Economia di mercato e democrazia: un rapporto controverso [PDF]

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Zitiervorschau

Saggi 000 Economia

perché non scienze politiche e sociali?

kosmos e taxis. idee per la scienza politica

Kosmos e Taxis, ordine spontaneo e ordine progettuale, evoluzione e organizzazione, “legge e legislazione” – per dirlo con le parole di Friedrich von Hayek – sono le dimensioni costanti e talvolta contraddittorie del problema politico dai tempi remoti in cui la politica comincia a porsi come problema di regolazione dei rapporti sociali potendosi interpretare – a seconda delle prospettive di analisi di volta in volta prevalenti – nelle sue valenze “naturali” o “artificiali”. E di volta in volta risolvendosi, come tutti i processi di azione sociale, in una costellazione di conseguenze sia intenzionali che inintenzionali. La collana di scienza politica nasce all’interno del Centro di metodologia delle scienze sociali della Luiss “Guido Carli”, condividendo l’impostazione di fondo che ne ispira l’iniziativa, con l’intento di offrire ulteriori strumenti di analisi teorica e di ricerca empirica nel campo specialistico degli studi di politologia e di sociologia politica. I quali, tuttavia, non sono destinati soltanto agli “specialisti” a vario titolo della politica, ma al più vasto pubblico di lettori interessati ai temi di cultura politica. In questo senso, l’attività editoriale prevede la pubblicazione di opere classiche e contemporanee di particolare rilievo scientifico, prodotte in Italia o all’estero, nonché di saggi, monografie, raccolte collettanee o antologiche, materiali letterari e didattici, dai quali emergano contributi significativi per la conoscenza e lo sviluppo della scienza politica. Direttore: Raffaele De Mucci Comitato scientifico: Dario Antiseri Alejandro A. Chafuen Lorenzo Infantino Kurt Leube Randy Simmon

del

I volumi della collana Kosmos e Taxis sono sottoposti alle procedure di selezione e valutazione da parte di referees qualificati, su indicazione dei membri Comitato scientifico internazionale.

Economia di mercato e democrazia: un rapporto controverso Raffaele De Mucci (a cura di)

Rubbettino

Stampato con il contributo dei fondi Prin 2009

© 2014 - Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli Viale Rosario Rubbettino, 10 tel (0968) 6664201 www.rubbettino.it Progetto Grafico: Ettore Festa, HaunagDesign

Indice

Raffaele De Mucci AL CENTRO Introduzione: IN Sviluppo economico e processi di democratizzazione MAIUSCOLO parte prima Il Framework teorico

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CORSIVO

Simona Fallocco Mercato e democrazia: un orientamento teorico

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Rosamaria Bitetti Democrazia e mercato «spacchettati»: un approccio micro

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D. Acemoglu, S. Johnson, J.A. Robinson, P. Yared From Education to Democracy?

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Diogo Costa and Adriano Gianturco Gulisano Of the People, by the People, for the People’sDevelopment?

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Michael W. Doyle Liberalism and World Politics

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6

parte seconda L’analisi empirica



CORSIVO

Raffaele De Mucci How Many Waves of Democratization?

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Emmanuel Martin The Arab Spring: a Re-Assessment

195

Silvia Cavasola e Domenico Fracchiolla Democrazia e mercato in Turchia

213

Riccardo Mario Cucciolla e Domenico Fracchiolla Democrazia e mercato: 241 il caso del Caucaso post Sovietico

al centro in Introduzione: maiuscoletto Sviluppo economico e processi di democratizzazione Raffaele De Mucci

1. Globalizzazione è una parola ormai entrata nel lessico familiare soprattutto di intellettuali e imprenditori, almeno dagli anni ’90, con l’espansione formidabile dei mezzi di comunicazione di massa, della telematica, della rapida circolazione degli strumenti dell’economia finanziaria (paper economy). Una parola che viene a rappresentare l’ultimo orizzonte della modernità, e che anzi ha sostituito il concetto di «post moderno» nell’immaginario collettivo, certamente con maggiore presa sui referenti empirici, e nondimeno carica di molte ambiguità. Globalizzazione sta per integrazione e interdipendenza – a livello planetario – delle esperienze umane, prima fra tutte l’esperienza economica che – di fatto – è quanto meno quella più immediata a livello antropologico. Come si fa in logica per i concetti semanticamente difficili, il modo migliore per coglierne i significati è di procedere col metodo delle definizioni a contrariis. Il contrario di globalizzazione è localizzazione. Il globale sta al locale come il «dappertutto» (no place) sta al «posto mio» (my place) (Sartori, 1989). Non a caso è stato coniato, in tutte le lingue, il termine «glocal», una sincope letteraria in cui compaiono entrambi gli elementi di questa contraddizione. Il punto è proprio questo: come riusciamo a gestire questa contraddizione, sul piano teorico e pratico. Come riuscire a impastare le ragioni dello «spaesamento» e dello «strapaese». Fatto è che, a tempo perso (di letteratura o televisione), siamo disposti a sposare cause vaganti (senza connessioni spaziali), ma quando ci sono di mezzo bisogni quotidiani, allora il senso del posto diventa

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parossistico e il localismo non ha alternative. Per fare l’esempio del giorno (di cui fra poco ci occuperemo più a fondo): finché il miracolo cinese ci appare come la fantasmagoria descritta nel Milione di Marco Polo – proiettata però in tempo reale nei nostri ambiti domestici – ci muoviamo in un’ottica di globalizzazione; quando invece colpisce i nostri interessi personali o nazionali, allora invochiamo dazi doganali contro le esportazioni cinesi. E la nostra ottica arretra inevitabilmente sulla dimensione locale. Per questo, dare per scontata la «fine della storia» (Fukujama, 1992), con la progressiva scomparsa degli Stati nazionali, è quanto meno prematuro: di certo un’utopia se non una chimera. 2. La Cina e gli altri casi simili in cui i processi di crescita economica si svolgono all’interno di regimi politici totalitari o autoritari vengono peraltro a mettere luce su un’altra contraddizione implicita nel mito della globalizzazione. E cioè che esista un meccanismo virtuoso e reciproco di corrispondenza fra l’internazionalizzazione del mercato e della democrazia. In effetti, questo è un binomio indissolubile nella vicenda storica dell’Europa – come, fra gli altri, notava autorevolmente Max Weber – che affonda le sue radici nel modello della «società aperta» conosciuto e praticato dall’Atene di Pericle nel iv secolo a.C., ed è in seguito diffuso dal «motore primo» di civilizzazione che furono i liberi comuni, quindi definitivamente consolidato dal pensiero e dalle istituzioni liberali (Popper, 1996). Ma non è affatto un postulato universale, e nemmeno (tanto) un modello esportabile in altri contesti storici e culturali. Per contro, gli esiti della globalizzazione possono portare anche a rompere il nesso fra economia di mercato e democrazia, rendendole due realtà autosufficienti e persino incompatibili. Se è vero – come affermano talune correnti «anarco-libertarie» – che la logica dello scambio potrebbe benissimo fare a meno di regolazione politica: quale che sia la forma di regime (Rothbard, 1996). L’obiettivo che ci proponiamo è dunque quello di mettere un po’ d’ordine nelle ipotesi di correlazione fra sviluppo eco-

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nomico e instaurazione (o consolidamento) della democrazia nel sistema globale. Beninteso, diamo qui per scontati, nonché il concetto di globalizzazione, anche quelli di sviluppo economico e democrazia: che scontati non sono affatto nella realtà. Seppure disponiamo di alcuni indici statistici standard per definire lo sviluppo economico, gli indicatori empirici del regime democratico non sono altrettanto univoci: ci accontenteremo pertanto delle dimensioni procedurali della democrazia, più facilmente controllabili, piuttosto che mettere nel conto anche le dimensioni «qualitative», altamente problematiche (Diamond, Morlino, 2005). 3. Già negli anni ’60 si affermarono, a questo riguardo, teorie «sviluppiste» che mettevano al centro dei processi di modernizzazione, su scala mondiale, i fattori economici. Quella enunciata da S. Lipset, nel suo Man and Politics, affermava che «tutti i vari aspetti dello sviluppo economico – industrializzazione, urbanizzazione, alfabetizzazione, ricchezza – formano un’unica grande variabile che ha il suo correlato politico nella democrazia». La correlazione non implica alcun valore deterministico, ed è inoltre lo stesso Lipset a precisare che «la stabilità di una data democrazia dipende non soltanto dallo sviluppo economico ma anche dalla legittimità del suo sistema politico» (Lipset 1959). Ciò nonostante, è chiara l’intenzione di attribuire allo sviluppo la valenza e la forza di una variabile indipendente principale. La prima obiezione empirica è che questa tesi trascura l’importanza dello sviluppo economico in quanto produttore anche di crisi e conflitti sociali. In generale, come ricorda S. Huntington, «spesso non è l’assenza di modernità, ma gli sforzi per acquisirla che producono discordia» (Huntington, 1971). Più specificamente, se è indubbio che la crescita del prodotto interno lordo restringe alcune aree di tensione sociale – e quindi giova alla stabilità del sistema politico democratico (e non) – è altrettanto certo che si accompagna di solito a una crisi di distribuzione a seguito dell’esplosione della domanda interna. Non a caso, sul finire degli anni ’70,

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D. Bell prevede che la «rivoluzione delle aspettative crescenti innescherà una rivoluzione delle spettanze crescenti». Inoltre, è facile osservare come la formazione delle democrazie più mature in Europa preceda di gran lunga la crisi di distribuzione (la Gran Bretagna, in questo senso, è un esempio paradigmatico [Acemoglu e Robinson, 2006]). L’altra critica all’impostazione sviluppista riguarda i limiti di applicabilità storica delle sue teorie. In primo luogo perché èlite (ed esperienze) modernizzanti sono persino più diffusi nei regimi autoritari e totalitari che non in democrazia. In secondo luogo perché esistono eccezioni consistenti alla «regola» sviluppista nei casi, non proprio marginali, di Francia e Germania. Malgrado queste grandi nazioni europee avessero raggiunto entrambe, attorno alla seconda metà del xix secolo, le tappe più significative dell’industrializzazione, pure – entrambe – sono sottoposte negli anni successivi e per buona parte del xx secolo a frequenti sussulti di stabilità democratica (culminati, nel caso tedesco, con la tragedia del nazismo). Per contro, ci si può chiedere come mai ciò che seguì alla gravissima crisi in Germania nel primo dopoguerra – confermando le ipotesi di Gurr (1970) e Feierabend (1969) sulla «frustrazione sistemica» e la «privazione relativa» – non successe negli Usa con la drammatica crisi economica del ’29, che rafforzò piuttosto che distruggere le istituzioni democratiche di quel Paese. La logica conclusione di queste riflessioni è la riformulazione del rapporto tra economia di mercato e democrazia, depotenziando la funzione attribuita allo sviluppo economico quale determinante dei processi di democratizzazione secondo il paradigma delle transizioni e reintroducendo la distinzione tra sviluppo e mercato, posto che si sono storicamente registrati processi di intenso sviluppo economico e industriale, circoscritti in precisi ambiti temporali e spaziali non duraturi nel lungo periodo, secondo piani, politiche e sistemi economici alternativi al libero mercato. 4. Il che ci consente di riformulare più correttamente il rapporto fra economia di mercato e democrazia, correggendo

Introduzione

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in questo senso l’impostazione sviluppista: lo sviluppo economico, di per sé, non è causa dell’instaurazione e/o mantenimento del regime democratico. È, semmai, una variabile interveniente che facilita il conseguimento di questo obiettivo (con esiti finali non sempre univoci e spesso contraddittori), mentre la variabile realmente decisiva a questo stesso effetto è il grado di legittimità democratica del sistema politico (stabilità delle strutture, allargamento del suffragio, soglia dei diritti civili ecc.) (Fisichella, 1982). La generalizzazione più congrua potrebbe essere allora la seguente: se è vero che la democrazia è inconcepibile senza il mercato, non è sempre vero il contrario, posto che si danno casi storici in cui capitalismo e sviluppo economico esistono al di fuori della cornice democratica (lo dimostrano gli esempi degli Emirati arabi, del Cile negli anni ’80, delle cosiddette «Tigri asiatiche» negli anni ’90 e, più di recente dell’India e della Cina). La spiegazione di questo apparente paradosso – che viene a lambire gli stessi confini concettuali della cosiddetta «globalizzazione» – è riconducibile all’imponente opera dello storico inglese A. Toynbee (1962) e alla sua teoria sul «contagio culturale». Sulla scia della previsione marxista circa l’intrinseca «forza civilizzatrice» del capitalismo, Toynbee sostiene che «quando due civiltà si incontrano nello spazio, quella che ha maggiore “potere radioattivo” suscita nell’altra tendenze imitative per sincronizzare i propri ritmi di sviluppo con quelli della “società superiore”». Finché resistono i bastioni della cultura autoctona nella società irradiata, e le sue guarnigioni politiche sono salde, questa si limiterà ad assorbire soltanto gli aspetti ritenuti più futili dell’aggressore (il capitalismo come tecnica di accumulazione di ricchezza, collocata in molte società asiatiche nei gradini più bassi della scala di valori). Ma quando queste difese vacillano, anche perché la forza del contagio è tale da investire tutto il sistema di vita delle comunità infettate, allora si produce una «catastrofe culturale» con effetti sconvolgenti e imprevedibili: giacché può inizialmente prevalere il partito degli «erodiani», favorevoli all’assimilazione integrale, ma alla lunga imporsi il

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partito degli «zeloti» per respingere l’attacco degli «invasori» e restaurare l’ordine violato (Pellicani, 1979). Questo schema d’analisi si attaglia assai bene a tutte le vicende moderne caratterizzate dallo «scontro di civiltà» fra l’Occidente, convinto dell’universalismo etico dei propri valori e della propria superiorità politica da una parte, e ingenti masse di popolazione organizzate sul modello del «dispotismo orientale» (Wittfogel, 1968), soprattutto nel continente asiatico, in bilico fra l’accettazione degli innegabili vantaggi materiali legati all’economia di mercato e la difesa oltranzista delle proprie tradizioni, dall’altra parte. Che danno vita ad altrettanti casi di «società ibride». L’esempio più calzante e dibattuto, in questo senso, è proprio quello della Cina. Che si trova a occupare una posizione di predominanza nell’economia globalizzata, usando logiche e strumenti tipici del capitalismo, ma conservando al tempo stesso un sistema politico di matrice comunista assolutamente dominato da tratti totalitari e illiberali, malgrado le inevitabili aperture alle applicazioni del principio della proprietà privata. Senza curarsi molto di ossimori e contraddizioni logiche, i dirigenti cinesi definiscono questo assetto come «socialismo di mercato». 5. In particolare, il rapporto tra democrazia e (libero) mercato può essere analizzato, in tutte le sue possibili reciprocità e nei suoi casi concreti, ricorrendo a sei ipotesi: le prime tre assumono il mercato come variabile indipendente, le altre tre fanno il contrario, supponendo che sia la democrazia la variabile indipendente. Per quanto riguarda il rapporto che va dal mercato verso la democrazia, si parte dall’ipotesi che il mercato favorisca la transizione verso un regime democratico. Questa ipotesi può essere sottoposta a controllo da un punto di vista logicoconcettuale e da un altro storico-empirico. In particolare, sarà interessante soffermarsi sulla differenza fra transizione da un regime autoritario o totalitario verso uno democratico (e il ruolo del mercato in questo processo) e la transizione da un regime non autoritario e non totalitario di concorrenza tra

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diverse autorità decentralizzate con poteri legislativi limitati sul modello di quelli medioevali (come è successo in America negli anni della fondazione repubblicana, dove una rivoluzione fiscale ha portato poi alla democrazia). Dall’altro lato, si passa alla possibile combinazione opposta di un mercato che sia in qualche modo ostativo della democrazia e della democratizzazione in qualche senso. Nel caso in cui ci sia una possibilità logica e una correlazione empirica, questo limite del mercato alla democrazia in quale senso è da intendersi? Un limite all’estendersi delle libertà (democratiche) o, piuttosto, un limite all’estendersi del potere politico democratico? Non è da escludersi, infine, un rapporto neutro tra mercato e democrazia, tale da dimostrare che le istituzioni democratiche si sviluppino indipendentemente da richieste di maggiore libertà economica e/o di ampliamento della sfera privata. È interessante poi accennare anche all’altra direzione del rapporto, quello che va dalla democrazia verso il mercato, cioè quali sono (se vi sono) le conseguenze della democrazia sul mercato. 1. In primo luogo, occorre vedere se la democrazia favorisca il (libero) mercato, se i regimi democratici forniscano la necessaria cornice giuridica e di incentivi al mercato o se lo fanno peggio di altri regimi e quindi si sono sostituiti a essi tramite un processo che non include la competizione «di mercato». 2. Occorre prendere in considerazione anche l’ipotesi che la democrazia freni e limiti il mercato (negli Usa, per esempio, la democrazia si è estesa sempre più a danno del mercato). In particolare, bisognerà riflettere su quanto sollevato dalla scuola di Public Choice, che con J. Buchanan rileva come le democrazie contengano in sé l’incentivo all’aumento della sfera e della spesa pubblica, trovando i suoi strumenti privilegiati nel deficit spending e nel debito pubblico (Buchanan, 1997). A questo proposito, Hans Herman Hoppe (2006) fa una analisi storica controcorrente, sostenendo quasi provocatoriamente l’idea che

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le monarchie assolute realizzino regimi meno interventisti rispetto alle moderne democrazie di massa. 6. Una probabile conseguenza di questo rapporto, alla luce del modello teorico proposto, è che la democrazia sia inconcepibile senza mercato, mentre quest’ultimo può esistere e affermarsi al di fuori della cornice democratica. A tal proposito, l’evidenza storica recente e passata e la situazione attuale in diversi membri della comunità internazionale offre l’esempio di casi, fra tutti quello della Repubblica popolare di Cina, in cui l’economia di mercato sembra aver attecchito senza provocare fondamentali cambiamenti nel sistema politico. I caratteri del miracolo cinese combinano gli aspetti di un sistema capitalistico, per alcuni tratti rapace e aggressivo, con il privilegio di poter operare in un mercato immenso potenzialmente per larga parte dormiente. A fronte di 100 milioni di nouveaux riches, esistono alcune centinaia di milioni di cittadini in posizione di potenziale middle class e ancora la stragrande maggioranza della popolazione che vive in condizioni di assoluta miseria. La democratizzazione delle istituzioni e del sistema politico e l’introduzione di politiche redistributive adeguate, potrebbe divenire, nel medio periodo, l’unico modo per garantire la sostenibilità dell’attuale sviluppo economico e benessere raggiunti da questo e da altri «sistemi ibridi». Altri esempi di regimi non propriamente democratici, che in questi ultimi decenni hanno abbracciato con successo economie di mercato, possono rinvenirsi in particolare negli Emirati arabi, nel Cile negli anni ’80, nelle «tigri asiatiche» negli anni ’90 ma anche, in anni più recenti, nella Federazione russa, nel Vietnam e nelle Repubbliche centro asiatiche. In Russia, nell’ultimo decennio, il processo di transizione e consolidamento democratico si è arrestato, mentre l’affermazione di una forma aggressiva di capitalismo sembra ormai consolidata; in Vietnam un processo di modernizzazione attraverso il commercio internazionale sempre più intenso è coniugato con un regime politico ancora saldamente comu-

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nista; infine, in alcune delle Repubbliche autoritarie dell’Asia centrale, soprattutto in Uzbekistan e Kazakistan, molto meno in Turkmenistan, Kirghizistan, e Tagikistan, si sperimentano da quasi un decennio significativi livelli di apertura al commercio internazionale, pur mantenendo severi livelli di controllo e di oppressione sulla società civile e sull’economia all’interno del Paese. D’altra parte, tutti i progetti più accreditati di stabilizzazione e consolidamento democratico in Medio Oriente considerano una maggiore integrazione economica e l’instaurazione dei presupposti per un nuovo e incisivo sviluppo economico, come prevede anche il progetto del Piano Marshall per la Palestina. Gli stessi esempi dei Paesi del Sud Est asiatico in anni più recenti, dalla Tailandia alla Corea del Sud, da Singapore all’Indonesia e Taiwan, rappresentano comunque esempi di democratizzazioni consolidate in seguito o contestualmente all’instaurazione di economie di scambio capitaliste basate sul libero mercato e sull’apertura verso i mercati internazionali. L’evidenza storica recente e la situazione attuale in diversi Paesi della comunità internazionale offrono esempi di Stati in cui l’economia di mercato sembra aver attecchito senza provocare fondamentali cambiamenti nel sistema politico. In altri Stati, invece, questa relazione sembra funzionare. Nel primo senso valgono le esperienze che scaturiscono dall’analisi comparata delle democrazie appartenenti al gruppo dei brics (Brasile, India, Cina e Sud Africa), e dei mikt (Messico, Indonesia, Corea del Sud e Turchia). Le riforme economiche e politiche che questi Paesi hanno sperimentato negli ultimi venti anni si sono accompagnati a un periodo di stabilità politico-istituzionale e a significativi tassi di crescita economica e demografica sconosciuti a quelle latitudini. Al contrario, le Repubbliche autoritarie e i regimi ibridi dell’Asia centrale (in primis Uzbekistan e Kazakistan, molto meno Turkmenistan, Kirghizistan, e Tagikistan) e del Caucaso sperimentano da alcuni lustri significativi livelli di apertura al commercio internazionale, pur mantenendo severi

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livelli di controllo e di oppressione sulla società civile e sull’economia all’interno. Si è scelto di concentrare l’indagine sul Caucaso, considerando la Georgia, l’Armenia e l’Azerbaijan per evidenziare la diversa direzione ed efficacia che le riforme economiche di mercato possono avere nel processo di transizione democratica post-sovietica. Il Medio Oriente è stato infine considerato all’interno del fenomeno della Primavera araba. In questi Paesi, una maggiore integrazione economica e l’instaurazione di un’economia di mercato sono possibili fattori coadiuvanti il successo di progetti di instaurazione, stabilizzazione e consolidamento democratico. Le valutazioni su questi Paesi sono parziali e sospese per effetto del continuo dispiegarsi degli effetti di una crisi ancora in corso. 7. Nella raccolta dei saggi che proponiamo nel volume, anche grazie ai contributi della produzione scientifica di autorevoli studiosi di chiara fama internazionale come Daron Acemoglu e Michael Doyle1, si è cercato di coprire i principali punti teorici del piano di ricerca sui rapporti complessi fra economia di mercato e processi di democratizzazione. Si è cercato, in particolare, di chiarire il quadro concettuale e metodologico del problema in esame, individuando similitudini e differenze tra alcuni concetti, spesso considerati come sinonimi pur non essendo sinonimi, quali (libero) mercato, sviluppo economico, industrializzazione e benessere. In particolar modo ci si è occupati di analizzare il rapporto tra democrazia e (libero) mercato in tutte le sue possibili reciprocità e nei suoi casi concreti. Una prima ipotesi di lavoro ha portato a ragionare sulla possibilità che il mercato favorisca la democrazia, la freni o sia indifferente rispetto a questa. Una seconda ipotesi ha spostato il fuoco, invece, sulla possibilità che sia la democrazia a favorire, ostacolare o essere 1. Gli articoli riportati sono riadattati, col consenso degli autori e dei rispettivi editori, da: d. acemoglu, s. jhonson, a. robinson, p. yared, From Education to Democracy?, in «The American Economic Review», vol. 95, n. 2, May 2005; e da: m.w. doyle, Liberalism and World Politics, in «American Political Science Review», vol. 80, n. 4, Dec. 1986.

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indifferente rispetto al mercato. La combinazione di queste correlazioni ipotetiche fra le variabili considerate sono state analizzate alla luce di un framework teorico (L. von Mises, H.H. Hoppe, J. Buchanan) e operazionalizzate attraverso indici delle performance del mercato e della democrazia, quali Freedom House, Index of Economic Freeedom e altri2. Il saggio di Simona Fallocco, Mercato e democrazia, un orientamento teorico, si assume il difficile compito di precisare concettualmente i termini della questione trattata nel tema stesso della ricerca proposta in questo reader: una sorta di lessico fondamentale che dà conto dei significati storici e teorici dei due termini qui analizzati, separatamente e in relazione reciproca a fondamento delle moderne poliarchie e delle loro varietà tipologiche. Cosa è mercato? Ricorrendo alla lezione del pensiero liberale, l’autrice ci dice che il mercato è essenzialmente un’arena di scambi per l’incremento delle reciproche utilità degli attori che vi convengono, quindi un insieme di relazioni razionali e competitive ovvero cooperative: cum-petere, significa cercare insieme la soluzione migliore per tutti, in ultima istanza l’«ordine spontaneo» che è poi il kosmos di cui parla Hayek. Il mercato si pone storicamente in connessione con la modernità, proprio in quanto produce, come effetti over-shooting, l’autonomia dallo Stato e l’introduzione di elementi democratici. L’economia di mercato significa anzitutto democrazia economica, che è a fondamento di ogni altra libertà, anche politica, e luogo di sperimentazione di quella che von Hayek definisce «ignoranza antropologica» ovvero di dispersione delle conoscenze: ciò che rende impraticabile e comunque arbitrario (almeno nel lungo periodo) qualsiasi progetto di pianificazione centralizzata. 2. Il libro risulta scritto in parte in lingua inglese e in parte in italiano. È ormai un metodo che si segue spesso nelle opere scientifiche e accademiche, lasciando gli autori liberi di esprimersi nel modo più congeniale alle loro esigenze comunicative, senza il bisogno di ricorrere a traduzioni che possono alterare il senso di quanto si trova scritto. E nel presupposto che, essendo il lavoro rivolto in prima istanza a una platea nazionale e quindi proiettato in ambito internazionale, entrambe le lingue possono considerarsi congruenti.

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La «società aperta» teorizzata da Popper – basata sulla competizione in economia, politica e scienza – diventa il presupposto logico della democrazia che si esprime nel conflitto regolato, nel pluralismo (il «politeismo» weberiano), nell’inclusività universale eccetto che per i nemici, nella tutela del dissenso. Il rischio è che la democrazia come forma di governo tradisca il suo modello idealtipico, avverte la Fallocco. Questo succede nelle forme di supercapitalismo all’interno del mondo globalizzato, in cui può succedere – anzi è successo – che avvenga uno sganciamento dell’economia dalla rule of law a beneficio di ristrette cerchie oligopolistiche che vanificano l’idea stessa di «Grande società», solidale e competitiva, come la concepivano gli autori della Scuola austriaca. Di qui la premessa e la conclusione dell’autrice, su cui è difficile non convenire, che il mercato possa essere considerato elemento necessario ancorché non sufficiente di democrazia che esige altre regole e valori che non si risolvono tutte nella libertà economica. eliminare virgola Rosamaria e Bitetti (Democrazia e mercato «spacchettati»: un approccio micro) si muove anche lei su un piano di inche troduzione teorica e metodologica al problema dal punto di vista, in questo reader piuttosto diffuso, di una impostazione che fa riferimento agli autori della Scuola austriaca e di Public Choice, e che costruendo un’analisi micro delle relazioni basilari di scambio nella società (sulla scorta di Menger e Simmel). Superare l’impostazione macro, quella degli aggregati e delle funzioni sistemiche tipici dell’economia keynesiana e dell’analisi sociale olistica, permette di vedere in chiave critica alcuni luoghi comuni che si fanno nel merito: che lo sviluppo economico sia necessariamente correlato positivamente al consolidamento democratico, quando esistono numerosi casi – anche nella contemporaneità storica – che dimostrano il contrario. «Spacchettare» i concetti ci permette di falsificare buona parte delle tesi «sviluppiste» (quelle che si riconoscono nella posizione di Lipset, per intenderci), sottolineando come la transizione verso un tipo di democrazia (liberale o clientelare), e in ultima analisi la sua qualità, dipenda da quale tipo

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di mercato (libero e concorrenziale o clientelare) ha portato lo sviluppo. La necessaria premessa è che il capitalismo clientelare e i connessi fenomeni di corruzione avvengano non per colpa dell’economia di mercato ma – come scrive l’autrice – «ogni qual volta il soggetto privato riesca a utilizzare il potere politico come fonte di guadagno personale». Il saggio affronta anche la meno esplorata relazione della democrazia contro il mercato, sostenendo con evidenze empiriche il fatto che i meccanismi di scelta collettiva nelle democrazie moderne generino politiche che finiscono per limitare il mercato e la libera concorrenza. Queste possono essere ricondotte alla legge ferrea della democrazia, che impone costi diffusi alla collettività quando i benefici sono concentrati in specifici gruppi d’interesse bene organizzati. La concentrazione di benefici e la diffusione dei costi ha una crescita esponenziale, resa possibile dall’ignoranza, più o meno razionale, dell’elettore democratico nei cicli di policy. Ed è proprio il problema della conoscenza e della democrazia che viene analizzato dal saggio di Acemoglu (Johnson, Robinson, Yared), falsificando l’ipotesi diffusa che questo sia superabile attraverso maggiori investimenti in istruzione ed educazione alla democrazia. From Education to Democracy? riprende dalla teoria della modernizzazione la considerazione positiva sulla variabile istruzione come variabile interveniente nella relazione fra mercato e democrazia: se provata come reale, essa potrebbe rendere spuri uno o l’altro termine di questa relazione. Sennonché, gli autori mettono in discussione la centralità del livello di scolarizzazione agli effetti dell’affermazione del regime democratico, con una serie di regressioni cross-sectional, scoprendo l’esistenza di fattori solitamente omessi che possono influenzare separatamente, volta per volta, le singole variabili della relazione originaria. Questi fattori fanno riferimento a proprietà legate ai fenomeni dello sviluppo economico e politico (i corsi – paths – dell’evoluzione storica, come sono definiti) e producono «effetti fissi» determinati da variabili esogene, come ad esempio gli assetti istituzionali. Peraltro, se il livello di istruzione produce nel

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modo che si è visto i suoi effetti circolari sulla democrazia e sulla crescita economica, lo fa nel lungo periodo (cinquanta o cento anni), e in ogni caso non è in grado da solo di connettere in senso causale democratizzazione e sviluppo economico. Il saggio di Doyle, Liberalism and World Politics, ormai un «classico» della scienza politica (l’articolo risale, in edizione originale, al 1986) si muove in un’ottica diversa di teoria normativa della democrazia liberale in un mondo globalizzato – la sola prospettiva che possa dare conto delle dimensioni «sostanziali», etiche e non empiriche, della democrazia. La teoria democratica suggerisce che tutti gli Stati possono diventare ricchi se collaborano in un sistema globale basato su regole di libero scambio, valorizzando i vantaggi della competizione economica, culturale e politica. Possono anche difendersi meglio contro la minaccia di aggressioni militari, se vengono accettate e rispettate largamente le norme che vietano l’uso della forza come strumento della politica. Anche se chiaramente diverso dal realismo per queste convinzioni, il liberalismo non se ne distingue per le finalità di ricerca dell’interesse nazionale. Nella concezione liberale della democrazia, gli Stati perseguono il loro interesse mediante il conseguimento di obiettivi che garantiscano la sicurezza collettiva, il diritto internazionale e il libero scambio. Questo è il mezzo migliore per scongiurare gli attacchi esterni e migliorare gli standard economici, preservando al tempo stesso le istituzioni democratiche. Diogo Costa e Adriano Gianturco Gulisano si interrogano, dall’osservatorio privilegiato di una delle più prestigiose università brasiliane (la Ibmec di Rio de Janeiro), su quello che l’economista Bhagwati aveva definito «dilemma crudele» del rapporto fra democrazia e sviluppo economico. La revisione dubitativa nel titolo del saggio «of the people, by the people, for the people’s devolopment?» della celebre definizione di Lincoln della democrazia ci induce provocatoriamente a ripensare alla democrazia come dataria di sviluppo economico. In realtà, Costa e Gulisano ripercorrono le analisi empiriche del rapporto fra democrazia e sviluppo economico

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per affermare che non si tratta di un rapporto storicamente determinato, bensì di un rapporto che cambia continuamente in funzione degli assetti e delle soluzioni politici attraverso i quali le istituzioni democratiche regolano le scelte sociali. I termini essenziali di questo stesso rapporto esprimono concetti vaghi e minimalisti, intendendosi per democrazia quella basata essenzialmente su proprietà procedurali – la «mera democrazia» – e per sviluppo economico quello parametrato piuttosto approssimativamente sulle misure del pil. I due autori – da un punto di vista esplicitamente liberista – ritengono che la variabile decisiva che può produrre sviluppo economico non può essere un generico regime di democrazia procedurale, che spesso sfocia in sistemi impositivi di Welfare ovvero in organizzazioni centralistiche e burocratiche del potere statale, ma la «società aperta» di concezione e di esperienza liberali. Che la democrazia non produca miracoli è convinzione anche di Emanuel Martin nella sua rivalutazione della «primavera araba» (The Arab Spring: a Re-Assessment), lo scenario che di recente si era aperto, nei Paesi dell’Africa settentrionale e del vicino Medio Oriente, come banco di prova per movimenti politico-sociali che sembrava potessero innescare processi di effettiva instaurazione della democrazia in contesti sostanzialmente privi di cultura politica liberale. Analizzando i casi emblematici dell’Egitto e della Tunisia, l’autore intravvede un circolo vizioso per cui l’autoritarismo politico richiama la centralizzazione dell’economia, aprendo la strada al radicalismo islamico, che diventa a sua volta un utile pretesto di legittimazione dell’autoritarismo politico. Le rivolte sociali non sono quindi dirette solo contro la repressione politica ma anche contro la compressione delle libertà economiche (e sovente questo dato è trascurato nelle analisi su queste vicende). L’economic apartheid – come la definisce Hernando de Soto – descrive bene questo stato di cose. Si tratta di sistemi nei quali prevalgono forme di economia informale (crony capitalism, qualcosa di simile al capitalismo clientelare, familistico o predatorio), ma stentano a cresce-

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in cui



re vere e proprie forme di capitalismo imprenditoriale. Per questo, se ne può parlare come di regimi «pro-business» ma non anche «pro-market». Il crony capitalism è agli antipodi della libertà economica di mercato, nella stessa misura ha bisogno di coperture e protezioni del potere politico. In questo avviluppo fra politica ed economia, che costituisce terreno fertile al dilagare della corruzione, si individua – secondo Martin – una delle cause più incisive di fallimento delle istanze di progresso emerse nella cosiddetta «primavera araba». Proprio alla luce dei fallimenti provocati dagli esiti dei sommovimenti nel mondo arabo, sorge spontanea la domanda (che è quasi una domanda retorica): «Esiste una quarta ondata di democratizzazione?», con la quale Raffaele De Mucci intitola il suo saggio, prendendo a spunto il fortunato lavoro di Huntington (1991) e a referente empirico soprattutto gli eventi che hanno caratterizzato la cosiddetta «primavera araba». Molti autori e commentatori avevano creduto di intravvedere questa nuova ondata democratica nei movimenti di protesta che all’incirca nel 2011 avevano infiammato numerosi Paesi, prevalentemente a regime autoritario o pseudo-democratico, nella regione nord africana e mediorientale. Ma la conclusione è affrettata e gli esiti di quei processi ambigui o nettamente falliti. Tuttavia, l’analisi del fenomeno consente di occuparsi a monte del controverso problema dell’«esportazione» della democrazia, che è forse la caratteristica più saliente della presunta «quarta ondata» della democrazia. Per questo problema è il caso di richiamare la distinzione di Fukujama fra «State building» e «Nation Building», in un senso per la verità diverso rispetto alle tesi di questo autore (Fukuyama, 2008): da una parte, il tentativo di imporre una nuova organizzazione statale, sul modello occidentale, con la forza o comunque con qualche strumento di pressione (come avvenuto emblematicamente in Afghanistan e in Iraq); dall’altra, ci si riferisce invece all’influenza esercitata da Paesi esterni di civiltà occidentale sui governi locali per innescare processi di diffusione di cultura politica, se non di piena accettazione, almeno di compatibi-

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lità con i valori e le istituzioni della democrazia soprattutto nei suoi contenuti sostanziali di libertà. L’ondata di proteste, cominciata in Tunisia in quello che ormai potrebbe essere ribattezzato «l’inverno arabo», è venuta a infrangersi contro la dura reazione dei regimi autoritari e con elevati costi sociali (come dimostra l’esempio siriano). Sicché, con riferimento a questa vicenda, possiamo parlare soltanto di una serie di processi di azione-reazione fra movimenti di massa e risposte dei sistemi politici che – anche secondo i rapporti di Freedom House – hanno causato ulteriore perdita di libertà e restaurazione autoritaria. Se c’è una generalizzazione che possiamo trarre (scientificamente o meno) da questa esperienza, è che la democrazia rimane da oltre mezzo secolo il vero Zeitgest (lo spirito dei tempi) della modernità. Nel focus sulla Turchia, a opera di Silvia Cavasola e Domenico Fracchiolla, si dimostra l’esistenza di una relazione positiva tra democrazia e mercato in Turchia, seguendo la linea di ricerca che individua nel mercato e nelle opportunità diffuse che distribuisce attraverso processi inclusivi, sia istituzionali sia normativi, uno stimolo e un rafforzamento della democrazia. L’ipotesi di studio è che le riforme e le politiche del governo di Ankara abbiano promosso il processo di consolidamento democratico della Turchia. Partendo da un’analisi storica, la relazione è indagata fino al presente, utilizzando l’analisi storica e gli indicatori principali del libero mercato e della democrazia. L’accelerazione impressa al processo di democratizzazione dal negoziato per l’allargamento dell’Ue alla Turchia e le tracce di irradiazione democratica presenti nella politica estera di Ankara (tesa all’affermazione della leadership anche attraverso processi di democratizzazione regionali improntati al rapporto democrazia-mercato) contribuiscono ad avvalorare l’ipotesi di lavoro. Che, nel caso della Turchia (come in molti altri casi di studio), si può esprimere con il ricorso a una correlazione, piuttosto che alla logica di un rapporto causale unidirezionale, fra istituzioni democratiche e sistema economico capitalistico.

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Il riferimento agli «esperimenti» di democrazia, che Cucciolla e Fracchiolla dedicano nel loro saggio su «il Caucaso post sovietico fra democrazia e mercato» dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, come elementi di economia capitalistica e di mercato (relativamente) libero possano convivere e persino prosperare all’interno di sistemi politici non democratici e in certi casi dittatoriali o dispotici. Come in Cina, come nei sultanati arabi. Vero è che nei case-studies considerati – Georgia, Armenia e Arzebajian – solo al primo viene riconosciuto uno stato di cambiamento che prelude (forse) a una transizione verso istituzioni democratiche, mentre gli altri due Paesi vengono rispettivamente classificati come «autoritarismo semi-consolidato» e «autoritarismo consolidato». Ed è vero inoltre che, seppure tutti e tre questi Paesi hanno introdotto in misura diversa elementi di mercato nelle loro economie, la situazione che li caratterizza è di forte impronta oligopolista e – a parte la Georgia – un soffocante controllo centralistico da parte dello Stato e degli altri potentati interni o internazionali. Che è in patente contrasto con un modello di società di mercato orientato alle libertà economiche e allo stile di competizione. Agisce per di più come elemento di ostacolo all’osmosi fra sviluppo economico e democrazia quello che opportunamente gli autori richiamano come «male olandese», basato sul paradosso dell’abbondanza, giacché il modello economico della regione è tutto concentrato sullo sfruttamento e la commercializzazione estera delle risorse naturali (gas e idrocarburi), beni per loro natura esauribili, ma soprattutto strettamente legati alla domanda esterna e al prezzo internazionale del petrolio. Con tutte le conseguenze, in termini di compromessi e di corruzione con le agenzie politiche ed economiche occidentali, che vengono infine a pesare negativamente sulle chance effettive di democratizzazione di questi Paesi. 8. In conclusione, possiamo pensare all’introduzione e all’affermazione delle economie di mercato in sistemi non democratici quali «fattori facilitanti» dei processi di democratizzazione. L’ipotesi di fondo è che nella struttura e nel

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funzionamento dell’economia di mercato esistano i germi e le caratteristiche proprie della legittimità democratica, elemento fondante dei sistemi democratici. Di fatto, il sentimento di fiducia che deve instaurarsi tra i vari soggetti in un’economia di mercato ai diversi livelli, la responsabilità del singolo attore economico per il buon fine della propria attività imprenditoriale e il rispetto di un quadro normativo chiaro e uguale per tutti in condizioni di parità, altro non sono che la trasposizione in campo economico dei principi dell’accountability, della responsiveness e del rule of law, che qualificano con diverso grado e intensità ogni sistema democratico, contribuendo a migliorarne la qualità delle performance. Verrebbe da osservare che il vero «capitalismo selvaggio» è quello promosso dalla politica totalitaria. Ma il punto è un altro. L’evoluzione storica di società «ibride» – metà di libero scambio, metà ancora immerse nella logica totalitaria – ricambieranno solverà alla fine la contraddizione di fondo su cui adesso galleggiano. Di modo che o cambierà in senso democratico la loro cultura e le loro istituzioni, o sarà il sistema economico a regredire verso forme arcaiche di produzione e consumo. Riferimenti bibliografici acemoglu, d., & robinson, j.a. (2006). Economic origins of dictatorship and democracy, Cambridge University, Cambridge. buchanan j. (1997), La democrazia in deficit. L’eredità politica di Lord Keynes, Armando, Roma. diamond l., morlino l. (2005), Assessing the Quality of Democracy, The John Hopkins University Press, Baltimore. feyerabend i.k. (1969), Aggressive Behaviour within Politics, in V. Kavadis (ed.), Comparative Prospects on Social Problems, Brown &C., Boston. fisichella d. (1982), Elezioni e democrazia, il Mulino, Bologna. fukuyama f. (1992), La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano. fukuyama f. (2008), Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel xxi secolo, Lindau, Torino. gurr t.r. (1970), Why Men Rebel, Princeton University Press, Princeton. hoppe h.h., Democrazia: il dio che ha fallito, Liberilibri, Macerata.

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Economia di mercato e democrazia: un rapporto controverso

parte prima Il Framework teorico

CORSIVO

Simona Fallocco

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1. Una vexata quaestio Nella storia dell’umanità la democrazia è una realtà che ha impiegato secoli per affermarsi in Occidente. Oggi non costituisce più un fenomeno prevalentemente occidentale ma sta assumendo una portata globale. Non a caso, con riferimento ai processi di democratizzazione in atto, per esempio, in alcuni Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, si parla di una nuova «ondata», la quarta, la quale seguirebbe (il condizionale è d’obbligo) a quelle già individuate e analizzate dal politologo americano Samuel P. Huntington, secondo cui tre tappe («ondate») fondamentali, sia pur alternate da fasi di riflusso, avrebbero scandito il cammino verso l’affermazione della democrazia liberale dall’inizio del xix secolo alla fine del xx1. 1. Per «ondate», Samuel Huntington intende «una serie di passaggi da regimi autoritari a regimi democratici, concentrati in un periodo di tempo ben determinato, in cui il numero di fenomeni che si producono nella direzione opposta (passaggi da regimi democratici a regimi autoritari) è significativamente inferiore» (v. huntington, 1995, p. 36). La prima ondata (che si colloca temporalmente tra il 1828 e il 1926) coinvolge buona parte dei Paesi europeo-occidentali, gli Stati uniti e alcuni Paesi latino-americani (come l’Argentina) ed è seguita dal riflusso degli anni Venti-Trenta. La seconda ondata (1943-1962) riporta (o, in alcuni casi, porta per la prima volta) la democrazia in Italia, Germania occidentale, Austria, Giappone, India, Israele, e in alcuni Paesi dell’America latina (come Uruguay, Brasile, Costarica). Essa è seguita poi da una seconda ondata di riflusso che conduce allaformazione di regimi militari in America latina, Asia, Africa, ma anche in Grecia e Turchia. La terza ondata inizia con la «rivoluzione dei garofani» in Portogallo (1974), seguita dal ritorno alla democrazia in Spagna

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Un risultato, questo, per molti aspetti straordinario ma che non può essere considerato definitivamente acquisito, considerando che in alcune parti del mondo esistono ancora regimi ferocemente repressivi o che molte «giovani» democrazie rimangono esposte al rischio di un’involuzione liberticida2. Per ciò stesso, il significato da attribuire all’instaurazione di un regime democratico, nonché le condizioni che lo rendono possibile è, a ragione, un argomento che continua ad animare il dibattito all’interno della comunità scientifica e a rendere disponibile al pubblico una vastissima letteratura. In particolare, uno dei temi più dibattuti riguarda il delicato rapporto tra economia di mercato e democrazia e il problema di quale delle due variabili risulti essere quella indipendente: il mercato che valorizza e distribuisce estensivamente la proprietà privata, che tutela la libera iniziativa, la concorrenza e lo spontaneo gioco della domanda e dell’offerta e, dunque, crea le condizioni per l’articolazione pluralistica della società su cui si fonda una democrazia, o non piuttosto la democrazia che realizza le condizioni politico-giuridiche che tutelano i diritti di proprietà e la più ampia libertà, che fissa limitazioni al potere politico e a ogni altro soggetto che voglia interferire arbitrariamente sui rapporti volontariamente decisi e, dunque, garantisce l’habitat normativo della certezza del diritto che consente al mercato di operare al meglio per la produzione del benessere materiale.

e Grecia, e prosegue lentamente con la ridemocratizzazione dell’America latina. Alla fine degli anni Ottanta, il crollo del sistema comunista sovietico apre la strada della democrazia ai Paesi dell’Europa orientale, alla Russia e ad alcune delle ex repubbliche sovietiche. Di una possibile «quarta ondata» si è cominciato a parlare dal 2010 con riferimento alla cosiddetta «Primavera araba», quando in diversi Paesi africani (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Giordania, Siria, Yemen) si sono verificate una serie di rivolte e proteste contro i regimi autocratici (o semiautocratici) esistenti. 2. A tal proposito, si considerino i processi di transizione democratica in atto nel Nord Africa (si pensi al Marocco, alla Libia, alla Tunisia e all’Egitto), il cui destino, allo stato attuale, è estremamente incerto, essendo ancora troppo alto il rischio di restaurazione di un regime autoritario (o parzialmente autoritario).

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Quale che sia la risposta a questo interrogativo, non è in discussione – è questa la convinzione di chi scrive – il legame storico, e prima ancora logico, tra mercato e democrazia. Ciò a dire che separare la democrazia dall’economia di mercato non è possibile. Tant’è che costituisce un’evidenza empirica il fatto che tutte le democrazie conosciute sono state o sono economie di mercato e con proprietà privata, mentre in nessuna economia pianificata e con proprietà pubblica si è dato finora un regime che si possa definire democratico; un regime, cioè, in cui la rule of law sia applicata rigorosamente, le garanzie di pluralismo di autonomie e poteri indipendenti siano assicurate, la società civile sia adeguatamente articolata, le «leve» di formazione e di informazione libere, le condizioni di indipendenza e di sicurezza economica dei soggetti più deboli tutelate ecc. Si potrebbe obiettare, ciò nondimeno, che esistono esempi clamorosi di società capitalistiche le quali, sotto il profilo del regime politico, possono essere annoverate tra gli Stati autoritari (l’Italia fascista, la Russia) o totalitari (Cina). E questo è indiscutibile. Ma non si può trascurare il fatto che, in tali casi, pur in presenza di alcuni elementi essenziali (proprietà dei mezzi di produzione, appropriazione del profitto, lavoro salariato), il normale funzionamento del mercato, che dovrebbe essere lasciato libero di funzionare ed esporsi alla concorrenza, risulta alterato dai vincoli e dalle pesanti ingerenze della politica. Per ciò stesso, il saggio che qui si presenta intende porre in evidenza che il mercato è elemento necessario ma non sufficiente di democrazia, la quale esige regole, istituzioni, modelli organizzativi, valori, i quali non possono risolversi preminentemente, men che mai esclusivamente, nella proprietà privata dei mezzi di produzione e nella libertà d’iniziativa economica. 2. Il mercato: che cosa è? Il mercato rappresenta «l’(arche)tipo di ogni agire sociale razionale» (Weber, 1961, p. 619). Così scriveva in Economia e società Max Weber, precisando che «si deve parlare di mercato

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non appena, anche soltanto da una parte, una pluralità di individui aspiranti allo scambio concorrono per possibilità di scambio. Che essi si trovino spazialmente riuniti sul mercato locale, sul mercato di grande traffico (fiera), sul mercato dei commercianti (borsa) rappresenta soltanto la forma più conseguente della formazione del mercato, la sola certo che permetta il pieno dispiegarsi dello specifico fenomeno di mercato – il mercanteggiare» (ibidem). Nello specifico, il mercato è l’insieme degli scambi volontari e pacifici, ricorrenti e mutualmente vantaggiosi, a prezzi concordati, di beni (in proprietà degli individui che scambiano), con la finalità di fare fronte alla reciproca domanda. I soggetti che entrano temporaneamente in una relazione di scambio, dunque, scelgono razionalmente di farlo; e questo perché individuano nello scambio, anziché in altri mezzi, lo strumento più idoneo per acquisire la maggior quantità possibile di risorse rispetto ai valori o agli scopi che lo muovono. Essi potrebbero, infatti, ottenere i beni che desiderano per altre vie, diverse da quelle del mercato: autoproduzione, rapina, baratto, dono, furto, distribuzione da parte della comunità, assegnazione da parte di un potere centrale ecc. E non c’è dubbio che sono proprio queste altre vie a esser state preferite allo scambio, per un lungo tratto di storia, dalla maggioranza delle popolazioni del mondo. Ciò nondimeno, l’opzione a favore dello scambio libero, che «obbedisce alla pura razionalità economica» (ivi, p. 624), si spiega in ragione del fatto che esso costituisce la «più impersonale delle relazioni pacifiche nelle quali le persone possono entrare tra loro. Ciò […] perché esso è orientato in modo specificamente oggettivo in base all’interesse per i beni che sono oggetto dello scambio, e solo in base a questi. […] conosce soltanto una dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità personali siano portatrici» (ivi, p. 620). Ciò a dire che l’ordine di mercato è un tipo di cooperazione che permette agli individui di collaborare con gli altri

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o di ottenere la collaborazione altrui indipendentemente dalla condivisione di fini comuni o di affetti comuni. Anzi, il grande merito del mercato risiede proprio nel non obbligare una società a darsi un ordine riconosciuto di fini, bensì nel consentire che, al suo interno, ciascuno possa collaborare alla realizzazione degli scopi degli altri, senza condividerli o senza neppure esserne a conoscenza, solamente per poter raggiungere i propri fini. Ma soprattutto si spiega in ragione del fatto che lo scambio economico, a differenza, per esempio, del dono o della rapina in cui il vantaggio sta tutto da una parte e la perdita tutta dall’altra, consiste in una relazione mutualmente vantaggiosa per tutti coloro che partecipano alla relazione, i quali passano da una condizione di minore soddisfazione a una condizione di maggiore soddisfazione3. Lo scambio, infatti, produce «un incremento della somma assoluta dei valori percepiti» perché «ognuno offre in cambio soltanto ciò che gli è relativamente necessario» (Simmel, 1984, p. 421), ricevendo una quantità maggiore di utilità percepita; quella utilità che ci si prefigge di conseguire tramite la transazione e che rende impensabile che la cooperazione possa avvenire contro gli interessi della controparte. E ciò è garanzia di continuità delle relazioni sociali, giacché alla lunga la cooperazione sociale cesserebbe di essere laddove lo scambio si rivelasse un investimento in perdita per una delle parti. Non ci sarebbe, infatti, possibilità alcuna di vita sociale, se i membri di una collettività non dessero vita a un meccanismo di cooperazione, prestandosi a soddisfare le condizioni dettate da coloro di cui hanno bisogno per vedere realizzati i propri obiettivi. Dovendosi, al contrario, ritenere che la cooperazio3. Nella moderna teoria dei giochi si distingue, a questo riguardo, tra giochi a somma positiva e giochi a somma zero. Un gioco a somma zero descrive una situazione in tutto quello che perde uno dei partecipanti allo scambio è guadagnato dall’altro (o dagli altri) partecipante/i, mentre un gioco è a somma positiva quando ciò che è guadagnato da tutti i giocatori è superiore a tutto quello che hanno perso.

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ne sarebbe molto faticosa o addirittura nulla se gli individui, per massimizzare il proprio utile, pensassero di ottenere la collaborazione altrui senza alcuna «contropartita». L’ipotesi di un individuo «massimizzatore» è, dunque, irrealistica perché oscura il fatto che l’uomo possa esistere e svilupparsi solo in società, essendo immerso fin dalla nascita in una realtà dominata da altri uomini con cui deve necessariamente interagire, accordarsi, scontrarsi, sulla base dei suoi obiettivi e disposizioni individuali, se ha interesse a vedere realizzati i suoi progetti di vita4. Glielo impone la sua condizione di «ignoranza antropologica» – «quella necessaria ed inevitabile ignoranza che ciascuno di noi ha della maggior parte dei fatti particolari che determinano le azioni di tutti gli altri numerosi individui della società umana» (Hayek, 1986, p. 19) – e il problema della «scarsità» secondo cui «la nostra esistenza fisica, al pari della soddisfazione dei nostri più alti bisogni ideali, urta sempre contro la limitazione quantitativa e l’insufficienza qualitativa dei mezzi esterni che occorrono a tale scopo» (Weber, 1958, p. 73), che insieme costituiscono le fondamentali premesse (rispettivamente di carattere gnoseologico ed economico) da cui discende logicamente la concezione secondo cui «l’uomo moderno è un essere sociale, non solo perché non potrebbe sopperire in isolamento ai propri bisogni materiali, ma perché solo nella società ha potuto sviluppare la ragione e le facoltà percettive» (Mises, 1989, p. 327). Se gli individui fossero infallibili e onniscienti e potessero contare su risorse (materiali e simboliche) illimitate non incontrerebbero, perciò, ostacoli alla realizzazione dei loro progetti, potendoli concretizzare tutti in perfetta autonomia. Al contrario, la loro fallibilità e ignoranza, oltre che il carattere limitato delle risorse disponibili, li obbliga a cooperare

4. In tal senso, la teoria dell’homo oeconomicus, il calcolatore infallibile della tradizione utilitaristica, che agisce razionalmente massimizzando la sua utilità, non è in grado di fornire una spiegazione plausibile della formazione dell’ordine sociale. Per un approfondimento, rimando a fallocco (2012).

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con altri individui, prestandosi a soddisfare le condizioni da loro dettate per vedere realizzati i propri obiettivi. Sul piano dei rapporti economici, la condizione di «scarsità» e quella di «ignoranza», che accomunano tutti gli uomini, lungi dall’essere una condizione penalizzante, favorisce una complessa trama di scambi economici – il mercato – che nessuno ha previamente programmato, ma che risulta spontaneamente dalla cooperazione necessaria a portare a termine iniziative volte al perseguimento di finalità personali. Il mercato è, in tal senso, l’istituzione sociale per eccellenza, giacché si configura come una rete di reciproca dipendenza tra individui, i quali devono il perseguimento dei loro progetti (economici) alla «favorevole corrispondenza tra aspettative e intenzioni che determinano le azioni di diversi individui» (Hayek, 1986, pp. 49-50); una favorevole corrispondenza che realizza, pertanto, proprio per il mutuo vantaggio che se ne ricava, un utile collettivo mediante il perseguimento dell’interesse individuale. La «scoperta che esistono strutture ordinate che sono il prodotto dell’azione di molti uomini, ma non il risultato di una progettazione umana» (ivi, p. 51), cioè che gran parte delle istituzioni sociali (oltre il mercato, la società, lo Stato, il diritto ecc.) sono sorte spontaneamente e non come risultato di un progetto deliberato, viene fatta risalire alla tradizione dell’individualismo metodologico, che da Bernard de Mandeville e i Moralisti scozzesi del xviii secolo (David Hume e Adam Smith), passando per pensatori politici come Benjamin Constant e Alexis de Tocqueville e sociologi come Georg Simmel e Max Weber, ha trovato la sua compiuta sistematizzazione teorica nelle riflessioni degli esponenti della Scuola austriaca di Economia (Carl Menger, Ludwig von Mises, Friedrich A. von Hayek) e del filosofo della scienza Karl R. Popper5. Tali pensatori sono stati i primi a insegnarci che ciascun individuo agisce mosso dall’esigenza di perseguire i propri fini. E 5.

Per una sintesi, cfr. infantino (2008).

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che, tuttavia, poiché ognuno ha bisogno della cooperazione di altri, deve fornire a questi i servizi che essi richiedono in cambio. In particolare, l’ordine «spontaneo» (cosmos) che Hayek, come vedremo, concettualizza come meccanismo di mobilitazione della conoscenza rilevante dispersa e che si forma per evoluzione, quale esito non programmato di un lungo processo di aggregazione di singole azioni, finalizzate a risolvere problemi condivisi, diffusi e ricorrenti nel tempo, mirava a rendere conto proprio della mano invisibile del mercato. Metafora, questa, usata da Adam Smith (1973) ne La ricchezza delle nazioni per spiegare il meccanismo spontaneo di aggiustamento reciproco, all’interno di una società moderna industrializzata e secolarizzata, delle attività di «scambio» individuali in grado di condurre a una situazione complessivamente vantaggiosa per tutti: la prosperità pubblica, quale risultato non programmato delle azioni che ciascun individuo pone in essere per conseguire, tramite la libera cooperazione, le proprie finalità6. 3. Modernità e mercato Tutte le società esistenti conoscono l’istituzione del mercato come luogo (fisico e simbolico) deputato alle relazioni di scambio tra chi compra e chi vende. Non tutte le società esistenti, però, sono sistemi di mercato. Perché si possa parlare di «sistema» o «economie di mercato» non basta che ci sia il concorso consuetudinario tra compratori e venditori, ma è necessario che i rapporti di scambio tra questi ultimi non 6. Lo slogan «vizi privati, pubbliche virtù», che Bernard de mandeville (1997) coniò nel 1714 nella celeberrima Favola delle Api, rappresenta la prima formulazione del «meccanismo» che Adam Smith definì della «mano invisibile». Mandeville, olandese, aveva in mente la società mercantile del xvii secolo tenuta insieme e resa prospera non dall’egoismo o dalla benevolenza dei singoli, bensì dal reciproco vantaggio che essi traevano prendendo parte alle interazioni di mercato che animavano in particolare le attività commerciali. Cfr. l’Appendice in moroni (2005, pp. 157-169).

