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UNA
CORTE
GELO STELLE
DI E
Alle stelle che ascoltano... E ai sogni che si avverano
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FEYRE
a prima neve dell’inverno stava sferzando Velaris già da un’ora. La settimana precedente il terreno si era finalmente ghiacciato e, quando finii di divorare la mia colazione a base di pane tostato e pancetta e di mandarla giù con un’inebriante tazza di tè, i ciottoli chiari erano coperti da una polvere bianca e fine. Non avevo idea di dove fosse Rhys. Non era a letto quando mi ero svegliata, e il materasso dalla sua parte era già freddo. Niente di insolito, visto che in quei giorni eravamo tutti e due impegnati fino allo sfinimento. Seduta al lungo tavolo di ciliegio nella casa di città, guardavo accigliata la neve che turbinava oltre le finestre di vetro piombato. Un tempo avevo temuto la prima neve, avevo vissuto nel terrore degli inverni lunghi e brutali. Ma, quel giorno di quasi due anni prima, era stato proprio un inverno lungo e brutale a spingermi nelle profondità del bosco. Un inverno lungo e brutale che mi aveva portata a una disperazione tale da farmi uccidere un lupo, e l’uccisione del lupo alla fine mi aveva condotta lì: a quella vita, a quella... felicità. Scendeva la neve; grossi agglomerati cadevano sull’erba secca del minuscolo prato davanti a casa e coprivano le punte e gli archi della recinzione decorativa. Nel profondo di me, un potere sfavillante e frizzante si agitava e si sollevava con il turbinio di ogni fiocco. Ero la Signora Suprema della Corte della Notte, sì, ma ero anche stata benedetta dai doni di tutte le corti. Ormai mi sembrava che l’inverno volesse giocare.
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Finalmente abbastanza sveglia da non dire cose senza senso, abbassai lo scudo nero – duro come il diamante – che mi proteggeva la mente e proiettai un pensiero lungo il ponte che univa la mia anima e quella di Rhys. “Dove sei volato, così presto?” La mia domanda svanì nell’oscurità. Una conferma del fatto che Rhys non era nelle vicinanze di Velaris. Probabilmente non era nemmeno entro i confini della Corte della Notte. Anche quello non era insolito: in quei mesi aveva fatto visita ai nostri alleati di guerra per consolidare i nostri rapporti, organizzare il commercio e tenere sotto controllo le loro intenzioni nel nuovo mondo senza muro. Spesso, quando il lavoro me lo permetteva, andavo con lui. Raccolsi il piatto, scolai il tè fino all’ultima goccia e mi avviai verso la cucina. Giocare con il ghiaccio e la neve poteva attendere. Nuala stava già preparando il pranzo al tavolo da lavoro. Non c’era traccia della sua gemella, Cerridwen, ma la allontanai con un gesto della mano quando fece per prendere le mie stoviglie. «Posso lavarle io» dissi a mo’ di saluto. Immersa fino ai gomiti in una sorta di pasticcio di carne, il mezzo spettro mi rivolse un sorriso grato e mi lasciò fare. Era una donna di poche parole, anche se nessuna delle due gemelle si poteva definire timida. Certamente non quando lavoravano – spiavano – sia per Rhys sia per Azriel. «Sta ancora nevicando» osservai un po’ inutilmente, guardando il giardino dalla finestra della cucina mentre sciacquavo il piatto, la forchetta e la tazza. Elain aveva già preparato il giardino per l’inverno, coprendo con sacchi di tela i cespugli e le aiuole più delicati. «Chissà se smetterà mai.» Nuala posò la sfoglia con un disegno a griglia sopra il pasticcio di carne e iniziò a pizzicare i bordi per unirli; le sue dita d’ombra lavoravano rapidamente e con destrezza. «Sarà bello avere un Solstizio bianco» disse, con voce cadenzata ma bassa. Piena di sussurri e di ombre. «Certi anni può esserci un clima abbastanza mite.» Giusto. Il Solstizio d’inverno. Una settimana dopo. Il mio titolo di Signora Suprema era ancora così recente che non avevo idea di quale sarebbe stato il mio ruolo formale. Non sapevo se ci sarebbe stata una Somma Sacerdotessa che avrebbe condotto qualche odiosa cerimonia, come aveva fatto Ianthe l’anno prima... Un anno. Per gli dèi, era passato quasi un anno da quando Rhys aveva preteso il rispetto del nostro patto perché voleva disperatamente allontanarmi dal veleno della Corte della Primavera, voleva salvarmi dalla mia disperazione. Se l’avesse fatto un minuto dopo, solo la Madre sapeva che cosa sarebbe successo. Dove sarei stata in quel momento. La neve turbinava vorticosamente nel giardino e si impigliava nelle fibre marroni della tela che copriva gli arbusti. La mia Metà, che si era impegnata così tanto e così generosamente, senza neanche la speranza che un giorno saremmo stati insieme. Avevamo combattuto entrambi e avevamo sanguinato per quell’amore. Rhys era morto per quell’amore. Vedevo ancora quel momento, nei miei sogni da addormentata e da sveglia. L’aspetto
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del suo viso, il petto che non si sollevava, l’Unione tra noi che si era spezzata. Lo sentivo ancora, quel vuoto nel petto dov’era stata l’Unione, dov’era stato lui. Anche adesso, con l’Unione che scorreva di nuovo tra noi come un fiume notturno punteggiato di stelle, permaneva l’eco del suo svanire. Mi strappava dal sonno; mi distoglieva da una conversazione, da un dipinto, da un pasto. Rhys capiva perfettamente perché c’erano notti in cui mi aggrappavo più forte a lui, perché c’erano momenti sotto il sole luminoso e splendente in cui gli stringevo una mano. Lo capiva, così come io sapevo perché a volte distoglieva gli occhi, perché ogni tanto batteva le palpebre davanti a tutti noi come se non ci credesse del tutto e si strofinava il petto come per alleviare un dolore. Lavorare aveva fatto bene a entrambi. Ci aveva tenuti occupati, ci aveva fatto rimanere concentrati... A volte temevo i giorni tranquilli e oziosi in cui tutti quei pensieri alla fine mi catturavano. Quando c’eravamo solo io e la mia mente, e quel ricordo di Rhys che giaceva morto sul terreno roccioso, quello del re di Hybern che spezzava il collo a mio padre, quello dei tanti Illyrian che prorompevano dal cielo e cadevano sulla terra come cenere. Forse, un giorno, neanche il lavoro sarebbe bastato a tenere alla larga i ricordi. Per fortuna, ne restava molto per l’immediato futuro. Ricostruire Velaris dopo gli attacchi di Hybern era solo uno dei tanti compiti monumentali. E ce n’erano molti altri, sia a Velaris sia oltre: sui Monti Illyrian, nella Città Spaccata, in tutta la vasta Corte della Notte. E poi c’erano le altre corti di Prythian. E, più in là, il nuovo mondo emergente. Ma, per il momento, ci sarebbe stato il Solstizio. La notte più lunga dell’anno. Mi voltai dalla finestra verso Nuala, che stava ancora sigillando i bordi del suo pasticcio di carne. «Anche qui è una festa speciale, vero?» chiesi con apparente noncuranza. «Non solo nelle Corti dell’Inverno e del Giorno.» E della Primavera. «Oh, sì» rispose Nuala, chinandosi sul tavolo da lavoro per esaminare la sua opera. Era un’abile spia, addestrata dallo stesso Azriel, e una cuoca provetta. «Ci piace moltissimo. È una festa intima, calda, incantevole. Ci sono regali, musica e cibo, a volte banchetti sotto la luce delle stelle...» L’opposto dell’enorme, selvaggia, lunghissima festa che avevo dovuto subire l’anno prima. Ma... i regali. Dovevo comprare regali per tutti loro. Non dovevo, ma volevo. Perché tutti i miei amici, che ormai erano la mia famiglia, avevano combattuto e sanguinato, e anche loro erano quasi morti. Scacciai l’immagine che mi attraversò la mente: Nesta, china su Cassian ferito, entrambi pronti a morire insieme contro il re di Hybern. Dietro di loro, il cadavere di mio padre. Feci roteare il collo. Ci avrebbe fatto bene festeggiare qualcosa. Erano diventate rare le occasioni in cui potevamo riunirci tutti per più di un’ora o due. Nuala continuò: «È anche un tempo di riposo. E un tempo per riflettere sull’oscurità, su come fa risplendere la luce». «C’è una cerimonia?» Il mezzo spettro si strinse nelle spalle. «Sì, ma nessuno di noi ci va. È più per coloro che desiderano onorare la rinascita della luce; di solito passano tutta la notte seduti nel buio
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totale.» L’ombra di un sorriso. «Non è proprio una novità per me e mia sorella. O per il Signore Supremo.» Annuii, e cercai di non far trasparire troppo il mio sollievo per il fatto che non sarei stata obbligata a passare ore in un tempio. Misi ad asciugare i piatti puliti sulla piccola griglia di legno accanto al lavandino, augurai buona fortuna a Nuala per il pranzo e mi diressi al piano di sopra per vestirmi. Cerridwen mi aveva già preparato gli abiti, ma ancora non c’era traccia della gemella di Nuala mentre indossavo il pesante maglione color carbone, i pantaloni neri aderenti e gli stivali foderati di pelliccia e poi mi legavo i capelli in una treccia morbida. Un anno prima ero stata rivestita di abiti e gioielli raffinati e avevo dovuto sfilare davanti a una corte tutta agghindata che mi aveva guardata a bocca aperta come se fossi una pregiata giumenta da riproduzione. Lì, invece... Sorrisi all’anello di argento e zaffiri che portavo alla mano sinistra. L’anello che avevo sottratto alla Tessitrice del Bosco. Il mio sorriso si affievolì un po’. Potevo vedere anche lei. Vedevo Stryga in piedi davanti al re di Hybern che, coperto del sangue della sua preda, le prendeva la testa tra le mani e le spezzava il collo. Poi la gettava alle sue bestie. Strinsi le dita a pugno, inspirando dal naso, espirando dalla bocca, finché la leggerezza delle mie membra non svanì, finché le pareti della stanza non smisero di opprimermi. Finché non potei esaminare il miscuglio di oggetti personali nella stanza di Rhys, la nostra stanza. Non era affatto piccola come camera, ma ultimamente cominciava a... starci stretta. La scrivania in palissandro contro una parete era coperta di carte e libri riguardanti gli affari di entrambi; i miei gioielli e i miei vestiti dovevano essere divisi tra lì e la mia vecchia camera da letto. E poi c’erano le armi. Pugnali e spade, faretre e archi. Mi grattai la testa mentre guardavo una mazza pesante e dall’aria malvagia che Rhys doveva aver posato accanto alla scrivania senza che io me ne accorgessi. Non volevo nemmeno sapere che cosa ci fosse dietro. Ma non avevo dubbi sul fatto che in qualche modo c’entrasse Cassian. Ovviamente avremmo potuto mettere tutto nello spazio tra i reami, ma... Mi accigliai guardando la mia serie di lame Illyrian, appoggiate all’armadio torreggiante. Se fossimo rimasti bloccati dalla neve, forse avrei potuto approfittarne per mettere a posto quelle cose. Trovare spazio per tutto. Soprattutto per quella mazza. Non sarebbe stato facile, perché Elain occupava ancora una camera da letto in fondo al corridoio. Nesta si era trovata una casa all’altro lato della città, una casa a cui avevo deciso di non pensare troppo. Lucien, perlomeno, era andato ad abitare in un elegante appartamento lungo il fiume il giorno dopo essere tornato dai campi di battaglia. E dalla Corte della Primavera. Non avevo chiesto niente a Lucien su quella visita, su Tamlin. E Lucien, del resto, non aveva fornito spiegazioni sull’occhio nero e il labbro spaccato.
