testo sulle Teorie sul plusvalore, redatto da Marx tra il 1862 e il 1863 ma pubblicato solo nel 1905. Nel 1875 Marx redige gli Appunti sul libro di Bakunin «Stato e anarchia» e la Critica del Programma di Gotha, ovvero il documento con cui, in un congresso svoltosi nella cittadina della Turingia, si unirono nel Partito operaio socialdemocratico tedesco la corrente lassalliana e quella più oltranzista di Liebknecht e Bebel. Marx si spegne a Londra il 14 marzo 1883, due anni dopo aver perso la moglie.

3 Con Hegel contro Hegel: la dialettica in questione È già nello scritto del 1844 dedicato alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, che emerge – anche se ancora a livello frammentario – la struttura filosofica fondamentale del pensiero di Marx. In esso egli si impegna in una serrata interpretazione di quei paragrafi dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, contenenti la dottrina dello Stato, contestando alla radice il metodo hegeliano, e cioè quello di trascendere il mondo concreto, ossia la realtà materiale e storica, presentandola come una sostanza astratta e puramente ideale. In altri termini, Hegel non fa semplicemente dipendere la realtà dall’idea, subordinando la prima alla seconda, ma al contrario assume la realtà determinata dello Stato prussiano come pura e assoluta “idea di Stato”. Secondo Marx invece, una volta messa in luce la genesi storicamente determinata di questa idea, si devono sottoporre ad analisi critica le condizioni storiche da cui essa deriva, sino alla formulazione di una nuova, diversa idea di società e di Stato. Si vede chiaramente sin da questi primi passi quello che sarà un tratto tipico di tutto il pensiero marxiano, vale a dire il nesso indistricabile fra le teorie filosofiche e gli assetti economici, politici e giuridici della società. Si tratta di un principio che era già chiaramente affermato nel sistema hegeliano – incentrato sulla compenetrazione di realtà e razionalità – ma ora Marx vuole ribaltarlo, correggendo quello che gli sembra un vero e proprio errore logico da parte di Hegel. Quest’ultimo avrebbe elevato infatti l’idea o spirito infinito a soggetto reale (ovvero a sostanza) degradando invece la realtà finita a mero prodotto accidentale della sostanza (ovvero ad un suo predicato). Così per Hegel ciò che è propriamente “reale” è solo l’idea, cioè appunto una realtà spirituale che si divide al suo interno in due momenti puramente “ideali” (cioè, nel lessico hegeliano, limitati e finiti) vale a dire la famiglia e la società civile. Di modo che – come Marx rileva – «il rapporto reale della famiglia e della società civile con lo Stato è inteso come attività interna e immaginaria dello Stato» [Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, sul § 261]. La critica di Marx a quello che egli chiama il “misticismo logico” hegeliano riprende la critica di Feuerbach, che imputava a Hegel lo stesso

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errore della teologia, cioè ridurre le determinazioni finite della realtà a predicati dell’infinito. Applicando questa critica alla dottrina politica, Marx sostiene che lo Stato hegeliano è appunto il soggetto assoluto, dal quale discendono le persone reali come predicati, e la sua stessa sovranità resta una proprietà astratta e indipendente dall’“esistenza empirica”. Ma il distacco da Hegel non deve impedire di riconoscere il ruolo fondamentale svolto nel pensiero di Marx dal principio hegeliano della dialettica – e cioè di una vera e propria legge dell’opposizione – come unico strumento fecondo per avanzare nella conoscenza delle determinazioni della realtà. Un principio che Marx fa valere però da subito contro lo stesso Hegel. Così, a proposito della “separazione” hegeliana fra la società civile e lo Stato, quello che Marx contesta è il fatto di assumerla come un «momento necessario dell’idea» o come una «verità razionale assoluta»; per il resto essa possiede ai suoi occhi una straordinaria forza esplicativa della trasformazione del tessuto socio-economico prodottasi in età moderna, cioè nella società borghese. Considerare in termini dialettici la separazione di società civile e Stato permette di comprendere la nascita del mondo borghese moderno. Se il Medioevo era caratterizzato da una sostanziale continuità fra classi sociali e classi politiche, cioè tra le determinazioni economiche della società civile e quelle giuridico-politiche dello Stato (per esempio, i servi della gleba erano in posizione di sudditanza sia economica che politica rispetto ai feudatari), l’età moderna si connota invece per la separazione fra società economica e società politica, fra il borghese, membro della società civile, con i propri interessi privati, e il cittadino, che è un soggetto politico dotato di diritti e doveri. Il carattere dialettico di tale separazione si vede dal fatto che nello Stato moderno all’uguaglianza politica dei cittadini corrisponde una disuguaglianza economica tra di loro. Per questo, all’esaltazione della figura del monarca quale personificazione dello Stato, operata da Hegel, si deve contrapporre secondo Marx l’idea della sovranità popolare, e ai diritti civili nati con la Rivoluzione francese si deve accompagnare un’uguaglianza di tipo economico, come quella rivendicata dal nascente movimento socialista. Si comprende, in tale prospettiva, che Marx abbia contestato fortemente il principio della rappresentanza politica, che nasce contestual-

mente allo Stato moderno. Dove la partecipazione al potere legislativo è ristretta, a motivo della separazione fra società civile e Stato, i cittadini sono costretti a delegare la propria volontà ai legislatori. Ma con questo non si risolve affatto il conflitto tra lo Stato e la società civile, bensì lo si perpetua, perché la delega finisce sempre per essere, agli occhi di Marx, uno strumento di controllo del primo sulla seconda. Se dunque il grande merito di Hegel risiede nell’aver percepito questa separazione tra società civile e Stato come una vera e propria “contraddizione”, il suo limite maggiore invece sta nell’aver indicato come via d’uscita una sintesi speculativa e degli strumenti politici del tutto inadeguati. Secondo Marx bisogna rimaner fermi all’«opposizione per contraddizione», senza pensarla come già unificata nell’idea o risolvibile per semplice via politica. Mentre per Hegel la contraddizione dialettica costituisce solo la manifestazione di una realtà che nella sua sostanza sarebbe già unificata, per Marx essa va considerata come la sostanza ultima del reale:



L’errore principale di Hegel consiste nel fatto che egli assume la contraddizione del fenomeno come unità nell’essenza, nell’idea, laddove questa contraddizione ha il suo fondamento in qualcosa di più profondo, cioè in una contraddizione sostanziale. [Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, I, c, sul § 304]



Ciò che è “più profondo” è la realtà finita e materiale (in questo caso, la società civile) e la sua organizzazione economica, non più ridotta a semplice attributo dell’idea (lo Stato), ma viceversa come ciò da cui l’idea dev’essere prodotta. In breve: non si deve accettare passivamente la condizione contraddittoria in cui versa la società, come se fosse un momento necessario dell’idea, ma si deve produrre dalla sua contraddizione l’idea di una sua radicale modifica. 1. La critica di Marx alla filosofia del diritto di Hegel consiste: a. nel rifiuto della dialettica come metodo di comprensione del reale. V F b. nell’aver Hegel elevato una realtà storicamente determinata di Stato all’idea assoluta di Stato. V F c. nel mettere Hegel in luce il nesso fra teorie filosofiche e assetti politico-sociali dello Stato. V F d. nel fare Hegel della realtà materiale una sostanza astratta ed ideale. V F

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Karl Marx capitolo 2 2. Per “misticismo logico” Marx intende: a. la sostanziale inversione dei rapporti operata da Hegel fra sostanza e predicato, per cui il finito è un predicato della sostanza e l’infinito la sostanza stessa. b. la sostanziale centralità della religione all’interno del sistema filosofico hegeliano. c. la forte ambiguità che caratterizza la logica hegeliana, essendo questa una religione mascherata. d. il fatto che Hegel abbia fatto dello spirito il predicato della sostanza. 3. Per Marx, nella filosofia del diritto, Hegel: a. non ha tenuto in grande conto la separazione moderna fra società civile e Stato. b. pur riconoscendo l’opposizione fra società civile e Stato, ne ha fatto una verità razionale e assoluta, la cui sintesi si dà attraverso strumenti politici inadeguati. c. concepisce la contraddizione fra società civile e Stato come frutto di una determinata condizione storica che va modificata. d. ritiene che l’età moderna sia caratterizzata dalla continuità fra classi sociali e classi politiche.

4 Il problema dell’alienazione 4.1 L’alienazione religiosa Gran parte della riflessione del giovane Marx è concentrata sul tema dell’alienazione, che costituisce il nucleo essenziale del suo confronto con la filosofia di Hegel, con la sinistra hegeliana e i socialisti utopistici e infine con gli economisti classici. Si tratta di tre direzioni di pensiero che proprio nel problema dell’alienazione trovano in Marx un loro punto di sintesi originale. Anzitutto la filosofia di Feuerbach – e con lui quella di altri giovani hegeliani, come Bauer o Stirner – fornisce a Marx il concetto dell’alienazione religiosa. Nella Germania posthegeliana la critica della religione era quasi divenuta «il presupposto di ogni critica», proprio perché, come rileva Marx, essa permette di smascherare l’autoestraniazione dell’uomo da sé stesso, e la proiezione della sua immagine riflessa nel cielo. Ma qui già si innesta la tendenza peculiare della critica marxiana: se è vero che «è l’uomo che fa la religione, non la religione l’uomo», quest’uomo non va mai considerato come un’«entità astratta»; esso è «il mondo dell’uomo, lo Stato, la società»:



La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria

reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito [cioè appunto di una condizione alienata]. Essa è l’oppio del popolo. […] La critica della religione, dunque, è in germe la critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola. È dunque compito della storia, una volta scomparso l’al di là della verità, quello di ristabilire la verità dell’al di qua. [Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione]



La religione nasce dunque per Marx da una situazione di alienazione storico-materiale e al tempo stesso è utilizzata per coprire o sublimare – come un oppiaceo – tale situazione. Per questo la filosofia – «la quale sta a servizio della storia» – dopo aver smascherato la religione come «autoestraniazione umana», deve procedere a smascherare anche il mondo storico infelice da cui nasce l’illusoria esigenza religiosa degli uomini:



La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica. [Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione]



Si tratta del congedo definitivo dalla visione feuerbachiana della religione, come Marx scriverà nelle sue Tesi su Feuerbach, redatte nel 1845 (ma pubblicate postume da Engels nel 1886): «Feuerbach non vede […] che il “sentimento religioso” è esso stesso un prodotto sociale e che l’individuo astratto, che egli analizza, appartiene ad una forma sociale determinata» [Tesi su Feuerbach, n. 6]. Un esempio concreto di questa critica dell’alienazione religiosa è offerto dalla netta presa di distanza di Marx da Bruno Bauer, riguardo al problema dei diritti degli ebrei in uno Stato cristiano (come la Prussia). La soluzione non sta, secondo Marx, nella mera emancipazione politica dello Stato, cioè nel fatto che a tutti gli uomini siano riconosciuti uguali diritti come cittadini, lasciando nella sfera privata le loro opzioni religiose. Il fatto stesso che vi siano uomini religiosi in privato, sta a dire che vi sono ancora uomini alienati. Per compiere l’emancipazione umana,

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dunque, si dovrà arrivare a una totale “soppressione” della religione: e questo avverrà necessariamente nel momento in cui saranno rimosse le cause materiali dell’alienazione.

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1. Riguardo all’alienazione religiosa, Marx: a. ritiene che Feuerbach non giunga a concepire la religione come autoestraniazione umana. b. ritiene che Feuerbach concepisca la religione come “l’oppio del popolo”. c. afferma la necessità di rintracciare l’origine storico-materiale dell’uomo alienato. d. propugna la necessità di superare Feuerbach che concepisce l’uomo in modo astratto.

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capitalista) che non gli appartiene più. Così il lavoro – vale a dire la caratteristica fondamentale del genere umano – viene ridotto ad una merce, e con esso gli uomini perdono la loro stessa “essenza” [ T1]. Questo avviene a tre livelli. 1. Innanzitutto il lavoratore è espropriato del prodotto del suo lavoro. Secondo l’economia politica classica «il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto». Ma questa «oggettivazione del lavoro» appare a Marx come «annullamento dell’operaio», cioè come «alienazione» ed «espropriazione» del suo lavoro:

“ 4.2 L’alienazione economica del lavoro Se la critica marxiana della religione – e insieme la sua critica alla critica di Feuerbach e di Bauer alla religione – si trasforma in critica della politica, il problema dell’alienazione dovrà essere affrontato come un problema riguardante la struttura economica della società. È quello che Marx tenta di fare nel suo confronto con i cosiddetti economisti classici (come Adam Smith e David Ricardo) e tenendo conto anche delle critiche a loro rivolte dai socialisti utopistici e dagli anarchici, come Proudhon. Tra i due fronti, Marx è senza dubbio più vicino all’analisi dei processi strutturali dell’economia piuttosto che all’utopismo egualitarista, ma di quest’ultimo egli fa propria la prospettiva di non considerare l’ordine economico-politico vigente come una sostanza immodificabile, ma come una situazione che può essere rivoluzionata dal proprio interno. Solo che tale ribaltamento non può avvenire in virtù di astratti ideali umanitaristici (come per i socialisti francesi), bensì seguendo le stesse ferree leggi della scienza economica. L’obiettivo di Marx nei Manoscritti economicofilosofici del 1844 è quello di mostrare che l’intero assetto della società capitalista si basa su una contraddizione di fondo, logica e materiale al tempo stesso: la separazione tra il lavoro salariato degli operai e il profitto dei proprietari dei mezzi di produzione, cioè dei capitalisti. Pur costituendo la vera anima della produzione, il lavoratore è costretto ad alienare il suo stesso lavoro, che giunge ad estraniarsi da lui e ad oggettivarsi in una proprietà privata (quella del

L’operaio mette nell’oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all’oggetto. Più è grande questa sua attività e più l’operaio diventa senza oggetto. Ciò che è il prodotto del suo lavoro egli non lo è. Quanto maggiore è dunque questo prodotto, tanto minore è egli stesso. L’espropriazione dell’operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un’esistenza esterna, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita da lui data all’oggetto gli si contrappone estranea e ostile. [Manoscritti economico-filosofici del 1844, I, XXII]



2. In secondo luogo, il lavoratore viene espropriato oltre che dall’oggetto, anche dal suo stesso lavoro:



il lavoro resta esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e […] l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. […] Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni a esso. [Manoscritti economico-filosofici del 1844, I, XXIII]



Con la conseguenza che il lavoratore «si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali», come mangiare, bere, generare, ecc., mentre quando lavora, cioè quando svolge le sue funzioni propriamente umane, «si sente solo una bestia». Così, «il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale». Anzi, secondo Marx in tale

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alienazione si perde proprio l’essenza specifica del “genere umano” rispetto agli animali, vale a dire la sua attività cosciente e libera. Tale attività, mediante il lavoro alienato, viene ridotta a semplice strumento per la sopravvivenza del singolo uomo. 3. Infine, la conseguenza di tale estraniazione dell’uomo dal proprio lavoro è «lo straniarsi dell’uomo dall’uomo» [Manoscritti economicofilosofici del 1844, I, XXIV], perché ognuno di essi è estraniato dalla comune essenza umana. Il lavoro in fabbrica isola l’uomo, privandolo così anche della sua «essenza sociale», ovvero della dimensione comunitaria.

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Ma se l’alienazione dell’essenza umana si è compiuta storicamente nella forma del lavoro alienato, è solo riappropriandosi del lavoro che la si potrà superare. In questo Marx segue, ancora una volta, il principio dialettico che gli veniva da Hegel. Quest’ultimo aveva già colto (nella dialettica del servo e del padrone, all’interno della Fenomenologia dello spirito) il ruolo essenziale del lavoro, come il modo in cui l’uomo «produce sé stesso»: una produzione intesa «come alienazione e come soppressione di questa alienazione» [Manoscritti economico-filosofici del 1844, III, XXIII]. Solo che Hegel ha inteso questo lavoro essenzialmente come «lavoro spirituale astratto»; Marx vorrà invece determinarlo come lavoro materiale e storico. 1. In merito all’alienazione economica Marx: a. ritiene che l’ordine economico vigente sia in sé stesso assoluto. b. ritiene, in accordo con i socialisti utopistici, che l’ordine economico vigente sia modificabile attraverso ideali umanitaristici. c. pensa, contrariamente ai socialisti utopistici, che l’ordine economico vigente possa essere modificato attraverso le stesse leggi dell’economia. d. condivide nella loro interezza i progetti politici dell’utopismo egualitarista. 2. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx: a. individua nella separazione fra il lavoro salariato e il profitto dei capitalisti la contraddizione logica e materiale della società capitalistica. V b. sostiene che nella società capitalistica l’uomo è alienato rispetto al prodotto del lavoro, al lavoro stesso, ma non alla sua essenza. V c. sostiene che il superamento dell’alienazione umana passi attraverso il lavoro spirituale come pensava Hegel. V d. ritiene che l’alienazione economica privi l’uomo della sua essenza sociale. V

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5 Il materialismo storico L’analisi dell’alienazione ha reso necessario il passaggio definitivo da una dialettica di tipo idealistico ad una di tipo materialistico. Tale passaggio era già stato avviato da Feuerbach, ma sebbene quest’ultimo avesse concepito l’uomo come un essere sensibile e materiale, non lo considerava ancora come un essere storico. Marx vuole appunto mostrare la stretta coappartenenza tra il carattere materiale dell’uomo e la sua prassi storica:



Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi (compreso quello di Feuerbach) è che l’oggetto, la realtà, la sensibilità vengono concepiti solo oggettivamente, e non come attività sensibile umana o prassi, cioè non soggettivamente. Di conseguenza, in opposizione al materialismo, il lato attivo fu sviluppato astrattamente dall’idealismo – che naturalmente non conosce l’attività reale, sensibile in quanto tale. [Tesi su Feuerbach, n. 1]



Il vecchio materialismo, limitandosi ad affermare la natura “oggettiva” della realtà materiale, non era capace di cogliere i cambiamenti a cui tale natura è sempre sottoposta nel corso della storia, e perciò risulta essere una concezione reazionaria, che ha come unico punto di vista «la società borghese». Invece, «il punto di vista del materialismo nuovo è la società umana o l’umanità sociale» [Tesi su Feuerbach, n. 10]. Adottando questo punto di vista Marx potrà affermare, contro Feuerbach ma anche contro tutta la tradizione filosofica, che fino ad ora «i filosofi si sono limitati a interpretare il mondo in modi differenti; ora si tratta di trasformarlo» [Tesi su Feuerbach, n. 11]. La conoscenza non può arrestarsi ad un livello contemplativo, e deve diventare prassi per il semplice motivo che essa è nata dalla prassi sociale, e il suo orizzonte non è la verità eterna ma una precisa produzione storica.



La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è una questione teoretica, ma una questione pratica. N ella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. [Tesi su Feuerbach, n. 2]



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Ma come si fa a provare la verità del pensiero nella prassi? Innanzitutto cominciando a non ritenere più il nostro modo di concepire il mondo come frutto dei nostri pensieri, ma come il prodotto di certe condizioni storiche e materiali in cui ci troviamo a vivere. Si tratta di quella dottrina che viene abitualmente chiamata la concezione materialistica della storia. Essa si basa sull’idea – esposta diffusamente nello scritto sulla Sacra famiglia e ancor più nell’Ideologia tedesca [ T33]– che gli individui umani dipendano nella loro essenza dalle condizioni materiali della produzione sociale:



Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide immediatamente con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto con il modo in cui producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione. [L’ideologia tedesca, I, 1]



La filosofia hegeliana e posthegeliana viene chiamata da Marx ideologia per indicare il fatto che essa si riduce ad una mera concatenazione di idee astratte, che non solo non arriva a riconoscere la propria origine storica, ma per di più la occulta in maniera mistificante, impedendo di vedere dietro i pensieri astratti i processi reali. E se la verità può essere “provata” solo con la prassi, l’ideologia – nel senso preciso con cui questo termine viene usato da Marx – risulta essere per lui una “rappresentazione falsa” della realtà. Per comprendere come sorga la coscienza degli uomini e come si sviluppino le loro idee, bisogna dunque partire dal modo in cui nelle diverse società si è istituita la produzione economica con le diverse forme di proprietà che vi sono connesse. Di volta in volta, l’origine delle idee va individuata nella proprietà tribale (fondata su caccia, pastorizia e raccolta) o nella proprietà tipica della comunità antica (nella quale la produzione è ormai regolata dallo Stato e la forza-lavoro principale è costituita dagli schiavi), poi nella proprietà feudale (incentrata sull’agricoltura e su un’organizzazione gerarchica) e infine nella proprietà del modo di produzione capitalistico (che vede il prevalere dell’industria e la forma salariata). Questa dipendenza delle ideologie dalle varie forme di produzione e di proprietà, è dovuta al fatto che ognuna di esse

costituisce una particolare modalità di divisione del lavoro, da cui nascono le “classi”, e con esse i rapporti di “dominio” di una classe su un’altra – dominio prima di tutto materiale, ma di conseguenza anche ideologico. La concezione materialistica della storia troverà una sua decisiva conferma proprio negli scritti dedicati da Marx all’economia politica, che differisce dall’economia classica esattamente per il fatto di implicare una concezione storico-evolutiva della base materiale della società e delle sue leggi. Questa base viene ora identificata come la “struttura” a partire dalla quale si può comprendere la produzione di idee, considerata rispettivamente una “sovrastruttura”:



Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale a determinare la loro coscienza. [Per la critica dell’economia politica, Prefazione]



Ma poiché la struttura materiale della società è da intendersi in senso rigorosamente storicoevolutivo, questo significa che quando si verificano dei sommovimenti strutturali, cioè quando i fattori di un assetto economico-produttivo sviluppano una contraddizione interna, tale sommovimento si ripercuoterà necessariamente a livello sovrastrutturale:



Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. [...] Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme

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ideologiche, che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. [Per la critica dell’economia politica, Prefazione]

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1. La critica che Marx rivolge al materialismo tradizionale consiste: a. nell’aver interpretato l’uomo come un essere sensibile e materiale. V F b. nel non aver considerato l’uomo sensibile e materiale come un essere storico. V F c. nell’essersi limitato ad interpretare il mondo senza impegnarsi in una reale trasformazione. V F d. nell’essere una concezione anch’essa al servizio della società borghese. V F 2. In Marx il termine ideologia indica propriamente: a. la “struttura” della società. b. il modo in cui si è organizzata la produzione economica nelle diverse società. c. ogni “sovrastruttura”. d. la falsa rappresentazione della realtà, prodotta dalle filosofie che poggiano su idee astratte. 3. La concezione materialistica della storia di Marx: a. consiste nel ritenere che la storia sia determinata dai rapporti di produzione a cui poi corrispondono determinate forme della coscienza sociale. b. prevede che sia la stessa attività spirituale dell’uomo, inteso come essere materiale, a determinare il suo essere sociale e storico. c. implica un’idea sostanzialmente assoluta e statica della base materiale della società. d. implica un nesso fra i cambiamenti economici e la sovrastruttura.

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6 Il comunismo 6.1 La fuoriuscita dall’alienazione Lo sconvolgimento radicale di cui Marx parla alla fine degli anni Cinquanta ha lo stesso nome che egli aveva già utilizzato nei Manoscritti del 1844 per indicare la soluzione positiva al problema moderno dell’alienazione. Questo nome è: “comunismo”. Con esso scompare – o meglio, dovrebbe scomparire, secondo la previsione marxiana – ogni forma di proprietà privata e l’uomo si riapproprierà di sé stesso nella sua vera essenza, che non è quella dell’individuo borghese ma quella di un essere compiutamente sociale:



Il comunismo come positiva soppressione della proprietà privata, intesa quale autoalienazione

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dell’uomo, e però in quanto reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo; e come ritorno completo, consapevole, compiuto all’interno di tutta la ricchezza dello sviluppo storico, dell’uomo per sé quale uomo sociale, cioè uomo umano. Questo comunismo è, in quanto compiuto naturalismo, umanismo, e in quanto compiuto umanismo, naturalismo. [Manoscritti economico-filosofici del 1844, III, IV]



Il comunismo, in altri termini, è un “umanismo”, non perché vagheggi un ideale utopico o astratto di umanità in generale, bensì perché è arrivato a cogliere la vera natura dell’uomo, cioè il fatto di essere un prodotto sociale; e viceversa il comunismo è un “naturalismo”, non in senso metafisico, bensì in senso pienamente storico. N on si tratta semplicemente di uno stato di cose futuro, ma di un «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». La base sociale di questo movimento risiede nel proletariato, la classe alienata dallo sviluppo della società borghese, che ingaggia una lotta per la liberazione contro la classe capitalista, detentrice dei mezzi di produzione; e dal momento che lo sviluppo delle forze produttive ha generato un mercato mondiale, rompendo le barriere nazionali, la rivoluzione proletaria sarà la prima rivoluzione universale. 1. Nella concezione di Marx il comunismo: a. costituisce la soluzione al problema dell’alienazione dell’uomo. b. è il movimento reale del proletariato finalizzato a superare l’assetto sociale borghese. c. costituisce una forma di umanismo, perché realizza l’ideale astratto e illuministico di uomo. d. costituisce una forma di naturalismo, perché mediante esso l’uomo si riappropria della sua natura sociale.

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6.2 La funzione storica della borghesia e il ruolo del proletariato N el 1848, allo scoppio dei moti rivoluzionari che sconvolgono l’intera Europa, Marx ed Engels scrivono il Manifesto del partito comunista: in esso, proprio a partire dall’analisi della struttura economica della società capitalista, si

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impugna la «coscienza di classe» come arma per la «trasformazione rivoluzionaria di tutta la società», incitando alla lotta: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!». La storia del mondo, secondo Marx, è sempre stata una «storia di lotte di classe»: che si tratti del conflitto tra liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, borghesi e proletari, sempre c’è stata oppressione, antagonismo e lotta per il dominio, da una parte, e per l’affrancamento dell’oppressione dall’altra. E sempre è successo che, per poter mantenere la sua supremazia, la classe dominante abbia assunto la forma di uno Stato. Di conseguenza si può dire che l’essenza stessa della forma statale sia quella di essere uno strumento di dominio e la sua unica logica quella di perpetuare la sottomissione alla classe dominante. Ma se questo è vero (come secondo Marx sarebbe mostrato dalla storia), allora la società civile dovrà auspicare l’estinzione di ogni forma di Stato. Paradossalmente, la forza storica che finora ha maggiormente mirato a contestare un dominio statale percepito come oppressivo è stata proprio la borghesia, sebbene essa stessa sia divenuta poi la protagonista dello Stato capitalista moderno:



La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria. Dove è giunta al potere, essa ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache. […] Essa ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, della sentimentalità piccolo-borghese. Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio; e in luogo delle innumerevoli franchigie faticosamente acquisite e patentate, ha posto la sola libertà di commercio senza scrupoli. In una parola, al posto dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e arido. [Manifesto del partito comunista, § 1]



Ma dall’interno stesso dell’organizzazione produttiva della società borghese, che si presenta sempre più decisamente come società industriale, emerge la più potente delle contraddizioni che finora abbiano segnato la storia degli uomini, quella tra coloro che vendono il proprio lavoro (i proletari) e coloro che sfruttano quel

lavoro per accumulare sempre maggior profitto: un profitto che si configura come proprietà rigorosamente privata, e che quindi esclude dal beneficio proprio coloro che lo producono con il loro lavoro. Ciò su cui si basa la società borghese porterà dunque a farla crollare, o come scrivono efficacemente Marx ed Engels, «la borghesia […] produce i suoi stessi seppellitori». Il nuovo attore che si affaccia sulla scena della storia è la classe finora oppressa, che sarà pertanto lo strumento per annientare la classe dominante e con ciò abolire tutte le classi. Ma se le precedenti rivoluzioni sono fallite perché passavano da una forma di Stato a un’altra, Marx caldeggia la via della totale estinzione dello Stato, indicando come modello esemplare la Comune di Parigi del 1871:



Tutte le rivoluzioni ebbero come unica conseguenza di perfezionare l’apparato statale, invece di respingere questo incubo soffocante […]. L’antitesi autentica dell’Impero stesso fu la Comune […]. Tutte le reazioni e tutte le rivoluzioni erano servite solo a trasferire questo potere organizzato – questa forma organizzata per mantenere in schiavitù il lavoro – da una mano all’altra, da una frazione all’altra delle classi dominanti […]. Nella Comune non si trattò dunque di una rivoluzione contro questa o quella forma di potere statale […]. Si trattò di una rivoluzione contro lo Stato stesso […]. Non si trattò di una rivoluzione fatta per trasferire questo potere da una frazione all’altra delle classi dominanti ma di una rivoluzione per spezzare questo stesso orrendo apparato del dominio di classe. [La guerra civile in Francia, § 3]



Il comunismo è dunque immaginato da Marx ed Engels come la forma di autogoverno di una società senza proprietà privata, senza classi e dunque senza Stato. Il suo raggiungimento però non può avvenire, a loro parere, in tempi brevi, ma dev’essere preceduto da un periodo transitorio, nel quale prenda piede una nuova forma di Stato, coincidente con la dittatura del proletariato, che deve centralizzare forzatamente tutte le forme economiche, giuridiche, politiche e culturali della società, e per questo tramite possa produrre l’evoluzione dei rapporti sociali, in cui la schiavitù della divisione del lavoro e dei rapporti alienati di classe ceda il posto alla libertà di tutti. Di tale dittatura e della sua tran-

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sizione al comunismo Marx parlerà sino alla fine, nella sua Critica al programma di Gotha:



In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra il lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: ‘Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni’. [Critica al programma di Gotha, § 1]



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Il comunismo sarà dunque o meglio dovrà essere il regno della libertà realizzata. Il problema è: si può indurre e addirittura produrre la libertà degli uomini con una strategia di potere politico, economico e ideologico? Secondo Marx ciò non solo è possibile, ma è scientificamente programmabile. Ciò che è accaduto nel mondo in nome di questa teoria – vale a dire gli Stati del socialismo realizzato, dalla Russia alla Cina all’Asia – ha tragicamente dimostrato che forse la previsione era errata, e che la presa di potere da parte del proletariato non era preludio al comunismo realizzato, ma ad una oppressione statale e ad un dominio sugli uomini non certo minore di quella che si voleva rovesciare. 1. Marx, nel Manifesto del partito comunista, ritiene che: a. soltanto nell’epoca del capitalismo la storia assuma la forma di una lotta di classe. V F b. in ogni epoca la classe dominante ha assunto la forma di Stato. V F c. la borghesia ha sempre assunto nella storia una posizione conservatrice, salvaguardando gli assetti politico-sociali esistenti. V F d. sia la stessa società borghese che con la divisione del lavoro produce i germi della sua autonegazione. V F 2. Per Marx il vero e più compiuto comunismo deve mirare: a. a realizzare una permanente dittatura del proletariato. b. a costituire una nuova forma di Stato che distrugga il dominio dei capitalisti. c. ad instaurare una vera libertà senza lo Stato in cui ciascuno “operi” secondo le proprie capacità e “abbia” secondo i propri bisogni. d. soltanto a superare la subordinazione degli individui nella divisione del lavoro.

7 La scienza economica del capitale 7.1 La merce e il denaro La prospettiva di una rivoluzione radicale che sostituisca l’assetto sociale capitalistico con la nuova società comunista non si fonda per Marx sul solo programma politico di una classe sociale, tanto meno su un ideale di emancipazione e di uguaglianza sociale che un partito deve cercare di realizzare, ma acquista tutta la sua forza dal fatto di interpretare un processo strutturale oggettivo della stessa società capitalistica. Sono infatti le leggi proprie del processo di produzione del capitale che porteranno a sviluppare le condizioni richieste per l’inevitabile passaggio al comunismo. Per questo, paradossalmente, non è la semplice contestazione esterna o un’opposizione meramente filosofica al sistema capitalistico che potrà mai produrre il suo superamento, ma al contrario il suo stesso sviluppo e la sua più piena espansione. Del resto, già all’indomani del fallimento dei moti rivoluzionari del 1848 in Europa, Marx aveva compreso che la contrapposizione fra classe lavoratrice e borghesia può giungere al suo punto massimo, e quindi può produrre tutto il suo potenziale rivoluzionario, soprattutto in situazioni in cui il processo capitalistico sia più sviluppato: non tanto in Francia, dunque, dove l’aristocrazia finanziaria prevaleva ancora sulla borghesia industriale, ma in Inghilterra, considerata d’ora in poi come il contesto più fecondo per la rivoluzione, appunto a motivo dello sviluppo più avanzato dell’industria dovuto alla meccanizzazione della fabbriche (con l’introduzione della macchina a vapore). Proprio la stretta connessione tra lo sviluppo economico legato all’industria e il profondo cambiamento del sistema di vita e di lavoro dei proletari costituisce la traccia seguita da Marx per descrivere le leggi oggettive della formazione del capitale e insieme le altrettanto oggettive leggi della sua necessaria soppressione. N on è un caso peraltro che proprio a Londra Marx, assieme ad Engels, abbia assistito all’ascesa del movimento operaio, accompagnandola e incrementandola con il suo contributo teorico. Un contributo che ora consisteva soprattutto nel definire le basi reali, cioè economico-politiche,

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della rivoluzione proletaria, mostrando che esse coincidono con la stessa dinamica storicosociale che segna il sistema capitalistico. Il punto di forza dell’economia politica risiede per Marx nel nesso che si instaura tra le forze produttive e i rapporti di produzione, o detto in altri termini, tra il lavoro dei proletari che serve a produrre merci, il valore monetario di queste merci sul mercato e il profitto che ne ricavano coloro che detengono la proprietà dei mezzi di produzione, cioè i capitalisti. Per comprendere l’organizzazione economico-politica dell’età borghese, Marx parte dalla nozione di merce e dal doppio valore che essa può avere: un valore d’uso, cioè il fatto che consumando quella merce si soddisfa un certo bisogno, e un valore di scambio, cioè il fatto che quella merce ha la proprietà di poter essere scambiata con altre merci. Già gli economisti classici (soprattutto Ricardo nei Saggi sui profitti del 1815 e nei Princìpi di economia politica e di tassazione del 1817) avevano collegato il valore di una merce, e quindi il suo prezzo in danaro, alla qualità e alla quantità di lavoro impiegato per produrla. Secondo Marx nel sistema capitalistico le differenze qualitative del valore (d’uso) di una merce si riducono a quelle puramente quantitative, cioè al loro valore di scambio, espresso come denaro. Quest’ultimo viene a costituire la «forma in cui tutte le merci si equivalgono, si confrontano, si misurano», e assume un’esistenza indipendente da tutte le merci, perché, a differenza delle società precapitalistiche, in cui il denaro è solo un mezzo per comprare qualcosa, e dunque per consumare delle merci, in quella capitalistica il denaro è per così dire un valore in sé, che va prodotto e accumulato attraverso lo scambio delle merci. Per questo Marx attribuisce al denaro quasi un “carattere mistico”, pari a un “feticcio”: esso è un simbolo staccato da ciò a cui rimanda, vale a dire dal lavoro vivo che lo ha prodotto [Il capitale, I, sez. 1, cap. 1-B, § 4]. Il “capitale” si origina dunque per Marx «solo lì dove la produzione delle merci e la loro circolazione sviluppata, vale a dire il commercio, sono arrivate a un certo grado di sviluppo». Più in particolare, «il commercio mondiale e il mercato mondiale iniziano nel XVI secolo la storia moderna del capitale» [Il capitale, I, sez. 2, cap. 4, § 1]. Ma qual è il criterio per verificare questo sviluppo?

Nelle società precapitaliste le merci circolavano seguendo il ciclo M-D-M (merce-denaromerce): si partiva cioè dall’esistenza di merci prodotte, le quali venivano trasformate in denaro, e quest’ultimo veniva a sua volta trasformato in nuove merci. Il principio di questo tipo di economia era “vendere per acquistare”, vendere cioè una merce per acquistarne un’altra ad essa equivalente con la mediazione del denaro. Nella società borghese invece le merci circolano seguendo il ciclo D-M-D (denaro-merce-denaro che frutta un interesse): si parte dalla disponibilità di denaro, ossia di un capitale anticipato, lo si trasforma in merce e questa merce viene poi ritrasformata in denaro, che questa volta però risulta maggiorato del profitto del capitalista. Il principio di questa economia è dunque “acquistare per vendere”, cioè acquistare merci per poterle poi rivendere ricavandone un surplus di denaro. Ora, il carattere peculiare della circolazione delle merci in una società di tipo industriale è il fatto che con il denaro iniziale il capitalista acquista quella merce fondamentale costituita dal lavoro umano. I proletari – che sono chiamati così proprio perché non possiedono nient’altro che la loro “prole” – vendono la loro forza-lavoro, scambiandola con un salario che permetta loro la sussistenza, e a sua volta questa forza produttiva (che è stata acquistata dal capitalista come una merce) verrà trasformata in nuove merci da vendere.

1. Per Marx il passaggio dalla società capitalistica a quella comunista si ha propriamente: a. grazie alla realizzazione del programma politico del proletariato. b. mediante una violenta opposizione filosofica e politica al mondo capitalistico-industriale. c. rendendo cosciente il proletariato degli ideali di uguaglianza sociale. d. grazie allo stesso sviluppo del capitalismo, le cui leggi di produzione determinano le condizioni della sua negazione. 2. Nell’analisi della merce Marx: a. distingue fra valore d’uso e valore di scambio. b. riduce le differenze qualitative del valore d’uso a quelle quantitative del valore di scambio ma solo nel sistema capitalistico. c. afferma che nel sistema capitalistico il denaro è solo un mezzo per consumare le merci. d. ritiene che il denaro non possieda mai un valore in sé.

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7.2 La produzione del plusvalore Quello che Marx deve spiegare a questo punto è il motivo per cui la merce acquistata con il denaro produca a sua volta una quantità di denaro maggiore rispetto a quella iniziale, cioè generi un profitto. In altri termini, nella circolazione delle merci accade qualcosa che non si può spiegare mediante il semplice scambio, giacché in quest’ultimo il valore delle merci scambiate resta sempre equivalente, mentre nel nostro caso il valore aumenta. Questo surplus di valore dev’essere rintracciato secondo Marx non in una legge riguardante lo scambio tra le merci ma in una legge riguardante la loro produzione. Quando l’operaio vende come una merce la sua forza-lavoro al capitalista, riceve in cambio un salario equivalente al valore di questa merce; e se il valore di una merce è dato dalla quantità di lavoro socialmente necessario impiegata per produrla, nel caso della merce-lavoro il valore corrisponde ai mezzi di sostentamento della vita dell’operaio. A sua volta però l’operaio non si limita a prestare una quantità di lavoro pari

alla retribuzione salariale, ma sviluppa una prestazione maggiore, cioè impiega il suo lavoro più di quanto sarebbe richiesto per sostentarsi. Questa quantità eccedente di lavoro esercitato dall’operaio è chiamato da Marx “pluslavoro”, e il valore in più che esso produce nelle merci – in più, lo ripetiamo, perché non equivale al semplice scambio con i mezzi per il sostentamento dell’operaio – è chiamato “plusvalore”. Il carattere peculiare dell’intero sistema capitalistico consiste proprio nel fatto che il capitalista si appropria di questa eccedenza di valore, dovuta a un’eccedenza di lavoro dell’operaio, senza pagargliela, e quindi si arricchisce solo mediante lo sfruttamento del lavoro altrui. Per meglio comprendere questa legge economica, Marx illustra direttamente il processo concreto di una giornata lavorativa:



durante una sezione del suo processo lavorativo un operaio produce soltanto il valore della propria forza lavorativa, ossia il valore dei mezzi di sussistenza che gli necessitano. Poiché egli produce in circostanze che si basano sulla divisione sociale del lavoro, non produce i propri mezzi di sussistenza direttamente, ma […] produce un valore che è uguale al valore dei propri mezzi di sussiLa produzione stenza, ossia uguale al denaro con cui li acdel plusvalore quista. La parte della sua giornata lavorativa impiegata a tal fine è più o meno Il “plusvalore” è quella eccedenza di valore che viene progrande a seconda del valore della medotta dal pluslavoro dell’operaio, vale a dire da quella parte del dia giornaliera dei mezzi di sussisuo lavoro che non è retribuita dal capitalista, e di cui quest’ultimo stenza che gli occorrono, perciò a si appropria gratuitamente. La produzione del plusvalore dipende dal fatto che la forza-lavoro rende seconda del tempo di lavoro medio più di quanto costa: ciò avviene attraverso l’ottimizzazione del fattore necessario alla loro produzione. tempo. Se il valore dei mezzi giornalieri di sussistenza dell’operaio si A______________D_____C________B esprime in media in 6 ore di laAB = giornata lavorativa voro oggettivato, egli deve lavoAC = lavoro necessario (che può ridursi tendenzialmente ad AD) rare in media ogni giorno 6 ore CB = plusvalore assoluto (dovuto al prolungamento della giornata lavorativa) per poterlo produrre. DC = plusvalore relativo (dovuto alla diminuzione del lavoro necessario grazie [Il capitale, I, sez. 3, cap. 7, § 1] alle macchine, con conseguente diminuzione del salario)



Il limite B – che indica la giornata lavorativa – è irremovibile, mentre il limiAnche se l’operaio non dipendeste C non lo è. Occorre dunque spostare C sempre più verso A, in modo se dal capitalista, in ogni caso egli tale da far diminuire il lavoro necessario (da AC ad AD) e far aumendovrebbe lavorare sei ore al giorno tare, inversamente, il lavoro produttivo (da CB a DB). (o quante ce ne volessero in mutate La legge del sistema capitalistico risiede quindi nello sfrutcondizioni sociali) per il proprio mantamento, ovvero nella capacità di appropriarsi del tenimento, cioè per riprodurre costantepluslavoro in relazione al tempo [Il capitale, I, mente la propria forza-lavoro. In questa sez. 3, cap. 8].

«parte aliquota della giornata lavorativa» l’operaio non fa altro che produrre un equivalente

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del valore già pagatogli in anticipo dal capitalista. Il lavoro compiuto in questa parte di tempo è chiamato da Marx “lavoro necessario”. Ma la giornata di lavoro non finisce qui:



Il secondo periodo del processo lavorativo [giornaliero], in cui l’operaio sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, gli costa veramente un […] dispendio di forza lavorativa, ma per lui non crea alcun valore. Esso crea plusvalore, che per il capitalista ha tutta l’attrattiva di una cosa creata dal nulla. Questa parte della giornata lavorativa io la chiamo tempo di lavoro superfluo, e il lavoro impiegato in esso lo chiamo pluslavoro [surplus labour]. Per comprendere il pluslavoro è […] importante intenderlo come mero coagulo di tempo di lavoro superfluo, come pluslavoro puramente oggettivato. [Il capitale, I, sez. 3, cap. 7, § 1]



prolungando la giornata lavorativa dell’operaio (e in questo caso si parlerà di plusvalore assoluto) oppure aumentando la produttività del lavoro grazie all’uso delle macchine, e con ciò diminuendo il tempo di lavoro necessario all’operaio per guadagnarsi il salario e aumentando quello che egli cede gratuitamente al capitalista. In questo caso si parlerà di plusvalore relativo. Sarà proprio quest’ultimo fenomeno, secondo Marx, a costituire l’inizio del declino dell’assetto capitalistico della produzione. 1. Secondo Marx nel sistema capitalistico: a. le merci prodotte vengono trasformate in denaro a sua volta utile per acquistare nuove merci. b. il capitale iniziale serve ad acquistare una merce particolare, il lavoro umano, impiegato per ricavare più denaro finale. c. il surplus di valore che il capitalista ricava si origina al livello dello scambio fra le merci. d. il capitalista vende per acquistare. 2 Il plusvalore si origina: a. dal pluslavoro dell’operaio. b. dal fatto che l’operaio lavora più di quanto è necessario per sostentarsi. c. dal cosiddetto “lavoro necessario”. d. sostanzialmente dal capitale variabile.

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V F Il plusvalore realizza dunque «la valorizzazione del valore del capitale», cioè il fatto che attraverV F so la produzione lavorativa il capitale acquisti un V F valore maggiore rispetto a quello che esso aveva V F all’inizio del ciclo di produzione. All’inizio, infatti, il capitalista deve anticipare sia l’acquisto della forza-lavoro, cioè il capitale variabile legato ai salari, sia l’acquisto dei mezzi della produzione, come le materie prime o i macchinari, ossia il Saggio di plusvalore capitale fisso o costante. Il plusvalore riguarda e saggio di profitto però solo il capitale variabile (cioè il rapporto tra il salario corrisposto all’operaio e il lavoIl “saggio di plusvalore” è il tasso che indica il rapporto ro effettivo che viene fornito da lui), e non percentuale che intercorre nella giornata lavorativa tra il riguarda invece il capitale costante, perpluslavoro e il lavoro necessario o, che è lo stesso, tra il plusvaché gli investimenti nelle strutture lore e il capitale variabile anticipato dal capitalista (vale a dire il materiali della produzione non produsalario). Perciò «il pluslavoro sta al capitale variabile come il pluslavoro sta al cono di per sé lavoro e valore, ma predispongono solo i mezzi per ottenerlo. lavoro necessario». Per questo, il plusvalore prodotto La formula matematica del saggio di plusvalore è: dal pluslavoro dei proletari non costiplusvalore pluslavoro tuisce nella sua interezza un profitto ______________ = ________________ capitale variabile lavoro necessario netto per il capitalista, perché una parte di esso è impiegato in ulteriori Il “saggio di profitto” è il tasso che indica il rapporto percentuale tra investimenti in mezzi di produzione. il plusvalore e l’intero capitale anticipato, composto sia dal capitaSecondo la formula dell’economia politile fisso o costante (cioè le materie prime, le macchine, i mezzi di ca, dunque, il saggio (o tasso) del plusvatrasporto, ecc.) che dal capitale variabile (cioè i salari). lore dipende dal suo rapporto con il capitaLa formula matematica del saggio di profitto è: le variabile, mentre il saggio (o tasso) di proplusvalore fitto dipende dal rapporto tra il plusvalore e la _______________________________ somma di capitale fisso e capitale variabile. Da capitale costante + capitale variabile parte sua, poi, il capitalista può raggiungere il suo profitto sfruttando al meglio questo plusvalore, o

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Inoltre, man mano che il sistema produttivo si sviluppa – passando dalla manifattura, che è un sistema industriale basato sul lavoro manuale o solo parzialmente meccanizzato, all’industria totalmente meccanizzata – aumenta sempre di più la produzione di merci con lo stesso tempo di lavoro impiegato, e quindi il plusvalore (relativo) di cui il capitalista si può appropriare. Ma se è vero che il profitto capitalista è ciò che rimane del plusvalore una volta che una parte di esso sia stato reinvestito in capitale fisso, nel momento in cui la produzione è talmente sviluppata, e la concorrenza mondiale è talmente ag7.3 La caduta tendenziale guerrita da richiedere investimenti sempre più del saggio di profitto alti, il circuito rischia di incepparsi. Quanto più si investe in capitale fisso, infatti, tanto minore è Il processo produttivo tipico della società boril profitto netto che ne rimane; inoltre quanto più ghese si fonda dunque sullo sfruttamento della meccanizzata è l’industria, tanto meno lavoro è classe che offre la propria forza-lavoro da parte necessario, e se diminuisce il lavoro diminuisce della classe che detiene i mezzi di produzione. La anche il pluslavoro, di conseguenza il plusvalore. conseguenza più grave per i lavoratori è la netta Così la stessa fonte che serviva a incrementare il separazione tra la loro capacità lavorativa (lavoro capitale fisso tende ad estinguersi, proprio a necessario + pluslavoro) e i mezzi di sussistenza motivo dell’enorme sviluppo del capitale fisso; al (acquisiti con il salario), che stanno tra loro in tempo stesso il capitale variabile (cioè i salari) un rapporto di scambio assolutamente impari. viene a ridursi, perché la forza-lavoro è sempre meno necessaria per la produzione, o meglio è necessaria per un tempo sempre minore. Se da una parte dunque il sistema capitalistico La caduta tendenziale mira strutturalmente ad uno sviluppo sempre del saggio di profitto maggiore della produzione, dall’altra parte esso sarebbe altrettanto strutturalmente • È «una legge della produzione capitalistica» quella per cui «lo sviluppo di quest’ultima si accompagna a una relativa condannato alla diminuzione del proriduzione del capitale variabile nei confronti di quello costante, fitto, cioè alla più evidente contraddie quindi anche di quello totale posto in movimento». zione con il fine dell’intero sistema. • Questa legge è «espressione del sempre più intenso sviluppo della Non si tratta per Marx di un auspiproduttività sociale del lavoro, che appare proprio nella circostanza per cio, né di una semplice previsione, cui, tramite l’utilizzazione sempre più estesa di macchine e di capitale fisso in genere, una più grande quantità di materie prime ausiliarie ma di una legge necessaria, che vengono convertite in prodotti da un identico numero di operai in un egli chiama la «caduta tendenziaperiodo identico, ovvero con un lavoro minore». le del saggio di profitto». • Al «continuo incremento di valore del capitale costante» corrisponde una La tendenza necessaria al calo «crescente diminuzione di prezzo» dei prodotti. E questo perché «ogni del profitto fa emergere così in prodotto, preso per sé stesso, racchiude una somma minore di lavoro di quanto si registra nei gradi meno sviluppati della produzione», quando maniera eclatante le contraddiziocioè il capitalista spendeva molto di più in capitale variabile, cioè per ni dello «sviluppo progressivo della acquistare forza-lavoro. produttività sociale del lavoro». I • Questo comporta che «il saggio del plusvalore, qualora il grado di salariati diventano sempre più povesfruttamento del lavoro resti immutato oppure aumenti, trova ri (perché il loro lavoro è più corto e espressione in un saggio generale del profitto decrescente». • È dunque «in virtù della stessa natura della produzione vale meno), una gran massa tra di loro capitalistica e quasi fosse una logica necessità del suo diventa disoccupata e nel frattempo i sviluppo», che «il saggio generale medio del pluscapitalisti diventano sempre di meno e semvalore deve trovare espressione in un calo pre più ricchi (concentrando nelle mani di del saggio del profitto» [Il capitale, pochi tutta la produzione a livello internazionaIII, sez. 3, cap. 13]. le). Come un bozzolo, il sistema capitalistico ha 3. Per plusvalore relativo Marx intende: a. il rapporto esistente fra il pluslavoro e il capitale variabile, cioè il salario. b. il plusvalore che si origina dall’ottimizzazione del tempo, mediante l’introduzione delle macchine e la diminuzione del salario. c. il plusvalore che si origina dall’incremento delle ore lavorative dell’operaio. d. il rapporto esistente fra il plusvalore assoluto e l’intero capitale anticipato.

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incubato in sé la nascita di un altro modo di impostare i rapporti di produzione, quello comunista, senza proprietà e senza classi. 1 Secondo Marx, la caduta tendenziale del saggio di profitto si spiega: a. con l’aumento dell’investimento nel capitale fisso. b. con l’aumento del capitale variabile. c. con la progressiva meccanizzazione dell’industria che richiede meno lavoro. d. con la progressiva diminuzione della concorrenza a livello mondiale.

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8 La rivoluzione sociale e l’io individuale Marx ribadisce così – alla luce della nuova scienza economica – le conclusioni cui era giunto osservando empiricamente e analizzando filosoficamente i fenomeni della società borghese: l’atto conclusivo di questo sviluppo può essere unicamente la rivoluzione del proletariato, tanto più caldeggiata all’indomani della nascita dell’Associazione internazionale dei lavoratori, o Prima Internazionale (1864). La rivoluzione e il comunismo, proprio in quanto nascono da una tendenza necessaria della stessa società capitalista, rischiano di riprodurre – pur in condizioni economiche e politiche del tutto diverse – una medesima concezione di uomo come prodotto sociale. Che tale prodotto sia alienato o liberato, in entrambi i casi esso dipende totalmente dalle strutture

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L’analisi economica e l’attesa della liberazione. Il pensiero di Marx (1818-1883) ha costituito uno dei “fattori” filosofici, economici e politici più rilevanti e drammatici della fase storica iniziata alla fine dell’Ottocento e proseguita per tutto il Novecento sotto il nome di “comunismo”. L’apporto di Marx alla riflessione politica ed economica è strettamente congiunto alla paternità hegeliana del suo pensiero: una paternità dalla quale egli ha cercato di emanciparsi, ma da cui ha attinto alcune intuizioni fondamentali come quella del metodo dialettico, rielaborato in senso storico-materialistico. Il pensiero

dell’organizzazione sociale. L’uomo liberato è l’uomo che trova il suo posto armonico all’interno della collettività. Gli uomini così non saranno solo i “produttori” della storia, ma anche i meri “prodotti” di essa. Va anche detto che agli occhi di Marx l’io umano ha sempre avuto l’ingombrante significato dell’autocoscienza speculativa di Hegel o dell’astratta umanità di Feuerbach, e in definitiva dell’individuo borghese. E la libertà doveva scrollarsi di dosso le maglie dell’individualismo liberale e “reazionario”. Spazzata via la struttura sociale della borghesia, sarebbe stato spazzato via anche questo residuo ideologico che è il soggetto individuale e libero. Rimane aperto il problema se nella società comunista gli individui riuscirebbero o meno a riappropriarsi di questo “io” o se esso andrebbe totalmente dissolto nella soddisfazione dei bisogni sociali, e totalmente sacrificato alle esigenze della collettività. Ci piace ipotizzare che forse lo stesso Marx si sia posto la questione, quando, in una lettera privata alla moglie scriveva:



Io mi sento di nuovo un uomo, perché provo una grande passione, e la molteplicità in cui lo studio e la cultura moderna ci impigliano, e lo scetticismo con cui necessariamente siamo portati a criticare tutte le impressioni soggettive e oggettive, sono fatti apposta per renderci tutti piccoli e deboli e lamentosi e irresoluti. Ma l’amore non per l’uomo di Feuerbach, non per il metabolismo di Moleschott, non per il proletariato, bensì l’amore per l’amata, per te, fa dell’uomo nuovamente un uomo. [Lettera a Jenny, 21 giugno 1856]

di Marx si è sviluppato anche attraverso il confronto con i “giovani filosofi” tedeschi della sinistra hegeliana, con i socialisti utopistici francesi e con gli economisti classici inglesi. Con Hegel contro Hegel: la dialettica in questione. Già nello scritto Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1844) Marx contesta alla radice il metodo hegeliano consistente nel considerare la realtà materiale e storica come una sostanza astratta e puramente ideale. L’errore logico di Hegel sta nell’aver elevato l’idea o spirito infinito a soggetto reale (ovvero a sostanza), degradando la



realtà finita a mero prodotto accidentale della sostanza (ovvero ad un suo predicato). In questo consiste il “misticismo logico” hegeliano che, applicato alla politica, fa dello Stato il soggetto assoluto, dal quale discendono le persone reali come predicati. Tuttavia Marx eredita da Hegel il principio della dialettica, cioè la legge dell’opposizione. La separazione tra società civile e Stato, affermata da Hegel, permette secondo Marx di comprendere la nascita del mondo borghese moderno: l’età moderna si connota proprio per la separazione fra società economica e società politica. Il limite maggiore di Hegel sta nell’aver in-

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SINTESI CAPITOLO 2

Karl Marx capitolo 2 dicato come soluzione all’opposizione una sintesi speculativa e degli strumenti politici del tutto inadeguati: per Marx non si deve accettare passivamente la condizione contraddittoria in cui versa la società, come se fosse un momento necessario dell’idea, ma si deve produrre dalla sua contraddizione l’idea di una radicale modifica. Il problema dell’alienazione. Il tema dell’alienazione costituisce il nucleo essenziale del confronto del giovane Marx con la filosofia di Hegel e la sinistra hegeliana, con i socialisti utopistici e con gli economisti classici. Feuerbach fornisce a Marx il concetto dell’alienazione religiosa: se è vero che «è l’uomo che fa la religione, non la religione l’uomo», Marx precisa, tuttavia, che l’uomo non va mai considerato come un’«entità astratta». La religione nasce da una situazione di alienazione storico-materiale e al tempo stesso è utilizzata per coprire, come un oppiaceo, tale situazione. Per questo la filosofia deve smascherare anche il mondo storico da cui nasce l’esigenza religiosa degli uomini. Nelle Tesi su Feuerbach (1845) si consuma, così, il congedo definitivo dalla visione feuerbachiana della religione. Poiché la critica marxiana della religione si trasforma in critica della politica, il problema dell’alienazione viene ad essere analizzato a partire dalla struttura economica della società, attraverso il confronto con gli economisti classici, con i socialisti utopistici e con gli anarchici. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx mostra che la società capitalista si basa sulla contraddizione logica e materiale tra il lavoro salariato degli operai e il profitto dei proprietari dei mezzi di produzione, cioè dei capitalisti. Il lavoratore è costretto ad alienare il suo stesso lavoro, che giunge ad estraniarsi da lui e ad oggettivarsi in una proprietà privata (quella del capitalista) che non gli appartiene più. Questo avviene a tre livelli: il lavoratore è espropriato rispetto al prodotto del suo lavoro, rispetto al suo stesso lavoro e, infine, rispetto alla sua stessa essenza. Solo riappropriandosi del lavoro si potrà superare l’alienazione. Il materialismo storico. L’analisi dell’alienazione determina il passaggio definitivo da una dialettica di tipo

idealistico ad una di tipo materialistico. La concezione materialistica della storia, esposta nella Sacra famiglia (1845) e nell’Ideologia tedesca (1932), consiste nel ritenere che gli uomini dipendano nella loro essenza dalle condizioni materiali della produzione sociale. La filosofia hegeliana e posthegeliana viene chiamata da Marx “ideologia” in quanto rappresentazione falsa della realtà, che occulta in maniera mistificante l’origine storica dei processi reali. La coscienza degli uomini e lo sviluppo delle loro idee dipendono dal modo in cui nelle diverse società si è istituita la produzione economica e dalle forme di proprietà connesse. Dalla divisione del lavoro nascono le “classi” e con esse i rapporti di “dominio” di una classe su un’altra. La base materiale della società costituisce la “struttura” a partire dalla quale si origina la produzione di idee, considerata una “sovrastruttura”. Quando nella struttura i fattori dell’assetto economico-produttivo sviluppano una contraddizione interna, si produrrà un cambiamento anche a livello sovrastrutturale. Il comunismo. Per Marx la fuoriuscita dall’alienazione si realizza attraverso il “comunismo” che abolisce ogni forma di proprietà privata, consentendo all’uomo di riappropriarsi della sua vera essenza. Il comunismo è dunque una forma di “umanismo” e di “naturalismo”: esso non rappresenta uno stato di cose futuro, ma il «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». La base sociale di questo movimento risiede nel proletariato che ingaggia una lotta per la liberazione contro la classe capitalista detentrice dei mezzi di produzione. Nel Manifesto del partito comunista (1848) Marx, insieme ad Engels, concepisce la storia del mondo come una «storia di lotte di classe» fra chi detiene il dominio e chi se ne vuole affrancare. Poiché per poter mantenere la supremazia, la classe dominante ha assunto la forma di uno Stato, la società civile deve auspicare l’estinzione dello Stato stesso. Ma la contraddizione esistente nella società borghese tra coloro che vendono il proprio lavoro (i proletari) e coloro che sfruttano quel lavoro per accumulare sempre maggior profitto (i capitalisti) produce i germi della soppressione del capitalismo stesso. La realizzazione del

comunismo necessita, tuttavia, di un periodo transitorio coincidente con la dittatura del proletariato. Nella sua Critica al programma di Gotha (1875) Marx ritiene che, nella sua fase più avanzata, il comunismo coinciderà con il regno della libertà realizzata: “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”. La scienza economica del capitale. Secondo Marx le stesse leggi del processo di produzione del capitale porteranno a sviluppare le condizioni per l’inevitabile passaggio al comunismo. Per comprendere l’organizzazione economico-politica dell’età borghese, Marx parte dalla nozione di merce e dal suo doppio valore: valore d’uso, cioè il fatto che ogni merce soddisfa un certo bisogno, e valore di scambio, cioè il fatto che ogni merce può essere scambiata con altre merci. Nel sistema capitalistico le differenze qualitative del valore (d’uso) di una merce si riducono a quelle puramente quantitative, cioè al loro valore di scambio, espresso come denaro, che viene ad assumere un valore in sé. N elle società precapitaliste le merci circolavano seguendo il ciclo M-D-M (merce-denaro-merce); in quella borghese invece le merci circolano seguendo il ciclo D-M-D (denaro-merce-denaro che frutta un interesse). Il principio di questa economia è dunque “acquistare per vendere”, cioè acquistare merci per poterle poi rivendere ricavandone un surplus di denaro. Con il denaro iniziale il capitalista acquista quella merce fondamentale costituita dal lavoro umano: la forzalavoro del proletario è scambiata con un salario che permetta la sua sussistenza, e a sua volta questa forza produttiva viene trasformata in nuove merci da vendere, generando così una maggiore quantità di denaro, il profitto. Questo surplus di valore dipende da una legge riguardante la produzione. L’operaio non si limita a prestare una quantità di lavoro pari alla retribuzione salariale, ma sviluppa una prestazione maggiore, rispetto a quanto necessita per sostentarsi. Questa quantità eccedente di lavoro è chiamata da Marx “pluslavoro” e il valore in più che esso produce nelle merci è chiamato “plusvalore”. Secondo la formula dell’economia politica, dunque, il saggio del plusvalore

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parte I La filosofia dell’Ottocento

SINTESI CAPITOLO 2

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dipende dal suo rapporto con il capitale variabile (costo dei salari), mentre il saggio di profitto dipende dal rapporto tra il plusvalore e la somma di capitale fisso (costi delle macchine) e capitale variabile. Ma quanto più il capitalista investe in capitale fisso tanto minore è il profitto netto che ne rimane; inoltre quanto più meccanizzata è l’industria, tanto meno lavoro è

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necessario, e se diminuisce il lavoro diminuisce anche il plusvalore. Si tratta di una legge necessaria che Marx chiama «caduta tendenziale del saggio di profitto». La tendenza necessaria al calo del profitto fa emergere così in maniera eclatante le contraddizioni del sistema capitalistico che porta in sé le condizioni per l’avvento del comunismo.

La rivoluzione sociale e l’io individuale. La nuova scienza economica conferma le conclusioni cui Marx era giunto osservando empiricamente e analizzando filosoficamente i fenomeni della società borghese: l’esito di questo sviluppo può essere unicamente la rivoluzione del proletariato, tanto più caldeggiata all’indomani della nascita della Prima Internazionale.

• Lettera a Jenny Marx, in K. Marx F. Engels, Opere complete, vol. XL: Lettere 1859-1859, trad. di M.A. Manacorda e M. Montinari, a cura di M. Montinari, Editori Riuniti, Roma 1973.

• K. Marx, Antologia degli scritti politici, trad. di S. Mezzadra e M. Ricciardi, Carocci, Roma 2002.

BIBLIOGRAFIA Fonti

·

K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. III, a cura di N. Merker, trad. di G. Della Volpe, Editori Riuniti, Roma 1976 (ma anche la stessa trad., a cura di C. Pizzingrilli, Quodlibet, Macerata 2008). K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, trad. di R. Panieri, in K. Marx F. Engels, Opere complete, vol. III, cit. K. Marx, Manoscritti economicofilosofici del 1844, trad. di G. Della Volpe, in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. III, cit. (ma anche trad. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 2004). K. Marx, Tesi su Feuerbach, trad. di F. Codino, in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. V, Editori Riuniti, Roma 1972. K. Marx - F. Engels, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti, a cura di C. Luporini, trad. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1993. K. Marx, Per la critica dell’economia politica, a cura di M. Dobb, trad. di E. Cantimori Mezzomonti, Editori Riuniti, Roma 1974. K. Marx - F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, a cura di B. Bongiovanni, trad. di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 2005. K. Marx, La guerra civile in Francia, in Scritti sulla Comune di Parigi, trad. di P. Flores d’Arcais, La Nuova Sinistra, Roma 1971. K. Marx, Critica del programma di Gotha, trad. di G. Sgrò, Massari, Bolsena (Vt) 2008; K. Marx, Il capitale, a cura di E. Sbardella, trad. di R. Meyer, Newton Compton, Roma 20083.

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Opere L’edizione originale di riferimento delle opere di Marx è: • K. Marx - F. Engels, Historischkritische Gesamtausgabe (MEGA), a cura dell’Istituto Marx-Engels di Mosca, 12 voll., Berlino-Mosca 19271935 (attualmente in corso una nuova ed. in 30 voll.) In lingua italiana: K. Marx - F. Engels, Opere complete, 50 voll., Editori Riuniti, Roma 1972 ss.

·

Tra le altre opere di Marx vanno ricordate almeno: K. Marx, Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, trad. di D. Fusaro, Bompiani, Milano 2004; K. Marx, Lavoro salariato e capitale, trad. di F. Codino e P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 2006; B. Bauer - K. Marx, La questione ebraica, trad. di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2008; A. Ruge - K. Marx, Annali francotedeschi, a cura di G.M. Bravo, trad. di A. Pegoraro Chiarloni e R. Panzieri, Massari, Bolsena (Vt) 2001; K. Marx - F. Engels, La sacra famiglia. Ovvero critica della critica contro Bruno Bauer e Soci, trad. di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1986; K. Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla filosofia della miseria di Proudhon, trad. di F. Rodano, Editori Riuniti, Roma 1993; K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, trad. di E. Grillo, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1997;

· · · · · · ·

Studi critici Per un primo sguardo d’insieme: • G. Bedeschi, Introduzione a Marx, Laterza, Roma-Bari 2003 Sul rapporto con Hegel: R. Finelli, Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati Boringhieri, Torino 2004; R. Fineschi, Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Carocci, Roma 2006.

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Un approccio sistematico all’intero pensiero marxiano è offerto in: L. Althusser - E. Balibar et al., Leggere il Capitale, Mimesis, Milano 2006.

·

Sul contributo di Marx come scienziato sociale al di là della “profezia” comunista: G. Carandini, Un altro Marx. Lo scienziato liberato dall’utopia, Laterza, Roma-Bari 20067.

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Un Marx come pensatore decisivo per le scienze sociali è quello di: S. Veca, Saggio sul programma scientifico di Marx, Bruno Mondadori, Milano 2008.

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Per una presentazione sintetica del complesso di questioni divenute la base del “marxismo” si veda: P.B. Rossi, Marxismo, Laterza, Roma-Bari 1996.

·

Per una lettura in prospettiva “liberale” di Marx: I. Berlin, Karl Marx, Sansoni, Firenze 2004; N. Bobbio, Né con Marx, né contro Marx, Editori Riuniti, Roma 1997.

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Sull’attualità di Marx nel XXI secolo, secondo una voce marxista militante: E. Balibar, La filosofia di Marx, Manifestolibri, Roma 2005.

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ESERCIZI

Karl Marx capitolo 2 1. Accanto alla paternità hegeliana della riflessione politico-economica di Marx, attraverso quali altri contatti filosofici è venuto maturando il pensiero marxiano? (max 5 righe)

13. Perché secondo quanto Marx ed Engels affermano nel Manifesto del partito comunista la società civile deve auspicare l’estinzione di ogni forma di Stato? (max 5 righe)

2. Quale lettura della controversa fisionomia di Marx l’autore del manuale propone? (max 5 righe)

14. Illustra in sequenze i passaggi che, secondo Marx, porterebbero dallo Stato capitalista moderno all’avvento del comunismo, evidenziando i ruoli e i protagonisti di questo processo.

3. Qual è per Marx l’errore logico commesso da Hegel nella filosofia del diritto? (max 5 righe) 4. Qual è per Marx il limite del ricorso hegeliano al principio della dialettica? (max 8 righe) 5. Perché Marx critica aspramente il principio della rappresentanza politica dello Stato moderno? (max 5 righe) 6. La critica di Marx alla religione è da un lato debitrice alla filosofia di Feuerbach e dall’altro ne costituisce un deciso superamento. Mostra gli elementi di continuità e di rottura tra i due autori (max 8 righe). 7. Rispetto al problema dell’alienazione Marx corregge l’analisi dei processi strutturali dell’economia classica con le critiche dei socialisti utopisti e degli anarchici e corregge, di contro, questi con il rimando alle leggi della scienza economica. Spiega in che modo (max 8 righe). 8.Elabora un testo sull’alienazione economica del lavoro che evidenzi: a. le cause di tale fenomeno storico-materiale; b. la forma nella quale si manifesta; c. la soluzione proposta da Marx (max 15 righe). 9. Qual è per Marx il difetto principale del vecchio materialismo? (max 5 righe) 10. Che cos’è per Marx l’ideologia? E perché egli definisce tale la filosofia hegeliana e posthegeliana? (max 5 righe) 11. Illustra la concezione materialistica della storia di Marx utilizzando i seguenti concetti: sovrastruttura, condizioni materiali della produzione, forme di proprietà, struttura, essenza sociale, coscienza degli uomini (max 15 righe). 12. Completa il seguente schema: IL COMUNISMO come soluzione al problema dell’alienazione implica .... ........................................................................................ è un umanismo, ovvero .................................................. ........................................................................................ è un naturalismo, ovvero ................................................ ........................................................................................ è un movimento reale caratterizzato da .......................... ........................................................................................

15. Perché dopo i moti del 1848 Marx individua nell’Inghilterra il contesto più fecondo alla rivoluzione? (max 5 righe) 16. Dopo aver completato il seguente schema descrivi il processo attraverso cui si origina il profitto (max 15 righe): valore d’uso =………………………

 

MERCE

nella società precapitalistica è .......................…………..



valore di scambio = denaro



nella società capitalistica è …….........................………….. 17. Esponi la legge economica che è alla base della formazione del profitto. Nella tua trattazione utilizza i seguenti concetti: pluslavoro, lavoro necessario, plusvalore, tempo di lavoro superfluo, capitale variabile, capitale costante, saggio del profitto, saggio del plusvalore (max 15 righe). 18. Dopo aver chiarito la differenza fra plusvalore assoluto e plusvalore relativo, spiega perché quest’ultimo determina il declino dell’economia capitalistica (max 10 righe). 19. Evidenzia le contraddizioni interne al capitalismo sulle quali poggia la caduta tendenziale del saggio di profitto (max 8 righe).

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capitolo 3

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Realismo e psicologismo

N el dibattito filosofico sviluppatosi in Germania nei primi decenni del XIX secolo, in un contesto ancora dominato dalla cultura idealistica, emergono nuove tendenze che si presentano come una vera e propria fuoriuscita dall’idealismo, e che già contengono in nuce alcuni degli elementi che porteranno al tramonto dell’idealismo tedesco. Contro quest’ultima, l’esigenza che si fa strada sempre più insistentemente è quella di un ritorno al kantismo, con particolare riguardo alle tematiche gnoseologiche ed epistemologiche. Un interesse, questo, che si salda strettamente con l’attenzione per il problema delle scienze della natura e per la questione della validità della conoscenza empirica nei termini in cui essa era stata appunto formulata da Kant, e cioè come rapporto tra strutture della sensibilità e strutture della razionalità. In questa prospettiva si sviluppa una riflessione critica che trova particolare diffusione negli ambienti accademici di Jena, Heidelberg e Gottinga e che vede tra i suoi principali prota-

gonisti Fries ed Herbart. Una riflessione che, riallacciandosi soprattutto ai motivi dell’estetica e dell’analitica trascendentale – sviluppate da Kant nella Critica della ragion pura –, si caratterizza per la costante attenzione nei confronti delle strutture logiche e psicologiche che presiedono al processo di organizzazione dell’esperienza, dando vita al tentativo di fondare la dimensione logico-formale della conoscenza sulle dinamiche del funzionamento della mente umana, e preparando così il terreno per la nascita della psicologia scientifica.

1. Il dibattito filosofico che caratterizza i primi decenni del XIX secolo in Germania: a. ha come esito più evidente la nascita della psicologia scientifica. V b. coinvolge maggiormente tematiche gnoseologiche ed epistemologiche. V c. determina principalmente la fondazione della gnoseologia kantiana su base psicologica. V d. costituisce soprattutto una critica alla dottrina morale di Kant. V

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1 Il ritorno al kantismo

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Realismo e psicologismo capitolo 3

2 Fries e lo psicologismo Una prima interpretazione psicologica e non più trascendentale della gnoseologia di Kant è quella sviluppata da Jakob Friedrich Fries (Barby 1773-Jena 1843) nella Nuova critica della ragione (1807). Il merito che Fries riconosceva all’indagine kantiana era di aver sviluppato un metodo che consentisse alla ragione di conoscere sé stessa e di arrivare a constatare l’esistenza di forme a priori della soggettività quali «condizioni di possibilità dell’esperienza». E tuttavia, la grave carenza che Fries rintracciava nell’opera del filosofo di Königsberg era di essersi limitato alla sola descrizione di tali strutture conoscitive, senza chiarire a sufficienza il significato della sintesi a priori, cioè del modo in cui noi siamo in condizione di fare esperienza del mondo esterno attraverso le forme dell’intuizione e le categorie. L’esigenza primaria di una nuova critica della ragione diviene perciò quella di capire come la struttura dell’esperienza si coordini alla struttura psichica dell’uomo, ed è per questo motivo che Fries ritiene necessario correggere la definizione kantiana di “conoscenza trascendentale”, intendendola non più come «conoscenza della possibilità e dell’applicabilità delle conoscenze a priori» ma come «conoscenza psicologica, o meglio antropologica» [N uova critica della ragione, cap. 1, Introduzione], cioè come cognizione della natura interna della mente umana. In vista di un tale scopo diviene perciò centrale il metodo dell’autosservazione interiore, volto ad individuare, tramite l’induzione, il processo da cui hanno origine le leggi generali del pensiero, che sono appunto le modalità in cui si esplicano le strutture della nostra psiche. Questo tentativo si sviluppa in particolare attraverso una reinterpretazione della kantiana «deduzione dei concetti puri dell’intelletto» [ vol. 2, 23.4.7], la quale aveva il compito di giustificare la validità oggettiva della conoscenza, cioè la possibilità che le forme conoscitive del soggetto determinassero i fenomeni dell’esperienza come “oggetti”. Secondo Fries ciò che garantisce la verità delle nostre rappresentazioni non è infatti la loro “oggettività”, e cioè la loro capacità di determinare gli oggetti esterni al soggetto, quanto piuttosto la consapevolezza che il soggetto ha di sé stesso e

della sua attività interiore come causa delle stesse rappresentazioni: «io mi riconosco come causa della mia attività interna e mi attribuisco perciò le facoltà e le forze di questa attività» [Nuova critica della ragione, cap. 1]. La ragione, cioè, trova nella conoscenza della sua stessa attività – nella conoscenza di sé stessa – la testimonianza della verità delle rappresentazioni, poiché è solo nella misura in cui ci si affida a tale attività che diviene possibile avere notizia degli oggetti esterni. Non l’oggettività, ma la “fiducia” che la ragione ha di sé stessa fondano la conoscenza umana. È partendo da un tale presupposto che Fries avanza la necessità di distinguere nettamente tra una «fondazione oggettiva» e una «fondazione soggettiva» delle nostre conoscenze. La prima finisce per assumere l’oggetto come fondamento della verità della conoscenza: una pretesa che egli giudica irraggiungibile. La seconda, invece, tenta di spiegare – ricostruendo la “storia” della ragione – come questa sia pervenuta a una determinata conoscenza, poiché «una conoscenza è vera quando io sono cosciente di averla nella mia ragione». La storia della ragione è un processo che si articola in tre tappe – l’intuizione sensibile, l’immaginazione e l’intelletto – quali momenti del dispiegarsi dell’attività interna del nostro spirito, e di cui la seconda (l’immaginazione) è meritevole di particolare considerazione. Essa è infatti intesa come una sorta di attitudine della psiche ad impostare rapporti di reciproca interazione tra le rappresentazioni sensibili, da cui nascono strutture rappresentative più complesse (i concetti), che pur avendo origine dalla sensazione non sono comunque condizionate da essa. Su questo gioco interno delle rappresentazioni che si sviluppa nel contesto dell’immaginazione – termine medio tra la dimensione sensoriale e quella intellettiva – interviene poi l’attività riflessiva dell’intelletto cui spetta il ruolo dell’organizzazione e dell’elaborazione concettuale. In tal modo Fries evidenzia la consistenza psicologica delle forme logiche, dando vita ad una “logica antropologica” tendente a definire i concetti, pur nella loro validità oggettiva di rappresentazioni generali, come il risultato dell’attività dello spirito umano, ovvero come l’esito di una fondazione soggettiva che si riferisce solamente alle leggi interne della nostra psiche. La filosofia trascendentale di Kant è ormai divenuta una “scienza dell’esperienza psicologica”.

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parte I La filosofia dell’Ottocento 1. Fries nella Nuova critica della ragione: a. contesta a Kant il fatto di aver sostenuto l’esistenza delle forme a priori. b. evidenzia il limite dell’indagine gnoseologica kantiana che non spiega come l’esperienza si coordini alla psiche umana. c. rivisita il concetto di “trascendentale” in direzione psicologica. d. ritiene che la verità delle rappresentazioni sia nella loro capacità di determinare gli oggetti esterni.

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2. Per Fries la “novità” della critica della ragione sta: a. nell’assumere l’oggetto a fondamento della conoscenza. b. nella coscienza che la ragione ha di sé stessa come causa delle sue rappresentazioni. c. nella fondazione “oggettiva” della conoscenza. d. nel rifiuto di concepire le strutture formali della conoscenza come fondate sulle leggi interne della psiche.

3 Herbart e il realismo 3.1 Dall’esperienza alla metafisica Come una voce dissonante, la filosofia di Johann Friedrich Herbart (Oldenburg 1776Gottinga 1841) spezza la linea di continuità dei grandi sistemi speculativi formatisi tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, contestando apertamente gli sviluppi idealistici della filosofia romantica. L’idealismo peraltro era stato il punto di partenza della sua riflessione: a Jena egli aveva seguito i corsi universitari di Fichte, ma proprio i dubbi sulla validità della fichtiana Dottrina della scienza lo avevano portato a rinunciare alla filosofia idealistica in nome di un deciso e radicale realismo. La svolta della riflessione herbartiana può essere definita essenzialmente come un ritorno all’empirismo, nella ferma convinzione che la realtà non possa essere costruita partendo dall’esistenza di un principio metaempirico che determinerebbe il suo movimento interno – come voleva appunto l’idealismo –, ma debba essere conosciuta muovendo esclusivamente dall’esperienza stessa. Il tema di fondo della filosofia diviene allora per Herbart quello – di matrice kantiana – delle «condizioni di possibilità dell’esperienza», e il suo obiettivo quello di esaminare criticamente i concetti derivanti dai dati empirici, per ricondurli a rigorosa necessità e correggerne gli errori. La realtà non va più considerata

a partire dalle intuizioni sensibili del soggetto, ma come un dato che è altro dal soggetto, e su cui quest’ultimo però deve riflettere, per elaborare strutture concettuali sempre più articolate che consentano di coglierne primamente l’oggettività:



È assolutamente un abuso del vocabolo parlar di filosofia intuitiva. N on v’è altra filosofia che quella che muove dalla riflessione, cioè dalla comprensione dei concetti […]. I concetti, seppur nati innegabilmente dal dato (come il concetto del divenire), possono tuttavia contenere errori, e a motivo di questi ultimi essi si offrono, per esserne continuamente rovesciati, alla riflessione. [Introduzione alla filosofia, cap. 2]



N asce di qui la definizione herbartiana della filosofia come elaborazione di concetti, cioè come una riflessione di secondo grado su concetti già dati e utilizzati dalle altre scienze. Il primo e più generale livello di questa elaborazione è la logica – che insieme alla metafisica e alla psicologia è la disciplina su cui si concentrano i suoi principali sforzi – la cui più compiuta esposizione è contenuta nell’Introduzione alla filosofia (1813). Concepita come propedeutica necessaria a tutte le scienze, la logica ha per Herbart il compito di rendere i concetti chiari e distinti, ricercando i loro possibili collegamenti nei giudizi e nei sillogismi. Evidenziando il carattere puramente formale della logica, che si occupa solo delle relazioni del pensato (cioè delle connessioni tra i concetti) e non dell’attività del pensiero, Herbart esclude che essa possa in qualche modo confondersi con la psicologia. Resta però da precisare il nesso intercorrente tra la logica e la gnoseologia, vale a dire tra le forme delle connessioni del pensiero e i contenuti della conoscenza. In altri termini: qual è il contributo che la logica può offrire alla scienza? Pur riconoscendo che ciascuna scienza speciale ha un metodo proprio e degli specifici princìpi di conoscenza, Herbart assegna alla logica il ruolo di esaminare gli elementi fondamentali di tali princìpi, controllandoli e verificandone l’esattezza e con ciò di consentire alle discipline scientifiche di organizzare nel modo più razionale le proprie scoperte. Ma la funzione della logica finisce qui, giacché per Herbart essa non può nulla in merito all’acquisizione di nuove conoscenze, cioè di nuovi dati dell’esperienza.

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Realismo e psicologismo capitolo 3

Ponendo la questione dell’applicazione della logica alle indagini scientifiche, Herbart avanza dunque un’ulteriore e più radicale esigenza, cioè quella di capire in che misura le strutture formali del pensiero, garanti del nostro conoscere, siano in grado di riprodurre la struttura oggettiva della realtà di cui facciamo esperienza. Il problema diventa stringente proprio perché noi sperimentiamo la realtà come soggetta a tutta una serie di contraddizioni che non trovano spiegazione nella struttura logica del nostro pensiero. Come potrà dunque la filosofia elaborare concettualmente una materia che appare fatta da elementi inconciliabili? Con una tale domanda, la riflessione transita dal piano della logica a quello – ad essa strettamente connesso – della metafisica. Solo qui, infatti, è possibile un esame dell’esperienza conoscitiva che consenta di riconoscere e insieme di rimuovere le innegabili contraddizioni in essa presenti e che dunque favorisca una sua riorganizzazione logica. Comprendere l’esperienza, infatti, significa innanzitutto ricostruirla razionalmente, escludendo tutti i concetti contraddittori o aporetici cui essa dà origine. Tali sono, per esempio, la nozione di sostanza, che appare contemporaneamente una e molteplice se si considera lo svariato numero di qualità (o note) che designano una medesima cosa; la nozione di mutamento, poiché in tutte le sostanze alcune note perdurano nel tempo, altre invece cambiano, sicché una stessa cosa appare simultaneamente persistente e mutevole; e la nozione di causa, per spiegare la quale siamo costretti a rinviare ad una serie infinita di altre cause che essa necessariamente presuppone. La metafisica, che proprio dall’esperienza deve prendere le mosse, ha per Herbart lo scopo fondamentale di individuare la dimensione del “reale” o dell’“essente” sottintesa allo svolgimento dell’esperienza; ma è esattamente questo che la legittima ad oltrepassare il dato empirico per renderlo pensabile, cioè per sottrarlo all’innegabile contrasto in cui esso si viene a trovare con i princìpi della logica, primo fra tutti quello di non-contraddizione. Come leggiamo infatti in una delle opere più importanti di Herbart, la Metafisica generale del 1828-29:



Tutta quanta la nostra speranza di avvicinarci all’essente dipende dal dato, anche quando si fa strada la convinzione che le sue forme siano

inficiate da contraddizioni interne. La speranza però non viene meno per questo (come parrebbe ai più), ma anzi, aumenta addirittura. Perché proprio nelle contraddizioni si trovano gli stimoli a procedere oltre col pensiero e la legittimazione ad oltrepassare il dato. [Metafisica generale, parte II, § 38]



Si tratta, allora, di costruire una realtà concettuale non contraddittoria e obiettivamente descrivibile, che sia in grado di soddisfare al tempo stesso logica ed esperienza, riconoscendo che tutto ciò che appare molteplice e contraddittorio non è la vera realtà, ma solo un “punto di vista contingente” su di essa, cioè il nostro modo insufficiente di conoscere le cose. La contraddittorietà del nostro conoscere nasce infatti dal far valere due termini opposti come un unico indiviso, come per esempio nel caso già esaminato della sostanza. La soluzione – che Herbart affida al cosiddetto “metodo delle relazioni” – consiste allora nel negare, sul piano concettuale, l’unità degli opposti, riconoscendo che uno stesso elemento non può portare in sé due predicati antitetici, e che invece di un unico elemento bisogna postulare una pluralità di elementi, i quali entrano appunto in molteplici relazioni tra di loro. Per intenderci, se consideriamo separatamente i due giudizi A è b e A è non b – come i due elementi tra cui sussiste una relazione – essi non generano contraddizione alcuna, ma se li accorpiamo otteniamo il giudizio A è b e non b, evidentemente contraddittorio poiché predica di uno stesso soggetto una qualità ed anche il suo opposto. Ciò che il metodo delle relazioni consente di riconoscere è dunque che le proprietà molteplici e contraddittorie che si danno a livello dell’esperienza ineriscono al solo piano dell’apparenza e non a quello dell’essere (della realtà in sé). Quest’ultimo – e così veniamo alla tesi ontologica fondamentale di Herbart – è costituito infatti da infiniti “reali” o “essenti” (corrispondenti ai noumeni kantiani), ciascuno dei quali, considerato per sé, è semplice ed immutabile, ma rapportato agli altri suscita nell’osservatore l’apparenza della molteplicità e del divenire. Ma tale apparenza non è nient’altro che un punto di vista, una struttura astratta (qualcosa di simile ad una formula) attraverso cui l’accadere effettivo può trovare espressione nel pensiero, una veduta accidentale che rappresenta

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solo una delle tante possibili relazioni tra i reali in gioco. Per esempio: una linea tracciata su un foglio può essere il lato di un triangolo o qualsiasi altra cosa, ma tutte queste sue potenziali trasformazioni cessano di darsi se consideriamo la linea in sé. L’essere, dunque, ammette un’infinita quantità di punti di vista e di relazioni che ne costituiscono la manifestazione fenomenica, ma la sua vera essenza, la sua vera qualità è in sé semplice, e resta per noi inconoscibile. Le cose, perciò, non sono come ci appaiono e tuttavia noi non abbiamo altro che questa apparenza, la quale costituisce pur sempre un’indicazione – anzi la sola indicazione – del reale che è a suo fondamento. Così, dopo essersene temporaneamente allontanata, la metafisica deve necessariamente ritornare al dato, alla cui autorità non può in alcun modo sottrarsi:



non abbiamo mai e in nessun caso abbandonato l’ambito della realtà, mai l’abbiamo perso di vista. Tutto il dato vale originariamente per il reale. La pretesa del dato alla realtà viene sospesa, ma non eliminata, quando si trova che, così com’era dato, non poteva essere pensato [...]. Ora, tenendo sempre salda la convinzione che un reale era dato, alla domanda: che tipo di reale? – si può rispondere così: che la risposta dipende pur sempre dal dato ed è da esso determinata, benché non sia immediatamente identica ad esso. [Metafisica generale, parte I, § 33]



In questa prospettiva, la realtà data va concepita come il risultato delle relazioni fra i molteplici reali, che si condizionano a vicenda: Herbart parla di “perturbazioni” reciproche fra gli elementi semplici e dell’“autoconservazione” con cui ognuno di essi si contrappone alla pressione esterna degli altri, permanendo nel suo essere unitario. Il caso emblematico di queste relazioni è quello dell’anima, considerata anch’essa come un “reale”, e il cui modo di autoconservarsi, riaffermando la sua unità e semplicità nei confronti delle perturbazioni esterne, coincide con la sua stessa capacità di rappresentazione.

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1. Per Herbart la logica: a. è soltanto una scienza formale. b. ha per oggetto i contenuti della conoscenza. c. può fornire nuovi dati alle scienze. d. si occupa dell’attività del pensiero e non della connessione tra i concetti.

3.2 Dalla metafisica alla psicologia In questo modo diviene dunque possibile, secondo Herbart, risolvere le contraddizioni insite nell’esperienza, e in particolare quelle relative a uno dei problemi metafisici fondamentali, vale a dire quello dell’“io”. Esso costituisce il concetto fondamentale della riflessione idealistica, di cui Herbart evidenzia il duplice carattere contraddittorio: in primo luogo, l’io viene inteso come l’origine di tutte le nostre molteplici rappresentazioni e al tempo stesso come ciò che deve conservare intatta la sua unità; in secondo luogo esso viene concepito come pura autocoscienza, in cui l’oggetto della rappresentazione coincide a sua volta con la sola capacità di rappresentazione, riducendosi in tal modo ad un rappresentare senza rappresentato. La soluzione di tali contraddizioni consiste, per Herbart, in un totale ribaltamento della posizione idealistica, per cui dal concetto di io come principio originario e substrato della vita spirituale, occorre passare a quello di un io semplicemente inteso come un dato dell’esperienza, come una “complessione” di rappresentazioni. In una parola: dall’io assoluto all’io psicologico o “anima”. Affermare, come fa Herbart nella sua psicologia, che l’anima è un reale semplice ed immutabile, vuol dire spogliarla di quelle facoltà “mitologiche” – come il sentimento, il desiderio o la volontà – che le erano state attribuite da Kant, e ricondurla alla semplice capacità di rappresentare quell’insieme di “note” che chiamiamo cose. La psicologia herbartiana si occupa dunque delle rappresentazioni e dei loro rapporti, che possono essere di reciproca inibizione o anche di unificazione, nel senso che una rappresentazione può impedirne un’altra, contrastandola, o può favorirla indebolendosi a sua volta. Tutte le facoltà dell’anima umana dipendono solo dal reciproco antagonismo di queste rappresentazioni, intese come vere e proprie forze meccaniche. Di qui deriva a Herbart la nozione – che sarà ripresa ed ampliata dalla psicologia posteriore – di “soglia”, ossia quel punto della coscienza al disotto del quale le rappresentazioni si oscurano e al disopra del quale invece si chiarificano. Questa riduzione della vita psichica ad un movimento dinamico di rappresentazioni nella coscienza – una vera e propria “meccanica” dello spirito – consente ad Herbart di sostenere la necessità dell’applicazione della matematica a

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tutti i processi psicologici, interamente riconducibili a grandezze quantitative. E probabilmente, fu proprio quest’ultimo aspetto che gli valse l’accusa di scarsa sensibilità nei confronti della problematica storico-sociale. In realtà, un’analisi attenta della psicologia herbartiana mostra, all’inverso, l’evidente consapevolezza di dover studiare l’individuo sempre all’interno di una più ampia prospettiva storica, che sola consente di spiegare il significato dell’azione dei singoli. Ed è un tema amplificato particolarmente nella riflessione sulla pedagogia, il cui ideale è quello di un’educazione intesa come “formazione” di pensieri e di atteggiamenti grazie al fatto che nell’anima possono essere meccanicamente “plasmate” le relazioni tra le diverse rappresentazioni. Così, nonostante l’esplicito rifiuto di una psicologia empirica e la chiara convinzione che tale disciplina debba fondarsi piuttosto sui princìpi della metafisica generale – che essa appunto estende ai dati della coscienza –, Herbart anticipa le tematiche che saranno proprie dell’analisi psicologica successiva. Per un verso, infatti, con la sua “psicologia matematica”, egli apre la strada alla fondazione della psicologia scientifica; per l’altro, con la considerazione dell’uomo come prodotto storicosociale, delinea già i tratti essenziali di quella che Wundt chiamerà “psicologia dei popoli”. 1. In Herbart la metafisica: a. deve fornire una costruzione della realtà che tenga insieme logica ed esperienza. b. si avvale del “metodo delle relazioni”. c. non deve considerare il dato reale. d. deve riconoscere che l’apparenza molteplice e contraddittoria è l’unica vera realtà.

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2. Nella psicologia di Herbart: a. l’io diventa il principio originario e assoluto delle rappresentazioni. b. le facoltà dell’anima sono ontologicamente insite nell’io. c. i processi dell’io non sono riconducibili a grandezze quantitative. d. l’io diventa il semplice movimento delle rappresentazioni.

3.3 La filosofia pratica È proprio dalla constatazione che le azioni umane si svolgono sempre in un contesto relazionale che scaturisce la filosofia pratica di Herbart, prevalentemente esposta nello scritto del 1808 intitolato appunto Filosofia pratica

generale, il cui scopo è quello di mostrare come le volontà individuali tendano verso una progressiva armonizzazione, in una sempre più stretta comunione tra i membri della società. Come le altre parti della sua filosofia, anche l’etica prende le mosse dall’opera kantiana, la cui distinzione tra sfera conoscitiva e sfera pratica consente ad Herbart di inserire l’etica nell’ambito più generale dell’estetica. Occorre infatti riconoscere una certa affinità tra i giudizi della filosofia pratica e quelli estetici, trattandosi in entrambi i casi di giudizi di valore. Così, nel definire il rapporto della morale con l’estetica, Herbart sottolinea come quest’ultima abbia la funzione di fornire le norme a cui devono riferirsi i giudizi morali e ai quali si deve poi conformare la volontà: tali modelli sono appunto le idee pratiche di libertà interiore, perfezione, benevolenza, diritto ed equità. Esse indicano dei comportamenti adeguati, giacché sono patrimonio comune della natura umana, cui si contraddice non ubbidendo. E poiché – come dicevamo – l’essere umano va inteso per Herbart sempre nella sua storicità e nel suo progredire, a queste cinque idee pratiche originarie il nostro filosofo fa corrispondere cinque idee derivate, il cui compito è definire i rapporti che intercorrono tra molte volontà, in un costante progresso verso una sempre maggiore unità. Esse, cioè, rappresentano le condizioni atte a suscitare intenti comuni, a generare una vera e propria unità sociale che, insieme alle esigenze collettive, tuteli anche quelle individuali. Tali sono appunto l’idea della società di diritto, il cui scopo è eliminare il conflitto; quella del sistema dei compensi, che consente di attuare l’idea dell’equità premiando le buone azioni; quella del sistema amministrativo che mira al benessere generale rendendo compatibili i fini soggettivi; quella del sistema di cultura, che ha lo scopo di intensificare gli sforzi individuali per il raggiungimento di un fine comune; quella della società animata, con cui si dà origine ad una coscienza comune espressa nell’esigenza che ogni singolo giudizio sia inteso da tutti come se fosse il proprio giudizio. Così, con l’introduzione delle idee morali derivate, l’etica di Herbart culmina in una filosofia sociale, il cui compito è descrivere il continuo progresso della società verso forme sempre più armoniche di organizzazione e di integrazione delle forze individuali, di cui l’esperienza – ancora una volta – ci offre testimonianza.

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4 La psicologia scientifica e Wundt A partire dagli anni Quaranta del XIX secolo comincia a svilupparsi tutta una serie di tentativi per sottoporre le analisi psicologiche alle procedure sperimentali, che culminerà, circa venti anni più tardi, nella nascita della psicologia come scienza autonoma. Il paese in cui un tale progetto trova un impulso decisivo è la Germania, dove il connubio tra una vivace cultura filosofica ed un’indagine scientifica all’avanguardia costituiva il presupposto per lo sviluppo di un vero e proprio programma di psicologia fisiologica. Già Hermann von Helmholtz (Potsdam 1821Berlino 1894) – a cui risulterà debitrice una larga parte della psicologia sperimentale – aveva riconosciuto, seppur con una certa cautela, l’esistenza di un’interazione tra il piano delle sensazioni e quello delle leggi del pensiero. N ello scritto sui Fatti nella percezione (1879) egli sottolineava la circostanza che ogni percezione sensoriale presuppone sempre un’attività psichica inconscia, la quale stabilisce un legame inferenziale tra lo stimolo sensoriale e l’oggetto esterno che lo causa. In sostanza, è solo grazie a questa attività psichica che è possibile, partendo dalle sensazioni, formulare un giudizio secondo cui esiste fuori di noi un determinato oggetto avente determinate caratteristiche. Ma il primo vero tentativo organico di stabilire dei rapporti di dipendenza tra il mondo fisico e il mondo psichico è quello di Theodor Gustav Fechner (Gross-Särchen 1801-Lipsia 1887). Appropriandosi del metodo delle scienze fisiche, con i suoi Elementi di psicofisica (1860) egli volle mettere a punto un criterio che consentisse di misurare i fenomeni psichici, e giunse così ad enunciare – dopo averla constatata sperimentalmente – la legge secondo cui il variare degli stimoli che producono le sensazioni dà luogo al variare delle sensazioni stesse secondo rapporti costanti di proporzionalità. Una volta riconosciuto il fallimento di tutti i tentativi di misurare i fenomeni psichici in base a sé stessi, Fechner giunse a misurare oggettivamente tutte le variazioni che avvengono a livello psichico, attraverso l’esame dei processi fisiologici ad esse concomitanti. Le nuove prospettive aperte dalla legge di Fechner consentirono a Wilhelm Wundt

(N eckarau, Mannheim 1832-Grossbothen, Lipsia 1920) di realizzare il proprio progetto di una psicologia come scienza sperimentale. Nei Lineamenti di psicologia fisiologica (1873-1874), Wundt arrivò a postulare l’esistenza di un vero e proprio parallelismo tra il piano fisiologico e quello psicologico, rilevabile attraverso l’applicazione del metodo sperimentale. Tuttavia, la fondazione della psicologia come scienza coerente e completa richiedeva per Wundt l’applicazione di un tale metodo non solo all’ambito in cui psicologia e fisiologia si toccano, cioè quello della sensazione, ma anche a quello delle cosiddette attività psichiche superiori, ovvero all’ambito del pensiero puro. L’anima va infatti intesa come una struttura unitaria che, nonostante la molteplicità e complessità delle sue attività, può essere benissimo l’oggetto di un esperimento psicologico. Quest’ultimo è rappresentato per Wundt dall’“introspezione informativa”, consistente nel provocare, nel soggetto dell’esperimento, una sensazione specifica in determinate condizioni di laboratorio e nel confrontare i dati della sua introspezione con quelli relativi ad altri soggetti. La più significativa delle conclusioni tratte da questa rilevazione di dati psichici è il “principio della causalità psichica”, secondo cui certi processi psichici sono costantemente consequenziali ad altri. Da qui la necessità di individuare una serie di leggi di relazione che consentano di spiegare la natura di tali concatenazioni. Tra queste leggi, particolare rilievo assumono la “legge delle risultanze psichiche” o della “sintesi creatrice”, secondo cui la somma degli elementi che compongono un processo psichico possiede proprietà diverse rispetto a quelle di ogni elemento preso singolarmente; la “legge delle relazioni psichiche”, per cui ogni contenuto di coscienza ha senso non in sé ma solo in relazione agli altri contenuti cui è associato; e la “legge dei contrasti psichici”, la quale afferma che i contenuti della coscienza si ordinano sempre secondo sentimenti contrari (piacere e dispiacere, tensione e sollievo, ecc.). Ma accanto alla psicologia individuale, Wundt delinea anche la necessità di una Psicologia dei popoli (titolo di una sua opera del 1911-1920) che sia in grado di cogliere i processi psichici su cui si fondano le comunità umane, e che si occupa di quei prodotti spirituali come il linguaggio, il mito e il costume che si formano e si sviluppano nel corso della storia. Quest’ultima è suddivisa dallo psicologo

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SINTESI CAPITOLO 3

tedesco in quattro grandi periodi: quello “dell’uomo primitivo”, in cui ha inizio la vita di relazione; quello “totemistico”, caratterizzato dal soddisfacimento dei bisogni materiali; quello “degli eroi e degli dei”, in cui si esalta l’individualità; ed infine quello “dell’evoluzione verso l’umanità”, in cui nascono le grandi religioni universali. Così, attraverso i suoi ultimi sviluppi, l’indagine di Wundt mise in luce il dirigersi dell’analisi psicologica verso un modello di scientificità che, pur ispirandosi a quello delle discipline capaci di calcolo e previsione (fisica e matematica), non poteva non tener conto anche di quelle scienze attente alla dimensione storico-temporale della vita, che sempre maggior peso stavano assumendo nel dibattito scientifico del tempo. Il ritorno al kantismo. N el dibattito filosofico sviluppatosi in Germania nei primi decenni del XIX secolo emergono nuove tendenze che segnano una fuoriuscita dall’idealismo. Si fa strada insistentemente il ritorno al kantismo, in ordine alle tematiche gnoseologiche ed epistemologiche connesse al problema delle scienze della natura e della validità della conoscenza empirica. Tale dibattito si diffonde negli ambienti accademici di Jena, Heidelberg e Göttingen e vede tra i suoi principali protagonisti Fries ed Herbart, i quali, tentando di fondare la dimensione logico-formale della conoscenza sulle dinamiche del funzionamento della mente umana, preparano il terreno per la nascita della psicologia scientifica. Fries e lo psicologismo. Jakob Friedrich Fries (1773-1843), nella N uova critica della ragione (1807), fornisce una prima interpretazione psicologica e non più trascendentale della gnoseologia di Kant. Il limite di Kant sta per Fries nell’essersi limitato alla sola descrizione delle strutture conoscitive, senza chiarire il modo in cui siamo in condizione di fare esperienza del mondo esterno attraverso le forme dell’intuizione e le categorie. L’esigenza primaria della nuova critica della ragione è quella di capire come la struttura dell’esperienza si coordini alla struttura psichica dell’uomo. Mettendo al centro il metodo dell’autosservazione interiore, Fries giunge ad af-

1. Le novità introdotte da Helmholtz e Fechner nella ricerca psicologica consistono: a. nell’idea dell’esistenza di un legame fra la percezione sensoriale e l’attività psichica. V F b. nell’aver introdotto per primi il concetto di “soglia”. V F c. per Fechner nell’aver formulato una legge matematica per misurare i fenomeni psichici. V F d. nell’aver esplicitamente fondato il metodo sperimentale in psicologia. V F 2. Per Wundt: a. la psicologia può essere scienza sperimentale solo se delimita il suo oggetto d’indagine alla sensazione. b. l’unica psicologia possibile è quella individuale. c. l’esperimento psicologico poggia sul metodo dell’introspezione informativa. d. la somma degli elementi di un processo psichico ha le stesse proprietà di ogni singolo elemento.

fermare che ciò che garantisce la verità delle nostre rappresentazioni non è la capacità di determinare gli oggetti esterni al soggetto, ma la consapevolezza che il soggetto ha di sé stesso e della sua attività interiore come causa delle stesse rappresentazioni. Pertanto Fries oppone alla «fondazione oggettiva» una «fondazione soggettiva» della conoscenza, la quale ricostruendo la “storia” della ragione attraverso l’intuizione sensibile, l’immaginazione e l’intelletto, spiega come la ragione pervenga a una determinata conoscenza. Fries evidenzia la consistenza psicologica delle forme logiche, dando vita ad una «logica antropologica». Herbart e il realismo. La filosofia di Johann Friedrich Herbart (17761841) si costituisce come un ritorno all’empirismo, nella ferma convinzione che la realtà non possa essere costruita partendo da un principio metaempirico, ma esclusivamente dall’esperienza stessa. La realtà, infatti, è un dato che è altro dal soggetto e su cui quest’ultimo deve riflettere, per elaborare strutture concettuali articolate che consentano l’accesso ad essa. La filosofia diviene elaborazione di concetti, cioè una riflessione di secondo grado su concetti già dati e utilizzati dalle altre scienze. Il primo livello di questa elaborazione è la logica, la cui più compiuta esposizione è contenuta nell’Introduzione alla filosofia (1813). La logica ha per Herbart un carattere puramente formale, poiché si occupa solo delle relazioni del

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pensato (cioè delle connessioni tra i concetti) e non dell’attività del pensiero; pertanto essa non può nulla in merito all’acquisizione di nuove conoscenze. Herbart avanza l’esigenza di comprendere la struttura oggettiva della realtà, essendo questa soggetta a tutta una serie di contraddizioni che non trovano spiegazione nella struttura logica del nostro pensiero. La metafisica, muovendo dall’esperienza, ha lo scopo di oltrepassare il dato empirico per renderlo pensabile. A tal fine Herbart elabora il “metodo delle relazioni” attraverso cui mostra che le proprietà molteplici e contraddittorie dell’esperienza ineriscono al solo piano dell’apparenza e non a quello dell’essere (della realtà in sé). Quest’ultimo è costituito da infiniti “reali” o “essenti” che, considerati per sé, sono semplici e immutabili, ma rapportati agli altri suscitano l’apparenza della molteplicità e del divenire. In tale prospettiva, Herbart supera le contraddizioni del problema metafisico dell’“io”, ribaltando la posizione idealistica. L’io di Herbart è un dato dell’esperienza, una “complessione” di rappresentazioni. Pertanto il terzo livello della riflessione filosofica è costituito dalla psicologia: questa si occupa delle rappresentazioni e dei loro rapporti, che possono essere di reciproca inibizione o anche di unificazione; tutte le facoltà dell’anima umana dipendono solo dal reciproco antagonismo di queste rappresentazioni, intese come vere e proprie forze meccaniche. Questa riduzione della vita psichica ad un mo-

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vimento dinamico di rappresentazioni nella coscienza consente al nostro autore di sostenere la necessità di applicare la matematica a tutti i processi psicologici, interamente riconducibili a grandezze quantitative. La psicologia scientifica e Wundt. Negli anni Quaranta del XIX secolo, in Germania si sviluppano i primi tentativi di sottoporre le analisi psicologiche alle procedure sperimentali, che culmineranno vent’anni dopo nella costituzione della psicologia come scienza autonoma. Protagonisti di tali tentativi sono:

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Hermann von Helmholtz (18211894), che nello scritto sui Fatti nella percezione (1879) sottolinea come ogni percezione sensoriale presupponga sempre un’attività psichica inconscia; Theodor Gustav Fechner (1801-1887), che con i suoi Elementi di psicofisica (1860) stabilisce rapporti di dipendenza tra il mondo fisico e il mondo psichico, formulando la legge secondo cui il variare degli stimoli che producono le sensazioni dà luogo al variare delle sensazioni stesse secondo rapporti costanti di proporzionalità; Wilhelm Wundt (1832-1920), il quale nei Lineamenti

di psicologia fisiologica (1873-1874) arriva a postulare l’esistenza di un vero e proprio parallelismo tra il piano fisiologico e quello psicologico, rilevabile attraverso l’applicazione del metodo sperimentale. Wundt, attraverso il metodo dell’introspezione informativa, afferma il “principio della causalità psichica”, secondo cui certi processi psichici sono costantemente consequenziali ad altri ed individua una serie di leggi di relazione che consentano di spiegare la natura di tali concatenazioni. La psicologia diviene così scienza sperimentale.

• J.F. Herbart, Il fondamento del sistema platonico, trad. di F. Aronadio, Le Lettere, Firenze 2007. J.F. Herbart, Pedagogia generale derivata dal fine dell’educazione, trad. di I. Volpicelli, La Nuova Italia, Firenze 1997. H. von Helmholtz, Opere scelte, trad. di V. Cappelletti, Utet, Torino 1996. W. Wundt, Scritti scelti, a cura di C. Tugnoli, Utet, Torino 2006.

nel pensiero di J.F. Herbart, Unicopli, Milano 2006.

BIBLIOGRAFIA Fonti

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J.F. Fries, Nuova critica della ragione, brani citati in D. Roberto, Kant e Fries. Significato e legittimità della «svolta antropologica», Unicopli, Milano 2007. J.F. Herbart, Introduzione alla filosofia, a cura di B. Croce e G. Gentile, trad. di G. Vidossich, Laterza, Bari 1927. J.F. Herbart, Metafisica generale con elementi di una teoria filosofica della natura, trad. di R. Pettoello, Utet, Torino 2003.

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Opere

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J.F. Herbart, I cardini della metafisica, trad. di R. Pettoello, Franco Angeli, Milano 1981. J.F. Herbart, Manuale di psicologia, a cura di I. Volpicelli, Armando, Roma 1982.

ESERCIZI

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Studi critici Su Herbart si consigliano: R. Pettoello, Idealismo e realismo. La formazione filosofica di Herbart, La Nuova Italia, Firenze 1986; R. Pettoello, Introduzione a Herbart, Laterza, Roma-Bari 1988; N. Moro, Armonia e contrappunto

· · ·

1. A quale tentativo pone capo la riflessione critica in Fries ed Herbart? (max 5 righe) 2. Qual è, secondo Fries, il compito della “nuova critica della ragione” e quale il metodo con cui attuarlo? (max 5 righe)

Per uno sguardo d’insieme sulla psicologia ottocentesca: S. Poggi, I sistemi dell’esperienza. Psicologia, logica e teoria della scienza da Kant a Wundt, il Mulino, Bologna 1977.

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Sull’evoluzione della psicologia empirica si vedano: M. Meulders, Helmholtz, Dal secolo dei Lumi alle neuroscienze, Bollati Boringhieri, Torino 2005; M. Sinatra, Storia della psicologia prescientifica. Lo sperimentale prima di Wundt, Progedit, Bari 2005; G. Soro, Il soggetto senza origini. La soggettività empirica nella fondazione wundtiana della psicologia sperimentale, Raffaello Cortina, Milano 1991.

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6. Esplicita qual è per Herbart il contributo della metafisica alla conoscenza della realtà e quale il suo metodo (max 8 righe). 7. Chiarisci in che modo per Herbart è possibile superare le contraddizioni dell’esperienza (max 5 righe).

3. Su che cosa si fonda per Fries la verità delle nostre conoscenze? Perché egli prende le distanze dalla Deduzione trascendentale di Kant? (max 8 righe)

8. Esponi in sintesi i contenuti della riflessione filosofica di Herbart partendo dalla sua definizione di filosofia e mostrandone le articolazioni interne (max 15 righe).

4. Chiarisci le ragioni della svolta empirista della filosofia di Herbart (max 5 righe).

9. Delinea i passaggi fondamentali che hanno portato alla nascita, in Germania, della psicologia sperimentale con Wundt (max 10 righe).

5. Qual è per Herbart l’essenza della logica e quale apporto essa può dare alle scienze? (max 8 righe)

10. Illustra la concezione wundtiana dell’anima (5 righe).

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capitolo 4

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Arthur Schopenhauer

1 Il ripensamento dell’eredità kantiana Schopenhauer appartiene alla schiera di quei filosofi che non hanno goduto di un particolare riconoscimento durante la propria esistenza, o l’hanno ottenuto solo molto tardi. Ciò non gli ha impedito di coltivare la convinzione di aver realizzato qualcosa di importante non solo o non tanto per i contemporanei, quanto per l’umanità in quanto tale. Le righe iniziali del suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione, lasciano pochi dubbi in proposito:



N on ai contemporanei, non ai miei compatrioti, ma all’umanità io consegno la mia opera ormai compiuta, persuaso che non sarà per essa senza valore: anche se questo valore, qual è solitamente il destino del bene in ogni genere, verrà riconosciuto con ritardo. [Il mondo come volontà e rappresentazione, Prefazione alla 2a ed.]