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siano coordinati a livello di autorità politica centrale, bensì siano lasciati al libero «gioco» delle parti e regolati attraverso una promessa di pagamento in denaro7. Il che postula la costruzione di un modello di società politica che garantisca, e tuteli dall’ingerenza statale, la proprietà privata, la libera iniziativa, la concorrenza e lo spontaneo gioco della domanda e dell’offerta. In sostanza, una società in cui sia riconosciuta la distinzione tra società civile e Stato, attraverso l’istituzionalizzazione di un confine tra proprietà privata e sovranità, tale per cui esiste una sfera in cui autonomamente i privati dispongono e gestiscono le proprie risorse in regime di concorrenza. E questa non può che essere, nell’accezione che ne ha dato Benjamin Constant, la «democrazia dei moderni» giacché «il fine dei moderni è la sicurezza nei godimenti privati: essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle istituzioni a questi godimenti» (Constant, 1970, p. 252). In tal senso, come procedimento e luogo degli scambi, il mercato esiste fin dalle origini della civiltà stessa «dal momento che, a partire dall’invenzione dell’agricoltura, il personaggio più importante della vita economica è stato, dopo l’agricoltore, il mercante, vale a dire quel particolare attore sociale che opera nel mercato» (Pellicani, 2007, p. 131). Il sistema di mercato, invece, si afferma solo agli albori dell’era moderna con la nascita della società capitalistica e diventa volano di uno sviluppo in senso liberale e democratico della società stessa. Infatti, «solo nel modo di produzione capitalistico accade che il mercato risulta al centro della vita economica, che gli scambi che in esso si svolgono siano regolati esclusivamente dalla legge della domanda e dell’offerta, che i fattori impiegati nella produzione, ivi compresa la forza-lavoro, siano pagati in moneta, e che, in cambio dei beni e dei servizi, si accetti solo moneta» (ibidem). Il ruolo centrale e indispensabile del denaro nel funzionamento dell’economia capitalistica deriva dal fatto che è 7. Per un approfondimento sulla differenza tra mercato e sistema di mercato, cfr. lindblom (2001).

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solo per il suo tramite che è possibile il cosiddetto calcolo economico, cioè il calcolo razionale dei costi e dei ricavi. Esso nasce, infatti, come strumento per facilitare confronti e per mediare gli scambi che ne risultano: se la condizione economica (di scarsità) dell’uomo, come si è detto, spinge allo scambio, allora le cose non hanno un valore in sé, ma lo acquistano quando vengono confrontate l’una con l’altra al fine di determinare, per ciascuna di essa, con quali altre cose possa essere scambiata8. In particolare, nella storia dell’Occidente, questo sistema trae origine da un complesso di circostanze che maturano nel tardo Medioevo e che hanno a che fare con la mancanza di un forte potere centrale; situazione di cui poterono approfittare i baroni d’Inghilterra per strappare ai governanti concessioni e franchigie che divennero l’habitat istituzionale entro cui, nel corso di decenni, ebbe a formarsi la società civile: quella nella quale i governati godono di un pacchetto di libertà e di diritti più o meno ampio e soprattutto hanno la possibilità di disporre liberamente dei loro beni, del loro lavoro, del loro «privato». In particolare, «nelle città autocefale – nate a seguito della rivoluzione comunale, la quale fu, fondamentalmente, una guerra di classe fra i borghigiani e i signori feudali – si formò uno “spazio libero protetto” nel quale i ceti produttivi poterono impiegare le loro risorse nel modo più razionale grazie alla istituzionalizzazione della logica catallattica» (Pellicani, 2011, p. 92)9. 8. Oltre a essere «impersonale», nel senso che affranca la relazione di scambio da un oggetto specifico o da una persona specifica, il denaro è «astratto» nel senso che esprime l’economicità delle cose, cioè la loro scambiabilità, rilevando esclusivamente gli aspetti quantitativi della realtà e prescindendo dalle finalità individuali e dai contenuti specifici. Ossia: il denaro è per sua natura quantitativo perché esprime numericamente attraverso un determinato ammontare (il prezzo) la fungibilità delle cose. Cfr. menger (2013), simmel (1984). Per una sintesi, si veda, altresì, fallocco (2011). 9. È stato Adam Smith (1973) a richiamare, per primo, l’attenzione sulla cosiddetta «anarchia feudale», per quanto, come ci ricorda infantino (2008, p. 43, n.), debitore di Montesquieu e di Hume. Ciò nondimeno, questa tesi è stata sostenuta

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La garanzia politico-giuridica in primis della proprietà privata e della libera iniziativa, in campo economico e non, offrì pertanto alla emergente borghesia imprenditoriale la possibilità di dar vita a un sistema di mercato autoregolato, basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, sul lavoro libero, sul meccanismo della concorrenza, sulla dialettica tra domanda e offerta. Tutto ciò, innescando un processo le cui conseguenze si produssero ben oltre le intenzioni e le aspettative dei loro protagonisti, giacché nella «società distributrice di diritti»10 non si limitò a creare le condizioni di quello che sarebbe stato un imponente sviluppo economico, bensì mise in moto un processo di cambiamento della intera società che rinnovò istituzioni, credenze, valori, trasformando la società tradizionale in una società secolarizzata, dominata dall’individualismo e dal razionalismo scientifico. Di questo processo di «modernizzazione» il mercato ha rappresentato «l’istituzione motrice» (ibidem) perché esso è un sistema dinamico, che postula il confronto con l’Altro (e finanche col Diverso), la possibilità di esplorare nuovi mondi, la necessità di aprirsi allo scambio, a un universo economico e culturale «aperto», rinunciando, pertanto, a un unico credo filosofico o religioso imposto come fonte di legittimazione di un potere privilegiato e assoluto. Esiste, dunque, un legame storicamente inscindibile tra denaro, mercato e modernità. Nella società di mercato ogni pagamento è espresso in denaro, il quale, in virtù del suo carattere impersonale e della sua assoluta neutralità e astrattezza, «raggiunge questa libertà dal “come” per lasciarsi determinare esclusivamente in base al “quanto”» (Simmel, 1984, p. 405). Ma al di sopra e al di là delle sue funzioni economiche, tuttavia il denaro simboleggia e incorpora più in generale lo spirito moderno della razionalità, della calcolabilità e della da altri autorevoli studiosi delle origini del capitalismo, come, per esempio, weber (1961, vol. 2), baechler (1977) e, in tempi più recenti da pellicani (1988; 2011). 10. L’espressione, di A. maalouf (1983, p. 301), è ripresa da pellicani (2011, p. 88).

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impersonalità che ha finito per prevalere sulla più vecchia concezione del mondo che accordava supremazia alla tradizione11. 4. Mercato ed economia di mercato Questo «reticolo moderno e quasi infinito degli scambi, il mercato» (Rothbard, 1993), che è reso possibile dall’esistenza del denaro, ha come precondizioni la proprietà privata, l’autonomia individuale e la conseguente trama interattiva, da 11. Ne La Filosofia del denaro pubblicato nel 1900, il sociologo tedesco Georg Simmel ha sottolineato la funzione sociale del denaro quale espressione e strumento di reciproca dipendenza tra gli uomini destinato ad assumere un’importanza crescente con il progressivo sviluppo e mutamento della società moderna. Egli ha considerato in primo luogo l’accentuata intellettualizzazione dell’esistenza contemporanea in rapporto con la natura squisitamente strumentale del denaro. Un orientamento, questo, a superare le componenti valutative ed emotive dell’azione umana, col prevalere dei «mezzi» sui «fini», che si manifesta in particolare nella disposizione tipica della società moderna alla misurazione e al calcolo e nell’importanza accordata alla precisione. E ha considerato l’accelerazione che il denaro è stato in grado di imprimere al ritmo dell’esistenza umana per la sua capacità di rendere mobili e di trasferire i valori. Ma soprattutto egli ha considerato il rapporto che il denaro ha per sua natura con la libertà. E questo sotto molteplici punti di vista: innanzitutto il denaro conferisce alle persone che lo posseggono «quello che potremmo chiamare l’aspetto potenziale della possibilità» (poggi, 1998, p. 150), nel senso che «si presta a codificare ed esprimere tutto un ventaglio di preferenze e il peso che esse rispettivamente occupano nella valutazione del soggetto» (ivi, p. 151). In tal senso, grazie al fascino esercitato dal miraggio del suo illimitato potere d’acquisto, il significato del denaro coincide con quello di potere; il potere di vendere tutto e comprare tutto. Inoltre, dal momento che le transazioni monetarie non comportano nessun impegno né coinvolgimento emotivo da parte di chi le effettua, il denaro libera l’individuo perché impegna solo minimamente il suo essere, offrendo ciò nondimeno alla personalità molte più occasioni di esprimersi e di svilupparsi. A differenza di qualsiasi altro oggetto, infatti, il denaro può essere posseduto in maniera molto più piena, flessibile e incondizionata senza che il soggetto che lo possiede sia obbligato a confrontarsi con qualcosa che gli resista. Infine, grazie alla sua capacità di passare rapidamente di mano in mano, il denaro sembra conferire alle azioni umane un grado crescente di libertà nella misura in cui permette alle persone di inserirsi in reticoli di rapporti individuali sempre più numerosi, ampi e differenziati.

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cui nasce inintenzionalmente il sistema dei prezzi monetari. Tali prezzi, che servono quale strumento di informazione circa le preferenze dei consumatori e, dunque, quale indice di abbondanza o insufficienza di un bene, non sono imposti né stabiliti deliberatamente da qualcuno bensì si formano, senza che gli individui ne abbiamo consapevolezza, come risultato spontaneo della domanda relativa al suddetto bene. «È prodigioso – scrive, infatti, Hayek – che in un caso come quello della scarsità di una materia prima, senza che sia dato un ordine, ci siano più di poche persone, forse, a conoscere le cause, decine di persone, la cui identità non potrebbe essere accertata con mezzi di indagine, siano portate a utilizzare questo materiale o i suoi prodotti con maggiore parsimonia» (Hayek, 1988, p. 102). In un’economia articolata tramite il denaro, dunque, ogni bene ha un suo prezzo e ciò comporta che chi cede un bene possa utilizzare il ricavato per qualunque altra finalità. La stessa libertà è conseguita simmetricamente dall’acquirente che ottiene quel che gli occorre, e per le finalità che desidera, nello stesso momento in cui è in grado di pagare il prezzo richiesto sul mercato. Accade cioè che normalmente forniamo agli altri (e gli altri forniscono a noi) i mezzi necessari per il raggiungimento di scopi che non conosciamo e che, se conoscessimo, potremmo non condividere. Non ci sono, pertanto, problemi di reciproca accettazione delle finalità perseguite. E ciò conduce a una straordinaria crescita degli scambi e a un contemporaneo ampliamento delle dimensioni della cooperazione sociale12. In tal senso, il mercato può essere inteso come un meccanismo di trasmissione di conoscenze particolari attraverso le informazioni essenziali, e fornite in modo rapido, dai prezzi; un meccanismo, «grazie al quale qualcuno viene indotto a intervenire e a riempire il vuoto dovuto al fatto che qualcun altro non riesce a soddisfare le aspettative dei suoi simili» (ivi, p. 319). Nel mercato, perciò, ciascuno cerca di impiegare al 12. A questo riguardo, cfr. hayek (1986, p. 316 e ss.).

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meglio la conoscenza «dispersa» per occupare la posizione in cui può soddisfare al meglio i bisogni altrui, nel caso specifico anche in termini di beni e servizi. E giacché la capacità di esplorare e di scoprire ciò che è ignoto diventa effettiva proprio nel rapporto di scambio e cooperazione sociale, ne consegue che non può che essere la concorrenza, e la concorrenza catallattica in particolare, lo strumento più adeguato ed efficace per realizzare i progetti umani, perché solo dove è possibile confrontare e sperimentare decisioni e progetti diversi, modi di produzione e prodotti diversi, è pensabile attendersi, attraverso la selezione ininterrotta di ciò che risulta più efficace tra questi, una crescita della società e un avanzamento della civiltà13. È dunque il mercato che risolve il complesso problema di coordinare innumerevoli attività per ottenere determinati beni. È opportuno sottolineare, però, che lo scambio, e dunque la cooperazione sociale, può basarsi solo sull’istituzione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Infatti, «quando due merci sono effettivamente scambiate, ciò che è realmente scambiato sono i titoli di proprietà di quelle merci. Quando compro un giornale per cinquanta centesimi, il giornalaio e io scambiamo titoli di proprietà: io cedo la proprietà dei cinquanta centesimi e la accordo all’edicolante, e questi trasferisce la proprietà del giornale a me» (Rothbard, 1993, p. 3). Ne consegue che «la chiave all’esistenza e della fioritura del libero mercato è una società in cui i diritti e i titoli della proprietà privata sono rispettati, difesi e assicurati» (ibidem). Economia di mercato significa, dunque, innanzitutto democrazia economica; e la democrazia economica, a sua volta, 13. Quello concorrenziale degli attori che operano nel mercato è un procedimento di scoperta di ciò che è ignoto paragonabile alla situazione fronteggiata dallo scienziato quando cerca di risolvere un problema: in entrambi i casi, gli attori non dispongono di tutte le informazioni necessarie per operare la scelta migliore, per cui propongono diverse soluzioni (per esempio, prodotti) sottoponendosi al vaglio della critica (per esempio, il responso dei consumatori). Per un approfondimento sull’analogia tra logica competitiva del mercato e logica della ricerca scientifica, cfr. popper (1970), hayek (1988), kirzner (1997).

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costituisce il più solido fondamento della libertà dei cittadini. Detto altrimenti, la libertà d’azione in campo economico è lo strumento per un fine superiore: la libertà tout court. Ne è prova il fatto che «non appena la libertà economica che l’economia di mercato concede ai suoi membri è rimossa, tutte le libertà politiche e le carte dei diritti diventano inganno […]. La libertà di stampa, per esempio, è puro inganno se l’autorità controlla tutti gli uffici-stampa e le cartiere. E così sono tutti gli altri diritti dell’uomo» (Mises, 1959, p. 272)14. Del resto, stante la condizione di «ignoranza antropologica» e la «dispersione della conoscenza», qualsiasi progetto di pianificazione economica centralizzata risulta nella sostanza (e nel lungo periodo) impraticabile. Fu Adam Smith il primo ad anticipare l’idea secondo cui la conoscenza umana non può che essere parziale, fallibile e «dispersa» tra milioni di 14. Sul rapporto tra libertà economica e politica è opportuno ricordare il dibattito che, fin dagli anni del regime fascista e fino al 1949, vide contrapposti due autorevoli intellettuali del xx secolo, Benedetto Croce e Luigi Einaudi. Coerente con la sua filosofia idealistica, Croce non esitò a sostenere che «l’idea liberale può avere un legame contingente e transitorio, ma non ha nessun legame necessario e perpetuo con la proprietà privata della terra e delle industrie» (croce-einaudi, 1988, p. 139). Per lui, la libertà è essenzialmente un ideale morale che, pertanto, si può attuare attraverso i più diversi provvedimenti economici, finanche quelli emanazione di regimi non democratici, purché siano rivolti all’elevazione morale dell’individuo. Detto in altri termini, la libertà economica appartiene certamente al liberalismo, ma non si possono ascrivere necessariamente all’illiberalismo tutti quei sistemi che negano la libertà economica e addirittura politica. Dal momento che nessun sistema politico, neppure quello più repressivo, può privare l’individuo della sua libertà di pensare. Per Einaudi, al contrario, la libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica. E ci sono due estremi nei quali sembra difficile concepire l’esercizio effettivo, pratico, della libertà: da una parte, tutta la ricchezza posseduta da un solo colossale monopolista privato (monopolismo), dall’altra dalla collettività (collettivismo), ed entrambe le situazioni sono fatali alla libertà. Egli pertanto sostiene contro Croce la tesi secondo cui liberalismo etico-politico e liberalismo economico o liberismo sono indissolubili e dove non c’è il secondo non ci può essere neppure il primo, tant’è che la concentrazione del potere economico nelle mani dello Stato, nelle economie non di mercato, rischia di distruggere le fondamenta concrete della libertà individuale. In tal senso, la stessa «libertà del pensare è dunque connessa necessariamente con una certa dose di liberismo economico» (ivi, p. 130).

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individui, tant’è che è impossibile per chiunque centralizzarla e divenire così portatore esclusivo di un sapere superiore, costituisce una critica convincente ed efficace contro ogni forma di protezionismo o interventismo dello Stato amministrativoassistenziale, il quale non può presumere di sapere quello che «ognuno, nella sua posizione locale, può giudicare meglio di qualsiasi uomo di Stato o legislatore» (Smith, 1973, p. 584). E sulla base di queste considerazioni Ludwig von Mises (1990) poté diagnosticare con grande lungimiranza, già all’inizio del xx secolo, il fallimento dei regimi socialisti. La chiave del socialismo, infatti, è la proprietà governativa dei mezzi di produzione, di terra e di beni capitali. Quindi, non ci può essere mercato di terreni o di beni capitali degno di questo nome. Se in un’economia in cui il denaro è il denominatore comune di tutti gli scambi, è possibile il calcolo dei costi e dei ricavi grazie alle informazioni veicolate dal sistema dei prezzi, in un economia pianificata in cui sia abolita la proprietà privata, il calcolo economico, quindi la possibilità di un’economia razionale, risulta impossibile. Imporre autoritativamente i prezzi, sottraendoli alla regolazione della legge della domanda e dell’offerta significa, sì, sopprimere la concorrenza e il mercato e, dunque, creare le condizioni per l’affermazione e lo sviluppo di società che rappresentano la negazione della libertà quali quelle storicamente realizzatesi con i regimi totalitari. Perché chi possiede tutti i mezzi, controlla tutti i fini, decidendo arbitrariamente quali di essi siano meritevoli di essere realizzati e quali no. La pianificazione economica centralizzata, dunque, con la pretesa di un controllo capillare su ogni attività umana, sradica ogni barlume di libertà dal momento che «lascia all’individuo unicamente il diritto di obbedire» (Mises, 1959, p. 272). Ciò nondimeno, la pretesa di pieno controllo del sistema dei prezzi ha fatalmente un destino segnato: necessiterebbe, infatti, di una perfetta conoscenza delle informazioni che orientano le preferenze e dunque le scelte degli operatori economici. Ma ciò non è possibile perché, essendo la conoscenza umana inevitabilmente parziale, fallibile e dispersa tra milioni di individui, la pianificazione centralizzata non può,

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con assoluta certezza, pianificare gli sviluppi delle conoscenze future, come non può nemmeno centralizzare un’immensa quantità di conoscenze di specifiche circostanze di tempo e di luogo, facendosi interprete esclusivo di un sapere superiore. Il che spiega – come la storia ci insegna – il ricorso, all’interno di tali regimi, a una possente azione di propaganda mirata a inculcare nella gente un «fine unico e comune» che prevale su tutto, nonché il convincimento che i mezzi scelti da chi è al potere per conseguirlo sono quelli più giusti. E non ultimo, il ricorso, contro il «nemico» che non condivide tale «verità», all’uso arbitrario della forza e alla violenza. 5. La società «aperta» come presupposto logico della democrazia Il grado di libertà accordato alle libertà economiche dipende dalle limitazioni imposte al potere politico o a chiunque voglia interferire, limitandoli, con i rapporti volontariamente decisi. Il connubio mercato-Stato di diritto non è perciò scindibile: «il mercato ha bisogno di un habitat normativo che è quello della certezza del diritto, la quale si nutre a sua volta dell’uguaglianza dinanzi alla legge» (Infantino, 2008, p. 48). Scriveva Adam Ferguson nel 1792: «La libertà non è, come l’origine del termine può sembrare che sia, una mancanza di qualsiasi restrizione ma piuttosto la più efficace applicazione di ogni giusta restrizione a tutti i membri di uno Stato libero, siano essi governanti o sudditi. È soltanto in presenza di giuste restrizioni che ogni persona è sicura, e non può essere violata la sua libertà, nella sua proprietà o nelle azioni che non provochino danni agli altri. Se l’azione di un qualsiasi individuo non fosse circoscritta e questo potesse fare qualunque cosa, contestualmente chiunque altro sarebbe esposto a patire ciò che l’uomo libero della nostra descrizione volesse infliggergli» (Ferguson, 1792, pp. 458-459). È pertanto alla libera iniziativa di ciascuno che deve essere ricondotta l’aumento della ricchezza di una società, a poten-

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ziamento della quale non c’è bisogno di alcun intervento da parte dello Stato, essendo presenti all’interno del mercato meccanismi di autoregolazione – il sistema dei prezzi – che assicurano l’equilibrio tra domanda e offerta dei beni e che garantiscono che il comportamento dei singoli teso al soddisfacimento dell’interesse individuale conduca al benessere collettivo. Peraltro, «l’uomo di Stato che dovesse cercare di indirizzare i privati relativamente al modo in cui dovrebbero impiegare i loro capitali non soltanto si addosserebbe una cura non necessaria, ma assumerebbe un’autorità che non si potrebbe affidare tranquillamente non solo a una singola persona, ma a nessun consiglio o senato, e che in nessun luogo potrebbe essere più pericolosa che nelle mani di un uomo tanto folle e presuntuoso da ritenersi capace di esercitarla» (Smith, 1973, p. 584). Allo Stato, in particolare, spetta il compito di garantire con norme giuridiche la libertà e di provvedere ai bisogni della collettività soltanto quando non possono essere soddisfatti privatamente. I poteri pubblici vengono regolati da norme generali e astratte, perché solo norme di questo tipo, imponendo non un contenuto specifico bensì esclusivamente procedurale, fanno salva l’autonomia individuale (le leggi fondamentali o costituzionali), e debbono essere esercitati nell’ambito delle leggi che li regola. E la separazione dei poteri costituisce un’applicazione della concezione del diritto proprio come insieme di norme generali e astratte. Se, infatti, viene meno, per esempio, l’idea che il potere legislativo debba produrre o riconoscere solo norme generali e astratte, qualunque provvedimento voluto dalla sovranità popolare può vedere la luce15. E per quanto i poteri possano essere formalmente 15. L’allargamento della sfera dell’intervento pubblico si realizza, infatti, quando, parafrasando hayek (1986), alla «legge» si sostituisce la «legislazione», e cioè si afferma una nuova concezione del diritto, che non è più quello delle norme generali e astratte, ma è quello delle prescrizioni e norme statuite, progettate per raggiungere fini particolari e implementare ordini concreti. Norme che, laddove

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separati, nulla garantirebbe la libertà individuale. Pertanto non è semplicemente la separazione dei poteri a tutelare l’autonomia dei soggetti, ma è la sovranità della legge a consentire la separazione dei poteri e la libertà individuale. Lo Stato di diritto è, pertanto, quello le cui leggi hanno per fine la garanzia dell’azione dei singoli consociati alla sola condizione che tale azione non violi i diritti fondamentali degli altri consociati. La condizione della cittadinanza è dunque costitutivamente una condizione di eguaglianza delle chances (almeno) di partenza di ciascuno. L’unico limite che le leggi devono prevedere è quello che deriva dalla tutela di questa condizione egualitaria originaria di ciascuno. Va da sé che, dal punto di vista giuridico, essa rappresenta una fictio iuris, perché non presuppone una reale e sostanziale uguaglianza fra le persone, ma si riferisce all’atteggiamento di imparzialità che lo Stato deve tenere di fronte ai suoi cittadini. L’uguaglianza sostanziale, che non è al contrario uguaglianza di opportunità quanto di punti di arrivo, non può essere necessariamente garantita in una economia di mercato giacché il mercato «remunera» i singoli in virtù del valore che apportano al processo economico; valore che non può che essere in relazione alle capacità, alle aspirazioni, alle violano il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge, finiscono per privilegiare gruppi particolari di interesse. E che creano «le condizioni perché la classe politica possa “pagare” il consenso mediante la continua dilatazione del territorio dei beni pubblici, di finalità cioè perseguibili attraverso la “mano invisibile” dello Stato» (infantino, 2008, p. 315). Questa tendenza è stata favorita, per esempio dall’applicazione in campo economico di teorie (soprattutto quelle di ispirazione keynesiana) che hanno posto in discussione il principio del pareggio del bilancio pubblico, fino ad allora l’unico compatibile con una gestione responsabile e trasparente della cosa pubblica. Il saldo del bilancio è così diventato uno strumento di politica economica affidato alla discrezionalità (se non all’arbitrio) dei governanti. I quali, non essendo più vincolati dalla necessità di rispettare la regola del pareggio, hanno potuto deliberare nuove e maggiori spese senza preoccuparsi eccessivamente del loro finanziamento. Pertanto, l’esigenza economica di stabilità ha finito per tradursi «nel passaggio dalla prospettiva costituzionale, basata sull’imparzialità di regole volte a garantire responsabilità e trasparenza nelle decisioni di spesa, alla prospettiva discrezionale, in cui il saldo del bilancio e il finanziamento delle spese vengono affidati all’arbitrio delle autorità» (martino, 1993, p. 90).

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peculiari attitudini di ciascuno che sono per natura necessariamente diverse. Dunque, l’uguaglianza si declina prevalentemente come uguaglianza «formale». E la libertà come libertà «negativa»16, intesa, cioè, come sfera di azione in cui l’individuo non è costretto da chi detiene il potere coattivo a fare quello che non vuole o non è impedito a fare quello che vuole, e in ogni caso accompagnata dalla garanzia che gli affari privati non si traducano immediatamente in un’offesa al diritto degli uni da parte degli altri. Ciò detto, non possono che essere le istituzioni democratiche l’espressione e la garanzia di una società «aperta», unico ordine politico compatibile con l’economia di mercato, con la condizione di «ignoranza antropologica», con lo Stato di diritto. O, detto altrimenti, la società «aperta», quella in cui non esiste monopolio dei mezzi di produzione, delle fonti di conoscenza e del potere, non può che porsi come presupposto logico della democrazia17. Pertanto, se è vero che, da un lato, non ci può essere democrazia senza proprietà privata e mercato, è altrettanto vero, dall’altro, che proprietà privata e mercato, da soli, non fanno di una società una società «democratica». Tant’è che il sistema di mercato storicamente è stato compatibile con forme di governo autoritarie, come nel caso del regime fascista in Italia o franchista in Spagna, dove furono assicurati i caratteri essenziali di un mercato capitalistico (proprietà privata, lavoro salariato, appropriazione del profitto) all’interno di un sistema illiberale come quello corporativo. E lo è ancora se pensiamo all’esperienza, più recente, della Russia in cui, dopo il crollo del comunismo, si 16. La distinzione tra libertà «negativa», quella difesa dalla dottrina liberale, e libertà positiva deve la sua notorietà al discorso Sui due concetti di libertà pronunciato da Isaiah Berlin alla Conferenza di Oxford del 1958. Cfr. berlin (1989). 17. Karl Popper ha dato la seguente definizione di società aperta: «Con l’espressione “società aperta” designo non tanto un tipo di Stato o una forma di governo, quanto piuttosto un modo di convivenza umana in cui la libertà degli individui, la non-violenza, la protezione delle minoranze, la difesa dei deboli sono valori importanti. Nelle nostre democrazie occidentali, questi valori sono per la maggior parte degli uomini cose ovvie», cfr. antiseri (2002, p. 139).

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è consentita l’affermazione di un capitalismo «selvaggio» che ha prodotto, tra le tante conseguenze, una spaccatura della società in una èlite neo-borghese dalle enormi ricchezze e una massa sempre più povera esposta alla criminalità. Una situazione, questa, che crea le condizioni di una involuzione in senso autoritario della società nella misura in cui suscita sentimenti di nostalgia nei confronti del regime comunista18. Nel corso della loro evoluzione storica le istituzioni democratiche hanno assunto contenuti e significati eterogenei. Ciò nondimeno, è possibile individuare alcuni caratteri «invarianti» che possono essere assunti come altrettanti requisiti minimi di «democraticità». E, dunque, si può ragionevolmente parlare di democrazia se esistono, per esempio, le garanzie istituzionali che seguono19: a) l’esistenza di regole consensualmente accettate e valide per tutti, che garantiscano e disciplinino le libertà personali e stabiliscano le modalità del conflitto politico; b) l’esistenza di elezioni libere e corrette attraverso le quali sia data a tutti i cittadini la possibilità di concorrere alla formazione della volontà collettiva mediante i propri rappresentanti; c) l’esistenza di una pluralità di gruppi politici organizzati che competano fra loro allo scopo di aggregare le domande sociali e trasformarle in decisioni collettive; d) l’esistenza di adeguati mezzi di tutela delle minoranze e delle loro aspirazioni a diventare maggioranza; e) l’esistenza di meccanismi di controllo e di informazione attraverso cui le strutture di potere siano chiamate a rispondere del modo della russa (Pcfr), erede 20del . In sintesi, «l’ain cui Federazione hanno gestito la delega dei cittadini Pcus (Partito comunista dell'Unionedei sovietica, nimus etico-politico della democrazia moderni è insieche“pluralistico” risulta la seconda forza politica della me e “competitivo” e, dunque, la coesione non Russia contemporanea 18. In tal senso può essere letto l’aumento di consenso nei confronti del Partito comunista che risulta da cancellare 19. A questo riguardo, cfr. dahl (1981). 20. A seconda che si ponga l’accento sulle regole e le procedure, la cui osservanza deve essere garantita affinché il potere sia effettivamente distribuito tra tutti i cittadini, oppure ai contenuti ispirati a certi ideali caratteristici della tradizione del pensiero democratico, primo tra tutti quello dell’eguaglianza, si è soliti distinguere tra democrazia «formale» e democrazia «sostanziale».

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va perseguita e ottenuta a scapito né della pluralità né della competizione» (Fisichella, 2003, p. 13)21. Detto altrimenti, la democrazia assume che la realtà sociale e politica è fatta di parti che possono essere in conflitto tra loro. Ma il conflitto è in ogni caso tra avversari e non tra nemici. E all’avversario non solo è garantita la possibilità di dissentire e di opporsi, ma anche di sostituire (o tentare di sostituire) pacificamente al potere il detentore del potere stesso. Ciò vuol dire innanzitutto che la democrazia postula una configurazione pluralistica della comunità e una concezione dell’interesse generale rispetto al quale gli interessi delle parti non sono eversivi e alternativi ma sono invece costitutivi nel senso che contribuiscono potenzialmente a costituire l’interesse generale. In tal senso, la società democratica è «politeista» nella misura in cui si predispone ad accogliere una pluralità di valori, di visioni del mondo, di proposte politiche, di associazioni e di partiti. E ciò che la caratterizza rispetto ad altre forme di dominio politico è la protezione del dissenso. Ma vuol dire, inoltre, che in democrazia la competizione è conflitto «regolato» in quanto si svolge entro e nel rispetto delle regole del gioco che fissano norme di comportamento generali e astratte. La democrazia è dunque potere politico soggetto a controllo politico. Ha scritto Karl Popper che, nella società «aperta», razionale non è chiedersi «chi deve comandare» quanto «come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno» (Popper, 1996, vol. i, p. 156). La regola delle democrazie è dunque che la maggioranza governa nel rispetto dei diritti della minoranza o delle minoranze (religiose, linguistiche, etniche ecc.), che hanno il compito di stimolare e controllare nonché la legittima aspettativa di diventare 21. In tal senso, si può ricordare la definizione che ha dato Joseph Schumpeter di democrazia: «una configurazione istituzionale tesa al conseguimento di decisioni politiche, nella quale gli individui acquisiscono il potere di decidere attraverso una lotta competitiva per il voto popolare» (schumpeter, 1964, p. 257).

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maggioranza nell’ambito di una pacifica competizione. La democrazia, per accreditarsi come «fatto», deve essere dunque innanzitutto un «valore» da presidiare e a cui educare attraverso lo sviluppo di una solida mentalità critica che renda consapevoli i cittadini dei presupposti e delle conseguenze del corretto uso delle regole democratiche. Perché sono le istituzioni democratiche che fondano la democrazia ma, come ci ricorda Popper, «le istituzioni sono come le fortezze: resistono se è buona la guarnigione» (ivi, p. 162). 6. Capitalismo «croce e delizia» Tra mercato e democrazia esiste un legame storico e logico: il mercato è una istituzione intrinsecamente connessa alle libertà democratiche; le libertà democratiche hanno il loro presupposto nella libera iniziativa dei privati in campo economico. Il mercato ha bisogno, perché si sviluppi, che gli individui siano orientati a concepire lo scambio, con chiunque disponga dei beni di cui necessitano per soddisfare i loro bisogni, come il modo più pacifico di procurarsi i beni stessi; siano posti in condizione di interagire facilmente con i soggetti con cui effettuare lo scambio; trovino lo scambio utile, ricavando dal bene acquisito un vantaggio maggiore che non dal bene ceduto; dispongano di informazioni (i prezzi) sia su ciò che fanno coloro da cui intendono ottenere un certo bene, sia su ciò che fanno o probabilmente faranno coloro che propongono in scambio un bene analogo al loro; siano in condizione di far circolare liberamente i beni oggetto dello scambio e le informazioni a essi inerenti. Ma il mercato ha bisogno, altresì, perché si sviluppi, di «certezza»: certezza del diritto innanzitutto, cioè di regole generali e astratte che assicurino che il meum e il tuum sia garantito, che tutti siano uguali di fronte alla legge, che i reati siano puniti, che la giustizia sia amministrata imparzialmente, che sia promossa e difesa l’articolazione pluralistica della

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società. Dall’esistenza di queste regole dipende il funzionamento efficace e vantaggioso della mano invisibile in campo economico, i cui effetti si spandono poi anche oltre i confini dell’economia. Il libero mercato, cioè, è una base essenziale per la democrazia politica giacché solo quando i cittadini sono sufficientemente indipendenti è data loro la possibilità di scelte di vita, sociale e politica, autonoma. Mercato significa, infatti, un sistema di centri di decisione indipendenti che interagiscono, anzi concorrono tra loro all’interno di un’economia a elevata divisione del lavoro; e ciò crea, come si è detto, una situazione di pluralismo di poteri favorevoli a una società aperta e democratica22. Ciò nondimeno, è impossibile negare che il legame, sia pur necessario, che il mercato «intrattiene» con la democrazia risulti alla prova dei fatti alquanto problematico23. Giacché, se è vero che la libertà, la proprietà e il mercato siano condizioni essenziali affinché la democrazia sia credibilmente affermata e mantenuta, è altrettanto vero che la libertà, la proprietà e il mercato possono produrre effetti negativi, per esempio e soprattutto, sull’uguaglianza di condizioni economiche, politiche e sociali che dovrebbe essere connaturata all’idea stessa di democrazia. Nel senso di favorire e premiare le condizioni di chi occupa una posizione forte, per status economico e sociale, all’interno del sistema di mercato, ma di non assicurare necessariamente e sempre condizioni di benessere e di sicurezza a chi è più bisognoso di aiuto, o perché dispone della sola risorsa della forza-lavoro o perché addirittura non ne dispone affatto. Col rischio, neanche poi tanto fortuito, dunque, che «la democrazia come forma di

22. Sulla concorrenza, e dunque competizione, come strumento di limitazione del potere, si veda infantino (2013). 23. Michele Salvati riassume la questione in questi termini: «Non ci può essere democrazia senza proprietà e mercato. Proprietà e mercato vogliono dire capitalismo. Ma il capitalismo contrasta con la democrazia. Come la mettiamo?». Per un approfondimento delle argomentazioni sviluppate a questo proposito, cfr. salvati (2009, p. 11).

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governo necessariamente tradisca la democrazia come ideale politico» (Dunn, 2006, p. 79)24. Un rischio, questo, ancora più palese nella fase più recente del cosiddetto «supercapitalismo»25, che obbliga a fare i conti con le conseguenze dirompenti della globalizzazione dei mercati, della loro crescente liberalizzazione e della rivoluzione dei mezzi di comunicazione e di informazione, le quali impongono di recepire le nuove istanze di modernizzazione scientifica e tecnologica anche all’interno dei processi produttivi, determinando una continua evoluzione del modo di investire, di lavorare, di percepirsi come parte dell’attività produttiva, ma allo stesso tempo ci restituiscono la realtà delle gigantesche multinazionali, della finanza scatenata e d’azzardo26, dei privilegi ai potentes. Tant’è che, dopo i fatti del 1989 che hanno visto il crollo dei regimi comunisti dell’Europa dell’Est, la vera minaccia alla democrazia non sarebbe rappresentata dall’eventualità di un sistema economico con proprietà pubblica e pianificazione centralizzata, quanto da un’economia di mercato senza regole e senza limiti, in cui le libertà dei cittadini non siano garantite a tutti allo stesso modo, lo Stato di diritto di tanto in tanto «sospeso», la società civile sempre più scarsamente articolata e, soprattutto, le condizioni di indipendenza e di sicurezza economica dei soggetti più deboli non siano sostenute da adeguati strumenti di welfare. La via «maestra» di quanti, in futuro, lavoreranno a vario titolo alla costruzione di nuovi stati deve essere, pertanto, 24. Sul rapporto tra definizione descrittiva e prescrittiva di democrazia, si veda, altresì, la riflessione di Sartori, che opportunamente sottolinea: «Ciò che la democrazia è non può essere disgiunto da ciò che la democrazia dovrebbe essere. Una esperienza democratica si sviluppa a cavallo del dislivello tra dover essere e essere, lungo la traiettoria segnata da aspirazioni ideali che sempre sopravanzano le condizioni reali» (sartori, 2007, p. 12). 25. La definizione è di Robert Reich che, in un recente saggio, ha analizzato il capitalismo così come si è trasformato a partire dall’indomani della Seconda guerra mondiale fino all’era della globalizzazione. Cfr. reich (2008). 26. Cfr., a questo riguardo glynn (2007), strange (1988; 1998).

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quella del «vero» liberalismo di ascendenza smithiana27 che non può essere associato a un’interpretazione ingenua del laissez faire, in cui le virtù del mercato vengono esaltate indipendentemente da qualsiasi considerazione sulla cultura e il regime politico prevalenti e a dispetto di tutte le conseguenze che esso produce sulla vita delle persone. Quel vero individualismo che muove dal convincimento che la libertà di mercato non possa che realizzarsi necessariamente in un contesto in cui sia garantita la libertà dell’individuo e la certezza del diritto, ma anche il suo benessere fisico e morale, pur nel rispetto delle diverse (e ineliminabili) posizioni economiche e sociali. Pensare che una società che abbia abbracciato la logica del mercato neghi, per esempio, la solidarietà è un’interpretazione comune e affrettata del liberismo. L’economia di mercato è la base della libertà politica e la fonte più sicura del benessere più esteso, in quanto è l’economia di mercato che si è rilevato storicamente lo strumento più adeguato, tra quelli disponibili, per produrre ricchezza per il maggior numero di persone. Ma proprio perché è più ricca essa può permettersi di aiutare i più deboli. In tal senso, scrive Hayek, «assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello sotto cui nessuno scenda quando non può più provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima con-

27. Il riferimento è alla distinzione di Hayek tra «individualismo vero» (hayek, 1997, p. 42), cioè di coloro che muovono dal fondamentale presupposto dei limiti e della fallibilità delle conoscenze umane, le quali rendono impraticabile la pianificazione economica centralizzata, e individualismo «falso», che coincide con una diversa tradizione liberale: quella che discende dai filosofi dell’Illuminismo francese (Voltaire, Rousseau, Diderot) e che ha avuto in Inghilterra i suoi continuatori in Jeremy Bentham, John Austin, James e John Stuart Mill. Una tradizione, questa, che non riconoscendo limiti ai poteri della ragione umana e non concependo alcun fenomeno e istituzione sociali se non come deliberatamente progettati dalla ragione e per essa intelligibili, demanda al potere politico il compito di edificare intenzionalmente l’ordine sociale a detrimento della piena tutela delle libertà individuali. Ne consegue che il liberalismo economico o liberismo abbia due anime che mettono capo a due nozioni ben distinte di mercato e di libero scambio, le cui implicazioni socio-politiche sono ben diverse.

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tro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società» (Hayek, 1986, p. 429). Riferimenti Bibliografici28 antiseri d. (2002), Karl Popper. Un protagonista del xx secolo, Rubbettino, Soveria Mannelli. baechler j. (1977), Le origini del capitalismo, Feltrinelli, Milano. berlin i. (2000), Due principi di libertà, Feltrinelli, Milano. constant b. (1970), Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, in id., Principi di politica, Editori Riuniti, Roma. croce b.-einaudi l. (1988), Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli. dahl r. (1981), Poliarchia. Partecipazione e opposizione nei sistemi politici, Franco Angeli, Milano. dunn j. (2006), Il mito degli uguali. La lunga storia della democrazia, Egea, Milano. fallocco s. (2011), Denaro, in «Rivista Bancaria Minerva bancaria», vol. 4; pp. 102-110. fallocco s. (2012), Il soggetto dell’azione nella spiegazione individualistica, in maffettone s.-orsini a. (a cura di), Studi in onore di Luciano Pellicani, Rubbettino, Soveria Mannelli. ferguson a. (1792), Principles of Moral and Political Science, Strahan & Cadell, London. fisichella d. (2003), Elezioni e democrazia, il Mulino, Bologna. fisichella d. (2006), Denaro e democrazia, il Mulino, Bologna. glynn a. (2007), Capitalismo scatenato, Brioschi, Milano. hayek von f.a. (1986), Legge, legislazione e libertà, il Saggiatore, Milano. hayek von f.a. (1997), Individualismo: quello vero e quello falso, Rubbettino, Soveria Mannelli. hayek von f.a. (1988), Conoscenza, mercato, pianificazione, il Mulino, Bologna. huntington s.p. (1995), La terza Ondata, il Mulino, Bologna. infantino l. (1998), L’ordine senza piano, Armando, Roma. infantino l. (2008), Individualismo, mercato e storia delle idee, Rubbettino, Soveria Mannelli. infantino l. (2013), Potere. La dimensione politica dell’azione umana, Rubbettino, Soveria Mannelli. 28. I testi riportati fanno riferimento alla edizione effettivamente consultata. Per quelli citati in traduzione italiana è omesso, per semplicità di consultazione, il titolo originale.

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Democrazia e mercato «spacchettati»: un approccio micro

1. Introduzione Il rapporto fra democrazia e mercato è uno dei temi più interessanti delle scienze sociali contemporanee, e l’interdisciplinarità delle domande relative a questa relazione fa sì che risposte e contributi interessanti confluiscono su questo tema dalle scienze politiche, dall’economia, dalla sociologia, fa sì che e anche dalle scienze cognitive. Questa coesistenza porta spesso a rappresentare, nell’opinione prevalente, il rapporto fra mercato e democrazia è spesso rappresentato in maniera semplificata: è facile sentir venga affermare che la democrazia è una condizione fondamentale dell’economia di mercato e della crescita economica, o che il mercato costituisce un rischio per lo sviluppo democratico. La democrazia e l’economia di mercato, termine che viene alternato spesso a quello di capitalismo, sono spesso allineati. Il sistema economico capitalistico emerge grossomodo in Europa nel quattordicesimo secolo, e la democrazia nel sedicesimo. Con il collasso del comunismo sovietico, l’economia di mercato è diventata la principale forma di organizzazione dei paesi del mondo, e la democrazia è la principale forma di organizzazione politica. Purtroppo, il rapporto è più controverso e si presta a interpretazioni divergenti. Gli studi empirici in merito al rap1. L’autrice intende ringraziare, per i preziosi consigli e il supporto durante la realizzazione del lavoro, Raffaele De Mucci, Lorenzo Infantino, Nicola Iannello, Simona Fallocco ed Ennio Emanuele Piano.

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porto fra mercato e democrazia sono spesso giunti a risultati radicalmente contraddittori (Costa & Gianturco, 2014), in parte perché il metodo statistico sconta, per concetti così complessi, i limiti della difficoltà a individuare una definizione completa dei concetti e delle variabili empiriche in grado di riportare la complessità della materia. Il che non vuol dire di certo che non sia possibile e necessaria un’analisi empirica: anzi, nel capitolo faremo spesso riferimento a dati e tendenze. Semplicemente, proponiamo di guardare ai dati solo dopo l’analisi teorica di impostazione micropolitica (De Mucci, 2009), che permetta di spacchettare i concetti di democrazia e di mercato nei loro componenti primi, nelle loro relazioni necessarie e in quelle accidentali, che fanno parte dell’evoluzione storica dei fenomeni in esame ma non sono necessariamente una conseguenza logica del mercato come relazione di scambio o della democrazia come regola di decisione collettiva. Spacchettando i concetti di democrazia e mercato, vedrevirgola dopomo che non abbiamo una, ma almeno tre relazioni causali. La prima è quella meno controversa nella storia e nella letteratu"quella" ra empirica, ovvero la relazione fra mercato e democrazia, intesi rispettivamente come sistema di scambi supportato dalle istituzioni liberali e come libertà individuali che limitano il potere pubblico: una corretta definizione di mercato aiuta a capire che la via attraverso cui esso favorisce l’emergere della democrazia è attraverso la costituzione di principi liberali, e non attraverso aspetti di democrazia procedurale, sebbene anche questi siano beneficiati dall’innovazione tecnologica che scaturisce dal capitalismo sano. La seconda relazione è quella fra mercato, inteso come capitalismo clientelare, e democrazia, intesa come sovranità popolare e ridistribuzione. In questo rapporto, l’impostazione micropolitica ci permette di portare all’estremo la teoria di Acemoglu e Robinson (2006) sulla democratizzazione. Secondo questi autori, infatti, la democratizzazione – intesa come diffusione di procedure di decisione collettiva – è più probabile in società caratterizzate da forti disuguaglianze economiche, mentre in società meno

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diseguali c’è meno pressione per ottenere la democrazia. Ma distinguendo fra il mercato come sistema catallattico e la mera crescita economica, che può essere dovuta a fenomeni temporanei e non di mercato, è possibile ridimensionare la disuguaglianza risultante dal mercato, e quindi aspettarsi meno richiesta di democrazia in paesi dove c’è ampio spazio al mercato che in paesi dove la ricchezza deriva da fenomeni non di mercato. Infine, l’ultimo e più affascinante rapporto, ovvero che va dalla democrazia, intesa come sovranità popolare e sistemi di welfare, verso il mercato. Poiché, come dicevamo prima, la democrazia è oramai il sistema politico prevalente e il mercato quello economico più efficiente è necessario chiedersi se la prima sia in grado di coesistere con il secondo, ovvero scelga se è destinata a comprimerlo. In altre parole, questa parte si chiede se e perché la democrazia sceglie politiche contrarie al mercato, nonostante queste siano più efficienti per la collettività. Analizzeremo le teoria della dinamiche che portano, all’interno dei processi di decisione collettiva democratica, ad aumentare piuttosto che a ridurre l’economia pubblica. Per fare questo, riprenderemo la letteraturapolitologica e di scelta pubblica in merito alla redistribuzione e al problema della conoscenza: se da una parte infatti nei regimi totalitari le élites hanno l’incentivo a espandere la redistribuzione più che quelle democratiche – quelle che Acemoglu e Robinson (2013) chiamano «élites estrattive» –, dall’altra la democrazia incontra il problema della legittimazione della redistribuzione e il problema della conoscenza, sollevato da Downs nella sua analisi dell’ignoranza razionale (Downs, 1957). Il problema della conoscenza può quindi esacerbare il problema redistributivo, rispetto ad altre forme di governo, perché permette a gruppi organizzati di prevalere su quelli disorganizzati e ignari di provvedimenti che restringono lo spazio del mercato e dello scambio, riservando beni e privilegi per alcuni gruppi. La legge dei benefici concentrati e dei costi diffusi è infatti la legge ferrea della democrazia, coperta da quella che Bastiat definisce come «la grande finzione

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attraverso la quale tutti cercano di vivere alle spalle di tutti gli altri» (Bastiat, 1848). Questo è il motivo per cui le democrazie avanzate sono democrazie basate sulla redistribuzione, sulla spesa pubblica alta e sull’iper-regolamentazione, e in cui fare riforme che aumentino la dimensione del mercato è praticamente impossibile. in parte 2. I limiti dell’approccio macro-politico Un’investigazione empirica del rapporto fra democrazia e mercato sembra non poter prescindere dall’analisi statistica o econometrica, resa possibile oggi da grandi raccolte di dati e dall’elaborazione di indici globali. D’altra parte, questa impostazione un po’ riflette il complesso di inferiorità dello scienziato sociale dinanzi alla fisica, risalente ai tempi di Comte e della sua Fisica sociale. In qualche modo appare quindi opportuno richiamare il monito di Lijparth nel suo celebre saggio sul metodo comparato nella ricerca politologica e sociale, quando spiega che il metodo statisticoquesto «non può è il controllare tutte le variabili, ma solo alcune fondamentali che , non quello di momento si sa o si sospetta abbiano influenza sul fenomeno» (Lijphart, cercare 1971). Questa obiezione ci costringe quindi a tornare sulla scelta delle variabili: la parte fondamentale di una ricerca empirica non è quella di trovare i dati e leggere una relazione – perché come abbiamo visto nella letteratura empirica sul tema, questo processo porta a conclusioni contrastanti. Del resto, fra gli economisti gira il detto che «se torturi i dati abbastanza a lungo, confesseranno qualsiasi cosa tu voglia» (Coase, 1994). È quindi necessario selezionare i dati solo dopo aver definito attentamente le variabili empiriche e le relazioni a un livello più elementare possibile: la teoria è la base per pensare, capire come organizzare le variabili. E, per essere empirica, la teoria deve essere in grado di ripercorrere le cause delle proprietà e delle leggi che analizza fino ai loro componenti essenziali, quelli che Carl Menger chiama «elementi dell’e-

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conomia umana», come i bisogni, la conoscenza, la capacità di scambiare ben (Menger, 2001). A partire da questi si possono spiegare meglio i fenomeni aggregati: secondo Menger, «il merito di una teoria dipende sempre da quanto successo hanno nel determinare i fattori reali (quelli corrispondenti alla vita reale) che costituiscono i fenomeni economici e le leggi secondo cui i fenomeni complessi dell’economia politica derivano dai fenomeni più semplici. […] Quando una ricerca arriva a individuare elementi che non corrispondono alla vita reale, o un ricercatore che parte da assiomi arbitrari – cosa che accade troppo spesso con il metodo razionalistico – cadrà necessariamente in errore, anche se usa sistemi matematici elaboratissimi» (Menger, 1953, p. 4). Questo approccio si inserisce nel filone dell’individualismo metodologico, o nella felice definizione di De Mucci, come un approccio micropolitico all’analisi dei fenomeni politici, «intesa come una duplice prospettiva – di teoria e di metodo – attraverso la quale i fenomeni politici sono considerati come conseguenze di azioni di individui e fra individui, ed è intesa inoltre nel senso che queste relazioni specificamente politiche, o almeno con elementi di definite azione da e' politica, possono essere colti non solo nelle grandi organizzazioni (come lo stato) ma anche nei gruppi più piccoli e con gradi minimi di complessità sociale» (De Mucci, 2009, p. 4). È a partire da processi fondamentali di associazione fra gli individui, relazioni di tipo economico e politico, che Simmel (1989) definisce «Forme elementari della sociabilità», che si può costruire un’analisi empirica nel senso mengeriano, ovminuscola vero analitico-compositiva. Molti dei limiti del metodo statistico applicato ai fenomeni complessi come quelli economici e politici, quello che Lijhpart definisce «large-n, few variables», possono essere superati dalla maggiore disponibilità di dati e capacità di elaborazione rese disponibili dalla digitalizzazione della conoscenza negli ultimi decenni, mal’assenza di un metodo analitico-compositivo resta un problema insormontabile in numerose ricerche. Poiché si tratta di misurare costrutti te-

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orici, lo sforzo dell’analista consiste nel trovare dei referenti empirici, delle proxy di misurazione: caratteristiche osservabili e misurabili che possono in qualche modo rappresentare quello che egli ritiene la miglior definizione teorica del fenomeno che andiamo a realizzare. La deriva quantitativa di impostazione positivistica delle scienze sociali corre spesso il rischio di dimenticare che noi non possiamo conoscere i fatti sociali (ma alla fine anche quelli fisici) se non attraverso teorie in merito alla loro rilevazione. Noi non osserviamo la «democrazia» o il «mercato», ma una serie di attributi misurabili – elezioni, stampa libera, partiti, transazioni economiche, pil, crescita – che sono collegati alle nostre definizioni teoriche di cosa sia la «democrazia» o il «mercato», così come non conosciamo in fisica il movimento delle particelle di un gas, ma le deduciamo misurando pressionee volume. L’assenza di questa consapevolezza induce il ricercatore in quello che può essere definito un errore metonimico: confondere la proxy di misurazione con il costrutto che si sceglie di misurare, a discapito delle relazioni causali. Un esempio di questa trasformazione nell’economia è l’inflazione. L’inflazione consiste nell’aumento di massa monetaria, la quale circola nell’economia portando all’aumento generalizzato dei prezzi. La moderna economia non solo misura l’inflazione con indici di prezzi, ma è giunta a definire l’inflazione semplicemente sulla base della sua misurazione, ovvero come un aumento generalizzato dei prezzi dei beni del paniere-indice. Questo sovvertimento fra il fenomeno rappresentante e fenomeno rappresentato della misurazione va a inficiare piuttosto che esplicitare le relazioni causali: infatti, definendo l’inflazione come l’innalzamento dei prezzi di un paniere di beni, si mescolano gli effetti dell’aumento dei prezzi dovuto al fenomeno inflattivo – ovverosia l’aumento della massa monetaria – e quello dovuto a dinamiche della domanda e dell’offerta, che segnalano la scarsità o abbondanza di un bene. E non è un dettaglio capzioso capire se l’indice dell’inflazione è aumentato a causa di politiche monetarie espansionistiche o semplicemente perché in quel momento contingente vi è una

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scarsità ad esempio di petrolio o beni energetici, ma è alla base della comprensione del fenomeno e della formulazione di politiche per trattarlo. 3. I problemi della misurazione dei fenomeni sociali Similmente nel nostro problema, la misurazione e la definizione possono spiegare perché le analisi empiriche in questa disciplina tendano a portare risultati contradditori e spesso mascherare fenomeni. In gran parte della letteratura empirica sul rapporto fra democrazia e mercato, il secondo viene misurato con il pil e la sua crescita, e la teoria soggiacente è quella già enucleata da Adam Smith ne La ricchezza delle Nazioni, secondo cui maggior numero di relazioni di scambio, la libera imprenditorialità siano alla base della ricchezza delle nazioni: conseguentemente, paesi con maggior spazio al mercato hanno un pil maggiore o in maggiore crescita. Un mercato esiste quando gli individui di una società sono in grado di entrare in contatto e scambiare vantaggiosamente fra di loro: un’economia di mercato – o capitalistica – si realizza quando questo diventa il modo prevalente di interagire e di produrre, il contrario quindi di economie autarchiche o centralizzate (Kirzner, 1963). Una delle caratteristiche fondamentali dell’economia di mercato è la capacità di utilizzare la conoscenza dispersa nella società per prendere decisioni in merito alla gestione delle risorse scarse. Da questo decentramento delle decisioni consegue l’innovazione, è il tratto fondamentale dei sistemi capitalistici, a tal punto che Marx definisce il capitalismo come innovazione permanente. Dal punto di vista politologico, il capitalismo – ovvero il sistema basato sul mercato –è basato su variabili istituzionali, è «a system of exchange that depends on the economic freedoms to own private property and to buy, sell, and invest the property as one wishes. Unless people can own and exchange property without worrying that a central authority

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will confiscate it, they will have little incentive to save and invest. Unless they can keep most of the fruits of their labors, they will also have little incentive to work hard» (Kuerian et al., 2011, p. 188). In altre parole, il mercato è un sistema di scambi basato su delle istituzioni – in primo luogo la proprietà, ma nella triade di David Hume (1978) anche scambio per consenso, e rispetto dei patti – che proteggono chi lavora dalla spoliazione, sia essa privata che pubblica. Per tornare al nostro punto originale, quello sul problema della misurazione del mercato, sebbene sappiamo dai tempi di Adam Smith che è da questi scambi che si ottiene crescita del pil, non vuol dire che il pil cresca solamente a causa del buon funzionamento di un’economia di mercato. Quando si passa ad aggregare grandi numeri e diversi fattori, infatti, il pil può non essere necessariamente un buon referente empirico per la misurazione del mercato. Correttamente si individua la crescita del pil come risultato del mercato, ma così come l’aumento dei prezzi non può essere dovuto solo al fenomeno inflattivo, così la crescita del pil non è necessariamente dovuta al mercato o a un assetto istituzionale specifico. Dobbiamo innanzitutto ricordare un dato di fatto dall’economia dello sviluppo: indipendentemente dal tipo di regime politico e dal modello, ci si deve aspettare un tasso di crescita più veloce nei paesi più poveri che in quelli industrializzati, per una necessità matematica del concetto di tasso. In media, quindi, nei paesi in via di sviluppo il pil cresce più velocemente che in quelli sviluppati: basti comparare la Cina, l’India con gli Stati uniti e la Germania. Con questa premessa, è facile vedere come anche se osserviamo una crescita del pil più alta in regimi in transizione rispetto a regimi stabili, questa può essere causata da altri aspetti che non quelli istituzionali o dalle scelte di policy. Inoltre, i paesi poveri possono crescere semplicemente applicando e adattando la tecnologia produttiva sviluppata dai paesi con economia avanzata, senza aumentare la produttività o sviluppare autonomamente le istituzioni di mercato. Da una parte, possono farlo importando la tecnologia

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dai paesi già sviluppati; dall’altra, possono farlo muovendosi lungo la cosiddetta Frontiera delle possibilità produttive. Si tratta di una curva che rappresenta le possibilità di combinazioni delle risorse produttive e con una tecnologia data per produrre beni: in ogni momento, se mi muovo sulla curva, posso produrre o una certa quantità di prodotti agricoli, o una certa quantità di prodotti industriali – il che significa che devo sacrificarne uno per averne un altro. L’immensa crescita di ricchezza dell’Occidente capitalistico non è avvenuta sulla curva della frontiera, ma spostando questa con nuove tecnologie, attraverso l’innovazione (Caplan, 2008). Un modello di sviluppo tipico delle società totalitarie, invece, è quello lungo la curva: mancando l’innovazione che permette di spostare la frontiera, maggiore produzione industriale indicherà minore produzione agricola. Il caso estremo è quello dell’Unione sovietica, la cui industrializzazione è stata un doloroso movimento lungo la curva della frontiera: la carestia durante la guerra civile causata dalla industrializzazione staliniana, l’espropriazione e deportazione dei Kulaki sotto Lenin spostarono un significativo quantitativo di risorse dall’agricoltura e i beni di consumo alla produzione industriale, creando un’illusione di una crescita economica che indusse diversi osservatori occidentali – incluso il futuro premio Nobel Samuelson! – a ritenere che il regime comunista sovietico fosse in grado di superare rapidamente in crescita economica quello americano (Levy e Peart, 2011). In altre parole, il pil di un Paese o un gruppo di paesi può crescere e prosperare per anni senza porre in essere le istituzioni di mercato: questo va a inficiare qualsiasi analisi econometrica che utilizzi solo lo la crescita del pil come indicatore di mercato. Un esempio inverso di utilizzo di un approccio macropolitico invece che un livello di osservazione micropolitica è dato dalla confusione in merito al capitalismo clientelare. È infatti un’opinione talmente diffusa, da trovare spazio, ancora una volta, nell’Encyclopedia of Political Science, quella che il capitalismo metta in pericolo, attraverso la corruzione, la