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Aveva solo chiesto a me e a Rhys se sapevamo di un posto dove potesse stare a Velaris, dal momento che non voleva darci ulteriore disturbo soggiornando nella casa di città e non desiderava restare isolato nella Casa del Vento. Non aveva menzionato Elain, o la sua vicinanza a lei. Elain non gli aveva chiesto di restare o di andarsene. E, se le importava qualcosa dei lividi sul viso di lui, di certo non l’aveva detto. Ma Lucien era rimasto, aveva trovato il modo di tenersi occupato e spesso era via per giorni o settimane di seguito. Eppure, anche con Lucien e Nesta che vivevano nei loro appartamenti, la casa di città era un po’ piccola di quei tempi. Lo sarebbe stata ancora di più se Mor, Cassian e Azriel si fossero fermati a dormire. E la Casa del Vento era troppo grande, troppo formale, troppo lontana dalla città vera e propria. Andava benissimo per una notte o due, ma... io amavo la casa di città. Era casa mia. La prima che avessi davvero avuto, negli aspetti che contavano davvero. E sarebbe stato bello festeggiare lì il Solstizio. Con tutti loro, per quanto potessimo stare stretti. Guardai accigliata la pila di carte che dovevo esaminare: lettere da altre corti, da sacerdotesse che volevano essere ingaggiate e da regni umani e Fae. Era un compito che rimandavo da settimane, ormai, e avevo deciso di occuparmene quella mattina. Signora Suprema della Corte della Notte, Protettrice dell’Arcobaleno e della... Scrivania. Sbuffai e mi buttai la treccia dietro una spalla. Forse per il Solstizio mi sarei fatta un regalo: una segretaria personale. Una persona che leggesse quelle cose e rispondesse, che stabilisse che cosa era importante e che cosa si poteva scartare. Perché sarebbe stato bellissimo avere un po’ di tempo in più per me stessa, per Rhys... Avrei studiato il bilancio della Corte, cosa che Rhys non faceva mai, e avrei visto che spese si potevano eliminare per rendere possibile una cosa del genere. Per lui e per me. Sapevo che i nostri forzieri erano pieni, sapevo che ce lo potevamo permettere tranquillamente senza nemmeno intaccare la nostra fortuna, ma non mi dispiaceva darmi da fare. Amavo darmi da fare, in realtà. Quel territorio, la sua gente... mi stavano a cuore quanto la mia Metà. Fino al giorno prima, avevo passato quasi tutte le ore di veglia ad aiutarli. Fino a quando non mi era stato detto, educatamente e gentilmente, di tornare a casa e godermi le feste. Dopo la guerra, il popolo di Velaris aveva accettato la sfida: ricostruire e aiutare la sua gente. Prima ancora che mi venisse un’idea su come aiutarli, erano state create varie associazioni per sostenere la città. Mi ero quindi offerta volontaria presso alcune per compiti che andavano dalla ricerca di case per quelli che si erano visti distruggere la loro, alle visite alle famiglie che avevano subito danni, alla distribuzione di cappotti e altri oggetti a coloro che non avevano più effetti personali. Tutto era importantissimo; tutto rappresentava un lavoro utile e soddisfacente. Eppure... mancava qualcosa. Avrei potuto fare di più per aiutare. Io, personalmente. Ma non avevo ancora capito come.
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Sembrava che non fossi l’unica desiderosa di aiutare quelli che avevano perso così tanto. Con le feste era arrivata tutta un’ondata di nuovi volontari, che riempivano la sala pubblica vicino al Palazzo del Filo e dei Gioielli, dove si trovava la sede di molte associazioni. “Il tuo aiuto è stato fondamentale, Signora” mi aveva detto il giorno prima la direttrice di un ente di beneficenza. “Sei stata qui quasi ogni giorno, hai lavorato come una schiava. Prenditi una settimana libera. Te la sei guadagnata. Festeggia con la tua Metà.” Avevo cercato di obiettare, avevo insistito sul fatto che c’erano altri cappotti e altra legna da distribuire, ma la femmina si era limitata a indicare la sala pubblica affollata attorno a noi, piena fino all’orlo di volontari. “Abbiamo più mani di quante ce ne servano.” Quando avevo provato a obiettare di nuovo, mi aveva sospinta oltre la porta d’ingresso. E me l’aveva chiusa alle spalle. Capito. Era successo lo stesso in tutte le altre organizzazioni da cui ero passata il pomeriggio prima. “Vai a casa e goditi le feste” mi dicevano tutti. E così avevo fatto. La prima parte, perlomeno. In quanto al godermi le feste, però... Finalmente, su un rombo di potere scuro e brillante, scintillò lungo l’Unione la risposta di Rhys alla mia domanda precedente: dove si trovasse. “Sono al campo di Devlon.” “E ci voleva così tanto a rispondere?” I Monti Illyrian erano a una bella distanza, sì, ma era strano che la risposta avesse impiegato diversi minuti. Un sensuale sbuffo di risate. “Cassian stava sbraitando. Non prendeva neanche fiato.” “Mio povero piccolo Illyrian. Ti tormentiamo proprio, eh?” Il divertimento di Rhys si propagò nella mia direzione e mi accarezzò nel profondo con mani velate di notte. Ma poi si interruppe e svanì rapidamente come era arrivato. “Cassian sta entrando nel vivo della questione con Devlon. Ci vediamo più tardi.” Sfiorandomi amorevolmente i sensi, sparì. Presto avrei ricevuto un rapporto completo, ma per il momento... Sorrisi alla neve che danzava fuori dalle finestre.