Non si può dire che Schopenhauer abbia ispirato, come poi Kierkegaard [ 5], un’intera cor-

rente di pensiero, ma indubbiamente alcuni dei suoi temi risultano ancora oggi di moda, soprattutto per quel che riguarda la concezione pessimistica della realtà e i temi più salottieri, riguardanti la vita pratica e le convenzioni sociali, esposti in tutta una serie di aforismi. N on è su questo, tuttavia, che Schopenhauer aveva riposto la sua fiducia di restare nella storia del pensiero. La principale posta in gioco della sua riflessione era un’altra: quella di ripensare in profondità l’eredità di Kant e dei postkantiani, per suggerire una diversa, originale articolazione dei rapporti tra metafisica ed etica. Non solo Il mondo come volontà e rappresentazione, ma tutte le sue opere principali cercano di rispondere in effetti a una medesima questione di fondo, riformulabile in molti modi: come può l’io essere ad un tempo soggetto conoscente (teoretico) e soggetto volente (pratico)? Com’è possibile ricombinare in modo più coerente (anche se non necessariamente unitario) di quanto non abbia fatto lo stesso Kant la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica? Com’è possibile tenere insieme la libertà assoluta e atemporale del soggetto pratico, che appartiene al mondo

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noumenico, con l’ineluttabile condizionamento empirico del soggetto stesso in quanto agisce nel mondo dell’esperienza?

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1. Il nodo centrale della riflessione di Schopenhauer consiste: a. nell’elaborazione di una concezione pessimistica della realtà. b. nel tentativo di cancellare i guadagni del kantismo. c. nel tentativo di ripensare la questione kantiana del rapporto fra il soggetto teoretico e quello pratico. d. nell’elaborazione di una serie di precetti pratici e concreti per affrontare la vita quotidiana.

2 La vita e le opere Arthur Schopenhauer nacque il 22 febbraio 1788 a Danzica (allora città libera, destinata di lì a poco a essere riassorbita nella Prussia, oggi in Polonia). Il padre era un commerciante affermato, con una fitta rete di rapporti in Europa: anche il figlio sembrava originariamente destinato a seguire le orme del padre e a continuarne l’attività. Lo stesso nome che gli venne dato fu scelto perché sufficientemente internazionale (Arthur è in effetti usato nella stessa forma in tedesco, francese e inglese). Fin da piccolo, Arthur ebbe la possibilità di viaggiare molto: quando Danzica fu riassorbita nella Prussia, nel 1793, si trasferì con la famiglia ad Amburgo; nel 1797, rimase per due anni a Le Havre, in Francia, presso un amico del padre, per imparare il francese. Tornato ad Amburgo, e nonostante fosse intenzionato ad iscriversi al ginnasio, accettò di seguire i genitori in un lungo viaggio in Europa, con la promessa di dedicarsi poi agli studi commerciali. Rimase così sei mesi in Gran Bretagna, dove ebbe modo di apprendere la lingua e la letteratura inglese (Shakespeare, in particolare), poi in Olanda, Belgio, Francia e varie città tedesche. Nel 1805, una svolta drammatica segnò la sua vita: il padre morì cadendo in un canale; si trattò quasi sicuramente di suicidio, forse per questioni finanziarie, più probabilmente per dissapori con la moglie. Arthur stesso ruppe di fatto poco dopo i rapporti con la madre, imputandole di aver gettato, con la sua freddezza e insen-

sibilità, il padre nella disperazione. La madre si trasferì quindi a Weimar, dove si dedicò all’attività letteraria e riunì intorno a sé gli intellettuali più in vista del periodo: Goethe [ vol. 2, 25.3], Christoph Martin Wieland (1733-1813), gli Schlegel [ vol. 2, 25.1.3, 4.1]. Arthur prese allora inizialmente in mano l’attività del padre, ma decise infine di dedicarsi agli studi umanistici, prima a Gotha, e poi proprio a Weimar, dove tuttavia decise di abitare non presso la madre, ma presso il grecista Franz Passow. N ell’ottobre 1809 si iscrisse alla Facoltà di Medicina di Gottinga: le competenze acquisite in fisiologia gli torneranno poi utili nell’elaborazione della propria teoria della conoscenza. Tuttavia, ebbe la possibilità di seguire anche i corsi di metafisica del postkantiano Schulze [ vol. 2, 24.3], da cui restò profondamente colpito, fino a decidere di dedicarsi interamente alla filosofia: sotto la guida diretta di Schulze, lesse Leibniz, Wolff, Hume, Berkeley, Jacobi, e si dedicò personalmente allo studio di Platone e di Kant. N ell’autunno 1811 si recò a Berlino per ascoltare Fichte, rimanendone prima entusiasta e poi profondamente deluso, esattamente come accadrà poi a Kierkegaard con Schelling. Ugualmente, ebbe modo di seguire Schleiermacher, rifiutandone decisamente la tesi della coappartenenza di filosofia e religione. Continuò a coltivare numerosi interessi strettamente scientifici, e, per quanto riguarda lo studio della filosofia, approfondì la conoscenza di Kant e di Schelling. A Rudolstadt compose una tesi Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, che inviò all’Università di Jena, ottenendo così la laurea in Filosofia a distanza nel 1813, e nello stesso anno la tesi venne pubblicata. Tornato a Weimar, frequentò sempre più spesso Goethe, che lo coinvolse nei suoi studi di ottica, in particolare sui colori. Contemporaneamente, l’orientalista Friedrich Majer (1771-1818) lo introdusse alla conoscenza del pensiero indiano, suggerendogli la lettura delle Upanis.ad [ Il velo della maya e l’Oriente di Schopenhauer, p. 50]. Tra il 1814 e il 1818 si trasferì a Dresda, dove continuò le sue letture filosofiche, ma anche scientifiche e letterarie; nel 1816 pubblica un saggio Sulla vista e sui colori, che segnò anche il distacco da Goethe. N el dicembre 1818 pubblicò a Lipsia (anche se l’editore Brockhaus porrà come data l’anno successivo) la prima edizione del

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Mondo come volontà e rappresentazione. Contrariamente alle grandi aspettative di Schopenhauer, il libro fu accolto con freddezza, anzi con grande indifferenza. Dopo un lungo viaggio in Italia, nel 1819 si consumò anche la rottura definitiva con la madre e la sorella, per motivi di ordine finanziario. Nella primavera del 1820 iniziò a insegnare a Berlino come libero docente, dove rimase (con numerose interruzioni) fino all’epidemia di colera del 1831 che causò la morte di Hegel; intenzionalmente, tenne quasi sempre i suoi corsi in contemporanea (e dunque in concorrenza) con quelli di Hegel, uscendone largamente sconfitto: essi furono sempre frequentati da pochissimi studenti e uditori. Tra le letture di questo periodo spiccano soprattutto quelle relative ai moralisti francesi. Si stabilì quindi definitivamente a Francoforte; qui pubblicò nel 1836 La Volontà nella natura, in cui riprese non solo i suoi studi scientifici (dalla fisiologia al magnetismo animale), ma anche i suoi interessi per il pensiero orientale (anche per quello cinese, in parallelo a quello indiano). Nel 1839 ottenne il suo primo riconoscimento ufficiale, e cioè un premio da parte delle Reale Società delle Scienze di N orvegia per il saggio Sulla libertà del volere umano presentato in occasione di un concorso bandito dalla stessa società. Il saggio fu pubblicato nel 1841 insieme a uno sul Fondamento della morale (presentato a un analogo concorso bandito dalla Reale Società delle Scienze di Danimarca, senza conseguire alcun premio), sotto il titolo unitario di I due problemi fondamentali dell’etica. N el 1844 l’editore Brockhaus ripubblicò Il mondo come volontà e rappresentazione, con l’aggiunta di ben 50 capitoli di Supplementi. N onostante entrambe le pubblicazioni fossero accolte di nuovo piuttosto freddamente, la fortuna cominciava a cambiare, anche per merito dei suoi pochissimi, ma assai fedeli discepoli. Dopo aver ripubblicato, nel 1847, anche la dissertazione Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, il successo arrivò finalmente con i Parerga e paralipomena, pubblicati nel 1851. Schopenhauer continuò tuttavia a condurre una vita piuttosto ritirata, scandita da incessanti letture (risale a questi anni l’approccio al Leopardi dei Pensieri e delle Operette morali). Morì di polmonite a Francoforte, il 21 settembre 1860.

3 La struttura della coscienza empirica La dissertazione del 1813 Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente contiene già molti dei temi che confluiranno nel Mondo come volontà e rappresentazione e negli scritti etici, e Schopenhauer stesso ne ha sempre raccomandato la lettura come introduzione indispensabile al suo pensiero. Stando a quel che dice il titolo, lo scritto verte su ciò che “rende ragione” di qualcosa: il principio di ragion sufficiente era stato infatti individuato da Leibniz e fissato da Wolff nella formula «Nihil est sine ratione cur potius sit quam non sit», ovvero ‘nulla è senza una ragione del fatto che è, piuttosto che non essere’. Il principio esprime dunque tutto ciò che costituisce la determinazione di qualcosa: l’esempio più immediato è dato dalla causalità – dal fatto cioè che ogni cosa ha una causa del suo essere o del suo divenire – anche se occorre notare subito come essa non esaurisca da sola l’intero ambito del principio di ragion sufficiente. Quest’ultimo si presenta infatti sotto quattro forme diverse, e cioè come: a. ragione del darsi o accadere delle cose (ratio fiendi); b. ragione del conoscere (ratio cognoscendi); c. ragione dell’essere delle cose (ratio essendi); d. ragione dell’agire (ratio agendi). Per comprendere il senso di questa articolazione, occorre partire da ciò che Kant aveva affermato intorno alla causalità: essa non è qualcosa che si ritrova in quanto tale nella natura (come nell’impostazione metafisica classica leibniziana e wolffiana), ma è un concetto con cui l’intelletto organizza i dati della sensibilità. Il vero tema del trattato è dunque per Schopenhauer il modo in cui lavora o funziona la coscienza empirica, ovvero il modo in cui in generale il soggetto costituisce l’oggettità (l’insieme degli oggetti in quanto tale). Ma Kant aveva sollevato anche il problema – per certi versi drammatico – di come il soggetto (preso nella sua dimensione pratica, noumenica) potesse a sua svolta sfuggire al determinismo causale da esso imposto alle cose. Coerentemente con la sua impostazione kantiana (e postkantiana) Schopenhauer fa dunque corri-

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spondere alle prime tre forme del principio tre differenti classi di oggetti, riservando alla quarta il solo soggetto del volere. La prima classe di oggetti è costituita dalle rappresentazioni empiriche complete, che sono prodotte dal soggetto in base al principio secondo cui ogni mutamento è sempre dovuto ad una causa, la quale è dunque la ragione efficiente del suo divenire. Questo principio è applicato anche alle modificazioni subite dagli organi di senso: in questo caso, l’intelletto considera tali modificazioni come prodotte da una causa esterna, e cioè da un oggetto collocato nello spazio al di fuori del soggetto. Ed è proprio questo spostamento dalle modificazioni soggettive alla rappresentazione di oggetti esterni a segnare la nascita del mondo dell’esperienza. Rispetto all’impostazione di Kant, la novità introdotta da Schopenhauer riguarda il ruolo costitutivo dell’intelletto nei confronti del mondo dell’esperienza: ora infatti esso non si esercita più sulla base delle intuizioni empiriche, o per così dire dopo di esse, ma già a partire da esse. Superando la divisione kantiana tra estetica trascendentale e analitica trascendentale – rispettivamente la scienza della sensibilità e quella parte della logica che tratta delle conoscenze pure dell’intelletto – Schopenhauer ritiene che tutta la conoscenza dipenda fin dall’inizio dall’intelletto. In questo senso, quelle che in Kant erano intuizioni empiriche per Schopenhauer diventano di fatto intuizioni intellettuali: ciò che Kant non avrebbe mai ammesso, ma che si distanzia anche dal modo in cui gli idealisti, come Fichte o il giovane Schelling intendevano l’“intuizione intellettuale”. Tempo e spazio, cioè le forme delle rappresentazioni, per Schopenhauer sono già strutture intellettuali, o in qualche modo dipendenti dall’intelletto. È a quest’ultimo infatti che appartiene originariamente il ruolo di unificare tali forme tra loro. Infatti, se il tempo costituisse l’unica forma delle rappresentazioni, non sarebbe possibile conoscere nessuna forma di simultaneità (perché tutto scorrerebbe in successione), e dunque nessuna forma di durata e di permanenza: in altre parole, non si avrebbe nessun oggetto permanente. Se invece fosse lo spazio, isolatamente, a costituire l’unica forma delle rappresentazioni, non potremmo conoscere nessun cambiamento,

perché il cambiamento consiste in una successione di stati, e la successione non riguarda lo spazio, ma il tempo. Per avere rappresentazioni complete, è dunque necessario che le due forme siano unificate e adoperate simultaneamente: e questo è appunto il compito dell’intelletto, che costituisce in tal modo il mondo dell’esperienza:



Vediamo dunque che entrambe le forme delle rappresentazioni complete […] sono fondamentalmente diverse, in quanto ciò che è essenziale per l’una, nell’altra non ha alcun significato: l’essere uno accanto all’altro non ha nessun significato nel tempo, come neppure l’essere uno dopo l’altro ha significato nello spazio. N ondimeno le rappresentazioni complete, che costituiscono l’intero di un’esperienza, appaiono nelle due forme simultaneamente, e anzi un’intima unificazione di entrambe è la condizione dell’esperienza, la quale ne risulta – per così dire – come un prodotto dei suoi fattori. Ciò che effettua questa unificazione è l’intelletto, le cui categorie sono i diversi modi di questa unificazione. Esso crea, mediante l’intima unificazione di quelle forme eterogenee della sensibilità, l’esperienza, ossia una rappresentazione generale, cui sono sottomesse tutte le altre leggi di questa classe, in essa comprese e definite, da noi consapute a priori; in cui innumerevoli rappresentazioni (vulgo: oggetti) sono ora simultanee; in cui, nonostante l’inarrestabilità del tempo, la sostanza permane e, nonostante la rigida immobilità dello spazio, i suoi stati cambiano; in cui, in una parola, è presente per noi l’intero mondo reale obiettivo. [Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, § 19]



Le categorie non sono dunque più intese, kantianamente, come le leggi attraverso cui l’intelletto riunifica e organizza il materiale delle intuizioni empiriche, ma sono i modi diversi in cui ha luogo l’unificazione, da parte dell’intelletto, delle forme stesse di ogni rappresentazione, e cioè del tempo e dello spazio. Questa riunificazione è ciò che costituisce non solo gli oggetti, ma il mondo dell’esperienza in quanto tale, che non è altro se non una rappresentazione generale che include in sé tutte le altre. Intorno al ruolo dell’intelletto, dunque, Schopenhauer si distacca dal modello kantiano

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a cui pure si ispira: ciò spiega anche perché egli rimproveri a Kant di non aver saputo dedurre adeguatamente le categorie, e in particolare quella della causalità, e di essersi poi soffermato proprio su di essa, che è invece solo una delle quattro forme del più generale e fondamentale principio di ragion sufficiente. In altri termini, secondo Schopenhauer, Kant continuerebbe a far leva a questo proposito sull’esperienza, quando invece l’esperienza in quanto tale è fin dall’inizio il risultato dell’attività dell’intelletto. Esaminata così la prima classe di oggetti, in cui il principio si dà appunto nella forma di ratio fiendi, si può passare alla seconda, che è data dalle rappresentazioni di rappresentazioni, ovvero dai concetti astratti, prodotti dalla ragione, che è possibile collegare tra loro in giudizi veri: il soggetto in questo caso coglie le ragioni dell’inerenza di un predicato a un soggetto, e per questo il principio assume qui la forma del principium rationis sufficientis cognoscendi. La terza classe è costituita dalle intuizioni pure di spazio e tempo, regolate – come visto – dalle leggi della simultaneità spaziale (della posizione) e della successione: tali leggi, in sé stesse, definiscono le condizioni di esistenza delle figure geometriche e delle entità matematiche. Proprio perché questi oggetti dipendono interamente, per la loro esistenza, da tali intuizioni, si può parlare in questo caso di principium rationis sufficientis essendi. La quarta classe è data infine unicamente dal soggetto del volere o volontà, e in questo caso il principio assume la forma di principio di ragione sufficiente dell’agire (principium rationis sufficientis agendi). L’esigenza di isolare il soggetto del volere come una classe a sé dipende dal fatto che noi stessi possiamo constatare come le nostre decisioni non conseguano necessariamente da determinazioni precedenti, e non siano perciò vincolate allo stesso principio di causalità che regola le altre tre classi:



Di fronte a qualsiasi decisione percepita, sia negli altri che in noi stessi, ci sentiamo autorizzati a domandare: “Perché?”. Presupponiamo cioè necessariamente che qualcosa l’abbia preceduta, da cui essa è risultata. Tuttavia in tutte le nostre azioni abbiamo la coscienza vivissima, e spesso perfino gravosa, che una decisione presa non debba essere risultata necessariamente da nessuno degli stati delle rappresentazioni delle

tre classi suddette, ma, sia dipesa immediatamente – se non come desiderio, almeno come decisione – solo dal soggetto del volere; di questi però (del soggetto del volere) si può percepire solo il volere stesso, non un suo stato anteriore al volere. Constatiamo dunque che per la volontà non vale la legge di causalità: in base a tale legge, infatti, ogni stato risulta sempre e in modo necessario da uno precedente. [Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, § 45]



In altri termini, l’agire rimanda a un principio di ragion sufficiente (che in questo caso coincide con il soggetto del volere) che si discosta dalla causalità in senso stretto, quella cioè che regola e costituisce le rappresentazioni, insieme alle forme del tempo e dello spazio. Comincia così a prendere corpo, già nella dissertazione, una particolare tensione tra l’“oggettità” (il mondo delle rappresentazioni), costituita dall’intelletto, e la soggettività, che permette invece di accedere alla sfera della volontà: proprio in quanto quest’ultima non è un oggetto (cioè non è una rappresentazione), essa inizia a delinearsi, almeno implicitamente, come ciò che si oppone alle rappresentazioni, o meglio sta al di sotto di esse – come ciò che è in sé, per adoperare il lessico kantiano. Il mondo come volontà e rappresentazione espliciterà su larga scala questo tema di fondo. Tuttavia, prima di metter mano alla sua opera più nota e importante, Schopenhauer ebbe modo di proseguire il proprio ripensamento della gnoseologia kantiana a Weimar, anche grazie alla frequentazione di Goethe: è possibile che Schopenhauer abbia derivato da quest’ultimo l’idea che fosse possibile ritrovare un unico elemento o principio originario comune alla molteplicità delle manifestazioni naturali. Per quanto riguarda invece la teoria dei colori, nello scritto del 1816 Sulla vista e i colori Schopenhauer afferma di aver dato una veste più sistematica a quelle intuizioni che in Goethe rimanevano sparse e scoordinate – un giudizio che Goethe non dovette gradire molto. Per spiegare il fenomeno della visione e l’origine dei colori fisici, infatti, Schopenhauer faceva ricorso da una parte alla fisiologia dell’occhio e dall’altra all’azione dell’intelletto, adottando anche in questo caso una prospettiva kantiana che rispondeva solo in parte alle premesse ghoethiane.

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parte I La filosofia dell’Ottocento 1. Lo scritto Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente verte propriamente: a. sul tema della causalità intesa come ciò che si ritrova nella natura stessa. V F b. sul modo di funzionamento della coscienza empirica. V F c. sul modo in cui il soggetto costituisce l’insieme degli oggetti. V F d. sulla riduzione della spiegazione del principio di ragion sufficiente alla sola causalità. V F 2. Per Schopenhauer le rappresentazioni empiriche complete: a. costituiscono la classe di oggetti corrispondente alla “ragione del conoscere”. b. sono possibili in virtù dell’elaborazione che l’intelletto compie dopo che a livello della sensibilità si sono costituite le intuizioni empiriche. c. sono possibili in virtù dell’unificazione di spazio e tempo realizzata dall’intelletto. d. si hanno grazie al ruolo costitutivo dell’intelletto nei confronti dell’esperienza.

V F V F V F V F

3. Per categorie Schopenhauer intende: a. i diversi modi con cui l’intelletto unifica lo spazio e il tempo. b. le leggi con cui l’intelletto unifica la materia delle intuizioni empiriche. c. i concetti astratti prodotti dalla ragione. d. sostanzialmente le intuizioni pure di spazio e tempo. 4. Il principio di ragion sufficiente dell’agire dipende: a. da tutta la serie di determinazioni precedenti a una decisione. V b. sostanzialmente dalla stessa legge di causalità. V c. da tutti gli stati delle rappresentazioni delle prime V tre classi. d. dalla volontà. V

F F F F

4 Il mondo come rappresentazione Il mondo come volontà e rappresentazione si compone di quattro libri, dedicati rispettivamente alla teoria della conoscenza, alla metafisica e filosofia della natura, all’estetica e all’etica. Questa articolazione, secondo Schopenhauer, risponde alle quattro parti della sua riflessione, da non intendere come un vero e proprio sistema di pensieri (fatto di parti autonome legate tra loro in ordine gerarchico secondo una connessione logica), ma come l’espressione di un “unico pensiero”, nel senso di una totalità governata da un’interna connessione organica, in cui ciascuna

delle parti esprime la medesima concezione di fondo e tutte si rinforzano a vicenda:



Quel che […] io voglio comunicare è un unico pensiero. […] Un sistema di pensieri dev’essere sempre organizzato in maniera architettonica, tale cioè che ogni sua parte, pur di sostegno a un’altra, possa restarne indipendente: la pietra fondamentale sostiene tutti gli elementi della struttura senza essere sostenuta, e il vertice è sorretto senza sorreggere. Al contrario un pensiero unico deve, per quanto comprensivo possa essere, mantenere integra la propria unità. Pur ammettendo che, per essere intelligibile, esso si lasci scomporre in più parti, queste, a loro volta, dovranno avere una concatenazione organica, ossia una concatenazione in cui ciascuna parte regge il tutto esattamente come viene retta dal tutto: in un sistema del genere nessuna parte è così la prima e nessuna l’ultima, e tutte anzi contribuiscono a che l’intero pensiero acquisti in chiarezza, sicché anche la sua più piccola parte non può appieno comprendersi se già non è stato in precedenza compreso il pensiero nel suo insieme. [Il mondo come volontà e rappresentazione, Prefazione alla 1a ed.]



In tal senso, così come raccomanda di far precedere la lettura dell’opera principale da quella della dissertazione, Schopenhauer ritiene anche che sia necessario avere una lettura complessiva dell’opera per poterne cogliere fino in fondo il contenuto. La teoria della conoscenza esposta nel Mondo come volontà e rappresentazione riprende in effetti i risultati già conseguiti nello scritto Sulla quadruplice radice. Schopenhauer si cura di precisare maggiormente il rapporto delle sue tesi non solo con Kant, ma con quella più generale tendenza, presente nell’intera storia della filosofia, che ammette in modi diversi l’inevitabile separazione dell’ideale dal reale. Aver ignorato volutamente tale separazione è invece il limite degli idealisti: per Schopenhauer proprio l’identificazione di reale e ideale costituisce l’origine di quelle che egli ritiene la «mera ciarlataneria» e la «grossolana insensatezza» del «goffo e insulso Hegel» o la «tronfia vacuità» di Fichte e Schelling [Il mondo come volontà e rappresentazione, Prefazione alla 2a ed. e Appendice al I libro].

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Nel Mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer continua a sostenere che il rapporto del soggetto con il mondo regolato dal principio di causalità non dev’essere inteso né come un’azione da parte degli oggetti esterni sul soggetto (come nelle posizioni realiste) né come una posizione dell’oggetto da parte del soggetto (come in Fichte). In realtà, la causalità si applica sempre e solo alla sfera degli “oggetti” (prendendo questo termine nel senso della dissertazione, e cioè come rappresentazioni) e pertanto riguarda sempre un rapporto tra oggetti, e cioè tra la modificazione dell’organo sensoriale e la rappresentazione della sua causa. Tuttavia – e questa è una correzione significativa che Schopenhauer apporta all’impianto della dissertazione – se la causalità è davvero a priori, essa deve sempre precedere gli oggetti, ovvero non può ammettere alcun oggetto prima di sé, neppure la stessa modificazione sensoriale o il corpo in quanto tale. L’esperienza del proprio corpo riceve così uno statuto in qualche modo intermedio tra la soggettività e l’oggettività; essa non è più veramente immediata, ma è pur sempre mediata dalle forme di qualsiasi rappresentazione (tempo, spazio, causalità):



non bisogna prendere qui la parola oggetto nella sua più stretta accezione; poiché questa conoscenza del corpo, anteriore ad ogni impiego dell’intelletto, non è che una pura sensazione, e quindi non ci fa ancora percepire come oggetto il corpo in sé stesso, ma soltanto i corpi che agiscono su di esso; infatti ogni conoscenza d’un oggetto propriamente detto, cioè di una rappresentazione intuitiva nello spazio, non esiste che nell’intelletto e per l’intelletto, e quindi ben lungi dal precederlo, deve necessariamente seguire il suo impiego. Così il nostro corpo come oggetto vero e proprio, cioè come rappresentazione intuitiva nello spazio, non viene conosciuto, al pari di ogni altro oggetto, se non mediatamente, cioè con l’applicazione della legge di causalità agli effetti reciproci delle sue singole parti, come per esempio quando l’occhio vede il corpo e la mano lo tocca. [Il mondo come volontà e rappresentazione, libro I, § 6]



La Critica della filosofia kantiana (titolo dato da Schopenhauer ad una lunga e fondamentale Appendice al Mondo come volontà e rappresenta-

zione) prosegue poi soprattutto riguardo alla dottrina delle categorie presentata nella Critica della ragion pura: poiché la sola causalità è sufficiente a costituire il mondo dell’esperienza, le altre categorie sono del tutto superflue:



si deve notare che Kant, tutte le volte che per spiegare con maggior precisione vuol dare un esempio, assume quasi sempre a tal fine la categoria di causalità, per la quale quello che è detto va a pennello, perché la legge di causalità è la reale, ma anche unica, forma dell’intelletto, e le rimanenti categorie sono solo finestre cieche. [Il mondo come volontà e rappresentazione, Appendice]



Emerge inoltre in modo ancora più chiaro che la costituzione del mondo dell’esperienza è sì dovuta fin dal principio all’intelletto, ma in modo irriflesso (applicando immediatamente il principio di causalità) e dunque non richiede operazioni o strutture mentali più complesse come concetti e giudizi. In altri termini, l’intelletto è, prima ancora di un’operazione riflessiva e consapevole, un’intuizione immediata. Vi è comunque un elemento essenziale della posizione kantiana cui Schopenhauer resterà sempre fedele: se da un lato il soggetto determina la conoscenza scientifica del mondo dell’esperienza, determinando gli oggetti come fenomeni stabili e regolari; dall’altro lato questo mondo fenomenico resterà sempre distinto e contrapposto al mondo noumenico, cioè al mondo com’è in sé stesso, indipendente dalle nostre rappresentazioni. Il mondo reale (in sé) non viene dunque disvelato, bensì totalmente occultato dalle rappresentazioni, cioè dagli oggetti costituiti dall’intelletto. Proprio in quanto costituisce gli oggetti, l’intelletto pone ciò che sta al di là di questi ultimi in una sorta di involucro, di velo. La rete degli oggetti è il velo della maya – il nome che nell’antica sapienza indiana, e in particolare delle Upanis·ad, sta a indicare l’apparenza illusoria del mondo osservabile – che avvolge il mondo in sé [ Il velo della maya e l’Oriente di Schopenhauer, p. 50]. Ciò significa che, nonostante la possibilità di averne una conoscenza scientifica certa, nonostante la sua struttura oggettiva – o meglio proprio per la sua struttura oggettiva – il mondo dell’esperienza è in realtà una sorta di sogno, di illusione.

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Se il tempo, che è una delle forme essenziali di ogni rappresentazione, è labile ed evanescente, tali saranno anche tutte le realtà che tramite esso si costituiscono:



serpente». (Queste similitudini si trovano ripetute in innumerevoli passi dei Veda e dei Purana). Ma tali idee di tutti questi filosofi altro non sono che quello intorno a cui noi ora andiamo discutendo: il mondo come rappresentazione, sottomesso al principio di ragion sufficiente. [Il mondo come volontà e rappresentazione, libro I, § 3]



Come nel tempo nessun istante esiste se non a condizione di annientare il precedente che lo ha generato, per essere a sua volta annientato con la stessa rapidità; come il passato e il futuro, facenLa stessa molteplicità delle cose individuali, in do astrazione dalle conseguenze del loro contequanto determinata unicamente dalle forme e nuto, sono illusori al pari del più vano dei sogni dai princìpi della rappresentazione (tempo, spa(il presente non è altro che il limite senza estenzio, causalità), è puramente apparente: il princisione e senza durata che li separa), proprio così pio di individuazione (principium individuatioallora riconosceremo lo stesso carattere illusorio nis), in Schopenhauer, non è che un altro nome anche in tutte le altre forme del principio di per indicare il carattere fenomenico del mondo ragion sufficiente. E ci accorgeremo che sia lo delle rappresentazioni. spazio che il tempo, come tutto ciò che trae la propria esistenza da cause e da motivi, non possiede che un’esistenza relativa, ovvero esiste solo per mezzo o in funzione di un’altra cosa della stessa natura, e cioè sottoposta alle identiche condizioni. Il contenuto essenziale di questo pensiero non è nuovo. È il punto di Il velo della maya vista in cui si collocarono: Eraclito, e l’Oriente di Schopenhauer quando constatava con tristezza l’eterno fluire delle cose; Il termine maya, a cui Schopenhauer fa più volte riferimento nei Platone, quando abbassava la suoi scritti, ricorre spesso nella tradizione induista e in quella buddista. Esso indica originariamente il potere di creare forme illusorie e trandignità dell’oggetto, che seunti che deformano e mascherano la realtà. Con questo significato e altri sempre diviene, senza mai simili, maya compare sia nei Veda, i più antichi testi sacri dell’induismo, che nelle essere; Spinoza, quando Upanis riduceva le cose a puri · ad, le più importanti scritture postvediche (commentari ai testi dei Veda). In queste ultime esso indica più in particolare tanto il potere dell’energia originaria accidenti di un’unica (brahman) che crea l’illusione del mondo fenomenico, quanto il risultato della sua aziosostanza, che sola esine, e cioè l’illusione stessa o apparenza che si sovrappone alla vera realtà. Schopenhauer ste e permane costan- sembra utilizzare il termine soprattutto in questa seconda accezione: maya è l’incantesimo te; Kant, quando op- che avvolge il mondo, l’apparire fenomenico che cela l’essere in sé. poneva, sotto il nome Schopenhauer fu introdotto allo studio delle dottrine indiane dall’orientalista Majer, e coltivedi puro fenomeno, rà questo interesse con grande passione per tutto il resto della vita: nei Parerga e paralipol’oggetto della cono- mena definirà le Upanis·ad «l’emanazione della più alta saggezza umana», raccomandandoscenza alla cosa in sé; ne la lettura come «quella più profittevole ed edificante che sia possibile a questo mondo: infine l’antica saggez- essa è stata la consolazione della mia vita e lo rimarrà fino alla morte» [Parerga e paralipoza indiana, quando mena, «Alcune cose relative alla letteratura sanscrita»]. Le sue letture non si limiteranno per altro all’induismo (e all’indologia), ma abbracceranno progressivamente anche il affermava: «È maya, il buddismo e la sinologia. L’attenzione di Schopenhauer per il pensiero orientale non velo dell’illusione, che è d’altra parte né una semplice curiosità erudita né il risultato di un esercizio filoottenebra le pupille dei logico; al contrario, egli era profondamente convinto dell’assonanza tra il mortali e fa loro vedere un nucleo di fondo del suo pensiero e alcuni temi essenziali dell’induismo e mondo di cui non si può del buddismo: la necessità di superare l’illusorietà del mondo, il ricodire né che esista né che non noscimento della presenza in tutta la natura di una forza tendenesista. Il mondo è infatti simile al te all’autoaffermazione, l’idea di potersi affrancare o redisogno, allo scintillio della luce solamere dalla volontà tramite la mortificazione, la scelta del nulla (nirvana) come possibilità di re sulla sabbia, che il viaggiatore scamsottrarsi alle sofferenze. bia da lontano per acqua, oppure a una corda buttata per terra ch’egli prende per un

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Arthur Schopenhauer capitolo 4 1. L’articolazione del Mondo come volontà e rappresentazione costituisce: a. un insieme di quattro parti, autonome tra loro, ma legate gerarchicamente. b. un vero e proprio esempio di sistema di pensieri. c. un unico pensiero governato da una connessione organica interna. d. una totalità di pensiero in cui ciascuna parte è espressione della stessa concezione di fondo.

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2. La teoria della conoscenza di Schopenhauer si caratterizza per: a. la tesi della sostanziale identificazione di reale e ideale. b. il fatto che la conoscenza si origina dall’azione degli oggetti esterni sul soggetto. c. l’idea che il rapporto del soggetto con il mondo è regolato dalla causalità pur essendo sempre un rapporto fra oggetti. d. il fatto che la causalità agisce in seconda battuta rispetto agli oggetti. 3. Schopenhauer ritiene che la conoscenza oggettiva: a. sia opera dell’intelletto inteso come intuizione immediata. V b. pur essendo certa, sia sogno ed illusione. V c. non riesca a svelare il mondo noumenico. V d. riesca ad accedere al mondo reale tramite le rappresentazioni. V

F F F F

5 Il mondo come volontà Si potrà mai forzare questo involucro che l’uomo stesso si costruisce? Come arrivare a penetrare nel mondo, non in quanto oggetto di esperienza ma come è in sé? L’unica via di accesso, per Schopenhauer, è costituita proprio dal corpo stesso dell’uomo. La ragione è semplice: si è detto che il corpo è senza dubbio un oggetto come gli altri, dunque una rappresentazione; ma l’esperienza del proprio corpo è anche qualcosa di intermedio tra la soggettività e l’oggettività. In effetti, noi non accediamo al corpo soltanto dall’esterno (come quando, per esempio, vedo la mia mano o un qualsiasi altro organo), ma anche in qualche modo dall’interno. Poniamo che la mia mano si muova: posso osservare questo movimento dall’esterno, e in questo caso tanto la mano quanto il processo sono rappresentazioni oggettive; ma posso anche avvertire, dall’interno, che il movimento della mano è un atto di volontà (la volontà appunto per cui la mano si

muove). Non si può dire, per Schopenhauer, che il movimento della mano dipenda dalla volontà (cioè sia causato da quest’ultima): ogni rapporto di dipendenza causale appartiene infatti, come sappiamo, al mondo oggettivo (al mondo delle rappresentazioni), mentre l’esperienza interna del movimento della mano è qualcosa di diverso dal vedere questo stesso movimento dall’esterno, come si vede qualsiasi altro dato oggettivo. Dunque, non resta altro che riconoscere che il movimento della mano e l’atto di volontà sono una medesima cosa, e ciò significa più in generale che il corpo coincide con la volontà, che il corpo è volontà, come per altro conferma il fatto che ogni affezione del corpo è anche una modificazione della nostra sfera volitiva, cioè comporta sempre un’affezione della volontà in termini di piacere o dolore. Ogni azione del corpo è così il rendersi visibile della volontà; se applichiamo per analogia questa identità a tutti gli altri viventi e alla natura stessa in quanto tale, otteniamo quel che stavamo cercando: l’in sé del mondo, ciò che sta al di sotto degli oggetti e delle rappresentazioni, è la volontà. Ciò che dunque ci svela – almeno entro certi limiti – il mondo dell’in sé, è il passaggio dalla nostra esperienza soggettiva (interna) del corpo alla natura in quanto tale, sulla base del tradizionale legame tra microcosmo e macrocosmo:



Soltanto con la riflessione è possibile oltrepassare il fenomeno e pervenire alla cosa in sé. Fenomeno è rappresentazione, e nulla più; e ogni rappresentazione, ogni oggetto di qualsiasi specie, è fenomeno. Cosa in sé è soltanto la volontà, che a tal titolo non è affatto rappresentazione, anzi ne differisce toto genere: la rappresentazione, l’oggetto, non ne sono che il fenomeno, la visibilità, l’oggettità. La volontà è la sostanza intima, il nòcciolo di ogni cosa particolare e del tutto: è volontà quella che appare nella forza naturale cieca, ed è ancora volontà quella che si manifesta nella condotta ragionata dell’uomo; l’enorme differenza che separa i due casi concerne solo il grado della manifestazione, non l’essenza di ciò che si manifesta. [Il mondo come volontà e rappresentazione, libro II, § 21]



Il fatto che la volontà venga riconosciuta dall’uomo in sé stesso non vuol dire che essa

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debba essere identificata semplicemente con la volontà umana. Quest’ultima è sempre accompagnata dall’intelletto e dalla conoscenza, e si tratta perciò di un caso specifico: in generale, proprio perché definisce il carattere essenziale dell’intera realtà, la volontà è indipendente dalla conoscenza e dall’intelletto, e dunque è cieca, irrazionale. A partire dall’identificazione tra la volontà e l’in sé (o la vera essenza del mondo) Schopenhauer tenta di costruire una filosofia della natura in cui sia possibile comprendere i modi in cui la volontà diventa oggetto o fenomeno, ovvero si presenti come oggetto e fenomeno. Anche questo tentativo di procedere a un’interpretazione metafisica del mondo (cioè di individuare sotto i fenomeni della natura la sua essenza) ci permette di cogliere un’ulteriore diversità rispetto al modello kantiano; la metafisica non può più essere intesa come scienza dei confini della ragione, ma come il tentativo di dar conto direttamente dell’essenza del mondo in sé. Tuttavia, ciò non rappresenta né il ritorno a posizioni dogmatiche (precritiche) né un ripiegamento idealistico, perché non si tratta di comprendere l’essenza razionale o ideale del reale come qualcosa di dispiegabile interamente fino in fondo, ma solo di tentare di decifrare la struttura del mondo a partire dai pochi indizi che l’involucro delle nostre rappresentazioni lascia trasparire. La metafisica viene così a configurarsi come una sorta di decrittazione/interpretazione della «scrittura misteriosa» o dell’«enigma» del mondo – a patto che si rinunci al presupposto kantiano, secondo cui essa non può fare in alcun modo esperienza del mondo:



il mondo e la nostra esistenza ci si presentano necessariamente come un enigma. Ora viene senz’altro assunto [da parte di Kant] che la soluzione di questo enigma non possa procedere da una comprensione fondamentale del mondo stesso, ma debba essere cercata in qualcosa di completamente diverso dal mondo (ciò infatti significa “al di là della possibilità di ogni esperienza”); e che da questa soluzione debba essere escluso tutto ciò di cui noi in qualche modo abbiamo conoscenza immediata […]. Ma per ciò si sarebbe dovuto prima dimostrare che la materia per la soluzione dell’enigma del mondo non

possa essere assolutamente contenuta in esso, e sia invece da cercarsi fuori dal mondo, in qualcosa che si possa raggiungere solo con la guida di quelle forme di cui abbiamo coscienza a priori. Ma finché ciò non è provato, non abbiamo alcuna ragione, proprio per il più difficile e importante dei nostri compiti, di chiuderci le più ricche di contenuto di tutte le fonti di conoscenza – l’esperienza interna ed esterna – per operare soltanto con forme prive di contenuto. Io dico pertanto che la soluzione dell’enigma del mondo deve procedere dalla comprensione del mondo stesso; che anche il compito della metafisica non è di sorvolare l’esperienza, in cui è questo mondo, ma penetrarla a fondo. [Il mondo come volontà e rappresentazione, Appendice]



Questo tentativo di penetrare nel mondo forzando l’involucro che lo avvolge consiste essenzialmente nell’individuare i diversi gradi di oggettivazione della volontà, e cioè i modi in cui la volontà emerge e si manifesta come insieme di oggetti. Tali gradi sono indicati da Schopenhauer attraverso il ricorso alla classica dottrina delle idee. Queste ultime sono immutabili ed eterne – in senso platonico –, ma vengono pur sempre colte da noi nel tempo e nello spazio: di qui nasce l’illusione dell’esistenza di una molteplicità di cose individuali, che nascono e periscono incessantemente. Le idee coincidono invece di fatto con la volontà, che è unica e unitaria: ogni idea è un atto di volontà. Le idee di base sono quelle che traspaiono nelle forze naturali: la gravità, l’impenetrabilità dei corpi, l’elettricità, il magnetismo, il chimismo sono tutte manifestazioni della medesima volontà che costituisce l’essenza della natura. Qui si può cogliere un retaggio della filosofia schellinghiana della natura, ma con una differenza fondamentale: se Schelling ammette una sostanziale continuità o progressione tra le forze naturali di base e quelle più sviluppate, Schopenhauer nega invece la possibilità stessa di un tale progresso, perché le idee sono in sé immutabili e atemporali. È dunque vero che, a un livello superiore, la volontà si manifesta nelle idee del mondo organico, cioè nelle varie specie dei viventi, fino a culminare nell’uomo, ma questa partizione gerarchica è fissa e originaria, e non risponde a una dinamica della natura stessa. D’altra parte, pur ammettendo

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una rigida distinzione tra inorganico e organico, Schopenhauer (anche per influsso di Goethe) mantiene sempre l’ideale romantico dell’unità della natura, la quale non è che la manifestazione di un unico principio o di un’unica essenza: per lui, della volontà. N elle sue manifestazioni, la volontà non segue alcun orientamento teleologico, non persegue nessun fine: tende solo ad affermare sé stessa, senza limiti e senza misura. Questo è peraltro ciò che attestano gli innumerevoli conflitti tra gli individui: la tendenza all’autoaffermazione porta infatti gli individui ad impegnarsi in una vera e propria lotta per l’esistenza, che conduce inevitabilmente alla loro morte. A sopravvivere non saranno gli individui, ma le specie, le quali corrispondono alle idee:



Ma questo adattamento, questo accomodamento reciproco dei fenomeni risultante dalla loro unità, non riesce a placare il conflitto […] che si traduce in una lotta universale della natura e che è altresì inerente all’essenza della volontà. L’armonia non oltrepassa il limite in cui la sua presenza è necessaria alla sussistenza del mondo e delle sue creature, che senza di essa sarebbero già da lungo tempo perite. E perciò si limita ad assicurare la conservazione della specie e delle condizioni generali d’esistenza, non quella degli individui. Se dunque, grazie a quest’armonia e a questo accomodamento, le specie, nel mondo organico, e le forze generali della natura, in quello inorganico, esistono le une accanto alle altre e si danno persino reciproco aiuto, d’altro lato il conflitto interno della volontà oggettivantesi in tutte queste idee, si manifesta nell’implacabile guerra di sterminio che si fanno a vicenda gli individui di quelle specie, nella lotta perpetua e reciproca dei fenomeni di quelle forze. [Il mondo come volontà e rappresentazione, libro II, § 28]



Questa lotta degli individui per la sopravvivenza non va dunque assimilata all’evoluzionismo darwiniano [ 8.1] (di cui Schopenhauer venne effettivamente a conoscenza, ma solo in modo indiretto, e per di più negli ultimi mesi della sua vita), dal momento che le specie, in quanto manifestazione delle idee, non ammettono alcuna selezione – e dunque alcuna evoluzione –, ma sono immutabili ed eterne.

1. Per Schopenhauer il corpo rappresenta: a. l’unica via di accesso al mondo nella sua realtà noumenica. b. soltanto una rappresentazione che consente di penetrare il mondo come oggetto d’esperienza. c. tanto un oggetto tra gli altri, quanto la volontà. d. ciò che consente il passaggio dal mondo della rappresentazione all’in sé del mondo.

V F V F V F V F

2. Con il termine metafisica Schopenhauer intende: a. kantianamente, la scienza dei limiti della ragione umana. b. la dottrina che dimostra l’essenza razionale del mondo. c. una conoscenza che cade necessariamente fuori dell’esperienza. d. la conoscenza che porta a scoprire l’essenza vera del mondo, coincidente con la volontà. 3. Per spiegare il modo in cui si può oltrepassare il mondo delle rappresentazioni Schopenhauer: a. individua i diversi gradi di oggettivazione della volontà. V F b. ricorre alla dottrina delle idee. V F c. ricorre all’idea schellinghiana della progressione tra le forze naturali di base e quelle più sviluppate. V F d. si avvale della teoria dell’evoluzionismo di Darwin. V F

6 L’affrancamento dalla volontà N ell’uomo la tendenza generale della volontà all’autoaffermazione si manifesta con conseguenze ancora più dolorose, perché egli è dotato di conoscenza, e più in particolare non solo dell’intelletto – che è comune anche ad altre specie viventi – ma anche della ragione, cioè della possibilità di rappresentarsi eventi passati e futuri e di andare al di là dell’immediato. Tale possibilità apparentemente colloca l’uomo al di sopra di qualunque altra specie; in realtà è solo causa di maggiore sofferenza:



la facoltà di deliberazione posseduta dall’uomo dev’essere considerata una delle cause che rendono l’esistenza umana molto più tormentosa di quella dell’animale. I nostri dolori più grandi non hanno infatti, di solito, un oggetto nel presente, non nascono da rappresentazioni intuitive né da sentimenti immediati, ma sono prodotti dalla ragione, da concetti astratti, da pensieri tormentosi; concetti e pensieri sconosciuti all’animale, il quale, limitato com’è al presente,

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se ne vive in uno stato di tranquillità e di spensieratezza veramente invidiabile. [Il mondo come volontà e rappresentazione, libro IV, § 55]



Il fatto è che ogni volizione, cioè il fatto stesso di volere qualcosa, indica una mancanza, un bisogno. Ora, il piacere non è che il soddisfacimento di questo bisogno, mentre il dolore è la percezione di questa mancanza: dunque, il piacere è sempre e solo secondario, derivato rispetto al dolore, perché il soddisfacimento di un bisogno implica pur sempre, in precedenza, la percezione del bisogno stesso:

1. Secondo Schopenhauer il prevalere del dolore nell’esistenza umana dipende: a. dalla presenza nell’uomo della ragione che è capace di procedere oltre l’immediato. b. dalla noia, cioè dalla mancanza di bisogni. c. dal fatto che l’essenza volitiva dell’uomo implica uno stato di mancanza. d. dall’assoluta transitorietà del piacere.

V F V F V F V F

2. Dalla condizione di sofferenza l’uomo può uscire propriamente: a. mediante la regolazione ordinata dei bisogni e dei soddisfacimenti. b. mediante un’esistenza saggia ed equilibrata. c. mediante la cessazione del volere stesso. d. dandosi a tutti i piaceri della vita.



La soddisfazione, o, come si dice ordinariamente, la felicità è per natura essenzialmente negativa, senza nulla di positivo. La felicità non è mai originaria né ci viene spontaneamente, ma si deve sempre alla soddisfazione di un desiderio. Il desiderio, la privazione, sono infatti condizioni preliminari di ogni piacere. [Il mondo come volontà e rappresentazione, libro IV, § 58]



Per di più, non solo molti bisogni non possono essere soddisfatti, ma il piacere stesso procurato dalla soddisfazione di un determinato bisogno è puramente momentaneo e cede rapidamente il passo a un nuovo bisogno. L’assoluta mancanza di bisogni non è in sé neppure auspicabile, perché la volontà – che è pur sempre l’essenza del reale – non saprebbe più verso cosa indirizzarsi, e determinerebbe una condizione di malessere complessivo o di noia. Da qui il pessimismo di Schopenhauer: nell’esistenza umana il dolore prevale ampiamente sul piacere: «ogni vivere è per essenza un soffrire» [Il mondo come volontà e rappresentazione, libro IV, § 56]. Esiste in teoria la possibilità di regolare in modo ordinato il succedersi di bisogni e soddisfacimento (Schopenhauer stesso vi farà riferimento nei suoi ultimi scritti), ma questa condotta di vita è praticabile solo da pochi, non mette veramente al riparo dalle sofferenze e si conclude comunque con la morte. Il vero ideale a cui tendere è invece quello di cessare di volere, di liberarsi dal volere, secondo un percorso che Schopenhauer scandisce in tre tappe fondamentali: l’arte, la morale e la mortificazione.

6.1 L’arte L’arte è una forma di conoscenza, e precisamente quella in cui l’uomo elevandosi alla contemplazione, riesce a liberarsi dalla volontà facendosi appunto puro soggetto conoscente. Attraverso l’arte, l’uomo non si limita a considerare le cose nella loro individualità, così come esse appaiono nel mondo dell’esperienza, ma cerca di considerarne l’aspetto ideale, il loro essere la manifestazione di determinate idee. Questa contemplazione porta a una sospensione dal volere e assicura dunque una certa pace. In linea di principio, questa possibilità è aperta a tutti; rispetto alle persone comuni, l’artista ha in più il compito di produrre determinati oggetti (le opere d’arte) che possano a loro volta aiutare altri uomini a pervenire alla contemplazione, cioè alla conoscenza delle idee. Proprio perché consiste nella contemplazione delle idee, l’arte non è qualcosa di fondamentalmente diverso dalla filosofia, secondo un tema romantico caro a Schlegel e soprattutto a Schelling. Tuttavia tra l’una e l’altra sussiste anche una differenza di fondo: l’arte esprime ciò che contempla in oggetti sensibili particolari, non comprensibili in quanto tali da tutti; la filosofia lo esprime in concetti chiari e comprensibili da tutti. L’arte in altri termini può limitarsi ad alludere, mentre la filosofia deve spiegare. Le singole arti conducono alla contemplazione di un tipo diverso di idee, esprimono cioè gradi diversi di oggettivazione della volontà. Ri-

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prendendo una tesi aristotelica, Schopenhauer ritiene che sia soprattutto la tragedia a far conoscere l’essenza umana (anche se egli insiste poi soprattutto sulla tragedia cristiana, che mette capo spesso alla rassegnazione dell’eroe, e dunque alla mortificazione come strategia per sottrarsi alla volontà). Il vero posto privilegiato nel sistema delle arti spetta tuttavia alla musica, che non dà accesso a delle idee particolari, ma alla volontà in quanto tale: è dunque la musica, in parallelo alla filosofia, a poterci offrire la vera conoscenza del mondo. 1. Per Schopenhauer l’arte rappresenta una tappa nell’affrancamento dal volere perché essa: a. distrae l’uomo dalle sofferenze quotidiane. b. è una conoscenza che, considerando l’aspetto ideale delle cose, sospende il volere. c. esprime gli oggetti contemplati in modo chiaro ed accessibile a tutti. d. costituisce la massima espressione della libertà dell’uomo.

6.2 La morale Tuttavia, l’uomo può riuscire a dedicarsi alla contemplazione estetica solo per periodi limitati, ed è per questo che l’arte non può garantire una liberazione autentica e definitiva. Il passo successivo è rappresentato dalla morale. L’uomo, come abbiamo già detto, manifesta un’idea, ma – in questo caso – non soltanto a livello specifico, e cioè come specie: la grande diversità dei caratteri umani sembra piuttosto implicare che a ogni individuo corrisponda un’idea. Schopenhauer riprende così la tesi kantiana della distinzione tra il carattere intelligibile e il carattere empirico dell’uomo: il primo corrisponde all’idea di quel determinato individuo, il secondo al suo concreto operare nel mondo. Così come per Kant, anche per Schopenhauer l’uomo, quando agisce nel mondo fenomenico è sottoposto, al pari di tutti gli altri oggetti, alla legge di causalità: il suo agire mondano non sfugge al determinismo. E tuttavia ognuno conserva una libertà trascendentale (cioè legata alla sua ragione a priori), rivelata anche dal fatto che ognuno si sente comunque responsabile delle proprie azioni.

Questa libertà, tuttavia, non è intesa come la possibilità attuale che ogni uomo possiede di determinare sé stesso sulla base della propria ragione, come l’intendeva Kant; piuttosto Schopenhauer sembra richiamarsi qui alle Ricerche filosofiche di Schelling: le azioni che ciascuno compie nel mondo manifestano semplicemente la scelta (la decisione) che ognuno ha fatto di sé a livello intelligibile, fuori dal tempo. Ognuno è insomma responsabile, in modo libero, del proprio carattere (intelligibile) che a sua volta traspare, in modo necessario, da ciò che ciascuno compie nel mondo empirico. A dispetto della sua costante polemica antidealistica, e del fatto che nello scritto Sulla libertà del volere umano Schopenhauer accuserà Schelling di aver sostanzialmente plagiato Kant, l’etica schopenhaueriana rimane nel complesso più vicina alla soluzione schellinghiana che a quella kantiana. Ma c’è un motivo ben preciso per cui questo avviene: come si può ammettere infatti che l’io razionale possa determinare liberamente le sue azioni, e quindi possa esercitare la sua libertà come causa, se si è precedentemente affermato che la causalità è un principio che vale soltanto per il mondo fenomenico e non per il mondo noumenico, cui invece appartiene la libertà morale dell’uomo? Schopenhauer, come Schelling, ammette che la libertà possa essere esercitata originariamente solo fuori dal tempo, e che gli atti liberi che noi compiamo nel tempo non fanno altro che esplicitare in maniera empirica una scelta intelligibile già compiuta una volta per tutte. Per questo l’etica di Schopenhauer non è un’etica prescrittiva (non indica cosa si debba fare), ma solo descrittiva, cioè si limita a descrivere in cosa consistano il bene e il male, il vizio e la virtù. Di per sé, la tendenza fondamentale in ogni uomo è pur sempre quella imposta dalla volontà come impulso di autoaffermazione, e dunque dall’egoismo. Si è visto come proprio questa tendenza faccia sì che i vari individui entrino in conflitto tra loro: ciascuno persegue l’affermazione di sé senza limiti, e dunque senza rispetto per la volontà (e l’analoga tendenza) altrui. In ciò consiste propriamente l’ingiustizia, cioè la prevaricazione sulla sfera della volontà altrui; la giustizia consiste invece, specularmente, nel rispetto della volontà degli altri, e cioè nel riconoscimento della medesima

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essenza anche negli altri, al di là delle differenze individuali. Talvolta questo riconoscimento dà luogo anche a un impegno non solo a rispettare (in negativo) la volontà altrui, ma anche allo sforzo (in positivo) di aiutare gli altri, e cioè di cercare di alleviarne le sofferenze. Questo è ciò che Schopenhauer chiama compassione, cioè la capacità di partecipare al dolore altrui, di sentirlo come proprio. Il concetto di ingiustizia, come violazione della volontà altrui, conserva dunque una priorità su quello di giustizia (che può essere ricavato solo a partire dal primo) e al tempo stesso rappresenta l’elemento essenziale della teoria del diritto: lecito è infatti tutto ciò che non comporta ingiustizia, ovvero non lede la capacità degli altri di manifestare la propria volontà. Se il diritto si fonda su questo riconoscimento naturale, lo Stato ha invece un’origine strettamente convenzionale: esso deriva dalla consapevolezza che, in assenza di limiti, ciascuno potrebbe sì ricercare a tutti i costi e senza rispetto per gli altri l’affermazione di sé, ma si troverebbe esposto ad un’analoga volontà di prevaricazione da parte di tutti gli altri. Per evitare questo conflitto di tutti contro tutti, diviene così necessario un patto in forza del quale ognuno rinuncia all’esercizio indiscriminato della propria volontà in cambio della protezione nei confronti dell’ingiustizia che potrebbe subire dagli altri. Per quanto razionale, la fondazione dello Stato è pur sempre un rimedio contro l’egoismo, e perciò si fonda su quest’ultimo. Schopenhauer non accetta in alcun modo l’idea hegeliana secondo cui lo Stato avrebbe una funzione educatrice nei confronti dei cittadini, perché non commettano ingiustizia: al contrario, il suo compito è solo cercare di evitare che essi possano commetterla. E può riuscirci solo se il commettere ingiustizia risulti meno conveniente del rinunciare a farlo (e cioè vivere correttamente). Lo Stato perfetto è dunque un’utopia, perché non annullerebbe di fatto la tendenza degli uomini a commettere ingiustizia, ma riuscirebbe solo a reprimerla; e quand’anche ciò accadesse, non si potrebbero eliminare poi le guerre tra gli Stati; infine, se anche ciò risultasse possibile, l’umanità rimarrebbe preda di un pericolo ancora maggiore, quello della sovrappopolazione. Il pessimismo di Schopenhauer si salda qui a una vistosa tendenza aristocratica e antipopolare.

1. In ambito morale Schopenhauer ritiene che: a. la libera scelta dell’uomo discenda dalla possibilità di determinare sé stesso mediante la ragione. b. la libertà umana sia legata interamente alla causalità. c. la libertà umana sia legata ad una scelta fatta fuori dal tempo. d. gli atti liberi compiuti nel tempo siano soltanto esplicitazioni empiriche di una scelta intelligibile. 2. In Schopenhauer la giustizia: a. è un concetto che si costituisce a partire da quello di ingiustizia. b. consiste nel riconoscimento del rispetto della volontà altrui. c. rappresenta un elemento attraverso cui l’uomo può ridurre la propria tendenza all’egoismo. d. poggia sulla naturale tendenza umana alla socialità e alla compassione.

V F V F V F V F

V F V F V F V F

3. Per Schopenhauer ciò che limita l’esercizio indiscriminato della volontà al fine di non ricevere l’ingiustizia dagli altri coincide con: a. lo Stato. b. la compassione. c. la giustizia. d. la morale in generale.

6.3 La mortificazione Il terzo stadio in questo percorso di affrancamento dal volere consiste nella negazione del volere stesso o “noluntas”. Proprio in quanto l’uomo riconosce che, al di là delle singole individualità, tutti sono accomunati dalla medesima natura e dal medesimo destino (quello di manifestare una volontà inarrestabile), e riconosce altresì che né l’arte né lo Stato sono davvero in grado di porre un freno al volere, egli può pervenire alla conclusione che qualsiasi forma di affermazione del proprio volere lo condurrà sempre e solo non al soddisfacimento dei bisogni e alla felicità, ma al dolore. L’unica alternativa rimane a questo punto la rinuncia totale al volere, un rinuncia che è in realtà un distacco della volontà da sé stessa: la volontà riconosce come falsi, illusori, i piaceri verso cui spinge con la propria affermazione, e si distacca dalla vita. Questo distacco richiede tuttavia, da parte degli uomini, un impegno costante e laborioso: poiché il corpo è comunque fonte di bisogni, sarà necessario in primo

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luogo limitare questi ultimi attraverso una serie di appropriate pratiche ascetiche (dalla castità al digiuno alla povertà). Alcuni eventi, come un grande dolore o una delusione patita a livello personale, possono agevolare paradossalmente l’individuo a intraprendere questa strada. E se la liberazione definitiva dalla volontà potrà avere luogo solo con la morte, è comunque innegabile che chi riesce a negare il volere in vita raggiunge l’unica serenità (e felicità) realmente accessibile in questa esistenza, come attestato dai mistici, dagli eremiti o dai santi delle diverse religioni (e qui Schopenhauer pensa in particolare alle dottrine indiane). La negazione del volere è dunque un atto libero, che sfugge in qualche modo al determinismo. Ma non è del tutto chiaro se essa metta capo a un esito puramente nichilistico, e cioè al rifiuto del mondo fenomenico in quanto tale, o più semplicemente alla sua negazione in quanto mondo illusorio. 1. Schopenhauer ritiene che le pratiche ascetiche: a. sono necessarie per giungere all’affrancamento dal volere perché il corpo è fonte di bisogni. b. non costituiscono affatto un modo attraverso cui l’uomo può pervenire alla noluntas. c. riguardano soltanto la vita dei santi e dei mistici ma non possono essere esercitate dall’uomo comune. d. vengono esercitate da coloro che vivono un forte dolore o una grande delusione.

7 Le scienze, la morale, la religione Dopo le delusioni dovute alla scarsa fortuna incontrata dal Mondo come volontà e rappresentazione e dall’esperienza di insegnamento berlinese (la sfida persa con Hegel), Schopenhauer tornerà su questi stessi temi nel 1836 nella Volontà nella natura, con lo scopo di integrare l’impianto dell’opera maggiore alla luce delle scoperte delle scienze sperimentali:



Interrompo un silenzio di diciassette anni per fornire ai pochi che, precorrendo il tempo, hanno prestato attenzione alla mia filosofia, alcune conferme che essa ha ricevuto da studiosi delle scienze empiriche non prevenuti e non iniziati

ad essa, il cui cammino rivolto alla pura conoscenza sperimentale ha fatto loro scoprire nel tratto finale ciò che la mia dottrina ha posto come l’elemento metafisico sulla cui base l’esperienza in genere deve essere chiarita. [La Volontà nella natura, Introduzione]



Si potrebbe obiettare che se il mondo fenomenico – quello conoscibile scientificamente – avvolge e mantiene velata la sua essenza, cioè la volontà come tendenza assoluta all’autoaffermazione, è per lo meno singolare che proprio le scienze possano fornirci delle conferme sulla natura metafisica della volontà. Tuttavia, per Schopenhauer, l’involucro stesso, cioè le forme con cui conosciamo il mondo, ci dice qualcosa di ciò che vi è contenuto. E come l’esperienza soggettiva del proprio corpo ci permette l’accesso alla volontà, così la considerazione scientifica dei fenomeni ci permette di confermare, da un altro punto di vista, questa scoperta. Schopenhauer può così servirsi della volontà per spiegare i fenomeni naturali, e al tempo stesso può analizzare questi ultimi per mostrare che essi manifestano di fatto la medesima volontà originaria. A tal fine egli raccoglie materiali diversi, talvolta con buona padronanza (soprattutto per quel che riguarda fisiologia e anatomia comparata) talvolta con una certa disinvoltura, per esempio quando cerca di interpretare, dal punto di vista linguistico, tutte le forme impersonali in cui compare il verbo “volere” (come nell’espressione: “questa macchina non ne vuol sapere”) a riprova del fatto che la volontà sia alla base di qualsiasi fenomeno. Un approfondimento dei temi del Mondo avviene anche a livello della morale, come si vede nel volume I due problemi fondamentali dell’etica del 1841. Qui si riaccende, con toni molto rudi e violenti, la polemica nei confronti dell’hegelismo:



la cosiddetta filosofia di codesto Hegel è una mistificazione colossale che fornirà ai posteri un inesauribile motivo di fare ironia sulla nostra epoca, una pseudofilosofia capace di paralizzare tutte le energie dello spirito, di soffocare ogni vero pensiero e di sostituirvi, mediante il più sacrilego abuso della lingua, la più vacua verbosità priva di significato e di pensiero. [I due problemi fondamentali dell’etica, Prefazione alla 1a ed.]



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Ma la polemica si estende anche alla filosofia pratica kantiana: il dovere a cui quest’ultima fa appello ha senso per Schopenhauer solo in rapporto a premi e punizioni, e dunque, invece di fondarsi su un’interpretazione assoluta del dovere, si fonda in realtà sul presupposto teologico di un Dio retribuitore. In altri termini, Schopenhauer vede nell’etica kantiana una tendenza a dissimulare i veri motivi dell’agire: anche la tendenza all’universalizzazione (espressa dalla prima formulazione dell’imperativo categorico: «agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso, che divenga una legge universale») avrebbe senso solo se l’uomo riuscisse effettivamente a calcolare i benefici e gli svantaggi che gli deriverebbero dal rendere universale la sua massima di comportamento. Ma questo stesso calcolo renderebbe impura la norma morale. In effetti, la debolezza dell’etica kantiana sta nel fatto di far leva sulla razionalità, mentre l’etica riguarda in generale la volontà, che è altra cosa rispetto alla ragione. Nell’edizione del 1844 del Mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer procederà poi a un’interpretazione in termini ancora più marcatamente fisiologici del kantismo: il pensiero è una funzione fisiologica del cervello, più o meno come la bile è una secrezione del fegato (l’esempio è dello stesso Schopenhauer). Lo scopo è quello di sottolineare come anche l’intelletto non sia altro che una manifestazione della volontà. Al tempo stesso Schopenhauer precisa che, se la volontà si manifesta solo nell’autocoscienza dell’uomo, questo non porta ad una conoscenza della volontà in sé stessa (dal momento che l’autocoscienza è sempre subordinata al tempo, forma soggettiva di ciò che è fenomenico), ma alla conoscenza del fenomeno della volontà. La volontà che si rivela nell’autocoscienza non è dunque la volontà in sé, ma ciò che si può conoscere di essa, la volontà come oggetto. D’altra parte, solo ciò che è fenomenico e oggettivo si può conoscere; di conseguenza, la volontà in sé rimane inconoscibile:

venga cioè conosciuta. Questa domanda non troverà mai una risposta, perché, come si è detto, l’essere conosciuto è già, di per sé, in contraddizione con l’essere in sé e perché ogni essere conosciuto è, in quanto tale, soltanto fenomeno. [Il mondo come volontà e rappresentazione, Supplementi al II libro, cap. 18]



A tutte queste domande, Schopenhauer non troverà mai una risposta soddisfacente, come riconoscerà e ribadirà poi egli stesso nei Parerga e paralipomena. N on cambia invece, nella nuova edizione del Mondo, il pessimismo di fondo nell’interpretazione del reale, di cui anzi vengono qui sviluppate le

ci si può ancora domandare che cosa sia mai in definitiva quella volontà che si presenta nel mondo e come fosse il mondo, quando la si consideri assolutamente in sé; che cosa sia dunque la volontà, prescindendo dal fatto che essa si presenti come tale, oppure dalla circostanza che, in generale, essa si manifesti fenomenicamente, che



Un’ambiguità simile riguarda il tema dell’unità/molteplicità della volontà: la molteplicità è un risultato delle forme conoscitive, o è in qualche modo originaria? Schopenhauer sembra propenso ad accentuare quest’ultima ipotesi: lo attestano la molteplicità delle idee, talvolta contrastanti tra loro, ma soprattutto il fatto che, all’interno della volontà, appare difficile spiegare come molti si limitino ad esprimere la tendenza generale della volontà all’affermazione di sé, mentre alcuni scelgano di negarla, e vi riescano almeno in parte. Ma come possono l’affermazione e la negazione appartenere all’unica essenza della volontà?



Dopo tutte queste spiegazioni, possiamo ancora porci le domande che seguono: da dove è dunque scaturita questa volontà, che è libera di affermarsi – e in tal caso il suo fenomeno è il mondo – oppure di negarsi – e in questo caso non ne conosciamo il fenomeno? Qual è la fatalità, posta al di là di ogni esperienza possibile, che l’ha messa di fronte alla penosissima alternativa di manifestarsi come un mondo nel quale regnano dolore e morte, oppure di negare la sua più intima essenza? O ancora, che cosa può averla indotta ad abbandonare l’infinitamente preferibile quiete e beatitudine del nulla? […] A tutte queste domande bisognerebbe innanzi tutto rispondere che l’espressione della forma più generale e comune del nostro intelletto è il principio di ragion sufficiente, il quale però si applica solo al fenomeno e non all’essenza in sé delle cose: ma è soltanto da tale principio che deriva ogni “donde” e ogni “perché”. [Il mondo come volontà e rappresentazione, Supplementi al IV libro, cap. 50]



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implicazioni religiose: non è possibile immaginare che il mondo sia stato creato da un Dio buono e provvidente; esso non è il migliore dei mondi possibili e men che meno s’identifica con Dio, come suggerito dai sostenitori del panteismo. Per questo è illusoria anche l’idea di progresso nella storia: d’altra parte la storia (che è successione di avvenimenti, e dunque non eccede mai i confini del mondo fenomenico) non riguarda l’essenza della realtà [ T9]. Sotto la superficie della storia, l’essenza non muta: anche questo è un evidente punto di distacco da Hegel, che vede invece nello sviluppo storico il dispiegamento dell’Assoluto. 1. Nell’opera La Volontà nella natura Schopenhauer propriamente: a. vuole mostrare che il mondo fenomenico nasconde la vera essenza della natura. b. prende in esame le scoperte delle scienze sperimentali per confermare la volontà come essenza della natura. c. mostra che l’essenza della natura non può essere colta attraverso la scienza. d. mostra come le leggi della natura non presuppongono alcuna radice metafisica che le spieghi. 2. Per Schopenhauer, l’etica kantiana: a. è debole e criticabile, poiché poggia sulla ragione e non sulla volontà. b. è un’etica totalmente pura e autonoma. c. si fonda effettivamente sull’assolutezza del dovere. d. è incoerente con i suoi presupposti.

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8 I Parerga e paralipomena I Parerga e paralipomena (che significa ‘aggiunte’ e ‘supplementi’ contenenti parti tralasciate di un’opera) raccolgono, in due volumi, saggi diversi per tema e natura. Alcuni riguardano la storia della filosofia, con l’intento esplicito di presentare la propria esposizione come il punto di approdo di essa; altri la polemica contro la filosofia universitaria; molti sono composti sotto forma di aforismi o massime di vita. Una delle parti più note (e ancora oggi di successo) è rappresentata dagli Aforismi sulla saggezza della vita: l’austero rigore propugnato nel Mondo come volontà e rappresentazione cede qui il posto all’idea che, se la felicità autentica è impossibile,

si può provare a condurre una vita in modo tale da giungere – per quanto possibile – al soddisfacimento della propria volontà. Il ridimensionamento dell’ascetismo del Mondo coincide con un avvicinamento alle posizioni dei moralisti francesi: il vero saggio è colui che, consapevole della propria superiorità, deve difendere la propria libertà dalla folla e deve sfuggire il più possibile alle incombenze della vita quotidiana. Questo ideale aristocratico, che rischia talvolta di degenerare in un vero e proprio disprezzo per il popolo e tutto ciò che è popolare, permea di sé molte pagine dei Parerga e paralipomena. Rispetto al Mondo, cambia anche, in parte, l’approccio alla religione, nel senso che Schopenhauer non sembra più interessato a sottolinearne il carattere puramente illusorio, ma piuttosto a enucleare quel fondo di verità che si può riconoscere in ciascuna delle religioni storiche, e che è stato trasmesso in modo allegorico e mitologico per andare incontro alle esigenze dei popoli:



siccome la sua cerchia d’azione non è un’angusta aula, bensì il mondo e l’umanità in generale, in conformità ai bisogni e le capacità mentali di un pubblico così vasto e misto, la religione non può permettere che la verità appaia nuda […] ma deve invece servirsi di un veicolo mitico. [Parerga e paralipomena, «Della religione»]



Si potrebbe dire che, dopo le scienze, anche le religioni storiche sono chiamate in causa da Schopenhauer per trovare ulteriori conferme della sua tesi di fondo. N ei Parerga e paralipomena, tuttavia, la religione rimane l’unica strategia concretamente praticabile per indirizzare il popolo verso idee morali più elevate. È ovvio che la verità delle religioni sta, per Schopenhauer, nella propria filosofia, ed è per questo che egli arriva a definire la sua filosofia come autentica filosofia cristiana. Molti altri saggi mostrano invece quasi il desiderio di rincorrere, spesso in modo provocatorio, alcuni temi “da salotto”: sono gli scritti su cui si fonda, in larga misura, la fortuna contemporanea di Schopenhauer, il suo essere tornato di moda, ma che tradiscono spesso, sotto la brillantezza dello stile, una forma di autocompiacimento intellettuale che suscita talora perplessità. Per non citare che un esempio, sarà sufficiente ricordare come Schopenhauer si lasci

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andare qui a una forma di misoginia francamente rozza e sconcertante:

passaggi della Prefazione alla seconda edizione del Mondo come volontà e rappresentazione:





Già la vista della figura femminile insegna che la donna non è destinata a grandi lavori né spirituali, né fisici. Essa sconta la colpa della vita non agendo, ma soffrendo coi dolori del parto, con la cura per il bambino, con la sottomissione all’uomo, del quale dev’essere una compagna paziente e serena. […] Le donne sono adatte a curarci ed educarci nell’infanzia, appunto perché esse stesse sono puerili, sciocche e miopi, in una parola tutto il tempo della loro vita rimangono grandi bambini: esse occupano una specie di gradino intermedio fra il bambino e l’uomo, che è il vero essere umano. […] Poiché, in fondo, le donne sono destinate unicamente alla propagazione del genere umano e in ciò si esaurisce il loro compito, esse vivono assai più nella specie che nell’individuo: esse prendono a cuore assai più gli interessi della specie che non quelli dell’individuo. […] Esse sono sexus sequior, il secondo sesso, che da ogni punto di vista è inferiore al sesso maschile; perciò bisogna aver riguardi per la debolezza della donna, ma è oltremodo ridicolo attestare venerazione alle donne, essa ci abbassa ai loro stessi occhi. Quando la natura spaccò il genere umano in due metà, il taglio non fu da essa fatto proprio nel mezzo. [Parerga e paralipomena, «Sulle donne», §§ 363, 364, 367, 369]



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1. Nei Parerga e paralipomena Schopenhauer: a. insiste sulla pratica dell’ascetismo come unica via per accedere alla felicità. b. ridimensiona l’efficacia dell’ascetismo, avvicinandosi a posizioni aristocratiche. c. torna a sottolineare il carattere illusorio della religione. d. in alcuni saggi si occupa di temi salottieri espressi con stile brillante e provocatorio.

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Ancora una parola, per i professori di filosofia. Sempre ho dovuto ammirare la sagacia, la precisa e sottile sensibilità, con la quale essi hanno, sin dal suo apparire, riconosciuto nella mia filosofia un qualcosa di affatto eterogeneo alle proprie aspirazioni, anzi di assolutamente pericoloso, o, per parlare alla buona, come qualcosa che non fa loro comodo, e la sicura e acuta politica grazie alla quale essi hanno immediatamente scoperto il solo giusto atteggiamento da tenersi davanti ad essa […]. Un contegno del genere, per altro quanto mai conveniente per la facilità della sua applicazione, consiste notoriamente nell’assoluto ignorare […]. Quei signori voglion vivere, e precisamente vivere della filosofia: da questa traggono sostentamento con moglie e prole, e tutto, nonostante il povera e nuda vai filosofia del Petrarca, tutto essi hanno arrischiato su di lei. La mia filosofia, al contrario, non è per nulla adatta a che si possa viver di lei. Essa è priva dei requisiti primi essenziali per una ben retribuita cattedra di filosofia […]. Che cosa mai può importare la mia spregiudicata filosofia […] alla buona e vantaggiosa filosofia delle Università che, gravata da cento intenzioni eterogenee e da mille riguardi, con gran cautela avanza in modo incerto, tenendo via via d’occhio il timor di Dio, la volontà del ministero, i precetti della chiesa locale, i desideri dell’editore, la clientela degli studenti, la buona amicizia dei colleghi, l’andamento della politica quotidiana, la contingente tendenza del pubblico e chissà quant’altre cose? [Il mondo come volontà e rappresentazione, Prefazione alla 2a ed.]



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9 Una concezione aristocratica della filosofia I Parerga e paralipomena contengono un duro scritto polemico contro la filosofia universitaria, ma l’essenziale di questo atteggiamento era stato già condensato da Schopenhauer in alcuni

Schopenhauer rappresenta, da questo punto di vista, un dei tentativi più radicali di contrapporre la filosofia come atteggiamento esistenziale e la filosofia “universitaria” come qualcosa di insegnabile, e perciò sottoposto anche a una serie di vincoli e condizionamenti. Non a caso, questo passo contiene anche una rivendicazione esplicita della libertà di pensiero e dell’indipendenza della ricerca filosofica rispetto a qualsiasi istanza politica e religiosa. E tuttavia, per quanto sincera, questa rivendicazione orgogliosa va forse letta tenendo conto del fatto che Schopenhauer aveva in realtà tentato di introdurre la sua filosofia nelle Università –

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cercando lo scontro diretto con Hegel e venendone sistematicamente sconfitto – e che questo culto dell’isolamento implica al fondo una diffidenza, se non un disprezzo, per la massa, e dunque anche una precisa tendenza antidemocratica. N on è in definitiva un caso che Schopenhauer – tradendo in qualche modo lo spirito di amore per la libertà del padre, che Il ripensamento dell’eredità kantiana. La posta in gioco del pensiero di Schopenhauer (1788-1860) coincide con il tentativo di ripensare l’eredità di Kant e dei postkantiani, per elaborare una diversa e originale articolazione dei rapporti tra metafisica ed etica. La struttura della coscienza empirica. Nella dissertazione Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (1813), Schopenhauer articola il principio di ragion sufficiente in quattro forme diverse: 1. ragione del darsi o accadere delle cose (ratio fiendi); 2. ragione del conoscere (ratio cognoscendi); 3. ragione dell’essere delle cose (ratio essendi); 4. ragione dell’agire (ratio agendi). Il vero tema del trattato è il modo in cui funziona la coscienza empirica, ovvero il modo in cui il soggetto costituisce l’oggettità (l’insieme degli oggetti in quanto tale). Schopenhauer fa corrispondere alle prime tre forme del principio tre differenti classi di oggetti, riservando alla quarta il solo soggetto del volere. La prima classe è costituita dalle rappresentazioni empiriche complete. La novità introdotta da Schopenhauer riguarda il ruolo costitutivo dell’intelletto nei confronti del mondo dell’esperienza: egli ritiene che tutta la conoscenza dipenda fin dall’inizio dall’intelletto. Le categorie divengono, così, i modi in cui ha luogo l’unificazione, da parte dell’intelletto, delle forme stesse di ogni rappresentazione, e cioè del tempo e dello spazio. La seconda classe di oggetti è data dalle rappresentazioni di rappresentazioni, ovvero dai concetti astratti, prodotti dalla ragione. La terza classe è costituita dalle intuizioni pure di spazio e tempo che definiscono le condizioni di esistenza delle figure geometriche e delle entità matematiche. La quarta classe è data unicamente dal soggetto del volere o vo-

aveva abbandonato Danzica quando questa aveva perso il suo statuto di città libera per cadere sotto il controllo prussiano – abbia visto con grande timore, se non terrore, i moti del 1848, e abbia lasciato tutta la sua eredità alle vedove e agli orfani dei soldati prussiani caduti proprio nelle operazioni di repressione di questi stessi moti.

lontà e in questo caso il principio assume la forma di principio di ragione sufficiente dell’agire. L’agire rimanda a un principio di ragion sufficiente che si discosta dalla causalità che regola e costituisce le rappresentazioni. Il mondo come rappresentazione. Il mondo come volontà e rappresentazione (1819) si compone di quattro libri, dedicati alla teoria della conoscenza, alla metafisica e filosofia della natura, all’estetica e all’etica. Questa articolazione non costituisce un “sistema di pensieri” ma l’espressione di un «unico pensiero», nel senso di una totalità governata da un’interna connessione organica. Nella teoria della conoscenza Schopenhauer parte dall’inevitabile separazione dell’ideale dal reale: il rapporto del soggetto con il mondo, regolato dal principio di causalità, non va inteso né in senso realistico né in senso idealistico. La causalità si applica solo alla sfera degli oggetti (rappresentazioni) e riguarda sempre un rapporto tra oggetti, e cioè tra la modificazione dell’organo sensoriale e la rappresentazione della sua causa. Tuttavia essa deve sempre precedere gli oggetti, anche la stessa modificazione sensoriale o il corpo in quanto tale. Il mondo fenomenico è distinto e contrapposto al mondo noumenico, cioè al mondo com’è in sé stesso; quest’ultimo è anzi totalmente occultato dalle rappresentazioni. La rete degli oggetti è il velo della maya che avvolge il mondo in sé; pur avendo una conoscenza scientifica del mondo fenomenico, questo risulta una mera illusione. Il mondo come volontà. L’unica via di accesso al mondo in sé è data dal corpo dell’uomo, in quanto ad esso non si accede soltanto dall’esterno, ma anche dall’interno. Tale accesso conduce al riconoscimento che il corpo coincide con la volontà. Ogni azione

del corpo è così il rendersi visibile della volontà: l’in sé del mondo, ciò che sta al di sotto degli oggetti e delle rappresentazioni, è la volontà. Questa costituisce l’essenza di tutta la realtà, ed essendo indipendente dalla conoscenza e dall’intelletto, è cieca e irrazionale. La metafisica si configura come una sorta di decrittazione/interpretazione dell’“enigma” del mondo attraverso l’individuazione dei diversi gradi di oggettivazione della volontà, spiegati con il ricorso alla classica dottrina delle idee. N elle sue manifestazioni, la volontà tende solo ad affermare sé stessa, determinando una vera e propria lotta per l’esistenza fra gli individui. L’affrancamento dalla volontà. N ell’uomo la tendenza della volontà all’autoaffermazione si manifesta con conseguenze ancora più dolorose, perché egli è dotato della ragione, cioè della possibilità di andare al di là dell’immediato. Ogni volizione indica una mancanza, un bisogno: il piacere è il soddisfacimento del bisogno, mentre il dolore è la percezione della mancanza. Pertanto il piacere è sempre secondario rispetto al dolore e momentaneo. Per contro, l’assoluta mancanza di bisogni determinerebbe una condizione di noia. L’unico ideale a cui tendere per liberarsi dal dolore è quello di cessare di volere, di liberarsi dal volere. Questo è possibile attraverso tre tappe fondamentali: l’arte, la morale e la mortificazione. L’arte è quella forma di conoscenza attraverso cui l’uomo, elevandosi alla contemplazione, riesce a liberarsi dalla volontà facendosi puro soggetto conoscente. Le singole arti esprimono gradi diversi di oggettivazione della volontà: la tragedia consente di conoscere l’essenza umana; la musica dà accesso alla volontà in quanto tale, offrendoci, insieme alla filosofia, la vera conoscenza del mondo. La morale di Schopenhauer è descrittiva: le azioni

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SINTESI CAPITOLO 4

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che l’uomo compie nel mondo manifestano semplicemente la scelta (la decisione) che ognuno ha fatto di sé a livello intelligibile, fuori dal tempo. Pertanto attraverso la morale l’uomo si sottrae al mondo fenomenico, attingendo a quello noumenico. La tendenza fondamentale in ogni uomo è l’impulso di autoaffermazione o egoismo che determina l’ingiustizia, cioè la prevaricazione sulla sfera della volontà altrui; la giustizia consiste, invece, nel rispetto della volontà degli altri e la compassione nello sforzo di aiutarli, alleviandone le sofferenze. Lo Stato ha un’origine strettamente convenzionale: la sua fondazione è un rimedio contro l’egoismo, anche se non può estirparlo del tutto. La mortificazione consiste nella negazione del volere stesso o “noluntas”: la volontà riconosce come falsi e illusori i piaceri verso cui spinge con la propria affermazione e si distacca dalla vita soprattutto esercitando pratiche ascetiche.

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Le scienze, la morale, la religione. Nella Volontà nella natura (1836) Schopenhauer, alla luce delle scoperte delle scienze sperimentali, analizza i fenomeni naturali per mostrare che questi manifestano la medesima volontà originaria. Nei Due problemi fondamentali dell’etica (1841) egli approfondisce la sua riflessione morale attraverso una serrata critica ad Hegel e Kant. N ell’edizione del 1844 del Mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer precisa che nell’autocoscienza si rivela solo il fenomeno della volontà; di conseguenza la volontà in sé rimane inconoscibile. Egli sviluppa, inoltre, le implicazioni religiose del suo pessimismo. I Parerga e paralipomena. I Parerga e paralipomena (1851) raccolgono saggi diversi per tema e natura. Alcuni riguardano la storia della filosofia e la polemica contro la filosofia universitaria; altri sono composti sot-

to forma di aforismi o massime di vita. Negli Aforismi sulla saggezza della vita Schopenhauer ridimensiona il rigido ascetismo del Mondo, avvicinandosi alle posizioni dei moralisti francesi e proponendo l’ideale aristocratico del saggio. Muta in parte l’approccio alla religione, della quale egli valorizza quel fondo di verità presente in ogni religione storica. Altri saggi trattano, in modo provocatorio e con stile brillante, temi “da conversazione”. Una concezione aristocratica della filosofia. Nella Prefazione alla seconda edizione del Mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer contrappone la filosofia come atteggiamento esistenziale alla filosofia “universitaria”, sottoposta a una serie di vincoli e condizionamenti. Egli rivendica la libertà di pensiero e l’indipendenza della ricerca filosofica rispetto a qualsiasi istanza politica e religiosa.

BIBLIOGRAFIA Fonti

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A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. di A. Vigliani, Mondadori («I Meridiani»), Milano 1989 (ma anche trad. di S. Giametta, testo tedesco a frone, Bompiani, Milano 2006). A. Schopenhauer, La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, trad. di A. Vigorelli, Guerini e Associati, Milano 1999. A. Schopenhauer, La Volontà nella natura, a cura di I. Vecchiotti, Laterza, Roma-Bari 20002. A. Schopenhauer, La libertà del volere umano, trad. di E. Pocar, Laterza, Roma-Bari 2004. A. Schopenhauer, Il fondamento della morale, trad. di E. Pocar, Laterza, Roma-Bari 2005. A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, 2 voll., trad. di G. Colli, Adelphi, Milano 2007. A. Schopenhauer, Il mio Oriente, trad. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2007.

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Opere Tra le edizioni delle opere di Schopenhauer, quella maggiormente in uso oggi è: • A. Schopenhauer, Werke in fünf

Bänden, a cura di L. Lütkehaus, Haffmann, Zürich 1988. Oltre alle opere citate tra le fonti, vano ricordate: A. Schopenhauer, La vista e i colori. Carteggio con Goethe, trad. di M. Montinari, Abscondita, Milano 2002; A. Schopenhauer, Metafisica della natura, trad. di I. Volpicelli, Laterza, Roma-Bari 20072; A. Schopenhauer, Metafisica dei costumi. Lezioni filosofiche, trad. di M.G. Franch, Se, Milano 2008; A. Schopenhauer, Colloqui, trad. di A. Verrecchia, Rizzoli, Milano 20002; A. Schopenhauer, La filosofia delle università, trad. di G. Colli, Adelphi, Milano 1992; A. Schopenhauer, Scritti postumi, vol. I: I manoscritti giovanili (18041818), trad. di S. Barbera e A. Hübscher, Adelphi, Milano 1996; vol. III: I manoscritti berlinesi (1818-1830); trad. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2004; Tra le diverse raccolte di aforismi e pensieri editi negli ultimi anni in Italia ricordiamo solo: A. Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione, trad. di F. Volpi e N. Curcio, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1991. A. Schopenhauer, L’arte di essere felici, trad. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1997.

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• A. Schopenhauer, L’arte di conoscere sé stessi, trad. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2003.

Studi critici Per la biografia intellettuale di Schopenhauer si veda: R. Safranski, Schopenhauer e gli anni selvaggi della filosofia, Tea, Milano 2008.

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Per uno sguardo d’insieme sul pensiero di Schopenhauer si rimanda a: I. Vecchiotti, Introduzione a Schopenhauer, Laterza, Roma-Bari 1995.

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Per una presentazione analitica del Mondo come volontà e rappresentazione si consiglia: S. Barbera, Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 1998.

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Due studi in qualche modo classici sull’interpretazione complessiva di Schopenhauer sono: G. Riconda, Schopenhauer interprete dell’Occidente, Mursia, Milano 1986; A. Hübscher, Arthur Schopenhauer: un filosofo controcorrente, Mursia, Milano 1990.

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ESERCIZI

Arthur Schopenhauer capitolo 4 1. Perché Schopenhauer ritiene di aver consegnato un’opera di grande valore all’umanità? Quale importante questione filosofica egli ha affrontato? (max 5 righe)

11. Aiutandoti con il seguente schema, esponi in sintesi un testo sulla concezione metafisica di Schopenhauer (max 15 righe).

2. Qual è per Schopenhauer il ruolo dell’intelletto rispetto all’esperienza? Rispondi alla domanda mettendo in luce la differenza rispetto al modello kantiano (max 8 righe).

Gradi di oggettivazione

Caratteri della volontà

VOLONTÀ  Idee del mondo inorganico  Idee del mondo organico  Uomo

Unica e unitaria Cieca e irrazionale Tende solo all’autoaffermazione

3. Completa lo schema seguente attribuendo ad ogni forma del principio di ragion sufficiente la classe di oggetti corrispondente. Esponi poi in sintesi il contenuto della dissertazione del 1813 (max 15 righe). PRINCIPIO DI RAGION SUFFICIENTE Forme del principio

Classe di oggetti

1. ragione del darsi o accadere delle cose 2. ragione del conoscere 3. ragione dell’essere delle cose 4. ragione dell’agire

........................................ ........................................ ........................................ ........................................ ........................................ ........................................

4. Dopo aver distinto le parti in cui si articola la riflessione di Schopenhauer nel Mondo come volontà e rappresentazione, chiarisci la differenza fra un “sistema di pensieri” e un “pensiero unico” (max 8 righe). 5. Qual è per Schopenhauer il grande limite degli idealisti? (max 5 righe) 6. Esponi in sintesi la teoria della conoscenza di Schopenhauer precisando: a. come si configura il rapporto fra il soggetto e il mondo esterno; b. quali sono i punti di distacco e quelli di continuità rispetto alla gnoseologia di Kant; c. quale rapporto sussiste fra le rappresentazioni dell’intelletto e il mondo reale (max 15 righe). 7. Spiega perché il corpo, pur essendo un oggetto come gli altri, è l’unica via di accesso alla cosa in sé e come questa si configura (max 8 righe). 8.Chiarisci il senso della seguente affermazione di Schopenhauer: «è volontà quella che appare nella forza naturale cieca, ed è ancora volontà quella che si manifesta nella condotta ragionata dell’uomo; l’enorme differenza che separa i due casi concerne solo il grado di manifestazione, non l’essenza di ciò che si manifesta» (max 8 righe). 9. Chiarisci la differenza fra la concezione kantiana della metafisica e il significato e il compito che questa riveste in Schopenhauer (max 8 righe). 10. Che cosa accomuna e che cosa separa la filosofia della natura di Schelling e quella di Schopenhauer? (max 5 righe)

12. Perché la lotta degli individui per la sopravvivenza non può essere interpretata come una forma di evoluzionismo? (max 5 righe) 13. Descrivi la dinamica del desiderio in Schopenhauer spiegando perché essa conduce, secondo l’autore, a una visione pessimistica dell’esistenza umana (max 10 righe). 14. Che legame c’è tra l’arte e la filosofia secondo Schopenhauer? (max 5 righe) 15. Chiarisci il nesso che intercorre tra libertà, scelta e responsabilità nella riflessione morale di Schopenhauer (max 8 righe). 16. Esponi in sintesi la concezione etica di Schopenhauer, utilizzando i seguenti concetti: teoria del diritto, giustizia, Stato, egoismo, ingiustizia, compassione (max 10 righe). 17. Metti a confronto l’idea hegeliana di Stato con quella di Schopenhauer (max 8 righe). 18. In che cosa consiste la negazione del volere per Schopenhauer? (max 5 righe) 19. Illustra il percorso che può condurre l’uomo all’affrancamento dalla volontà di autoaffermazione, utilizzando i seguenti termini: arte, tragedia, musica, morale, noluntas (max 15 righe). 20.Perché nel 1836 Schopenhauer interrompe “un silenzio di diciassette anni” pubblicando l’opera La Volontà nella natura? (max 5 righe) 21. Perché, come Schopenhauer afferma nell’edizione del 1844 del Mondo come volontà e rappresentazione, la domanda su che cosa sia la volontà in sé non troverà mai una risposta? (max 5 righe) 22. Alla luce di quali nuove considerazioni Schopenhauer approfondisce la sua visione pessimistica della realtà? 23. Nei Parerga e paralipomena Schopenhauer mitiga le sue riflessioni in ambito morale e religioso rispetto al Mondo come volontà e rappresentazione. Evidenzia le differenze più rilevanti (max 8 righe).

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So/ ren Kierkegaard

1 «La soggettività è verità» N el panorama filosofico europeo della prima metà dell’Ottocento, Kierkegaard rappresenta una figura isolata, quasi eccentrica rispetto alle grandi tendenze a lui contemporanee. Intanto, la sua fama e la sua fortuna sono state per lungo tempo confinate esclusivamente al paese in cui è nato e vissuto, la Danimarca, e hanno cominciato a estendersi a livello europeo solo con la traduzione tedesca delle sue opere, avvenuta tra il 1909 e il 1922. Perfino tutte le accese battaglie culturali o spirituali a cui di fatto dedicò la sua esistenza furono in definitiva battaglie locali, quasi “provinciali”, limitate talvolta al contesto della sola Copenhagen. La sua stessa immagine come uno dei principali oppositori della tradizione hegeliana nell’Ottocento è stata costruita per lo più dopo la sua riscoperta novecentesca. In vita, Kierkegaard non è mai stato veramente in contatto con i principali filosofi a lui contemporanei (se si eccettua un brevissimo periodo trascorso a Berlino per ascoltare le lezioni di Schelling), e quando ha preso posizio-

ne contro Hegel, lo ha fatto o a livello privato, nel Diario redatto per gran parte della sua vita, oppure entro i limiti di un dibattito culturale ben circoscritto, relativo alla piega “hegeliana” assunta dalla Chiesa luterana danese. Anche sulla portata strettamente filosofica della sua riflessione si potrebbero sollevare dei dubbi: Kierkegaard ha di fatto seguito un corso di studi prevalentemente teologico, si è sempre sentito più vicino alla teologia (protestante) che alla filosofia, e anzi ha spesso rimproverato a quest’ultima l’incapacità di rendere conto di ciò che è essenziale nella fede e nel cristianesimo. Infine, Kierkegaard stesso ha cercato di dissimulare il suo ruolo di autore, facendo ricorso a un gioco complesso di artifici letterari e adoperando, per la parte più nota della sua produzione, tutta una serie di pseudonimi. Kierkegaard è uno di quegli autori in cui le vicende biografiche sembrano intrecciarsi strettamente con l’esperienza di pensiero, e giocare un ruolo fondamentale nel suo sviluppo. Ciò dipende in larga misura dal modo in cui egli ha presentato sé stesso, e dall’importanza decisiva che ha attribuito ad alcuni episodi della sua esistenza. Questi episodi possono essere riportati a

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Søren Kierkegaard capitolo 5

tre rapporti fondamentali: con il padre; con Regine Olsen, con cui Kierkegaard sarà fidanzato per un breve periodo, ma che non sparirà mai dall’orizzonte della sua attenzione; e con il vescovo Mynster, primate della Chiesa luterana danese. Si tratta, in definitiva, di tre fallimenti: l’incapacità di mantenersi all’altezza delle aspettative del padre; l’incapacità di dar vita a una famiglia normale, sposando la ragazza che pure amava e avrebbe in un certo senso amato fino alla morte; l’incapacità di incidere concretamente e positivamente sulla Chiesa del suo tempo, come pure si era proposto. Questa serie di scacchi produsse conseguenze anche sul piano puramente pratico: non solo Kierkegaard non ebbe una carriera accademica, ma non riuscì mai neppure a ottenere un posto di insegnamento nel seminario o la nomina a pastore in una chiesa di campagna. Così egli visse dapprima grazie alla rendita che il padre gli passava mensilmente, e poi consumando l’ingente somma lasciatagli in eredità: il che offre forse la misura del suo senso di inadeguatezza rispetto alla comune vita sociale. Kierkegaard stesso vede nelle sue incapacità e nei suoi fallimenti il segno della sua diversità, ma paradossalmente anche della sua grandezza:



Ciò che mi rende impopolare, non è tanto la difficoltà dei miei scritti, quanto il mio modo di esistere: il fatto che, nonostante le mie aspirazioni, non riesco a nulla […], non faccio quattrini, non ottengo alcun impiego, né divento cavaliere; non divengo assolutamente nulla, anzi per giunta mi busco gli scherni. Ma questa in fondo è la mia grandezza, se c’è qualcosa di grande in me. [Diario, § 1876]



Considerati oggettivamente, i tre episodi prima ricordati non appaiono tanto straordinari: non è inverosimile che molti di noi esperiscano nella loro vita un rapporto conflittuale con il padre, la rottura di un fidanzamento, o un litigio insanabile con il proprio superiore (come poteva essere considerato il vescovo Mynster nei confronti di Kierkegaard). Essi assumono invece soggettivamente un peso fondamentale nelle vicende di Kierkegaard, che se ne sentirà condizionato in modo determinante. Questo ci rivela il tratto forse essenziale del suo pensiero: non la ricerca di verità oggettive, cioè generali ed astratte, ma la ricerca di una verità che sia propria di ognuno.

Per dirla nei suoi termini: «la soggettività è la verità» [Postilla conclusiva non scientifica]. Così gli snodi fondamentali della biografia kierkegaardiana, in sé non particolarmente significativi, acquistano un senso del tutto diverso se collegati in modo essenziale alla ricerca “soggettiva” della verità – o della fede autentica – e nella misura in cui essi investono interamente la persona di Kierkegaard, la sua esistenza effettiva. Questo spiega perché nel N ovecento egli sia stato considerato uno dei padri, o addirittura il padre dell’esistenzialismo [ 21]. Quello che però non va mai dimenticato è che per Kierkegaard la verità soggettiva – ossia l’esistenza singolare – costituisce un valore inscalfibile solo in quanto esprime un rapporto altrettanto singolare, cioè unico e insostituibile, con Dio. Quando Kierkegaard si propone di ritrovare una verità che sia tale per lui, cioè non una verità oggettiva, nuda e fredda, bensì «l’idea per la quale vivere e morire», lo fa sempre e solo in riferimento al cristianesimo, e al rapporto con Dio che sta alla base di esso. Per questo egli si propone di andare al di là di ogni interpretazione storico-critica o filosofica del cristianesimo, per ritrovare il modo in cui tale verità assume un significato profondo, decisivo, per la vita di ciascuno.

2 Una vita singolare Søren Aabye Kierkegaard nacque a Copenhagen il 5 maggio del 1813. Il padre, Michael Pedersen, aveva gestito un fiorente commercio di lane, che gli aveva procurato molta ricchezza e accanto a questo aveva sempre coltivato un fortissimo interesse per le pratiche religiose e la teologia: apparteneva infatti alla comunità detta dei “Fratelli Moravi”, legata alla tradizione pietistica ed era in stretti rapporti di amicizia con il vescovo Mynster. Rimasto vedovo ancora abbastanza giovane, aveva sposato la sua governante, da cui ebbe sette figli, l’ultimo dei quali fu appunto Søren. In pochi anni, tra il 1819 e il 1834, la famiglia fu colpita da una serie di lutti: morirono ben cinque dei fratelli di Søren e la stessa madre. Ciò contribuì ad acuire un senso

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di cupo pessimismo nella religiosità del padre, destinato a trasmettersi anche al figlio più giovane, che egli cercò di indirizzare subito verso gli studi teologici. Nel 1830 Kierkegaard cominciò gli studi universitari, dedicandosi appunto allo studio della teologia a partire dal 1831. Forse anche per reazione alle aspettative del padre, non coltivò tuttavia gli studi ufficiali con particolare entusiasmo, disperdendosi in varie letture personali, anche filosofiche, e in diverse attività mondane: fu per esempio nominato presidente dell’associazione degli studenti e si guadagnò una certa notorietà nei circoli di Copenhagen. Seguirono così anche i primi contrasti con il padre, che cominciò a rimproverargli di sperperare i soldi che gli passava con una condotta di vita inappropriata, e di progredire con lentezza negli studi. In effetti, Kierkegaard ottenne la licenza in teologia piuttosto tardi nel 1840 (e solo per rispettare la volontà del padre morto nel frattempo, nel 1838), e nel 1841 conseguì il titolo di magister artium presso la Facoltà di Filosofia con una tesi Sul concetto di ironia in costante riferimento a Socrate. N el frattempo, nel 1837, aveva conosciuto Regine Olsen, con cui si fidanzò nel settembre del 1840. Due mesi più tardi si iscrisse al seminario pastorale. Il fidanzamento ebbe tuttavia assai breve durata: Kierkegaard rimandò l’anello di fidanzamento l’11 agosto 1841, e ruppe definitivamente il legame l’11 ottobre dello stesso anno. Si trasferì quindi per alcuni mesi a Berlino dove, tra il 1841 e il 1842, frequentò le lezioni di Schelling sulla Filosofia della rivelazione, rimanendone prima entusiasta e poi assai deluso. Kierkegaard tornò a Berlino per brevi periodi in altre circostanze, ma senza più significativi contatti dal punto di vista accademico. A Copenhagen, pubblicò nel 1843 Enten-Eller (Aut-Aut), un insieme di scritti curati sotto lo pseudonimo di Victor Eremita che comprendeva tra l’altro le due celebri sezioni intitolate Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale-erotico (nota anche come Don Giovanni) e Diario di un seduttore. Nello stesso anno videro la luce Timore e tremore (sotto lo pseudonimo di Johannes de Silentio), La ripresa (sotto lo pseudonimo di Constantin Constantius) e tre diverse serie di Discorsi edificanti, firmati con il proprio nome. Sono questi gli anni più proficui dal punto di vista editoriale. Nel 1844, oltre a nuove serie di

Discorsi, pubblicò le Briciole di filosofia (sotto il nome di Johannes Climacus), Il concetto dell’angoscia (sotto il nome di Vigilius Haufniensis) e le Prefazioni (sotto il nome di Nicolaus Notabene). Nel 1845 diede alle stampe Gli stadi sul cammino della vita (la cui curatela viene attribuita a un nuovo pseudonimo: Hilarius Bogbinder, ovvero il Rilegatore) e Tre discorsi per occasioni immaginarie. Nel 1846 apparve, sempre sotto lo pseudonimo di Johannes Climacus, la Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia. N ello stesso anno, Kierkegaard venne duramente attaccato con varie caricature dal giornale satirico «Il corsaro», diretto da un intellettuale ebreo, Goldschmidt, ma invano attese l’auspicata difesa da parte del vescovo Mynster. N el 1847, diede alle stampe (oltre ad altri Discorsi edificanti) Gli atti dell’amore, e lavorò a un libro sul pastore Adolf Peter Adler, che rimase tuttavia inedito. Nel 1849, apparvero Due piccole dissertazioni etico-religiose (1. È mai permesso a un uomo lasciarsi uccidere per la verità?; 2. Sulla differenza fra un genio e un apostolo) e La malattia mortale, con lo pseudonimo di Anti-Climacus. N ello stesso periodo, cercò di ottenere da Mynster un posto di insegnante al seminario pastorale (anche perché l’eredità paterna era stata ormai quasi interamente dilapidata) ma senza successo. N el 1850, sempre a nome di Anti-Climacus, pubblicò L’esercizio del cristianesimo, a cui seguì nel 1851 lo scritto Sulla mia attività di scrittore. L’ultimo periodo della vita di Kierkegaard è segnato dalla polemica con la Chiesa danese a proposito della figura del vescovo Mynster, morto nel gennaio 1854. Il suo successore, il teologo hegeliano Hans Martensen, lo aveva definito nella sua commemorazione funebre un «testimone della verità». Nel dicembre del 1854 (ma in realtà la composizione dello scritto risaliva a pochi giorni dopo la morte di Mynster) Kierkegaard prese posizione in modo molto duro, se non brutale, contro questo elogio, con un articolo intitolato significativamente: Era il vescovo Mynster un testimone della verità, uno di quei veri testimoni: è mai vero questo? L’intervento provocò una reazione di Martensen e un successivo attacco di Kierkegaard. Intorno al marzo 1855 la polemica sembrò affievolirsi, anche per la scelta di Martensen di non replicare ulteriormente in modo ufficiale, ma Kierkegaard non era

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invece intenzionato a far alcun passo indietro: nel maggio 1855 pubblicò Circa il contegno di sciocco sussiego tenuto nei miei riguardi e la concezione del cristianesimo che ho chiarito e Il silenzio del vescovo Martensen è cristianamente inescusabile, ridicolo, sciocco e spregevole sotto molti aspetti – due titoli che di per sé attestano non solo la sua vena di polemista, ma anche il rancore con cui continuava a guardare alla questione. Gli ultimi mesi di vita di Kierkegaard furono completamente assorbiti ancora dall’impegno di proporre un modello di cristianesimo alternativo a quello incarnato da Mynster e Martensen; appartengono a quest’ultimo periodo l’opuscolo Il giudizio di Cristo sul cristianesimo ufficiale, il discorso L’immutabilità di Dio e nove fascicoli di una nuova rivista pubblicata in proprio, «Il momento». La morte lo colse, dopo qualche settimana di ricovero in seguito a una prima crisi, l’11 novembre 1855, ma perfino ai suoi funerali, che videro la partecipazione di un numero inaspettato di persone, a dispetto dell’isolamento di cui Kierkegaard stesso si era sempre vantato, divennero un’occasione di scontro tra la Chiesa ufficiale e gli amici vicini alle sue posizioni.

3 La radicalità del cristianesimo Nell’interpretazione che Kierkegaard ha dato di sé stesso tutta la sua esistenza sarebbe stata segnata principalmente dal rapporto con il padre, con Regine Olsen e con il vescovo Mynster. Ma che cosa era veramente in gioco in ciascuno di questi rapporti, e in che modo essi hanno condizionato la formazione del suo pensiero, ovvero, la ricerca della sua verità?

3.1 Il padre Per quel che riguarda il primo motivo, il nòcciolo può forse essere identificato nel fatto che il padre di Kierkegaard rappresentava un modello di vita basato sull’adesione a un cristianesimo austero, e tuttavia coronato da un certo successo nel mondo. Michael Pedersen Kierkegaard era stato, da giovane, un poverissi-

mo pastore di pecore nello Jutland, ed era poi riuscito ad accumulare un patrimonio consistente grazie al commercio della lana. Egli tuttavia aveva vissuto questa parabola fortunata con un certo disagio, tanto più che il successo materiale e terreno sembrava contrastare con la lunga serie di lutti che aveva tormentato la sua famiglia. Sulla base della propria formazione pietistica, il padre di Kierkegaard si convinse che la sua ricchezza era probabilmente una fortuna immeritata, destinata ad essere tristemente compensata da una specie di maledizione gravante sui suoi affetti. Questo tormento è quello che si sarebbe trasmesso anche al figlio, destinato a vivere unicamente proprio delle ricchezze accumulate dal padre. Kierkegaard stesso ne dà testimonianza nel suo Diario, quando descrive la sua personale scoperta («il gran terremoto») del cupo destino che sembrava incombere sulla sua famiglia – e cioè che essa dovesse scomparire per sempre, essere eternamente estirpata.



Fu allora che accadde il gran terremoto, il terribile sconquasso che d’improvviso m’impose un nuovo principio d’interpretazione infallibile di tutti i fenomeni. Fu allora ch’io ebbi il sospetto che l’avanzata età di mio padre non fosse una benedizione divina ma piuttosto una maledizione e gli eminenti doni di intelligenza della nostra famiglia ci fossero dati solo perché si estirpassero l’un l’altro. Allora io sentii il silenzio della morte crescermi intorno: mio padre mi apparve come un condannato a sopravvivere a tutti noi, come una croce piantata sulla tomba di tutte le sue proprie speranze. Qualche colpa doveva gravare sulla famiglia intera, un castigo di Dio vi pendeva sopra: essa doveva scomparire, rasa al suolo dalla divina onnipotenza, cancellata come un tentativo fallito. [Diario, § 505]



Da alcune allusioni contenute nel Diario si può ipotizzare che il padre ponesse all’origine di questo “castigo” e di questa maledizione il fatto di aver imprecato contro Dio quando, da adolescente, aveva dovuto soffrire la povertà. Ma non è tanto la singola colpa in sé a essere rilevante: ciò che davvero importa è l’idea di un contrasto non casuale tra il successo mondano e la convinzione di essere abbandonati da Dio. Può il successo terreno essere davvero compatibile con un cristianesimo coerente? Questa è con ogni probabilità la questione che Kierkegaard

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eredita dal padre, e che lo accompagnerà in tutta la sua esistenza: in altre parole, la questione della coerenza e della radicalità che l’autentico cristianesimo esige.

3.2 Regine Anche per quel che riguarda il rapporto con Regine Olsen occorre lasciare da parte tutte le numerose interpretazioni psicologiche o psicoanalitiche che sono state avanzate in proposito, per concentrare l’attenzione sul modo in cui Kierkegaard stesso ha attribuito alla sua impossibile storia d’amore un peso decisivo negli sviluppi della sua riflessione. Innanzitutto bisogna ricordare che di fatto Regine, al di là della rottura, continuerà a essere ben presente fino alla morte nei pensieri di Søren – come attesta il suo Diario – non foss’altro che come possibilità mancata. E non a caso egli deciderà di affidarle nel testamento tutti i suoi scritti. Ma le indicazioni su di lei sono tutt’altro che omogenee, e spesso contraddittorie. Kierkegaard afferma di aver voluto rompere il fidanzamento nel modo più brusco e brutale possibile, perché, addossandogli la colpa, Regine potesse dimenticarsi di lui senza rimpianti, continuare a credere nell’amore umano, e trovare un marito diverso: «uscire dalla relazione come una canaglia, come la più autentica canaglia! – non si poteva fare altro per rimetterla a galla, per renderla libera, e darle la spinta per il matrimonio; ma nello stesso tempo era una squisita galanteria» [Diario, §§ 2804/16]. D’altra parte, quando Regina si sposa (seguendo un consiglio dello stesso Kierkegaard), egli fa di tutto per farla pentire della sua scelta, cercando continuamente di riprendere i contatti con lei, e vantando la propria superiorità spirituale rispetto al suo matrimonio convenzionale e “borghese”. Al di là del tentativo, umanamente comprensibile, di sublimare in tal modo la propria infelicità e la propria solitudine, ci si deve chiedere cosa abbia effettivamente spinto Kierkegaard a rinunciare a ciò che non avrebbe mai smesso di desiderare. Il motivo che emerge con sufficiente chiarezza dal Diario rimanda a una semplice questione di fondo: cosa deve avere la priorità nella vita di un vero cristiano, gli affetti umani o Dio? La questione non è di ordine pratico o formale (un luterano non ha alcun obbligo di celi-

bato, e d’altra parte Kierkegaard non è mai neppure riuscito a diventare pastore), ma riguarda una scelta assoluta, di principio. L’impossibilità di coronare l’amore con Regine è dovuta insomma all’idea di un vincolo totalizzante con Dio, che non ammette alcun’altra possibile priorità:



È certo, e quanto volentieri non vorrei dirlo, che umanamente parlando ella ha e deve avere l’unica e prima priorità della mia vita; ma in senso assoluto è Dio che ha la prima priorità. Il mio fidanzamento con “lei” e la sua rottura dipendono in fondo dal mio rapporto a Dio; formano, se così posso dire, divinamente il mio fidanzamento con Dio. [Diario, § 2743]



Nella rilettura che Kierkegaard fa della propria vita, Regine è una prova – un «esame di filosofia», come lo chiama – che va affrontata e superata con angoscia: come Dio chiede ad Abramo di sacrificare suo figlio Isacco, che pure gli aveva promesso e donato (tema che tornerà in Timore e tremore:  5.8.2), così imporrebbe a lui di rinunciare al suo amore terreno, al suo “dono” solo apparente.

3.3 Mynster Resta infine la questione del vescovo Mynster. Questi era stato amico di suo padre e Kierkegaard stesso ricorda di essere cresciuto ascoltando le sue prediche. Una prima rottura ebbe luogo quando Mynster non intervenne, come Kierkegaard si aspettava, per prendere le sue parti nella polemica con il giornale satirico «Il corsaro»: per Kierkegaard ciò mostrava già a sufficienza come la religiosità di Mynster si fondasse in realtà solo su una serie di compromessi. La situazione precipitò tuttavia nel 1851 ancora per un motivo personale, a cui se ne aggiunse tuttavia uno ben più importante di tipo teorico. Il primo aspetto è dato dal fatto che, in un discorso ufficiale, Mynster aveva messo sullo stesso piano «l’ebreo Goldschmidt», ex direttore del «Corsaro», e Kierkegaard, presentandoli come esempi della possibilità di rapportare il cristianesimo al nuovo scenario politico e sociale: Kierkegaard non perdonò al vescovo il fatto di essere stato accomunato a colui che l’aveva offeso e dileggiato qualche anno prima.