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democrazia. «Some observers believe that capitalism may ultimately threaten democracy even in strong democracies such as the United States, as intensifying competition among corporations spills over into politics. By this view, firms and industries seek competitive advantage over one another through laws and regulations that favor them over their rivals. They employ everincreasing numbers of lobbyists, mounting campaign contributions, and costly media campaigns. This escalating arms race drowns out the voices of average citizens. It overwhelms political parties, voluntary associations, and nonprofit groups on which citizens previously depended to communicate their views to elected officials. Under this scenario, politics comes to represent the interests of companies and financial institutions and their executives and investors, more than the interests of ordinary people» (Kurian et al., 2011, p. 189). Con un approccio micropolitico è possibile osservare che l’azione di richiedere privilegi o protezioni politiche, di instaurare monopoli privati attraverso la regolamentazione e il diritto non può logicamente costituire un’azione appartenente al reame del mercato, non essendo catallattica ma coercitiva. In altre parole, se un attore economico utilizza il potere pubblico per costringere i suoi concorrenti a rimanere fuori dal mercato, esso non opera più come un attore economico ma è attore politico. Davanti a questo, diventa interessante non lamentare che il capitalismo corrompa la democrazia, ma chiedersi se la democrazia sia migliore di altre forme di organizzazione del potere politico nel rifiutare, controllare, minimizzare l’impatto del capitalismo clientelare sulle decisioni collettive. il rapporto fra mercato e democrazia, è necessario elaborare una definizione di 4. L’approccio micro-politico mercato Prima di capire che colga gli aspetti istituzionali del sistema di scambio ed escluda la crescita dovuta a corruzione e clientelismo, e per trovare una definizione altrettanto solipoi

: si può utilmente Democrazia e mercato «spacchettati»

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da del regime politico che conosciamo come democrazia, è necessario utilizzare il metodo analitico-compositivo di Menger e applicarlo con un approccio micropolitico alla relazione in esame. Occorre quindi partire dalla componente più elementare di questi sistemi complessi, ovvero la relazione fra individui, che è componente elementare della società e quindi il punto di partenza delle scienze sociali. «L’uomo è inconcepibile come essere isolato, perché l’umanità esiste solo come fenomeno sociale, e il genere umano ha superato lo stadio della animalità solo in quanto l’azione in comune ha sviluppato le relazioni sociali tra individui. L’evoluzione dall’animale umano all’essere umano è stata resa possibile e raggiunta per mezzo della cooperazione sociale e solo attraverso di essa» (Mises, 1990, p. 327). La società infatti inizia quando due persone si incontrano e interagiscono, scambiando qualcosa: questa interazione può essere divisa in un binomio fondamentale, quello dello scambio economico, che avviene volontariamente, e quello dello scambio politico, che avviene utilizzando diversi livelli di potere: «la comprensione di macrofenomeni quali il mercato e lo Stato affonda la sue radici nell’analisi di interazioni più “semplici” quali lo scambio e il potere […]. Da un punto di vista scientifico, noi possiamo osservare le interrelazioni che avvengono tra gli esseri umani, distinguendo quelle che avvengono facendo ricorso alla forza e quelle che non prevedono il ricorso alla forza. Lo scambio è una interrelazione senza uso della forza, quindi pacifica» (Iannello, in fase di pubblicazione). 2015 5. Il mercato: la relazione di scambio La caratteristica fondamentale dello scambio economico è la sua volontarietà: individui decidono liberamente di scambiare dei beni in loro possesso. Dalla volontarietà dello scambio discende logicamente che entrambe le parti ricevono un vantaggio dallo scambio: nel momento in cui A sceglie di

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scambiare un bene x per un bene y (che in un’economia complessa è probabilmente una somma di denaro), esso valuta il bene y come migliore, per la sua utilità soggettiva, rispetto al bene x, che era originariamente in possesso. Ma non solo: se A è riuscito a trovare un individuo B con cui effettuare lo scambio, vuol dire che B valuterà il bene x migliore del bene y. Attraverso lo scambio, in virtù della loro diversa valutazione soggettiva dei beni x e y, entrambi si trovano in una situazione migliore: il mero scambio ha permesso di generare benessere per entrambe le parti. È corretto quindi affermare con Simmel che lo scambio crea valore: «lo scambio produce un incremento della somma assoluta dei valori percepiti. In quanto ognuno offre in cambio soltanto ciò che gli è relativamente superfluo, e riceve in cambio ciò che gli è relativamente necessario, è possibile in ogni momento giungere alla massima valorizzazione dei valori ricavati dalla natura» (Simmel, 1998, p. 421). Se lo scambio non è volontario, questa assunzione non è possibile: se A sottrae il bene y a B, possiamo solo dire che A ne ha beneficiato, mentre B ha perso qualcosa: e questo è vero di tutte le relazioni coattive, fra cui rientra anche la tassazione. L’utilità – o l’egoismo smithiano – di reiterare lo scambio costringe A e B a rispettarsi l’un l’altro, a interagire rispettando le reciproche condizioni, e a sforzarsi di produrre qualcosa con cui scambiare. Questo da una parte è il presupposto della divisione del lavoro: se posso scambiare quello che produco al meglio con gli altri, allora posso concentrarmi su cosa produco al mio meglio e acquistare il resto sul mercato: lo scambio permette agli uomini di godere delle capacità, della creatività degli altri. Solo attraverso la divisione del lavoro, infatti, ha senso parlare di tecnologia: per gli economisti, la tecnologia è uno degli infiniti modi possibili di combinare capitale e lavoro in ogni dato momento di un’economia. Questa non avrebbe senso in un’economia autarchica, ma solo in una di mercato, in cui le interazioni, gli scambi, la divisione del lavoro permettono di utilizzare la conoscenza di tempo e di luogo dispersa fra gli individui nella società,

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la loro creatività e la loro capacità di prendere decisioni in merito a cosa sia preferibile per sé. Nelle parole di Smith, «la causa principale del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della maggior parte dell’arte, destrezza e intelligenza con cui il lavoro viene svolto e diretto» (Smith, 1976, p. 13). Lo scambio e la divisione del lavoro fanno sorgere una cooperazione che porta ricchezza e innovazione, ma non solo: lo scambio infatti richiede che emergano nella società delle istituzioni che sono il presupposto logico dell’interazione volontaria. La letteratura istituzionale è sconfinata, ma è corretto riconoscere come la proprietà privata, il diritto dei contratti e quello delle organizzazioni siano componenti fondamentali dell’economia dello scambio: senza proprietà sul bene in suo possesso, A non sarà in grado di scambiarlo o di si sta conservarlo per creare altri beni. L’incapacità di proteggere il proprio capitale rende impossibile lo scambio, ma anche il progresso tecnologico, poiché non si può essere certi di quello che avverrà domani al bene su cui sto investendo (de Soto, 2000). Una società in cui non emergono norme che tutelano il capitale e garantiscono la possibilità di scambiarlo non può beneficiare della divisione del lavoro e dell’innovazione tecnologica: è quindi una società destinata a non andare oltre la capacità di sussistenza (Cooter & Schaefer, 2012). La reiterazione dello scambio aiuta anche a favorire l’emergenza di queste regole, ma anche della tolleranza, della capacità di convivere pacificamente, e persino di esprimere solidarietà nella società: di recente è stato portato avanti un esperimento naturale in grado di illustrare questo processo, già peraltro ben descritto in via teorica dai filosofi morali scozzesi (Infantino, 2011). L’antropologo Joe Henrich è andato a riproporre ai Machiguenga, che vivono in piccole tribù di economia di condivisione e non di scambio ai bordi dell’Amazzonia, un esperimento basato sulla teoria dei giochi – il cosiddetto ultimatum game. In questo gioco, si chiede a due soggetti di condividere un premio: A decide le proporzioni della divisione, mentre B può accettare o non accettare. Sebbene la mera razionalità dell’homo economicus suggerirebbe

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ad A di dividere 100 in 99 e 1, e a B di accettare comunque, perché 1 è comunque superiore a 0, quando questo esperimento viene condotto nei paesi industrializzati, A sceglie sempre una divisione più equa, mentre B rifiuta se ritiene la somma a sé assegnata ingiusta. Tutto questo non avviene nella tribù dei Machiguenga, dove A decide sempre di tenere quasi tutto per sé e B accetta senza trovare ingiusta qualsiasi decisione: questo perché la loro organizzazione sociale, non essendo basata sullo scambio e sul mercato, non socializza gli individui. Essi non sono abituati dal loro egoismo a trovare una mediazione equa con i loro simili (Henrich, 2000). A partire dall’analisi micropolitica delle relazioni umane, possiamo quindi enucleare tre componenti dell’economia di mercato come fenomeno storico: 1. La divisione del lavoro, che permette la tecnologia, l’innovazione e la crescitadi una società: come abbiamo cercato di spiegare, queste sono conseguenze logiche dello scambio economico e volontario. 2. La nascita di istituzioni, del diritto, della socialità come presupposto e conseguenza logica dello scambio mutualmente benefico. 3. Il capitalismo clientelare, che avviene nelle economie di mercato ogni qualvolta un soggetto privato riesca a utilizzare il potere politico come fonte di guadagno personale. È doveroso notare come questa manifestazione storica non discenda logicamente dalla relazione di scambio, ed è quindi un errore ritenerla una componente fondamentale del mercato. 6. L’azione politica: le decisioni collettive e collettivizzanti Dall’altra parte della dicotomia delle relazioni umane, invece, c’è l’azione politica, il cui tratto fondamentale è l’utilizzo del potere coattivo: ovvero, la non volontarietà. Lo scambio di potere avviene a tutti i livelli dell’interazione sociale – dalle

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reciproche aspettative in merito al comportamento altrui alla spoliazione privata attraverso il furto e la frode – ma ha la sua dimensione propriamente politica quando si istituzionalizza in un gruppo più ampio, con obiettivi comuni2, regole di funzionamento e una certa stabilità. A differenza della relazione di scambio, in una relazione politica A, o un gruppo di individui selezionati secondo regole diverse, può imporre a B uno scambio che esso ritiene più o meno vantaggioso. L’azione propriamente politica è collettivizzata – ovvero presa in un gruppo – e collettivizzante – ovvero ricade sul gruppo intero. De Mucci definisce «la politica come attività destinata a produrre decisioni autoritative in qualche modo o misure “collettivizzate”, tali cioè da determinare una ricaduta vincolante su tutto il gruppo preso in considerazione (non importa l’estensione e il grado di organizzazione del gruppo), nonché sui loro relativi interessi.Questo in un duplice senso: sia nel senso che le scelte sono adottate in una qualche forma – diretta o indiretta – e in una proporzione qualsiasi dagli stessi membri della collettività […] sia nel senso che le scelte comunque adottate ricadono sulla sfera privata di ciascun membro della collettività e la ricomprendono» (De Mucci, 2009, pp. 8-9). La democrazia, vedremo in seguito, attiene al modo in cui la scelta viene effettuata, e alla selezione di chi all’interno del gruppo la farà: è una procedura di trasformazione delle preferenze dei membri di un gruppo o di una società. Qualunque sia la procedura di scelta collettiva, però, la componente collettivizzante della democrazia fa sì che questa venga a inserirsi al genus dell’azione non volontaria. Una conseguenza logica dell’azione collettiva e collettivizzante è la 2. A differenza della relazione di mercato, in cui i fini sono indifferenti e si condividono solo i mezzi: proprio questa condivisione dei mezzi, superando i fini, contribuisce a diffondere la tolleranza nella società di mercato, in cui A discrimina B solo per motivi economici, concernenti le qualità dei beni x o y, e non sulla base di caratteristiche e preferenze di B. Per un’estesa trattazione dell’argomento, si veda infantino, 2011.

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sua capacità di esternalizzare i costi su terzi: la maggioranza A può prendere una decisione X i cui benefici saranno superiori a costi per sé, che A è in grado di vagliare, ma anche costi e benefici per la minoranza B che non sono tenuti in conto nella decisione. L’esternalizzazione dei costi è quindi, come fa opportunamente notare Bruno Leoni nelle Lezioni di dottrina dello Stato (2004) una delle componenti che fa sì che l’azione politica collettiva, sia essa decisa da un’elite o tramite scelta democratica, sia meno razionale che quella privata, di mercato, in cui i decisori coincidono completamente e direttamente con i destinatari delle decisioni. Questi elementi ritornano utili quando si passa a tracciare gli elementi della democrazia, anche ripercorrendo la sua storia: la democrazia infatti è un regime politico caratterizzato dal diritto di tutti gli individui della nazione a decidere, tramite elezioni, il gruppo di A che li rappresenterà nel prendere decisioni collettive e collettivizzanti. Ma anche qui la realtà è più complessa: secondo Morlino (2004), per definire correttamente la democrazia bisogna andare oltre la mera democrazia procedurale «The minimal definition of democracy suggests that such a regime has at least: universal, adult suffrage; recurring, free, competitive andfair elections; more than one political party; and more than one source of information. Among those that meet these minimum criteria, further empirical analysis is still necessary to detect the degree to which they have achieved the two main objectives of an ideal democracy: freedom and equality». Dalla definizione di Morlino bisogna però enucleare almeno tre elementi distinti: le procedure di decisione, la garanzia della libertà e quella dell’uguaglianza. Guardando alla democrazia come fenomeno storico è facile ritenerlo un sistema politico integrato e facilmente identificabile da queste caratteristiche. Eppure, storicamente3, la democrazia nasce 3. La ricostruzione storica è tratta da mandelbaum, M., Democracy’s Good Name: The Rise and Risks of the World’s Most Popular Form of Government, Public Affairs, New York 2007.

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dalla fusione di due tradizioni politiche che fino al diciannovesimo secolo erano non solo distinte, ma considerate incompatibili fra loro4, quella della libertà individuale e quella della sovranità popolare. Mentre la prima è una caratteristica degli individui, e ne tutela la capacità di prendere scelte le cui conseguenze ricadono interamente su di essi e su una controparte disposta ad accettarle, la seconda è una proprietà della comunità, di un gruppo di individui che deve prendere decisioni collettive e collettivizzanti. La tradizione politica liberale rispondeva alla domanda su cosa potessero fare gli individui, e quindi su quali sfere il potere politico non potesse intervenire. La sovranità popolare, invece, riguarda come viene scelto chi detiene il potere politico, ovvero attraverso una procedura che tenga conto delle preferenze di tutti. Queste due tradizioni hanno storie diverse: la prima è la più antica, si può grossolanamente dividere in tre aspetti. La libertà economica, ovvero il rispetto della proprietà privata emerge in Occidente, con un percorso tortuoso che parte dal diritto romano, e passa per le città medievali e le corti di common law britanniche (Leoni, 1961). La libertà religiosa è emersa in gran parte a causa della spaccatura causata nell’Europa cristiana dalla riforma protestante, e da questa deriva in larga parte la libertà di espressione. Le libertà politiche – ovvero l’assenza di controllo del governo sulla libertà di espressione, di organizzazione e partecipazione alle scelte politiche – saranno un fenomeno successivo, e probabilmente l’Inghilterra del diciottesimo secolo è il posto dove per prima si manifesta una tutela delle libertà politiche come intese modernamente. Il coronamento di questa impostazione è la rivoluzione americana, in cui i coloni si ribellano al potere inglese che 4. È noto come gli esponenti della cd Scuola elitistica italiana (Mosca, Pareto, Michels) avessero sviluppato, da un punto di vista liberale, molte critiche e diffidenze nei confronti della democrazia parlamentare e del suffragio universale, di fatto in contrasto con il potere delle élites. Sul punto si rimanda a una analisi compiuta contenuta nel libro di sola, g., La teoria delle élites, il Mulino, Bologna 2000.

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limitava la loro libertà politica ed economica, imponendo il principio di no taxation without representation, ma soprattutto incorporando nella dichiarazione d’indipendenza i principi fondamentali della tradizione liberale: il diritto a «life, property and the pursuit of happiness» – che altro non è che il diritto a prosperare attraverso scambi pacifici (Bassani, 2003). La sovranità popolare, che ha la sua origine in quella che Constant (2005) chiama la «libertà degli antichi» delle città greche, ha la sua acmé durante la rivoluzione francese, che ha impresso a tutto il mondo l’idea che il potere sovrano debba risiedere nel popolo piuttosto chein sovrani eletti. Poiché è impossibile che tutti partecipassero alle decisioni in merito alla collettività, il principio della sovranità popolare è stato veicolato dal governo rappresentativo, in cui i tutti i cittadini hanno diritto di votare per scegliere i loro rappresentanti attraverso elezioni libere e imparziali. Quando queste due tradizioni si sono incrociate, era frequente fra i pensatori liberali ritenere che la sovranità popolare avrebbe schiacciato la libertà individuale: se le persone che non avevano proprietà avessero potuto decidere tramite elezione avrebbero votato ed espropriato i ricchi, andando a ledere le libertà economiche fino ad allora conquistate. Si occupano di questo, ad esempio, Toqueville in Democracy in America (1831) e Mill in On liberty (1869): in seguito però la maggior parte degli intellettuali ha accettato la coesistenza fra queste due tradizioni, fino a confonderle. Questo è in parte dovuto all’emergere di una terza componente storica dei regimi democratici: il welfare pubblico, attraverso programmi di protezione sociale e di redistribuzione. A partire dal ventesimo secolo, pensioni, programmi contro la disoccupazione, servizi pubblici o pubblicizzati hanno reso la redistribuzione di proprietà universale e socialmente accettata. A conclusione di questo excursus, possiamo sottolineare almeno tre elementi anche nella definizione della democrazia: 4. il primo è quello della sovranità popolare. È un aspetto procedurale, che attiene alle regole di trasformazione delle

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preferenze dei cittadini in una decisione collettiva. Alla domanda di come prendere decisioni collettive e collettivizzanti, la risposta democratica è «il popolo, con una qualche forma di rappresentanza/maggioranza». Non è un caso se questo è l’elemento core e ineliminante della democrazia: è quello sul quale è possibile tracciare un discrimine logico e necessario rispetto ad altre forme di regime e di relazioni umane con un metodo analiticocompositivo. 5. Il secondo elemento è quello delle libertà individuali, o che Morlino definisce come libertà. Risponde a una domanda diversa rispetto a quello del primo: ovvero definisce il confine che non può essere superato da A o da una maggioranza a nei confronti di ogni singolo B. È evidente che non possiamo derivare nulla, logicamente, in merito a questi confini dalla risposta al primo quesito. 6. Il terzo elemento, infine, risponde alla domanda di quanto sia accettabile una differenza fra A e B, e quali siano le azioni accettabili per ridurla: in questo caso, il modo in cui si decide ha influenza su quanto questo sia importante. Mentre fra il secondo e il terzo elemento c’è chiaramente un rapporto di alternativa: come ben espresso però nel giustamente celebre saggio di Berlin sulle libertà positive e quelle negative, questi due elementi sono in rapporto antitetico fra di loro, ovvero maggiore uguaglianza sociale può essere ottenuta solo a scapito di minori libertà civili, in particolare la libertà di intraprendere e di mantenere i frutti del proprio lavoro. 7. Mercato e democrazia spacchettati A conclusione di questo percorso, possiamo inquadrare la relazione fra democrazia e mercato in una tabella di relazioni fra i diversi elementi che le compongono, per capire meglio le loro relazioni:

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è possibile rosamaria bitetti accentrarlo ed le righe Tabella 1 – Elementi di mercatoinserire e democrazia separatorie? Fenomeno storico Elementi costitutivi Mercato

Scambio e divisione

Istituzioni liberali

Capitalismo clientelare

Democrazia

Libertà individuali

Sovranità popolare

Welfare state

L’aspetto del capitalismo clientelare nel mercato, così come quello delle libertà individuali nella democrazia, non hanno un collegamento logico e necessario con gli elementi fondamentali della relazione di mercato o quella di potere: sono aspetti accidentali. Il capitalismo clientelare, ovvero l’utilizzo del potere politico per favorire alcuni privati nel mercato, attraverso la regolamentazione e la redistribuzione è una negazione della relazione di scambio volontario: è quindi solo possibile grazie a una relazione di potere; possiamo chiederci quindi se l’assetto istituzionale democratico sia in grado di favorire o meno l’emergere del capitalismo clientelare. Discorso simile accade per la componente delle libertà individuali: questa non attiene, come l’aspetto della sovranità popolare, alla dimensione delle decisioni collettive e collettivizzanti. Anzi, questa tradizione tende a porre un limite alla sfera delle decisioni politiche, ovvero coattive, nella coesistenza. Sebbene sia legata nell’evoluzione storica al mercato e alle istituzioni liberali, questa ha però una dimensione politica. Ma oltre a non avere la stessa origine, dal punto di vista logico, come osservato da Toqueville, Mill e altri, in realtà le libertà individuali possono trovarsi in relazione antitetica rispetto sovranità polare alla precedente. Spacchettare questo rapporto ci permette di vedere in una luce più interessante le possibili relazioni fra questi elementi in due triadi: Scambio-istituzioni liberali-libertà personali e Sovranità popolare-Welfare-Capitalismo clientelare: incrociandole con le possibili relazioni causali, da mercato a democrazia e da democrazia a mercato, otteniamo tre diversi spunti d’analisi: il rapporto fra mercato, inteso come scambio

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e istituzioni liberali, e la democrazia classica; il rapporto fra capitalismo clientelare e democrazia, e infine il rapporto fra democrazia, intesa come sovranità popolare e welfare state, e mercato, inteso come spazio lasciato agli scambi economici dalla regolamentazione pubblica. 8. Mercato, istituzioni liberali e democrazia classica Scambio, istituzioni liberali e libertà personali sono legate da una relazione positiva, evidenziata da diverse discipline e pacifica nella letteratura.Il mercato induce non necessariamente la democrazia, intesa come sovranità popolare, ma necessita e quindi spinge per ottenere le libertà individuali. È interessante osservare come fare il passaggio dalla sfera delle relazioni individuali a quella delle relazioni politiche. Dahl (1998) riassume efficacemente la teoria secondo cui il capitalismo di mercato sia favorevole alla democrazia perché crea un largo strato intermedio di proprietari, che chiedono più istruzione, più autonomia, rispetto per i diritti di proprietà, il rule of law e le libertà personali. Già da Aristotele sappiamo che la middle class è l’alleato naturale di istituzioni solide, e similmente Schumpeter (1950) sottolinea come la democrazia classica – ovvero quella che implica libertà personali e diritti politici – derivi essenzialmente da un modus ragionandi di tipo borghese. Un altro aspetto attraverso cui il mercato può favorire la democrazia, intesa come diritti individuali, è aumentando l’accountability di chi detiene il potere attraverso strumenti che sono il risultato dell’innovazione tecnologica. «A more optimistic scenario holds that democracy will be enhanced by the instant-communication technologies of twenty-first century capitalism, such as the Internet, cell phones, blogs, text messaging, and social networking sites. These offer inexpensive means of connecting large numbers of people free from state control-allowing them to confer with one another,

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criticize political leaders, report abuses, mobilize opposition, and monitor vote rigging» (Kurian et al., 2011, p. 189). Quanto effettivamente l’innovazione nelle comunicazioni possa incidere sui cicli politici è questione che può sollevare scetticismo, alla luce delle considerazioni su conoscenza e politica che espanderemo in seguito: ciononostante, maggiore disponibilità di informazioni permettono, almeno potenzialmente, maggiore controllo e la possibilità di promuovere politiche misurabili e basate sui fatti. 9. Capitalismo clientelare e democrazia Un altro tassello interessante nella relazione fra mercato e democrazia ci viene dalla teoria della transizione di Acemoglu e Robinson (2001). Lo schema fondamentale di questa teoria è che la democrazia – regime preferito dalla maggioranza perché permette di mettere in atto politiche di redistribuzione come tassazione elevata ed espropri – è concessa dalle elite che detengono il potere politico quando queste si confrontano con la minaccia credibile di un colpo di Stato o di una rivoluzione. Se la repressione non è un’opzione sostenibile, le elite possono provare a garantire alla maggioranza politiche redistributive che prevengano il conflitto, ma se questa garanzia non è credibile devono cedere direttamente il potere di porle in essere alla maggioranza. È il caso di notare che Acemoglu e Robinson modellano la democrazia non a partire dall’elemento delle libertà individuali, ma da quello della sovranità popolare e della redistribuzione tramite il welfare state: seguendo la nostra distinzione, possiamo leggere questa celebre teoria sotto due aspetti diversi. Da una parte, Acemoglu e Robinson avvertono che la democratizzazione è più probabile in paesi industrializzati, ma con questo intendono paesi in cui le elite hanno interessi prevalentemente industriali: «Another important determinant of the trade-off between democracy and repression is the source of income for the elites. In some societies, the elites are heavily

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invested in land, whereas in others, the elites are those with investments in physical and human capital. There are likely to be three major differences in the attitudes of landowners and (physical and human) capital owners toward democracy and nondemocracy. First, land is easier to tax than physical and human capital. Therefore, landowners have more to fear from democracy than nondemocracy, which makes them more averse to democracy. Second, social and political turbulence may be more damaging to physical and human capital owners who have to rely on cooperation in theworkplace and in the trading process, which makes landowners more willing to use force to preserve the regime they prefer. Third, different sets of economic institutions are feasible in a predominantly agrarian economy, which influence the relative intensity of elites’and citizens’preferences over different regimes. For instance, labor-repressive institutions, such as slavery, are relatively more efficient with agricultural technology than in industry. This implies that democracy is worse for elites because the changes in collective choices that it brings undermine their preferred set of economic institutions. All three considerations imply that democratization is more likely in a more industrialized society where the elite own significant physical and human capital than a more agricultural society where the elites are mainly invested in land. Stated differently, democracy is more likely when the elites are industrialists rather than landowners» (Acemoglu & Robinson, 2001, p. 32). Si parla quindi di una società in cui le elite industrializzate hanno più interesse a mettere in piedi un meccanismo che altro redistributivo, la democrazia welfaristica, per assicurare la stabilità dagli eccessi della rivoluzione. Acemoglu e Robinson sottolineano come la democratizzazione è più probabile in paesi in cui la situazione economica è estremamente diseguale: ora, la disuguaglianza è una caratteristica tipica delle economie di mercato, perché diverse sono le capacità e le proprietà di partenza degli individui che si inseriscono nella divisione del lavoro e quindi diverso sarà il loro successo nel mercato. Però la disuguaglianza è esacerbata in società in cui

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il capitalismo clientelare riesce a estrarre maggiore ricchezza dal resto della popolazione attraverso il potere politico invece che attraverso gli scambi. Si tratta di quelli che Acemoglu chiama «elite estrattive». Tornando alla nostra dicotomia originale, mentre lo scambio di mercato è a somma positiva, cioè beneficia entrambe le parti, lo scambio attraverso potere politico aumenta il beneficio di una parte a discapito dell’altra: ne consegue che una società in cui le relazioni di mercato sono prevalenti sarà necessariamente meno diseguale di quella in cui le parti possono utilizzare il potere politico per imporre il proprio volere sugli altri. Nei paesi in cui vi è più mercato, vi è meno domanda di redistribuzione: questo spiega il paradosso di società come Singapore o le Tigri asiatiche, o il grande successo economico di regimi autoritari quali la Cina, che non sembrano cedere al binomio di democrazia e mercato che Fukuyama (1992) vedeva come inevitabile. Acemoglu e Robinson così individuano due percorsi di transizione: «in the first path, democracy is never created because society is relatively egalitarian and prosperous, which makes the nondemocratic political status quo stable. The system is not challenged because people are sufficiently satisfied under the existing political institutions» (Acemoglu e Robinson, 2001, p. 32). Si tratta di paesi in cui il mercato, la crescita economica, ha creato sì disuguaglianze, ma dovute prevalentemente al merito nel mercato e non al potere politico. Si tratta infatti di paesi che hanno migliorato radicalmente il loro livello di libertà economica, fino appunto al caso limite di Singapore, che svetta sui vari indici di libertà economica. In questi casi, il mercato ha sviluppato le istituzioni liberali di rispetto della proprietà e dei contratti, e più lentamente le libertà personali. In società in cui la disuguaglianza dovuta a elite estrattive si va riducendo o eliminandosi, non c’è pressione per legittimare la proprietà attraverso la redistribuzione. Se, come sottolineano i nostri autori, il conflitto è alla base delle transizioni ad assetti istituzionali diversi, è necessario aggiungere però che il libero mercato permette una redistribuzione delle ricchezze diseguale, perché basata sulle diverse capacità

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degli individui di partecipare al gioco a somma positiva dello scambio, ma meno diseguale di quella creata dalla politica e dal capitalismo clientelare che di essa si serve. Questo è ciò che, assimilando il concetto di mercato e crescita del pil, non è in grado di vedere la tesi sviluppista (Lipset, 1959): non basta che ci sia sviluppo economico per generare una democrazia liberale, ma è necessario che lo sviluppo sia trainato dal mercato libero e concorrenziale perché crei la diffusione del potere economico in grado di generare un conflitto virtuoso nella società, perché è da questo conflitto che nascono le democrazie liberali. Al contrario, uno sviluppo costruito su capitalismo clientelare, su materie prime e lavoro controllati attraverso la politica da elite estrattive creerà un conflitto in questoe è un titolo grado di creare solo failed states o democrazia clientelare redistributiva. Sovranità popolare e mercato: perché le democrazie scelgono politiche sbagliate Sappiamo da amplissima letteratura in merito, nonché dall’osservazione della realtà storica, che il mercato, inteso come divisione del lavoro e innovazione, è la principale fonte di miglioramento della società umana. Abbiamo ripercorso come il mercato abbia bisogno di istituzioni liberali, la certezza del diritto privato e di libertà individuali garantite attraverso il diritto pubblico. Ma questo non spiega tutta l’attività delle società moderne, in cui la maggior parte delle scelte collettive sono di economia politica: ovvero quelle decisioni in merito a quanto lo Stato debba intervenire nell’economia, sostituendosi al mercato. Come dicevamo in precedenza, la democrazia intesa come sovranità popolare non nasce per rispondere a questo problema – l’assunto è che possa decidere collettivamente ed efficientemente quali policy adottare, quale livello di sostituzione fra Stato e mercato sia benefico per la società. In teoria, la democrazia dovrebbe limitare le scelte socialmente inefficienti: in pratica, frequentemente le democrazie adottano e mantengono politiche inefficienti, che riducono il mercato e la sua potente distruzione creatrice. In questo paradosso è il cuore della questione teorica forse più

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affascinante della nuova ricerca comparata: è la democrazia in grado di favorire una salvaguardia efficiente del mercato? In un provocatorio volume del 2001, Democracy, the God that failed, Hans-Herman Hoppe arriva a dichiarare la democrazia come il meccanismo grazie a cui si è realizzato la maggior parte dello spostamento dal potere privato al potere pubblico. Questo accade perché diversi gruppi di pressione cercano continuamente di aumentare la spesa pubblica e le regolamentazioni statali per il loro interesse, aumentando così anche la tassazione, così: «every detail of private life, property, trade and contract is regulated by ever higher mountains of paper laws (legislation). In the name of social, public or national security our caretakers “protect” us from global warming and cooling and the extinction of animals and plants, from husbands and wives, parents and employers, poverty, disease, disaster, ignorance, prejudice, racism, sexism, homophobia and countless other public enemies and dangers» (Hoppe, 2001, p. 89). Hoppe arriva a ipotizzare che la democrazia – che definisce come «publicly owned government» – sia inferiore alla monarchia, perché un monarca che guarda al regno come un suo possesso personale ha maggior interesse a massimizzare il valore della sua proprietà sia nel breve che nel lungo periodo, «[T]o preserve or even enhance the value of his personal property, he [the king] would systematically restrain himself in his taxing policies, for the lower the degree of taxation, the more productive the subject population will be, and the more productive the population, the higher the value of the ruler’s parasitic monopoly of expropriation will be» (p. 19). Al contrario, governanti democraticamente eletti sono caratterizzati da un interesse del breve periodo – che la letteratura public choice chiama Shortsightedness Effect, una sorta di miopia nei confronti del lungo periodo che li rende più pronti a passare provvedimenti che danno benefici immediati e pospongono i costi nel futuro – come alto debito pubblico – per compiacere l’elettorato o i gruppi di pressione (Gwartney, 1980). L’ipotesi che la democrazia in realtà riduca il mercato, invece che favorirlo, è un’ipotesi forte e su cui vale la pena di soffer-

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marsi più a lungo, anche cercando qualche referente empirico. I seguenti grafici mettono in relazione due variabili che ben rappresentano il bilanciamento fra ruolo lasciato al mercato e parte di economia gestita dallo Stato, la spesa pubblica e pressione fiscale, con il livello di democrazia, intesa come sovranità popolare e quindi misurata attraverso il sotto-insieme di indicatori concernenti i diritti politici del Freedom of the World Index della Freedom House (Processo elettorale, Pluralismo politico e partecipazione, Funzionamento del Governo)5. Figura 1 – Rapporto fra democrazia e spesa pubblica 70

Spesa Pubblica % PIL

60 50 40 30 20 10 0

0

1

2

3

4

5

6

7

8

Ranking in Freedom House, Political Rights. 1,2: Free; 3-5: Partly Free; 6-7: Not Free

Fonte: International Monetary Fund, Government Finance Statistics Yearbook and data files, and World Bank and oecd gdp estimates. Indicators Catalog Sources World Development Indicators, Anno di riferimento: 2012 (2011 in caso di non disponibilità); Freedom House, Freedom of the world, 2012. Paesi disponibili.

5. Freedom in the World 2014 (Freedom House): http://www.freedomhouse. org/report/freedom-world/freedom-world-2014#.U4Q7-fl_uSo, Methodology: http://www.freedomhouse.org/report/freedom-world-2014/methodology#. U4Q6TPl_uSr, Indicatori, anche per gli anni precedenti: Freedom in the World: Aggregate and Subcategory Scores: http://www.freedomhouse.org/report/freedom-world-aggregate-and-subcategory-scores#.U4Q6SPl_uSr

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Figura 2 – Rapporto fra democrazia e pressione fiscale 40

Getto fiscale % PIL 2012

35 30 25 20 15 10 5 0

0

1

2

3

4

5

6

7

8

Ranking in Freedom House, Political Rights. 1,2: Free; 3-5: Partly Free; 6-7: Not Free

Fonte: International Monetary Fund, Government Finance Statistics Yearbook and data files, and World Bank and oecd gdp estimates. Catalog Sources World Development Indicators, anno di riferimento: 2012, Freedom House, Freedom of the world, 2012. Paesi disponibili.

La spesa pubblica indica tutti i pagamenti del governo centrale per offrire beni e servizi, include compensazioni ai dipendenti pubblici, interessi per il debito, sussidi, prestiti e ammortizzatori sociali e tutte le altre spese. Per pressione fiscale si intende l’aggregato dei trasferimenti coattivi dai cittadini al governo centrale per scopi pubblici – esclude quindi multe, sanzioni e contribuzioni pensionistiche individualizzate: insieme, questi due indicatori forniscono un buon referente empirico per definire il perimetro delle decisioni collettive e collettivizzanti, e ci indica come i paesi perfettamente democratici hanno una spesa pubblica, a cui corrisponde un livello di tassazione media più alta che nei paesi con un basso score democratico. Si deve notare però un livello di varianza estremamente alto a ogni livello di democratizzazione: indice che, per quanto in generale, la democrazia favorisce politiche redistributive – come ipotizzato da Acemoglu e Robinson, perché esse sono desiderate dalla maggioranza degli eletto-

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ri – la trasformazione non è perfetta e determinata. Con simili livelli di democratizzazione, si possono ottenere politiche drasticamente differenti, ma in definitiva possiamo concludere, osservando la trendline complessiva, che la democrazia non fa un buon lavoro nel proteggere i confini del mercato. Ancora però questi indicatori possono essere interpretati alla luce della public interest theory, secondo cui i paesi più democratici decidono di spendere e di tassare di più, nonostante questo ne danneggi la performance economica, perché si tratta di una scelta consapevole – vedremo poi nel prossimo paragrafo come non sia questo il caso. Ma prima integriamo questa analisi con un indicatore in grado di quantificare un tipo di policy che è chiaramente di tipo socialmente inefficiente, in grado di creare perdita secca: la regolamentazione dell’ingresso nel mercato, ovvero quell’insieme di regole, procedure, costi che rallentano l’inizio di una nuova attività. Sebbene la public interest theory della regolamentazione giustifichi queste limitazioni come tentativi di ridurre i fallimenti del mercato, aumentando quindi la sicurezza dei consumatori di trovare, nel mercato, solo prodotti di qualità (Pigou, 1938), un celebre ed estensivo studio di Djankov et al. (2002) analizza le barriere per le start-up di 85 paesi, dimostrando come la loro entità non sia in alcun modo correlata a risultati migliori per numerosissimi indicatori di qualità e sicurezza di prodotti e servizi, sia pubblici che privati. Secondo gli autori, il fenomeno può essere spiegato con la teoria della public choice. Secondo la regolamentazione nasce come risposta politica alla domanda delle grandi imprese che vogliono limitare la concorrenza: «regulation is acquired by the industry and is designed and operated primarily for its benfit» (Stigler, 1971, p. 3). O ancora, in un’altra faccia della medaglia, la cosiddetta teoria del pedaggio, secondo cui la regolamentazione beneficia politici e burocrati che possono creare ed estrarre rendite attraverso contribuzioni politiche, voti e corruzione «An important reason why many of these permits and regulations exist is probably to give officials the power to deny them and to collect bribes in return for

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rosamaria bitetti

providing the permits» (Shleifer et al., 1998, p. 601): queste ultime due teorie sono due facce della stessa medaglia, ovvero il processo politico di creazione di rendite che favorisce il capitalismo clientelare. Gli autori concludono il loro studio empirico affermando che «Countries with heavier regulation of entry have higher corruption and larger unofficial economies, but not better quality of public or private goods. Countries with more democratic and limited governments have lighter regulation of entry. The evidence is inconsistent with public interest theories of regulation, but supports the public choice view that entry regulation benefits politicians and bureaucrats» (Djankov et al., 2002, p. 3). Purtroppo però gli autori non spacchettano il concetto di democrazia e governo limitato, ma la loro ricerca avrà un impatto fortissimo: da essa scaturirà il progetto Doing Business della World Bank, che ogni anno raccoglie ed elabora informazioni sul costo per le imprese della regolamentazione del mercato per 185 nazioni, motivando diversi paesi a implementare importanti riforme per facilitare l’iniziativa d’impresa in numerosi paesi. Applicando ai dati di Doing Business la metodologia elaborata in questo lavoro, che spacchetta la democrazia nella sua componente liberale, contingente, e in quella di sovranità popolare – misurata attraverso la componente «political rights» dell’indice Freedom of the world di Freedom House –, otteniamo risultati interessanti.

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Tabella 2 – Rapporto fra democrazia e regolamentazione all’ingresso Top reformers in Doing Business Democratici

Parzialmente democratici

Non democratici

19

30

23

Anno DB

Paese

FH* Anno DB

Paese

2006/7

Bulgaria

1

2006/7 Colombia

3

2006/7

2006/7

Ghana

1

2006/7

Georgia

3

2007/8 Azerbaijan

6

2009/10

Cape Verde

1

2006/7

Kenya

3

2007/8

Egypt

6

2009/10 Grenada

1

2006/7 Macedonia 3

2008/9

Egypt

6

2009/10 Hungary

1

2007/8

3

2008/9

Rwanda

6

2010/11 Cape Verde

1

2007/8 Colombia

3

2008/9 Tajikistan

6

2010/11 Korea, rep

1

2008/9 Colombia

3

2008/9

6

2011/12 Costa Rica

1

2008/9

3 2009/10

2011/12

Greece

1

2008/9 Macedonia 3 2009/10 kazakhstan 6

2011/12

Poland

1

2008/9 Moldova

2006/7

Croatia

Albania

Liberia

FH* Anno DB

Paese

FH*

Egypt

6

United Arab Emirates

Brunei 6 Darussalam

3 2009/10 Rwanda

6

2 2009/10 Zambia

3 2009/10 Tajikistan

6

2007/8 Botswana

2 2010/11 Colombia

3 2010/11 Armenia

6

2007/8 Dominican Republic

2 2010/11 Macedonia 3 2011/12 Kazakhstan 6

2007/8

Senegal

2 2010/11 Moldova

3 2012/13 Djbouti

6

2009/10

Peru

2 2010/11

3 2012/13 Russian federation

6

2010/11

Latvia

2 2011/12 Ukraine

3 2012/13 Rwanda

6

2010/11 Sao Tomè and Principe

Sierra leone

2 2012/13 Macedonia 3

2006/7

China

7

ripetere la riga di etichette rosamaria bitetti evidenziata nella pagina precedente

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Top reformers in Doing Business Democratici

Parzialmente democratici

Non democratici

2011/12 Mongolia

2 2012/13 Philippines 3

2006/7

Saudi Arabia

7

2011/12

2 2012/13 Ukraine

3

2007/8

Belarus

7

2010/11 Burundi

4

2008/9

Belarus

7

2010/11 Solomon Islands

4 2009/10 Vietnam

7

2011/12 Burundi

4 2011/12 Uzbekiztan 7

2011/12 Sri Lanka

4 2012/13

2012/13 Guatemala

4

2007/8

Burkina Faso

5

2007/8

Kyrgyz Republic

5

2008/9

Kyrgyz Republic

5

2010/11 Marocco

5

2012/13 Burundi

5

2012/13 Kosovo

5

Serbia

Cote d’Ivoire

7

* Il ranking di Freedom House si riferisce solo ai diritti politici, ovvero ai sottoindicatori concernenti: Processo elettorale, Pluralismo politico e partecipazione, Funzionamento del Governo. L’anno di riferimento è quello precedente al periodo delle riforme che hanno portato al miglioramento di Doing Business (es. db: 2007/8, fh: 2006). Se un Paese è stato più volte Top Reforme di Doing Business, verrà inserito più volte nella tabella.

Fonte: World Bank, Doing Business 2008, 2009, 2010, 2011, 2012, 2013, 2014, Freedom House, Freedom of the world, 2006, 2007, 2008, 2009, 2010, 2011.

La tabella ci mostra i dieci paesi che, negli anni rispettivamente indicati, hanno portato avanti le migliori riforme per facilitare l’ingresso nel mercato di nuove imprese, ridefinendo così i limiti fra politica e mercato. Incrociando questi dati con gli indicatori di Freedom House, si può notare come solo una parte dei paesi in grado di garantire maggiori spazi al mercato rispetto agli anni precedenti ha potuto farlo per

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mezzo di decisioni democratiche: in molti paesi, il mercato è garantito da «dittatori benevolenti» più che dalla scelta dei cittadini che possono partecipare appieno al processo elettorale (la scelta di osservare le riforme, come momento di scelta di policy, piuttosto che il dato aggregato sul livello di regolamentazione è dovuta al fatto di voler evitare che l’impianto collettivo delle istituzioni nel Paese avesse più influenza sul risultato generale). Ovviamente la facilità d’ingresso nel mercato non esaurisce tutto il rapporto fra Stato e mercato, che è delineato da altre variabili importantissime: la proprietà pubblica di imprese monopoliste, il controllo diretto sulle imprese e sulle loro operazioni una volta avviate, la command and control regulation, il controllo dei prezzi. Purtroppo l’unico indice di valutazione che copre questi dati, i Product Market Indicators dell’oecd, copre solo paesi con elevatissima omogeneità istituzionale e politica. Ciononostante, l’ultima edizione (2013) ci fornisce un dato preliminare che può prestarsi a un’interpretazione interessante (Koske, Bitetti et al., 2014). Tabella 3 – Product Market Regulation Indicators, 2008-2013

accentrare

Product market regulation indicators

 

 

 

 

2008

2013 Variation 

2008 2013 Variation

Australia

1,43

1,26

-0,17 Israel

2,24 2,16

-0,08

Austria

1,35

1,17

-0,18 Italy

1,49 1,26

-0,22

Belgium

1,55

1,39

-0,16 Japan

1,54 1,51

-0,02

Canada

1,48

1,37

-0,11 Korea

1,88 1,88

0,00

Chile

1,71

1,48

-0,23 Netherlands

0,96 0,91

-0,06

Czech Republic

1,50

1,39

-0,10 New Zealand

1,22 1,27

0,04

Denmark

1,31

1,22

-0,08 Norway

1,50 1,49

-0,01

Estonia

1,38

1,33

-0,05 Portugal

1,70 1,30

-0,40

Finland

1,34

1,29

-0,05 Slovak Republic 1,57 1,31

-0,26

 

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rosamaria bitetti Product market regulation indicators  

2008

 

2013 Variation 

 

 

 

2008 2013 Variation

France

1,49

1,43

-0,06

Slovenia

1,99 1,80 -0,19

Germany

1,33

1,21

-0,12

Spain

1,58 1,45 -0,12

Greece

2,19

1,68

-0,51

Sweden

1,64 1,55 -0,09

Hungary

1,40

1,31

-0,10

Switzerland

1,55 1,50 -0,05

Iceland

1,45

1,46

0,02

United Kingdom1,21 1,09 -0,13

Ireland

1,38

1,44

0,06

South Africa

2,52 2,05 -0,47

Fonte: Koske, Bitetti et al., «The 2013 update of the oecd product market regulation indicators: policy insights for oecd and non-oecd countries».

Dei 30 paesi per cui sono al momento disponibili i dati 2008 e 2013, quello che ha avuto un sostanziale miglioramento è la Grecia, - 0,51 su una scala che va da 1 (best performance) a 6. Un dato interessante perché il periodo coperto dall’indicatore, in cui la Grecia ha portato avanti sistematiche riforme pro-mercato, è quello in cui il Paese si è trovato in una gravissima crisi economica e politica che ha imposto una sorta di commissariamento, in cui la cosiddetta troika di rappresentanti della Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale imposto delle riforme strutturali e politiche di austerità in cambio di aiuti economici. In altre parole, gli euro-burocrati e le organizzazioni internazionali hanno avuto la funzione del dittatore illuminato che spezza il ciclo insostenibile di rent-seeking e politiche redistribuzione che i cittadini greci avevano democraticamente scelto. Nessun politico che debba poi rispondere alla domande elettorali potrebbe fare riforme dolorose ma necessarie per ridimensionare il perimetro del rapporto Stato-mercato, un’osservazione in linea con diversi studi sulla difficoltà delle riforme economiche nei paesi in transizione democratica (Haggard and Kaufmann, 1995; Roland, 2000). Alla luce di questi dati, è ancora più opportuno chiedersi: perché la democrazia decide politiche inefficienti?

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La legge ferrea della democrazia e il problema della conoscenza Tutta l’analisi dell’economia delle scelte pubbliche in regimi democratici si può riassumere in quella che definirò, parafrasando Robert Michels, la legge ferrea della democrazia è quella dei benefici concentrati e dei costi diffusi. Ritornando alla particella elementare della relazione politica, le decisioni collettive e collettivizzanti, non possiamo non considerarle come un meccanismo di esternalizzazione dei costi: una porzione del gruppo, ottenendo una maggioranza, può imporre una decisione, e quindi un costo sul resto del gruppo. Estendendo il ragionamento a un sistema complesso quale quello delle democrazie rappresentative moderne, possiamo affermare che qualsiasi provvedimento che abbia benefici visibili per un gruppo ristretto con interessi specifici verrà approvato fintanto che potrà scaricare costi disperdendoli sulla società. Questo avviene perché i membri del gruppo che ricevono un forte beneficio hanno tutti gli incentivi a organizzarsi nel gioco politico e a fare pressione per ottenerlo, mentre passa quasi inosservato dal resto della popolazione su cui ricadono i singoli costi (Olson, 1971). Il problema è la legge ferrea della democrazia che spiega come ogni singolo gruppo di interesse riesce a prevalere sull’interesse della collettività, e i costi dispersi si aggiungono a ogni provvedimento diventando insostenibili. Perché più democrazia implica più spesa pubblica e più tasse, anche se sappiamo che c’è una relazione inversa fra tassazione e crescita economica? Perché i paesi riducono la libertà d’impresa anche se non dà alcun beneficio ai consumatori? Perché la Grecia spinge il suo debito pubblico e controllo statale dell’economia fino a rischiare il collasso? I paesi democratici scelgono politiche sbagliate per la collettività perché una politica che impone un euro di tassa in più, o il costo dell’energia o dei taxi lievemente più alto, e raccoglie tutte queste rendite per darle a uno o più soggetti, passa inosservata a chi ne sopporta il costo, ma è richiesta da chi ne beneficia, che voterà – o contribuirà alle spese elettorali – su

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quella single-issue. Il cittadino medio non sceglie il sindaco che decide di aumentare le licenze dei taxi di modo che io possa ottenere più in fretta un servizio che uso in maniera occasionale, mentre la costituency dei tassisti vota su questo specifico issue. Secondo Hayek, «innumerable interests [...] could show that particular measures would confer immediate and obvious benefits on some, the harm they caused [on others] was much more indirect and difficult to see»6. Così la grande redistribuzione che i liberali classici paventavano in merito alla democrazia non avviene fra ricchi e poveri, ma fra gruppi organizzati e gruppi non organizzati, quella che Bastiat definiva la grande illusione di vivere tutti alle spalle di tutti (Bastiat, 1848). Ma tutto ciò non avviene come dice Hayek nella «Road to Serfdom», cioè con la limitazione dei diritti politici che consegue la limitazione dei diritti economici: bensì lo spazio del mercato è ristretto proprio dal meccanismo democratico, ovvero dal pieno adempimento dei diritti politici. Ovviamente il meccanismo di esternalizzazione avviene anche in regimi non democratici: e teoricamente, poiché il gruppo che controlla il potere ha la capacità di esternalizzare sistematicamente i costi, dovrebbe poter aumentare di più la redistribuzione (verso sé stessi) e la regolamentazione che elimini la concorrenza. Ma in questo ritorna utile l’impostazione di Acemoglu e Robinson che pone l’accento sul ruolo del conflitto negli assetti istituzionali: un’elite estrae rendite dalla collettività solo fino a un certo punto senza generare la reazione del resto della società, che secondo la teoria di cui sopra arriva a spingere per la democratizzazione e quindi per politiche redistributive, che privilegia. Un passo avanti rispetto a questa impostazione però consiste nel ripensare il dogma secondo cui la democrazia riesce a convertire efficientemente le preferenze di policy della cittadinanza.

6. hayek, f.a., von, The road to serfdom, University of Chicago Press, Chicago 1944, pp. 17-18.

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L’assunto fondamentale della democrazia popolare è che questa sia una forma di trasformazione delle decisioni «del popolo e per il popolo», in grado cioè di aggregare e trasformare razionalmente preferenze di tutti i cittadini nella decisione collettiva più efficiente. Purtroppo questo è un assunto errato: fin dagli studi di Condorcet (1785) sappiamo che il meccanismo di scelta può essere influenzato dai cicli di voto a seconda di come vengono presentate le alternative, e il celebre teorema dell’impossibilità di Arrow (1961) spiega che non esiste nessun meccanismo di aggregazione in grado di trasformare le preferenze individuali in una funzione di utilità sociale che non sia manipolabile, o usato strategicamente sia da singoli votanti che da chi fissa l’agenda dei voti. Ma il meccanismo di aggregazione dei voti non è l’unico problema del processo democratico: il problema fondamentale è che la decisione collettiva e collettivizzante riduce la conflittualità nello Stato, permettendo ai gruppi organizzati di portare avanti strategie di redistribuzione – attraverso la legge ferrea dei costi diffusi e dei benefici concentrati – con l’avallo dei politici, affetti da Shortsightedness Effect, e con la connivenza dell’elettore che è poco informato sull’insieme delle politiche poste in essere dagli stessi governanti che egli vota. Ritornando alla nostra particella elementare del sistema politico come un’azione collettiva e collettivizzante, realizziamo come questa permette di esternalizzare i costi delle proprie azioni, perché esse non ricadranno direttamente su di noi (Leoni, 2004). L’esternalizzazione dei costi riduce la razionalità che è alla base delle relazioni di mercato: noi possiamo dedurre la razionalità di una scelta perché le conseguenze ricadono sull’individuo e quindi questo ha la necessità di vagliare la maggior parte delle conseguenze che ricadranno su di esso. La scelta in contesti di mercato è ex ante positiva, anche se non lo è necessariamente ex post. Sappiamo benissimo che non è epistemologicamente possibile conoscere tutte le conseguenze di un’azione, ma sappiamo anche che la possibilità di esternalizzare su terzi le conseguenze di una scelta è

di taxi no: considerando che utilizzerà il servizio un numero limitato di volte all'anno, non deciderà 96 chi votare sulla base di questo tema.

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il metodo migliore per ridurre gli incentivi a valutare alla luce di tutte le conseguenze prevedibili l’efficienza di una scelta. acquisire A questo fenomeno si riferiva Downs (1957) quando parlava di ignoranza razionale: quando il costo di assumere l’informazione necessaria per una scelta informata è superiore all’impatto che ha la propria scelta sulla decisione collettiva, non ha senso per il singolo elettore informarsi. Riprendendo l’esempio di prima, il tassista si informa e vota su quale sindaco danneggerà la sua attività economica aumentando le licenze, mentre il consumatore del servizio no, visto che non deciderà sulla base di questo progetto. Considerando la quantità e la complessità delle decine di scelte politiche realizzate giornalmente da un governo, sarebbe impossibile per il cittadino medio essere informato su tutti i temi. E anche qualora lo fosse, dovrebbe comunque acquistare le piattaforme politiche sotto forma di panieri complessi, in cui possono unirsi insieme politiche che apprezza e politiche che lo danneggia, e che non è tenuto a rispettare nel loro operato. È così virtualmente impossibile controllare l’operato dei partiti, ma il livello di ignoranza dell’elettorato va anche oltre la complessità del sistema, e arriva a livelli di ignoranza che possono sconvolgere chi non è familiare con la letteratura in merito all’ignoranza dell’elettorato: come ha scritto John Ferejohn «Nothing strikes the student of public opinion and democracy more forcefully than the paucity of information most people possess about politics» (Ferejohn, 1990, p. 3). Un recente libro di Ilya Somin (2013) raccoglie alcuni esempi sull’entità di questo fenomeno: nonostante l’Obamacare sia probabilmente il provvedimento politico americano più famoso dell’ultimo decennio, solo il 40 per cento degli americani è consapevole che, al 2014, ancora non è stato implementato, e circa l’80 per cento ha dichiarato di sapere nulla o poco in merito a come regolerà le assicurazioni sanitarie. Quasi la metà ritiene che la voce più alta della spesa siano gli aiuti internazionali, sottostimando sensibilmente la spesa per sicurezza sociale. Solo il 42 per cento è in grado di nominare i tre rami del governo federale, esecutivo, legislativo

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e giudiziario. Gli elettori puniscono sistematicamente i politici in carica non solo per recessioni economiche, ma anche per eventi come il maltempo, mentre li premiano quando le squadre di sport locali ottengono buoni risultati – tutti eventi non correlati con l’operato politico. Ma ancora, l’ignoranza razionale non è neanche il motivo definitivo per cui gli elettori preferiscono delle politiche inefficienti: Bryan Caplan (2007) ha teorizzato che queste rispondano in realtà a delle preferenze degli elettori che sono sistematicamente distorte da una serie di pregiudizi, scorciatoie euristiche che non permettono di comprendere bene molti dei temi su cui sono chiamati a pronunciarsi. Caplan ne individua principalmente quattro: anti-market bias, la tendenza diffusa a sottostimare i benefici dello scambio economico, focalizzandosi sui motivi per cui le imprese agiscono, ovvero il profitto, e non sul meccanismo competitivo che tende a disciplinarle, il processo di mercato: questo pregiudizio fa sì che l’elettore chieda sempre più regolamentazione; anti-foreign bias, la tendenza a sottostimare i benefici dell’interazione con gli stranieri, secondo il principio del vantaggio comparato: questo pregiudizio fa sì che vengano proposte e selezionate politiche protezioniste e che limitino l’immigrazione; make-work bias, la tendenza a sottostimare i benefici economici del ridurre la quantità di lavoro richiesto: questo pregiudizio impedisce il dispiegarsi della distruzione creatrice quando questa mette a repentaglio posti di lavoro. Invece di apprezzare il fatto che lavoro umano sia stato liberato per nuovi usi produttivi, gli elettori hanno la percezione che questo sia un problema insuperabile e quindi spingono per politiche che impediscono il fallimento di imprese inefficienti; infine, la pessimistic bias, ovvero la tendenza a sovrastimare i problemi economici presenti, passati e futuri: il pubblico percepisce le condizioni economiche come in declino nonostante tutti i principali indicatori di lungo periodo ci dicano che non è così, e invocano politiche pubbliche che servano a mitigare questi problemi.

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Il problema dell’irrazionalità, rispetto all’ignoranza politica è che questa non si riduce né attraverso l’istruzione – Somin ha confrontato i risultati di diversi test sull’informazione politica nei decenni, dimostrando che non variano nel tempo e con livelli di istruzione in aumento – né con maggiore interesse verso il tema. Anzi, la maggior parte delle persone interessate alla politica – che quindi raccoglie informazioni in merito alle politiche per motivi edonistici – lo fa con lo stesso meccanismo con cui gli appassionati di sport seguono la loro squadra preferita, ragionando quindi come «fan politici». Sfortunatamente, questo li porta ad analizzare ogni nuova informazione in una maniera fortemente distorta, in una bolla composta da interlocutori e fonti di informazioni che condividono la loro visione del mondo: così, tendono a dare maggiore enfasi ai dati che supportano la loro visione preesistente, ignorando quelle che li confuterebbero (Somin, 2013, Acemoglu et al., 2014). In questo modo, contribuiscono ad aggravare il problema dell’incapacità della democrazia di scegliere politiche collettivamente efficienti, sconfiggendo la legge dei benefici concentrati e dei costi diffusi. Di regolazione in regolazione, i paesi democratici si trovano in un immenso dilemma del prigioniero, che rende impossibile per i decisori pubblici portare avanti delle riforme che potrebbero invece favorire la società in generale. Conclusioni Questo lavoro ha lo scopo di contribuire a proporre una visione critica della democrazia in relazione al mercato, ma questo non vuol dire perdere la prospettiva sul fatto che i limiti della democrazia siano comunque inferiori a quelli di regimi totalitari, che hanno portato al genocidio di milioni di cittadini. Questo però non deve spingerci a un’accettazione acritica dell’aforisma di Churchill, come la miglior forma di governo escluse tutte le altre. Con un approccio micropolitico, possiamo individuare nella scelta economica l’alterna-

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tiva alla scelta politica e collettivizzante, nonostante questa sia legittimata dall’essere presa collettivamente. Molti degli aspetti positivi delle democrazie contemporanee derivano dal loro nucleo originale, la democrazia liberale intesa come limitazione dei poteri. In qualche modo, l’emergere della democrazia come strumento di decisione collettiva ha creato l’illusione che il problema della limitazione del potere fosse superato: la maggior parte dei cittadini, e degli studiosi, è unanimemente d’accordo con il fatto che non importa quanto il potere sia limitato, se questo è gestito democraticamente, con l’assunto che la democrazia sia uno strumento perfetto di trasformazione delle preferenze individuali in decisioni collettivizzanti. Abbiamo cercato di ricostruire perché questo non sia necessariamente vero, e quindi rimane il problema, pressante, di come fare in modo che la democrazia non sia trascinata da gruppi di interesse, ignoranza e irrazionalità razionali a scegliere politiche inefficienti per la popolazione. Questo si può ottenere ridefinendo il perimetro delle scelte collettive a favore di maggiori scelte private, quello dell’economia pubblica a favore del mercato: ma questo sarà possibile solo quando si supererà l’illusione che il governo del popolo agisca necessariamente per il popolo. Riferimenti bibliografici acemoglu, d., robinson j.a. (2006), Economic origins of dictatorship and democracy, Cambridge University Press, Cambridge. acemoglu, d., robinson j.a. (2013), Perché le nazioni falliscono. Alle origini di potenza, prosperità, e povertà, il Saggiatore, Milano. acemoglu, d., johnson, t. robinson j.a., yared, p. (2014), From Education to Democracy, in de mucci r. (a cura di), Democrazia e mercato, un rapporto controverso, Rubbettino, Soveria Mannelli. arrow, k. (1963), Social choice and individual values, John Wiley & Sons, New York, 2nd ed. bassani, l.m. (2003), Il repubblicanesimo una nuova tradizione tra storiografia e ideologia, in «Il politico», 68, n. 3, pp. 435-466.