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rano appena le nove di mattina e Cassian era già imbufalito. Il sole scialbo dell’inverno cercava invano di penetrare tra le nuvole che incombevano sui Monti Illyrian, e il vento fischiava sulle vette grigie. C’era già qualche pollice di neve sul campo affaccendato, un anticipo di come sarebbe stato presto a Velaris. Stava nevicando quando ero partito, all’alba; forse al mio ritorno avrei trovato un bello strato per terra. Non avevo potuto chiederlo a Feyre durante la nostra breve conversazione attraverso l’Unione, qualche minuto prima, ma forse avremmo potuto fare una passeggiata insieme. Le avrei potuto mostrare come scintillava la Città delle Stelle sotto la neve fresca. La mia Metà e la mia città, però, sembravano lontanissime dal brulichio di attività nel campo di Rifugio dal Vento, annidato in un ampio e alto passo di montagna. Neanche le raffiche che soffiavano tra le vette, che sollevavano frenetici vortici di neve smentendo il nome dell’accampamento, impedivano agli Illyrian di svolgere le loro faccende quotidiane. Per i guerrieri che non erano di pattuglia: allenamento nei vari recinti, a picco sul fondovalle sottostante. Per i maschi che non si erano qualificati come guerrieri, che fossero mercanti o fabbri o calzolai: occuparsi dei loro vari mestieri. E per le femmine: monotone sfacchinate. Non la vedevano così. Nessuno di loro. Ma i compiti assegnati alle donne, vecchie o giovani, erano sempre gli stessi: cucinare, pulire, allevare i bambini, confezionare indumenti, fare il bucato... C’era onore anche in quei compiti: era lavoro onesto, di cui essere orgogliose. Ma non quando si dava per scontato che ogni singola femmina, lì, lo svolges-
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se. E, se alcune si fossero sottratte a quei doveri, sarebbero state punite da una della mezza dozzina di “madri del campo” o da qualcuno dei maschi che controllavano le loro vite. Era stato sempre così, per la gente di mia madre, fin da quando conoscevo quel posto. Il mondo si era trasformato durante i mesi di guerra, il muro era crollato nel nulla, eppure alcune cose non cambiavano. Soprattutto lì, dove i cambiamenti erano più lenti dello scioglimento dei ghiacciai sparsi tra le montagne. C’erano tradizioni che risalivano a migliaia di anni prima e che in buona parte non erano mai state contrastate. Fino a quel momento. Finché non l’avevamo fatto noi. Distogliendo l’attenzione dal trambusto del campo oltre i bordi dei recinti di allenamento tracciati con il gesso, mi imposi un’espressione neutrale mentre Cassian affrontava Devlon. «Le ragazze sono impegnate nei preparativi per il Solstizio» stava dicendo il signore del campo, con le braccia conserte sul torace possente. «Le mogli hanno bisogno di tutto l’aiuto possibile, perché i preparativi siano completati in tempo. Le ragazze si potranno addestrare la settimana prossima.» Avevo perso il conto di quante variazioni di quella conversazione avessi già sentito, durante i decenni in cui Cassian aveva discusso di quell’argomento con Devlon. Il vento sferzava i capelli scuri di Cassian, ma la sua faccia rimase dura come il granito quando disse al guerriero che – a malincuore – ci aveva addestrati: «Le ragazze possono aiutare le loro madri dopo aver concluso l’allenamento. Lo ridurremo a due ore. Il resto della giornata sarà più che sufficiente per i preparativi». Devlon fece scivolare gli occhi nocciola sul punto in cui mi trovavo io, a pochi passi di distanza. «È un ordine?» Sostenni quello sguardo. E nonostante la mia corona, nonostante il mio potere, dovetti sforzarmi per non ridiventare il bambino tremante che ero stato cinque secoli addietro, quel primo giorno in cui Devlon aveva torreggiato su di me e poi mi aveva scagliato nell’area di addestramento. «Se Cassian dice che è un ordine, allora lo è.» Mi era venuto in mente, durante gli anni in cui avevamo condotto la stessa battaglia con Devlon e gli Illyrian, che avrei potuto semplicemente penetrare nella sua mente, in tutte le loro menti, e fare in modo che fossero d’accordo. Ma c’erano alcune linee che non potevo superare, che non avrei superato. E poi Cassian non me l’avrebbe mai perdonato. Devlon grugnì e il suo respiro formò un viticcio di vapore. «Un’ora.» «Due ore» ribatté Cassian, aprendo leggermente le ali. Mi aveva chiamato, quella mattina, perché lo aiutassi a mantenere la linea dura. La situazione doveva essere brutta, se mio fratello mi aveva chiesto di andare lì. Davvero schifosa. Forse era necessario che qualcuno stesse lì in permanenza, almeno finché gli Illyrian non si fossero ricordati dell’esistenza di quelle piccole cose chiamate “conseguenze”. Ma la guerra aveva avuto un impatto su tutti noi; con la ricostruzione, con i territori umani che ci venivano pian piano incontro, con altri regni Fae che osservavano un mondo senza il muro e si chiedevano che stronzate potessero fare senza subirne le conseguenze... non avevamo le risorse per piazzare stabilmente lì qualcuno. Non ancora. Forse l’estate successiva, se le altre situazioni fossero state abbastanza tranquille.
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Gli amici di Devlon indugiavano nel campo di addestramento più vicino, soppesando Cassian e me, esattamente come avevano fatto durante tutta la nostra vita. Nel Rito di Sangue di molti secoli prima ne avevamo massacrati tanti che ancora si tenevano in disparte, ma... erano stati gli Illyrian che avevano sanguinato e combattuto quell’estate. Che avevano dovuto subire il maggior numero di perdite, che erano stati più danneggiati da Hybern e dal Calderone. Il fatto che una parte dei guerrieri fosse sopravvissuta testimoniava a favore della loro abilità e delle capacità di comando di Cassian, ma, con gli Illyrian isolati e inattivi lassù, quelle perdite stavano iniziando a dare forma a qualcosa di brutto. Di pericoloso. Nessuno di noi aveva dimenticato che, durante il regno di Amarantha, alcune bande di guerrieri si erano allegramente inchinate davanti a lei. E sapevo che nessuno degli Illyrian aveva dimenticato che, nei primi mesi dopo la sua caduta, avevamo dato la caccia a quelle masnade. E le avevamo fatte fuori. Sì, lì era necessaria una presenza stabile. Ma più avanti. Devlon insistette, incrociando le braccia muscolose. «I ragazzi hanno bisogno di un bel Solstizio, dopo tutto quello che hanno dovuto sopportare. Lasciate che le ragazze glielo forniscano.» Quel bastardo sapeva sicuramente quali armi brandire, sia fisiche sia verbali. «Due ore nel campo di addestramento ogni mattina» disse Cassian con lo stesso tono duro; quando aveva quel tono, io stesso non insistevo, a meno che non avessi voglia di una rissa. Non distolse lo sguardo da Devlon. «I ragazzi possono aiutare a decorare, pulire e cucinare. Hanno due mani anche loro.» «Alcuni sì» disse Devlon. «Altri sono tornati a casa con una sola.» Percepii, più che vedere, la ferita che quelle parole infersero a Cassian. Era il prezzo che pagava il comandante dei miei eserciti: considerava suoi fallimenti personali ogni ferita, ogni morte, ogni cicatrice. E stare con quei guerrieri, vedere quegli arti mancanti e quelle ferite brutali che stavano ancora guarendo o che non sarebbero mai guarite... «Si eserciteranno per novanta minuti» dissi, placando il potere oscuro che iniziava ad agitarsi nelle mie vene, che voleva uscire nel mondo, e mi feci scivolare in tasca le mani gelate. Cassian, saggiamente, si finse oltraggiato e spalancò le ali. Devlon aprì la bocca, ma lo interruppi prima che potesse sbraitare qualcosa di molto stupido. «Un’ora e mezzo ogni mattina, poi si dedicheranno alle faccende domestiche, e i maschi contribuiranno ogni volta che possono.» Guardai le tende permanenti e le piccole case di pietra e legno sparse lungo l’ampio passo e le vette coperte di alberi dietro di noi. «Devlon, non dimenticare che anche un gran numero di donne ha subito perdite. Forse non hanno perso mani, ma i loro mariti, figli e fratelli erano su quei campi di battaglia. Tutti collaboreranno ai preparativi per le feste e tutti si alleneranno.» Feci un cenno con il mento a Cassian, per dirgli di seguirmi fino alla casa dall’altra parte del campo, che era diventata la nostra base operativa semi-permanente. Lì dentro non esisteva una superficie su cui non avessi preso Feyre; il tavolo della cucina era il mio pre-