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Il motivo teorico è invece rappresentato dall’avvicinamento di Mynster ai teologi filohegeliani della Chiesa luterana danese come Heiberg e Martensen. Tanto basta, per Kierkegaard, per considerarlo un ipocrita e ritenere che, come Goethe e appunto Hegel, anch’egli falsifichi di fatto il cristianesimo riconciliandolo con il mondo [Diario, § 2924]. In altri termini, il grande rimprovero che Kierkegaard muove a Mynster è quello di aver proposto, e anzi vissuto, una versione edulcorata, “annacquata”, mondana, del cristianesimo. Mynster incarna insomma un cristianesimo “al ribasso”, mentre Kierkegaard sente su di sé il compito, anzi il dovere di rilanciare la posta, di risollevare il prezzo della concezione autentica del cristianesimo. È su questo sfondo polemico che si può comprendere il progetto di Kierkegaard: lottare contro ogni riconciliazione tra il cristianesimo e il mondo. L’errore di fondo di Hegel e dei teologi hegeliani è quello di aver ridotto il cristianesimo a una figura storica dello sviluppo dello spirito umano, e questo è l’errore che commette la Chiesa, quando accetta e vive di fatto quella riconciliazione. Kierkegaard polemizza direttamente con la Chiesa luterana danese, ma si riferisce alla “cristianità” in quanto tale, intendendo per “cristianità” proprio il falso cristianesimo che tende a riconciliarsi con il mondo. Si tratta allora di provare a rovesciare questa tendenza, e di lottare per una radicalizzazione e una interiorizzazione dell’ideale cristiano – per «reintrodurre il cristianesimo nella cristianità», come Kierkegaard stesso scrive.

4 Kierkegaard “autore di autori” 4.1 L’uso degli pseudonimi Le opere di Kierkegaard possono essere distribuite in tre gruppi: a gli scritti pseudonimi, i più diffusi e conosciuti; b. gli scritti edificanti, o religiosi (soprattutto Discorsi), firmati con il proprio nome, ma dalla circolazione limitata;

c. la mole sterminata delle Carte, la cui pubblicazione è terminata solo nel 1970, e che comprendono, come prima sezione, il Diario (che ne copre circa la metà). Kierkegaard stesso ha in parte avvalorato questa suddivisione, attribuendo al primo gruppo – quello degli scritti pseudonimi – la funzione della comunicazione indiretta (in cui l’autore sta per così dire in disparte, e lascia parlare le sue diverse maschere, ovvero i suoi diversi pseudonimi), e al secondo quella della comunicazione diretta (in cui l’autore si espone personalmente). In quest’ultima sfera, accanto ai Discorsi, possono essere fatti rientrare un’aggiunta alla Postilla; tre saggi – Il punto di vista della mia attività di scrittore (1848), Per un esame di sé stessi, raccomandato ai contemporanei (1851) e Giudica da te stesso (1851-52) – e i fascicoli del «Momento». Un caso a sé è invece rappresentato dalla tesi Sul concetto di ironia in costante riferimento a Socrate. Ancor più personale e diretta è la comunicazione del Diario, tuttavia non destinata alla pubblicazione. Si potrebbe così dire che le tre tipologie di scritti rispondono a gradi diversi di divulgazione e pubblicità: il livello più autentico, da questo punto di vista, non può che essere quello del Diario, che è stato tuttavia a lungo anche quello meno facilmente accessibile, ed è tuttora ancora il meno noto. Così, nel caso di Kierkegaard, ci si trova nella situazione di dover ricostruire il suo pensiero anche al di là di ciò che egli ha deciso di consegnare alle stampe. Questa difficoltà interpretativa è poi resa ancor più delicata dal fatto che gli scritti di maggior circolazione e successo – quelli pseudonimi – sono poi costruiti secondo un sofisticato e non semplice gioco di specchi e rimandi. Sarà sufficiente richiamare alcuni dei nomi di pseudo-autori o pseudo-curatori adoperati da Kierkegaard, e che in parte abbiamo già incontrato: Victor Eremita, Johannes de Silentio, Constantin Constantius, Vigilius Haufnensis, Nicolaus Notabene, Hilarius Bogbinder, Frater Taciturnus, e ancora altri autori secondari. Ci sono poi scritti di cui l’Autore è uno pseudonimo, ma di cui Kierkegaard stesso sceglie invece di figurare come curatore: è il caso delle Briciole di filosofia e della Postilla conclusiva non scientifica, attribuite a Johannes Climacus, e della Malattia mortale e dell’Esercizio del cristianesimo, attribuiti ad Anti-Climacus.

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Gli pseudonimi sono i personaggi del “teatro Che significa “ingannare”? Significa che si codell’esistenza” allestito da Kierkegaard, che si mincia direttamente con ciò che si vuole comudiverte poi a incrociarli, metterli in rapporto tra nicare, si comincia con il prendere per buona la loro, farli dialogare e comunicare [ Il gioco merce dell’altro. Non si comincia (per attenermi degli pseudonimi in Aut-Aut]. Accade perfino che all’oggetto essenziale di questo scritto) col dire: Kierkegaard stesso entri in prima persona nella io sono cristiano, tu non sei cristiano, ma: tu sei scena dei suoi personaggi, interagisca con qualcristiano io no. Oppure non si comincia dichiacuno di essi, o si lasci addirittura giudicare o rando: io predico il cristianesimo e tu vivi in capresentare da essi. N ella Postilla conclusiva tegorie estetiche – no, ma dicendo: parliamo di non scientifica, per esempio, lo pseudonimo estetica. L’inganno sta nel parlare a questo modo Johannes Climacus si propone di considerare proprio per giungere alla realtà religiosa. [Il punto di vista della mia attività di scrittore, sez. quanto sta accadendo nella letteratura danese II, cap. I, A, § 5] contemporanea, e in questo ambito recensisce sia gli scritti pseudonimi che quelli firmati da Kierkegaard con il proprio nome. Il risultato è paradossale, perché sappiamo che Climacus non 4.2 L’ironia è che una della maschere kierkegaardiane, e dunque parla certamente in nome di Kierkegaard, ma d’altra parte sappiamo anche che il Gli pseudonimi servono dunque in primo luogo punto di vista di Climacus (cioè: il punto di a Kierkegaard a fingere, in qualche modo, di vista che Kierkegaard costruisce per il suo perassumere la posizione dei propri interlocutori, sonaggio) non coincide affatto, esplicitamente, con quello di Kierkegaard stesso. Perché dunque questo gioco di specchi? Il gioco degli pseudonimi Parlando della suddivisione della in Aut-Aut propria produzione in scritti edificanti e scritti pseudonimi, Per avere un’idea di questa messinscena o di questo gioco, sarà sufKierkegaard concede che queficiente considerare la complessa struttura di Aut-Aut, in cui (come in sti ultimi potrebbero essere una serie di scatole cinesi) interagiscono tra loro cinque principali personagpresi come un “inganno”. E gi fittizi: tuttavia questo inganno ha una funzione maieutica, a. Victor Eremita, che firma l’Avvertenza dell’opera e figura come curatore delle sue come l’ironia socratica: due parti principali, che racconta di aver fortuitamente scoperto in un comparto di un





mobile acquistato da un rigattiere;

dal punto di vista to- b. un personaggio denominato A dal curatore (e cioè da Victor Eremita), che figura come tale della produzione autore degli scritti della prima parte del libro (gli scritti estetici), ad eccezione di uno, e religiosa, la produzione cioè del Diario di un seduttore, di cui A si dichiara a sua volta solo curatore, e che è attriestetica è un inganno e buito a un terzo personaggio, e cioè: sta qui il significato più c. Johannes il seduttore; profondo della “pseudo- d. il magistrato Wilhelm (denominato B da Victor Eremita), che figura come autore degli nimia”. È un inganno e scritti che costituiscono la seconda parte dell’opera (quelli “etici”): si tratta di lettere indirizzate ad A. Ma anche in questo caso uno scritto fa eccezione, e precisamente questo è qualcosa di ripul’ultimo, che non è una vera e propria lettera di B, ma una predica che quest’ultimo gnante. Rispondo: non ci dichiara di aver ricevuto da un quinto personaggio: si deve lasciar ingannare e. un amico pastore luterano. dalla parola “inganno”. Si può ingannare un uomo per la Tutta questa costruzione appare ancor più paradossale quando si verità e si può ingannarlo, come intuisce che in realtà i vari modelli di vita che Kierkegaard ha così accuratamente distinto e ripartito tra personaggi diversi faceva il vecchio Socrate, per porpossono in realtà essere interpretati – come vedretarlo alla verità. In fondo non c’è che mo [ 5.6-8] – come stadi successivi di una un modo per portare alla verità un uostessa esistenza. mo, ch’è preda della fantasticheria: ingannandolo. […]

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per poterne dimostrare l’inconsistenza, secondo appunto il modello classico dell’ironia socratica. A quest’ultima aveva dedicato la sua dissertazione di laurea del 1841, distinguendo la propria interpretazione sia da quella dei romantici (come Friedrich Schlegel:  vol. 2, 25.4.1), secondo cui l’ironia costituirebbe un’apertura positiva verso l’infinito, sia da quella hegeliana, secondo cui essa dissolverebbe dall’interno ciò che è dato immediatamente, senza tuttavia rinviare a qualcosa di ulteriore rispetto ad esso. Kierkegaard si colloca per così dire a metà strada: egli condivide in parte la critica hegeliana alle tesi romantiche, riconoscendo la natura essenzialmente negativa dell’ironia (l’ironia nega soltanto, non pone), ma sostiene poi che, in quanto negatività infinita e assoluta, essa prepari comunque, indirettamente, l’accesso a una verità diversa.



Qui dunque abbiamo l’ironia come negatività infinita e assoluta. È negatività, poiché solo nega; è infinita, poiché non nega questo o quel fenomeno; è assoluta, poiché ciò in virtù di cui nega è qualcosa di superiore che però non è. L’ironia non stabilisce nulla. [Sul concetto di ironia, parte II]



Una volta collocata nei suoi giusti limiti, l’ironia si presenta così come una via per la verità:

L’uso ironico degli pseudonimi serve dunque, in primo luogo, a negare l’immediatezza apparente del mondo per aprire un varco verso la realtà religiosa. Questa dissimulazione ironica non comporta tuttavia che il vero autore si sottragga alla responsabilità di quanto scritto. N ella Postilla, Kierkegaard dichiara senza ambiguità che il suo ritrarsi rispetto agli pseudonimi non è un volersi nascondere, ma un gesto di rispetto verso gli pseudonimi stessi, a cui deve essere attribuita ogni espressione, ma non la responsabilità civile di ciò che viene comunicato:



Il mio desiderio e la mia preghiera […] è che, se a qualcuno venisse in mente di citare qualche passo di questi libri, abbia la cortesia di citare con il nome dello pseudonimo rispettivo, non col mio, cioè di dividere le cose fra noi in modo che l’espressione appartenga femminilmente allo pseudonimo, la responsabilità dal punto di vista civile a me. [Postilla conclusiva non scientifica, parte II]



1. Qual è il ruolo dell’ironia in Kierkegaard? a. negare l’immediatezza del finito. b. affermare indirettamente l’infinito. c. nascondere il vero volto dell’io. d. rapportarsi positivamente all’infinito.

V V V V

F F F F



Al pari del negativo, l’ironia è la via; non la verità, ma la via. Chiunque ha un risultato come tale, non lo possiede, poiché non ha la via. Ora, quando l’ironia sopraggiunge, mostra la via, non quella però per cui chi s’immagina di avere il risultato giunge a possederlo, bensì l’altra, su cui il risultato lo abbandona. [Sul concetto di ironia, parte II]



Kierkegaard concludeva così la sua dissertazione difendendo il valore sia pratico che teoretico dell’ironia, come ciò che, impedendo l’«idolatria dei fenomeni», permetterebbe di «tradurre i risultati della scienza nella vita personale, di appropriarseli personalmente» (in modo che diventino verità soggettive) e insegnerebbe così «a rendere effettiva la realtà, ad accentarla come si conviene»: in altri termini, attraverso l’ironia «il contenuto della vita deve farsi momento vero e significativo nella realtà superiore di cui l’anima desidera la purezza» [Sul concetto di ironia, parte II].

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4.3 Il coraggio di dire “io” In questo modo Kierkegaard, anche quando si assume esplicitamente la paternità degli pseudonimi, ne rafforza comunque l’autonomia, ne fa comunque dei caratteri a sé, completi e ben definiti. La posta di questo gioco è in effetti quella di rafforzare l’indipendenza, e dunque la soggettività, la singolarità, di ciascuno di questi personaggi/autori, di farne altrettanti “io”, perché è proprio questo – il singolo, l’io – ciò che maggiormente conta. Contrariamente a quello che potrebbe apparire, l’uso degli pseudonimi non serve a Kierkegaard per mascherare l’io, ma paradossalmente per farlo emergere. Sotto la veste apparente della comunicazione indiretta, si propone una comunicazione a più voci, ma anch’essa, in realtà, diretta, o almeno certamente soggettiva.

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Ogni comunicazione della verità è divenuta un’astrazione. Il pubblico è diventato istanza; i giornali si chiamano redazione e i professori speculazione; il pastore è meditazione. N essuno ha il coraggio di dire: “io”. Ma poiché la prima condizione di ogni comunicazione della verità è assolutamente la personalità, dato che la “verità” non può avvantaggiarsi col ventriloquio, bisogna rimettere la personalità. In questa situazione cominciare con il proprio io, quando il mondo era tanto viziato da non sentire mai un io, era cosa impossibile. Il mio compito fu perciò di creare personalità di autori e di lanciarli in mezzo alla realtà della vita per abituare un po’ gli uomini a parlare in prima persona. La mia azione è così quella di un precursore, fino a quando verrà colui che nel senso più rigoroso dica: io. [Diario, § 2401, corsivo nostro]



Si evidenzia qui il tratto essenziale del pensiero kierkegaardiano, e cioè la contrapposizione tra astrazione e personalità (soggettività o singolarità). Il mondo in cui Kierkegaard sente di vivere è ormai il mondo dell’astrazione: il mondo dell’astrazione filosofica, nel caso dell’idealismo hegeliano, il mondo delle astrazioni sociali, nel caso della cultura che lo circonda. Le configurazioni astratte prevalgono sui soggetti personali, concreti; ma dove c’è astrazione non c’è verità; perché quest’ultima possa tornare a farsi strada, ad accadere, occorre tornare a parlare in prima persona – dire “io” – cioè riconquistare una personalità concreta. Ma se i tempi non sono ancora maturi per parlare in prima persona, neanche Kierkegaard si sente pronto: egli infatti dirà di aver adoperato degli pseudonimi proprio perché non si considerava ancora un testimone della verità, ma solo un “penitente”. È cioè necessario che qualcuno dica “io” e parli in prima persona anche quando l’Autore vero non è ancora nelle condizioni di farlo. Gli pseudonimi sono così altrettante personalità, altrettanti “io”, con una loro specifica autonomia. La loro funzione sta nello strappare il velo delle astrazioni, e nel tornare a parlare in prima persona come “io” poetici:



Qui sta il mio merito con gli pseudonimi: […] di aver portato degli io in mezzo (dentro) la vita. Poiché il nostro tempo manca completamente di

uno che dice: io. Tali io (degli pseudonimi) sono ora bensì degli io poetici, ma questi sono comunque qualcosa. [La dialettica della comunicazione etica ed eticoreligiosa]



5 Il singolo e il sistema 5.1 Il “come” della verità Quando Kierkegaard afferma che la soggettività è la verità non intende certo legittimare una posizione di tipo soggettivistico o relativistico, secondo la quale non esisterebbe una verità assoluta, e il vero sarebbe solo ciò che appare tale ad ognuno. Quello che invece vuole porre in evidenza è che ogni conoscenza veramente essenziale è tale solo se riguarda direttamente l’esistenza, cioè se è fatta propria e interiorizzata da ciascuno in quanto è esistente. In altri termini: quando si imposta la questione della verità in termini oggettivi, si considera la verità semplicemente come l’oggetto al quale il soggetto conoscente si rapporta – la verità è in tal senso ciò a cui si rapporta. Quando invece la si imposta in termini soggettivi, ciò che conta davvero è il rapporto stesso, cioè il modo in cui (il “come”) il soggetto si rapporta alla verità.



Quando si pone il problema della verità in modo soggettivo, si riflette soggettivamente sul rapporto dell’individuo; se soltanto il “come” del rapporto è nella verità, allora l’individuo è nella verità, anche se a questo modo egli si rapporta alla non-verità. [Postilla conclusiva non scientifica, parte II, sez. II, cap. II]



Per chiarire quest’ultima affermazione, che potrebbe risultare ambigua o fuorviante (soggettivamente, un individuo può essere nella verità anche quando si rapporta a ciò che non è vero), prendiamo il caso della conoscenza di Dio, che è poi quello che a Kierkegaard interessa maggiormente. Porre la questione in termini oggettivi significa riflettere sul fatto che c’è un vero Dio; porre la questione in termini soggettivi significa

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invece interrogarsi sul fatto che un individuo si rapporta a qualcosa in modo che tale rapporto sia in verità un rapporto a Dio. In termini oggettivi conta dunque ciò che si dice o si ricerca; soggettivamente, conta invece il come, e il come riguarda l’esistenza stessa di ogni individuo. Chi è maggiormente nella verità – si chiede Kierkegaard – tra un cristiano che prega il vero Dio in modo non-vero (falso, inautentico) e colui che adora invece un idolo in assoluta passione e sincerità, e cioè in modo assolutamente vero?



La risposta non può essere dubbia per chiunque non è completamente viziato dalla scienza. Se qualcuno che vive in mezzo al cristianesimo entra nella casa di Dio, nella casa del vero Dio, con la vera idea di Dio, e si mette a pregare, ma prega in non-verità; e se uno vive in una terra idolatra, ma prega con tutta la passione dell’infinitezza, benché il suo occhio si posi sopra il simulacro dell’idolo: dove c’è più verità? L’uno prega Dio in verità, benché adori un idolo; l’altro prega in non-verità il vero Dio e perciò adora in verità un idolo. [Postilla conclusiva non scientifica, parte II, sez. II, cap. II]



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Far prevalere il come sul cosa (o sul ciò che) significa dunque da una parte privilegiare l’esistenza contro l’essenza (contro ogni determinazione puramente oggettiva e astratta), e dall’altra difendere l’irriducibilità di ogni istanza soggettiva e singolare rispetto a ogni pretesa di riassorbimento in un sistema scientifico e filosofico. Questo è anche il senso della netta presa di distanza di Kierkegaard nei confronti di Hegel, la cui filosofia si era rapidamente imposta anche in ambito danese. N el XIX secolo, infatti, la Danimarca era in generale sotto il segno della decisa e quasi esclusiva influenza culturale tedesca, anche se ciò che probabilmente più indispettiva Kierkegaard era il progressivo trionfo dell’hegelismo all’interno della teologia luterana. 1. In che senso per Kierkegaard la soggettività è la verità? a. perché ogni conoscenza è relativa al soggetto. V F b. perché ogni conoscenza è propria del soggetto. V F c. perché occorre privilegiare l’esistenza contro l’essenza. V F d. perché si deve considerare il modo in cui il soggetto si rapporta alla verità. V F

5.2 Il confronto con Hegel L’opposizione nei confronti di Hegel può essere considerata da due diversi punti di vista: uno più strettamente filosofico, e uno teologicoreligioso. Per quel che riguarda il primo, Kierkegaard giudica infondata la pretesa di raggiungere il reale a partire dal pensiero astratto, e dunque impossibile l’identità di pensiero ed essere, soggetto e oggetto, interiorità ed esteriorità. Per Kierkegaard, al contrario, la soggettività sfugge a qualsiasi forma di mediazione dialettica, non trapassa nel suo opposto e non si risolve in una forma superiore di conciliazione o sintesi. Il che vale anche a livello politico, tanto da spingerlo a posizioni decisamente antidemocratiche:



Di tutte le tirannidi, un “governo di popolo” è la più tormentante, la più insulsa, assolutamente il tramonto di ogni cosa grande e sublime. […] Un governo di popolo è la vera immagine dell’inferno. Perché anche se uno avesse da sopportare le sue pene, sarebbe sempre un sollievo se potesse ottenere di esser solo: ma la pena è appunto che ci son gli “altri” a tiranneggiarlo. [Diario, § 1404]



La polemica antihegeliana è l’elemento del pensiero di Kierkegaard che più colpirà l’attenzione dei suoi interpreti novecenteschi e ne farà uno degli antesignani dell’esistenzialismo. La questione di fondo riguarda il modo in cui si deve concepire l’essenza delle cose e la loro esistenza. Riprendendo una tesi già enunciata da Kant, anche Kierkegaard sostiene che l’esistenza non aggiunge nulla all’essenza o al concetto di una cosa, ma rimane al di fuori di essa. Contro il procedimento della logica hegeliana – e in accordo con l’ontologia di Aristotele, che non a caso Kierkegaard continuerà a leggere – l’esistenza singolare rimane separata e non risolvibile nell’essenza:



Ciò che confonde tutta la dottrina sulla “essenza” nella logica, è il non badare che si opera sempre con il “concetto” di esistenza. Ma il concetto di esistenza è un’idealità, e la difficoltà sta appunto nel vedere se l’esistenza si risolva in concetti. […] Ad un concetto non si aggiunge nulla in più, sia ch’esso abbia o non abbia l’esistenza: nulla importa al concetto di questo; per-

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ché esso ha ben l’esistenza, cioè esistenza di concetto, esistenza ideale. Ma l’esistenza corrisponde alla realtà singolare, al singolo (ciò che già insegnò Aristotele): essa resta fuori, ed in ogni modo non coincide con il concetto. Per un singolo animale, una singola pianta, un singolo uomo, l’esistenza (essere – o non essere) è qualcosa di molto decisivo; un uomo singolo non ha certo un’esistenza concettuale. Il modo col quale la filosofia moderna parla dell’esistenza, mostra ch’essa non crede all’immortalità personale; la filosofia in generale non crede, essa comprende solo l’eternità dei “concetti”. [Diario, § 2097]



Quest’ultima affermazione ci permette di comprendere come, a ben guardare, anche il confronto “filosofico” con le tesi hegeliane sia dettato da preoccupazioni di tipo teologico-religioso. La difesa dell’esistenza singolare contro le pretese onnicomprensive del sistema è in definitiva condotta dall’esterno del sistema, in nome della categoria genuinamente religiosa del singolo come fondamento del cristianesimo:



l’errore sta principalmente in questo: che l’universale, in cui l’hegelismo fa consistere la verità (e il singolo diviene la verità, se è sussunto in esso), è un astratto, lo Stato, ecc. Egli non arriva a Dio che è la soggettività in senso assoluto, e non arriva alla verità: al principio che realmente, in ultima istanza, il singolo è più alto del generale, cioè il singolo considerato nel suo rapporto a Dio. Quante volte non ho scritto che Hegel fa in fondo degli uomini, come il paganesimo, un genere animale dotato di ragione. Perché in un genere animale vale sempre il principio: il singolo è inferiore al genere. Il genere umano ha la caratteristica – appunto perché ogni singolo è creato ad immagine di Dio – che il singolo è più alto del genere. [Diario, § 2147]



Il vero errore di Hegel è dunque l’aver riassorbito il cristianesimo (e Dio) nel processo di sviluppo dello spirito in quanto tale. Ma questo accade perché il singolo è stato sussunto sotto ciò che è generale, cioè riassorbito nell’astratto o nell’essenza: «“Il Singolo”: con questa categoria sta e cade la causa del cristianesimo, dopo che lo sviluppo del mondo ha raggiunto il grado attuale di riflessione. Senza questa categoria, il panteismo

ha vinto assolutamente» [Diario, § 1327]. Ma fare del cristianesimo una semplice tappa del superiore sviluppo storico della ragione umana comporta per Kierkegaard due conseguenze ugualmente detestabili. In primo luogo che, essendo interno alla ragione, il cristianesimo divenga perfettamente conciliabile con essa e con il suo dispiegamento storico, e dunque con il mondo in quanto tale. Questo sarà anche il tema della grande polemica di Kierkegaard contro la Chiesa. In secondo luogo che, essendo interamente storico, il cristianesimo risulti perfettibile e possa essere perfino superato. Il grande progetto hegeliano si mostra così, agli occhi di Kierkegaard, nulla più che una blasfema e risibile illusione: «Dove Hegel finisce, lì pressappoco comincia il cristianesimo; l’errore è semplicemente che Hegel pensa di avere a questo punto liquidato il cristianesimo: anzi di essere andato molto più in là» [Diario, § 2150]. 1. La polemica anti-hegeliana è giustificata dal fatto che, per Kierkegaard, il sistema idealistico: a. riconduce tutta la realtà al concetto. b. dissolve il cristianesimo nella storia. c. concepisce l’esistenza come propria di un singolo. d. rappresenta il trionfo del panteismo.

V V V V

F F F F

6 Gli stadi dell’esistenza. Lo stadio estetico I presupposti che accompagnano Kierkegaard lungo tutto il corso della sua produzione sono dunque la difesa del singolo, della verità soggettiva come rapporto, e dell’esistenza contro ogni pretesa astrattamente sistematica. Ma per quanto riguarda i grandi scritti pseudonimi della prima fase disponiamo di una chiave d’accesso particolare. È lo stesso Kierkegaard a fornircela:



Vi sono tre stadi: estetico, etico, religioso; non però astrattamente come il mediato, l’immediato, la sintesi, ma concretamente nella determinazione dell’esistenza come perditagodimento, vittoria-azione, sofferenza. [Postilla conclusiva non scientifica, parte II, sez. II, cap. II, Appendice]



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La dialettica degli “stadi”, ovvero delle diverse opzioni di vita che Kierkegaard qui propone è, una volta di più, assai diversa da quella hegeliana: il passaggio da uno stadio all’altro non accade in virtù di leggi logiche, astratte, e soprattutto non è compiuto dallo spirito, ma dal singolo, in base ai suoi atti di volontà e alle sue scelte. A ciò si ricollega anche il titolo della prima grande opera pseudonima, Enten-Eller (ovvero Aut-Aut, la classica formula disgiuntiva latina: O…-O…). La disgiunzione indica appunto l’impossibilità di una mediazione, di una sintesi dialettica: bisogna invece scegliere cosa si vuole fare di sé, cosa si vuole essere. Aut-Aut, per la verità, sviluppa solo due degli stadi prima menzionati (quello estetico e quello religioso); la tripartizione è più esplicita in Stadi sul cammino della vita, che tuttavia si limita anch’esso solo ad adombrare il terzo (quello religioso), che è invece sviluppato soprattutto a partire da Timore e tremore.

6.1 Il Don Giovanni di Mozart Tutti e tre gli stadi hanno a che fare ciascuno a suo modo con il rapporto tra il tempo e l’eternità, ossia tra il finito e l’infinito. Il primo è lo stadio estetico, chiamato così perché in esso dominano il desiderio erotico e l’interesse per la seduzione: esso costituisce quell’opzione in cui la vita cerca nel singolo istante la fruizione dell’eterno e nell’attimo finito l’esperienza della totalità. Lo stadio estetico è rappresentato essenzialmente da due figure, quella del Don Giovanni – il protagonista dell’omonimo dramma giocoso musicato da Mozart – e quella del seduttore Johannes [ 5.6.2], che dominano la prima parte di Aut-Aut. Don Giovanni è una figura estetica che non è solo esemplificata o rappresentata dalla musica di Mozart, ma che si incarna propriamente in essa. In altri termini, a Kierkegaard non interessa la figura del “Don Giovanni” come ideale letterario o simbolo dell’avventuriero amoroso in generale, ma gli interessa soprattutto il suo essere “musicale”, perché solo la musica di Mozart riesce a dirci chi è questo tipo estetico e qual è la sua opzione. Don Giovanni non può essere immaginato o definito astrattamente, ma solo ascoltato:



Ascoltate Don Giovanni! E se ascoltandolo non siete capaci di farvi un’idea su di lui, non

potrete farvela mai. Ascoltate in che modo la musica racconta la sua vita: come il lampo dall’oscura nube temporalesca, così egli guizza dalla profonda serietà della vita, più veloce del lampo, più incostante di esso, eppure ugualmente sicuro di sé; ascoltate come egli si precipita nella prodiga ricchezza della vita, come egli lotta con le sue solide dighe; ascoltate le leggere ed aeree melodie del violino, il festoso sorriso della gioia, il giubilo del piacere, i beati tripudi del godimento: ascoltate la sua fuga selvaggia, egli corre oltre sé stesso, sempre più veloce, sempre più selvaggio; ascoltate la sfrenata concupiscenza della passione, il sussurrare dell’amore, il mormorio della tentazione, il vortice della seduzione; ascoltate il silenzio dell’attimo – ascoltate, ascoltate; ascoltate il Don Giovanni di Mozart! [Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicaleerotico, Terzo stadio, 1]



Il godimento arde e si consuma nell’attimo, per poi risorgere come puro desiderio sensuale nell’attimo successivo, e così via per tutti gli attimi del tempo. Don Giovanni vive il desiderio assoluto di ciò che è singolo – ognuna delle fanciulle e delle donne che incontra – ma non riesce ad essere egli stesso un soggetto singolo poiché, come Kierkegaard precisa, il suo desiderio non è quello proprio di un singolo individuo, ma è il desiderio come principio. E il principio del desiderio in Don Giovanni consiste nel fatto che la fruizione dell’oggetto desiderato non soddisfa mai veramente colui che desidera: si consuma l’oggetto ma non si gode mai veramente, cioè assolutamente. In questo desiderio sfrenato quanto perennemente incompiuto Kierkegaard non vede ancora la presenza del peccato; al contrario, lo stadio estetico della vita gli interessa perché esso consiste di pura e semplice sensualità, senza pensiero né riflessione. L’estetico è il regno che si trova ancora al di qua del bene e del male, in cui non si conosce ancora il significato della colpa e della responsabilità:



In questo regno non abitano il linguaggio, la prudenza del pensiero, le faticosa conquiste della riflessione; vi si odono soltanto la voce elementare della passione, gli scherzi del piacere, il selvaggio clamore dell’ebbrezza; là solo si gode in eterno tumulto.

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Il primogenito di questo regno è Don Giovanni. Con ciò non abbiamo ancora detto che è il regno del peccato, perché ci troviamo ancora nel regno dell’indifferenza estetica. Solo quando entra in ballo la riflessione si mostra come il regno del peccato, ma allora Don Giovanni è ucciso, la musica tace; si vede solo la disperata ostinazione che impotente si ribella, ma non sa trovare alcuna considerazione, nemmeno nella musica. [Don Giovanni. La musica di Mozart e l’eros]



In Don Giovanni manca dunque la riflessione, il suo amore è immediato («vederla e amarla fu una cosa sola», egli dice di ognuna delle sue conquiste), e il suo agire non segue neppure una precisa strategia di seduzione: il suo amore sensuale non è ancora amore psichico (o spirituale). Questo amore immediato accade in un istante e in un istante si dissolve, e perciò dev’essere reiterato all’infinito (da qui il lungo catalogo di conquiste di Don Giovanni). La vita di Don Giovanni si compone così di tanti istanti in cui egli cerca sì l’universale (cioè il godimento totale), ma solo aggiungendo indefinitamente istante ad istante. Egli non è interessato tanto alle differenze, a ciò che è speciale, ma al singolo in quanto incarna ciò che è comune, generico: «io non sono affatto un marito, a cui è necessaria una ragazza speciale per essere fortunato; ciò che mi rende fortunato ce l’ha ogni ragazza, e perciò le prendo tutte»! [Don Giovanni, terzo stadio, 1]. E così l’infinito a cui Don Giovanni tende non è altro che la ripetizione continua di istanti finiti: ma in tal modo l’infinito non viene mai attinto, e al suo posto subentra piuttosto la noia, e di qui l’angoscia. Ciò che “uccide” Don Giovanni è la riflessione, che si presenta nell’opera mozartiana sotto la forma dello spirito, o meglio dello spettro, il “convitato di pietra” che lo invita a cena e lo farà morire. Ciò che lo spettro rivela a Don Giovanni è la vacuità della ripetizione infinita dei singoli istanti: essa non porta al tutto e alla pienezza, ma al vuoto e alla morte. Per Don Giovanni lo “spirito” può essere solo uno “spettro”, vale a dire il puro e semplice opposto alla sensualità.

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1. Secondo Kierkegaard, tra la vita estetica e la vita etica vi è: a. un rapporto di opposizione dialettica. b. un’evoluzione graduale. c. un’alternativa tra due opzioni. d. un contrasto risolvibile.

2. L’esteta, per Kierkegaard, è una persona che vive essenzialmente: a. del futuro. b. dell’istante presente. c. del passato. d. della ripetizione. 3. La vita estetica, secondo Kierkegaard, porta inevitabilmente a una condizione esistenziale di: a. felicità. b. malinconia. c. angoscia. d. speranza.

6.2 Johannes il seduttore La seconda figura principale della sfera estetica è quella di Johannes, a cui Kierkegaard ascrive la paternità di un Diario del seduttore. Johannes è assai diverso dal Don Giovanni mozartiano, proprio in quanto rappresenta ciò che in quest’ultimo rimaneva impossibile, cioè l’ingresso e lo sviluppo della riflessione nell’ambito estetico. Johannes è la figura del seduttore spirituale, in contrapposizione alla seduzione sensuale di Don Giovanni: egli disprezza l’amore sensuale e agisce per il puro gusto della conquista spirituale, e per questo motivo anch’egli rifiuta quell’amore che trova la sua stabilità nelle consuete forme sociali, come il fidanzamento e il matrimonio. Per lui l’amore deve restare al puro livello di possibilità, perché se si realizzasse effettivamente non sarebbe più oggetto di seduzione. È vero che anche Johannes, come Don Giovanni, desidera l’intero (ciò che è comune a tutte le possibili conquiste): ma ciò che quest’ultimo cercava di attingere come mera somma di istanti indefinitamente reiterati, egli cerca invece di ottenerlo sotto l’aspetto dell’intensità. Anche Johannes tuttavia è destinato a non raggiungere mai l’intero, proprio perché si lascia sfuggire la vera realtà, o per meglio dire, perché essa non rimane ai suoi occhi che una mera possibilità. Il limite del seduttore spirituale è dunque quello di non cercare davvero la completezza o l’infinito in qualcosa di altro da sé, condannandosi così all’impossibilità di trovarlo e alla disperazione del proprio autoinganno. Incapace di uscire da sé stesso, egli rimane alla fine prigioniero delle sue stesse costruzioni: riduce la realtà a possibilità, e alla fine non può che

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nutrirsi di essa. Ciò che è dunque proprio dello stadio estetico (in Don Giovanni come in Johannes) è il tentativo di sottrarsi al fluire del tempo senza tuttavia riuscire a pervenire alla vera eternità; di sfuggire al finito senza raggiungere l’autentica infinità. Il tempo e il finito si prendono così la loro rivincita. Ciò emerge anche nella prima parte di Stadi sul cammino della vita, intitolata In vino veritas. Kierkegaard inscena qui una specie di riproposizione del Simposio platonico in cui ciascuno dei convitati dovrà tenere un discorso sull’amore. I protagonisti sono fittizi, naturalmente, ma non ignoti ai lettori di Kierkegaard: si tratta di Victor Eremita, ancora di Johannes il seduttore e di Constantin Constantius (autore della Ripetizione), a cui si aggiungono due personaggi senza nome proprio, il Giovane e il Sarto (il ruolo di narratore è affidato a un nuovo pseudonimo, William Afham). Il banchetto è anch’esso concepito come una sorta di interruzione o parentesi (un istante) in cui deve trionfare la pura immediatezza, senza che nulla venga presupposto e nulla rimanga alla fine da determinare (la stessa casa di campagna in cui il banchetto ha luogo verrà demolita alla fine di esso). Ma per raggiungere tale immediatezza, i convitati sono costretti a bere, e a bere copiosamente. Questa è la condizione posta preliminarmente da Constantin Constantius: «parlare solo dopo aver bevuto tanto da sentire su di sé l’effetto del vino, o sentirsi almeno nella situazione in cui si dicono cose che altrimenti non si direbbero mai» [Stadi sul cammino della vita, In vino veritas]. L’immediatezza non è dunque qualcosa di naturale, ma deve essere raggiunta, ed è pertanto già sempre inevitabilmente mediata. Già qui emerge una contraddizione di fondo: gli esteti inseguono l’immediatezza, ma fondano il loro stile di vita sulla riflessione (come nel caso della seduzione spirituale), e con ciò si precludono ciò che intendono ottenere. Ancora una volta, il tratto che viene a definire ultimamente la vita estetica è l’angoscia, ovvero la ricerca impossibile di un infinito che si può attingere solo negativamente, come rifiuto della finitezza e dell’effettiva continuità temporale. La sconfitta dei convitati e dei loro discorsi si vede dal fatto che al mattino essi sono sorpresi dalla luce del giorno e dalla squadra dei demolitori della casa – segno inequivocabile del trionfo della finitezza a cui avevano cercato di sottrarsi:



la porta si aprì, e, come chi ha bussato con arroganza alla porta della morte e, al suo aprirsi, vede l’immensità del nulla, tutti videro il corpo dei demolitori pronti a buttar giù tutto – un memento che, istantaneamente, trasformò i convitati in fuggitivi come già aveva, altrettanto istantaneamente, trasformato tutto l’ambiente circostante in un ammasso di rovine. [Stadi sul cammino della vita, In vino veritas]



7 Lo stadio etico: Wilhelm, giudice e marito Anche la sfera dell’etico ha a che fare con il rapporto tra tempo ed eternità, tra finito e infinito. Ma pur implicando una netta differenza rispetto allo stadio estetico, essa non implica ancora un rapporto con il divino. L’etica si fonda infatti su regole ideali e universali, e dunque non rispetta né l’eccezionalità della fede né quella del singolo. In Aut-Aut, alla sfera etica si accede attraverso le carte di B, ovvero attraverso le lettere indirizzate dal giudice Wilhelm al seduttore (Il valore estetico del matrimonio e L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità). Il giudice Wilhelm è sposato, è un marito, egli marca quindi il passaggio dalla possibilità, propria dell’esteta, alla realtà: «In Aut-Aut il punto di vista estetico è una possibilità di esistenza, mentre il moralista esiste» [Postilla conclusiva non scientifica, parte II, sez. II, cap. II, Appendice]. Anche chi incarna il punto di vista etico vive in effetti nel presente, ma non si tratta più di un presente atomizzato, polverizzato, fatto di istanti ripetuti: è il presente stabile delle relazioni con gli altri, del tessuto sociale. Per questo, a differenza ancora dall’esteta, non ricerca un’eternità fittizia: vive invece nella continuità temporale, in cui nel presente si intrecciano il ricordo e la speranza, e quest’ultima che qui si sostituisce alla semplice attesa. Il giudice ritiene insomma che la vita estetica possa essere inverata nell’etica, cioè nel tempo e nella società. La figura di questo inveramento è il matrimonio, che si contrappone alla seduzione. L’amore è così ad un tempo ciò che unisce e ciò che distingue la sfera estetica da quella etica: il pas-

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saggio dall’una all’altra corrisponde di fatto al passaggio dall’amore come istanza immediata all’amore come istanza mediata. Il “marito” rappresenta la stabilità, l’amore per una sola donna: non gli attimi slegati delle infinite seduzioni di Don Giovanni o la tensione intensiva di Johannes, ma la durata di un rapporto stabile: una ripetizione non subita, ma consapevole e voluta. E tuttavia questa prospettiva risulta essere più rassicurante dell’altra solo in apparenza, perché in realtà essa esige coraggio, esige una scelta. L’esteta di fatto non sceglieva, rimandando indefinitamente il momento della scelta; chi sceglie la prospettiva morale, invece, decide innanzitutto di uscire dall’indecisione, dall’indifferenza. Si potrebbe dire, con Kierkegaard, che la scelta concerne in primo luogo sé stessa, essa consiste nello scegliere di scegliere, nella scelta della scelta:



Ma che cos’è allora che io scelgo, è questo o quello? No, perché io scelgo assolutamente, e assolutamente io scelgo, appunto, grazie al fatto che ho scelto di non scegliere questo o quello. Io scelgo l’assoluto, e che cos’è l’assoluto? È me stesso nel mio eterno valore. [Aut-Aut, L’equilibrio tra l’estetico e l’etico]



Questa scelta, in definitiva, è una scelta per la libertà, nel senso che essa non soltanto presuppone la libertà (senza libertà infatti non vi sarebbe scelta), ma la fonda, perché la libertà «non è mai possibile ma, appena è, è reale» [Il concetto dell’angoscia, Introduzione]. Colui che è nello stadio etico riconosce dunque lo scacco, la situazione di fallimento in cui in ultima istanza viene sempre a trovarsi l’esteta. Tale riconoscimento – che è in definitiva il riconoscimento della disperazione umana – può aver luogo essenzialmente attraverso l’umiliazione e il pentimento: l’etica mette capo così al pentimento, e arriva fino alla soglia del religioso. Ma qui si ferma, perché questa soglia non si può varcare né facilmente né tranquillamente.

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1. La vita etica, a differenza di quella estetica, è caratterizzata essenzialmente: a. da una sequenza di attimi tra loro slegati. b. dalla realtà. c. dalla scelta. d. dalla religiosità.

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8 Oltre lo stadio etico: la sfera religiosa 8.1 Dalla ripetizione alla ripresa Negli Stadi sul cammino della vita la prospettiva religiosa è solo adombrata da un nuovo singolare personaggio, di nome Quidam (che in latino significa ‘un tale’), autore di un diario che si rivela poi essere – per un ennesimo gioco ad incastro tra maschere diverse – l’esperimento psicologico di un altro pseudonimo, Frater taciturnus. Il titolo di questo diario è: Colpevole? N on colpevole?, e Kierkegaard stesso definirà poi lo scritto «un’insalata mista di un pizzico di estetica, di etica e di religiosità» [Postilla conclusiva non scientifica, parte II, sez. II, cap. II, Appendice]. Quidam ha lasciato la propria fidanzata, proprio come Kierkegaard; la sua sofferenza per questa decisione non è di tipo erotico o estetico, e tuttavia egli riconosce che essa segna anche l’impossibilità di una scelta puramente etica (mantenere la promessa di fidanzamento e sposarsi avrebbe rappresentato, in effetti, la corretta scelta etica). Nonostante ciò, Quidam non si pone ancora come personalità autenticamente religiosa; o meglio, è l’emergere del religioso ma «in un’approssimazione demoniaca», perché in effetti è demoniaco tentare di affrontare un ideale come quello della rinuncia ad ogni amore terreno da soli e senza intermediari. Quidam rinuncia all’amata nella speranza di riprenderla nell’eternità, ma questa “ripresa” fallisce, perché egli ha di fatto perso il contatto con la realtà. Insomma, la scelta religiosa di Quidam è ancora solo ideale, e resta interna al solo pensiero: egli rifiuta la mera ripetizione etica, cioè la continuità matrimoniale, ma non è ancora giunto alla vera ripresa cristiana. Solo quest’ultima si contrappone efficacemente alla ripetizione estetica ed etica, in quanto costruisce non solo un movimento dello spirito ma anche una scelta reale, che non mira semplicemente a eliminare la contraddizione tra finito e infinito, ma vuole viverla in modo autentico. La ripresa – un altro dei termini-chiave del pensiero di Kierkegaard – è così la via per pervenire a quella completezza a cui l’uomo profondamente aspira: chi conosce l’infinità auten-

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tica, quella del rapporto con Dio, si decide per essa, ma non sfugge al mondo, anzi decide di vivere in esso. La vera ripresa è insomma la scelta per l’eternità, ma fatta nel mondo [ T8]: solo in questo caso il presente è conquistato come rapporto autentico all’infinito, senza cadere nella reiterazione indefinita degli istanti dell’esteta o nella ripetizione durevole del moralista. Questa scelta non è ancora quella di Quidam perché egli è ancora trattenuto dal pensiero, dalla riflessione: a Quidam, insomma, manca fondamentalmente il coraggio di compiere il “salto” della fede e di abbandonarsi interamente a Dio. Questo salto e questo abbandono presuppongono il riconoscimento dell’umiliazione e dello scacco, e in questo senso l’etica conduce fino alle porte del religioso. Ma il salto non è una conseguenza automatica di questo riconoscimento: esso richiede un’ulteriore e ancor più radicale scelta. 1. Il salto dallo stadio etico alla fede è reso possibile dalla consapevolezza del peccato in quanto esso: a. attiene alla sfera del singolo. b. concerne l’umanità in generale. c. ci esorta al rispetto di precetti morali. d. riguarda la sfera del dovere.

8.2 La scelta di Abramo Un esempio di scelta radicale, e dunque una vera introduzione alla sfera autentica del religioso, è offerta da Kierkegaard in Timore e tremore. Tema principale dello scritto è l’episodio biblico di Abramo, a cui Dio comanda di sacrificare il suo unico figlio, Isacco, così a lungo desiderato e avuto solo in tarda età. Abramo ubbidisce immediatamente, senza esitazioni, e parte per il monte dove è previsto il sacrificio. Ma nel momento in cui sta per compierlo, un angelo ferma la sua mano, e gli indica un ariete da sacrificare al posto di Isacco. La grandezza di Abramo, il padre della fede, sta proprio nel fatto che egli vince non nonostante, ma solo grazie alla sua impotente remissione a Dio:



Abramo abbandonò la terra dei suoi padri e divenne straniero nella Terra promessa […], la-

sciò la sua intelligenza terrena e prese con sé la fede. [Timore e tremore, IV]



Agli occhi di Kierkegaard questo episodio è altamente significativo perché in esso sono infrante tutte le regole ideali dell’etica. Abramo non fa appello a istanze di tipo morale, e dunque non misura la realtà in base all’etica: se così fosse stato, egli avrebbe dovuto probabilmente ribellarsi a un simile comando, percependolo come un’ingiustizia. Egli semplicemente obbedisce, sospendendo le più elementari norme etiche. Questa è appunto l’eccezionalità, la singolarità su cui si fonda il religioso, o per essere più precisi, il cristianesimo. L’etica rappresenta infatti ancora l’umano in generale (o semplicemente il “generale” in quanto tale, come Kierkegaard si esprime); Abramo invece obbedisce senza resistenze perché crede, e tramite la sua fede si innalza al di sopra dell’etica. La fede è pertanto uno stato eccezionale, che riguarda non il generale, ma il singolo, così come d’altra parte Dio non mette alla prova l’umanità in generale, ma mette alla prova e si rapporta sempre e solo al singolo – come è Abramo. Anzi, nell’ambito della religione e della fede il generale si rivela una prospettiva falsa, ingannevole, o meglio una vera e propria “tentazione”, perché diventa la misura più comoda e più semplice a cui rifarsi: la norma del comportamento comune, che è esattamente quel che non permette di avere un rapporto singolare con Dio.



Abramo credette e non dubitò, egli credette l’assurdo. Se Abramo avesse dubitato – allora avrebbe fatto qualcosa d’altro, qualcosa di grande e di splendido. […] E si sarebbe piantato il coltello nel petto. Sarebbe stato ammirato nel mondo e il suo nome non sarebbe stato dimenticato; ma una cosa è essere ammirati e un’altra essere una stella che guida, che salva chi è angosciato. [Timore e tremore, IV]



Il contrasto tra l’etico e il religioso è quindi essenzialmente il contrasto tra il dovere in generale e il dovere assoluto verso Dio. Per corrispondere a tale dovere, il singolo non può rifugiarsi nel generale: deve solo assentire, e

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assentire in silenzio, chiuso in sé stesso, senza attendersi la comprensione altrui. Eppure questa rinuncia è alla fine premiata e ripresa, recuperata: Abramo supera la prova, e perciò non solo preserva ciò che Dio gli aveva promesso e concesso, cioè il suo unico figlio, ma riscatta e salva la sua stessa temporalità. Se dunque il religioso è prospettato come il terzo e ultimo dei possibili stadi dell’esistenza, si deve tener presente che tra questi non si dà alcuna continuità progressiva, né dall’estetico all’etico, né tanto meno dall’etico al religioso. In effetti, il ruolo dell’etico – e soprattutto del suo culmine, cioè il pentimento – è principalmente negativo: è il riconoscimento dell’impossibilità di riprendere interamente il proprio presente senza salvarlo nell’eternità. Ma qui non c’è nessuna transizione naturale, nessun varco automatico al religioso. La fede è e rimane un salto: essa assicura un appagamento solo a condizione che si accetti di vivere in uno stato eccezionale di vertigine.

8.3 Il peccato e la dogmatica Negli Stadi, Kierkegaard ha riassunto queste tre sfere identificando l’estetico con il momento dell’immediatezza, l’etico con quello del “credito” – nel senso che l’uomo può disporre dell’apertura di credito che gli concede la sua decisione di scegliere e di scegliersi – e infine il religioso con il momento dell’appagamento. Un appagamento che sta paradossalmente nell’essere sospesi sull’abisso:



La sfera etica è una sfera di transizione, e perciò la sua espressione più elevata, il pentimento, è una sorta di azione negativa. La sfera estetica è quella dell’immediatezza, l’etica quella del credito (e questo credito è così infinito che l’individuo fa sempre bancarotta), la sfera religiosa quella dell’appagamento, ma, si noti, non quel tipo di appagamento che si trova riempiendo d’oro una cassetta delle elemosine o un sacchetto, giacché il pentimento, appunto, ha creato uno spazio infinito, e da qui deriva la contraddizione religiosa; stare sospesi su 70 000 braccia d’acqua, e ciò nonostante allegri. [Stadi sul cammino della vita, Epistola al lettore di Frater Taciturnus, 6 (Non pentirsi di nulla è la suprema saggezza)]



Ma cosa determina più in particolare questo passaggio o questo salto dall’etico al religioso? Per Kierkegaard, tutto dipende da una sola nozione, quella di peccato. Solo il peccato fa uscire dal generale. L’etica non conosce e non utilizza in effetti la nozione di peccato, ma quella di dovere, e proprio per questo è e rimane una scienza meramente “ideale”. Il peccato è invece uno stato di fatto. Ed è un fatto che si collega alla libertà umana – libertà che è invece negata nell’etica, dove prevale appunto la nozione assoluta di dovere (Kierkegaard pensa probabilmente all’etica kantiana). In altri termini, l’etica vuole portare l’idealità nella realtà, più che elevare la realtà all’idealità. Essa prescrive, ed esige quindi che l’uomo raggiunga ciò che gli è stato prescritto. Ma proprio per questo essa diventa dolorosa, perché impossibile; come la legge di cui parla l’apostolo Paolo, essa stessa condanna mentre comanda:



Il peccato dunque non appartiene all’etica se non in quanto è sul concetto del peccato ch’essa naufraga mediante il pentimento. Se l’etica deve accogliere in sé il peccato, la sua idealità è eliminata. [Il concetto dell’angoscia, Introduzione]



E poiché il peccato a cui si fa qui riferimento è quello della condizione di fatto dell’umanità – dunque, il peccato originale – la via d’uscita dall’etica non può che essere rappresentata dalla dogmatica. La teologia dogmatica inverte la direzione dell’etica: al contrario della scienza ideale, essa parte dalla realtà, e cerca di portarla all’idealità. In altri termini, essa non nega la realtà del peccato, ma muove esattamente da quest’ultima.

9 L’angoscia, la disperazione e lo scandalo del cristianesimo Di fronte alla fattualità del peccato l’etica con i suoi precetti ideali non può nulla, e perciò il peccato stesso costituisce una «disperata liberazione dal dover realizzare l’etica» [Postilla conclusiva non scientifica, parte II, sez. II, cap. II, Appendice]. Questo vuol dire che solo nella prospettiva teologica del peccato, e non in quella

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etica del dovere ha senso qualcosa come la libertà umana. Ma agli occhi di Kierkegaard questa libertà non può che tradursi in angoscia, in una sorta di sospensione interiore, come se si fosse sull’orlo di un baratro e non ci fosse nessuna norma e nessuna convenzione a cui aggrapparsi. In poche parole, l’uomo, o meglio il singolo, non è libero né per un istinto arbitrario né per un dovere da compiere o per una legge da osservare: egli è libero, di fatto, soltanto perché si trova interamente esposto di fronte a Dio. Al nesso di angoscia e peccato originale sono dedicati due scritti di Kierkegaard, Il concetto di angoscia e soprattutto La malattia mortale. In quest’ultimo, infatti, egli tematizza quello che gli sembra il vero senso cristiano del peccato, definendolo come un «(essere) davanti a Dio» [La malattia mortale, parte II, A, cap. I, Aggiunta]. Tale interpretazione del peccato è alquanto singolare sotto il profilo strettamente teologico: non tiene conto né di Agostino (a cui per altro Kierkegaard rimprovera nel Diario di aver fatto un «danno incalcolabile» introducendo nel cristianesimo un concetto intellettualistico, pagano della fede) né di Lutero (accusato a sua volta, per aver sottolineato la «dolcezza» del Vangelo, e dunque per aver nutrito una concezione troppo ottimistica del cristianesimo); ma non si basa di fatto neanche sulle Sacre Scritture, e non contempla neppure quella caratteristica propriamente cristiana del peccato originale, che è la sua universalità e la sua ereditarietà (cioè il fatto che si tramanda dal primo uomo a tutto il genere umano). Al contrario, il peccato è per Kierkegaard una condizione essenzialmente singolare, così come singolare è l’esposizione di ciascuno davanti a Dio. La dinamica stessa per cui si pecca è per Kierkegaard una vicenda che ha a che fare con l’esistenza di ogni singolo, che in questo è uguale ad Adamo: ciascuno pecca prima per debolezza, e poi per disperazione (la vera malattia mortale) perché non sa se il peccato commesso per debolezza potrà mai essergli perdonato. È proprio la disperazione a costituire la vera “malattia mortale” per l’uomo, il quale non confidando più che il suo peccato possa essere redento, si orienta volontariamente verso la propria perdizione. Il peccato dunque non è solo il risultato dell’ignoranza del bene, come nell’intellettualismo etico di Socrate e dei Greci, ma non è neppure qualcosa che si possa negare o riassorbire nel bene (come

nella dialettica hegeliana): esso non va definito in termini negativi, come qualcosa da rimuovere e da superare, ma paradossalmente come qualcosa di positivo – cioè di “posto” consapevolmente – in quanto connesso alla libertà. Ma per Kierkegaard è nello stesso stato di peccato e di disperazione che si trova la possibilità della redenzione: se il peccato è l’essere davanti a Dio, questa stessa esposizione è anche quella che può salvare – purché si accettino il salto nella vertigine della fede e il paradosso del cristianesimo. Il fatto del peccato e la possibilità della redenzione hanno così il medesimo luogo e la medesima origine: il rapporto singolare del singolo uomo con l’altrettanto singolo Dio-uomo. Questo è il paradosso, e lo scandalo, su cui si fonda il cristianesimo; ed è uno scandalo che non si potrà mai né attenuare né comprendere:



Uomo-Dio non è l’unità di Dio e dell’uomo; una simile terminologia è una profonda illusione ottica. Uomo-Dio è unità di Dio e di un uomo singolo. Che il genere umano sia o debba essere affine a Dio, è vecchio paganesimo; ma che un uomo singolo sia Dio, è cristianesimo, e questo singolo uomo è l’Uomo-Dio. Né in cielo, né in terra, né all’inferno, né nelle aberrazioni del pensiero più fantastico c’è, umanamente parlando, la possibilità di una composizione più pazzesca. [Esercizio del cristianesimo, n. II, Breve riassunto del contenuto dell’«Esposizione»]



Il peccato del singolo diviene dunque il segno più eloquente del suo essere in rapporto a Dio; ma tale rapporto è completamente aperto e non può mai essere dato per scontato, perché si gioca tutto quanto di volta in volta nella singolarità di ciascuno. Un Dio che stia in rapporto con tutti gli uomini o che sia il salvatore dell’umanità è qualcosa di impensabile per Kierkegaard; egli è piuttosto il Dio singolare con cui solo un uomo singolo può stare in rapporto.



Il cristianesimo insegna che questo singolo uomo, e quindi ogni singolo uomo, qualunque sia la sua condizione: uomo, donna, ragazza di servizio, ministro, commerciante, studente, ecc.; che questo singolo uomo esiste davanti a Dio! Questo singolo uomo che forse sarebbe orgoglioso di aver parlato una volta in vita sua col re, quest’uomo che si vanta tanto di vivere in rapporti cordiali con questo o quell’altro, ecco che quest’uomo esiste

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davanti a Dio, può parlare con Dio in qualunque momento, sicuro di essere ascoltato: insomma, quest’uomo è invitato a vivere nei rapporti più familiari con Dio! Inoltre, per amore di quest’uomo Dio sofferente prega e quasi supplica l’uomo di accettare l’aiuto che gli viene offerto! In verità, se c’è qualcosa da far perdere il cervello è certamente questo! Chiunque non abbia abbastanza coraggio umile per osare di credervi, si scandalizzerà. Ma perché si scandalizzerà? Perché questo per lui è troppo difficile, perché non può capirlo, non può trovare la sua disinvoltura di fronte a ciò; e perciò lo deve eliminare, annientare, prenderlo per una sciocchezza, per un controsenso perché è come se dovesse soffocarlo. [La malattia mortale, parte II, A, cap. I, Aggiunta]



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1. L’interpretazione kierkegaardiana del peccato prende le distanze dalle concezioni tradizionali perché: a. il peccato è l’eredità di Adamo. V b. il peccato consiste nel disperare della salvezza. V c. il peccato è l’ignoranza del bene. V d. il peccato rappresenta la possibilità della redenzione. V

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ter comprendere che non si può comprendere. Così anche per un assoluto non si possono dar ragioni, al massimo si possono dar ragioni che non ci sono ragioni. [Diario, § 2613]



b. Dall’altra, mostrare ai cristiani contemporanei che la loro religione (cioè la cristianità riconciliata con il mondo) non ha nulla a che fare con il cristianesimo autentico:



Il mio compito. È talmente nuovo che nei 1800 anni di storia della cristianità non c’è nessuno da cui possa imparare come devo comportarmi. Poiché tutti gli uomini straordinari esistiti finora hanno agito per diffondere il cristianesimo. Il mio compito tende invece ad arrestare una diffusione menzognera, e anche a far sì che il cristianesimo si scuota di dosso una massa di gente che son cristiani soltanto di nome. [Diario, § 2886]



a. Da una parte, difendere lo scandalo del cristianesimo rispetto a ogni forma di comprensione razionale, e filosofica in particolare:

Il compito che Kierkegaard ha deciso di assumersi è dunque quello di “arrestare” quella che ai suoi occhi appare una falsa diffusione del cristianesimo e smascherare l’illusione della cristianità – l’idea cioè che ci si debba rapportare a qualcosa di più alto dell’uomo, cioè Dio, solo per “spillarne” dei vantaggi. Al contrario, per Kierkegaard, «la formula cristiana è questa: rapportarsi a una cosa più alta così che il rapporto diventi sofferenza» [Diario, § 2739]. Si può certo continuare a discutere a lungo, così come è stato fatto, sulla correttezza o liceità di questa interpretazione del cristianesimo, ma non si può dubitare che Kierkegaard abbia esperito questa profonda “sofferenza” sulla sua pelle, fino a rinunciare all’affetto delle persone più care e a rompere di fatto con la Chiesa, la cui fede pure intendeva proteggere e rivitalizzare. Ma l’isolamento e la sconfitta, nella prospettiva fatta propria da Kierkegaard, non sono delle conseguenze accidentali, bensì il segno stesso della sua scelta di vita – del suo «compito» – e della sua grandezza. In definitiva, Kierkegaard ha sempre avuto ben presente di giocarsi tutto – la sua personale esistenza come la sua sopravvivenza nella storia del pensiero – intorno alla propria concezione di essere singolo:





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10 Il paradosso cristiano

e l’illusione della cristianità

L’Autore della Malattia mortale è lo pseudonimo Anti-Climacus. Se Johannes Climacus, l’autore delle Briciole di filosofia e della Postilla, non è ancora (come pseudonimo) cristiano, AntiClimacus rappresenta il cristianesimo autentico, che rivendica appunto la paradossalità dello scandalo cristiano – cioè dell’abbandonarsi al DioUomo – contro ogni forma di cristianità mondanizzata. In questo senso Anti-Climacus è lo pseudonimo che più di ogni altro risponde al compito che Kierkegaard ha sentito come proprio. Questo compito potrebbe essere articolato in due aspetti complementari.

Come principio bisogna dire: la fede non si può comprendere; il massimo a cui si arriva è po-

se io dovessi domandare un epitaffio per la mia tomba, non chiederei che: “Quel singolo” – anche

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SINTESI CAPITOLO 5

se ora questa categoria non è capìta. Lo sarà in seguito. Con questa categoria, il “singolo”, quando qui tutto era sistema su sistema, io presi polemicamente di mira il sistema, ed ora di sistema non si parla più. A questa categoria è legata assolutamente la mia possibile importanza storica. I miei scritti saranno forse presto dimenticati, come quelli di molti altri. Ma se questa categoria era giuUna vita singolare. Kierkegaard è uno di quegli autori in cui le vicende biografiche sembrano intrecciarsi strettamente con l’esperienza di pensiero: ciò dipende in larga misura dall’importanza decisiva che ha attribuito ad alcuni episodi della sua esistenza. Questi episodi possono essere riportati a tre rapporti fondamentali risoltisi tutti in un fallimento: quello, assai complesso, con il padre; quello ancora più tormentato con Regine Olsen, con cui Kierkegaard sarà fidanzato per un breve periodo; e quello – prima improntato a un deferente rispetto, e poi a un profondo risentimento – con il vescovo Mynster, primate della Chiesa luterana danese. Questi episodi assumono soggettivamente un peso fondamentale nelle vicende di Kierkegaard, che se ne sentirà condizionato in modo determinante. Questo ci rivela il tratto essenziale del pensiero di Kierkegaard: non la ricerca di verità oggettive, cioè generali ed astratte, ma la ricerca di una verità che sia propria di ognuno. Kierkegaard “autore di autori”. Le opere di Kierkegaard possono essere distribuite in tre gruppi diversi: a. gli scritti pseudonimi, i più diffusi e conosciuti; b. gli scritti edificanti (soprattutto Discorsi), firmati con il proprio nome, ma dalla circolazione limitata; c. la mole sterminata delle Carte che comprendono, come prima sezione, il Diario. Gli pseudonimi servono a fingere di assumere la posizione dei propri interlocutori, per poterne dimostrare l’inconsistenza, secondo appunto il modello classico dell’ironia socratica. L’uso ironico degli pseudonimi ha come scopo quello di negare l’immediatezza apparente del mondo per aprire un varco verso la realtà religiosa. Kierkegaard, anche quando si assume esplicitamente la paternità degli pseudonimi, ne rafforza l’autono-

sta, se questa categoria era al suo posto, se io ho qui colpito nel segno, se ho capito bene che questo era il mio còmpito, tutt’altro che allegro e comodo e incoraggiante: se mi sarà concesso questo, anche a prezzo di inenarrabili sofferenze interiori, anche a prezzo di indicibili sacrifici esteriori: allora io rimango e miei scritti con me. [Diario, § 1327]

mia, ne fa comunque dei caratteri a sé, completi e ben definiti. La posta in gioco è di rafforzare l’indipendenza, e dunque la soggettività, la singolarità, di ciascuno di questi personaggi/autori, di farne altrettanti “io”, perché è proprio questo ciò che maggiormente conta. Il singolo e il sistema. Quando Kierkegaard afferma che la soggettività è la verità non intende evidentemente legittimare una posizione di tipo soggettivistico o relativistico, bensì affermare che ogni conoscenza veramente essenziale è tale solo se riguarda direttamente l’esistenza. Questo è anche il senso della presa di distanza molto marcata di Kierkegaard nei confronti di Hegel la cui filosofia si era rapidamente imposta anche all’interno della Chiesa danese e della teologia luterana. L’opposizione nei confronti di Hegel può essere considerata da due diversi punti di vista: uno più strettamente filosofico, e uno teologicoreligioso. Per quel che riguarda il primo aspetto, Kierkegaard giudica infondata la pretesa di raggiungere il reale a partire dal pensiero astratto, e dunque impossibile l’identità di pensiero ed essere, soggetto e oggetto, interiorità ed esteriorità. Tuttavia il vero errore di Hegel è l’aver riassorbito il cristianesimo (e Dio) nel processo di sviluppo dello spirito in quanto tale. Ma fare del cristianesimo una semplice tappa del superiore sviluppo storico della ragione umana comporta per Kierkegaard due conseguenze ugualmente detestabili. In primo luogo che, essendo interno alla ragione, il cristianesimo divenga perfettamente conciliabile con essa e con il suo dispiegamento storico, e dunque con il mondo in quanto tale. In secondo luogo che, essendo interamente storico, il cristianesimo possa risultare perfettibile e possa essere



perfino superato. È su questo sfondo che si può comprendere il progetto di Kierkegaard: lottare contro ogni forma di “pacificazione” del cristianesimo, ovvero di riconciliazione tra il cristianesimo e il mondo. Gli stadi dell’esistenza. Lo stadio estetico. La dialettica degli “stadi” di vita che Kierkegaard propone negli scritti pseudonimi è assai diversa da quella hegeliana: il passaggio da uno stadio all’altro non è compiuto dallo spirito, ma dal singolo in base ai suoi atti di volontà e alle sue scelte. A ciò si ricollega anche il titolo della prima grande opera pseudonima, Enten-Eller (ovvero Aut-Aut, la classica formula disgiuntiva latina: O…-O…). La disgiunzione indica appunto l’impossibilità di una mediazione, di una sintesi dialettica: bisogna invece scegliere cosa si vuole fare di sé, cosa si vuole essere. Il primo di questi stadi è quello estetico, chiamato così perché in esso dominano il desiderio erotico e l’interesse per la seduzione. Lo stadio estetico è rappresentato essenzialmente da due figure, quella del Don Giovanni – il protagonista dell’omonimo dramma giocoso musicato da Mozart – e quella di Johannes il seduttore. Don Giovanni vive il desiderio assoluto di ciò che è singolo – ognuna delle fanciulle che incontra – ma non riesce ad essere egli stesso un soggetto singolo poiché, come Kierkegaard precisa, il suo desiderio non è quello proprio di un singolo individuo, ma è il desiderio come principio. La vita di Don Giovanni si compone così di tanti istanti in cui egli cerca sì l’universale (cioè il godimento totale), ma solo aggiungendo indefinitamente istante ad istante. E così l’infinito a cui Don Giovanni tende non è altro che la ripetizione continua di istanti finiti: ma in tal modo l’infinito non viene mai attinto, e al suo posto

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SINTESI CAPITOLO 5

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subentra piuttosto la noia, e di qui l’angoscia. La seconda figura principale esaminata all’interno della sfera estetica è quella di Johannes il seduttore spirituale: egli disprezza l’amore sensuale e agisce per il puro gusto della conquista spirituale, e per questo motivo anch’egli rifiuta quell’amore che trova la sua stabilità nelle consuete forme sociali, come il fidanzamento e il matrimonio. È vero che anche Johannes, come Don Giovanni, desidera l’intero (ciò è che è comune a tutte le possibili conquiste): ma ciò che quest’ultimo cercava di attingere come mera somma di istanti indefinitamente reiterati, egli cerca invece di ottenerlo sotto l’aspetto dell’intensità. Anche Johannes tuttavia è destinato a non raggiungere mai l’intero, proprio perché si lascia sfuggire la vera realtà. Lo stadio etico: Wilhelm, giudice e marito. Anche la sfera dell’etico non implica ancora un rapporto con il divino. L’etica si fonda infatti su regole ideali e universali, e dunque non rispetta l’eccezionalità della fede del singolo. Il giudice Wilhelm è sposato, è un marito: egli marca quindi il passaggio dalla possibilità, propria del-

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l’esteta, alla realtà. Anche chi incarna il punto di vista etico vive in effetti nel presente, ma non si tratta più di un presente atomizzato, polverizzato, fatto di istanti ripetuti: è il presente stabile delle relazioni con gli altri, del tessuto sociale. Il “marito” rappresenta infatti la stabilità, l’amore per una sola donna: una ripetizione non subita, ma consapevole e voluta. E tuttavia questa prospettiva risulta essere più rassicurante dell’altra solo in apparenza, perché in realtà essa esige coraggio, esige una scelta. Oltre lo stadio etico: la sfera religiosa. Un esempio di scelta radicale, e dunque una vera introduzione alla sfera autentica del religioso, è offerta da Kierkegaard con l’interpretazione dell’episodio biblico di Abramo, a cui Dio comanda di sacrificare il suo unico figlio, Isacco, così a lungo desiderato e avuto solo in tarda età. Agli occhi di Kierkegaard questo episodio è altamente significativo perché in esso sono infrante tutte le regole ideali dell’etica. Abramo non fa appello a istanze di tipo morale, e dunque non misura la realtà in base all’etica. Egli semplicemente obbedi-

sce, sospendendo le più elementari norme etiche. Questa è appunto l’eccezionalità, la singolarità su cui si fonda il cristianesimo. Ma cosa determina più in particolare il passaggio o il salto dall’etico al religioso? Per Kierkegaard, tutto dipende da una sola nozione, quella di peccato. Solo il peccato fa uscire dal generale. E poiché il peccato è la condizione di fatto dell’umanità – dunque, il peccato originale – la via d’uscita dall’etica non può che essere rappresentata dalla dogmatica. La teologia dogmatica inverte la direzione dell’etica: al contrario della scienza ideale, essa parte dalla realtà, e cerca di portarla all’idealità. Di fronte alla fattualità del peccato, l’etica con i suoi precetti ideali non può nulla. Questo vuol dire che solo nella prospettiva teologica del peccato – e non in quella etica del dovere – ha senso qualcosa come la libertà umana. Ma agli occhi di Kierkegaard questa libertà non può che tradursi in angoscia: per Kierkegaard è nello stesso stato di peccato e di disperazione che si trova la possibilità della redenzione purché si accetti il salto nella vertigine della fede e si accetti il paradosso del cristianesimo.

BIBLIOGRAFIA Fonti

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S. Kierkegaard, Diario, trad. di C. Fabro, 3 voll., Morcelliana, Brescia 1980-83 (ed. ridotta, Rizzoli, Milano 2000). S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia, in Opere, trad. di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972. S. Kierkegaard, Sulla mia attività di scrittore, trad. di A. Scaramuccia, Ets, Pisa 2006. S. Kierkegaard, Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate, trad. di D. Borso, Guerini e Associati, Milano 1989. S. Kierkegaard, La dialettica della comunicazione etica ed eticoreligiosa, in Scritti sulla comunicazione, trad. di C. Fabro, Logos, Roma 1979-82. S. Kierkegaard, Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale-erotico,

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in Enten-Eller, trad. di A. Cortese, vol. I, Adelphi, Milano 1976 (ma anche Don Giovanni, trad. di G. Garrera, Rizzoli, Milano 2006). S. Kierkegaard, Stadi sul cammino della vita, trad. di A.G. Calabrese e A.M. Segala, a cura di L. Koch, Rizzoli, Milano 2001 (cfr. la prima parte dell’opera In vino veritas, trad. di I. Vecchiotti, Laterza, Roma-Bari 20073). S. Kierkegaard, Timore e tremore, in Opere, cit. (ma anche trad. di F. Fortini e K. Montanari Guldbransen, Mondadori, Milano 1997). S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, in Opere, cit. (ma anche trad. di C. Fabro, Se, Milano 2007). S. Kierkegaard, La malattia mortale, in Opere, cit. (ma anche trad. di M. Corssen, introd. di R. Cantoni, Newton Compton, Milano 2004).

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• Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, in Opere, cit. (ma anche Piemme)

Opere Le già citate Opere di Kierkegaard, nella traduzione di C. Fabro sono state rieditate in 3 voll., con una Presentazione di S. Quinzio, dall’editrice Piemme, Casale Monferrato 1995. Oltre agli scritti già citati, bisogna ricordare anche: S. Kierkegaard, Enten-Eller [Aut-Aut]. Un frammento di vita, trad. di A. Cortese, 5 voll., Adelphi, Milano 1976-89. S. Kierkegaard, Diario del seduttore, trad. di A. Veraldi, introd. di R. Cantoni, Rizzoli, Milano 2005. S. Kierkegaard, Atti dell’amore, trad. di C. Fabro, testo danese a fronte, Bompiani, Milano 2007.

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Søren Kierkegaard capitolo 5 • S. Kierkegaard, La ripetizione, trad. di D. Borso, Rizzoli, Milano 1996. S. Kierkegaard, Aut-Aut, trad. di K. Montanari Guldbrandsen e R. Cantoni, Mondadori, Milano 2002. S. Kierkegaard, Briciole filosofiche, trad. di S. Spera, Queriniana, Brescia 2004. La casa editrice Marietti 1820 ha avviato la pubblicazione delle Carte personali e opere pubbliche di S. Kierkegaard. Finora è apparso: S. Kierkegaard, Due discorsi edificanti (1843), trad. di A. Cortese, Marietti 1820, Genova-Milano 2004.

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Studi critici Per uno sguardo d’insieme al percorso kierkegaardiano si possono vedere: S. Spera, Introduzione

ESERCIZI

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a Kierkegaard, Laterza, Roma-Bari 20059. Sulla particolare interpretazione kierkegaardiana del cristianesimo, come posizione esistenziale del singolo e realizzazione storica della Chiesa: I. Adinolfi (a cura di), Il religioso in Kierkegaard, Atti del Convegno internazionale di Venezia (14-16 dicembre 2000), Morcelliana, Brescia 2002; A. Siclari, L’itinerario di un cristiano nella cristianità. La testimonianza di Kierkegaard, Franco Angeli, Milano 2004.

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Sulla problematica legata allo stadio “estetico”: A. Giannatiempo Quinzio, L’estetico in Kierkegaard, Liguori, Napoli 1992.

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1. La ricerca di una verità che sia propria di ognuno contrassegna la vita e il pensiero di Kierkegaard. Contro quali tendenze filosofiche, religiose e mondane il filosofo danese ha dovuto lottare per fare emergere la prospettiva della singolarità dell’esistenza? (max 15 righe) 2. Descrivi il modo in cui la prospettiva religiosa del rapporto personale ed esclusivo con Dio attraversa la vicenda biografica e intellettuale del pensatore danese segnandone i momenti più decisivi (max 10 righe). 3. Esponi i motivi della serrata critica che Kierkegaard rivolge alla filosofia hegeliana individuandone gli elementi filosofici e quelli teologici (max 15 righe).

Sul nesso tra l’esistenza del singolo e il problema del tempo: V. Melchiorre, Saggi su Kierkegaard, Marietti, Genova 1998. Sulla dimensione esistenziale del pensiero di Kierkegaard, vista anche in riferimento alla filosofia dell’esistenza del Novecento: C. Fabro, Dall’essere all’esistente. Hegel, Kierkegaard, Heidegger e Jaspers, Edivi, Segni (Roma) 2004; F. De Natale, Esistenza, filosofia, angoscia. Tra Kierkegaard e Heidegger, Adriatica, Bari 1995.

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Sul nesso tra la scrittura, il pensiero e la comunicazione dell’esistenza si può vedere: U. Regina, Kierkegaard. L’arte di esistere, Morcelliana, Brescia 2005.

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4. Illustra il progetto kierkegaardiano di «reintrodurre il cristianesimo nella cristianità» contrastando la tendenza della Chiesa luterana alla riconciliazione con il mondo (max 10 righe). 5. La pseudonimia degli scritti di Kierkegaard ha una funzione maieutica e ironica. Spiega in che modo questa strategia comunicativa apre un varco in direzione dell’infinito (max 15 righe). 6. Spiega in che senso Abramo rappresenta la figura che simboleggia la vita religiosa? (max 10 righe) 7. In che cosa consiste lo scandalo del cristianesimo?

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1 Il progetto positivista Il positivismo è una corrente di pensiero – o meglio un programma culturale e un atteggiamento intellettuale – diffusosi in diversi paesi, a seguito dell’imponente sviluppo scientifico verificatosi in Europa a partire dai primi decenni del XIX secolo e della crescente esigenza di una riorganizzazione in senso moderno della nascente società industriale. Le interazioni sempre più accentuate tra la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico producevano delle inevitabili ricadute in campo economico, sociale e politico: il vertiginoso aumento della produzione, l’imporsi del sistema di fabbrica, il dispiegarsi del conflitto tra borghesia imprenditoriale e ceti aristocratici, la nascita del proletariato operaio con le sue drammatiche condizioni di vita e di lavoro [ La scienza dell’Ottocento]. Pensare ad una nuova organizzazione economica e sociale e accertare le leggi del processo storico in atto appariva come una nuova sfida per la riflessione filosofica, con l’obiettivo con-

La scienza dell’Ottocento Tra il 1800 ed il 1830, si assiste in Europa alla crescita dell’interesse per le scienze, con la conseguente applicazione del metodo sperimentale ad ambiti fino ad allora poco indagati e la formulazione, in termini nuovi, del problema della gerarchia delle singole discipline. Inizialmente i principali artefici e promotori di questo nuovo tipo di lavoro scientifico furono gli scienziati francesi, e ciò è da ascriversi a ragioni di carattere politico: il governo napoleonico vide infatti nello sviluppo scientifico lo strumento per realizzare il proprio progetto di trasformazione della società. E ad un tale obiettivo rispose la creazione di scuole destinate a fornire un’adeguata cultura scientifica alle forze intellettuali necessarie al funzionamento della macchina statale. Tra queste, l’École Polytechnique, che divenne ben presto la più importante istituzione scientifica del mondo, e l’Institut National, che sostituì l’Académie settecentesca. I mutamenti dell’organizzazione scientifica produssero evidenti conseguenze anche sui contenuti e sui metodi della scienza, il più significativo dei quali fu il trionfo dello specialismo, vale a dire la creazione di campi disciplinari nettamente distinti. Così, la tradizionale visione sistematica delle scienze veniva messa defini-

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creto di riuscire a controllare l’evoluzione dei fattori determinanti per il progresso della cultura e della società. Così, accogliendo un motivo tipicamente illuministico, il positivismo venne ad affermare il principio della destinazione sociale del sapere, tentando una riorganizzazione della totalità dello scibile, in una sintesi in grado di cogliere l’intera realtà con sicurezza matematica e metodo obiettivo, e di dischiudere le porte ad una nuova saggezza, che muovesse alla conquista di valori pratici capaci di rispondere alle necessità immediate degli individui ed alle esigenze dello stato sociale. N asce di qui – innanzitutto nella Francia postrivoluzionaria, cioè nella situazione politica più complessa e al tempo stesso più avanzata d’Europa – l’esigenza di una “filosofia positiva”. Il termine positivo significa ora ciò che è “concreto” e “reale” in quanto cade sotto la nostra esperienza, vale a dire tutto quello – e solo quello – che può essere scoperto tramite una logica rivolta ai dati empirici. La filosofia viene così a configurarsi come una riflessione

tivamente in discussione, nonostante il tentativo di molti filosofi di recuperarne l’unitarietà ponendosi il problema di una loro “classificazione”. Per quanto riguarda l’indagine del mondo fisico, le numerose scoperte sperimentali di aspetti del tutto sconosciuti della realtà decretarono il fallimento del progetto “modellista” di Pierre Simon de Laplace (1749-1827), che vedeva nel modello meccanico l’elemento unificatore di tutta l’esperienza. Grande peso a questo proposito ebbe la teoria del calore di Joseph Fourier (1768-1830), nella quale non si partiva più da modelli meccanici, ma da proposizioni empiriche – i cosiddetti “fatti generali”. Gli elementi “positivi” presenti nell’opera di Fourier (come l’esclusione delle cause prime, la diffidenza verso le costruzioni ipotetiche, la necessità di trovare leggi aderenti il più possibile all’esperienza) avranno grande influenza sulla filosofia di Comte, e contribuiranno alla progressiva perdita di interesse per la fisica teorica, a favore dell’indagine di tipo sperimentale. La fiducia nelle scoperte sperimentali caratterizzò anche l’ambiente scientifico inglese, che verso la metà del secolo sottrasse alla Francia il primato nelle ricerche sul mondo fisico. Una figura di spicco fu quella di  p. 88

che si attiene esclusivamente ai fatti e alle loro relazioni, estromettendo dal proprio ambito ciò che è posto fuori dalla realtà contingente e concreta, ogni istanza metafisica che trascenda la facoltà umana del comprendere. Il metodo sperimentale, che vuole l’osservazione dei fatti, la formulazione di leggi generali e il rifiuto di ipotesi non verificabili, appare perciò ai positivisti come l’unico strumento in grado di produrre una conoscenza reale. Non è un caso infatti che il modello di razionalità delle scienze naturali divenga il canone a cui assoggettare tutti i campi del sapere, dalle scienze morali all’economia, dal diritto alla storia, dalla psicologia alla pedagogia. Si spiega così, per esempio, il tentativo di ricondurre gli eventi psichici a dinamiche fisiologiche, la coscienza a sensibilità, la realtà metafisica a realtà naturale, in un costante rifiuto di ogni finalismo, e nella convinzione che il sapere debba rinunciare alla ricerca delle essenze. «Sostituire dovunque il relativo all’assoluto» [A. Comte, Discorso sullo spirito positivo, parte I, Discorso preliminare] diventa il motto della scienza positiva: una scienza che fa i conti con le più recenti teorie evoluzionistiche [ 6.3] e che perciò è consapevole di dover continuamente riaggiornare e riorganizzare le proprie conoscenze, per fare spazio a nozioni e a leggi sempre nuove, ma sempre provvisorie. E tuttavia la nuova filosofia – forse proprio per la sua costante volontà di riduzione di tutti i problemi metafisici e teologici ad un naturalismo scientista, e per la sua concezione della scienza come un orizzonte totalizzante del sapere e della vita – finirà ben presto col presentare numerosi punti di convergenza proprio con le teorie a cui essa si oppone. La stessa tendenza empirico-sperimentale, propria del positivismo, tende infatti a trasformarsi in una vera e propria filosofia della storia, e il finalismo escluso dalle singole spiegazioni scientifiche in realtà viene reintrodotto nel concetto stesso della scienza come processo inarrestabile di chiarificazione e di emancipazione del mondo – un’idea che nasce esplicitamente con SaintSimon [ I socialisti utopistici, pp. 8-10], al quale peraltro si deve la stessa espressione di filosofia positiva. Questo però evidenzia il rischio costante del positivismo: trasformare la scienza da istanza critica del sapere umano ad una nuova ideologia sociale.

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parte I La filosofia dell’Ottocento 1. Il positivismo: a. si origina in seguito al forte sviluppo della scienza nei primi decenni del XIX secolo. b. si costituisce come un programma culturale e filosofico atto a realizzare una nuova organizzazione sociale ed economica. c. accoglie la concezione del sapere come conoscenza disinteressata e prettamente teorica. d. elegge il metodo sperimentale a modello di tutto lo scibile umano.

V F V F V F V F

2. Il termine “positivo” propriamente: a. designa la destinazione sociale del sapere propugnata dal positivismo. b. allude ad un tipo di indagine filosofica che privilegia la ricerca delle essenze. c. designa il dato empirico, concreto e reale, oggetto dell’esperienza. d. indica i miglioramenti in campo economico, sociale e politico conseguenti allo sviluppo della scienza nel XIX secolo.

2 John Stuart Mill 2.1 La logica dell’esperienza Nato a Londra il 20 maggio 1806, John Stuart Mill crebbe in un contesto familiare dominato dalla figura autorevole del padre James, filosofo, economista, nonché amico personale di Jeremy Bentham [ Bentham e l’utilitarismo, p. 90] e David Ricardo. Così, l’educazione di Mill – che ancora giovanissimo poteva vantare una cultura sterminata che spaziava dalle lingue antiche alla logica e all’economia politica – risentì fortemente dell’influenza dell’utilitarismo benthamiano, che ne incoraggiò l’impegno politico. Scrive nella sua Autobiografia (1856): «Dall’inverno del 1821 quando lessi per la prima volta Bentham, e soprattutto dall’inizio della “Westminster Review”, io possedevo quello che può essere chiamato un obiettivo nella vita: essere un riformatore del mondo. Identificavo interamente l’idea stessa della mia felicità con questo obiettivo». Tuttavia, già a partire dal 1826, una grave crisi depressiva indusse Mill a perdere interesse per i suoi impegni abituali, avvicinandolo progressi-

vamente al pensiero romantico, da cui egli mutuò l’esigenza di occuparsi della “cultura interiore” degli uomini, e di conciliare la piena realizzazione della felicità individuale con la disponibilità altruistica verso il prossimo. Si avvicina allora alla filosofia di Comte, nel quale Mill vede confermato il suo progetto di fondare l’organizzazione sociale sulla base di una scienza unificata. Ma mentre il filosofo francese era interessato ai fondamenti delle scienze, senza ritenere necessario un lavoro sulla logica, sarà proprio questo invece il tema dell’opera più importante di Mill, il Sistema di logica, pubblicata nel 1843. Mill definisce la logica come la disciplina che si occupa dei precetti del ragionamento valido, cioè come l’arte di stabilire se un’inferenza è stata ricavata in modo fondato. Ma per raggiungere il suo scopo, essa deve necessariamente basarsi sulla scienza che si occupa della natura del pensiero, e cioè la psicologia. Gli stessi princìpi logici – ma in generale tutti i princìpi della scienza – non costituiscono infatti delle verità in sé, ma delle «generalizzazioni naturali» che la psiche compie a partire dall’esperienza. La logica, dunque, non si occupa delle leggi del pensiero, ma solo dei suoi prodotti, controllando la validità di quelle opinioni che si sono formate nel corso dei secoli a seguito di associazioni spontanee di rappresentazioni.

 Michael Faraday (1791-1867), il quale contribuì all’affermazione di una visione unitaria della natura inanimata, mettendo in luce le interazioni tra fenomeni elettrici e fenomeni magnetici – fino ad allora considerati totalmente differenti – e sostenendo l’idea della convertibilità di una potenza fisica in un’altra. Ma i risultati più significativi Faraday li raggiunse nel tentativo di comprendere le modalità di propagazione delle forze elettromagnetiche, arrivando, nel 1845, ad individuare nel “campo magnetico”, e cioè nel continuo spaziale di forze create da un magnete, il luogo in cui si propaga l’azione elettromagnetica. La teoria del campo elettromagnetico fu sviluppata in modo più sistematico da James Clerk Maxwell (1831-1879). Rifiutando la rappresentazione di Faraday del campo come di un continuo di forze, egli lo distinse nettamente dallo spazio, ritenuto condizione d’esistenza del campo stesso. Così – concludeva Maxwell – una rappresentazione fisica del campo richiede

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Il fatto psicologico fondamentale che dà vita alla conoscenza logica è l’induzione, con la quale si può risalire dall’osservazione dei singoli fenomeni alle relative leggi. Per questo motivo Mill ritiene che l’errore principale della logica tradizionale risieda nell’aver fondato i suoi metodi di ragionamento – sia quello induttivo che quello deduttivo – sul presupposto dell’esistenza di proposizioni universali (cioè valide per ogni caso), dimenticando cioè che le massime generali si raggiungono solo mediante esperienze singolari. In altre parole, nessuna proposizione – né la premessa di un sillogismo, né la conclusione di un’induzione – è veramente universale, in quanto costituisce solo la generalizzazione di singoli fatti osservati. La logica di Mill vuol essere dunque una logica dell’esperienza, che esclude ogni principio aprioristico e riduce la scienza – in linea con la tradizione empirista – a un insieme di dati connessi tramite una regola. Per esempio, nel sillogismo «Tutti gli uomini sono mortali; il Duca di Wellington è uomo; il Duca di Wellington è mortale» [Sistema di logica, libro II, cap. 3], la premessa maggiore non esprime una proprietà universale, ma nasce come inferenza da una certa quantità di casi individuali: è dall’aver visto che molte persone sono morte che è scaturita la convinzione che tutti gli individui sono mortali. Per Mill, dun-

una rappresentazione del suo substrato materiale, cioè l’etere elettromagnetico, concepito come un deposito di energia sottoposto ai princìpi della meccanica. Di qui si deduce che l’energia dei fenomeni elettromagnetici è identica all’energia meccanica. Ma i temi dell’unità e della trasformabilità delle forze fisiche, così rilevanti nel pensiero di Faraday, furono decisivi anche per gli studi sulla conversione tra calore e lavoro meccanico, che contribuirono grandemente alla rivoluzione industriale di fine secolo. Di fondamentale importanza, al riguardo, furono le ricerche di James Prescott Joule (1818-1889) e quelle del tedesco Hermann von Helmholtz (1821-1894). Fu poi un altro scienziato tedesco, Rudolf Clausius (18221888) a enunciare i due princìpi della termodinamica, da lui stesso sintetizzati nella celebre formula: «L’energia dell’Universo è costante. L’entropia dell’Universo tende verso un massimo».

que, l’induzione e la deduzione non sono due tipi opposti di inferenza, ma uno solo, perché in entrambi i casi si collega sempre un particolare con un altro particolare:



Io credo che di fatto, quando tiriamo inferenze dalla nostra esperienza personale e non da massime tramandateci dai libri o pervenuteci attraverso la tradizione, concludiamo direttamente da particolari a particolari. [Sistema di logica, libro II, cap. 3]



Il solo criterio di validità delle generalizzazioni logiche sarà allora la credenza nell’uniformità del corso della natura, in base alla quale, una volta osservato il nesso consecutivo tra due fatti, si inferisce che essi si presenteranno regolarmente secondo la medesima successione. Per far questo, però, Mill deve appellarsi alla “legge di causazione” – una legge universale come quelle della matematica – la quale esprime «la verità che ogni fatto, che ha un inizio, ha una causa». Ma tale nozione di causa sta ad indicare solo la serie degli antecedenti invariabili e incondizionati senza i quali non si produrrebbe un certo effetto; e poiché le cause dei fenomeni sono a loro volta fenomeni, l’ambito di applicazione di tale legge sarà esclusivamente quello dei fatti osservabili: «Non vado alla ricerca della causa ultima, o ontologica, di alcunché […]: le cause che mi interessano non sono le cause efficienti, ma le cause fisiche» [Sistema di logica, libro III, cap. 5]. Lo scopo della scienza è dunque quello di scoprire la legge di causazione che spiega e governa un evento, e che consente anche di determinare le condizioni per produrre fenomeni simili in futuro. Per spiegare un fenomeno la legge di causazione si serve di quattro metodi, illustrati da Mill nel Sistema di logica: a. il primo è il “metodo della concordanza” secondo cui se due o più casi di un fenomeno hanno una sola circostanza in comune, questa circostanza ne è la causa o l’effetto; b. il secondo è il “metodo della differenza”, il quale afferma che è causa o effetto di un fenomeno quell’unica circostanza che distingue due situazioni in cui il fenomeno una volta si verifica e una volta no; c. il terzo è il “metodo della variazione concomitante”, secondo cui se due fenomeni variano

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sincronicamente, il primo è un effetto o una causa (diretta o indiretta) del secondo; d. infine il quarto è il “metodo dei residui”, che individua l’effetto o la causa di un fenomeno sottraendo, dall’insieme delle circostanze in cui esso si verifica, tutto ciò che, tramite precedenti induzioni, sappiamo già doversi attribuire ad altri fattori. In questo modo il processo scientifico risulta articolato in tre diversi stadi: quello dell’induzione (con cui si individua di volta in volta la causa singola che produce un dato fenomeno), quello della deduzione (con cui si scopre l’effetto prodotto da una qualsiasi combinazione di tali cause) e quello della verifica (in cui si dimostra tramite l’osservazione, la concordanza dei nostri ragionamenti con i dati dell’esperienza).

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1. La logica di Mill: a. è la scienza a priori delle leggi del pensiero. b. si basa sulla psicologia che spiega come la psiche compia generalizzazioni a partire dall’esperienza singolare. c. ha come suo scopo l’individuazione delle proposizioni universali, oggetto delle premesse del sillogismo. d. ritiene che sia l’induzione che la deduzione non giungano mai a proposizioni veramente universali.

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2. L’idea dell’uniformità della natura in Mill: a. è una credenza che spiega la possibilità e validità delle generalizzazioni logiche. b. spiega la legge di causazione. c. spiega il fatto che le cause dei fenomeni siano a loro volta fenomeni. d. è una legge a priori della logica.

2.2 La scienza della società Tale procedimento deduttivo-concreto è applicabile anche alla scienza della società (cui non a caso è dedicato l’ultimo libro del Sistema di logica), poiché consente di cogliere le molteplici cause che concorrono alla determinazione dei fenomeni sociali, e di controllare le conclusioni del ragionamento deduttivo confrontandole con i fenomeni concreti. Lo si vede in particolare nella psicologia, nell’etologia (studio dei caratteri e dei costumi umani in relazione all’ambiente e al tempo storico) e nella sociologia.



Gli esseri umani riuniti in società non hanno altre proprietà se non quelle che sono derivate dalle leggi della natura dell’uomo individuale, e possono essere risolte in esse. N ei fenomeni sociali la legge universale è la composizione delle cause. [Sistema di logica, libro VI, cap. 7]



Il metodo concreto, tuttavia, ha un’applicazione limitata alle scienze della società, per il fatto che quest’ultima è un incrocio di fattori molto diversi tra loro, che rendono perciò difficile l’individuazione e la previsione certa delle loro cause. D’altra parte, la politica ha bisogno di poche, corrette indicazioni per migliorare le condizioni della vita sociale e raggiungere il suo scopo, che è quello di «circondare ogni società con il maggior numero di circostanze caratterizzate da tendenze favorevoli e di eliminare o di contrastare (nella misura in cui la cosa sia possibile) quelle circostanze le cui tendenze sono pericolose» [Sistema di logica, libro VI, cap. 9]. La società migliore, secondo Mill, è quella che garantisce al singolo il più alto grado di autorealizzazione. In questo egli riprende il principio di Bentham, secondo cui la vita individuale è finalizzata al raggiungimento della massima felicità possibile [ Bentham e l’utilitarismo], intendendo però quest’ultima non come la mera quantità di godimento, ma come la possibilità di formare

Bentham e l’utilitarismo Si deve a Jeremy Bentham (1748-1832) la formulazione del principio fondamentale dell’utilitarismo, vale a dire quella concezione della vita individuale e dei rapporti sociali che afferma quale valore supremo il raggiungimento della felicità, ossia il godimento, come prevalenza del piacere sul dolore. Tale principio costituisce lo scopo sia della morale che della legislazione sociale: bisogna ottenere «la maggior felicità del maggior numero possibile di uomini» [Introduzione ai princìpi della morale e della legislazione, 1789, cap. 1]. La felicità dei singoli e della società intera va dunque misurata nei suoi aspetti quantitativi e di conseguenza va “massimizzata” come somma di piaceri possibili; il che però non rinchiude gli uomini in un mero interesse soggettivo, ma include in esso la benevolenza per gli altri uomini. Di questo principio aveva già parlato l’illuminista italiano Cesare Beccaria [ vol. 2, 21.2.2].

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mente fare, onde evitare di ledere il diritto individuale, che è il presupposto del ragMalthus giungimento della felicità di tutti. e il principio economico In stretta connessione con la della popolazione morale e la giustizia, Mill sviluppa poi l’economia politica, la disciIl pastore anglicano Thomas Robert Malthus (1766-1834), stabilì plina che studia il rapporto tra nel suo Saggio sul principio di popolazione (1798) un rapporto diretle questioni economiche e to tra due fattori essenziali nella formazione e nello sviluppo della quelle etico-sociali. In partisocietà: da un lato l’istinto sessuale, che porta all’accoppiamento e alla colare egli affronta il proprocreazione, e che produce un incremento della popolazione secondo una blema della distribuzione progressione geometrica (perché ogni nuovo nato porterà a sua volta a prodel reddito, ritenendo nedurre nuovi nati); dall’altro lato l’istinto della sopravvivenza che porta gli uomini a procurarsi i mezzi della sussistenza, sebbene questi ultimi crescano molto cessarie delle politiche più lentamente, e cioè in progressione aritmetica, di quanto cresca la popolazio- che, pur garantendo l’effine, dal momento che la produzione dei beni naturali finisce nel consumo e non cienza produttiva, evitino produce di per sé altri beni. Questo squilibrio genera la miseria sociale, che gli squilibri nel godimento Malthus vede quasi come un regolatore naturale permesso da Dio per risolvedelle risorse ed offrano a re (nell’eliminazione dei meno abbienti) il problema del sovrappopolamento tutti i cittadini le stesse della Terra. In netta opposizione alle correnti socialiste, che perseguivano opportunità di autorealizzaun’equa distribuzione delle risorse anche agli strati più indigenti, zione. Questo però non siMalthus propone una sua singolare ricetta: quella di limitare la prognifica affatto per lui giustificreazione, o non sposandosi oppure osservando l’astinenza nella care sistemi socio-economici vita matrimoniale. Moralità, utilitarismo economico e seleziocentralizzati e autoritari come ne sociale sono tutt’uno. Per questo nella vita sociale il quelli propugnati dai socialisti: al principio basilare non sarà quello di assicurare a tutti la sussistenza, ma la libera concorrencontrario, Mill si schiera apertamente za tra coloro che nascono o che dalla parte del principio della regolazioriescono a vivere. ne dell’economia sulla base della concorrenza sociale teorizzato dall’economista Malthus [ Malthus e il principio economico della popolazione] considerandolo come il fondamento del liberamente il proprio io attraverso un processo progresso complessivo di una nazione. Si capidi maturazione culturale e spirituale. Solo attrasce di qui la preferenza accordata da Mill ad una verso i valori illuministici della benevolenza e del forma di Stato-minimo che si limiti a fornire ai rispetto per il prossimo sarà possibile massimizcittadini i mezzi necessari per raggiungere certi zare il godimento della felicità individuale. scopi, a promuovere quelle virtù che favoriscoQuesta convergenza tra il principio utilitarino reciproci rapporti di simpatia e cooperaziostico e quello spirituale (quale secondo Mill si ne e a garantire tutte le libertà individuali caparealizza nell’etica del Vangelo) costituisce la ci di produrre effetti positivi sulla ricchezza caratteristica del suo pensiero morale, esposto della nazione. nella raccolta di saggi intitolata Utilitarismo (1863). Secondo Mill esiste un legame indissolubile tra il sentimento naturale del dovere e quello dell’utile, di modo che la felicità generale – che è lo scopo della morale – costituisce il 1. Secondo Mill nella scienza della società: fine desiderabile da ogni singola persona. a. è del tutto impossibile applicare il procedimento Favorire l’istinto alla solidarietà e l’inclinazione deduttivo-concreto. V F ai grandi scopi della vita è però anche l’obiettib. i fenomeni sociali si spiegano in base alle stesse vo della giustizia, concepita da Mill come struproprietà derivate dalle leggi della natura dell’uomo. V F mento di raccordo tra la morale individuale e c. la politica ha il compito di eliminare quelle tendenze che favoriscono un alto grado di quella sociale. La giustizia è un insieme di autorealizzazione del singolo. V F «doveri di obbligazione perfetta» che non indid. la previsione delle cause dei fenomeni sociali cano solo ciò che è bene compiere (come la è possibile, sebbene difficile da realizzarsi. V F morale), ma anche ciò che non si deve assoluta-

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parte I La filosofia dell’Ottocento 2. La morale di Mill si caratterizza: a. per una netta separazione fra il raggiungimento della felicità individuale e il rispetto per il prossimo. b. per il fatto che il suo fine ultimo è l’egoistica felicità del singolo. c. per un’idea di giustizia come punto di convergenza fra la morale sociale e l’economia politica. d. per il fatto che la felicità generale coincide con la felicità desiderabile dal singolo. 3. In Mill il rapporto fra le questioni economiche e quelle etico-sociali è indagato dalla sfera: a. della morale sociale. b. dell’economia politica. c. della giustizia. d. dell’utilitarismo.

2.3 Il problema della libertà Della libertà – e nello specifico della libertà civile o sociale – è il titolo di un altro testo decisivo per comprendere il pensiero di Mill, redatto assieme alla moglie Harriet e pubblicato nel 1859. Prendendo le mosse dal riconoscimento dei diritti civili e politici garantiti dall’avvento dei regimi costituzionali, l’opera si occupa della natura e dei limiti del potere che non solo l’autorità dei governi, ma anche la stessa società democratica di massa esercitano sull’individuo. Innanzitutto secondo Mill va rigorosamente delimitata l’interferenza dello Stato nei confronti dei singoli cittadini, tranne il caso in cui vi sia danno per gli altri:



Il principio è che l’umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà d’azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri. [Della libertà, Introduzione]



Ma esiste una nuova e più strisciante minaccia per la libertà individuale, quella che Mill individua nell’omologazione sociale, e che richiama la tirannia della maggioranza di cui parlava Tocqueville [ 9.2.2]. La difesa dei diritti inalienabili dei cittadini – la piena sovranità dell’individuo su sé stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente – viene basata da Mill sui princìpi dell’utilitarismo:

«Considero l’utilità il criterio ultimo di tutte le questioni etiche; ma deve trattarsi dell’utilità nel suo senso più ampio, fondata sugli interessi permanenti dell’uomo, in quanto essere progressivo» [Della libertà, Introduzione]. In questo risiede la vera novità di Mill, cioè nell’aver concepito la libertà sociale non come semplice limitazione del potere dello Stato, ma come sviluppo spontaneo e originale della personalità. Infatti, «gli uomini traggono maggiore vantaggio dal permettere a ciascuno di vivere come gli sembra meglio che dal costringerlo a vivere come sembra meglio agli altri» [Della libertà, Introduzione]. Tre sono secondo Mill le libertà fondamentali che connotano la piena espressione dell’individuo: la libertà di pensiero ed opinione, quella di seguire i gusti e le inclinazioni personali, infine la libertà di associazione. L’individualismo diviene così la condizione decisiva del progresso sociale e per l’attuazione dei valori civili. Essa non si traduce infatti in una giustificazione dell’egoismo, ma significa piuttosto la promozione delle capacità intellettuali di ciascuno – quello spirito critico che è il vero motore di una democrazia – e la tutela delle differenti inclinazioni e dei diversi stili di vita contro il diffuso conformismo della vita sociale:



I più, soddisfatti della vita così come è (perché sono loro a renderla così come è), non riescono a capire perché non debba andar bene a tutti; e, ciò che più conta, la spontaneità non fa parte dell’ideale della maggioranza dei riformatori morali e sociali, ed è anzi guardata con sospetto, come un ostacolo fastidioso e forse ribelle all’accettazione generale di ciò che essi giudicano più opportuno per l’umanità. [Della libertà, cap. 3]



Di qui deriva per Mill la separazione tra responsabilità etica e responsabilità giuridica: se è legittimo punire gli atti che ledono gli interessi altrui, non lo è punire i comportamenti che toccano solo la sfera personale, anche se apparissero contrari agli interessi e alla felicità di chi li pratica: «I cosiddetti doveri verso di sé non sono socialmente obbligatori, a meno che le circostanze non li rendano contemporaneamente doveri verso gli altri» [Della libertà, cap. 4]. Ed è proprio facendo leva sulla distinzione tra il persuadere qualcuno circa il proprio bene

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e il costringerlo a farlo che Mill può concludere che il compito di un buon governo è di incoraggiare l’azione degli individui e favorire la diffusione di prospettive multilaterali giacché «uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini perché possano essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a fini benefici, scoprirà che con dei piccoli uomini non si possono compiere cose veramente grandi» [Della libertà, cap. 5]. All’atto pratico, Mill tradusse la propria critica di ogni forma di dispotismo in un impegno politico a favore dell’emancipazione femminile, individuando nella dominazione sessuale un freno al progresso e all’incivilimento, ed auspicando l’attribuzione alle donne del diritto di suffragio. Un progetto che, però, non poté vedere realizzato: egli infatti morì ad Avignone nel 1873. 1. Secondo Mill: a. lo Stato non può né deve mai interferire nella vita dei singoli cittadini. b. l’individualismo non può essere contemplato all’interno di una società democratica e civile. c. la libertà sociale risiede nello sviluppo della personalità dei cittadini. d. nelle società democratiche la nuova minaccia alla libertà risiede nel conformismo sociale.

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3 Il positivismo in Germania e in Italia Sembra un fatto sorprendente che il positivismo si sia diffuso persino in Germania, la patria dell’idealismo, ma questo può aiutarci a riconoscere che, nonostante il carattere antitetico delle due posizioni – l’una intesa come sviluppo dello spirito, l’altra come evoluzione della materia –, al fondo sussiste fra di esse una comune pretesa totalizzante. Si può dire infatti che il positivismo condivida con la filosofia romantica della natura e con la speculazione idealistica l’esigenza di una visione unitaria e dinamica del mondo materiale come di quello spirituale. È in questo contesto che bisogna collocare l’opera del filosofo e biologo Ernst Heinrich

Haeckel (Potsdam 1834-Jena 1919), il più celebre rappresentante del darwinismo [ 8.1] in Germania, la cui tesi della continuità di spirito e materia culmina in una vera e propria visione monistica e dogmatica della realtà: l’intero cosmo, secondo Haeckel, è pervaso da uno “spirito divino” che è, insieme alla materia, il principio originario di ogni esistenza. Tale concezione trova la sua base teorica nella “legge biogenetica fondamentale” (esposta nella Morfologia generale degli organismi, del 1866), secondo cui lo sviluppo individuale (ontogenesi) non è che una ricapitolazione della storia evolutiva dell’intera specie a cui l’individuo appartiene (filogenesi): una legge che denota l’esigenza di pervenire a una comprensione unitaria dei processi vitali e di costruire una sintesi evoluzionistica capace di includere non solo i processi naturali, ma la stessa storia dell’uomo. Più direttamente legata all’osservazione empirica delle scienze è invece la riflessione di Karl Eugen Dühring (1833-1921). Elaborando una vera e propria “filosofia della realtà” fondata sul primato dell’esperienza, anche Dühring individua nella materia il principio unico che sorregge l’intera natura. Ma, come scrive nella Dialettica naturale (1875) e nel Corso di filosofia (1878), egli non si riferisce al mero concetto fisico di materia, ma al suo più ampio significato filosofico: quello di una materia che si dispiega come scontro di forze meccaniche antagonistiche da cui hanno origine non solo tutti gli stati corporei, ma la stessa vita della coscienza. Norma cosmica e psicologica ad un tempo, l’antagonismo delle forze diviene così il principio evoluzionistico che unifica e concilia tutti gli ambiti del vivente. In Italia invece il positivismo costituì un fenomeno piuttosto marginale, assumendo le vesti di un metodo di ricerca applicabile sì a diversi ambiti disciplinari, senza però raggiungere la fisionomia di un vero e proprio sistema di pensiero, forse anche a motivo delle riserve con cui i nostri filosofi accolsero la teoria evoluzionistica. In un contesto di sostanziale diffidenza verso il nuovo orientamento filosofico, è tuttavia possibile rintracciare nell’Invito agli amatori della filosofia (1857) di Carlo Cattaneo (Milano 1801-Castagnola di Lugano 1869) il manifesto del positivismo italiano. Sostenendo la necessità per la filosofia di attenersi esclusi-

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vamente al “dato”, Cattaneo ricusa infatti la ricerca delle cause finali, appropriandosi in tal modo di quel motivo antimetafisico che risultava essere uno dei tratti dominanti del positivismo europeo. La tendenza positivistica di Cattaneo si giocò soprattutto nella sua attività di economista (fu fondatore della rivista «Il politecnico»), di storico (scrisse le Notizie naturali e civili sulla Lombardia, 1844) e di politico, particolarmente impegnato nella battaglia per il federalismo repubblicano della Lombardia contro lo Stato sabaudo (su cui scrisse L’insurrezione di Milano, 1857). Ma è senza dubbio Roberto Ardigò (Casteldidone, Cremona 1828-Mantova 1920) il maggiore rappresentante del pensiero positivista in Italia, attraverso scritti quali la Psicologia come scienza positiva (1871), La morale dei positivisti (1878), la Sociologia (1886) e L’unità della coscienza (1898). Tesi di fondo della sua riflessione è quella secondo cui la filosofia deve sempre rivolgersi al “fatto” percepito dalla sensazione, deducendo ogni verità – a cui va attribuito un carattere provvisorio e relativo – dall’osservazione diretta della realtà. Le nostre stesse teorie non sono altro che pure espressioni di fatti. La legge fondamentale della realtà è per Ardigò quella dell’evoluzione, intesa come passaggio dall’indistinto al distinto. Su di essa si fonda tanto il mondo fisico quanto la vita della coscienza. Come infatti nella realtà fenomenica la materia e la forza appaiono originariamente indifferenziate e indistinguibili, così nella coscienza il “me” e il “fuori di me”, l’io e il nonio costituiscono un fatto indivisibile. Non c’è un oggetto che si oppone al soggetto, poiché all’origine tutte le sensazioni sono “coscienza di sé”; e la stessa distinzione tra un “interno” ed un “esterno” non è che l’esito di un’operazione concettuale successiva. Così Ardigò può affermare che l’oggetto specifico della filosofia è proprio quell’indistinto da cui ha origine l’infinita molteplicità dei distinti: un indistinto che però non va mai preso in senso assoluto, ma solo nella successione dei gradi dell’evoluzione, per cui ciò che appare indistinto in relazione a ciò che lo segue può apparire distinto rispetto a ciò che lo precede. Ogni individualità, dunque, non è altro che un certo rapporto tra le parti progressivamente distinte di un tutto, destinate a perire col ritorno del distinto nell’indistinto, pro-

prio come quando muore l’individuo ma permane la specie. A livello psicologico Ardigò sostiene una perfetta integrazione di anima e corpo, e spiega l’attività del pensiero con quel processo del sistema nervoso per cui dall’indistinto delle sensazioni vengono a distinguersi gli atti psichici. Anche l’azione morale viene spiegata in senso puramente deterministico: ogni azione volontaria è un fatto puramente fisiologico, cioè la reazione impulsiva a una serie di emozioni o di sentimenti, intesi anch’essi come associazioni di sensazioni. Si tratta dunque di una spiegazione che non lascia molto spazio alla nozione di libero arbitrio. Tant’è vero che quando affronta il problema della convivenza degli uomini nella società, Ardigò parla di una tendenza antiegoistica presente nella natura umana, e solo questa garanzia di tipo naturalistico gli consente di affermare che tutta l’umanità tende progressivamente, e necessariamente, al proprio perfezionamento morale e sociale.

1. Secondo Haeckel: a. fra spirito e materia vi è forte continuità. b. lo sviluppo del singolo individuo è la ricapitolazione dello sviluppo della sua specie. c. l’approccio evoluzionistico spiega unicamente i processi naturali dell’uomo. d. lo scontro fra le forze meccaniche e materiali spiega nello stesso tempo il corpo e la coscienza.

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2. In Cattaneo si evidenzia: a. una netta adesione alla teoria evoluzionistica. b. la necessità di non escludere la ricerca delle cause finali nell’indagine filosofica. c. un approccio antimetafisico tipico del positivismo europeo. d. un sostanziale rifiuto di occuparsi di temi di natura storico-politici. 3. Il motivo centrale della riflessione di Ardigò è costituito: a. dalla teoria dell’evoluzione così come è stata formulata da Darwin. b. dalla distinzione fra le leggi del mondo fisico e quelle della vita della coscienza. c. dall’evoluzione, concepita come graduale passaggio dall’indifferenziato al differenziato. d. dalla critica ad ogni morale deterministica.