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Democrazia e mercato «spacchettati»

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102

rosamaria bitetti

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D. Acemoglu, S. Johnson, J.A. Robinson, P. Yared

From Education to Democracy?

The conventional wisdom, since at least the writings of John Dewey (1916), views high levels of educational attainment as a prerequisite for democracy. Education is argued to promote democracy both because it enables a “culture of democracy” to develop and because it leads to greater prosperity, which is also thought to cause political development. The most celebrated version of this argument is the modernization theory, popularized by Seymour Martin Lipset (1959), which emphasizes the role of education as well as economic growth in promoting political development in general and democracy in particular. For example, Lipset (1959, p. 79) argues that Education presumably broadens men’s outlooks, enables them to understand the need for norms of tolerance, restrains them from adhering to extremist and monistic doctrines, and increases their capacity to make rational electoral choices

and he concludes (p. 80) that If we cannot say that a “high” level of education is a sufficient condition for democracy, the available evidence does suggest that it comes close to being a necessary condition.

Recent empirical work, for example, by Robert Barro (1999) and Adam Przeworski et al. (2000), provides evidence consistent with this view. Edward Glaeser et al. (2004) go further and argue that differences in schooling are a major causal factor explaining not only differences in democracy, but more

104

d. acemoglu, s. johnson, j.a. robinson, p. yared

generally in political institutions, and they provide evidence consistent with this view. Existing literature looks at the cross-sectional correlation between education and democracy rather than at the within variation. Hence existing inferences may be potentially driven by omitted factors influencing both education and democracy in the long run. A causal link between education and democracy suggests that we should also see a relationship between changes in education and changes in democracy. In other words, we should ask whether a given country (with its other characteristics held constant) is more likely to become more democratic as its population becomes more educated. We show that the answer to this question is no. Figure 1 illustrates this by plotting the change in the Freedom House democracy score between 1970 and 1995 versus the change in average years of schooling during the same time period (see below for data details). Countries that become more educated show no greater tendency to become more democratic. We further investigate these issues econometrically. We show that the cross-sectional relationship between schooling and democracy disappears when country fixed effects are included in the regression. Although fixed-effects regressions are not a panacea against all biases arising in pooled ordinary least-squares (ols) regressions, they are very useful in removing the potential long-run determinants of both education and democracy. We also document that the lack of a relationship between education and democracy is highly robust to different econometric techniques, to estimation in various different samples, and to the inclusion of different sets of covariates. The recent paper by Glaeser et al. (2004) also exploits the time-series variation in democracy and education and presents evidence that changes in schooling predict changes in democracy and other political institutions. However, we document below that this result stems from their omission of time effects in the regressions, so it reflects the over-time increase in education and democracy at the world level over

From education to democracy?

105

the past 35 years. Once we include year dummies in their regressions, the impact of education on democracy disappears entirely. Motivated by the Glaeser et al. (2004) paper, we also show that there is no effect of education on other measures of political institutions. Figure 1 – Democracy growth and education growth, 1970-1995

Change in Freedom House Political Rights Index

inserire nota editore: "The labels 1.0 of the countries analyzed in the -1.5 graph are often overlapping, 1.0 showing that in one point of intersection -0.5 between x axis and y axis more cases -1.0 are2 concentrated. 0 4 6 While this makes it Change in Average Years of Schooling (Barro-Lee) hard to understand individual This paper is part of our the broader research. The companion countries paper (Acemoglu et al., 2004) investigates the other basic it shows tenet of the modernizationconcerned, hypothesis, that income (and ecoclearly a In that paper, using both nomic growth) causes democracy. fixed-effects ols and instrumental-variable concentration of regressions, we show that there is little evidence in favor of a causal effect recurrences in the from income to democracy either. We also offer a theory for same area (Editor's the differences in long-run factors causing the joint evolunote) " tion of education, income, and democracy, and we provide supporting evidence for this theory. 1. Education and Democracy We follow the existing literature in economics and measure democracy using the Freedom House Political Rights

106

d. acemoglu, s. johnson, j.a. robinson, p. yared

Index. This index ranges from 1 to 7, with 7 representing the least amount of political freedom and 1 the most freedom. Following Barro (1999), we supplement this index with the related variable from Kenneth Bollen (1990) for 1955, 1960, and 1965, and we transform both indexes so that they lie between 0 and 1, with 1 corresponding to the most-democratic set of institutions. Our basic data set is a five-yearly panel, where we take the democracy score for each country every fifth year. We prefer using the observations every fifth year to averaging the five-yearly data, since averaging introduces additional serial correlation (the results are robust to using five-year averages). Our main right-hand-side variable, average years of schooling in the total population of age 25 and above, is from Barro and Jong-Wha Lee (2000) and is available in five-year intervals between 1960 and 2000. The value of this variable in our base sample ranges from 0.04 to 12.18 years of schooling, with a mean of 4.44. Table 1 provides our main results using the Freedom House data. Column (i) shows the pooled OLS relationship between education and democracy by estimating the following model: (1) dit = αdi,t-1 + γsi,t-1 + μt + θit

where dit, is the democracy score of country i in period t. The lagged value of this variable is included on the right-hand side to capture persistence in democracy and also potentially mean-reverting dynamics in democracy (i.e., the tendency of the democracy score to return to some equilibrium value for the country). The main variable of interest is s i,t-1, the lagged value of average years of schooling. The parameter γ therefore measures whether education has an effect on democracy. The parameter µt denotes a full set of time effects, which capture common shocks to (common trends in) the democracy score of all countries, and υit, is an error term, capturing all other omitted factors.

From education to democracy?

107

Column (i) shows a statistically significant correlation between education and democracy. The estimate of y is 0.027 with a standard error of 0.004, which is significant at the 1-percent level (all the standard errors are robust for arbitrary heteroscedasticity and clustering at the country level). If causal, this estimate would imply that an additional year of schooling in-creases the “steady-state” value of democracy by 0.093 (0.027/[1 – 0.709], where the long-run effect is calculated as γ /[1 – α]). This is a reasonably large magnitude relative to the mean of democracy in the sample, which is 0.57. Notice that this estimate includes both the direct and the indirect effect of education on democracy working through income (since greater education corresponds to greater income, which might also lead to more democracy). Equation (1) is similar to the regressions in the existing literature in that it does not control for country fixed effects. Thus the entire long-run differences across countries are used to estimate the effect of education on democracy. As a result, omitted factors that influence both democracy and education in the long run will lead to spurious positive estimates of γ. The alternative is to allow for the presence of such omitted factors (that are not time-varying) by including country fixed effects, that is, by estimating a model of the form (2) which only differs from (1) because of the full set of country dummies, theδi’s. (2) dit = αdi,t-1 + γsi,t-1 + μt + δi + uit

The rest of Table 1 reports estimates of γ from models similar to (2). Column (ii) is identical to column (i) except for the fixed country effects, the δi’s. The results are radically different, however. Now γ is estimated to be -0.005 with a standard error of 0.019; thus it is highly insignificant and has the opposite sign to that predicted by the modernization hypothesis [and to that found in the pooled OLS regression of column (i)].

[0.00]

765 108 0.78

765 108 0.71

Fixed-effects OLS (ii) 0,385 (0.053) -0.005 (0.019)

[0.00]

Pooled OLS (i) 0,709 (0.035) 0.027 (0.004)

[0.00] [0.31] [0.81] 667 104

Bond GMM (iii) 0,507 (0.096) -0.017 (0.022) [0.08] -0.124 (0.101)

746 104 0.78

[0.00]

[0.00] [0.21] [0.89] 652 101 684 97 0.76

[0.00]

[0.00] [0.44] [0.96] 595 93

676 95 0.77

[0.00]

[0.00] [0.15] [0.88] 589 92

-0.121

-0.001

-0.012

-0.187

Bond GMM (ix) 0,499 (0.097) -0.020 (0.026) [0.27] 0.049 (0.143)

Base sample, 1965-2000 (5 - year data) Fixed-effects Bond Fixed-effects Bond Fixed-effects OLS (iv) GMM (v) OLS (vi) GMM (vii) OLS (viii) 0,362 0,493 0,369 0,51 0,351 (0.053) (0.101) (0.054) (0.094) (0.055) 0.005 -0.013 -0.012 -0.013 -0.007 (0.020) (0.024) (0.019) (0.026) (0.020) [0.31] [0.19] -0.023 -0.042 (0.115) (0.108)

treat log GDP per capitat-1 as predetermined and instrument its first difference with log GDP per Capitat-2. Year dummies are included in all regressions, and the time effects F test gives the p value for their joint significance. The dependent variable is the augmented Freedom House Political Rights Index. The base sample is an unbalanced panel, 1965-2000, with data at five-year intervals in levels where the start date of the panel refers to the dependent variable (i.e., t = 1965, so t - 1 = 1960). Colurnns (iv), (v), (viii), and (ix) include but do not display the median age of the population at t - 1 and four covariates corresponding to the percentage of the population at t- 1 in the following age groups: 0-15, 15-30, 30-45, and 45-60. The age structure F test gives the p value for the joint significance of these variables. Countries enter the panel if they are independent at t - l. See text for data definitions and sources.

Notes: Fixed-effects OLS regressions are reported in colurnns (ii), (iv), (vi), and (viii) with country dummies and robust standard errors clustered by country in parentheses. Columns (iii), (v), (vii), and (ix) use GMM of Manuel Arellano and Stephen R. Bond (1991), with robust standard errors; columns (vii) and (ix)

Time-effects F test: Hansen J test: AR(2) test: Number of observations: Nwnber of countties: R2:

Log GDP per Capitat - l

Age-structure F test: Log populationtt - l

Educationt - l

Independent variable Democracyt - l

Table 1 – Fixed Effects Results 108 d. acemoglu, s. johnson, j.a. robinson, p. yared

From education to democracy?

109

In the regression in column (ii) because the regressor di,t-1 is mechanically correlated with uis for s < t, the standard fixed-effect estimation is not consistent in panels with a short time dimension. To deal with this problem, in column (iii) we use the generalized method-of-moments estimator (gmm) developed by Manuel Arellano and Stephen R. Bond (1991). The estimate for γ is now more negative, -0.017 (se = 0.022). The ar(2) test and the Hansen J test, reported at the bottom of this column, indicate that the over-identifying restrictions implied by this gmm procedure are not rejected. The remaining columns of Table 1 investigates the relationship between education and democracy when other covariates are included. Columns (iv) and (v) control for the age structure and population by including the fractions of the population in five different age ranges, the median age of the population, and the logarithm of total population (see the working-paper version [Acemoglu et al., 2004] for details and sources). These variables are correlated with education attainment of the population and might have a direct effect, making it impossible for us to identify the influence of education on democracy. We find that the age-structure variables are jointly significant at the 10-percent level using fixed effects ols, but not gmm, while log population is not significant. The effect of education on democracy continues to be highly insignificant in both cases. Columns (vi) and (vii) add gdp per capita. Education is still insignificant (and has a negative coefficient), and interestingly, gdp per capita itself is insignificant with a negative coefficient. The causal effect of income on democracy, which is the other basic tenet of the modernization hypothesis, is therefore also not robust to controlling for country fixed effects. We investigate this issue in greater detail in Acemoglu et al. (2004). Finally, columns (viii) and (ix) control for log population, age-structure variables, and gdp per capita simultaneously, again with similar results. The working-paper version (Acemoglu et al., 2004) also shows that the same results apply when we exclude sub-Sa-

110

d. acemoglu, s. johnson, j.a. robinson, p. yared

haran Africa, formerly socialist countries, and Muslim countries, and when we use five-year-averaged data or different measures of democracy. Overall, these results show that there is no empirical relationship between education and democracy once country fixed effects are included, and therefore they cast considerable doubt on the causal effect of education on democracy. 2. From Education to Institutions? The recent paper by Glaeser et al. (2004) argues that there is a causal effect of education on institutions. They substantiate this by reporting regressions similar to our model in (2), but with very different results, in particular showing a positive effect of education on democracy. Why are their results different from ours? In Table 2A, we replicate their results, which use the constraint on executive from Polity, the autocracy score from Polity, the democracy score from Polity, and the autocracy score from Przeworski et al. (2000). (The only difference from their results is that we transform the variables so that all coefficients have the same sign. Note also that in this table, the indexes are no longer normalized between 0 and 1.) These columns exactly match their regressions, but are different from our corresponding regressions, because they do not include time effects, the /It’s in equations (1) and (2). In the absence of time effects, the parameter y is identified from the over-time variation: in this context, the world-level increase in education and democracy. This clearly does not correspond to any causal effect. Panels B and C of Table 2 report estimates with and without income per capita, but including time effects as in our basic specifications. In all cases, the effect of education is insignificant and has the incorrect sign, as in our basic results. Moreover, in all columns except one, the time effects are jointly significant at the 1-percent level or less, and in

From education to democracy?

111

TABLE2 - FIXED-EFFECTRSE SULTSE:D UCATION, DEMOCRACAYN, DP OLITICAINLS TITUTIOGNSL:A ESEERT AL. (2004) SAMPLE 1965-2000 (FIVE-YEAR DATA) Independent variable A. No Time Effects Institutionst – 1 Educationt - 1 Log GDP per capitat – 1 R2: B. Including Time Effects Institutionst – 1 Educationt – 1 Log GDP per capita t – 1 (0.360) Time-effects F test: R2: C. Including Time Effects Institutionst – 1 (0.073) Educationt – 1 (0.182) Time-effects F test R2: Number of observations:

Executive (i)

Autocracy (ii)

Democracy (iii)

Autocracy (iv)

-0.572 (0.072) 0.498 (0.119)

-0.547 (0.068) 0.909 (0.179)

-0.515 (0.065) 0.700 (0.180)

-0.864 (0.103) 0.096 (0.071)

0.038

-0.508

0.292

0.267

(0.403)

(0.630)

(0.606)

(0.202)

0.33

0.32

0.30

0.47

-0.618 (0.073) -0.163 (0.192) 0.168 (0.550) [0.01] 0.39

-0.616 (0.071) -0.318 (0.267) -0.317 (0.561) [0.00] 0.40

-0.580 (0.067) -0.432 (0.298) 0.477 (0.192) [0.00] 0.37

-0.897 (0.106) -0.137 (0.126) 0.292

-0.617 (0.071) -0.125 (0.229) [0.01] 0.39 499

-0.615 (0.068) -0.389 (0.289) [0.00] 0.40 499

-0.579 (0.107) -0.324 (0.125) [0.00] 0.37 499

-0.891

[0.08] 0.50

-0.088 [0.07] 0.49 349

Notes: The table reports fixed effects OLS regressions in all columns, with country dummies and robust standard errors clustered by country in parentheses. Year dummies are included in panels B and C, and the time-effects F test gives the p value for their joint significance. The dependent variable in column (i) is change in Constraint on the Executive from Polity. The dependent variable in column (ii) is change in negative Autocracy Index from Polity. The dependent variable in column (iii) is change in Democracy Index from Polity. The dependent variable in column (iv) is change in negative Autocracy Index from Przeworski et al. (2000). The base sample in all columns is an unbalanced panel, 1965-2000, with data at five-year intervals, where the start date of the panel refers to the dependent variable (i.e., t = 1965, so t - 1 = 1960). See Glaeser et al. (2004) for data definitions and sources.

112

d. acemoglu, s. johnson, j.a. robinson, p. yared

that one case they are significant at the 10-percent level [and interestingly, in that case, as column (iv) shows, education is insignificant even without time effects]. The evidence in Table 2 therefore shows that there seems to be no effect of education on democracy or on other political institutions. 3. Concluding Remarks A common view clearly articulated by the modernization theory claims that high levels of schooling are both a prerequisite for democracy and a major cause of democratization. The evidence in favor of this view is largely based on cross-sectional or pooled cross-sectional regressions. This paper documents that this evidence is not robust to including fixed effects and exploiting the within-country variation. This strongly suggests that the cross-sectional relationship between education and democracy is driven by omitted factors influencing both education and democracy rather than a causal relationship. This evidence poses two important questions: (i) Is there no long-run causal relationship between education and democracy? It is important to emphasize that our paper does not answer this question. We have exploited the five-yearly variation in the postwar era. It is possible that changes in education have very long-run effects, say, over 50 or 100 years, that do not manifest themselves in the shorter time frame that we have examined. (ii) What are the omitted factors influencing both education and democracy, captured by the country fixed effects? We conjecture that these are related to the joint evolution of economic and political development (“the historical development paths”). In our companion paper (Acemoglu et al., 2004) we provide evidence consistent with this conjecture. We document that the fixed effects for the former European colonies are very highly correlated with the historical, potentially exogenous determinants of institutional develop-

From education to democracy?

113

ment in this sample: in particular, the mortality rates faced by the European settlers and the density of the indigenous populations (see Acemoglu et al., 2001, 2002) as well as early experiences with democracy. References acemoglu, d., johnson, s. and robinson, j.a. (2001), The Colonial Origins of Comparative Development: An Empirical Investigation, «American Economic Review», 91(4), pp. 1369-1401. acemoglu, d., johnson, s. and robinson, j.a. (2002), Reversal of Fortune: Geography and Institutions in the Making of the Modem World Income Distribution, in «Quarterly Journal of Economics», 118(4), pp. 1231-94. acemoglu, d., johnson, s., robinson, j.a. and yared, p. (2004), Income and Democracy, Working paper, Massachusetts Institute of Technology. arellano, m. and stephen r.b. (1991), Some Specification Tests for Panel Data: Monte Carlo Evidence and an Application to Employment Equations, in «Review of Economic Studies», 58(2), pp. 277-98. barro, r.j. (1999), The Determinants of Democracy, in «Journal of Political Economy», 107(S6), pp. S158-83. barro, r.j. and lee, j.-w. (2000), International Data on Educational Attainment: Updates and Implications, Center for International Development (Harvard University) Working Paper No. 42. bollen, kenneth a. (1990), Political Democracy: Conceptual and Measurement Traps, in «Studies in Comparative International Development», 25(1), pp. 7-24. dewey, j. (1916), Democracy and education,Macmillan, New York. glaeser, e.l., la porta, r., lopez-de-silances, f. and shleifer, a. (2004), Do Institutions Cause Growth?, in «Journal of Economic Growth», 9(3), pp. 271-303. lipset, s.m. (1959), Some Social Requisites of Democracy: Economic Development and Political Legitimacy, in «American Political Science Review», 53(1), pp. 69-105. przeworski, a., alvarez, m., cheibub, j.a. and limongi, f. (2000), Democracy and development: Political institutions and material well-being in the world, 1950-1990, Cambridge University Press, New York.

Diogo Costa and Adriano Gianturco Gulisano

Of the People, by the People, for the People’sDevelopment?

1. Introduction: Posing the question Although economic and political theories have evolved as different fields through the twentieth century, the theoretical and existential relationship between political and economic systems has converged so narrowly that liberal democracies became an arguable endpoint for human historical evolution (Fukuyama, 1992). Democracy and economic development may both fuse in an universal norm within an interpretation of history that sees the future exerting a progressive attraction over economic growth and democratic institutions. Under this modernization paradigm, the relationship between economic development and democracy is explained through historical analysis. Both are endogenous to human progress and thus what begs explanation is the historical process itself. But past decades have not behaved like a converging historical process. The most prominent cases of recent economic successes came from East Asian societies that seemed to diverge from the democratic paradigm. The unprecedented growth of the Chinese has become the dragon in the room of democratic universalism. Hong Kong and Singapore are both high ranked in economic indexes, but fail to do nearly as well in democratic indexes. South Korea and Taiwan, two nations that developed outside of western democratic models became the only two nations in modern economic history to keep an average of 5 percent growth rate for five consecutive decades. That seemingly exclusive relationship between democracy

116

diogo costa and adriano gianturco gulisano

and development is what economist Jagdish Bhagwati (2002) has called the “cruel dilemma”. What then is the nature of the relationship between democracy and economic development? The cruel dilemma and the modernist thesis not only run in opposite directions, but their divergence also suggests that an analysis of the relationship between democracy and development cannot rely on historical trends. If the relationship between democracy and economic development is not historically necessary, but changes according to political settings upon which democratic institutions work as a basic procedure for social choices, we must first find the theoretical elements that influence political chapter processes and economic outcomes in modern societies. This paper will examine how underlying differences in political settings can produce different economic outcomes even going through similar basic democratic processes. We present a brief outline of the concepts of democracy as a process for social choice and of development as an economic outcome and draw a brief summary of the status quaestionis. Then we try to answer the question of how divergences of the empirical literature on democracy and development could be understood while they are not able to control for the various and nuanced changes in political settings. 2. Mere Democracy: The minimalist starting point What do we talk about when we talk about democracy? Although there is a vast literature on the definition of democracy, those different uses are not as dissonant as to prevent discussions on the topic. The variation in definitions does not result in a variation of objects. Inkeless (1990) and al. found that the dichotomy between Przeworski et al (2000) democracy and dictatorship is almost identically predicted by independent rankings and classifications. There is such a thing as the idea of a Mere Democracy that runs through public and academic discussions: an overlapping democratic

Of the people, by the people, for the people’s

117

core usually associated with Schumpeter and Popper. This democratic core of Mere Democracy is constituted by free and fairly contested elections to fill government offices and to determine changes in political power. In this view, democracy is a process that respects certain rules, with the potential to bring whatever different output. The process does not guarantee a broad set of the liberal values and institutions that we usually associate with it. A government can democratically restrict liberties and oppress minorities. An illiberal pervasive democracy is a theoretical possibility and it has been the historical reality of “totalitarian democracies” (Infantino, 2013). But the fact that Mere Democracy does not include positively associated institutions is its strength, not its weakness, when analyzing its relationship to other institutional developments. Theoretically, Mere Democracy may or may not enlarge civil liberties, protect individual rights or produce results that are considered just by the public. Whether Mere Democracy promotes economic development is the question this chapter intends to analyze. 3. Economic development: prosperity as an outcome Most economists usually agree According to Paul Romer (2008), “Economic growth occurs whenever people take resources and rearrange them in ways that make them more valuable.” Economists usuallyagree on gdp as the general way of measuring economic growth (Mankiw, 2011). But there’s much less agreement on the correspondence between gdp and actual development. Amartya Sen famously equated economic development with basic capabilities (1999), so that economic development is not simply “more stuff ”.If then economic development is to be qualified outcome of economic growth, we can still logically say that growth is a necessary element of development. There is no development without growth. If growth does not equal development, it could be used as a proxy for development.

people

118

diogo costa and adriano gianturco gulisano

Different explanations for economic development include categorically distinct - and often mutually exclusive - causes. Geography, technology and luck have all counted as ultimate causes for economic outcomes (Rosenberg and Birdzell, 1986). Since those categories lie beyond the realm of political institutions, recognizing them as ultimate causes would mean to either ignore any effect a political system might have on economic performance of a society or to infer that a certain combination of non-political factors lead to another combination of political and economic outcomes. If we are to draw any analysis of the relationship between democracy and economic development, we should assume there is a possible causal relationship, even if not ultimate, between political institutions and economic outcomes. The question then is what economic institutions lead to economic development? In contemporary economic literature, economic institu- molded tions shape economic incentives as rules constraining and motivating human behavior (North, 1991). Opportunities and risks for savings, investments and production are created by those institutions. Economicincentive institutions that lead to development are those that motivate people to become productive, that protects their rights over what they have produced, that enforces contracts in a clear and predictable way, that open opportunities for investment, that have a sound control over the means of exchange. The relationship between good economic institutions and democracy is the subject of the next two sections. 4. The Empirical Connections between Democracy and Development A popular democratic scale, the eiu’s Democracy Index, tries to capture more than Mere Democracy. It measures variables within categories of Civil Liberties, Political Culture, and Functioning of Government. But when it draws the line between Dictatorships and countries with some level, how-

Of the people, by the people, for the people’s

119

ever flawed, of democracy, it includes a [dummy?] variable “whether national elections are free and fair”, and adjusts the final ranking for countries who do not score 1. This is the Mere Democracy variable. At a first glance, the Democracy Index seems to indicate a significant correlation between democracy and high levels of gdp per capita. The average per capita income of AuthorELIMINARE itarian Regimes is lower than Mere Democracies. But, the vast literature on this issue remains empirically inconclusive. In defense of an intrinsic link between democracy and development, Siegle, Weinstein and Halperin seem to have empirically shown that democracy lead to economic development (Siegle, Weinstein and Halperin, 2004). On the other hand, the american political scientists Seymour Lipset (1981) and Samuel Huntington (1993) think economic development ELIMINARE is a prior requirement for democracy to thrive. According to (METTEREPUNTO them, in order to have a stable democratic system, you need a DOPO CLASS) large, strong and vivid urban middle class(Lipset, 1981; Huntington, 1993). This middle class is the quintile of taxpayers who in fact finance the state. They are the interested and surveillant party who wills to control politicians and bureaucrats, demanding transparency, accountability, responsibility and punishing at the ballot incompetent, dishonest and\or ineffective politicians. For Lipset and Huntington, usually when government people become richer, they also become more demanding outputs. for more and more efficient state interventions. This because it is especially the middle class who perceives itself as more independent from the state, since poor people could have stronger urgencies and since big business uses the state to protect itself from market competition. It is the same civil society that constitute the Tocqueville´s active associationism that does without asking, in a subsidiary and bottom-up way. Developing a strong middle class is what Domingo Laíno, “Paraguay´s Mandela”, tried to apply in his Country without success, through a democratic and participative planning. However, when Brunetti tried to summarize the literature, he concluded that “considering the evidence of this survey,

120

diogo costa and adriano gianturco gulisano

it can be safely stated that there is no clear relationship between democracy, at least as measured in these studies, and economic growth” (Brunetti, 1997). Przeworski and Limongi (1993) listed some of the most important work in Figure 1. Table 1 – Studies of Democracy, Autocracy, Bureaucracy and Growth Author

Sample

Time frame

Finding

Przeworski (1966)

57 countries

1949-1963 dictatorships at medium development level grew fastest

Adelman and Morris (1967)

74 underdeveloped countries (including less and medium communist bloc)

1950-1964 authoritarianismh elped developed countries

Dick (1974)

59 underdeveloped countries

1959-1968 democracies develop slightly faster

Huntington and Dominguez (1975)

35 poor nations

the 1950s

Marsh (1979)

98 countries

1955-1970 authoritarian grew faster

Weede (1983)

124 countries

1960-1974 authoritarian grew faster

Kormendi and Meguire (1985)

47 countries

1950-1977 democracies grew faster

Kohli (1986)

10 underdeveloped countries

1960-1982 no difference in 1960s; authoritarian slightly better in 1970s

Landau (1986)

65 countries

1960-1980 authoritarian grew faster

Sloan and Tedin (1987)

20 Latin American countries

1960-1979 bureaucraticauthoritarian regimes do better than democracy; traditional dictatorships do worse

authoritarian grew faster

Of the people, by the people, for the people’s Author

Sample

Time frame

121 Finding

Marsh (1988)

47 countries

1965-1984 no difference between regimes

Pourgerami (1988)

92 countries

1965-1984 democracies grew faster

Scully (1988, 1992)

115 countries

1960-1980 democracies grew faster

Barro (1989)

72 countries

1960-1985 democracies grew faster

Grier and Tullock (1989)

59 countries

1961-1980 democracy better in Africa and Latin America; no regime differencein Asia

Remmer (1990)

11 Latin American countries

1982-1988 democracy faster, but result 1982 and 1988 statisticallyin significant

Pourgerami (1991)

106 less developed countries

Helliwell (1992)

90 countries

1986

democracies grow faster

1960-1985 democracy has a negative, but statistically insignificant, effect on growth

More recent studies still produce divergent conclusions. Munger and Grier (2006) compiled a list of relevant differing conclusions: –– Levine & Renelt (1992) famously show that democracy is not a robust determinant of growth in cross-sectional regressions. –– Barro (1996) shows in decade average panel regressions that democracy has a “weakly negative” effect on growth. –– Przeworski and Limongi (2000) study annual panels and argue that there is no real difference in growth between dictators and democrats. –– Tavares & Wacziarg (2001) use a structural model to examine many channels through which democracy might

122

diogo costa and adriano gianturco gulisano

influence growth, finding some negative effects and some positive but conclude that the “overall effect of democracy on economic growth is moderately negative”. –– Gerring, Bond, Barndt & Moreno (cbbm, 2005) argues for using a cumulative stock of democracy rather than a current level. They say about “level of democracy” regressions, “It matters not how one measures the level of democracy in a given year; it still has no effect on subseELIMINARE quent economic performance”. –– Munger & Grier (2006) find that new dictatorships grow very slowly, and very old dictatorships grow very slowly. But durable dictatorships in the middle years actually grow nearly as fast as democracies. A nonlinear specification fits almost exactly. The disparity throughout the empirical literature was better captured by Acemoglu et al. “Empirical evidence does not support any hypothesis of causality between democracy andthat relationship growth. Acemoglu, Johnson, between Robinson and Yeared (2008) showed thatthe relationbetween democracy and growth becomes non-significant once one controls country fixed invariantforfactors effects. This suggests the existence of country invariantfactors that affect the evolution of both growth and democracy over time” (de Barros Lisboa e Latif, 2013, p.11) Instead of focusing on income, Acemoglu et al. try to focus on the more dynamic factor change of income in time, in order to see if an increase in income leads to more democracy and vice-versa. They demonstrate that there is no causation (Acemoglu et al., 2008, pp. 811-812), as seen in Figures 2, 3, 4. They start from the contemporary evidence that all oecd countries are democratic and a lot of autocratic countries are among the poorest of the world. But once they introduce the time variable, they notice that “even though there is no relationship between changes in income and democracy in the postwar era or over the past 100 years or so, there is a positive association over the past 500 years” (p.812). Therefore the roots of both wealth and democracy are deeper and

Of the people, by the people, for the people’s

123

more complex. It seems that societies can embrace two different path: an open society, inclusive, democratic, productive, with relative free market and prosper or on the other hand a closed, autocratic, extractivist, central planned and poor way of living.

Change in Freedom House measure of democracy

figure 2 – change in democracy and income, 1970-1995 Acemoglu et al.: Income and Democracy

1 0.5 0

-0.5 -1

0

1

Change in log GDP per capita (Penn World Tables)

2

Changes in Polity measure of democracy

figure 3 – change in democracy and income, 1970-1995 1 0.5 0

-0.5 -1

-1

0

1

Change in log GDP per capita (Penn World Tables)

2

124

diogo costa and adriano gianturco gulisano

Change in Polity measure of democracy

figure 4 – change in log gdp income, 1900-2000 1

0.5

0

-0.5 0

0.5

1

1.5

2

Change in log GDP per capita (Maddison)

ELIMINARE

2.5

ELIMINARE

5. Inconclusions: Why Mere Democracy as a Procedure May or May Not Produce Economic Development as an Outcome ELIMINARE In their work, Acemoglu et al use two main state variables, “political institutions” and “distribution of resources”. Political institutions would determine the distribution of de jure power which, in turn, would determine the choice of economic institutions. The basic procedure for social choice will thus determine the economic institutions of a country based on the relationship between harmonious or conflicting interests over wealth creation and wealth distribution. We could not assume that social choices coming from participating parties will necessarily converge to development centered institutions, since they might as well use their political power to distribute economic gains to themselves. If political predation is perceived as more profitable than economic production, this preference will not necessarily be conducive to growth and development. On the contrary, it could lead to inefficiency and poverty. As Weingast (1997) and Acemoglu (2003) have argued, when distributional interests cannot be

al.

Of the people, by the people, for the people’s

125

offset by a commitment to efficiency, individuals and groups will not use their power to what would be predicted by rational theory as their best interest. ELIMINARE The allocation of political power in society will shape and be shaped by the basic procedure for social choice, as in a dynamical evolutionary tendency to equilibrium. If, for analytical purposes, we take interests as a given, we must treat the de facto power of interest groups as determining the de jure constraints on incentives within a form of government. Absolute monarchy, in this framework, would be explained by a natural convergence of interests to a single person as the established de jure sovereign. And democracies could be explained as equilibrating the different interests in a permanent tension of possible coalitions that enable democracy, with its divided powers, as the basic procedure for social choice. Economic institutions are endogenous to the interaction of interest groups with their political power through the constitutive means of the basic procedure for social choice. Since different economic institutions lead to different rewards and distributions, there is no guaranteed institutional setting derived from a democracy. Now, we can fairly point out institutions that lead to economic development: well-defined and transferable property rights; flexible and enforceable contracts; openness to trade, labor and capital; soundness of money and credit; low and fair taxes and regulations. Should we expect them to be the likely result of democratic elections? This framework would predict that they generally should, as long as there are strong encompassing interests in society (Olson, 1993). We can understand the relationship between democracy and institutional inclusivity starting with Olson’s question: Why should autocratic spoliation produce better results than anarchic spoliation? The answer begins with the distinction of a political setting mainly governed by roving bandits, such as a nomadic community that eventually pillages agricultural or pastoral communities, and a political setting governed by stationary bandits, as in an autocracy. Autocracy may produce better

de facto de iure de iure METTERE CORSIVI

grow,

126

diogo costa and adriano gianturco gulisano

results. The state of nature of “roving bandits” may end up in an uncoordinated political equilibrium that is not in the interest of exploiters or exploited. Lack of coordination and uncertainty of rules harms the incentive to produce and accumulate wealth. Producers as well as competing roving bandits would be better off under the monopoly rule of the “stationary bandit” (Olson, 1993). Generally, stationary bandits get their revenues from a variety of taxes imposed over the population. As long as political rents depend on taxes and taxes depend on production, the autocrat has an incentive to increase production through institutional arrangements and public goods provision. When incentives over economic rent and political rent are aligned to a large degree, we can say the autocrat has an “encompassing interest”. However, it also means it is in the autocrat’s interest to charge monopoly rent over the productive population. Monopolist tax rates should be higher than what is needed to provide any public goods. And increase of tax rate that has a negative impact over of national is nevertheless in the interest of the autocrat as long as it increases the total amount of taxed income. In a Mere Democracy, the autocrat is replaced by a democratic majority. We will assume in this transition from an autocracy to a democratic majority, rent motivation stays constant. If political offices are decided by a self-interested majority, we should expect there to be income transfers that benefit the democratic majority. Political rent should still be maximized, even if now the beneficiaries include a greater share of the whole society, including its productive members. Because of this inclusiveness, a democratic majority has a greater “encompassing interest” than an autocracy. Increases in tax rates that generate additional political income while subtracting a greater amount of national economic income cease to be in the interest of democratic majority. Because in a Mere Democracy, a significant share of the population might be at the same taxpayers and tax receivers, the optimal tax rate for a democratic majority is lower than the optimal tax rate for an autocrat.

Of the people, by the people, for the people’s

127

This essential description of democratic interests suggests democracies should lead to higher economic development than autocracies. Why, then, does empirical research paint us a different picture? In short, because it is not possible to derive a discrete positive or negative outcome from Mere Democracy. Different political settings will produce different results. Mansfield and Snyder (1995, 1997) famously proposed that democratization in low income countries could lead to a greater likelihood of violent civil conflict. Their claim produced diverging opinions among academics. While there were objections on methodological grounds (Gleditsch and Ward, 2000; Goldsmith, 2010; Narang and Nelson 2009), the theoretical basis of their argument coincides with the positive political framework (Hegre et al., 2001; Collier, 2008). Within certain political settings, Democratization may groups can increase the risk of civil war (Snyder, 2000). Powerful interest groupscan create divisions in society by exploiting ideological aggregators, and the the central governmentis too weak to prevent political polarization. Trust becomes angovernment issue among is the different interest groups, creating a series of commitment problems. Intentions and promises cannot substitute suspicion and guesswork. There’s no common commitment to a series of well-established rules, since a coalition cannot be established upon precarious trust conditions, and that increases the risk of political collapse. One might be tempted to say that once democracy is firmly established, we could predict how its procedures would lead to a specific outcome (development, poverty) from basic state variables among agents. However, the decisive nature of social choice has been questioned and problematized through a series of well-known paradoxes, such as the Condorcet paradox, the Ostrogorski paradox and the multiple election paradox. All of them have a shared formal structure (Riker, 1982; Grandi, 2005). Without going through subtle distinctions, we can explain, for our purposes here, the general notions of why preference aggregation does not translate into rationally predictable choices.

128

diogo costa and adriano gianturco gulisano

Let’s assume that different parties (such as individuals within an interest group, or the interest group representant within a parliament) are to reveal their preferences over a set of alternatives through voting. For each individual, there could be established a preferential ranking of alternatives, such that if individual 1 prefers X over Y and Y over Z, then logically, individual 1 prefers X over Z. As a basic procedure for social choice, democracies define the rules of choice for the parties to reveal their preference. The obvious example is a rule of simple majority between two alternatives. Then, if more people prefer X to Y, X is to win; if vice-versa, Y is to win; equal number of votes is a tie between alternatives. Now, in the case of three parties voting over three alternatives, there are different possible outcomes out of the same set of preferences. Suppose, for instance, that individual 1 has his preferences ranked in the following order: X, Y, Z. Individual 2 ranks: Y, Z, X; and individual 3: Z, Y, X. Though, individually, each individual has a specific preferential outcome, 1: X, 2: Y, 3: Z, it is not possible to derive from them a definitive specific collective. Depending on how the sequence of alternative pairs is to be arranged, any of the three alternatives might end up winning the majority vote. We do not need to go deeper into the problems this paradox challenges us. It is AGGIUNGERE enough to say that, given its inconsistency, specific interest VIRGOLE DOPO groups with specific different distributions of political power e systems will not necessarily lead to any such specific outcome under Mere Democracy, since there are multiple possibilities for rules of social choice. In addition to that, variations in rules of choice such as electoral systems change the power and encompassingness of interest groups. Constitutional theorists have analyzed that different features in the procedures for social choices shape the likelihood of certain policy choices and their consequential economic institutions. Comparisons between plurality and proportionality have shown that both have negative impacts on economic development. As plurality leads to bipartisanship, each party becomes more likely to appeal to a ma-

Of the people, by the people, for the people’s

129

jority through more encompassing expenditures and policies. As in Olson’s Democratic Majority, political rents are smaller, which leads to less corruption and creates a greater incentive for general economic development. However, this greater accountability facilitates for narrow interest groups to reward or punish incumbents in charge of political rents. More fractional representation through proportionality might also increase rent-seeking. Persson, Roland, and Tabellini (2003) discuss how electoral systems that allow for many political parties to hold legislative seats and form a diluted coalition decrease each legislator’s encompassing interest. Without a single party associated with policy outcomes, the public does not perceive single party or politician as accountable for undesired economic performances. Even well-established democracies with long old interest groups, a static distribution of power and well defined rules of choice are not enough to guarantee a specific outcome through time. Since the dynamic of the system is constantly being affected in unpredictable ways by endogenous and exogenous elements. As suggested by Acemoglu et al, political settings may lead to different paths: open system or closed system. In the first one, economic and political institutions are more inclusive, more free market and bottom-up oriented; in the second one, institutions are more exclusive and self oriented, more planned and top-down oriented. In this line of thought, a rich and democratic system could reach a higher degree of development, but these changes can create a cronyst setting that refrains it from succeeding at growing and opening more. Some degree of cronysm seems to ELIMINARE be present everywhere, although less in those open systems. At different stages, development is blocked by that systemic equilibrium where “everyone seeks to live at the expense of everyone else” (Bastiat, 1995, p. 144). It´s a matter of interests and of incentive. Not always and not every political actor, in a democracy, has a long run incentive. And finally, beyond schemes that could harmonize political interests and incentives there would still remain a fundamental

al.

130

diogo costa and adriano gianturco gulisano

knowledge problem. Hayek (1945) already demonstrated that knowledge is dispersed and not centralized. It is epistemologically (and not just technically)impossible to plan development in a top-down, centralized, coercive way for a myriad of different human beings with myriads of diverse preferences constantly changing over time. Any political system must be open for entrepreneurship and possible failures if it is to grow robust. There is no perfect unique recipe for everyone in a “one size fits all” manner. People discover different ways to develop their different business in a dynamic process of competition, emulation and differentiation, in a trial and error way. Conclusion As a basic procedure for social choices, thus, free and fair elections are not sufficient to determine the virtue of a society’s economic institutions. Substantial and formal elements can change the economic outcome of a democracy. Political Business Cycle, mandate limits, lobbyism, concentrated benefits and diffuse costs, partnerships, distribution of power, and other variables might lead to short run incentives and extractive institutions in a democracy. Only when democracy emerges from political settings with encompassing interests and allows them to harmoniously develop in an open and entrepreneurial way, it is more likely to produce inclusive institutions that lead to general economic development. References acemoglu d. et al. (2008), Income and democracy, in «American Economic Review», 98(3), pp. 808-842. bastiat, f. (1995). Selected Essays on Political Economy, ed. George B. de Huszar,Foundation for Economic Education, Irvington-on-Hudson. barro, r. (1996), Democracy and Growth, in «Journal of Economic Growth», 1, pp. 1-27.

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Michael W. Doyle1

Liberalism and World Politics

Building on a growing literature in international political science, I reexamine the traditional liberal claim that governments founded on a respect for individual liberty exercise “restraint” and “peaceful intentions” in their foreign policy. I look at three distinct theoretical traditions of liberalism, attributable to three theorists: Schumpeter, a democratic capitalist whose explanation of liberal pacifism we often invoke; Machiavelli, a classical republican whose glory is an imperialism we often practice; and Kant, a liberal republican whose theory of internationalism best accounts for what we are. Despite the contradictions of liberal pacifism and liberal imperialism, I find, with Kant and other democratic republicans, that liberalism does leave a coherent legacy on foreign affairs. Liberal states are different. They are indeed peaceful. They are also prone to make war. Liberal states have created a separate peace, as Kant argued they would, and have also discovered liberal reasons for aggression, as he feared they 1. I would like to thank Marshall Cohen, Amy Gutmann, Ferdinand Hermens, Bonnie Honig, Paschalis Kitromilides, Klaus Knorr, Diana Meyers, Kenneth Oye, Jerome Schneewind, and Richard Ullman for their helpful suggestions. One version of this paper was presented at the American Section of the International Society for Social and Legal Philosophy, Notre Dame, Indiana, November 2-4,1984, and will appear in Realism and Morality, edited by Kenneth Kipnis and Diana Meyers. Another version was presented on March 19, 1986, to the Avoiding Nuclear War Project, Center for Science and International Affairs, The John F. Kennedy School of Government, Harvard University. This essay draws on research assisted by a MacArthur Fellowship in International Security awarded by the Social Science Research Council.

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michael w. doyle

might. I conclude by arguing that the differences among liberal pacifism, liberal imperialism, and Kant’s internationalism are not arbitrary. They are rooted in differing conceptions of the citizen and the state. Promoting freedom will produce peace, we have often been told. In a speech before the British Parliament in June of 1982, President Reagan proclaimed that governments founded on a respect for individual liberty exercise “restraint” and “peaceful intentions” in their foreign policy. He then announced a “crusade for freedom” and a “campaign for democratic development” (Reagan, June 9, 1982). In making these claims the president joined a long list of liberal theorists (and propagandists) and echoed an old argument: the aggressive instincts of authoritarian leaders and totalitarian ruling parties make for war. Liberal states, founded on such individual rights as equality before the law, free speech and other civil liberties, private property, and elected representation are fundamentally against war this argument asserts. When the citizens who bear the burdens of war elect their governments, wars become impossible. Furthermore, citizens appreciate that the benefits of trade can be enjoyed only under conditions of peace. Thus the very existence of liberal states, such as the u.s., Japan, and our European allies, makes for peace. Building on a growing literature in international political science, I reexamine the liberal claim President Reagan reiterated for us. I look at three distinct theoretical traditions of liberalism, attributable to three theorists: Schumpeter, a brilliant explicator of the liberal pacifism the president invoked; Machiavelli, a classical republican whose glory is an imperialism we often practice; and Kant. Despite the contradictions of liberal pacifism and liberal imperialism, I find, with Kant and other liberal republicans, that liberalism does leave a coherent legacy on foreign affairs. Liberal states are different. They are indeed peaceful, yet they are also prone to make war, as the u.s. and our “freedom fighters” are now doing, not so covertly, against Nicaragua.

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Liberal states have created a separate peace, as Kant argued they would, and have also discovered liberal reasons for aggression, as he feared they might. I conclude by arguing that the differences among liberal pacifism, liberal imperialism, and Kant’s liberal internationalism are not arbitrary but rooted in differing conceptions of the citizen and the state. 1. Liberal Pacifism There is no canonical description of liberalism. What we tend to call liberal resembles a family portrait of principles and institutions, recognizable by certain characteristics – for example, individual freedom, political participation, private property, and equality of opportunity – that most liberal states share, although none has perfected them all. Joseph Schumpeter clearly fits within this family when he considers the international effects of capitalism and democracy. Schumpeter’s “Sociology of Imperialisms,” published in 1919, made a coherent and sustained argument concerning the pacifying (in the sense of nonaggressive) effects of liberal institutions and principles (Schumpeter, 1955; see also Doyle, 1986, pp. 155-59). Unlike some of the earlier liberal theorists who focused on a single feature such as trade (Montesquieu, 1949, vol. 1, bk. 20, chap. 1) or failed to examine critically the arguments they were advancing, Schumpeter saw the interaction of capitalism and democracy as the foundation of liberal pacifism, and he tested his arguments in a sociology of historical imperialisms. He defines imperialism as “an objectless disposition on the part of a state to unlimited forcible expansion” (Schumpeter, 1955, p. 6). Excluding imperialisms that were mere “catchwords” and those that were “object-ful” (e.g., defensive imperialism), he traces the roots of objectless imperialism to three sources, each an atavism. Modern imperialism, according to Schumpeter, resulted from the combined impact of a “war machine,” warlike instincts, and export monopolism.

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Once necessary, the war machine later developed a life of its own and took control of a state’s foreign policy: “Created by the wars that required it, the machine now created the wars it required” (Schumpeter, 1955, p. 25). Thus, Schumpeter tells us that the army of ancient Egypt, created to drive the Hyksos out of Egypt, took over the state and pursued militaristic imperialism. Like the later armies of the courts of absolutist Europe, it fought wars for the sake of glory and booty, for the sake of warriors and monarchs – wars gratia warriors. A warlike disposition, elsewhere called “instinctual elements of bloody primitivism,” is the natural ideology of a war machine. It also exists independently; the Persians, says Schumpeter (1955, pp. 25-32), were a warrior nation from the outset. Under modern capitalism, export monopolists, the third source of modern imperialism, push for imperialist expansion as a way to expand their closed markets. The absolute monarchies were the last clear-cut imperialisms. Nineteenth-century imperialisms merely represent the vestiges of the imperialisms created by Louis xiv and Catherine the Great. Thus, the export monopolists are an atavism of the absolute monarchies, for they depend completely on the tariffs imposed by the monarchs and their militaristic successors for revenue (Schumpeter, 1955, pp. 82-83). Without tariffs, monopolies would be eliminated by foreign competition. Modern (nineteenth century) imperialism, therefore, rests on an atavistic war machine, militaristic attitudes left over from the days of monarchical wars, and export monopolism, which is nothing more than the economic residue of monarchical finance. In the modern era, imperialists gratify their private interests. From the national perspective, their imperialistic wars are objectless. Schumpeter’s theme now emerges. Capitalism and democracy are forces for peace. Indeed, they are antithetical to imperialism. For Schumpeter, the further development of capitalism and democracy means that imperialism will inevitably disappear. He maintains that capitalism produces an

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unwarlike disposition; its populace is “democratized, individualized, rationalized” (Schumpeter, 1955, p. 68). The people’s energies are daily absorbed in production. The disciplines of industry and the market train people in “economic rationalism”; the instability of industrial life necessitates calculation. Capitalism also “individualizes”; “subjective opportunities” replace the “immutable factors” of traditional, hierarchical society. Rational individuals demand democratic governance. Democratic capitalism leads to peace. As evidence, Schumpeter claims that throughout the capitalist world an op. position has arisen to “war, expansion, cabinet diplomacy”; that contemporary capitalism is associated with peace par-ties; and that the industrial worker of capitalism is “vigorously anti-imperialist.” In addition, he points out that the capitalist world has developed means of preventing war, such as the Hague Court and that the least feudal, most capitalist society – the United States – has demonstrated the least imperialistic tendencies (Schumpeteg 1955, pp. 95-96). An example of the lack of imperialistic tendencies in the u.s., Schumpeter thought, was our leaving over half of Mexico unconquered in the war of 1846-48. Schumpeter’s explanation for liberal pacifism is quite simple: Only war profiteers and military aristocrats gain from wars. No democracy would pursue a minority interest and tolerate the high costs of imperialism. When free trade prevails, “no class” gains from forcible expansion because foreign raw materials and food stuffs are as accessible to each nation as though they were in its own territory. Where the cultural backwardness of a region makes normal economic intercourse dependent on colonization it does not matter, assuming free trade, which of the “civilized” nations undertakes the task of colonization. (Schumpeter, 1955, pp. 75-76).

Schumpeter’s arguments are difficult to evaluate. In partial tests of quasi-Schumpeterian propositions, Michael Haas (1974, pp. 464-65) discovered a cluster that associates de-

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mocracy, development, and sustained modernization with peaceful conditions. However, M. Small and J.D. Singer (1976) have discovered that there is no clearly negative correlation between democracy and war in the period 1816-1965 – the period that would be central to Schumpeter’s argument (see also Wilkenfeld, 1968, Wright, 1942, p. 841). Later in his career, in Capitalism, Socialism, and Democracy, Schumpeter, (1950, pp. 127-28) acknowledged that “almost purely bourgeois commonwealths were often aggressive when it seemed to pay-like the Athenian or the Venetian commonwealths.” Yet he stuck to his pacifistic guns, restating the view that capitalist democracy “steadily tells…against the use of military force and for peaceful arrangements, even when the balance of pecuniary advantage is clearly on the side of war which, under modern circumstances, is not in general very likely” (Schumpeter, 1950, p. 128)2. A recent study by R. J. Rummel (1983) of “libertarianism” and international violence is the closest test Schumpeterian pacifism has received. “Free” states (those enjoying political and economic freedom) were shown to have considerably less conflict at or above the level of economic sanctions than “non-free” states. The free states, the partly free states (including the democratic socialist countries such as Sweden), and the non-free states accounted for 24%, 26%, and 61%, respectively, of the international violence during the period examined. These effects are impressive but not conclusive for the Schumpeterian thesis. The data are limited, in this test, to the period 1976 to 1980. It includes, for example, the Russo-Afghan War, the Vietnamese invasion of Cambodia, China’s invasion of Vietnam, and Tanzania’s invasion of Uganda but just misses the u.s., quasi-covert intervention in Angola 2. He notes that testing this proposition is likely to be very difficult, requiring “detailed historical analysis.” However, the bourgeois attitude toward the military, the spirit and manner by which bourgeois societies wage war, and the readiness with which they submit to military rule during a prolonged war are “conclusive in themselves” (schumpeter, 1950, p. 129).

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(1975) and our not so covert war against Nicaragua (1981). More importantly, it excludes the cold war period, with its numerous interventions, and the long history of colonial wars (the Boer War, the Spanish-American War, the Mexican Intervention, etc.) that marked the history of liberal, including democratic capitalist, states (Doyle, 1983b; Chan, 1984; Weede, 1984). The discrepancy between the warlike history of liberal states and Schumpeter’s pacifistic expectations highlights three extreme assumptions. First, his “materialistic monism” leaves little room for noneconomic objectives, whether espoused by states or individuals. Neither glory, nor prestige, nor ideological justification, nor the pure power of ruling shapes policy. These nonmaterial goals leave little room for positive-sum gains, such as the comparative advantages of trade. Second, and relatedly, the same is true for his states. The political life of individuals seems to have been homogenized at the same time as the individuals were “rationalized, individualized, and democratized.” Citizens – capitalists and workers, rural and urban – seek material welfare. Schumpeter seems to presume that ruling makes no difference. He also presumes that no one is prepared to take those measures (such as stirring up foreign quarrels to preserve a domestic ruling coalition) that enhance one’s political power, despite detrimental effects on mass welfare. Third, like domestic politics, world politics are homogenized. Materially monistic and democratically capitalist, all states evolve toward free trade and liberty together. Countries differently constituted seem to disappear from Schumpeter’s analysis. “Civilized” nations govern “culturally backward” regions. These assumptions are not shared by Machiavelli’s theory of liberalism. 2. Liberal Imperialism Machiavelli argues, not only that republics are not pacifistic, but that they are the best form of state for imperial expansion.

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Establishing a republic fit for imperial expansion is, moreover, the best way to guarantee the survival of a state. Machiavelli’s republic is a classical mixed republic. It is not a democracy – which he thought would quickly degenerate into a tyranny – but is characterized by social equality, popular liberty, and political participation (Machiavelli, 1950, bk. 1, chap. 2, p. 112; see also Huliung, 1983, chap. 2; Mansfield, 1970; Pocock, 1975, pp. 198-99; Skinner, 1981, chap. 3). The consuls serve as “kings,” the senate as an aristocracy managing the state, and the people in the assembly as the source of strength. Liberty results from “disunion” – the competition and necessity for compromise required by the division of powers among senate, consuls, and tribunes (the last representing the common people). Liberty also results from the popular veto. The powerful few threaten the rest with tyranny, Machiavelli says, because they seek to dominate. The mass demands not to be dominated, and their veto thus preserves the liberties of the state (Machiavelli, 1950, bk. 1, chap. 5, p. 122). However, since the people and the rulers have different social characters, the people need to be “managed” by the few to avoid having their recklessness overturn or their fecklessness undermine the ability of the state to expand (Machiavelli, 1950, bk. 1, chap. 53, pp. 249-50). Thus the senate and the consuls plan expansion, consult oracles, and employ religion to manage the resources that the energy of the people supplies. Strength, and then imperial expansion, results from the way liberty encourages increased population and property, which grow when the citizens know their lives and goods are secure from arbitrary seizure. Free citizens equip large armies and provide soldiers who fight for public glory and the common good because these are, in fact, their own (Machiavelli, 1950, bk. 2, chap. 2, pp. 287-90). If you seek the honor of having your state expand, Machiavelli advises, you should organize it as a free and popular republic like Rome, rather than as an aristocratic republic like Sparta or Venice. Expansion thus calls for a free republic.

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“Necessity” – political survival – calls for expansion. If a stable aristocratic republic is forced by foreign conflict “to extend her territory, in such a case we shall see her foundations give way and herself quickly brought to ruin”; if, on the other hand, domestic security prevails, “the continued tranquility would enervate her, or provoke internal disensions, which together, or either of them separately, will apt to prove her ruin” (Machiavelli, 1950, bk. 1, chap. 6, p. 129). Machiavelli therefore believes it is necessary to take the constitution of Rome, rather than that of Sparta or Venice, as our model. Hence, this belief leads to liberal imperialism. We are lovers of glory, Machiavelli announces. We seek to rule or, at least, to avoid being oppressed. In either case, we want more for ourselves and our states than just material welfare (materialistic monism). Because other states with similar aims thereby threaten us, we prepare ourselves for expansion. Because our fellow citizens threaten us if we do not allow them either to satisfy their ambition or to release their political energies through imperial expansion, we expand. There is considerable historical evidence for liberal imperialism. Machiavelli’s (Polybius’s) Rome and Thucydides’ Athens both were imperial republics in the Machiavellian sense (Thucydides, 1954, bk. 6). The historical record of numerous U.S. interventions in the postwar period supports Machiavelli’s argument (Aron, 1973, chaps. 3-4; Barnet, 1968, chap. 11), but the current record of liberal pacifism, weak as it is, calls some of his insights into question. To the extent that the modern populace actually controls (and thus unbalances) the mixed republic, its diffidence may outweigh elite (“senatorial”) aggressiveness. We can conclude either that (1) liberal pacifism has at least taken over with the further development of capitalist democracy, as Schumpeter predicted it would or that (2) the mixed record of liberalism – pacifism and imperialism – indicates that some liberal states are Schumpeterian democracies while others are Machiavellian republics. Before we accept

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either conclusion, however, we must consider a third apparent regularity of modern world politics. 3. Liberal Internationalism Modern liberalism carries with it two legacies. They do not affect liberal states separately, according to whether they are pacifistic or imperialistic, but simultaneously. The first of these legacies is the pacification of foreign relations among liberal states3. During the nineteenth century, the United States and Great Britain engaged in nearly continual strife; however, after the Reform Act of 1832 defined actual representation as the formal source of the sovereignty of the British parliament, Britain and the United States negotiated their disputes. They negotiated despite, for example, British grievances during the Civil War against the North’s blockade of the South, with which Britain had close economic ties. Despite severe Anglo-French colonial rivalry, liberal France and liberal Britain formed an entente against illiberal Germany before World War i. And from 1914 to 1915, Italy, the liberal member of the Triple Alliance with Germany and Austria, chose not to fulfill its obligations under that treaty to support its allies. Instead, Italy joined in an alliance with Britain and France, which prevented it from having to fight other liberal 3. clarence streit (1938, pp. 88, 90-92) seems to have been the first to point out (in contemporary foreign relations) the empirical tendency of democracies to maintain peace among themselves, and he made this the foundation of his proposal for a (non¬Kantian) federal union of the 15 leading democracies of the 1930s. In a very interesting book, ferdinand hermens (1944) explored some of the policy implications of Streit’s analysis. d.v. babst (1972, pp. 55-58) performed a quantitative study of this phenomenon of “democratic peace” and r.j. rummel (1983) did a similar study of “libertarianism” (in the sense of laissez faire) focusing on the postwar period that drew on an unpublished study (Project No. 48) noted in Appendix 1 of his Understanding Conflict and War (1979, p. 386). I use the term liberal in a wider, Kantian sense in my discussion of this issue (Doyle, 1983a). In that essay, I survey the period from 1790 to the present and find no war among liberal states.