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ferito, grazie a quei giorni selvaggi dopo il nostro primo accoppiamento, quando riuscivo a malapena a stare vicino a lei senza seppellirmici dentro. Quanto sembravano lontani quei giorni. Un’altra vita. Avevo bisogno di una vacanza. La neve e il ghiaccio ci scricchiolavano sotto gli stivali mentre ci dirigevamo verso la stretta casa di pietra a due piani, vicino alla linea degli alberi. Non mi serviva una vacanza per riposare, né per visitare qualche luogo, ma solo per passare più di qualche ora nello stesso letto della mia Metà. Per dormire un po’ più di qualche ora e per immergermi in lei. Sembrava che in quei giorni potessimo fare solo l’una o l’altra cosa. Il che era assolutamente inaccettabile. E mi aveva rimbecillito. La settimana prima era stata piena di stupidi impegni, e io desideravo così disperatamente la pelle e il sapore di Feyre che l’avevo presa durante il volo dalla Casa del Vento alla casa di città. In alto, sopra Velaris... avrebbe potuto vederci chiunque, se non ci avessi schermati. Erano state necessarie alcune accurate manovre, e ormai da mesi avevo programmato di farne un’occasione speciale, ma con lei stretta contro di me, e noi soli nei cieli, era bastato uno sguardo in quegli occhi grigio-azzurri e le stavo già slacciando i pantaloni. Un attimo dopo ero dentro di lei, e per poco non ci eravamo schiantati sui tetti come se fossi stato un ragazzetto Illyrian alle prime armi. Feyre aveva riso. Quel suono roco mi aveva fatto raggiungere subito il culmine. Non era stato il mio momento più glorioso, e senza dubbio sarei sceso a livelli ancora più bassi prima che il Solstizio invernale ci regalasse un giorno di tregua. Soffocai il mio crescente desiderio finché non fu altro che un vago ruggito nella parte posteriore della mia mente, e non parlai fino a quando io e Cassian non fummo quasi oltre la porta di legno. «C’è qualcos’altro che dovrei sapere, già che sono qui?» Picchiai gli stivali contro lo stipite della porta per farne cadere la neve ed entrai in casa. Il tavolo della cucina era in mezzo alla stanza d’ingresso. Scacciai l’immagine di Feyre china su di esso. Cassian fece un sospiro e chiuse la porta dietro di sé, poi ripiegò le ali e si appoggiò allo stipite. «Il dissenso è in fermento. Con tutti i clan che si riuniscono per il Solstizio, avranno l’opportunità di diffonderlo ancora di più.» Un guizzo del mio potere fece accendere un fuoco nel camino e il piccolo piano inferiore si riscaldò rapidamente. Era appena un alito di magia, eppure servì ad alleviare la tensione quasi costante di dover tenere sotto controllo tutto ciò che ero, tutto quel potere oscuro. Mi appoggiai a quel dannato tavolo e incrociai le braccia. «Ci siamo già occupati di stronzate simili, in passato. Ce ne occuperemo di nuovo.» Cassian scosse la testa; i capelli scuri, lunghi fino alle spalle, brillarono nella luce smorta che entrava dalle finestre anteriori. «Non è più come prima. Allora ce l’avevano con me, te e Az per quello che siamo, per chi siamo. Ma questa volta... li abbiamo mandati a combattere. Ce li ho mandati io, Rhys. E ora non si lamentano solo quei coglioni di guerrieri, ma anche le femmine. Credono che li abbiamo fatti marciare verso sud per vendicarci
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di come siamo stati trattati da bambini; pensano che abbiamo messo apposta in prima linea alcuni dei maschi come vendetta.» Non andava bene. Non andava bene per niente. «Dovremo affrontare la situazione con delicatezza, allora. Scopri da dove viene questo veleno ed eliminalo... pacificamente» precisai, quando inarcò le sopracciglia. «Non possiamo uscire da questa faccenda ammazzando gente a destra e a manca.» Cassian si grattò la mascella. «No, non possiamo.» Non sarebbe stato come dare la caccia a quelle bande di guerrieri farabutti che avevano terrorizzato chiunque si trovasse sul loro cammino. No, per niente. Vidi che scrutava la casa in penombra, il fuoco che scoppiettava nel focolare, su cui avevamo visto mia madre cucinare tanti pasti durante il nostro addestramento. Un dolore antico e familiare mi riempì il petto. Ogni punto di quella casa era colmo di passato. «Molti di loro stanno arrivando per il Solstizio» proseguì. «Posso restare qui io, tenere d’occhio la situazione. Magari distribuire regali ai bambini, ad alcune mogli. Cose di cui hanno veramente bisogno, ma che non chiedono per orgoglio.» Era un’ottima idea. Ma... «Può aspettare. Ti voglio a casa per il Solstizio.» «A me non importa...» «Ti voglio a casa. A Velaris» aggiunsi quando aprì bocca per vomitare qualche stronzata lealista Illyrian a cui credeva ancora, anche dopo che lo avevano trattato per tutta la vita come se valesse meno di niente. «Passeremo il Solstizio insieme. Tutti noi.» Anche se, per ottenerlo, avessi dovuto impartire un ordine preciso come Signore Supremo. Cassian inclinò la testa. «Che cosa ti rode?» «Niente.» Per come stavano andando le cose, avevo poco di cui lamentarmi. Fare sesso regolarmente con la mia Metà non era esattamente un problema urgente. E non riguardava nessuno tranne noi. «Sei un attimino teso, Rhys?» Ovviamente non si era fatto ingannare. Sospirai, aggrottai la fronte e fissai l’antico soffitto macchiato di fuliggine. In quella casa avevamo celebrato anche il Solstizio. Mia madre aveva sempre regali per Azriel e Cassian. Per Cassian, il primo Solstizio che avevamo condiviso lì era stata la prima volta in assoluto in cui aveva ricevuto un regalo qualsiasi. Potevo ancora vedere le lacrime che Cassian aveva cercato di nascondere mentre apriva i regali, e le lacrime negli occhi di mia madre mentre lo guardava. «Vorrei passare direttamente alla prossima settimana.» «Sicuro di non poterlo chiedere al tuo potere?» Gli lanciai uno sguardo pungente. Cassian si limitò a rivolgermi un sorrisetto arrogante. Non smettevo mai di provare gratitudine per loro: i miei amici, la mia famiglia, che vedevano quel mio potere e non si tiravano indietro, non odoravano di paura. Sì, a volte potevo spaventarli a morte, ma ci spaventavamo tutti l’un l’altro. Cassian mi aveva terrorizzato più volte di quante volessi ammettere, e una era stata solo pochi mesi prima. Due volte. Era successo due volte, nel giro di poche settimane.
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Vedevo ancora Azriel che lo trascinava fuori dal campo di battaglia, con il sangue che gli colava lungo le gambe, nel fango, con quella ferita simile a delle fauci spalancate al centro del corpo. E lo vedevo ancora come l’aveva visto Feyre, dopo che mi aveva lasciato entrare nella sua mente per rivelare che cosa fosse successo esattamente tra le sue sorelle e il re di Hybern. Vedevo ancora Cassian, a terra, a pezzi e sanguinante, che implorava Nesta di correre via. Cassian non mi aveva ancora parlato di quello che era successo in quei momenti. Di Nesta. Cassian e la sorella della mia Metà non si rivolgevano la parola. Nesta si era segregata in un appartamento squallido al di là della Sidra e rifiutava di interagire con tutti noi, a parte una breve visita a Feyre ogni mese. Avrei dovuto trovare una soluzione anche a quel problema. Vedevo quanto quella cosa tormentasse Feyre. La tranquillizzavo ancora quando si svegliava, agitatissima, dagli incubi in cui riviveva quel giorno a Hybern, quando le sue sorelle erano state Create contro la loro volontà. Incubi sul momento in cui Cassian era stato vicino alla morte e Nesta si era sdraiata su di lui, proteggendolo dal colpo mortale, e sul momento in cui Elain – Elain – aveva afferrato il pugnale di Azriel e aveva ucciso il re di Hybern. Mi strofinai la fronte col pollice e l’indice. «È dura, adesso. Siamo tutti impegnati, stiamo tutti cercando di far funzionare le cose.» Io, Az e Cassian avevamo rimandato ancora una volta i nostri cinque giorni annuali di caccia al rifugio, quell’autunno. Rimandati all’anno successivo, di nuovo. «Torna a casa per il Solstizio, e potremo metterci tranquilli a studiare un piano per la primavera.» «Sembra un evento festivo.» Con la mia Corte dei Sogni, lo era sempre. Ma mi costrinsi a chiedere: «Devlon è uno degli aspiranti ribelli?». Pregavo che non fosse vero. Mi disturbavano i suoi atteggiamenti da maschio e le sue idee arretrate, ma si era comportato correttamente con me, Cassian e Azriel quando eravamo ai suoi ordini. Ci aveva riconosciuto gli stessi diritti dei guerrieri Illyrian purosangue. Lo faceva ancora per tutti i bastardi sotto il suo comando. Erano le sue assurde idee sulle donne che mi facevano venire voglia di strozzarlo. Di nebulizzarlo. Ma, se avessi dovuto sostituirlo, solo la Madre sapeva chi avrebbe preso il suo posto. Cassian scosse la testa. «Non credo. Devlon interrompe qualsiasi discorso del genere. Ma serve solo a farli diventare più riservati, il che rende più difficile scoprire chi sta diffondendo queste stronzate.» Annuii e mi alzai in piedi. Dovevo andare a Cesere e parlare con le due sacerdotesse sopravvissute alla strage di Hybern l’anno prima; dovevamo decidere che cosa fare dei pellegrini che volevano andare lì dall’esterno del nostro territorio. Arrivare in ritardo non mi avrebbe aiutato a convincerle a rimandare fino alla primavera. «Tienilo d’occhio per i prossimi giorni, poi torna a casa. Ti voglio lì due notti prima del Solstizio. E il giorno dopo.» Un accenno di sorriso malizioso. «Presumo che continueremo la nostra tradizione del giorno del Solstizio, allora. Anche se adesso sei un maschio tutto adulto e accoppiato.» Gli feci l’occhiolino. «Non vorrei che voi piccoli Illyrian sentiste la mia mancanza.»