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SINTESI CAPITOLO 6

Il positivismo capitolo 6 Il progetto positivista. Il positivismo è un programma culturale diffusosi in Europa nei primi decenni del XIX secolo a seguito dell’imponente sviluppo scientifico. La sfida della filosofia consiste ora nel pensare ad una nuova organizzazione economica e sociale, accertando le leggi del processo storico in atto. Il positivismo afferma il principio della destinazione sociale del sapere, tentando una riorganizzazione della totalità dello scibile che colga l’intera realtà con sicurezza matematica e metodo obiettivo. L’esigenza di una “filosofia positiva” nasce nella Francia postrivoluzionaria; il termine positivo indica ciò che è “concreto” e “reale”. La filosofia viene così a configurarsi come una riflessione che si attiene esclusivamente ai fatti e alle loro relazioni, estromettendo dal proprio ambito ogni istanza metafisica. Il metodo sperimentale costituisce per il positivismo l’unico strumento in grado di produrre una conoscenza reale. Il modello di razionalità delle scienze naturali e le nuove teorie evoluzionistiche divengono il canone a cui assoggettare tutti i campi del sapere, dalle scienze morali all’economia, dal diritto alla storia, dalla psicologia alla pedagogia. John Stuart Mill. John Stuart Mill (1806-1873) nel Sistema di logica del 1843 definisce la logica come la disciplina che si occupa dei precetti del ragionamento valido; essa deve basarsi sulla psicologia in quanto scienza della natura del pensiero. Il fatto psicologico che fonda la conoscenza logica è l’induzione. Per Mill sia il metodo induttivo che quello deduttivo non si fondano sull’esistenza di proposizioni universali, giacché queste si raggiungono solo mediante esperienze singolari. La logica dell’esperienza di Mill esclude, dunque, ogni principio aprioristico e riduce la scienza a un insieme di dati connessi tramite una regola. Il criterio di validità delle generalizzazioni logiche è la credenza nell’uniformità del corso

della natura, in base alla quale, una volta osservato il nesso consecutivo tra due fatti, si inferisce che essi si presenteranno regolarmente secondo la medesima successione. Tale credenza poggia sulla “legge di causazione”: questa si serve di quattro metodi (metodo della concordanza; metodo della differenza; metodo della variazione concomitante; metodo dei residui). Il processo scientifico risulta articolato in tre stadi (induzione, deduzione e verifica). Il procedimento deduttivo-concreto è applicabile anche alla scienza della società, poiché consente di cogliere le molteplici cause che concorrono alla determinazione dei fenomeni sociali, e di controllare le conclusioni del ragionamento deduttivo confrontandole con i fenomeni concreti. La società migliore, secondo Mill, è quella che garantisce al singolo il più alto grado di autorealizzazione, ovvero il raggiungimento della massima felicità possibile. La caratteristica del pensiero morale di Mill risiede nella convergenza tra il principio utilitaristico e quello spirituale, nel senso che la felicità generale costituisce il fine desiderabile da ogni singola persona. La riflessione di Mill sull’economia politica lo vede schierato a favore del principio della regolazione dell’economia sulla base della concorrenza sociale, teorizzato dall’economista Malthus, e di una forma di Stato-minimo che fornisca ai cittadini i mezzi necessari per raggiungere certi scopi e garantisca le libertà individuali. Il saggio Della libertà (1859) si occupa della natura e dei limiti del potere sugli individui. Secondo Mill l’interferenza dello Stato nei confronti dei singoli cittadini è ammissibile solo nel caso in cui la libertà del singolo danneggi gli altri; egli identifica la nuova minaccia per la libertà individuale nell’omologazione sociale. La novità di Mill risiede nell’aver concepito la libertà sociale non come semplice limitazione del potere dello Stato, ma come sviluppo spontaneo e originale della personalità. Tre so-

no le libertà fondamentali che connotano la piena espressione dell’individuo: la libertà di pensiero ed opinione, quella di seguire i gusti e le inclinazioni personali, infine la libertà di associazione. L’individualismo diviene così la condizione decisiva per il progresso sociale e per l’attuazione dei valori civili. Degno di nota l’impegno politico di Mill a favore dell’emancipazione femminile. Il positivismo in Germania e in Italia. Il positivismo in Germania condivide con la filosofia romantica della natura e con la speculazione idealistica, ad esso antitetiche, l’esigenza di una visione unitaria e dinamica del mondo materiale come di quello spirituale. Gli esponenti più importanti del positivismo tedesco sono: il filosofo e biologo Ernst Heinrich Haeckel (1834-1919), secondo cui lo sviluppo individuale (ontogenesi) è una ricapitolazione della storia evolutiva dell’intera specie a cui l’individuo appartiene (filogenesi); e il filosofo Karl Eugen Dühring (1833-1921) che elabora una «filosofia della realtà» fondata sul primato dell’esperienza ed individua nell’antagonismo delle forze meccaniche il principio evoluzionistico che unifica e concilia tutti gli ambiti del vivente. In Italia il positivismo costituisce un fenomeno piuttosto marginale. Esponenti di spicco sono Carlo Cattaneo (1801-1869) e Roberto Ardigò (1828-1920). Sostenendo la necessità di attenersi al “dato”, Cattaneo ricusa la ricerca delle cause finali, appropriandosi del motivo antimetafisico del positivismo. Roberto Ardigò è stato il maggiore rappresentante del pensiero positivista in Italia: egli ha sostenuto che la filosofia deve sempre rivolgersi al “fatto” percepito dalla sensazione, deducendo ogni verità dall’osservazione diretta della realtà. Questa è regolata dalla legge dell’evoluzione, intesa come passaggio dall’indistinto al distinto.

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BIBLIOGRAFIA Fonti

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A. Comte, Discours sur l’esprit positif, trad. di A. Negri, Opuscoli di filosofia sociale e discorsi sul positivismo (pp. 305-408), Sansoni, Firenze 1969, p. 344. J.S. Mill, Autobiografia, trad. di F. Restaino, Laterza, Roma-Bari 1976. J.S. Mill, Sistema di logica deduttiva e induttiva, trad. di M. Trinchero, 2 voll., Utet, Torino 1996. • J.S. Mill, Princìpi di economia politica, trad. di B. Fontana, 2 voll., Utet, Torino 2006. J.S. Mill, Saggio sulla libertà, trad. di G. Giorello e M. Mondadori, Il Saggiatore, Milano 1981 (cfr. anche J.S. Mill, Sulla libertà, trad. di G. Mollica, testo inglese a fronte, Bompiani, Milano 2000).

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Opere

· J.S. Mill - T. Harriet, Sull’eguaglianza e l’emancipazione femminile,

a cura di N. Urbinati, trad. di M. Reichlin, Einaudi, Torino 2001. J.S. Mill, Saggi sulla religione, trad. di L. Geymonat, Feltrinelli, Milano 2006.

ESERCIZI

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• J. Bentham, Introduzione ai princìpi della morale e della legislazione, a cura di E. Lecaldano, trad. di S. Di Pietro, Utet, Torino 1998. • Th.R. Malthus, Saggio sul principio di popolazione, trad. di G. Maggiori, Einaudi, Torino 1977. C. Cattaneo, Psicologia delle menti associate, a cura di G. De Liguori, Editori Riuniti, Roma 2000. C. Cattaneo, Scritti sulla Lombardia, a cura di A. Moioli, Mondadori, Milano 2002. C. Cattaneo, Le più belle pagine scelte da Gaetano Salvemini, Donzelli, Roma 1993. C. Cattaneo, «Il Politecnico» 1839-1844, a cura di L. Ambrosoli, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino 1989. R. Ardigò, Scritti di filosofia scientifica, a cura di F. Coniglione e S. Vasta, Bonanno editore, RomaCatania 2008. Scienza e filosofia nel positivismo italiano e tedesco, a cura di G.F. Frigo e O. Breidbach, Il Poligrafo, Padova 2005.

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Studi critici Per una visione globale del fenomeno “positivismo” si consigliano:

1. All’interno di quale esigenza di fondo nasce la filosofia positivista? Rispondi alla domanda mettendo in luce: a. le caratteristiche del contesto politico-sociale; b. il compito e il metodo della filosofia positiva (max 10 righe).

• A. Negri (a cura di), Positivismo europeo, Le Monnier, Firenze 1981. A. Santucci (a cura di), Scienza e filosofia nella cultura positivistica, Feltrinelli, Milano 1982. S. Poggi, Introduzione a Il positivismo, Laterza, Roma-Bari 19993.

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Per uno sguardo d’insieme al pensiero di Mill: • P. Donatelli, Introduzione a Mill, Laterza, Roma-Bari 2007. F. Restaino, J.S. Mill e la cultura filosofica britannica, La Nuova Italia, Firenze 1968.

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Infine, sul positivismo tedesco e italiano si possono consultare: S. Poggi, I sistemi dell’esperienza. Psicologia, logica e teoria della scienza da Kant a Wundt, il Mulino, Bologna 1977. E.R. Papa (a cura di), Il positivismo e la cultura italiana, Franco Angeli, Milano 1985. P. Rossi (a cura di), L’età del positivismo, il Mulino, Bologna 1986. P. Di Giovanni, Filosofia e psicologia nel positivismo italiano, Laterza, Roma-Bari 20075.

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8.Quali princìpi sono alla base dell’economia politica sviluppata da Mill? (max 8 righe) 9. Quali sono per Mill le minacce alla libertà individuale che i governi e le società in generale possono esercitare? (max 5 righe)

2. Spiega qual è il senso dell’indicazione di Comte riferita alla natura del sapere positivo: «Sostituire dovunque il relativo all’assoluto» (max 5 righe).

10. Su che cosa si fonda la libertà sociale per Mill? (max 5 righe)

3. Qual è il rischio insito nella visione positivista del sapere e della realtà? (max 5 righe)

11. Spiega perché per Mill l’individualismo costituisce la premessa decisiva del progresso sociale e dell’attuazione dei valori civili (max 8 righe).

4. Chiarisci la natura del rapporto tra logica e psicologia in Mill (max 5 righe). 5. Spiega qual è la differenza tra la logica tradizionale e la logica dell’esperienza secondo Mill (max 5 righe). 6. Illustra la concezione della scienza esposta da Mill nel Sistema di logica precisando come si configurano la struttura, lo scopo e i metodi del sapere scientifico (max 10 righe). 7. Qual è per Mill la società migliore e che cosa la rende possibile? (max 5 righe)

12. Qual è per Mill il compito di un buon governo? (max 5 righe) 13. Perché Mill si impegna nella lotta a sostegno dell’emancipazione femminile? (max 5 righe) 14. Che cosa accomuna il positivismo alla cultura dell’idealismo e del Romanticismo determinandone la diffusione in Germania? (max 5 righe) 15. Qual è la legge fondamentale della realtà per Ardigò? (max 5 righe)

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capitolo 7

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1 La scienza come sistema dell’ordine e del progresso sociale Quello che Comte ha cercato di realizzare con la sua “filosofia positiva” è una riflessione generale sullo sviluppo e sui compiti della scienza, anzi delle singole scienze, all’interno del campo unitario del sapere umano; al tempo stesso però egli ha inteso il positivismo [ 6] come il più compiuto esito storico e sistematico della filosofia in quanto tale. Il suo ambizioso progetto consisteva infatti nell’assumere la conoscenza di tipo matematico-sperimentale come un orizzonte onnicomprensivo, all’interno del quale fosse possibile descrivere, prevedere, determinare e anche esaurire la realtà intera nei suoi molteplici fattori: dalla natura dei corpi celesti a quella dei corpi terrestri, dai fenomeni inorganici a quelli biologici, dalla “fisica sociale” o sociologia (che è la sua scoperta più innovativa) sino alla morale e alla politica. Comte ha sempre presentato questo suo progetto come la fase conclusiva di una secolare evoluzione dello spirito umano iniziata sin dall’Antichità, credendo fosse finalmente arriva-

to il momento di ricapitolare questa lunga storia, conquistare allo spirito scientifico anche quegli ambiti che sembravano sottrarsi ad esso, e infine mostrare in che modo tutte le conoscenze scientifiche costituissero un sistema organico e gerarchicamente strutturato:



Tutti i fenomeni rientrano nell’orizzonte della filosofia positiva; se resta ancora qualche grande conquista da fare, qualche sfera importante del dominio intellettuale da scoprire, possiamo essere certi che la trasformazione avverrà, come si è effettuata in tutte le altre sfere. Oggi la grande lacuna che occorre colmare per portare a compimento la fondazione della filosofia positiva, dopo che lo spirito umano ha fondato la fisica celeste, la fisica terrestre sia meccanica che chimica, la fisica organica sia vegetale che animale, è la fisica sociale. Questo è dunque […] il massimo e più pressante bisogno della nostra intelligenza. [Corso di filosofia positiva, lezione I]



L’impresa di Comte e la sua stessa illimitata fiducia nelle capacità e nei progressi delle scienze positive sono orientate sin dall’inizio da questo interesse per il mondo sociale e politico, e ai

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suoi occhi la scienza si contraddistingue ultimamente per la sua capacità – vista come una vera e propria vocazione – di costruire e preservare l’ordine e insieme il progresso della società. Al di fuori dello spirito “positivo” l’ordine finirebbe in una deriva reazionaria (come ai suoi occhi appariva non solo l’antico regime prerivoluzionario, di tipo cattolico e feudale, ma anche la restaurazione dell’epoca napoleonica); e a sua volta il progresso rischierebbe di disperdersi e dissolversi in anarchia (come gli sembrava fosse successo con gli stessi ideali illuministi della Rivoluzione francese). Il “positivismo” di Comte è dunque essenzialmente un progetto politico fondato su un’analisi descrittiva e prescrittiva della società, vale a dire dell’ambito più complesso e imprevedibile (perché ha a che fare con le dinamiche storiche dei rapporti umani) nel quale lo spirito scientifico è chiamato a dare l’ultima e più importante prova di sé. E senza superare quest’ultima prova tutte le altre pur gloriose prove della scienza resterebbero parziali, cioè non arriverebbero a dominare la totalità dell’essere. Nell’ultima parte della vita di Comte tale progetto assumerà i toni di una profezia religiosa e lo stile di una liturgia esoterica: agli occhi di alcuni questo fece scandalo, come se si trattasse di un passo indietro di tipo misticheggiante rispetto alla lucida strategia metodologica degli inizi. Ma la contraddizione è forse solo apparente, e Comte ha mostrato nella sua stessa vicenda biografica e intellettuale come fosse facile passare il confine tra la centralità della scienza e le pretese dello scientismo – cioè di un’immagine della conoscenza scientifica come risolutrice di ogni problema naturale, sociale ed umano –, e di come a sua volta lo scientismo porti sempre in sé il germe ambiguo di un nuovo dogmatismo.

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1. La “filosofia positiva” di Comte: a. costituisce una riflessione generale sui diversi indirizzi filosofici che si sono dati dall’Antichità. b. è una riflessione sullo sviluppo delle singole scienze. c. istituisce uno stretto legame fra la scienza e l’ordine e il progresso sociale. d. interpreta sé stessa come quella filosofia in cui non possono trovare posto tutti i fenomeni, ma soltanto quelli legati alle scienze fisico-sperimentali esistenti.

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2 Per amore della scienza Isidore-Auguste-Marie-François-Xavier o più semplicemente Auguste Comte nasce il 19 gennaio 1798 a Montpellier, nella Francia meridionale, da una famiglia di forte impronta cattolica e monarchica. Dotato di una precoce e non comune attitudine per gli studi matematici, nel 1814 si iscrive all’École Polytechnique di Parigi, da cui però viene allontanato due anni dopo per atti di indisciplina. Nonostante la breve durata, il periodo trascorso al Politecnico è cruciale per la formazione del filosofo, che concentra i propri interessi, oltre che sullo studio della matematica, anche su studi umanistici e più orientati verso problematiche socio-politiche: Diderot, Maupertuis, Smith e Hume sono solo alcuni dei suoi principali referenti di quegli anni. N el 1817 conosce Claude-Henry conte di Saint-Simon [ I socialisti utopistici, pp. 8-10], di cui sarà segretario per sette anni e dal quale apprenderà soprattutto un vivo interesse per la funzione decisiva che gli scienziati possono svolgere per la costruzione di un nuovo ordine sociale e politico. La prospettiva di ricerca che si apre al giovane Comte è quella di mostrare il valore e il ruolo sociale della scienza, la quale, dopo la crisi del sistema teologico e metafisico dominante nelle epoche precedenti, ma anche dopo il disordine sociale apportato dalla Rivoluzione, deve trasformarsi in una nuova “filosofia positiva” (l’idea è di Saint-Simon), con l’obiettivo di promuovere grazie alle applicazioni tecniche della scienza tutti gli ambiti e gli aspetti della vita degli uomini e della società. Ecco come Comte racconta l’esperienza intellettuale della sua prima formazione:



Avevo già compiuto i quattordici anni che già provavo il bisogno fondamentale di una rigenerazione universale, a un tempo politica e filosofica, sotto l’attivo impulso della salutare crisi rivoluzionaria la cui fase principale aveva preceduto la mia nascita. […] La luminosa influenza di una iniziazione matematica avuta in famiglia, felicemente sviluppata all’École Polytechnique, mi fece istintivamente presentire la sola via intellettuale che poteva realmente condurre a questo grande rinnovamento. Avendo compreso l’insufficienza radicale di un’istruzio-

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ne scientifica limitata alla prima fase della positività razionale […], provai il bisogno, prima ancora di lasciare l’École, di applicare alle speculazioni pratiche e sociali la nuova maniera di filosofare che avevo appreso attraverso lo studio delle materie più semplici. […] Il senso graduale della vera gerarchia enciclopedica cominciò a svilupparsi in me, così come l’intuizione di un’armonia finale fra le mie tendenze intellettuali e le mie tendenze politiche, prima essenzialmente indipendenti anche se ugualmente imperiose. Questo equilibrio decisivo risultò infine, nel 1822, nella scoperta fondamentale che mi portò, all’età di ventiquattro anni, a una vera unità mentale e al tempo stesso sociale, in seguito sempre più sviluppata e consolidata sotto la costante ispirazione della mia grande legge relativa all’insieme dell’evoluzione umana, individuale e collettiva. [Corso di filosofia positiva, Prefazione]



E difatti nel 1822, con il patrocinio di SaintSimon, Comte pubblica il Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società, un breve scritto che già contiene i tratti essenziali della sua filosofia sociale, con l’abbozzo della “grande legge” dei tre stadi, ma nel quale emerge anche il suo dissenso da Saint-Simon. Quest’ultimo ai suoi occhi si limiterebbe al ruolo di organizzatore politico tralasciando invece la riflessione filosofica sulle leggi della società, che deve precedere e indirizzare l’instaurazione di ogni nuovo regime politico. Questo dissenso porterà alla rottura definitiva tra i due, nel 1824. Due anni più tardi, Comte inizia a tenere in casa sua un ciclo di lezioni alle quali prendono parte illustri uomini di cultura francesi e stranieri, e il cui esito è la pubblicazione, nel 1830, del primo volume del Corso di filosofia positiva, conclusosi poi solo nel 1842 con l’uscita del sesto volume. Sono anni tormentati da crisi depressive e ripetuti insuccessi accademici, ma anche gli anni in cui la dottrina positivista raccoglie consensi sempre più vasti, grazie anche alla pubblicazione, nel 1844, del Discorso sullo spirito positivo. N el 1848 Comte fonda la Società positivista, che avrà un grande influsso soprattutto in Inghilterra e verrà esportata con successo anche in America latina (basti ricordare che sulla bandiera brasiliana è riportato il motto comtiano «Ordine e progresso»).

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Costretto ad abbandonare la ricerca scientifica in seguito all’ennesima, gravissima crisi, questa volta causata dalla morte della donna amata, Clotilde de Vaux, Comte dà un’impostazione mistica al proprio pensiero, proponendo sé stesso come il “Grande sacerdote” di una nuova “religione dell’Umanità”, organizzata attorno alla “Chiesa positivista” (che egli fonda nel 1849), e i cui caratteri essenziali sono tracciati nei suoi ultimi scritti: il Catechismo positivista del 1852 e il Sistema di politica positiva pubblicato tra il 1851 e il 1854. Tre anni più tardi, il 5 settembre 1857, Comte muore stroncato da un’emorragia interna. 1. In generale la speculazione di Comte: a. mira a restituire alla scienza il suo valore originario di conoscenza disinteressata, fine a sé stessa. b. considera la scienza un sapere del tutto insufficiente a promuovere il progresso sociale. c. muove dal bisogno di realizzare una rigenerazione universale di ordine politico e filosofico mediante la scienza. d. tende a sottolineare l’importanza della Rivoluzione francese nella costituzione dell’ordine sociale basato sulla scienza.

3 La filosofia positiva 3.1 Tra conservatori e progressisti L’essenziale della proposta metodologica e sistematica del positivismo comtiano è contenuto soprattutto nel suo Corso di filosofia positiva. In esso vengono per così dire al pettine tutti i nodi di un’epoca che agli occhi del suo autore appariva attraversata da due rivoluzioni radicali e strettamente intrecciate fra loro: la rivoluzione politica inglese e francese e la rivoluzione industriale nata in Inghilterra ma diffusasi ormai anche in Francia. Lo spirito “positivo” della scienza doveva dar prova di sé proprio nel connettere le esigenze emergenti da una situazione politica in via di trasformazione e alla ricerca di una composizione tra crisi e nuovo ordinamento, da un lato, e le nuove istanze propulsive della pratica e della cultura industriale dall’altro.

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L’esito filosoficamente più rilevante delle rivoluzioni politiche era il crollo di un assetto socio-politico, di origine medievale ma di lunga durata nell’Europa moderna, in cui una cultura prevalentemente teologica forniva la base di un regime economico di tipo feudale e di un regime politico di tipo militare. Ma ora che quel sistema si era frantumato, anche grazie all’irrompere di un inarrestabile industrialismo, l’esigenza più forte era quella di ricostituire un orizzonte culturale e sociale organico ai nuovi progressi della scienza e della tecnica: per questo era urgente ripensare il nesso tra scienza e società nella forma di un sistema organico del sapere – una sorta di versione rinnovata dell’Enciclopedia illuminista – che potesse costituire l’ossatura della nuova società industriale. E non è un caso se in questa sua impresa Comte guardi da un lato a Condorcet [ vol. 2, 19.6.3], l’illuminista rivoluzionario che aveva teorizzato il cammino della storia come un progresso inarrestabile della ragione emancipata da ogni vincolo di tipo religioso o politico, e dall’altro si confronti con i teorici della restaurazione cattolica, come Joseph de Maistre [ 9.2.1], che basavano la ripresa dell’ordine sociale sulla ricomposizione di un sistema organico di riferimenti spirituali, la ripresa della dottrina dell’origine divina del potere politico e il ruolo di supremo garante delle nazioni affidato al Papa. Il tentativo di Comte sarà quello di rifondare questo sistema organico della cultura e della società, ma non più su base teologica o metafisica, bensì su una base squisitamente scientifica e politica.

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1. La proposta filosofica di Comte quale emerge nel Corso di filosofia positiva consiste: a. nel creare un nuovo orizzonte culturale e sociale funzionale al progresso della scienza. V b. nel rifondare il sistema della cultura e della società su base metafisica. V c. nella costituzione di un ordine sociale da realizzare mediante un sistema organico di valori spirituali tradizionali. V d. nel tentativo di ricomporre le esigenze che emergono dal nuovo assetto politico e dall’imporsi della cultura industriale. V

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3.2 La positività della filosofia e la “legge dei tre stadi” Questa intenzione comtiana è già tutta racchiusa nell’accezione che egli dà al termine di “filosofia positiva”. In realtà la denominazione esatta avrebbe dovuto essere “filosofia naturale” o “filosofia delle scienze”, ma queste definizioni mancherebbero un elemento essenziale del progetto, perché alluderebbero solo alle scienze osservative della natura, mentre invece «per “filosofia positiva”, confrontata con le “scienze positive”», Comte intende «soltanto lo studio delle generalità delle diverse scienze, concepite come soggette ad un unico metodo, e come formanti le parti di un piano generale di ricerche». Oggetto della filosofia positiva è dunque lo studio dei fenomeni di ogni tipo (naturali come sociali), grazie alla scoperta di «una maniera uniforme di ragionare applicabile a tutti gli argomenti ai quali lo spirito umano può dedicarsi» [Corso di filosofia positiva, Avvertenza al vol. I]. Ma l’intelligenza umana non è da intendersi come una facoltà astratta sempre uguale a sé stessa, poiché al contrario essa è guidata da una legge evolutiva interna. Si tratta della grande idea da cui Comte ha più volte fatto derivare la sua intera filosofia, vale a dire la “legge dei tre stadi” [ T21], che segna insieme la dinamica naturale dello spirito, il carattere dominante delle epoche storiche e lo stesso sviluppo delle singole scienze.



Lo spirito umano, per sua natura, impiega successivamente in ognuna delle sue ricerche tre metodi di filosofare, di cui il carattere è essenzialmente differente e anche radicalmente opposto: dapprima il metodo teologico, quindi il metodo metafisico, e infine il metodo positivo. Di qui, tre tipi di filosofie o di sistemi generali di concezioni sull’insieme dei fenomeni che si escludono a vicenda: la prima è il punto di partenza necessario dell’intelligenza umana; la terza il suo stadio fisso e definitivo; la seconda è unicamente destinata a servire da transizione. [Corso di filosofia positiva, lezione I]



Nello stadio teologico, caratterizzato dalla ricerca delle cause prime e dei princìpi vitali della realtà intera, si manifesta la tendenza dello spirito umano ad attribuire – per stupore o per paura – l’origine dei fenomeni a potenze invisibili, dapprima nella forma di un “feticismo”,

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secondo cui ogni cosa porta nascosto dentro di sé come se fosse la sua “anima” il suo principio vitale; poi nella forma di un “politeismo”, con il quale le cause vengono identificate con molteplici entità immaginarie chiamate “dèi”; infine nella forma del “monoteismo”, per la quale le diverse spiegazioni si concentrano in un unico principio trascendente e assoluto. Di particolare rilievo a livello storico è la corrispondenza della fase politeistica della mente umana con la società militarizzata e schiavista dei Greci e dei Romani, e della fase monoteista con il cattolicesimo medievale. E sarà proprio grazie allo sviluppo interno del monoteismo, che ha indotto gli uomini a studiare la realtà come dipendente unitariamente da un unico principio creatore, che lo stadio teologico cederà il passo a quello metafisico. Anche nello stadio metafisico l’intelligenza umana cerca il principio e le cause della realtà, ma non le trova più in “agenti soprannaturali”, bensì in “forze astratte”, cioè in entità concepite dalla ragione umana come «inerenti ai diversi esseri del mondo» e capaci di generare tutti i fenomeni osservati (come succede per esempio con l’etere, la sostanza incorruttibile di cui sono fatti i cieli nel sistema aristotelico-tolemaico o le affinità elettive tra gli elementi chimici). Ciò che contraddistingue storicamente lo stadio metafisico è l’imporsi di un sempre più acuto atteggiamento “critico”: e difatti per Comte la metafisica è proprio l’emblema del mondo moderno, sviluppatosi a partire dalla Riforma protestante e poi sfociato nell’Illuminismo e nella Rivoluzione. Ma quanto più la ragione concepisce la natura come «una sola grande entità generale», governata da forze generali e astratte, tanto più matura la convinzione che queste ultime non potranno mai essere intese come “nozioni assolute”, e quindi lo spirito umano «rinuncia a cercare l’origine e il fine dell’Universo e a conoscere le cause intime dei fenomeni» e si dedica piuttosto a scoprire – nell’uso congiunto di ragione ed esperienza – le loro «leggi effettive, ossia le loro relazioni invariabili di somiglianza e successione» [Corso di filosofia positiva, lezione I]. I fatti cioè non si spiegano più mediante forze astratte, ma mediante la connessione tra diversi fenomeni particolari da un lato e un “fatto generale” dall’altro, di cui quei fenomeni sarebbero solo casi particolari. Il

fatto generale “più mirabile”, che Comte cita come esempio e paradigma di un metodo scientifico pienamente realizzato, è quello della gravitazione universale:



i fenomeni generali dell’Universo sono spiegati, per quanto è possibile, dalla legge della gravitazione newtoniana, perché, da un lato questa bella teoria ci mostra tutta l’immensa varietà dei fatti astronomici, come se non fosse che un solo e medesimo fatto osservato da diversi punti di vista – e cioè la tendenza costante di tutte le molecole ad attrarsi reciprocamente in ragione diretta delle loro masse e in ragione inversa al quadrato delle distanze – mentre, dall’altro lato, questo fatto generale ci è presentato come la semplice estensione di un fenomeno che ci è molto familiare e che, solo per questo, consideriamo come perfettamente conosciuto, vale a dire il peso dei corpi sulla superficie della Terra. Quanto a determinare ciò che sono in sé stesse questa attrazione e questo peso, quali ne sono le cause, sono problemi che consideriamo tutti come insolubili […] e che abbandoniamo con ragione all’immaginazione dei teologi e alle sottigliezze dei metafisici. [Corso di filosofia positiva, lezione I]



Con questo passaggio, dunque, siamo già entrati a pieno titolo nell’ultimo e definitivo passaggio dello spirito umano, cioè quello stadio positivo, che Comte definisce in questi termini:



il carattere fondamentale della filosofia positiva consiste nel considerare tutti i fenomeni come sottoposti a leggi naturali invariabili, la cui scoperta precisa e la cui riduzione al minor numero possibile costituiscono lo scopo dei nostri sforzi, considerando come assolutamente inaccessibile e privo di senso, secondo noi, la ricerca delle cosiddette “cause”, sia prime che finali. [Corso di filosofia positiva, lezione I]



Per questo motivo lo stadio positivo è quell’epoca dello spirito e della storia umana in cui diviene essenziale censire, classificare e connettere organicamente tra loro tutte le scienze, tenendo conto dello sviluppo sempre triadico (religiosometafisico-positivo) avvenuto o in corso di realizzazione in ciascuna di esse, per «coordinarle e presentarle come altrettanti rami di un medesimo tronco».

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parte I La filosofia dell’Ottocento 1. Per “filosofia positiva” Comte intende: a. lo studio e la classificazione dei fenomeni strettamente naturali. b. sostanzialmente ogni scienza osservativa della natura. c. una filosofia che miri a rintracciare gli elementi positivi ed utili in ogni scienza. d. lo studio dei fenomeni naturali e sociali condotto attraverso un unico metodo. 2. La “legge dei tre stadi” di Comte: a. riguarda l’evoluzione interna dell’intelligenza umana. b. segna lo sviluppo di tutte le scienze. c. spiega la cifra dominante delle varie epoche storiche. d. riguarda unicamente l’ambito metafisico della conoscenza.

V F V F V F V F

3. Secondo Comte, il rinvenire in “entità astratte” il principio primo della realtà pertiene: a. allo stadio teologico. b. al politeismo, interno allo stadio teologico. c. allo stadio metafisico. d. al cosiddetto stadio positivo. 4. Per Comte, la filosofia positiva: a. in certi casi può ricercare le cause finali dei fenomeni. b. ricerca soltanto le leggi invariabili dei fenomeni. c. è chiamata a ricercare l’essenza dei fenomeni. d. considera l’indagine metafisica difficile da intraprendere ma non priva di senso.

3.3 La classificazione delle scienze L’esigenza di fornire una vera e propria classificazione delle scienze scaturisce dal rapido processo di specializzazione tecnico-scientifica che il mondo occidentale conosce tra il XVIII ed il XIX secolo, e a cui si accompagna quella frantumazione del sapere – inevitabile conseguenza della divisione del lavoro intellettuale – causa di un crescente impoverimento culturale e morale. Scongiurarne il rischio è l’obiettivo del disegno enciclopedico dell’opera comtiana. Ma vi è anche un’altra, più profonda motivazione per questa classificazione, e cioè ripercorrere le diverse conoscenze acquisite dallo spirito umano nel corso della storia, per arrivare infine a vedere come il compimento del piano sia costituito dalla fisica sociale o sociologia. A questo riguardo la “legge dei tre stadi” fornisce secondo Comte un criterio fondamentale per classificare le scienze, giacché essa permette di verificare non solo il grado di evoluzione delle singole scienze e il loro rispettivo posto all’interno del piano generale, ma anche il grado di compimento raggiunto dall’intero sapere umano, e i compiti che ancora esso deve affrontare

Il piano del Corso di filosofia positiva 

Calcolo

MATEMATICA   Geometria Meccanica razionale

SCIENZE DEI CORPI BRUTI   ASTRONOMIA FISICA CHIMICA Astronomia geometrica Barologia Chimica inorganica Astronomia meccanica Tecnologia Chimica organica Cosmogonia positiva Acustica Ottica Elettrologia 

SCIENZE DEI CORPI ORGANIZZATI   FISIOLOGIA FISICA SOCIALE O SOCIOLOGIA Struttura dei corpi viventi Metodo Classificazione dei corpi viventi Scienza Fisiologia vegetale Statica Fisiologia animale Dinamica Fisiologia intellettuale e affettiva Studio storico del cammino della civiltà    Epoca teologica

Epoca metafisica

Epoca positiva

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La classificazione delle scienze in Comte SCIENZE CONCRETE

FISICA CELESTE

 TEORIA FISICA INORGANICA   FISICA TERRESTRE   ATTIVITÀ UMANE SCIENZE ASTRATTE   PRATICA FISIOLOGIA FISICA ORGANICA  FISICA SOCIALE

nell’epoca positiva. Il piano generale del Corso di filosofia positiva può dunque essere letto come una storia dello spirito umano e come il compito dell’avvenire. Per quanto riguarda la storia interna delle scienze, ciascuna di esse ha dei tempi di sviluppo differenti, e se la matematica, l’astronomia, la fisica, la chimica e la fisiologia hanno già raggiunto l’ultimo stadio evolutivo, la sociologia deve ancora costituirsi come scienza positiva. E per quanto Comte condivida la fiducia illuministica nel progresso intellettuale dello spirito umano, è altrettanto innegabile la sua intenzione di riconoscere il valore di tutte le tappe storiche attraverso cui l’evoluzione scientifica ha avuto luogo. Questo spiega per esempio l’importanza dello stadio teologico quale momento di avvio del processo evolutivo delle scienze. Se è vero infatti che alla base del metodo positivo vi è l’osservazione, bisogna anche riconoscere che nessuna osservazione sarebbe possibile se non all’interno di un quadro teorico in grado di assicurare un legame organico tra i fenomeni osservati. E le concezioni risalenti allo stadio teologico hanno appunto costituito una prima, importante enunciazione di questo piano organico del sapere:



Così lo spirito umano, alla sua nascita, pressato tra la necessità di osservare per formarsi teorie reali e la necessità non meno imperiosa di crearsi una teoria, quale che sia, per sollevarsi ad osservazioni continue, si sarebbe trovato chiuso in un circolo vizioso, dal quale non avrebbe mai avuto la possibilità di uscire, se non si fosse fortunatamente aperta una via d’uscita naturale attraverso lo sviluppo spontaneo delle concezioni teologiche che hanno offerto un punto di collegamento ai suoi sforzi e fornito un alimento alla sua attività. Tale è, indipendentemente dalle altre considerazioni sociali che vi si ricollegano

[…], il motivo fondamentale che dimostra la necessità logica del carattere teologico della filosofia primitiva. [Corso di filosofia positiva, lezione I]



Quanto invece alla classificazione delle scienze a partire dall’osservazione dei rispettivi oggetti, essa ha lo scopo di stabilire dei rapporti di subordinazione fra le diverse discipline, fondati in primo luogo sul loro grado di semplicità: la sequenza gerarchica che ne scaturisce muove perciò dalle scienze più astratte e generali verso quelle più specializzate e complesse. Ciò si traduce, poi, nell’elaborazione di un prospetto complessivo di tutte le conoscenze scientifiche, in grado di riprodurre l’ordine di successione con cui queste sono entrate nella fase positiva. In tal senso, nella scala enciclopedica l’ordine logico delle scienze coincide con l’ordine storico del loro sviluppo – dal momento che le scienze più semplici sono anche le più antiche – e con l’ordine pedagogico del loro apprendimento, poiché la comprensione di una scienza presuppone che si conoscano i princìpi di quelle che la precedono. Comte distingue innanzitutto tra conoscenze teoriche (cioè le scienze propriamente dette) e conoscenze pratiche. Quelle teoriche sono a loro volta divise in astratte (ossia le scienze che si occupano dei fenomeni generali) e concrete (vale a dire quelle che studiano i fenomeni particolari). L’indagine comtiana si limita alle scienze astratte, che sono tutte scienze della natura, distinguibili in fisica inorganica e fisica organica. La prima sarà anzitutto fisica celeste (o astronomia) e poi fisica terrestre (fisica propriamente detta e chimica); la seconda – presentandosi in tutti gli esseri viventi due ordini di fenomeni distinti, quelli relativi all’individuo e quelli relativi alla specie – si articolerà in fisiologia e fisica sociale (o sociologia). In sintesi:

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la filosofia positiva è naturalmente divisa in cinque scienze fondamentali, la cui successione è determinata da una subordinazione necessaria e invariabile, fondata, indipendentemente da ogni opinione ipotetica, sulla semplice comparazione approfondita dei fenomeni corrispondenti: l’astronomia, la fisica, la chimica, la fisiologia e infine la fisica sociale. La prima considera i fenomeni più generali, più semplici, più astratti e più lontani dall’umanità; essi influiscono su tutti gli altri fenomeni, ma non ne subiscono l’influenza. I fenomeni considerati dall’ultima sono, al contrario, i più particolari, più complessi, più concreti e più direttamente interessanti per l’uomo. Essi dipendono più o meno da tutti i fenomeni precedenti, senza esercitare su di essi nessuna influenza. [Corso di filosofia positiva, lezione II]



Mentre nel piano generale del Corso la matematica occupa il primo posto, essa è assente invece nella classificazione storico-sistematica delle scienze. La ragione sta nel fatto che essa, avendo come oggetto «la misura delle grandezze», costituisce per Comte il presupposto e la base di ogni ricerca scientifico-positiva: lo «spirito matematico» di ogni scienza consiste infatti nel «considerare sempre come legate tra loro tutte le quantità che un fenomeno può presentare», sia quelle che si possono determinare direttamente, sia quelle che possono esserlo solo indirettamente, in quanto dedotte dalle prime. In tal senso «è attraverso lo studio della matematica, e solo attraverso esso, che ci si può fare un’idea esatta e approfondita di ciò che è una scienza» [Corso di filosofia positiva, lezione III]. Anche la logica e la psicologia non fanno parte della gerarchia delle scienze fondamentali. La logica non ne fa parte perché costituisce il metodo concretamente impiegato in ogni singola branca del sapere, e quindi non può essere indagata separatamente dalle ricerche a cui si applica: e se è vero che tutte le teorie scientifiche sono come dei «grandi fatti logici», solo attraverso l’osservazione di questi fatti «ci si può innalzare alla conoscenza delle leggi logiche». La psicologia, invece, è ritenuta da Comte una scienza semplicemente impossibile, in quanto noi non riusciremo mai ad osservare i fenomeni della nostra interiorità (e tanto meno dell’interiorità degli altri uomini) nell’atto stesso in cui essi si verificano:



per una necessità insuperabile, lo spirito umano può osservare direttamente tutti i fenomeni, eccetto i suoi propri. E invero, da chi sarebbe fatta l’osservazione? […] L’individuo pensante non può dividersi in due, di cui l’uno ragioni, mentre l’altro lo guardi ragionare. Essendo in questo caso identici l’organo osservato e l’organo osservatore, come potrebbe aver luogo l’osservazione? [Corso di filosofia positiva, lezione I]



I nostri atti interiori possono essere studiati non come oggetti della psicologia, ma solo della fisica, cioè in riferimento ai meccanismi cerebrali che li producono (e che sono trattati dalla fisiologia), o ai comportamenti che ne derivano (e che rientrano nella fisica sociale). Per conoscere bisogna sempre separare il soggetto dall’oggetto, e quindi l’“io” umano potrà essere o l’uno o l’altro, mai le due cose insieme. Il che vuol dire che per Comte a rigore l’autocoscienza dell’uomo non potrà mai rientrare in un sapere di tipo “oggettivo”: ciò che io sono in me stesso può essere osservato solo dal di fuori, mai dall’interno, e quindi l’io va tendenzialmente ridotto a ciò che le diverse scienze riescono ad osservare di esso. Tenendo dunque presente la scala gerarchica delle scienze, non ci resta che segnalare la posizione di vertice occupata dalla fisica sociale che, in quanto scienza della società, costituisce la conclusione e la sintesi di tutto il sapere, e cioè il contesto di riferimento cui tutte le conoscenze sono destinate. 1. La necessità di una classificazione delle scienze in Comte si spiega: a. in base alla volontà di scongiurare la frantumazione del sapere. b. in base alla volontà di promuovere una sempre più netta specializzazione del sapere scientifico. c. tenendo conto del fatto che ogni scienza attraversa tre stadi di sviluppo. d. considerando che l’urgenza di Comte è quella di mostrare che le varie conoscenze prodottesi nel tempo culminino nella fisica sociale.

V F V F V F V F

2. Considerando la storia interna delle singole scienze, per Comte: a. lo stadio teologico non riveste alcuna importanza. V b. lo stadio teologico ha costituito la prima tappa per costruire un piano organico del sapere. V c. l’osservazione nasce soltanto nello stadio positivo. V d. il metodo osservativo si dà indipendentemente dalla formulazione di un qualsiasi quadro teorico. V

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Auguste Comte capitolo 7 3. Nella classificazione comtiana delle scienze a partire dai loro oggetti: a. la fisica sociale influenza la chimica e la fisiologia. V F b. i fenomeni della fisica sociale dipendono dai fenomeni delle scienze precedenti. V F c. si tiene conto del criterio della maggiore o minore semplicità delle scienze. V F d. l’astronomia considera i fenomeni più complessi e concreti. V F 4. L’esclusione della psicologia nella classificazione storico-sistematica delle scienze in Comte si motiva: a. in ragione del fatto che l’io osservante e l’io osservato non possono coincidere. b. in base la fatto che essa è presupposta implicitamente in ogni scienza. c. considerando che il suo metodo è comune a quello di tutte le altre scienze. d. in ragione del fatto che l’io non esiste affatto.

4 La nascita della sociologia 4.1 Il metodo dell’osservazione sociale Concepita come la scienza a cui tutte le altre sono subordinate e finalizzate, la fisica sociale o sociologia, come la chiama Comte per la prima volta, è un sapere relativo alle leggi riguardanti l’esistenza, l’organizzazione e lo sviluppo complessivo della società. La fisica sociale, che occupa buona parte del Corso di filosofia positiva, non è solo rilevante per il fatto che in essa si tenta di affrontare e risolvere a livello scientifico la totalità degli interessi e dei bisogni dell’uomo, ma anche perché grazie ad essa si può finalmente porre rimedio secondo Comte a quella mancanza di sistematicità e organicità tra le diverse altre scienze, mostrando che tutte quante sono finalizzate alla costruzione di una società veramente compiuta. Alla fisica sociale Comte assegna lo stesso ruolo che da Bacon in poi la filosofia positiva aveva riconosciuto alle scienze della natura, e cioè consentire all’uomo il pieno controllo dei fenomeni oggetto della sua osservazione. Il fine ultimo della sociologia, dunque, non sarà solo descrittivo, ma anche prescrittivo, e consisterà nella liberazione della società moderna dalle sue tendenze dissolutive, riconducendola ad una organizzazio-

ne più evoluta e più solida di quella fondata sulla filosofia teologica e su quella metafisica. La sociologia si ricollega organicamente, portandola a supremo compimento, all’intera evoluzione delle scienze antiche e moderne, e soprattutto essa si ricollega alle scienze biologiche riguardanti i corpi viventi, e appartenenti alla branca della “fisiologia”. Al tempo stesso però Comte sottolinea con forza il carattere di autonomia della fisica sociale, e il fatto che essa partecipa in una maniera sua propria a quel metodo fondamentale che caratterizza tutte le scienze nella loro fase “positiva”. Se infatti ogni conoscenza scientifica consiste sempre e inevitabilmente nella scoperta di leggi invariabili che connettono tra loro una molteplicità di fatti osservati, in sociologia tale invariabilità non significa ritenere che la società umana risponda sempre a regole immutabili e fissate una volta per tutte: questa è piuttosto la concezione del pensiero teologico (che fissa l’ordine sociale come un feticcio) e del pensiero metafisico (che invece idolatra il progresso disordinato della società).



Il solo pensiero d’una previsione razionale suppone dunque, prima di tutto, che lo spirito umano abbia definitivamente abbandonato, in filosofia politica, la regione delle idealità metafisiche, per stabilirsi definitivamente sulla terra delle realtà osservate, mediante una sistematica subordinazione, diretta e continua, dell’immaginazione all’osservazione; essa esige, con un’autorità non meno evidente, che le concezioni politiche cessino di essere assolute, per diventare costantemente relative allo stato regolarmente variabile della civiltà umana. [Corso di filosofia positiva, lezione XLVIII]



La filosofia positiva porta dunque a relativizzare tutte le concezioni che abbiano la pretesa di presentarsi come assolute, e a stabilire come necessario o invariabile proprio il principio della mutazione storica. In altri termini, le leggi della fisica sociale sono leggi del mutamento storico: proprio per questo esse permettono di prevedere con certezza scientifica l’andamento della società e ancor di più sono chiamate a favorirlo o a impedirlo, rispetto a ciò che la scienza stessa stabilisce essere il bene della società e degli uomini. Per quanto riguarda poi la peculiare applicazione del metodo positivo in sociologia, esso

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dipende dall’alto grado di complessità che caratterizza il suo oggetto (in questo simile all’oggetto della biologia, cioè l’essere vivente) e richiede di abbandonare il procedimento di indagine utilizzato dalle scienze inorganiche – consistente nel risalire dal particolare all’universale – per seguire invece la direzione opposta, cioè quella che discende dalla totalità dei fenomeni alle loro singole determinazioni. La sociologia, in altri termini, deve procedere dallo studio della società a quello dell’individuo, e per questo il procedimento ad essa più consono sarà quello della comparazione storica: solo analizzando le forme di vita associata umana in rapporto a quelle animali e soprattutto paragonando l’organizzazione e l’evoluzione della società presente rispetto a quelle del passato, si potrà infatti tentare una previsione razionale dell’avvenire.

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1. Per Comte la sociologia: a. consiste nell’individuare leggi invariabili assolute nella società alla maniera delle altre scienze positive. b. ha come suo unico scopo quello di descrivere i fenomeni sociali. c. deve individuare come legge invariabile della società la mutazione storica. d. ha lo scopo di prevedere l’andamento della società, usando il metodo della comparazione storica.

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4.2 Statica e dinamica della società Analogamente a quanto succede nella biologia, in cui i corpi viventi sono studiati sia “staticamente”, cioè nella loro struttura anatomica e attraverso le funzioni delle singole parti, sia “dinamicamente”, cioè nell’attività fisiologica con cui quei corpi si muovono, anche nella sociologia si può distinguere per Comte tra una “statica sociale” e una “dinamica sociale”. La statica sociale fornisce le leggi di organizzazione della società, cioè l’“ordine spontaneo” che sempre sussiste in un corpo sociale, anche nei momenti di crisi o di trapasso da un’epoca all’altra. Tale ordine si basa sulla relazione necessaria che intercorre, in tutte le forme e i momenti della vita e della società umana, tra lo “spirito di conservazione” e lo

“spirito di miglioramento”. A livello del singolo individuo, si tratta della relazione (armonica o antagonistica a seconda dei casi) tra gli istinti personali di tipo egoistico e «l’irresistibile tendenza sociale della natura umana». E a questo proposito Comte osserva che «le inclinazioni sociali sono le sole a produrre e a mantenere in senso eminente la felicità privata» [Corso di filosofia positiva, lezione L]. Ma la società per Comte non è composta di individui, bensì di unità che sono sociali già dall’inizio, cioè da unità familiari. La famiglia è il nucleo fondamentale e originario della società non solo in senso biologico-riproduttivo, ma in senso prettamente politico, perché è solo in essa che l’uomo, pur obbedendo ai suoi istinti individuali, vive con gli altri e per gli altri. Ma è solo nel passaggio dal nucleo familiare alla vera e propria società organizzata che la socialità ancora istintiva dell’uomo (la sua simpatia per gli altri) diviene “sentimento di cooperazione” e “solidarietà”, quell’armonia spontanea che sussiste tra le parti dell’organismo sociale, e a cui Comte dà il nome di “consenso”. È da questo consenso – inteso come una tendenza innata negli uomini – che sorge la società, non da patti stipulati artificialmente per garantire gli interessi individuali. Anzi, esattamente al contrario, per comprendere e valutare la natura e la tenuta dei contratti sociali e delle forme politiche affermatesi nelle diverse epoche storiche si dovrà utilizzare come criterio di giudizio il consenso tipico della socialità naturale. La dinamica sociale si occupa invece delle leggi dello sviluppo della società, cioè del “progresso naturale dell’umanità”, sempre attraverso una comparazione, anzi una stretta analogia, tra il livello dell’individuo, quello della specie e quello della società. Qui Comte intende descrivere le forze, le condizioni ed i tratti salienti dell’evoluzione sociale, e a questo proposito individua come fattore evolutivo supremo il fatto che tra le facoltà umane la ragione manifesti in misura crescente la sua supremazia rispetto all’immaginazione. Lo sviluppo delle capacità intellettuali svolge per Comte il ruolo di vero motore del progresso sociale, per il fatto che quanto più gli uomini usano tali capacità, tanto più fanno emergere l’opposizione radicale rispetto ad ogni spiegazione trascendente della vita e della società e la

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totale eliminazione di ogni ipotesi di causa originaria o di principio primo, in favore dell’osservazione di ciò che di fatto è successo ed è osservabile nella storia dell’umanità. L’uomo e la società, in altri termini, si spiegano solo in base a sé stessi e solo a partire da sé possono affrontare le proprie crisi e risolvere perfettamente i loro bisogni. Si capisce dunque la scelta da parte di Comte di far coincidere la dinamica sociale con una vera e propria filosofia della storia, in cui si ripercorrono i tre stadi teologico, metafisico e positivo a livello sistematico e a livello storico (età greco-romana e cattolico-medievale, età moderna e rivoluzionaria, età industriale contemporanea). In questo schema evolutivo Comte intreccia strettamente diversi fili: il quadro filosofico che costituisce di volta in volta il presupposto teorico di ogni epoca, il livello di spiegazione raggiunto dalle singole conoscenze, l’assetto economico, militare e politico delle diverse società e, non da ultimo, le motivazioni morali che si impongono nelle varie epoche. E anche in questo caso, la dinamica sociale, vale a dire l’insieme delle leggi del progresso, ha un esito del tutto necessario: l’ingresso trionfale dello spirito nell’età positiva.

1. Con il termine “consenso” Comte intende: a. la spontanea armonia esistente fra le parti dell’organismo sociale al di là dell’istintiva simpatia per gli altri. b. una tendenza acquisita dagli uomini attraverso l’educazione che la società esercita su ciascun membro. c. ciò che nasce dal patto artificiale stipulato dagli individui nel momento in cui danno luogo alle società organizzate. d. la naturale tendenza dell’uomo a condividere le stesse opinioni degli altri. 2. In Comte le leggi di sviluppo della società sono studiate: a. all’interno della statica sociale. b. all’interno dell’indagine sulla famiglia. c. all’interno della descrizione del passaggio dalla famiglia alla società organizzata. d. dalla dinamica sociale. 3. Per Comte, il progresso naturale dell’umanità è sostanzialmente realizzato: a. dalla facoltà umana dell’immaginazione. b. dalla ricerca umana di spiegazioni trascendenti e teologiche sulla realtà. c. dall’esercizio della ragione umana. d. dalla metafisica.

5 La società “positiva” La politica peculiare dello stadio positivo è chiamata da Comte “sociocrazia”: essa non si basa sulla capacità dei diversi regimi politici o forme dello Stato di garantire il bene o l’utile della società, ma costituisce un regime fondato sulla scienza (in questo caso la sociologia). Il suo obiettivo è quello di eliminare dalla società gli elementi di conflitto e di concorrenza tra gli individui, realizzando la piena solidarietà delle parti dell’organismo, in grado di comporre le relazioni industriali secondo le leggi dell’armonia universale. Il potere supremo in questo nuovo tipo di società è quello spirituale, consistente nell’orientare in senso “positivo” le concezioni e i comportamenti umani, ed è affidato essenzialmente agli scienziati e ai filosofi, ma anche gli artisti (la cosiddetta “classe speculativa”). Distinto e subordinato rispetto al potere spirituale è il potere temporale, consistente nella guida delle strutture politiche e dei processi economici e affidato a figure di tecnici (la cosiddetta “classe attiva”). Non deve meravigliare il fatto che per Comte il vertice del potere sociale non sia di tipo tecnico e organizzativo ma di tipo spirituale e morale. Questo però non significa affatto che egli separi la sfera della conoscenza scientifica da quella dei valori e dei comportamenti etici: al contrario, si tratta per lui di affermare che lo spirito positivo maturatosi all’interno dello sviluppo scientifico non riguarda solo un settore particolare del pensiero e dell’attività umana, ma il destino intero dell’umanità. In altri termini il potere morale è distinto da quello politico ed è superiore ad esso proprio per il trionfo di una visione totalmente scientifica o “positiva” del mondo. E difatti il suo compito è squisitamente pedagogico: educare a comportamenti che perseguano il bene dell’intera umanità secondo i dettami della fisica sociale.



La morale positiva tenderà a rappresentare sempre più comunemente la felicità di ognuno come legata al più completo sviluppo degli atti benevoli e dei sentimenti di affinità nei confronti di tutta la nostra specie e anche, in seguito, per un’indispensabile estensione graduale rispetto a

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tutti gli esseri sensibili che ci sono subordinati, proporzionalmente alla loro dignità animale e alla loro utilità sociale. [Corso di filosofia positiva, lezione LX]



Tale impostazione della vita sociale porta Comte a considerare le stesse istituzioni politiche tradizionali come un residuo del passato: nel politeismo antico la morale era completamente subordinata alla politica, mentre in epoca medievale la socialità naturale tra gli uomini era inquadrata in un sistema organico perfettamente strutturato, in cui anche la divisione tra potere spirituale e potere temporale o tra morale e politica si reggeva per il ricorso ad un ordine soprannaturale. Ora invece i tempi chiedono un cambiamento radicale, in cui si abbandoni non tanto l’idea della struttura organica della società – senza la quale nessun progresso evolutivo sarebbe permanente – ma il principio cattolico che stava alla sua base nel Medioevo, sostituendolo con il principio di una morale rigorosamente laica, immanentistica e scientificamente fondata. Ma un netto distacco va operato anche nei confronti dei progetti politici propri dello stadio metafisico, improntati all’Illuminismo, come il principio della libertà individuale e quello della sovranità popolare o del suffragio universale. La gerarchia sociale non dipende certamente da un diritto divino, ma neanche da un diritto elettivo o da una preminenza economica o di classe, ma dallo stesso ordine intellettuale che vige nelle leggi della scienza. Un’unica grande gerarchizzazione attraversa l’intero corpo sociale a tutti i suoi livelli, sulla base del principio secondo cui nell’ordine complessivo risulta sempre superiore ciò che è più generale, e che quindi esprime al massimo grado la razionalità (come capacità di astrazione), e inferiore ciò che è legato prevalentemente a fattori particolari e quindi parziali. Analogicamente, dunque, se nella gerarchia delle scienze la fisica sociale è superiore all’astronomia, nella famiglia l’uomo è superiore rispetto alla donna per una maggiore capacità di impegno intellettuale, e quindi di astrazione in senso scientifico, rispetto all’impegno prevalentemente fisico e morale svolto dalla donna nell’economia familiare. Allo stesso modo nell’organizzazione concreta della società la preminenza dei rappresentanti del potere spirituale è giustificata dalla loro maggiore capacità di

astrazione e coordinazione, e sulla base del medesimo principio, la gerarchia della classe attiva muoverà dai banchieri ai commercianti, ai manifatturieri, agli agricoltori. 1. Nella “società positiva” di Comte: a. il vertice del potere sociale è affidato alla cosiddetta classe attiva. b. il potere morale è superiore al potere strettamente politico. c. il potere morale ha il compito di educare al bene dell’intera umanità in base ai dettami della scienza. d. il bene dell’intera umanità si realizza attraverso il consolidamento dei princìpi illuministici della sovranità popolare e del suffragio universale.

V F V F V F V F

6 La scienza come metafisica dell’umanità Secondo la legge dei tre stadi, il compimento dello spirito umano viene raggiunto nel momento in cui la scienza diviene la filosofia dell’umanità intera, cioè il suo quadro di riferimento unico e onnicomprensivo, che va a sostituire completamente tutti i princìpi trascendenti o puramente astratti di tipo teologico-metafisico. Era assai facile, tuttavia, che questa pretesa totalizzante della scienza, intesa come spiegazione, previsione e creazione dell’umanità dal suo stesso interno, finisse per assumere quei connotati di assolutezza e dogmaticità che erano stati imputati ai sistemi teologici trascendenti. Era facile, in altri termini, che la scienza divenisse una nuova religione. Ed è quello che infatti succede nell’ultimo sviluppo del pensiero comtiano, nel quale viene amplificato – sino a raggiungere un livello di adorazione mistica – il grande potere dello spirito scientifico; in altri termini, esso non esprime più soltanto una capacità umana, per quanto la più elevata e la più efficace, ma si identifica totalmente con l’umanità. L’idea più rilevante di questo sviluppo religioso della filosofia positiva sta nel fatto che tutto ciò che è particolare o individuale, compresa l’individualità del singolo uomo, viene a perdere progressivamente di peso e di importanza, e il suo valore viene identificato nella pura generalità sociale. La scienza infatti si contraddistingue per essere una modalità di conoscenza del

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generale rispetto al particolare: questo porterà Comte a delineare una vera e propria “ontologia” positivista, in cui l’essere di ogni singolarità è destinato ad evolvere nel seno della generalità. Già nel Corso di filosofia positiva Comte aveva insistito sulla strettissima coappartenenza di scienza, ordine sociale e fine morale degli uomini, nella prospettiva di una sempre maggiore generalizzazione delle individualità:



La filosofia positiva, costituendo ovunque la preponderanza diretta, logica e scientifica, del punto di vista sociale, non potrebbe certo disconoscerla mai riguardo alla stessa morale, che deve offrirne sempre la principale applicazione, e in cui, fino al caso puramente individuale, tutto deve essere incessantemente riferito non all’uomo, ma all’umanità. [Corso di filosofia positiva, lezione LX]



N ell’opera intitolata significativamente Sistema di politica positiva o Trattato di sociologia istituente la religione dell’umanità, Comte pensa che sia arrivato il momento per passare dal progetto intellettuale di rigenerazione positiva della società alla vera e propria fondazione della società positiva sotto forma di una nuova Chiesa, espressione di una religione di tipo umanitarista, con dogmi, precetti morali, liturgie e sacramenti, in tutto e per tutto ricalcata sul modello della Chiesa cattolica, con la significativa eccezione del riferimento al Dio trascendente. L’Umanità (questa volta scritto con la maiuscola) è chiamata a celebrare sé stessa, e Comte si autoconsacra come il suo grande “sacerdote”. Ai suoi occhi la novità della nuova fede, rispetto all’antica, sta nel fatto che essa non contrasta più con il progresso scientifico, ma vi si accorda pienamente, anzi come fede è essa stessa “scienza”. L’oggetto di questa fede-scienza è il “GrandeEssere” (sinonimo in senso ontologico dell’Umanità), che non coincide con Dio o con una sostanza metafisica ma con «l’insieme degli esseri passati, presenti e futuri che concorrono liberamente a perfezionare l’ordine universale». In questo nuovo “culto dell’Umanità” tutti i singoli uomini «devono essere concepiti non tanto come esseri separati, bensì come i diversi organi di un solo Grande-Essere» [Sistema di politica positiva, vol. II, parte I, cap. 1]. L’Umanità, dunque, non è appena un concetto biologico, ma si configura piuttosto come la

tradizione ininterrotta del genere umano, comprendente tutti gli elementi naturali, culturali e spirituali che costituiscono l’uomo e che, secondo un disegno provvidenziale, si sono sviluppati progressivamente sino a giungere all’età della piena maturità positiva. In questo sviluppo evolutivo risiede l’unica possibile immortalità degli uomini, non affidata ad un’anima individuale che viva eternamente, ma all’eterno ricordo che dei propri meriti, cioè del proprio contributo alla collettività, è conservato dagli altri uomini. In una Chiesa senza più Dio, come quella che Comte si propone di istituire e di guidare, restano solo delle forme e delle formule impersonali, cioè puramente collettive, che non richiedono più la libera adesione della coscienza del singolo (giacché è il corpo sociale il soggetto della fede) né si riferiscono a un Padre o Signore personale, ma ad un essere puramente generale. Basti ricordare che il dogma della Trinità cristiana (Padre-Figlio-Spirito Santo) viene sostituito dalla trinità positivista del Grande-Essere, del Grande Feticcio (la Terra) e del Grande Mezzo (lo spazio); ma cambiano anche i sacramenti (come quelli della preparazione, dell’iniziazione e dell’ammissione nel Grande-Essere) e la gerarchia sacerdotale che deve amministrarli, costituita ora dagli scienziati come funzionari dell’Umanità; e si rinnova anche il calendario, che sostituisce alla memoria dei santi quella degli uomini che hanno dato lustro alla sapienza filosofica, scientifica, artistica e politica dell’Umanità. Da ultimo viene contemplata anche la preghiera, sebbene non vi sia più un Dio a cui chiedere ma solo il sentimento commosso dell’amore universale che si effonde e si scioglie nel seno dell’Umanità. Il progetto positivista, nato proprio per affermare la prevalenza della ragione rispetto all’immaginazione e delle osservazioni scientifiche rispetto alle astratte idee metafisiche, finisce paradossalmente in una grande costruzione di tipo “ecclesiastico”, in cui più che l’osservazione razionale sembra prevalere l’immaginazione fideistica. D’altronde Comte è chiaro: se la sociologia compie il sistema di tutte le scienze, a sua volta essa è compiuta dalla morale, in cui la religione positiva prende il posto della teologia medievale e l’altruismo sostituisce l’individualismo moderno. Non più l’io è il protagonista della conoscenza e della storia, ma l’Umanità che è in lui, e nella quale egli è destinato ad annullarsi.

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SINTESI CAPITOLO 7

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parte I La filosofia dell’Ottocento La scienza come sistema dell’ordine e del progresso sociale. La “filosofia positiva” per Comte (17981857) è una riflessione generale sullo sviluppo e sui compiti delle scienze e nel contempo rappresenta il più compiuto esito storico e sistematico della filosofia in quanto tale. Il progetto filosofico di Comte consiste nell’assumere la conoscenza di tipo matematico-sperimentale come un orizzonte onnicomprensivo, capace di descrivere, prevedere, determinare ed esaurire la realtà nei suoi molteplici fattori, sino a comprendere la sfera sociale e politica. Ai suoi occhi, infatti, la scienza si contraddistingue per la capacità di costruire e preservare l’ordine e il progresso della società. La filosofia positiva. La proposta metodologica e sistematica del positivismo comtiano è contenuta soprattutto nel Corso di filosofia positiva (1830-1842): di fronte alle contraddizioni dell’epoca, segnata da due rivoluzioni radicali (la rivoluzione politica inglese e francese e la rivoluzione industriale), per Comte lo spirito “positivo” della scienza è chiamato a ricostituire un orizzonte culturale e sociale organico ai nuovi progressi della scienza e della tecnica, ma non più su base teologica o metafisica, bensì su base squisitamente scientifica e politica. Con l’espressione “filosofia positiva”, Comte intende lo studio delle generalità delle diverse scienze, soggette ad un unico metodo e formanti un piano generale di ricerche. L’intelligenza umana è guidata da una legge evolutiva interna che Comte chiama legge dei tre stadi: questa segna insieme la dinamica naturale dello spirito, il carattere dominante delle epoche storiche e lo stesso sviluppo delle singole scienze. Il primo stadio, quello teologico, è caratterizzato dalla ricerca delle cause prime e dei princìpi vitali della realtà intera: lo spirito umano attribuisce l’origine dei fenomeni a potenze invisibili (feticismo, politeismo, monoteismo). Nel secondo stadio, quello metafisico, l’intelligenza umana cerca il principio e le cause della realtà in “forze astratte”. Nel terzo stadio, quello positivo, la ragione si dedica a scoprire le leggi effettive dei fenomeni, ossia le loro relazioni invariabili di somiglianza e successione, mediante la connessione tra diversi fenomeni particolari da un lato e un

“fatto generale” dall’altro. Lo stadio positivo è quell’epoca dello spirito e della storia umana in cui diviene essenziale censire, classificare e connettere organicamente tra loro tutte le scienze, tenendo conto del loro sviluppo triadico. Per Comte vi sono almeno due ragioni che motivano la necessità di una classificazione delle scienze: scongiurare il rischio della frantumazione del sapere, conseguente alla specializzazione scientifica del suo tempo, e ripercorrere le diverse conoscenze acquisite dallo spirito umano nel corso della storia, per mostrare che il compimento del piano è costituito dalla fisica sociale o sociologia. La “legge dei tre stadi” costituisce il criterio della classificazione. Per quanto riguarda la storia interna delle scienze, la matematica, l’astronomia, la fisica, la chimica e la fisiologia hanno già raggiunto l’ultimo stadio evolutivo, mentre la sociologia deve ancora costituirsi come scienza positiva. Per quanto riguarda la classificazione delle scienze a partire dall’osservazione dei rispettivi oggetti, la sequenza gerarchica parte dalle scienze più astratte e generali verso quelle più specializzate e complesse. La fisica sociale costituisce la conclusione e la sintesi di tutto il sapere e cioè il contesto di riferimento cui tutte le conoscenze sono destinate. La nascita della sociologia. La fisica sociale o sociologia è un sapere relativo alle leggi riguardanti l’esistenza, l’organizzazione e lo sviluppo complessivo della società. Ad essa Comte assegna il compito di consentire all’uomo il pieno controllo dei fenomeni oggetto della sua osservazione, attribuendole non solo una finalità descrittiva, ma anche prescrittiva. Come ogni conoscenza scientifica, anche la sociologia consiste nella scoperta di leggi invariabili; ma tale invariabilità non significa ritenere che la società umana risponda sempre a regole immutabili, bensì che invariabile è proprio il principio della mutazione storica, in base al quale le leggi della fisica sociale sono leggi del mutamento storico. Nella sociologia Comte distingue tra una “statica sociale” e una “dinamica sociale”. La statica sociale fornisce le leggi di organizzazione della società, cioè l’“ordine spontaneo” esistente sempre in un corpo sociale basato sulla relazione necessaria tra lo “spirito

di conservazione” e lo “spirito di miglioramento”. La famiglia è il nucleo fondamentale e originario della società; ma è solo nel passaggio dal nucleo familiare alla società organizzata che la socialità ancora istintiva dell’uomo dà vita al “consenso”. La dinamica sociale si occupa invece delle leggi dello sviluppo della società, cioè del “progresso naturale dell’umanità”. Lo sviluppo delle capacità intellettuali svolge per Comte il ruolo di vero motore del progresso sociale, per il fatto che quanto più gli uomini usano tali capacità, tanto più fanno emergere l’opposizione radicale rispetto ad ogni spiegazione trascendente della vita e della società. L’insieme delle leggi del progresso ha come esito necessario l’ingresso trionfale dello spirito nell’età positiva. La società “positiva”. La politica dello stadio positivo è chiamata da Comte “sociocrazia”, un regime fondato sulla scienza. Il suo obiettivo è quello di eliminare dalla società gli elementi di conflitto e di concorrenza tra gli individui, realizzando la piena solidarietà delle parti dell’organismo. Il potere supremo è quello spirituale, affidato essenzialmente a scienziati, filosofi e artisti (classe speculativa). Subordinato ad esso è il potere temporale, consistente nella guida delle strutture politiche e dei processi economici e affidato a figure di tecnici (classe attiva). N ell’organizzazione concreta della società la preminenza dei rappresentanti del potere spirituale è giustificata dalla loro maggiore capacità di astrazione e coordinazione. La scienza come metafisica dell’umanità. N ell’ultimo sviluppo del pensiero comtiano, la pretesa totalizzante della scienza finisce per assumere quei connotati di assolutezza e di dogmaticità che erano stati imputati ai sistemi teologici trascendenti, e la scienza diviene una nuova religione, la religione dell’Umanità. L’idea più rilevante di questo esito sta nel fatto che l’individualità del singolo uomo viene a perdere progressivamente di importanza, e il suo valore viene identificato nella pura generalità sociale. Nel Sistema di politica positiva (18511854), Comte propugna la fondazione della società positiva sotto forma di una nuova Chiesa, espressione di una religione di tipo umanitarista.

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BIBLIOGRAFIA Fonti

Opere

Dell’opera fondamentale di Comte, il Corso di filosofia positiva, non è ancora disponibile un’edizione italiana completa. Una selezione antologica è offerta in: A. Comte, Filosofia positiva, a cura di A. Negri, Sansoni, Firenze 1964; A. Comte, Corso di filosofia positiva, a cura di A. Lunardon, La Scuola, Brescia 1974; A Comte, Antologia di scritti sociologici, a cura di F. Ferrarotti, il Mulino, Bologna 1977.

A. Comte, Discorso sullo spirito positivo, trad. di A. Negri, Laterza, Roma-Bari 1965.

· · ·

Le lezioni dalla 46 alla 54 sono invece contenute in: A. Comte, Corso di filosofia positiva, a cura di F. Ferrarotti, 2 voll., Utet, Torino 1979.

ESERCIZI

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Studi critici

• M. Larizza, Bandiera verde contro bandiera rossa. Auguste Comte e gli inizi della Société positiviste (1848-1852), il Mulino, Bologna 1999.

·

Sulla “religione dell’Umanità” ispirata anche dalla donna amata: G. Morra, La sociologia si chiama Clotilde. Comte e la religione dell’umanità, Spirali, Milano 1998; C. Cassina (a cura di), Sociologia, politica e religione: la filosofia di Comte per il XIX secolo, Plus, Pisa 2001.

Sul progetto comtiano di trasformare il suo pensiero in una forza di progresso sociale, attraverso l’organizzazione della Società positivista si veda:

Per un approfondimento del tema del “consenso” rinviamo a: F. Montanari Orsello, La teoria del consensus in Comte, Marsilio, Padova 1971.

Una sintetica presentazione del pensiero comtiano è offerta da: A. Negri, Introduzione a Comte, Laterza, Roma-Bari 20013.

·

Un profilo “d’autore” da parte di un altro celebre positivista è quello di: J.S. Mill, Auguste Comte e il positivismo, Unicopli, Milano 1986.

· · ·

1. Descrivi il progetto filosofico di Comte, specificando qual è il compito della “filosofia positiva” e che posto occupa nella storia dell’umanità (max 15 righe).

8.Spiega per quali ragioni la matematica, la logica e la psicologia non rientrano nella gerarchia delle scienze fondamentali (max 8 righe).

2. Perché l’impostazione mistico-religiosa che si afferma nell’ultima fase del pensiero di Comte rappresenta, secondo l’autore del manuale, solo un’apparente contraddizione rispetto alla precedente impostazione metodologica del filosofo francese? (max 5 righe)

9. Esplicita qual è la natura, il fine e il metodo della “fisica sociale” di Comte (max 8 righe).

3. Quale importanza riveste l’incontro con Saint-Simon negli anni della prima formazione di Comte? (max 5 righe)

11. Perché nella sociocrazia il potere spirituale è superiore rispetto a quello temporale? (max 5 righe)

4. Quali esigenze manifesta la società del suo tempo secondo Comte? E come può la filosofia positiva rispondere ad esse? (max 8 righe)

12. Quale principio è sotteso alla gerarchia sociale? (max 5 righe)

5. Chiarisci la differenza fra “filosofia positiva” e “scienze positive” per Comte (max 8 righe). 6. Elabora un testo sulla “legge dei tre stadi” di Comte, evidenziando come il carattere evolutivo della ragione si riverberi nelle varie epoche e nelle scienze (max 15 righe). 7. Quali ragioni inducono Comte a classificare tutte le scienze? E in base a quali criteri vengono classificate? (max 8 righe)

10. Illustra la differenza tra la “statica sociale” e la “dinamica sociale” (max 10 righe).

13. Descrivi i tratti generali della svolta mistico-religiosa di Comte, precisando: a. qual è il ruolo della scienza nell’orizzonte dello spirito umano; b. come si configura il rapporto uomo/Umanità (max 15 righe).

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L’epistemologia nell’Ottocento

1 Darwin e l’evoluzionismo L’Ottocento è stato il secolo dei grandi progressi nelle scienze della vita. Tali progressi sembravano inserirsi perfettamente nella concezione positivista della natura e dell’uomo [ 6], e spesso contribuirono ad affermarla e a diffonderla. A livello filosofico l’esito più clamoroso che ne derivò fu la messa in discussione radicale del creazionismo, e la sua sostituzione con la teoria dell’evoluzione delle specie. In effetti, ancora nei primi decenni del secolo, lo studio delle varie forme di vita e della loro interazione con l’ambiente era concepito all’interno della teologia naturale: ciascuna specie era vista cioè come l’attestazione della potenza e della perfezione divina, e ciò era di per sé sufficiente a far escludere qualsiasi ipotesi circa la capacità generativa della natura stessa. Un decisivo impulso a riflettere sull’esistenza di trasformazioni naturali in grado di dare origine alla varietà degli organismi viventi venne offerto dal biologo francese Jean Baptiste de Lamarck (1744-1829), uno dei primi sostenitori di una

concezione evoluzionista. Per quanto scarsamente suffragata da prove e fondata ancora su presupposti metafisici, la teoria di Lamarck contribuì ad accendere il dibattito sull’origine della vita, destinato a raggiungere il suo culmine intorno agli anni Quaranta del secolo. Concependo la natura come un eterno divenire, Lamarck giunse ad enunciare, nella sua Filosofia zoologica del 1809, il principio secondo cui, durante la vita di ogni individuo, le pressioni dell’ambiente esterno insieme a una sorta di impulso interno verso la perfezione, causano cambiamenti permanenti della forma e del funzionamento del corpo, che vengono poi trasmessi ai discendenti, determinando un lento mutamento della specie. Si trattava della teoria dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Come esempio, Lamarck proponeva quello delle giraffe: i loro antenati avrebbero avuto il collo corto, ma, allungandosi per brucare i germogli degli alberi più alti, ne avrebbero progressivamente sviluppato uno più lungo. Sebbene ancora influenzata dal naturalismo settecentesco, la teoria lamarckiana apriva la strada alle successive e fondamentali ricerche di Charles Darwin (Shrewsbury 1809-Londra 1882) e alla grande ondata di polemiche che esse sollevarono.

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Quando, nel 1831, Darwin si imbarcò sulla specie affini, pur trovandosi in aree geografiche nave da rilevamento Beagle per un viaggio di cirdiverse, presentavano somiglianze tali da indurcumnavigazione del globo, era solo un ventire ad ipotizzare la discendenza da progenitori duenne con un titolo di teologia conseguito prescomuni. Ambienti con caratteristiche morfoloso l’Università di Cambridge, ma con un’innata giche e climatiche simili, ma separati tra loro da passione per la storia naturale. Fu il botanico ostacoli naturali (come nel caso delle varie isole John Henslow che, resosi conto dei veri interessi dell’arcipelago delle Galapagos separate da gole del giovane, fece in modo che fosse nominato oceaniche profonde), presentavano invece una naturalista di bordo, consentendogli così di vivefauna differenziata, tale da escludere che l’amre quello che Darwin stesso considererà l’avvenibiente esterno potesse essere la causa primaria mento più importante della sua esistenza. N el dell’evoluzione e indurre ad ipotizzare che le corso del viaggio durato ben cinque anni – gran variazioni da una specie all’altra fossero del parte dei quali spesi lungo le coste del tutto casuali. E tuttavia variazioni casuali favoSudamerica – Darwin ebbe la possibilità di sturevoli, come può essere per esempio un becco diare piante ed animali sconosciuti al Vecchio più robusto in grado di garantire una maggiore Continente e di riflettere a fondo sulla nuova capacità di sfruttamento delle risorse alimentaipotesi avanzata dal geologo Charles Lyell ri disponibili, avvantaggiano gli individui dota(1797-1875), nota come teoria dell’uniformità. ti di tali caratteri, aumentando le loro probabiSecondo Lyell, il perenne mutamento dell’amlità di sopravvivere e riprodursi. biente terrestre – dovuto all’attività vulcanica o a Rifacendosi alle considerazioni sviluppate da fenomeni come l’erosione – era un processo lento Thomas Malthus [ Malthus e il principio economico della popolazione, p. 91], Darwin poteva ed uniforme che richiedeva un tempo geologico molto più lungo rispetto alle stime fondate sul La giraffa di Lamarck racconto biblico, e dunque sufficiente a consentire un’evoluzione delle specie al di fuori dell’ipotesi creazionista. Ma sostenere la possibilità dell’evoallunga allunga allunga luzione era cosa ben il collo il collo il collo diversa che spiegarne il meccanismo, ragion per cui Darwin trascorse il La giraffa di Darwin resto della sua vita a cercare le risposte ad un tale quesito. Le osservazioni condotte durante il suo dopo molte viaggio rappresentarono e molte uno strumento decisivo generazioni in tale direzione. Innanzitutto, Darwin rilevò la presenza di resti Trasformismo ed evoluzionismo fossili di animali estinti che mostravano una Il disegno evidenzia le differenze tra la teoria del naturalista francese Jean-Baptiste Lamarck grande somiglianza con (1744-1829), autore di una Filosofia zoologica (1809), e quella di Darwin. Secondo Lamarck, l’antenato originario dal collo corto, per raggiungere le foglie più alte degli alberi, allunga il animali attualmente esi- collo; dopo molte generazioni, sotto un “impulso” interiore, il collo si allunga. Secondo Darwin, stenti. N otò poi che in il gruppo originario presenta una variabilità nella lunghezza del collo: la selezione naturale assenza di barriere natu- favorisce gli esemplari con il collo più lungo, avendo essi maggiori possibilità di raggiungere le foglie poste più in alto. Questo carattere favorito passa alle generazioni successive; dopo molte rali insormontabili, in- generazioni, il gruppo presenta ancora della variabilità, ma mostra un generale aumento nella dividui appartenenti a lunghezza del collo.

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concludere che nella lotta per la sopravvivenza sono proprio i fattori ambientali che continuano a selezionare gli individui dotati di caratteri vantaggiosi; questi individui, poi, trasmettono tali caratteri alla prole, che a sua volta li trasmette alla generazione successiva, producendo in tal modo un vero e proprio cambiamento della specie. Le specie, dunque, evolvono per effetto di una selezione naturale [ T22] che sfrutta opportunisticamente ogni più piccola variazione capace di favorire l’adattamento all’ambiente, lasciando invece estinguersi tutti gli individui che di quei caratteri vantaggiosi non sono provvisti.

mai esistito, l’uomo non sarebbe stato esattamente quello che è ora. A meno di voler proprio chiudere gli occhi, noi possiamo, grazie alle nostre attuali cognizioni, riconoscere approssimativamente il nostro parentado; e non dobbiamo arrossirne. [L’origine dell’uomo, cap. VII, Conclusione]



Così, la dottrina evoluzionistica, producendo una nuova immagine del mondo naturale – esito non più di un benevolo disegno provvidenziale ma di una spietata competizione naturale – decretava di colpo la dissoluzione di una gerarchia divina di cui l’uomo era considerato



La lotta è un fenomeno sempre ricorrente e con esito variabile; tuttavia, nel corso del tempo le forze finiscono col bilanciarsi così perfettamente che il volto della natura si mantiene inalterato per lunghi periodi, benché sia indubitabile che la causa più insignificante potrebbe assicurare la vittoria di un essere organizzato su di un altro. La nostra ignoranza, però, è così grande […] che ci meravigliamo quando sentiamo parlare dell’estinzione di una specie e, non ravvisandone le cause, pensiamo a cataclismi distruttori del mondo e inventiamo leggi sulla durata delle forme viventi! [L’origine delle specie, cap. 3]



L’ondata di polemiche che le teorie darwiniane esposte nell’Origine delle specie (1859) suscitarono era destinata a crescere ulteriormente con la pubblicazione dell’Origine dell’uomo (1874), lo scritto in cui Darwin sostiene la derivazione dell’uomo da alcune specie ormai estinte di ominidi «somiglianti alle scimmie» [L’origine dell’uomo, cap. IV] avvalendosi di due tipi diversi di prove. Il primo, di carattere deduttivo, consiste nell’applicazione del principio generale dell’evoluzione anche all’uomo; il secondo è invece rappresentato dallo studio delle affinità morfologiche, fisiologiche e psicologiche dell’uomo con le scimmie antropomorfe:



Così abbiamo dato all’uomo una genealogia di prodigiosa lunghezza, ma non si può dire di grande nobiltà. Il mondo – come è stato sovente osservato – sembra sia andato preparandosi da lungo tempo alla venuta dell’uomo; e in un certo senso questo è strettamente vero, perché egli deve la sua origine a una lunga fila di progenitori. Se un solo anello di questa catena non fosse

Herbert Spencer L’evoluzione organica. La riflessione del filosofo e scienziato inglese Herbert Spencer prende le mosse dalle dottrine evoluzionistiche di Darwin, assunte come fondamento di una visione complessiva del reale. Pur condividendo con Comte l’interesse per la biologia e con John Stuart Mill l’idea per cui la conoscenza umana si basa sull’esperienza sensibile e sull’induzione, Spencer non condivide però il loro rifiuto delle cause finali, sostenendo al contrario che rinunciare all’idea di “inconoscibile” – cioè alla causa prima o alla causa finale – significherebbe smettere di pensare. E di fronte all’innegabile constatazione che l’essenza ultima dei fenomeni ci sfugge, secondo Spencer bisogna riconoscere che l’esistenza dell’assoluto è già presupposta dal carattere relativo di ogni nostra conoscenza, giacché il relativo può essere concepito solo in rapporto al non-relativo. La tesi dell’esistenza dell’inconoscibile è il punto in cui si incontrano religione e scienza (o filosofia): la prima infatti ci rende consapevoli dell’esistenza delle cause ultime, la seconda ci fa conoscere i modi in cui l’incomprensibile si manifesta. E quanto più unificheremo le nostre conoscenze, tanto più scopriremo che tra religione e filosofia non vi è incompatibilità, bensì una “fondamentale armonia”. Nello scritto del 1862 sui Primi princìpi – primo di una serie di nove volumi, in cui Spencer si impegna ad elaborare un sistema di filosofia sintetica – egli assume la legge dell’evoluzione come il principio unificante di tutti i campi del sapere. Tale legge si basa sulla nozione di forza, vale a dire un elemento costante e assoluto, presente in tutte le cose, che si estrinseca sotto forma di materia e di movimento. Secondo Spencer la natura

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il vertice, coinvolgendo al contempo sistemi filosofici e teologici apparentemente lontani dalla teoria biologica, ma ad essa strettamente collegati. Con l’opera di Darwin non cadeva, infatti, solo una determinata concezione del mondo esterno, ma – come del resto accade con tutte le grandi rivoluzioni i cui effetti si ripercuotono ben oltre i rispettivi ambiti di applicazione – anche un modo di concepire la formazione delle convinzioni etiche e delle strutture sociali. N e è segno l’influsso avuto dall’evoluzionismo darwiniano sulla filosofia “positivista” di Herbert Spencer (Derby 1820Brighton 1903:  Herbert Spencer).

può essere spiegata come il risultato della continua redistribuzione di quei due fattori, giacché quando la materia si aggrega si passa dall’impercettibile al percettibile, mentre quando essa si disgrega si ritorna dal percettibile all’impercettibile. In altri termini, si ha evoluzione quando le parti di materia preesistenti in modo disordinato si aggregano in un tutto e il loro moto relativo si riduce (integrazione della materia); si ha invece dissoluzione quando esse si disgregano, tornando a muoversi ognuna per sé (disintegrazione della materia). La legge dell’evoluzione esprime dunque il continuo movimento di distribuzione della materia, in base al quale essa passa da un’omogeneità indistinta e incoerente ad una eterogeneità distinta e coerente. La natura, perciò, tende sempre alla conquista di posizioni più armoniche, passando da un equilibrio instabile di forze antagoniste (l’omogeneità), ad una sempre più stabile differenziazione – attuata dall’intervento di una nuova forza – cui corrisponde un aumento della complessità degli organismi che la compongono. L’evoluzione psichica e sociale. Accanto all’evoluzione organica o biologica, Spencer ammette anche l’esistenza di un’evoluzione superorganica, di cui si occupano la psicologia e la sociologia. La psicologia è per Spencer la disciplina che studia l’origine della coscienza come adattamento dei viventi al loro ambiente. Nei Princìpi di psicologia (1855) egli sostiene che la struttura spirituale della coscienza può essere compresa solo in riferimento ai processi di evoluzione organica, dal momento che gli stati  p. 116

1. La teoria dell’evoluzione sostenuta da Darwin afferma che le specie viventi evolvono a causa: a. della selezione naturale. V F b. delle pressioni dell’ambiente esterno. V F c. di un impulso interno alla specie verso la perfezione. V F d. di variazioni casuali favorevoli. V F

2 Le geometrie non euclidee Nei primi decenni dell’Ottocento, in un clima di radicale rinnovamento della matematica, la nascita delle teorie non euclidee diede un impulso decisivo allo sviluppo di questa scienza, mettendo in discussione non solo i fondamenti della geometria classica, ma arrivando a toccare una questione tradizionalmente di pertinenza della speculazione filosofica: la natura dello spazio. La sistemazione euclidea della geometria aveva rappresentato, fino a quel momento, un paradigma scientifico in grado di offrire un puntuale aggancio all’intuizione spaziale del mondo esterno. Lo stesso Kant – il quale sosteneva la natura intuitiva dello spazio – non aveva fatto altro che rivendicare il valore assoluto della geometria euclidea, in forza della struttura a priori della nostra sensibilità. Eppure, già da lungo tempo, erano emerse forti perplessità relativamente al quinto postulato di Euclide (quello secondo cui per un punto esterno ad una retta data passa una ed una sola parallela alla suddetta retta), che non a tutti pareva dotato della stessa evidenza intuitiva dei primi quattro; e questo aveva condotto ad un dibattito circa la necessità di provar o meno la validità di tale postulato. Ma sarà proprio il ripetuto fallimento di tutti i tentativi di dimostrarlo a produrre un ripensamento del significato stesso del rapporto tra geometria ed esperienza, da cui scaturiranno nuove geometrie basate su una concezione del parallelismo di tipo non euclideo, eppure perfettamente logiche e in grado di riflettere le proprietà fondamentali dello spazio reale. Karl Friedrich Gauss (1777-1855) fu tra i primi studiosi ad appurare la validità logica delle teorie non euclidee, giungendo così a sostenere una concezione dello spazio che – opponendosi alla teoria kantiana – si fondasse piuttosto su considerazioni empiriche: è cioè solo sulla base di un’indagine empirica della struttura dello spa-

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zio che diviene possibile decidere quale geometria può descriverlo meglio. E tuttavia, proprio Il modello di Klein per il timore di suscitare le reazioni dei kantiani trasformando la geometria da Qui di seguito proponiamo una breve descrizione del scienza a priori in scienza sperimentamodello euclideo del piano iperbolico (o ellittico) messo a le, Gauss non pubblicò nulla sull’arpunto da Felix Klein. Occorre in primo luogo fissare una conica K gomento, lasciando così che il irriducibile (un’ellisse o una circonferenza), e dare le seguenti merito della scoperta fosse atinterpretazioni degli enti primitivi (vedi figura): K tribuito al russo Nikolaj a. per “punto” si intende un punto interno a K, e quindi Lobacˇevskij (1793-1856) e i punti appartenenti al bordo della circonferenza non sono all’ungherese Janos Bolyai P inclusi in questo modello; (1802-1860), che giunsero, b. per “retta” si intende una corda di K con estremi esclusi; l’uno indipendentemente dalA B l’altro, a provare l’ipotesi su cui c. per “piano” si intende l’insieme dei punti interni a K. si fonda la geometria iperboli- Secondo la definizione di rette parallele (due rette che non si intersecano), le due ca, cioè quella secondo cui esi- rette PA e PB sono parallele ad AB, infatti i punti A e B non appartengono al piano stono infinite parallele ad una della circonferenza, appartenendo al suo bordo. Se dunque PA e PB non hanno retta data passanti per un punto alcuna intersezione con AB, sono entrambe ad essa parallele. Poiché infine PA esterno ad essa. e PB sono le due rette che segnano il limite tra le rette parallele ad AB e quelle che intersecano AB stessa, ciò vuol dire che vi sono infinite rette pasUn ulteriore contributo alla santi per P e parallele ad AB. In tal modo, Klein era riuscito nel duplice tematica fu offerto, intorno alla intento di confermare la correttezza delle geometrie non euclidee metà del secolo, da Bernhard supponendo la coerenza (evidente ed intuitiva) di quella eucliRiemann (1826-1866), le cui considedea, e di pervenire a quella riunificazione del campo delle razioni sul concetto di spazio diedero ricerche geometriche che sarà il presupposto da vita ad una nuova geometria non euclidea, cui muoverà la cultura matematica del conosciuta come geometria ellittica. secolo successivo. Partendo dalla nozione di «grandezza molteplicemente estesa» (o varietà pluridimensionale), Riemann arrivò a definire lo spazio fisico come un tipo particolare di varietà tridimensionale le  psichici corrispondono ai cambiamenti prodotti dall’ambiente esterno sul sistema nervoso. cui proprietà possono essere assunte solo sulla La stessa simmetria che sussiste tra i fenomeni psichici base dell’esperienza. E una di queste proprietà e quelli biologici è riscontrabile poi tra questi ultimi e empiricamente ricavabili è l’illimitatezza dello quelli sociali. E difatti la sociologia – che è uno dei campi spazio stesso, da cui però non consegue affatto la più significativi della ricerca di Spencer – considera la sua infinità: anzi – come Riemann sostenne nella società come un organismo risultante da un processo evosua memoria Sulle ipotesi che stanno alla base della lutivo, che va spiegato con le stesse leggi dell’evoluzione geometria (1867) – se allo spazio si assegna una biologica. In questa prospettiva Spencer studia la nascita e curvatura costante positiva, esso diviene necessalo sviluppo delle istituzioni politiche, ecclesiastiche e proriamente uno spazio finito per il quale vale il fessionali nei vari gradi della vita associata, evidenziando postulato secondo cui non c’è nessuna parallela il progressivo passaggio da forme di società omogenee – che passa per un punto esterno ad una retta data. ove ciascuno è in grado di soddisfare autonomamente i propri bisogni – a forme di società più complesse, caratMa una volta assunte tra i princìpi geometrici terizzate da una differenziazione delle funzioni politiche, proposizioni che negavano un postulato collaueconomiche, spirituali. Tale è, per esempio, il passaggio dato da secoli di pensiero matematico, gravava dalla società militare a quella industriale, la prima ancora, sui sistemi non euclidei, il peso della caratterizzata dalla necessità di aggredire per difenmancanza di una garanzia della propria coerenza dersi, la seconda basata invece sul lavoro organizzalogica. Un’assicurazione in questo senso venne, to e scientifico. nel 1872, dal Programma di Erlangen di Felix Ed è proprio lo stato industriale – quello cioè che Klein (1849-1925), che elaborò un modello geosi fonda su un patto di natura puramente conmetrico capace di “tradurre” i concetti base dei trattuale – a costituire per Spencer la forma sistemi non euclidei nei termini dei concetti più complessa, e dunque più evoluta, di vita euclidei [ Il modello di Klein]. associata. L’evoluzione della società

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3 Logica e psicologia 3.1 Bolzano: l’antipsicologismo Una delle principali tendenze del dibattito filosofico europeo del XIX secolo riguarda il ruolo della psicologia nella definizione delle funzioni logiche del pensiero, da cui nasce quell’indirizzo noto come psicologismo, secondo il quale i concetti logici non hanno un’autonoma consistenza ideale ma dipendono essenzialmente da ciò che l’individuo pensa, crede e conosce soggettivamente o dai processi percettivi della mente umana. Tuttavia, all’accentuazione psicologistica che caratterizza una parte delle indagini filosofiche del secolo [ 3], si accompagna il diffondersi coevo di teorie decisamente opposte, che contengono germi fecondi di sviluppi futuri culminanti nell’affermazione di un radicale antipsicologismo. Protagonista e precursore di questa controtendenza è il filosofo boemo, ma di origini ita-

tende infatti a raggiungere l’ideale della “società perfetta”, in cui l’intervento dello Stato sia limitato al minimo, lasciando spazio alla libera iniziativa dei cittadini, i cui bisogni individuali vengono progressivamente a coincidere con quelli della comunità. Anche l’etica, infine, viene interpretata da Spencer nei termini di un utilitarismo evoluzionistico. Muovendo dal presupposto che tutte le attività vitali tendono al piacere e alla felicità, egli individua in quest’ultima il principio-guida della condotta morale degli individui. Tuttavia, il processo di adattamento della specie umana si compie anche attraverso l’interiorizzazione di quei princìpi morali – come l’altruismo – che sono utili al conseguimento del proprio benessere. Così si può prevedere che, in virtù dell’ulteriore sviluppo che attende la specie umana, l’azione morale diverrà un fatto sempre più spontaneo; e lo stadio ultimo dell’evoluzione etica dell’umanità sarà raggiunto allorquando quello stesso piacere che un tempo era suscitato dal desiderio egoistico, sarà invece spontaneamente prodotto dall’istinto altruistico. Si sarà giunti allora alla “morale assoluta”, quella cioè che realizza la perfetta conciliazione tra l’azione dell’individuo e le esigenze della società. L’evoluzionismo fisicobiologico si rispecchia così perfettamente nell’evoluzionismo storico-sociale.

liane, Bernard Bolzano (Praga 1781-ivi 1848). Le indagini di Bolzano ci danno in effetti la cifra della vivacità di un dibattito destinato a sfociare nella svolta “logicistica” della filosofia di fine secolo [ 29.2], di cui esse anticipano i tratti essenziali. Primo fra tutti, l’esigenza di una radicale estromissione dell’ambito logico da quello psicologico. Punto di partenza della logica bolzaniana – che trova la sua più compiuta esposizione nella Dottrina della scienza (1837) – è infatti la distinzione tra il soggettivo e l’oggettivo, cioè tra proposizioni pensate, ovvero concretamente esistenti nella mente del soggetto giudicante, e proposizioni in sé, ossia capaci di sussistere in modo del tutto indipendente dal loro essere comprese o espresse da qualcuno:



Allo scopo di dimostrare questo fatto in modo evidente per tutti, mi permetto di sollevare la questione se non vi siano ai poli della Terra corpi fluidi o solidi, se non ci siano aria, acqua, pietre e simili, se questi corpi non agiscano l’uno sull’altro secondo determinate leggi, […] e se tutto questo non avvenga anche quando non ci sia nessun uomo né alcun altro essere pensante a osservarlo. Se si risponde affermativamente a questa domanda (e chi non sarebbe costretto a rispondere affermativamente?), allora ci sono anche proposizioni e verità in sé che esprimono tutti questi avvenimenti, senza che ci sia nessuno che le pensi o che le conosca. [I paradossi dell’infinito, § 14]



Come gli oggetti matematici, le proposizioni in sé – e analogamente anche le idee in sé che costituiscono le parti semplici di tali proposizioni – sono dunque entità non mentali e non linguistiche, una sorta di oggetti astratti, che proprio in quanto tali «non esistono in nessun tempo e in nessun luogo» [Del metodo matematico, § 2]. Bolzano le colloca in un “terzo regno” (essendo il primo quello oggettivo delle sostanze fisiche e il secondo quello soggettivo dei processi mentali), elaborando in tal modo una dottrina ontologica che raccoglie l’eredità di Leibniz ed Herbart, e che verrà ripresa più tardi da Gottlob Frege [ 29.6]. Quali ripercussioni ciò abbia prodotto sulla storia della logica successiva non è difficile da immaginare. Definendo infatti la logica non più come l’arte di pensare (cioè come una teoria delle

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idee e dei giudizi nella nostra mente) ma come la teoria delle relazioni tra proposizioni, Bolzano ne avviava una trattazione fondata sul rigore matematico, a cui farà esplicito riferimento anche Husserl [ 18].

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1. Secondo la posizione antipsicologistica, i concetti logici: a. dipendono da ciò che l’individuo pensa. V F b. sussistono indipendentemente dall’essere espressi da qualcuno. V F c. dipendono dai processi percettivi della mente umana. V F d. dipendono dall’orientamento intenzionale degli atti mentali. V F

3.2 Brentano: la psicologia descrittiva Se il passo iniziale compiuto da Bolzano giunse ad influenzare persino la scuola fenomenologica, il merito lo si deve anche a Franz Brentano (Marienberg sul Reno 1838-Zurigo 1917), che ne rese noto il pensiero durante le lezioni viennesi cui assistette Husserl. N ella storia della filosofia, la figura di Brentano è associata da un lato alla “rinascita aristotelica” di fine Ottocento, dall’altro a quel processo di sviluppo della psicologia descrittiva al cui interno si inserisce la sua teoria dell’intenzionalità. Ad Aristotele sono infatti dedicati i primi scritti di Brentano, a partire dalla dissertazione del 1862 Sui molteplici significati dell’essere secondo Aristotele, il cui obiettivo è quello di mettere a fuoco e di verificare il carattere polivalente che il termine “essere” riveste per il filosofo greco, raccogliendosi soprattutto attorno al significato-guida di sostanza. Gli studi aristotelici di Brentano proseguono poi con il volume La psicologia di Aristotele, con particolare riguardo alla sua dottrina del nùs poietikòs (1866), che segna il passaggio dai problemi di natura metafisica a quelli di natura gnoseologica, ed in cui è contenuta l’affermazione di uno stretto legame tra logica e psicologia, che valse al suo autore l’etichetta – da lui stesso però esplicitamente rifiutata – di esponente dello psicologismo:



Ogni logica che vada più in profondità deve calarsi nel suo dominio [della psicologia] e non c’è altra ragione per cui in certi periodi la logica è divenuta infruttuosa e si è atrofizzata, che per il fatto di non aver affondato le sue radici nel terreno della psicologia e lì assorbito il nutrimento vitale. [La psicologia di Aristotele, con particolare riguardo alla sua dottrina del nùs poietikos, Introduzione]



Così, il tema della relazione tra fenomeni psichici e teoria della conoscenza in senso logico diventa l’oggetto principale di tutte le opere successive di Brentano, giungendo ad una svolta decisiva a seguito dell’incontro con le tesi dell’allora nascente psicologia sperimentale [ 3.4]. La psicologia dal punto di vista empirico (1874) è infatti il titolo della prima opera di Brentano maturata attraverso un serrato confronto con l’indirizzo della psicologia fisiologica, di cui egli rifiuta le ipotesi di tipo riduzionistico volte a ricondurre i fenomeni psichici a fenomeni fisici. La più celebre teoria in essa contenuta è quella della natura intenzionale degli atti mentali, che è ciò che li distingue dai fenomeni fisici. Tutti i fenomeni psichici sono cioè caratterizzati dall’esser diretti verso degli oggetti: si ha paura di qualcosa, si è innamorati di qualcuno e non si è mai semplicemente impauriti o innamorati. Scrive infatti Brentano:



Ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli scolastici medievali chiamarono l’in/esistenza intenzionale (ovvero mentale) di un oggetto, e che noi […] vorremmo definire il riferimento a un contenuto, la direzione verso un obietto, […] ovvero l’oggettività immanente, che non deve essere inteso come una realtà. Ogni fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto […], anche se non ogni fenomeno lo fa nello stesso modo. […] Tale inesistenza intenzionale […] caratterizza esclusivamente i fenomeni psichici. Nessun fenomeno fisico mostra qualcosa di simile. [La psicologia dal punto di vista empirico, libro II]



L’oggetto è dunque sempre immanente all’atto psichico, e tuttavia esso non coincide esattamente con l’atto, cioè – per come Brentano concepisce l’immanenza – non è una semplice rap-

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presentazione soggettiva. Se vedo un cavallo, l’esempio è dello stesso Brentano, «la mia rappresentazione ha come oggetto immanente (il solo che si può chiamare propriamente tale) non un “cavallo rappresentato” ma un cavallo» [Verità ed evidenza, cap. 3]. Questo tuttavia non vuol dire che il cavallo che vedo sia un oggetto reale o realmente esistente (il quale – propriamente parlando – per Brentano altro non è che l’oggetto di cui parla la fisica). Il cavallo, infatti, è un fenomeno fisico, ovvero il referente di un atto e, pur non coincidendo con l’atto, resta intramentale e quindi «non ha bisogno di esistere» [Verità ed evidenza, cap. 3]. La teoria dell’intenzionalità di Brentano non era in grado di dare conto – restando sul piano della sola descrizione dei fenomeni psichici – della differenza fra gli atti psichici in cui si esercita la conoscenza (come le percezioni o i giudizi) e quelli puramente soggettivi: se l’oggetto, infatti, è sempre il referente di un atto psichico, tutti gli atti, anche le illusioni o le allucinazioni, hanno un loro referente oggettuale. Brentano lasciò aperta la questione, consegnando così ai suoi successori l’onere di risolverla.

3.3 Meinong: la “teoria degli oggetti” La soluzione al problema brentaniano sarà individuata proprio da uno dei suoi più celebri allievi, Alexius Meinong (Lemberg 1853-Graz 1920), con la teoria degli oggetti. Il presupposto da cui ha origine la riflessione di Meinong è rappresentato dall’idea – di ascendenza bolzaniana – secondo cui non a tutti gli oggetti di un atto psichico compete necessariamente l’esistenza. A rigore, quest’ultima – intesa come ciò che implica una collocazione spaziotemporale – è una qualità delle sole entità individuali (come le sostanze fisiche), accanto alle quali Meinong annovera anche tutti quegli oggetti “universali”, che semplicemente “sussistono” senza avere esistenza materiale (come gli enti matematici e quelli non contradditto-

ri), e perfino quegli “obietti” che, in quanto impossibili, semplicemente “si danno” (come “ferro ligneo”). Così, il pregiudizio della metafisica tradizionale, con la sua tendenza ad occuparsi dei soli oggetti che esistono realmente, trascurando quelli che non hanno alcun “essere”, rende necessaria, secondo Meinong, l’elaborazione di una nuova “teoria degli oggetti”:



In contrasto ad una certa preferenza per la realtà […] esiste l’evidente necessità di una scienza che tratti degli oggetti senza alcuna restrizione, soprattutto senza restrizioni a quel caso speciale di esistenza, che può esser definito privo-di-essere [daseinfrei]. Questa scienza relativa a tali oggetti, o alle pure entità, io l’ho chiamata teoria degli oggetti. [Sulla teoria degli oggetti]



Nella sua opera più celebre, intitolata appunto Ricerche sulla teoria degli oggetti e sulla psicologia (1904), Meinong sostiene dunque che ogni cosa è un oggetto, sia essa pensabile o meno (poiché un oggetto impensabile è pur sempre qualcosa che ha la proprietà di “essere impensabile”), sia essa dotata o meno di esistenza. In altri termini, le caratteristiche di un oggetto sono indipendenti dal suo essere. Un cerchio quadrato, per esempio, possiede comunque determinate proprietà – e dunque “si dà”– pur essendo un “oggetto impossibile”. Del resto, anche tra gli oggetti possibili – cioè quelli che non presentano caratteristiche contraddittorie – alcuni esistono, ed altri, come per esempio la montagna d’oro, semplicemente “sussistono”. In tal modo, inserendo tra gli oggetti anche quelli a denotazione nulla (che cioè non si riferiscono né a cose esistenti né a cose sussistenti), Meinong riusciva a provare che il dominio di ciò che esiste è infinitamente più ristretto rispetto al dominio di ciò che può essere oggetto di giudizio, giungendo così a risolvere quelle incertezze relative all’applicazione della relazione intenzionale che, come si diceva, Brentano aveva lasciato insolute.

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parte I La filosofia dell’Ottocento Darwin e l’evoluzionismo. L’Ottocento è stato il secolo dei grandi progressi nelle scienze della vita. Tali progressi sembravano inserirsi perfettamente nella concezione positivista della natura e spesso contribuirono ad affermarla e a diffonderla. A livello filosofico l’esito più clamoroso fu la messa in discussione radicale del creazionismo, e la sua sostituzione con la teoria dell’evoluzione delle specie. Nel 1831, Charles Darwin (18091882) s’imbarcò sulla nave Beagle per un viaggio di circumnavigazione del globo ed ebbe la possibilità di studiare piante ed animali sconosciuti al vecchio continente. Le osservazioni condotte durante il suo viaggio rappresentarono uno strumento decisivo per la verifica dell’ipotesi evoluzionistica. Darwin notò che, in assenza di barriere naturali insormontabili, individui appartenenti a specie affini presentavano somiglianze tali da indurre a ipotizzare la discendenza da progenitori comuni. Ambienti con caratteristiche morfologiche e climatiche simili, ma separati tra loro da ostacoli naturali, presentavano invece una fauna differenziata, tale da escludere che l’ambiente esterno potesse essere la causa primaria dell’evoluzione e indurre a ipotizzare variazioni casuali favorevoli di cui si avvantaggiano gli individui dotati di tali caratteri, aumentando le loro probabilità di sopravvivere e riprodursi. Darwin poteva così concludere che nella lotta per la sopravvivenza sono proprio i fattori ambientali che selezionano gli individui dotati di caratteri vantaggiosi; questi individui, poi, trasmettono tali caratteri alla prole producendo in tal modo un vero e proprio cambiamento evolutivo della specie. L’ondata di polemiche che le teorie darwiniane esposte nell’Origine delle specie (1859) suscitarono era destinata a crescere ulteriormente con la pubblicazione dell’Origine dell’uomo (1874), lo scritto in cui Darwin sostiene la derivazione dell’uomo da alcune specie ormai estinte di ominidi «somiglianti alle scimmie» avvalendosi di due tipi diversi di prove: il primo, di carattere deduttivo, consistente nell’applicazione del principio generale dell’evoluzione anche all’uomo; il secondo è invece rappresentato dallo studio delle affinità morfologiche, fisiologiche e psicologiche dell’uomo con le scimmie antropomorfe.

Le geometrie non euclidee. Nei primi decenni dell’Ottocento la nascita delle teorie non euclidee diede un impulso decisivo allo sviluppo della matematica, mettendo in discussione non solo i fondamenti della geometria classica, nella fattispecie del quinto postulato di Euclide, ma arrivando a toccare una questione tradizionalmente di pertinenza della speculazione filosofica: la natura dello spazio. Karl Friedrich Gauss (17771855), ideatore della cosiddetta geometria iperbolica secondo cui, contrariamente a quanto asserito dal quinto postulato di Euclide, esistono infinite parallele a una retta data passanti per un punto esterno a essa, fu tra i primi studiosi ad appurare la validità logica delle teorie non euclidee giungendo così a sostenere una concezione dello spazio che si fondava sull’indagine empirica e trasformando la geometria da scienza a priori in scienza sperimentale. Un ulteriore contributo alla tematica fu offerto da Bernhard Riemann (1826-1866) le cui considerazioni sul concetto di spazio diedero vita ad una nuova geometria non euclidea conosciuta come geometria ellittica. Riemann arrivò a definire lo spazio fisico come un tipo particolare di varietà tridimensionale le cui proprietà possono essere assunte solo sulla base dell’esperienza. Una di queste proprietà empiricamente ricavabili è l’illimitatezza dello spazio stesso da cui consegue che non c’è alcuna parallela che passa per un punto esterno a una retta data. Ma una volta assunte tra i princìpi geometrici proposizioni che negavano un postulato collaudato da secoli di pensiero matematico, gravava ancora, sui sistemi non euclidei, il peso della mancanza di una garanzia della propria coerenza logica. Un’assicurazione in questo senso venne, nel 1872, dal Programma di Erlangen di Felix Klein (1849-1925), che elaborò un modello geometrico capace di “tradurre” i concetti base dei sistemi non euclidei nei termini dei concetti euclidei. Logica e psicologia. Protagonista e precursore di una tendenza “logicistica” e antipsicologistica è Bernard Bolzano (1781-1848). Le indagini di Bolzano interpretano l’esigenza di una radicale estromissione dell’ambito lo-

gico da quello psicologico. Punto di partenza della logica bolzaniana è infatti la distinzione tra il soggettivo e l’oggettivo, cioè tra proposizioni pensate, ovvero concretamente esistenti nella mente del soggetto giudicante, e proposizioni in sé, ossia capaci di sussistere in modo del tutto indipendente dal loro essere comprese o espresse da qualcuno. Come gli oggetti matematici, le proposizioni in sé sono dunque entità non-mentali e non-linguistiche che Bolzano colloca in un «terzo regno» (essendo il primo quello oggettivo delle sostanze fisiche e il secondo quello soggettivo dei processi mentali). Nella storia della filosofia, la figura di Franz Brentano (1838-1917) è associata da un lato alla “rinascita aristotelica” di fine Ottocento, dall’altro a quel processo di sviluppo della psicologia descrittiva al cui interno si inserisce la sua teoria dell’intenzionalità. Le ricerche che Brentano dedica ad Aristotele hanno l’obiettivo di mettere a fuoco il carattere polivalente che il termine “essere” riveste per il filosofo greco, raccogliendosi attorno al significato-guida di sostanza. La più celebre teoria psicologica di Brentano è quella della natura intenzionale degli atti mentali. Tutti i fenomeni psichici sono caratterizzati dall’esser diretti verso degli oggetti: si ha paura di qualcosa, si è innamorati di qualcuno e non si è mai semplicemente impauriti o innamorati. L’oggetto è dunque sempre immanente all’atto psichico, e tuttavia esso non coincide esattamente con l’atto, cioè non è una semplice rappresentazione soggettiva. Il presupposto da cui ha origine la riflessione di Alexius Meinong (1853-1920) è rappresentato dall’idea – di ascendenza bolzaniana – secondo cui non a tutti gli oggetti di un atto psichico compete necessariamente l’esistenza. Meinong sostiene invece che ogni cosa è un oggetto sia essa pensabile o meno, sia essa dotata o meno di esistenza. In tal modo, inserendo tra gli oggetti anche quelli a denotazione nulla (che cioè non si riferiscono né a cose esistenti né a cose sussistenti), Meinong riusciva a provare che il dominio di ciò che esiste è infinitamente più ristretto rispetto al dominio di ciò che può essere oggetto di giudizio.