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states and then declared war on Germany and Austria. Despite generations of Anglo-American tension and Britain’s wartime restrictions on American trade with Germany, the United States leaned toward Britain and France from 1914 to 1917 before entering World War i on their side. Beginning in the eighteenth century and slowly growing since then, a zone of peace, which Kant called the “pacific federation” or “pacific union,” has begun to be established among liberal societies. More than 40 liberal states currently make up the union. Most are in Europe and North America, but they can be found on every continent, as Appendix 1 indicates. Here the predictions of liberal pacifists (and President Reagan) are borne out: liberal states do exercise peaceful restraint, and a separate peace exists among them. This separate peace provides a solid foundation for the United States’ crucial alliances with the liberal powers, e.g., the North Atlantic Treaty Organization and our Japanese alliance. This foundation appears to be impervious to the quarrels with our allies that bedeviled the Carter and Reagan administrations. It also offers the promise of a continuing peace among liberal states, and as the number of liberal states increases, it announces the possibility of global peace this side of the grave or world conquest. Of course, the probability of the outbreak of war in any given year between any two given states is low. The occurrence of a war between any two adjacent states, considered over a long period of time, would be more probable. The apparent absence of war between liberal states, whether adjacent or not, for almost 200 years thus may have significance. Similar claims cannot be made for feudal, fascist, communist, authoritarian, or totalitarian forms of rule (Doyle, 1983a, pp. 222), nor for pluralistic or merely similar societies. More significant perhaps is that when states are forced to decide on which side of an impending world war they will fight, liberal states all wind up on the same side de-spite the complexity of the paths that take them there. These characteristics do not

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prove that the peace among liberals is statistically significant nor that liberalism is the sole valid explanation for the peace4. They do suggest that we consider the possibility that liberals have indeed established a separate peace – but only among themselves. Liberalism also carries with it a second legacy: international “imprudence” (Hume, 1963, pp. 346-47). Peaceful restraint only seems to work in liberals’ relations with other liberals. Liberal states have fought numerous wars with non-liberal states. (For a list of international wars since 1816 see Appendix 2.) Many of these wars have been defensive and thus prudent by necessity. Liberal states have been attacked and threatened by non-liberal states that do not exercise any special restraint in their dealings with the liberal states. Authoritarian rulers both stimulate and respond to an international political environment in which conflicts of prestige, interest, and pure fear of what other states might do all lead states toward war. War and conquest have thus characterized the careers of many authoritarian rulers and ruling parties, from Louis xiv and Napoleon to Mussolini’s fascists, Hitler’s Nazis, and Stalin’s communists. Yet we cannot simply blame warfare on the authoritarians or totalitarians, as many of our more enthusiastic politicians would have us do5. Most wars arise out of calculations and 4. babst (1972) did make a preliminary test of the significance of the distribution of alliance partners in World War I. He found that the possibility that the actual distribution of alliance partners could have occurred by chance was less than 1% (babst, 1972, p. 56). However, this assumes that there was an equal possibility that any two nations could have gone to war with each other, and this is a strong assumption. rummel (1983) has a further discussion of the issue of statistical significance as it applies to his libertarian thesis. 5. There are serious studies showing that Marxist regimes have higher military spending per capita than non-Marxist regimes (payne, n.d.), but this should not be interpreted as a sign of the inherent aggressiveness of authoritarian or totalitarian governments or of the inherent and global peacefulness of liberal regimes. Marxist regimes, in particular, represent a minority in the current international system; they are strategically encircled, and due to their lack of domestic legiti-

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miscalculations of interest, misunderstandings, and mutual suspicions, such as those that characterized the origins of World War i. However, aggression by the liberal state has also characterized a large number of wars. Both France and Britain fought expansionist colonial wars throughout the nineteenth century. The United States fought a similar war with Mexico from 1846 to 1848, waged a war of annihilation against the American Indians, and intervened militarily against sovereign states many times before and after World War ii. Liberal states invade weak non-liberal states and display striking distrust in dealings with powerful non-liberal states (Doyle, 1983b). Neither realist (statist) nor Marxist theory accounts well for these two legacies. While they can account for aspects of certain periods of international stability (Aron, 1968, pp. 15154; Russett, 1985), neither the logic of the balance of power nor the logic of international hegemony explains the separate peace maintained for more than 150 years among states sharing one particular form of governance – liberal principles and institutions. Balance-of-power theory expects – indeed is premised upon – flexible arrangements of geostrategic rivalry that include preventive war. Hegemonies wax and wane, but the liberal peace holds. Marxist “ultra-imperialists” expect a form of peaceful rivalry among capitalists, but only liberal capitalists maintain peace. Leninists expect liberal capitalists to be aggressive toward non-liberal states, but they also (and especially) expect them to be imperialistic toward fellow liberal capitalists. macy, they might be said to “suffer” the twin burden of needing defenses against both external and internal enemies. andreski (1980), moreover, argues that (purely) military dictatorships, due to their domestic fragility, have little incentive to engage in foreign military adventures. According to walter clemens (1982, pp. 117-18), the United States intervened in the Third World more than twice as often during the period 1946-1976 as the Soviet Union did in 1946-79. Relatedly, Posen and vanevera (1980, p. 105; 1983, pp. 86-89) found that the United States devoted one quarter and the Soviet Union one tenth of their defense budgets to forces designed for Third World interventions (where responding to perceived threats would presumably have a less than purely defensive character).

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Kant’s theory of liberal internationalism helps us understand these two legacies. The importance of Immanuel Kant as a theorist of international ethics has been well appreciated (Armstrong, 1931; Friedrich, 1948; Gallie, 1978, chap. 1; Galston, 1975; Hassner, 1972; Hinsley, 1967, chap. 4; Hoffmann, 1965; Waltz, 1962; Williams, 1983), but Kant also has an important analytical theory of international politics. Perpetual Peace, written in 1795 (Kant, 1970, pp. 93-130), helps us understand the interactive nature of international relations. Kant tries to teach us methodologically that we can study neither the systemic relations of states nor the varieties of state behavior in isolation from each other. Substantively, he anticipates for us the ever-widening pacification of a liberal pacific union, explains this pacification, and at the same time suggests why liberal states are not pacific in their relations with non-liberal states. Kant argues that perpetual peace will be guaranteed by the ever-widening acceptance of three “definitive articles” of peace. When all nations have accepted the definitive articles in a metaphorical “treaty” of perpetual peace he asks them to sign, perpetual peace will have been established. The First Definitive Article requires the civil constitution of the state to be republican. By republican Kant means a political society that has solved the problem of combining moral autonomy, individualism, and social order. A private property and market-oriented economy partially addressed that dilemma in the private sphere. The public, or political, sphere was more troubling. His answer was a republic that preserved juridical freedom – the legal equality of citizens as subjects – on the basis of a representative government with a separation of powers. Juridical freedom is preserved because the morally autonomous individual is by means of representation a self-legislator making laws that apply to all citizens equally, including himself or herself. Tyranny is avoided because the individual is subject to laws he or she does not also administer (Kant, pp, pp. 99-102; Riley, 1985, chap. 5)6. 6. All citations from Kant are from Kant’s Political Writings (kant, 1970), the H.B. Nisbet translation edited by Hans Reiss. The works discussed and the ab-

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Liberal republics will progressively establish peace among themselves by means of the pacific federation, or union (foedus pacificum), described in Kant’s Second Definitive Article. The pacific union will establish peace within a federation of free states and securely maintain the rights of each state. The world will not have achieved the “perpetual peace” that provides the ultimate guarantor of republican freedom until “a late stage and after many unsuccessful attempts” (Kant, uh, p. 47). At that time, all nations will have learned the lessons of peace through right conceptions of the appropriate constitution, great and sad experience, and good will. Only then will individuals enjoy perfect republican rights or the full guarantee of a global and just peace. In the meantime, the “pacific federation” of liberal republics – “an enduring and gradually expanding federation likely to prevent war” – brings within it more and more republics – despite republican collapses, backsliding, and disastrous wars – creating an ever-expanding separate peace (Kant, pp, p. 105)7. Kant emphasizes that it can be shown that this idea of federalism, extending gradually to encompass all states and thus leading to perpetual peace, is practicable and has objective reality. For if by good fortune one powerful and enlightened nation can form a republic (which is by nature inclined to seek peace), this will provide a focal point for federal association among other states. These will join up with the first one, thus securing the freedom of each state in accordance with the idea of international right, and the whole will gradually spread further and further by a series of alliances of this kind. (Kant, pp, p. 104).

breviations by which they are identified in the text are as follows: pp Perpetual Peace (1795); uh The Idea for a Universal History with a Cosmopolitan Purpose (1784); cf The Contest of Faculties (1798); mm The Metaphysics of Morals (1797). 7. I think Kant meant that the peace would be established among liberal regimes and would expand by ordinary political and legal means as new liberal regimes appeared. By a process of gradual extension the peace would become global and then perpetual; the occasion for wars with non-liberals would disappear as nonliberal regimes disappeared.

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The pacific union is not a single peace treaty ending one war, a world state, nor a state of nations. Kant finds the first insufficient. The second and third are impossible or potentially tyrannical. National sovereignty precludes reliable subservience to a state of nations; a world state destroys the civic freedom on which the development of human capacities rests (Kant, uh, p. 50). Although Kant obliquely refers to various classical interstate confederations and modern diplomatic congresses, he develops no systematic organizational embodiment of this treaty and presumably does not find institutionalization necessary (Riley, 1983, chap. 5; Schwarz, 1962, p. 77). He appears to have in mind a mutual nonaggression pact, perhaps a collective security agreement, and the cosmopolitan law set forth in the Third Definitive Article8. The Third Definitive Article establishes a cosmopolitan law to operate in conjunction with the pacific union. The cosmopolitan law “shall be limited to conditions of universal hospitality.” In this Kant calls for the recognition of the “right of a foreigner not to be treated with hostility when he arrives on someone else’s territory”. This “does not extend beyond those conditions which make it possible for them [foreigners] to attempt to enter into relations [commerce] with the native inhabitants” (Kant, pp, p. 106). Hospitality does not require extending to foreigners either the right to citizenship or the right to settlement, unless the foreign visitors would perish if they were expelled. Foreign conquest and plunder also find no justification under this right. Hospitality does appear to include the right of access and the obligation of maintaining the opportunity for citizens to exchange goods and ideas

8. Kant’s foedus pacificum is thus neither a pact pacis (a single peace treaty) nor a civitas gentium (a world state). He appears to have anticipated something like a less formally institutionalized League of Nations or United Nations. One could argue that in practice, these two institutions worked for liberal states and only for liberal states, but no specifically liberal “pacific union” was institutionalized. Instead, liberal states have behaved for the past 180 years as if such a Kantian pacific union and treaty of perpetual peace had been signed.

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without imposing the obligation to trade (a voluntary act in all cases under liberal constitutions). Perpetual peace, for Kant, is an epistemology, a condition for ethical action, and, most importantly, an explanation of how the “mechanical process of nature visibly exhibits the purposive plan of producing concord among men, even against their will and indeed by means of their very discord” (Kant, pp, p. 108; uh, pp. 44-45). Understanding history requires an epistemological foundation, for without a teleology, such as the promise of perpetual peace, the complexity of history would overwhelm human understanding (Kant, uh, pp. 51-53). Perpetual peace, however, is not merely a heuristic device with which to interpret history. It is guaranteed, Kant explains in the “First Addition” to Perpetual Peace (“On the Guarantee of Perpetual Peace”), to result from men fulfilling their ethical duty or, failing that, from a hidden plan9. Peace is an ethical duty because it is only under conditions of peace that all men can treat each other as ends, rather than means to an end (Kant, uh, p. 50; Murphy, 1970, chap. 3). In order for this duty to be practical, Kant needs, of course, to show that peace is in fact possible. The widespread sentiment of approbation that he saw aroused by the early success of the French revolutionaries showed him that we can indeed be moved by 9. In the Metaphysics of Morals (the Rechtslehre) Kant seems to write as if perpetual peace is only an epistemological device and, while an ethical duty, is empirically merely a “pious hope” (mm, pp. 164-75)—though even here he finds that the pacific union is not “impracticable” (mm, p. 171). In the Universal History (UH), Kant writes as if the brute force of physical nature drives men toward inevitable peace. yovel (1980, pp. 168 ff.) argues that from a post-critical (postCritique of Judgment) perspective, Perpetual Peace reconciles the two views of history. “Nature” is human-created nature (culture or civilization). Perpetual peace is the “a priori of the a posteriori” – a critical perspective that then enables us to discern causal, probabilistic patterns in history. Law and the “political technology” of republican constitutionalism are separate from ethical development, but both interdependently lead to perpetual peace – the first through force, fear, and selfinterest; the second through progressive enlightenment – and both together lead to perpetual peace through the widening of the circumstances in which engaging in right conduct poses smaller and smaller burdens.

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ethical sentiments with a cosmopolitan reach (Kant, cf, pp. 181-82; Yovel, 1980, pp. 153-54). This does not mean, however, that perpetual peace is certain (“prophesiable”). Even the scientifically regular course of the planets could be changed by a wayward comet striking them out of orbit. Human freedom requires that we allow for much greater reversals in the course of history. We must, in fact, anticipate the possibility of backsliding and destructive wars – though these will serve to educate nations to the importance of peace (Kant, uh, pp. 47-48). In the end, however, our guarantee of perpetual peace does not rest on ethical conduct. As Kant emphasizes, we now come to the essential question regarding the prospect of perpetual peace. What does nature do in relation to the end which man’s own reason prescribes to him as a duty, i.e. how does nature help to promote his moral purpose? And how does nature guarantee that what man ought to do by the laws of his freedom (but does not do) will in fact be done through nature’s compulsion, without prejudice to the free agency of man?... This does not mean that nature imposes on us a duty to do it, for duties can only be imposed by practical reason. On the contrary, nature does it herself, whether we are willing or not: facta volentem ducunt, nolentem tradunt (pp, p. 112).

The guarantee thus rests, Kant argues, not on the probable behavior of moral angels, but on that of “devils, so long as they possess understanding” (pp, p. 112). In explaining the sources of each of the three definitive articles of the perpetual peace, Kant then tells us how we (as free and intelligent devils) could be motivated by fear, force, and calculated advantage to undertake a course of action whose outcome we could reasonably anticipate to be perpetual peace. Yet while it is possible to conceive of the Kantian road to peace in these terms, Kant himself recognizes and argues that social evolution also makes the conditions of moral behavior less onerous and hence more likely (cf, pp. 187-89; Kelly, 1969, pp. 106-13). In tracing the effects of both political and moral

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development, he builds an account of why liberal states do maintain peace among themselves and of how it will (by implication, has) come about that the pacific union will expand. He also ex-plains how these republics would engage in wars with nonrepublics and therefore suffer the “sad experience” of wars that an ethical policy might have avoided. The first source of the three definitive articles derives from a political evolution—from a constitutional law. Nature (providence) has seen to it that human beings can live in all the regions where they have been driven to settle by wars. (Kant, who once taught geography, reports on the Lapps, the Samoyeds, the Pescheras). “Asocial sociability” draws men together to fulfill needs for security and material welfare as it drives them into conflicts over the distribution and control of social products (Kant, uh, pp. 44-45; pp, pp. 110-11). This violent natural evolution tends towards the liberal peace because “asocial sociability” inevitably leads toward republican governments, and republican governments are a source of the liberal peace. Republican representation and separation of powers are produced because they are the means by which the state is “organized well” to prepare for and meet foreign threats (by unity) and to tame the ambitions of selfish and aggressive individuals (by authority derived from representation, by general laws, and by non-despotic administration) (Kant, pp, pp. 11213). States that are not organized in this fashion fail. Monarchs thus en-courage commerce and private property in order to increase national wealth. They cede rights of representation to their subjects in order to strengthen their political support or to obtain willing grants of tax revenue (Hassner, 1972, pp. 583-86). Kant shows how republics, once established, lead to peaceful relations. he argues that once the aggressive interests of absolutist monarchies are tamed and the habit of respect for individual rights engrained by republican government, wars would appear as the disaster to the people’s welfare that he and the other liberals thought them to be. The fundamental reason is this:

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If, as is inevitability the case under this constitution, the consent of the citizens is required to decide whether or not war should be declared, it is very natural that they will have a great hesitation in embarking on so dangerous an enterprise. For this would mean calling down on themselves all the miseries of war, such as doing the fighting themselves, supplying the costs of the war from their own resources, painfully making good the ensuing devastation, and, as the crowning evil, having to take upon themselves a burden of debts which will embitter peace itself and which can never be paid off on account of the constant threat of new wars. But under a constitution where the subject is not a citizen, and which is therefore not republican, it is the simplest thing in the world to go to war. For the head of state is not a fellow citizen, but the owner of the state, and war will not force him to make the slightest sacrifice so far as his banquets, hunts, pleasure palaces and court festivals are concerned. He can thus decide on war, without any significant reason, as a kind of amusement, and unconcernedly leave it to the diplomatic corps (who are always ready for such purposes) to justify the war for the sake of propriety (Kant, pp, p. 100).

Yet these domestic republican restraints do not end war. If they did, liberal states would not be warlike, which is far from the case. They do introduce republican caution – Kant’s “hesitation” – in place of monarchical caprice. Liberal wars are only fought for popular, liberal purposes. The historical liberal legacy is laden with popular wars fought to promote freedom, to protect private property, or to support liberal allies against non-liberal enemies. Kant’s position is ambiguous. He regards these wars as unjust and warns liberals of their susceptibility to them (Kant, pp, p. 106). At the same time, Kant argues that each nation “can and ought to” demand that its neighboring nations enter into the pacific union of liberal states (pp, p. 102). Thus to see how the pacific union removes the occasion of wars among liberal states and not wars between liberal and non-liberal states, we need to shift our attention from constitutional law to international law, Kant’s second source. Complementing the constitutional guarantee of caution, international law adds a second source for the definitive ar-

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ticles: a guarantee of respect. The separation of nations that asocial sociability encourages is reinforced by the development of separate languages and religions. These further guarantee a world of separate states – an essential condition needed to avoid a “global, soul-less despotism.” Yet, at the same time, they also morally integrate liberal states: “as culture grows and men gradually move towards greater agreement over their principles, they lead to mutual understanding and peace” (Kant, pp, p. 114). As republics emerge (the first source) and as culture progresses, an understanding of the legitimate rights of all citizens and of all republics comes into play; and this, now that caution characterizes policy, sets up the moral foundations for the liberal peace. Correspondingly, international law highlights the importance of Kantian publicity. Domestically, publicity helps ensure that the officials of republics act according to the principles they profess to hold just and according to the interests of the electors they claim to represent. Internationally, free speech and the effective communication of accurate conceptions of the political life of foreign peoples is essential to establishing and preserving the understanding on which the guarantee of respect depends. Domestically just republics, which rest on consent, then presume foreign republics also to be consensual, just, and therefore deserving of accommodation. The experience of cooperation helps engender further cooperative behavior when the consequences of state policy are unclear but (potentially) mutually beneficial. At the same time, liberal states assume that non-liberal states, which do not rest on free consent, are not just. Because non-liberal governments are in a state of aggression with their own people, their foreign relations become for liberal governments deeply suspect. In short, fellow liberals benefit from a presumption of amity; non-liberals suffer from a presumption of enmity. Both presumptions may be accurate; each, however, may also be self-confirming. Lastly, cosmopolitan law adds material incentives to moral commitments. The cosmopolitan right to hospitality permits

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the “spirit of commerce” sooner or later to take hold of every nation, thus impelling states to promote peace and to try to avert war. Liberal economic theory holds that these cosmopolitan ties derive from a cooperative international division of labor and free trade according to comparative advantage. Each economy is said to be better off than it would have been under autarky; each thus acquires an incentive to avoid policies that would lead the other to break these economic ties. Because keeping open markets rests upon the assumption that the next set of transactions will also be determined by prices rather than coercion, a sense of mutual security is vital to avoid security-motivated searches for economic autarky. Thus, avoiding a challenge to another liberal state’s security or even enhancing each other’s security by means of alliance naturally follows economic interdependence. A further cosmopolitan source of liberal peace is the international market’s removal of difficult decisions of production and distribution from the direct sphere of state policy. A foreign state thus does not appear directly responsible for these outcomes, and states can stand aside from, and to some degree above, these contentious market rivalries and be ready to step in to resolve crises. The interdependence of commerce and the international contacts of state officials help create crosscutting transnational ties that serve as lobbies for mutual accommodation. According to modern liberal scholars, international financiers and transnational and transgovernmental organizations create interests in favor of accommodation. Moreover, their variety has ensured that no single conflict sours an entire relationship by setting off a spiral of reciprocated retaliation (Brzezinski and Huntington, 1963, chap. 9; Keohane and Nye, 1977, chap. 7; Neustadt, 1970; Polanyi, 1944, chaps. 1-2). Conversely, a sense of suspicion, such as that characterizing relations between liberal and non-liberal governments, can lead to restrictions on the range of contacts between societies, and this can increase the prospect that a single conflict will determine an entire relationship.

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No single constitutional, international, or cosmopolitan source is alone sufficient, but together (and only together) they plausibly connect the characteristics of liberal polities and economies with sustained liberal peace. Alliances founded on mutual strategic interest among liberal and non-liberal states have been broken; economic ties between liberal and non-liberal states have proven fragile; but the political bonds of liberal rights and interests have proven a remarkably firm foundation for mutual nonaggression. A separate peace exists among liberal states. In their relations with non-liberal states, however, liberal states have not escaped from the insecurity caused by anarchy in the world political system considered as a whole. Moreover, the very constitutional restraint, international respect for individual rights, and shared commercial interests that establish grounds for peace among liberal states establish grounds for additional conflict in relations between liberal and non-liberal societies. Conclusion Kant’s liberal internationalism, Machiavelli’s liberal imperialism, and Schumpeter’s liberal pacifism rest on fundamentally different views of the nature of the human being, the state, and international relations10. Schumpeter’s humans are rationalized, individualized, and democratized. They are also homogenized, pursuing material interests “monistically.” Because their material interests lie in peaceful trade, they and the democratic state that these fellow citizens control are pacifistic. Machiavelli’s citizens are splendidly diverse in their goals but fundamentally unequal in them as well, seeking to rule or fearing being dominated. Extending the rule of the

10. For a comparative discussion of the political foundations of Kant’s ideas, see shklar (1984, pp. 232-38).

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dominant elite or avoiding the political collapse of their state, each calls for imperial expansion. Kant’s citizens, too, are diverse in their goals and individualized and rationalized, but most importantly, they are capable of appreciating the moral equality of all individuals and of treating other individuals as ends rather than as means. The Kantian state thus is governed publicly according to law, as a republic. Kant’s is the state that solves the problem of governing individualized equals, whether they are the “rational devils” he says we often find ourselves to be or the ethical agents we can and should become. Republics tell us that in order to organize a group of rational beings who together require universal laws for their survival, but of whom each separate individual is secretly inclined to exempt himself from them, the constitution must be so designed so that, although the citizens are opposed to one another in their private attitudes, these opposing views may inhibit one another in such a way that the public conduct of the citizens will be the same as if they did not have such evil attitudes. (Kant, pp, p. 113) Unlike Machiavelli’s republics, Kant’s republics are capable of achieving peace among themselves because they exercise democratic caution and are capable of appreciating the international rights of foreign republics. These international rights of republics derive from the representation of foreign individuals, who are our moral equals. Unlike Schumpeter’s capitalist democracies, Kant’s republics – including our own – remain in a state of war with nonrepublics. Liberal republics see themselves as threatened by aggression from nonrepublics that are not constrained by representation. Even though wars often cost more than the economic return they generate, liberal republics also are prepared to protect and promote – sometimes forcibly – democracy, private property, and the rights of individuals overseas against nonrepublics, which, because they do not authentically represent the rights of individuals, have no rights to noninterference. These wars may liberate oppressed individuals.

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appendix 1 –liberal REGIMES AND THE PACIFIC UNION, 1700-1982 Period 18th Century Swiss Cantonsa French Republic, 1790-1795 United States,a 1776Total = 3 1800-1850 Swiss Confederation United States France,1 830-1849 Belgium, 1830Great Britain, 1832Netherlands, 1848Piedmont, 1848Denmark, 1849Total = 8 1850-1900 Switzerland United States Belgium Great Britain Netherlands Piedmont, -1861 Italy, 1861Denmark, -1866 Sweden, 1864Greece, 1864Canada, 1867France, 1871Argentina, 1880Chile, 1891Total = 13 1900-1945 Switzerland United States Great Britain Sweden Canada Greece, -1911; 1928-1936

Period 1900-1945 (cont) Italy, -1922 Belgium, -1940 Netherlands, -1940 Argentina, -1943 France, -1940 Chile, -1924, 1932Australia, 1901 Norway, 1905-1940 New Zealand, 1907Colombia, 1910-1949 Denmark, 1914-1940 Poland, 1917-1935 Latvia, 1922-1934 Germany, 1918-1932 Austria, 1918-1934 Estonia, 1919-1934 Finland, 1919Uruguay, 1919Costa Rica, 1919Czechoslovakia, 1920-1939 Ireland, 1920Mexico, 1928Lebanon, 1944Total = 29 1945-b Switzerland United States Great Britain Sweden Canada Australia New Zealand Finland Ireland Mexico Urugay, -1973 Chile, -1973 Lebanon,-1975

Period 1945- (cont.) Costa Rica, -1948; 1953Iceland, 1944France, 1945Denmark, 1945 Norway, 1945 Austria, 1945Brazil, 1945-1954; 1955-1964 Belgium, 1946Luxemburg1, 946Netherlands, 1946Italy, 1946Philippines, 1946-1972 India, 1947-1975, 1977Sri Lanka, 1948-1961; 1963-1971; 1978Ecuador, 1948-1963; 1979Israel, 1949West Germany, 1949Greece, 1950-1967; 1975Peru, 1950-1962; 19631968; 1980El Salvador, 1950-1961 Turkey, 1950-1960; 1966-1971 Japan, 1951Bolivia, 1956-1969; 1982Colombia, 1958Venezuela, 1959Nigeria, 1961-1964; 1979-1984 Jamaica, 1962Trinidad and Tobago, 1962Senegal, 1963Malaysia, 1963Botswana, 1966Singapore, 1965Portugal, 1976Spain, 1978Dominican Republic, 1978Honduras, 1981Papua New Guinea, 1982Total = 50

Note: I have drawn up this approximatel ist of “Liberal Regimes” a ccording to the four institutions Kant described as essential: market and private property economies; polities that are externally sovereign; citizens who possess juridical rights; and “republican” (whether

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republican or parliamentary monarchy), representative government. This latter includes the requirement that the legislative branch have an effective role in public policy and be formally and competitively (either inter- or intra- party) elected. Furthermore, I have taken into account whether male suffrage is wide (i.e., 30%) or, as Kant (MM, p. 139) would have had it, open by “achievement” to inhabitants of the national or metropolitan territory (e.g., to poll-tax payers or householders). This list of liberal regimes is thus more inclusive than a list of democratic regimes, or polyarchies (Powell, 1982, p. 5). Other conditions taken into account here are that female suffrage is granted within a generation of its being demanded by an extensive female suffrage movement and that representative government is internally sovereign (e.g., including, and especially over military and foreign affairs) as well as stable (in existence for at least three years). Sources for these data are Banks and Overstreet (1983), Gastil (1985), The Europa Yearbook, 1985 (1985), Langer (1968), U.K. Foreign and Commonwealth Office (1980), and U.S. fit Kant’s commitment to liberal individualism (Holmes, 1979). a There are domestic variations within these liberal regimes: Switzerland was liberal only in certain cantons; the United States was liberal only north of the Mason-Dixon line until 1865, when it became liberal throughout. bSelected list, excludes liberal regimes with populations less than one million. These include all states categorized as “free” by Gastil and those “partly free” (four-fifths or more free) states with a more pronounced capitalist orientation.

Appendix 2 – International Wars Listed Chronologically Greek (1821-1828) Franco-Spanish FirstA nglo-Burmese (1823-1826) Javanese (1825-1830) Russo-Persian (1826-1828) Russo-Turkish (1828-1829) First Polish (1831) First Syrian (1831-1832) Texas (1835-1836) FirstB ritish-Afghan(1838-1842) Second Syrian (1839-1940) Franco-Algerian (1839-1847) Peruvian-Bolivian (1841) FirstB ritish-Sikh (1845-1846) Mexican-American (1846-1848) Austro-Sardinian (1848-1849) FirstS chleswig-Holstein (1848-1849) Hungarian (1848-1849) Second British-Sikh (1848-1849) Roman Republic (1849) La Plata (1851-1852) FirstT urco-Montenegran (1852-1853) Crimean (1853-1856) Anglo-Persian (1856-1857) Sepoy (1857-1859) Second Turco-Montenegran (18581859) Italian Unification (1859) Spanish-Moroccan (1859-1860)

Pacific (1879-1883) British-Zulu (1879) Franco-Indochinese (1882-1884) Mahdist (1882-1885) Sino-French (1884-1885) Central American (1885) Serbo-Bulgarian (1885) Sino-Japanese (1894-1895) Franco-Madagascan (1894-1895) Cuban (1895-1898) Italo-Ethipian (1895-1896) First Philippine (1896-1898) Greco-Turkish (1897) Spanish-American (1898) Second Phlippine (1899-1902) Boer (1899-1902) Boxer Rebellion (1900) Ilinden (1903) Russo-Japanese (1904-1905) Central American (1906) Central American (1907) Spanish-Moroccan (1909-1910) Italo-Turkish (1911-1912) First Balkan (1912-1913) Second Balkan (1913) World War I (1914-1918) Russian Nationalities (1917-1921) Russo-Polish (1919-1920) Hungarian-Allies (1919)

Liberalism and world politics Italo-Roman (1860) Italo-Sicilian (1860-1861) Franco-Mexican (1862-1867) Ecuadorian-Colombian 81863) Second Polish (1863-1864) Spanish-Santo Dominican (1863-1865) Second Schleswig-Holstein (1864) Lopez (1864-1870) Spanish-Chilean (1865-1866) Seven Weeks (1866) Ten Years (1868-1878) Franco-Prussian (1870-1871) Dutch-Achinese (1873-1878) Balkan (1875-1877) Russo-Turkish (1877-1878) Bosnian (1878) Second British-Afghan (1878-1880) Changkufeng (1938) Nomohan (1939) World War II (1939-1945) Russo-Finnish (1939-1940) Franco-Thai (1940-1941) Indonesian (1945-1946) Indochinese (1945-1954) Madagascan (1947-1948) First Kashmir (1947-1949) Palestine (1948-1949) Hyderabad (1948) Korean (1950-1953) Algerian (1954-1962)

159 Greco-Turkish (1919-1922) Riffian (1921-1926) Druze (1925-1927) Sino-Soviet (1929) Manchurian (1931-1933) Chaco (1932-1935) Italo-Ethiopian (1935-1936) Sino-Japanese (1937-1941) Russo-Hungarian (1956) Sinai (1956) Tibetan (1956-1959) Sino-Indian (1962) Vietnamese (1965-1975) Second Kashmir (1965) Six Day (1967) Israeli-Egyptian (1969-1970) Football (1969) Bangladesh (1971) Philippine-MNLF (1972-) Yom Kippur (1973) Turco-Cypriot (1974) Ethiopian-Eritrean (1974-) Vietnamese-Cambodian (1975-) Timor (1975-) Saharan (1975-) Ogaden (1976-) Ugandan-Tanzanian (1978-1979) Sino-Vietnamese (1979) Russo-Afghan (1979-) Iran-Iraqi (1980-)

Note: This table is taken from Melvin Small and J. David Singer (1982, pp. 7980). This is a partial list of international wars fought between 1816 and 1980. In Appendices A and B, Small and Singer identify a total of 575 wars duringt his period, but approximately 159 of them appear to be largely domestic, or civil wars. This list excludes covert interventions, some of which have been directed by liberal regimes against other liberalr egimes-for example, the United States’ effort to destabilize the Chilean election and Allende’s government. Nonetheless, it is significant that such interventions are not pursued publicly as acknowledged policy. The covert destabilization campaign against Chile is recounted by the Senate Select Committee to Study Governmental Operations with Respect to Intelligence Activities (1975, Covert Action in Chile, 1963-73). Following the argument of this article, this list also excludes civil wars. Civil wars differ from international wars, not in the ferocity of combat, but in the issues that engender them. Two nations that could abide one another as independent neighbors separated by a border might well be the fiercest of enemies if forced to live together in one state, jointly deciding how to raise and spend taxes, choose leaders, and legislate fundamental questions of value. Notwithstandingt hese differences, no civil wars that I recall up set the argument of liberal pacification.

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CORSIVO

parte seconda L’analisi empirica

Raffaele De Mucci

How Many Waves of Democratization?

1. Three Waves of Democratization The process of democratization is a very complex topic. The complexity derives not only from the definition that one might give to the word democracy, which still represents an ongoing debate, but also from theorizing about the causes, the determinants, and the actors which trigger the transition from an authoritarian regime to a more democratic one. On the topic of democratic transition, for example, there is a dispute on whether certain regimes are better understood as being “in transition” towards a fully democratic regime – what Dahl has called Polyarchy (Dahl, 1971) – or if it would be more appropriate to consider them as new authoritarian regimes featuring a number of “cosmetic touchups” which allow them to gain greater legitimacy in the eyes of those who require reforms in that direction. This diatribe comes from a further contention among scholars: how long does it take for a regime to complete a definitive consolidation of the process of democratization? The question is a very controversial one, especially if one considers the extremely different cases in Central and Eastern Europe where democracy has taken hold in a relatively short timeframe, and others in which the status quo was maintained for decades. According to Samuel Huntington, three waves of democratization can be identified. The first wave (1828-1926), the longest one, was limited to the Western world – Europe and the United States – and was based on a push for domestic liberalization that later resulted in free trade agreements with

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other states. The second wave, which theoretically began in 1922, had a different impact and extension, and involved the remaining European States with underdeveloped democratic regimes, following the good practices of the others as a result of so-called “democratic contagion”. In the meantime, Asia, Africa, and Latin America imported diverse forms of democratization as the last remnants of European colonialism. Franco's The third wave of democratization began with the end of the Franco regime in Spain and the democratic transformation of Portugal in the nineteen-seventies. The collapse of the ussr as a rival ideological and military power in the bipolar world facilitated the diffusion of democracy thanks to the socalled “halo effect”, i.e. the spread of a certain phenomenon (in this case democratization in a limited geographic area). Unprecedented economic growth driven by the liberal model then led to the arrival of economic capital in non-democratic systems. Such capital eventually resulted in a process of political and economic liberalization in the same systems. It is, however, important to recall that the spread of democracy might not only be pushed by economic factors but also, and sometimes especially, by cultural and ideological values (Huntington, 1993). Democratization has always been supported by the West as a means of counteracting communist totalitarianism. The new role assumed by the Catholic Church which after the second Vatican council projected itself more clearly in the dimension of supranational institutions should be noted in this regard. Unlike in the previous waves of democratization, during this third wave the democratizing States were part of a broader project of reorganization of the system of international relations, becoming increasingly compliant with respect to the interests and political models of the West. Conversely, it is also possible to emphasize the presence of a regressive effect in some States that have gone from a dictatorship to liberalism in various critical periods of contemporary history. The result is the process of passing through both the flow and reflux phases of democracy. A few years after the

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democratic flow phase began, the reflux phase resulted in the transition of ten States from liberal systems to dictatorships (with authoritarian or totalitarian patterns)1 (Doyle, 2005). The Second World War instead brought about a new wave of democratization which involved previously absolutist States – including Italy, Germany, Austria and Japan – which after having militarily lost the Second World War began to undergo a process of radical internal change through democratic reforms. This wave of democratization ended, depending on the specific case, either with reconsolidation or with the establishment of a democratic regime (Morlino, 2000), which was then followed – during the Sixties and the Seventies – by a period of “reflux” involving the downgrading of some of the same States to non-democratic regimes. Democratization therefore did not have a stable outcome in any of these States, and indeed proved fragile in many contexts. The different ways of adopting the democratic model in the particular domestic context of each state made it impossible to reach a new homogeneous global status (Panebianco, 1997). The birth of some “fast” democracies in fact created a category of “defective democracies”, in which the democracy is purely electoral, while the real requirements of democracy are not enacted2. Fareed Zakaria wrote: “For the vast majority of the world, democracy is the sole surviving source of political legitimacy. Dictators such as Egypt’s Hosni Mubarak and Zimbabwe’s Robert Mugabe go to great effort and expense to organize national elections – which, of course, they win handily. When the enemies of democracy mouth its rhetoric and ape its ritual, you know it has won the war” (Zakaria, 2003). 1. The undemocratic reflux first struck Chile in 1924 and then Italy, Germany, Austria, Poland, Latvia, Estonia, Czechoslovakia, and Argentina. 2. The requirements of democracy according to Diamond [1999], include: a) recognized and protected civil and political rights; b) the principle of the Rule of law; c) the judiciary and independent administrative authorities; d) active and pluralistic society, with media free from state and/or government control; e) civilian military control.

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2. Exporting Democracy The present period can be defined as a “fourth wave of democracy”. A wave of democracy in which, however, the instruments of democratization are different, the actors are many and they each possess diverse strategies and timeframes for implementation. The tools used to export the processes of democratization have changed and vary between two extremes: peaceful processes (soft-power policies such as the eu’s action taken with cfsp and other agreements including partnerships or associations), and force-based processes (for example, the u.s. intervention in Iraq). The United States has almost always tried to export democracy through direct intervention by way of military operations. It is interesting to investigate cases in which the United States has used force to export democracy. The surprising result is that out of 23 attempts in different States, the United States has been successful only in 22% of cases, which means that they have managed to introduce democratic reform in five contexts. COUNTRY

YEARS

SUCCESS

2005-2011

No

Kosovo

1999

No

Bosnia

1995

No

Haiti

1994-1996

No

Somalia

1993-1994

No

Panama

1989

Yes

Grenada

1983

Yes

Cambodia

1970-1973

No

South Vietnam

1964-1973

No

Laos

1964-1974

No

Dominican Rep.

1965-1966

No

South Korea

1945-1950

No

Iraq

How many waves of democratization? COUNTRY

169

YEARS

SUCCESS

Japan

1945-1952

Yes

West Germany

1945-1949

Yes

Italy

1943-1945

Yes

Dominican Rep.

1916-1924

No

Russia

1918-1922

No

Cuba

1917-1922

No

Haiti

1915-1934

No

1914

No

Nicaragua

1909-1933

No

Cuba

1906-1909

No

Panama

1903-1936

No

Cuba

1898-1902

No

Mexico

The table above shows the cases and the relative outcomes of various democratizing efforts on the part of the United States. The American achievements in Panama (1989) and Grenada (1983) were almost guaranteed by the limited geographical size of the two states and by their much smaller military forces. Failure was almost impossible. Japan was completely destroyed, and was the first in the world to have suffered the unspeakable atrocities of the atomic bombing of Hiroshima and Nagasaki which ultimately forced the country to surrender without condition. On the contrary, in Germany, divided into East Germany and West Germany (under the control of America), democratic reforms were essential, also because Germany itself experienced the very meaning of democracy, and was also subjected, like the rest of Europe, to the lacerating experience of the war, making the acceptance of democracy a necessary consequence. For what concerns Italy, however, Daniele Archibugi wrote, “To export democracy is an American dream. And it is a dream that Americans

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provided for the European people. Every Italian can recall the glorious days of the summer of 1944 and the spring of 1945, when the major cities of the country were liberated by allied troops. We use the term ‘liberated’because this was the feeling of the vast majority of the Italians who, with the arrival of the allies, saw the end of Nazi and Fascist brutality, of the civil war and of air raids. At the time, however, the allies referred to Italy as an ‘occupied’country, since it was an ally of active Nazi Germany until September 1943” (Archibugi, 2005). In short, the success of the democratization “operations”, led by the u.s. after the Second World War, essentially followed military logic. Three states (Italy, Germany and Japan), destroyed by the war and affected by an extensive experience of totalitarianism, had certainly been submitted to the new international order. We can then advance the hypothesis that the exportation of democracy with the use of force can only achieve positive results under certain and specific conditions, among which is internal consensus of the interested States of their citizens or their representatives – for the adoption of democracy. In this regard, it is suggested that there are three basic factors that can influence the success of military occupation: a) the perception that the presence of a foreign state in the domestic territory is critical to their survival, b) the existence of an external threat both to the occupied state and to the occupant state; c) the guarantee of the occupant state with respect to its possible withdrawal (Andreatta, 2005). It is easy to understand why the Americans were successful in their interventions in the Axis countries. It appears that the most suitable means for the exportation of democracy include the avoidance of violence, such as diplomatic pressure, and political support and economic penalties and/or incentives relative to the opposition. Either way, the cost of exporting democracy by force is excessive and over time is increasingly ineffective a fortiori when it comes to average powers such as Iraq. Force becomes an irrational choice, and may in fact increase the risk of regional instability. The case of Iraq, for example, has generated a constant crisis in the

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Middle East and the tension triggered by u.s. troops on the Iranian and Syrian fronts has undoubtedly contributed to an exacerbation of the crisis. That said, the traits of the “Fourth Wave of Democracy” as a new stream of democratization are yet to be definitively identified. to the Twin Towers 3. The Fourth Wave of Democratization a sort of Kantian The attacks of 9/11 provided an additional dimension in the process of democratic diffusion. In the other waves the formal objective was “perpetual peace” through the creation and consolidation of global economic interdependence as a means of establishing planned cooperation between states on the one hand, and on the other, opening the doors to diplomatic means and negotiations through the politicization of interstate conflict. The new wave of democratization virtually began after the attacks, which further to the claim of Al Qaeda, was responsible for killing nearly 2,986 people. Indeed, the importance of this event was that it made American foreign policy-makers increasingly conscious about the importance of putting pressure on Arab regimes, as well as Iran, and to attempt to transform Pakistan into the main regional ally in the war against terrorism. Since the attacks the eu has also become active on this front, albeit with a softer form of foreign policy than the American one, but nonetheless with the same goal: to democratize the Middle East, attempting to mobilize indigenous civil societies by involving them in a process of democratization3. 3. Among not democratic states, Syria didn’t apply all the mandatory provisions of the United Nations Resolution 1559 of 2004, with respect to complete withdrawal from the Lebanese territory: this military presence hindered the democratization process in Lebanon and conditioned in a decisive way the atmosphere of Lebanese politics. Syria opposed Resolution 1559 contained the call for the strict respect of the sovereignty, territorial integrity, unity and political independence of Lebanon under the sole and exclusive authority of its own Government.

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The u.s. administration of G.W. Bush created a project called “the Great Middle East”, which embraces the Arab states, Israel, Turkey, and extends to Iran and Afghanistan. The u.s. President explicitly said that democracy should be spread and even forced upon the rest of the world. In 2004, the President explained to the press what has become known as the ‘Bush doctrine’: “America is pursuing a strategy of forward freedom in the Middle East. We’re challenging the enemies of reform, confronting the allies of terror, and expecting a higher standard from our friends. For too long American policy looked away while men and women were oppressed, their rights ignored and their hopes stifled. That is over, and we can be confident. As in Germany, and Japan, and Eastern Europe, liberty will overcome oppression in the Greater Middle East”. As can be noted, the U.S. administration therefore included the security dimension into the very meaning of the term democratization, a characteristic that probably represents the most important trait of the Fourth Wave. The first time the Great Middle East plan was officially presented was in June 2004, during the G8 conference in Sea Island, The United States. The American goal was to politicize the question of democratization in States with a Muslim majority in order to circumvent the possibility of an ideological conflict. The u.s. administration was successful in obtaining the support of Europe. The American project was meant to enact democratic reforms and to support the democratic élite in the individual national contexts. The plan consisted of multiple aspects: the first being basic political democratization and the granting of free elections, while the second, included social aspects, such as education and culture, and the third and most important aspect was the economic one. The u.s. therefore created a new global agenda in which the democratization and dissemination of human rights in the Greater Middle East were primary targets. The politicization of the problem was rather rapid since the United States government was able to involve a considerable number of actors, all directly or indirectly connected to the process.

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The aggregation of the states proved to be the easiest stage of American diplomacy. The inclusion of democratization on the agenda of the G8 conference was crucial for the American project. The G8, the group of the most industrialized states in the world and which control the majority of the international market are obviously interested in the political and economic stabilization of the global system. The theoretical and the operative phases of the problem then follow, namely, the creation of common rules and institutions in order to develop a global public policy capable of dealing with the problem. The problem has also been concretized by the power élite in the states that take part in the project. By applying the studies on democratic transition to the new context, it is possible to obtain interesting results. For the geographical vastness of this new wave, it was necessary to adapt various insertion strategies in different contexts, different methods and, finally, different outcomes. These are states that have forms of state and government that are quite diverse. They include monarchies (Morocco, Saudi Arabia), sultanates (for example, Kuwait and Oman), republics (Egypt, Tunisia and Libya), and principalities4. The characteristics of the new wave of democratization can be summarized in the following points: a) The geographical constituency of the phenomenon includes the many different natural and structural states hit by the wave, which, however, are closely related in terms of a single religious-ideological glue that is Islam: they are all states with a Muslim majority and that have Islam as the state religion, with the exception of Israel and Lebanon5. b) The actors who act as powers in this wave of democracy exportation are different and use diverse strategies and foreign policies. The u.s. has taken up varying positions between the two extremes of peace and aggression. They 4. For example, the Emirates. 5. Obviously the Greater Middle East also includes two democracies, Israel and Turkey (with reservations).

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have also adopted customized foreign policy that differs in each case. War was used in Afghanistan and Iraq in order to install democracy, but economic incentives were used with Egypt, Tunisia and Pakistan. Obviously economic aid was distributed in exchange for political positioning, especially in terms of support for the war against terrorism. The eu, however, is interested in the Mediterranean, the North African states and Turkey. The action of individual European states cannot be neglected: for example, in the case of Iraq, the unveiling of the ill-concealed divergence between Italy and Spain has assumed great importance. The military option must be flatly excluded from the collective agenda of the European Union, at least until the eu specifically equips itself with its own army to be used for this purpose. In fact, the eu with the currently available means, acts only through so-called Civil Power. The emergence of international organizations – especially the un – as apparently collaborative actors has contributed to the dissemination of human rights and furthered the process of democratization. The power to control longterm economic flows and to manage system resources is to therefore directly affect foreign policy, sometimes leading to the provocation of internal de-legitimization of the state itself against its citizens, causing failure in the maintenance of internal economic policy commitments. The states therefore, in order to enter the international market and make use of the benefits of “image feedback” in domestic economic policy must take ownership of the new tools that ensure the division of International Labor under the new global order; sine qua non for the presence of multinational corporations in their unconditional submission to the new wave of democratization. c) The exploitation of multinational enterprises by superpowers, addressing solutions for the main economic problems within the states that were experiencing the transitional phase, as well as the erosion of the capacity of states to control internal resources, is designed to

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make the states directly accountable for the use of these resources, inducing them to the system of the World Economy (Parsi, p. 99). In fact, when corporations become actors who negotiate with states to decide on intervention strategies within the context of the state, they can become indirect means of another state (Superpower), that controls such penetration. Therefore, the State that holds the structural power must be able to adequately manage it in order to allow multinational corporations to act as instruments of its economic policy. d) The effect of the new wave of democracy in contrast to other waves will be slow, without any catastrophic changes. The reason for this change is a desire to create strong democracies without the risk of a return to the former patterns of democratic reflux. In fact, the actions of promoter democracies are both slow and deliberate and cover both the popular aspect (increasingly approaching the people of the affected area by way of the reforms, through cultural exchange and by employing all possible communication channels), and the political aspect, providing support to current systems in order to avoid creating situations of regional chaos, without losing the ability to exercise diplomatic and economic pressure. For the first time the superpowers are giving the possibility to the power élites, obtained without democratic elections, to be part of the leadership advancing democracy, guiding both the process of democratization and the dissemination of human rights. The task of neutralization of hosts is also entrusted to current leaders through a process of granting benefits and privileges to military élite in order to ensure their abstention from political life. e) To create serious and capable pressure that is politically empowered to play a vital role of opposition, something that requires cooperation between the actors, representing yet another important element of new democratization. The challenges of the fourth wave of democracy are not the usual obstacles that have threatened the old streams

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of democratization (Prezeworski, 1986). Democratization also means accepting a new reality, the secularization of the State, or the complete separation of religion and the State. One of these obstacles is represented by the resistance to the spread of democracy by Muslim countries in which religion is traditionally central and constitutive to the organization of the state. The degree of Islamism in the State is different from one context to another. The phase of secularization must therefore adapt to various contexts. The eventual outcome of the divorce between religion and state will surely be a tough battle where religious minorities are important players. Usually, in fact, the minority religions, other than Islam, are discriminated against because of their religious stance. This gave the International organizations dealing with human rights6 the opportunity to intervene upon their request as a means of creating internal pressure on governments. Even authoritarian systems that can appropriate resources to deal with this new wave are sometimes international regimes. The Arab League, for example, is a form of an international institution that is not part of any democratic state. The official position of the Arab League has always been opposed to the American and the European positions with respect to the Greater Middle East or eu-American pressure for democratization and the diffusion of human rights. In fact, the cooperation of many Arab states is founded on the common interest of preserving their authoritarian regimes, another form of political resistance to the new wave of democratization. At the same time, on the other hand, their cooperation in the context of international security – and, in particular, in the War On Terrorism – sometimes obliges the actors to underplay the assets of democratization with regards to the internal situation and the progress of the reforms. The vagueness of the American 6. For example, the Coptic minority in Egypt, which constitutes 10% of the population, undergoes systematic violations of human rights (as demonstrated in annual report of Human Rights Watch 2006).

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project in the Greater Middle East involves many ambiguities and inaccuracies. The old experience of democratization has always been characterized by the so-called “democratic invention” that gave space to internal actors (internal promoters of democratization, such as democratic parties, reformists, individual politicians, etc.) to invent their own original democracy. This free degree of choice in the new wave, however, almost does not exist. Instead the democracy being exported, following the euro-American model, only superficially considers the specificity of contexts and largely neglects the diversity of cultures and values. This universalization of Western democracy will make the conflict and the rejection of democracy even more difficult. These outcomes are likely to come not only from the systems, but also from the people whose social individuality and cultural heterogeneity are neither recognized nor respected. Then, the presence of a large number of active players in this wave of democratization, and a variety of diplomatic, economic, or other tools involved in the export of democracy, requires these actors to cooperate and combine their agendas. It is almost impossible to have a single agenda because such actors also have their own internal interests, especially the u.s. and the eu (both collectively and individually). One must not forget the play of hegemonies: each actor tries to act individually in order to obtain legitimate control over other states. Hence the danger that all the elements which characterize the global system may lead to disorder and confusion in international relations. 4. The “Twin Tolerance” model More than twenty-five years ago the fundamental publication Transitions From Authoritarian Rule, Prospects for Democracy was published (O’Donnell, Schmitt, Whitehead, 1986), inaugurating the third-wave democratization theory. More than fifteen years have passed since the publication of Linz and

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Stepan’s Problems of Democratic Transition and Consolidation: Southern Europe, South America, and Post-Communist Europe (Linz & Stepan, 2011). Looking back, what do we find useable or applicable from earlier works on democratization and what concepts now need to be modified? In particular, what new perspectives have come to light during the recent uprisings in the Arab world? Here we focus on a topic that has been illuminated by the events of the Arab Spring: the relationship between democracy and religion, especially in the world’s Muslim-majority countries. Conflicts concerning religion, or those between religions, are not considered as important factors in either the success nor the failure of third-wave attempts at democratic transition. The Roman Catholic Church played an important and positive role in the democratic transitions in Poland, Chile, and Brazil. But conflicts over religion, which were so crucial in Europe in earlier historical periods, were not so relevant. That is precisely why religion has been under-theorized in the scholarly writing that concerns the third wave. There is, however, a perceived or actual, hegemony of religious forces preceding over a large part of the Arab world’s civil society. The central role that Islam has played in the Arab Spring therefore presents students of democratization with a new phenomenon, prompting them accordingly to come up with new concepts and fresh data to shed light upon the same. On the contrary, Samuel P. Huntington argued that religion, especially Islam, would set major limits for further democratization, suggesting an exploration of what democracy and religion need and do not need from each other in order for each to flourish. The question is: what is needed for both democracy and religion to flourish? The answer is that a significant degree of institutional differentiation between religion and the state is necessary. Stepan summed up this differentiation as “twin tolerations.” In a country that lives by way of two tolerations, religious authorities do not control the democratic officials who act constitutionally, while dem-

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ocratic officials do not control religion so long as religious actors respect the rights of other citizens (Linz & Stepan, 2011). Many different patterns of relations among the state, religion, and society are compatible with the notion of twin tolerations. There are, in other words, “multiple secularisms”. Such issues put into question the political wisdom of John Rawls’s injunction to take religion “off the political agenda” lest it interfere with the “overlapping moral consensus” that democracy requires. If democracy-inhibiting religious arguments are already on the political agenda, should Muslim leaders and activists who favor democracy not vigorously enter the public arena to demonstrate, from within their own tradition, that Islam and democracy are in fact compatible? Moreover, would it not be a good thing if more people in Arab countries – where “secularism” is too often seen as intrinsically hostile to religion – knew of the progress that Indonesia and Senegal have made in terms of relating religion, the state, and society in ways that are friendly to both Islam and democracy? 5. Variables of democratization From a purely scientific point of view one can successfully conduct an analysis of the key features that affect the initiation of a democratic process, with high probability that it will have a positive outcome, at least in the conquest of some fundamental civil and political rights, which, however, is in itself insufficient for the declaration of successful democratization. 5.1 Socio-economic development In the numerous researches on the topic of the close correlation between the level of socioeconomic development on the one hand, based on both the level of per capita income and on social development indexes, and the general condition of health or literacy levels on the other, it is possible to

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find some lines of harmony. Modernization theory reports on the phenomenon, causally corroborated with solid statistical data, arguing that intermediate levels of development are fundamental to the introduction of democratic consolidation, as is fostering professional and class differentiation, that also in their rise further claims for liberalization. There would be a “grey” area, between the level of those too poor to encourage the social and cultural transformations required for the introduction of such a process, and high-yield ones, which are already complete democracies. This is confirmed by the case of Eastern European Countries, which all have high levels of income to which high rates of democratization correspond, as seems to be the case even in countries such as Mauritius and Botswana, which have Welfare, or the vision to the contrary, the case of Venezuela, where strong authoritarian sliding has occurred, corresponding to a decrease in income during the ’90s. Others, like Przeworski, consider a sustained level of economic growth to be more influential, an influence that suggests the possibility of consolidation, rather than introduction. Still others, like Boix and Stokes, looking at authoritarian countries with high levels of growth, consider the distribution of income to be necessary for the growth of the middle class and in order to have requests for liberalization. More recent studies, however, have pointed out that all these views are crucial to the introduction and consolidation of a healthy democracy, influencing one another. The question that arises by looking at the data, which are currently inconclusive, begs one to ask if social and economic development are necessary to promote democracy or is it the democratic regime that facilitates development? Then there is another possibility: that social and economic development are not the variables to be taken into consideration, but instead, the crisis variable should be considered. Are the developments in Latin America, the latest cases of democratization, not genuinely occurring during a period of serious economic difficulty, as was also the case of the countries of Eastern Europe and the former Soviet Union. In

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Poland and Hungary the wages and reduction of GDP led to drastic economic reforms questioning those who prepared the Communist system for the radical transformation of ’89. Something that is remarkably similar to sub-Saharan Africa, a region where poverty is widespread: between 1975 and 1995, unstable contractions caused a deep crisis between the authoritarian regimes and the increasing prospects for political reform in a democratic manner. In addition, countries that between 1990 and 2004 managed to improve their democratic status experienced almost no growth, or growth similar to that of the countries where the situation worsened. The crisis further spread discontent towards the regime, democratic or authoritarian, pushing towards underdeveloped democratization, or even a backflow towards authoritarian regimes. Przewoski seems to confirm this line of thought, stating that economic crises, especially when prolonged over time, seem to correlate with a crisis of democracy or a deterioration of its performance, leading to the pattern of crisis-regime-crisis. In addition, while the countries with the highest indexes of socio-economic development are often also those with the highest level of democratization, the exceptions to the rule seem to very, even if not they are not too numerous: Bolivia, with an interior threshold income level that is decidedly in the “grey zone” and with a human development index among the lowest in the region, manages to maintain a democratic regime. Or, from the opposite side, Cuba, one of the few true authoritarian regimes in the region, has income levels and human development among the highest in the region, is without a democracy struggling to fit it. The same situation presents itself in Eurasia in countries such as Belarus and Kazakhstan, or even Russia, which boasts income levels comparable to the Baltic but is coupled with poor performance in this respect. Similarly, Asian countries such as Malaysia and Brunei have excellent levels of socio-economic development but certainly aren’t democratic, or on the other hand, poor countries like Mongolia, Bangladesh, and India in particular, where good levels of democracy have been established and maintained.