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Cassian ridacchiò. In effetti c’erano alcune tradizioni del Solstizio che non diventavano mai noiose, anche dopo secoli. Ero quasi alla porta quando Cassian disse: «E...». Deglutì. Gli risparmiai il tentativo di mascherare il suo interesse. «Entrambe le sorelle saranno a casa. Che lo vogliano o no.» «Nesta renderà le cose sgradevoli, se decide di non volerci venire.» «Ci sarà» dissi, digrignando i denti «e si comporterà bene. Lo deve a Feyre.» Gli occhi di Cassian lampeggiarono. «Come sta?» Non ci ricamai sopra. «Nesta è Nesta. Fa quello che vuole, anche quando ferisce sua sorella. Le ho offerto un lavoro dopo l’altro, e lei li rifiuta tutti.» Feci un verso esasperato. «Forse potrai inculcarle un po’ di buon senso, durante il Solstizio.» I Sifoni di Cassian gli scintillarono sulle mani. «Probabilmente finirebbe in rissa.» Verissimo. «Allora non dirle una parola. Non mi importa, ma tienine fuori Feyre. È anche la sua giornata.» Perché quel Solstizio... era anche il suo compleanno. Avrebbe compiuto ventun anni. Per un momento mi colpì l’esiguità di quel numero. La mia bella, forte, fiera Metà, incatenata a me... «So che cosa significa quello sguardo, bastardo» disse brutalmente Cassian «ed è una stronzata. Ti ama, e non ho mai visto nessuno amare così tanto qualcun altro.» «A volte è difficile» ammisi, fissando il campo innevato fuori dalla casa, i recinti di addestramento e le abitazioni più in là, «ricordare che è stata una sua scelta. Che lei ha scelto me. Che non è come i miei genitori, spinti insieme a forza.» Cassian fece un’espressione insolitamente solenne, e rimase in silenzio per un momento prima di dire: «A volte divento geloso. Non potrei mai avercela con te per la tua felicità, ma quello che avete voi due, Rhys...». Si passò una mano tra i capelli e il suo Sifone cremisi brillò nella luce che filtrava dalla finestra. «Tutte quelle leggende, quelle bugie che ci raccontano quando siamo bambini. Su com’è gloriosa e meravigliosa l’Unione delle Metà. Pensavo che fossero tutte stronzate. Poi siete arrivati voi due.» «Sta per compiere ventun anni. Ventuno, Cassian.» «E allora? Tua madre aveva diciotto anni contro i novecento di tuo padre.» «Ed era infelice.» «Feyre non è tua madre. E tu non sei tuo padre.» Mi studiò. «A che cosa è dovuto tutto questo, comunque? Non vanno bene le cose tra voi?» Il contrario, in realtà. «Ho questa sensazione...» dissi, spostandomi di un passo; le antiche assi del pavimento in legno mi scricchiolavano sotto gli stivali, il mio potere era come una cosa viva che vagava e si torceva nelle mie vene, «che sia tutto una specie di burla. Una sorta di trucco cosmico, e che nessuno, proprio nessuno, possa essere così felice senza doverla pagare.» «L’hai pagata in anticipo, Rhys. L’avete pagata tutti e due. Abbondantemente.» Agitai una mano. «È solo che...» Ma non riuscivo ad andare avanti. Cassian mi fissò per un lungo momento. Poi mi venne vicino e mi strinse in un abbraccio così forte che riuscivo a malapena a re-
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spirare. «Ce l’hai fatta. Ce l’abbiamo fatta. Entrambi avete sopportato tanto che nessuno vi biasimerebbe se vi allontanaste danzando nel tramonto come Miryam e Drakon e non vi preoccupaste più di nient’altro. E invece vi preoccupate ancora, e vi state ancora dando da fare per far durare questa pace. Pace, Rhys. Abbiamo la pace, quella vera. Goditela, e godetevi lo stare insieme. Avete ripagato il debito prima ancora che esistesse.» Mi si chiuse la gola e lo strinsi forte attorno alle ali; le scaglie delle pelli che indossava mi si piantarono nelle dita. «E tu?» chiesi dopo un momento, tirandomi indietro. «Sei... felice?» Ombre oscurarono i suoi occhi nocciola. «Ci sto lavorando.» Una risposta tiepida. Mi sarei dovuto dare da fare anche in quella direzione. Forse c’erano fili da tirare o da intrecciare. Cassian mi indicò la porta con il mento. «Vai, bastardo. Ci vediamo fra tre giorni.» Annuii e finalmente aprii la porta. Ma mi fermai sulla soglia. «Grazie, fratello.» Il sorriso storto di Cassian era luminoso, anche se aveva ancora quelle ombre sugli occhi. «È un onore, mio signore.»
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CASSIAN
assian non era totalmente sicuro di poter trattare con Devlon e i suoi guerrieri senza strozzarli. Non per un’ora abbondante o giù di lì, perlomeno. E, visto che strozzarli non avrebbe contribuito a placare il malcontento, Cassian aspettò che Rhys trasmutasse nella neve e nel vento prima di sparire a sua volta. Non trasmutò, anche se sarebbe stata un’arma fantastica contro i nemici in battaglia. Aveva visto Rhys farlo, con risultati devastanti. Anche Az, che aveva un suo strano modo di spostarsi nel mondo senza tecnicamente trasmutare. Non gli aveva mai chiesto niente, e di certo Azriel non l’aveva mai spiegato. Ma a Cassian andava benissimo il suo metodo di movimento personale: il volo. Di sicuro gli era stato utile in combattimento. Uscì dalla porta principale dell’antica casa di legno in modo che lo potessero vedere Devlon e quegli altri cazzoni nei recinti di allenamento e poi si stirò per bene. Prima le braccia, ben sviluppate... e ancora doloranti perché aveva preso a pugni alcune facce Illyrian. Poi le ali, più ampie e larghe delle loro. Ce l’avevano sempre avuta con lui per quello, forse più che per tutto il resto. Le allargò finché la tensione lungo i potenti muscoli e i tendini non divenne un piacevole bruciore; le ali proiettavano lunghe ombre sulla neve. E solo allora, battendole poderosamente, scattò nei cieli grigi. Il vento gli ruggiva tutto attorno, la temperatura era così bassa da fargli lacrimare gli occhi. Tonificante, liberatoria. Salì più in alto e poi virò a sinistra, puntando verso le vette dietro il passo. Non era necessario fare un giro di avvertimento su Devlon e sui campi di addestramento.
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Ignorarli, trasmettere il messaggio che non erano così importanti da costituire una minaccia, erano modi perfetti per farli infuriare. Glielo aveva insegnato Rhys. Molto tempo prima. Catturando una corrente ascensionale che lo mandò a librarsi sulle vette più vicine e poi nell’infinito labirinto di montagne innevate che rappresentavano la loro patria, Cassian fece un respiro profondo. Gli indumenti di cuoio da volo e i guanti gli tenevano abbastanza caldo, ma le ali erano esposte al vento gelido... Il freddo era tagliente come un coltello. Poteva proteggersi con i suoi Sifoni, l’aveva già fatto in passato. Ma, quella mattina, desiderava quel freddo pungente. Soprattutto tenendo conto di quello che avrebbe fatto. Del luogo in cui stava andando. Avrebbe riconosciuto la via anche se fosse stato bendato; gli sarebbe bastato ascoltare il suono del vento tra le montagne, inalare l’odore dei pini dalle cime sottostanti, dei campi di roccia brulla. Andava lì di rado. Di solito lo faceva solo quando era probabile che il suo temperamento avesse la meglio su di lui, e gli restava abbastanza autocontrollo da capire che aveva bisogno di andarsene per qualche ora. Era andata così anche quel giorno. In lontananza, piccole forme scure sfrecciavano nel cielo. Guerrieri di pattuglia. O forse scorte armate che guidavano le famiglie alle riunioni del Solstizio. I Fae Superiori, in gran parte, credevano che gli Illyrian fossero la minaccia peggiore su quelle montagne. Non sapevano che, tra le vette, si aggiravano furtivamente esseri molto più pericolosi. Alcuni di loro cacciavano trasportati dai venti, altri strisciavano fuori da profonde caverne nelle rocce stesse. Feyre era stata così coraggiosa da affrontare alcuni di quegli esseri nelle pinete delle Steppe. Per salvare Rhys. Cassian si chiese se suo fratello le avesse mai detto che cosa viveva su quelle montagne. La maggior parte dei mostri era stata uccisa dagli Illyrian o era fuggita in quelle Steppe. Ma i più astuti di loro, i più antichi... erano riusciti a nascondersi. E nelle notti senza luna emergevano per nutrirsi. Neanche cinque secoli di addestramento riuscirono a impedire che un brivido gli percorresse la spina dorsale, mentre osservava le montagne vuote e silenziose più in basso e si chiedeva che cosa dormisse sotto la neve. Virò verso nord, scacciando quel pensiero dalla mente. All’orizzonte prese forma una sagoma familiare, che diventava sempre più grande a ogni battito d’ali. Ramiel. La montagna sacra. Il cuore non solo dell’Illyria, ma di tutta la Corte della Notte. Nessuno, tranne gli Illyrian, era autorizzato ad andare sui suoi pendii brulli e rocciosi, e anche loro potevano farlo soltanto una volta all’anno. Durante il Rito di Sangue. Cassian volò in quella direzione, incapace di resistere all’antico richiamo di Ramiel. Diversa: la montagna era così diversa dall’arida, terribile presenza della vetta solitaria al centro di Prythian. Ramiel gli era sempre sembrata viva. Sveglia e vigile. Ci aveva messo piede solo una volta, nell’ultimo giorno del Rito, quando lui e i suoi fratelli – insanguinati e malconci – ne avevano scalato le pendici per raggiungere il monolite di