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BIBLIOGRAFIA Fonti

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C. Darwin, L’origine delle specie, a cura di P. Omodeo, trad. di C. Balducci, Newton Compton, Roma 2000 (ma anche la trad. di L. Frattini, Bollati Boringhieri, Torino 1967). C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, a cura di G. Montalenti, trad. di P. Fiorentini e M. Migliucci, Newton Compton, Roma 2007. C. Darwin, Taccuini 1836-1844, a cura di T. Pievani, trad. di I.C. Blum, Laterza, Roma-Bari 2008. H. Spencer, Primi princìpi, trad. di G. Salvadori, Bocca, Milano-TorinoRoma 1901. B. Bolzano, I paradossi dell’infinito, trad. di A. Conte, Bollati Boringhieri, Torino 2003. B. Bolzano, Del metodo matematico, trad. di L. Giotti, Bollati Boringhieri, Torino 2004. F. Brentano, La psicologia di Aristotele, con particolare riguardo alla sua dottrina del nùs poietikòs, trad. di S. Besoli, Quodlibet, Macerata 2008. F. Brentano, Wahrheit und Evidenz [Verità ed evidenza], a cura di O. Kraus, Felix Meiner, Hamburg 1930. F. Brentano, La psicologia dal punto di vista empirico, trad. di L. Albertazzi, 3 voll., Laterza, Roma-Bari 1997. A. Meinong, Zur Gegenstandstheorie [Sulla teoria degli oggetti], in R. Schmidt (a cura di), Die Philosophie der Gegenwart in Selbstdarstellungen, vol. I, Meiner, Leipzig 1921 (si tratta di un’“autopresentazione” della propria ricerca da parte di Meinong).

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Studi critici

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Su Darwin e l’evoluzionismo si vedano: J. Bowlby, Darwin, una biografia nuova, Zanichelli, Bologna 1996.

Opere

Una messa a fuoco delle diverse interpretazioni interne all’evoluzionismo (che vede contrapporsi genetisti e paleontologi) si può leggere in: N. Eldredge, Ripensare Darwin. Il dibattito alla Tavola Alta dell’evoluzione, Einaudi, Torino 1999.

Torino 2006.

Tra gli studi che contestano il darwinismo come orizzonte filosofico: G. Sermonti, Dimenticare Darwin.

· C. Darwin, Autobiografia, a cura di N. Barlow, trad. di L. Fratini, Einaudi, ESERCIZI

• C. Darwin, Viaggio di un naturalista intorno al mondo, trad. di M. Magistretti, Einaudi, Torino 2005. H. Spencer, Princìpi di psicologia: è disponibile la trad. italiana del solo vol. I, in due parti: Le basi del pensiero e L’evoluzione del pensiero, trad. di G. Salvadori, Bocca, MilanoTorino-Roma 1907-1909. H. Spencer, Educazione intellettuale morale e fisica, trad. di A. Saloni, La Nuova Italia, Firenze 1967. H. Spencer, Il principio di evoluzione, antologia delle opere a cura di F. Polato, Clueb, Bologna 1976. B. Brentano, Sui molteplici significati dell’essere secondo Aristotele, trad. di S. Tognoli, a cura di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1995. B. Brentano, La classificazione dei fenomeni psichici, trad. di L. Albertazzi, Laterza, Roma-Bari 1997. A. Meinong, Teoria dell’oggetto, trad. di E. Coccia, Quodlibet, Macerata 2003.

· · ·

1. Spiega in che modo la concezione della fissità delle specie viventi è messa in discussione dalla dottrina dell’evoluzionismo scientifico di fine Ottocento (max 15 righe). 2. Discuti le ragioni dell’ostilità che la dottrina darwiniana, accusata di voler precipitare la condizione umana nell’abisso di un’animalità primitiva e viscerale, incontrò da parte degli ambienti tradizionalisti (max 15 righe).

Perché la mosca non è un cavallo?, Il cerchio, Rimini 2006. Sulla storia dell’evoluzionismo, a partire dal Settecento, si consiglia: G. Barsanti, Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo, Einaudi, Torino 2005.

·

Sul pensiero di Spencer si consiglia: G. Lanaro, L’evoluzione, il progresso e la società industriale. Un profilo di Herbert Spencer, La Nuova Italia, Firenze 1997.

·

Sulla logica e la matematica consigliamo: M. Dummett, Alle origini della filosofia analitica, trad. di E. Picardi, il Mulino, Bologna 1990; C. Mangione, S. Bozzi, Storia della logica: da Boole ai nostri giorni, Garzanti, Milano 1993.

· ·

Su Bolzano, Brentano e Meinong si possono consultare: L. Albertazzi, Introduzione a Brentano, Laterza, Roma-Bari 1999; F. Modenato, Coscienza ed essere in Franz Brentano, Patron, Bologna 1979; E. Casari, L’universo logico bolzaniano, in «Rivista di filosofia», 76, 1985, pp. 339-366; L. Fossati, Il concetto della filosofia in Bernard Bolzano, Isu-Università Cattolica, Milano 2006; M. Lenoci, La teoria della conoscenza in Alexius Meinong: oggetto, giudizio, assunzioni, Vita e Pensiero, Milano 1972; M. Manotta, La fondazione dell’oggettività. Studio su Alexius Meinong, Quodlibet, Macerata 2006.

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3. Descrivi i modelli di geometria non euclidea elaborati sul finire dell’Ottocento (max 5 righe). 4. Presenta il dibattito sviluppatosi nella psicologia di fine Ottocento tra l’interpretazione soggettivista e quella oggettivista degli atti mentali (max 15 righe). 5. Spiega la natura intenzionale degli atti mentali secondo Brentano (max 10 righe).

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1 Ideologia e spiritualismo 1.1 Destutt de Tracy e Cabanis Il più autorevole gruppo intellettuale francese che tra gli anni precedenti la Rivoluzione e la fine del regime napoleonico raccolse l’eredità dell’Illuminismo fu quello dei cosiddetti idéologues (‘ideologi’). Esso si formò nel salotto aperto da Madame Helvétius in una villetta di Auteuil presso Parigi nel 1771. Sostenitori di un riformismo moderato, gli idéologues svolsero un’intensa attività politico-civile, pur essendo perseguitati sia sotto il regime di Robespierre che sotto quello napoleonico. I loro interessi filosofico-scientifici spaziarono dalla medicina, alla psicologia, dalla teoria della conoscenza e del linguaggio, all’antropologia culturale e all’economia politica. Comune, però, fu il proposito di dare alle scienze dell’uomo un orientamento antimetafisico. Una delle figure più rilevanti del gruppo fu Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy (Parigi 1754-ivi 1836), colui che – nella Memoria sulla

facoltà di pensare (1798) – aveva introdotto il termine “ideologia” (idéologie) nel senso letterale di “scienza delle idee”, esaminandola poi diffusamente nei suoi Elementi di ideologia (18011815). Egli intende condurre, su base rigorosamente fenomenistica e antimetafisica, una «descrizione esatta e circostanziata delle nostre facoltà intellettive e dei loro principali fenomeni» [Prefazione], in modo da produrre una conoscenza rigorosa del funzionamento della mente umana nonché dei princìpi che sovrintendono ogni indagine scientifica. La ricerca di Destutt de Tracy prende le mosse dal sensismo di Condillac, del quale però non si sentì mai un passivo seguace: a differenza di Condillac, infatti, egli non considera la sensibilità come una proprietà immateriale dell’anima che si desterebbe in occasione degli stimoli provenienti dall’ambiente esterno, né spiega le altre facoltà (memoria, giudizio, volontà) quali trasformazioni successive della sensazione elementare. Per Destutt de Tracy, bisogna evitare assolutamente il ricorso a qualunque principio immateriale, e intendere la sensibilità solo come «un fenomeno della nostra organizzazione», legata ai concreti movimenti che avvengono nell’orga-

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nismo corporeo. Il sentire puro e semplice, tuttavia, non è l’unica facoltà operante nell’uomo: ad essa vanno associati il sentire dei ricordi (memoria), il sentire dei rapporti (giudizio) e il sentire dei desideri (volontà), vere e proprie funzioni primarie e irriducibili alla semplice sensazione. Un altro noto idéologue fu il medico-filosofo Pierre-Jean-Georges Cabanis (Cosnac 1757Rueil 1808), autore dei Rapporti tra il fisico e il morale dell’uomo (1802). L’obiettivo dichiarato dell’opera è quello di dare alla scienza morale una fondazione rigorosa, concepita sul modello delle moderne scienze positive. Per far questo Cabanis si propone di partire non da premesse astratte, ma dallo studio della stessa organizzazione fisica dell’uomo, ovvero dalla fisiologia; egli fu infatti convinto che i princìpi del comportamento dell’uomo fossero strettamente connessi con i suoi stessi concreti bisogni. Anche lui perciò nega l’esistenza dell’anima, attribuendo l’intero complesso delle funzioni superiori ad organi materiali specifici, e sottolinea come tanto i fenomeni fisiologici quanto quelli morali si possano ricondurre in ultima istanza alla sensibilità, fondamento di ogni aspetto della vita dell’uomo.

1.2 Maine de Biran Una strenua opposizione al sensismo e alle analisi psico-fisiologiche degli idéologues viene da Marie-François-Pierre Gontier Maine de Biran (Bergerac 1766-Parigi 1824). Egli fu il capostipite dello spiritualismo, una corrente filosofica sviluppatasi soprattutto in Francia tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento e che giungerà a toccare anche Bergson. Di fronte al rischio incombente di confondere l’esperienza umana con un mero fenomeno empiriconaturalistico, egli si propose di porre l’accento sull’esperienza e sul valore della soggettività spirituale. Per comprendere la vera natura della conoscenza umana, infatti, si deve distinguere accuratamente il carattere passivo della sensibilità dall’attività della coscienza che con essa si intreccia. Una teoria della conoscenza deve così implicare tanto la vita sensitiva dell’uomo (cioè la capacità passiva dell’organismo di essere modificato), tanto la sua vita cosciente ed attiva, senza pretendere di risolvere la seconda

nella prima. Nel Saggio sui fondamenti della psicologia (1812), de Biran affermerà che non c’è conoscenza «se non c’è un soggetto individuale e permanente che conosce»; un essere dotato solo di sensibilità non ne sarebbe semplicemente capace. D’altra parte, però, egli non identifica in maniera statica la coscienza con la sostanza pensante (res cogitans) di cartesiana memoria, ma come la capacità dell’io di agire secondo una determinata volontà. Se Descartes stabiliva la prima verità evidente di per sé nella formula: “Io penso, dunque sono una cosa o sostanza pensante”, de Biran fa appello all’irrecusabile evidenza del senso intimo: “Io agisco, io voglio, o io penso in me l’azione”. L’“io” dunque non è una “sostanza pensante”, ma piuttosto «una forza volente» - come si legge nei Nuovi saggi di antropologia (1823-24) – una forza, cioè, «che passa dalla virtualità all’attualità in grazia della sua propria energia, determinandosi o portandosi da sé stessa all’azione». Al cogito si sostituisce lo “sforzo”, cioè un principio volitivo-motorio, “iperorganico” (irriducibile alla sensazione) e “ipersensibile” (non localizzabile in alcuna parte dell’organizzazione fisica). Lo sforzo indica quel rapporto conflittuale che si instaura tra l’io e il corpo, o meglio tra la tensione del volere e la resistenza organica sulla quale il volere si esercita. È solo in virtù di questo sforzo che il soggetto cosciente si appercepisce come atto, cioè come «causa libera che inizia il movimento e l’azione», forza «costantemente distinta dai suoi effetti» e «da tutti i modi passivi estranei al suo dominio»:



Come infatti potrebbe esistere una qualche verità se fosse lecito o possibile revocare in dubbio per un solo istante questa primitiva esperienza interna immediata, che manifesta l’io a sé stesso, come forza o causa libera, identica, permanente, prima, durante e dopo gli atti o sensazioni transitorie ch’essa determina o che ne accompagnano l’esercizio? [Nuovi saggi di antropologia]



Il fatto primitivo dello sforzo non riguarda, per de Biran, solo l’attività conoscitiva dell’uomo, ma costituisce anche il fondamento dell’esperienza religiosa: la possibilità della coscienza di cogliersi come causalità in atto e di trascendere così la relatività del mondo fenomenico, infatti,

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rimanda all’esistenza di una causalità assoluta, Dio, pensato come infinita libertà creativa.

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1. Maine de Biran, in opposizione al sensimo radicale degli idéologues, ribadisce: a. che la coscienza è irriducibile alla sensazione. V F b. che la coscienza è un principio volitivo. V F c. che la sensibilità attiene a una sostanza materiale. V F d. l’origine fisiologica delle funzioni superiori dell’anima. V F

2 Tradizionalismo e liberalismo 2.1 Burke, de Maistre, de Bonald In un saggio del 1790 intitolato Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, Edmund Burke (Dublino 1729-Beaconsfield 1797), politico e filosofo britannico di origini irlandesi, scriveva che quella francese era stata «la Rivoluzione più sorprendente» che si fosse mai verificata nel mondo, un’«inedita confusione di leggerezza e ferocia» in cui tutto appariva «contro natura» e in cui «ogni sorta di crimine» sembrava mescolarsi a «follie di ogni specie» [Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, n. 15]. Il suo proposito non era quello di difendere i diritti violati dall’autorità, bensì quello di sovvertire l’ordine naturale delle cose, rimpiazzando le tradizioni storico-politiche di un popolo intero con i princìpi astratti della ragione illuministica. Si trattava di un attacco diretto contro i philosophes, colpevoli di aver innalzato la ragione a criterio di giudizio della storia e della politica e di aver fondato su questa base un nuovo concetto di società, lontano dalla vera natura dell’uomo. L’opera di Burke avrà un’eco vastissima in tutta Europa, e diverrà un punto di riferimento obbligato per i teorici di quella potente reazione culturale allo spirito dei “lumi” – fiorita nel clima della Restaurazione – che fu il tradizionalismo francese. Il suo programma si basò sul tentativo di elaborare, in nome di un complesso di valori trasmessi dal passato, un concetto di “tradizione” opposto a quello illuministico di “ragione indi-

viduale” (nel senso di ragione puramente astratta) che aveva costituito il presupposto della Rivoluzione. È proprio questo carattere “contro natura” della Rivoluzione francese che viene teorizzato da Joseph de Maistre (Chambéry 1753-Torino 1821) nelle sue Considerazioni sulla Francia (1796). Essa non è per lui semplicemente un evento negativo di natura politica, che recide ogni legame con il passato; non è un male, ma il male, nel suo “stato puro”, manifestatosi nella storia. Per questo l’orrore rivoluzionario può spiegarsi solo nel quadro del progetto divino sulla storia, come quel processo di distruzione che porta con sé paradossalmente il senso di una «necessaria rigenerazione» del mondo. Gli uomini, secondo de Maistre, credono di guidare la Rivoluzione, mentre invece «è la Rivoluzione che adopera gli uomini»; essa è propriamente il mezzo di cui si serve la provvidenza per punire e purificare l’umanità, che aveva preteso di emanciparsi da Dio sedotta da «quella luce tremolante che chiamiamo Ragione».



Molti di quegli uomini che si chiamano filosofi s’innalzarono dall’odio per il cristianesimo all’odio personale contro il suo divino Autore […]. In Francia soprattutto la rabbia filosofica non conobbe limiti, e nel cuore dell’Europa colpevole si udì gridare una sola formidabile voce, formata da tante voci riunite: “Lasciaci! […]. Tutto ciò che esiste non ci piace, perché il tuo nome è scritto su tutto ciò che esiste. Vogliamo distruggere ogni cosa e rifarla senza di te. Esci dai nostri consigli, dalle nostre accademie, dalle nostre case; saremo ben capaci di fare da soli, la ragione ci basta. Lasciaci!”. Come ha punito Dio questo delirio esecrabile? Con una sola parola, così come con una sola parola aveva creato la luce. Dio disse: FATE. E il mondo andò in pezzi. [Saggio sul principio generatore, I, §§ 304-307]



Se lo spirito rivoluzionario aveva messo in atto un vero e proprio rovesciamento della civiltà europea e cristiana – iniziato peraltro già con il libero esame delle Sacre Scritture introdotto dai protestanti, come de Maistre nota nelle sue Riflessioni sul protestantesimo (1798) – l’unica possibilità di un ritorno all’unità e all’ordine per l’Europa cristiana è legata alla suprema autorità della Chiesa e del papa: come monarchia istituita da Dio, essa coniuga l’“infallibilità” del pote-

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re spirituale con la “sovranità” del potere temporale. Il progetto teocratico delineato da de Maistre nel Papa (1819) auspica così l’«unione di tutte le sovranità cristiane in una sorta di repubblica universale» sotto la supremazia del sommo pontefice, la sola legittima guida capace di preservare tanto dalle atrocità della tirannide quanto dall’anarchia prodotta dagli sconvolgimenti democratici. L’idea che si afferma dunque con i tradizionalisti è che la società non è l’esito di una costruzione umana, ma di un ordine divino originario. Come dice a questo proposito LouisGabriel-Ambroise de Bonald (Le Monna 1754Lione 1840), voler costituire una società è innaturale e assurdo, quasi quanto lo sarebbe pretendere di «dare ai corpi la pesantezza o alla materia l’estensione»: essa infatti preesiste all’uomo, in quanto ordine naturale voluto da Dio. De Bonald non distingue tra politica e religione: esiste un’unica società, espressione di un legame profondo tra uomo e Dio; e l’uomo non può prescindervi, illudendosi di agire come legislatore, perché questo porta soltanto ad emanare «leggi difettose». Così, quando «un’amministrazione debole, poco attenta o corrotta, rifiuta di ascoltare gli avvertimenti della natura», e cioè di Dio, essa «rimedia al disordine rigettando quelle leggi con un’esplosione violenta» [Teoria del potere politico e religioso nella società civile, 1796, XIII, cap. 1]. Anche de Bonald, dunque, vede nella Rivoluzione uno strumento divino per ristabilire l’ordine sociale. L’unico scopo della società non può che essere quello della “conservazione”, come ciò a cui tende naturalmente la “volontà generale”; quest’ultima, tuttavia, va tenuta ben distinta da quella “volontà di tutti” di cui parla Rousseau, in quanto non indica un’aggregazione delle volontà particolari, ma coincide con la stessa volontà divina che vuole l’unità del corpo sociale. È stato Dio stesso, del resto, a trasmettere all’uomo la legge, vale a dire, tutto il complesso delle regole di condotta morale e delle verità religiose sulle quali si fonda la convivenza umana; e lo ha fatto attraverso quella forma primitiva di rivelazione che è il linguaggio.



Un’altra prova dell’esistenza di un essere intelligente superiore all’uomo […] è tratta dal linguaggio degli uomini. La metafisica moderna ha

fatto un grande passo in avanti provando che l’uomo ha bisogno di segni o parole per pensare come per parlare; cioè, che l’uomo pensa la sua parola prima di dire il suo pensiero […]. Ne risulta che l’uomo non ha potuto inventare i segni, poiché non può inventare senza pensare, né pensare senza segni. Qui l’esperienza conferma il ragionamento, poiché vediamo sempre non esercitata la facoltà di parlare là dove quella di udire non agisce a sua volta. Bisogna dunque far ricorso a un essere diverso dall’uomo per spiegare non tanto la facoltà di articolare suoni […] ma l’arte di dire in parole il proprio pensiero: arte propria solo dell’uomo e comune a tutti gli uomini. [La legislazione primitiva, I, §§ 49-50]



La legge trasmessa da Dio si enuncia nella parola delle Sacre Scritture e nelle parole degli uomini perché essi possano, a loro volta, intenderla e tramandarla. Per quel che riguarda invece i rapporti necessari e naturali che reggono ogni società, de Bonald formula una teoria delle “tre persone sociali”: “potere, ministro, soggetto”. Il potere vuole, il ministro opera secondo i dettami e la volontà del potere, il soggetto è colui che riceve, quale termine ultimo della volontà del potere e dell’azione del ministro. Non è concepibile altra società che quella che contempli questa triade di persone: nella famiglia, ad esse corrispondono padre, madre e figli; nella società religiosa, Dio, sacerdoti, fedeli; nella società politica, re o capi, nobili o funzionari, sudditi o popolo. Alle idee di un rigido tradizionalismo aderì inizialmente anche Hugues-Félicité Robert de Lamennais (Saint-Malo 1782-Parigi 1854): nel Saggio sull’indifferenza in materia di religione (1817-1823) egli identifica il più grande nemico della religione cristiana, nonché il vero male della modernità, nello «spirito dell’indifferentismo», peggiore di qualunque dottrina atea in quanto rappresenta una rinuncia ad ogni dottrina, un «volontario sonno dell’anima» e un «torpore» delle facoltà morali. Sotto le spinte dell’Illuminismo e del protestantesimo, la ragione umana era approdata allo scetticismo e alla perdita di ogni certezza:



Isolandosi, essa [la ragione individuale] perde l’appoggio della tradizione. Incapace così di risalire alla sua origine, essa non vede in sé che un effetto senza causa. Il dubbio la pervade da

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ogni parte. Essa non trova nulla di necessario, quindi nessuna certezza. [Saggio sull’indifferenza in materia di religione, II, § 20]



Secondo Lamennais, invece, la ragione può giungere alla certezza solo all’interno del “senso comune”: seguendo la «testimonianza del genere umano» – cioè la tradizione – essa attinge la verità suprema che sta alla base di tutte le altre verità, cioè l’esistenza di Dio. A partire dalla fine degli anni Venti, tuttavia, Lamennais abbandonerà le posizioni del tradizionalismo e aderirà a quelle del cattolicesimo liberale. Di fronte alle ingiustizie sociali frutto dall’incipiente industrializzazione, egli si fa propugnatore sulle pagine dell’«Avenir» – il giornale da lui fondato nel 1830 – di un programma di emancipazione dell’uomo guidato dalla Chiesa. Il suo motto è: «Dio e libertà»; i suoi punti – esposti nelle Parole di un credente (1834) – sono: «libertà di coscienza e di religione, piena, universale e senza alcuna distinzione», libertà di insegnamento, di stampa, di associazione (perché «è nella natura umana l’incontrarsi e l’associarsi, e la conservazione delle altre libertà richiede la lotta comune e organizzata»), libertà elettorali, perché vi sia un accordo tra le istituzioni e le masse, sino all’abolizione del centralismo governativo e alla separazione tra Chiesa e Stato [«L’Avenir», 7 dicembre 1830]. Queste idee liberali furono severamente condannate dalla Chiesa, e l’esperienza dell’«Avenir» si concluse nel 1831 per le pressioni congiunte del governo e del clero. In seguito a tali vicende Lamennais maturerà la decisione di abbandonare la Chiesa per dedicarsi all’attività politica, militando nelle file dei democratici più estremisti e modificando il suo programma di realizzazione di una società giusta e cristiana: alla mediazione ecclesiale, infatti, si sarebbe sostituita la diretta azione del genere umano.

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1. I motivi dell’ostilità del tradizionalismo nei confronti della Rivoluzione francese sono riconducibili al fatto che i partigiani del moto insurrezionale teorizzarono che: a. la società è l’esito di una costruzione umana. V F b. la società è il prodotto di un ordine divino. V F c. per instaurare una società giusta si deve sovvertire l’ordine della natura. V F d. i dettami della ragione sono da imporre anche con la forza alla riottosa società umana. V F

2.2 Constant e Tocqueville In una posizione mediana tra le battaglie dei tradizionalisti in difesa dell’ordine sociale e le teorie dei socialisti utopistici [ I socialisti utopistici, pp. 8-10] in difesa dei bisogni popolari dell’epoca industriale, si colloca invece il programma del liberalismo, nel quale il grande tema della rivoluzione sociale e politica si intreccia con la rivendicazione della libertà e dei diritti dell’individuo. Particolarmente significativa a questo riguardo è la teoria esposta da Benjamin-Henri Constant de Rebeque (Losanna 1767-Parigi 1830) nella Libertà degli antichi comparata a quella dei moderni (1819). La libertà degli antichi va intesa per lui essenzialmente come libertà politica: essa «consisteva nell’esercitare collettivamente, ma direttamente, molte funzioni dell’intera sovranità», e tuttavia era compatibile con «l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme». La libertà dei moderni va intesa invece come libertà civile o libertà individuale: essa implica «il diritto di ciascuno di essere sottoposto soltanto alle leggi», di non essere esposto all’«arbitrio di uno o più individui», «di dire la sua opinione, di scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua proprietà», «di riunirsi con altri individui», infine «di influire sulla amministrazione del governo sia nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l’autorità sia più o meno obbligata a prendere in considerazione» [La libertà degli antichi comparata a quella dei moderni]. La libertà individuale dei moderni, intesa come «sicurezza dei godimenti privati», rappresenta per Constant una sfera che resta di diritto fuori da ogni competenza sociale. Tuttavia, ignorando le differenze strutturali che sussistono tra le società moderne e le società antiche, i riformatori rivoluzionari (come Rousseau) hanno riproposto una libertà intesa come partecipazione attiva al governo della collettività: ma che si trattasse di una proposta inadatta ai moderni è stato dimostrato per Constant dagli esiti della stessa Rivoluzione.



L’indipendenza individuale è il primo bisogno dei moderni: di conseguenza non se ne deve mai chieder loro il sacrificio per stabilire la

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libertà politica. Ne segue che nessuna delle istituzioni numerose e troppo vantate che nelle repubbliche antiche limitavano la libertà individuale è ammissibile nei tempi moderni […]. La libertà individuale, lo ripeto, ecco la vera libertà moderna. La libertà politica ne è la garanzia; la libertà politica è quindi indispensabile. Ma chiedere ai popoli dei giorni nostri di sacrificare come quelli di altre epoche la totalità della loro libertà individuale alla libertà politica è il mezzo più sicuro per distaccarli dall’una e quando vi si sarà riusciti non si tarderà a strappar loro l’altra. [La libertà degli antichi comparata a quella dei moderni]



Per Alexis-Charles-Henri Clérel de Tocqueville (Verneuil 1805-Cannes 1859) è ormai evidente che a partire dalle rivoluzioni industriali e liberali in Europa e in America si è innescato un ineluttabile processo storico per cui la società moderna si orienta sempre più decisamente verso la democrazia. D’altra parte, però, una simile spinta verso una società di giustizia basata sugli ideali democratici, a parere di Tocqueville, non è esente dalle storture e dai pericoli di nuove «specie di dispotismo». Per quel che riguarda la Francia, nell’Antico regime e la Rivoluzione (1856) Tocqueville evidenzia come l’evento rivoluzionario, pur avendo generato dei nuovi diritti, non avesse in realtà per nulla scalfito una caratteristica dell’Antico regime: quella del centralismo amministrativo. Ancor più, contribuendo alla distruzione dei corpi intermedi (l’aristocrazia, il clero, le corporazioni), che nell’Antico regime facevano da contrappeso allo Stato centralizzato, la Rivoluzione aveva esposto gli individui ai rischi di una società atomizzata. Con il rovesciamento di quel sistema di gerarchie e privilegi, infatti, non esistevano più né dei contropoteri capaci di resistere alle tendenze assolutistiche dello Stato, né associazioni capaci di evitare che gli individui restassero isolati nella loro dimensione privata. Proprio il decentramento politico e l’associazionismo rappresentano quelle caratteristiche per cui Tocqueville guarderà con favore al modello democratico degli Stati Uniti. N ella Democrazia in America (1835-1840) esso diveniva, oltre che oggetto di un’acuta descrizione, anche pretesto per un confronto con la situa-

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zione europea, e consentiva all’autore di delineare quale fosse la vera natura del regime democratico. Più che un semplice fautore della democrazia, però, Tocqueville ne è un lucido teorico, che non si limita ad esaltare i punti di forza del sistema americano, ma ne prefigura anche i rischi. Uno di questi è quello che egli definisce come la «tirannide della maggioranza», e che coincide con la massificazione:



Cos’è, infatti, una maggioranza, considerata collettivamente, se non un individuo che ha opinioni e interessi contrari a quelli di un altro individuo, cui si dà nome di minoranza? E se si ammette che un uomo solo, investito di poteri assoluti, può abusarne, come si può non ammettere la stessa cosa per una maggioranza? […] Ciò che rimprovero maggiormente al governo democratico, come lo si è organizzato negli Stati Uniti, non è, come molti pretendono in Europa, la sua debolezza, ma, al contrario, la sua forza irresistibile. E ciò che mi ripugna di più in America non è l’estrema libertà che vi regna, ma le scarse garanzie contro la tirannide. […] Quando si prende in esame l’esercizio del pensiero, così come si dà negli Stati Uniti, ci si accorge con assoluta certezza a che punto il potere della maggioranza superi ogni altro potere conosciuto da noi europei. Il pensiero è un potere invisibile e pressoché inafferrabile che si fa beffa di tutte le forme di tirannia […]. Carnefici e vittime sono gli strumenti primitivi che la tirannide ha finora usato; ai tempi nostri, la civiltà ha perfezionato persino il dispotismo […]. Il padrone non dice più: se non la pensate come me, morrete; egli dice: siete liberi di non pensarla come me, la vostra vita, i vostri beni e tutto il resto continuano ad appartenervi; ma da quel giorno voi siete uno straniero tra noi. [La democrazia in America, I, parte II, cap. 7]



1. La profetica analisi delle degenerazioni cui andranno incontro gli ordinamenti democratici, presente in Tocqueville, è motivata dal pericolo rappresentato da: a. la massificazione. b. il federalismo. c. la presenza di corpi intermedi. d. la libertà.

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3 Antonio Rosmini: l’idea dell’essere Antonio Rosmini Serbati (Rovereto 1797-Stresa 1855) fu uno dei principali esponenti del liberalismo cattolico italiano. Ordinato sacerdote nel 1821, egli fu un uomo di vastissima cultura. Compì studi di teologia e diritto canonico presso l’Università di Padova, dove strinse amicizia con Niccolò Tommaseo, ma coltivò anche interessi politici e filosofici. Nel 1826 si trasferì per motivi di studio a Milano, dove conobbe Alessandro Manzoni, mentre gli anni successivi lo videro impegnato prima (a partire dal 1828) nella fondazione della congregazione religiosa dell’Istituto della Carità, presso il Sacro Monte Calvario di Domodossola, e nella intensa attività di promozione dell’istituto, poi (dal 1848) nella missione diplomatica presso Pio IX per conto del governo, in vista di un concordato tra la Chiesa ed il Piemonte. La decisione del re Carlo Alberto di riprendere la guerra contro l’Austria prolungò la permanenza di Rosmini a Roma, dove fu sul punto di essere ordinato cardinale. Con l’instaurazione della Repubblica romana egli avrebbe poi seguito il papa nel suo esilio a Gaeta, ma il rafforzarsi della linea politicamente più intransigente all’interno della curia, lo costrinse, a causa delle sue idee liberali, all’emarginazione. Proprio in questa circostanza, peraltro, due sue opere furono messe all’Indice dei libri proibiti dalla Chiesa cattolica (1849); si trattava della Costituzione secondo la giustizia sociale (1848) e Le cinque piaghe della Santa Chiesa (1848) [ Le cinque piaghe]. La situazione avrebbe così indotto Rosmini a far ritorno in Piemonte e a dedicarsi a tempo pieno alla sua produzione filosofica ed alla cura dell’istituto religioso da lui fondato. Rosmini muove dall’esigenza di giustificare le proprie stesse procedure d’indagine entro un coerente “sistema di metafisica” e più specificamente di garantire alla ragione umana un accesso alla verità divina prendendo le mosse dalla formulazione di una teoria della conoscenza. Si tratta dunque di partire dal problema dell’“origine delle idee”, come recita il titolo della sua prima opera importante (Nuovo Saggio sulla Origine delle Idee, 1830), o meglio dal modo in cui sono presenti allo spirito umano

quelle idee generali necessarie per la formulazione di giudizi e ragionamenti. Confrontandosi in particolare con l’empirismo di Locke ed il sensismo di Condillac, ma anche con le «laboriose invenzioni» di Platone, Leibniz e Kant, egli pone a fondamento della sua gnoseologia quell’«elemento semplicissimo, sfuggito alla vista di tant’altri filosofi», precisamente quell’idea innata (cioè non prodotta dal soggetto conoscente) e indeterminata (cioè ancora priva di ogni determinazione reale) che costituisce «l’unica forma dell’intelletto e della ragione umana»: l’idea dell’essere. Si tratta di una vera e propria «idea madre» prescindendo dalla quale, secondo Rosmini, l’uomo non può «pensare a nulla». Essa però non serve per far conoscere le cose come sussistenti, ma solo per presentarle come possibili:



Laonde dicendo idea dell’essere non si dice il pensiero di un qualche ente che sussista […] ma […] una mera possibilità […]. La possibilità ci rimane dopo l’ultima astrazione che possiam fare sopra un ente pensato: se noi pensiamo un ente sussistente senza conoscerne la qualità, noi possiamo da un tal ente astrarre ancora qualche cosa, cioè la persuasione della sua sussistenza, e ci rimane tuttavia il pensiero della possibilità di quell’ente. L’idea dunque più universalissima di tutte, che è anche l’ultima delle astrazioni, è l’essere possibile, che si esprime semplicemente nominandolo idea dell’essere. [Nuovo Saggio sulla Origine delle Idee, n. 408]



Le cinque piaghe In quest’opera, una delle più note di Rosmini, egli stigmatizzava le cinque piaghe che affliggevano la Chiesa, ed in particolare il clero cattolico: la divisione tra il popolo dei fedeli ed il clero nella pratica del culto; l’insufficiente educazione del clero; la disunione dell’episcopato; la nomina dei vescovi abbandonata al potere statale; la servitù dei beni ecclesiastici.

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Contro Locke (secondo il quale le idee generali si originano mediante un processo di astrazione a partire dalla idee particolari fornite dalla sensazione e dalla riflessione) e contro Condillac (secondo il quale esse procedono da un graduale sviluppo della sensazione in immaginazione, intelletto e giudizio), Rosmini sostiene che l’idea dell’essere non si ricava dalle nostre percezioni interne ed esterne, né viene generata dal giudizio, perché essa costituisce piuttosto un presupposto tanto del passaggio dal particolare all’universale, quanto dell’attività del giudizio. Le soluzioni di Platone e Leibniz, d’altro canto, secondo Rosmini restano rispettivamente impigliate l’una nella moltitudine delle idee innate, l’altra nella complessità del sistema delle monadi e della teoria dell’armonia prestabilita. Una menzione particolare egli riserva piuttosto a Kant, cui riconosce il merito di aver rimarcato la divisione delle idee «nella loro parte formale» (ciò che conferisce oggettività ed universalità alle cognizioni) e «nella loro parte materiale» (l’elemento particolare di origine sensibile). E tuttavia, alle forme «messe dal Kant nello spirito umano» [Nuovo Saggio sulla Origine delle Idee, n. 306] vale a dire le intuizioni sensibili dello spazio e del tempo, le categorie dell’intelletto e le idee della ragione, Rosmini oppone un’unica forma – l’idea dell’essere, appunto – alla quale, peraltro, egli garantisce una fondazione trascendente: tale forma, infatti, è “oggettiva” non in quanto costituisce una funzione trascendentale del soggetto conoscente, come in Kant, ma in quanto deriva direttamente da Dio. E difatti, riprendendo la classica concezione di Agostino riguardo all’illuminazione divina della mente umana, grazie alla quale soltanto l’uomo può conoscere la verità, anche Rosmini parla di una “luce” che non nasce dalla ragione ma che proviene ad essa da una fonte altra da sé. Una volta posta la distinzione tra un a priori e un a posteriori della conoscenza, la “percezione intellettiva” (o conoscenza intellettuale) si configura per Rosmini come quell’atto sintetico che conferisce oggettività al contenuto empirico e soggettivo della rappresentazione sensibile traducendosi in un giudizio di esistenza: l’idea dell’essere consente di affermare che la cosa rappresentata dalla sensazione “è” (cioè “esiste”); e la sensazione, a sua volta, fornisce all’indeterminata idea di essere una determinazione reale. Partendo dall’idea particolare fornita dalla perce-

zione intellettiva è possibile poi, secondo Rosmini, spiegare il sorgere delle idee complesse con un processo di astrazione che risale via via fino ai supremi princìpi del conoscere e alla stessa idea di essere – la quale però, in quanto fonte di ogni intelligibilità, non costituisce un prodotto dell’astrazione, ma quel principio assoluto che governa l’intero processo conoscitivo. Per quel che riguarda la “percezione sensitiva” (o conoscenza sensibile) – come Rosmini dirà, oltre che nel N uovo Saggio, anche nell’Antropologia in servizio della scienza morale (1838) e nella Psicologia (1850) – essa fa appello al «sentimento fondamentale corporeo», vale a dire quell’atto primo e originario che consiste nell’immediata coscienza che il soggetto percipiente ha di sé in quanto corpo. Tutte le altre sensazioni particolari ed accidentali, invece, non sono che modificazioni prodotte dall’azione dei corpi esterni su questo stesso sentimento «uniforme e semplicissimo». Sulla stessa idea dell’essere si innesta la riflessione rosminiana circa i Princìpi della scienza morale (1831): giacché infatti l’essere e il bene coincidono ontologicamente, il «lume della ragione» (che per Rosmini è sinonimo dell’idea dell’essere) costituisce tanto il principio oggettivo della conoscenza, quanto la regola suprema dei giudizi morali. Ne consegue che la mente umana è atta a cogliere l’oggettività dell’imperativo morale conformandosi all’ordine che i vari esseri occupano nell’ambito della gerarchia dell’essere: in altri termini, ad una maggiore o minore quantità ontologica corrisponde una maggiore o minore dignità morale: per esempio le “persone”, in quanto hanno valore di fini, sono superiori alle “cose”, che invece valgono come semplici mezzi. Alla “stima speculativa”, cioè al giudizio teoretico con cui il soggetto identifica il posto che ciascun essere occupa nell’ordine dell’essere, Rosmini affianca una “stima pratica”, vale a dire una «riflessione volontaria» con cui il soggetto si impegna a riconoscere o meno la verità già conosciuta in ambito speculativo e valuta se adeguare o meno ad essa il proprio comportamento morale. La moralità consiste nella corrispondenza tra la stima pratica e la stima speculativa, il che implica che il riconoscimento pratico non segue necessariamente il giudizio teoretico: la volontà, infatti, può sempre scegliere liberamente se conformarsi alla stima speculativa oppure al criterio del piacere e dell’interesse personale.

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parte I La filosofia dell’Ottocento

Il sistema elaborato da Rosmini trova il suo compimento nella dottrina dell’unità delle tre forme dell’essere esposta nella Teosofia (postuma). Egli distingue qui, accanto all’idea dell’essere (o l’“essere ideale”) altre due forme o modi essenziali: l’“essere reale” e l’“essere morale”. L’essere ideale, infatti, è la condizione di intelligibilità di tutto e si configura come “virtuale” e “iniziale” (nel senso che contiene potenzialmente tutti gli enti e che tutti gli enti hanno inizio da esso), ma anche come astratto e impersonale; esso, dunque, deve presupporre un essere intelligente realmente esistente (vale a dire, l’essere reale). L’essere morale, infine, è ciò che salda tra loro le prime due forme, in quanto congiunge l’idealità della legge con la volontà del soggetto reale.

4 Vincenzo Gioberti: l’ontologismo Vincenzo Gioberti (Torino 1801-Parigi 1852) fu un importante filosofo e uomo politico del Risorgimento italiano. Anche lui, come Rosmini, si dedicò agli studi teologici e filosofici ed alla vita sacerdotale. Per quel che invece concerne il suo impegno politico, rientrato in Italia dopo un lungo esilio (dal 1834 al 1848) in Francia e in Belgio seguito ai moti mazziniani del 1833, fu eletto al Parlamento subalpino e rivestì la carica di primo ministro. N el 1849, dopo la sconfitta dell’esercito piemontese che segnò la fine della prima guerra di Indipendenza italiana, si trasferì a Parigi dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. L’intera filosofia giobertiana è costruita sulla dottrina dell’“ontologismo” (esposta nell’Introduzione allo studio della filosofia, 1840), secondo la quale la conoscenza umana è capace di intuire in maniera diretta l’“Ente” indubitabilmente esistente, vale a dire, Dio stesso. Con essa Gioberti intendeva far fronte a quello che secondo lui costituiva l’errore fondamentale di tutta la filosofia moderna da Descartes a Locke, da Kant a Hegel: lo “psicologismo”. Si trattava della pretesa di giungere a una conoscenza oggettiva sostituendo alla verità divina, eterna e immutabile le semplici modificazioni o determinazioni limitate e finite del soggetto. La stessa idea rosminiana del-

l’essere – come egli dirà anche nel polemico Degli errori filosofici di Antonio Rosmini (1841-43) – non sfugge ad un simile abbaglio, giacché, caratterizzandosi come mero possibile, resta chiusa nella soggettività e dunque rappresenta solo un “primo psicologico”, non un “primo ontologico”(cioè lo stesso ente primo e infinito). Per Gioberti, invece, l’“Idea” non è semplicemente il “primo psicologico”, ma anche il “primo ontologico”, nel senso che essa coincide con l’essere stesso o ente supremo, e in quanto tale fonda il sapere umano e costituisce la garanzia di ogni ulteriore conoscenza:



L’oggetto primario e principale della filosofia è l’Idea […]. Con questo vocabolo legittimato da Platone alla lingua filosofica di tutti i paesi civili d’Europa, e da me preso in senso analogo al platonico, voglio significare, non già un concetto nostro, né altra cosa o proprietà creata, ma il vero assoluto ed eterno, in quanto si affaccia all’intuito dell’uomo. La voce Idea fu stranamente abusata da molti filosofi […]. Parmi tempo di restituire a questa nobil voce il suo legittimo valore, e di sottrarla, almeno in parte, se l’uso vieta di far più, alla sua volgare insignificanza. […] Sotto nome Idea intendo l’oggetto della cognizione razionale in sé stesso, aggiuntavi però una relazione al nostro conoscimento. [Introduzione allo studio della filosofia, cap. 3]



L’apprensione dell’Idea da parte dell’uomo si realizza a mezzo dell’“intuito” originario, in cui essa si manifesta quale essere reale ed indeterminato non nel senso che preceda ogni determinazione, ma nel senso che contiene ogni determinazione. All’intuito segue la “riflessione”, tramite la quale l’uomo chiarifica e determina l’Idea, cioè riporta tutti gli “esistenti” – ossia tutto ciò che percepisce e conosce – alla causa prima, come effetti del suo potere creativo. Egli elabora così le conoscenze razionali che poi esprime attraverso la parola (che Gioberti definisce «temmirio», cioè testimonianza, in quanto essa è rivelazione del verbo divino). Gioberti sintetizza la dottrina dell’ontologismo nella «formola ideale» costituita di due momenti: «l’Ente crea l’esistente» e «l’esistente ritorna all’Ente». Il primo momento “discensivo” (o “mimesi”, in quanto gli enti creati imitano il creatore) coincide con l’atto creativo libero con cui l’Ente dà esistenza a tutto il reale: il «vincolo tra l’Ente e l’esistente» – dice Gioberti –

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SINTESI CAPITOLO 9

«è la creazione», «positiva e reale, ma libera» [Introduzione allo studio della filosofia, cap. 4]. Il secondo momento “ascensivo” (o “metessi”, in quanto gli enti creati partecipano a loro modo all’attività creatrice) coincide invece con quel movimento che l’esistente compie per ricongiungersi all’Ente. Tale ritorno all’origine è reso possibile dall’uomo il quale è un «dio incoato», cioè una forza creatrice, la causa efficiente di una nuova creazione. La «formola ideale» trova poi un rispecchiamento nell’enciclopedia del sapere, giacché a ciascuno dei suoi tre termini (Ente, creazione, esistente) Gioberti fa corrispondere Ideologia e spiritualismo. Una delle figure più rilevanti del gruppo degli idéologues fu Antoine-LouisClaude Destutt de Tracy (17541836), lo stesso che aveva introdotto il termine “ideologia” (idéologie) nel senso letterale di “scienza delle idee”. Egli intende condurre, su base rigorosamente fenomenistica e antimetafisica, una descrizione circostanziata delle nostre facoltà intellettive, in modo da produrre una conoscenza rigorosa del funzionamento della mente umana. Secondo Destutt de Tracy, in polemica con l’assenza di radicalità del sensismo illuministico, bisogna assolutamente evitare il ricorso a qualunque principio immateriale per fondare la conoscenza e occorre intendere la sensibilità solo come «un fenomeno della nostra organizzazione», legata ai concreti movimenti che avvengono nell’organismo corporeo. Un altro noto idéologue fu il medicofilosofo Pierre-Jean-Georges Cabanis (1757-1808) che volle dare alla scienza morale una fondazione rigorosa, concepita sul modello delle moderne scienze positive. Per far questo Cabanis si propone di partire dallo studio della fisiologia nel convincimento che i princìpi del comportamento dell’uomo fossero strettamente connessi con i suoi stessi concreti bisogni. Anch’egli nega perciò l’esistenza dell’anima e sottolinea come tanto i fenomeni fisiologici quanto quelli morali si possano ricondurre in ultima istanza alla sensibilità, fondamento di ogni aspetto della vita dell’uomo. Una strenua opposizione agli idéologues venne da Marie-FrançoisPierre Gontier Maine de Biran

delle specifiche discipline. L’Ente dà luogo alla scienza ideale suddivisa in filosofia e teologia; il concetto di creazione alle matematiche, alla logica, alla morale; l’esistente alle scienze fisiche. Il momento ascensivo del ritorno all’Ente, è quello che vede come protagonista la comunità umana, quale creatrice di tutti i valori del mondo fenomenico, della scienza, dell’arte e dei progressi civili. Tra tutti i popoli il popolo italiano è quello che, per Gioberti, detiene il primato in quanto depositario di una tradizione cattolica in cui sono riassunti tutti i valori della civiltà (Del primato morale e civile degli italiani, 1843).

(1766-1824). Egli fu il capostipite dello spiritualismo, una corrente filosofica che si propose di porre l’accento sul valore della soggettività spirituale. Per comprendere la vera natura della conoscenza umana si deve distinguere il carattere passivo della sensibilità dall’attività della coscienza intendendola come la capacità dell’io di agire secondo una determinata volontà: l’“io” dunque non è una “sostanza pensante”, ma piuttosto «una forza volente». Al cogito si sostituisce quindi lo “sforzo”, cioè un principio volitivo-motorio irriducibile alla sensazione e non localizzabile in nessuna parte dell’organizzazione fisica. Tradizionalismo e liberalismo. Edmund Burke (1729-1797) biasimò la Rivoluzione francese sostenendo che il suo reale proposito non era stato quello di difendere i diritti violati dall’autorità, bensì quello di sovvertire l’ordine naturale delle cose, rimpiazzando le tradizioni storico-politiche con i princìpi astratti della ragione illuministica. Si trattava di un attacco diretto contro i philosophes, colpevoli di aver innalzato la ragione a criterio di giudizio della storia e della politica e di aver fondato su questa base un nuovo concetto di società, lontano dalla vera natura dell’uomo. L’opera di Burke avrà un’eco vastissima in tutta Europa e diverrà un punto di riferimento obbligato per i teorici di quella potente reazione culturale allo spirito dei “lumi” – fiorita nel clima della Restaurazione – che fu il tradizionalismo francese. È proprio questo carattere “contro natura” della Rivoluzione francese

che viene teorizzato da Joseph de Maistre (1753-1821). Essa rappresenta per lui il male, nel suo “stato puro”, manifestatosi nella storia. L’orrore rivoluzionario può quindi spiegarsi solo nel quadro di un progetto divino sulla storia che, per il tramite della distruzione, porta con sé paradossalmente la speranza di una rigenerazione del mondo. L’unica possibilità di un ritorno all’unità e all’ordine per l’Europa cristiana è legata al recupero del progetto teocratico della supremazia della Chiesa e del papa. L’idea che si afferma dunque con i tradizionalisti è che la società non è l’esito di una costruzione umana, ma di un ordine divino originario. Conferma tale assunto Louis-GabrielAmbroise de Bonald (1754-1840) che non distingue tra politica e religione: esiste un’unica società, espressione di un legame profondo tra uomo e Dio, e l’uomo non può prescindervi, illudendosi di agire come legislatore, perché questo porta soltanto ad emanare «leggi difettose». Anche de Bonald, dunque, vede nella Rivoluzione uno strumento divino per ristabilire l’ordine sociale non essendo l’unico scopo lecito della società altro che quello della “conservazione”. Alle idee di un rigido tradizionalismo aderì inizialmente anche Hugues-Félicité Robert de Lamennais (1782-1854): egli identificò il vero male della modernità nello «spirito dell’indifferentismo», peggiore di qualunque dottrina atea in quanto rappresenta la rinuncia definitiva alla certezza che si può raggiungere solo seguendo la tradizione. A partire dalla fine degli anni Venti, tuttavia,

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parte I La filosofia dell’Ottocento Lamennais abbandonerà le posizioni del tradizionalismo e aderirà a quelle del cattolicesimo liberale. Questa svolta in senso liberale fu severamente condannata dalla Chiesa e, in seguito a tali vicende, Lamennais maturerà la decisione di abbandonare la Chiesa per dedicarsi all’attività politica, militando nelle file dei democratici più estremisti. In una posizione mediana tra tradizionalismo e socialismo si colloca il programma del liberalismo, nel quale il grande tema della rivoluzione sociale e politica si intreccia con la rivendicazione della libertà e dei diritti dell’individuo. Particolarmente significativa a questo riguardo è la teoria esposta da Benjamin-Henri Constant de Rebeque (1767-1830) attraverso una comparazione tra la libertà degli antichi, che è da intendersi essenzialmente come libertà politica compatibile con la mancata tutela delle libertà civili, e la libertà dei moderni che invece è da intendersi come libertà individuale. Tuttavia, ignorando le differenze strutturali che sussistono tra le società moderne e le società antiche, i riformatori rivoluzionari (come Rousseau) hanno riproposto, in piena età moderna, una libertà intesa come partecipazione attiva al governo della collettività: ma che si trattasse di una proposta inadatta ai tempi è stato dimostrato per Constant dagli esiti fallimentari della stessa Rivoluzione. Per Alexis-Charles-Henri Clérel de Tocqueville (1805-1859) è ormai evidente che si è innescato un ineluttabile processo storico per cui la società moderna si orienterà sempre

più decisamente verso la democrazia. D’altra parte, però, una simile spinta verso una società basata sugli ideali democratici non è esente dalle storture e dai pericoli di nuove «specie di dispotismo» che, nel caso della Francia postrivoluzionaria, sono rappresentate dalla soppressione dei corpi intermedi della società e dalla persistenza del centralismo amministrativo dell’Antico regime e, nel caso della democrazia statunitense, dal pericolo dell’affermazione della tirannide della maggioranza che è insito nel processo di massificazione egualitaria.

dente che richiama la dottrina dell’illuminazione agostiniana. Sulla stessa idea dell’essere si innesta la riflessione rosminiana circa la morale: giacché infatti l’essere e il bene coincidono ontologicamente, l’idea dell’essere costituisce tanto il principio oggettivo della conoscenza, quanto la regola suprema dei giudizi morali.

Antonio Rosmini: l’idea dell’essere. Antonio Rosmini Serbati (17971855) fu uno dei principali esponenti del liberalismo cattolico italiano. Rosmini muove dall’esigenza di garantire alla ragione umana un accesso alla verità divina prendendo le mosse dalla formulazione di una teoria della conoscenza. Rosmini pone a fondamento della sua gnoseologia l’idea innata e indeterminata dell’essere: essa non serve a far conoscere le cose come sussistenti, ma solo a presentarle come possibili. Contro l’empirismo e il sensismo, Rosmini sostiene che l’idea dell’essere non si ricava dalle nostre percezioni, né viene generata dal giudizio. Al contrario egli rivaluta Kant cui riconosce il merito di aver rimarcato la divisione delle idee «nella loro parte formale» e «nella loro parte materiale». E tuttavia, alle forme trascendentali kantiane, Rosmini oppone un’unica forma – l’idea dell’essere, appunto – alla quale, peraltro, egli garantisce una fondazione trascen-

Vincenzo Gioberti: l’ontologismo. Vincenzo Gioberti (1801-1852) fu un importante filosofo e uomo politico del Risorgimento italiano. L’intera filosofia giobertiana è costruita sulla dottrina dell’“ontologismo”, secondo la quale la conoscenza umana è capace di intuire in maniera diretta Dio stesso. Con essa Gioberti intendeva far fronte all’errore fondamentale di tutta la filosofia moderna: lo “psicologismo”. Gioberti sintetizza la dottrina dell’ontologismo nella «formola ideale» costituita di due momenti: «l’Ente crea l’esistente» e «l’esistente ritorna all’Ente». Il primo momento “discensivo” coincide con l’atto creativo libero con cui l’Ente dà l’esistenza a tutto il reale, il secondo momento “ascensivo” coincide invece con quel movimento che l’esistente compie per ricongiungersi all’Ente. Il momento ascensivo del ritorno all’Ente, è quello che vede come protagonista la comunità umana, quale creatrice di tutti i valori del mondo fenomenico, della scienza, dell’arte e dei progressi civili. Tra tutti i popoli, il popolo italiano è quello che, per Gioberti, detiene il primato in quanto depositario di una tradizione cattolica in cui sono riassunti tutti i valori della civiltà.

• L.-G.-A. de Bonald, La legislazione primitiva, brani citati in: M. Ravera, Introduzione al tradizionalismo francese, Laterza, Roma-Bari 1991. • H.-F.R. de Lamennais, Saggio sull’indifferenza in materia di religione, brani citati in: C. Galli (a cura di), I controrivoluzionari. Antologia di scritti politici, il Mulino, Bologna 1981.

• B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, a cura di L. Arnaudo, Liberilibri, Macerata 2001. • A.-C.-H. Clérel de Tocqueville, La democrazia in America, brani citati in: V. de Caprariis - N. Matteucci (a cura di), Tocqueville. Antologia di scritti politici, il Mulino, Bologna 1978. • A. Rosmini, Nuovo saggio

BIBLIOGRAFIA Fonti • M.-F.-P. Maine de Biran, Saggio sui fondamenti della psicologia e Nuovi saggi di antropologia, brani citati in: Grande antologia filosofica, vol. XIX, Il pensiero moderno: prima metà del secolo XIX, Marzorati, Milano 1971. • J. de Maistre, Saggio sul principio generatore, brani citati in: M. Ravera, Introduzione al tradizionalismo francese, Laterza, Roma-Bari 1991.

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Gnoseologia e politica capitolo 9 sull’origine delle idee, Città Nuova, Roma 1875. • V. Gioberti, Introduzione allo studio della filosofia, a cura di G. Calò, Bocca, Milano 1941.

Opere

ESERCIZI

• A.-L.-C. Destutt de Tracy, Memoria sulla facoltà di pensare, trad. di G. Sacchi, Bizzoni, Pavia 1824. • P.-J.-G. Cabanis, Rapporti tra il fisico e il morale dell’uomo, trad. S. Moravia, Laterza, Roma-Bari 1973. • J. de Maistre, Scritti politici. Studio sulla sovranità e il principio generatore delle costituzioni politiche, trad. di S. Moretti, Cantagalli, Siena 2000. • H.-F.R. de Lamennais, L’Avenir (1830-1831). Antologia degli scritti di Félicité-Robert Lamennais e degli altri collaboratori, trad. di G. Verucci, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1967. • A.-C.-H. Clérel de Tocqueville, L’antico regime e la Rivoluzione, trad. di C. Vivanti, introduzione di L. Cafagna, Einaudi, Torino 1989. • A.-C.-H. Clérel de Tocqueville, La democrazia in America, trad. di N. Matteucci, Utet, Torino 2007. • A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, in Opere, vol XXIV, a cura di F. Evain, Città Nuova, Roma 1981. • A. Rosmini, Delle cinque piaghe

della santa Chiesa, a cura di A. Valle, Città Nuova, Roma 1999. • A. Rosmini, Teosofia, a cura di M.A. Raschini, P. P. Ottonello, 6 voll., Città Nuova, Roma 1998-2002. • V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, a cura di U. Redanò, 2 voll, Bocca, Milano 1938-39. • V. Gioberti, Degli errori filosofici di Antonio Rosmini, 2a ed., Batelli, Napoli 1945.

Studi critici Per una visione d’insieme sul movimento filosofico e politico degli ideologi si possono consultare: • S. Moravia, Il pensiero degli idéologues. Scienza e filosofia in Francia (1780-1815), La Nuova Italia, Firenze 1974; • S. Moravia, Il tramonto dell’illuminismo. Filosofia e politica nella società francese (1770-1810), Laterza, Roma-Bari 1986. Per quel che riguarda il pensiero di Maine de Biran: • S. Cavaciuti, Il problema morale nel pensiero di Maine de Biran, Marzorati, Milano, 1981. Per un approfondimento critico sul tradizionalismo francese si può consultare il volume a cura di M. Ravera citato nella sezione “Fonti”.

Per una ricostruzione storica del liberalismo: • G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 2005. Su Constant: • S. De Luca, Il pensiero politico di Constant, Laterza, Roma-Bari 1993. Su Tocqueville: • G. Bedeschi, Il pensiero politico di Tocqueville, Laterza, Roma-Bari 1996; • S. Abbruzzese, La sociologia di Tocqueville. Un’introduzione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005. Per inquadrare complessivamente il pensiero di Rosmini si consigliano: • P. Prini, Introduzione a Rosmini, Laterza, Roma-Bari 1999; • U. Muratore, Conoscere Rosmini. Vita, pensiero, spiritualità, Edizioni Rosminiane Sodalitas, Stresa 2008. Per quel che riguarda il pensiero di Gioberti si possono consultare: • G. Rumi, Gioberti, il Mulino, Bologna 2000; • M. Mustè, La scienza ideale. Filosofia politica in Vincenzo Gioberti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000. Per un confronto tra Rosmini e Gioberti si vedano: • D. Intini, La controversia tra Rosmini e Gioberti, Edizioni Rosminiane Sodalitas, Stresa 2002.

1. Gli esponenti della tradizione degli idéologues portano alle estreme conseguenze le premesse del sensismo illuministico. Presenta gli esiti materialistici di questa radicalizzazione (max 10 righe).

5. Spiega come Rosmini volge la fondazione trascendentale della conoscenza di origine kantiana in direzione di una costituzione trascendente del processo gnoseologico (max 10 righe).

2. Opera una comparazione tra le proposte dei tradizionalisti e quelle dei liberali per contrastare la deriva dispotica della Rivoluzione francese (max 10 righe).

6. Presenta il ruolo storico che Gioberti, in base alla sua filosofia, assegna al popolo italiano (max 10 righe).

3. Illustra la singolare parabola dell’ideologia di Lamennais dall’intransigente tradizionalismo sino all’estremismo democratico (max 10 righe). 4. Spiega in che modo il liberale Constant condanna gli esiti fallimentari della Rivoluzione francese richiamandosi alla concezione della libertà dei moderni (max 10 righe).

7. Rintraccia e confronta i motivi di opposizione dei filosofi italiani Rosmini e Gioberti nei riguardi della filosofia moderna (max 15 righe).

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LA SVOLTA DEL NOVECENTO

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Dall’Ottocento al Novecento: una nuova scena del pensiero In filosofia il “Novecento” non indica soltanto una scansione cronologica, ma un carattere peculiare del pensiero. I classici problemi della filosofia moderna, spinti alle loro massime pretese nel pensiero ottocentesco, la fanno ancora da protagonisti, ma nella consapevolezza sempre più evidente – anche da punti di vista diversi – di una crisi strutturale del pensiero, cioè del modo di concepire il mondo e l’io, la natura e Dio, la storia e la scienza, la cui radicalità si presenta come un abisso ancora tutto da sondare, e che non è più possibile coprire. È vero che nel corso dei secoli la filosofia è sempre stata attraversata da momenti critici, ma ora si tratta di qualcosa di diverso, come se la crisi non fosse appena un momento patologico da superare, ma divenisse per così dire una dimensione “fisiologica” del pensiero stesso, qualcosa che rimane come un tarlo o un peso ineliminabile da ogni esperienza umana. Questo non vuol dire affatto che nella svolta del Novecento vengano azzerate tutte le certezze, abbandonate tutte le dottrine tradizionali o seppellita l’idea stessa di una verità stabile. Certezze, dottrine e verità continuano ad essere ricercate e affermate, ma tutte si portano dentro l’urgenza di fare i conti continuamente con sé stesse, e di affrontare la possibilità, sempre incombente, che vengano meno le loro pretese. Una posizione, questa, già testimoniata da Kierkegaard e soprattutto da Schopenhauer, non a caso due autori che lasceranno una forte impronta nel secolo successivo. Non è un caso che il Novecento filosofico cominci con una data di morte, quella di Friedrich Nietzsche (scomparso appunto nell’agosto 1900), colui che porta nel suo pensiero, ma anche nel suo stesso corpo, la crisi di un’intera epoca, e giudica la filosofia del suo tempo come l’estrema dissoluzione della storia del pensiero, vista come un grande inganno. Si tratta di una situazione critica che non può più essere superata dall’interno delle categorie tradizionali, proprio perché la crisi è concepita come un insuperabile destino della filosofia: quello che, con una parola che farà storia, lo stesso Nietzsche chiama programmaticamente «nichilismo». Ma il gesto iconoclasta nietzscheano convive con altri tentativi di segno opposto, che, di fronte all’avvertenza della crisi, cercano di trovare una strada per riaffermare in una maniera più rigorosa l’oggettività del vero e la certezza del conoscere. Ed è significati-

vo che – contro l’idealismo e il positivismo, due lati di una stessa pretesa sistematica e onnicomprensiva sulla realtà – si ritorni a Kant, cercando di fronteggiare la crisi della cultura e dei valori mediante una riaffermazione delle pure capacità trascendentali del soggetto umano. Ma al fondo delle analisi dei neokantiani c’è un problema che verrà messo a tema soprattutto con lo storicismo (Dilthey), vale a dire la possibilità di “conoscere” in maniera appropriata una materia come la storia, così diversa dagli oggetti della natura fisica e affidata alle leggi in gran parte mutevoli dell’antropologia, della psicologia e della sociologia. La sfida delle “scienze dello spirito” è quella di conoscere, cioè di comprendere nel suo senso oggettivo ciò che sembrerebbe per sua natura “soggettivo”, vale a dire i nostri “vissuti”, le nostre esperienze storiche, e più radicalmente quel fenomeno sui generis che è la “vita”. Troveremo in Bergson la più acuta riflessione sull’esperienza della vita: l’essere del mondo non è solo quello determinato dalle scienze positive, ma anche quello che la nostra coscienza riesce a vivere e ad esprimere nel corso del tempo. Proprio il tempo appare come il più appropriato modo d’essere della vita: una realtà che non si può semplicemente misurare, ma si può solo vivere. In fondo questa vita che dall’interno spinge ed erode le forme cristallizzate dei concetti e dei sistemi è il lato, chiamiamolo così, “positivo” di questa crisi permanente del pensiero novecentesco. Al tempo stesso l’appello della vita è come un richiamo sempre “trattenuto”, circoscritto, tenuto quasi a distanza: ed è quell’altra tendenza che si afferma con la svolta del Novecento, vale a dire quel «disincantamento del mondo» di cui parlerà Max Weber. Esso non è di per sé sinonimo di scetticismo, ma segna una specie di iato tra la vita e il senso della vita, tra la razionalizzazione della conoscenza e della società, da un lato, e le motivazioni personali dall’altro, tra il potere della scienza e la possibilità della felicità per gli uomini. Stare in questo iato, sapendo di non poterlo più superare con le proprie strategie di pensiero, e al tempo stesso tentare ogni volta di rimettere insieme gli elementi che tendono a divaricarsi tra di loro, è il compito della filosofia nell’epoca della sua crisi permanente, cioè di una filosofia che scopre di non essere mai all’altezza, o alla profondità, della vita.

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capitolo 10

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Friedrich Nietzsche

1 La verità di Nietzsche La domanda da cui bisogna partire per comprendere il pensiero di Nietzsche è la seguente: chi era veramente quest’uomo? Non si tratta di una questione psicologica o meramente biografica, come se volessimo sbirciare l’individuo certamente singolare che si nasconde dietro la sua filosofia, dotato di una personalità tanto geniale quanto contorta; si tratta invece della questione teoreticamente più rilevante per conoscere un autore come N ietzsche, il quale non ha proposto una filosofia come prodotto del suo pensiero, ma ha proposto sé stesso come l’attuazione della sua filosofia. Per questo – come una volta ha detto Martin Heidegger [ 19], uno dei suoi interpreti più acuti – il nome stesso di Nietzsche sta a indicare l’oggetto, o meglio la “cosa” della sua filosofia, tutta giocata sul pensiero che «la vita potrebbe essere un esperimento di chi è volto alla conoscenza» [La gaia scienza, IV, n. 324]: egli stesso dunque può essere letto come l’esperimento della sua filosofia.

Il nome di Nietzsche è di solito associato a un radicale e quasi ossessivo progetto di distruzione dei vecchi valori del mondo moderno – quelli che per lui sono gli ideali del platonismo e di un cristianesimo ridotto a platonismo – in cui si affermerebbe la nefasta divisione tra un mondo inferiore, quello dell’apparenza sensibile, sempre in balìa del divenire e della corruzione, e un mondo superiore, quello delle verità ideali, immutabile e separato rispetto al primo. Al tempo stesso, però, il nome di Nietzsche indica anche il tentativo di un inizio radicalmente nuovo per il pensiero che vuol lasciarsi alle spalle la tradizione moderna (e per questo viene chiamato postmoderno), dichiarando ormai impossibile l’uomo come “valore” in sé e lanciando la sfida di un altro uomo – un uomo che è oltre sé stesso o meglio è un superuomo – il cui valore consiste solo nella sua volontà di potenza, e cioè nella prospettiva con cui ciascuno è in grado di interpretare il mondo. Quello che Nietzsche ha voluto tentare, scardinando i vecchi valori e creandone di nuovi, è stata la riconquista di una verità che gli sembrava ormai sfigurata, contraffatta, mistificata. Egli non dice semplicemente che la verità non esi-

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ste, bensì che quella che finora è stata chiamata verità era una menzogna: e dunque, senza tener conto della sua esigenza del vero non si riuscirebbe a capire nemmeno la sua dura contestazione di ciò che vero non è, ma è solo un idolo religioso o un astratto feticcio della metafisica moderna:



Non voglio essere un santo, allora piuttosto un buffone… Forse sono un buffone… E ciononostante, anzi non ciononostante – perché non c’è mai stato sinora niente di più menzognero dei santi – la verità parla in me. Ma la mia verità è tremenda: perché fino a oggi si chiamava verità la menzogna. […] Io per primo ho scoperto la verità, proprio perché per primo ho sentito la menzogna come menzogna, la ho fiutata… Il mio genio è nelle mie narici… [Ecce homo, «Perché io sono un destino», § 1]



Ma proprio scoprendo che tutto quello che credevamo fisso, stabilito una volta per tutte nel cielo iperuranio delle idee, è in realtà menzognero, frutto di pregiudizi morali e di istinti sociali, resta sempre un problema irrisolto, e cioè: da dove mai proviene questo «enigmatico impulso alla verità»? [Su verità e menzogna in senso extramorale, 1]. Tutto l’impegno profuso da Nietzsche per distruggere le forme tradizionali della verità – l’essere, Dio, la realtà – non riesce a negare l’enigma e l’inquietudine che la sua presenza, e ancor più la sua assenza, lascia nel nostro pensiero:



Un giorno il viandante sbatté una porta dietro di sé, si arrestò e pianse. Poi disse: «Questa inclinazione, questo impulso verso il vero e il reale, il non parvente, il certo, mi fanno rabbia! Perché questo battitore fosco e impetuoso segue proprio me?» [La gaia scienza, IV, n. 309]



Per questo possiamo dire che le questioni più urgenti e più ardue del pensiero nietzscheano non sono tanto quelle “morali”, ma quelle “conoscitive”; e anche negli scritti dedicati alla morale il punto problematico non è mai che cosa dobbiamo fare, ma che cosa siamo: un problema, appunto, di conoscenza. Ma Nietzsche è anche colui che ha teorizzato non esserci più “fatti” veri e oggettivi da conoscere, bensì solo le interpretazioni che noi ne

diamo, e la sua esasperata urgenza di conoscenza si accompagna con la scoperta – tragica e allegra al tempo stesso – che tutto ciò che si credeva di sapere con certezza è venuto meno. In questa contraddizione, che non si chiude mai, sta il tratto caratteristico del pensiero di Nietzsche. Perciò alla domanda su chi egli sia si può rispondere con quello che lui stesso una volta ha detto di sé: «il primo perfetto nichilista d’Europa, che ha già vissuto in sé fino in fondo il nichilismo stesso» [Frammenti postumi, novembre 1887-marzo 1888, 11 [411], 3, vol. VIII/2] nel senso che egli ha patito la grande crisi dell’essere, l’epoca in cui tutti i valori perdono il loro valore, ma ha anche tentato di superare questa perdita, trasformandola in una volontà di rinascita. N el corso del N ovecento N ietzsche è stato interpretato, di volta in volta, come il pensatore dell’irrazionalismo e l’ispiratore delle ideologie razziste, ma anche come colui che ha abbattuto tutti gli idoli della morale e della politica; come il torbido precursore dell’idea di potenza nazionalsocialista, ma anche come l’interprete disincantato del tramonto di tutti gli ideali della tradizione moderna, vale a dire Dio, il soggetto e lo Stato; come colui che ha riaffermato la necessità e l’eternità del mondo e del tempo e insieme come il più radicale dei relativisti e il campione dell’indebolimento del pensiero. Una cosa però è certa: non è eliminando queste opposizioni, ma è proprio attraverso di esse che possiamo riconoscere la grandezza tragica di quest’uomo che ha voluto sperimentare su di sé l’alba del superuomo e il destino eterno della volontà di potenza, ed è caduto vittima della sua stessa immane pretesa. Ma si tratta di un “fallimento” che ha fatto storia.

2 Una vita alla ricerca della “salute” Friedrich N ietzsche nasce a Röcken, vicino Lipsia, il 15 ottobre 1844. Suo padre, come i suoi due nonni, era un pastore protestante e anche Friedrich dopo gli studi ginnasiali si iscrive nel 1864 alla Facoltà di Teologia

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dell’Università di Bonn. A quell’epoca, nonostante la giovane età, egli aveva già coltivato intensamente i suoi interessi per la poesia e per il teatro e soprattutto il suo gusto e il suo talento musicale, componendo anche alcuni pezzi di musica sacra. A Bonn segue le lezioni di filologia classica di Friedrich Wilhelm Ritschl (1806-1876) – un vero maestro in questa disciplina – e grazie a questo incontro decisivo decide di abbandonare gli studi teologici per dedicarsi completamente a quelli filologici, che dal 1865 svolgerà a Lipsia (dove si era anche trasferito Ritschl). Qui diverrà amico di un altro filologo di rilevo, Erwin Rohde (18451898) e si affaccerà al mondo filosofico studiando il pensiero di Kant e soprattutto quello di Schopenhauer [ 4]. Nel 1868 un altro incontro decisivo: quello con Richard Wagner (1813-1883) e la moglie Cosima von Bülow, dei quali diverrà familiare, oltre che entusiasta sostenitore della concezione filosofica e salvifica del “dramma musicale” propugnata dal compositore, che gli appare come una grandiosa possibilità di rigenerazione per una cultura ormai votata alla decadenza e alla sterilità razionalista. Intanto, già dalla sua venuta a Lipsia si erano evidenziati in maniera preoccupante alcuni vecchi problemi di salute (soprattutto i reumatismi e le frequenti emicranie accompagnati da vomito) che lo tormenteranno per tutta la vita e che sfoceranno, acutizzandosi, in una gravissima sindrome psichiatrica. Ma per il momento Friedrich convive con il suo male fisico e nervoso (di cui peraltro era già morto il padre), dando prova delle sue eccezionali capacità di studio e ricerca, tanto che Ritschl ottiene per lui nel 1869 – a soli venticinque anni e ancor prima di finire il dottorato – una cattedra di lingua e letteratura greca presso l’Università di Basilea, in Svizzera. Qui N ietzsche conoscerà il grande storico Jacob Burckhardt (1818-1897) e si legherà in un rapporto di amicizia con il teologo Franz Overbeck (1837-1905), ma soprattutto coltiverà il rapporto con i coniugi Wagner che abitano sul lago dei Quattro Cantoni. Nel 1872 appare La nascita della tragedia dallo spirito della musica, salutato con grande entusiasmo da Wagner: un entusiasmo che peraltro Nietzsche ricambia, se è vero che pensa addirittura di lasciare l’insegnamento universitario per sostenere e diffondere l’azione culturale del

Maestro, che nel frattempo si stava concretizzando anche attraverso la costruzione del “tempio” musicale di Bayreuth. Tra il 1873 e il 1876 appaiono le quattro Considerazioni inattuali (1. David Strauss, 2. Sull’utilità e il danno degli studi storici per la vita, 3. Schopenhauer come educatore, 4. Richard Wagner a Bayreuth), intrecciandosi in tal modo i suoi studi filologici sui presocratici e sull’“epoca tragica dei Greci” e la teorizzazione delle possibili vie per una rinascita del grande spirito della tragedia nella propria epoca. A livello filosofico, nel 1873 compone (senza terminarlo) un importante saggio dal titolo Su verità e menzogna in senso extramorale, in cui si avverte l’eco e l’influsso di Schopenhauer. Tra il 1875 e il 1876 due nuovi rapporti di amicizia e di discepolato arrivano a sostegno delle condizioni sempre più incerte di salute di N ietzsche: si tratta del musicista Heinrich Köselitz (1854-1918), conosciuto con lo pseudonimo di Peter Gast e dello psicologo Paul Rée (1849-1901). Di contro, entra in crisi, fino a interrompersi, il rapporto con Wagner. Nietzsche continua i suoi studi personali, anche con molte letture di fisica e di chimica, e soprattutto sviluppa la sua decostruzione critica delle forme della cultura moderna. Nel 1878 esce la prima parte di Umano, troppo umano. N el 1879, divenuto ormai insostenibile l’insegnamento, chiede di essere collocato a riposo, e grazie a una pensione corrispostagli dall’Università di Basilea comincia a viaggiare, soggiornando per dieci anni in posti diversi, da Saint Moritz, tra le montagne svizzere dell’Engadina, a Rapallo, da Nizza a Portofino, da Sorrento a Venezia, da Messina a Torino. Sempre alla ricerca del luogo e del clima più adatti al suo stato di salute, compone intanto una serie di scritti in forma di aforismi (spesso dettati direttamente a Peter Gast o rivisti da quest’ultimo), come il secondo volume di Umano, troppo umano – che contiene l’importante testo sul Viandante e la sua ombra (1880) –, Aurora (1881) e La gaia scienza (1882 e 1887). N el 1882 incontrerà una giovane russa, colta e affascinante, Lou Andreas von Salomé, la quale voleva dar vita a un sodalizio filosofico insieme a Paul Rée e a Nietzsche stesso; ma alla proposta di matrimonio fatta da quest’ultimo oppose un rifiuto (alla fine sposerà Rée): motivo questo della rottura dei rapporti fra i tre e di una profonda delusione per Nietzsche.

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Intanto nel 1881, come egli stesso racconta in mente un materiale così vasto e diversificato, o Ecce homo, mentre camminava tra i boschi semplicemente il non essere stato in grado di lungo il lago di Silvaplana, «presso una possenaffrontare la fatica che ciò richiedeva per motite roccia che si levava in figura di piramide» vi di salute. L’opera resterà tutta quanta dissemiviene raggiunto dal pensiero dell’eterno ritorno, nata in quella forma aforistica che non è solo «la suprema formula dell’affermazione che una cifra inconfondibile dello stile acuto e brilpossa mai essere raggiunta». Riprendendo quelante del filosofo, ma anche della natura intuitista intuizione, nel 1883 N ietzsche comincia a va più che dimostrativa o dialettica delle sue scrivere Così parlò Zarathustra, che apparirà a dottrine. Ma la brevità fulminante dell’aforisma più riprese tra il 1883 e il 1885, rappresentando non ci deve far credere che qui ci troviamo di una sorta di svolta o spartiacque tra le indagini fronte soltanto ad un geniale fuoco d’artificio, critiche della metafisica tradizionale e le nuove, perché questa è la modalità propria di Nietzsche originali dottrine (oltre all’eterno ritorno deldi pensare e di esporre la sua “metafisica”: come l’uguale, la volontà di potenza e il superuomo). si potrebbe chiamare altrimenti un pensiero In questi anni i disturbi nervosi lo assalgono così impegnato con lo spirito umano, con l’essempre più intensamente e al tempo stesso semsere delle cose, con l’enigma del tempo, infine pre più incalzante si fa la sua scrittura: nel 1886 con il problema di Dio? E il fatto che egli sia appare Al di là del bene e del male, nel 1887 la stato il più determinato critico di ogni metafisiGenealogia della morale e nel 1888 Il caso ca non ci impedisce forse di considerarlo come Wagner. All’inizio del 1889 apparirà Il crepuscol’ultimo grande pensatore della metafisica lo degli idoli, ma intanto il 3 gennaio di quello moderna. stesso anno, a Torino, era già definitivamente scoppiata la sua follia: “paralisi progressiva” di origine nervosa, è la diagnosi in base alla quale resterà in cura per più di un La Volontà di potenza: anno presso l’ospedale psichiatrico storia di un’opera che non c’è di Basilea. La malattia continuerà a dilagare, senza ritorno, per Nei programmi di Nietzsche vi era la redazione di quella che, a suo ben undici anni fino alla paradire, avrebbe costituito la sua opera più importante, a cui egli dà un titolisi totale, mentre N ietzsche lo già in un abbozzo del 1884: «La volontà di potenza. Tentativo di una nuova viene curato prima dalla interpretazione di ogni accadere» [Frammenti postumi, agosto-settembre 1884, madre a Jena e Naumburg 39 [1], vol. VII/3]. Dopo molti altri abbozzi, e soprattutto dopo aver scritto molti frammenti preparatori, prevalentemente in forma di aforismi, il progetto tuttavia si e poi dal 1897, morta la arena e verrà abbandonato. Solo nel 1901, un anno dopo la sua morte apparirà, a cura madre, dalla sorella Elisadella sorella Elisabeth Förster e di Peter Gast, un’opera dal titolo Volontà di potenza, beth, sposata Förster, a contenente una scelta di 483 aforismi (che diventeranno 1067 nell’edizione del 1906), Weimar. Qui morirà il 25 raggruppati secondo scelte tematiche spesso arbitrarie da parte dei curatori. Da subito agosto 1900. Postumi si accese la polemica se quell’opera esprimesse o tradisse il vero pensiero di Nietzsche. usciranno il suo NietzIl fatto poi che l’idea di una “volontà di potenza” fosse fatta propria alcuni anni dopo dal sche contra Wagner, L’An- regime nazista in Germania da un lato ha gettato benzina sul fuoco di coloro che consiticristo. Maledizione del deravano Nietzsche un pensatore irrazionalista e prossimo al totalitarismo, dall’altro cristianesimo ed Ecce ha portato a voler staccare completamente il filosofo da ogni contaminazione ideolohomo. gica di questo tipo. Ma se è senz’altro vero che il nazismo ha abusato del pensiero In realtà la grande opera di Nietzsche e lo ha strumentalizzato al di là delle sue intenzioni, il problema non si risolve con un verdetto di assoluta innocenza da parte di Nietzsche, ma ci di sintesi cui N ietzsche spinge a prestare attenzione alle contraddizioni e alle ambiguità che, per pensava, e per la quale aveva sua esplicita ammissione, attraversano l’intero pensiero di questo raccolto nel corso degli anni autore. Oggi la Volontà di potenza pubblicata agli inizi del più di mille frammenti – la Novecento è considerata come un’opera che non c’è, sebbecosiddetta Volontà di potenza – ne è attraverso di essa che sono maturate alcune delle non fu mai scritta da lui come un interpretazioni più importanti della filosofia di testo compiuto. I motivi di questa manNietzsche. canza possono essere diversi, come il non essere riuscito a dominare e comporre unitaria-

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3 Il primo Nietzsche: filologia, filosofia, storia 3.1 Le origini tragiche del pensiero Come a volte succede ai filologi più impegnati e coinvolti con il proprio oggetto di studio, anche N ietzsche intese il mondo della tragedia greca come la via migliore per affrontare i problemi spirituali che egli riteneva decisivi per il proprio tempo. Tutto si gioca nella tensione che sussiste nella grande cultura greca, soprattutto delle origini, tra l’elemento dionisiaco e l’elemento apollineo. Il dionisiaco – chiamato così in riferimento alla natura del dio Dioniso nelle mitologie arcaiche – indica il mondo oscuro dell’istinto e della vita, l’appartenenza a quella forza primigenia della natura in cui ciascuno non è più sé stesso (cioè perde la sua individualità) ed è immerso, quasi dissolto in una volontà irrazionale (qui si avverte l’influsso di Schopenhauer). Secondo N ietzsche nella cultura greca tutto questo lo si ritrova nella tradizione delle feste orgiastiche, in cui si scioglie la danza frenetica dei corpi che simboleggiano il ritmo della natura intera, dominati e trascinati dalla musica, l’arte che più esprime o meglio incarna questa volontà del tutto. Agli occhi di una cultura intrisa di razionalismo, il dionisiaco genera paura, come una forza incontrollabile e pericolosa; ma è una paura che si tramuta nell’estasi e nella fusione con il tutto:



Schopenhauer ci ha descritto l’immenso orrore che afferra l’uomo, quando improvvisamente perde la fiducia nelle forme di conoscenza dell’apparenza, in quanto il principio di ragione sembra soffrire un’eccezione in qualcuna delle sue configurazioni. Se a questo orrore aggiungiamo l’estatico rapimento che, per la stessa violazione del principium individuationis, sale dall’intima profondità dell’uomo, anzi della natura, riusciamo allora a gettare uno sguardo nell’essenza del dionisiaco, a cui ci accostiamo di più ancora attraverso l’analogia con l’ebbrezza. [La nascita della tragedia, § 1]



Ma il dionisiaco non è solo fonte di ebbrezza, bensì anche di sofferenza, di dolore e di morte. Ed è proprio per poter sopportare la sofferenza che sempre l’esistere porta con sé, esposto com’è

alla grande legge della natura, cioè alla morte, che i Greci hanno “inventato” gli dèi, il mondo della quiete e della serenità olimpica; in una parola, hanno inventato l’arte che dà la forma bella e pacificata al dolore della vita, trasformando l’ebbrezza in sogno. Apollo, dio dell’armonia e della misura, dà il nome a questa forma in cui il caos viene trattenuto, ricomposto e sublimato: l’apollineo. Gli dèi dell’Olimpo greco non rappresentano i valori astratti tipici delle concezioni razionaliste, in quanto essi stessi vivono la stessa esperienza dei mortali, solo liberata dal timore panico. Perciò vivono in un “mondo intermedio” tra la vita e la forma, cioè esprimono il rapporto tra il dionisiaco e l’apollineo:



Ora si apre a noi per così dire la montagna incantata dell’Olimpo e ci mostra le sue radici. Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dovette porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L’enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira [il destino] spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, […] insomma tutta la filosofia del dio silvestre [Dioniso] con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici Etruschi – fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dèi olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz’altro immaginarlo così, che dall’originario ordinamento divino titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell’impulso apollineo di bellezza, in lenti passaggi, l’ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli. [La nascita della tragedia, § 3]



Il distacco di N ietzsche da una concezione “classicista” e “umanistica” della grecità, come l’epoca della misura e della ragione, non poteva essere più netto. Lo spirito greco non raggiunge il suo compimento con l’arte dorica, la quale attraverso le forme apollinee della sua architettura e della sua scultura ha rappresentato un «atteggiamento di maestosa ripulsa» di fronte alla forza «grottescamente rozza» dei riti dionisiaci; è piuttosto nella tragedia attica – soprattutto con Eschilo e Sofocle – che la grecità compie davvero sé stessa. Lo spirito tragico è fatto

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essenzialmente del rapporto indissolubile tra il dionisiaco e l’apollineo, come si può vedere per esempio nella dialettica tra il coro [ La struttura della tragedia] (che rappresenta l’esaltazione e il dolore dell’esistenza) e i protagonisti, i quali non sono altro che il modo con cui il coro vede sé stesso, trasformato in immagini e oggettivato in forme poetiche. Dal ritmo e dalla musica nasce continuamente lo spirito della tragedia, fino a quando però, con Euripide, esso inizia la sua fase di decadenza. È la stessa struttura dei componimenti tragici a mutare, sotto l’influsso di quello che Nietzsche chiama l’atteggiamento socratico, in riferimento alla figura che per lui incarna la decadenza intellettualistica e moralistica del grande spirito greco delle origini, Socrate appunto. La tragedia euripidea non mette più in scena la lotta tra il dionisiaco e l’apollineo, ma nasce piuttosto dall’intento di spiegare razionalmente e giustificare moralmente l’azione rappresentata. Proprio nel momento in cui si afferma che l’eroe è senz’altro la figura dell’uomo giusto e che il giusto è tale perché conosce il vero e sceglie il bene, comincia la grande decadenza dello spirito greco. In tale decadenza si rispecchia secondo N ietzsche la crisi della cultura del suo tempo, intrisa di intellettualismo e di pretese razionalistiche, e staccata ormai dal rapporto con la sua origine vitale. Ed è qui che emerge la figura di Wagner, l’unico che ai suoi occhi potrà far rinascere lo spirito della tragedia dalla musica. A lui si affiancano in questa prima fase del pensiero nietzscheano, altri due “dionisiaci”, vale a dire Kant e Schopenhauer, perché essi – soprattutto nelle loro riflessioni sull’estetica e sull’arte – hanno compreso che il mondo delle forme fenomeniche è una creazione del soggetto umano, che nasconde e a sua volta si basa su quella cosa in sé che resta sempre oscura rispetto alle spiegazioni dell’intelletto, ma che quest’ultimo porta ad espressione con la sua conoscenza. Una «conoscenza tragica», appunto, «la quale per poter essere sopportata, ha bisogno dell’arte come protezione e rimedio» [La nascita della tragedia, § 15].

3.2 Come nasce la verità L’uomo dunque non può essere inteso secondo Nietzsche solo come un “animale conoscente”:



In un angolo remoto dell’Universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della storia del mondo, ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Era anche tempo: difatti, sebbene si vantassero di aver già conosciuto molto, alla fine avevano scoperto, con grande riluttanza, di aver conosciuto tutto falsamente. Essi perirono, e morendo maledissero la verità. Così accadde a quei disperati animali che avevano scoperto la conoscenza. [Cinque prefazioni per cinque libri non scritti (1872), «Sul pàthos della verità»]



La conoscenza è dunque un’avventura disperata, perché la natura nasconde all’uomo «la maggior parte delle cose» e finanche quelle che gli sono più vicine, come il suo stesso corpo. L’uomo è sì cosciente di sé e delle cose, ma «è rinchiuso in questa coscienza, e la natura ha gettato via la chiave»: non è possibile in altri termini considerare le nostre conoscenze come determinazioni oggettive delle cose. Si tratta di un tema importante, che emerge chiaramente nell’inedito Su verità e menzogna in senso extramora-

La struttura della tragedia Nell’età classica, la tragedia consisteva essenzialmente in una serie di episodi recitati alternati con cori (versi lirici cantati e spesso danzati) e da parti miste. Gli episodi e i cori erano spesso preceduti da un prologo (recitato) con la funzione di informare sugli antefatti dell’azione drammatica. Seguiva la parodo, il canto d’ingresso eseguito dal coro mentre prendeva posto sulla scena, e poi gli episodi recitati. A delimitare fra loro gli episodi si inserivano, di norma, gli stasimi, i canti dei coreuti. Non era tuttavia raro servirsi del coro anche all’interno delle scene in dialoghi diretti fra l’attore e il coro, i commi, e fra una scena e l’altra di uno stesso episodio, i canti episodici. Nel complesso, dunque, si trattava di una forma artistica nella quale si alternavano recitazione, musica e danza.

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le, ma sarà costante in tutto il pensiero nietzscheano. Sebbene il nostro intelletto si creda il centro attorno a cui gira il mondo intero, in realtà è fatto solo di «impulsi soggettivi»; e quando esso afferma di possedere la verità, in verità si tratta di una menzogna, perché tutto ciò che si conosce non è mai “vero in sé” a prescindere dall’uomo. La verità è dunque «completamente antropomorfica». Essa nasce dal linguaggio e come linguaggio, con cui si presume di indicare ciò che le cose sono veramente, ma in realtà si tratta di convenzioni sociali, utili per trovare un accordo pacifico tra gli uomini. Cos’è infatti una parola, se non «il riflesso in suoni di uno stimolo nervoso»? E di conseguenza:



Cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie [cioè figure retoriche dei nostri discorsi], antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile. [Su verità e menzogna in senso extramorale, § 1]



Quando allora diciamo di essere “veritieri” in realtà mentiamo, ma questa menzogna è un obbligo richiesto dalla società. La diagnosi sul concetto illusorio e menzognero di “verità in sé”, abbozzata da Nietzsche in questa prima fase della sua ricerca, non sfocia mai tuttavia in una mera esaltazione di un relativismo conoscitivo o nella proposta di ritenere risolto, cioè semplicemente annientato e quindi inutile, il problema della verità. Esattamente al contrario, per Nietzsche dietro le nostre conoscenze “vere” non c’è affatto il nulla, ma c’è la vita; e se è vero che la (presunta) verità si afferma solo grazie all’oblio dei nostri impulsi soggettivi, per cogliere questi ultimi – prima, sotto e al di là delle forme linguistiche con cui li incanaliamo nei nostri discorsi – bisognerà obliare la verità e far emergere la vita. Ma le due cose in Nietzsche non sono mai semplicemente contrapposte o alternative: l’unico modo per arrivare a cogliere la vita è quello di scoprire la menzogna delle nostre pretese di verità, e al tempo stesso le

nostre conoscenze, scientifiche o storiche che siano, devono affondare le loro radici nell’humus potente e ancora nascosta di questa vita.

3.3 Vivere di storia, morire di storia Uno dei modi in cui per N ietzsche viene più ostacolato, nella sua epoca, questo nesso tra la conoscenza e la vita è la sempre più diffusa e invasiva concezione del passato storico. È il tema centrale della seconda Considerazione inattuale (“inattuale” nel senso di una posizione critica o controcorrente rispetto alla cultura dominante) dedicata al danno e insieme all’utilità che può avere la storia per la vita. Contro l’imperante storicismo, secondo cui non solo ogni evento è comprensibile e giustificabile nella misura in cui è riportato al quadro storicoepocale in cui è sorto, ma più in generale gli uomini e le culture sono solo il frutto del proprio passato, Nietzsche sostiene che un eccesso di storicità può diventare una sorta di malattia mortale, che indebolisce lo spirito umano, rendendolo incapace di cogliere la sua vita presente e di decidersi all’azione come se fosse il primo a farlo:



un uomo che non possedesse affatto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l’una dall’altra tutte le cose in punti mossi e si perderebbe in questo fiume del divenire […]. Per ogni agire ci vuole oblio. [Sull’utilità e il danno della storia per la vita, § 1]



Un uomo che ha “radici forti”, ed è in stato di piena salute spirituale, vive in maniera “sana” il suo rapporto con il passato, lo attira nel suo presente e se ne impadronisce trasformandolo nel proprio sangue. Ma ciò che del passato egli non riesce a possedere in questo modo, semplicemente lo sa dimenticare, e con ciò chiude giustamente il suo orizzonte. Infatti «ogni vivente può diventare sano, forte e fecondo solo entro un orizzonte», cioè grazie al fatto che «ci sia una linea che divida ciò che si può abbracciare con lo sguardo, ciò che è chiaro» – vale a dire ciò che entra nel nostro presente ed è deciso da noi – «da ciò che è non rischiarabile e oscuro»,

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vale a dire il nostro passato. Per questo ciò che non è storico e ciò che è storico sono «ugualmente necessari per la salute di un individuo». L’utilità di ciò che è storico si presenta secondo Nietzsche in tre forme, che corrispondono a tre atteggiamenti dell’esistenza umana: 1.la storia monumentale, alimentata da una vera e propria fede nell’umanità e consistente nel legame tra i casi più nobili e gli esempi più elevati che sono accaduti nel nostro passato: ad essa si appella l’uomo che «vuole creare grandi cose» e per questo ha bisogno del passato; 2. la storia antiquaria, nella quale si conservano, a mo’ di reliquie, le vestigia del passato e le si esibisce come in un museo: essa è coltivata dall’uomo che «ama perseverare nel tradizionale e in ciò che è venerato da gran tempo»; 3. infine la storia critica, che consiste nel giudicare e all’occorrenza nel condannare i fattori in gioco dell’epoca presente: di essa ha bisogno l’uomo «al quale una sofferenza presente opprime il petto, e che a ogni costo vuol gettar via il peso da sé» [Sull’utilità e il danno della storia per la vita, § 2]. Ed è proprio facendo una storia critica della propria epoca che Nietzsche enuncia il patologico sbilanciamento che si è realizzato nel rapporto tra la storia e la vita: la storia è diventata scienza – cioè storiografia – e sembra che si esaurisca totalmente in quest’ultima. Per questo, contro tutto l’ideale dominante nella cultura moderna di un’educazione storica della gioventù, bisogna lanciare un grido d’allarme, perché i giovani imparino anzitutto a vivere e poi ad usare la storia al servizio della vita. E se l’epoca presente è afflitta dalla malattia storica bisognerà trovare i giusti antidoti, vale a dire l’“antistorico” e il “sovrastorico”: il primo designa «la forza e l’arte di poter dimenticare e di rinchiudersi in un orizzonte limitato», mentre «chiamo “sovrastoriche” le potenze che distolgono lo sguardo dal divenire, volgendolo a ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno e dell’immutabile, all’arte e alla religione» [Sull’utilità e il danno della storia per la vita, § 10]. A differenza di queste “forze eternizzanti”, la scienza invece considera le cose solo come “ciò che è divenuto” e quindi come appartenenti al regno della storia, non come ciò che è eterno.

Analogamente a quello che è successo con la tragedia nella cultura greca, anche la “cultura tedesca” è chiamata secondo N ietzsche a un rinnovamento in cui



ognuno deve organizzare il caos in sé, concentrandosi sui suoi bisogni veri […]; comincerà allora a capire che la cultura può essere ancora qualcos’altro che decorazione della vita, cioè in fondo unicamente dissimulazione e velame, poiché ogni ornamento nasconde la cosa ornata. Così gli si svelerà […] il concetto della cultura come una nuova e migliorata phy`sis, senza interno ed esterno, senza dissimulazione e convenzione, della cultura come un’unanimità fra vivere, pensare, apparire e volere. [Sull’utilità e il danno della storia per la vita, § 10]



L’emblema di questa cultura e di questa educazione è per N ietzsche Schopenhauer, cui è dedicata la terza delle Considerazioni inattuali (intitolata appunto Schopenhauer educatore). A differenza di tutti i professori accademici che ripetono semplicemente le dottrine del passato, come meri codificatori della mentalità propugnata dallo Stato e senza alcuna forza creativa, Schopenhauer è invece il vero “filosofo”, perché non ha timore di «assumere su di sé il dolore volontario della veridicità» e grazie a questo può gettare uno sguardo sul “tutto” della realtà – su ciò che è storico e su ciò che è eterno. Di lì a pochi anni anche Nietzsche lascerà, per motivi di salute, il suo insegnamento accademico e si incamminerà sulla via aspra e “salubre” del filosofo educatore.

1. L’eccesso di storia (o storicismo) ostacola il fertile connubio tra la conoscenza e la vita poiché: a. ogni evento è comprensibile esclusivamente all’interno del momento storico cui appartiene. V b. gli uomini e le culture sono solo il frutto del proprio passato. V c. la storia è divenuta scienza storiografica. V d. produce il ricorso al salutare effetto dell’oblio. V

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4 La svolta genealogica 4.1 Dalla filosofia metafisica alla filosofia storica Già a partire dalla metà degli anni Settanta del XIX secolo, quando N ietzsche era ancora professore a Basilea, nel suo pensiero matura un cambiamento di approccio ai temi e ai problemi che fino ad allora lo avevano impegnato. Tale cambiamento, che emergerà chiaramente nei due volumi di Umano, troppo umano, è dovuto a una serie concomitante di fattori. Il primo è senza dubbio il venir meno della sua adesione al progetto musicale e ideale di Wagner: il Maestro alla fine non gli sembra più all’altezza del grande compito di rigenerare, attraverso il suo teatro musicale, l’intera cultura tedesca (e la quarta Considerazione inattuale su Wagner a Bayreuth lo fa capire chiaramente). Tale scoperta peraltro si lega ad altri due motivi: anzitutto va in crisi la stessa idea di poter ritornare, attraverso la tragedia – e più in generale attraverso l’arte – alle origini vitali di una cultura. E questo non perché l’arte non abbia valore, tutt’altro, solo che non ha più un valore rigeneratore, ma per così dire un valore “sperimentale”, come se l’artista, più che rappresentare un ideale luminoso dovesse esprimere le nostre insicurezze e il nostro andare a tentoni (il nostro “soffrire”) per la sua mancanza. Da questo punto di vista anche Schopenhauer, e la sua idea che l’arte permetta di sollevarsi, attraverso idee intemporali, dalla volontà irrazionale che domina l’esistenza perde progressivamente di interesse agli occhi di Nietzsche. Ma c’è un altro motivo che si fa strada, e cioè che non è più possibile interpretare la cultura della sua epoca in termini di “decadenza”, appunto perché si decade da uno stato originario o da un vertice raggiunto; ora invece è come se il decadere della cultura moderna apparisse a Nietzsche non in riferimento a una condizione non decaduta, ma come l’invito a un compito decostruttivo, cioè ad impegnarsi a fare la “genealogia” delle forme culturali dominanti, presentate come fisse o eterne, e smascherarne l’origine storica o umana (anzi, fin “troppo umana”!). In questa seconda fase del suo pensiero, insomma, è enfatizzata più la critica della

filosofia e della mentalità dominante che non la proposta di soluzioni alternative. Queste ultime arriveranno qualche anno dopo, con la filosofia di Zarathustra [ 10.6]. E se nella seconda Considerazione inattuale N ietzsche aveva cercato di esorcizzare il danno che l’eccesso di storiografismo produce sulla vita, affermando che la giusta misura di storia di cui noi abbiamo bisogno (e che possiamo sopportare) va affiancata da ciò che è antistorico o addirittura sovrastorico, cioè eterno; ora invece il quadro sembra capovolgersi, e il lavoro che spetta al filosofo consisterà nello scomporre i nostri pensieri “eterni” nei loro componenti di base – come si fa in chimica – per arrivare a mostrare che tutto è frutto di composizioni storiche.



I problemi filosofici riprendono oggi in tutto e per tutto quasi la stessa forma interrogativa di duemila anni fa: come può qualcosa nascere dal suo opposto, per esempio il razionale dall’irrazionale, ciò che sente da ciò che è morto, la logica dall’illogicità, il contemplare disinteressato dal bramoso volere, il vivere per gli altri dall’egoismo, la verità dagli errori? La filosofia metafisica ha potuto finora superare queste difficoltà negando che l’una cosa nasca dall’altra e ammettendo per le cose stimate superiori un’origine miracolosa, che scaturirebbe immediatamente dal nòcciolo e dall’essenza della “cosa in sé”. Invece la filosofia storica, che non è più affatto pensabile separata dalle scienze naturali, ed è il più recente di tutti i metodi filosofici, ha accertato in singoli casi (e questo sarà presumibilmente il suo risultato in tutti i casi) che quelle cose non sono opposte, tranne che nella consueta esagerazione della concezione popolare o metafisica, e che alla base di tale contrapposizione sta un errore di ragionamento. [Umano, troppo umano, I, n. 1]



Le cose che si ritengono superiori nella scala dei valori metafisici, sono in realtà «soltanto sublimazioni, in cui l’elemento base appare quasi volatilizzato», proprio nel senso di un elemento chimico, e quindi



tutto ciò di cui abbiamo bisogno e che allo stato presente delle singole scienze può esserci veramente dato è una chimica delle idee e dei sentimenti morali, religiosi ed estetici […]: ma che avverrebbe, se questa chimica conclu-

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desse col risultato che anche in questo campo i colori più magnifici si ottengono da materiali bassi e persino spregiati? Avranno voglia, molti, di seguire tali indagini? L’umanità ama scacciare dalla mente i dubbi sull’origine e i princìpi: non si deve forse essere quasi disumanizzati per sentire in sé l’inclinazione opposta? [Umano, troppo umano, I, n. 1]



Con il termine “morale” Nietzsche intende ora non solo le dottrine che riguardano le azioni volontarie dell’uomo, ma più in generale tutte quelle concezioni che ammettono un’origine sovrastorica e princìpi assoluti: quei princìpi in base ai quali gli uomini credono di poter afferrare l’essenza immutabile della realtà e di poter orientare il loro comportamento secondo i criteri invariabili di bene e di male. Grazie all’analisi genealogica, la morale risulta agli occhi di Nietzsche come il grande laboratorio in cui vengono costruite le idee fondamentali di una cultura, di un’epoca, di un popolo, e quindi, viste le premesse, come la grande fucina degli “errori” fondamentali della storia dell’umanità. Il termine “errore” infatti è per N ietzsche il rovescio del termine “morale”: esso non va inteso come il contrario della verità, ma semplicemente come la pretesa di considerare “verità” eterna e oggettiva ciò che è invece costruito storicamente. Quello che i filosofi metafisici ed i teologi chiamano l’“uomo” o l’“umanità” è per N ietzsche il risultato di appena «quattromila anni» di storia (da quando cioè “conosciamo”), che sono pochissima cosa rispetto a tutta l’«evoluzione umana». Ritenere dunque che l’uomo abbia una sostanza eterna è un errore: «tutto è divenuto; non ci sono fatti eterni: così come non ci sono verità assolute. Per conseguenza il filosofare storico è da ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia.» [Umano, troppo umano, I, n. 2]. E non è un caso che N ietzsche faccia riferimento al lavoro del chimico per illustrare il compito del filosofo: questo è anche il segno della particolare attenzione da lui rivolta alle scienze positive, quali, oltre la chimica e la fisica, la paleontologia o l’antropologia culturale. Sebbene queste ricerche non siano considerate da N ietzsche come delle teorie di riferimento ma vengano per così dire assimilate e metabolizzate all’interno di un quadro teorico e di una prospettiva critica diversa.

4.2 L’impossibile libertà In questa nuova prospettiva nietzscheana i fenomeni metafisici e morali vanno interpretati come dei “composti” di alcuni elementi di base, quali l’istinto di sopravvivenza, la ricerca del piacere e l’allontanamento dal dolore, il bisogno di sicurezza e di giustificazioni nella variabilità fisiologica della vita individuale e dei rapporti sociali. In altri termini, tutto si riconduce all’utilità, che è la grande legge – vale a dire l’istinto fondamentale – dell’esistenza umana e della formazione storica delle culture: contrariamente a quell’«odio per l’utilità» che è stato codificato dalla morale di tipo metafisico, per la quale «ogni agire lodevole si separa formalmente dall’agire per l’amore dell’utile», bisogna invece riconoscere che la morale «è originariamente l’utile sociale […] contro tutte le utilità private» [Umano, troppo umano, II, Il viandante e la sua ombra, n. 40]. Questa posizione risente certamente della lettura dei filosofi moralisti francesi (due nomi su tutti: Montaigne e Pascal) con la loro disincantata analisi del sorgere dei sentimenti morali negli uomini. Ma qui si evidenzia anche la presenza di quello spirito illuministico, di cui almeno in questo periodo Nietzsche si considera come il più radicale realizzatore, addirittura «come nemico e accusatore di Dio», come scrive nella Prefazione di Umano, troppo umano, un’opera che porta come sottotitolo «un libro per spiriti liberi» e che è dedicata esplicitamente alla memoria di Voltaire. Non si deve trascurare comunque il fatto che N ietzsche porta alle estreme conseguenze un approccio al fenomeno morale che era stato ampiamente teorizzato nel corso del pensiero moderno, almeno in quella linea di tipo scettico, utilitarista e convenzionalista che va da Hobbes a Hume sino ai materialisti francesi del XVIII secolo. E pur attraverso tutte le differenze del caso, torna in N ietzsche l’idea moderna che la morale è del tutto staccata dalla conoscenza, perché si agisce solo per istinti o emozioni, non per valori conosciuti, e dunque perché è impossibile spiegare in altro modo la libertà umana, se non come un meccanismo. In altri termini, c’è sempre un motivo determinato per cui noi vogliamo in un modo o nell’altro, ed è illusorio credere che i nostri sentimenti e le nostre azioni siano libere.

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N ella concezione tradizionale della libertà umana si può riscontrare, secondo Nietzsche, lo stesso errore che si commette quando si pensa che la realtà sia fatta di oggetti sempre uguali e immutabili, vale a dire di “sostanze”. In entrambi i casi si tratta di mere credenze degli uomini, cioè di “esseri organici” totalmente condizionati dai loro stimoli sensoriali. La perdita di consistenza oggettiva della realtà fuori di noi è dunque tutt’uno con la perdita della nostra stessa libertà:



La credenza nella libertà della volontà è un errore originario di ogni essere organico […]; la credenza in sostanze incondizionate e in cose uguali è del pari un errore originario, altrettanto antico, di ogni essere organico. In quanto perciò ogni metafisica si è di preferenza occupata di sostanza e di libertà del volere, la si può definire come la scienza che tratta degli errori fondamentali dell’uomo – però come se fossero verità fondamentali. [Umano, troppo umano, I, n. 18]



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Di fronte a questa analisi decostruttiva resta comunque una domanda: “chi” è colui che si accorge del carattere illusorio delle pretese della metafisica? Si può parlare ancora di un “io” o di un “soggetto”, se per essere coerenti si dovrebbe riconoscere che anche queste sono costruzioni culturali senza alcuna pretesa sostanziale? L’impressione è che, in maniera spesso contraddittoria, Nietzsche utilizzi proprio ciò che aveva dichiarato impossibile o menzognero, vale a dire il giudizio che riconosce il vero e il falso, l’illusorio e il reale. E sebbene egli dica che l’unica verità è che non esistono verità e che tutto è frutto di un divenire storico, non per questo non adopera un criterio di giudizio. Ebbene: chi è che giudica? Sembra che non ci sia niente o nessuno che si sottragga a questa decostruzione. L’analisi genealogica che mira a smascherare le cosiddette “verità fondamentali” della morale finisce per erodere dall’interno lo stesso soggetto che giudica del bene e del male. Insomma, è la stessa morale che “sopprime” sé stessa, scoprendo che è l’errore la sua unica verità. 1. In base all’analisi genealogica, l’origine dei fenomeni morali è da rintracciare: a. nella volontà libera. b. nel principio dell’utile. c. nella conoscenza. d. nei valori.

4.3 Il cristianesimo come problema Il punto in cui emergono in maniera più eclatante i problemi affrontati – e quelli rimasti irrisolti – in questa autodistruzione della morale è quello riguardante la religione, e più in particolare il cristianesimo. L’accanita posizione anticristiana da parte di Nietzsche riveste un significato essenziale per comprendere la sua filosofia: per lui il cristianesimo è molto più che l’ultima realizzazione di quelle costruzioni culturali e mitologiche cui gli uomini danno il nome di “religioni”, ma è il fenomeno in cui l’intera tradizione filosofica diventa “problema”. E questo non solo perché il cristianesimo ha dato la forma con cui gli uomini occidentali concepiscono abitualmente le cose e le parole per designarle (il cielo e la terra, il bene e il male, il creatore e la creatura, il peccato e colpa, l’espiazione e la virtù, il dovere e il piacere, il soggetto e la natura, la dannazione e la salvezza, ecc.), ma anche perché esso porta con sé una pretesa di salvezza che agli occhi di N ietzsche risulta essere letteralmente insopportabile. Ma il cristianesimo di Nietzsche è segnato da una pregiudiziale fortissima, e cioè che esso – contrariamente a quello che dice di essere – non sarebbe un’esperienza di libertà ma di pura sottomissione, non l’avvento dell’amore gratuito ma la più bieca omologazione tra gli uomini; e lì dove pensiamo che si sia realizzato (in Cristo) l’incontro imprevedibile tra l’umano e il divino, si tratterebbe in realtà di una mera suggestione psicologica dell’uomo. In questo senso si può dire che per N ietzsche il cristianesimo rappresenti la maschera più tragica con cui gli uomini hanno voluto coprire la loro insicurezza e giustificare la caducità dell’esistere, sublimandola su di un piano superiore: quindi, uno stratagemma di potere dei più forti sui più deboli.



I Greci vedevano sopra di sé gli dèi omerici non come padroni, e sé stessi sotto di loro non come servi, al modo degli Ebrei. Essi vedevano per così dire solo l’immagine riflessa degli esemplari più riusciti della loro stessa casta, cioè un ideale, non un opposto della loro natura. […] Per contro, il cristianesimo schiacciò e frantumò l’uomo completamente e lo sprofondò come in una fonda palude: poi, nel sentimento di totale abiezione, fece brillare tutto a un tratto lo splendore di una divina pietà, sicché l’uomo sorpreso,

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stordito dalla grazia, emise un grido di rapimento e per un attimo credette di portare in sé il cielo intero. Su questo morboso eccesso di sentimento, sulla profonda corruzione della mente e del cuore a esso necessaria, agiscono tutti i sentimenti psicologici del cristianesimo: esso vuole annientare, spezzare, stordire, inebriare, solo una cosa esso non vuole: la misura, e perciò è, nel senso più profondo, barbarico, asiatico, non nobile, non greco. [Umano, troppo umano, I, n. 114]



Il cristianesimo sarebbe la «dottrina del Dio vendicatore, dello stato di peccato universale, della predestinazione e del pericolo di un’eterna dannazione» [Umano, troppo umano, I, aforisma 116]. Sta di fatto che per Nietzsche il problema del cristianesimo si pone essenzialmente ad un livello morale, non storico o conoscitivo: non si tratta cioè di capire che cosa è accaduto con la venuta di Cristo sulla Terra e quale cambiamento ontologico si è realizzato, ma si tratta sin dall’inizio delle conseguenze psicologiche e comportamentali che questo “mito” avrebbe prodotto. In questo peraltro Nietzsche – se pure da una posizione contraria – è del tutto in linea con una teologia (soprattutto protestante) che aveva dichiarato impossibile conoscere il fatto cristiano nella sua storicità e lo aveva invece interpretato come un puro contenuto di fede interno alla coscienza umana, e come un richiamo di tipo moralistico. E quando, in una delle sue ultime opere intitolata non a caso L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, Nietzsche parlerà ancora – con un’insistenza polemica di tipo quasi ossessivo – del «concetto cristiano di Dio», lo bollerà come uno dei più corrotti che siano mai stati elaborati, e addirittura il più infimo livello della divinità:

mente acuto, come di una promessa che non si sia realizzata e che abbia tradito le aspettative che si nutrivano in essa. Come è stato spesso sottolineato da parte degli studiosi, la violenza iconoclasta di N ietzsche è probabilmente il segno di un fascino avvertito e furiosamente combattuto – ma prima ancora che nel campo della cultura, della teologia e della società, piuttosto all’interno di sé. Il cristianesimo è dunque come una lunga, profonda ferita nel pensiero di Nietzsche, figlio e nipote di pastori protestanti; il punto in cui si fa più infuocato il “corpo a corpo” con la sua origine:



L’aggressione ecclesiastica. «Devi giungere ad una decisione con te stesso, poiché ne va della tua vita!». Con questo appello ci balza addosso Lutero e secondo lui ci si dovrebbe sentire con il coltello alla gola. Ma noi lo respingiamo con le parole di qualcuno che sta più in alto ed è più accorto: «Noi siamo liberi di non formarci alcuna opinione su una cosa o su un’altra, e di risparmiare così l’inquietudine alla nostra anima. Poiché le cose stesse, secondo la loro natura, non possono costringerci ad alcun giudizio». [Aurora, n. 82]



Ciononostante, a N ietzsche non fu affatto risparmiata tutta l’inquietudine possibile, e in qualche modo egli si sentì anche costretto – ma in modo diametralmente opposto a quello che la voce di Lutero gli ingiungeva – a prendere le sue decisioni. 1. Il cristianesimo rappresenta per Nietzsche: a. un espediente per sopportare la caducità dell’esistenza. b. un avvenimento storico. c. una menzogna dell’“al di là”. d. una calunnia dell’“al di qua”.