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5.2 Form of Government Globally it appears that the parliamentary system combined with a proportional electoral system is the best option for a democratic transition regime, both due to its ability to ensure representation and broad coalitions, and due to the opportunity to resolve deep conflicts, while the worst form would be presidentialism because it grants excessive exposure to certain characters and increases the conflict between political parties which could then be exploited in an authoritarian reflux. This is particularly evident in the African continent, where beyond constitutional provisions, all power is often centralized in the hands of the President who frequently understands the State heritage to be his own. The danger of presidentialism is also demonstrated in Eurasian countries like Georgia, Armenia, or Kyrgyzstan who have decidedly authoritarian governments. Democratic instability due to the presidential system may, however, work very well on the contrary: the case of Venezuela with the ascent of President Chavez demonstrated that a centralized institutional structure, such as theirs, which, however, does not have adequate institutional powers, can be particularly fragile. Semi-presidentialism, where it has been implemented, has proven capable of promoting an excellent balance between institutions and governability, flexibility being guaranteed by the ‘two-headed Executive’. The division can, however, be a source of tension, especially where a highly fragmented party system is present. The benefits derived from this form of Government, however, outweigh the potential problems. An example of the best yield of parlamentarism, and also its relative exceptions, is the case of Malaysia and until recently, Singapore, whose role essentially destroys freedom: the broader the powers granted to national parliaments are, in particular, in terms of dealing with the President, the strongest tend to be the parties and party systems, which are even better for the protection of freedom. Often diverse political architectures have different values with respect to the original

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Western model, a unique mixture of democratic forms and pre-existing power structures. Political systems and parties: the institutionalization of democratic transition helps parties because they are the instrument through which the élite in favor of democratic projects can neutralize hostile social hierarchies, making alliances with forces and groups initially opposed to democracy, or representing subordinate groups and ethnic minorities, providing a democratic solution to the political conflict. It was noted that in a large number of new schemes, a party identity crisis can be found, as these are not easily peaceable on the left/right axis and are also poorly rooted in the territory, which causes high rates of electoral volatility and fragmentation. Such failure is due to the absence of a conflict between the industrial bourgeoisie and the working class during the interwar period. The governmental instability that may arise in this case would be a source of democratic weakness. 5.3 Civil society Civil society is a space that is distinct from free association between citizens according to preferences, beliefs, and different ideologies that pose as a bulwark to governmental power in any scheme it implements. This feature contributes to consolidating the democratic regime as is the case in Latin America, where left-wing parties, for pragmatic reasons, have moved towards neo-liberal positions, leaving a large strata of the population without protection, voids that were later filled by civil society. Often, however, this role as an intermediary between the rulers and the ruled is traditionally carried out by parties and as a symptom of the weakness of the party system, can intrude into relations of clientage and co-option. In addition, civil society was essential at the moment of introduction of democracy in the democratic countries of Central and Eastern Europe, where the political transformation was initiated by vast popular mobilization, and similarly in the countries of sub-Saharan Africa, where since 1990, the

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events calling for more transparent accountable and democratic Governments have increased, going hand in hand with the establishment of civil and political rights that were originally denied. The same can be said of the Asian region, where boycotts, strikes, and demonstrations have been organized demanding the recognition of political rights, putting in motion the process of liberalization that resulted in democratization. However, if nationalistic movements take on character, the outcome could be contrary: if nationalist mobilization takes place at the same time or after the disintegration of the old regime, the democratic transition will be easier and the new system more stable. If the protests explode before the political crisis, then follow a democratic crisis or transition, they will be delayed. This is the case of Armenia, Croatia, Georgia, Kosovo, Serbia and Slovakia. 5.4 Religion Democracy has long been associated directly to Western countries and consequently to the Christian religion, while it would be hampered in societies with different cultural and religious traditions such as Confucianism, Islam and Orthodox Christianity. In fact, these pessimistic assumptions seem to be the result of dogmatic views and rulings. The religious factor assumes importance only according to the attitude of the clerical hierarchy. Orthodox Christianity in Eastern Europe has been accused of supporting the historical power, never having doubted the legitimacy of political regimes. In fact, in these countries such passivity is not to be confused with hostility towards the democratization process, since it acts perfectly in line with the division between spiritual power and temporal power. On the other hand, the Russian Orthodox Church, and not religion, seems to constitute an obstacle to the prospects of democratic consolidation. It has an opposite effect in Africa, where the Christian churches have played an active role in the processes of democratization in the area, criticizing the authoritarian regimes and

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facilitating the establishment of new political spaces, while in some countries, the main religious leaders eventually built privileged relationships with political powers, hindering the democratic process, and in the extreme case of Rwanda, the churches were even involved in serious violations of human rights. Instead, the Islamic party of the African population does not contradict this principle, as being religious, it is perfectly compatible with the establishment of democratic regimes in countries such as Senegal or Mali, where there is a relationship between the Islamic faith and civil society, characterized by patterns of reciprocity, trust and social solidarity. Even in countries such as Turkey, Algeria, Morocco, Jordan, and Egypt, the strong identification with Islam has limited impact because the values of democracy, which appear to be relatively fragile, are appreciated by those who attend mosques. The same situation is found in Asia, where Confucianism, with its desire for social harmony and strong central authority, did not stop the process of democratization in countries like Taiwan or South Korea. On the other side of the coin lies Buddhism which enjoys fame for being based on ethics and robust equality, and is the dominant religion in countries such as Cambodia, Vietnam, Laos and Myanmar. In Thailand the national Sangha, the official Buddhist order, collaborates in legitimizing political authority and internal dissent is often extirpated. 5.5 Political culture Political culture helps strengthen both the advent and the consolidation of the democratic regime. When combined with the assertion of the rule of law and economic well-being, it provides the necessary legitimization for democracy to avoid an authoritarian reflux. Two elements are essential for a political culture that is conducive to democracy: a social basis of solidarity and mutual trust and the ability to distinctively maintain its scheme in spite of the elected Government. The disappointment of expectations of the second thus does

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not undermine the legitimacy of the first. Numerous statistical research projects demonstrate that free or partially free schemes enjoy higher consensus than the major type authoritarian regimes, demonstrating that often for these populations, despite the short life of the democratic regime, such a distinction is clearly visible. 5.6 Statism Political change in Central and Eastern Europe has highlighted the importance of the State element. A weak or absent State seems to make the process of democratic transformation more difficult, an obviously crucial issue in many countries of sub-Saharan Africa. In order to “measure” this, some of its key features must be examined, such as that of the monopoly of the legitimate use of force within national boundaries, to ensure public safety, to collect taxes, to run the country and uphold its laws with honesty and transparency, to define the main public policies and their implementation by providing the political instruments deemed most appropriate. In the region of sub-Saharan Africa one may observe the lack of all these elements, some in conjunction with individual countries: military coups have characterized the entire post-colonial history of the area, although the number of coups d’état decreased over the 1980-2001 period. Central governments are weak and unable to cope with serious emergencies, chronic poverty and aids epidemics. The State budget is often very limited, and in some cases it is impossible to collect taxes, since most of the population is across vast rural areas. Such areas are constantly put in in crisis as a result of gangs or traffickers in human beings, drugs, precious stones, oil and weapons. The same situation is also found countries in Latin America, such as Colombia, perpetually putting it into crisis in terms of armed struggles and warfare between drug traffickers and security forces. of al posto di in

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5.7 Army The influence of the military depends primarily on the role that is played in their respective countries, the critical factor being the military’s subordination to democratic authorities. Their strong presence can continually threaten infant democracies This is the case of military regimes, representing frequent episodes in the history of Latin America, where electoral experiments in Peru and Argentina have failed as a result of the strong conflict between military and political movements, and especially in sub-Saharan Africa where the military has performed coups d’état at an alarming rate, where the armed forces have been privatized, transferred by the State to groups of mercenaries that are personally managed by corrupt leaders. Alternatively their involvement in politics can exacerbate the conflict between political parties, bringing them into the battle, as evidenced by the case of Thailand or Cambodia, where in the latter case, often the “political competition” takes the form of genuine pitched battles. 5.8 International factors The influence of international factors is extremely visible. The success of the process of democratization in a country that stimulates the initiation of democratization is not always the same in other countries, because this appears to be the solution to specific problems, because those countries have always been models for imitation, as is the case of the countries of the European Union for those belonging to the Eastern European Communist bloc, where they played an important role in both operations in support of democratization and in terms of widespread monitoring of the progress of these countries, an aspect that is also crucial for democratic consolidation. As Przeworski noted, the greater the number of democracies in certain a region or throughout the world, the chance of strengthening the same in individual countries becomes higher. Not only, but this effect is independent from the direct

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action of Western Governments or international institutions. The latter, however, has played a nearly constant role in the processes of democratization. The push for democratization having failed with the end of ideological confrontation of the Cold War, and the United States, often plays a scaled back role when there are no specific economic or strategic interests at stake. The budgetary deficit and September 11th have further reduced the ability of the u.s. Government to engage in expensive promotional campaigns for democracy. However, in recent decades there has been a change in attitude in terms of the main international economic organizations reinforcing of the primary State actors. Instead of punishing regimes that hardly initiate democratic reforms through the reduction of economic aid, reinforce such schemes and causing political crises in post-authoritarian regimes, policies of political conditionality have been adopted which involve more than the application of the principles of the market economy, including those of pluralist democracy, strengthening the commitments of diffusion processes. Often, however, apart from the allegation of electoral democracies, this process was incorrect, and while the first elections were celebrated, the push for democratization was not. In addition to the action of States, the work of many ngos dedicated to supporting democracy throughout the world should not be forgotten, especially after recent events. The importance of mass media and especially that of the Internet which has facilitated the circulation of information and developing alternative lifestyles in “not free” countries deserves mention. International factors can also be considered from a historical point of view: the end of the Cold War, the largely unspoiled virgin image of democracy in the world, with the crisis of the alternative Communist models, or even the colonial experience in African countries, and the Middle East and Asia, has heavily influenced the chances of rooting democratic institutions and practices, and the legacy of a political geography imposed by the Western powers completely alien to the characteristics of the local society for the rapid grant-

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ing of independence, without which they could develop the training and experience necessary for the proper functioning of a modern State apparatus and promote greater familiarity with elections and diverse forms of Government. Considering any of these predominant factors in the process of democratization is beyond simplistic and is even inappropriate. The complexity of the study of these processes is derived from the influence that each of these factors plays not only in the process, but even among themselves, with degrees of intensity that vary depending on the context. This complexity is further exacerbated by the existence of a series of local elements, be they on the regional or country level. As examples, the identity crisis of parties in post-authoritarian regimes can be noted with a potential for generalization, less so the case in the countries of Central and Eastern Europe because of accession to the eu, where the employment of large partisan families is European from a pragmatic viewpoint, in the sense of alliances with influential parties in the European Parliament, now leveling identity positions in terms of party politics. This obviously cannot be the case with political party systems on other continents. Or considerations relating to African civil society, where it cannot play a role similar to that played in Eastern Europe or in Latin America, not only because of the high poverty rate but also because there is disenchantment derived from exclusion from the benefits of political change, something which is intimately tied to the history of the region. Democracy in certain countries such as Mali or India is explainable by way of local elements, where the presence of a traditional culture is dominated by elements of mutual trust, tolerance, pluralism, separation of powers and responsibility of the leaders towards the rulers, all important prerequisite elements for a democracy, while in India the presence of a local economic and trade communities that during British rule led to the creation and development of associations and interest groups are crucial. In North Africa and the Middle East a local aspect that clearly differentiates it from other regions is the presence

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of large amounts of oil. Traditional political forms are supported by wealth from oil, which allows for the diffusion of a large welfare population, damping instances of increased participation, further weakened by the self-financing of the State resulting from the sale of oil, thus having very little ELIMINARE fiscal pressure which makes the principle of “no taxation LAofFRASE without representation” inapplicable. BeingTUTTA the holder the EVIDENZIATA possibilities for success or economic failure, in the area-restricted models of social and political circles that administer resources, natural resources or international aid, managing an elaborate patronage network of relationships strengthening a position of substantial predominance. Conclusion The limits of the democratization process paradigm predominantly arise from the enormous complexity of the subject. Unlike the natural sciences, it is very difficult, if not impossible, to isolate certain phenomena in attempting to make a generalization, and second, it is difficult to make all plausible connections between independent, dependent and intervening variables, or even to identify all possible variables. Moreover, diversity, ingenuity and surprise are what distinguishes human consciousness from matter, and it is also what makes the lives of political scientists more difficult than those of their natural science counterparts, because political science necessarily studies the least scientific element possible, that of man. These are the reasons for which a general theory of democracy is far from being on the horizon. In order to capture at least the most common and most important features, one should carry out a global research project, where a team is present in each country to examine the local characteristics in detail. Once such research is completed, a deduction of the trends common to all regions could be furthered. The incompleteness of the matter is visible both in anticipation

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of the possibility that democracy will arise in some countries, (there are too many exceptions in the various theories currently in vogue, but this is a highly subjective judgment), and in the prediction of an absolute impossibility for the democratization of Eastern Europe according to all political scientists and experts in the West before the arrival of Gorbachev, including Huntington. As a conclusion there is the failure of the “Arab Spring”, which some today already consider to be the fourth wave of democratization. Assumptions in this area exist. It has been noted that in recent decades absolute authoritarianism was an exception among the countries of the area, in so far as authoritarian schemes were more common, and that in the end alternative policies of greater freedom will arise. It was noted that trade with more economically developed democracies has increased, as well as exposure to Western media, just as geographical proximity to Europe has benefited emigration and the education of the elite. The lack of independent media is given much weight as is the autonomy civil society, which the Government has taken, thanks to its oil wealth. The so-called “khubz” had been underestimated, the bread riots that broke out once in the traditional authoritarian States justified their presence as the premise for socioeconomic development occurred less, applications for liberalization dramatically increased. The social and job insecurity of younger people has been underestimated, in that the education system is still forming, whose condition has worsened with the economic crisis and with the extraordinary increase in the price of subsistence goods. For all this, a possible improvement in the region’s future has been planned, but certainly not in the short or medium term. The Freedom House report of 2012 noted, “In a region that looked substantially immune to democracy, two countries with an uninterrupted history of fraudulent elections, played by international observers judged elections, fair and free, Tunisia and Egypt.” But the wave of protests that started in Tunisia met the decisive and quick response of authoritarian

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regimes that have inhumanly made the cost of participation high, leading by example in this case is Syria. The wave hasn’t characterized this region, but even in China there is perhaps evidence of progressive interconnection and interdependence as a result of globalization and the net, which has promptly been met with mass arrests, detention and censorship of the media, but especially of the Internet. Even Russia has bombarded people with messages of terrible regional instability as a result of such incidents. By this process of action-reaction between protests and their responses in the year 2011, global regimes registered to Freedom House, lost freedom against authoritarian regimes. It only remains to be seen how the various above-mentioned factors will influence the future course of events, which will have more weight, and ultimately, what factors will lead to democratization. There exists a generalization that we can (scientifically or not) make, it is that democracy has really been the Zeitgeist for over half a century. References andreatta f. (2005), Democracy and international politics: democratic peace and democratization of the international system, in «Rivista italiana di scienza politica», xxxv, 2. archibugi d. (2005), Can Democracy Be Exported?, in «Centre for Global Studies Bulletin», George Mason University. attinà f. (2011), The phases of inclUSion of global issues on the agenda of the global system, in id.,The GlobaPolitical System, Palgrave Macmillan, Houndmills, Basingstoke, Hampshire, uk, pp. 189-190. boix c., stokes s. (eds) (2007), Hanbook of Comparative Politics, Oxford University Press, Oxford. brown n.j. (ed.) (2011), Dynamics of Democratization, J. Hopkins University Press, Baltimore. dahl r.a. (1971), Polyarchy. Participation and Opposition, Yale University Press, New Haven. diamond l. (1999), Developing Democracy: Toward Consolidation, Johns Hopkins University Press, Baltimore.

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The Arab Spring: a Re-Assessment

When the Arab spring revolts erupted more than two years ago, most commentators would blame political authoritarilate 2010 anism of countries likeinTunisia and (AL Egypt for those popular POSTO DELLAwere restricted and movements. True, political freedoms FRASE “democracy” there was a joke: elections were a ussr-type of mockery. However,EVIDENZIATA) observers missed something else that was a main drive for the Arab spring: the lack of economic freedom. Whilst these countries were often praised for their “reforms” in favor of business, the departure from socialism did not necessarily lead to liberal capitalism. The mockery was thus not only about democracy, but also about capitalism. Today with the transition to democracy, will things get better? One can only be pessimistic for mainly two reasons. Firstly, because this lack of economic freedom has not been Does transition to diagnosed correctly. Secondly, because democracy is more democracy complicated than it seems, and certainly does not produce improve it? miracles. 1. A revolution for what? Of course the revolution was a movement against political authoritarianism. If we take Egypt for example: for three decades, Hosni Mubarak stifled political freedoms in the country. Building on the army, from which he came from, and the powerful National Democratic Party, the Egyptian President was able to lock up the country: even the media and unions were under his heel and worked to strengthen

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his personal power. If Egypt was not usually considered to be a genuine dictatorship, it is probably because of the organization of – façade - multiparty elections, to “look good enough” for the West. But the organization of sham elections with a puppet opposition eventually left Egyptians weary. The elections of fall 2010 had proved how much “democracy” was an empty word in Egypt. If political authoritarianism can be explained by the ideological legacy of Arab socialism, influenced by the Soviet system and thus, by definition, politically authoritarian, it may also be accounted for on more pragmatic grounds: as in many other places, the willingness of an elite to “capture” the rents of the country - especially to prevent the financing of a serious opposition. This “resource curse” was probably first constituted by the revenues from the Suez Canal (about $ 5 billion in revenue) and oil (1.2 billion per year) which represent a significant amount. Then we need to factor in Western foreign aid since 1980. This was undoubtedly another reason for the ruling elite to cling to power: after Israel, Egypt was in fact the second budget item of U.S. aid, more than $ 2 billion by year (although a good half was in weapons). This assistance was of course exchanged against a pro-Western position. The West thus played the card of Real Politik in pretending to ignore the true nature of a repressive regime. First, perhaps because the country controls the Suez Canal – a crucial pathway for commercial traffic that avoids ships the circumvention of the Horn of Africa. With its adjacent pipeline, 4 million barrels of crude oil transit there daily. Second, probably in the name of Israel’s security and the “stability” of the region: Egypt is the only Arab country that signed a peace agreement with Israel, which is at its doorstep. Third, because the latter fact made the presence of Islamists on Egyptian soil all the more threatening. Yet Radical Islam is no doubt the result of a vicious circle between political and economic authoritarianism. Indeed, political authoritarianism, based on the monopolization of resources and the stifling of competition, is log-

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ically coupled with an economic authoritarianism. While efforts in the direction of development of private business were apparent in the 2000’s, much remained to be done – especially in a country that had first chosen the path of socialist economy. Egypt suffered – and still does - from an excessive bureaucracy, with multiple consequences. According to the Doing Business report the country was still poorly positioned in terms of business climate: a very bad incentive for small businesses... In 2010 the country ranked 143rd out of 178 in terms of contract enforcement, which raised the question of the inefficiency of the judiciary, which was, moreover, not exactly independent. The labor market was very rigid, many prices were controlled and certain commodities subsidized. These price controls and subsidies can relieve the population and ensure a “social peace” in the short term but are extremely harmful in the mid and long term, preventing adjustments of market supply - itself already crushed by a bureaucratic and corrupt system, for, of course, bureaucratic corruption was institutionalized in Egypt (as evidenced by Transparency International rankings). Under these conditions, it is not surprising that the privatization of large national companies were poorly received by the Egyptian street. As in Russia in the early 90s, they were conducted in part in a corrupt environment for the enrichment of a happy few connected to political power. And even when these privatizations had been carried out properly, they could cause job losses: this is not in itself a problem if you can find another job – but this becomes nearly impossible in a corrupt economy, where entrepreneurial initiative is actually suppressed. Egypt was thus trapped not only in a lack of political freedom, but also of economic freedom: preventing the creation of wealth through formal business, the system generated poverty and inequalities, with 32 million out of the 80 million of Egyptians living on less than $ 2 a day, and unemployment (in fact a multiple of the official 10% at the time) - corroding society, particularly among young graduates. Under

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these conditions, the dolefulness of the average Egyptian, even moderate, could only express itself sooner or later in the street.

UNIFORMARE CARATTERE And this situation was also a fertile ground for radical Islamism. Hence a vicious circle: political authoritarianism called for economic authoritarianism, which in turn laid the ground for radical Islam, which in turn was a useful pretext to “legitimate” political authoritarianism. Hence, the revolution was not only a reaction against political repression but also economic repression – a crucial aspect that was forgotten in most media analyses at the time of the Arab spring. One aspect of the issue, the lack of securitization of property rights, both for personal and business matters, was studied by Peruvian economist Hernando de Soto (2011a), who used the expression “economic apartheid” to depict the state of Egypt under the rule of the Mubarak regime. In 2004 “Egypt’s underground economy was the nation’s biggest employer. The legal private sector employed 6.8 million people and the public sector employed 5.9 million, while 9.6 million people worked in the extralegal sector. As far as real estate is concerned, 92% of Egyptians hold their property without normal legal title”.

Tunisia is probably even more the symbol of this “economic apartheid”, given that its “revolutionary hero” was an informal entrepreneur who immolated himself in an act of despair after his capital (his cart and scale) and his fruits were seized by the police. As Tunisian activist Habib Sayah, director of the Kheireddine Institute, wrote in an enlightening Oped (2011): the Tunisian revolt and the Arab spring started as a revolution for free-trade, a revolution for laissez-faire, a revolution for economic freedom. Mohammed Bouazizi had been prevented by the authorities of his country to do business – the small, informal business of selling fruits in order to make enough money to support his family. Hernando de Soto’s team (2011b) endeavored to understand the life of Mohammed Bouazizi and interviewed his

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family and friends in his city of Sidi Bouzid. And here’s an interesting fact, for those who focus on the Arab spring as a political revolution: Bouazizi was no political activist, nor did he care about politics. The reality was that, in his life as an entrepreneur in the informal sector, he simply did not have time for politics, being too busy trying to overcome all the obstacles, both institutional and in terms of corruption, that public authorities would erect in front of small informal entrepreneurs to prevent them from doing business. Of course we are often told that the problem is that all these entrepreneurs operate in the informal sector, which can represent a disturbance to public order. No doubt there needs to be a sense of order and organization in doing business. But if Bouazizi, like thousands and thousands of others, was operating in the informal sector and not running a formal small company although he was a hard-working man, it was not by mystery or some lack of civic sense: Tunisia’s lack of economic freedom explained it all. A few figures can be enlightening: De Soto’s team calculated that to set up a formal business would have required 55 administrative steps taking up to 142 days and costing the equivalent of $3,233 (about a year of Bouazizi’s income). The Economic Freedom of the World report in 2009 ranked Egypt as 93th and Tunisia 94th (out of 141 countries). 85% of businesses operate in the extralegal sector in Tunisia (De Soto, 2013). Tunisian “economic apartheid”, materialized in such administrative costs and restrictions for small businesses, that it literally pushed entrepreneurs in the informal, “extralegal” sector. The problem in this sector is that legal enforcement is nearly absent, thus networks need to remain small between traders who trust each other. No real firm can emerge, and thus the degree of division of labor and specialization, and of capital accumulation is very weak. With no formal property as collateral, banks do not grant loans for investment. One easily gets the picture. Political leaders in Arab-Muslim countries would not only condemn the “informal sector” but see its development as

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due to some form of culture not in line with a clean business mentality and practice. It is hard to deny that culture matters. For instance, trust, respect of the given word, punctuality, a sense of self-efficacy are cultural values that are crucial to the development of entrepreneurial spirit. But culture notmuch all. to do hadisno Incentives matter too. And this is what the story of Bouazizi demonstrates. Despite all the obstacles he faced, this simple, educated man had tried hard for many years to run his business. His “underdevelopment” problem had nothing to do with his own cultural traits. It had to do with the incentives he faced. Entrepreneurship is rooted in the African and Muslim tradition. The Prophet himself was a trader. But because growing bigger would require each entrepreneur to enter the formal economy, and that formal systems in the region are so costly, people remain in the informal sector. We have here governments that claim a monopoly on formal institutions to do business, and at the same time render them incredibly For, some operate in the extra-legal, costly. No wonder entrepreneurs informal sector, their right to pursue prosperity being denied. These countries suffered from an extreme form of crony capitalism. For some entrepreneurs were able to prosper under those regimes - those with the right connections to political power. Of course, then, these regimes were “pro-business” but certainly not “pro-market” – and that is really not the same thing. “Business” under these regimes was limited to those circles of power, the Ben Ali-Trabelsi clan in Tunisia for example. Known as “the family” (Beau & Graciet, 2009) they could expropriate people from their land, evict competitors, enjoy monopolies etc. Up to 40% of the Tunisian economy may have been in the hands of the “family” (Amedeo, 2011) whose members behaved like “true predators… They managed to enter into all major companies, getting shares at a cheap rate in order to position themselves as intermediaries in all major privatizations or tenderings, and pressure foreign groups who sought to establish subsidiaries in Tunisia to pay commissions” (Béatrice Hibou, in Amedeo, 2011).

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When one understands how the “family” system worked, the staggering rate of informal companies then receives a very clear explanation (Amedeo, 2011): “Any entrepreneur who registered his company at the Commerce and Business Registry entered in the crosshairs of the clan and was assigned special informants. When the company reached a size deemed critical, the henchmen of the presidential family would suddenly show up and would not hesitate to use all means of intimidation to obtain, at best, a stake in the company, and, at worst, its sale for a ridiculous price to a member of the presidential family”.

That regime was “pro-business” of course – but business for the presidential clan only. That extreme form of “crony capitalist” regime was at the opposite of “pro-market” economic freedom. Failure to make the distinction between the two probably explains why so many observers and commentators – and people in those countries too - omitted the lack of economic freedom as a fundamental cause of the Arab spring. 2. The future of economic freedom & development Yet the lesson is absolutely crucial for the future of these societies. Had the Arab spring been widely interpreted as a “laissez-faire” revolution, it would have certainly stirred more reflections about the role of the entrepreneur in development and initiate sound policies to promote entrepreneurship. Unfortunately without awareness of this economic cause of the Arab spring, even if some talk about “corruption”, it is hard to see a bright future for these revolutions. For, what is development? Where does it come from? Far from being an homogeneous, homothetic, mechanical process as described in the traditional theory of economic growth (even whatever minor “improvements” with endogenous growth theory), long term economic growth or rather, “economic progress” takes the form of an organic process in

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which division of labor within and between firms gives rises to new activities which can die and flourish, thus giving birth, in turn, to new specialized activities and so on. Exchange is at the heart of this organic process of increase in economic complexity. After Adam Smith, Jean-Baptiste Say and Alfred Marshall, economists such as Allyn Young, George Stigler, or gb Richardson, refined the analysis of the process. In this never-ending process, increases in both the division of labor and the extent of the market feed upon one another to generate a “snowball” effect. Although this is a disequilibrium process, the increase in opportunities for mutual gain is self-sustaining on the long run. Austrian economists took an even deeper look in that process that pulled billions of human beings out of poverty. Ludwig Lachmann, studied the role the re-combinations of heterogeneous capital resources. Friedrich Hayek explained to what extent knowledge is the essential link between economic freedom and growth: most of “economic growth” actually depends on the decentralized seizing of opportunities by each of us – opportunities revealed by a knowledge of particular time and place, that only each of us possesses. Without economic freedom, it is impossible to seize many of these opportunities, and growth simply does not happen. In this organic vision of economic progress, the processes of economic growth and competition are in fact the two sides of the same coin, both with a crucial player: the entrepreneur (a concept unfortunately forgotten in mainstream economics for decades). Entrepreneurs are the main drive of development, both as arbitrageur or as radical innovators: from Mohammed Bouazizi to Steve Jobs. But had Mohamed Bouazizi lived in the us he could have become a Steve Jobs. And had Steve Jobs lived in Syria instead of the US maybe we would not be enjoying the use of MacBooks today. Institutional economics has tried to emphasize the link between “institutions” and entrepreneurial activity, and thus the role of economic freedom embodied in institutions.

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When the institutional environment is that of economic oppression, of “economic apartheid”, as the one found in many Arab-Muslim countries, entrepreneurs are suppressed, or pushed in the extralegal sector. Yet, without them, “development” is doomed. Such growth process of more complex division of labor, and capital deepening cannot be possible in nations where the rules of the game are not stable, competition hindered, and where important components of economic freedom are lacking. When cronies or foreigners invest in those countries it is usually not with a long-term perspective, only in sectors which can yield rapid profitability without risky ventures. Now, will the transition to democracy help with tackling the issue of economic development? 3. Will Democracy Be The Solution? The notion of “democracy” is itself still problematic. In many “poor” countries, international institutions and the West have insisted on free and fair elections, sometimes on separation of powers. Is that enough to make a country truly democratic? Democracy is more than that. It includes the rule of law, respect of basic freedoms, a certain culture and a strong civil society. After the Arab spring, democracy could be a mirage if several traps are not avoided. A first trap would be to place Western democracy as a model to “copy-paste” in order to implement in the countries of the Arab Spring. This is a trap first because any “institutional transplant” can only work if the new, “imported” institutions are, to a large degree, complementary to local institutions. In fact, this is the drama of development economics: the paths of evolution, just like in biology, are difficult to reproduce in a “proactive” fashion, ignoring local history and experiences, and local institutional constraints. There can be an institutional clash between the imported institutions and the local institutional order (Perrin, 2006).

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Then, in the event that a “paste” be made, it must be ensured that the original item is of a certain quality. And from this point of view, it seems clear that the quality of Western democracy has become, with decades, largely “dysfunctional.” (Martin, 2011 for eg). Public choice theory can illuminate some of the reasons for this decay – but the notion that accountability has somewhat declined is central to this “dysfunctional” character. A second trap would be to fall into a form relativism, i-e, supporting democracy even if it is “illiberal,” to use in the words of Fareed Zakaria. And, given certain trends against freedom in Egypt or Tunisia in the recent months, this point seems to become ever more crucial: democracy must include the protection of the rule of law and fundamental freedoms. Not only is that crucial for the respect of certain liberal principles but also for securing development: without fundamental freedoms and the rule of law, incentives are such that long term, sustainable development is impossible to achieve. As Karl Popper reminded us, democracy is essentially an instrument of critical rationalism applied to politics, an institution of openness and debate which acts as a bulwark against tyranny. By focusing on “elections”, there can be a grave danger of reducing democracy to the law of the majority. While concentrating on the idea that the source of power is the people, the people themselves may become despotic and... “anti-democratic”: and the fear of a “tyranny of the majority” in Alexis de Tocqueville’s or Benjamin Constant’s works materializes: democracy must be a way to protect individuals – in fact, to protect the individual, who is the “smallest minority” – against arbitrary power. This means that democracy is a system that first protects the rule of law – not the rule of men. In the cases that concern us today, we should thus make sure not to walk away from the tyranny of a minority to then embrace the tyranny of the majority – in the guise of democracy. More specifically, if a majority decides that we should be taxing entrepreneurs at a rate of 75%, or, even more seriously,

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eliminating homosexuals, stoning adulterous couples or excising little girls, and so on, this majority – however “democratic” – is no less despotic and destructive of fundamental individual rights. We then fall into illiberal democracy. The danger of twisting democracy in favor of the majority today comes both from the left and radical religious parties. Majorities in countries of the Arab spring have been oppressed for years. Many do not realize that the lack of economic freedom is at the root of the poverty of their country. Their natural reflex is to “ask for redistribution”, for eg. subsidies for bread, oil, sugar – subsidies to which they have been made dependent. No doubt if the majority has now he power, it will tend to “vote itself ” even larger subsidies, more generous wages (disconnected from economic reality) and various so-called “welfare rights” that directly conflict with economic freedom. Not only can decades of dependence produce this, but the socialist ideology of many laic intellectuals is alsothis going in that direction. From perspective the “Arab spring” is not very hopeful. Intellectuals indeed “neoliberalism”. unfortuA good example is what hate happened during the And vote of the nately neoliberal “reforms” are equated with “business” and Constitution in Tunisia in January 2014. An amendment proposed “economic freedom” or “liberalism”. But neoliberalism is no by a former Ennahda member and supported by members of the liberalism. Liberalism (in the classical sense of the term) is Constituent Assembly fromfreedom – including various political backgrounds, about protecting “negative” economic stated that “the State shall guarantee the freedom to work and freedom – of everybody: it is about promoting free markets, the freedom of initiative.” As another member of the competition andeconomic the rule of law. So-called “neoliberalism” Assembly noted,about “this promoting could havebig been the most revolutionary ended up being business, rapid privatarticle of the constitution.” Indeed. But the amendment izations – a crony capitalist system. The confusion, by toowas rejected. An opponent summed it up: it would have an many intellectuals, between the two notions might kill“imposed the economic of savage neoliberalism”… (See Martin & goose withorientation the golden eggs. The risk is that democratic “majorities”, both led by their dependence to redistribution and Rohac 2014) by an ideology that confuses economic freedom for crony capitalism, will have a tendency to undermine the very reforms needed to reduce poverty. From this perspective the Now, the other danger comes a religious majority - not “Arab spring” is not veryfrom hopeful. the other danger comes religious especially Now, favorable to democracy but thatfrom wasaable to gainmajoripower ty – not especially favorable to democracy but that was able through elections - trying to impose its religious view. Both the to gain power through elections – trying to impose its view. Muslim Brotherhood government in Egypt and Ennhada government in Tunisia - despite declared views sometimes favorable to economic freedom - gave a taste of their “social” conservatism in their short time in power.

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The controversy over Shariah law is obviously at the center of attention here, and requires longer developments. First, let us observe that this remark might seem awkward given previous focus on “the rule of law vs. the rule of men”. Indeed classical liberal thinkers insist on the fact that, in order to protect freedom, democracy must provide a rule of law or “government by law”. Then, shouldn’t those who advocate “government by law” welcome Shariah (Islamic law) as good news, as it is a “government by law”? The issue has brought controversy. Let us recall that the law that Liberal Democrats are talking about should not have religious origins as its essential feature, but should aim at the protection of individual rights against arbitrary power or majorities. It comes of course from principles discovered by human reason – and in a way is a “men’s law”, but based on structural principles, and not arbitrary changes. In “Islamic society” the lack of separation between religion and politics is clearly problematic from the point of view of freedom. For historian of Islam Bernard Lewis (1993, 2011), Christianity establishes the separation of church and state when Jesus asks to render unto Caesar what belongs to Caesar and to God what belongs to God. From this point of view, the Christian West has been moving towards democracy. Muhammad, however, built both a religion and an Islamic state... It thus seems that one of the foundations of democracy in terms of separation between temporal power and religious power, can not be respected in an Islamized version of democracy. However, despite this, are there no elements in the Islamic tradition that may be closer to liberal democracy? According to Lewis again, there were no dictatorships in the sultanates and caliphates. Autocracy and authoritarianism (which are not dictatorships) were accepted but under the condition they shura would be following certain rules and a process of consultation (not popular consultation though), the shura, and formation of a consensus, the ijma’. Thus we find the idea that the ruler ijma

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bay'a was not above the law and should rule as a kind of contract the bay’a: can we see an embryonic form of rule of law? Islam was able to respect minorities, defined elsewhere according to their religion, their rules or their schools. (In the Ottoman Empire, Christians and Jews could produce, sell and consume alcohol). Islam also had to adapt to different Ijtihad a degree of pluralism – a fundamensocieties, which allowed tal value of democracy. Ijtihad, the independent interpretive judgment has been a core value of Islam in its heyday: Some may think of it as a form of critical rationalism like Popper’s may be? Let us recall that it is the “closing of the door” of the ijtihad which led to the fall or stagnation in the Muslim ijtihad world according to many thinkers. For Mustafa Akyol (2011), original Islam liberated the individual from the collectivism of the tribe, and the Qur’an emphasizes the role of faith and acts of the individual in his relation to God: a world view that is more individualistic than we think. The original message of the Qur’an was, according to the Turkish intellectual, obscured by post-Qur’ranic work. Even if there is no concept of human rights itself (only God has rights), the ruler has duties vis-à-vis his people – which can be interpreted as a form of “rights”. Ahmad Imad-ad-Dean (2013) goes even further: original Shariah, which means “the path”, is the Islamic version of the rule of law. For him indeed, the “concept was first practically implemented in human society under Islam, that the notion was introduced to the West by Crusaders returning during the high medieval period and refined by political philosophers such as John Locke (influenced by Ibn Tufayl) and sociologists like Toynbee (who acknowledged his debt to Ibn Khaldun).” And modern political “Islamists” who understand Sharia as a particular set of laws to be imposed are confused. The practice of original Shariah is analogous to that of natural law: a process of discovery of the just, guided by certain principles. Far from being a rigid set of rules, it is open to rational discussion and, in fact, legal pluralism. Thus:

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“Islam promotes a society of voluntary agreements. Just as in essence Islam is the voluntary submission to the will of God, the Shariah is mainly a system of voluntary submission to the rule of law. Muslim society promotes and sustains voluntary submission to Shariah through a multiplicity of legal systems and tolerance of diverse ideas, no matter how controversial in public discussion.”

However, another specialist of Islam, Timur Kuran (2009) is much more skeptical about the parallel between Shariah and the rule of law. Looking at the elements of the rule of law such as government accountability, equal access to justice and the political process (in the case of women for eg.), efficiency of the legal and political systems, clear and stable laws, and the protection of fundamental rights, the evidence that Islam law has been successful at enforcing them is, according to Kuran, fairly weak. Of course there might have been some intent to promote such goals, but no long-run effectiveness at it, and, given the major technological evolution of the world we live in, there is a wide lag between shariah and current economic or environmental issues, making the former inapplicable today, simply “out of date”. More generally, the ingredients of a functional democracy – and thus a sound economy, conducive to development – are not met in the countries of the Arab spring. Given the state of poverty and underdevelopment of the majority of the population, democracy must allow, as mentioned earlier, to also free these nations economically, by changing the incentives of actors in favor of business, exchange, and prosperity – that in turn, allows a more vibrant democracy. This can occur in “equalizing the conditions,” in the words of Tocqueville – “equal conditions” not meaning a policy of egalitarian redistribution, but rather a restoration of “isonomy”, i.e. the end of privileges. To a large extent, this goal can only be achieved if democracy is functional: a parliament doing its job of controlling public expenditure, an administration serving citizens and

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facilitating the business climate, accountability and transparency at all levels of government, and an active civil society. The first institution of democracy is Parliament. It must play its role – tying the hands of government and administration in their spending. Parliament should not remain a “quasi spectator”. mps’ dual mandates (at the local level as mayor for eg, and at the national representation) must be avoided in order to make sure they are seriously devoted to their national function and not use their position in parliament to lobby in favor of their local interests. Bodies such as National Audit Offices must have both the power and means to control public budgets. Current constitutional reforms in these nations are crucial, and unfortunately it does not seem that such issues are the focus of discussions. The administration is the heart of the state machinery. It must be “at the service” of citizens - and not vice versa. Unfortunately it has historically often turned into a real lobby against any reform. The number of staff has an undeniable effect of inertia. Then, the evaluation of the effectiveness of the administration, crucial for the democratic contract, is hampered by the administration itself. We know that maintaining a bureaucracy anf hiring civil servants has long been a way for despotic regimes to keep the people on leash and dampen too violent economic shocks (eg. youth employment in the administration to release “social pressure”...). Will these civil servants employed for years beyond any rational basis not constitute a lobby today, as they could benefit from maintaining the status quo? The question is crucial for reform. The local dimension of democracy is also important. From this point of view, regionalization or decentralization, is a noble idea tending to “bring democracy closer to the citizen”, away from the uniform policy of centralism, and to “go downward” in the scale of subsidiarity. Moreover, it is also a matter of efficiency: logically, getting policymakers and their citizens closer can generate both better information and better incentives - which goes in the direction of better governance. Regionalization or decentralization thus

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appear essential to the democratic dynamics. And countries like Tunisia or Morocco are thinking about regionalization. However, it is imperative that a fundamental condition is met for this efficiency: accountability through transparency of local democracy. In this respect, the counter-example of the French decentralization, i.e. without autonomy or accountability, is certainly not a model to follow! First it increased the layers of administration. It generated a more complex system, with cross-subsidization making it illegible, without strict definition and limitation of the powers available to each layer, resulting in redundancy rather than administrative specialization, without real budget autonomy (deciding with other people’s money is never the best incentive): the link between spending and taxation, essential to the democratic contract, is broken. Such a system soon creates the incentives for a race for electoral spending (creation of subsidized “jobs”, “watering” of various associations with public money etc.). This fact is extremely serious: it is partly the source of the current woes in some democracies. Democracy also means the capacity for dialogue amongst the members of society, the ability to discuss common problems, make decisions together, agree on necessary reforms by meeting around a table etc. This “consensus-building” inclination to constructive dialogue, is an essential element of democracy, granting it its ability – or not – to react in the event of a major crisis, but also to evolve in an open and transparent way, within trust, and not within social conflict and mistrust – which can lead to the destruction of democracy. Unfortunately, in societies that have experienced several decades of “status” structure and mentality, mistrust due to years of vicious political oppression, this ability is extremely difficult to grow. Take the repeated social conflicts in Tunisia for example – they are not encouraging in this regard. The role of civil society and its dynamics is also essential in this “social model”. The Arab-Muslim societies that have been stifled by decades of despotism have often seen their society eroded, as Timur Kuran (2011) notes – and with it, civil

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their “social capital.” Associations, organizations, congregations, families, mutual societies, friendly societies, these are central institutions that strengthen social bonds, promote ability to dialogue, to co-management, to common risk-taking, to trust – all essential items for efficient exchange in the market. And the weakness of civil society in the nations of the Arab Spring might constitute another serious handicap for the establishment of a genuine democracy. TOGLIERE HAVE Thus, haven’t bloated bureaucracies have created a “lobby” against reform? Can corruption really vanish in favor of transparency – a slogan of the Islamists? Will cronyism easily fade away and politics be separated from the economy? What about the “closure” of many Islamists? Will a civil society that’s been weakened or even suppressed for decades easily emerge? Here are the challenges to establishing a functional democracy. A major cause of the Arab spring has been forgotten. Now between the risk of Islamization through “majoritarianism” – which would defeat the liberal dimension of democracy – and the risk of perpetuating a corrupt system that would also reduce freedoms, coupled with a dysfunctional democracy, the prospects for genuine democracy, freedom and prosperity after the Arab Spring are indeed not reassuring. References ahmad, imad-ad-dean (2013), Sociological, Philosophical, and Legal Considerations of Shariah as the Rule of Law in Islam, paper presented to the Istanbul Network Conference on Islam and the Institutions of a Free Society, Islamabad, PaLEGARE IL kistan, Feb. 28-Mar. 3. CAPOVERSO akyol, mustafa (2011), Islam Without Extremes: A Muslim Case for Liberty, W.W. Norton & SUCCESSIVO Company. amedeo, fabrice (2011), Ben Ali – Trabelsi: les pillages d’une famille en or, in «Le Figaro», Jan. 21.

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Silvia Cavasola e Domenico Fracchiolla1

Democrazia e mercato in Turchia

Introduzione La complessa e articolata relazione tra democrazia e mercato è studiata dalle teorie della democratizzazione. L’impatto delle scelte politiche sulle istituzioni economiche, sulla loro organizzazione e sulle performance economiche è oggetto di studio di numerose ricerche. Un’autorevole linea di ricerca, affermatasi negli ultimi anni, sottolinea l’importanza delle istituzioni inclusive, proprie del libero mercato, per creare le condizioni che consentono il consolidamento democratico e lo sviluppo economico, in contrapposizione alle istituzioni estrattive, che trattengono i vantaggi economici, politici e sociali solo per le élite al potere e i loro accoliti, escludendo completamente o in parte, il resto della società (Acemoglu and Robinson, 2012). Secondo questa interpretazione, l’economia di mercato è un pre-requisito ed è al tempo stesso favorita dall’introduzione e dal consolidamento delle libertà civili e politiche, creando le condizioni favorevoli perché si affermi la democrazia. Ci sono quattro modalità attraverso cui il mercato alimenta questa relazione. La prima è l’istituzione dei diritti di proprietà privata, espressione e componente essenziale della libertà politica della democrazia; la seconda è il sostegno allo sviluppo della classe media, spina dorsale delle democrazie sul piano socio-economico grazie allo sviluppo 1. Silvia Cavasola ha redatto i paragrafi 1 e 2; Domenico Fracchiolla i paragrafi 3 e 4, l’introduzione e la conclusione.

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della ricchezza; la terza, il sostegno alla società civile, promuovendo il pluralismo sociale ed economico; la quarta, la circostanza che il libero mercato alimenta la fiducia e il compromesso, due caratteristiche essenziali, in ogni democrazia (Mandelbaum, 2007). Inoltre, i diritti di proprietà ben definiti aiutano lo sviluppo del pluralismo sociale ed economico e l’emergere di una classe media indipendente che promuove le libertà politiche e i principi democratici (Acemoglu and Robinson, 2007). Secondo Milton Friedman (2002), esiste una connessione diretta e profonda tra economia e politica tale per cui solo alcune combinazioni di sistemi economici e politici sono possibili. Pertanto le società socialiste non possono essere democratiche, nell’accezione di garanti delle libertà individuali. Il modello economico scelto è quindi importante per le implicazioni dirette sulla concentrazione e dispersione del potere. Il capitalismo competitivo promuove anche le libertà politiche perché separa il potere economico da quello politico e consente un bilanciamento tra i due (Friedman, 2002, pp. 8-10). D’altra parte, altri studiosi affermano, a contrario, che la relazione tra democrazia e mercato sia di segno negativo. La democrazia può anche essere destabilizzata dall’economia di mercato, per le ineguaglianze nella distribuzione della ricchezza e le distorsioni che l’economia di mercato capitalistica comporta. Schumpeter (1955) considera questa relazione puramente accidentale. La democrazia può esistere con differenti forme di organizzazione economica, anche non capitalistiche. La tesi è che la democrazia è un metodo e non un fine, per l’impossibilità di realizzare il bene comune, a causa delle limitate conoscenze e per il disaccordo dei responsabili politici, oltre che dei cittadini. Robert Dahl ha definito la relazione in oggetto come una «simbiosi antagonistica», sottolineando il carattere competitivo tra le due forze (Dahl, 1996, pp. 639 e ss.). Dahl sottolinea inoltre che tutti i sistemi democratici hanno adottato sistemi economici misti, che prevedono diversi livelli d’intervento dello Stato nell’economia (Dahl, 1992, pp. 82-90).

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Allontanandosi dalle interpretazioni esplicative della relazione tra democrazia e mercato, Fukuyama e Huntington considerano l’autonomia dei due sistemi. Per Fukuyama la transizione democratica è un processo politico autonomo che dipende da numerosi fattori, tra cui: l’affermazione dei regimi democratici rispetto ai regimi autoritari, la condizione di guerra o di pace della comunità internazionale, le competenze e i talenti dei leader politici (che desiderano consolidare la democrazia) e il caso (Fukuyama, 1992, p. 108). A queste variabili devono aggiungersi i fattori culturali. Per Huntington la democrazia liberale, basata sui valori della dignità individuale, è un prodotto esclusivo della civiltà occidentale. Le società non occidentali possono essere recettive rispetto alla democrazia liberale in funzione dell’influenza culturale che hanno subito dall’Occidente (Turchia, India, Costa Rica, Giappone?) (Huntington, 1993; 1997). Il presente saggio verifica l’esistenza di una relazione positiva tra democrazia e mercato in Turchia, seguendo la linea di ricerca che individua nel mercato e nelle opportunità diffuse che distribuisce attraverso processi inclusivi, sia istituzionali sia normativi, uno stimolo e un rafforzamento della democrazia. L’ipotesi di studio è che le riforme e le politiche del governo di Ankara abbiano promosso il processo di consolidamento democratico della Turchia. Partendo da un’analisi storica, la relazione è indagata fino al presente, utilizzando l’analisi storica e gli indicatori principali del libero mercato e della democrazia. L’accelerazione impressa al processo di democratizzazione dal negoziato per l’allargamento dell’Ue alla Turchia e le tracce di irradiazione democratica presenti nella politica estera di Ankara (tesa all’affermazione della leadership anche attraverso processi di democratizzazione regionali improntati al rapporto democrazia-mercato) saranno analizzate nella seconda parte del saggio.

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Profilo storico 1. La modernizzazione della Turchia: da Mustafa Kemal agli anni ’60 Fin dalla proclamazione della repubblica Turca, il tema della «modernizzazione» costituisce un punto chiave e ricorrente della retorica politica dei gruppi che si succedono alla guida del Paese. Questo termine, apparentemente vago e astratto, ha avuto in Turchia fin da subito una connotazione ben precisa. Modernizzazione voleva dire infatti ricerca di una identità politica e di un assetto economico il più possibile affini a quelli dei paesi occidentali. La tensione verso Occidente si è concretizzata in particolare nel prolungato tentativo delle élite politiche di aprire all’economia di mercato e di trasformare il sistema politico in senso democratico. Tali sforzi hanno nella pratica faticato a produrre reali risultati almeno fino alla fine degli anni ’90, quando l’inizio di una più solida collaborazione con l’Unione europea ha dato una forte spinta congiunta sia al processo di democratizzazione, che a quello di apertura verso il mercato internazionale (Ozbudun and Yazici, 2004; Göksel and Güneş, 2009). Alla nascita della Repubblica turca nel 1923, il concetto di modernizzazione identificava principalmente il tentativo di rendere il sistema politico-economico del Paese autonomo da quello del resto del mondo arabo. Si trattava, nelle parole di Mustafa Kemal, il padre fondatore della neonata Repubblica, di un fondamentale processo di razionalizzazione di tali assetti. Il modello esplicito di riferimento di Mustafa Kemal, detto Atatürk (padre dei turchi), fu fin da subito quello dei paesi europei (Mango, 1999, p. 88). La Turchia doveva aspirare a somigliare a un qualsiasi altro Paese dell’Europa occidentale, e questo obbiettivo doveva essere perseguito insistendo sia sugli assetti istituzionali, sia su quelli economici, che anche molto più in generale sulla cultura popolare del Paese. Se-

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condo il modello occidentale, bisognava infatti costituire uno Stato forte, centralizzato e laico, avviare delle politiche che permettessero alla Turchia di sviluppare una propria capacità industriale autonoma e di esportare i propri prodotti all’estero, e infine costituire un’identità nazionale solida e omogenea. Nei quindici anni in cui Atatürk ricoprì il ruolo primario all’interno della vita politica della Repubblica (dal 1923 fino alla sua morte, nel 1938), questo ambizioso progetto di modernizzazione si concretizzò in un programma radicale di riforme articolato in due distinte fasi principali. La prima fase durò dalla nascita della Repubblica della Turchia all’inizio del 1930; la seconda dal 1930 fino alla morte di Atatürk. Nella prima fase di riforme gli sforzi principali furono quelli in direzione dello sviluppo dell’impresa privata nazionale e di avviamento del processo di secolarizzazione. Da un lato lo Stato si impegnò nel graduale abbattimento dei monopoli di Stato attraverso la cessione di queste attività alle imprese private in grado di sostenerle, anche attraverso incentivi e sconti fiscali (Howard, 2001). Dall’altro, sottoscrisse un programma radicale di de-islamicizzazione della politica e società turca che, culminando nell’abolizione del Califfato, del Sultanato e nella rimozione della clausola costituzionale che proclamava l’Islam religione di Stato, si snocciolò attraverso interventi volti alla secolarizzazione dell’educazione, dei tribunali, e anche delle norme di abbigliamento nei luoghi pubblici. Si procedette inoltre alla sostituzione dei caratteri arabi con quelli romani, nonché all’adozione del calendario gregoriano e dell’orario secondo il sistema internazionale delle 24 ore. Questa prima fase politica fu accompagnata da grande entusiasmo, ma anche da enormi problemi di carattere politico, a cui ben presto si sommarono quelli di carattere economico. Grandi contestazioni politiche al progetto di Atatürk non avevano mancato di manifestarsi fin dai primi anni del suo operato. Queste contestazioni avevano portato a ripetute ondate di repressione violenta che avevano prodotto un irrigidimento del sistema nei confronti di qualsiasi tipo di

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opposizione. A tali problemi si sommarono poi le difficoltà economiche legate alla crisi del ’29, che ebbero in Turchia forti ripercussioni. Tale situazione condusse a una seconda stagione di riforme economiche, a partire dal 1930. Il primo passo fu una sostanziale inversione di tendenza nella politica economica, passando da uno sforzo di apertura a un modello di economia di mercato aperta a uno protezionistico, statalista e intervenzionista. Poiché le imprese private avevano fallito nel tentativo di sviluppo di una capacità industriale nazionale che permettesse al Paese di esportare, lo Stato si fece carico di enormi investimenti pubblici, avviando un processo di nazionalizzazione del sistema produttivo. Nello stesso tempo, dal punto di vista politico, dopo il 1930 si assistette a un timido tentativo di apertura all’opposizione politica quando a Fethi Bey, leader dell’opposizione esiliato a Parigi dal 1925, venne concesso di rientrare in patria per formare un partito politico (Howard, p. 101). Ben presto però il grande supporto popolare manifestato per quel partito spaventò i vertici politici del partito di Mustafa Kemal, che dopo solo due mesi ne imposero lo scioglimento e la cessazione delle attività. La stagione politica di Atatürk si concluse così definitivamente proprio come era cominciata, ovvero dominata da un sistema autoritario a partito unico. Appare dunque chiaro come in questa prima fase di storia della Repubblica turca, nonostante le importanti spinte in direzione della modernizzazione del Paese, non si possa parlare né dell’esistenza di un libero mercato, né tantomeno di democrazia. Il primo mancava delle condizioni di base per poter esistere, ovvero, di una economia nazionale autosufficiente. Né le politiche di privatizzazione prima, né la riappropriazione delle industrie da parte dello Stato poi, erano riuscite a rendere il sistema economico Turco autosufficiente e capace di creare un commercio estero sostanziale. La democrazia, d’altro canto, era resa impossibile dalla indisponibilità dei vertici politici del partito di Mustafa Kemal ad aprire le porte del Parlamento all’opposizione, che appariva come minaccia

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retrograda e anti-sistema. La relazione tra democrazia e mercato appare dunque nulla per via dell’assenza di entrambi. Alla morte di Mustafa Kemal, una breve lotta di successione tra i suoi consiglieri si concluse con il successo di Ismet Inönü, la cui presidenza si rivelò fin da subito in linea di diretta continuità con quella del suo predecessore. Gli anni del suo governo furono infatti segnati dal tentativo di approfondimento dell’opera di secolarizzazione, nonché dalla determinazione di fare fronte alle continue emergenze economiche che mettevano in pericolo l’autonomia della giovane Repubblica. Anche la decisione di entrare nella Seconda guerra mondiale solo nel 1944, quando era ormai chiaro che i combattimenti si erano esauriti, è da leggersi come esplicita volontà di accaparrarsi i benefici derivanti dall’essere nel gruppo dei vincitori2, senza dover affrontare i costi di una guerra che la Turchia non era pronta ad accollarsi. Durante tutto il periodo precedente la fine della guerra, Inönü aveva mantenuto il sistema autoritario che era stato del suo predecessore, sopprimendo l’opposizione, intensificando gli arresti e limitando severamente la libertà di parola. Alla fine della guerra, tuttavia, grandi pressioni da parte della società civile, nonché la sottoscrizione dei valori democratici nel trattato delle Nazioni unite, costrinsero Inönü ad annunciare l’impegno ad aprire il Parlamento all’opposizione politica. Elezioni anticipate furono annunciate per il 1946. Quell’anno segna dunque l’inizio della transizione verso un sistema multipartitico. Un rilassamento della censura e dei limiti al diritto di espressione caratterizzarono questo periodo. Un nuovo partito si affacciò sulla scena politica, il Partito democratico (dp). Questo partito faceva del programma di liberalizzazioni e apertura all’economia di mercato, nonché della libertà di espressione delle credenze religiose, le sue principali bandiere (Zürcher, 2004). Le elezioni del ’46

2. L’ingresso nella guerra, seppure in extremis, assicura alla Turchia la possibilità di candidarsi per entrare a far parte delle Nazioni unite.

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furono vinte dai repubblicani, ma era ormai chiaro che il dp aveva ufficialmente fatto il suo ingresso nell’arena politica. Alle elezioni successive, quelle del 1950, fu infatti il Partito democratico a ottenere la vittoria alle elezioni. Il suo leader, Adnen Menderes, si insediò come Primo Ministro. In questa circostanza si materializzava un nuovo segnale positivo di effettiva svolta del regime in senso democratico: per la prima volta il Primo Ministro e il Presidente della Repubblica non provenivano dallo stesso partito3. L’entusiasmo popolare per la vittoria del dp non si spense negli anni successivi, alimentata da un periodo di nuova linfa economica. Il partito vinse con una maggioranza ancora più netta alle elezioni successive, nel 1954. È solo a partire dalla metà della decade che il consenso popolare per il dp iniziò ad affievolirsi. Un po’ per via del brusco rallentamento dello sviluppo economico, e un po’ a causa di alcuni incidenti che diedero spinta a una serie di proteste sociali più o meno violente, il governo di Menderes si trovò a dover affrontare una situazione sempre più complessa. La parziale crescita economica dei primi anni del suo governo era stata molto iniqua, avendo interessato soprattutto le classi agiate, e adesso che l’economia subiva una battuta d’arresto, una situazione di emergenza per le classi sociali più modeste si andava profilando sempre più chiaramente. Menderes tentò di ristabilire l’ordine attraverso un nuovo irrigidimento del sistema in senso autoritario. Le repressioni si fecero più frequenti, le restrizioni degli spazi di dissenso sempre più severe, e la censura più puntuale. La mancanza di un partito di opposizione solido permise al governo di agire in questa direzione in maniera quasi indisturbata. Come spesso in questi casi, si verificò tuttavia una vertiginosa crescita della tensione sociale. Neanche l’apertura dei negoziati di avvio di una collaborazione tra Turchia e Comunità 3. Bayar è il successore di Inönü e proviene dal partito repubblicano. Menderes proviene dal partito democratico. (nocera l., La Turchia contemporanea. Dalla Repubblica kemalista al governo dell’akp, Carrocci, Roma 2011, p. 40).

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economica europea (cee) nel 1959 bastò per dare respiro all’economia e per distendere i rapporti tra istituzioni, politica e società civile. 2. La democrazia Turca dagli interventi militari a oggi Quando ormai il discontento nei confronti del governo di Menderes aveva raggiunto livelli molto elevati, gettando caos e disordini in tutto il Paese, un gruppo di gerarchi militari annunciò l’intenzione immediata di prendere il controllo del potere tramite un colpo di Stato. Era il maggio del 1960. Una nuova stagione politica stava per aprirsi: una stagione segnata da ripetute sospensioni del normale iter democratico attraverso il potere della gerarchia militare, il cui interventismo veniva di volta in volta giustificato in nome della difesa e salvaguardia della repubblica (Fracchiolla, 2012, pp. 49-56). Nel colpo di Stato del 1960 i militari motivarono l’intervento imputando a Menderes e al suo governo una fondamentale incapacità di venire a capo dei problemi economici e delle tensioni sociali che scuotevano il Paese. In particolare, il partito al potere veniva accusato di fare gli interessi di alcuni gruppi sociali particolari, attentando ad alcuni tra i principi fondamentali della costituzione turca (Zürcher, 2004). Il Partito democratico veniva così costretto a sciogliersi, i suoi parlamentari arrestati, il leader condannato alla pena di morte e giustiziato (Marcou, 2005). I militari dichiararono obiettivi bipartisan, come la costituzione di un apparato amministrativo efficiente e il ripristino di una competizione elettorale libera a corretta (Howard, 2001). Nel 1961 venne approvata tramite referendum una nuova costituzione della Repubblica, ispirata a un ritorno ai principi originali di Mustafa Kemal. Era l’inizio della Seconda Repubblica. Tra le novità più importanti del nuovo patto costituente, vi furono l’introduzione di una legislatura bicamerale, nonché quella di un articolo che enunciava diritto

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alla libertà di espressione, di pensiero, di associazione e di pubblicazione. La democrazia appariva tuttavia ancora lontana dall’avviarsi a una fase di radicamento. Nonostante nel 1963 ebbe inizio un periodo di parziale ripresa economica, il nuovo governo presenziato da Inönü non appariva in grado di offrire al Paese una guida solida. Nel 1965 nuove elezioni portarono alla vittoria il Partito della Giustizia, successore del dp, che da quest’ultimo riprendeva i temi del liberalismo economico e libertà di espressione religiosa come punti caratterizzanti del proprio programma. Il governo, guidato da Süleyman Demirel, fu capace di catalizzare un notevole sostegno popolare, tanto che nel 1969 venne eletto per la seconda volta. Il vento favorevole non soffiò molto a lungo tuttavia, perché una serie di lotte e divisioni interne al partito lo fecero vacillare subito dopo la vittoria alle elezioni. Il governo del Partito della Giustizia si trovò così, da un lato, a dover far fronte a una battaglia interna, che condusse vari gruppi di parlamentari ad abbandonare il partito e a formare nuovi soggetti politici (il Partito islamico nazionale dell’Ordine e il Partito di Azione nazionale). Dall’altro, a fare i conti con l’affermarsi progressivo delle ideologie e dei radicalismi politici fuori e dentro le università. La congiuntura di queste circostanze ha come effetto immediato quello di produrre una forte polarizzazione del dibattito politico, con conseguente instabilità e stagnazione delle attività parlamentari (Hale and Ozbudun, 2009). Come era già accaduto nel ’60, l’incertezza e l’instabilità del governo finirono per creare terreno fertile per un nuovo intervento dei militari. Quest’ultimo difatti non tardò a verificarsi. Nel 1971 i militari recapitarono a Demirel un memorandum che conteneva l’auspicio di un governo solido, capace di far fronte alle circostanze complicate e di far valere i principi e i valori esplicitati nella costituzione repubblicana. Demirel si vide costretto a consegnare prontamente le sue dimissioni. Ebbe così inizio una nuova fase di transizione politica sotto la guida dei militari. Ripresero gli arresti di massa, e

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il Paese venne posto sotto legge marziale (Jacoby, 2005, p. 102). Un governo tecnico venne formato per il periodo di transizione: membri di tutte le principali formazioni politiche, tranne quelli del Partito repubblicano, vi presero parte. Questa grande coalizione votò nel 1973 in favore di un ampliamento sostanziale delle funzioni del Consiglio di Sicurezza nazionale: la tradizionale funzione consultoria in materia di sicurezza nazionale venne accostata ad attività disparate considerate strategiche, quali ad esempio la definizione dei programmi scolastici e della programmazione televisiva (Fracchiolla, 2012, p. 52). Nonostante negli anni successivi all’intervento dei militari l’andamento economico apparisse promettente, l’incertezza politica che caratterizzò tutto il resto del decennio non fece che indebolire le capacità di ripresa del Paese. La stagnazione economica mise in moto un meccanismo di forte emigrazione di famiglie e lavoratori, che fuggivano dal Paese per trovare migliori condizioni di vita in Europa e negli Stati uniti. Nel frattempo, l’arena politica era dominata da governi di coalizione4, che erano il prodotto dell’incapacità dei singoli partiti di ottenere da soli la maggioranza dei voti. Nel 1980 era ormai chiaro che anche la Seconda Repubblica aveva fallito nel tentativo di creare le condizioni di stabilità necessarie per la modernizzazione politica ed economica. Nel settembre di quell’anno i militari tornarono sulla scena politica per attuare un nuovo colpo di Stato. Questa volta gli obiettivi erano più estesi di quelli dell’intervento del decennio precedente: adesso si intendeva lavorare alla stesura di una nuova Costituzione per porre nuove basi al processo di modernizzazione della società e della politica turca. Parallelamente al cantiere costituzionale, la giunta militare sotto legge marziale procedette allo scioglimento dei partiti e alla 4. Nelle elezioni del 1973 il Partito repubblicano guidato da Ecevit si coalizza con il Partito della salvezza (Msp). Successivamente due governi di coalizione sono guidati da Demirel. L’instabilità del secondo mandato Demirel apre la porta nel 1978 a un nuovo governo guidato da Ecevit.