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onice sulla sua sommità. Poteva ancora sentire la roccia che gli si sgretolava sotto gli stivali, udire il rantolo del suo respiro mentre quasi trascinava Rhys su per i pendii, con Azriel che copriva loro le spalle. I tre avevano toccato la pietra nello stesso momento; erano stati i primi a raggiungere la vetta al termine di quella settimana brutale. Erano stati i vincitori indiscussi. Il Rito non era cambiato nel corso dei secoli successivi. Si svolgeva ancora all’inizio di ogni primavera: centinaia di guerrieri novizi venivano sguinzagliate tra le montagne e le foreste che circondavano la vetta. Durante il resto dell’anno l’accesso a quel territorio era proibito, per impedire che qualcuno dei novizi andasse a cercare i percorsi migliori e i punti in cui piazzare trappole. C’erano varie prove di qualificazione durante l’anno per capire quali novizi erano pronti, e ogni campo aveva le sue prove, leggermente diverse da quelle degli altri. Ma le regole del Rito restavano le stesse per tutti. I novizi gareggiavano con le ali legate, senza alcun Sifone – veniva attivato un incantesimo che bloccava ogni magia – e senza alcuna scorta, solo gli indumenti che portavano addosso. L’obiettivo: arrivare in cima a quella montagna entro la fine della settimana e toccare la pietra. Gli ostacoli: le distanze, le trappole naturali e gli altri partecipanti. Vecchie faide giungevano a conclusione e ne nascevano di nuove. Si saldavano i conti. Una settimana di inutile spargimento di sangue, insisteva Az. Rhys era spesso d’accordo, ma altrettanto spesso concordava con Cassian: il Rito di Sangue offriva una valvola di sfogo per le pericolose tensioni all’interno della comunità Illyrian. Meglio sfogarle durante il Rito che rischiare la guerra civile. Gli Illyrian erano forti, orgogliosi, senza paura. Ma non erano certo custodi della pace. Forse sarebbe stato fortunato. Forse il Rito di quella primavera avrebbe placato una parte del malcontento. Diavolo, si sarebbe offerto di partecipare lui stesso, se fosse servito a silenziare i brontolii. Erano sopravvissuti a malapena a quella guerra. Non avevano proprio bisogno di un’altra. Non con tanti estranei che si radunavano all’esterno dei loro confini. Ramiel svettava ancora più in alto, un frammento di pietra che perforava il cielo grigio. Bella e solitaria. Eterna e senza età. Non c’era da stupirsi che il primo sovrano della Corte della Notte ne avesse fatto la sua insegna. Insieme alle tre stelle che apparivano solo per un breve periodo ogni anno e che incorniciavano la vetta più alta di Ramiel come una corona. Era durante quel periodo che si svolgeva il Rito. Se fosse nata prima l’insegna o il rito, Cassian non lo sapeva. Non gli era mai importato scoprirlo. Le foreste di conifere e i burroni che punteggiavano il paesaggio ai piedi di Ramiel brillavano sotto la neve fresca. Era tutto vuoto e pulito. Nessun indizio dello spargimento di sangue che si sarebbe verificato all’inizio della primavera. La montagna si avvicinava, potente e sconfinata, così vasta che lui, in confronto, sembrava un’effimera nel vento. Cassian volò verso la parete meridionale di Ramiel e salì abbastanza in alto da intravedere la lucente pietra nera che si ergeva sulla vetta. Non sapeva nemmeno chi avesse messo lì quella pietra. Secondo la leggenda, esisteva già prima che si formasse la Corte della Notte, prima che gli Illyrian migrassero dai Mir-
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midoni, prima ancora che gli umani camminassero sulla Terra. Anche con la neve fresca che copriva Ramiel, nessuno aveva toccato il pilastro di pietra. Un brivido, gelido eppure non sgradevole, gli percorse le vene. Era raro che qualcuno, durante il Rito di Sangue, riuscisse a raggiungere il monolite. Da quando l’avevano fatto lui e i suoi fratelli, cinque secoli prima, Cassian ricordava solo una dozzina di persone circa che non solo avevano raggiunto la montagna, ma erano anche sopravvissute alla scalata. Dopo una settimana di combattimenti, di corse, di ricerca del cibo e fabbricazione delle proprie armi, quella scalata era peggio di tutti gli orrori precedenti. Era la vera prova di volontà, di coraggio. Arrampicarsi quando non si avevano più forze; arrampicarsi quando il corpo implorava di fermarsi... Era lì che di solito si crollava. Ma quando aveva toccato il monolite di onice, quando aveva sentito quell’antica forza cantargli nel sangue e nel battito del cuore prima di riportarlo al sicuro al campo di Devlon... Ne era valsa la pena. Pur di sentirla. Dopo aver chinato solennemente la testa in direzione di Ramiel e della pietra viva sulla cima, Cassian colse un altro vento veloce e si librò verso sud. Un’ora di volo lo fece avvicinare a un’altra vetta familiare. Una a cui non si avvicinava nessuno, a parte lui e i suoi fratelli. Ciò che aveva tanto desiderato vedere e sentire, quel giorno. Lì, un tempo, c’era stato un campo pieno di attività, come quello di Devlon. Un tempo. Prima che nascesse un bastardo in una gelida tenda solitaria ai margini del villaggio. Prima che scagliassero nella neve una giovane madre non sposata, solo pochi giorni dopo il parto, con il suo bambino tra le braccia. E prima che riprendessero quel bambino, pochi anni dopo, e lo gettassero nel fango al campo di Devlon. Cassian atterrò sul tratto pianeggiante del passo di montagna; i cumuli di neve erano più alti che a Rifugio dal Vento. Nascondevano ogni traccia del villaggio che un tempo sorgeva lì. Comunque di quel villaggio rimanevano solo cenere e detriti. Se ne era assicurato. Dopo che lui aveva affrontato i responsabili delle sofferenze e dei tormenti di sua madre, nessuno era voluto restare lì un minuto di più. Non con i frammenti di ossa e il sangue che ricoprivano ogni superficie, che imbrattavano ogni campo e ogni area di addestramento. E quindi erano emigrati; alcuni si erano uniti ad altri campi, altri si erano rifatti una vita altrove. Nessuno era mai tornato. Secoli dopo, non se ne pentiva. In piedi nella neve e al vento, mentre osservava il vuoto in cui era nato, Cassian non se ne pentiva nemmeno per un istante. Sua madre aveva sofferto in ogni momento della sua troppo breve vita. E le cose non avevano fatto altro che peggiorare dopo averlo partorito. Soprattutto gli anni dopo che lui era stato portato via. E quando Cassian era stato abbastanza forte e abbastanza grande da tornare a cercarla, lei non c’era più.
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Si erano rifiutati di dirgli dove era stata sepolta. Avevano rifiutato di dirgli se le avevano almeno concesso quell’onore, o se avevano gettato il suo corpo a marcire in un baratro ghiacciato. Ancora non lo sapeva. Anche con i loro ultimi, rantolanti respiri, quelli che si erano assicurati che lei non conoscesse mai la felicità si erano rifiutati di dirglielo. Gli avevano sputato in faccia e gli avevano raccontato ogni cosa orribile che le avevano fatto. Avrebbe voluto seppellirla a Velaris. In un posto pieno di luce e calore, pieno di persone gentili. Lontano da quelle montagne. Cassian esaminò il passo innevato. Aveva ricordi cupi di quel posto: fango e freddo e fuocherelli troppo piccoli. Ma riusciva a ricordare una voce dolce e cadenzata, mani gentili e snelle. Era tutto ciò che gli rimaneva di lei. Cassian si passò le mani tra i capelli e le dita si incastrarono nei nodi provocati dal vento. Sapeva perché era andato lì, perché andava sempre lì. Anche se Amren lo derideva e diceva che era un bruto Illyrian, lui conosceva la propria mente, il proprio cuore. Devlon era un signore del campo più corretto degli altri. Ma per le femmine meno fortunate, prese di mira o scacciate, c’era ben poca pietà. Quindi addestrare quelle donne, dare loro le risorse e la sicurezza necessarie per reagire, per poter guardare oltre i loro fuochi da campo... era una cosa che faceva per lei. Per la madre sepolta lì, o forse sepolta da nessuna parte. Perché non succedessero mai più cose del genere. Perché il suo popolo, che amava ancora nonostante i tanti difetti, potesse un giorno diventare qualcosa di più. Qualcosa di meglio. La tomba anonima e ignota in quel passo era il suo promemoria. Cassian rimase in silenzio per lunghi minuti prima di volgere lo sguardo verso ovest. Come se potesse vedere fino a Velaris. Rhys lo voleva a casa per il Solstizio, e lui avrebbe obbedito. Anche se Nesta... Nesta. Persino nei suoi pensieri, quel nome risuonava dentro di lui, vuoto e freddo. Non era il momento di pensare a lei. Non lì. E, comunque, si concedeva molto raramente di pensare a lei. Di solito, in quei casi, non finiva bene per chiunque fosse nel campo di addestramento con lui. Mentre spalancava le ali, Cassian lanciò un’ultima occhiata al campo che aveva raso al suolo. Rappresentava anche un altro promemoria: di che cosa era capace quando veniva spinto troppo oltre. Gli ricordava di fare attenzione, anche quando Devlon e gli altri gli facevano venire voglia di urlare. Lui e Az erano gli Illyrian più potenti di tutta la loro lunga e sanguinosa storia. Indossavano sette Sifoni ciascuno, una cosa senza precedenti, solo per poter gestire le ondate di potere letale che possedevano. Era un dono, e un fardello insieme, che non aveva mai preso alla leggera. Tre giorni. Aveva tre giorni prima di dover andare a Velaris. Avrebbe cercato di sfruttarli bene.