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Dio degenerato fino a contraddire la vita, invece di esserne la trasfigurazione e l’eterno sì! In Dio è dichiarata inimicizia alla vita, alla natura, alla volontà di vivere! Dio, la formula di ogni calunnia dell’“al di qua”, di ogni menzogna dell’“al di là”! In Dio è divinizzato il nulla, è consacrata la volontà del nulla! [L’Anticristo, § 18]

5.1 La fede come debolezza del volere

Ci si potrebbe chiedere se questa immagine assolutamente fosca e soffocante del cristianesimo non nasconda un risentimento particolar-

Una cosa si fa chiara, man mano che procede la critica genealogica di N ietzsche, e cioè che un unico e indissolubile destino unisce il tramonto



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del Dio cristiano e la fine dell’io moderno. Un tempo quest’ultimo era “signore” per il suo rapporto originario con il Signore Dio, ma ora questa filiazione non appartiene all’uomo più che alla scimmia (in questo si avverte l’eco delle ricerche di Darwin,  8.1, di cui Nietzsche era venuto a conoscenza). Ma anche il progetto antropocentrico dell’idealismo e del positivismo, per cui l’uomo può prendere il posto di Dio, è votato al fallimento:



Una volta si cercava di pervenire al sentimento della sovranità dell’uomo, indicando la sua origine divina: questa è ora divenuta una via proibita, poiché alla sua porta c’è la scimmia accanto ad altri orribili animali, e digrigna intelligentissima i denti come per dire: non oltre in questa direzione! Così ora si tenta la direzione opposta: la strada verso cui va l’umanità deve servire a mostrare la sua sovranità e la sua affinità con Dio. Ahimè, anche così non si arriva a niente! Alla fine di questa strada c’è l’urna funeraria dell’ultimo uomo e dell’ultimo becchino […]. Per quanto alto possa risultare lo sviluppo dell’umanità […] non c’è per essa alcun trapasso in un ordine più elevato, come non potrebbero la formica e il verme auricolare innalzarsi, al termine della loro “carriera terrestre”, all’affinità con Dio e all’eternità. Il divenire si strascica dietro l’essere stato: perché mai in questa eterna commedia ci dovrebbe essere un’eccezione per un qualsiasi piccolo astro, ed ancora per una piccola specie vivente su di esso? Basta con questi sentimentalismi! [Aurora, n. 49]



Il tema della commedia torna in uno dei più celebri scritti di Nietzsche, La gaia scienza: un titolo, questo, che indica la nuova prospettiva che sembra aprirsi dall’analisi degli errori della metafisica e della religione: giungere ad un sapere in cui «il riso sia alleato alla saggezza» e la tragedia venga superata in “burla”. Il «grande dolore» dell’esistere – il riconoscere cioè che le proprie credenze sono in realtà delle illusioni – è stato «il maestro del grande sospetto», che ha scavato in profondo; ma da questo scavo rinasce una nuova «speranza di salute», come quella particolare condizione di un uomo che abbia passato la fase acuta della malattia e viva nell’«ebbrezza della convalescenza» [La gaia scienza, Prefazione alla 2a ed. (1887), 1]. Si pro-

fila una «nuova felicità» per coloro che hanno imparato a liberarsi da quella seriosa pesantezza del volere «la verità a ogni costo», e cominciano a ridere – e ridono emergendo dalla cupa profondità del peccato e della colpa, e dominando con leggerezza la superficie del mondo. La molla segreta che permette di passare dalla tragedia alla gaia scienza sta precisamente in una nuova concezione della volontà: non più la volontà oscura e irrazionale di Schopenhauer, quella che rimane come cosa in sé sotto tutte le forme della conoscenza e dalla quale bisogna staccarsi per poter vivere; bensì la volontà come decisione che produce un fenomeno nuovo, una liberazione dalla morale e dalla religione, o meglio dal cristianesimo inteso come dottrina e pratica morale. In una parola: la volontà di abbandonare la fede. Nella «vecchia Europa» la maggioranza degli uomini continua ad aver bisogno del cristianesimo per un motivo molto semplice: per un «anelito di certezza, […] l’anelito a voler possedere assolutamente qualcosa in modo saldo» [La gaia scienza, aforisma 347]. Esso si mostra presente non solo in coloro che sono semplici devoti delle Chiese, ma anche in chi «trova uno sfogo» nella conoscenza scientifica di tipo positivistico e addirittura nei nichilisti «alla moda» che credono di non credere più. In tutti emerge questo «bisogno di fede, stabilità, spina dorsale, punto d’appoggio». Ma ciò che più interessa a Nietzsche è il fatto che la fede è tanto più desiderata quanto più gli uomini sono privi di volere, nel senso che difetta loro la «passione del comando» e il «dominio esercitato su sé stessi». Insomma, la fede è una «mostruosa malattia della volontà»:



quanto meno uno sa comandare, tanto più è cocente l’anelito con cui desidera qualcuno che comandi, duramente comandi, un dio, un principe, una classe, un medico, un confessore, un dogma, una coscienza di partito. […] Il fanatismo è difatti l’unica “robustezza del volere” alla quale possono essere portati anche i deboli e gli incerti, essendo una specie di ipnosi dell’intero sistema sensibile-intellettivo […] – il cristiano lo chiama la sua fede. Quando un uomo giunge alla convinzione fondamentale che a lui devono essere impartiti ordini, diventa “credente”; inversamente, si potrebbe pensare un piacere e un’energia dell’autodeterminazione, una libertà

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del volere, in cui uno spirito prende congedo da ogni fede, da ogni desiderio di certezza, adusato come è a sapersi tenere su corde leggere e su leggere possibilità, a danzare persino sugli abissi. Un tale spirito sarebbe lo spirito libero par excellence. [La gaia scienza, III, n. 347]



5.2 L’uccisione di Dio È una decisione del genere quella che porta Nietzsche a dichiarare la «morte di Dio». Egli la presenta come se si trattasse di un fenomeno già avvenuto, benché nascostamente, nello spirito europeo; ma il suo modo di avvenire coincide con la coscienza che hanno gli uomini – alcuni pochissimi uomini, certo, non la maggioranza – di averlo ucciso, o meglio di averlo voluto uccidere. L’annuncio di questa “uccisione” è dato da N ietzsche nella Gaia scienza, quando entra in scena «l’uomo folle», il quale, con una lanterna accesa pur essendo giorno, corre al mercato (il luogo in cui si consumano i traffici umani) gridando: «cerco Dio! Cerco Dio!». Questo grido suscita grandi risate tra i molti che ormai non credono più in Dio, giacché ai loro occhi è assolutamente senza senso continuare a cercarlo. Non così per il folle, che coglie con lucidità la decisione mortale degli uomini:



Dove se ne è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per cancellar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo a sciogliere questa Terra dalla catena del suo Sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i Soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? [La gaia scienza, III, n. 125]



L’uomo folle è colui che – a differenza dei savi che non capiscono quello che sta succedendo – ha consapevolezza dell’enormità di questo assassinio, ma anche della sua necessità: «Non

ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino a oggi!» [ivi]. La cosa più importante, in questo celebre passo di N ietzsche, è il fatto che il folle, pur sapendo che Dio è stato ucciso (anzi, lo annuncia lui stesso!), continui però a cercarlo. Ma che cosa effettivamente egli cerca? Chi è questo Dio che è morto? Si è spesso sostenuto che qui N ietzsche non ce l’abbia con il Cristo storico o con il cristianesimo delle origini, quanto con la dottrina della Chiesa (nata con san Paolo). E in effetti qualche anno più tardi egli stesso preciserà che «in fondo, ad essere superato è solo il Dio morale» [Frammenti postumi, estate 1886, 5 [71], n. 7, vol. VIII/1]. Ma sta di fatto che egli aveva già completamente equiparato il cristianesimo ad una morale: impedendo quindi di riconoscere ciò che in esso viene prima della morale o è irriducibile ad essa (come è la stessa persona di Cristo). In altre parole, il Dio morto non può essere risorto. D’altronde già in molta della teologia protestante contemporanea a Nietzsche si riteneva che la resurrezione non vada intesa tanto come un fatto accaduto nella storia, ma piuttosto come un prodotto della fede dei cristiani; solo che per N ietzsche la fede è, a sua volta, solo un prodotto della debolezza e della paura degli uomini. Quando l’uomo folle cerca Dio, in realtà egli cerca di capire in che modo sia mutato il volto e l’identità dell’uomo che ha compiuto il deicidio: «N on dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa?». Ma gli uomini superficiali e indifferenti del mercato non ne hanno coscienza. «Vengo troppo presto – dice infatti il folle – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino» [ivi].

5.3 Il bisogno di una nuova salute La morte di Dio svela al tempo stesso la morte dell’io come è stato pensato sino ad ora, cioè come un ente creato, cui Dio aveva assegnato un posto di assoluta centralità e preminenza nell’Universo intero. Si deve invece ripensare a un “uomo nuovo”, senza Dio, libero di essere

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solo sé stesso. Anche in passato c’erano stati dei tentativi di rendere l’uomo il vero signore e padrone del mondo, come per esempio nell’idealismo e nel positivismo, ma agli occhi di N ietzsche in questi casi si trattava pur sempre del vecchio Dio, anche se chiamato con il nome di “uomo”. Occorre invece tentare una cosa nuova: non solo mettere l’uomo al posto di Dio, ma annullare il concetto stesso di Dio – e quindi anche il concetto di uomo. «N oi uomini nuovi», scrive al termine della Gaia scienza «abbiamo bisogno […] di una nuova salute, una salute più vigorosa, più scaltrita, più tenace, più temeraria, più gaia di quanto non sia stata fino a oggi ogni salute» [V, n. 382]. Questa “grande salute” non è qualcosa che si possiede una volta per tutte, ma dev’essere sempre nuovamente conquistata: perciò bisogna sacrificare tutti i valori antichi, appartenenti ad un mondo ideale sovrasensibile, separato da quello sensibile, e con ciò conquistare un nuovo ideale, o meglio «un al di là di tutti i paesi e i cantucci dell’ideale esistenti fino a oggi». Ma in cosa consiste questo “al di là”? Non si tratta più di un mondo iperuranio staccato dall’“al di qua”, ma del nostro stesso mondo, «sovranamente ricco di cose belle, ignote, problematiche, terribili e divine», e il cui senso non è mai più grande – altro o trascendente – rispetto ad esso. Di qui deriva l’immagine dello «spirito libero» o del vero filosofo come un «viandante»: non inteso come «un viaggiatore che sia diretto a una meta finale», giacché una meta finale non esiste, bensì come un «errante, che trovi la sua gioia nel mutamento e nella transitorietà» [Umano, troppo umano, I, n. 638]. Il viandante andrà errando nella notte, senza poter trovare riposo in alcuna città, fino a quando «sorgerà per lui il sole del mattino»:



quando silenziosamente, nell’equilibrio dell’anima mattinale, egli passeggerà sotto gli alberi, gli cadranno intorno dalle cime e dai recessi del fogliame solo cose buone e chiare, i doni di tutti quegli spiriti liberi che abitano sul monte, nel bosco e nella solitudine e che, simili a lui, nella loro maniera ora gioiosa e ora meditabonda sono viandanti e filosofi. Nati dai misteri del mattino, essi meditano come mai il giorno, fra il decimo e il dodicesimo rintocco di campana, possa avere un volto così puro, così luminoso,

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così trasfiguratamente sereno: essi cercano la filosofia del mattino. [Umano, troppo umano, I, n. 638]



La salute degli uomini nuovi, temprata nell’aria tersa e serena del mattino in cui è stata diradata la caligine moralistica del vecchio Dio cristiano, è «l’ideale di uno spirito che ingenuamente, cioè suo malgrado e per esuberante pienezza e possanza, giuoca con tutto quanto fino a oggi fu detto sacro, buono, intangibile, divino» [La gaia scienza, V, n. 382]. Si tratta di un “gioco” molto serio, perché esso conduce niente di meno che ad una «trasvalutazione» di tutti i valori [ 10.7], e più precisamente dalla notte del nichilismo al suo superamento. 1. La nuova concezione della libertà del volere, contenuta nella Gaia scienza, consiste: a. nella decisione di liberarsi dalla fede. V F b. nell’annuncio della morte di Dio. V F c. in un nuovo umanesimo secondo il quale l’uomo diviene signore del mondo. V F d. nella salute dello spirito libero. V F

6 L’avvento di Zarathustra 6.1 Dal mezzogiorno al tramonto Quando l’aria fresca del mattino – segno della libertà dello spirito che ha riconosciuto la morte di Dio – giunge al mezzogiorno, con il Sole allo zenith, è il tempo di Zarathustra, il profeta cui N ietzsche affida la creazione dei nuovi valori nati dal capovolgimento di quelli antichi, e con il quale probabilmente si identifica in gran parte. L’entrata in scena avviene nella Gaia scienza e l’azione si svilupperà in Così parlò Zarathustra. N ietzsche racconta che, compiuti i trent’anni, Zarathustra andò sulle montagne e vi si trattenne in solitudine per dieci anni. Ma arriva una mattina in cui, guardando il Sole, egli capisce che tutta la luce di cui si era a lungo nutrito, ora deve darla anche agli altri: «Guarda! Sono satollo della mia saggezza, come l’ape che troppo miele ha raccolto […]. Vorrei donare e spartire, fino a che i saggi

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tra gli uomini non si rallegrino ancora una volta della loro ricchezza» [La gaia scienza, aforiChi è Zarathustra sma 342]. Ma per far questo Zarathustra sa che, al pari del Sole che di sera porta Zarathustra (o Zoroastro, nella dizione greca) è il nome la sua luce nel mondo sotterraneo, di un profeta persiano vissuto tra il VII e il VI secolo a.C.. I racanch’egli deve «discendere nelle conti mitici della sua vita ci dicono che in giovane età si ritirò in un profondità», cioè deve tramontadeserto dove ebbe una serie di visioni mistiche dal contenuto profetire nel mondo degli uomini. co. Due sono i capisaldi della sua dottrina: il passaggio dal politeismo Questo tramonto non ha il della religione persiana tradizionale a un deciso monoteismo (la divinità è unica, e ha il nome di “Ahura Mazda”, cioè ‘Dio supremo’) e una concezione significato di una sparizione dell’intero Universo dominato da un profondo dualismo tra il principio del bene ma, tutt’al contrario, quello e quello del male. La lotta cosmica tra questi due princìpi – personificati nel prindi un’incarnazione: «Guarcipe del bene, che è lo stesso “Dio supremo”, e nel principe del male, detto da! Questo calice vuole “Ahriman” – arriva a determinare anche le azioni umane, e quindi la morale. ancora vuotarsi e ZaraNietzsche presenta Zarathustra come il profeta che discende dalla montagna fino al thustra vuole ancora divenmercato, per portare un nuovo messaggio agli uomini, che non lo capiscono e additare uomo». Il tramonto di rittura lo deridono. Ma lo Zarathustra di Nietzsche non è più il fondatore religioso o Zarathustra è chiamato da colui che predica la distinzione tra bene e male: al contrario egli profetizza il supeNietzsche «l’inizio della traruomo e l’eterno ritorno dell’uguale come l’oltrepassamento di ogni religione che gedia», perché comincia un si basi sull’immagine di un Dio trascendente e di ogni morale che giudichi le pensiero totalmente altro a cui azioni degli uomini in riferimento ai princìpi assoluti del bene e del male. Ciò che Nietzsche vuole affermare in Zarathustra è la figura del “creatore” gli uomini non sono ancora di nuovi valori rispetto a quelli della morale e della cosmologia tradiziopronti. nali, e soprattutto un profeta che sia altro rispetto al cristianesimo, colui che è venuto prima e che ora viene dopo di esso. Così l’avvento di Zarathustra ricorda certamente l’avvento di Cristo, sebbene il contenuto della sua predicazione verrà definito da Nietzsche come l’«Anticristo».

6.2 Il superuomo Sceso dal suo ritiro tra le foreste, giù sino al mercato, Zarathustra comincia a parlare alla folla. Egli parla per immagini, enigmi e parabole, in cui si avverte chiaramente l’eco dei discorsi di Gesù, come se i detti di Zarathustra volessero costituire il nuovo Vangelo di un nuovo redentore. Il primo e più importante di questi discorsi è un invito agli uomini affinché superino sé stessi:



Zarathustra in una raffigurazione moderna

Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo? Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l’uomo? Che cos’è la scimmia per l’uomo? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo appunto ha da essere l’uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna. [Così parlò Zarathustra, Prefazione, § 3]



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Il senso di questo autosuperamento dell’uomo non vuol dire affatto che egli si riferisca a una realtà più grande di sé, e cioè trascendente, ma esattamente al contrario significa superare – mediante un atto della volontà – ogni dimensione ultraterrena della vita, e riaffermare il “sì” alla terra:



Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro sono degli avvelenatori. Dispregiatori della vita, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire! [Così parlò Zarathustra, Prefazione, § 3]



Il vero sacrilegio non è più, come in passato, quello contro Dio: Dio è morto, ripete Zarathustra, e quindi ora la cosa più orribile è «il sacrilegio contro la terra» [ T2]. Ma che cos’è questa terra di cui parla Nietzsche? È certamente la natura fisica, dal momento che la base del superuomo non va cercata più nell’anima o nello spirito, bensì nel corpo, cioè nella sua dimensione biologica e fisiologica. Questo però non significa assolutamente una semplice accettazione della nostra condizione “terrena”: anzi si può dire che per N ietzsche il superuomo nasce proprio dalla volontà di negare, e quindi di oltrepassare quello che gli uomini sono “di fatto”. A differenza dell’uomo, il superuomo non è qualcuno o qualcosa che “c’è”, ma consiste soltanto nel volere sé stesso al di là di quello che si è, senza acquietarsi in nessuna realizzazione. Un volere che non ha meta finale, né un compimento, ma che si nutre della sua pura potenza. Per questo secondo N ietzsche-Zarathustra la «massima esperienza» che gli uomini possano vivere è «l’ora del grande disprezzo»: «l’ora in cui vi prenda lo schifo anche per la vostra felicità e così pure per la vostra ragione e la vostra virtù» [Così parlò Zarathustra, Prefazione, 3]. Tutte queste cose si riducono infatti a piccole misure in cui viene costretta e soddisfatta a buon mercato la volontà, sono «indigenza e feccia e un miserabile benessere», quando invece dovrebbero essere «il fulmine» che fa scoccare la scintilla della vita e «la demenza», come scardinamento dei modi abituali di pensare.

Il superuomo è l’uomo che ha dapprima disprezzato sé stesso e poi ha obliato sé stesso, facendo vincere in sé la volontà di estinzione:



L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, – un cavo al di sopra di un abisso. […] La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione. Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono anche gli uomini della grande venerazione [nei confronti della terra] e frecce che anelano all’altra riva. [Così parlò Zarathustra, Prefazione, § 4]



Il compito di Zarathustra è quello di richiamare la folla mostrando ad essa «l’essere più spregevole di tutti», vale a dire l’uomo che non sa ancora disprezzarsi e perire, o in una parola «l’ultimo uomo». Egli può prepararsi a diventare superuomo, ma può anche restare, piccolo e rattrappito, senza speranza, nelle sue capacità solo umane:



Guai! Si avvicinano tempi in cui l’uomo non scaglierà più la freccia anelante al di là dell’uomo, e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare! Io vi dico: bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante: Io vi dico: voi avete ancora del caos dentro di voi. Guai! Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non partorirà più stella alcuna. [Così parlò Zarathustra, Prefazione, § 5]



6.3 La volontà di potenza e l’essere del mondo La volontà dell’uomo porta dunque al di là dell’uomo, diventa cioè una volontà oltre-umana o super-umana; non certo divina o trascendente, ma essenzialmente in-umana: in questo consiste la sua vera potenza. Spesso si pensa al superuomo e alla volontà di potenza nietzscheani come ai segni di una superiorità violenta di sapore vitalistico e biologistico, magari con la preminenza assegnata alla razza ariana, come fu interpretato all’epoca del nazismo. In realtà, sebbene questo tono esaltato e a tratti sovreccitato percorra effettivamente tutta la profezia di Zarathustra, si tratta a ben guardare di una posizione filosofica che,

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dietro l’annuncio di una nuova salute e di un’inedita forza, esprime esattamente il contrario, e cioè una profonda sfiducia – al limite del disgusto – per le capacità e le possibilità dell’io. Non c’è nulla che gli uomini possano essere o fare, e soprattutto non c’è nulla che possa accadere loro che non sia menzogna e piccolezza, né tanto meno essi si possono rapportare a ciò che è infinito. Ciò che è veramente grande è il volere che non vuole altro se non il volere stesso. In esso risiede l’“essere” del superuomo. Lo fa comprendere bene e in maniera suggestiva, benché sempre enigmatica e ambigua, un altro discorso di Zarathustra, tra i tanti dedicati a questo grande tema. Vi si parla di tre metamorfosi che lo spirito deve compiere nel passaggio dall’uomo al superuomo. In un primo momento lo spirito prende su di sé il peso delle cose più gravose, come il soffrire a causa della verità o l’amare coloro che ci disprezzano (i vertici dell’ideale classico e cristiano, che per Nietzsche si compendiano nella rinuncia a sé) e diventa cammello: «come il cammello che corre in fretta nel deserto sotto il suo carico, così corre anche [lo spirito] nel suo deserto». Ma giunto nel posto più solitario del deserto avviene una seconda metamorfosi: «qui lo spirito diventa leone, egli vuole come preda la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto». Come leone lo spirito si trova a combattere con il «grande drago», che finora egli ha chiamato «signore e dio», e che ora invece vuole detronizzare. «Il grande drago si chiama “tu devi”. Ma lo spirito del leone dice “io voglio”». Sulle squame del rettile, scintillanti come l’oro, risplendono tutti i valori delle cose che finora sono stati creati dallo spirito.



Fratelli, perché il leone è necessario allo spirito? […] Creare valori nuovi – di ciò il leone non è ancora capace: ma crearsi la libertà per una nuova creazione – di questo è capace la potenza del leone. Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere […]. Prendersi il diritto per valori nuovi – questo è il più terribile atto di prendere, per uno spirito paziente e venerante. In verità è un depredare per lui e il compito di una bestia da preda. [Così parlò Zarathustra, «Delle tre metamorfosi»]



Anche il leone, però, deve subire una metamorfosi, e deve diventare oltre che un predatore anche un fanciullo:



Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota rotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà. [Così parlò Zarathustra, «Delle tre metamorfosi»]



Per creare dei nuovi valori non basta appena stabilire una diversa tavola di ideali rispetto a quelli della tradizione: a questo scopo basterebbe un qualsiasi rivoluzionario, non servirebbe un superuomo. Il punto cruciale è creare la propria libertà, l’impresa più difficile se non impossibile, per uno spirito finito come il nostro. Per questo il superuomo non è solo un creatore di valori ma un creatore di sé stesso, più precisamente uno spirito che vuole la sua volontà. Il superuomo è l’uomo che inizia tutto da sé, che non dipende più da chi lo crea e lo tiene nell’essere; al contrario, il suo essere è creato dalla sua volontà e dipende dal suo “sì”. Nietzsche la chiama una ruota che si muove da sola, o meglio che ha in sé il principio del movimento. Un principio che non coincide più con l’origine divina e trascendente del mondo, ma con la grande ruota dell’essere e del tempo. Per N ietzsche dunque la volontà di potenza in quanto “essere” del superuomo è al tempo stesso l’essere del mondo intero:



E sapete anche cos’è per me “il mondo”? Ve lo devo mostrare nel mio specchio? […] Questo mio mondo dionisiaco del perpetuo creare sé stesso, del perpetuo distruggere sé stesso, questo mondo di mistero dalle doppie voluttà, questo mio al di là del bene e del male, senza scopo, se non c’è uno scopo nella felicità del circolo [la ruota ruotante da sola della citazione precedente], senza volontà, se un anello non ha volontà verso sé stesso – volete un nome per questo mondo? Una soluzione per tutti i suoi enigmi? Una luce anche per voi, i più celati tra gli uomini, i più forti, i più impavidi, i più notturni? – Questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro! E anche voi stessi siete questa volontà di potenza – e nient’altro! [Frammenti postumi, giugno-luglio 1885, 38 [12], vol. VII/3]



La volontà non è più dunque il mio arbitrio individuale, cioè il volere qualcosa rispetto a

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qualcos’altro, ma solo il volere che vuole sé stesso: è questo il senso dell’“anello” di cui abbiamo appena letto, quello che N ietzsche chiamerà l’eterno ritorno dell’uguale. 1. La volontà di potenza è: a. l’impulso elementare che spinge ogni uomo alla conservazione di sé. b. la tendenza che porta l’uomo a incrementare la propria potenza. c. la decisione di portare l’uomo al di là dell’uomo. d. il compito di deridere “l’ultimo uomo”.

V F V F V F V F

6.4 L’eterno ritorno dell’uguale Siamo giunti così al cuore del pensiero di N ietzsche, il punto cioè in cui tutta la critica alla metafisica e alla morale platonico-cristiana trova la sua base d’appoggio di tipo ontologico. In altri termini qui si vede che Nietzsche non è soltanto un moralista o un profeta, ma un pensatore che si impegna ad affrontare problemi squisitamente metafisici. L’eterno ritorno dell’uguale appare a prima vista come un’immagine simbolica; in realtà però essa è una precisa intuizione filosofica e una dottrina riguardante l’essere del mondo, il senso del tempo e il destino dell’uomo. Zarathustra la presenta come la visione di un enigma, capitatagli durante una salita lungo un pietroso sentiero di montagna. Lui diretto verso l’alto, e il suo «spirito di gravità» che tenta di portarlo verso il basso, sotto forma di un essere orribile seduto sulle sue spalle, «metà nano; metà talpa; storpio; storpiante; gocciolante piombo nel cavo del mio orecchio». Questo nemico che gli grava addosso lo sfida in maniera beffarda: «O Zarathustra, pietra filosofale, pietra lanciata da fionda, tu che frantumi le stelle! Hai scagliato te stesso così in alto, – ma ogni pietra scagliata deve cadere! […] essa ricadrà su di te!». Zarathustra continua a salire, forte del suo coraggio: «Alt, nano! Dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte son io: tu non conosci il mio pensiero abissale!». Questo pensiero si presenta, come un lampo, di fronte ad una porta carraia nella quale i due si imbattono.



Guarda questa porta carraia! N ano! Continuai: essa ha due volti. Due sentieri convergono qui: nessuno li ha mai percorsi sino alla fine.

Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e in avanti – è un’altra eternità. Si contraddicono a vicenda questi sentieri; sbattono la testa l’un contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convergono. In alto sta scritto il nome della porta: “attimo”. Ma chi ne percorresse uno dei due – sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno? [Così parlò Zarathustra, «La visione e l’enigma», § 2]



A partire dall’attimo presente, dunque, si dipartono – avanti e indietro – due strade che continuano per l’eternità, sino a ricongiungersi circolarmente l’una con l’altra, quella che va in avanti con quella che va all’indietro. E l’attimo è appunto la saldatura del cerchio. In tal modo, «ognuna delle cose che possono accadere dovrà già essere accaduta, trascorsa, fatta una volta», e viceversa, ognuna delle cose che accadono di fatto deve accadere ancora una volta. Tutte le cose, compresi noi, ora, dobbiamo esserci già stati e insieme ritornare in eterno. L’eterno ritorno dell’uguale fa dunque emergere l’enigma più grande che possa mai presentarsi al pensiero, vale a dire il senso del tempo, intendendo qui “senso” come direzionalità e insieme come significato. Dopo l’accadimento della porta, che nemmeno Zarathustra riesce a capire se sia stato solo un sogno, egli s’imbatte nella visione più terribile e ripugnante che si potesse immaginare:



Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca. […] La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava – invano! N on riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: «Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi». […] Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente: e balzò in piedi. N on più pastore, non più uomo – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise! [Così parlò Zarathustra, «La visione e l’enigma», § 2]



Il serpente annidato nelle fauci del pastore rappresenta l’irreversibilità del tempo, cioè il fatto

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che, secondo la concezione abituale, quello che succede non può più essere revocato e non si può mai tornare indietro rispetto all’accaduto. Ma qui risulta decisivo il morso dato alla testa del rettile: esso produce un’inversione del senso lineare del tempo (nell’ordine fisso di passatopresente-futuro), e lo produce appunto con una decisione, vale a dire attraverso la volontà. Il ritorno eterno di ogni cosa è una necessità generata dalla volontà di potenza. Il superuomo è il punto in cui si inverte l’ordine abituale del tempo e l’essere acquista un nuovo valore: la necessaria eternità. Il tempo lineare proprio della storia cristiana deve ritornare ad essere il tempo ciclico della natura pagana. Il che vuol dire, agli occhi di N ietzsche, che finalmente non si dovrà più pensare ciò che accade come creato da qualcun altro, tanto meno come bisognoso di qualcos’altro che debba accadere per compiere il senso o il destino di ciò che esiste, cioè per “redimerlo”.



L’oggi e il passato sulla Terra – ah, amici miei – questo è per me il massimo di ciò che non posso sopportare; e non saprei vivere, se non avessi anche la visione di ciò che necessariamente verrà. […] Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni “così fu” in un “così volli che fosse!” – solo questo può essere per me redenzione. […] Ogni “così fu” è un frammento, un enigma, una casualità orrida – fin quando la volontà che crea non dica anche: «[…] ma io così voglio! Così vorrò!» [Così parlò Zarathustra, «Della redenzione»]



Il peso più grande, «il macigno che la volontà non può smuovere» è quello di non riuscire a «volere a ritroso», cioè di non poter dominare su ciò che è già accaduto. L’eterno ritorno dell’uguale è agli occhi di Nietzsche la «vendetta» della volontà di potenza «contro il tempo e il suo “così fu”». E cosa succederebbe – si chiede N ietzsche nella Gaia scienza – se qualcuno ti dicesse che «questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà mai niente di nuovo»? Come prenderemmo la rivelazione che tutto, ma proprio tutto, fino al più piccolo respiro, dovrà fare ritorno «nella stessa sequenza e successione» con cui è già accaduto una volta? Forse malediremmo il demone che ci

avesse parlato così; oppure – ed è quello che prospetta Nietzsche – riconosceremmo che questa è la «cosa più divina» che si possa ascoltare: «quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che quest’ultima eterna sanzione, questo suggello?» [La gaia scienza, IV, n. 341]. Nell’eterno ritorno la volontà di potenza non desidera nient’altro, ma vuole solo ciò che è necessario. Più potente è la volontà, minore è la scelta. E il superuomo, che ci pareva costituire il trionfo della libertà, ora ride di quel sorriso enigmatico delle statue greche, tutto soddisfatto e divinamente privo di libertà. 1. La visione dell’enigma dell’eterno ritorno dell’uguale consiste nell’intuizione filosofica: a. dell’irreversibilità del tempo. V F b. della necessaria eternità dell’essere. V F c. della decisione che interrompe la linearità del tempo. V F d. della ripresa del tempo ciclico della natura pagana. V F

7 La trasvalutazione di tutti i valori 7.1 Dal nichilismo passivo al nichilismo attivo Una volta raggiunta la visione del superuomo e della sua nuova creazione di valori, opera della volontà di potenza che decide dell’eterno ritorno delle cose, si fa anche chiaro che la rivelazione di Zarathustra costituisce il nemico mortale della morale tradizionale, canonizzata dalla religione cristiana. La lotta si riaccende in maniera più veemente di prima:



Dopo aver risolto [con lo Zarathustra] quella parte del mio compito che dice sì, toccava ora alla parte che dice no, che opera il no: la trasvalutazione stessa di tutti i precedenti valori, la grande guerra – l’evocazione di un giorno della decisione. In tutto questo è incluso un lento guardarsi intorno alla ricerca di esseri affini, tali che da una condizione di forza potrebbero offrirmi la mano per distruggere. [Ecce homo, «Al di là del bene e del male»]



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La trasvalutazione di tutti i valori è un fenomeno epocale di grandi dimensioni – in quanto coinvolge e attraversa tutti gli aspetti della vita, della cultura e della società – che a buon diritto può essere indicato con il nome di “nichilismo”: «N ichilismo: manca il fine; manca la risposta al “perché?”; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalorizzano» [Frammenti postumi, autunno 1887, 9 [35], vol. VIII/2]. Ora, secondo N ietzsche, il nichilismo è un fenomeno ambiguo, perché comprende in sé sia la fase in cui si sgretolano i valori finora ritenuti veri e fondanti, sia la fase in cui essi vengono programmaticamente distrutti. Nella prima accezione abbiamo a che fare con un “nichilismo passivo”, come «declino e regresso della potenza dello spirito». Esso è un fenomeno di debolezza estrema, che porta a subire la disgregazione dei valori, cercando «tutto ciò che ristora, tranquillizza, stordisce», cioè tutti quegli oppiacei che si nascondono sotto i travestimenti «religiosi o morali o politici o estetici, ecc.». N ella seconda accezione, invece, si tratta di un “nichilismo attivo”, «segno della cresciuta potenza dello spirito». A differenza del nichilismo passivo, che è stanco e non aggredisce più, quello attivo erompe con la «forza violenta della distruzione» [Frammenti postumi, autunno 1887, 9 [35], vol. VIII/2]. In tal modo il nichilismo estremo non solo afferma che non vi è più una verità assoluta delle cose considerate “in sé”, ma riconosce che l’unico vero valore delle cose risiede nella forza di coloro che pongono quel valore. Quanto maggiore è la forza, più “valido” sarà il valore. Per questo, negli scritti successivi a Così parlò Zarathustra, N ietzsche si impegna in questo programma estremo del nichilismo, che consiste non solo nello smascherare i presupposti nascosti dei cosiddetti valori assoluti – ciò che egli aveva già fatto nelle opere precedenti – ma nel mutare di segno e di direzione a questa svalutazione dei valori: essi non vanno semplicemente negati, ma capovolti, trasvalutati, cioè interpretati al contrario, come sintomi della volontà di potenza del superuomo. È vero, dunque, che «il nichilismo è alle porte» come «il più inquietante tra tutti gli ospiti»: ma esso non nasce perché è venuta meno la metafisica e la morale della tradizione, né costituisce una minaccia all’esterno di que-

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ste ultime, al contrario secondo N ietzsche nasce al loro stesso interno: esso «si annida in un’interpretazione del tutto determinata, quella cristiano-morale» [Frammenti postumi, autunno 1885, 2 [127], vol. VIII/1]. Per superare il nichilismo bisognerà dunque distruggere tale interpretazione. 1. La trasvalutazione di tutti i valori è un tentativo di: a. surrogare i valori scomparsi con dei sostituti idolatrici. V b. operare la distruzione di tutti i valori. V c. riconoscere che la posizione dei valori è prerogativa della volontà di potenza. V d. ripristinare l’ordine e la gerarchia dei più forti. V

F F F F

7.2 Gli schiavi contro i signori Il primo fronte della battaglia per la trasvalutazione di tutti i valori non poteva essere che quello riguardante i concetti fondamentali della morale, il buono e il cattivo:



nuova esigenza: abbiamo bisogno di una critica dei valori morali, di cominciare a porre una buona volta in questione il valore stesso di questi valori. […] Si è preso il valore di questi “valori” come dato, come risultante di fatto, come trascendente ogni messa in questione; fino a oggi non si è neppure avuto il minimo dubbio o la minima esitazione nello stabilire “il buono” come superiore, in valore, al “malvagio”, superiore in valore nel senso di un avanzamento, di una utilità, di una prosperità in rapporto all’uomo in generale (compreso l’avvenire dell’uomo). Come? E se la verità fosse il contrario? [Genealogia della morale, Prefazione, § 6]



In Al di là del bene e del male, Nietzsche afferma che il «peggiore e il più ostinato e pericoloso di tutti gli errori» sino ad oggi è stata «l’invenzione platonica del puro spirito e del bene in sé». Lo spirito non è mai “puro” e il bene non è mai “in sé”, perché entrambi hanno come loro condizione fondamentale un “carattere prospettico”, cioè dipendono da come viene intesa e adoperata la volontà umana. Per questo il compito

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che Nietzsche assume su di sé è quello di portare all’estremo tutta la forza che sia mai stata impiegata nella lotta contro questo errore: «la lotta contro la secolare oppressione cristianoecclesiastica – giacché il cristianesimo è un platonismo per il “popolo”» [Al di là del bene e del male, Prefazione]. Ma è già a partire dal popolo ebreo che si delinea la contrapposizione fondamentale del nostro mondo. Gli ebrei sono quel popolo sacerdotale che ha impostato tutta la sua azione sull’odio nei confronti degli “altri”, i non-ebrei, i “nemici” e i “dominatori” e ha creato per puro spirito di “vendetta” una trasvalutazione dei valori degli antichi. Dagli ebrei in poi non vale più l’equazione aristocratica di «buono = nobile = potente = bello = felice = caro agli dèi», perché al contrario



i miserabili soltanto sono i buoni; solo i poveri, gli impotenti, gli umili sono buoni, i sofferenti, gli indigenti, gli infermi, i deformi sono anche gli unici devoti, gli unici uomini pii, per i quali solo esiste una beatitudine – mentre invece voi, voi nobili e potenti, siete per l’eternità i malvagi, i crudeli, i lascivi, gli insaziati, gli empi, e sarete anche eternamente gli sciagurati, i maledetti e i dannati! [Genealogia della morale, I, § 7]



N asce di qui una doppia morale, quella dei “signori” e quella degli “schiavi” e tutta la nostra bimillenaria tradizione ha avuto origine dalla «rivolta degli schiavi nella morale», che è risultata definitivamente vincente soprattutto con Gesù di Nazareth. Come «vangelo vivente dell’amore», come il «redentore che portava la beatitudine e la vittoria ai poveri, agli infermi, ai peccatori» Gesù compie definitivamente la «sublime avidità di vendetta», o meglio ancora la «grande politica della vendetta» tipica di Israele. Quando tutto si “giudeizza” e si “cristianizza” per Nietzsche vuol dire che tutto si “plebeizza” e i signori vengono sopraffatti dagli schiavi. La molla della rivolta degli schiavi è il “risentimento” (ressentiment): non essendo i deboli capaci di un’azione creatrice che parta da sé stessi e dal loro valore intrinseco, essi vivono solo per reazione nei confronti di altri, della cui superiorità ci si deve vendicare, per poter infine affermare sé stessi. Gli uomini “aristocratici”, i pochi che possiedono nell’elevatezza dello spirito la loro vita, dicono di sé: «noi nobili, noi buoni, noi belli, noi felici»; gli uomini comuni,

e quindi inevitabilmente inferiori nello spirito, sono invece gli “infelici” e i «degni di compassione». Ma mentre presso i Greci e i Romani gli uomini comuni sono gli “ignobili” e gli “spregevoli”, per gli ebrei e i cristiani essi sono i “veri” nobili e i buoni. E la simpatia di N ietzsche va senz’ombra di dubbio ai primi:



Che gli agnelli nutrano avversione per i grandi uccelli rapaci, è un fatto che non sorprende: solo che non v’è in ciò alcun motivo per rimproverare ai grandi uccelli rapaci di impadronirsi degli agnellini. […] Pretendere dalla forza che non si estrinsechi come forza, che non sia un voler sopraffare, un voler abbattere, un voler signoreggiare […] è precisamente così assurdo come pretendere dalla debolezza che essa si estrinsechi come forza. [Genealogia della morale, I, § 13]



Né si deve pensare che dietro alle manifestazioni della forza vi sia un “soggetto” o un “essere” che eserciti quella forza – cioè un «quantum di istinti, di volontà, di attività» – orientandola a seconda dei casi verso il bene o verso il male. E questo per il semplice motivo che «non esiste alcun “essere” al di sotto del fare, dell’agire, del divenire». Non esiste «colui che fa», perché «il fare è tutto» [Genealogia della morale, I, 13]. Analogo ragionamento Nietzsche fa a proposito di altre categorie fondamentali della tradizione morale, quali la “colpa” o la “cattiva coscienza” o la stessa “giustizia”, interpretate come invenzioni degli uomini del risentimento e della vendetta e come subdole forme di reazione e di ricatto al prevalere dei più forti. Per non parlare poi dell’ideale ascetico, comune sia alla religione che alla conoscenza scientifica, entrambe portate a credere erroneamente che il nostro giudizio sulle cose non debba «riposare su noi stessi» ma piuttosto elevarsi o appunto “ascendere” ad una verità superiore. Se dunque la visione ebraico-cristiana che impregna di sé la nostra cultura ha trasvalutato i valori dell’aristocrazia antica, Nietzsche vuole trasvalutare a sua volta la morale degli schiavi nella morale dei signori [ T34], cioè a dire nell’annullamento stesso della morale, poiché



una morale dei dominatori è estranea al gusto dei contemporanei e per essi spiacevole nel rigore del suo principio, che si hanno doveri unicamente

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verso i propri simili; che nei riguardi degli individui di rango inferiore e di tutti gli estranei sia lecito agire a proprio arbitrio o “come vuole il cuore” e comunque “al di là del bene e del male”. [Al di là del bene e del male, IX, 260]



Si capisce perché dunque gli aristocratici, i nobili e i dominatori eleggano a loro nemico mortale il cristianesimo, inteso (e ridotto) come «la religione della compassione». Quest’ultima è vista infatti da Nietzsche come l’opposto dell’energia vitale e come un fattore depressivo riguardo alla forza della volontà, perché affermerebbe che la sofferenza e la malattia, non lo sviluppo della salute, è l’ideale della vita.



La compassione intralcia in blocco la legge dello sviluppo che è la legge della selezione. Essa conserva ciò che è maturo per il tramonto, oppone resistenza a favore dei diseredati e dei condannati dalla vita; grazie alla quantità di malriusciti di ogni specie che essa mantiene in vita, dà alla vita stessa un aspetto fosco e problematico […]: questo istinto deprimente e contagioso intralcia quegli istinti che tendono alla conservazione della vita e al suo potenziamento di valore […], è un essenziale strumento per l’incremento della décadence – la compassione persuade al nulla!... Non si dice il “nulla”: si dice invece: “al di là”, oppure “Dio”. [L’Anticristo, § 7]



Di qui deriva una palese insofferenza da parte di N ietzsche per la democrazia e gli ideali del socialismo, alla cui base egli vede sempre l’egualitarismo di matrice cristiana. La lotta tra Roma e la Giudea – nonostante abbia vinto senz’altro la seconda – va riaperta ogni volta: è successo per esempio nel Rinascimento con il «risveglio splendidamente inquietante dell’ideale classico» [Genealogia della morale, I, 16], cioè del modo aristocratico di giudicare le cose, sebbene poi la Giudea, o meglio «la nuova Roma giudeizzata» [cioè la Chiesa], abbia di nuovo trionfato sulla Roma classica con la Riforma protestante e la Controriforma cattolica. Ed è singolare che per Nietzsche la stessa Rivoluzione francese sia stata una nuova vittoria della Giudea sugli ideali classici, perché «gli istinti popolari del ressentiment» vi hanno avuto la meglio sull’«aristocrazia politica» europea del XVII e del XVIII secolo. Il «primato della

maggioranza» – vale a dire la «volontà di scadimento, di abiezione, di livellamento, di abbassamento e di tramonto dell’uomo» – ancora una volta trionfa sul «primato dei pochi». Ma nello stesso momento appare anche, come un’estrema incarnazione dell’ideale aristocratico in sé, N apoleone Bonaparte, «questa sintesi di disumano e di superumano» [Genealogia della morale, I, § 16]. Vivere “al di là del bene e del male” non vuol dire dunque porsi anarchicamente o relativisticamente al di là di ciò che è “buono” e di ciò che è “cattivo”, bensì ripristinare l’ordine e la gerarchia del potere dei più forti, dei pochi per cui la vita vale in sé e per sé (i signori) e che possono, anzi devono guardare con disprezzo a coloro per cui essa invece dipende da uno più grande di sé (gli schiavi). Con una battuta fulminante posta a conclusione di Ecce homo N ietzsche sintetizzerà la grande alternativa e insieme la sua scelta: «Sono stato capito? – Dioniso contro il Crocifisso…». Per superare la morale cristiana e lo stesso Dio cristiano, che è messo in croce per redimere il dolore e il male, non ci si può fidare neanche delle ribellioni moderne, tutte figlie del cristianesimo; si deve piuttosto fare ritorno all’Antichità anticristiana: Dioniso è infatti l’emblema del superuomo sciolto da ogni altro legame che non sia il suo puro volere, e in cui il dolore e il male non hanno bisogno di essere redenti, perché semplicemente necessari ed eterni.

7.3 La favola del mondo vero Quale sarà l’obiettivo finale di questa lotta? Liberare completamente la volontà di potenza, rimasta finora irretita nelle maglie della morale, e liberarla appunto in senso extramorale, cioè come quella forza che coincide con la vita stessa, con l’essere del mondo e con il senso del tempo. Ma per ritrovare questa forza al suo livello primigenio e sotterraneo dove si dovrà cercare? Lo stesso Zarathustra, colui che ha avuto le intuizioni decisive, si limitava a parlare per enigmi, offrendo più che nuove dottrine soprattutto indicazioni allusive e spesso ambigue da interpretare. La liberazione della volontà di potenza – o la redenzione del tempo, come anche la chiama N ietzsche – si gioca tutta in

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una interpretazione degli errori del passato, che porti a scoprire come i concetti che pensavamo pieni e fondanti, sono in realtà degli “idoli” vuoti, come sono vuote all’interno alcune statue che dal di fuori sembrerebbero granitiche. Questo è il senso dell’ultimo scritto nietzscheano, il Crepuscolo degli idoli, che porta come sottotitolo «Come si filosofa col martello», per indicare che l’interpretazione è in sostanza una “auscultazione”, come quando si batte con un martello per sentire «quel famoso suono cavo che parla dai visceri enfiati» [Prefazione]. Bisogna dunque imparare ad ascoltare, a riconoscere come vibra, sotto il colpo del diapason, il vuoto dei valori ritenuti eterni, e che invece sono impietosamente giunti al tramonto. Solo che questo tramonto è ancora “dentro” di loro: bisogna appunto portarlo fuori. Quello che propone Nietzsche, tuttavia, non è un mero esercizio accademico o una semplice analisi culturale: egli ne parla come di «una grande dichiarazione di guerra» che può anche portare alla guarigione, cioè alla liberazione dalla pesantezza della menzogna. Il primo passo in questa direzione sta nel fare l’anamnesi di questa patologia della verità; e se è vero che non è certo la prima volta che Nietzsche si butta in quest’opera decostruttiva, man mano che passano gli anni essa viene insistentemente ripetuta, alla ricerca quasi spasmodica di guadagnare attraverso la distruzione una liberazione. In altri termini, la volontà di potenza e il superuomo non sono dei traguardi che si raggiungano dopo aver fatto piazza pulita dei modi abituali di pensare, ma sono già all’opera in questa azione. Per questo si cercherebbe invano, in Nietzsche, una parte “costruttiva” separata e successiva alla parte “distruttiva”, perché la volontà costruisce solo distruggendo, senza poter mai trovare “sotto” o “dietro” o “al di là” di queste costruzioni una realtà nascosta o dimenticata. È quanto emerge dalla breve ma intensa «Storia di un errore», intitolata da N ietzsche «Come il “mondo vero” finì per diventare favola», in sei passaggi. 1. All’inizio il mondo vero coincide con la stessa persona dell’uomo saggio, pio e virtuoso, e si potrebbe compendiare nella formula: «Io, Platone, sono la verità». Qui si riflette tutta la pretesa intellettualistica di Socrate, colui che

attraverso la sua “dialettica” ha dato spazio alla plebe rispetto alla nobiltà aristocratica dei potenti: una pretesa risultata sempre insopportabile agli occhi di Nietzsche. 2. Successivamente il mondo vero non coincide più con il saggio, il pio e il virtuoso, ma gli è solo promesso, rimanendo però inattingibile: «Progresso dell’idea: essa diventa più sottile, più capziosa, più inafferrabile – diventa donna, si cristianizza». 3. L’esito di questa tendenza è che il mondo vero non potrà più neanche essere promesso, ma andrà inteso solo come «una consolazione, un obbligo, un imperativo» morale. Si tratta dell’«antico Sole» (cioè l’idea del mondo vero) ma vista come «attraverso nebbia e scetticismo»: «l’idea sublimata, pallida, nordica, königsbergica» – e Königsberg è la città di Kant, il filosofo del “tu devi!”. 4. Ma se il mondo vero non è più raggiungibile resterà anche del tutto “sconosciuto”: e con ciò cade anche la sua obbligatorietà, perché «a che ci potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto?». Comincia ad affermarsi l’idea che solo i fatti empirici e sensibilmente verificabili siano la verità: «Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione: Canto del gallo del positivismo». 5. E finalmente la metafisica cade, si svela un inganno sotto i colpi degli illuministi: «Il “mondo vero” – un’idea che non serve più a niente, nemmeno più vincolante – un’idea divenuta inutile e superflua, quindi un’idea confutata: eliminiamola! (Giorno chiaro; prima colazione, ritorno del bon sens e della serenità; Platone rosso di vergogna; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi)». 6. Ma non finisce qui, perché se ci arrestassimo alla quinta tappa significherebbe che avremmo trovato finalmente la “verità” – anche solo dicendo che “non c’è la verità”. Nietzsche vuole andare fino in fondo nella distruzione, correndo il rischio di distruggere anche l’esperienza più diretta del mondo e di sé:



Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente?… Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente! (Mezzogiorno; momento dell’ombra più corta; fine del lunghissimo errore; apogeo dell’umanità; incipit Zarathustra). [Crepuscolo degli idoli, «Come il “mondo vero” finì per diventare favola»]



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Come si vede, Zarathustra comincia sempre di nuovo: esso non può mai proseguire, ma solo ed eternamente ricominciare, riaprendo continuamente la nuova prospettiva, e cioè che non c’è niente di vero e niente di falso, niente di reale e niente di apparente, nessun bene in sé e nessun male in sé, nessun giudizio e nessuno scopo, nessuna colpa e nessuna pena, nessuna libertà e nessuna responsabilità – ma tutto è semplicemente e necessariamente quello che è, senza bisogno di altro. Ma se tutto quanto è necessario, niente è veramente libero. E difatti, quando Zarathustra comincia si vede che il libero arbitrio dell’uomo è una pura invenzione dei “teologi” e dei “preti” che vogliono sempre incolpare e punire gli uomini:

ma che il senso dell’essere, proprio in quanto eternamente ritornante, è solo “interpretazione”:



Potrebbe sembrare una contraddizione affermare che tutto è necessario ed eterno, e al tempo stesso tutto è interpretazione. Ma per Nietzsche l’interpretazione non è un’attività del soggetto che elabora il mondo secondo le proprie visioni, bensì è l’essere stesso del mondo. In altre parole: se tutto è interpretazione, la conseguenza non sarà semplicemente che ciascuno dà il suo senso al mondo (questa, al limite, sarebbe la fase del nichilismo passivo), bensì che il mondo è quello che è, senza avere un senso. Se tutto è eterno e necessario – così pensa Zarathustra – c’è ancora bisogno di cercarvi un senso? La soluzione della crisi del mondo moderno sta in fondo semplicemente in questo: trasformare la crisi in condizione permanente, la mancanza del significato nell’unico significato possibile. N ietzsche è colui che ha voluto attraversare questa crisi – la sua personale e quella di un’epoca intera – per raggiungere dal suo stesso interno una nuova salute, una salvezza senza nessun redentore, una sanità che appartiene alla natura soltanto. Ed è paradossale che questa volontà di salute abbia alla fine coinciso con la sua malattia mentale: come se gli uomini, così come sono, non fossero ancora pronti a diventare gli uomini che vogliono essere – e forse non lo saranno mai, se non al prezzo di distruggere sé stessi, non solo le maschere ma anche gli individui che le portano:

nessuno dà all’uomo – né Dio, né la società, né i suoi genitori, né lui stesso – le sue proprie caratteristiche […]. Nessuno è responsabile della sua esistenza, del suo essere costituito in questo o in quel modo, di trovarsi in quella situazione e in quell’ambiente. La fatalità della sua natura non può essere districata dalla fatalità di tutto ciò che fu e che sarà. Egli non è la conseguenza di un personale proposito, di una volontà, di uno scopo […]. Siamo stati noi a inventare il concetto di “scopo”: nella realtà lo scopo è assente… Si è necessari, si è un frammento di fato, si appartiene al tutto, si è nel tutto […]. Ma fuori del tutto non c’è nulla! – […] tutto ciò soltanto è la grande liberazione – con ciò soltanto è nuovamente ristabilita l’innocenza del divenire. [Crepuscolo degli idoli, «I quattro grandi errori», § 8]



Si tratta di una visione della realtà assai vicina a quella di Spinoza; ma mentre in quest’ultimo la necessità e il fato sono il nome dato alla sostanza (Deus sive natura), in Nietzsche indicano la radicale distruzione di ogni sostanza e oggettività determinata e l’imporsi come senso dell’essere della volontà. La realtà non va più intesa come un “dato”, perché ciò significherebbe che c’è qualcuno o qualcosa che “dà” e qualcuno o qualcosa che “riceve”, mentre la volontà è una potenza pura, che si afferma distruggendo entrambi i poli, il creatore come la creatura, il soggetto come l’oggetto, l’io come il mondo. All’estremo del nichilismo attivo per Nietzsche vi è una nuova visione ontologica, la quale affer-



Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: “ci sono soltanto fatti”, direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. N oi non possiamo constatare nessun fatto “in sé”; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere. “Tutto è soggettivo”, dite voi; ma già questa è un’interpretazione, il “soggetto” non è niente dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. – È infine necessario mettere ancora l’interprete dietro l’interpretazione? Già questo è invenzione, ipotesi. [Frammenti postumi, fine 1886-primavera 1887, 7 [60], vol. VIII/1]





In realtà dovrei avere intorno a me una cerchia di persone profonde e delicate, che mi proteggessero per così dire da me stesso e sapessero anche

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rasserenarmi: giacché, per uno che pensa le cose L’ultima che devo pensare io, è sempre vicinissimo il pelettera da Torino ricolo di distruggere sé stesso. [Frammenti postumi, autunno 1885-priIl 6 gennaio 1889, tre giorni dopo il definitivo e mavera 1886, 1 [1], vol. VIII/1] irreversibile scoppio della sua follia (in Piazza



Carignano aveva abbracciato un cavallo che il cocchiere

SINTESI CAPITOLO 10

Alla fine delle inquiete vicende del stava prendendo a calci), Nietzsche scrive una lettera, struggensuo spirito, con la sua stessa morte te nella sua allucinazione, al vecchio collega Jakob Burckhardt, in cui pare che il suo problema sia quello di essere diventato egli stesso nella demenza [ L’ultima lettera “dio”: da Torino] Nietzsche ha simbolicamente chiuso l’Ottocento – il Caro signor professore, secolo dei grandi progetti della in fin dei conti sarei stato molto più volentieri professore a Basilea piutragione umana, dall’idealismo al tosto che Dio; ma non ho osato spingere il mio egoismo privato al punto positivismo allo storicismo – e ha inaugurato il N ovecento, il di tralasciare per colpa sua la creazione del mondo. Vede, comunque e grande secolo della crisi dei siste- dovunque si viva, è necessario fare dei sacrifici. […] mi filosofici. Un secolo sul quale Quello che è spiacevole e che mette alla prova la mia modestia è che in fondo io sono tutti i nomi della storia; è così anche per i figli che egli in qualche modo ha continuaho messo al mondo, per cui mi sto chiedendo con una certa diffito a gettare la sua ombra, come denza se tutti quelli che vengono nel “regno di Dio” non prouna sentinella nella notte, uno che vengano anche da Dio. Quest’autunno sono stato presente ci ricorda di continuo del deserto che due volte al mio funerale, vestito il meno possibile […]. avanza e del bisogno di oltrepassarlo. Vado ovunque col mio vestito da studente, ogni E resta ancora un dubbio, se questa sentanto do una pacca sulla spalla a qualcuno e tinella sia riuscita ad annunciare – come dico: siamo contenti? son Dio, ho pure voleva – l’imminenza del nuovo giorno fatto questa caricatura. o abbia testimoniato nella maniera più drammatica il tormento del buio.

Il primo Nietzsche: filologia, filosofia, storia. Il giovane filologo Nietzsche intese il mondo della tragedia greca come tensione tra l’elemento dionisiaco e l’elemento apollineo. Il “dionisiaco” – chiamato così in riferimento al dio Dioniso – indica il mondo oscuro dell’istinto e della vita che è sempre anche fonte di sofferenza, di dolore e di morte. Ed è proprio per poter sopportare la sofferenza che i Greci hanno “inventato” gli dèi, il mondo della quiete e della serenità olimpica di cui Apollo, dio dell’armonia e della misura, è l’emblema più alto. Il distacco di Nietzsche da una concezione “classicista” e “umanistica” della grecità non poteva essere più netto. Con la tragedia attica lo spirito greco raggiunge il suo compimento fino a quando però, con Euripide, essa inizia la sua fase di

decadenza sotto l’influsso di quello che N ietzsche chiama l’atteggiamento socratico: essa non mette più in scena la lotta tra il dionisiaco e l’apollineo, ma nasce piuttosto dall’intento di spiegare razionalmente e giustificare moralmente l’azione rappresentata. In tale decadenza si rispecchia, secondo Nietzsche, la crisi della cultura del suo tempo, intrisa di intellettualismo e di pretese razionalistiche, e staccata ormai dal rapporto con la sua origine vitale. Uno dei modi in cui per N ietzsche è più ostacolato, nella sua epoca, il nesso tra la conoscenza e la vita, è la sempre più diffusa e invasiva concezione del passato storico. Contro l’imperante storicismo Nietzsche sostiene che un eccesso di storicità può diventare una sorta di malattia mortale, che indebolisce lo spirito umano, rendendolo incapa-

ce di cogliere la sua vita presente e di decidersi all’azione come se fosse il primo a farlo. La svolta genealogica. Già a partire dalla metà degli anni Settanta dell’Ottocento nel pensiero di Nietzsche matura una svolta. Tale cambiamento è dovuto alla consapevolezza che non è più possibile interpretare la cultura della sua epoca in termini di “decadenza”: ora invece è come se il decadere della cultura moderna apparisse a N ietzsche come l’invito a un compito decostruttivo, cioè ad impegnarsi a fare la “genealogia” delle forme culturali dominanti, presentate come fisse o eterne, e smascherarne l’origine storica o umana. Questa decostruzione del mondo ideale dei valori eterni si applica in specie alla morale con cui Nietzsche intende tutte quelle concezioni che

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SINTESI CAPITOLO 10

Friedrich Nietzsche capitolo 10 ammettono un’origine sovrastorica e dei princìpi assoluti. Grazie all’analisi genealogica, la morale risulta agli occhi di N ietzsche come la grande fucina degli “errori” fondamentali della storia dell’umanità. In questa nuova prospettiva i fenomeni metafisici e morali sono interpretati come dei “composti” di alcuni elementi di base, quali l’istinto di sopravvivenza, la ricerca del piacere e l’allontanamento dal dolore. In altri termini, tutto si riconduce all’utilità, che è l’istinto fondamentale dell’esistenza umana. Il punto in cui emergono in maniera più eclatante i problemi affrontati in questa autodistruzione della morale è quello riguardante il cristianesimo. L’accanita posizione anticristiana da parte di N ietzsche riveste un significato essenziale per comprendere la sua filosofia. Morte dell’io - morte di Dio. Si apre qui una nuova prospettiva che permette di passare dalla tragedia alla gaia scienza: una nuova concezione della volontà come decisione che produce una liberazione dalla morale e dalla religione, o meglio dal cristianesimo inteso come dottrina e pratica morale. La maggioranza degli uomini continua tuttavia ad aver bisogno del cristianesimo per un «anelito di certezza, l’anelito a voler possedere assolutamente qualcosa in modo saldo» come se fossero affetti da una «mostruosa malattia della volontà». È la decisione di guarire da una malattia del genere quella che porta Nietzsche a dichiarare la «morte di Dio». L’annuncio di questa “uccisione” è dato da N ietzsche nella Gaia scienza, quando entra in scena «l’uomo folle», il quale ha consapevolezza dell’enormità di questo assassinio, ma anche della sua necessità in quanto egli cerca di capire in che modo sia mutato il volto e l’identità dell’uomo che ha compiuto il deicidio: la morte di Dio svela quindi al tempo stesso la morte dell’io come è stato pensato sino ad ora, cioè come un ente creato, cui Dio aveva assegnato un posto di assoluta centralità e preminenza nell’Universo intero. L’avvento di Zarathustra. Dopo la morte di Dio viene il tempo di Zarathustra, il profeta cui N ietzsche affida la creazione dei nuovi valori na-

ti dal capovolgimento di quelli antichi, e con il quale probabilmente si identifica in gran parte. Zarathustra parla per immagini, enigmi e parabole, in cui si avverte chiaramente l’eco dei discorsi di Gesù. Il primo e più importante di questi discorsi è un invito agli uomini affinché superino sé stessi nell’avvento del superuomo. Il senso di questo autosuperamento dell’uomo non vuol dire affatto che egli si riferisca a una realtà più grande di sé, e cioè trascendente, ma esattamente al contrario significa riaffermare il “sì” alla terra. Ma che cos’è questa terra di cui parla Nietzsche? È certamente la natura fisica ma non appena l’accettazione della nostra condizione “terrena”: anzi si può dire che per Nietzsche il superuomo nasce proprio dalla volontà di oltrepassare quello che gli uomini sono “di fatto”. A differenza dell’uomo, il superuomo non è qualcuno o qualcosa che “c’è”, ma consiste soltanto nel volere sé stesso al di là di quello che si è. N ietzsche chiama questa volontà l’eterno ritorno dell’uguale, che è una precisa intuizione filosofica e una dottrina riguardante l’essere del mondo, il senso del tempo e il destino dell’uomo. Il ritorno eterno di ogni cosa è una necessità generata dalla volontà di potenza. Il superuomo è il punto in cui si inverte l’ordine abituale del tempo e l’essere acquista un nuovo valore: la necessaria eternità. Il tempo lineare proprio della storia cristiana deve ritornare ad essere il tempo ciclico della natura pagana. Il che vuol dire che finalmente non si dovrà più pensare ciò che accade come creato da qualcun altro, tanto meno come bisognoso di qualcos’altro che debba accadere per compiere il senso o il destino di ciò che esiste, cioè per “redimerlo”. La trasvalutazione di tutti i valori. La trasvalutazione di tutti i valori è un fenomeno epocale che a buon diritto può essere indicato con il nome di “nichilismo”: un fenomeno ambiguo, perché comprende in sé sia la fase in cui si sgretolano i valori finora ritenuti veri e fondanti, sia la fase in cui essi vengono programmaticamente distrutti. Il primo fronte della battaglia per la trasvalutazione di tutti i valori non poteva essere che quello riguar-

dante i concetti fondamentali della morale: il buono e il cattivo. È a partire dal popolo ebreo che si delinea la contrapposizione fondamentale del nostro mondo morale. Gli Ebrei sono quel popolo sacerdotale che ha impostato tutta la sua azione sull’odio nei confronti degli “altri”, i non-Ebrei, i “nemici” e i “dominatori” e ha creato per puro spirito di “vendetta” una trasvalutazione dei valori degli antichi. Dagli Ebrei in poi non vale più l’equazione aristocratica di «buono = nobile = potente = bello = felice = caro agli dèi». N asce di qui una doppia morale, quella dei “signori” e quella degli “schiavi” e tutta la nostra bimillenaria tradizione ha avuto origine dalla «rivolta degli schiavi nella morale», che è risultata definitivamente vincente soprattutto con Gesù di N azareth. La molla della rivolta degli schiavi è il “risentimento” (ressentiment): non essendo i deboli capaci di un’azione creatrice che parta da sé stessi e dal loro valore intrinseco, essi vivono solo per reazione nei confronti di altri, della cui superiorità ci si deve vendicare. Si capisce perché dunque gli aristocratici, i nobili e i dominatori eleggano a loro nemico mortale il cristianesimo, inteso come (e ridotto a) «la religione della compassione». Quest’ultima è vista infatti da Nietzsche come l’opposto dell’energia vitale e come un fattore depressivo riguardo alla forza della volontà, perché affermerebbe che la sofferenza e la malattia, non lo sviluppo della salute, è l’ideale della vita. Con una battuta fulminante posta a conclusione di Ecce homo Nietzsche sintetizzerà la grande alternativa e insieme la sua scelta: «Sono stato capito? – Dioniso contro il Crocifisso…». Per superare la morale cristiana e lo stesso Dio cristiano, che è messo in croce per redimere il dolore e il male, non ci si può fidare neanche delle ribellioni moderne, tutte figlie del cristianesimo; si deve piuttosto fare ritorno all’Antichità anticristiana: Dioniso è infatti l’emblema del superuomo sciolto da ogni altro legame che non sia il suo puro volere, e in cui il dolore e il male non hanno bisogno di essere redenti, perché semplicemente necessari ed eterni.

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BIBLIOGRAFIA Fonti

Opere

F. Nietzsche, La gaia scienza, trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1977. F. Nietzsche, Ecce homo, trad. di R. Calasso, Adelphi, Milano 1991. F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in La filosofia nell’epoca tragica dei Greci - Scritti 1870-73, trad. di G. Colli, Adelphi, Milano 1991 (ma anche trad. di F. Tomatis, testo tedesco a fronte, Bompiani, Milano 2006). F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-88, trad. di S. Giametta, in Opere, vol. VIII/2, Adelphi, Milano 1971. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-85, trad. di S. Giametta, in Opere, vol. VII/3, Adelphi, Milano 1975. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, trad. di S. Giametta, Adelphi, 1977. F. Nietzsche, Cinque prefazioni per cinque libri non scritti, in La filosofia nell’epoca tragica dei Greci - Scritti 1870-73, cit. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1974. F. Nietzsche, Umano troppo umano, trad. di S. Giametta, 2 voll., Adelphi, Milano 1979-81. F. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1977. F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1978. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-87, trad. di S. Giametta, in Opere, vol. VIII/1, Adelphi, Milano 1975. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, trad. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1976. F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1984. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1977. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, ovvero Come si filosofa con il martello, trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1983. F. Nietzsche, Lettere da Torino, trad. di V. Vivarelli, a cura di G. Campioni, Adelphi, Milano 2008.

L’edizione di riferimento degli scritti e dei frammenti di Nietzsche in lingua tedesca è ormai quella curata dagli italiani Giorgio Colli e Mazzino Montinari: F. Nietzsche, Werke. Kritische Gesamtausgabe, le «Opere complete» in edizione critica, pubblicate a partire dal 1967 in Germania presso l’editore W. De Gruyter di Berlino e in italiano presso l’editore Adelphi di Milano. La scelta principale di questa edizione critica è quella riguardante la Volontà di potenza, l’opera che Nietzsche aveva progettato, per la quale aveva redatto molti frammenti, ma che poi non aveva realizzato lui, bensì la sorella Elisabeth assieme a Peter Gast, i quali avevano operato una scelta di frammenti ordinandoli non tanto cronologicamente, quanto per scelte tematiche. Colli e Montinari hanno “smontato” completamente quell’opera e hanno deciso di pubblicare i frammenti contenuti nei manoscritti del lascito nietzscheano in ordine strettamente cronologico e in connessione con gli scritti redatti e pubblicati da Nietzsche negli anni in cui scriveva i suoi aforismi per la Volontà di potenza. Quest’opera comunque, pur non essendo a firma di Nietzsche, conserva un valore documentario riguardo allo storia delle interpretazioni del filosofo, nata quando egli era ancora in vita. Di essa è stata pubblicata anche una versione italiana: F. Nietzsche, La volontà di potenza, frammenti postumi ordinati da P. Gast e E. Förster-Nietzsche (1906), trad. di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano 2000.

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Studi critici

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• M. Ferraris (a cura di), Guida a Nietzsche. Etica, Politica, Filologia, Musica, Teoria dell’interpretazione, Ontologia, Laterza, Roma-Bari 20042. Una delle più convincenti interpretazioni del pensiero nietzscheano alla luce della dottrina dell’eterno ritorno, vista come una ripresa anticristiana dell’Antichità al culmine della modernità è quella di: K. Löwith, Nietzsche e l’eterno ritorno, Laterza, Roma-Bari 20033.

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Ma sul rapporto tra Nietzsche e il cristianesimo restano decisive le pagine di: H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, in Opera omnia, vol. II, Jaca Book, Milano 1992.

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Il pensiero di Nietzsche è stato interpretato in diverse prospettive. Molte di esse sono concordi nel sottrarre questo pensiero all’uso che ne ha fatto il nazionalsocialismo e il fascismo (in termini di aristocratismo, vitalismo e biologismo razziale). Su quest’ultimo uso si può vedere la ricostruzione di: E. Nolte, Nietzsche e il nietzscheanesimo, Sansoni, Firenze 1991.

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Per una lettura del pensiero di Nietzsche come una vera e propria filosofia dell’esistenza si veda: K. Jaspers, Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia, Milano 1996.

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L’interpretazione che forse più di ogni altra ha contribuito a leggere Nietzsche non in senso morale e politico, ma in senso squisitamente metafisico (la metafisica dell’epoca del nichilismo) è stata quella di: M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994.

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Milano 2003.

Una lettura del pensiero di Nietzsche come emblema della crisi dei fondamenti della metafisica, che non sfocia però nell’irrazionalismo ma in una nuova strategia razionalistica è quella di: M. Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo, da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1976.

Per uno sguardo complessivo sul suo pensiero si può vedere:

Un Nietzsche “postmoderno” e teorizzatore dell’ermeneutica come l’on-

Il profilo biografico più completo di Nietzsche resta: C.P. Janz, Vita di Nietzsche, a cura di M. Carpitella, 3 voll., Laterza, Roma-Bari 1980-83. Sulla fine drammatica del pensatore:

· A. Verrecchia, La catastrofe di Nietzsche a Torino, Bompiani,

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Friedrich Nietzsche capitolo 10 tologia tipica dell’epoca nichilista è quello di: G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari 200716.

ESERCIZI

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Infine per quanto riguarda l’orizzonte del nichilismo, di cui certamente Nietzsche è stato uno dei “profeti” più radicali si può vedere: F. Vercellone, Introduzione

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1. In alternativa al paradigma classicista della cultura ellenica, Nietzsche propone una visione tragica dell’esistenza dell’uomo greco dominata dall’opposizione tra l’elemento apollineo e quello dionisiaco. Descrivi gli elementi di novità di questa interpretazione del mondo classico (max 10 righe). 2. Come si giustifica, nonostante le smentite, l’accanimento di Nietszsche attorno alla questione della verità? (max 15 righe)

al nichilismo, Laterza, Roma-Bari 20057; F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 20053.

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decisivo mutamento di prospettiva del pensiero nietzscheano (max 10 righe). 9. Chi è il Dio di cui Nietzsche annuncia la morte? (max 10 righe) 10. Descrivi le tre metamorfosi che segnano per Nietzsche il passaggio dall’uomo al superuomo (max 15 righe).

3. In che senso si può affermare che Nietzsche rappresenta l’esperimento della sua filosofia? (max 15 righe)

11. Spiega in che modo l’eterno ritorno dell’uguale si oppone alla linearità del tempo propria della concezione cristiana (max 10 righe).

4. Quale impatto determina l’irruzione dell’atteggiamento socratico nel campo della tragedia attica? (max 10 righe)

12. Descrivi in che modo nella genesi dei valori morali svolge un ruolo determinante il cristianesimo inteso come «platonismo per il popolo» (max 10 righe).

5. Spiega in che senso il compito di minare le basi della credenza nella verità non produce in Nietzsche un semplice relativismo conoscitivo (max 10 righe).

13. Perché il tramonto del Dio cristiano arriva a coincidere in Nietzsche con la fine dell’io moderno? (max 10 righe)

6. Completa le frasi proposte con i seguenti termini: monumentale, antiquaria e critica. a. la storia ....................... consiste nel giudicare e all’occorrenza nel condannare i fattori in gioco nell’epoca presente; b. nella storia ....................... si conservano, a mo’ di reliquie, le vestigia del passato e le si esibisce come in un museo; c. la storia ....................... è alimentata da una vera e propria fede nell’umanità e consistente nel fare memoria dei casi più nobili e degli esempi più elevati che sono accaduti nel nostro passato.

14. In che senso si può affermare che il cristianesimo rappresenta il problema di Nietzsche? (max 15 righe)

7. Illustra i motivi del distacco di Nietzsche dal progetto musicale di Wagner e dal pessimismo schopenhaueriano (max 10 righe).

18. Quale ruolo svolge la dinamica del risentimento nella costituzione dei valori morali? (max 10 righe)

8.Dalla critica della civiltà decadente all’indagine genealogica sulle forme culturali dominanti. Descrivi questo

15. Quali sono le affinità tra il pensiero nietzscheano e il panteismo spinoziano? (max 15 righe) 16. Racconta la nietzscheana «Storia di un errore» e mostra come essa approda a una visione dell’essere in cui tutto è necessario ed eterno (max 15 righe). 17. Perché Nietzsche afferma che il senso dell’essere è solo interpretazione? (max 15 righe)

19. Come si giustifica l’intolleranza manifestata da Nietzsche nei confronti di ogni forma moderna di egualitarismo? (max 10 righe)

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capitolo 11

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Il neokantismo

1 Un nuovo criticismo Nella storia intellettuale della Germania del XIX secolo la nascita del movimento neokantiano appare come una reazione all’affermarsi del positivismo materialista e del realismo oggettivista che aveva fatto seguito al collasso dei grandi sistemi idealistici [ 6]. L’esigenza di rifarsi a Kant matura intorno agli anni Sessanta dell’Ottocento, ma già nei primi decenni del secolo emergono alcuni dei suoi motivi dominanti [ 3]. Essa risponde perciò allo scopo di restituire alla filosofia quel ruolo di primo piano cui essa aveva rinunciato cedendo il passo alla metodologia delle scienze esatte, superando così l’oggettivismo acritico del positivismo, senza però ricadere in una nuova metafisica o in una riproposizione dei sistemi idealistici. Il contatto con le scienze naturali rimane infatti un aspetto imprescindibile per questo nuovo orientamento di pensiero, tant’è che i primi fautori del “ritorno a Kant” (soprattutto Liebmann e Lange:  Tornare a Kant!) propongono un’interpretazione “fisiologistica” della sua filosofia,

individuandone il tratto distintivo nel riconoscimento del ruolo svolto dal soggetto nella costituzione della realtà oggettiva, e definendo di conseguenza la conoscenza come il prodotto dell’organizzazione psicofisica dell’uomo. Tali posizioni saranno però respinte dal neokantismo maturo, il cui obiettivo di fondo non è descrivere il processo psicologico della conoscenza, ma trovare i princìpi razionali oggettivi che rendono possibili i “fatti” della scienza, ma anche quelli della “cultura”. Così, malgrado la difficoltà di definire univocamente un indirizzo filosofico comune a molti autori e a scuole di pensiero spesso differenti tra loro, possiamo dire che il tratto più autentico del neokantismo non è quello di presentarsi come un semplice revival delle dottrine kantiane, quanto piuttosto quello di recuperare l’ispirazione critica della filosofia in quanto indagine sulle condizioni di validità dei vari comparti del sapere, dalle scienze all’etica e all’estetica. Per questo motivo il neokantismo si presenta come una forma di neocriticismo, e difatti i due termini vengono usati abitualmente come sinonimi. I maggiori centri di sviluppo del nuovo orientamento filosofico furono gli ambienti accade-

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mici di Marburgo e del Baden (dal nome della regione tedesca in cui si trovano Friburgo e Heidelberg) in cui si costituirono le omonime scuole, la prima ispirata dall’opera di Cohen e Natorp, e successivamente a quella di Cassirer; la seconda sotto la guida di Windelband e Rickert. 1. Il movimento neokantiano rappresenta: a. una reazione al positivismo. b. una risposta all’idealismo. c. un recupero del criticismo. d. una ripresa della metafisica soggettivistica.

2 La Scuola di Marburgo

V V V V

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è l’opera di Cohen che segna questa rottura, proponendosi di rifondare la dottrina kantiana dell’a priori, per recuperarne il significato originario di condizione di possibilità dell’esperienza – e più precisamente dell’esperienza scientifica – contro ogni contaminazione psicologica che riduceva l’apriorità ad un insieme di strutture mentali costitutive dell’uomo. Tuttavia, proprio l’impresa appena delineata richiedeva, per Cohen, un allontanamento dalla “lettera” del testo kantiano, ed in particolare dalla prima Critica, basata su quella che egli giudicava una fuorviante sovrapposizione tra il valore trascendentale dell’a priori (e cioè il suo essere fondamento oggettivo della conoscenza) ed il suo statuto psicologico, rischiando così di attribuire alla conoscenza un’origine soggettiva e contingente. L’interpretazione antipsicologistica dell’opera kantiana promossa da Cohen diviene così il presupposto per una correzione dell’estetica trascendentale, intesa da lui come il

2.1 Cohen

Tornare a Kant! Il neokantismo – o neocriticismo – non si presenta come una novità assoluta Il movimento di riscoperta di Kant che caratterizza la riguardo ai temi e alle prospettive cultura filosofica tedesca affonda le sue radici nell’opera di problematiche discusse nel paOtto Liebmann (1840-1912) dal titolo Kant e gli epigoni (1865). norama filosofico tedesco di Rivendicando alla filosofia kantiana il merito di aver istituito un’intima fine secolo, ma piuttosto correlazione tra il momento soggettivo e quello oggettivo della conoscenza, Liebmann ne individuava l’errore nell’aver postulato l’esistenza della cosa come lo sbocco quasi ineviin sé, ossia di ciò che, rinviando ad una realtà fuori del tempo e dello spazio, si tabile di una riflessione configurava come un vero e proprio nonsenso. Un tale presupposto è all’origine avviatasi già da qualche della severa critica che Liebmann muove all’intero decorso della filosofia tedesca decennio. È soprattutto postkantiana che, pur nelle sue differenti direzioni – idealismo, realismo, empirismo – però con Hermann aveva preteso di operare con la cosa in sé, infrangendo i limiti posti da Kant alla conoCohen (Coswig 1842scenza. Così, l’invito di Liebmann – «Bisogna ritornare a Kant!» – ripetuto alla fine di ogni Berlino 1918) che que- capitolo del suo scritto, diventa lo slogan attraverso cui si rivendica la necessità di una sta diffusa tendenza en- riflessione sul nesso inscindibile tra soggetto e oggetto operato dal criticismo kantiano. tra in una fase nuova, e Su questo piano, la riflessione di Liebmann si incontrava con la lettura “fisiologica” si caratterizza con più di Kant promossa da Friedrich Albert Lange (1828-1875). Nella sua Storia del mateprecisione come un roverialismo (1866), quest’ultimo criticava il dogmatismo materialistico del pensiero positivista – con la sua tendenza a ridurre l’intero problema della conoscenza al sciamento della lettura solo meccanicismo delle scienze esatte – e rimarcava al contrario il ruolo svolpsicologica e fisiologica to dal soggetto umano nella costituzione della realtà oggettiva, concependel soggetto kantiano. do quindi l’esperienza, in nome di Kant, come inevitabilmente sottopoN on è un caso che questa sta alla nostra organizzazione intellettuale. Ma richiamandosi da un opzione interpretativa venga lato a Schopenhauer, e dall’altro alla psicologia sperimentale di sviluppata da Cohen come una von Helmholtz [ 3.4] Lange interpreta le leggi a priori kannetta presa di distanza dal suo tiane in stretta connessione con una fisiologia delle stesso maestro, Friedrich Albert sensazioni: gli oggetti della conoscenza non Lange, a cui pure si deve uno dei primi sono altro che oggetti per noi. sviluppi del “ritorno a Kant” [ Tornare a Kant!]. La teoria kantiana dell’esperienza (1871)

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parte II La svolta del Novecento

completamento organico dell’analitica trascendentale: non esistono, cioè, due fonti della conoscenza (sensibilità e intelletto), giacché, al pari delle categorie, anche le forme pure dell’intuizione (spazio e tempo) non sono strutture psicologiche innate nel genere umano, ma a priori matematici essenziali alla costruzione dell’esperienza. In questo modo, Cohen può chiarire in che senso la necessità di un ritorno a Kant significhi innanzitutto una reinterpretazione del metodo trascendentale, da intendersi non più come indagine dei princìpi e delle facoltà della ragione, ma piuttosto come analisi di «quei fondamenti del conoscere su cui si costruisce la scienza e dalla cui validità essa dipende» [Principio del metodo infinitesimale e la sua storia, Introduzione]. La prima e più radicale conseguenza di questa lettura peculiare dell’opera kantiana diviene perciò l’elaborazione di una nuova concezione della scienza, il cui oggetto non è più rappresentato dal mondo dell’esperienza sensibile, bensì dall’esattezza matematica delle equazioni su cui esso si fonda:



Non sono le stelle nel cielo gli oggetti che il metodo [trascendentale] ci insegna a contemplare allo scopo di conoscerle, ma sono i calcoli astronomici […] che necessitano di essere spiegati. Qual è il fondamento della realtà che è dato in tali fatti? Quali sono le condizioni di quella certezza da cui l’attualità visibile trae la sua realtà? Le leggi sono i fatti, e [perciò] gli oggetti [della nostra indagine]. [La fondazione kantiana dell’etica, Introduzione]



L’esperienza è dunque una costruzione a priori, di cui occorre in primo luogo ricercare la forma, e cioè l’insieme delle leggi che sono in grado di conferire ai fenomeni il loro fondamento oggettivo e dunque di garantire la validità delle scienze che di essi si occupano. Ma dietro i fenomeni non vi è nessuna misteriosa cosa in sé, essendo quest’ultima semplicemente l’orizzonte inesauribile della ricerca scientifica, vale a dire ciò che la nostra conoscenza non è ancora riuscita a determinare secondo quelle leggi razionali che sono esse stesse la vera realtà. Così, l’equivalenza tra leggi e fatti oggettivi implica, nell’ottica di Cohen, un ripensamento della domanda filosofica fondamentale, che non sarà più “quali sono le leggi psicologiche che

rendono possibile per me la conoscenza?” ma “com’è possibile quella legalità che determina l’oggettività dei fenomeni?”. 1. La nuova concezione della scienza introdotta da Cohen mira a: a. riformulare la dottrina kantiana dell’a priori. V F b. intendere le forme della sensibilità come strutture psicologiche innate. V F c. ritenere che le forme della sensibilità siano a priori matematici. V F d. concepire il contenuto di verità come una legge. V F

2.2 Natorp Qualificando l’a priori come metodo per la determinazione del valore di verità delle scienze, Cohen tracciava le linee fondamentali del neokantismo marburghese, che in effetti si costituirà come “Scuola” nel corso degli anni Ottanta, e che vedrà tra i suoi esponenti di maggior rilievo Paul N atorp (Düsseldorf 1854Marburgo 1924). Giunto a Marburgo nel 1880, dove l’anno successivo si abiliterà con Cohen, Natorp assume a motivo guida delle sue prime indagini il tema della legge come fondamento dell’oggettività scientifica, schierandosi anch’egli – come il suo “maestro” – contro ogni interpretazione psicologistica della conoscenza. Quest’ultima è intesa da Natorp non come un “fatto” costituito, ma come un fieri, cioè come un processo dal carattere mai concluso, cui del resto alludeva già l’interpretazione coheniana della cosa in sé. Così, proprio in vista del suo carattere non definitivo, la scientificità della conoscenza non è da ricercarsi in un insieme di regole fisse, bensì nel suo stesso metodo che in Natorp, diversamente da Cohen, assume una connotazione quasi attivistica: esso è cioè l’inseguimento continuo, ma asintotico – cioè che si approssima indefinitamente alla sua meta, senza poterla mai raggiungere – della cosa in sé, la quale rappresenta il limite provvisorio della legislazione creativa della ragione. Per Natorp, dunque, il pensiero è innanzitutto un’attività o, per utilizzare una terminologia più appropriata, una “funzione” di sintesi che,

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riconducendo la molteplicità mutevole dei fenomeni all’unità della legge, ne rende possibile la verità, costruendoli come “oggettivazioni”. Così, la fondazione del piano fenomenico su quello della legalità dell’esperienza consente di escludere che il fenomeno possa essere inteso come un oggetto sensibile, cioè come una “rappresentazione” soggettiva, e permette così di evitare quello che anche Natorp considera l’errore fatale dello psicologismo: individuare cioè le condizioni oggettive della conoscenza nella costituzione del soggetto. Semmai, ciò che per la psicologia è il punto di partenza di ogni indagine, vale a dire il dato immediato della coscienza, per Natorp diventa un problema da risolvere, la tappa ultima di un percorso ricostruttivo che dall’oggettività risale alla soggettività. Raggiunto infatti il suo obiettivo essenziale – quello di concepire il contenuto di verità non più come un fatto reale dipendente dallo svolgersi dei processi psichici ma come un essere ideale, come una legge – la filosofia può allora risalire al concetto pregnante della coscienza come esperienza immediata, vale a dire come matrice originaria della spontaneità creatrice del pensiero. In questo consiste la più evidente divergenza delle indagini di N atorp rispetto a quelle di Cohen, cioè appunto nel voler recuperare alla filosofia anche quella dimensione dell’esperienza soggettiva che era stata esclusa invece nella prospettiva del suo maestro. Nella sua Introduzione alla psicologia secondo il metodo critico (1888), N atorp può dunque affermare che lo scopo della psicologia – il cui oggetto sono le nostre rappresentazioni “non scientifiche” – è cogliere i fenomeni come essi si danno nell’immediato della coscienza, cioè in quanto astratti da ogni riferimento ad un ordine oggettivo delle cose. Solo in questo modo diviene possibile ricondurre a “unità” tutte le oggettivazioni, ossia giustificarle come generate dalla capacità creatrice della vita secondo specifiche leggi. Ma, lungi dal ricorrere al metodo introspettivo della tradizione romantica, la psicologia secondo il “metodo critico” può risolvere il problema della soggettività solo tramite il ricorso ad una sorta di processo a ritroso, il che significa – ancora una volta – solo dopo che sia stato posto il riconoscimento dell’autonoma oggettività delle singole scienze.

1. Secondo Natorp l’errore fatale dello psicologismo consiste: a. nell’individuare le condizioni oggettive della conoscenza nella costituzione del soggetto. b. nell’intendere la conoscenza come un’attività. c. nel ricondurre la molteplicità mutevole dei fenomeni all’unità della legge. d. nel recuperare la dimensione dell’esperienza soggettiva.

3 La Scuola del Baden 3.1 Windelband A differenza di quella marburghese, l’esperienza neocriticista del Baden si caratterizza per un recupero della filosofia kantiana che privilegi non tanto – o non solo – le scienze della natura, quanto piuttosto l’indagine storica. Il terreno su cui si sviluppa la riflessione di Wilhelm Windelband (Potsdam 1848-Heidelberg 1915) – che della Scuola del Baden è l’ispiratore – è infatti rappresentato non già dall’analisi della ragione teoretica, quanto piuttosto di quella pratica, nella convinzione che la ricerca della verità debba essere intesa prima di tutto come un impegno etico. Il che, però, non si traduce in una scissione tra conoscenza e morale, bensì nella loro unificazione alla luce delle considerazioni contenute nella Critica del Giudizio: quest’opera infatti, individuando la possibilità di norme universalmente valide anche al di là del giudizio determinante della conoscenza della natura, rappresenta per Windelband la chiave di volta dell’intero sistema kantiano, nonché il presupposto per l’elaborazione della dottrina principale della Scuola del Baden, ossia la teoria dei valori. Tale teoria ha origine da una reinterpretazione del tema kantiano secondo cui conoscere significa giudicare. Ma ogni giudizio presuppone appunto l’esistenza di un valore, che è il criterio in base al quale noi stabiliamo se una determinata cosa è vera, è buona o è bella. Così, la filosofia viene a configurarsi immediatamente come “la scienza dei valori universalmente validi”, cioè come “un sistema di norme” – le quali non sono altro che i princìpi stessi della

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ragione – che rendono possibile, e quindi fondano l’esperienza conoscitiva, quella etica e quella estetica. Questo il tema fondamentale dell’opera più significativa di Windelband, i Preludi (1883), in cui egli viene ad istituire un nesso inscindibile tra ciò che è, nel senso che appartiene alla sfera dei fatti, e ciò che deve essere, ossia il valore che orienta l’azione dell’uomo e determina l’oggettività della conoscenza. In questa prospettiva, ogni aspetto della vita e della cultura risulta perciò subordinato a una legge che ne è il fondamento, non già però nel senso delle leggi di natura, ma in quanto “legislazione imperativa”, che si riferisce ai princìpi della ragione intesi come valori o norme. Proprio questa distinzione tra norme e leggi di natura consente a Windelband di rivendicare – in ciò opponendosi alla tendenza della Scuola di Marburgo – l’autonomia metodologica delle scienze storiche da quelle matematico-sperimentali, precisando che le leggi di natura sono un “principio di spiegazione”, mentre le prescrizioni normative un “principio di valutazione”. Ma una tale differenza non implica un vero e proprio dualismo tra natura e libertà o – come Windelband stesso dirà nel discorso di rettorato tenuto a Strasburgo nel 1894 riferendosi polemicamente a Dilthey [ 12.2-4] – tra scienze della natura e scienze dello spirito:



Quanto alla divisione di queste discipline diretta alla conoscenza del reale è oggi a tutti familiare la distinzione fra scienze naturali e scienze dello spirito: io non la ritengo, in questa forma, felice. [Preludi, Le scienze naturali e la storia, vol. II]



Pur nell’evidente diversità tra natura e spirito, occorre infatti riconoscere che la separazione tra i due ambiti della conoscenza non riguarda il contenuto del sapere, ma solo il procedimento metodologico. Le scienze naturali seguono un procedimento nomotetico, che va cioè alla ricerca delle leggi (nòmoi) universali dei fenomeni; quelle dello spirito, invece, un procedimento idiografico, ossia volto alla descrizione di un fatto particolare o individuale (ìdios):



Così possiamo dire: le scienze empiriche cercano nella conoscenza del reale o il generale nella forma della legge di natura, o il particolare nella figura storicamente determinata: ora conside-

rano la forma stabile, ora il contenuto singolo, determinato in sé stesso, dell’accadere reale. Le une sono scienze della legge, le altre scienze dell’avvenimento; quelle insegnano ciò che è sempre, queste ciò che fu una volta. Il pensiero scientifico è – se posso comporre un’espressione nuova – nel primo caso nomotetico, nel secondo idiografico. [Preludi, Le scienze naturali e la storia, vol. II]



3.2 Rickert Il rifiuto del monismo metodologico che caratterizza l’indagine di Windelband – e che è indicativo dell’accento antipositivistico assunto dal neokantismo – è il presupposto da cui si dipana la riflessione di Heinrich Rickert (Danzica 1863-Heidelberg 1936), il cui programma filosofico si configura però come un tentativo di superare la distinzione tra l’universale e l’individuale, attribuendo anche alle “scienze della cultura” (espressione che egli predilige rispetto a quella diltheyana di “scienze dello spirito”) un orientamento generalizzante. L’obiettivo è dunque quello di mettere in luce che la vera differenza tra scienze naturali e scienze umane va ben al di là di quella tra nomotetico e idiografico, e consiste piuttosto nel fatto che la cultura si occupa sempre di oggetti dotati di valore, o meglio, intrinsecamente riferiti a valori in base ai quali essi assumono un qualche significato. Così, abbracciando anch’egli la tesi secondo cui ogni giudizio consiste sempre in una valutazione, e quest’ultima è a sua volta resa possibile dal riferimento a valori in base ai quali decidere della verità delle nostre rappresentazioni, nel suo Sistema di filosofia (1921) Rickert si propone di individuare i legami e le connessioni sistematiche degli oggetti della cultura con i rispettivi valori. Il primo passo che egli compie è dunque l’individuazione di sei diversi ambiti della cultura – logica, estetica, etica, erotica, religione e mistica – ciascuno dei quali fa capo ad altrettanti valori e cioè, nello specifico, la verità, la bellezza, la moralità, la felicità, la santità personale e la santità impersonale. Essi costituiscono i criteri oggettivi che orientano le scelte degli individui, al punto che, sostiene Rickert, “comprendere” significa determinare quali sono i valori che ogni soggetto storico tenta di realizzare.

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Ma ciò vuol dire innanzitutto che, pur essendo dotati di validità universale, i valori possono concretizzarsi solo entro la storia. La questione diviene perciò quella di mostrare in che modo queste norme supreme che guidano le azioni dei singoli e al contempo fondano l’oggettività della conoscenza storica, possano (e anzi debbano) valere in modo assoluto. Ed è esattamente questo il nodo problematico da cui nasce la costruzione rickertiana di un sistema intemporale dei valori, in cui l’a priori kantiano viene a coincidere con una sfera di valori che trascendono la soggettività e la storia, e che proprio per questo “valgono” incondizionatamente. È l’esigenza di evitare uno sviluppo relativistico dello storicismo quella che induce Rickert a reintrodurre una vera e propria visione metafisica della cultura, in virtù della quale il parametro oggettivo di misurazione della storia diviene appunto qualcosa di metastorico e di puramente ideale. 1. Secondo la teoria dei valori di Rickert: a. conoscere significa giudicare. b. i valori si possono concretizzare solo entro la storia. c. le scienze della cultura hanno validità puramente ideografica. d. i valori sono dotati di validità universale.

V F V F V F V F

3.3 Lask Il problema della validità della conoscenza rimase uno dei temi centrali della Scuola del Baden, ripreso e sviluppato da molti esponenti della generazione kantiana più giovane, tra cui un ruolo di primo piano spetta ad Emil Lask (Wadowice 1875-Turza-Mała 1915). Certamente debitore dell’impostazione rickertiana, ma al contempo attento alla riflessione di Husserl [ 18] e a quella di Bolzano e persino di Cohen, Lask mostra la tendenza a mettere in discussione la lezione dei suoi maestri, affermando il primato del “logico” rispetto alla ragione pratica. L’obiezione principale che egli muove ai suoi predecessori è infatti quella di aver attribuito ad una funzione ancora soggettiva (appunto la ragione pratica) il compito di decidere dell’oggettività – e quindi della verità – della conoscenza, laddove invece egli ritiene

necessario riconoscere che il dominio della validità prescinde totalmente dalla struttura del soggetto, il cui ruolo deve perciò subire un deciso ridimensionamento. Per questo, nella sua Logica della filosofia (1911), Lask non solo accentua ulteriormente quella distanza dallo psicologismo che aveva caratterizzato il neocriticismo nel suo complesso, ma propone una sorta di curvatura oggettivistica della “rivoluzione copernicana”, nel senso di affermare che gli oggetti non si conformano alla struttura legale della soggettività, ma possiedono una loro immanente logicità che ne determina il valore di verità. E ciò gli consente di impostare su basi nuove il problema del rapporto materiaforma: quest’ultima, infatti, non ha nessuna capacità legislatrice, ma la sua funzione consiste solamente nel portare alla luce la logicità originaria insita nella materia. Così, il neokantismo di Lask viene a configurarsi non più come una riflessione sulle condizioni di validità della conoscenza, quanto piuttosto come un’indagine sul logico in quanto determinazione fondamentale (dell’essere) dell’oggetto, divenendo – in questa sorta di irrigidimento ontologico del trascendentale – uno dei punti di riferimento della riflessione del giovane Heidegger [ 19].

4 Cassirer 4.1 La filosofia trascendentale della cultura L’opera di Ernst Cassirer (Breslavia 1874-N ew York 1945) potrebbe essere sintetizzata come un’estensione del metodo trascendentale alle scienze della cultura. L’esigenza di un’apertura della filosofia di impianto critico alla totalità dei fatti spirituali – dalla matematica alla fisica, dall’estetica alla storia, dalla linguistica all’etnografia – è l’esito più significativo della formazione del giovane Cassirer, che nel 1896 si sposta dall’Università di Berlino a quella di Marburgo, dove diviene l’allievo più promettente, e certo più originale, di Cohen e Natorp. Da quest’ulti-

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mo egli mutua l’idea secondo cui la filosofia – concepita “nello spirito di Kant” – debba essere innanzitutto volta ad interrogarsi sulle condizioni di possibilità di ogni aspetto della vita culturale, nella sostanziale unità di scienze naturali e discipline umanistiche, impostazione alla quale sembrava invece aver rinunciato Rickert con la sua divaricazione metodologica tra nomotetico e idiografico. La via di una dilatazione del trascendentale ai diversi ambiti della cultura è intrapresa da Cassirer attraverso la sua opera principale, la Filosofia delle forme simboliche, pubblicata in tre volumi tra il 1923 e il 1929, in cui, assumendo la cultura come un complesso polimorfo in cui rientrano non solo la conoscenza scientifica e l’arte, ma anche il linguaggio e il mito, egli pone le basi per un ampliamento del sistema filosofico che va ben al di là dell’impostazione marburghese. L’obiettivo dell’opera è quello di cercare una legittimazione trascendentale delle scienze dello spirito, e cioè di indagare quali siano quelle attività originarie, o funzioni, in grado di trasformare il mondo passivo delle impressioni in un insieme di “espressioni spirituali”, vale a dire capaci di fondare i vari “fatti” della cultura. Del resto, lo stesso Kant aveva evidenziato il ruolo produttivo del pensiero rispetto al dato empirico, concependo appunto l’oggetto come l’esito di un’attività formatrice del soggetto. Tuttavia, nella Critica della ragion pura egli aveva limitato una tale attività al piano della conoscenza scientifica, escludendo invece – come del resto aveva fatto lo stesso Cohen privilegiando la problematica logico-gnoseologica – tutte le altre modalità di oggettivazione e costruzione della realtà. Per Cassirer, invece, si tratta di estendere il criticismo all’intero universo culturale, trasformando appunto la «critica della ragione» in una «critica della cultura»:



Accanto alla pura funzione conoscitiva si tratta di intendere la funzione del pensiero espresso nel linguaggio, la funzione del pensiero miticoreligioso e la funzione dell’intuizione estetica in tal maniera che risulti evidente come in esse si compia non tanto una ben determinata attività formatrice avente per oggetto il mondo, quanto piuttosto un’attività formatrice tesa verso il mondo, verso un oggettivo nesso sensibile, verso un’oggettiva totalità intuitiva.

La critica della ragione diviene così critica della civiltà. Essa cerca di intendere e di dimostrare come ogni contenuto della civiltà, in quanto è più di un semplice contenuto singolo, in quanto è fondato su di un generale principio formale, ha come presupposto un’originaria attività dello spirito. [Filosofia delle forme simboliche, vol. I, Introduzione]



La nozione teorica attraverso cui Cassirer spiega il ruolo della «funzione fondamentale dello spirito» è quella di forma simbolica. L’attività spirituale mediante la quale l’uomo produce le diverse forme della cultura ha infatti un carattere simbolico, nel senso che ogni contenuto concettuale si presenta sempre e solo attraverso mezzi d’espressione sensibili:



Per “forma simbolica” si deve intendere ogni energia dello spirito mediante la quale un contenuto spirituale dotato di significato viene collegato ad un segno sensibile e viene ad esso intimamente attribuito. [Il concetto di forma simbolica]



Il simbolo è dunque l’espressione sensibile di un contenuto spirituale, in cui si dà sempre una compenetrazione tra segno e significato. Esso è una funzione di mediazione tra un sostrato materiale e un contenuto ideale, tra l’oggettività e la soggettività: per un verso, infatti, il contenuto dello spirito può mostrarsi solo tramite la sua estrinsecazione sensibile; per l’altro, a ciascun segno compete sempre un determinato significato spirituale. Ma proprio per questo, il simbolo «non è un rivestimento meramente accidentale del pensiero» [Filosofia delle forme simboliche, vol. I, Introduzione], nel senso che esso non svolge una funzione semplicemente comunicativa, ma è piuttosto lo strumento attraverso cui il pensiero costituisce i suoi contenuti, cioè il principio unitario di formazione delle varie forme spirituali. Così, per esempio, è solo ricorrendo a certi simboli (e nel caso specifico a simboli matematici) che diviene possibile determinare, sotto forma di leggi naturali, le relazioni del mondo fisico. E tuttavia, questo nesso inscindibile tra segno e significato non può restare limitato alla sola scienza, ma passa attraverso tutti i campi della

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creazione spirituale. Ogni forma culturale, infatti, si presenta come un’attività di plasmazione del molteplice sensibile da parte di funzioni ordinatrici del soggetto – che Cassirer chiama “funzioni semantiche” – ossia quelle attività spirituali che, creando opportuni mezzi di espressione sensibile (i simboli), producono un autonomo mondo di significati:



Ogni vera funzione fondamentale dello spirito […] racchiude in sé l’energia autonoma dello spirito attraverso la quale la semplice esistenza dei fenomeni acquista un “significato” determinato, un peculiare valore ideale. Ciò vale per l’arte come per la conoscenza; per il mito come per la religione. Essi tutti vivono in peculiari mondi di immagini nei quali non semplicemente si rispecchia un dato empirico, ma che essi, invece, producono secondo un principio autonomo. [Filosofia delle forme simboliche, vol. I, Introduzione]



Così, al pari della conoscenza, anche l’arte, il linguaggio e il mito sono per Cassirer forme simboliche capaci di dar vita ad una propria configurazione della realtà, capaci, cioè, di assegnare ad ogni contenuto d’esperienza un preciso significato spirituale. Proprio per questa ragione accade, per esempio, che uno stesso suono può essere, a seconda della prospettiva di senso da cui è considerato, una materia sensibile che si distingue per altezza e intensità, una proposizione che esprime le sfumature del pensiero oppure ancora una melodia.

4.2 Il linguaggio, il mito, la scienza Nella Filosofia delle forme simboliche Cassirer tenta una vera e propria ricostruzione della “morfologia” dello spirito, che delimiti le principali modalità di costituzione del mondo. Di qui la partizione dell’opera in tre parti, la prima dedicata alla forma linguistica, la seconda al pensiero mitico e religioso, la terza alla dottrina delle forme del pensiero scientifico. L’analisi fenomenologica del linguaggio, sviluppata nel primo volume, prende le mosse dal tema centrale della filosofia critica, che è quello del rapporto tra il soggetto e l’oggetto, ridefinito in termini linguistici come rapporto tra contenuto dell’anima ed espressione sensibile. Non è

perciò casuale l’esplicito richiamo – con cui appunto il testo si apre – alla teoria di Wilhelm von Humboldt (1767-1835) secondo la quale ogni formazione linguistica funge da ponte tra l’io e il mondo, tra l’interno e l’esterno. Ogni suono, infatti, «è da un lato suono pronunziato e in quanto tale da noi stessi prodotto e formato; dall’altro lato, come suono udito, è una parte della realtà sensibile che ci circonda» [Filosofia delle forme simboliche, vol. I, cap. 1]. Ma il ruolo di mediazione svolto dal linguaggio non esclude che esso realizzi il suo carattere simbolico solo attraverso un progressivo allontanamento dal dato immediato. Così, Cassirer individua tre stadi di sviluppo del linguaggio verso la sua forma, cioè tre tappe del suo progressivo emanciparsi dal mondo fisico: quella dell’espressione mimica, quella dell’espressione analogica, e quella dell’espressione simbolica. Le prime due fasi segnano il passaggio dal gesto imitativo al suono di tipo onomatopeico, mentre nella terza si esprime l’esigenza di attribuire ad uno stesso suono una molteplicità di significati. Nello stadio dell’espressione simbolica, infatti, l’attività di denominazione del linguaggio diventa lo strumento attraverso cui noi costruiamo il «mondo oggettivo delle cose», servendoci delle tre forme dell’intuizione, ossia spazio, tempo e numero. Di queste, le prime due (spazio e tempo) consentono di conferire una certa stabilità al mondo delle impressioni sensibili: in generale, infatti, i vocaboli che indicano cose materiali permettono di esprimere le relazioni spaziali, mentre ai verbi sono affidate le determinazioni temporali. Il numero, invece, in quanto forma del pensare mediante rapporti, è la meta suprema, ma mai compiutamente raggiungibile, cui tende il linguaggio. Per quanto alta possa essere la capacità di astrazione della parola, essa non potrà infatti mai compiere quel passaggio decisivo – che è proprio del pensiero logico e matematico – di totale liberazione dalle rappresentazioni intuitive delle cose, e cioè, dagli oggetti concreti. Ma accanto alla determinazione del mondo oggettivo, la funzione linguistica procede anche a quella del mondo dell’io, e lo fa attraverso le parti del discorso (come i pronomi e gli aggettivi possessivi) che pongono l’accento sull’esistenza spirituale. Del resto – sostiene Cassirer rifacendosi ancora una volta a von Humboldt –

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l’elemento primo del linguaggio è pur sempre il soggetto parlante, giacché la parola affonda le proprie origini in quell’esperienza fondamentale che è l’operare personale. La seconda parte della Filosofia delle forme simboliche si occupa invece del pensiero mitico. Non solo, infatti, il mito è una specifica modalità dell’oggettivazione ma, in una prospettiva genealogica delle forme della coscienza, esso rappresenta la fase che ogni forma deve attraversare prima di assumere la sua determinata impronta logica. Così, per esempio, il concetto di numero sacro precede quello di numero matematico e ne costituisce, appunto, lo stadio mitico. È questa la ragione per cui Cassirer rifiuta qualsiasi interpretazione del mito in termini puramente allegorici o psicologici, poiché essa non consente di coglierne il nesso fondamentale con tutte le altre manifestazioni dello spirito, rivendicando piuttosto la necessità di una sua considerazione come forma simbolica autonoma:



come la conoscenza, come l’etica e l’arte, anche il mito appare ormai un “mondo” chiuso in sé stesso che non può essere giudicato con unità di misura e di valore estranee e provenienti dal di fuori, ma deve essere inteso nelle sue leggi immanenti. [Filosofia delle forme simboliche, vol. II, Introduzione]



Decisiva, in proposito, è per Cassirer l’opera di Schelling. N ella storia del pensiero filosofico essa si presenta infatti come il superamento definitivo dell’interpretazione allegorica del mito che, originatasi con la sofistica e ripresa dallo stoicismo e dal neoplatonismo, rimane dominante fino al Rinascimento. Ma se a Schelling occorre riconoscere il merito di aver individuato nel mito un autentico problema filosofico, tuttavia gli sviluppi metafisici del suo pensiero – all’interno del quale il mito si configura come un processo teogonico, ossia produttivo della divinità stessa – ne allontanano l’interpretazione da quella critico-trascendentale tentata invece da Cassirer. Com prendere il mito come forma simbolica significa infatti rinunciare a qualsiasi sostrato metafisico o psicologico e riconoscere che la sua oggettività va determinata dal punto di vista funzionale:



Il mito è oggettivo in quanto anch’esso viene riconosciuto come uno dei fattori determinanti, in virtù dei quali la coscienza si libera da ciò che la tiene passivamente legata all’impressione sensibile e procede verso la creazione di un proprio “mondo” formato secondo un principio spirituale. [Filosofia delle forme simboliche, vol. II, Introduzione]



Ma se il pensiero mitico è in grado di dar luogo a un proprio mondo di significati, è altrettanto vero che esso rimane pur sempre un pensiero legato alle cose, e l’oggettività costituita da esso rimane di ordine inferiore rispetto a quella della conoscenza pura. Il terzo volume della Filosofia delle forme simboliche è infine dedicato a una fenomenologia della conoscenza, dove col termine “fenomenologia” Cassirer intende, hegelianamente, la descrizione del percorso che conduce «dalle formazioni primarie, quali si trovano nel mondo della coscienza “immediata”, al mondo della “conoscenza pura”» [Filosofia delle forme simboliche, vol. III, Introduzione]. Si tratta, cioè, di esaminare il passaggio dalle forme simboliche più elementari, il mito e il linguaggio, a quella più sofisticata, che è la conoscenza concettuale. N el processo di formazione simbolica, Cassirer distingue tre elementi, l’espressione, la rappresentazione e il significato, che sono il prodotto di altrettante funzioni del pensiero, quella espressiva, quella rappresentativa e quella significativa. La prima è l’esperienza di eventi del mondo che ci circonda come dotati di un significato affettivo ed emotivo, ed è generalmente sottesa alla coscienza mitico-religiosa, ma anche a certe forme linguistiche come quelle poetiche. La seconda, invece, è alla base dell’esperienza del mondo empirico-intuitivo, cioè quello delle sostanze stabili e durevoli, ed è particolarmente visibile nel linguaggio, tramite il quale – come abbiamo visto – è possibile costruire un mondo di oggetti permanenti. Infine la terza funzione è quella concettuale, che è alla base della conoscenza scientifica. Solo nella visione scientifica del mondo, infatti, i concetti sono totalmente liberi da qualsiasi legame con l’intuizione sensibile, e solamente qui le forme a priori di cui avevano parlato i

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SINTESI CAPITOLO 11

marburghesi possono offrire un’accurata caratterizzazione del pensiero umano. Ma una tale caratterizzazione è appunto possibile solo se si concepisce la conoscenza concettuale come l’esito di un processo di astrazione che prende le mosse dalle manifestazioni concrete e simboliche dello spirito: in questo senso, appunto, il “fatto della scienza” su cui si era concentrata l’attenzione del neokantismo di Marburgo risulta inevitabilmente connesso al “fatto della cultura” nella sua totalità. Un nuovo criticismo. La nascita del movimento neokantiano, intorno agli anni Sessanta dell’Ottocento, appare come una reazione all’affermarsi del positivismo materialista e del realismo oggettivista. L’esigenza di rifarsi a Kant risponde allo scopo di restituire alla filosofia quel ruolo di primo piano cui essa aveva rinunciato cedendo il passo alla metodologia delle scienze esatte senza però ricadere in una nuova metafisica o in una riproposizione dei sistemi idealistici. Il tratto più autentico del neokantismo non è quello di presentarsi come un semplice revival delle dottrine kantiane, quanto piuttosto quello di recuperare l’ispirazione critica della filosofia in quanto indagine sulle condizioni di validità dei vari comparti del sapere, dalle scienze all’etica e all’estetica. Per questo motivo il neokantismo si presenta come una forma di neocriticismo, e difatti i due termini vengono usati abitualmente come sinonimi. La Scuola di Marburgo. Hermann Cohen (1842-1918) si propone di rifondare la dottrina kantiana dell’a priori per recuperarne il significato originario di condizione di possibilità dell’esperienza scientifica contro ogni contaminazione psicologica che riduceva l’apriorità ad un insieme di strutture mentali costitutive dell’uomo. L’interpretazione antipsicologistica dell’opera kantiana promossa da Cohen diviene così il presupposto per una correzione dell’estetica trascendentale: non esistono, cioè, due fonti della conoscenza (sensibilità e intelletto), giacché le forme pure dell’intuizione (spazio e tempo) non sono strutture psicologiche innate nel genere umano, ma a priori matematici essenziali alla co-

1. Il simbolo per Cassirer è: a. l’espressione sensibile di un contenuto spirituale. b. un rivestimento accidentale del pensiero. c. uno strumento comunicativo. d. confinato al solo mondo della scienza. 2. Il mito in Cassirer rappresenta una forma simbolica autonoma in quanto: a. esprime un’allegoria. b. è un processo teogonico. c. coincide con una struttura psicologica. d. è la modalità attraverso cui la coscienza crea un proprio mondo spirituale.

struzione dell’esperienza. La prima e più radicale conseguenza di questa lettura peculiare dell’opera kantiana è l’elaborazione di una nuova concezione della scienza, il cui oggetto non è più rappresentato dal mondo dell’esperienza sensibile, bensì dall’esattezza matematica delle leggi che sono in grado di conferire ai fenomeni il loro fondamento oggettivo e dunque di garantire la validità delle scienze che di essi si occupano. Paul Natorp (1854-1924) assume a motivo guida delle sue prime indagini il tema della legge come fondamento dell’oggettività scientifica, schierandosi contro ogni interpretazione psicologistica della conoscenza. Quest’ultima è intesa da N atorp non come un “fatto” costituito, ma come un fieri, cioè come un processo dal carattere mai concluso. Per N atorp, infatti, il pensiero è innanzitutto un’attività che, riconducendo la molteplicità mutevole dei fenomeni all’unità della legge, ne rende possibile la verità, costruendoli come “oggettivazioni”. Tuttavia la filosofia a partire di qui può risalire al concetto della coscienza come esperienza immediata, vale a dire come matrice originaria della spontaneità creatrice del pensiero. La Scuola del Baden. A differenza di quella marburghese, l’esperienza neocriticista del Baden si caratterizza per un recupero della filosofia kantiana che privilegi non tanto – o non solo – le scienze della natura, quanto piuttosto l’indagine storica. Il terreno su cui si sviluppa la riflessione di Wilhelm Windelband (1848-1915) è infatti rappresentato dall’analisi della ragione pratica, nella convinzione che la ricerca della verità debba essere intesa come

un impegno etico. Il che, però, non si traduce in una scissione tra conoscenza e morale, bensì nella loro unificazione nell’ambito della teoria dei valori. Tale teoria ha origine da una reinterpretazione del tema kantiano secondo cui conoscere significa giudicare. Ogni giudizio presuppone, infatti, l’esistenza di un valore, che è il criterio in base al quale noi stabiliamo se una determinata cosa è vera, è buona o è bella. Così, la filosofia viene a configurarsi come “la scienza dei valori universalmente validi”, cioè come “un sistema di norme” che rendono possibile, e quindi fondano l’esperienza conoscitiva, quella etica e quella estetica. In tal modo Windelband rivendica l’autonomia metodologica delle scienze storiche da quelle matematico-sperimentali, precisando che le leggi di natura sono un “principio di spiegazione”, mentre le prescrizioni normative un “principio di valutazione”. Ma una tale differenza non implica un vero e proprio dualismo tra scienze della natura e scienze dello spirito. Pur nell’evidente diversità tra natura e spirito, occorre riconoscere che la separazione tra i due ambiti della conoscenza non riguarda il contenuto del sapere, ma solo il procedimento metodologico. Le scienze naturali seguono un procedimento nomotetico, che si muove alla ricerca delle leggi (nòmoi) universali dei fenomeni; quelle dello spirito, invece, un procedimento idiografico, ossia volto alla descrizione di un fatto particolare o individuale (ìdios). Il programma filosofico di Heinrich Rickert (1863-1936) si configura come un tentativo di superare la distinzione tra l’universale e

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SINTESI CAPITOLO 11

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parte II La svolta del Novecento l’individuale, attribuendo anche alle “scienze della cultura” un orientamento generalizzante. L’obiettivo è dunque quello di mettere in luce che la vera differenza tra scienze naturali e scienze della cultura consiste nel fatto che la cultura si occupa sempre di oggetti dotati di valore. Rickert si propone di individuare i legami e le connessioni sistematiche degli oggetti della cultura con i rispettivi valori. Il primo passo che egli compie è l’individuazione di sei diversi ambiti della cultura – logica, estetica, etica, erotica, religione e mistica – ciascuno dei quali fa capo ad altrettanti valori e cioè, nello specifico, la verità, la bellezza, la moralità, la felicità, la santità personale e la santità impersonale. Essi costituiscono i criteri oggettivi che orientano le scelte degli individui, al punto che, sostiene Rickert, “comprendere” significa determinare quali sono i valori che ogni soggetto storico tenta di realizzare. La questione diviene perciò quella di mostrare in che modo queste norme supreme che guidano le azioni dei singoli e al contempo fondano l’oggettività della conoscenza storica. Ed è esattamente questo il nodo problematico da cui nasce la costruzione rickertiana di un sistema intemporale dei valori, in cui l’a priori kantiano viene a coincidere con una sfera di valori che trascendono la soggettività e la storia. Emil Lask (1875-1915) afferma il primato del “logico” rispetto alla ragione pratica. Per questo Lask non solo accentua ulteriormente quella distanza dallo psicologismo che aveva caratterizzato il neocriticismo nel suo complesso, ma propone una curvatura oggettivistica della “rivoluzione copernicana”, nel senso di affermare che

gli oggetti non si conformano alla struttura legale della soggettività, ma possiedono una loro immanente logicità che ne determina il valore di verità. E ciò gli consente di impostare su basi nuove il problema del rapporto materia-forma: quest’ultima, infatti, non ha alcuna capacità legislatrice, ma la sua funzione consiste solamente nel portare alla luce la logicità originaria insita nella materia. Cassirer. L’opera di Ernst Cassirer (1874-1945) si presenta come un’estensione del metodo trascendentale alle scienze della cultura e si compie attraverso la ricerca di una legittimazione trascendentale delle scienze dello spirito che stabilisca quali siano quelle funzioni in grado di trasformare il mondo passivo delle impressioni in un insieme di “espressioni spirituali” capaci di fondare i vari “fatti” della cultura. La nozione teorica attraverso cui Cassirer spiega il ruolo della «funzione fondamentale dello spirito» è quella di forma simbolica. L’attività spirituale mediante la quale l’uomo produce le diverse forme della cultura ha infatti un carattere simbolico, nel senso che ogni contenuto concettuale si presenta sempre e solo attraverso mezzi d’espressione sensibili. Così, al pari della conoscenza, anche l’arte, il linguaggio e il mito sono per Cassirer “forme simboliche” capaci di assegnare ad ogni contenuto d’esperienza un preciso significato spirituale. Cassirer tenta perciò una ricostruzione della “morfologia dello spirito”, che delimiti le principali modalità di costituzione del mondo: la forma linguistica, il pensiero mitico e religioso e le forme del pensiero scientifico.