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confisca dei loro beni, agli arresti di intellettuali e giornalisti, e all’opera di repressione delle manifestazioni pubbliche e dell’attività politica all’interno delle università. Alla maggior parte dei protagonisti della scena parlamentare del periodo antecedente il colpo militare venne vietato di proseguire le attività politiche. Per questo motivo le elezioni indette per il 1983 videro competere tra loro personaggi nuovi – nonostante i partiti da questi rappresentati fossero sostanzialmente gli eredi di quelli precedenti. È questo il caso del partito che vinse quelle elezioni, il Partito della Madrepatria (anap). Emerso dalle ceneri del Partito repubblicano e guidato da Turgut Özal, il governo dell’anap era appoggiato dai militari. Fu proprio la tutela militare che permise a Özal di dominare la scena politica fino al 1991, come Primo Ministro e successivamente come Presidente della Repubblica. Un piano per il ristabilimento dell’ordine pubblico fu associato a una politica economica di liberalizzazioni, volte a ristabilire un contatto più solido con gli Stati uniti e con l’Europa, che il colpo militare aveva temporaneamente allontanato. Nonostante la crescita economica di questi anni, e l’aperto tentativo di favorire una più ampia tolleranza nei confronti delle credenze religiose, la candidatura turca alla cee del 1987 venne rigettata. La democrazia e il mercato turchi erano ancora lontani dall’essere considerati abbastanza solidi (Fracchiolla, 2012, p. 27). Le elezioni del 1991 segnano un momento di svolta importante sotto vari punti di vista. Da un lato, si ebbe il ritorno alla presidenza della Repubblica di Süleyman Demirel. Dall’altro, si assistette all’affermarsi in politica, seppur come forza minoritaria, di un partito di stampo apertamente religioso, il Refah Partisi (partito del benessere, rp). L’ascesa politica di questo partito fu poi confermata nelle elezioni seguenti, nel 1995, quando l’incapacità dei singoli partiti di formare una maggioranza di governo, condusse alla formazione di una coalizione di stampo islamista alla guida della Repubblica turca. Il leader di Refah, Erbakan, che tra il 1996 e il 1997 ricoprì il ruolo di Primo Ministro, era portatore di una politica volta

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a reintegrare l’Islam nella società turca: dalla possibilità di indossare il velo negli uffici pubblici, all’istituzione di scuole per la formazione degli Imam, il suo programma auspicava di ridare voce a quel tratto islamico della società che le esigenze di modernizzazione fin da Atatürk avevano tentato di azzittire. Il Consiglio nazionale di Sicurezza non attese molto prima di inviare al Primo Ministro un ultimatum, chiedendo di fare cessare immediatamente le attività filo-islamiche contrarie ai principi della costituzione laica. Il governo prontamente si dimette. È il 1997, e la Turchia aveva appena sperimentato ciò che fu in seguito ribattezzato «colpo di Stato post-moderno». A seguire una breve transizione portava alla formazione di governi ad interim, in attesa delle elezioni generali del 1999. Si chiudeva una pagina politica segnata dal forte interventismo dei militari attraverso il Consiglio nazionale di Sicurezza. Quest’ultimo, che dagli anni ’60 aveva accresciuto il suo potere con varie riforme costituzionali, era destinato a mantenere un ruolo importante nella politica interna turca, ma in maniera decrescente a partire dalla nuova decade. Alla fine degli anni ’90 si apre per la Turchia una nuova fase politica caratterizzata, da un lato, da una sempre più forte influenza dell’Unione europea, e dall’altro, da una molto maggiore continuità rappresentata dal governo dell’akp (Partito della Giustizia e dello Sviluppo). La fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo secolo rappresentano dunque una congiuntura storica fondamentale per la comprensione del quadro politico ed economico della Turchia di oggi. Nel dicembre 1999 il Consiglio europeo riunito a Helsinki ufficializza l’accettazione della Turchia allo status di Paese candidato all’ingresso dell’Unione europea. Questa decisione, prodotto tra le altre cose di una certa credibilità che il governo Ecevit uscito dalle elezioni generali del 1999 era riuscito a conquistarsi, avrebbe di lì in poi influenzato pesantemente le politiche pubbliche della Turchia in tutto il periodo successive (Avci, 2005, p. 133).

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Una malattia legata alla vecchiaia tuttavia costrinse Ecevit a dimettersi nel 2002. Le nuove elezioni generali tenutesi nello stesso anno videro la vittoria netta dell’akp che, guidato da Recep Tayyip Erdoğan, ovvero un ex membro di spicco dell’ormai sciolto Rafah Partisi, si era presentato alle elezioni come un partito nuovo, di matrice conservatrice e islamica moderata. Il partito si dichiarava in favore della continuazione delle pratiche di accesso alla Ue, e aveva come suoi riferimenti principali i grandi partiti cristiani moderati della Germania e dell’Italia. Molti ambienti intellettuali legati ai principi del kemalismo si inquietarono nel vedere un partito islamico salire al governo, reputandolo una pericolosa insidia per lo Stato laico e per la democrazia. Questa opposizione – viva e tenace ancora oggi – non è stata tuttavia in grado di modificare le sorti politiche del Paese. Grazie alla sua notevole presenza sul territorio, alla sua importante rete associazionistica, e al suo forte legame con le élite economiche del Paese, l’akp riuscì a guadagnare e a mantenere un consenso popolare che lo portò alla vittoria in tre elezioni consecutive, nel 2002, nel 2007 e nel 2011 (Tombus, 2013). Si tratta di una continuità politica che la Repubblica turca post-kemalista non aveva mai conosciuto prima. Nonostante le pressioni più o meno esplicite da parte delle élite militari, l’akp fu in grado, oltre che di mantenersi al potere, anche di allargare notevolmente la base del suo consenso elettorale. Tale forte consenso elettorale permise al governo di Erdoğan anche di passare una riforma costituzionale nel settembre 2009, la quale, fra le altre cose, limitava fortemente il ruolo dei militari regolamentando i rapporti tra i civili e i militari (ibidem). Gli anni del akp furono cruciali anche dal punto di vista dei rapporti con l’Unione europea. I vertici del partito hanno infatti fin da subito dichiarato come priorità assoluta del proprio governo l’ingresso nella Ue (Gül, 2010, pp. 2328). Quest’ultimo, nonostante non si sia ancora verificato e a oggi manchi dall’avere una data sicura, è apparso negli anni dell’akp sempre più prossimo. Iniziati nel 2004, i negoziati

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per l’ingresso della Turchia nella Ue sono condizionali al raggiungimento degli «obiettivi di Copenaghen» in materia di libero mercato, democrazia e rispetto per i diritti umani (Kaliber, 2013). Nonostante notevoli progressi in termini di funzionamento del mercato e di inclusione politica siano stati registrati da parte della Ue negli anni del governo akp, il destino della candidatura turca appare per il momento ancora incerto per via di alcuni fondamentali nodi della politica turca, tra cui i rapporti con Cipro, il rispetto delle minoranze e dei diritti umani. Profilo analitico 1. La Turchia tra democrazia e mercato L’Index of Economic Freedom, creato nel 1995 dall’Heritage Foundation, un think thank conservatore statunitense, e dal quotidiano «Wall Street Journal», analizza il livello di libertà economica in ogni Paese, a partire da dieci variabili (utilizzate anche dalla World Bank e dal fmi) che misurano la libertà imprenditoriale, monetaria, l’apertura dei mercati, il livello di spesa pubblica sul pil, la libertà fiscale, i diritti di proprietà, la libertà d’investimento, la libertà finanziaria, del mercato del lavoro e dalla corruzione. L’Index of Democracy, calcolato dall’Economist Intelligence Unit per il settimanale «The Economist», suddivide invece 167 Paesi in quattro categorie che misurano la presenza o assenza della democrazia, in base ad alcune variabili attinenti al processo elettorale, al pluralismo, alle libertà civili, alla funzione di governo, alla partecipazione politica e alla partecipazione culturale. Le categorie individuate sono le Democrazie Complete, le Democrazie Imperfette, i Regimi Ibridi e i Regimi Autoritari5. 5. Note le necessarie cautele e approssimazioni per i limiti convenzionali delle statistiche e delle classificazioni internazionali, si rileva che osservando le prime

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Rispetto a questi, la Turchia ricopriva la 64esima posizione per l’Index of Economic Freedom e la 88esima posizione per The Economist’s Democracy Index. Un confronto tra la posizione della Turchia rispetto ai due indici può considerarsi pertanto un primo strumento di osservazione della relazione tra democrazia e mercato nel Paese. Se non può ipotizzarsi un perfetto allineamento tra le posizioni rispetto ai due indici, è possibile però individuare la sovrapponibilità rispetto al gruppo di Paesi che rientrano nelle posizioni mediane. Per quanto concerne l’ Index of Economic Freedom, Ankara recupera alcune posizioni dopo il declino del 2011 (secondo una scala da 1 a 100, raggiunge un punteggio di 64.9 contro 84.1 delle economie più sviluppate e una media mondiale di 60.3). Il risultato migliora di due punti quello del 2012, riflettendo i progressi nei settori della spesa pubblica, della libertà d’impresa, della liberalizzazione nel settore del lavoro. Il Paese continua il suo percorso verso un’economia più aperta e flessibile, con buoni dati per tutti i parametri della libertà economica, dall’espansione del commercio, alla competitività del settore finanziario, alle (lente) privatizzazioni, alle riforme che incoraggiano l’imprenditorialità ed eliminano le inefficienze della regolamentazione dei mercati. Come risultato di queste politiche virtuose di aperture del mercato, il pil è triplicato dal 2002; tuttavia, alcune debolezze istituzionali continuano a imbrigliare le libertà economiche e a ostacolare una crescita più dinamica. In generale, il processo di modernizzazione economica è progredito. I dati economici spiegano che l’affermazione degli ultimi quindici anni è stata preparata sul piano economico da un periodo di prudenza in materia di bilancio, stabilità monetaria e miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini. Per quanto riguarda la democrazia, l’Index of Democracy dell’Economist Intelligence Unit inserisce la Turchia tra i regimi ibridi. Questi ultimi si pongono in una via di mezzo posizioni della classifica dei due indici, tredici paesi su venti si trovano in entrambe le liste nelle prime posizioni nel 2013.

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tra le democrazie e i regimi autoritari, perché hanno alcune caratteristiche fondamentali proprie delle democrazie, ma non completano tutte le variabili necessarie per considerare un Paese pienamente democratico. Questa analisi è confermata dall’Index of Freedom di Freedom House, secondo cui la Turchia è un Paese «partly free» (l’indice divide i Paesi in tre gruppi: Free, Partly Free e Not Free). In particolare, la repressione delle proteste della società civile da parte del governo e le pressioni politiche a grandi società private per conformarsi all’agenda politica del governo hanno determinato questa valutazione. Il processo elettorale si caratterizza da una sostanziale correttezza, in linea con i parametri delle democrazie occidentali, anche se il problema della soglia di sbarramento più alta di tutti i paesi Ue del 10 per cento non è stato risolto. Il pluralismo politico è garantito, anche se la legislazione che consente la chiusura di partiti che non rispettano la costituzione, in passato utilizzata strumentalmente contro le rappresentanze dei curdi e dei partiti islamici, continua a non essere abrogata. Anche le misure tese al ridimensionamento dell’influenza dei militari in politica, adottate opportunamente nell’ultimo decennio dal governo akp, devono essere completate per quanto concerne il controllo dei militari sulle spese della difesa. La Turchia gode di una società civile vitale e la libertà di associazione e manifestazione è garantita dalla Costituzione. Tuttavia, la polizia gode di poteri importanti in materia di ordine pubblico che consentono, come è accaduto per Gezi Park, deroghe di fatto al diritto di assemblea e manifestazione pacifica. Anche la legislazione in tutela dei sindacati non riesce a garantire come dovrebbe il diritto allo sciopero, per regolamentazioni onerose per i lavoratori e i sindacati e la possibilità di pene di detenzione per gli scioperi non autorizzati. Un report di Freedom House riguardante la libertà dei media pone seri dubbi sulla libertà d’informazione. L’akp, dopo aver quasi eliminato le interferenze dei militari dal mercato dell’informazione, non ha resistito alla tentazione

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autoritaria di controllare i mezzi di comunicazione, ricorrendo allo strumento dell’intimidazione (casi di giornalisti licenziati dopo attacchi pubblici di Erdogan e processati per aver criticato il governo), a licenziamenti di massa (59 giornalisti che hanno riportato i fatti di Gezi Park), finanziamenti pubblici a giornali e società compiacenti con il governo, intercettazioni di giornalisti che si occupavano di casi inerenti la sicurezza nazionale, prigione con l’accusa di terrorismo (soprattutto curdi). Inoltre, la Turchia si posiziona rispetto al Corruption Perception Index (cpi) del Trasparency International, che valuta la percezione della corruzione nel settore pubblico tra i cittadini, in una posizione mediana, con un punteggio di 50 su una scala da 0 a 100. I dati della World Bank sottolineano anche che il Paese non ha registrato miglioramenti dal 2005 in tema di corruzione. Per quanto concerne il sistema giudiziario, la Turchia condivide con la Federazione russa il risultato peggiore tra i 47 Paesi membri della Corte europea dei Diritti umani. Si registrano interferenze e pressioni politiche sul lavoro della magistratura, utilizzando lo strumento delle nomine, di avanzamenti di carriera e i finanziamenti. In conclusione, incrociando le rilevazioni dei due indici, può ipotizzarsi, con una prima approssimazione, l’esistenza di una relazione positiva tra democrazia e mercato in Turchia, che si alimenta dei risultati positivi raggiunti nei due ambiti, innescando un circolo virtuoso. Le decisioni politiche ed economiche di tipo inclusivo alimentano questo processo, lo approfondiscono e consolidano la democrazia. Le scelte di tipo estrattivo, escludendo segmenti significativi della società civile e delle élite politiche ed economiche dalle opportunità offerte dal mercato, sono invece suscettibili di frenare questo processo e bloccarlo, provocando un notevole danno al processo di consolidamento democratico della Turchia. L’Unione europea rappresenta l’ancora di consolidamento democratico principale del Paese, che sfruttando i negoziati ancora aperti, può continuare a innestare i germi fecondi del mercato che conducono all’inclusività economica e politica,

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e per questa via alla democrazia. Il vincolo esterno europeo rappresenta per la Turchia, come è capitato per molti Paesi protagonisti del processo di allargamento prima e per gli Stati membri dell’Ue nella necessità di adottare provvedimenti impopolari, una leva importante nelle mani del governo di Ankara per riformare il Paese in senso democratico, rafforzandone l’economia di mercato. La Positive Agenda, lanciata nel 2012, fornisce un valido strumento di supporto e complemento ai negoziati per l’accessione della Turchia all’Ue, promuovendo la cooperazione in numerose aree di interesse comune. I negoziati devono essere rivitalizzati nel rispetto delle conditionality politiche. L’apertura del capitolo 22 sulla politica regionale rappresenta un importante progresso in questa direzione. Il Progress report 2013 della Commissione Ue sottolinea come la Turchia sia dotata di un’economia di mercato ben funzionante, in grado, nel medio periodo, di competere con le economie dei paesi membri dell’Ue, grazie alle riforme strutturali che il Paese sta adottando. L’efficacia del processo di riforma intrapreso con decisione nell’ultimo decennio è confermato dal dato della crescita che nel 2013 torna a salire, attestandosi al 3,7 per cento, dopo un forte rallentamento nel 2012, al 2,2 per cento (nel biennio precedente la Turchia era cresciuta a tassi vicino al 9 per cento). Tuttavia, il Report sottolinea come, la possibilità di sensibili oscillazioni dell’inflazione (a causa di una forte dipendenza dai capitali stranieri a sostegno della crescita) e un ampio deficit strutturale sulla spesa corrente rappresentino dei rischi molto alti per la crescita. La Commissione Ue, nel documento, consiglia una riforma fiscale che introdurrebbe maggiore trasparenza, sarebbe un’importante ancora fiscale e aumenterebbe la credibilità del sistema. In ambito di proprietà intellettuale, del diritto societario, di agricoltura, di sicurezza alimentare, dei trasporti, delle politiche sociali e ambientali, del lavoro e della politica regionale, il Report richiama la necessità di continuare il processo di riforme. Il documento stigmatizza l’uso eccessivo della forza da parte della polizia contro l’ondata di proteste che ha attra-

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versato il Paese nel corso del 2013 e richiede che il Paese si allinei quanto prima ai parametri europei. Allo stesso modo, un’ispezione del Ministero degli Interni turco concludeva che nelle proteste di Gezi Park e nelle manifestazioni successive che ne erano conseguite la polizia aveva utilizzato la forza in modo sproporzionato. Il sistema giudiziario e la tutela dei diritti fondamentali devono pertanto essere migliorati, così come devono essere superate le interpretazioni restrittive della magistratura della libertà di pensiero, anche se il democratisation package e il quarto pacchetto di riforma del sistema giudiziario sui diritti umani sono valutati correttamente come dei progressi importanti. Linee di irradiazione democratica regionale Da sempre l’economia più sviluppata del Medio Oriente, la Turchia ha rafforzato questa posizione, triplicando il suo pil da 266 miliardi di dollari nel 2000 a 763 miliardi nel 2011, con una crescita media del 4,62 per cento l’anno per il periodo 2001-2011, prima del parziale rallentamento degli ultimi due anni. Le esportazioni e la riduzione del debito pubblico hanno fatto registrare un andamento decisamente favorevole, con un aumento esponenziale da 35 miliardi di dollari a 134 miliardi di dollari, cui corrisponde una significativa riduzione del debito, con minimi storici del 42 per cento del pil nel 2011. La diciassettesima economia più grande su scala mondiale, sesta in Europa, ha sviluppato una forza di attrazione di 10 miliardi di euro l’anno (da una media di 1 miliardo negli anni ’90) (Index Mundi, 2011) riuscendo nell’ultimo triennio a evitare le conseguenze più gravi della crisi finanziaria ed economica internazionale grazie a una buona regolamentazione del settore bancario. Le relazioni della Turchia con i Paesi vicini sono basate su stretti e fiorenti rapporti commerciali e su una linea politica tesa a creare un «demonstration effect» adottata negli ultimi anni (Kirshi, 2011, pp. 35-55). La «demonstration effect policy» è un’estensione su scala regionale del dispiegarsi della relazione tra democrazia e mercato ipotizzata all’interno del Paese, nei processi di democratizzazione presenti nella politica estera di Ankara.

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Attraverso questo strumento la Turchia svolge un’azione di democratizzazione indiretta nei confronti del Paesi del Medio Oriente ed esercita la sua leadership regionale (Ozcan, 2011). Negli anni precedenti l’esplodere della Primavera araba, il governo turco ha sviluppato una politica di vicinato ispirata a una maggiore integrazione economica regionale, strutturata a partire da rapporti bilaterali. La percentuale degli scambi commerciali della Turchia con il Medio Oriente è aumentata del 38 per cento annuo e si è caratterizzata da apprezzabili sforzi di diversificazione rispetto alle sole importazioni energetiche contro manufatti, con la corrispondente apertura del mercato turco ai prodotti manifatturieri dei Paesi mediorientali. Inoltre, a latere dei settori tradizionali (costruzioni, automobilistico, tessile e alimentare), si è registrato uno sviluppo importante del settore della difesa (Hakura, 2011). Nel 2011 gli scambi commerciali raggiungevano un valore di 82 miliardi di dollari e costituivano il 22 per cento degli scambi complessivi della Turchia. Oltre gli scambi commerciali ci sono altre dimensioni che alimentano il processo d’integrazione della Turchia con la regione mediorientale (Straubhaar, 2012). In primo luogo, come noto, l’importanza in termini geoenergetici di Ankara è uno degli asset strategici più rilevanti del Paese (Muftuler-Bac e Baskan, 2011, pp. 361–378). Le previsioni dicono che Tunisia, Libia, Marocco, Algeria, Egitto e Turchia svilupperanno una domanda di 600 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio nel 2030, dai 311 del 2010. La parte più significativa di questa maggiore domanda sarà della Turchia, che potrà sfruttare la preziosa posizione geopolitica e diventare un grande hub energetico, al centro del 68 per cento delle riserve mondiali di petrolio e del 75 per cento delle riserve di gas naturale (Agenzia internazionale dell’Energia, 2010; Tekin e Williams, 2012). Queste prime considerazioni caratterizzano il nerbo della politica d’integrazione regionale di Ankara che, seguendo lo schema della relazione positiva tra mercato e democrazia, alimenta processi di democratizzazione all’interno dei Paesi del Medio Oriente. L’apertura dei mercati realizzata dall’in-

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tegrazione economica crea una breccia nelle società chiuse o semichiuse dei Paesi del Medio Oriente e arroccate nelle posizioni di privilegio di élite economiche e politiche che ostacolano la democrazia. L’idea di fondo è di portare avanti un processo di democratizzazione indiretta, incentivando le condizioni che favoriscono la formazione di una forte società civile che porti avanti istanze di riforma inclusiva dei processi politici. La Turkish International Cooperation and Development Agency (tika) ha destinato un miliardo di dollari l’anno in aiuti allo sviluppo, soprattutto per i Paesi vicini. Alcuni dei progetti finanziati riguardavano tematiche come la «good governance» e «empowering woman». Anche all’interno dell’Organizzazione della Conferenza islamica (oic), dopo l’elezione di un turco come Segretario Generale, sono stati sviluppati progetti con finalità analoghe (in tal senso la Turchia ha anche promosso l’inclusione dei progetti sulla «good governance» e sull’espansione della partecipazione politica) inseriti nel programma d’azione decennale dell’oic del 2005 e nello Statuto al Summit di Dakar del 2008 (Kirshi, 2012, p. 5). Questo seconda modalità d’intervento, propria della politica di soft power utilizzata dall’Ue, è caratterizzata da interventi diretti abbinati a una conditionality policy che porta avanti il processo di democratizzazione. Il rapporto tra democrazia e mercato è declinato nella tradizionale relazione delle tesi sviluppiste che subordinano la democratizzazione allo sviluppo economico. In questo caso, però, gli aiuti sono condizionati al rispetto di alcuni requisiti che alimentano il processo di democratizzazione. In aggiunta, la presenza di società turche nella regione, aumentata considerevolmente negli ultimi venti anni, è un altro fattore importante da considerare. Secondo i dati elaborati dalla Banca centrale della Turchia, gli Investimenti diretti esteri di Ankara in Medio Oriente spaziano dalle piccole attività individuali, come ristoranti e panetterie, a grandi aziende che costruiscono fabbriche (www.tcmb.gov.tr/yeni/eng, consultato nel 2012). Le società turche di costruzioni hanno

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progetti in tutti i Paesi vicini e sono sempre più associate a progetti di costruzione di aeroporti, alberghi, centri commerciali, complessi residenziali e sportivi, così come autostrade, ponti e tunnel. Il valore complessivo dei lavori di costruzione sviluppati da Ankara nella regione mediorientale dal 1972 al 2010 è di 187,6 miliardi di dollari (http://www.ydmh.gov. tr, consultato nel 2010). Infine, le rimesse degli immigrati in Turchia verso i loro Paesi d’origine sono un altro significativo indicatore dei rapporti in oggetto. Nel corso di pochi anni, la Turchia si è trasformata da Paese d’emigrazione in Paese d’immigrazione, nel quale un numero crescente di lavoratori provenienti dal Medio Oriente e dalla regione del Mar Nero sono affluiti, consentendo ad alcuni di questi di mantenere una bilancia dei pagamenti in deficit, pagando le importazioni con le rimesse degli immigrati (Demir e Sozer, 2012, pp. 300-311). Questa politica si è articolata anche in rapporti di collaborazione tra le associazioni di categoria degli imprenditori turchi e le controparti dei Paesi esteri tesi alla diffusione dei principi del libero mercato, collaborazioni tra le Ngo’s turche e quelle straniere su progetti culturali, educativi, ambientali e sulle donne. Infine, la politica liberale sulla concessione di visti consente a studenti, attivisti politici, esponenti delle élite politiche e sociali dei Paesi vicini di toccare con mano i progressi compiuti dalla democrazia in Turchia (Ulgen, 2011); la stessa diffusione di ascolti delle emittenti turche in Medio Oriente diventa una altro volano per la diffusione dei valori e della cultura partecipativa che si afferma Turchia (Goksel, 2012, pp. 100-120). Un’altra manifestazione dei progetti d’integrazione regionale è l’incremento della libera circolazione delle persone, specialmente verso la Turchia. La politica di liberalizzazione nella concessione dei visti, mantenuta con continuità da tutti i governi avvicendatisi dalla fine degli anni ’80, ha reso possibile un movimento importante di persone in entrata e in uscita dal Paese. Il numero complessivo di stranieri che sono entrati in Turchia è aumentato da 5,2 milioni di persone nel 1991 a 31,4 milioni nel 2011. Un indicatore efficace che

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cattura questo fenomeno è l’espansione dei voli della Turkish airlines nella regione. Alla fine della Guerra fredda, c’era un solo volo per Mosca, per Atene, per Baghdad, Sofia, Tabriz e Tehran. Nel 2012 si contavano 157 destinazioni, di cui 35 nei Paesi vicini della Turchia (Kirshi, 2012, p. 5). La presenza diffusa di società turche operanti in diversi settori economici, le rimesse degli immigrati e le occasioni di incontro, di contatto e collaborazione con le società civili dei Paesi interessati sono una terza modalità operativa della relazione tre democrazia e mercato nella forma di contaminazioni culturali. Questi progetti sono tesi a promuovere la formazione e la strutturazione di una forte società civile, ponendo le basi per una trasformazione nella direzione della società aperta. La circolazione delle persone, oltre che delle merci e dei capitali, infatti, stimola nuove idee e promuove quei cambiamenti essenziali per la democrazia prima descritti. I miglioramenti nelle condizioni di vita dei cittadini sono stati il naturale portato e la conseguenza di queste politiche, agevolando, in prospettiva, le condizioni per il consolidamento di una classe media nei Paesi del Medio Oriente, fondamentale per ogni processo di democratizzazione. I risultati economici e politici raggiunti, in una regione caratterizzata dall’instabilità, hanno aumentato le chance di Ankara di diventare il riferimento di tutta l’area, assumendo la leadership di un nuovo blocco di potere in formazione (Dyer, 2011). Queste variabili sono in buona parte un’estensione della tesi dell’esistenza di una relazione diretta, più o meno incisiva, tra l’affermazione di istituzioni e regolamentazioni economiche inclusive del libero mercato e l’avvio o il consolidamento di processi virtuosi di inclusività politica, alla base dei processi di democratizzazione. Conclusioni La relazione tra democrazia e mercato in Turchia sembra confermare l’ipotesi di partenza dell’esistenza, più che di un

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nesso causale, di una vera e propria correlazione tra l’introduzione e il consolidamento di prassi, istituzioni e regolamentazioni del libero mercato e il consolidamento del regime democratico: e semmai dovesse essere assegnato un primato, questo spetta all’economia più che alla politica. Dalla fondazione della Repubblica, la Turchia ha adottato programmi di modernizzazione improntati al libero mercato, con accelerazioni e battute d’arresto del processo di liberalizzazione che ne è conseguito. Nella prima parte del saggio si è cercato di individuare, dove possibile, un parallelismo tra il processo di liberalizzazione economica e il processo di liberalizzazione politica, caratterizzato dai tentativi di affrancamento della giovane democrazia turca dai condizionamenti dei militari e dai rischi di derive islamiste. Il giano bifronte della politica internazionale, sfruttando il vincolo esterno dell’integrazione europea, ha accelerato i processi di liberalizzazione che alimentano l’inclusività economica e l’inclusività politica. Tuttavia, Ankara deve ancora compiere molti progressi prima di addivenire a risultati di un apprezzabile e duraturo consolidamento democratico. La relazione tra democrazia e mercato sembra essere rafforzata, negli ultimi anni, in considerazione del modello europeo e della possibilità, per Ankara, di affermare la propria leadership regionale, attraverso l’affermazione del proprio regime come modello di democrazia per il Medio Oriente. La Turchia, infatti, in parallelo con la politica estera e di vicinato dell’Ue (che attraverso gli strumenti propri del soft power esercita la funzione di magnete di democrazia) ha sviluppato un’efficace azione di stabilizzazione democratica dell’area mediorientale. Gli accordi commerciali, gli investimenti, i visti sono utilizzati non solo come strumenti di promozione economica nazionale, ma anche per costruire un clima di fiducia, stabilità ed esercitare un’azione virtuosa di transizione democratica dei Paesi con cui si stringono rapporti. Erdogan ha dichiarato come obiettivo ambizioso di voler inserire la Turchia tra le dieci economie più ricche entro il 2023, l’anno delle celebrazioni dei 100 anni della Repubbli-

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ca, prevedendo anche che il reddito pro capite dei cittadini turchi possa arrivare a 25.000 dollari l’anno (Dyer, 2011). Tuttavia, alla luci dell’azione politica dell’akp, si sono sommate nell’ultimo periodo, ombre insistenti, che hanno appannato l’immagine della Turchia quale modello di democrazia mussulmana moderata da proporre ai Paesi del Medio Oriente. Le misure autoritarie adottate dal governo, nel restringere e creare pregiudizio alle libertà civili, economiche e individuali, hanno riportato tensioni autoritarie nel sistema. Da una parte, insieme alla società civile, anche il libero mercato inteso in senso ampio e popperiano subisce un forte pregiudizio e dall’altro il consolidamento democratico della Turchia segna un arretramento. Riferimenti bibliografici acemoglu d. e robinson j.a. (2007), On the Economic Origins of Democracy, in «Daedalus», vol. 136, n. 1. acemoglu d. e robinson w. (2012), Why Nations Fail, Crown Publisher, New York. Agenzia Internazionale dell’Energia (2010), Turkey, 2009 Review, Policies of iea Countries, Paris. avci g. (2005), Turkey’s eu Politics: What Justifies Reforms?, in sjursen h. (ed.), Enlargement in Perspective, arena Report n. 2, Oslo. Central Bank of the Republic of Turkey (cbrt) (2012), Statistics, available at http:// tcmb.gov.tr/yeni/cbt-uk-html. dahl r. (1992), Why Free Market is not Enough, in «Journal of Democracy», vol. 3, n. 3. dahl r. (1996), Equality Versus Inequality, in «Political Science and Politics», vol. 29, n. 4. demir o.o. e sozer m.a. (2012), Work and remittance Patterns of Irregular Immigrants in Turkey, in irekeci l., cohen h. e ratha d. (eds), Migrations and Remittance during the Global Fiancial Crisis and Beyond, The World Bank, Washington. dyer g. (2011), Will Turkey grant Erdogan’s Dreams, Winnipeg Free Press, http:// www.winnipegfreepress.com/opinion/analysis/will-turkey-grant-erdogansdreams-123678784.html.

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Riccardo Mario Cucciolla e Domenico Fracchiolla1

Democrazia e mercato: il caso del Caucaso post Sovietico

Introduzione L’affermazione della democrazia su scala mondiale, resa possibile dall’implosione dell’Unione sovietica e dalla conclusione della Guerra fredda, è uno dei portati più rilevanti della globalizzazione. Oggi il regime democratico è quello in cui vivono la maggior parte degli individui. Tuttavia, la presenza di Paesi più o meno democratici in aree geopolitiche distanti, ne rende difficile l’analisi. Molte transizioni sono inoltre rimaste incompiute e hanno dato vita a regimi ibridi, solo parzialmente liberi, o sono ripiegate in altre forme di autoritarismi. I tre Paesi considerati in questo capitolo sono rappresentativi della regione caucasica e fotografano le possibili combinazioni nella relazione tra democrazia a mercato, rispetto alla possibilità che regimi politici non democratici intraprendano processi di transizione democratica. Secondo una classificazione proposta da un report di Freedom House rilasciato per il 2013, Georgia, Armenia e Azerbaijan non sono regimi democratici (Consolidated Democracies o SemiConsolidated Democracy), e sono rispettivamente considerate Transitional Government (Georgia), Semi-Consolidated Authoritarian Regime (Armenia) e Consolidated Authoritarian Regime (Azerbaijan).

1. Riccardo Mario Cucciolla ha redatto l’introduzione e il paragrafo 2. Domenico Fracchiolla il paragrafo 1, 3 e le Conclusioni.

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Trattandosi di Paesi che pure hanno in diverso modo e con differenti intensità introdotto elementi di economia di mercato, si prestano allo studio dei fattori di crisi all’interno di regimi non democratici che favoriscono la contaminazione democratica e la disseminazione di pratiche inclusive quale esito delle riforme e dei cambiamenti in atto. Se la relazione tra democrazia e mercato opera nel senso precisato nei precedenti capitoli, è ipotizzabile che nei Paesi caucasici ci si trovi in una fase intermedia. Le riforme attuali dell’economia di mercato favoriscono pratiche inclusive, limitate, per il momento, alla società civile, cui seguirà il miglioramento anche degli altri indicatori democratici (il processo elettorale, la governance a livello nazionale e locale, la corruzione e i media indipendenti), su pressione della società civile e per effetto di contaminazione e disseminazione, proprio dei processi inclusivi. I tre Paesi sono considerati separatamente, secondo i profili di transizione politica ed economica e le relative culture politiche. Secondo Freedom House, la Georgia ha registrato dal 2005 miglioramenti negli indicatori democratici, situandosi tra i Paesi migliori del periodo, per gli sforzi verso la democratizzazione. L’Armenia e soprattutto l’Azerbaijan registrano invece un netto peggioramento. L’unico indicatore che può essere interpretato come un segnale positivo (sicuramente per la Georgia, con alcune precisazioni anche per l’Armenia e in minima parte per l’Azerbaijan) è quello della società civile, la cui strutturazione e compattezza è la migliore di tutta l’Eurasia e non è molto distante da quella dei Paesi balcanici (Freedom House, 2013). Tuttavia, anche in Georgia, dove la partecipazione politica è più evidente e la cultura politica mostra segnali importanti di vitalità, i benefici dell’adozione di riforme economiche liberiste sono limitati dalle pratiche estrattive delle ristrette élite di potere che ostacolano il cambiamento, in difesa dei propri privilegi. Riprendendo gli argomenti degli studiosi critici del Washington Consensus, si può considerare, infatti, che spesso le riforme hanno aumentato i livelli di disuguaglianza

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e la polarizzazione sociale, senza risolvere i problemi strutturali. Un’applicazione strumentale del Washington Consensus, prevedendo in genere privatizzazioni, liberalizzazioni e tagli massicci alla spesa pubblica, penalizza ulteriormente le fasce più deboli della società (Haggard e Kaufman, 1995) e si traduce in uno spettacolare arricchimento delle élite politiche ed economiche al potere (Huber, Rueschemeyer, Stephens, 1997). Questo è in parte quanto è accaduto nei Paesi caucasici, soprattutto in Azerbaijan, dove le élite di potere sono più aggressive nelle politiche estrattive adottate. Un’ultima necessaria notazione riguarda la dimensione geopolitica e di sicurezza, una variabile imprescindibile per l’analisi delle transizioni caucasiche. La Georgia soffre della propria posizione geografica e delle ingerenze di un vicino scomodo come la Federazione russa, potenza regionale che svolge un’azione destabilizzante nei confronti della stessa unità territoriale del Paese. La crisi delle regioni separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud e il conflitto contro il governo centrale di Tbilisi del 2008 evidenziano con chiarezza questa situazione. Priva di sbocchi verso il mare e isolata tra Georgia, Turchia, Iran e Azerbaijan, anche l’Armenia vive in un difficilissimo contesto geostrategico, con due importanti confini chiusi da vent’anni, il mantenimento economico, politico e militare della piccola regione del Nagorno Karabakh e una necessaria alleanza strategica, commerciale e militare con la Russia che cerca di allontanare Yerevan da qualunque influenza occidentale. L’Azerbaijan affronta nella crisi del Nagorno Karabakh una situazione di «conflitto congelato» ed è intrappolato in un dilemma strategico di difficile risoluzione che interessa l’intero scenario regionale. 1. La Georgia: una transizione politico-economica travagliata, ma effettiva In Georgia la relazione tra democrazia e mercato deve essere declinata in funzione della stabilità del sistema, a rischio per

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i problemi di sicurezza che caratterizzano l’intera area. Dal punto di vista geopolitico, infatti, i Paesi caucasici hanno la particolare caratteristica di rientrare nell’orbita gravitazionale della Russia, che sin dal xviii secolo, considera la regione all’interno della propria zona d’influenza. Le possibilità per i piccoli Stati caucasici di affrancarsi da questa realtà geopolitica sono scarse e diversi tentativi in tal senso si sono spesso rivelati fallimentari e velleitari. La transizione della Georgia, dalla dichiarazione d’indipendenza del 9 aprile del 1991 a oggi, è un processo incompleto e travagliato, ancorché effettivo per i risultati (parziali) raggiunti sia sul piano economico, sia sul piano politico (King, Khubua, 2009; Kaufman, 1993; Wheatley, 2005; Areshidze, 2007; Nodia, Scholtbach, 2006). Con la precisazione che il ruolo di ingerenza e di intervento diretto negli affari interni del Paese della Russia è stato costante e crescente nei momenti di maggior crisi, è possibile individuare tre fasi in cui dividere la transizione in Georgia, in cui individuare la traccia della relazione indagata. La prima fase corrisponde al periodo di maggiore instabilità e crisi, con pericolosi focolai di guerra civile. Nel 1990, la regione dell’Ossezia del Sud si dichiara indipendente, con l’obiettivo di riunificarsi con l’Ossezia del Nord, in Russia, provocando una guerra tra i separatisti e le forze centrali georgiane. Il cessate il fuoco era firmato nel 1992, lasciando il conflitto congelato. Successivamente, a seguito di un referendum, la Georgia dichiarava la propria indipendenza dall’Unione sovietica e l’ex ministro degli Esteri dell’Urss, Eduard Shevardnadze prendeva il potere con la forza nel 1992, destituendo il Presidente eletto, l’ex dissidente nazionalista Zviad Gamsakhurdia. Seguirono elezioni parlamentari che non diedero una maggioranza stabile e aggravarono l’instabilità politica. Nel 1993, la Federazione russa, su richiesta di Shevernaze, inviava 19.000 soldati per sedare un focolaio di guerra civile, per il rifiorire delle rivendicazioni dei ribelli secessionisti della regione dell’Abkhazia e un’ulteriore insurrezione da parte dei lealisti di Gamsakhurdia. Nel 1994,

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Georgia e Abkhazia concordarono un cessate il fuoco e lo stanziamento di una forza militare russa di interposizione lungo il confine che, de facto, si era costituito. Ottenuta una precaria stabilizzazione con la forza e l’intervento esterno, Shevardnadze consolidava il potere adottando una Costituzione e vincendo le elezioni parlamentari e presidenziali nel 1995, parlamentari di nuovo nel 1999 (queste ultime celebrate in modo regolare secondo gli osservatore dell’osce) e presidenziali nel 2000 (contestate per irregolarità dagli osservatori internazionali). Le ulteriori accuse di brogli alle elezioni parlamentari del 2003 innescavano una fase di profonda crisi e instabilità, aggravata da una situazione generalizzata di corruzione dilagante. Questi temi avrebbero articolato la «Rivoluzione delle Rose» (Karumiże, 2005), un movimento di contestazione del sistema politico, formato nella società civile. Shevardnadze si dimetteva, la Corte suprema annullava i risultati elettorali e indiceva nuove elezioni. Iniziava in questo modo la seconda fase della transizione georgiana, in cui un nuovo leader politico si affermava: Mikheil Saakashvili fondava il proprio partito Movimento nazionale unito, e vinceva le elezioni presidenziali nel gennaio 2004 (il 96 per cento delle preferenze), le elezioni politiche nel marzo 2004 (con due terzi dei seggi assegnati alla sua parte politica e ai partiti alleati (Bader, 2010; Freedom House, 2012). Si apriva una stagione di transizione democratica con grandi aspettative di riforme, democrazia e stabilità. Dopo aver riportato la stabilità interna, ristabilito il controllo sulla regione autonoma sud-occidentale dell’Ajaria e impegnatosi a reintegrare le enclave separatiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, il nuovo Presidente dava inizio alla stagione delle riforme: erano adottati provvedimenti di liberalizzazione volti a stimolare l’imprenditorialità, generando nuove entrate di bilancio, riducendo e migliorando la spesa pubblica, rilanciando i settori strategici, incentivando gli investimenti e intraprendendo un programma di lotta alla povertà. A partire dal 2004, il governo georgiano introdu-

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ceva una serie di importanti riforme fiscali che riducevano e semplificavano i meccanismi di tassazione, il sistema delle aliquote fiscali e il regime di licenze, permessi e concessioni per nuove attività, introducendo il principio di silenzio assenso. Riforme tese alla flessibilità e alla deregolamentazione erano adottate nel mercato del lavoro e liberalizzazioni e privatizzazioni (per monitorare lo stato delle privatizzazioni si veda http://www.privatization.ge) coinvolgevano tutti i settori dell’economia e quasi tutto il patrimonio commerciale ancora controllato dallo Stato, introducendo una normativa doganale più concorrenziale e meno protezionista. Nel 2006 la Banca mondiale inseriva la Georgia tra i «top reformer» economici (http://www.nato-pa.int/default. asp?SHORTCUT=1171). Il governo georgiano diversificava le rotte commerciali: Paese membro dell’omc dal 2000, negli ultimi anni intensificava il volume di scambi commerciali con l’Occidente e, in particolare, con l’Ue (http://www.civil. ge/eng/article.php?id=25175), in prospettiva di un’eventuale, quanto remota adesione. Saakashvili portava avanti la lotta alla corruzione con buoni risultati: secondo l’indice di percezione della corruzione per il 2011 formulato dall’agenzia Transparency International – una graduatoria che pone ai vertici i Paesi dove la corruzione è meno presente – la Georgia occupa la 61esima posizione, in netto miglioramento rispetto alla posizione 85 ricoperta soltanto nel 2002. Inoltre, il Paese si collocava alla prima posizione tra i Paesi del mondo in termini di corruzione (Global Corruption Barometer, 2010). Anche il processo di affermazione della democrazia nell’ambito dello state-building registrava progressi importanti (Freedom House, 2012), con efficaci campagne per la riduzione della corruzione all’interno degli organi di polizia e dell’informazione e l’adozione di un sistema elettorale più propriamente rappresentativo (Mitchell, 2009). Grazie a radicali riforme di stampo liberale, il pil cresceva a tassi che sono variati tra il 7 per cento e il 12 per cento annuo, in dieci anni (http://www.worldbank.org/en/country/ georgia), il tasso di inflazione si attestava sul 2 per cento, il

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lari georgiano rimaneva stabile e il tasso di povertà scendeva al 9,2 per cento nel 2011. A differenza di quanto sostenuto dalle tesi sviluppiste (Lipset e al.) la crescita del pil era solo la conseguenza e uno dei risultati positivi e desiderati delle riforme inclusive poste in essere. L’aspetto più importante era la circolazione delle idee, delle persone e la moltiplicazione delle opportunità diffuse per gli individui. In questo modo, si ponevano le basi per la creazione di una società civile strutturata, con una forte classe media, che si poneva in un rapporto osmotico e diretto con la democratizzazione del Paese. Si trattava con evidenza di un processo ancora agli inizi, suscettibile di incontrare forti resistenze da parte delle élite nuove politiche più che economiche (in Georgia l’economia era distrutta dopo la dissoluzione dell’Urss), preoccupate di assicurarsi il potere appena conquistato. In effetti la politica governativa si orientava proprio in questa direzione. Considerando complessivamente l’azione di Saakashvili si deve parlare di una «transizione incerta». Le attese erano in parte tradite per uno slittamento dell’asse del potere dal Parlamento al governo, in forza dell’approvazione di emendamenti costituzionali che rafforzavano i poteri del Presidente, l’affermazione di un sistema monopartitico con importanti legami tra questo partito di governo e lo stesso potere statale. Inoltre, la compressione della libertà di informazione, le continue manipolazioni della legge elettorale, le intromissioni politiche nel potere giudiziario e di quello legislativo nell’affermazione delle riforme hanno compromesso il quadro delle riforme (Freizer, 2004). L’apice di questa fase di «transizione incerta» si raggiungeva nel 2007, quando il governo georgiano imponeva lo stato d’emergenza e reprimeva una serie di proteste di piazza che chiedevano maggiori riforme economiche e sociali. Tali repressioni vennero sfruttate dall’opposizione che diffondeva le immagini attraverso l’emittente televisiva indipendente Imedi TV. Saakashvili rassegnava le proprie dimissioni e indiceva elezioni presidenziali anticipate per il 5 gennaio 2008, che vinceva di misura il Presidente dimissionario con il 53 per cento dei voti. Anche le successive elezioni

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parlamentari nel maggio successivo erano vinte di misura dal suo partito, ottenendo 119 seggi. Tuttavia, il quadro era cambiato: il partito di governo aveva ricevuto un largo finanziamento pubblico per promuovere la campagna elettorale, mentre agli esponenti dell’opposizione erano concessi solo limitati spazi mediatici, senza le risorse del partito di governo. La crisi scoppiata in Ossezia del Sud e in Abkhazia nell’agosto 2008 contro l’esercito russo provocarono un vero e proprio disastro interno, politico ed economico, confermando la rilevanza della variabile esterna della Russia, che opera soprattutto nei momenti di crisi. La guerra lampo condotta da Mosca contro Tbilisi, la schiacciante sconfitta subita dall’esercito georgiano, e la conseguente invasione russa, non fecero che compromettere la situazione interna e creare un forte dissenso nei confronti del potere centrale. La campagna per la riconquista del territorio nazionale e il conseguente conflitto armato furono scelte azzardate con cui Saakashvili comprometteva l’integrità territoriale georgiana, mentre la Russia occupava le due regioni separatiste riconoscendone l’indipendenza insieme a una manciata di Paesi. I leader dell’opposizione chiesero le dimissioni del presidente nell’aprile 2009 e il suo rifiuto portò a una serie di proteste di piazza per le strade di Tbilisi che durarono fino al luglio successivo. In queste occasioni fu evitato il ricorso alla forza pubblica. Il governo, temendo di perdere il consenso dell’opinione pubblica e le elezioni, assumeva un atteggiamento solo apparentemente bipolare, proprio dei regimi ibridi. Da una parte, adottava una serie di importanti riforme finalizzate a una maggiore democratizzazione formale del sistema: in un pacchetto di emendamenti costituzionali approvati nell’ottobre 2010, a partire dal 2013 la maggior parte del potere esecutivo sarebbe stato trasferito dal Presidente al Primo Ministro nominato dal Parlamento, ed era stata inserita una nuova normativa che rende più difficile la sfiducia parlamentare nei confronti del Primo Ministro (latitude.blogs.nytimes. com 2012). Nel 2011, Saakashvili avviava anche un proces-

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so di decentramento del potere, trasferendo il parlamento nell’antica capitale Kutaisi. D’altra parte, faceva pressioni sulla magistratura per contrastare i propri oppositori, cercando di rimanere nel quadro legale della democrazia, con delle forzature evidenti e inaccettabili della rule of law. Secondo la legge georgiana, solo i cittadini possono formare o finanziare i partiti politici, o correre per cariche elettive. Nell’ottobre 2011, il miliardario georgiano Bidzina Ivanishvili dichiarava di voler creare un proprio partito d’opposizione e riceveva una multa di 90,0 milioni di dollari per aver finanziato in maniera illecita il suo movimento Georgian Dream. Avendo vissuto all’estero per anni e acquisita la cittadinanza francese e russa, aveva momentaneamente revocata la cittadinanza georgiana e il relativo impedimento di formare un partito politico. Nel maggio 2011 il Parlamento approvava comunque una legge che legittimava anche le candidature di cittadini dell’Unione europea, riammettendo, di fatto, Ivanishvili (freedomhouse.org/report/freedom-world/2012/georgia). Alle elezioni legislative dell’ottobre 2012, la maggioranza parlamentare passava al cartello dell’opposizione unita Georgian Dream guidata appunto da Bidzina Ivanishvili. Attraverso questa prima manifestazione di coabitazione tra un Presidente e un Primo Ministro di opposta fazione, la Georgia entrava nella terza fase del processo di transizione, realizzava parzialmente una prima alternanza al potere tra maggioranza e opposizione e compiva un passo deciso verso l’affermazione di un regime democratico. Un’alternanza effettiva si sarebbe realizzata con le presidenziali dell’ottobre 2013 alle quali Saakashvili non avrebbe potuto partecipare per limiti costituzionali che ne impedivano la rielezione. Queste elezioni furono vinte direttamente al primo turno da Giorgi Margvelashvili – candidato indipendente sostenuto da Georgian Dream – con il 62,12 per cento delle preferenze. In ogni modo, è pacifico sostenere che la democrazia georgiana debba ancora stabilizzarsi e maturare per poterne parlare in senso compiuto. In questa terza fase, i profili di inclusività economica e politica operano nel senso di una maggiore ed effettiva de-

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mocratizzazione del Paese. Secondo l’Index of Economic Freedom dell’Heritage Foundation, la Georgia ha migliorato lo score di apertura economica negli ultimi due anni in modo significativo, raggiungendo in quest’ultimo anno il livello di apertura economica più ampio di sempre per il Paese. A questo miglioramento corrisponde sul piano politico una progressione degli indicatori della democratizzazione misurati dall’indice di Freedom in The World di Freedom House, che per l’ultimo anno assegna alla Georgia il punteggio più alto di sempre, mantenendo saldamente il Paese tra i Partly Free, in un trend di continuo miglioramento nel corso degli anni. L’Occidente ha intensificato il dialogo con la Georgia chiedendo un maggiore coinvolgimento di Tbilisi nella promozione dei valori occidentali, quali democrazia, mercato e rispetto dei diritti umani, e di importanti interessi strategico-economici legati alla trasmissione di idrocarburi dalla regione caspica. Le politiche di vicinato e il cosiddetto «partenariato orientale», promosso dall’Ue a partire dal 2008, e l’accordo di associazione tra Tbilisi e l’Ue del giugno 2014 hanno lanciato una serie di nuove sfide alla Georgia per il rafforzamento dei diritti umani e delle istituzioni democratiche e l’adozione di norme e standard economici comunitari. Similmente anche l’agenzia usaid ha promosso importanti programmi per lo sviluppo politico ed economico del Paese caucasico, come pure diverse Organizzazioni Internazionali, ong e organizzazioni filantropiche come la Open Society Institute (osi) fondata da George Soros. Anche il fmi ha accordato al governo di Tbilisi cicli di finanziamenti per milioni di dollari, finalizzati all’apertura del mercato georgiano e alla creazione di un ambiente atto ad attirare ide. Per arrivare a inserire il Paese tra le democrazie a pieno titolo, bisogna ancora superare alcune criticità che ostacolano la formazione di un’ampia classe media e una società civile partecipante, forte e strutturata. Il tasso di disoccupazione attestato al 16,5 per cento (italian.ruvr.ru/2Georgia-disoccupazione), seppur calato rispetto al 25 per cento del 2007 è al tempo stesso una variabile esplicativa e causale della mancata

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democratizzazione, cui si aggiunge il generale sottosviluppo delle aree rurali (worldbank.org/en/country/georgia/overview), l’elevata dipendenza economica dalla Russia che, con i suoi embarghi, può comportare gravi effetti che assumono rilevanza economica e politica. Infine, un indicatore della parzialità dei risultati d’inclusività del Paese è dato dalla cultura politica. I valori democratico-liberali non sono sedimentati nell’eterogenea società civile georgiana, decisamente frammentata in clevage di tipo etnico, linguistico e religioso. Come rivela un’inchiesta condotta dal National Democratic Institute di Washington la democrazia non rappresenta la priorità per i cittadini georgiani: nell’aprile del 2010 solo il 36% dei georgiani riteneva il sistema politico vigente nel Paese come una democrazia e la democrazia e l’ingresso nel blocco euroatlantico figuravano tra le priorità nazionali solo per il 15% degli intervistati. Seguivano lo svolgimento di elezioni libere e corrette, il 7% il rispetto dei diritti umani, il 6% l’indipendenza del sistema giudiziario, il 4% il riconoscimento dei diritti di proprietà, il 4% la lotta alla corruzione, il 16% l’adesione della Georgia alla nato e solo il 3% nell’Ue (Public Attitudes towards elections in Georgia: Results of a April 2010 survey carried out for ndi by crrc, 2010). Lo stesso termine «democrazia» assume, per i georgiani, dei significati diversi: per il 58% degli intervistati corrisponde a libertà di espressione e di informazione, per il 51% al concetto ampio di libertà di iniziativa economica, per il 38% al principio di uguaglianza di fronte alla legge, per il 33% alla protezione dei diritti umani, per il 25% a elezioni libere e corrette, per il 22% a occupazione, per il 6% all’accountability del governo, per l’1% a instabilità e per un altro 1% a lotta tra fazioni politiche. Tra le riforme che i georgiani percepiscono come prioritarie: il 44% degli intervistati vede come necessaria e prioritaria l’indipendenza della magistratura, il 44% la protezione dei diritti di proprietà, il 37% un nuovo sistema elettorale, il 29% l’indipendenza dei media, il 16% le riforme dell’ordinamento costituzionale, il 15% l’elezione delle amministrazioni locali, l’11% l’ampliamento dei poteri del Parlamento, il 2% nessuna.