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FEYRE
’Arcobaleno era un ronzio di attività, anche sotto la neve che continuava a cadere. I Fae Superiori e i Fae entravano e uscivano dai vari negozi e studi; alcuni erano appollaiati sulle scale per appendere ghirlande di pino e agrifoglio tra i lampioni, altri spazzavano mucchietti di neve dalle loro soglie, altri ancora – senza dubbio artisti – stavano semplicemente in piedi sui ciottoli chiari e giravano su se stessi, con i visi sollevati verso il cielo grigio e capelli, pelle e abiti coperti di fiocchi di neve. Dopo avere schivato una di quelle persone in mezzo alla strada – una Fae con la pelle simile a onice scintillante e gli occhi come ammassi vorticosi di stelle – puntai verso la facciata di una piccola e graziosa galleria, la cui vetrina rivelava un assortimento di dipinti e ceramiche. Il posto perfetto per fare acquisti per il Solstizio. Una ghirlanda di sempreverdi era appesa alla porta azzurra dipinta di fresco, dal centro della quale pendevano campanelle di ottone. La porta: nuova. La vetrina: nuova. Entrambe erano state spaccate e inzaccherate di sangue, mesi prima. E lo stesso valeva per tutta la strada. Faticavo a non guardare le pietre della strada spolverate di bianco, che scendevano ripide fino alla serpeggiante Sidra. Il lungofiume, pieno di mecenati e artisti, dove mesi prima avevo evocato i lupi da quelle acque sonnolente. Allora il sangue scorreva sui ciottoli e per le strade non c’erano stati canti e risate, ma urla e suppliche. Inspirai forte dal naso e l’aria gelata mi solleticò le narici. Lasciai uscire il fiato lenta-
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mente e lo guardai formare una nuvoletta davanti a me. Mi osservai nel riflesso della vetrina del negozio: ero a malapena riconoscibile nel mio pesante cappotto grigio, una sciarpa rossa e grigia che avevo sgraffignato dall’armadio di Mor, gli occhi spalancati e distanti. Un istante dopo mi resi conto che non ero l’unica a fissarmi. All’interno della galleria, almeno cinque persone stavano facendo del loro meglio per non guardarmi a bocca aperta mentre esaminavano la collezione di dipinti e ceramiche. Mi avvamparono le guance, il cuore si mise a battere in modo discontinuo, feci un sorriso teso e poi proseguii. Anche se un oggetto aveva attirato la mia attenzione. Anche se sarei voluta entrare. Tenni le mani inguantate nelle tasche del cappotto mentre scendevo a grandi passi lungo la strada ripida, attenta a dove mettevo i piedi sui ciottoli scivolosi. C’erano tanti incantesimi attivi su Velaris per mantenere caldi i palazzi, i caffè e le piazze durante l’inverno, ma sembrava che molti di essi fossero stati sospesi in occasione di quella prima neve, come se tutti volessero sentirne il bacio gelido. Io avevo affrontato coraggiosamente la camminata dalla casa di città, invece di trasmutare o volare, non solo perché volevo respirare l’aria fredda e odorosa di neve, ma anche per assorbire l’eccitazione scoppiettante di tutti quelli che si preparavano per il Solstizio. Sebbene Rhys e Azriel mi istruissero ancora ogni volta che potevano, sebbene amassi davvero volare, il pensiero di esporre al freddo le mie ali sensibili mi faceva rabbrividire. Poche persone mi riconobbero mentre passavo; trattenevo saldamente dentro di me il mio potere, e comunque la maggior parte della gente era troppo occupata a mettere decorazioni o a godersi la prima neve per notare gli altri. Una piccola grazia, anche se certo non mi dispiaceva essere avvicinata. In quanto Signora Suprema, ogni settimana tenevo udienze pubbliche alla Casa del Vento, insieme a Rhys. Le richieste andavano dalle cose più piccole – un lampione di luce Fae che si era rotto – a quelle complicate: “per favore, è possibile smettere di importare merci da altre corti, visto che questo danneggia gli artigiani locali?”. Alcuni erano problemi che Rhys affrontava ormai da secoli, ma non lo dava mai a vedere. No: ascoltava ogni postulante, poneva domande approfondite e poi lo congedava con la promessa di inviare una risposta al più presto. Mi ci erano volute alcune udienze per capire bene le domande che faceva, il modo in cui ascoltava. Non mi aveva spinta a intervenire a meno che non fosse necessario, mi aveva concesso lo spazio per capire il ritmo e lo stile di quelle udienze e iniziare a fare domande per conto mio. E poi iniziare a scrivere anche le risposte ai postulanti. Rhys replicava personalmente a ognuno di loro. E ormai lo facevo anch’io. Ecco il motivo delle pile di scartoffie – sempre in aumento – in tante stanze della casa di città. Non avevo idea di come avesse potuto gestirle così a lungo senza una squadra di segretari ad assisterlo. Ma mentre scendevo lungo la strada ripida, con gli edifici colorati dell’Arcobaleno che brillavano intorno a me come un luccicante ricordo dell’estate, riflettei di nuovo sull’argomento.
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Velaris non era affatto povera, la maggior parte della sua popolazione stava bene, gli edifici e le strade erano ben tenuti. Mia sorella, a quanto pareva, era riuscita a trovare la cosa più simile ai bassifondi che esistesse lì. E insisteva per viverci, in un edificio più vecchio di Rhys e che aveva un bisogno disperato di riparazioni. In città c’erano solo pochi isolati in quelle condizioni. Quando avevo chiesto a Rhys perché non vi si era posto rimedio, si era limitato a dirmi che ci aveva provato. Ma sfollare le persone mentre le loro case venivano demolite e ricostruite... era una faccenda delicata. Non ero rimasta sorpresa, due giorni prima, quando Rhys mi aveva consegnato un foglio e mi aveva chiesto se avrei voluto aggiungere qualcos’altro. Sul foglio c’era un elenco di organizzazioni di beneficenza a cui faceva donazioni attorno al Solstizio. C’era di tutto: dall’aiuto ai poveri, ai malati e agli anziani fino alle sovvenzioni alle giovani madri perché potessero avviare una loro attività. Avevo aggiunto solo due voci, entrambe organizzazioni di cui avevo sentito parlare mentre facevo volontariato: donazioni agli umani che erano stati sfollati durante la guerra contro Hybern, nonché alle vedove di guerra Illyrian e alle loro famiglie. Le somme che stavamo stanziando erano considerevoli, più denaro di quanto avessi mai sognato di possedere. Un tempo non desideravo altro che cibo a sufficienza, un po’ di denaro e il tempo per poter dipingere. Niente di più. Mi sarebbe andato benissimo se le mie sorelle si fossero sposate e io fossi rimasta a prendermi cura di mio padre. E invece, oltre ad avere la mia Metà, la mia famiglia, oltre a essere Signora Suprema, c’era il semplice fatto che vivevo lì, che potevo attraversare un intero quartiere di artisti ogni volta che lo desideravo... Un altro viale incrociava la strada a metà del pendio e io lo imboccai. In mezzo alla neve, le file ordinate di case, gallerie e studi seguivano la sua curva. Ma anche tra i colori accesi c’erano macchie di grigio, di vuoto. Mi avvicinai a uno di quei punti, un edificio semidiroccato. Il colore verde menta dei muri era diventato grigiastro, come se la luce stessa si fosse ritirata dal colore quando l’edificio era stato fatto a pezzi. Anche alcune costruzioni lì attorno erano silenziose e crepate, e una galleria sull’altro lato della strada era sbarrata da assi. Qualche mese prima avevo iniziato a donare una parte del mio stipendio mensile – l’idea di ricevere una cosa del genere mi sembrava ancora assolutamente ridicola – per ricostruire l’Arcobaleno e aiutare i suoi artisti, ma le cicatrici c’erano ancora, sia sugli edifici sia sui loro residenti. E poi c’era il cumulo di macerie coperte di neve davanti a me: chi ci aveva abitato, chi ci aveva lavorato? Erano ancora vivi o erano stati trucidati durante l’attacco? C’erano molti posti così a Velaris. Li avevo visti mentre lavoravo, mentre distribuivo cappotti invernali e facevo visita alle famiglie nelle loro case. Buttai fuori il fiato di nuovo. Sapevo che mi soffermavo troppo spesso e troppo a lungo in punti simili. Sapevo che avrei dovuto proseguire, sorridere come se nulla mi disturbasse, come se tutto andasse bene. Eppure... «Sono usciti in tempo» disse una voce femminile dietro di me.