L’analisi fenomenologica del linguaggio prende le mosse dal rapporto tra il soggetto e l’oggetto che è ridefinito in termini linguistici come rapporto tra contenuto dell’anima ed espressione sensibile. Ma il ruolo di mediazione svolto dal linguaggio non esclude che esso realizzi il suo carattere simbolico solo attraverso un progressivo allontanamento dal dato immediato. Così, Cassirer individua tre stadi di sviluppo del linguaggio verso la sua forma, cioè tre tappe del suo progressivo emanciparsi dal mondo fisico: quella dell’espressione mimica, quella dell’espressione analogica, e quella dell’espressione simbolica. Il pensiero mitico è una specifica modalità dell’oggettivazione e, in una prospettiva genealogica delle forme della coscienza, rappresenta la fase che ogni forma deve attraversare prima di assumere la sua determinata impronta logica. È questa la ragione per cui Cassirer rifiuta qualsiasi interpretazione del mito in termini puramente allegorici o psicologici rivendicando piuttosto la necessità di una sua considerazione come forma simbolica autonoma la cui “oggettività” è da determinare dal punto di vista funzionale. Cassirer intende la fenomenologia della conoscenza come la descrizione del percorso che conduce al mondo della “conoscenza pura”. Infatti solo nel grado più elevato, ovvero nella visione scientifica del mondo, i concetti sono totalmente liberi da qualsiasi legame con l’intuizione sensibile, e solamente qui le forme a priori possono offrire un’accurata caratterizzazione del pensiero umano.

BIBLIOGRAFIA Fonti

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H. Cohen, La fondazione kantiana dell’etica, trad. di G. Gigliotti, Milella, Lecce 1983. W. Windelband, Le scienze naturali e la storia, in Preludi, vol. II, trad. di R. Arrighi, Bompiani, Milano 1947. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, trad. di E. Arnaud, 3 voll., La Nuova Italia, Firenze 1961-66.

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• E. Cassirer, Il concetto di forma simbolica, in Mito e concetto, trad. di R. Lazzari, La Nuova Italia, Firenze 1992.

Opere

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H. Cohen, La teoria kantiana dell’esperienza, trad. di L. Bertolini, Franco Angeli, Milano 1990. • P. Natorp, La pedagogia sociale,

trad. di G.A. Guerriero, Laterza, Roma-Bari 1977. H. Rickert, Il fondamento delle scienze della cultura, trad. di M. Signore, Longo, Ravenna 1979. H. Rickert, Filosofia, valori, teoria della definizione, trad. di G. Frangilo e M. Signore, Milella, Lecce 1987. E. Cassirer, Saggio sull’uomo, trad. di C. D’Altavilla, Armando, Roma 2004.

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Il neokantismo capitolo 11 • E. Cassirer, Sulla logica delle scienze della cultura, a cura di M. Maggi, La Nuova Italia, Firenze 1979. Sia Windelband che Cassirer sono stati due grandi storici della filosofia, e spesso proprio attraverso il modo con cui ricostruiscono epoche e correnti pensiero o mettono a fuoco problemi specifici (primo tra tutti quello della conoscenza) emerge con una chiarezza e concretezza esemplari la loro concezione stessa della filosofia. Si veda a questo proposito: W. Windelband, Platone, trad. di M. Graziassi, Sandron, Palermo-Milano 1914; W. Windelband, Storia della filosofia, trad. di C. Dentice d’Accadia, 2 voll., Sandron, Palermo 1921-22; W. Windelband, Storia della filosofia moderna, trad. di A. Oberdorfer, 3 voll., Vallecchi, Firenze 1925; E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, trad.

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ESERCIZI

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di F. Federici, La Nuova Italia, Firenze 19742; • E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, trad. di A. Pasquinelli, Il Saggiatore, Milano 19682; E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, trad. di E. Pocar, Sansoni, Firenze 2004.

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Sul neokantismo in generale si vedano: M. Ferrari, Introduzione a Il Neocriticismo, Laterza, Roma-Bari 1997; • S. Besoli - L. Guidetti (a cura di), Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, Vallecchi, Firenze 1997; G. Gigliotti (a cura di), Il neocriticismo tedesco, Loescher, Torino 1983.

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Sulla Scuola di Marburgo si può consultare: • G. Gigliotti, Avventure

2. Illustra la fondazione dell’autonomia metodologica delle scienze storiche postulata da Windelband (max 10 righe).

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Sugli autori della Scuola del Baden si vedano: S. Besoli, La coscienza delle regole. Tre saggi sul normativismo di Windelband, Vallecchi, Firenze 1996; R. Bonito Oliva, Il compito della filosofia. Saggio su Windelband, Guida, Napoli 1990; M. Signore (a cura di), Rickert tra storicismo e ontologia, Franco Angeli, Milano 1989; C. Tuozzolo, Emil Lask e la logica della storia, Franco Angeli, Milano 2004.

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Studi critici

1. Discuti i motivi della interpretazione antipsicologistica dell’opera kantiana promossa dal neocriticismo (max 15 righe).

e disavventure del trascendentale. Studio su Cohen e Natorp, Guida, Napoli 1989; M. Ferrari, Il giovane Cassirer e la Scuola di Marburgo, Franco Angeli, Milano 1988.

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Su Cassirer si vedano:

· M. Ferrari, Ernst Cassirer. Dalla Scuola di Marburgo alla filosofia

della cultura, Olschki, Firenze 1996; G. Raio, Introduzione a Cassirer, Laterza, Roma-Bari 2002.

·

3. Presenta brevemente la curvatura oggettivistica del criticismo proposta da Lask e discuti la presa di distanza dell’autore dalle posizioni degli altri esponenti della scuola neokantiana del Baden (max 10 righe). 4. Illustra la nozione teorica di forma simbolica utilizzata da Cassirer per realizzare una legittimazione trascendentale delle scienze dello spirito (max 15 righe).

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capitolo 12

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Dilthey e lo storicismo

1 Lo storicismo Con il termine “storicismo” si designa una composita e articolata tendenza della filosofia tedesca che si sviluppa tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento e in cui possono essere fatti rientrare – accanto al principale esponente, Wilhelm Dilthey [ 12.2-4] – veri e propri storici come Leopold von Ranke e Johann Gustav Droysen, filosofi che hanno fatto della metodologia della ricerca storica un elemento cruciale dei loro interessi, come Ernst Troeltsch [ 12.5] e Friedrich Meinecke [ 12.5], e anche, almeno per certi aspetti, figure più sfaccettate e complesse come quelle di Max Weber [ 13] e Georg Simmel [ 20.1.2]. La storia del termine “storicismo” non coincide perfettamente con quella del concetto. In effetti, il termine compare, come tale o in forme simili, ben prima del N ovecento (in N ovalis e Friedrich Schlegel, e poi nel teologo austriaco Karl Werner dove designa la filosofia della storia vichiana). Il concetto viene invece a definirsi assai più tardi, appunto nel N ovecento, nella

revisione critica che ne fa Ernst Troeltsch e ancor più nella polemica tra Friedrich Meinecke e Benedetto Croce [ 15], nel corso della quale viene per altro preso in due accezioni diverse, se non proprio antitetiche. Per Croce, il concetto di storicismo affonda le sue radici in Vico e nella tradizione idealistica (soprattutto in Hegel) e sta a indicare quella particolare concezione filosofica per cui la realtà è storia e la storia è dispiegamento della ragione (dell’Assoluto), sulla base dell’identificazione hegeliana tra ciò che è reale e ciò che è razionale. Per Meinecke il concetto ha tutt’altra genealogia, che parte pur sempre in qualche modo da Vico, ma procede poi essenzialmente attraverso Winckelmann, Herder, Goethe, Humboldt, Schleiermacher, Ranke per indicare quell’attitudine filosofica che privilegia l’individuale nella sua irripetibilità storica, e che mira a comprendere le persone nella loro vita interiore e nelle loro manifestazioni (artistiche, religiose, culturali, ecc.). Si potrebbe dire che per Croce lo storicismo designa un’ontologia della storia, in cui contano gli avvenimenti; per Meinecke esso designa un’ermeneutica della storia, in cui contano piuttosto le azioni compiute dai singoli individui.

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Al di là di questa diversità di prospettive, il termine viene oggi utilizzato, in senso più ampio, per designare un gruppo più o meno eterogeneo di pensatori che, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, pongono la storia, nella sua specificità, al centro della propria attenzione e cercano di interrogarsi sul suo statuto epistemologico. Non si tratta dunque di una corrente o di una tendenza unitaria, ma di un gruppo di filosofi e storici accomunati dalla convinzione che la storia, come oggetto specifico di ricerca, richieda un approccio diverso da quello delle scienze naturali.

2 Dilthey e il progetto di una “critica della ragione storica” Nelle sue linee principali, lo storicismo si pone come un momento di ripensamento della razionalità filosofica, attraverso la considerazione dello statuto epistemologico delle scienze storico-sociali. Suo obiettivo principale è dunque quello di specificare la natura, i compiti e i fondamenti di questo gruppo di scienze, che soprattutto nell’Ottocento, e in particolar modo in Germania, avevano fatto registrare un notevole sviluppo. A porre tale compito come esigenza imprescindibile del proprio impegno filosofico fu principalmente Wilhelm Dilthey. Nato a Biebrich (vicino Breslavia) nel 1833, conseguì il dottorato a Berlino con una tesi sull’etica di Schleiermacher, ed insegnò a Basilea, Kiel, Breslavia e infine a Berlino. Solo alcune delle sue opere più importanti furono pubblicate in vita (egli morì a Siusi, vicino Bolzano, nel 1911); tra esse La vita di Schleiermacher (1870; l’opera non fu tuttavia completata), il primo volume dell’Introduzione alle scienze dello spirito (1883; il secondo volume non fu mai pubblicato), Esperienza e pensiero (1892), Idee su una psicologia descrittiva e analitica (1894), Le origini dell’ermeneutica (1900), Esperienza vissuta e poesia (1906), L’essenza della filosofia (1907) e La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito (1910). Molti altri scritti, spesso essenziali per una più adeguata comprensione del suo pensiero, apparvero postumi nella raccolta delle opere complessive curate da alcuni dei suoi allievi [ 20.1.1], così come suc-

cessiva alla morte fu anche la pubblicazione dell’importante carteggio con il conte Yorck von Wartenburg. Si deve poi soprattutto a Martin Heidegger [ 19] una decisiva rivalutazione dell’importanza teoretica del lavoro di Dilthey, il quale da allora è diventato un punto di riferimento ineludibile non solo per lo storicismo, ma anche per la fenomenologia e l’esistenzialismo. La formazione intellettuale di Dilthey avviene entro un ambito ben preciso, caratterizzato dal declino dell’idealismo, dall’affermazione del positivismo e da un ritorno alla filosofia critica kantiana. Del positivismo, Dilthey rifiuta la riduzione del mondo umano alle leggi necessarie della natura, ma condivide l’ideale di una ricerca scientificamente impostata, svincolata da ogni tipo di ipoteca metafisica. Anche nei confronti del neocriticismo egli assume un atteggiamento di accettazione e insieme di superamento: i criteri di fondo dell’epistemologia kantiana, sino ad allora applicati prevalentemente all’ambito delle scienze della natura, devono essere estesi anche alle scienze che hanno per oggetto l’esistenza storica e sociale dell’uomo. Il progetto diltheyano si configura così come una vera e propria “critica della ragione storica”, il cui compito fondamentale è quello di fornire un saldo fondamento filosofico alle “scienze dello spirito” che ne garantisca la validità conoscitiva e la piena autonomia rispetto alle scienze della natura. Con l’espressione “scienze dello spirito” (Geisteswissenschaften) – ai suoi occhi più adeguata di tutte le altre dizioni, quali “scienze sociali”, “scienze morali”, “scienze storiche”, ecc. – Dilthey designa infatti tutte quelle scienze che hanno per oggetto i fatti spirituali e che per questo non possono essere ricondotte all’ambito delle “scienze della natura” (Naturwissenschaften), occupando l’altra metà del cosiddetto “globus intellectualis”.

3 Il problema della fondazione delle scienze dello spirito N ella sua Introduzione alle scienze dello spirito (un’opera che porta come sottotitolo: Tentativo di fondazione per lo studio della società e della

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storia) Dilthey prende le mosse dal grande lavoro svolto dalla cosiddetta “Scuola storica”, un movimento che – soprattutto negli ambiti dell’economia e del diritto – aveva già sollevato il problema di salvaguardare la specificità delle realtà storiche, indagando i singoli fatti a partire dal contesto del loro sviluppo, e riconoscendo nella storicità stessa il carattere essenziale della vita spirituale. Ciò che tuttavia è mancato a tale Scuola è per Dilthey una vera e propria fondazione filosofica, grazie alla quale le scienze dello spirito non fossero costrette a ricorrere a princìpi e metodi ad esse estrinseci – cioè desunti dall’ambito delle scienze naturali o fondati su considerazioni metafisiche – ma si basassero sulla stessa esperienza interna, cioè sui fatti della coscienza. Ma se con questa esigenza “critica” Dilthey si richiama esplicitamente alla tradizione gnoseologica moderna, non accetta di essa il riferimento all’uomo come a un mero essere pensante, a un puro soggetto conoscente; ciò che è alla base delle scienze dello spirito è l’uomo concreto nell’interezza della sua esistenza, psichica e storica:



Nelle vene del soggetto conoscente che Locke, Hume e Kant costruirono non scorre sangue vero, ma la linfa annacquata della ragione come pura attività di pensiero. La frequentazione storica come quella psicologica dell’uomo intero mi condusse però a mettere quest’ultimo, nella molteplicità delle sue forze, quest’essenza volente, senziente e rappresentante anche alla base della spiegazione della conoscenza e dei suoi concetti. [Introduzione alle scienze dello spirito, Prefazione]



L’intento di Dilthey va dunque ben al di là di una semplice indagine epistemologica sullo statuto della conoscenza storico-sociale, per abbracciare con uno sguardo onnicomprensivo, a partire dalla nostra unità vivente, il mondo esterno e le altre unità viventi. Si tratta insomma, attraverso il superamento di Kant, di realizzare un ampliamento dell’orizzonte dell’esperienza che non fornisca più solo notizie relative ai nostri stati interiori, ma sia in grado di darci, insieme a essi, anche un mondo esterno inteso come vita e non solo come la rappresentazione di un fenomeno (come invece accade nelle scienze della natura).

Ma in base a che cosa sarà possibile delimitare le scienze dello spirito rispetto a quelle della natura? Tale delimitazione per Dilthey si fonda nell’autocoscienza, attraverso la quale l’uomo fa esperienza della propria libertà. Da quest’ultima scaturisce, separandosi dal mondo della natura, il mondo della storia:



l’uomo trova in questa autocoscienza una sovranità del volere, una responsabilità delle azioni, una capacità di sottomettere tutto al pensiero e di resistere a tutto all’interno del baluardo di libertà della sua persona, attraverso cui egli si separa dalla natura intera. […] Egli separa così dal regno della natura un regno della storia, in cui, nel bel mezzo della connessione di una necessità oggettiva che è la natura, la libertà balena in innumerevoli punti di quest’intero; qui le gesta della volontà, in opposizione al corso meccanico delle alterazioni della natura, […] suscitano effettivamente qualcosa, elaborano uno sviluppo, nella persona e nell’umanità. [Introduzione alle scienze dello spirito, libro I, cap. II]



Occorre dunque separare la conoscenza il cui materiale è dato dai sensi, dalla conoscenza il cui materiale è dato nell’esperienza interna, senza alcun concorso dei sensi. Solo a partire da qui è possibile riconoscere l’esistenza di un ambito di esperienze che ha nel vissuto (Erlebnis) la propria autonoma origine e il proprio materiale, e che per questo diventa naturalmente oggetto delle scienze dello spirito. Se insomma i fenomeni e i processi naturali vengono conosciuti attraverso la percezione e l’osservazione esterna, i fenomeni e i processi storico-sociali risultano invece comprensibili dall’interno, poiché in questo secondo caso l’uomo che indaga appartiene e partecipa allo stesso mondo che è oggetto dell’indagine. L’uomo può così avere un’esperienza immediata della vita spirituale in quanto tale a partire dalla propria interiorità e all’interno di essa. La differenza tra scienze della natura e scienze dello spirito è dunque sostanzialmente una differenza di metodo: le prime ricorrono, nella conoscenza dei fenomeni naturali, alla “spiegazione” (Erklärung), cioè a un approccio dall’esterno; le seconde procedono invece tramite la “comprensione” (Verstehen), cioè tramite un approccio interno:

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La natura per noi è muta. Solo la potenza della nostra immaginazione effonde su di essa un barlume di vita e d’interiorità. […] La natura ci è estranea. Essa è infatti per noi qualcosa di esterno, non un interno. La società è il nostro mondo. In essa partecipiamo, vivendolo, al gioco delle influenze reciproche, con tutta la forza della nostra essenza, poiché in noi stessi, da dentro, nella più vivente inquietudine, scorgiamo gli stati e le forze a partire da cui il sistema si costruisce. […] Io comprendo la vita nella società. L’individuo è, da una parte, un elemento nelle influenze reciproche della società, […] e, nel contempo, l’intelligenza che intuisce ed esplora tutto questo. [Introduzione alle scienze dello spirito, libro I, cap. IX]



Rivendicare l’autonomia delle scienze dello spirito non significa tuttavia per Dilthey dimenticare il fatto che esse hanno comunque a che fare con le scienze della natura. Le prime riguardano sì l’esperienza interna, ma quale esperienza di un essere – l’uomo – che non è riducibile esclusivamente a realtà spirituale: l’uomo è un’«unità di vita psicofisica», in cui sfera fisica e sfera psichica si condizionano reciprocamente. Per Dilthey, l’uomo è anzi caratterizzato da una doppia dipendenza nei confronti della natura: non solo la natura condiziona la determinazione dei suoi fini, ma anche quella dei mezzi attraverso i quali può realizzarli. Per questo la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito ha un carattere relativo e non assoluto: le conoscenze dei due gruppi di scienze si mescolano sempre, «nei punti in cui la connessione della natura influisce sullo sviluppo dell’elemento spirituale, e negli altri punti in cui la stessa connessione della natura riceve un influsso dall’elemento spirituale» [Introduzione alle scienze dello spirito, libro I, cap. III]. Le scienze dello spirito non possono pertanto prescindere dai risultati delle scienze della natura; e se i fatti dello spirito rappresentano il limite superiore dei fatti della natura, i fatti della natura costituiscono il limite inferiore della vita spirituale. Analizzando la struttura del mondo umano in quanto oggetto delle scienze dello spirito, Dilthey giunge così a determinare l’elemento fondamentale rappresentato dall’individuo, o meglio dalle singole unità psicofisiche. Il carattere sociale del mondo umano è dato dai rapporti che gli individui stabiliscono fra di loro e che

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costituiscono poi i sistemi di cultura (come per esempio la religione, l’arte, la filosofia, la scienza) e le forme di organizzazione esterna della società. Ma la struttura del mondo umano si presenta sempre nel suo carattere irriducibilmente storico: l’uomo e i suoi rapporti con gli altri uomini non hanno un’esistenza fuori dal tempo, ma si danno nel tempo, costituendo in questo modo la storia. La critica della ragione storica si muove dunque lungo due assi che devono essere tenuti strettamente connessi: da una parte l’analisi delle scienze dello spirito, dall’altra l’analisi della struttura del mondo umano che ne costituisce l’oggetto. Perciò la fondazione delle scienze dello spirito si compie proprio nella consapevolezza della corrispondenza tra la verità di queste scienze e la realtà storico-sociale. Per questo, secondo Dilthey, la logica propria delle scienze dello spirito dev’essere rintracciata nel processo conoscitivo attraverso cui si formano i concetti, e più in particolare nella connessione degli atti psichici che costituiscono il fondamento di ogni giudizio. 1. La fondazione filosofica delle scienze dello spirito deve ricorrere a princìpi e metodi tratti: a. dalle scienze naturali. b. da considerazioni metafisiche. c. dall’esperienza interna della coscienza. d. dalla ricerca storiografica. 2. Come si delimitano, dal punto di vista metodologico, le scienze dello spirito rispetto a quelle della natura? a. Riconoscendo che il materiale della conoscenza è dato dai sensi. V F b. Considerando il vissuto della coscienza. V F c. Con il ricorso all’esperienza della libertà. V F d. In base al metodo della spiegazione. V F

4 Tra psicologia ed ermeneutica 4.1 La psicologia descrittiva La fondazione delle scienze dello spirito passa attraverso l’elaborazione di una teoria della conoscenza che descriva i processi attraverso cui nascono i concetti storico-spirituali. A questo compito Dilthey dedica una parte significativa degli scritti successivi all’Introduzione alle

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scienze dello spirito. Il punto di partenza delle scienze dello spirito è la vita interiore dell’individuo nella sua connessione immediata, cioè non ridotta ai singoli atti che determinerebbero il meccanismo della coscienza ma intesa come una totalità continua di vissuti, come un vero e proprio mondo interiore. Per accedere a questo mondo si deve far ricorso alla psicologia, non intendendola però in senso sperimentale, cioè come una psicologia esplicativa o costruttiva che studia il modo in cui i diversi elementi psichici si associano di volta in volta nella coscienza, ma come una psicologia descrittiva e analitica, che parte invece dall’intero, ossia dalla coscienza come una totalità di vissuti connessi tra loro e li analizza nei suoi diversi elementi. Nel testo intitolato appunto Idee per una psicologia analitica e descrittiva, Dilthey assegna alla psicologia un ruolo fondamentale nei confronti di tutte le altre scienze dello spirito, nella misura in cui il punto di avvio di queste ultime dev’essere l’esperienza interiore o il vissuto (Erlebnis) nella sua immediatezza. Ma la psicologia in quanto tale non assolve totalmente al compito della fondazione: essa fornisce alla teoria della conoscenza solo il materiale per la sua ricerca, ma per il resto non esaurisce il mondo umano, che non è fatto di individui in sé, ma di individui in rapporto tra di loro. Per questo, in uno scritto del 1896 intitolato Contributi allo studio dell’individualità, Dilthey cercherà di mostrare come, nello studio della realtà spirituale, la comprensione della propria esperienza interna si armonizzi con quella degli altri individui. La comprensione ci consente infatti di conoscere per analogia l’interiorità degli altri individui, sulla base della capacità di “riprodurre” la vita psichica altrui muovendo da espressioni e segni esterni. In quest’ottica assume un rilievo fondamentale l’arte, assunta da Dilthey quale organo di comprensione della vita: essa è infatti capace di superare i limiti del vissuto individuale e comprendere così la vita degli altri, in qualche modo “rivivendola” in sé. Questo naturalmente pone altri problemi – come lo stesso Dilthey avverte: com’è possibile salvaguardare la scientificità delle scienze dello spirito se il comprendere è di carattere estetico-artistico? E più ancora, com’è possibile comprendere l’oggettività dei vissuti della coscienza sulla base di un processo di introspezione?

4.2 Dalla psicologia all’ermeneutica A partire dal testo del 1900 sull’Origine dell’ermeneutica, Dilthey lavorerà intensamente su questi problemi, presentando all’Accademia delle Scienze di Berlino una serie di Studi sulla fondazione delle scienze dello spirito, in cui sostituirà gradualmente alla fondazione psicologica una fondazione ermeneutica di queste scienze, attraverso il rapporto circolare che si instaura tra l’Erleben (termine che per lui indica la vita come successione continua dei singoli stati di coscienza), le espressioni della vita e l’intendere, cioè la comprensione adeguata di tali espressioni:



Le scienze dello spirito sono […] fondate in questa connessione di vita, espressione e intendere. Qui per la prima volta perveniamo a un chiaro segno distintivo, mediante cui può venir definitivamente compiuta la delimitazione delle scienze dello spirito: una disciplina appartiene alle scienze dello spirito solo quando il suo oggetto ci è accessibile mediante l’atteggiamento fondato sulla connessione di vita, espressione e intendere. [La costruzione del mondo storico, cap. I, § 4]



La realtà umana diviene dunque oggetto delle scienze dello spirito in quanto gli stati umani immediatamente vissuti giungono ad espressione nelle manifestazioni della vita e in tali espressioni possono venire intesi o compresi [ T35]. Anche nelle scienze dello spirito, concede quindi Dilthey, il movimento della comprensione ha inizio dall’esterno – dall’elemento sensibile, dai segni fisici (per esempio: «dalla fuggevole espressione al secolare dominio di una costituzione o di un testo giuridico», La costruzione del mondo storico, cap. V, § 1) – ma per procedere poi verso l’interno, verso qualcosa che è sottratto ai sensi, e cioè l’interiorità da cui quell’espressione sensibile scaturisce. Noi possiamo comprendere noi stessi e gli altri proprio perché la vita, l’esperienza interiore, si oggettiva e si esprime. Dilthey definisce questa oggettivazione della vita “spirito oggettivo”, ma in un senso diverso da quello di Hegel. Per quest’ultimo infatti lo spirito oggettivo è l’espressione (dopo lo spirito soggettivo e prima di quello assoluto) di una ragione universale che si realizza; per Dilthey invece esso non è altro che la stessa vita che

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diventa storia, perché ciò che lo spirito immette nel mondo come manifestazione di vita si oggettiva storicamente. Per questo la storia non è nulla di separato dalla vita, ma è la vita in quanto storicamente divenuta. Da questo punto di vista si può dire che la conoscenza storica sia espressione dello stesso movimento attraverso il quale la vita comprende sé stessa, e che questo dunque realizza una stretta connessione tra vita e scienza:



Non un procedimento concettuale costituisce il fondamento delle scienze dello spirito, ma il divenire interiore di uno stato psichico nella sua totalità e la sua riscoperta nel rivivere. Qui la vita afferra la vita. [La costruzione del mondo storico, cap. II, § 5]



4.3 Il mondo storico come connessione dinamica Ma come conciliare la pretesa di validità universale, propria delle scienze dello spirito, con il fatto che la vita è sempre finita, fragile e mutevole, soggetta anche a forze irrazionali?



L’analisi attuale dell’esistenza umana suscita in tutti noi la coscienza della fragilità, della forza dell’impulso oscuro, della sofferenza derivante dalle tenebre e dalle illusioni, della finitudine presente in tutto ciò che è vita […]. Sostituendo alla ragione universale di Hegel la vita nella sua totalità, l’Erlebnis, l’intendere, la connessione della vita storica, la forza dell’irrazionale in essa presente, sorge il problema della possibilità della scienza storica. [La costruzione del mondo storico, cap. V, § 2]



La soluzione dell’antitesi sta per Dilthey nella comprensione del mondo storico come “connessione dinamica”, ovvero come totalità in cui le singole parti, pur mantenendo caratteri autonomi e propri, costituiscono in relazione al tutto un’unità significativa – come totalità che tanto in sé quanto nei suoi singoli elementi costituisce una connessione produttrice di valori e scopi, avente in sé stessa il proprio centro. Questo carattere definisce per Dilthey tanto i singoli individui quanto i sistemi di cultura, le forme di associazione e le epoche storiche. Ogni unità del mondo spirituale, in quanto

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autocentrata, costituisce un orizzonte chiuso, che elabora significati propri e si dà autonomamente valori e scopi. Il carattere di autoreferenzialità appare con tutta evidenza nel caso delle epoche storiche e delle nazioni, in cui il senso della vita dei singoli individui dipende dal rapporto con la totalità dell’epoca o dell’età. Ma d’altra parte tale chiusura determinata dall’autocentralità non esclude del tutto – a differenza di quanto più o meno negli stessi anni andava elaborando Spengler [ 12.6] – la possibilità che si stabiliscano relazioni tra le diverse connessioni dinamiche nel più ampio e comprensivo mondo umano nella sua totalità. L’analisi storica infatti non può limitarsi a individuare il senso unitario che regge un’epoca e che condiziona ogni elemento di questa totalità storica, ma deve anche valutare in che misura gli individui che ne fanno parte siano stati in grado di andare oltre il suo orizzonte. Sulla base di questo carattere fondamentale del mondo umano sarebbe quindi data per Dilthey la possibilità di pervenire alla comprensione unitaria della realtà storica, alla conoscenza della storia nella sua totalità. Ma qui la totalità e l’unità della storia non dipendono dalla subordinazione ad un principio trascendente, incondizionato e assoluto, bensì dal rapporto tra le diverse connessioni dinamiche che danno vita al processo storico. Si tratta dunque, per lo storico, di comprendere la storia in base a sé stessa: la storia appare come la forza produttrice di valori, scopi e ideali in base ai quali viene determinato il significato degli uomini e degli avvenimenti che hanno luogo in essa e interagiscono tra loro. Come risultato dell’attività umana e dei rapporti tra gli individui, la storia ha quindi un carattere strutturalmente finito e relativo.

1. La conoscenza storica è possibile soltanto attraverso: a. un’identificazione simpatetica con la vita psichica altrui. V b. un approccio psicologico sperimentale. V c. la comprensione. V d. le oggettivazioni nelle quali si esprime la coscienza interiore V

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4.4 Finitezza e relatività della storia L’ultima fase della riflessione diltheyana porta dunque all’affermazione della strutturale storicità dell’uomo e del mondo umano, e della relatività di ogni fenomeno storico in quanto finito. Si dà in tal senso una perfetta identità di vita e storia: l’uomo è un essere storico che vive nel tempo e la cui esistenza è un processo limitato, che corre tra la nascita e la morte. Se la storicità è il carattere proprio del mondo umano, uno stesso destino di finitudine accomuna l’uomo e le sue manifestazioni. Tutto ciò non comporta tuttavia un esito puramente relativistico della filosofia diltheyiana (a dispetto delle accuse mossegli da Husserl:  18). La storia è un processo in cui non si dà nulla di assoluto, ma la cui continuità e la cui omogeneità sono nondimeno assicurate proprio dall’attività umana che sta alla base di questo stesso processo e che lo produce. Si assiste così in questa fase alla radicalizzazione della “critica della ragione storica” come “critica storica della ragione”: il ripensamento critico della razionalità storica passa attraverso la consapevolezza della storicità della stessa ragione, e tuttavia quest’ultima, proprio dall’interno della storia, assicura quel legame che collega tra loro le singole produzioni storiche, evitando che si presentino come totalmente irriducibili e eterogenee tra loro. Lo scenario che si apre di fronte a Dilthey, una volta riconosciuta l’essenziale finitudine e la relatività del mondo storico, non è pertanto quello di un mondo arido e vuoto, che si è chiuso a nuove prospettive. Al contrario, tale consapevolezza può inaugurare per l’uomo un futuro di liberazione:



La coscienza storica della finitudine di ogni fenomeno storico, di ogni azione umana o sociale, la coscienza della relatività di ogni forma di fede è l’ultimo passo verso la liberazione dell’uomo. Con esso l’uomo perviene alla sovranità di attribuire a ogni Erlebnis il suo contenuto e di darsi a esso completamente, con franchezza, senza il vincolo di nessun sistema filosofico o religioso. La vita si libera dalla conoscenza concettuale, e lo spirito diventa sovrano dinanzi alle ragnatele del pensiero dogmatico. Ogni bellezza, ogni santità, ogni sacrificio, rivissuti e interpretati, schiudono prospetti-

ve che rivelano una realtà. E così pure attribuiamo a tutto ciò che c’è di malvagio, di temibile e di brutto in noi, un posto nel mondo, una realtà sua propria, che deve esser giustificata nella connessione del mondo: qualcosa su cui non ci si può illudere. […] N oi non rechiamo nella vita nessun senso del mondo. Noi siamo aperti alla possibilità che il senso e il significato sorgano soltanto nell’uomo e nella sua storia. Ma non nell’uomo singolo, bensì nell’uomo storico, Poiché l’uomo è un essere storico. [Nuovi studi sulla costruzione nelle scienze dello spirito, parte II, cap. II, § 6]



5 Storicismo e valori: Troeltsch e Meinecke In Ernst Troeltsch (1865-1923), professore di teologia sistematica a Heidelberg e poi di filosofia della cultura a Berlino, storia e religione s’intrecciano profondamente. Troeltsch perviene infatti alla considerazione della storia in generale a partire dal problema della posizione del cristianesimo nella storia delle religioni. Ma soprattutto, Troeltsch rappresenta il primo momento di messa in questione, revisione e verifica, dopo la morte di Dilthey, dello storicismo (Lo storicismo e i suoi problemi, 1922): egli denuncia i pericoli del relativismo della tradizione storicistica, ma riconosce a quest’ultima il merito di aver introdotto e salvaguardato il principio di individualità nell’interpretazione dei fenomeni storici. I rischi relativistici che proprio questa difesa dell’individualità comporta possono essere neutralizzati cercando di individuare la logica delle intuizioni storiche viventi ammesse da Dilthey. Questa tesi si regge da una parte sul recupero di alcune istanze del neokantismo, e dall’altra sul ricorso al concetto di valore, come ciò che tiene insieme una serie di singoli eventi in una totalità. Ciò non toglie che per Troeltsch la ricerca storica debba comunque procedere di pari passo con il suo oggetto, essendo inevitabilmente condizionata da quest’ultimo. Lo storicismo implica così per Troeltsch il riconoscimento della storicità dell’etica (e da questo punto di vista il distacco dal

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neokantismo è evidente): l’etica si fonda infatti sulla responsabilità delle decisioni individuali, che vanno prese sempre in situazioni storicamente determinate. Lo storicismo vede così nella storia l’ambito di quel compromesso che rende effettivo l’agire – il compromesso cioè tra l’intenzione e la responsabilità di chi agisce e l’insieme delle circostanze storiche effettive in cui l’azione stessa si inscrive. Quanto a Friedrich Meinecke (1862-1954), fu prima funzionario dell’Archivio di Stato prussiano e poi professore di storia moderna a Strasburgo, Friburgo e Berlino. Meinecke si muove in parte nella stessa linea di revisione critica inaugurata da Troeltsch, basata sulla rinuncia definitiva a ogni forma di conciliazione tra ideale e reale, tra ragione e realtà. Tanto nella Storia e il presente (1933) quanto nella Genesi dello storicismo (1936), Meinecke osserva che non solo nella storia non si dà progresso, ma che il suo stesso significato ci rimane precluso, ignoto. È solo l’agire responsabile dell’uomo a dare un senso alla storia, tenendo conto dei condizionamenti (del compromesso, in termini troeltschiani) che quest’ultima impone. Se c’è un carattere sacrale o perfino “divino” nella storia (che Meinecke interpreta in effetti come un processo di secolarizzazione – cioè di disincantamento del mondo,  13.5 – che investe anche e soprattutto il cristianesimo) esso sta proprio in questa tensione che si dà nella responsabilità dell’uomo. Anche Meinecke attribuisce così alla propria concezione della storia una precisa curvatura etica, che è forse il vero tratto unitario tra tutti gli autori considerati “storicisti”, e che si ritrova ugualmente in Dilthey e Weber.

6 Spengler e il tramonto dell’Occidente Oswald Spengler non può essere considerato in senso stretto un esponente dello storicismo, ma condivide con quest’ultimo l’idea di una profonda differenza tra lo studio della storia e quello della natura, dal momento che la seconda è caratterizzata da fenomeni uniformi e sostanzialmente ripetitivi che non si ritrovano invece nella prima. N ato nel 1880 a Blankenburg, in

Prussia, Spengler studiò a Halle, Monaco e Berlino. Dopo aver rinunciato al suo lavoro di insegnante, si trasferì definitivamente a Monaco; qui intorno al 1911 cominciò a dedicarsi al progetto del Tramonto dell’Occidente. La composizione dell’opera lo impegnò per diversi anni: il primo volume fu infatti pubblicato nel 1918, suscitando un vivace dibattito e procurandogli una grande notorietà, il secondo quattro anni più tardi, nel 1922. Al successo contribuì il fatto che, pur essendo stato concepito quando i tedeschi non avevano ancora perso la prima guerra mondiale, Il tramonto dell’Occidente apparve subito dopo la conclusione del conflitto stesso, quando il clima di sconfitta, il ridimensionamento della Germania e la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico potevano in effetti suggerire l’idea del crollo di un mondo, ovvero del declino dell’intera civiltà occidentale. Pur essendo decisamente conservatore, antipopolare e antioperaio, e sostenitore di tesi esplicitamente razziste, Spengler entrò in polemica con il nazismo, quando quest’ultimo cominciò a imporsi, in nome della difesa degli antichi ideali prussiani; da questo punto di vista, egli può essere considerato come un esponente dell’opposizione conservatrice al nuovo regime, che fu tuttavia in gran parte isolata, o sostanzialmente eliminata, già nel 1934, a partire dalla “notte dei lunghi coltelli”. Spengler morì per cause naturali nel maggio del 1936. Nella sua opera principale, Spengler si propone una vera e propria “rivoluzione copernicana” nel campo della storia, tale da comportare l’abbandono di ogni prospettiva eurocentrica e insieme di ogni ricostruzione puramente lineare e continuistica (dall’Antichità al Medioevo, e da qui all’età moderna e a quella contemporanea). La storia universale è invece l’espressione di una molteplicità di civiltà tra loro irriducibili. Per Spengler, tali civiltà sono nel complesso otto: quella babilonese, quella egiziana, quella antica, quella cinese, quella indiana, quella araba, quella messicana, quella euro-occidentale (e americana). Esse rappresentano le forme elementari della storia (non a caso il sottotitolo dell’opera è: Lineamenti di una morfologia della storia universale, dove per “morfologia” s’intende appunto lo studio delle forme). La loro comparsa è tuttavia puramente casuale, non risponde ad alcuna ragione o alcun piano determinato, e dev’essere solo riconosciuta come tale:

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parte II La svolta del Novecento



l’“umanità” non ha alcuno scopo, alcuna idea, alcun piano, così come non lo ha la specie della farfalle o quella delle orchidee. “Umanità” è un concetto zoologico e un vuoto nome. Si bandisca questo fantasma dal dominio dei problemi storici della forma e allora si vedrà apparire una sorprendente dovizia di vere forme. […] Invece della squallida immagine di una storia mondiale lineare, cui ci si può tenere solo se si chiudono gli occhi dinanzi alla massa schiacciante dei fatti, io vedo una molteplicità di civiltà possenti, scaturite con una forza elementare dal grembo di un loro paesaggio materno, al quale ciascuna resta rigorosamente connessa in tutto il suo sviluppo: civiltà che imprimono ciascuna la propria forma all’umanità, loro materia, e che hanno ciascuna una propria idea e delle proprie passioni, una propria vita, un proprio volere e sentire, una propria morte. [Il tramonto dell’Occidente, parte I, Introduzione]



Tutte le civiltà sono forme autonome, chiuse, prive di contatti reciproci: non c’è tra esse alcuna comunicazione, e dunque, in definitiva, alcuna possibilità di comprensione vicendevole. Tuttavia, ogni civiltà è concepita in sé come un organismo, e ciascuna ripercorre per proprio conto le tappe di sviluppo di ogni vivente: l’infanzia, la gioventù, la maturità e la senescenza. Emerge qui, sia pure in chiave diversa, quel legame essenziale tra storia e vita che definisce nel suo insieme un tratto fondamentale del panorama filosofico degli inizi del N ovecento [ 20.1]. Il fatto che ogni civiltà rappresenti in sé un’«unità organica dalla struttura periodica» – cioè appunto un organismo che attraversa un ciclo vitale – permette così di formulare, nonostante la radicale eterogeneità delle civiltà stesse, una teoria generale della storia: tutte le civiltà affrontano le stesse fasi vitali, e tutte sono destinate a morire (ciò che permette appunto di pronosticare anche la fine dell’Occidente). Considerando questa “struttura periodica” comune e facendo ricorso al metodo comparativo, lo storico (anzi, colui che studia le civiltà come forme, e dunque il “morfologo”) potrà quindi prevedere l’evoluzione e il declino della civiltà che intende considerare. In questo senso, esaminando lo sviluppo di ogni civiltà (la sua “stadiologia”), si può arrivare a delineare una “morfologia” storica compa-

rata. Se dunque la storia non presenta la stessa regolarità della natura, una considerazione scientifica di essa rimane comunque possibile proprio perché, anche se i contenuti determinati delle civiltà storiche sono sempre diversi, la sequenza con cui tali contenuti si succedono in ogni civiltà o forma è più o meno simile o costante. Ogni civiltà esprime dunque per Spengler un’anima particolare dell’umanità – o meglio un’“animità”, un’espressione peculiare della vita spirituale informe dell’umanità – che si realizza in una determinata forma: la storia è “animità” che si fa forma, ovvero che si dà, si esprime, in forme simboliche. Una civiltà nasce quando una grande anima si distacca dal resto della vita psichica informe dell’umanità, per realizzarsi come forma determinata, e muore (cioè torna a sciogliersi nella vita informe) quando essa ha realizzato l’insieme delle sue possibilità determinandosi in popoli, Stati, lingue, fedi, arti e scienze diverse. Ogni fenomeno storico (o ogni realizzazione storica) è dunque un simbolo del principio originario – dell’anima o animità – che lo determina e da cui proviene. Tale principio o simbolo originario definisce per esempio una peculiare attitudine nei confronti dello spazio, che non è pertanto (kantianamente) una forma a priori dell’intuizione, ma ciò che permette di identificare e distinguere le varie civiltà: la civiltà antica è per esempio la civiltà del “piccolo”, mentre quella araba è la civiltà della “caverna”, perché in essa il simbolo determinante è quello legato all’apparire della luce nella caverna. Quest’ultima civiltà è quella delle religioni che Spengler definisce «magiche», in cui un ruolo essenziale è svolto dalla simbologia del lògos (cioè da una figura di mediazione della divinità), e a cui appartiene anche il cristianesimo.

1. Secondo la teoria generale della storia di Spengler: a. ogni civiltà è un’unità organica dalla struttura periodica. V b. si deve riconoscere una prospettiva eurocentrica della storia. V c. si conferma l’assenza di un piano provvidenziale. V d. la fine della civiltà occidentale è pronosticabile. V

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SINTESI CAPITOLO 12

Dilthey e lo storicismo capitolo 12 Lo storicismo. Il termine “storicismo” è utilizzato per designare un gruppo eterogeneo di pensatori – Wilhelm Dilthey, Ernst Troeltsch e Friedrich Meinecke – che, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, pongono la storia al centro della propria attenzione e cercano di interrogarsi sul suo statuto epistemologico nella convinzione che essa, come oggetto specifico di ricerca, richieda un approccio diverso da quello delle scienze naturali. Dilthey e il progetto di una “critica della ragione storica”. Lo storicismo si pone come un momento di ripensamento della razionalità filosofica, attraverso la considerazione dello statuto epistemologico delle scienze storico-sociali. A tale compito si dedicò Wilhelm Dilthey (1833-1911) che delineò una vera e propria “critica della ragione storica”, il cui compito fondamentale era quello di fornire un saldo fondamento filosofico alle “scienze dello spirito” che ne garantisse la validità conoscitiva e la piena autonomia rispetto alle scienze della natura. Il problema della fondazione delle scienze dello spirito. Nella sua Introduzione alle scienze dello spirito, Dilthey – proponendosi di salvaguardare la specificità delle realtà storiche – avvertì la necessità di una fondazione filosofica delle scienze dello spirito affinché queste ultime non fossero costrette a ricorrere a princìpi e metodi desunti dall’ambito delle scienze naturali o fondati su considerazioni metafisiche, ma si basassero sulla stessa esperienza interna, cioè sui fatti della coscienza. In base a che cosa sarà allora possibile delimitare le scienze dello spirito rispetto a quelle della natura? La differenza tra scienze della natura e scienze dello spirito è sostanzialmente una differenza di metodo: le prime ricorrono, nella conoscenza dei fenomeni naturali, alla “spiegazione” (Erklärung), cioè a un approccio dall’esterno; le seconde procedono invece tramite la “comprensione” (Verstehen), cioè tramite il riferimento al vissuto (Erlebnis) della coscienza grazie al quale si rende evidente che l’uomo che indaga appartiene e partecipa allo stesso mondo che è oggetto dell’indagine.

Tra psicologia ed ermeneutica. La fondazione delle scienze dello spirito passa attraverso l’elaborazione di una teoria della conoscenza che descriva i processi attraverso cui nascono i concetti storico-spirituali. Il punto di partenza delle scienze dello spirito è la vita interiore dell’individuo e, per accedere a questo mondo, si deve far ricorso a una psicologia descrittiva e analitica, che parte dalla coscienza intesa come una totalità di vissuti connessi tra loro. Ma la psicologia in quanto tale non esaurisce il mondo umano, che non è fatto di individui in sé, ma di individui in rapporto tra di loro. La comprensione ci consente infatti di conoscere per analogia l’interiorità degli altri individui, sulla base della capacità di “riprodurre” la vita psichica altrui muovendo da espressioni e segni esterni. A partire dal 1900, Dilthey sostituirà gradualmente alla fondazione psicologica una fondazione ermeneutica delle scienze dello spirito, attraverso il rapporto circolare che si instaura tra l’Erleben (termine che per lui indica la vita come successione continua dei singoli stati di coscienza), le espressioni della vita e l’intendere, cioè la comprensione adeguata di tali espressioni. La realtà umana diviene dunque oggetto delle scienze dello spirito in quanto gli stati umani immediatamente vissuti giungono ad espressione nelle manifestazioni della vita e in tali espressioni possono venire intesi o compresi. N oi possiamo comprendere noi stessi e gli altri proprio perché la vita, l’esperienza interiore, si oggettiva e si esprime. Dilthey definisce questa oggettivazione della vita “spirito oggettivo”. Ma come conciliare la pretesa di validità universale, propria delle scienze dello spirito, con il fatto che la vita è sempre finita, fragile e mutevole, soggetta anche a forze irrazionali? La soluzione dell’antitesi sta per Dilthey nella comprensione del mondo storico come “connessione dinamica”, ovvero come totalità in cui le singole parti, pur mantenendo caratteri autonomi e propri, costituiscono in relazione al tutto un’unità significativa. Sulla base di questo carattere fondamentale del mondo umano sarebbe quindi data per Dilthey la possibilità di pervenire alla comprensione unitaria della realtà storica, alla conoscenza della storia

nella sua totalità. Ma qui la totalità e l’unità della storia non dipendono dalla subordinazione ad un principio trascendente, incondizionato e assoluto, bensì dal rapporto tra le diverse connessioni dinamiche che danno vita al processo storico. Si tratta dunque, per lo storico, di comprendere la storia in base a sé stessa: la storia appare come la forza produttrice di valori, scopi e ideali in base ai quali è determinato il significato degli uomini e degli avvenimenti che hanno luogo in essa e interagiscono tra loro. Come risultato dell’attività umana e dei rapporti tra gli individui, la storia ha quindi un carattere strutturalmente finito e relativo. L’ultima fase della riflessione diltheyana porta all’affermazione della strutturale storicità dell’uomo e del mondo umano, e della relatività di ogni fenomeno storico in quanto finito. Tuttavia la storia è sì un processo in cui non si dà nulla di assoluto, ma la cui continuità e la cui omogeneità sono nondimeno assicurate proprio dall’attività umana che sta alla base di questo stesso processo e che lo produce. Si assiste così in questa fase alla radicalizzazione della “critica della ragione storica” come “critica storica della ragione”: il ripensamento critico della razionalità storica passa attraverso la consapevolezza della storicità della stessa ragione, e tuttavia quest’ultima, proprio dall’interno della storia, assicura quel legame che collega tra loro le singole produzioni storiche, evitando che si presentino come totalmente irriducibili e eterogenee tra loro. Storicismo e valori: Troeltsch e Meinecke. Ernst Troeltsch (18651923) denuncia i pericoli del relativismo della tradizione storicistica. I rischi relativistici, che la difesa dell’individualità comporta, possono essere neutralizzati facendo ricorso al concetto di valore, come ciò che tiene insieme i singoli eventi in una totalità. Lo storicismo vede nella storia l’ambito del compromesso tra l’intenzione e la responsabilità di chi agisce e l’insieme delle circostanze storiche effettive in cui l’azione stessa si inscrive. Friedrich Meinecke (1862-1954) si muove in parte nella stessa linea di revisione critica inaugurata da Troeltsch, basata sulla rinuncia definitiva a ogni forma di conciliazione tra ideale e reale, tra ragione e realtà.

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SINTESI CAPITOLO 12

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parte II La svolta del Novecento Meinecke osserva che non solo nella storia non si dà progresso, ma che il suo stesso significato ci rimane precluso, ignoto. È solo l’agire responsabile dell’uomo a dare un senso alla storia, tenendo conto dei condizionamenti che quest’ultima impone. Spengler e il tramonto dell’Occidente. Oswald Spengler (1880-1936) non può essere considerato in senso stretto un esponente dello storicismo, ma condivide con quest’ultimo l’idea di una profonda differenza tra lo studio della storia e quello della natura, dal momento che la seconda è caratterizzata da fenomeni uniformi e ripetitivi che non si ritrovano nella prima.

N ella sua opera principale, Il tramonto dell’Occidente, Spengler propone una vera e propria “rivoluzione copernicana” nel campo della storia, tale da comportare l’abbandono di ogni prospettiva eurocentrica e insieme di ogni ricostruzione puramente lineare e continuistica: la storia universale è invece l’espressione di una molteplicità di civiltà tra loro irriducibili la cui comparsa è puramente casuale, non risponde ad alcuna ragione o alcun piano determinato, e dev’essere solo riconosciuta come tale. Tutte le civiltà sono forme autonome, chiuse, prive di contatti reciproci e concepite in sé come organismi per cui ciascuna ripercorre per proprio

conto le tappe di sviluppo di ogni vivente: l’infanzia, la gioventù, la maturità e la senescenza. Questo permette di formulare una teoria generale della storia: tutte le civiltà affrontano le stesse fasi vitali, e tutte sono destinate a morire (ciò che permette appunto di pronosticare anche la fine dell’Occidente). Se dunque la storia non presenta la stessa regolarità della natura, una considerazione scientifica di essa rimane comunque possibile proprio perché, anche se i contenuti determinati delle civiltà storiche sono sempre diversi, la sequenza con cui tali contenuti si succedono in ogni civiltà o forma è più o meno simile o costante.

• W. Dilthey, La vita di Schleiermacher, vol. I, trad. di F. D’Alberto, Liguori, Napoli 2008; W. Dilthey, Scritti filosofici (1905-1911), trad. di P. Rossi, Utet, Torino 2004; W. Dilthey, Esperienza vissuta e poesia, trad. di N. Accolti e G. Vitale, Il Nuovo Melangolo, Genova 1999.

Sulla presenza e sul ruolo di Dilthey all’interno dello storicismo si veda: P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Edizioni di Comunità, Milano 1994, in part. parte I; F. Tessitore, Introduzione a Lo storicismo, Laterza, Roma-Bari 20034, in part. cap. III.

Per quanto riguarda Troeltsch e Meinecke si ricordano: E. Troeltsch, Lo storicismo e i suoi problemi, trad. di G. Cantillo e F. Tessitore, 3 voll., Guida, Napoli 1985-93; E. Troeltsch, Scritti scelti, trad. di F. Ghia, Utet, Torino 2005; F. Meinecke, La storia e il presente, in Senso storico e significato della storia, trad. di M.T. Mandalari, con un’appendice di B. Croce, Esi, Napoli 1948 (nuova ed. a cura di F. Tessitore, Esi, Napoli 1980); F. Meinecke, Le origini dello storicismo, trad. di M. Biscione, C. Gundolf, G. Zamboni, Sansoni, Firenze 1973.

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BIBLIOGRAFIA Fonti

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W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, vol. I, trad. di G.A. de Toni, riv. da G.B. Demarta, Bompiani, Milano 2007. W. Dilthey, La costruzione del mondo storico, in Critica della ragione storica, trad. di P. Rossi, Einaudi, Torino 1982. W. Dilthey, Nuovi studi sulla costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, in Critica della ragione storica, cit. O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, a cura di R. Calabrese Conte, M. Cottone, F. Jesi, Longanesi, trad. di J. Evola, Milano 2008.

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Opere Tra gli scritti di Dilthey, oltre a quelli citati nelle “Fonti”, bisogna ricordare: W. Dilthey, Idee per una psicologia analitica e descrittiva, in Per la fondazione delle scienze dello spirito. Scritti editi e inediti, trad. di A. Marini, Franco Angeli, Milano 2003; W. Dilthey, Contributi allo studio dell’individualità, in Per la fondazione delle scienze dello spirito, cit.; W. Dilthey, L’origine dell’ermeneutica, in Ermeneutica e religione, trad. di G. Morra, Rusconi, Milano 1992; Carteggio tra Wilhelm Dilthey e il conte Paul York von Wartenburg (1877-1897), in P. York von Wartenburg, Tutti gli scritti, a cura di F. Donadio, Bompiani, Milano 2006;

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Sull’influenza di Dilthey su alcuni problemi della filosofia contemporanea si veda: A. Marini, Alle origini della filosofia contemporanea. Wilhelm Dilthey. Antinomie dell’esperienza, fondazione temporale del mondo umano, epistemologia della connessione, Franco Angeli, Milano 2008.

Sulla lettura heideggeriana di Dilthey si rimanda al testo delle conferenze di Kassel: M. Heidegger, Il lavoro di ricerca di Wilhelm Dilthey e l’attuale lotta per una visione storica del mondo. 10 conferenze (Kassel, 16-21 aprile 1925), trad. di F. Donadio, Guida, Napoli, 2001.

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Studi critici

Per uno sguardo di insieme sull’opera di Troeltsch e Meinecke si vedano: P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, cit., in part. parte VI; • F. Tessitore, Introduzione a Lo storicismo, cit., in part. cap. IV; F. Tessitore, Introduzione a Meinecke, Laterza, Roma-Bari 1998.

Per un’introduzione al pensiero di Dilthey si rimanda a: F. Bianco, Introduzione a Dilthey, Laterza, Roma-Bari 20052.

Per un’introduzione alla figura e al pensiero di Spengler si veda: D. Conte, Introduzione a Spengler, Laterza, Roma-Bari 1997.

Di Spengler si veda anche: O. Spengler, L’uomo e la tecnica. Ascesa e declino della civiltà delle macchine, trad. di A. Treves, Edizioni della Meridiana, Firenze 2008.

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ESERCIZI

Dilthey e lo storicismo capitolo 12 1. Definisci brevemente il concetto di storicismo (max 10 righe). 2. In che senso si può affermare che lo storicismo di Dilthey si propone non solo di fondare lo statuto epistemologico delle scienze dello spirito quanto piuttosto di ripensare la razionalità nel suo insieme? (max 15 righe) 3. Illustra il progetto filosofico di Dilthey come il tentativo da un lato di garantire l’oggettività delle scienze dello spirito e dall’altro di preservare la loro autonomia dalle scienze naturali (max 10 righe). 4. Spiega perché, secondo Dilthey, nell’ambito delle scienze dello spirito, non può valere la netta distinzione tra soggetto e oggetto che è tipica delle scienze naturali (max 15 righe).

5. In che senso si può affermare che la filosofia di Dilthey, pur riconoscendo la strutturale storicità dell’uomo, non consegue un esito puramente relativistico? (max 10 righe) 6. Presenta il concetto di comprensione inteso come processo di interpretazione delle manifestazioni passate della vita stessa, oggettivate in testi e documenti di ogni tipo (max 10 righe). 7. Spiega come Troeltsch e Meinecke ricorrono al concetto di valore per neutralizzare i rischi relativistici virtualmente insiti nello storicismo (max 10 righe). 8.Discuti dell’opportunità di inserire Spengler nella corrente dello storicismo (max 10 righe). 9. Descrivi il concetto di civiltà secondo la morfologia storica di Spengler (max 10 righe).

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capitolo 13

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1 Uno scienziato alla ricerca del senso Storico, economista, sociologo, politico, Max Weber non si presenta come un vero e proprio filosofo. Non si dà nel suo percorso una costruzione sistematica separata dallo sforzo di affrontare problemi specifici di ricerca; il suo programma non prevede l’elaborazione di una teoria generale della conoscenza da applicare poi alle singole discipline; e nei suoi progetti non troviamo neanche la formulazione autonoma e a sé stante di una teoria del metodo delle scienze sociali ovvero di una vera e propria dottrina della scienza. In Weber la ricerca empirica, la ricerca specialistica e la riflessione metodologica generale procedono sempre di pari passo. Ciò contribuisce a dare alla sua riflessione un inconfondibile carattere di concretezza e di rigore, che si accompagna a una vigile attenzione nei confronti delle contraddizioni e dei movimenti profondi dell’intera realtà: proprio il tentativo di indagare il mondo contemporaneo nelle sue crisi può essere considerato uno degli apporti più originali di Weber alla riflessione novecentesca.

Ciò che è caratteristico dell’approccio di Weber alla società contemporanea è la consapevolezza che la scienza non abbia nulla da dire riguardo alle cosiddette questioni di senso (per esempio: che cosa dobbiamo fare?, come dobbiamo vivere?). La scienza riguardainfatti essenzialmente l’uso dei mezzi necessari all’uomo per raggiungere determinati scopi (tra cui il dominio sulla natura) più che la determinazione di questi stessi scopi. È così per Weber illusorio attendersi dalla scienza un orientamento esistenziale: essa resta tuttavia utile per chiarire le condizioni concrete in cui l’uomo può realizzare i suoi scopi e i suoi valori. Da questo punto di vista, la scienza e ancor più in particolare la filosofia hanno il compito di assicurare una chiarificazione non dell’esistenza umana in quanto tale, ma delle condizioni in cui l’uomo si trova a condurla. Maximilian Carl Emil Weber nasce ad Erfurt nel 1864. Durante gli anni di studio universitari – in cui segue corsi di economia, storia e diritto nelle Università di Heidelberg, Strasburgo, Berlino e Gottinga – diviene ufficiale dell’esercito imperiale (partecipando a diverse manovre militari) e membro dell’Associazione per la politica sociale (un gruppo studentesco che mirava alla

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Max Weber capitolo 13

fondazione di una nuova teoria sociologica, capace di unire sviluppo sociale, conoscenza scientifica e pratica politica). Nel 1889 si laurea in diritto commerciale e nel 1891 ottiene l’abilitazione alla libera docenza: inizia così la carriera universitaria, insegnando prima nell’Università di Friburgo e poi ad Heidelberg. Qui, colpito da un grave esaurimento nervoso, fu costretto a rinunciare all’insegnamento. Per quattro anni non riesce a compiere nessun lavoro e si dedica ai viaggi (è anche in Italia). Nel 1902 riprende la ricerca scientifica dedicandosi all’Archivio per la scienza sociale e la politica sociale – del quale è condirettore insieme a Werner Sombart. N el 1907 un’eredità gli consente di ritirarsi dall’insegnamento e di dedicarsi completamente agli studi. Il suo salotto di Heidelberg è frequentato da alcuni dei più importanti intellettuali dell’epoca, fra i quali per esempio Windelband [ 11.3.1], Troeltsch [ 12.5] e Simmel [ 20.1.2]. È inoltre fra i promotori dell’Associazione tedesca di sociologia, dalla quale tuttavia uscirà nel 1912, a causa di divergenze sulla questione della avalutatività [ 13.2]. Allo scoppio della guerra nel 1914, coerentemente con la sua approvazione delle motivazioni “ideali” del conflitto, chiede di essere richiamato come ufficiale di riserva e sino alla fine del 1915 presta servizio come direttore di un gruppo di ospedali militari. Tuttavia, le difficoltà del conflitto, il bellicismo e il piano della guerra sottomarina, lo portano progressivamente a sostenere non solo la pace, ma una più ampia riforma politica, capace di istituire in Germania una repubblica parlamentare. N el 1918 tiene presso l’Università di Vienna una conferenza Sul Socialismo (in cui nega qualunque possibilità di una sua realizzazione) e aderisce al Partito democratico tedesco, presentandosi – senza successo – come candidato all’Assemblea nazionale. Viene tuttavia chiamato come tecnico a collaborare alla redazione della Costituzione della nuova Repubblica tedesca (la Repubblica di Weimar) e, dopo la capitolazione della Germania, è nominato esperto presso la delegazione tedesca a Versailles. Nel 1919 accetta una cattedra all’Università di Monaco e nel 1920, in polemica con le concessioni fatte al programma di socializzazione dei socialdemocratici, abbandona il Partito democratico. Muore nel giugno dello stesso anno, a Monaco, per le conseguenze di una polmonite.

2 La riflessione metodologica sulle “scienze della cultura” Weber prende parte al dibattito che ha luogo in Germania tra Ottocento e N ovecento riguardo allo statuto epistemologico e metodologico delle scienze storico-sociali. La riflessione metodologica su questo tipo di scienze, chiamate da Weber “scienze della cultura”, costituisce il tema dominante di una serie di saggi apparsi tra il 1903 e il 1917. L’orizzonte di riferimento è rappresentato in questo caso dal neokantismo (soprattutto nella versione di Rickert:  11.3.2) e dallo storicismo [ 12]: i problemi di fondo riguardano infatti da una parte la validità di quelle discipline che non si lasciano ridurre al modello delle scienze della natura e dall’altra l’individuazione delle condizioni che consentono a questo tipo di scienze di pervenire a una conoscenza oggettiva. Ma Weber apporta a tale riflessione un contributo innovativo che imprime una svolta decisiva nella considerazione di ciò che effettivamente deve distinguere e tenere separate scienze della natura e scienze storico-sociali. La prima condizione dell’oggettività del sapere delle scienze storico-sociali – come ogni altra scienza – è rappresentata per Weber dall’“avalutatività”, cioè dalla “libertà dal valore” o dall’assenza di qualsiasi giudizio di valore: una scienza è tale nella misura in cui si limita ad accertare empiricamente i dati di fatto, senza pretendere di elevare i giudizi di fatto a giudizi di valore. La conoscenza scientifica non può imporre norme e direzioni all’agire dell’uomo, non può prescrivere come valutare i comportamenti, né può essere il banco di prova della propria visione del mondo. Occorre dunque, come Weber scrive nel saggio del 1904 sull’“Oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, tenere salda la distinzione tra la conoscenza di ciò che è e la conoscenza di ciò che deve essere, tra il «dovere scientifico di vedere la realtà dei fatti» e il «dovere pratico di sostenere i propri ideali». Ma se a valle, per così dire, delle scienze storico-sociali non può darsi nessun giudizio di valore, a monte esse esigono invece una precisa “relazione ai valori”. Rifacendosi alle indicazioni metodologiche di Rickert, Weber utilizza tale nozione per esprimere il fatto che nella conoscenza storica l’avvio dell’indagine è dato sempre da un punto di vista soggettivo, dall’inte-

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resse con cui il singolo ricercatore individua l’oggetto e la direzione della sua indagine.



Una minima parte della realtà individuale di volta in volta considerata è investita dal nostro interesse condizionato da quelle idee di valore; essa soltanto ha significato per noi, e lo ha in quanto mostra relazioni che sono per noi importanti in virtù della loro connessione con idee di valore. Esclusivamente in questo caso, infatti, essa è per noi degna di venir conosciuta nella sua specificità. Ciò che ha significato per noi non può naturalmente essere inferito attraverso alcuna indagine del dato empirico che sia condotta “senza presupposti”; al contrario, la sua determinazione è il presupposto per stabilire che qualcosa diventa oggetto dell’indagine. [L’“oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, II]



La relazione ai valori assume pertanto un significato esclusivamente euristico, cioè strumentale, e metodologico: essa vale come criterio di selezione – all’interno della molteplicità infinita, sia in senso intensivo che in senso estensivo, dei dati empirici – di ciò che è significativo e rilevante ai fini della costituzione dell’oggetto storico. Il ricorso ineludibile ad un principio di selezione si giustifica per Weber alla luce dello scarto fondamentale tra l’intelletto umano finito e l’infinità del dato empirico. Proprio l’inesauribilità conoscitiva del reale richiede appunto che solo una parte di esso e possibilmente una parte significativa risulti degna di diventare l’oggetto della considerazione scientifica e quindi di essere conosciuta:



la vita ci offre una molteplicità assolutamente infinita di processi che sorgono e scompaiono in un rapporto reciproco di successione e di contemporaneità, in “noi” e “al di fuori di” noi. E l’assoluta infinità di questo molteplice rimane intensivamente nient’affatto diminuita anche quando prendiamo in considerazione un singolo “oggetto” isolatamente – per esempio un atto concreto di scambio – e cerchiamo seriamente anche soltanto di descriverlo in maniera esaustiva in tutti i suoi elementi individuali, per non parlare poi di coglierlo nel suo condizionamento causale. Ogni conoscenza concettuale della realtà infinita da parte dello spirito umano finito poggia infatti sul presupposto tacito che soltanto una parte finita di es-

sa debba formare l’oggetto della considerazione scientifica, e perciò risultare “essenziale” nel senso di essere “degna di venir conosciuta”. [L’“oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, II]



Tuttavia, a differenza di Rickert, Weber non attribuisce ai valori una validità incondizionata e universale: essi sono e restano sempre criteri di scelta che rappresentano a loro volta solo un oggetto di scelta. Da ciò discende il fondamentale e ineliminabile carattere di unilateralità dell’indagine storica: la conoscenza storica muove sempre da un determinato punto di vista e da un particolare interesse di ricerca, attraverso cui procede di volta in volta a delimitare il proprio ambito di conoscenza. Ora, l’affermazione della relatività dei criteri di scelta e il riconoscimento della soggettività dei presupposti non rischiano forse di compromettere proprio l’esigenza, anche per le scienze storicosociali, di pervenire a risultati oggettivamente validi, lasciando invece la ricerca in balia del fattore soggettivo e arbitrario, ovvero della scelta del ricercatore? Per Weber, la garanzia di oggettività della conoscenza storica proviene, oltre che dal criterio generale dell’avalutatività, anche e soprattutto dal modello della spiegazione causale. L’indagine delle scienze storico-sociali può rivestire carattere propriamente scientifico e ambire all’oggettività solo se spiega, per comprenderli, i fenomeni osservati secondo connessioni logiche di causa ed effetto. Dunque, anche la conoscenza prodotta dalle scienze storicosociali è, come nel caso delle scienze della natura, una conoscenza causale: tuttavia, mentre in queste ultime la spiegazione causale ha come scopo quello di inserire i singoli fenomeni osservati all’interno di un sistema generale di leggi, nelle scienze storico-sociali essa ha come intento quello di comprendere un fenomeno o un processo nella sua individualità e specificità. Per far ciò, l’indagine storica deve in primo luogo procedere alla scelta, tra l’infinito numero di fattori che condizionano e determinano un oggetto storico, di una serie causale finita di fattori, che costituisce così il determinato e particolare campo di ricerca. Tale scelta viene effettuata ancora sulla base dei valori che orientano la ricerca:



Noi ci chiediamo in primo luogo […] come sia in linea di principio possibile, e realizzabile,

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Max Weber capitolo 13

l’imputazione di un “effetto” concreto a una “causa” particolare, in considerazione del fatto che in verità sempre un’infinità di momenti causali ha condizionato il venire alla luce del processo particolare, e che per il presentarsi dell’effetto nella sua forma concreta erano indispensabili senz’altro tutti quei particolari elementi causali. La possibilità di una selezione entro l’infinità degli elementi determinanti è condizionata in primo luogo dal tipo del nostro interesse storico. [Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura, II]



In secondo luogo, l’indagine deve verificare, ovvero sottoporre a prova, la possibilità che sussista proprio quel determinato rapporto causale tra il fenomeno o processo da spiegare e la specifica serie di condizioni a cui è stato ricondotto sulla base di una selezione:



La nostra questione specifica è però di stabilire mediante quali operazioni logiche cogliamo, e possiamo giustificare dimostrativamente, il fatto che esiste una siffatta relazione causale tra quegli elementi “essenziali” dell’effetto e determinati elementi entro l’infinità dei momenti determinanti. [Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura, II]



Per affrontare questo compito, Weber ricorre, attraverso la nozione di possibilità oggettiva, all’elaborazione di un quadro concettuale che, facendo riferimento a generalizzazioni empiriche e poggiando su una serie di astrazioni, mette capo a un processo possibile distinto da quello che effettivamente e storicamente si è avuto e che è oggetto di spiegazione e analisi. La costruzione di un processo possibile avviene escludendo in via ipotetica e astratta un elemento o un certo numero di elementi dal processo indagato, per poi determinare se, alla luce di tale esclusione, il processo si sarebbe svolto comunque o se l’esito sarebbe stato differente. Per spiegare questo procedimento, Weber ricorre all’esempio della battaglia di Maratona. Al fine di determinare il significato e la portata storica di tale battaglia per lo sviluppo culturale dell’Occidente, occorre per via ipotetica costruire un processo che partendo dall’esclusione di tale battaglia arrivi alla rappresentazio-

ne di un esito diverso da quello che effettivamente si è avuto, come per esempio il dominio persiano sul mondo greco, con il conseguente sviluppo di una cultura religioso-teocratica. Per evitare che tale costruzione risulti arbitraria, essa deve poggiare appunto su generalizzazioni empiriche, ovvero su quelle che Weber chiama «regole generali dell’esperienza, dell’accadere», tratte dall’osservazione delle conseguenze che il dominio persiano ha comportato in quelle regioni dove effettivamente aveva potuto imporsi. Il confronto che si stabilisce così tra il processo reale e quello possibile consente di attribuire la dovuta importanza alla battaglia di Maratona per lo sviluppo dell’intera civiltà occidentale. Il risultato di tale procedimento di costruzione concettuale è la formulazione di giudizi di possibilità oggettiva, cioè di «asserzioni su ciò che “sarebbe” avvenuto in caso di esclusione o di modifica di certe condizioni» [Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura, II]. La spiegazione causale nella conoscenza storica non consiste quindi nel riconoscere un rapporto necessario tra un avvenimento e gli elementi a cui è riportato, bensì nel considerare tale rapporto alla luce della categoria della possibilità, che perciò assume, agli occhi di Weber, un significato fecondo, positivo:



La categoria della “possibilità” non viene quindi impiegata nella sua forma negativa, cioè nel senso in cui è espressione della nostra ignoranza, o dell’incompiutezza del nostro sapere, in antitesi al giudizio assertorio o apodittico; al contrario, essa significa qui il riferimento a un sapere positivo concernente “regole dell’accadere”, cioè al nostro sapere “nomologico”, come si dice di solito. [Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura, II]



La causalità storica così intesa consente il recupero nell’ambito delle scienze storico-sociali di un sapere di tipo nomologico (cioè fondato su leggi): per la spiegazione di un fenomeno nella sua individualità occorre in effetti per Weber far ricorso non solo a concetti generali, ma a vere e proprie regole generali del divenire. Tuttavia, il sapere nomologico svolge qui una funzione esclusivamente strumentale, perché non costituisce, come nel caso delle scienze della natura,

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il vero e proprio esito del processo conoscitivo, bensì solo un suo momento. Importanza notevole assume a questo proposito la nozione weberiana di “tipo ideale”, che non è una rappresentazione fedele della realtà, bensì un quadro concettuale unitario e privo di contraddizioni, un’astrazione che lo studioso ottiene raccordando tra loro elementi tratti e isolati, sulla base del suo interesse, dalla molteplicità del dato empirico. Un tipo ideale è in questo senso un’“utopia”, perché non trova mai nella realtà una precisa e immediata corrispondenza; e tuttavia esso rappresenta un criterio di comparazione della realtà empirica, un concetto-limite a cui la realtà deve essere commisurata e comparata, per riuscire a evidenziare gli elementi significativi del suo contenuto empirico. Il tipo ideale (come possono essere per esempio il capitalismo, il cristianesimo, lo Stato, la Chiesa, le sette, ecc.) svolge quindi anch’esso una funzione esclusivamente strumentale: esso consente di conoscere i fenomeni nella loro connessione, nel loro rapporto causale e nel loro significato.

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1. Secondo Weber, in che modo interviene nel lavoro scientifico il riferimento ai valori? a. Nella scelta dell’argomento. b. Nel definire la metodologia della ricerca. c. Per orientare il corso della ricerca. d. Col prescrivere i criteri di valutazione dei fatti. 2. Il ricorso al modello di spiegazione causale nelle scienze storico-sociali è giustificabile in quanto: a. colloca i fenomeni osservati all’interno di un sistema di leggi. b. mira a riconoscere l’individualità e specificità di un fenomeno. c. giunge alla formulazione di giudizi di possibilità oggettiva. d. mette capo a un processo necessario che collega un avvenimento alle sue cause.

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3 La sociologia comprendente L’indagine storica, che è una conoscenza rivolta all’individuale, ricorre comunque a concetti universali o generali propri del sapere nomologico, ovvero di quelle discipline (in questo caso

soprattutto della sociologia) che fanno delle connessioni e delle regolarità, della costruzione di concetti tipico-ideali il loro proprio oggetto. In questo senso, la sociologia, almeno in questa fase del percorso weberiano, appare subordinata alla storia, destinata a giocare il ruolo di semplice dispensatrice degli strumenti concettuali adatti alla conoscenza. Tuttavia, a partire soprattutto dal 1910, Weber porrà sempre più al centro della sua riflessione metodologica la sociologia, nel tentativo di fondarla e riconoscerla come scienza autonoma e indipendente dalla storia. Nel saggio su Alcune categorie della sociologia comprendente (1913), Weber elabora appunto il disegno di una sociologia il cui oggetto è dato dalle uniformità dell’agire umano – uniformità che si presentano in questo caso come dotate di significato e che per questo possono essere interpretate mediante il comprendere. Pur riprendendo la nozione diltheyana [ 12.2-4] di comprensione, Weber mette da parte la contrapposizione tra comprensione e spiegazione: il compito della sociologia consiste nel comprendere il senso dell’agire umano come un agire sociale, che cioè si riferisce costantemente all’agire degli altri individui. Il senso di tale agire non ha un valore normativo o un significato metafisico: si tratta piuttosto del senso che lo stesso individuo attribuisce al proprio atteggiamento. Inoltre, l’agire sociale è tale per cui in esso l’intenzione del soggetto non si determina sulla base di fini puramente individuali, ma si collega appunto alle intenzioni degli altri soggetti. Per questo, comprendere il senso dell’agire significa per la sociologia determinare la direzione e il termine a cui l’agire si riferisce, cioè spiegare il fatto che esso è reso possibile solo in relazione a certe condizioni. In Economia e società (opera apparsa postuma nel 1922), Weber distingue quattro tipi di agire, a partire appunto dal diverso orientamento che li determina. Due di queste forme, anche se in maniera profondamente diversa, presentano un carattere razionale: 1. l’agire razionale rispetto a uno scopo, che è orientato all’individuazione dei mezzi necessari alla realizzazione di quello scopo; 2. l’agire razionale rispetto al valore, che è orientato esclusivamente in vista dello scopo, a prescindere dai mezzi necessari per realizzarlo.

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A queste prime due forme si affiancano: 3. l’agire affettivo, che è determinato dagli affetti e dagli stati d’animo; 4. l’agire tradizionale, che è determinato da consuetudini e abitudini. Queste forme di agire sociale costituiscono ognuna un tipo ideale, concetti puri creati per scopi sociologici, a cui l’agire concreto può avvicinarsi in misura maggiore o minore. Se l’oggetto della sociologia comprendente è l’agire orientato verso quello degli altri individui, si capisce anche l’importanza che Weber attribuisce alle forme di relazione sociale. Queste non rappresentano entità trascendenti, strutture necessarie, indipendenti e poste al di sopra degli stessi individui: esse, riposando proprio sull’atteggiamento di una pluralità di singoli individui, si configurano invece come strutture problematiche. Alla luce del modo in cui gli individui si rapportano tra di loro, Weber distingue due forme di relazione sociale: a. la comunità (Gemeinschaft), che poggia sul sentimento soggettivo che gli individui provano di una appartenenza comune; b. la società (Gesellschaft), che si fonda invece su una identità o legame di interessi motivato razionalmente, per esempio attraverso una stipulazione in cui gli individui si impegnano reciprocamente. Tra le relazioni sociali riveste poi notevole rilievo la cosiddetta “relazione di potere”: il potere, inteso come la possibilità che un determinato comando trovi obbedienza (e quindi legittimità) presso un gruppo di persone, si oppone alla mera potenza, che invece fa valere la propria volontà in una relazione sociale come imposizione, a prescindere dal fatto che trovi o non trovi obbedienza da parte degli altri. Un gruppo sociale si designa come gruppo di potere allorché i suoi membri, sulla base di un ordinamento stabilito, si trovano sottoposti a relazioni di potere. Tali relazioni si fondano sull’uso della forza, che nel caso dello Stato moderno viene considerato legittimo, in quanto garanzia degli ordinamenti e addirittura suo elemento costitutivo:



Oggi dovremmo dire che lo Stato è quella comunità di uomini che, all’interno di un deter-

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minato territorio […], pretende per sé (con successo) il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica. […] Lo Stato consiste in una relazione di potere di alcuni uomini su altri uomini fondata sul mezzo dell’uso legittimo (vale a dire: considerato come legittimo) della forza. Affinché esso sussista, i dominati devono dunque sottomettersi all’autorità cui pretendono coloro che di volta in volta detengono il potere. [La politica come professione]



Si danno tre tipi di potere a seconda del senso della loro legittimità, che può essere: 1. di carattere razionale, quando si fonda sulla credenza nella legalità degli ordinamenti statuiti e sul diritto di comando di coloro che esercitano il potere (potere legale); 2. di carattere tradizionale, quando si fonda sulla credenza nel carattere sacro delle tradizioni (potere tradizionale); 3. di carattere carismatico, quando si fonda sulla dedizione al carattere sacro, alla forza eroica e al valore esemplare di una persona (potere carismatico). 1. Il compito della sociologia consiste: a. nel comprendere il senso che l’individuo attribuisce al proprio comportamento. b. nello stabilire le norme del comportamento umano. c. nel comprendere i valori che determinano l’agire umano. d. nel comprendere l’agire sociale dell’uomo.

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4 Etica protestante e spirito del capitalismo Con le riflessioni sociologiche sul potere e le sue forme, e soprattutto sullo Stato moderno, Weber giunge ad affrontare l’analisi della società moderna nel suo complesso. La civiltà occidentale moderna si caratterizza per un crescente e profondo processo di razionalizzazione che investe tutte le sfere della vita, e che configura tutti i rapporti sociali secondo un assetto sempre più tecnico e controllato, o per usare il suo termine, sempre più “burocratizzato”. Una componente fondamentale di tale processo è rappresentata dall’economia capitalistica:

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essa presenta una sua specificità storica che la differenzia non solo da altre forme di economia, ma anche da altre forme di capitalismo che si sono date nel corso della storia. Proprio al tentativo di indagare e spiegare tale unicità storica del capitalismo moderno all’interno dell’Occidente, analizzando le condizioni della sua genesi e del suo sviluppo, Weber dedica il famoso saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-5) [ T42]. Il capitalismo moderno si presenta come una forma di economia a struttura razionale, che rientra a pieno titolo nella civiltà occidentale moderna, orientata appunto razionalisticamente. Il problema per Weber è tuttavia quello di comprendere in base a quali circostanze, a quali processi ed elementi qualcosa come il capitalismo moderno abbia guadagnato sempre più spazio nell’orizzonte economico. Per rispondere a tale interrogativo non ci si può limitare unicamente alla considerazione di quelle che si presentano come le caratteristiche strutturali intrinseche del capitalismo (per esempio la contabilità razionale del capitale, l’organizzazione razionale del lavoro, la separazione tra amministrazione domestica e impresa, l’impiego di lavoratori liberi legati all’impresa da un contratto, l’esistenza di un mercato libero, ecc.), ma occorre anche e soprattutto individuare le fondamenta della mentalità, di quello che Weber chiama “spirito del capitalismo”. Il processo di formazione del capitalismo moderno trova la sua origine per Weber nell’etica protestante, in particolar modo calvinista. Per l’uomo di fede riformata è Dio che decide della sua salvezza o della sua dannazione; il credente, in base alla sua fede, può solo sperare di essere stato toccato dalla grazia divina, ma non può né conoscerne il disegno né mutarne il senso. Tuttavia, proprio il senso di angoscia che l’inconoscibilità del proprio destino ultraterreno genera negli uomini spinge paradossalmente questi ultimi a cercare una conferma della propria salvezza attraverso l’impegno nel mondo, la dedizione moralmente orientata alla propria professione, vissuta come vera e propria vocazione (in tedesco vi è uno stesso termine che significa ‘professione’ e ‘vocazione’: Beruf).



Trova dunque espressione nel concetto di Beruf quel dogma centrale di tutte le denominazioni protestanti […], che riconosce come solo

mezzo per vivere in maniera grata a Dio, non il superamento tramite l’ascesi monacale della morale di chi vive nel mondo, ma esclusivamente l’adempimento dei propri doveri mondani, quali essi risultano dalla posizione di ciascuno nella vita, funzione che con ciò appunto diventa la sua “vocazione” [Beruf]. [L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, I, cap. 3]



Questo è ciò che definisce l’etica protestante: un’etica cioè che mette al centro di tutto la cura dei propri compiti mondani, l’adempimento indefesso dei propri doveri professionali. Ciò che il Dio del calvinismo esige dall’uomo non sono opere buone ma una «santità di opere elevata a sistema», e cioè una prassi etica metodica e razionale. Lo spirito del capitalismo consiste allora appunto nell’affermazione e nella ricerca del profitto come valore in sé, nella coscienza del dovere professionale come dovere morale.



L’ascesi intramondana protestante […] operò con grande violenza contro il godimento spregiudicato della proprietà, e restrinse il consumo, in specie il consumo di lusso. D’altra parte essa liberò, nei suoi effetti psicologici, l’acquisizione di beni dagli ostacoli dell’etica tradizionalistica, ruppe i vincoli della tendenza al guadagno, in quanto non solo la legalizzò, ma addirittura la riguardò come voluta da Dio […]. Ma, cosa ancor più importante: la valutazione religiosa del lavoro professionale laico, indefesso, continuo, sistematico, come del più alto mezzo ascetico, e al tempo stesso come della più sicura e visibile conferma e prova dell’uomo rigenerato e della sincerità della sua fede, doveva esser la leva più potente che si potesse pensare per l’espansione di quella concezione della vita, che noi abbiamo definito come “spirito del capitalismo”. [L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, II, cap. 2]



1. Weber colloca l’origine del processo di formazione della mentalità capitalistica nell’etica calvinista in quanto il credente: a. cerca conferma della propria salvezza nel successo mondano. V b. ritiene di meritare la salvezza attraverso le buone opere. V c. cerca di adempiere ai propri doveri professionali. V d. si orienta verso un’ascesi intramondana. V

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5 Disincantamento del mondo e responsabilità intellettuale Le due conferenze che Weber tenne a Monaco rispettivamente nel 1917, La scienza come professione, e nel 1919, La politica come professione, offrono un’analisi ancora più articolata e profonda della modernità. Il punto di partenza di questa ulteriore disamina della contemporaneità è la constatazione che anche il progresso scientifico rappresenta una parte, anzi la parte più importante, del processo di razionalizzazione e intellettualizzazione che caratterizza la cultura occidentale. Ora, tale crescente processo di razionalizzazione implica la consapevolezza del fatto che è ormai possibile dominare tutte le cose attraverso i mezzi della tecnica e il calcolo razionale, e non più invece attraverso mezzi magici, perché il mondo non sembra ormai più in balia di forze misteriose e totalmente imprevedibili. In altri termini, la razionalizzazione indica per Weber il «disincantamento del mondo». In questo progressivo movimento di consunzione delle immagini magiche del mondo gioca un ruolo fondamentale, quale vera e propria forza motrice, la scienza. Ma qual è il senso della scienza come professione, in un mondo in cui sono naufragate ormai tutte le illusioni legate in passato proprio all’immagine della scienza (intesa come la via per giungere al vero essere, alla vera arte, a Dio, alla felicità)? Che valore può avere la scienza per colui che decide di dedicarsi ad essa? La risposta a tali interrogativi è per Weber negativa: la scienza non ha un senso, perché essa non dice all’uomo cosa deve fare e come deve vivere. Le scienze naturali per esempio forniscono una risposta alla domanda su cosa si deve fare se si vuole dominare tecnicamente la vita, ma non dicono nulla del fatto se si deve o meno dominare la vita tecnicamente e se questa scelta abbia poi un senso e quale. Allo stesso modo, le scienze storiche della cultura aiutano a comprendere i fenomeni della cultura a partire dalle condizioni del loro sorgere, ma non dicono nulla della validità del loro oggetto (se sia degno di sussistere e se valga la pena conoscerlo). È impossibile per la scienza assolvere al compito di orientare l’uomo nella decisione circa il senso del mondo e del proprio agire in esso: non è possibile decidere “scienti-

ficamente” tra i valori, perché, osserva Weber, di fronte a noi si apre una realtà caratterizzata da una molteplicità di valori opposti, da un «politeismo di valori» in conflitto irrisolvibile tra di loro. Ma se le cose stanno così, si chiede Weber, cosa offre la scienza di positivo per la vita? Oltre alla funzione tecnica (mettere a disposizione conoscenze utili per dominare razionalmente la realtà), la scienza offre all’uomo la chiarezza, la possibilità cioè di orientare razionalmente il proprio agire in modo responsabile, individuando per la realizzazione dei propri scopi i mezzi più idonei. Questo è l’unico “senso” che si può dare nell’epoca del disincantamento, «un’epoca lontana da Dio e priva di profeti» [La scienza come professione]. L’unico orientamento etico coerente con la razionalità tecnico-scientifica dell’epoca moderna è quello orientato nel senso di un’“etica della responsabilità”. In antitesi all’“etica dei princìpi”, in cui l’individuo agisce in base a intenzioni e valori restando indifferente rispetto ai risultati e alle conseguenze della sua azione, secondo l’etica della responsabilità l’uomo risponde in prima persona delle conseguenze del proprio agire [ T36]. Chi non riesce a sopportare tale destino, per cui di fronte a sé non ha «la fioritura dell’estate, ma in primo luogo una notte polare di gelida tenebra e di stenti» [La politica come professione], non deve far altro, per Weber, che compiere il «sacrificio dell’intelletto» e votarsi a «un’incondizionata dedizione religiosa», nell’attesa di nuovi profeti e nuovi redentori. Per tutti gli altri, cioè per coloro che corrispondono al dovere della responsabilità intellettuale e non si sottraggono a nessun impegno, si tratterà invece di obbedire a ciò che la vita chiede – non più, o non ancora un Dio, ma un “demone” nascosto nel dovere di ogni giorno – senza attendere in fondo altro senso oltre il rigore della propria coerenza:



Ne vogliamo trarre l’insegnamento che anelare e attendere non basta, e faremo altrimenti: ci metteremo al nostro lavoro e adempiremo alla “richiesta di ogni giorno” – come uomini e nella nostra attività professionale. Ma ciò è semplice quando ognuno abbia trovato e obbedisca al demone che tiene i fili della sua vita. [La scienza come professione]



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SINTESI CAPITOLO 13

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parte II La svolta del Novecento La riflessione metodologica sulle “scienze della cultura”. Weber (1864-1920) prende parte al dibattito sullo statuto epistemologico e metodologico delle scienze storico-sociali per stabilire, da una parte, la validità di quelle discipline che non si lasciano ridurre al modello delle scienze della natura e, dall’altra, per individuare le condizioni che consentono a questo tipo di scienze di pervenire a una conoscenza oggettiva. La prima condizione dell’oggettività del sapere delle scienze storicosociali è rappresentata per Weber dall’“avalutatività”, cioè dall’assenza di qualsiasi giudizio di valore. Ma se a valle, per così dire, delle scienze storico-sociali non può darsi alcun giudizio di valore, a monte esse esigono invece una precisa “relazione ai valori” ed esprimono un particolare punto di vista soggettivo coincidente con l’interesse con cui il singolo ricercatore individua l’oggetto e la direzione della sua indagine. La relazione ai valori assume tuttavia in Weber un significato strumentale e metodologico: essa vale come criterio di selezione di ciò che è significativo ai fini della costituzione dell’oggetto storico e si giustifica alla luce dello scarto fondamentale tra l’intelletto umano finito e l’infinità del dato empirico. La seconda condizione dell’oggettività del sapere delle scienze storicosociali è garantita dal modello della spiegazione causale. La spiegazione causale nella conoscenza storica non consiste tuttavia nel riconoscere un rapporto necessario tra un avvenimento e gli elementi a cui è riportato, bensì nel considerare tale rapporto alla luce della categoria della possibilità. La causalità storica così intesa consente il recupero nell’ambito delle scienze storico-sociali di un sapere di tipo nomologico (cioè fondato su leggi): per la spiegazione di un fenomeno nella sua individualità occorre in effetti per Weber far ricorso a vere e proprie regole generali del divenire. Importanza notevole assume a questo proposito la nozione weberiana di “tipo ideale”, che non è una rappresentazione fedele della realtà, bensì un quadro concettuale unitario e privo di contraddizioni, un’astrazione che lo studioso ottiene raccordando tra loro elementi tratti e isolati, sulla base del suo interesse, dalla molteplicità del dato empirico.

La sociologia comprendente. Weber elabora il disegno di una sociologia come scienza autonoma e indipendente dalla storia il cui oggetto è dato dalle uniformità dell’agire umano. Il compito della sociologia consiste nel comprendere il senso dell’agire umano come un agire sociale. Il senso di tale agire non ha un valore normativo: si tratta appena del senso che lo stesso individuo attribuisce al proprio atteggiamento. Per questo, comprendere il senso dell’agire significa per la sociologia determinare la direzione e il termine a cui l’agire si riferisce, cioè spiegare il fatto che esso è reso possibile solo in relazione a certe condizioni. Se l’oggetto della sociologia comprendente è l’agire orientato verso quello degli altri individui, si capisce anche l’importanza che Weber attribuisce alle forme di relazione sociale. Queste non rappresentano entità trascendenti, strutture necessarie, indipendenti e poste al di sopra degli stessi individui: esse, riposando proprio sull’atteggiamento di una pluralità di singoli individui, si configurano invece come strutture problematiche. Alla luce del modo in cui gli individui si rapportano tra di loro, Weber distingue due forme di relazione sociale: la comunità e la società. Etica protestante e spirito del capitalismo. Con le riflessioni sociologiche sul potere, Weber giunge ad affrontare l’analisi della civiltà occidentale moderna che si caratterizza per un crescente e profondo processo di razionalizzazione che investe tutte le sfere della vita e che configura tutti i rapporti sociali secondo un assetto sempre più tecnico, controllato e “burocratizzato”. Una componente fondamentale di tale processo è rappresentata dall’economia capitalistica moderna. Il capitalismo moderno si presenta come una forma di economia a struttura razionale, che trova la sua origine nell’etica protestante, in particolar modo calvinista. Per l’uomo di fede riformata è Dio che decide della sua salvezza o della sua dannazione; il credente può solo sperare di essere stato toccato dalla grazia divina, ma non può né conoscerne il disegno né mutarne il senso. Tuttavia il senso di angoscia che l’inconoscibilità del proprio destino ultraterreno genera negli uomini

spinge paradossalmente questi ultimi a cercare una conferma della propria salvezza attraverso l’impegno nel mondo, la dedizione moralmente orientata alla propria professione, vissuta come vera e propria vocazione. Disincantamento del mondo e responsabilità intellettuale. Ampliando gli orizzonti della sua ricerca alla contemporaneità, Weber giunge alla constatazione che il progresso scientifico rappresenta la parte più importante del processo di razionalizzazione e intellettualizzazione che caratterizza la cultura occidentale. Ora, tale processo implica la consapevolezza del fatto che è ormai possibile dominare tutte le cose attraverso i mezzi della tecnica e il calcolo razionale, e non più invece attraverso mezzi magici, perché il mondo non sembra ormai più in balia di forze misteriose e imprevedibili. In altri termini, la razionalizzazione indica per Weber il «disincantamento del mondo». Ma qual è il senso della scienza come professione, in un mondo in cui sono naufragate ormai tutte le illusioni legate in passato proprio all’immagine della scienza (intesa come la via per giungere al vero essere, alla vera arte, a Dio, alla felicità)? La risposta a tale interrogativo è per Weber negativa: la scienza non ha un senso, perché essa non dice all’uomo cosa deve fare e come deve vivere. È impossibile per la scienza assolvere al compito di orientare l’uomo nella decisione circa il senso del mondo e del proprio agire in esso: non è possibile decidere “scientificamente” tra i valori, perché, osserva Weber, di fronte a noi si apre una realtà caratterizzata da una molteplicità di valori opposti, da un «politeismo di valori» in conflitto irrisolvibile tra di loro. Ma se le cose stanno così, si chiede Weber, cosa offre la scienza di positivo per la vita? L’unico orientamento etico coerente con la razionalità tecnico-scientifica dell’epoca moderna è quello orientato nel senso di un’“etica della responsabilità”. In antitesi all’“etica dei princìpi”, in cui l’individuo agisce in base a intenzioni e valori restando indifferente rispetto ai risultati e alle conseguenze della sua azione, secondo l’etica della responsabilità l’uomo risponde in prima persona delle conseguenze del proprio agire.

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BIBLIOGRAFIA Fonti

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M. Weber, L’“oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, in Il metodo delle scienze storico-sociali, trad. di P. Rossi, Einaudi, Torino 2003. M. Weber, Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura, in Il metodo delle scienze storico-sociali, cit. M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, trad. di H. Grünhoff, P. Rossi, F. Tuccari, Edizioni di Comunità-Einaudi, Torino 2004. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, in Sociologia delle religioni, vol. I, a cura di C. Sebastiani, Utet, Torino 2008.

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Opere Oltre agli scritti citati tra le “Fonti” vanno segnalate almeno le seguenti opere: M. Weber, Sociologia delle religioni, cit., vol. I: L’etica economica delle grandi religioni - Studi comparati di sociologia delle religioni, Confucianesimo e taoismo; vol. II: Induismo e buddhismo, Il giudaismo antico;

ESERCIZI

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• M. Weber, Economia e società, vol. I: Teoria delle categorie sociologiche, trad. di T. Bagiotti, F. Casabianca, P. Rossi; vol. II: Economia e tipi di comunità, trad. di P. Chiodi e G. Giordano, Edizioni di Comunità-Einaudi, Torino 1999; vol. III: Sociologia del diritto, trad. di P. Rossi, Edizioni di ComunitàEinaudi, Torino 2000: vol. IV: Sociologia politica, trad. di P. Chiodi e G. Giordano, Edizioni di Comunità-Einaudi, Torino 1999; M. Weber, Storia economica. Sommario di storia economica e sociale universale, trad. di A. Cavalli, Edizioni di ComunitàEinaudi, Torino 2003; M. Weber, Parlamento e governo. Per la critica politica della burocrazia e del sistema dei partiti, trad. di F. Fusillo, prefazione di F. Ferrarotti, Laterza, Roma-Bari 2002; F. Tuccari, Weber, con un’antologia di testi politici, Laterza, Roma-Bari 1995.

· · ·

ne del suo pensiero, si veda soprattutto: • Marianne Weber, Max Weber. Una biografia, trad. di B. Forino, il Mulino, Bologna 1995. Come agili studi introduttivi si possono vedere: N.M. De Feo, Introduzione a Weber, Laterza, Roma-Bari 2004; G. Poggi, Incontro con Max Weber, il Mulino, Bologna 2004; S. Kalberg, Leggere Max Weber, il Mulino, Bologna 2008.

· · ·

Sugli aspetti filosofici e metodologici della riflessione di Weber si vedano: F. Ferrarotti, Max Weber e il destino della ragione, Laterza, Roma-Bari 19714; F. Bianco, Le basi teoriche dell’opera di Max Weber, Laterza, Roma-Bari 1997; P. Rossi, Max Weber. Un’idea di Occidente, Donzelli, Roma 2007.

· · ·

Sulla particolare lettura weberiana della modernità e della razionalizzazione si può vedere: N. Salamone (a cura di), Razionalizzazione, azione, disincanto. Studi sull’attualità di Max Weber, Franco Angeli, Milano 2008.

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Studi critici Per una presentazione d’insieme della figura di Weber e dell’evoluzio-

1. Quali sono le condizioni di oggettività del sapere delle scienze della cultura secondo Weber? (max 10 righe)

5. Quali sono le forme di relazione sociale individuate da Weber? (max 5 righe)

2. In che misura Weber difende l’autonomia delle scienze storico-sociali dall’imperante modello delle scienze della natura? (max 15 righe)

6. Spiega in che senso Weber intende la storia dell’Occidente come progressiva emancipazione dalla ricerca del significato (max 10 righe).

3. Perché secondo Weber le idee religiose ricoprono una funzione vitale nella nascita della mentalità capitalistica moderna? (max 10 righe)

7. Illustra il ruolo che il tramonto dell’etica dei princìpi e l’avvento dell’etica della responsabilità esercitano sulla definizione della figura professionale dello scienziato (max 10 righe).

4. Definisci la nozione weberiana di “tipo ideale” (max 5 righe).

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Henri Bergson

1 La scienza e la vita Il nome di Bergson è legato alla creazione o riformulazione di concetti di grande impatto speculativo – come quelli di durata, memoria, slancio vitale e intuizione – che hanno contribuito a rivoluzionare sensibilmente il quadro filosofico non solo del suo tempo, ma anche dei decenni successivi. Ciò spiega il posto centrale che Bergson occupa nella filosofia del N ovecento, al di là dell’immagine stereotipata che ne ha fatto per lungo tempo il semplice sostenitore di un antipositivismo spiritualistico e sostanzialmente irrazionalistico. Dopo il rapido e straordinario successo di cui poté godere in vita (quando le sue lezioni a Parigi erano un vero e proprio evento mondano) e un periodo di altrettanto repentina eclissi, è oggi possibile – soprattutto a partire dalla riscoperta da parte di uno dei più importanti filosofi francesi contemporanei, Gilles Deleuze – tornare a scorgere i suoi tratti peculiari. Bergson non è un pensatore “di retroguardia” impegnato a combattere la scienza del suo tempo in nome di istanze a-

razionali e di una concezione astrattamente metafisica della vita, ma, al contrario, è il filosofo che si propone di tematizzare esplicitamente la questione cruciale dei rapporti tra scienza e vita: la sua stessa opera principale – L’evoluzione creatrice – lungi dall’essere una critica radicale della scienza in quanto tale, può essere anzi considerata come il tentativo di procedere, con l’ausilio della metafisica e non in contrapposizione a essa, a una vera e propria rifondazione del sapere scientifico. Henri Bergson nasce a Parigi nel 1859 da una famiglia di religione ebraica. Dopo gli studi superiori, è ammesso nel 1878 all’École N ormale dove ottiene nel 1881 la licenza in matematica e lettere. Dopo la laurea, si dedica all’insegnamento nei licei. N el 1891 sposa Louise Neuburger, cugina di Marcel Proust. Nel 1889 consegue alla Sorbona il dottorato in filosofia, presentando una tesi in francese dal titolo Saggio sui dati immediati della coscienza, e una in latino, sul concetto di luogo in Aristotele, intitolata Quid Aristoteles de loco senserit. Nel 1896 pubblica Materia e memoria e nel 1900 viene chiamato alla cattedra di filosofia del Collège de France, dove il suo insegnamen-

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to riscuote in breve tempo un grande successo di pubblico. La pubblicazione, nel 1907, dell’Evoluzione creatrice consacra definitivamente Bergson come uno dei pensatori più influenti (o forse come il più influente) dell’epoca. N el 1914 le sue opere vengono messe all’indice dalla Chiesa cattolica: una censura che non gli impedisce, nel 1928, di conseguire il premio N obel per la letteratura. N el 1932 pubblica la sua ultima importante opera, Le due fonti della morale e della religione. Negli ultimi anni della sua vita si avvicina al cattolicesimo, ma rinuncia alla conversione definitiva per solidarietà con quanti subivano, in quegli stessi anni, le conseguenze dell’antisemitismo dilagante. Per questo stesso motivo rifiuta, quando nel 1939 l’esercito nazista occupa la Francia, l’esenzione dalle norme discriminatorie contro gli ebrei concessagli in virtù della sua celebrità. Muore a Parigi nel 1941. 1. In generale il pensiero di Bergson: a. pone capo ad una concezione a-razionale della vita. b. ha come scopo l’esplicita demolizione della scienza in quanto tale. c. mira a rifondare il sapere scientifico, ripensando il rapporto fra scienza e vita. d. mira a demolire ogni considerazione metafisica della realtà.

2 La “scoperta” della durata In quella che può essere considerata un’introduzione postuma al proprio progetto filosofico (Pensiero e movimento, 1934), Bergson spiega le ragioni che lo avevano condotto ad occuparsi della durata. Per rimediare a una certa insufficienza della filosofia di Spencer [ Herbert Spencer, pp. 114-117], si era reso conto che bisognava approfondire i concetti fondamentali della meccanica, occupandosi soprattutto dell’idea di tempo. Messo di fronte a questa idea, Bergson restò colpito dal fatto che gli scienziati, e i matematici in particolare, non fossero in grado di considerare il tempo reale. Quello di cui parla la scienza è tutt’altra cosa rispetto al tempo reale: essa sottopone il tempo alla misura, ma ciò che si presta alla misura è “spazio”, e non propriamente “tempo”. Il tempo della scienza è quindi, per

Bergson, un tempo spazializzato, cioè ridotto alla successione di istanti identici. La scienza, ma anche la stessa filosofia, si lasciano sfuggire così il vero carattere del tempo, che è invece durata, mobilità, puro scorrere. Per questo, il compito che Bergson si propone è quello di cercare cosa propriamente sia la durata che ognuno di noi vive e sente, perché è proprio la durata a rappresentare la dimensione propria di ogni coscienza. Per cogliere la durata, per avere una visione diretta e immediata di essa, non occorre far altro che addentrarsi nel dominio della vita interiore:



Ma questa durata, che la scienza elimina, che è difficile da concepire e da esprimere, si sente e si vive. E se cercassimo ciò che essa è propriamente? Come apparirebbe a una coscienza che volesse vederla senza misurarla, coglierla senza arrestarla, che assumesse infine sé stessa per oggetto, e che, spettatrice e attrice, spontanea e riflessa, accostasse l’attenzione che si fissa e il tempo che fugge fino a farli coincidere insieme? Questo era il problema. Ci addentravamo così nel dominio della vita interiore di cui ci eravamo fino ad allora disinteressati. [Pensiero e movimento, Introduzione, parte I]



La prima opera di Bergson, il Saggio sui dati immediati della coscienza, verte proprio sulla considerazione della vita interiore nel suo carattere di durata, e pone in maniera chiara il senso e la portata della nuova direzione che egli intende far prendere alla filosofia, sottolineando l’importanza fondamentale per quest’ultima della distinzione tra il tempo come durata e lo spazio. Ma come si arriva a tale distinzione e alla “scoperta” della durata? Il punto di partenza è dato dalla considerazione dei nostri stati di coscienza – sensazioni, sentimenti, passioni, sforzi – a cui si applica la nozione di intensità: il senso comune li ritiene suscettibili al pari di ogni grandezza di aumento e diminuzione (si può avere più o meno freddo, essere più o meno tristi, ecc.). Ma così facendo non ci rendiamo conto di tradurre ciò che è inesteso in estensione, ciò che è qualità in quantità. Consideriamo per esempio quegli stati psichici che bastano a sé stessi, in cui cioè non entra in gioco alcun elemento estensivo esterno (gioia, tristezza, emozioni estetiche, ecc.): la loro intensità si riduce ad una certa qualità o tona-

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lità con cui si “colora” una parte sempre più ampia di elementi psichici che compongono la nostra vita interiore. Il sentimento immediato dell’intensità di uno stato di coscienza consiste nel suo effetto su di noi, nel cambiamento che ci fa subire: abbiamo consapevolezza del fatto che un sentimento si è accresciuto quando si trasforma, anzi ci trasforma. Il variare di intensità degli stati psichici, così come in generale ogni variazione della coscienza, è dunque solo di ordine qualitativo. In tutti questi casi, l’idea di intensità rimanda a una molteplicità interiore – la molteplicità dei nostri stati interni, dei nostri stati di coscienza – che tuttavia non è una molteplicità numerica, e perciò tale da rinviare allo spazio: è piuttosto una molteplicità non quantificabile, qualitativa, che rinvia alla durata. Tale molteplicità non si colloca infatti nello spazio, ovvero nell’esteriorità reciproca di un elemento all’altro, ma nel reciproco compenetrarsi degli stati profondi della nostra coscienza, ovvero in quella interconnessione temporale che Bergson chiama appunto durata. Occorre allora evitare che l’idea di spazio (di cui si serve la scienza per conoscere il reale e avere quindi facile presa su di essa) venga introdotta, in modo surrettizio, anche nella rappresentazione della successione che caratterizza la nostra vita interiore, rischiando così che i nostri stati di coscienza, invece di essere percepiti simultaneamente l’uno nell’altro, vengono semplicemente giustapposti l’uno accanto all’altro.