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Riguardo ai media (nella fattispecie il principale canale televisivo di informazione, tv-Channel 1), il 35% degli intervistati sostiene che questi riflettano gli interessi del governo, l’1% dell’opposizione, il 17% di nessuno dei due, il 35% non sa, il 5% si rifiuta di rispondere. Il ritardo nell’affermazione di un sistema definitivamente democratico lascia all’Occidente delle diffidenze nei confronti del governo di Tbilisi e continua ad allontanare la prospettiva della Georgia di avvicinamento alla nato e all’Ue. La persistente, seppur attenuata, instabilità endemica all’interno del sistema politico georgiano risulta tuttora un forte freno allo sviluppo della democrazia e del mercato in Georgia. L’obiettivo perseguito è di utilizzare la leva esterna occidentale per controbilanciare le pressioni inevitabili di Mosca che ostacolano la piena democratizzazione del Paese. L’affermazione di un regime pienamente concorrenziale sotto il profilo economico, che approfondisse i profili d’inclusività prima delineati e in parte presenti nel Paese, risulterebbe la vera ricetta per la democratizzazione del Paese e, probabilmente, dell’intera regione caucasica. L’affermazione della democrazia significherebbe per la Georgia un calo della retorica populista e nazionalista e la riduzione della permanente ed endemica instabilità. 2. La difficile transizione politica dell’Armenia L’Armenia otteneva l’indipendenza dall’Urss il 21 settembre 1991, spinta da un movimento nazionalista che rivendicava il trasferimento di sovranità della regione etnica armena del Nagorno Karabakh dalla rss Azera alla rss Armena. Nell’ottobre dello stesso anno era eletto come Presidente della Repubblica Levon Ter-Petrosyan, leader dell’Unione democratica nazionale, con l’83 per cento delle preferenze. Nel corso degli anni ’90, il governo di Yerevan intraprese un timido percorso di riforme tese ad affermare i principi di concorrenza, pluralismo e multipartitismo. Tuttavia, il Paese ha fortemente risentito

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della fine del sistema sovietico ed è entrata negli anni ’90 in una fase di forte crisi economica caratterizzata da una prima recessione e una successiva stagflazione, nonostante i tentativi di apertura dell’economia. L’isolamento geopolitico ha ulteriormente limitato le opportunità commerciali: l’Armenia ha solo due frontiere aperte e con due Paesi difficili come l’Iran e la Georgia. I confini orientali e occidentali (con l’Azerbaijan e la Turchia) sono stati chiusi nel 1994 a causa del supporto armeno ai separatisti del Nagorno-Karabakh, precludendo importanti opportunità commerciali nei confronti di due mercati in fortissima ascesa nel panorama globale. La relazione tra democrazia e mercato in un regime autoritario semi-consolidato si declina in considerazione degli spazi limitati di pluralismo presenti nel sistema, attraverso cui gli strumenti del libero mercato possono operare e aprire brecce entro cui innescare i germi fecondi dell’inclusività. A riguardo, esiste un singolare parallelismo tra l’Armenia e Israele, con cui il Paese caucasico condivide alcuni caratteri comuni. Questo richiamo è utile in considerazione della lunga fase di transizione verso la democrazia e il libero mercato di Israele, conclusasi positivamente, nonostante le significative difficoltà di seguito elencate. L’Armenia sta avviando questo processo da poco tempo. Entrambi i Paesi affondano le proprie radici nella storia di una civiltà millenaria, il popolo ha subito gravi diaspore e un genocidio, sono nati per la volontà delle potenze vincitrici di un conflitto mondiale, l’ambiente che li circonda è ostile, le rispettive economie hanno nel capitolo delle rimesse dall’estero una voce importante, necessitano dell’alleanza di una grande potenza che agisce da protettrice. Infine, come Israele, l’Armenia è uno Stato «forte», con la popolazione in perenne stato d’assedio e il governo non comprende le ragioni per cui dovrebbe cedere i territori acquisiti in risposta a un’aggressione militare. L’Armenia attualmente occupa circa un quinto del territorio azero in un conflitto che non è mai stato risolto e che rischia perennemente di scadere in una guerra su larga scala. Il Nagorno Karabakh ha assunto un

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significato simbolico per la nuova Armenia indipendente, di risorgimento e di rivincita nei confronti dello storico nemico turco(fono) e non può essere messo in discussione. Ma finché questa situazione non verrà risolta, non verranno normalizzati nemmeno i rapporti con la Turchia e l’Armenia continuerà a rimanere una realtà isolata e tagliata fuori dall’Occidente e dalle rotte degli oleodotti, precludendosi quelle incredibili opportunità di sviluppo che hanno anche caratterizzato il successo economico georgiano. Una differenza tra il conflitto israelo-palestinese e il conflitto armeno-azero è che mentre nel Nagorno Karabakh viveva già una maggioranza armena, e durante la guerra venne attuata una vera e propria pulizia etnica, per cui in tali territori la storica minoranza azera è stata praticamente sradicata, in Palestina no. Formalmente, l’Armenia sottoscrive pienamente tutti i principi democratici e la gran parte della legislazione armena viene approvata dalla Commissione Venezia del Consiglio d’Europa (CdE). Va notato che l’Armenia divenne un membro del CdE proprio nel 2001. Tuttavia, il processo di democratizzazione era inibito dalla corruzione e dagli ampi poteri riconosciuti dalla nuova Costituzione del 1995 al governo (che ostacolavano la formazione dello Stato di diritto), nonché dalla difficile situazione in Nagorno Karabakh. Nel corso delle elezioni parlamentari, del referendum costituzionale nel 1995, nelle elezioni presidenziali del 1996 e del 1998, la situazione precipitò rapidamente e nonostante le manipolazioni del voto e i brogli con cui Levon Ter-Petrosyan vinceva le elezioni, il Presidente alla fine decise di dimettersi. L’unica eccezione ci fu per le elezioni parlamentari del 1999 i cui risultati vennero confermati e legittimati da varie organizzazioni internazionali (come osce e Consiglio d’Europa) e ong presenti in Armenia per monitorare lo svolgimento delle elezioni. Questo primo passo verso la transizione democratica venne ulteriormente eroso nel corso degli anni 2000, momento in cui iniziò un processo di «de-democratizzazione» e un’inedita deriva autoritaria del regime, caratterizzata dalla

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mancanza di elezioni propriamente libere e corrette e un limitato rispetto dei diritti umani. Dopo la drammatica situazione economica dovuta anche all’esigenza di ricostruzione dopo il terremoto del 1988 (che ha causato 25.000 vittime e oltre mezzo milione di sfollati) e la guerra in Nagorno Karabakh, nel 1994, il governo armeno lanciava un programma di liberalizzazioni e di sviluppo economico promosso dal fmi (imf paper, 2003) che portava l’economia a crescere positivamente nel periodo 1995-2005. Seguendo questo programma, anche l’Armenia riuscì a privatizzare le piccole e medie imprese (http://www.tacentral.com/ economy.asp), a stabilizzare il dram e a ridurne drasticamente l’inflazione (galoppante sin dalla sua introduzione nel 1993). Una legge di stampo liberista sugli investimenti esteri venne approvata nel giugno 1994, e una legge sulle privatizzazione nel 1997, così come un programma di privatizzazione demaniale. In quegli anni, il governo armeno fece dei progressi verso l’adesione all’omc, al quale aderirà definitivamente nel gennaio 2003, pur non avendo pienamente aperto il proprio mercato alla sfida globale. La Costituzione, d’altra parte, riconosce pienamente i diritti economici dei cittadini2 (come il diritto di proprietà privata e di stabilimento di imprese e attività economiche di vario tipo). Tuttavia, si tratta di riforme tendenti a migliorare le credenziali internazionale del Paese dall’impatto più che sostanziale. Il sistema giudiziario inefficiente (e spesso corrotto), la mancanza di effettive autorità garanti della concorrenza finiscono per compromettere la creazione di un ambiente capace di attirare investimenti e favorire liberamente l’iniziativa privata. Il contesto geopolitico sfavorevole contribuisce in modo determinante a soffocare i timidi processi di riforma, la cui efficacia è relegata alla creazione di piccoli spazi di autonomia controllata entro cui operano segmenti di società civile. In 2. Cfr. The Constitution of the Republic of Armenia (with amendments), disponibile alla pagina http://www.parliament.am/parliament.php?id= constitution&lang=eng#2.

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Armenia, le principali industrie rimangono nelle mani dei cosiddetti oligarchi che hanno ricevuto un trattamento preferenziale nelle prime fasi del processo di privatizzazione3. Dal gennaio 2001 il governo armeno ha istituito la Commissione statale per la Tutela della Concorrenza economica4, ma questa non ha conseguito traguardi soddisfacenti nell’affermazione di un regime concorrenziale in Armenia. In base a un’indagine condotta dall’Economic Forum Global Competitiveness Report, l’Armenia ricoprirebbe gli ultimi posti in termini di effettività di politiche anti-monopolistiche5. La Banca mondiale osserva che finché ci saranno gli oligopoli in Armenia e non si affermerà un effettivo regime di concorrenza, l’Armenia non potrà mai raggiungere un livello di sviluppo effettivo per le sue potenzialità6, in quanto impedisce l’accesso al mercato di molti attori e investitori, scoraggiati da un sistema formato da monopoli di fatto e concorrenza sleale. Un duro colpo alle possibilità di democratizzazione arrivò dagli attacchi terroristici all’Assemblea nazionale del 27 ottobre 1999. La reazione del governo fu un rafforzamento dei poteri statali e la loro maggiore concentrazione nelle mani del Presidente. Negli ultimi mesi del 1999, il nuovo Presidente armeno Robert Kocharyan stravolse l’ordinamento costituzionale e affermò un regime semiautoritario, che poneva al potere un’élite clanistica affermatasi nel corso della guerra del Nagorno Karabakh (1988-1994) (Petrosyan, 2010). Durante il primo mandato di Kocharyan (1998-2003) vi furono importanti violazioni dei diritti umani, limitazioni del diritto di informazione e il definitivo consolidamento dell’élite karabakha al potere. Il controllo del governo sui media finì per limitare l’accesso alle frequenze all’opposizione e ai canali indipendenti. Durante la campagna elettorale del 2003 3. Cfr. http://www.freedomhouse.org/report/freedom-world/2012/armenia. 4. Cfr. http://www.competition.am/?lng=2. 5. Cfr. http://www.civilitasfoundation.org/cf/events/531-armenia-in-2010-ayear-of-uncertainty.pdf 6. Cfr. http://www.armenialiberty.org/content/article/1889521.htm.

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i media nascosero all’opinione pubblica armena molti problemi socio-economici nei quali versava il Paese, marcando invece l’emergenza di altri come il continuo stato d’assedio che veniva mosso da Turchia e Azerbaijan. Nel 2003, venne rieletto Kocharyan in una tornata elettorale considerata come viziata da numerose frodi e violazioni dei diritti politici; e il governo rifiutò di ascoltare le richieste dell’opposizione e di conformarsi con la decisione della Corte costituzionale del 17 aprile 2003 che imponeva di indire un referendum, promosso dal candidato dell’opposizione alla Presidenza della Repubblica, Stepan Demirchyan, per confermare il consenso popolare al Presidente. Il grave squilibrio commerciale dell’Armenia (dovuto soprattutto alla necessità di importare fonti energetiche da Russia e Iran) è stato in qualche modo compensato dagli aiuti internazionali, le rimesse degli armeni che lavorano all’estero e gli investimenti esteri diretti. Nel 2005, Yerevan ha portato avanti alcune riforme in materia fiscale e doganale, ma le misure anti-corruzione sono state inefficaci e la crisi economica ha portato a una forte riduzione del gettito fiscale, costringendo il governo ad accettare onerosi pacchetti di prestito dalla Russia, dal fmi, dalla bers, dalla Banca mondiale e da altre istituzioni finanziarie internazionali. Per questo, è pacifico sostenere che la crescita economica armena sia stata incoraggiata maggiormente da fattori esogeni piuttosto che da un’effettiva riforma del sistema economico in senso concorrenziale: la crescita record della maggior parte dei parametri macro-economici registrata negli ultimi anni non ha eluso i forti ritardi e il sostanziale sottosviluppo in termini di competitività7. Inoltre, va notato che l’assenza di un effettivo mercato concorrenziale e la persistenza di pervasivi monopoli 7. La competitività in Armenia è decisamente bassa e stagnante. Secondo il Global Competitiveness Index, l’Armenia è scivolata alla posizione 93 (su 131) rispetto alla posizione 80 del periodo precedente (2006-2007). Cfr. https://members.weforum.org/pdf/Global_Competitiveness_Reports/Reports/gcr_2007/ gcr2007_rankings.pdf.

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nei principali settori commerciali hanno reso l’economia armena particolarmente vulnerabile alle speculazioni e al forte deterioramento dell’economia globale e la crisi economica in Russia. Questa situazione di chiaroscuri, con una pesante ingerenza della dimensione internazionale, continua a riflettersi nel sistema politico negli anni 2000. Le elezioni presidenziali del 2003 e 2008, il referendum costituzionale del 2005, le elezioni parlamentari del 2007, rappresentano momenti di fallimento del Paese nella transizione democratica per le contestazioni e i brogli. Serzh Sargsyan, leader del Partito repubblicano armeno, ha la maggioranza in Parlamento e ha la responsabilità di governo, godendo del sostegno della «burocrazia armena». La sanguinosa repressione l’1 marzo 2008 in cui morirono ufficialmente dieci manifestanti e le contestate elezioni comunali di Yerevan del 2009 non rappresentano di certo un esempio della propensione democratica di Sargsyan8. Tuttavia, consolidato il potere così ottenuto, Sargsyan sembrerebbe aver rallentato il processo di consolidamento del potere autoritario. La scarsa popolarità, la mancanza di importanti finanziatori e una coalizione dominante debole, per la presenza di Kocharyn che continua a controllare settori chiave della vita politico-economica del Paese, potrebbero spiegare questa debolezza9. Sargsyan non ha avuto gli strumenti per preservare il regime autoritario che aveva ereditato ed è dovuto scendere molto di più a compromessi con le opposizioni e la società civile rispetto ai suoi predecessori. Nel frattempo, il CdE ha inasprito le critiche sull’inadeguatezza delle misure che erano state applicate per indagare sugli abusi perpetrati dalle forze dell’ordine durante 8. Anche le elezioni comunali di Yerevan del maggio 2009 vennero contestate dall’opposizione come fraudolente e soffrirono di significative violazioni. Cfr. http://www.freedomhouse.org/report/freedom-world/2012/armenia. 9. Il potere d’influenza di Kocharyan è limitato dallo scarso supporto popolare e internazionale, a seguito dei fatti del 1° marzo 2008. Il primo ex Presidente, Levon Ter-Petrosian gode, invece, di un fortissimo supporto popolare e del favore internazionale.

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gli scontri del 2008 e nel giugno 2009; come gesto distensivo, venivano amnistiati circa 30 manifestanti, mentre una dozzina rimasero imprigionati fino alla fine del 2010. È possibile considerare questa una nuova fase del processo di transizione dell’Armenia in cui gli spazi limitati di pluralismo concessi dal regime consentono alla relazione tra democrazia e mercato di iniziare timidamente a operare? A partire da gennaio 2011, ispirati dalla cosiddetta «Primavera araba», decine di migliaia di manifestanti dell’opposizione scesero in piazza per protestare contro le condizioni economiche (bassi salari e alta disoccupazione), chiedendo maggiori standard democratici, misure contro la dilagante corruzione, la libertà di manifestare e il rilascio dei prigionieri politici. Al fine di evitare un ulteriore deterioramento delle proteste e per le maggiori richieste promosse da parte del CdE, le autorità armene hanno liberato gli ultimi prigionieri politici che erano stati imprigionati nel 2008 a seguito di un ultimo giro di vite postelettorale sull’opposizione. Il governo ha inoltre revocato il divieto di manifestazioni in Piazza della Libertà, a Yerevan, e ha riaperto un’inchiesta sulle 10 vittime delle repressioni del 2008, iniziando un dialogo con l’opposizione10. Tuttavia, il dialogo è stato sospeso nel settembre 2011, senza risultati tangibili, e l’inchiesta sulle 10 morti non fece progressi sostanziali. Infine, date le valutazioni negative degli osservatori internazionali riguardo le elezioni del 2008 e 2009, il regime armeno ha adottato un nuovo codice elettorale, che il Consiglio d’Europa ha considerato come un miglioramento rispetto al precedente, anche se non ha inserito le proposte che erano state portate avanti dall’opposizione. Sul piano economico il 2012 il pil si è attestato a 9,951 miliardi dollari11, con un tasso di crescita del 3,8% e una ripartizione della produzione armena in: agricoltura (19,2%), industria (40,8%) e servizi (40%). Nel 2012 il tasso di disoc-

10. Cfr. http://www.freedomhouse.org/report/freedom-world/2012/armenia. 11. Cfr. http://data.worldbank.org/country/armenia.

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cupazione si attestava al 17,3%12, il tasso di inflazione intorno al 4%, il coefficiente di Gini (che misura l’omogeneità della distribuzione del reddito) attestato a 0,3, e una fascia sociale al di sotto della linea di povertà stimata nel 2010 al 35,8% della popolazione armena. In verità diverse ong e le stesse organizzazioni internazionali presenti in Armenia (come l’osce) contestano questo dato e considerano il tasso di disoccupazione reale intorno al 30%, in totale contrasto con le cifre ufficiali riportate dal governo13. Per rispondere alla domanda iniziale di questo paragrafo, sulla base degli elementi delineati la risposta non può comunque essere positiva. I timidi avanzamenti nella transizione del regime nella direzione di un processo di democratizzazione non sono comunque iscrivibili agli effetti delle riforma nel senso dell’economia di mercato. Piuttosto, sono il risultato dell’operare di variabili internazionali (contesto internazionale, reputazione internazionale per buone relazioni commerciali, rimesse degli immigrati ecc.) in senso contrario a quello che aveva consentito e alimentato il processo di consolidamento autoritario del regime. Le elezioni legislative del 6 maggio 2012, che hanno registrato una partecipazione del 62,2% degli aventi diritto al voto, hanno visto una vittoria schiacciante della coalizione tripartita di governo che ha ottenuto una maggioranza di 111 seggi su 131: il solo Partito repubblicano armeno14 ha ottenuto il 44,78% delle preferenze, conquistando 69 seggi; Armenia prosperosa15 36 seggi; e Stato di Diritto16 6 seggi. L’opposi12. Cfr. https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/ am.html. 13. Cfr. http://www.armenialiberty.org/content/article/1580435.html; www.cia. gov/library/publications/the-world-factbook/geos/am.html. 14. Partito repubblicano armeno (in armeno Հայաստանի Հանրապետական Կուսակցութուն, Hayastani Hanrapetakan Kusaktsutyun, hhk). 15. Armenia prosperosa (Bargavadj Hayastani Kusaktsutyun, bhk) è un progetto dell’ex Presidente Kocharyan. Questa formazione si propone come forza alternativa al Partito repubblicano. 16. Stato di diritto (Orinants Erkir, oe), in inglese con rol – Rule of Law, è una formazione politica centrista guidata dal leader Artur Baghdasaryan. A partire

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zione ha ottenuto soltanto 20 seggi ripartiti tra: Congresso nazionale armeno17 (7), Federazione rivoluzionaria armena18 (6), Retaggi19 (5), indipendenti (2). Seppur si evidenziano dei netti miglioramenti in quanto sembra che queste elezioni siano state svolte secondo modalità più free and fair rispetto alle precedenti20, l’opposizione ha denunciato brogli diffusi, accusando la Commissione elettorale di aver gonfiato i dati sull’affluenza, attestata al 62%. Inoltre, l’osce ha denunciato una generale mancanza di fiducia da parte degli elettori e la sussistenza di gravi lacune che minano il processo democratico e la fiducia nelle urne21; e gli osservatori dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (pace) hanno evidenziato «interferenze diffuse nella gestione dei seggi e degli elettori da parte di alcuni partiti politici»22, invitando dal 2008, i vertici del partito hanno ricevuto una serie di pressioni da parte del governo per dimettersi dalle loro posizioni ai vertici dello Stato. 17. Il Congresso nazionale armeno (Hay Azgayin Kongres) è una coalizione democratico-liberale di 13 partiti di opposizione formatasi nel 2008 e guidata dall’ex presidente Levon Ter-Petrosyan che chiede il rilascio di tutti i prigionieri politici, il raggiungimento totale della libertà di espressione, di informazione e di associazione, lo svolgimento di un’indagine veramente indipendente sui fatti dell’1 marzo 2008. 18. La Federazione rivoluzionaria armena (Hay Heghapokhagan Tashnagtsutiun) è un partito politico di stampo socialista, nazionalista e conservatore che è uscito dalla coalizione di governo nell’aprile 2009 per protestare contro il processo di normalizzazione delle relazioni turco-armene promosso dal Presidente Sargsyan. 19. Retaggi (Zharangutyun, in inglese Heritage) è una formazione liberale guidata dall’ex ministro degli Esteri Raffi Hovannisian che ha fortemente criticato il governo centrale per la scarsa legittimazione e si schiera per la difesa dei diritti umani, la restaurazione dell’ordine costituzionale e per la trasparenza nella pubblica amministrazione. 20. Gli osservatori internazionali hanno evidenziato alcuni miglioramenti soprattutto per quanto riguarda la gestione equilibrata della campagna elettorale da parte dei media. Cfr. http://www.lastampa.it/2012/05/11/blogs/voci-globali/ armenia-elezioni-politiche-zeppe-di-irregolarita-bABBDm4FbUJHRQPkN1kbFK/ pagina.html. 21. Cfr. http://atlasweb.it/2012/05/08/armenia-elezioni-legislative-tra-le-critiche-vince-il-partito-di-governo-579.html. 22. Cfr. http://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/L-Armenia-dopo-leelezioni-parlamentari-117036

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le autorità a intervenire contro simili comportamenti per le elezioni presidenziali del 2013. L’ong armena Transparency International Anti-Corruption Center ha dichiarato di aver raccolto oltre mille denunce di frode elettorale sul sito iDitord.org23, un portale creato per permettere ai cittadini armeni di denunciare eventuali irregolarità nei seggi24, rilevando casi diffusi di tangenti pre-elettorali, voto di scambio, corruzione degli elettori (diretta e indiretta)25, utilizzo di risorse amministrative per assicurarsi il voto delle persone, le liste elettorali gonfiate e registri irregolari, voti di scambio e casi di voto doppio26. Tutte queste situazioni, del tutto illecite, testimoniano la mancanza di una democrazia consolidata nel Paese caucasico e comportano un generale ammonimento da parte degli osservatori internazionali che si aspettavano dei sostanziali miglioramenti per le presidenziali del 201327. Dopo una turbolenta campagna elettorale, culminata con il tentativo di omicidio del candidato Paruyr Hayrikyan, nella notte del 31 gennaio 201328, potremmo dire che quest’ultima tornata elettorale del 18 febbraio 2013 abbia rappresentato dei miglioramenti rispetto alle precedenti presidenziali e un primo traguardo per l’affermazione di un regime democratico in Armenia: pur non avendo affermato il principio di alternanza (le elezioni hanno riconfermato il Presidente uscente Serzh Sargsyan con il 58,64% dei voti)29, secondo gli osservatori dell’Assemblea parlamentare dell’osce c’è stato 23. http://iditord.org/. 24. Cfr. http://transparency.am/ e http://www.balcanicaucaso.org/aree/ Armenia/L-Armenia-dopo-le-elezioni-parlamentari-117036. 25. www.armenianow.com/vote_2012/37690/osce_odihr_monitoring_election_campain_armenian_parliamentary_elections. 26. Cfr. http://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/L-Armenia-dopo-leelezioni-parlamentari-117036. 27. L’osce aveva raccomandato di irrigidire le pene contro l’irregolarità. http:// asbarez.com/107546/osce-kicks-off-armenian-election-monitoring/. 28. http://www.bbc.co.uk/news/world-europe-21287734. 29. Al secondo posto è arrivato Raffi Hovannisian, leader del Partito Retaggi e principale sfidante dell’opposizione.http://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/Armenia-Serzh-Sargsyan-riconfermato-alla-presidenza.

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un sostanziale miglioramento delle condizioni di svolgimento e le libertà fondamentali, comprese quella di riunione e di espressione, sarebbero state rispettate; e gli stessi media avrebbero fornito una copertura equilibrata a tutti i candidati. Rimarrebbero preoccupanti la mancata imparzialità da parte della pubblica amministrazione e l’abuso di risorse amministrative, che non rende distinguibili le attività dello Stato da quelle del partito al potere30, non permettendo così lo svolgimento delle elezioni in un regime realmente concorrenziale31. Alcune associazioni di difesa dei diritti umani avrebbero registrato numerose violazioni nei confronti di giornalisti e dei mezzi di informazione32 e l’opposizione ha portato avanti delle accuse di brogli33 a cui sono seguite una serie di proteste di piazza. Tra brogli e irregolarità maggiormente diffusi, sono stati denunciati casi di scrutinio palese (non segreto), numerose pressioni elettorali, voto multiplo, e l’inserimento di numerosi armeni che sarebbero residenti all’estero nelle liste elettorali nazionali. È interessante notare come, al contrario del resto dell’Europa, in questi tempi di crisi (di cui l’Armenia ha fortemente risentito) nel Paese il governo si sia ulteriormente rafforzato nel corso delle ultime tornate elettorali. 3. La transizione autoritaria dell’Azerbaijan A differenza della Georgia e in parte dell’Armenia, il rapporto tra democrazia e mercato in Azerbaijan, inteso come possibilità che s’inneschino processi virtuosi di inclusione politica e di democratizzazione, sembrerebbe non sussistere. In realtà, si rilevano ristretti ambiti entro cui il processo virtuoso e osmotico tra riforme dell’economia di mercato e 30. http://www.osce.org/odihr/elections/99676. 31. http://www.osce.org/pa/99670. 32. Cfr. http://times.am/?p=18938&l=en. 33. http://www.rferl.org/content/armenia-expatriates-voting/24903351.html.

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riforme democratiche si possono esplicare (Bolukbasi, 2011; Cornell, 2010). Dopo una prima fase di crisi e d’instabilità politica, conclusasi con la vittoria di elezioni manipolate di Aliyev nel 1993 e nel 1998 e il compimento della transizione autoritaria del Paese, seguiva un periodo di assestamento del regime nel corso del quale erano adottate riforme tese all’introduzione di elementi di economia di mercato, potenzialmente destabilizzanti per il sistema politico autoritario. A seguito di un referendum nel 1991, l’Azerbaijan ha dichiarato l’indipendenza dall’Urss il 30 agosto 1991, e l’8 settembre 1991 Ayaz Mutalibov, ex Primo Segretario del Partito comunista azero, diventava il primo Presidente della Repubblica, vincendo elezioni plebiscitarie (98,5% delle preferenze) nelle quali risultava essere l’unico candidato. A causa dell’inasprirsi della guerra nel Nagorno Karabakh, l’Azerbaijan entrava in un periodo di forte instabilità politica e crisi. Dopo il tragico massacro di azeri a Khojali, e la forte risonanza che l’evento ebbe all’interno della società azera e nelle fila dei militari, il 6 marzo 1992 il Presidente Mutalibov era costretto alle dimissioni. Alle elezioni del 7 giugno 1992, Abulfaz Elchibey, leader dell’opposizione nazionalista del Fronte popolare dell’Azerbaijan, era eletto Presidente con il 60,9% delle preferenze nel corso di elezioni che, generalmente, vennero ritenute libero ed eque (freedomhouse.org/ report/freedom-world/2012/Azerbaijan). Il dilagante malcontento popolare per la situazione economica e politica del Paese, che stava comunque precipitando dietro a una serie di schiaccianti sconfitte subite dall’esercito azero sul fronte karabakho, portò comunque l’Azerbaijan sull’orlo di una guerra civile. Un colpo di Stato militare depose il Presidente, e il Consiglio nazionale conferì i poteri presidenziali a Heydar Aliyev, Primo Segretario del Partito comunista azero (1969-1981) e membro del Politburo e vice Primo Ministro sovietico (fino al 1987). Elchibey fu formalmente deposto con un referendum nazionale nell’agosto 1993, e Aliyev venne eletto per un periodo di 5 anni come Presidente della Repubblica il 3 ottobre 1993 con il 98,8% dei voti.

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In questo modo si chiudeva la fase di crisi e d’instabilità e il Paese compiva una transizione autoritaria. Aliyev era rieletto con il 70% delle preferenze nel 1998, per un altro mandato di 5 anni, in un’elezione presidenziale che fu considerata viziata da gravi irregolarità (freedomhouse.org/report/freedomworld/2012/azerbaijan). Sin dal 1993, il presidente Heydar Aliyev iniziò a costruire un regime autoritario, clientelare e basato sul culto della persona. Il Partito nuovo Azerbaijan, fondato su un’ideologia socialista e laico-nazionalista ruota intorno all’idea morale di Heydar Aliyev (Ishiyama, 2008). L’opposizione debolissima e frammentata viene repressa o cooptata all’interno del sistema di governo (Küpeli, 2010). Da subito, il regime di Aliyev iniziò a comprimere fortemente tutti quei contropoteri che potevano minacciarne la sopravvivenza. Le elezioni legislative del 12 novembre 1995 furono viziate da brogli elettorali e da intimidazioni da parte di un regime che si configurava in maniera sempre più autoritaria: i cinque principali partiti di opposizione e circa 600 candidati indipendenti vennero esclusi dalla partecipazione, consentendo al partito di Aliyev di ottenere una maggioranza schiacciante di seggi. Dal 20 luglio 1996, Artur Rasizade34 è il Primo Ministro dell’Azerbaijan. La questione del Nagorno Karabakh e la situazione di «conflitto congelato» ha rappresentato per anni un ostacolo sostanziale all’apertura dell’economia e all’attrazione di investimenti stranieri; ma negli ultimi anni, si è registrato un trend fortemente positivo e ciò è stato possibile grazie a una serie di riforme radicali dell’economia. Con il «contratto del secolo» (LeVine, 2009), firmato il 20 settembre 1994 dal Presidente Heydar Alieyev e un cartello di imprese petrolifere internazionali che nel 1995 costituirono un consorzio chia34. Artur Rasizade è stato un fedele alleato di Heydar Aliyev già all’interno del Partito comunista dell’Azerbaijan e venne nominato Primo Ministro il 20 luglio 1996, per essere temporaneamente sostituito dal figlio del Presidente, Ilham Aliyev, dal 4 luglio al 4 novembre 2003.

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mato aioc, l’Azerbaijan ha sostanzialmente legato il proprio sviluppo economico e politico (e la propria sicurezza internazionale) alle esportazioni di idrocarburi verso i ricchi mercati di consumo occidentali. Con la scoperta del giacimento Shah Deniz nel 1999, e la sua messa a regime nel 2007, l’Azerbaijan si è anche affermato come un grande produttore/esportatore di gas naturale, attirando un ulteriore interesse da parte degli investitori europei che stanno progettando una serie di infrastrutture che, similmente all’oleodotto btc, potrebbero attingere direttamente alle riserve caspiche, aggirando il monopolio logistico russo: in primis tra tutti, il Nabucco35. Al fine di raccogliere, gestire, preservare e investire al meglio i proventi del petrolio, nel 1999 il governo azero ha creato il Fondo petrolifero di Stato dell’Azerbaijan (sofaz)36. Anche indirettamente, gli incredibili benefici dovuti ai proventi degli idrocarburi si riflettono sulla società azera, con un sostanziale calo del tasso di povertà dal 50% del 2001 al 7,6% del 201137, un forte aumento dei salari e l’introduzione di un mirato sistema di previdenza sociale. Ma il rischio di un utilizzo inefficiente di questi forti introiti rimane ancora alto e per questo il governo di Baku ha compreso la necessità di diversificare la propria economia, investendo anche nei settori produttivi non petroliferi38, aprendo il mercato e migliorando i servizi sociali.

35. Cfr. http://temi.repubblica.it/limes/lidolo-infranto-il-nabucco-allultimoatto/33018. 36. Il sofaz, che nel 2011 vantava un patrimonio di 29,8 miliardi di dollari, opera come un fondo sovrano per la Repubblica di Azerbaijan sotto la responsabilità diretta del Presidente. Questo fondo gestisce tutte le entrate dello Stato ricavate da petrolio e gas naturale e ha il compito di mantenere la stabilità economica dell’Azerbaijan, aiutando a diversificare l’economia e a preservare la ricchezza della nazione per le generazioni future. Cfr. http://globaledge.msu.edu/countries/ azerbaijan/economy. 37. Cfr. http://www.worldbank.org/en/country/azerbaijan/overview. 38. Il governo sta iniziando a investire i grandi proventi del petrolio in programmi di sviluppo dell’economia non-oil based (in particolare nei settori dell’agricoltura, del turismo, e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione).

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A partire dalla fine del primo mandato presidenziale di Ilham Aliyev sono state adottate una serie di riforme strutturali che hanno permesso una maggiore accessibilità al mercato e ai meccanismi di credito. Un tentativo di aprire il mercato e di rilanciare anche il settore privato in Azerbaijan c’è stato già a partire dalla presidenza di Heydar Aliyev, procedendo con la privatizzazione dei terreni agricoli e delle piccole e medie imprese; ma un’ingessante burocrazia e un’eccessiva regolamentazione risultavano un grave disincentivo e non hanno fatto che limitare l’impatto di queste riforme39. Nell’agosto 2000, il governo azero ha lanciato una seconda fase del programma di privatizzazione, in cui anche le grandi imprese statali furono messe in vendita ai privati: queste, però, vennero conferite prediligendo quei personaggi vicini all’amministrazione centrale e alimentando ulteriormente la rete clientelare del Presidente40. Dal 2001, l’attività economica del Paese è regolata, controllata, pianificata e centralizzata dal Ministero dello Sviluppo economico della Repubblica dell’Azerbaijan. Nel 2008, la Banca mondiale ha inserito l’Azerbaijan tra i migliori riformatori per la costruzione di un ambiente favorevole agli investimenti41, affermando che l’amministrazione di Baku avesse proceduto positivamente nella regolamentazione di sette (su dieci) indicatori chiave dell’economia. Nel gennaio 2008, una riforma sul microcredito e sulle startup ha permesso di dimezzare i tempi, i costi e le procedure per avviare un’impresa nel Paese: nei sei mesi successivi, il numero di imprese attive nell’economia azera era aumentato del 40%. Una successiva riforma fiscale ha permesso ai contribuenti azeri di rendicontare e pagare le tasse online. Questo pacchetto di riforme è stato effettivo42 Cfr. http://azerbaijans.com/content_1600_en.html; http://globaledge.msu.edu/ countries/azerbaijan/economy. 39. http://www.economist.com/node/8819945?story_id=8819945&fsrc=RSS. 40. Cfr. http://www.economist.com/node/8819945?story_id=8819945&fsrc=RSS. 41. Cfr. http://www.doingbusiness.org/reforms/top-reformers-2009/. 42. Interessante notare che le libertà fiscali sono rispettate, secondo l’Index of Economic Freedom, per l’84,9%. Sembra, allora, che queste riforme abbiamo

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e ha permesso all’Azerbaijan di risalire la classifica delle economie nelle quali è più facile costituire un’impresa, passando dalla posizione 97 alla 3343, e di attirare un maggior volume di investimenti diretti esteri44. Per quanto riguarda il rispetto dei diritti e delle libertà economiche, l’Index of Economic Freedom45 ci offre un punteggio complessivo di 77,246.. Questi importanti progressi nell’apertura dell’economia azera hanno un impatto relativo, considerando che il vero peso determinante dell’economia azera è nelle sue dotazioni di risorse energetiche. Le ricadute di queste riforme sulla strutturazione della una società civile sono limitate dalla forte presa del regime autoritario, che si accingeva a preparare una successione dinastica. Le ricadute positive in termini di spinta alla democratizzazione di queste riforme sarebbero comunque emerse dopo qualche anno. Lo yap vinceva le elezioni parlamentari47 del 2000 ottenendo il 62,3% delle preferenze e conquistando 75 seggi. Alla davvero contribuito alla creazione di un clima investment friendly. Cfr. http:// www.heritage.org/index/pdf/2012/countries/azerbaijan.pdf. 43. Cfr http://www.doingbusiness.org/Features/Feature-2008-21.aspx. 44. Nel 2011, l’importo degli investimenti in Azerbaigian è stato di circa 20 miliardi di dollari, registrando un netto aumento del 61 per cento rispetto al 2010. Secondo il ministro dello Sviluppo economico dell’Azerbaigian, Shahin Mustafayev, nel 2011, 15,7 miliardi di dollari sono stati investiti nel settore non-petrolifero. Cfr. http://www.reuters.com/article/2012/01/17/azerbaijan-investmentidUSL6E8CH3QF20120117. 45. L’Index of Economic Freedom offre un punteggio da 0 a 100 per il rispetto di ciascun indice preso in considerazione, dove 0 è il punteggio minore e 100 il punteggio massimo. Cfr. Heritage Foundation, Index of Economic Freedom 2012, December 2011, pp. 95-96, http://www.heritage.org/index/pdf/2012/countries/ azerbaijan.pdf. 46. Questo valore è una media. Scorporando le varie voci, possiamo però notare dei dati interessanti per quanto riguarda quelle categorie che rientrano nella definizione di uno Stato di diritto: i diritti di proprietà sono rispettati solo per il 20 per cento – solo nel 2011 vi sono stati una serie di espropri arbitrari e improvvisi a Baku – e la libertà dalla corruzione è attestata solo al 24 per cento. Ciò dipende probabilmente dal sistema giudiziario che risulta essere poco trasparente, non indipendente e soggetto all’interferenza dell’esecutivo. Ibidem. 47. Tali elezioni vennero duramente condannate da diverse ong e gruppi per la difesa dei diritti umani tra cui Human Rights Watch. Cfr. http://www.hrw.org/

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fine del 2002, la Costituzione era modificata imponendo che il Primo Ministro (e non più il Presidente dell’Assemblea nazionale) assumesse le funzioni di Presidente della Repubblica fino a nuove elezioni presidenziali: questa misura venne portata avanti per procedere con un’eventuale successione di poteri da parte di Heydar Aliyev, già ultraottantenne, nei confronti del figlio. Heydar Aliyev ebbe un collasso durante una trasmissione televisiva nell’aprile 2003 e lasciò l’Azerbaijan per ricevere cure mediche all’estero. Nel giugno successivo, il figlio del Presidente e allora Primo Ministro, Ilham Aliyev, venne ufficialmente nominato come candidato per le elezioni presidenziali di ottobre 2003, vinte poi con il 77% delle preferenze contro gli altri sette sfidanti. Secondo gli osservatori dell’osce, il voto fu ancora una volta viziato da frodi diffuse e da un conteggio arbitrario, e il governo sarebbe pesantemente intervenuto nella campagna elettorale per favore del Primo Ministro Ilham Aliev, figlio dell’allora Presidente: seguirono una serie di proteste in tutto il Paese, culminate con violenti scontri tra le forze di sicurezza e i manifestanti a Baku nell’ottobre 2003. Anche Ilham Aliyev si dimostrava determinato a rafforzare il regime autoritario azero, scatenando un ennesimo giro di vite nei confronti dell’opposizione. Nel frattempo, Heydar Aliyev, oramai divinizzato e portato alla stregua di un Padre della Patria, morì il 12 dicembre 2003; seguirono settimane di lutto nazionale. Le elezioni parlamentari del 6 novembre 2005 vennero sostanzialmente boicottate da un’ampia fascia dell’elettorato: meno della metà di tutti gli elettori registrati parteciparono alla tornata elettorale in cui l’opposizione conquistò solo 10 dei 125 seggi del Milli Majlis, molti dei quali finirono per appoggiare in varie occasioni le fila dello yap dominante (che da solo conquistò 61 seggi). Anche allora, furono evidenti numerosi brogli e irregolarità, e l’organizzazione Human Rights Watch evidenziò la pratica delle intimidazioni nei confronti news/2000/10/29/azerbaijan-government-interference-elections.

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dei sostenitori dell’opposizione, affermando che le elezioni non potevano essere considerate libere o corrette in tali condizioni48. L’organizzazione a tutela della libertà d’informazione Article 19 denunciò che le autorità azere erano state responsabili della persecuzione violenta dei giornalisti che si occupavano di documentare le manifestazioni dell’opposizione, della chiusura forzata di molti media indipendenti, e dell’abuso diffuso di risorse statali e locali per favorire i candidati filo-governativi. I risultati elettorali vennero contestati dall’opposizione che organizzò una serie di manifestazioni nella capitale, sperando di portare avanti una «rivoluzione colorata» che non ebbe successo. In Azerbaijan, nel corso del 2005, una rete di gruppi giovanili ispirati all’esempio georgiano e ucraino e vicini ad Azadlig (Libertà), una coalizione di opposizione, cominciò una campagna contro il governo in carica giudicato corrotto. I rivoluzionari adottarono inizialmente il colore verde e in un secondo tempo il colore arancione caratteristico dei moti ucraini, minacciando una nuova rivoluzione colorata. Nel novembre 2005 i gruppi scesero in piazza contestando le elezioni come fraudolente, ma questi vennero dispersi in maniera dura dalla polizia. Ilham Aliyev vinse facilmente anche il secondo mandato presidenziale nell’ottobre 2008, ottenendo l’87,34% dei voti (con un livello di affluenza prossimo al 75,64%, secondo i risultati ufficiali)49, per la scelta delle opposizioni (compresi i partiti Musavat, Azerbaijan Popular Front Party, Azerbaijan Liberal Party, e Azerbaijan Democratic Party) di boicottare tali elezioni, citando ostacoli significativi nell’accesso ai media durante la campagna elettorale e l’influenza schiacciante di ingenti risorse pubbliche nella promozione della campagna elettorale dello yap. Le elezioni parlamentari del novembre 2010 registrarono una scarsa affluenza50, un livello di manipo48. Cfr. http://hrw.org/english/docs/2005/10/31/azerba11943.htm. 49. Cfr. http://www.infocenter.gov.az/v3/sesverme_2008.php. 50. L’affluenza è stata valutata al 50,1 per cento, su un totale di 4,9 milioni di persone aventi diritto di voto. Fonte: http://www.osw.waw.pl/en/publikacje/ea-

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lazione crescente, e un ulteriore rafforzamento dello yap che ottenne 73 seggi – in netto aumento rispetto ai 61 conquistati nella tornata elettorale del 2005. I restanti seggi andarono a candidati nominalmente indipendenti (ma che risultavano affiliati allo yap) e ad altre formazioni minori di «opposizione morbida». I due principali partiti di opposizione (Musavat e Fronte popolare dell’Azerbaijan) non ottennero seggi, divenendo parte dell’opposizione extraparlamentare51. Gli Stati uniti dichiararono che tali elezioni non avrebbero rispettato gli standard internazionali, e anche osce, CdE e Ue sottolinearono l’irregolarità della tornata elettorale, affermando, però, che dei piccoli passi in avanti erano stati compiuti. A marzo e aprile 2011 qualcosa sembra cambiare. Una serie di proteste antigovernative sono organizzate in nome di riforme democratiche. Represse duramente dalle autorità azere, evidenziano però una vitalità sconosciuta alla società civile azera e manifestano dei buchi nelle strette maglie dell’apparato repressivo del regime. Noti giornalisti, giovani attivisti e membri dell’opposizione, sono stati arrestati con accuse spesso infondate (freedomhouse.org/report/freedomworld/2012/azerbaijan). Il successo elettorale di Aliyev nell’autunno 2013, riaffermato con oltre l’85% delle preferenze, conferma il carattere conservatore del regime, fermo nella morsa autoritaria sul Paese. La Costituzione prevede uno strapotere assoluto del Presidente su tutti gli altri poteri, mentre il Parlamento non rappresenta alcun contropotere e non risulta essere indipendente dall’esecutivo. Così, anche i media e la magistratura sono controllati e in gran parte asserviti al Presidente e al partito di governo. Nel 2011, l’indice di corruzione percepita (Corruption Perceptions Index) formulato da Transparency International rivelava la diffusione della corruzione ad alti livelli nella società azera e poneva il Paese alla posizione 143 stweek/2010-11-17/elections-azerbaijan-embarrassment-west. 51. Cfr. http://www.osw.waw.pl/en/publikacje/eastweek/2010-11-17/electionsazerbaijan-embarrassment-west.

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(su 182 Paesi) con un punteggio 2.4 (Transparency International, Corruption Perceptions Index 2011). I lauti proventi delle esportazioni di petrolio e gas naturale sono ripartiti, per la maggior parte, tra una cerchia clientelare fedele al «presidente-sultano» in quello che è definibile come uno «Stato patrimoniale», tipico dei regimi centroasiatici (Guliyev, 2005). In misura minore, ma con un grande ritorno in termine di immagine, una parte dei proventi degli idrocarburi viene redistribuita alla popolazione: questa condizione favorisce il consenso interno nei confronti del regime, definendo un tipico caso di rentier State, «Stato redditiere» (Beblawi, Luciani 1987). I media sono assoggettati al regime e riflettono posizioni propriamente pro governative; la maggior parte delle stazioni televisive azere sono direttamente controllate dal governo (che detiene il monopolio delle licenze di trasmissione); e circa l’80% dei giornali sono di proprietà dello Stato. I giornali indipendenti e di opposizione lottano finanziariamente e devono affrontare pesanti multe e minacce nei confronti del loro personale. Classificando i regimi in base alla libertà di stampa, l’Azerbaijan occupa la posizione 162 (su 179 Paesi), dietro ad Afghanistan, Pakistan e Iraq (Reporters Without Borders, 2012). I giornalisti rischiano arresti e continue aggressioni, soprattutto dopo le proteste della primavera 2011, considerabili come un primo tentativo di mobilitazione della società civile azera. Sono perseguitati anche coloro che forniscono informazioni ai giornali di opposizione. Trasmissioni radiofoniche locali dei principali servizi di stampa internazionali, tra cui la bbc, Radio Free Europe/Radio Liberty (rfe/rl) e Voice of America, sono stati vietati nel 2009. Internet e social network sono un mezzo per eludere la censura del governo e mobilitare i manifestanti; ma il regime di Baku ha iniziato a intensificare anche il controllo sulla rete, bloccando ripetutamente alcuni siti web e blog che avevano un’ampia visibilità tra le fila dell’opposizione. Dal 2011, le autorità stanno valutando l’opportunità di monitorare anche l’utilizzo di Internet, e potrebbero modificare il codice penale per limitare l’accesso alla rete.

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L’Azerbaijan è ufficialmente una repubblica laica ma, nella pratica, comprime le libertà religiose delle minoranze non islamiche (ebrei, cristiano ortodossi e armeni) imponendo degli onerosi requisiti di registrazione e limitando le attività di proselitismo che non siano state autorizzate dal governo. Il governo limita la libertà di associazione e di riunione, soprattutto per quanto riguarda i partiti di opposizione e reprime duramente qualunque tentativo di manifestazione non autorizzata. Il ruolo delle donne è ancora fortemente limitato nella vita sociale e politica del Paese (Heyat, 2002): solo 20 donne sono presenti nell’Assemblea nazionale; e l’omosessualità, per quanto sia stata depenalizzata nel 2001, viene ancora fortemente discriminata. Freedom House ha evidenziato un trend fortemente negativo nell’ultimo periodo, per la massiccia persecuzione di attivisti politici, membri dell’opposizione e giornalisti locali e internazionali, nonché per le limitazioni alle libertà di espressione e di informazione e le espulsioni illegali di cittadini dalle loro case a Baku (freedomhouse.org/ report/freedom-world/2012/Azerbaijan). Anche per Amnesty International, in Azerbaijan sussisterebbero gravi violazioni dei diritti umani (Amnesty International, 2012) e queste verrebbero portate avanti in maniera ancor più sfacciata, considerando che il regime non ha avuto difficoltà a reprimere il dissenso politico anche durante l’Eurovision Song Contest del maggio 2012, mentre l’intero Paese veniva messo sotto i riflettori della comunità internazionale. I limiti costituzionali, le violazioni sistematiche delle libertà fondamentali e il contesto internazionale che non contrasta il regime autoritario azero, ma lo asseconda per opportunità e interesse, unitamente a riforme dell’economia di mercato parziali e settoriali, determinano lo stallo del processo di transizione e l’assenza di apprezzabili ricadute delle riforme del mercato nel sistema politico. Tuttavia, le manifestazioni di piazza e la disobbedienza civile con l’assenteismo alle elezioni sono primi segnali delle potenzialità che pure esistono anche in Azerbaijan nella relazione virtuosa tra democrazia e mercato.

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Conclusioni Alla luce dell’analisi svolta, la relazione tra democrazia e mercato nei Paesi caucasici sembrerebbe funzionare parzialmente, con risultati apprezzabili, solo nel caso del regime ibrido della Georgia. L’ipotesi di partenza dell’esistenza di una correlazione tra l’introduzione e il consolidamento di prassi, istituzioni e regolamentazioni del libero mercato e la transizione democratica è quindi pienamente confermata, ma limitatamente a quei sistemi che abbiano già intrapreso, anche solo parzialmente, il percorso di democratizzazione. Negli altri casi di regimi non democratici autoritari (Azerbaijan e Armenia), il contributo alla strutturazione della società civile, una delle condizioni che favoriscono il processo di democratizzazione, è limitato all’ipotesi di liberalizzazioni che, introducendo elementi di economia di mercato, ampliano gli ambiti di autonomia del sistema sociale. L’efficacia della relazione tra democrazia e mercato è pertanto depotenziata nel caso dell’Armenia e scompare completamente nel caso dell’Azerbaijan, perché l’introduzione delle riforme del libero mercato è controllata negli esiti dalle élite oligarchiche, sia economiche sia politiche, che costituiscono la coalizione dominante del regime. Può infatti essere funzionale agli obiettivi del regime autoritario introdurre riforme di economia di mercato per questioni di stabilità e consenso o per esigenze di politica internazionale (attrarre i capitali internazionali, concludere contratti per le forniture energetiche e in genere dare credibilità al sistema). La Georgia è una democrazia elettorale, regime ibrido o in transizione (elezione libera, ricorrente e competitiva del governo e del Parlamento) i cui punti di forza sono rappresentati dai media indipendenti e soprattutto dalla società civile strutturata, attiva e in espansione. Entro questa cornice opera ed esplica la sua azione la relazione tra democrazia e mercato, che alimenta il processo di democratizzazione del Paese. I punti di debolezza del sistema che ostacolano il processo di democratizzazione sono invece rinvenibili nella parte non

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democratica del regime ibrido: la fragilità delle istituzioni, le pressioni del governo sulle opposizioni troppo frazionate, le minacce alle libertà fondamentali, la corruzione diffusa e la poca indipendenza del sistema giudiziario. Inoltre, come evidenziato, Tbilisi condivide con gli altri Paesi caucasici un difficile collocamento geopolitico, per la presenza e le ingerenze della Federazione russa, che svolge un’azione destabilizzante nei confronti della stessa unità territoriale del Paese. La crisi delle regioni separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud e il conflitto contro la Russia nel 2008 evidenziano con chiarezza questa situazione. Il regime di autoritarismo semiconsolidato dell’Armenia, pur rispettando in modo limitato alcune istituzioni e pratiche democratiche, non è in linea con gli standard minimi di democrazia elettorale52. A dispetto delle premesse che volevano trasformare il sistema politico armeno in una democrazia, il regime stenta ad aprirsi e assume tuttora delle derive autoritarie. Per l’ipotesi di ricerca indagata rileva soprattutto la limitazione agli spazi di autonomia della società civile. In particolare, se un ambito di autonomia è riconosciuto al sistema sociale, nel sistema politico i gruppi critici del governo sono fortemente contrastati. Inoltre, la massiccia presenza dello Stato nel sistema economico produce distorsioni che ostacolano il funzionamento del mercato, oggetto di alcune riforme mirate. Tra le altre caratteristiche proprie di questo regime, si menzionano le elezioni ricorrenti anche se viziate da irregolarità, il potere centralizzato, i media non liberi e sotto minaccia costante di procedimenti giudiziari, il sistema giudiziario non indipendente e la corruzione diffusa. In base all’Index of Economic Freedom, l’Armenia sta recuperando importanti posizioni in termini di libertà eco52. Per Freedom House, nel 2012 l’Armenia risulta un Paese parzialmente libero. L’indice complessivo delle libertà nel Paese è ancora basso e ammonta a 5 su 7 (il rispetto delle libertà civili è stimato a 4, mentre quello dei diritti politici è molto basso, valutato a 6). Cfr. http://www.freedomhouse.org/report/freedomworld/2012/armenia.

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nomiche, passando dalla posizione 39 (su 179) del 2012 alla posizione 32 del 201353. In ogni modo, il governo dovrà perseguire ulteriori riforme economiche e di rafforzamento dello Stato di diritto, per superare i gravi ostacoli che continuano a comprimere/reprimere i principali diritti civili e politici e rallentano le privatizzazioni, le liberalizzazioni, il processo di deregulation (Karakachian, 1994; Consuelo Vidal, 2006). Un ruolo importante per la democratizzazione e l’apertura dell’economia armena è rivestito, soprattutto in chiave prospettica, dalla maggiore strutturazione e incisività della società civile54, che contribuisce attivamente all’affermazione e allo sviluppo della «società aperta». La leva esterna dell’Occidente, infine, con le conditionality politicy per gli aiuti finanziari, consente aperture del regime e rappresenta un contraltare importante rispetto alle ingerenze della Russia55. Come detto, però, esistono alcune difficoltà da superare. La libertà di stampa in particolare rimane fortemente compressa e le autorità armene mantengono il controllo informale sui canali televisivi, usando violenza e intimidazioni contro i giornalisti56. Le libertà di riunione e di associazione57 sono state ulteriormente compresse a seguito delle proteste del 2008. Frequenti abusi di potere sono stati registrati nelle fila della polizia che spesso ricorre ad arresti arbitrari e a metodi di tortura. Le condizioni carcerarie sono infine pessime58. L’Azerbaijan è un regime autoritario, caratterizzato da una società chiusa in cui il presidente-sultano impedisce la 53. Cfr. http://www.heritage.org/index/pdf/2012/countries/armenia.pdf. 54. Secondo alcuni studiosi, sarebbe maturato il concetto di società civile all’interno del contesto armeno. Cfr. a. ishkanian, Democracy Building and Civil Society in Post-Soviet Armenia, Routledge, Londra 2008. 55. Cfr. http://atlasweb.it/2012/05/08/armenia-elezioni-legislative-tra-le-critiche-vince-il-partito-di-governo-579.html e http://www.eastjournal.net/armeniaelezioni-4-vince-la-continuita-ma-la-societa-civile-si-e-svegliata/14983. 56. Nikol Pashinian, redattore capo del quotidiano indipendente «Haykakan Zhamanak», è stato rilasciato dal carcere solo nel 2011 a seguito dell’amnistia per gli arrestati durante le repressioni del 2008. 57. Cfr. http://www.freedomhouse.org/report/freedom-world/2012/armenia. 58. Cfr. http://www.freedomhouse.org/report/freedom-world/2012/armenia.

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competizione politica e il pluralismo ed è responsabile delle violazioni dei diritti politici, civili e umani fondamentali. Le elezioni hanno un carattere celebrativo e di propaganda, il potere è centralizzato, la società civile repressa e sottoposta a restrizioni. La libertà di espressione non garantita, i media controllati e la corruzione diffusa. Il regime ha creato un tentacolare sistema clientelare che coinvolge ampie fasce della popolazione all’interno delle strutture del regime59. L’introduzione di elementi del libero mercato non coincide con i processi di inclusione economica e politica descritti in precedenza né, tantomeno, con lo sviluppo dello Stato di diritto e di un regime politico democratico. Il modello economico (oil-based economy) rischia di scadere nella «maledizione delle risorse» (o «paradosso dell’abbondanza»), configurando il cosiddetto «male olandese»: lo sviluppo è concentrato nel settore dove, sul momento, gode di un vantaggio comparato (con lo smantellamento degli altri settori economici industriali, manifatturieri e agricoli)60. Le risorse naturali sono esauribili61 e creano una rapporto di totale dipendenza economica dalla domanda estera di energia e dal prezzo degli idrocarburi. L’economia trainata dalla vendita di petrolio (e recentemente anche dal gas) si è ulteriormente affermata a partire dall’entrata in funzione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (tbc) nel 200662, fino alla generale contrazione della domanda aggregata mondiale dovuta alla crisi economica globale iniziata nel 200863. Nel primo semestre 59. Cfr. j. noonan, Comparing Azeri attitudes toward political participation in Azerbaijan and Georgia, in «Caucasus Analitical Digest», Research Centre for East European Studies, Bremen, n. 17, 21 maggio 2010, p. 14. 60. Cfr. http://www.economist.com/node/8819945?story_id=8819945&fsrc=RSS. 61. Cfr. http://www.balcanicaucaso.org/eng/Regions-and-countries/Azerbaijan/ Azerbaijan-s-oil-dependence-123328. 62. Cfr. http://www.silkroadstudies.org/BTC_5.pdf. 63. In base a quanto evidenziato dalla Banca mondiale, il pil da zero è cresciuto del 11,2 per cento nel 2003, 10,2 per cento nel 2004, 26,4 per cento nel 2005, 34,5 per cento nel 2006, 25 per cento nel 2007, 10,8 nel 2008, 9,3 per cento nel 2009, 5 per cento nel 2010 e solo l’1 per cento nel 2011. Cfr. http://data.worldbank.org/ indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG/countries/AZ-7E?display=graph.

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del 2007, un anno dopo il lancio del tbc, la crescita reale del pil dell’Azerbaijan ha toccato il livello record del 35%. I petroldollari hanno avuto importanti ricadute sociali perché sono stati utilizzati nella lotta alla disoccupazione64 (che nel 2012 ha raggiunto la soglia dell’1%)65, in programmi educativi, nel rilancio dei settori produttivi nei quali viene impiegata la maggior parte della forza lavoro66, nonché nella creazione di un nuovo piano infrastrutturale mirato a fare dell’Azerbaijan il principale corridoio nord-sud ed est-ovest. Finché il Paese vivrà questo periodo di forte sviluppo economico – e i cittadini riusciranno a goderne i frutti – il regime tirannico-dinastico degli Aliyev continuerà a comprare il consenso dei propri cittadini/sudditi e non sarà messa in discussione la legittimità del rentier State. Le iniziative di rinnovamento e democratizzazione provenienti dalle società civile o dalla classe media, portatrice di interessi imprenditoriali sono completamente inibite. Un netto miglioramento nei livelli di corruzione di regime e nella riduzione della presenza dello Stato in economia potrebbero creare le condizioni favorevoli ad aperture verso la democratizzazione e porrebbero le basi per la diversificazione economica (sul modello delle monarchie della penisola arabica) fondamentale in termini di responsabilità intergenerazionale e sociale. In conclusione, nonostante la presenza di questi importanti ostacoli alla democratizzazione della regione, è possibile tracciare, in nuce, una relazione circolare tra le esigenze della sicurezza e le potenzialità della società aperta e dell’economia di mercato. Da una parte, senza la sicurezza e la stabilità 64. Cfr. r.w.t. pomfret, Resource Management and Transition in Central Asia, Azerbaijan, and Mongolia, East-West Center, Honolulu 2011; b. sidikov, Aserbaidschan – Machtpoker um Petrodollars, in m.-c. von gumppenberg/u. steinbach (Hg.), Der Kaukasus: Geschichte – Kultur – Politik, München 2008, pp. 49-63. 65. https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/aj.html. 66. L’agricoltura 5,7 per cento del pil (ma impiega il 38,3 per cento della forza lavoro); l’industria 59,5 per cento e il terziario 34,7 per cento) Cfr. https://www. cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/aj.html.

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regionale i governi tendono a chiudersi e irrigidirsi, senza apportare significative evoluzioni verso la società aperta. D’altra parte, la società aperta volano dell’integrazione regionale risulta essere una soluzione per la stabilizzazione e la messa in sicurezza della regione caucasica. L’integrazione europea rappresenta l’esempio virtuoso che i Paesi caucasici potrebbero seguire. In un’altra regione geopoliticamente difficile come il Medio Oriente progetti d’integrazione regionale sono considerati una possibile soluzione alla democratizzazione e alla stabilità. L’efficacia e l’operatività della relazione tra democrazia e mercato in quest’ambito è stata evidenziata nel capitolo precedente sulla Turchia, cui si rimanda per un approfondimento. L’integrazione economica e l’apertura dei mercati comporterebbe la pacificazione, il superamento delle reciproche rivendicazioni, l’emergere di una società civile che condivide valori e cultura, la democratizzazione e il parziale affrancamento dalle ingerenze di attori esterni. Riferimenti bibliografici e sitografici areshidze, i. (2007), Democracy and autocracy in Eurasia: Georgia in transition, Michigan State University Press, East Lansing. bader, m. (2010), Against All Odds: Aiding Political Parties in Georgia and Ukraine, Amsterdam University Press, Amsterdam. beblawi, h., luciani, g. (edt.) (1987), The Rentier State, Nation, State and Integration in the Arab World, Vol. 2, Routledge. bolukbasi, s. (2011), Azerbaijan: A Political History, I.B.Tauris, Mondon. cornell, s.e. (2010), Azerbaijan Since Independence, M.E. Sharpe, Inc., Armonk. franke, a., gawrich, a., alakbarov, g. (2009), Kazakhstan and Azerbaijan as Post-Soviet Rentier States: Resource Incomes and Autocracy as a Double ‘Curse’ in Post-Soviet Regimes, in «Europe-Asia Studies», 61/1, pp. 109-140. Freizer, S. (2004), Georgia’s Constitutional Amendments: A setback for Democratization?, Central Asia-Caucasus Institute Analysis, 11 febbraio. guliyev, f. (2005), Post-Soviet Azerbaijan: Transition to Sultanistic Semiauthoritarianism? An Attempt at Conceptualization, in «Demokratizatsiya: The Journal of Post-Soviet Democratization», 13/3, pp. 393-435.

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