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1. Secondo Bergson il tempo reale: a. è quello indagato e misurato dalla scienza. b. è il tempo spazializzato, concepito come successione di istanti identici. c. coincide con la durata, vissuta e sentita dalla coscienza. d. può essere colto solo penetrando la vita interiore.

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2. Bergson perviene alla “scoperta” del tempo come durata: a. prendendo in esame gli stati di coscienza. V F b. constatando che la variazione dell’intensità degli stati di coscienza si riduce sempre ad un ordine qualitativo. V F c. osservando che il variare d’intensità degli stati psichici consiste nel cambiamento che esso determina nell’interiorità. V F d. ammettendo che l’intensità degli stati di coscienza è riducibile alla molteplicità numerica. V F

3 Materia e memoria 3.1 La materia come insieme di immagini Il Saggio sui dati immediati della coscienza metteva capo alla distinzione di due opposti domini della realtà: la realtà esteriore, materiale e spazializzata, da una parte, e il mondo interiore, contrassegnato dalla durata della coscienza, dall’altra. Non sorprende dunque che la seconda opera di Bergson, Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito [ T10], affronti, come dice il sottotitolo, proprio la questione del dualismo tra spazio e durata, tra materia e spirito, riprendendo l’interrogativo lasciato aperto dall’opera precedente, quello sulla realtà metafisica, la consistenza ontologica di ciascuno dei due termini e la loro relazione:



Questo libro afferma la realtà dello spirito, la realtà della materia, e tenta di determinare il rapporto tra l’una e l’altra attraverso un esempio preciso, quello della memoria. È dunque nettamente dualista. Ma, d’altra parte, considera in modo tale il corpo e lo spirito che spera di attenuare molto, se non di eliminare, le difficoltà teoriche che il dualismo ha sempre sollevato. [Materia e memoria, Prefazione alla 7a ed. (1911)]



Bergson afferma che, per evitare l’opposizione assoluta di materia e spirito introdotta dalla maggior parte delle teorie della rappresentazione, occorre assumere la materia così come la concepisce il senso comune, ovvero a metà strada tra la soluzione cartesiana (che la distanzia enormemente da noi, confondendola con l’estensione geometrica) e la soluzione di Berkeley (che la fa coincidere con il nostro spirito): non si può insomma ridurre, come fa l’idealista, la materia alla rappresentazione che se ne ha, ma neppure farne, come il realista, una cosa esterna che produce delle rappresentazioni in noi. Per il senso comune, l’oggetto esiste in sé stesso e tuttavia è come noi lo percepiamo, ossia è un’immagine esistente. La totalità di ciò che è – la realtà materiale – può pertanto essere definita come un insieme di immagini:

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Per noi la materia è un insieme di “immagini”. E per “immagine” intendiamo una certa esistenza che è più di ciò che l’idealista chiama una rappresentazione, ma meno di ciò che il realista chiama una cosa, – un’esistenza situata a metà strada tra la “cosa” e la “rappresentazione”. [Materia e memoria, Prefazione alla 7a ed. (1911)]



La teoria della percezione sviluppata da Bergson mostra che la nostra conoscenza – considerata in forma astratta, allo stato puro – fa parte delle cose, in quanto essa non è una copia mentale, interiore, immateriale del mondo, ma un’azione che il nostro corpo compie nei confronti delle cose stesse. Il mondo esterno è un insieme di immagini, ma tra queste ve ne è una che risalta in modo particolare: si tratta del mio corpo. Quest’ultimo, nell’insieme del mondo materiale, riflette su di sé le azioni delle altre immagini e prefigura in sé le possibili reazioni ad esse. In effetti, mentre le altre immagini interagiscono tra di loro sulla base di leggi costanti di natura, il corpo sembra scegliere il modo in cui restituire il movimento che riceve dalle altre immagini. Il corpo si configura così come un vero e proprio centro di azione, così come la percezione non indica altro, per Bergson, se non l’azione possibile del corpo stesso nell’insieme delle immagini. Non si dà qui dunque nessun dualismo metafisico, perché la percezione e la materia partecipano della stessa realtà, come anche il corpo vivente e tutto ciò che lo circonda:



Chiamo materia l’insieme delle immagini, e percezione della materia queste stesse immagini riferite all’azione possibile di una certa immagine determinata, il mio corpo. [Materia e memoria, cap. 1]



Tuttavia, è comunque possibile porre una differenza tra la conoscenza delle cose e le cose stesse, tra un’immagine che è rappresentata e un’immagine che è. N oi, afferma infatti Bergson, percepiamo il mondo in funzione dei nostri bisogni: i nostri bisogni vitali portano a scegliere, nell’insieme delle immagini, solo quelle che ci interessano e ci garantiscono la possibilità di agire. La coscienza consiste allora in questa relazione selettiva con certi oggetti in funzione della loro utilità, nel far emergere, dal

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fondo indistinto del tutto, un oggetto determinato. La rappresentazione, cioè l’immagine conosciuta, sorge dal fatto che vengono oscurate quelle immagini che non ci interessano immediatamente; proprio per questo, essa esprime la possibilità del vivente di distaccarsi dalle esigenze e urgenze del presente e sostituire la scelta all’automatismo della propria reazione all’ambiente:



Ora, ecco l’immagine che chiamo oggetto materiale […]. Per trasformare la sua esistenza pura e semplice in rappresentazione, basterebbe sopprimere repentinamente ciò che la segue, ciò che la precede ed anche ciò che la riempie, basterebbe conservarne soltanto la patina esterna, la pellicola superficiale. […] La convertirei in rappresentazione, se potessi isolarla, se, soprattutto, potessi isolarne l’involucro. […] La nostra rappresentazione della materia è la misura della nostra possibile azione sui corpi; risulta dall’eliminazione di ciò che non riguarda i nostri bisogni e, più in generale, le nostre funzioni. […] La coscienza […] consiste precisamente in questa scelta. [Materia e memoria, cap. 1]



1. Lo scritto Materia e memoria ha per oggetto propriamente: a. l’indagine sul tempo come durata. b. l’esame del dualismo nella filosofia di Platone. c. la polemica contro qualsiasi determinazione metafisica delle nozioni di spirito e materia. d. l’individuazione della consistenza ontologica e della relazione di spirito e materia. 2. Per Bergson la materia: a. rappresenta un elemento assolutamente opposto allo spirito. b. rappresenta ciò che esiste in sé ed è dall’uomo percepito conformemente al modo in cui esiste. c. costituisce un insieme di immagini. d. è la realtà esistente fuori dal soggetto che produce in esso le rappresentazioni. 3. Bergson: a. ammette il dualismo metafisico, perché percezione e materia sono realtà eterogenee. b. ritiene che il corpo sia un’immagine che prefiguri le reazioni alle azioni delle altre immagini. c. ritiene che il corpo sia un’immagine che interagisca con le altre in base a leggi costanti di natura. d. concepisce la percezione della materia come l’insieme di immagini riferite all’azione possibile del corpo.

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3.2 La memoria: il passato nel presente



La vostra percezione, per quanto sia istantanea, consiste dunque in un’incalcolabile moltitudine di elementi ricordati e, a dire il vero, ogni percezione è già memoria. Noi percepiamo, praticamente, soltanto il passato, essendo il puro presente l’inafferrabile progresso del passato che rode il futuro. [Materia e memoria, cap. 3]

In questa dinamica di scelta, che determina essenzialmente la nostra coscienza, svolge un ruolo fondamentale la memoria. Bergson distingue tuttavia due tipi di memoria: la memoriaabitudine e la memoria pura, spontanea. La prima registra il passato sotto forma di abitudiPer illustrare l’inserzione nel presente del passani motorie ed è quindi legata alla ripetizione to e per mostrare il legame tra le due forme di automatica di un’azione, all’attualizzazione memoria, Bergson si serve dell’immagine di un “meccanica” dei ricordi del passato nel presencono rovesciato che poggia con il vertice su di te (come per esempio quando ci si ricorda di un piano. Il cono rappresenta la totalità dei una lezione imparata a memoria); la seconda ricordi accumulati nella memoria; la sua base, registra, sotto forma di immagini-ricordo, gli posta nel passato, resta immobile, il vertice avvenimenti della nostra vita man mano che si indica il presente che avanza e tocca il piano svolgono, non trascurando nessun dettaglio, della rappresentazione attuale del mondo. N el lasciando a ogni fatto e a ogni gesto, in quanto vertice si concentra poi l’immagine del corpo, ogni volta unici, irripetibili e irriducibili gli uni quale luogo di passaggio dei movimenti ricevuagli altri, il proprio posto e la propria data. Essa ti dalle cose e rinviati ad esse. Secondo questa si limita ad immagazzinare il passato solo per rappresentazione, la memoria del passato serve effetto di una necessità naturale, e non sulla base di esigenze pratiche. Questa memoria, che risulta essere coestensiva alla nostra coscienza, è la vera memoria, quella che ci consente di muoverci propriamente nel passato. Il riso secondo Bergson La memoria pura è sempre presente, nel senso che tutto il nostro passato incombe A Bergson si deve un saggio molto fortunato sul comicontinuamente su di noi: essa tuttavia co e sul riso (Il riso, 1900). La tesi di fondo è che il riso, in non snatura il carattere pratico della quanto fenomeno tipicamente ed esclusivamente umano, «nasce nostra vita, perché la nostra quando uomini riuniti in gruppo dirigono l’attenzione su uno di loro, coscienza attuale, la coscienza facendo tacere la loro sensibilità ed esercitando solo la loro intelligenza» cioè che riflette l’esatto adegua[cap. 1, § 1]. Il riso è dunque un fenomeno sociale o collettivo, nel quale la sensibilità è interamente soppiantata dall’intelligenza: se è possibile ridere mento alla situazione presente, quando un uomo cade per strada, è perché la sensibilità che ci indurrebbe a prela inibisce, prendendo da essa occuparci di ciò che gli è accaduto cede il passo alla pura considerazione di un comsolo ciò che risulta essere portamento innaturale. Per questo, il riso costituisce essenzialmente uno strumenutile a completare e illuminato di cui la società si serve per scoraggiare e isolare i comportamenti antisociali. Ciò re la situazione presente. vale soprattutto per quei comportamenti rigidi, statici, meccanici, ripetitivi che si Essa interviene e si attualizza oppongono alla mobilità e fluidità della vita sociale: «Le attitudini, i gesti, i movimennel momento in cui, apertasi ti del corpo umano sono risibili nelle stesse proporzioni in cui il corpo stesso ci fa una fessura nel tessuto per- pensare a un semplice meccanismo» [cap. 1, § 4], ovvero «è comica qualunque cettivo tra l’azione e la reaziodisposizione di atti e di avvenimenti, inseriti gli uni negli altri, che ci dia l’illusione ne, riesce ad inserirvi le immadella vita e la sensazione netta d’un ordine meccanico» [cap. 2, § 1]. Di consegini delle situazioni passate guenza, il riso non è in sé né buono né giusto: è innanzi tutto «una correzione», la cui funzione precipua è quella «di intimidire umiliando». E se la natura che si riferiscono alla perceziovolge in questo caso il male in bene, servendosi del riso per ricacciare ne presente, trasformando così in verso l’esterno le perturbazioni che potrebbero minacciare la coesiomaniera creativa la situazione perne sociale, ciò non toglie che il riso stesso presupponga sempre cettiva data. La memoria evoca cioè «un fondo di malvagità, o almeno di malizia», nell’uomo, e tutte le percezioni passate analoghe a che il filosofo che si proponga di indagarlo non possa quella presente, richiama ciò che c’è stato fare a meno di avvertire «una gran dose prima e dopo, e ci suggerisce così la decisiod’amarezza in così esigua sostanne più utile. Per questo, in ogni percezione conza» [cap. 3, § 5]. creta entra sempre in gioco la memoria:



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da base alla memoria-abitudine del corpo: essa infatti offre ai meccanismi sensorio-motori tutti i ricordi in grado di guidarli nella loro funzione. Da parte loro, tali meccanismi sensorio-motori rendono possibile l’attualizzazione dei ricordi che altrimenti rimarrebbero in uno stato virtuale, ovvero resterebbero inconsci, impotenti. Questo contrasto tra meccanicità e fluidità della vita sta alla base dell’analisi bergsoniana del fenomeno del “riso” [ Il riso secondo Bergson]. La memoria dunque non consiste in un regresso dal presente al passato, bensì in un continuo progresso del passato nel presente. In questo movimento, essa oscilla, passando attraverso diversi piani – che Bergson chiama piani di coscienza – tra le due estremità del mondo materiale e la totalità dei ricordi. La memoria vive nella temporalità della durata, dunque, perché essa è conservazione e accumulazione della totalità del passato nel presente, è un fluire continuo in cui si assiste alla compenetrazione dei singoli istanti gli uni negli altri. La vita della coscienza si costituisce e si sviluppa in questo continuo oscillare, in un costante movimento che è di dilatazione, quando si è nel passato in sé, lontani dall’azione e dalla realtà presente, e di contrazione, quando la molteplicità di tutto il passato si inserisce nella situazione presente e finisce con il coincidere, nel suo punto estremo, con le cose materiali. N ella memoria risiede pertanto non solo il punto di contatto tra lo spirito e il corpo, ma anche e soprattutto la soluzione al problema metafisico della loro relazione. Dietro l’apparenza spaziale che la nostra percezione pratica dona alla materia, al di là del nostro usuale modo di vedere le cose, la materia è essa stessa pura mobilità e durata, ovvero un diverso grado di tensione, il più basso, dell’unica durata reale. La materia è anch’essa temporale, è anch’essa durata.

1. In Bergson la memoria pura indica: a. ciò su cui poggia la possibilità di ripetere automaticamente un’azione. b. ciò che immagazzina il passato, realizzando le esigenze pratiche del presente. c. ciò che registra spontaneamente gli avvenimenti della vita man mano che si svolgono. d. ciò che si inserisce nella percezione, fornendo le immagini del passato utili ad illuminare la situazione presente.

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2. Secondo Bergson la coscienza: a. coincide con la totalità dei vissuti e dei sentimenti. b. consiste nella scelta di certe immagini compiuta sulla base dei bisogni e dell’utilità dell’uomo. c. è una sostanza psichica che nasce dalle reazioni automatiche dell’individuo prodotte dall’ambiente. d. è l’insieme delle immagini che non riguardano i bisogni umani. 3. Per Bergson la vita della coscienza si sviluppa: a. essenzialmente nel ricordo delle cose passate. b. in una oscillazione continua fra il passato in sé e l’inserzione del passato nel presente. c. nella regressione della coscienza dal presente al passato. d. sulla base della sola memoria-abitudine.

4 L’evoluzione creatrice 4.1 Lo slancio vitale La soluzione che fino a questo punto Bergson ha dato al problema del dualismo di spazio e durata, di materia e spirito sta tutta nell’affermazione di un monismo della durata, di un’unità in cui la dualità è riassorbita in una differenza nel seno stesso della durata. Ma è possibile che tutto sia solo durata e spirito? Come bisogna pensare tale unità? E poi, cosa ancor più importante, se si riduce la spazialità ad una pura forma, ad una “finzione”, che ne è della nostra stessa vita, del nostro stesso agire nel reale che si svolge proprio secondo la logica della spazializzazione? La riflessione di Bergson dopo Materia e memoria si concentra tutta sul tentativo di individuare una soluzione diversa che concili armonicamente dualità e identità tra materia e spirito, senza compromettere l’unità della durata. L’evoluzione creatrice cerca di dare una risposta a questi interrogativi e lo fa allargando l’analisi dal piano psicologico – quello della vita interiore della coscienza – al piano cosmologico e metafisico – quello della vita dell’intero Universo. L’intento che guida l’opera è quello di cogliere «la vera natura della vita, il significato profondo del movimento evolutivo» [L’evoluzione creatrice, Introduzione], facendo della filosofia un «evoluzionismo vero» in grado di seguire la realtà nel suo autentico generarsi e accrescersi. L’intera dimensione della vita, al pari di quella della coscienza, è interpretata alla luce dell’idea di durata. La durata tuttavia non è una semplice

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l’inizio come impulso, e non posta alla fine coproprietà della vita, bensì è ciò che ne costituisce me punto di attrazione. la più intima essenza: la vita stessa, l’intera esi[L’evoluzione creatrice, cap. 2] stenza è durata. Essendo durata, la vita dell’intero Universo, come la vita della nostra coscienza, La vita dunque non è altro che la continuazione si caratterizza per la continuità del cambiamento, di un unico e identico slancio che si suddivide per la creazione incessante di forme nuove e in linee evolutive divergenti. Tale slancio origiimprevedibili. Alla base dell’evoluzione bisogna nario, poi, conservandosi lungo le diverse ramiquindi scorgere una continuità creatrice: la proficazioni, spiega non solo le variazioni, ma pagazione della vita, la successione delle sue anche la presenza di organi identici in organiforme, poggiano su una forza, su un’energia, che smi posti su livelli diversi del processo evolutisi trasmette in maniera continua a tutti gli orgavo. La presenza di strutture comuni si fonda nismi viventi. La vita è così assimilata a una corcosì sulla base di questa origine unitaria, immarente che produce un progresso continuo. nente, di questo unico atto creatore. Evoluzione significa allora registrazione contiA partire da questo slancio, si può ricostruire nua della durata, propagarsi di un unico impulla sua evoluzione, ovvero la sua effettiva diviso che spinge verso il cambiamento, le cui forme sione e continua ramificazione che avviene a sono tuttavia ogni volta nuove e imprevedibili. contatto con la materia: Dato questo carattere unitario e continuo della vita, l’evoluzione si presenta come un’uniIl movimento evolutivo sarebbe cosa semplica indivisibile storia, in cui non è possibile prece, […] se la vita descrivesse una traiettoria vedere in anticipo le forme che essa prenderà e unica, paragonabile a quella di una palla sparaprodurrà. Per pensare adeguatamente la vita ta da un cannone. Ma qui abbiamo a che fare come evoluzione creatrice occorre liberarsi sia con una granata, che è subito esplosa in framdalla concezione meccanicistica che da quella menti, i quali, essendo anch’essi esplosivi, sono finalistica della vita – ovvero dalle due concezioa loro volta scoppiati in altri frammenti destinani alternative entro cui si muovevano, per ti a esplodere ancora, e così via per moltissimo Bergson, le teorie evoluzionistiche dell’epoca [ Bergson e l’evoluzionismo di Darwin]. Per il meccanicismo, l’evoluzione è già sempre determinata in base a precisi rapporti di causa ed Bergson effetto, che fanno sì che tanto il passato quanto il futuro siano calcolabili in base al presente; e l’evoluzionismo di Darwin per il finalismo, il senso dell’evoluzione è già predeterminato, perché risponde a un piano Il modo in cui Bergson concepisce l’evoluzione lo porta inevitabilmente a confrontarsi anche con la teoria darwiprestabilito. niana della selezione delle specie. Quest’ultima è per Il fatto però che si rifiuti la causalità di ordiBergson preferibile alle altre varianti deterministiche, ma il suo ne meccanico (in cui l’effetto è contenuto limite sta nell’attribuire un’importanza eccessiva alle variazioni nella causa) o la finalità come realizzazione accidentali, che non sembrano invece in grado di spiegare la predi un’intenzione non esclude che si possa senza di strutture comuni in organismi che pure si situano lungo comunque pensare l’evoluzione creatrice linee evolutive totalmente divergenti. Per poter realmente giustificadella vita a partire da un unico principio: re la selezione e la persistenza di alcune caratteristiche a livello spetale è per Bergson lo slancio vitale (élan cifico, le variazioni dovrebbero obbedire non al caso ma a un princivital), che sta ad indicare l’unità primitiva pio ordinatore che verrebbe in quanto tale a negare gli stessi predella vita da cui si dipartono, differenziansupposti darwiniani. Il vero limite del darwinismo è così, per dosi, le diverse linee del processo evolutivo. Bergson, il fatto che esso, paradossalmente, rischia di rovesciarsi nel suo opposto, e cioè in un finalismo dissimulato e Si tratta di una unità che si trova più alle spalimplicito: l’ipotesi di un’unità originaria che si esplica in le che di fronte al processo evolutivo:







Se invece l’unità della vita sta interamente nello slancio che la spinge sulla strada del tempo, l’armonia non si troverà in avanti, ma indietro. L’unità proviene da una vis a tergo: è data al-

forme sempre differenti permette invece, secondo Bergson, proprio di dar conto, ad un tempo, sia delle strutture comuni alle varie specie che della loro diversificazione.

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tempo. […] Quando la granata esplode, il suo frammentarsi si spiega sia per la forza esplosiva della polvere che contiene, sia per la resistenza del metallo. Lo stesso vale per il frammentarsi della vita in individui e specie, che è dovuto, crediamo, a due serie di cause: la resistenza che la vita incontra da parte della materia grezza, e la forza esplosiva […] che la vita porta in sé. [L’evoluzione creatrice, cap. 2]

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1. Per Bergson lo slancio vitale: a. spiega l’armonica conciliazione fra dualità e identità di materia e spirito, salvaguardando l’unità della durata. b. è il principio che spiega la continuità creatrice della vita. c. coincide con l’unità primitiva della vita da cui si originano, per differenziazione, le linee del processo evolutivo. d. rappresenta il principio unitario della vita che si afferma alla fine del processo evolutivo.

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4.2 Istinto, intelligenza e intuizione Negli animali, il processo evolutivo si è separato nelle due linee degli artropodi, raggiungendo il suo punto culminante con gli insetti, e dei vertebrati, il cui punto culminante è rappresentato dall’uomo. La prima linea ha condotto all’istinto, che è la facoltà di utilizzare e costruire strumenti organici, l’altra all’intelligenza, che è la facoltà di fabbricare e usare strumenti artificiali. Istinto e intelligenza da questo punto di vista sono due diversi modi di affrontare uno stesso problema, quello di poter agire sulla materia. Istinto e intelligenza implicano due tipi di conoscenza, l’una «incosciente e usata», l’altra «cosciente e pensata»: nel caso dell’istinto – poiché è la natura stessa che offre gli strumenti da usare, il loro punto di applicazione e il risultato da ottenere – nessun margine è lasciato alla libera scelta, ma si dà solo l’automatismo della risposta adattativa; nel caso dell’intelligenza, invece, il deficit biologico dell’uomo lo porta a dover scegliere autonomamente i mezzi e i modi per compiere nella maniera più adeguata le proprie azioni nell’ambiente che lo circonda. Così, l’istinto coglie immediatamente le cose, l’intelligenza invece conosce solo i rapporti tra le cose. Questo carattere formale dell’intelligenza, se da una parte la rende molto meno vincolata

alle esigenze di utilità pratica imposte dalla vita e quindi in grado di fornire all’uomo un formidabile strumento di liberazione dal livello meramente biologico dell’esistere, dall’altra la rende incapace di soffermarsi sugli oggetti, e quindi incapace di conoscere direttamente la realtà. L’istinto, dal canto suo, ha davanti a sé immediatamente l’oggetto, ma non è in grado di conoscerlo a livello speculativo. All’intelligenza è così preclusa la comprensione della vita: per esigenze vitali e pratiche, essa tende a solidificare la realtà, rappresentandosi il divenire come una serie di stati giustapposti gli uni agli altri, fissi e immobili. L’intelligenza, e la scienza che da essa deriva, ci restituiscono della vita solo una traduzione in termini di immobilità, discontinuità e fissità. La scienza sembra così porsi all’esterno della vita, mentre l’istinto mantiene il contatto con la realtà seguendone il suo stesso fluire e divenire. A cogliere la vita nella sua essenza profonda perviene solo l’intuizione, ovvero quell’istinto, che con l’ausilio dell’intelligenza, diventa cosciente di sé, disinteressato, non più legato all’urgenza di scopi pratici di adattamento, capace finalmente di riflettere sul proprio oggetto. Istinto e intelligenza si distaccano da un fondo comune, unitario: ma spiegare la “genesi ideale” dell’intelligenza significa spiegare insieme la genesi (altrettanto ideale) della materia, dato che tra esse c’è un mirabile accordo, testimoniato dal successo della scienza: gli schemi della nostra intelligenza, in effetti, non fanno altro che riprodurre la forma generale della nostra azione sulla materia e la materia, dal canto suo, si regola sulle esigenze della nostra azione. Anche la materia si origina dunque dallo stesso slancio vitale da cui deriva parallelamente l’intelligenza: essa risulta dall’inversione, dall’interruzione, dall’arresto del movimento dello slancio creatore. La materia è uno slancio vitale inaridito, sclerotizzato, che si disfa. La vita allora si esplica attraverso due movimenti opposti, che la vedono da una parte condurre alla materia (nel punto di massima distensione della tensione originaria dello slancio creatore, massima distensione che corrisponde all’estensione nello spazio), dall’altra proseguire il movimento vitale, dando vita alla creazione di forme nuove e imprevedibili. Si può così comprendere che la materia, pur essendo il limite che oppone resistenza allo slancio vitale, non è esterna a que-

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parte II La svolta del Novecento

st’ultimo: piuttosto ne è una concrezione interna e dunque un ostacolo intrinseco.



Pensiamo […] a un gesto come quello di un braccio che si alza; supponiamo poi che il braccio, abbandonato a sé stesso, ricada ma che persista in esso, nello sforzo di risollevarsi, qualcosa del volere che lo aveva animato: con questa immagine di un gesto creatore che si disfa avremo già una rappresentazione più esatta della materia. Vedremo allora, nell’attività vitale, ciò che sussiste del movimento diretto all’interno del movimento opposto: una realtà che si fa attraverso quella che si disfa. [L’evoluzione creatrice, cap. 3]



Lo slancio vitale è dunque un atto creatore, e non una cosa che crea delle cose: nella creazione del mondo, afferma Bergson, è all’opera un atto libero e se l’intero Universo scaturisce da un unico centro, si dovrebbe supporre questo centro, chiamandolo pure Dio, non come una cosa, ma come una «continuità d’irradiamento, vita incessante, azione, libertà» [L’evoluzione creatrice, cap. 3]. In questo modo, L’evoluzione creatrice vuole offrire la soluzione definitiva al problema della dualità tra materia e spirito: Bergson deduce qui dalla durata – dall’intera realtà intesa come durata – la realtà della materia, e tuttavia non come temporale e analoga alla durata, secondo quello che era stato il guadagno di Materia e memoria, ma come spaziale e ad essa opposta. Materia e spirito sono così due sensi della vita, due direzioni opposte di una stessa e unica realtà: è la durata che si sdoppia dall’interno, e si differenzia nello stesso momento in cui si esplica. Il superamento in questi termini del dualismo consente a Bergson di ridefinire più chiaramente i rapporti tra scienza e filosofia, o tra scienza e metafisica. Nel nuovo orizzonte apertosi con L’evoluzione creatrice non è certamente più possibile per la metafisica rivendicare il possesso esclusivo e assoluto della verità in quanto unica forma di conoscenza in grado di concepire la realtà in termini di durata. La scienza, dal momento che abbraccia una parte della realtà, attinge certamente all’assoluto e può dunque aspirare come la metafisica alla verità. E se materia e spirito non sono altro che due direzioni dello stesso slancio creatore, scienza e metafisica possono ricongiungersi e dare vita ad un rapporto fecondo.

1. In Bergson l’istinto: a. costituisce la facoltà degli animali di cogliere automaticamente ed immediatamente le cose. b. non è in grado di seguire l’incessante fluire della realtà. c. è una facoltà che si rappresenta il divenire come una serie di stati giustapposti. d. consente all’animale di superare il semplice livello biologico della vita. 2. Per Bergson l’intelligenza e la scienza: a. non comprendono l’intima essenza della vita. b. a causa delle urgenze vitali e pratiche immobilizzano la realtà. c. costituiscono gli unici strumenti di cui l’uomo dispone per mantenersi in contatto con la realtà. d. consentono all’uomo di fabbricare e utilizzare strumenti artificiali. 3. Bergson concepisce la materia come: a. il totalmente altro rispetto allo slancio vitale. b. una delle due dimensioni dello stesso slancio creatore. c. una sorta di interruzione del movimento dello slancio vitale. d. il principio da cui si generano continuamente forme nuove e imprevedibili.

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5 La morale e la religione Se l’osservazione della realtà testimonia del fatto incontestabile che la vita implica «uno sforzo per risalire la china che la materia discende» [L’evoluzione creatrice, cap. 3], opponendo al movimento della materialità un movimento che prosegue l’impulso iniziale, occorre pensare che la corrente vitale trovi nel corso dell’evoluzione vere e proprie vie di fuga dalla rigidità della materia; e inoltre che si manifesti pienamente come continua esigenza di creazione e possa liberamente proseguire là dove è possibile un’attività altrettanto libera e creatrice. Ora, nella storia dell’evoluzione della vita, solo l’uomo prosegue tale azione creatrice. E la morale e la religione sono le attività con cui l’uomo si avvicina maggiormente allo slancio creatore. All’analisi di queste questioni Bergson dedica l’ultima sua grande opera filosofica, Le due fonti della morale e della religione. Come il titolo stesso suggerisce, per la morale così come per la religione si danno due fonti. Nel caso della morale esse sono rispettivamen-

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te la pressione sociale e l’amore per l’umanità: nel primo caso, le norme esprimono le esigenze di una società preoccupata di assicurare e garantire la propria conservazione. La vita sociale appare come un sistema di abitudini più o meno radicate che rispondono ai bisogni della comunità. Alla base delle società più comuni c’è dunque l’abitudine di contrarre abitudini che funge da fondamento dell’obbligazione morale. Questa morale dell’obbligazione e dell’abitudine è tuttavia una morale chiusa, propria di quelle società chiuse, in cui l’individuo agisce solo come parte del tutto. Accanto alla morale chiusa c’è la morale aperta, tipica delle società aperte: tale morale ha come fonte lo slancio di amore per tutta l’umanità e si incarna in individui particolari e privilegiati (mistici, santi, fondatori e riformatori di movimenti religiosi), che assurgono al rango di veri e propri esempi, non in forza dell’autorità ma del richiamo che esercitano. In tale morale, il fondamento è dato da uno stato emozionale – una vera e propria emozione creatrice – che esplica una potente forza di attrazione. Coloro che sono in grado di trascinare l’umanità sono coloro che abbattono le barriere della società e si ricollocano nella direzione dello slancio vitale. La religione si distingue, da parte sua, in religione statica e religione dinamica. La religione statica, complesso di miti e favole, è l’esito di ciò che Bergson definisce la funzione fabulatrice che nasce nel corso dell’evoluzione per esigenze della vita stessa. L’intelligenza umana infatti rappresenta una minaccia per la vita dell’uomo: è l’intelligenza che fa tendere l’uomo all’egoismo e al desiderio di rompere i legami sociali; è l’intelligenza che lo rende consapevole della propria finitezza e gli fa avvertire l’imprevedibilità del futuro. La religione statica è in questo senso la reazione difensiva che la natura innalza contro il potere destabilizzante dell’intelligenza. La religione dinamica, invece, immette direttamente nello slancio vitale grazie all’opera di alcuni esseri privilegiati che trascinano, di nuovo con il loro esempio, il resto dell’umanità. Tale religione è soprattutto quella del misticismo considerato non nella sua forma contemplativa, ma in quella dell’azione. La sua compiuta realizzazione si ha soprattutto nei grandi mistici cristiani (si ricorderà che Bergson non era personalmente cristiano), per i quali l’estasi

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è il punto di slancio per un’azione nel mondo, animata dall’amore di Dio per l’umanità intera. È questa esperienza dei mistici a consentirci di prendere contatto con lo slancio creatore che la vita manifesta – slancio che in definitiva è Dio stesso. Ed è ancora la mistica cristiana ad apparire come quella forza in grado di riscattare l’uomo dalla schiavitù del lavoro meccanico. Senza dubbio, la tecnica in sé è ciò che contribuisce a liberare l’uomo dalle necessità che la realtà materiale gli impone, legandolo a sé, ma essa è andata incontro, per Bergson, alla perdita del proprio senso, richiudendosi in sé stessa e portando, nell’uomo, a un’ipertrofia del “corpo” rispetto all’anima. La mistica è così chiamata a fornire anche un “supplemento d’anima” al corpo dell’uomo divenuto smisurato per via della tecnica. Solo in questo modo, secondo Bergson, l’umanità potrà forse nuovamente sollevarsi da terra e tornare a guardare il cielo:



una decisione si impone. L’umanità geme, semischiacciata dal peso del progresso compiuto. Non sa con sufficiente chiarezza che il suo avvenire dipende da lei. Spetta a lei vedere prima di tutto se vuole continuare a vivere; spetta a lei domandarsi in seguito se vuole soltanto vivere, o fornire anche lo sforzo affinché si compia, persino sul nostro pianeta refrattario, la funzione essenziale dell’Universo, che è una macchina per produrre dèi. [Le due fonti della morale e della religione, Osservazioni finali]



1. Per Bergson la morale: a. costituisce un’attività che inibisce lo slancio creatore. b. è interamente originata dalla pressione che la società esercita al fine di garantire la propria conservazione. c. è aperta quando la vita sociale poggia sull’abitudine di contrarre abitudini. d. consente all’uomo di proseguire l’azione creatrice. 2. Secondo Bergson, la possibilità per l’uomo di immettersi direttamente nello slancio vitale è compiuta propriamente dalla: a. morale chiusa. b. religione dinamica. c. morale aperta. d. religione statica.

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SINTESI CAPITOLO 14

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parte II La svolta del Novecento La scienza e la vita. Henri Bergson (1859-1941) si propone di tematizzare esplicitamente la questione cruciale dei rapporti tra scienza e vita: la sua opera principale, L’evoluzione creatrice, lungi dall’essere una critica radicale alla scienza in quanto tale, costituisce il tentativo di procedere, con l’ausilio della metafisica, a una vera e propria rifondazione del sapere scientifico. La “scoperta” della durata. Per la scienza il tempo è tutt’altra cosa rispetto al tempo reale: è il tempo sottoposto alla misura, un tempo spazializzato, cioè ridotto alla successione di istanti identici. Ma il vero carattere del tempo è la durata, la mobilità, il puro scorrere; per coglierlo occorre addentrarsi nel dominio della vita interiore, come emerge dal Saggio sui dati immediati della coscienza (1889). Il punto di partenza è dato dalla considerazione dei nostri stati di coscienza (sensazioni, sentimenti, passioni, sforzi) a cui si applica la nozione di intensità: quest’ultima rimanda alla molteplicità dei nostri stati di coscienza, che non è di tipo numerico, spaziale e quantificabile, ma qualitativo e rinvia alla durata. Materia e memoria. In Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito (1896), Bergson affronta la questione del dualismo tra spazio e durata, materia e spirito. Per evitare l’opposizione assoluta dei due termini, occorre concepire la realtà materiale come un insieme di immagini, ovvero una realtà intermedia tra la mera estensione geometrica e la rappresentazione. Il mondo esterno è un insieme di immagini tra le quali risalta quella del proprio corpo: questo riflette su di sé le azioni delle altre immagini e prefigura le possibili reazioni ad esse. Il corpo si configura così come un vero e proprio centro di azione e la percezione indica l’azione possibile del corpo stesso nell’insieme delle immagini. Percezione e materia partecipano, dunque, della stessa realtà. La coscienza consiste in una relazione selettiva con gli oggetti in funzione della loro utilità: l’immagine conosciuta sorge dal fatto che vengono oscurate le immagini che non ci interessano immediatamente. In questa dinamica di scelta svolge un ruolo fondamentale la memoria. Bergson distingue due tipi di memoria: la me-

moria-abitudine e la memoria pura, spontanea. La prima registra il passato sotto forma di abitudini motorie ed è legata alla ripetizione automatica di un’azione; la seconda registra, sotto forma di immagini-ricordo, gli avvenimenti della nostra vita man mano che si svolgono. La memoria pura è sempre presente, nel senso che tutto il nostro passato incombe continuamente su di noi: tuttavia la nostra coscienza attuale prende da essa solo ciò che è utile ad illuminare la situazione presente. Per illustrare l’inserzione nel presente del passato e per mostrare il legame tra le due forme di memoria, Bergson si serve dell’immagine di un cono rovesciato che poggia con il vertice su di un piano. La memoria dunque non consiste in un regresso dal presente al passato, bensì in un continuo progresso del passato nel presente. Nella memoria risiede pertanto la soluzione al problema metafisico della relazione fra spirito e materia. L’evoluzione creatrice. Nell’Evoluzione creatrice (1907) Bergson tenta di conciliare dualità e identità di materia e spirito, senza compromettere l’unità della durata, allargando l’analisi dal piano psicologico al piano cosmologico e metafisico. L’intera dimensione della vita è interpretata alla luce dell’idea di durata che costituisce l’intima essenza dell’esistenza dell’Universo; questa si caratterizza per la continuità del cambiamento, la creazione incessante di forme nuove e imprevedibili (continuità creatrice). La vita è una corrente che produce un progresso continuo. Evoluzione significa allora registrazione continua della durata, propagarsi di un unico impulso che spinge verso il cambiamento. Rifiutando tanto la concezione meccanicistica quanto quella finalistica della vita, Bergson riconduce l’evoluzione creatrice allo slancio vitale, un principio che indica l’unità primitiva da cui si dipartono, differenziandosi, le diverse linee del processo evolutivo. N egli animali, il processo evolutivo si è separato nelle due linee degli artropodi e dei vertebrati, il cui punto culminante è rappresentato dall’uomo. La prima linea ha condotto all’istinto, che è la facoltà di utilizzare e costruire strumenti organici, l’altra all’intelligenza, che è la facoltà di fabbricare e usare strumenti artificiali. Istinto e intelligenza sono due

diversi modi di affrontare il medesimo problema di agire sulla materia. L’istinto coglie immediatamente le cose, l’intelligenza invece conosce solo i rapporti tra le cose; all’intelligenza è così preclusa la comprensione della vita perché assieme alla scienza concepisce la vita solo in termini di immobilità, discontinuità e fissità. Solo l’intuizione, cioè l’istinto divenuto cosciente di sé, è in grado di cogliere la vita nella sua essenza. La materia si origina dallo stesso slancio vitale da cui deriva l’intelligenza: essa risulta dall’inversione, dall’interruzione, dall’arresto del movimento dello slancio creatore e, pur essendo il limite che oppone resistenza allo slancio vitale, non è esterna a quest’ultimo. Lo slancio vitale è un atto creatore e non una cosa che crea delle cose. Materia e spirito sono così due sensi della vita, due direzioni opposte di una stessa e unica realtà. Il superamento del dualismo consente a Bergson di ridefinire i rapporti tra scienza e metafisica. La morale e la religione. Nella storia dell’evoluzione della vita solo l’uomo prosegue l’azione creatrice: la morale e la religione, trattate da Bergson nell’opera Le due fonti della morale della religione (1932), sono le attività con cui l’uomo si avvicina maggiormente allo slancio creatore. La morale scaturisce sia dalla pressione sociale che dall’amore per l’umanità: nel primo caso, le norme esprimono le esigenze di una società preoccupata di garantire la propria conservazione (morale chiusa); nel secondo questa si fonda sullo slancio di amore per tutta l’umanità, incarnandosi in individui particolari che assurgono al rango di veri e propri esempi in forza del richiamo che esercitano (morale aperta). La religione si distingue in religione statica e religione dinamica. La prima è l’esito della funzione fabulatrice e consiste nella reazione difensiva della natura contro il potere destabilizzante dell’intelligenza. La seconda, invece, immette direttamente nello slancio vitale grazie all’opera di alcuni esseri privilegiati che trascinano il resto dell’umanità, come nel caso dei grandi mistici cristiani. La mistica, per Bergson, è chiamata a fornire nel tempo presente un «supplemento d’anima» al corpo dell’uomo divenuto smisurato per via della tecnica.

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BIBLIOGRAFIA Fonti

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H. Bergson, Pensiero e movimento, trad. di F. Sforza, Bompiani, Milano 2000. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, trad. di F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 2002. H. Bergson, Materia e memoria, trad. di A. Pessina, Laterza, RomaBari, 20064. H. Bergson, Il riso, trad. di A. Cervasato e C. Gallo, Laterza, Roma-Bari, 20076. H. Bergson, L’evoluzione creatrice, a cura di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2002. H. Bergson, L’energia spirituale, trad. di G. Bianco, Raffaello Cortina, Milano 2008.

· · · ·

• H. Bergson, Durata e simultaneità, trad. di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2004; H. Bergson, Storia della memoria e storia della metafisica (cinque lezioni al Collège de France), trad. di R. Ronchi e F. Leoni, Raffaello Cortina, Milano 2007.

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Studi critici Per un’introduzione alle opere di Henri Bergson si rimanda a: A. Pessina, Introduzione a Bergson, Laterza, Roma-Bari 2003.

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Opere

Sugli aspetti filosofici e metodologici della filosofia di Bergson e sulla loro forza innovativa è fondamentale il volume di: G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, Einaudi, Torino 2001.

Sul confronto di Bergson con la teoria einsteiniana della relatività si veda:

Sulla questione della vita in Bergson si veda:

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• G. Deleuze - G. Canguilhem, Il significato della vita, Mimesis, Milano 2006. Sul significato della presenza di Dio in relazione alle tematiche della vita e del nulla nell’Evoluzione creatrice si può vedere: G. Strummiello (a cura di), Dio, la vita, il nulla. L’evoluzione creatrice di Henri Bergson a cento anni dalla pubblicazione, Edizioni di Pagina, Bari 2008.

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L’idea che la filosofia bergsoniana sia corrispondente ai postulati della scienza e della tecnologia dei nostri giorni si ritrova per esempio in: R. Barilli, Bergson. Il filosofo del software, Raffaello Cortina, Milano 2005.

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ESERCIZI

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parte II La svolta del Novecento 1. Perché Bergson occupa, oggi, un posto centrale nel panorama della storia della filosofia del Novecento? (max 5 righe) 2. Illustra le ragioni che hanno spinto Bergson ad occuparsi del concetto di “durata” e chiarisci quale differenza intercorre tra tempo, spazio e durata (max 8 righe). 3. Come perviene, Bergson, alla scoperta della “durata”? (max 8 righe) 4. Illustra la soluzione proposta da Bergson, nell’opera Materia e memoria, per superare il dualismo tra spirito e materia. Nella tua trattazione utilizza i seguenti concetti: corpo, percezione, materia, immagine, coscienza, memoria, durata (max 15 righe).

Processo evolutivo 1. Artropodi  Istinto

= è la facoltà di .................... ..............................................  Intuizione = ..........................................

2. Vertebrati Intelligenza = è la facoltà di .................... ..............................................  Scienza = .......................................... .............................................. 13. Chiarisci perché, come Bergson afferma nell’opera L’evoluzione creatrice, la materia non è esterna allo slancio vitale (max 5 righe).

5. In che cosa consiste per Bergson la coscienza? (max 3 righe)

14. Per Bergson lo slancio vitale è un «atto creatore» e non «una cosa che crea delle cose». Chiarisci questa differenza fondamentale (max 5 righe).

6. Dopo aver esplicitato la differenza fra memoria-abitudine e memoria pura, chiarisci il legame che intercorre tra le due forme di memoria aiutandoti con l’immagine bergsoniana del cono rovesciato (max 8 righe).

15. Nell’opera L’evoluzione creatrice Bergson approda ad una diversa soluzione del problema del dualismo rispetto all’opera precedente Materia e memoria. In che cosa risiede questa differenza? (max 8 righe)

7. Quali esigenze spingono Bergson a scrivere L’evoluzione creatrice e qual è il motivo di fondo che attraversa tutta l’opera? (max 5 righe)

16. Quali conseguenze determina il superamento del dualismo tra spirito e materia nel rapporto tra metafisica e scienza? (max 5 righe)

8.Spiega le ragioni della critica di Bergson al meccanicismo e al finalismo (max 8 righe).

17. Aiutandoti con lo schema seguente, elabora un testo sulla morale e la religione in Bergson che spieghi il nesso che intercorre tra queste due attività, da una parte, e lo slancio vitale, dall’altra. Inoltre evidenzia in quali forme si arresta e in quali sopravvive lo slancio vitale (max 15 righe).

9. Elabora un testo sulla concezione evoluzionista di Bergson, utilizzando i seguenti concetti: slancio vitale, materia, continuità creatrice, durata, evoluzionismo vero (max 15 righe). 10. Di quale immagine si serve Bergson per ricostruire il movimento evolutivo attraverso cui lo slancio vitale, a contatto con la materia, si ramifica negli individui e nelle specie? (max 5 righe) 11. Perché per Bergson l’intelligenza e la scienza non sono in grado di comprendere la vita? (max 5 righe) 12. Dopo aver completato lo schema seguente, spiega la differenza fra istinto, intelligenza e intuizione (max 15 righe).

1. Pressione sociale  morale chiusa MORALE 2. Amore per l’umanità  morale aperta 1. Statica  funzione fabulatrice RELIGIONE 2. Dinamica  estasi 18. Come si presenta, agli occhi di Bergson, l’umanità contemporanea e quale compito urgente egli affida alla mistica cristiana? (max 8 righe)

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parte III

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DALL’IDEALISMO AL MARXISMO

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capitolo 15

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Benedetto Croce

1 Tra estetica e storicismo Nel diario personale che Benedetto Croce aveva iniziato a scrivere dal 1906 e che sarà pubblicato poi con il titolo di Taccuini di lavoro, vi è una notazione del 1917, che fa un bilancio significativo dell’esperienza maturata sino ad allora:



Ripensando alla mia giovinezza e al timore che a volte, allora, provavo di morire senza aver fatto nulla, considero che, se morissi ora, avrei fatto almeno tre cose importanti: cioè, proposto e illustrato tre princìpi fecondi: 1) nella scienza del conoscere, che la filosofia è metodologia, e nient’altro, ma che, appunto così, è tutto e investe tutto; 2) nella storiografia, che ogni vera storia è storia contemporanea; e 3) nella scienza dell’arte, che l’arte è intuizione lirica e la conseguente concezione individualistica o personalistica della storia della letteratura. [19 settembre 1917]



Filosofia, storia ed estetica sono i tre cardini su cui ruota tutto il pensiero crociano, a partire dai

primi interessi di storia patria, sino agli ultimi studi di estetica e alla sua “filosofia dello spirito”. Una filosofia che s’identifica con la storia, così come nella storicità si risolve la realtà stessa, la quale non può configurarsi in nient’altro che nel suo accadere. In questa prospettiva, tutta la filosofia è storia dello spirito, di uno spirito che non si occupa più dei massimi problemi della metafisica, ma dei problemi concreti della vita storica, all’interno dei quali soltanto vive la sua universalità. Di qui la definizione del pensiero crociano come storicismo assoluto: un sistema che individua nella storia, concepita come manifestazione dell’assoluto, l’orizzonte ultimo della realtà e della conoscenza. E, tuttavia, tale orizzonte non si risolve mai in un sistema immutabile: le continue revisioni e rielaborazioni che Croce stesso vi apporta sono il segno che la filosofia non può mai dirsi finita, poiché il suo compito si precisa nel risolvere problemi che sono dati storicamente, e che preparano il terreno per nuovi problemi alla cui risoluzione perverrà una nuova filosofia, un nuovo sistema, e così via, all’infinito. L’influenza che il pensiero di Croce ha avuto sulla cultura italiana tra le due guerre – non

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Benedetto Croce capitolo 15

solo sul piano della filosofia, ma anche su quello della storia e della critica letteraria, oltre che su quello della politica – è stata vasta e molto incidente. Basti pensare che la rivista di cui sarà cofondatore insieme a Gentile [ 16], «La Critica», oltre che diffondere i risultati dei propri studi, diviene nel periodo fascista l’unico punto di riferimento, tollerato dal regime, di una cultura della libertà differente da quella del regime stesso.

2 Vita di un pensatore liberale Benedetto Croce nasce a Pescasseroli (L’Aquila) il 25 febbraio del 1866. La sua formazione giovanile si compie inizialmente a Napoli, nel liceo del collegio dei Padri Barnabiti, detto della Carità, dove i suoi spiccati interessi storico-lettari si nutrono soprattutto degli scritti di Francesco De Sanctis e di Giosuè Carducci. Successivamente si trasferisce a Roma, dove si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza, frequentando però soprattutto le lezioni di filosofia di Antonio Labriola, sotto la cui influenza si interesserà alla filosofia di Herbart e al pensiero di Marx. N el 1883, a causa del terremoto di Casamicciola (Ischia) persero la vita il padre, la madre e la sorellina Maria. Ricordando quel periodo come il più cupo e doloroso della sua vita, egli confesserà: «assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, ho fortemente bramato di non svegliarmi al mattino» [Contributo alla critica di me stesso]. Tornato a N apoli nel 1886, senza peraltro aver conseguito la laurea, Croce inizia a frequentare il salotto del politico meridionalista Giustino Fortunato e instaura una duratura amicizia con il poeta Salvatore Di Giacomo. Tra il 1887 e il 1892 compie numerosi viaggi in Germania, Austria, Francia, Olanda, Spagna e Portogallo, al fine di perfezionare le lingue straniere, specialmente il tedesco. Al suo rientro ha l’opportunità di conoscere nella sede del «Corriere di N apoli» Giosuè Carducci, con il quale era già in rapporto epistolare da qualche anno. Divenuto socio dell’Accademia Pontaniana legge, nel 1893, una “memoria” sulla

Storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (nata sotto l’influsso della lettura della Scienza nuova di Giambattista Vico) e successivamente, nel 1896, un’altra Sulla forma scientifica del materialismo storico. Sono questi gli anni nei quali Croce parteciperà al dibattito sul marxismo, sottoscrivendo la nascita del nuovo giornale socialista «Avanti!» e intraprendendo alcuni studi, anche di carattere economico, che lo porteranno a inserirsi a pieno titolo nella discussione europea sulla crisi e sulla revisione del marxismo. Ne è testimonianza una serie di saggi scritti su sollecitazione di Labriola e pubblicati nel 1900 in un volume dal titolo Materialismo storico ed economia marxistica. Ma negli anni a cavallo dei due secoli – anche grazie al fatto di godere di un patrimonio finanziario che gli assicurava tutta la tranquillità necessaria per dedicarsi totalmente agli studi – l’attività di scrittore e l’impegno editoriale di Croce divengono inarrestabili, e si esprimono su più fronti. Solo nel 1897 egli pubblica un volume di Studi storici sulla rivoluzione napoletana del 1799, cura la pubblicazione delle lezioni di De Sanctis sulla Letteratura italiana nel secolo XIX e quella di un libro di Antonio Labriola sull’Università e la libertà della scienza. N el 1902 appare l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, e nel 1903 inizia la pubblicazione della «Critica», la rivista di storia, letteratura e filosofia che Croce fonderà e dirigerà assieme a Giovanni Gentile. L’amicizia con quest’ultimo risale al 1896, è intensa sino alla vigilia della prima guerra mondiale, quando si indebolisce, oltre che per motivi squisitamente filosofici, anche a causa della divergenza di posizione tra i due (neutrale Croce, interventista Gentile), per poi arrivare alla definitiva rottura durante gli anni del fascismo. Dall’incontro con Gentile erano peraltro derivati a Croce alcuni degli impulsi decisivi per l’elaborazione sistematica di un pensiero filosofico originale, forgiato soprattutto attraverso un serrato confronto con la filosofia di Hegel. Documento essenziale di questo confronto sarà il volume del 1906 intitolato Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel (ripubblicato nel 1951 con il titolo di Saggio sullo Hegel) mentre l’elaborazione filosofica propria di Croce – quella che egli definisce come «filosofia dello spirito» – sarà espo-

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sta in tre momenti: il primo con la già citata opera sull’estetica del 1902 (a cui se ne aggiungeranno diverse altre, come il Breviario di Estetica del 1912 e i Novi saggi di estetica del 1920); il secondo con la Logica come scienza del concetto puro del 1905; il terzo con la Filosofia della pratica. Economica ed etica del 1908, a cui va aggiunta la Teoria e storia della storiografia, del 1917. Un altro rapporto decisivo nella vita di Croce fu quello con l’editore barese Giovanni Laterza. Presso l’omonima casa editrice, a partire dal 1906, fu pubblicata «La Critica» (che nei primi tempi Croce aveva sostenuto a proprie spese), e vengono fondate, sempre sotto la direzione di Croce, delle collane di testi che diverranno giustamente famose per la vita filosofica italiana, come la «Biblioteca di cultura moderna», i «Classici della filosofia moderna» e gli «Scrittori d’Italia». Nel 1910 su proposta di Sidney Sonnino, Croce era entrato a far parte del Senato del Regno. Al lavoro di studioso si aggiungeva, dunque, l’impegno di politico che lo avrebbe portato ad assumere incarichi importanti come quello di ministro della Pubblica Istruzione nell’ultimo governo Giolitti (1920-21). N ei confronti del fascismo egli dapprima si illuse che potesse rappresentare una riscossa del patriottismo italiano all’indomani della fine del primo conflitto mondiale, per poi rendersi conto (soprattutto dopo il delitto Matteotti) di come esso portasse alla dissoluzione dello Stato minandolo nella sua stessa libertà. Dopo l’instaurazione della dittatura da parte del fascismo nel 1925 e per rispondere a un Manifesto degli intellettuali del fascismo redatto da Giovanni Gentile, scrive un Manifesto degli intellettuali antifascisti, recante centinaia di firme e pubblicato nei più importanti giornali, che gli procurerà la radiazione dall’elenco dei soci di tutte le accademie governative d’Italia e una continua campagna denigratoria su tutti gli organi di stampa [ T38]. In questi anni si dedica all’organizzazione e all’attività del Partito liberale compiendo viaggi in Europa: da Berlino a Parigi, da Londra a Vienna. Subito dopo la firma dell’armistizio nel 1943 riprende la sua attività politica prima partecipando a Bari al Congresso dei comitati di liberazione e poi facendo parte del primo governo Bonomi in qualità di ministro senza portafoglio. Tra il 1946 e il 1947 partecipa alle più impor-

tanti sedute dell’Assemblea costituente assumendo una posizione critica rispetto all’introduzione dei Patti Lateranensi nella carta costituzionale, alla scuola confessionale e al compromesso tra comunisti e democristiani nella redazione della Costituzione. Diventa senatore di diritto nella prima legislatura e non fa mancare il suo voto a favore dell’adesione dell’Italia al Patto Atlantico. Infaticabile anche negli ultimi anni della sua vita, Croce muore il 20 novembre 1952 all’età di 86 anni. Oltre alle sue opere teoriche resta di lui un’impressionante mole di studi storico-filosofici (come La filosofia di Gian Battista Vico del 1911 o Il carattere della filosofia moderna del 1941), storico-politici (come una Storia d’Italia dal 1871 al 1915, del 1928, e una Storia d’Europa nel secolo XIX, del 1932), letterari (come i sei volumi della Letteratura della nuova Italia, del 19141940), estetici (come Poesia e non poesia del 1923), di filosofia della storiografia (La storia come pensiero e come azione del 1938) e di carattere politico (come Etica e politica del 1931).

3 Il confronto con Hegel: forme e gradi dello spirito L’incontro con la filosofia hegeliana segna un momento decisivo nella formazione del pensiero filosofico di Croce, il quale ha chiaramente ammesso il suo debito nei confronti del filosofo tedesco, non solo per quegli aspetti che gli apparivano giusti e condivisibili del suo pensiero, ma anche e forse soprattutto per quelli da lui ritenuti insufficienti se non errati, proprio in riferimento ai quali ha sviluppato la sua proposta originale. Come si legge in opere quali Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, o Il carattere della filosofia moderna, Croce riconosce ad Hegel soprattutto il merito di una visione essenzialmente storica e non astratta della ragione. Lo “spirito”, infatti, è proprio la ragione identificata con il movimento storico del reale, e la storia da parte sua si presenta come l’unica realtà razionale, cioè veramente esistente come identità di ideale necessario e individualità contingente e libera. Tale visione hegeliana si esprime

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Schema dei distinti e degli opposti arte (sfera dell’individuale) teoretico filosofia (sfera dell’universale) Spirito economia (sfera dell’individuale) pratico etica (sfera dell’universale)

nella maniera più pregnante nella caratterizzazione del concetto come un universale non di carattere astratto, bensì concreto. A differenza di quanto sostenevano gli empiristi, il concetto non è un’intuizione immediata o un sentimento, bensì sintesi di universale e concreto: universale e non generale, come nel pensiero scientifico, e concreto, poiché la conoscenza non opera semplificazioni arbitrarie, ma considera la realtà nella sua completezza e diversità. Quando questi due fattori coesistono e sono compenetrati tra loro, abbiamo i concetti veri; quando invece essi sono assunti separatamente abbiamo degli “pseudoconcetti”, empirici se mancano di universalità, o astratti se non hanno alcuna concretezza. Essi costituiscono solo delle “finzioni intellettuali” (che non colgono cioè la pienezza essenziale della realtà) e hanno una mera finalità pratica, in quanto servono alle scienze per costruire il proprio apparato concettuale. Ogni scienza, pertanto, sarà composta da un armamentario di pseudoconcetti, diversi a seconda della natura della stessa scienza: la scienza naturale, per esempio, sarà costituita da pseudoconcetti empirici, mentre la matematica da pseudoconcetti astratti, e così via. I concetti universali e concreti sono esclusivamente quelli filosofici, come ha ben visto Hegel: solo che egli poi ha interpretato il carattere universale-concreto dei concetti come una dialettica tra momenti opposti della realtà. È l’opposizione dialettica, infatti, a costituire per il filosofo tedesco il carattere razionale del mondo e della storia. Ma si tratta secondo Croce di un

bello brutto vero falso utile dannoso bene male

grave errore, perché in tal modo non si coglie il fatto che le opposizioni reali sono concepibili solo all’interno di un connessione fondamentale tra i caratteri distinti e complementari dello spirito stesso. Non nella dialettica degli opposti, ma nel nesso dei distinti risiede il carattere spirituale del mondo e della storia. Ha ragione per esempio Hegel quando considera come opposti i concetti di vero e di falso, di bene e di male, di vita e di morte, ecc. Quando però egli considera come opposte anche coppie di concetti quali moralità e diritto, famiglia e società, spirito teoretico e spirito pratico non si accorge che tra di essi non vi sono rapporti di opposizione. Se infatti lo spirito teoretico consiste nella conoscenza del vero rispetto al falso, e lo spirito pratico invece nella produzione del bene e non del male, all’interno di ciascuno di essi vi è certamente un’opposizione dialettica (vero/falso e bene/male), mentre non vi è opposizione tra il vero e il bene. Vero e falso, infatti, sono condizioni necessarie affinché vi sia conoscenza della realtà, tanto che il vero non può essere pensato senza il suo contrario e viceversa, mentre verità e bene non dipendono necessariamente l’uno dall’altro. Più precisamente, la verità è del tutto autonoma dalla produzione del bene, mentre non vi può essere bene senza una qualche verità. Il rapporto tra verità e bene, allora, è un rapporto che lega due “gradi” differenti della realtà, dove il primo può esistere senza il secondo, mentre il secondo non può esistere senza il primo. Croce, in questo modo, cerca di rompere la logica hegeliana dell’opposizione per introdur-

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re una dialettica di distinzione e di sintesi, fatta di gradualità e di circolarità: lo spirito teoretico, infatti, diviene spirito pratico non per opposizione ma perché è proprio dello spirito divenire e quindi passare dal momento contemplativo a quello produttivo di ciò che contempla. E a sua volta lo spirito pratico, producendo una nuova realtà, esige una nuova riflessione e diviene spirito teoretico, in un processo circolare che scandisce infinitamente il tempo della storia e delle storie particolari. Il nesso di distinzione tra spirito teoretico e spirito pratico ha una sua articolazione ulteriore, poiché nello spirito teoretico si ha un’altra coppia di distinti, l’arte e la filosofia – la prima in quanto conoscenza del particolare, mentre la seconda come conoscenza dell’universale – e nello spirito pratico la coppia di economia ed etica – volizione del particolare la prima, volizione dell’universale la seconda. Finalmente, poi, ciascuno di questi quattro distinti dà luogo a una coppia di opposti, questi ultimi effettivamente sintetizzabili nel senso hegeliano, come sintesi dialettica degli opposti: l’arte ha come opposti il bello e il brutto, la filosofia il vero e il falso, l’economia l’utile e il dannoso, e l’etica il bene e il male. In base alla teoria dei distinti, la filosofia dello spirito crociana si articolerà in quattro momenti: l’estetica, la logica, l’economia e l’etica.

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1. La critica che Croce muove alla filosofia di Hegel è a causa: a. della confusione del nesso dei distinti con la dialettica degli opposti. V F b. dell’identificazione dello spirito con la storia. V F c. della dottrina secondo cui il concetto è un universale concreto. V F d. dell’opposizione di diritto e moralità. V F

4 L’estetica L’acquisizione più importante della teoria estetica di Croce è l’aver indicato l’arte come una forma specifica di conoscenza, vale a dire una conoscenza intuitiva dell’individuale alla quale sfugge il nesso con la realtà in quanto sistema di concetti. L’intuizione artistica si situa infatti tra

due poli, il concetto e la sensazione, che costituiscono il confine superiore e quello inferiore della conoscenza estetica. A differenza della sensazione che è pura passività, l’intuizione estetica è già produzione di qualcosa, ma tale produzione non fa che oggettivare le proprie impressioni, senza giungere mai alla conoscenza intellettuale. Si tratta pertanto di una conoscenza «libera da concetti», la cui esistenza è stabilita dalla sua espressività. Nella concezione estetica di Croce vi è identità tra intuizione ed espressione: «ogni vera intuizione o rappresentazione è, insieme, espressione [in quanto] lo spirito non intuisce se non facendo, formando, esprimendo» [Estetica come scienza dell’espressione, I, 1]. È questo uno dei punti più discussi dell’estetica crociana: l’intuizione non può essere ricondotta a una pura interiorità, pena l’inesistenza della stessa arte, bensì implica sempre un’abilità espressiva creativa. Tale capacità di intuizione-espressione è propria di ogni uomo, non solo dell’artista o del genio. Questi ultimi, infatti, manifestano solo in misura maggiore ciò che è comune a tutti gli uomini. È dunque una differenza meramente quantitativa e non qualitativa, pena l’incomunicabilità da parte dell’artista della sua stessa creazione. Del tutto opposta alla visione romantica dell’estetica, in Croce la relazione intuizioneespressione conduce a due importanti conseguenze: da una parte l’impossibilità di confondere l’espressione, presa per sé stessa, con l’espressione artistica – quest’ultima, infatti, non è che una traduzione “tecnica” e, perciò, pratica dell’espressione stessa – dall’altra, la convinzione che ogni tipo di espressione sia di per sé una creazione estetica, e quindi, la prima forma di espressione – quella linguistica – altro non è che una produzione artistica al pari di ogni altra. L’identità tra arte e linguaggio, tra estetica e linguistica, costituisce un punto importante nel pensiero crociano: il linguaggio al pari dell’arte ha origine in quanto creazione spontanea antecedente il piano dei concetti. L’estetica riveste, così, un preciso significato all’interno della filosofia dello spirito: è il primo momento in cui si esplica l’attività dello spirito, una forma autonoma di conoscenza che precede quella intellettuale. Al di là dell’arte, con la sua conoscenza intuitiva, vi è la “scienza dello spirito”, cioè la filosofia, che procede mediante concetti e giunge a conoscere la realtà nella sua

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L’a priori dell’Arte, della Poesia e della Bellezza non esiste quale idea in alcuno spazio iperuranio, percepibile e ammirabile per sé, ma nelle infinite opere di poesie, di arte e di bellezza, che ha plasmate e plasma; così l’a priori logico dell’arte non esiste altrove che nei particolari giudizi che esso ha formati e forma. [Aestethica in nuce, I, La scienza dell’arte o Estetica, e il suo carattere filosofico]



In virtù della sintesi a priori, l’arte si pone in quanto forma universale di conoscenza: una forma preconcettuale attraverso cui è possibile osservare tutta la realtà da quel particolare punto di vista che è l’intuizione. Il sentimento costituisce, in tal modo, un metro di giudizio di tutta la realtà. Tale visione universale dell’arte porta, in secondo luogo, a considerare inutili e fuorvianti le distinzioni tra i vari generi letterari: ogni classificazione di questo tipo non sarebbe che un’indebita intrusione di categorie dell’ambito logico, nella purezza della sintesi estetica. Allo stesso modo risulta inopportuno considerare la categoria del bello rinviando al suo oggetto o al soggetto che l’ha prodotta: la nozione del bello, infatti, non è che una manifestazione dell’attività dello spirito e, in tal senso, non si potrà più parlare di cose belle, poiché ogni trasfigurazione artistica non è che un momento dello spirito all’interno del quale, solo, si genera la bellezza.

1. L’arte secondo Croce: a. è conoscenza intellettuale. b. è intuizione del particolare. c. non è una forma di conoscenza. d. è conoscenza sensibile. 2. La concezione estetica di Croce: a. pone l’identità tra intuizione ed espressione. b. sostiene la natura artistica del linguaggio. c. individua il sentimento come contenuto dell’espressione artistica. d. ritiene inessenziali le distinzioni tra i vari generi letterari.

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universalità. Come si è già visto, infatti, arte e filosofia costituiscono i due momenti distinti dell’attività dello spirito teoretico. Nel corso degli anni Croce approfondirà alcuni aspetti della sua visione estetica, come quello riguardante il contenuto dell’espressione artistica, che egli indicherà con il termine di sentimento. L’arte, infatti, intuisce ed esprime il sentimento, e tale espressione non è che un’intuizione lirica, una capacità propria dell’artista di sublimare, trasfigurandole, le proprie passioni. Sentimento e forma espressiva sono intimamente legate e costituiscono ciò che Croce chiama sintesi a priori estetica. Un’espressività che non conduca a un sentimento è una “forma vuota”, così come un sentimento che non porti a una sua forma espressiva è un “sentimento cieco”, ovvero un sentimento che non ha più nulla a che vedere con l’ambito estetico, ma con quello pratico.

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5 La filosofia come storicità Quello della storiografia è un interesse che permea tutta la vita di Croce sin dalla memoria sulla Storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, in cui le due discipline erano accomunate dal fatto di conoscere entrambe l’individuale. Una più precisa messa a punto metodologica sul lavoro dello storico è offerta nello scritto sulla Teoria e storia della storiografia. In essa Croce introduce la differenza fondamentale tra storia e cronaca: la prima vive dell’interesse attuale che il documento storico suscita nello studioso, mentre la seconda non è che una raccolta di dati del passato, il cui fine è meramente pratico (non conoscitivo) e in definitiva pseudostorico. La vera storia, invece, in quanto storia dell’universale, è una filosofia in atto, un processo in atto che conduce alla formulazione di un vero e proprio giudizio di natura storica. Questo però non significa affatto che lo storico possa o debba formulare giudizi di valore sui vari fatti storici; ogni fatto storico, infatti, è “positivo” e ha valore in sé stesso, appunto in quanto è accaduto; e se ogni fatto non può che essere storico, non si dovrà mai scegliere tra di essi. Piuttosto, il compito del giudizio storico sarà quello di comprendere gli eventi della storia non come qualcosa del passato, ma come qualcosa del presente: ogni storia è, infatti, storia contemporanea. La contemporaneità della storia intera non vuol dire semplicemente che i fatti del passato vanno di volta in volta “attualizzati” nel presente o che se ne devono individuare gli effetti e le ricadute nell’oggi, ma molto più radicalmente che la

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storia coincide con lo spirito, e lo spirito con l’essere ultimo del mondo. È lo spirito ad essere sempre contemporaneo, perché sempre attuale:



E sarà impossibile intendere mai nulla del processo effettivo del pensatore storico se non si muove dal principio che lo spirito stesso è storia, e in ogni suo momento fattore di storia e risultato insieme di tutta la storia anteriore; cosicché lo spirito reca con sé tutta la sua storia, che coincide poi col sé stesso. [Teoria e storia della storiografia, I, cap. 1]



L’attività teoretica, cioè conoscitiva, dello spirito è dunque un’attività tutta storiografica, poiché non vi è realtà che non si dia nella sua storicità – o meglio come storicità. L’identificazione tra storia, realtà e spirito costituisce il tratto fondamentale dello storicismo assoluto di Croce: lo spirito, nel suo raccontarsi, si compie e si conserva attivamente nel presente. In questa prospettiva, la filosofia stessa rappresenta solo il momento metodologico della storiografia: questo suo compito, però, non si limita a un’esposizione del formarsi storico della filosofia, ma deve arrivare a chiarire le categorie di cui si avvale il giudizio storico, vale a dire la dimensione storica dello spirito. Il lavoro del filosofo è tutt’uno con l’opera dello storico: ed è per questo che la riflessione teoretica di Croce non è semplicemente parallela al suo lavoro effettivo di storico, ma lo guida, si incarna in esso e da esso trae la materia per il giudizio filosofico. L’identificazione della filosofia con la storiografia conduce a pensare tutta la filosofia dello spirito non più all’interno di una prospettiva metafisica, bensì all’interno di una metodologia. Lo spirito non può più essere inteso hegelianamente come un sistema di categorie che è al di sopra di tutto e regola dall’esterno la storia concreta: in Croce, lo spirito assoluto è esso stesso storia concreta, e la filosofia, lungi dal pensare l’universale in sé e per sé, si compie in una storicizzazione necessaria e infinita, poiché ogni evento che si chiude ne apre altri all’infinito.



La filosofia non è mai definitiva e i sistemi non sono statici ma sempre in moto, e meglio si chiamerebbero provvisorie sistemazioni, quasi fermate per prender fiato dove si può prenderlo, come al termine di un periodo di senso compiuto. [Critiche delle filosofie, cap. 4]



1. La filosofia di Croce si può definire “storicismo assoluto” in quanto: a. la filosofia si riduce ad essere metodologia della storiografia. V F b. lo spirito stesso è storia. V F c. la filosofia si deve occupare di problemi eterni. V F d. il compito della filosofia è giustificare la possibilità del sapere storico. V F

6 La filosofia pratica: l’economia e l’etica L’attività pratica dello spirito coincide con la volizione e quest’ultima con un fine che può essere individuale o universale. Nella sua Filosofia pratica. Economica ed etica, Croce definisce l’attività pratica dello spirito come volizione, cioè un’intenzione che si realizza necessariamente in atto. La volizione dello spirito può avere come oggetto un fine individuale o un fine universale, e così si presenterà, rispettivamente, come attività economica e come attività etica. Nell’ambito dell’attività economica – termine, questo, che indica la sfera di ciò che è utile agli uomini – rientrano oltre alle scienze particolari, anche le attività giuridiche e politiche. La scienza giuridica, il diritto, descrive quelle azioni che possono essere oggetto di sanzione o che comportano determinate conseguenze su altri individui o sul corpo sociale: essa si presenta come un insieme di norme, cioè azioni efficaci che si esprimono attraverso un comando, e possono esercitare la propria forza anche senza l’assenso universale della morale. Proprio in quanto il diritto mira all’utile individuale (dei singoli o della società), esso risulta pienamente autonomo rispetto alla morale, che invece riguarda norme etiche di tipo assoluto e universale. In altri termini, il diritto precede la morale ed è in sé stesso rigorosamente amorale; e più in generale vi possono essere azioni “perfettamente economiche” che siano al tempo stesso assolutamente “prive di moralità”. Anche la concezione dello Stato è caratterizzata dalla concretizzazione dell’utilità più o meno comune e generale. Come l’agire giuridico anche quello di uno Stato si fonda su puri rapporti di forza e sul suo esercizio concreto. Per questo motivo, contrapponendosi sia al-

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SINTESI CAPITOLO 15

l’idea hegeliana dello Stato etico sia a quella hobbesiana del Leviatano, non vi può essere per Croce Stato migliore di quello liberale, che lascia cioè il maggior spazio possibile alla libera iniziativa dei singoli o dei gruppi, limitandosi a esercitare un governo che salvaguardi la libera iniziativa e il volere degli individui. Quando si passa invece alla sfera etica, lo spirito non mira al proprio utile in forma concreta e individuale, ma guarda al perseguimento del bene universale. Se l’attività politico-giuridica distingue tra ciò che è utile e ciò che è dannoso, la moralità individua invece quello che è l’interesse supremo, il culmine della vita dello spirito pratico: e questo bene non è un valore trascendente, ma lo stesso affermarsi dello spirito come azione volontaria e come libertà. Ma se il bene si identifica con questa volontà libera e universale dello spirito, il suo opposto, cioè il male, non è che un difetto, una carenza dello spirito e, pertanto, irreale: «il male, quando è reale, non esiste se non nel bene che gli contrasta e lo vince» [Filosofia della pratica, sez. II, cap. 2]. Tale posizione non può che condurre a una visione positiva del cammino della storia che Tra estetica e storicismo. Il pensiero crociano si presenta come storicismo assoluto: un sistema che individua nella storia, concepita come manifestazione dell’assoluto, l’orizzonte ultimo della realtà e della conoscenza. Il confronto con Hegel: forme e gradi dello spirito. L’incontro con la filosofia hegeliana segna un momento decisivo nella formazione del pensiero filosofico di Croce (1866-1952), il quale ha chiaramente ammesso il suo debito nei confronti del filosofo tedesco. Croce riconosce ad Hegel soprattutto il merito di una visione essenzialmente storica e non astratta della ragione. Tale visione hegeliana si esprime nella maniera più pregnante nella caratterizzazione del concetto come un universale non di carattere astratto, bensì concreto. Quando questi due fattori coesistono e sono compenetrati tra loro, abbiamo i concetti veri; quando essi sono assunti invece separatamente abbiamo degli “pseudoconcetti”, empirici se mancano di universalità, o astratti se non hanno alcuna concretezza.

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tende a giustificare ogni evento storico: tutto ciò che accade, infatti, per il fatto stesso che accade costituisce un bene, poiché rappresenta un momento dell’attività e dello sviluppo dello spirito. Ma questo a sua volta non significa che tutto sia moralmente accettabile, e il riconoscimento che lo spirito si attua come storia è tutt’uno con lo sviluppo della nostra responsabilità – anch’essa fattore storico dello spirito – nel realizzare attivamente le condizioni di una libertà sempre più realizzata. Resta il problema di dare un contenuto a questa libertà, dal momento che, a rigore, esso per Croce non può che identificarsi con l’accadere storico. Può ancora qualcosa, la singola libertà, rispetto a questo assoluto? Croce parlerà di una vera e propria «religione della libertà», il cui unico Dio è la necessità storica dello spirito. 1. In base alla filosofia pratica di Croce: a. l’attività pratica coincide con la volizione. b. l’attività etica ha un fine universale. c. al fondamento del diritto vi è la morale. d. lo scopo dello Stato deve essere la tutela dell’interesse comune.

I concetti universali e concreti sono esclusivamente quelli filosofici, come ha ben visto Hegel: solo che egli poi ha interpretato il carattere universale-concreto dei concetti come una dialettica tra momenti opposti della realtà. Ma si tratta secondo Croce di un grave errore, perché in tal modo non si coglie il fatto che le opposizioni reali sono concepibili solo all’interno di una connessione fondamentale tra i caratteri distinti e complementari dello spirito stesso. Non nella dialettica degli opposti, ma nel nesso dei distinti risiede il carattere spirituale del mondo e della storia. Croce, in questo modo, cerca di rompere la logica hegeliana dell’opposizione per introdurre una dialettica di distinzione e di sintesi, fatta di gradualità e di circolarità: lo spirito teoretico, infatti, diviene spirito pratico non per opposizione ma perché è proprio dello spirito divenire e quindi passare dal momento contemplativo a quello produttivo di ciò che contempla. E a sua volta lo spirito pratico, producendo una nuova realtà, esige una nuova riflessione e diviene spirito teoretico, in un processo circolare

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che scandisce infinitamente il tempo della storia e delle storie particolari. Il nesso di distinzione tra spirito teoretico e spirito pratico ha una sua articolazione ulteriore, poiché nello spirito teoretico si ha un’altra coppia di distinti, l’arte e la filosofia – la prima in quanto conoscenza del particolare, mentre la seconda come conoscenza dell’universale – e nello spirito pratico la coppia di economia ed etica – volizione del particolare la prima, volizione dell’universale la seconda. Finalmente, poi, ciascuno di questi quattro distinti dà luogo a una coppia di opposti, questi ultimi effettivamente sintetizzabili nel senso hegeliano, come sintesi dialettica degli opposti: l’arte ha come opposti il bello e il brutto, la filosofia il vero e il falso, l’economia l’utile e il dannoso, e l’etica il bene e il male. L’estetica. L’acquisizione più importante della teoria estetica di Croce è l’aver indicato l’arte come una conoscenza intuitiva dell’individuale. L’intuizione artistica si situa infatti a metà strada tra il concetto e la sensazione. A differenza della sensazione

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SINTESI CAPITOLO 15

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parte III Dall’idealismo al marxismo che è pura passività, l’intuizione estetica è già produzione di qualcosa, ma tale produzione non fa che oggettivare le proprie impressioni, senza giungere mai alla conoscenza intellettuale. Si tratta pertanto di una conoscenza «libera da concetti», la cui esistenza è stabilita dalla sua espressività. N ella concezione estetica di Croce vi è identità tra intuizione ed espressione. Del tutto opposta alla visione romantica dell’estetica, in Croce la relazione intuizione-espressione conduce a due importanti conseguenze: da una parte l’impossibilità di confondere l’espressione con l’espressione artistica, dall’altra la convinzione che ogni tipo di espressione, inclusa quella linguistica, sia di per sé una creazione estetica. L’identità tra arte e linguaggio, tra estetica e linguistica, costituisce quindi un punto importante nel pensiero crociano. Nel corso degli anni Croce approfondirà alcuni aspetti della sua visione estetica, come quello riguardante il contenuto dell’espressione artistica, che egli indicherà con il termine di sentimento. L’arte, infatti, intuisce ed esprime il sentimento, e tale espres-

sione non è che un’intuizione lirica, una capacità propria dell’artista di sublimare, trasfigurandole, le proprie passioni. Sentimento e forma espressiva sono intimamente legate e costituiscono ciò che Croce chiama sintesi a priori estetica. La filosofia come storicità. Negli studi dedicati al concetto della storiografia, Croce introduce la differenza tra storia e cronaca. La vera storia, in quanto storia dell’universale, è una filosofia in atto che conduce alla formulazione di un vero e proprio giudizio di natura storica in base al quale gli eventi della storia sono da intendere come qualcosa del presente: ogni storia è, infatti, storia contemporanea. L’attività conoscitiva dello spirito è un’attività storiografica, poiché non vi è realtà che non si dia come storicità. L’identificazione tra storia, realtà e spirito costituisce il tratto fondamentale dello storicismo assoluto di Croce: lo spirito, nel suo raccontarsi, si compie e si conserva attivamente nel presente. In questa prospettiva, la filosofia stessa rappresenta solo il momento metodologico della storio-

grafia in cui si chiariscono le categorie di cui si avvale il giudizio storico. La filosofia pratica: l’economia e l’etica. Croce definisce l’attività pratica dello spirito come volizione, cioè come un’intenzione che si realizza necessariamente in atto. La volizione dello spirito può avere come oggetto o un fine individuale o un fine universale, e così si presenterà, rispettivamente, come attività economica o come attività etica. N ell’ambito dell’attività economica – termine, questo, che indica la sfera di ciò che è utile agli uomini – rientrano oltre alle scienze particolari, anche le attività giuridiche e politiche. Quando si passa invece alla sfera etica, lo spirito non mira al proprio utile in forma concreta e individuale, ma guarda al perseguimento del bene universale. Se l’attività politico-giuridica distingue tra ciò che è utile e ciò che è dannoso, la moralità individua invece quello che è l’interesse supremo, il culmine della vita dello spirito pratico: e questo bene non è un valore trascendente, ma lo stesso affermarsi dello spirito come azione volontaria e come libertà.

BIBLIOGRAFIA Fonti

Opere

B. Croce, Taccuini di lavoro, 6 voll., Arte tipografica, Napoli 1987-92. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1989. B. Croce, Tesi fondamentale di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (rist. anast. dell’ed. 1900), a cura di F. Audisio, Bibliopolis, Napoli 2002. B. Croce, Diario di Estetica Aestethica in nuce, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1990. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 2001. B. Croce, Critiche delle filosofie, in Filosofia Poesia Storia, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1996. B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed etica, a cura di M. Tarantino e G. Sasso, 2 voll., Bibliopolis, Napoli 1996.

Oltre agli scritti citati nelle “Fonti”, dell’enorme e poliedrica produzione crociana vanno ricordati almeno: B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, a cura di C. Farnetti e G. Sasso, 2 voll., Bibliopolis, Napoli 1996; B. Croce, Saggio sullo Hegel, a cura di C. Cesa e A. Savorelli, 2 voll., Bibliopolis, Napoli 2006; • B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, a cura di M. Rascaglia, S. Zoppi e P. Crateri, 2 voll., Bibliopolis, Napoli 2001; B. Croce, La storia come pensiero e come azione, a cura di M. Conforti e G. Sasso, Bibliopolis, Napoli 2002; B. Croce, La mia filosofia, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1993; • B. Croce, Nuovi saggi di estetica, Bibliopolis, Napoli 1992; B. Croce, La poesia, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1994; B. Croce, Storia d’Italia dal 1871

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al 1915, cura di G. Talamo, Bibliopolis, Napoli 2004; B. Croce, Storia d’Europa nel secolo XIX, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1993; B. Croce, Etica e politica, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1994. B. Croce, La religione della libertà. Antologia degli scritti politici, a cura di G. Cotroneo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.

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Studi critici Per uno sguardo d’insieme sul pensiero crociano si consiglia: P. Bonetti, Introduzione a Croce, Laterza, Roma-Bari 2006.

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Sui Taccuini di lavoro come preziosa fonte di ricostruzione della personalità di Croce e dell’evoluzione del suo pensiero: • G. Sasso, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto

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Benedetto Croce capitolo 15 Croce, il Mulino, Bologna 1989. Sulla formazione del pensiero crociano: V. Martorano, Estetica e teoria della storiografia. Studio sulla prima filosofia di Benedetto Croce (1893-1900), Franco Angeli, Milano 2008.

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ESERCIZI

Sulla logica crociana resta interessante: • L. Colletti, La logica di Benedetto

Croce, Costantino Marco Editore, Lungro (CS) 1993. Per il rapporto di Croce con la storia in generale e con la storia del suo tempo: G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Laterza, Roma-Bari 2002; G. Cacciatore, Filosofia pratica e filosofia civile in Benedetto Croce, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005; G. Furnari Luvarà, Tra arte

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1. Descrivi la natura e gli scopi della militanza politica del filosofo Croce (max 10 righe). 2. Discuti la tesi crociana della natura ingannevole dei concetti scientifici (max 10 righe). 3. Presenta la critica crociana alla filosofia di Hegel (max 15 righe).

e filosofia: la teoria della storia in Benedetto Croce, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001. Sul rapporto tra Croce e il “suo” editore: B. Croce - G. Laterza, Carteggio, a cura di A. Pompilio, vol. I: 19011910; vol. II: 1911-1920; vol. III: 1921-1930, Laterza, Roma-Bari 2004-2006. In preparazione il vol. IV: 1930-1943.

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4. Spiega la ragione per cui Croce, con il suo storicismo assoluto, si allontana dall’ideale illuministico della storiografia come critica del passato per abbracciare l’idea della perenne attualità della storia (max 10 righe).

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capitolo 16

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1 La filosofia attualistica: idealismo e immanentismo N ella sua Introduzione alla filosofia, Giovanni Gentile, presentando al lettore il pensiero dell’attualismo, dice espressamente in cosa consista la sua filosofia:



La filosofia attualistica è così denominata per il metodo da essa propugnato: che si potrebbe definire “metodo della immanenza assoluta” […]. Questo è il punto fermo, a cui si attacca l’idealismo attuale. La sola realtà solida, che mi sia dato affermare, e con la quale deve perciò legarsi ogni realtà che io possa pensare, è quella stessa che pensa; la quale si realizza ed è così una realtà, soltanto nell’atto che si pensa. [Introduzione alla filosofia, cap. 2, § 2]



Dunque, idealismo e immanentismo corrispondono ai due pilastri su cui è eretta l’intera filosofia attualistica gentiliana. Se la forma più rigorosa di filosofia cui l’uomo sia pervenuto è rappresentata dall’idealismo, l’unico sforzo ulteriore cui è tenuto il filosofo contemporaneo sarà

quello di concepire lo spirito non più come una sostanza o un attributo della sostanza, ma come pensiero: lo spirito coincide con il pensiero, non inteso però come un risultato cui l’uomo perviene, ma come un processo in atto, vale a dire, in quanto atto del pensare. Di qui il carattere assolutamente immanentistico dell’attualismo gentiliano: tutto ciò che si può pensare, infatti, è immanente all’atto stesso del pensare e «tutto quello che si può pensare come diverso da questo atto, in tanto si attua concretamente in quanto è immanente all’atto stesso» [Introduzione alla filosofia, cap. 2, § 2]. Non vi è nulla al di là di tale atto unico e unificante, e pertanto totalizzante. Ed è proprio questo carattere di totalità ad assumere un ruolo decisivo nella filosofia di Gentile: un pensiero che vuole portare alle conseguenze ultime la tradizione idealistica moderna. La traiettoria della filosofia gentiliana ha coinciso in gran parte con un periodo storico ben definito che nasce e si sviluppa in Italia all’indomani della prima guerra mondiale: il fascismo. N on è possibile, parlando del suo pensiero, tenere separata la storia dei fatti da quella delle idee, sebbene questo abbia molte volte impedi-

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to, dopo quella stagione, una valutazione oggettiva dell’indubbio valore teoretico del Gentile filosofo. Intellettuale e ministro, durante gli anni del regime egli ha ricoperto vari incarichi pubblici, che non possono essere considerati come una mera aggiunta rispetto al suo ruolo di intellettuale. Al contrario, come in tutta la speculazione filosofica di Gentile è chiaramente constatabile l’idea di una ricerca continua dell’unità, così, non si può disgiungere il Gentile filosofo dal Gentile riformatore politico: la stessa unità ricercata nel pensiero è, infatti, quella che egli ha voluto drammaticamente realizzare nella sua vicenda biografica. L’impegno del suo pensiero tuttavia resta più grande e in qualche modo eccedente la sua carriera politica. 1. La filosofia attualistica di Gentile: a. si distacca dalla tradizione idealistica moderna. b. concepisce lo spirito come pensiero e quest’ultimo come atto del pensare. c. sviluppa in senso immanentistico i guadagni filosofici dell’idealismo. d. separa nettamente la realtà dall’atto con cui il pensiero la pensa.

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2 Un filosofo politico Giovanni Gentile nasce a Castelvetrano, in provincia di Trapani, il 30 maggio 1875. Iscritto nel 1893 alla Scuola Normale di Pisa, frequenta le lezioni del filosofo hegeliano Domenico Jaja che lo avvicinerà alla filosofia di Bertrando Spaventa. Si laurea nel 1897 con una tesi su Rosmini e Gioberti, pubblicata come estratto negli «Annali» della Scuola Normale di Pisa. Dal 1898 al 1906 insegna filosofia nei licei, prima a Campobasso e poi a N apoli, dove incontra Benedetto Croce [ 15], con il quale collaborerà, a partire dal 1903, alla redazione della nuova rivista «La Critica», fondata dal filosofo napoletano. Dal 1906 è professore nelle Università di Palermo (1906-13), di Pisa (191416) e di Roma (dal 1918). Sono questi gli anni più proficui da un punto di vista scientifico. Tra il 1911 e il 1922, infatti, scrive alcune tra le sue opere più importanti: L’atto del pensiero come

atto puro (1912), La riforma della dialettica hegeliana (1913), la Teoria generale dello spirito come atto puro (1916) e il Sistema di logica come teoria del concetto (1922). N el 1920, Gentile fonda una delle riviste scientifiche più importanti nel panorama filosofico del nostro paese, il «Giornale critico della filosofia italiana». A differenza di Croce è tra i fautori più decisi dell’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale, aderendo da subito al movimento fascista di cui diviene l’esponente intellettuale di spicco. Ricopre la carica di ministro della Pubblica Istruzione dall’ottobre del 1922 al luglio del 1924, e vara un’importante riforma della scuola (la “riforma Gentile”, appunto), che costituirà un modello di lunga durata nei licei italiani. Gentile non cesserà mai di occuparsi di questioni pedagogiche, ritenendo essenziale la funzione della scuola nella formazione dell’intelligenza individuale e della compagine sociale. Quanto scrive a sostegno delle sue linee di riforma del sistema scolastico italiano viene raccolto e pubblicato nei volumi La nuova scuola media (1925) e La riforma della scuola di Italia (1932). L’impegno di Gentile per il fascismo ha origine dal convincimento che esso sia la continuazione storica di quella “destra” hegeliana [ 1.1], la cui caduta avrebbe favorito l’emergere di quei processi culturali – quali il positivismo scientista e il liberalismo – che stanno all’origine della crisi della società italiana. Il 21 aprile 1925 scrive il Manifesto degli intellettuali del fascismo che provoca la rottura definitiva con Benedetto Croce il quale, nel maggio dell’anno successivo, pubblicherà un contromanifesto. Dal 1926 al 1928 presiede il Consiglio superiore della pubblica istruzione. Gli scritti sul fascismo sono raccolti in tre volumi che hanno per titolo Che cosa è il fascismo? (1925), Fascismo e cultura (1928) e Origini e dottrina del fascismo (1929). La sua grande esperienza di organizzatore culturale è messa a frutto nella riorganizzazione della Scuola Normale di Pisa, e soprattutto nella direzione e promozione dell’Enciclopedia italiana, alla cui realizzazione chiamerà i migliori studiosi italiani, anche al di là del loro orientamento culturale e politico. Rimarrà alla direzione dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana sino al 1944. Oltre alle opere più propriamente filosofiche, Gentile si dedica a numerosi lavori di carattere

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storiografico – accompagnando la sua interpretazione idealistica degli autori trattatati con una non comune chiarezza e acutezza nell’affronto dei testi e nella ricostruzione delle problematiche. Gli studi di storia della filosofia riguardano specialmente il Rinascimento e il pensiero risorgimentale, e comprendono, tra le altre, opere su Bruno, Campanella, Vico, Valla, Genovesi, Galluppi, Gioberti. In particolare, uno speciale interesse – anche per la loro ricaduta teoretica – assumono gli scritti su Vico (Studi vichiani, 1915) e quelli riguardanti le relazioni tra mondo filosofico e mondo religioso (Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, 1909; I problemi della scolastica e il pensiero italiano, 1913). Dopo la caduta del fascismo il 25 luglio 1943, Gentile rinnova la sua fiducia a Mussolini e si schiera a favore della Repubblica di Salò. Proprio a causa di tale nuova adesione è assassinato a Firenze il 15 aprile 1944.

3 La riforma della dialettica hegeliana Come per Croce, anche per Gentile l’incontro con la filosofia di Hegel segna un punto di non ritorno. E non è un caso che proprio nello scritto sulla Riforma della dialettica hegeliana troviamo l’importante saggio sull’Atto del pensare come atto puro, nel quale Gentile fonda tutta la sua filosofia sul pensiero, considerato come categoria unica, logica e metafisica insieme:



ogni atto di pensiero è negazione di un atto di pensiero: un presente in cui muore il passato; è quindi unità di questi due momenti. Togliete il presente, e avrete il passato cieco (la natura astratta); togliete il passato, e avrete il presente vuoto (il pensiero astratto, ossia un’altra natura). [La riforma della dialettica hegeliana, L’atto del pensare come atto puro, cap. 4]



La categoria del pensiero viene considerata come qualcosa di concreto, cioè di realizzato, e al tempo stesso di attuale, cioè di esercitato in atto; di contro, il pensato si presenta sempre come una negazione dell’attività del pensiero, natura astrat-

ta in quanto isolata o staccata dall’attività che l’ha prodotto. Qui risiede secondo Gentile il punto di originalità della filosofia idealistica, e cioè il non svilupparsi più come una dialettica del pensato – ossia come una teoria del rapporto tra il pensiero e le cose pensate, a partire da queste ultime – bensì come una dialettica del pensante, in cui quel rapporto è considerato a partire dall’atto stesso del pensare.



Il pensare è attività, e il pensato è prodotto dell’attività, cioè cosa. L’attività come tale è causa sui, e perciò libertà; la cosa è semplice effetto, che ha fuori di sé il principio del proprio essere, e perciò è meccanismo. L’attività diviene; la cosa è. La cosa è come altro, termine della relazione ad altro. In ciò è la sua meccanicità. Quindi è uno tra molti; cioè, il suo concetto implica già la molteplicità, il numero. L’attività invece nell’altro realizza sé; ossia si realizza in sé stessa come altro; quindi è relazione con sé stessa: unità assoluta, infinita, senza molteplicità. [Teoria generale dello spirito come atto puro, cap. 17, § 3]



Pensante e pensato sono i termini entro cui è possibile rappresentare tutta la realtà, e sin dall’Antichità la filosofia ha sempre tenuto conto di due tipi di dialettica: quella del pensato e quella del pensiero. Il capostipite del primo tipo di dialettica è, secondo Gentile, Platone che concepisce le idee come cose distinte e condizionanti il pensiero. In tale dialettica, la realtà è già tutta data, e con essa la verità: non è possibile una reale scoperta, poiché tutto ciò che è nuovo lo è solo apparentemente, essendo la realtà già tutta data sin dall’origine. Al contrario, la dialettica del pensiero come atto, propria della filosofia moderna a partire da Kant, concepisce la realtà non più come qualcosa che è oltre sé, oltre la conoscenza stessa, ma come posta dal pensiero stesso. L’atto del pensare è, infatti, il presupposto di tutto ciò che si possa pensare della realtà ed è, pertanto, la radice stessa della sua esistenza in quanto pensata. Per questo motivo la storia del pensare diviene identica al divenire della stessa realtà. Fin qui, il pensiero di Gentile non si discosta dalla filosofia hegeliana. Ai suoi occhi, tuttavia, Hegel sembrerebbe non aver portato alle sue estreme conseguenze tale dialettica, mantenendo quei caratteri di distinzione del pensiero che

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gli hanno impedito di considerare l’atto puro del pensare come categoria unica. La distinzione hegeliana tra la fenomenologia dello spirito e la scienza della logica e la tripartizione dell’Enciclopedia in logica, filosofia della natura e filosofia dello spirito, sono gli elementi che inducono Gentile a proporre una riforma della dialettica hegeliana che abbia nella dialettica del pensare puro l’unico atto nel quale tutta la realtà si risolve. Tale nuova dialettica consente di risolvere senza problemi il passaggio dall’uno ai molti. Il porsi dell’oggettività, cioè della natura, è una necessità per il pensiero: esso non potrebbe sussistere come atto pensante se non ponesse l’altro da sé, e se questo altro da sé non si presentasse effettivamente tale, cioè come un’alterità. Ma in tale alterità dell’oggetto rispetto al pensiero è il pensiero stesso che si pone, in modo che la natura appena posta venga al tempo stesso negata in quanto natura. Il pensante, infatti, in quanto pone qualcosa, produce qualcosa di diverso dall’io; ma in quanto ciò che è posto non è altro che l’io stesso (poiché è l’io che lo pone), allora il prodotto non può che identificarsi con chi lo sta producendo. Il pensare non trova, perciò, che sé stesso.

1. Secondo Gentile il pensiero: a. è insieme qualcosa di realizzato e di esercitato in atto. b. è qualcosa di astratto, cioè di staccato dall’attività che lo produce. c. coincide con il pensato. d. è una categoria logica e insieme metafisica.

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2. L’atto del pensare costituisce per Gentile: a. l’effetto del pensiero. b. ciò che è intrinsecamente molteplice. c. ciò che trova fuori di sé il principio del proprio essere. d. la radice dell’esistenza della realtà in quanto pensata. 3. La riforma della dialettica hegeliana realizzata da Gentile consiste propriamente: a. nell’eliminare le distinzioni del pensiero presenti in Hegel, il quale non aveva posto come unica categoria l’atto puro del pensare. b. nel considerare l’alterità del prodotto del pensiero insieme come diverso e identico all’io. c. nell’attribuire maggiore rilievo alla distinzione hegeliana fra logica, filosofia della natura e filosofia dello spirito. d. nel risolvere il problema del passaggio dall’unità alla molteplicità, distinguendo pensiero e realtà.

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4 La teoria dell’attualismo All’interno di questa riforma della dialettica il pensiero non solo assume il ruolo di categoria unica nella comprensione della realtà, ma anche quello di unico atto puro. L’io stesso consiste in questo atto che non ha nulla fuori di sé: l’io che pensa diviene il tutto. Tale atto puro del pensare costituisce quello che Gentile stesso definisce «formalismo assoluto»: un processo di radicale annullamento, nella sintesi del pensiero, di tutto il reale. L’idealismo gentiliano viene chiamato attualismo proprio in virtù del fatto che si vuole ricondurre tutta la realtà all’atto del pensiero pensante. Tuttavia, per approfondire questa sua caratteristica è necessario comprendere appieno quale sia il significato che Gentile dà al concetto di pensiero e di io:



Il punto di vista trascendentale è quello che si coglie nella realtà del nostro pensiero quando il pensiero si consideri non come atto compiuto, ma, per così dire, quasi atto in atto. Atto, che non si può assolutamente trascendere, poiché esso è la nostra stessa soggettività, cioè noi stessi; atto, che non si può mai e in nessun modo oggettivare. Il punto di vista nuovo, infatti, a cui conviene collocarsi, è questo dell’attualità dell’io, per cui non è possibile mai che si concepisca l’io come oggetto di sé medesimo. [Teoria generale dello spirito come atto puro, cap. 1, § 6]



“Atto in atto”: la vera filosofia idealistica non può che giungere a ricondurre tutti i momenti dello spirito, dall’arte alla religione, a quell’unico momento che è il pensiero pensante. D’altra parte, l’atto del pensare non è che l’unico punto di vista nel quale deve porsi il vero idealismo, il punto di vista del soggetto pensante, dell’io. Un io trascendentale che rende possibile ogni determinato atto del pensare; un io, cioè, che, pur producendo singoli atti di pensiero, non si risolve in nessuno di essi. L’originalità di Gentile consiste non soltanto nel fatto di aver considerato che ogni oggetto presuppone il soggetto pensante, ma soprattutto nell’aver ritenuto impossibile il pensare una qualsiasi attività del pensiero, lasciando fuori l’atto del pensarla. Tale atto del pensare costituisce, così, il presup-

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posto fondamentale e irrinunciabile di ogni conoscenza. Al di fuori di tale atto non si dà, pertanto, alcuna realtà autonoma. A questo punto occorrerà chiedersi se tale unità, cioè il processo in divenire dell’atto puro del pensare, ammetta caratteri tra loro distinguibili. A tale questione, Gentile risponderà con la dottrina della monotriade: l’arte corrisponde all’attività dello spirito in quanto puro soggetto, la religione corrisponde all’attività dello spirito in quanto oggetto, la filosofia all’immanenza di soggetto e oggetto nello spirito. L’arte, dunque, corrisponde al momento della pura soggettività. Così come in Croce, l’estetica costituisce una conoscenza preconcettuale, pura liricità e fantasia del soggetto. La dimensione estetica è puro sentimento, tanto che qualora intervenisse la coscienza dell’io, l’arte trascenderebbe sé stessa.



La prima conclusione ci fa avvertiti che l’arte pura è inattuale. Non è attuale vita dello spirito, ma entra nell’attualità spirituale, e lì si fa sentire e concorre con la sua presenza alla realizzazione della vita dello spirito, qual’essa è, sempre che sia, attualmente. È immanente alla coscienza e la trascende, come l’a priori di cui si ragiona nella filosofia kantiana. N on è esperienza che si possa vivere, ma principio trascendentale dell’esperienza artistica. [La filosofia dell’arte, parte I, cap. 1, 10]



Il carattere inattuale dell’arte costituisce il modo attraverso cui l’opera d’arte vive di per sé, in quanto prodotto del passato. Ed è proprio tale modo che permette all’arte di esistere fuori dal pensiero. E tuttavia, come ogni altro momento della realtà, anche l’arte non può che risolversi nel pensiero, trascendendo sé stessa, attualizzandosi e dissolvendosi nel pensiero: «l’arte ci sarà in quanto non ci sarà», scrive icasticamente Gentile. Se l’arte è il momento della soggettività, la religione è quello dell’oggettività, vale a dire, quello in cui il soggetto puro aliena a tal punto sé stesso, da concepire un essere a sé estraneo – Dio – in quanto oggetto assoluto. La religione, in tal modo, giunge a negare l’autosufficienza del pensiero e del soggetto, negando la sua stessa libertà. N ella religione, poi, si verifica il processo inverso a quello che si attua nel pensiero, poiché in essa è l’oggetto del pensiero, cioè Dio, che

rivela sé stesso e si fa conoscere agli uomini. Il pensiero è, perciò, creazione di Dio: eteroctisi. Solo nella filosofia si attua quel momento di sintesi tra soggettività e oggettività concepito come atto puro del pensare. Nell’unità di questo atto si risolve la logica e l’esistenza del reale, per cui si può dire che l’io è un essere che paradossalmente non “è”, in quanto non si oggettiva mai in una forma determinata, ma è puro atto e, al tempo stesso, tale atto costituisce il suo unico, vero “essere”:



L’Io è questo essere che non è; ma è essendo: questa realtà che annulla sé stessa al paragone di una realtà che non è, e si pensa: una realtà che nel proprio idealizzamento nega sé stessa. […] Il suo essere non è pensabile come indipendente dall’affermazione che se ne faccia, come ogni altro essere che si afferma da un soggetto diverso dall’essere stesso: e però la sua affermazione non può essere se non autoaffermazione. Ed ecco che l’essere del mio Io non è se non l’atto con cui io affermo me stesso non dicendo o pensando, ma facendo e realizzando il suo essere: “Io = Io” significa: “Io mi fo Io”. L’Io perciò è veramente autoctisi. [Sistema di logica, parte III, cap. 5, 4]



Arte e religione si risolvono, così, nel momento dell’atto puro dello spirito, che è atto del pensare, produzione dell’io, autoctisi. Gentile è persuaso che il superamento di ogni particolare, di ogni individualismo, debba necessariamente passare attraverso l’instaurazione di un atto di autotrascendimento dell’io. È solo il pensiero, infatti, che ritorna su sé stesso riconoscendo sé nelle cose.

1. Con l’espressione “formalismo assoluto” Gentile intende: a. il fatto che l’io che pensa costituisca la totalità del reale. b. la posizione filosofica in base alla quale le forme del pensiero sono indipendenti rispetto ai contenuti pensati. c. il totale annullamento dell’io nella realtà. d. il fatto di porre l’io come oggetto di sé stesso. 2. Per Gentile l’io trascendentale: a. costituisce una realtà autonoma rispetto all’oggetto. V b. è ciò che rende possibile ogni atto del pensare. V c. è ciò che produce i singoli atti di pensiero, risolvendosi di volta in volta in ciascuno di essi. V d. non lascia fuori di sé alcuna realtà autonoma. V

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Giovanni Gentile capitolo 16 3. La dottrina della monotriade di Gentile: a. risponde al problema di conciliare unità e distinzione nel processo dell’atto puro. b. concepisce l’arte come l’attività dello spirito in quanto oggetto. c. concepisce la religione come negazione dell’autosufficienza del pensiero. d. considera la filosofia come l’attività in cui l’io coincide con l’eteroctisi.

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5 La storia della filosofia Se tutta la realtà non può che risolversi nel pensiero, in quanto sintesi di soggettività e oggettività, allora non può che esserci identità anche tra storia e filosofia. In virtù del fatto che l’autocoscienza si realizza nella coscienza delle cose, la filosofia sarà storia, mentre in quanto la coscienza delle cose si realizza nell’autocoscienza, la storia sarà filosofia. Scrive Gentile:



La vera storia non è quella che si spiega nel tempo, ma quella che si raccoglie nell’eterno dell’atto del pensare, in cui infatti si realizza. [Teoria generale dello spirito come atto puro, cap. 18, 14]



Si potrebbe dire che non c’è storia senza filosofia e non c’è filosofia senza storia, poiché non si fa storia, secondo Gentile, seguendo cronologicamente fatti ed eventi del passato, bensì occorre risalire dal passato inattuale (che è lo stesso passato di un’opera d’arte) al pensare attuale che vede i fatti temporalmente, ma non è esso stesso nel tempo. La storia è, così, una, ideale ed eterna: una storia che però non perde le sue connotazioni determinate e particolari (i momenti del passato), ma le risolve nella contemporaneità:



In realtà, i fatti, che astrattamente si definiscono compiuti e remoti, risorgendo riacquistano una nuova vita nella nostra stessa anima. Il passato ridiventa presente, e nel presente si sviluppa, si attua, non più nulla di compiuto e perciò s’investe di nuova certezza. [Introduzione alla filosofia, cap. 5, 24]



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La storia è, quindi, sempre storia presente, storia contemporanea. Ma attenzione: il presente qui non è inteso come tempo storico, ma come tempo dell’attuale, che contiene in sé stesso passato, presente e futuro. Il presente attuale è il tempo dell’eterno, all’interno del quale non ha più senso distinguere tra spazio e tempo, così come tra filosofia e storia della filosofia, poiché, come scrive Gentile, «la filosofia e la sua storia sono tutt’uno come processo dello spirito» [Teoria generale dello spirito come atto puro, cap. 13, 12]. 1. L’identità di storia e filosofia in Gentile si spiega in base al fatto che: a. l’autocoscienza si realizza nella coscienza delle cose e quest’ultima nell’autocoscienza. V F b. la filosofia e la storia appartengono in modo unitario al processo dello spirito. V F c. la filosofia ha il compito di riflettere sugli avvenimenti del passato. V F d. ogni filosofia è il frutto di determinati assetti storico-economici. V F

6 La pedagogia e la riforma della scuola La riflessione pedagogica di Gentile è del tutto speculare al suo pensiero idealistico. Come succede per la storia, anche la pedagogia non può che identificarsi con la filosofia, secondo un processo che lo stesso filosofo denomina di “consacrazione”. Il nesso filosofia-educazione è infatti, per Gentile, assolutamente inscindibile, poiché come ogni altro atto anche quello pedagogico non può che identificarsi con l’atto dello spirito che pensa sé stesso. La pedagogia si “consacra”, dunque, alla filosofia risolvendosi in essa, in modo tale che nell’atto educativo si realizzi una stretta identità tra l’educatore e colui che si educa. Soltanto in questa concezione filosofica, il processo educativo può diventare veramente autonomo e compiuto. Tale autonomia porta l’educando a considerare l’educatore non più come un limite, ma facente parte integrante della sua formazione: il maestro è dentro l’educando stesso in un «processo ragguagliatore e

autoverifica

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parte III Dall’idealismo al marxismo

unificatore degli individui empirici» [Sommario di pedagogia come scienza filosofica, parte II, cap. 5, 9]. Conseguentemente a tale posizione, Gentile nega validità a un metodo pedagogico astratto, realizzato secondo regole o canoni validi per tutti. L’atto educativo è, invece, un atto vivo, un atto che continuamente si trasforma: è compito dell’educatore concepire, allora, un metodo che tenga conto del concreto atto educativo, in quanto unica esigenza. Contro la filosofia di Herbart [ 3.3] che aveva posto la pedagogia come disciplina a metà strada tra la psicologia e l’etica, Gentile rivendica il ruolo della pedagogia in quanto scienza della formazione dello spirito, che non può perciò che identificarsi con la filosofia. Il centro della visione educativa di Gentile non è pertanto l’individualità particolare, bensì quella personalità che realizza l’universalità dello spirito, il quale unifica gli uomini senza dividerli. Tale identità tra individuo e universalità porta, conseguentemente, a negare l’esistenza di un conflitto tra volontà del singolo e legge dello Stato. L’unica personalità, infatti, non può che volere ciò che vuole la legge dello Stato. Non vi è che un’unica volontà – quella dello spirito – che supera ogni antinomia, sia in campo pedagogico che in campo etico e politico. Per cui la stessa opposizione tra la libertà e spontaneità dell’alunno e l’autorità del maestro è superata se si intende il nesso tra maestro ed educando all’interno di una unione nello spirito. A questi concetti di fondo della riforma educativa, Gentile collega una serie di provvedimenti che riformeranno a fondo il sistema scolastico e universitario italiano. I punti su cui maggiormente soffermerà la sua attenzione sono i seguenti: 1. la necessità di ridurre il numero delle scuole secondarie e universitarie; 2. risolvere adeguatamente il problema degli insegnanti; 3. far comprendere che la scuola secondaria è riservata solo a quanti sono destinati a formare le classi dirigenti. Sotto il profilo degli ordinamenti scolastici la riforma gentiliana prevedeva l’istituzione di asili per i bambini tra i 3 e i 6 anni; l’articolazione in due corsi della scuola elementare; l’innalzamento a 14 anni dell’obbligo scolastico; l’istituzione di una scuola “complementare” per quanti volevano avviarsi al lavoro; la creazione del liceo scientifico; la caratterizzazione in

senso pratico degli istituti tecnici e professionali; l’elevazione della formazione dei maestri attraverso la creazione dell’istituto magistrale. Per quanto riguarda le Università, Gentile le concepisce divise in due classi: quelle interamente a carico dello Stato e quelle parzialmente sovvenzionate. A tutte viene, però, riconosciuta l’autonomia didattica e amministrativa. Infine, uno dei punti più qualificanti l’intera riforma è costituito dall’introduzione dell’esame di Stato alla fine del ciclo della scuola secondaria, obbligatorio sia per la scuola statale sia per quella privata. La funzione di tale esame doveva essere essenzialmente quella di selezionare gli studenti più capaci e di conferire serietà e dignità alla scuola. 1. Secondo Gentile la pedagogia: a. si identifica con la filosofia. b. necessita di un metodo valevole universalmente e astratto. c. deve mirare a far maturare l’individualità di ciascun educando, sottraendolo all’universalità dello spirito. d. è quella disciplina che deve mostrare l’inevitabile opposizione fra la volontà del singolo e la legge dello Stato. 2. Fra i provvedimenti concreti realizzati da Gentile nell’ambito della riforma della scuola si annovera: a. la caratterizzazione in senso liceale di tutte le tipologie di scuola. b. l’istituzione della scuola di avviamento al lavoro. c. l’obbligo del conseguimento della laurea per i maestri di scuola elementare. d. l’innalzamento dell’obbligo scolastico.

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7 Idealismo e totalitarismo A differenza di Croce, Gentile ha giocato un ruolo importante all’interno del regime fascista. Sin dalla presa di posizione a favore dell’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale, Gentile riteneva che una tale partecipazione avrebbe avuto il merito di rinnovare moralmente e politicamente tutti gli italiani. Non si trat