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Mi voltai, con gli stivali che slittavano sull’acciottolato scivoloso. Allungai un braccio per riprendere l’equilibrio e mi aggrappai alla prima cosa con cui venni a contatto: un pezzo di pietra caduto dalla casa distrutta. Ma vedere chi c’era dietro di me, a guardare le macerie, mi fece dimenticare ogni imbarazzo. Nei mesi trascorsi dall’attacco, non l’avevo dimenticata. Non avevo dimenticato il momento in cui l’avevo vista fuori dal negozio, con un tubo arrugginito sollevato su una spalla, pronta ad affrontare il gruppo di soldati di Hybern, pronta a sferrare colpi con quel tubo per difendere le persone terrorizzate rannicchiate lì dentro. Una tenue e graziosa sfumatura rosata le brillava sulla pelle verde chiaro, e i capelli neri le scendevano fin sotto il petto. La proteggevano dal freddo un cappotto marrone, una sciarpa rosa avvolta intorno al collo e alla metà inferiore del viso, ma mentre incrociava le braccia vidi che le dita lunghe e delicate non portavano guanti. Era una Fae, ma di un tipo che non avevo visto spesso. Il suo viso e il suo corpo mi ricordavano i Fae Superiori, anche se aveva le orecchie più sottili e più lunghe delle mie. Aveva una forma più snella e più slanciata; lo vedevo nonostante il cappotto pesante. Incrociai il suo sguardo – gli occhi erano di un ocra vibrante che mi fece chiedere quali colori avrei dovuto mescolare per rendere quella sfumatura – e le feci un sorrisino. «Mi fa piacere.» Calò il silenzio, interrotto dal canto allegro di alcune persone per strada e dal vento che soffiava dalla Sidra. La Fae si limitò a inclinare la testa. «Signora.» Cercai qualcosa da dire, qualcosa di adatto a una Signora Suprema e tuttavia amichevole, e non trovai niente. Avevo la mente così vuota che mi uscì di bocca: «Sta nevicando». Come se quella roba bianca che scendeva dal cielo potesse essere qualcos’altro. La donna inclinò di nuovo la testa. «Già.» Sorrise al cielo, mentre i fiocchi di neve si posavano sui capelli neri come l’inchiostro. «Ed è proprio bella, come prima nevicata.» Studiai le rovine dietro di me. «Tu... conosci le persone che abitavano qui?» «Sì. Adesso vivono nella fattoria di un parente, in pianura.» Agitò una mano verso la piatta distesa di terra tra Velaris e la lontana riva del mare. «Ah» riuscii a dire, poi indicai con il mento il negozio sbarrato sull’altro lato della strada. «E quello?» Lei guardò il punto che indicavo. Strinse le labbra, dipinte di un rosa-bacca. «Lì non c’è stato un lieto fine, temo.» Mi sudarono i palmi dentro i guanti di lana. «Capisco.» Si voltò di nuovo verso di me e i capelli di seta ondeggiarono. «Si chiamava Polina. Quella era la sua galleria. Lo era stata per secoli.» Ormai era un guscio scuro e silenzioso. «Mi dispiace» dissi, incerta su cos’altro dire. Le sopracciglia sottili e scure della femmina si aggrottarono. «Perché dovresti essere dispiaciuta?» E poi aggiunse: «Mia signora». Mi mordicchiai un labbro. Discutere di quelle cose con estranei... forse non era una buo-
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na idea. Quindi ignorai la sua domanda e le chiesi: «Aveva una famiglia?». Speravo che almeno loro ce l’avessero fatta. «Anche loro vivono in pianura. Sua sorella e tutti i nipoti.» La creatura studiò di nuovo la facciata sbarrata. «È in vendita, adesso.» Sbattei le palpebre, comprendendo la proposta implicita. «Oh, ma... non lo stavo chiedendo per questo motivo.» Non mi era nemmeno passato per la mente. «Perché no?» Una domanda franca e facile. Forse più diretta di quanto la maggior parte delle persone osasse essere con me, soprattutto gli estranei. «Io... che cosa me ne potrei fare?» Mi fece un gesto aggraziato con una mano. «Si dice che tu sia una brava artista. Mi vengono in mente molti possibili usi.» Distolsi lo sguardo, odiandomi un po’ per quello. «Non sono introdotta nel settore, temo.» La Fae sollevò una spalla. «Be’, che tu lo sia o no, non è necessario che giri qui attorno furtivamente. Ogni porta è aperta per te, sai.» «Come Signora Suprema?» osai chiedere. «Come una di noi» rispose semplicemente. Le parole si assestarono dentro di me; in modo strano ma, allo stesso tempo, come un pezzo della cui assenza non mi ero accorta. Mi era stata tesa una mano, e non mi ero resa conto di quanto volessi afferrarla. «Io sono Feyre» dissi, togliendomi il guanto e allungando il braccio. La Fae mi strinse le dita; aveva una presa forte come l’acciaio, nonostante la corporatura snella. «Ressina.» Non era una persona incline a sorridere eccessivamente, ma comunque sembrava piena di un calore pragmatico. Le campane di mezzogiorno suonarono in una torre ai margini dell’Arcobaleno, e subito il suono fu ripreso in tutta la città dalle altre torri. «Dovrei andare» dissi, lasciando la mano di Ressina e indietreggiando di un passo. «Mi ha fatto piacere conoscerti.» Mi rimisi il guanto; le dita già bruciavano per il freddo. Forse quell’inverno avrei dovuto dedicare un po’ di tempo a padroneggiare meglio i miei poteri del fuoco. Sarebbe stato molto utile imparare a scaldarmi i vestiti e la pelle senza bruciarmi. Ressina mi indicò un edificio lungo la strada, sull’altro lato dell’incrocio da cui ero appena passata. Era lo stesso edificio che aveva difeso, con le pareti dipinte di rosa lampone e le porte e le finestre di un turchese brillante, come l’acqua attorno a Adriata. «Sono una degli artisti che usano lo spazio in quello studio. Se mai volessi una guida, o anche solo un po’ di compagnia, sono lì quasi tutti i giorni. Vivo sopra lo studio.» Un elegante cenno della mano verso le minuscole finestre rotonde al primo piano. Mi posai una mano sul petto. «Grazie.» Di nuovo silenzio, e io guardai quel negozio, la porta davanti a cui si era piazzata Ressina, per difendere la sua casa e le case di altri. «Lo ricordiamo, sai» disse sottovoce Ressina, facendomi distogliere lo sguardo. Ma la sua attenzione si era rivolta alle macerie dietro di noi, allo studio sbarrato, alla strada, come se
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anche lei potesse vedere – attraverso la neve – il sangue che era colato tra i ciottoli. «Ricordiamo che quel giorno sei venuta ad aiutarci.» Non sapevo che cosa fare del mio corpo, delle mie mani, quindi optai per l’immobilità. Finalmente Ressina incrociò il mio sguardo, e gli occhi color ocra erano luminosi. «Ci teniamo a distanza per lasciarti il tuo spazio, ma non pensare neanche per un momento che qualcuno di noi non lo sappia e non lo ricordi, che non ti sia grato di essere venuta qui e avere combattuto per noi.» Non era stato sufficiente, però. L’edificio in rovina dietro di me ne era la prova. Parecchie persone erano comunque morte. Ressina fece qualche passo verso il suo studio, senza fretta, poi si fermò. «Abbiamo un gruppo che dipinge insieme, nel mio studio. Una sera alla settimana. Ci incontreremo tra due giorni. Sarebbe un onore se volessi unirti a noi.» «Che genere di cose dipingi?» La mia domanda era sommessa come la neve che ci cadeva attorno. Ressina fece un sorrisino. «Le cose che devono essere raccontate.» Anche se la gelida sera era scesa presto su Velaris, le strade erano piene di persone; alcune erano cariche di borse e di scatole, alcune trasportavano a fatica enormi cesti di frutta presi in una delle tante bancarelle che occupavano i due Palazzi. Con il cappuccio foderato di pelliccia che mi proteggeva dal freddo, esaminai i carrelli dei venditori e le vetrine dei negozi nel Palazzo del Filo e dei Gioielli, soprattutto le vetrine. Alcune delle aree pubbliche erano ancora riscaldate, ma buona parte di Velaris era stata temporaneamente esposta al vento pungente e mi dispiacque non essermi messa un maglione più pesante, quella mattina. Imparare a riscaldarmi senza evocare una fiamma sarebbe stato davvero utile. Se mai avessi avuto il tempo per farlo. Stavo tornando a guardare la vetrina di uno dei negozi costruiti sotto gli aggetti degli edifici quando un braccio si allacciò al mio e Mor disse, con voce strascicata: «Amren ti amerebbe per sempre se le comprassi uno zaffiro così grande». Risi e tirai indietro il cappuccio per poterla vedere bene. Le guance di Mor erano arrossate dal freddo, e le trecce dorate scendevano sulla pelliccia bianca che bordava il suo mantello. «Purtroppo, non credo che le nostre casse ci amerebbero altrettanto.» Mor fece un sorrisetto compiaciuto. «Lo sai che siamo facoltosi, vero? Potresti riempire una vasca da bagno con quei cosi» indicò col mento lo zaffiro, delle dimensioni di un uovo, nella vetrina della gioielleria «e intaccare appena i nostri conti.» Lo sapevo. Avevo visto gli elenchi dei beni. Non riuscivo ancora a comprendere l’enormità della ricchezza di Rhys. Della mia ricchezza. Quei numeri, quelle cifre non sembravano reali. Come se fossero soldi giocattolo, per i bambini. Compravo solo quello che mi serviva. Ma in quel momento... «Sto cercando qualcosa da prenderle per il Solstizio.» Mor esaminò la fila di gemme nella vetrina, da quelle grezze a quelle incastonate. Alcune brillavano come stelle cadute. Altre ardevano senza fiamma, come se fossero state sottratte al cuore infuocato della Terra. «In effetti Amren merita un regalo decente quest’anno, non è vero?»
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Dopo quello che aveva fatto per distruggere gli eserciti di Hybern durante quella battaglia finale, dopo la sua scelta di rimanere lì con noi... «Lo meritiamo tutti.» Mor mi diede un colpetto col gomito, ma i suoi occhi castani brillavano. «E Varian ci raggiungerà, secondo te?» Sbuffai. «Ieri l’ho chiesto ad Amren e lei non mi ha risposto.» «Penso che voglia dire che verrà. O, perlomeno, andrà a trovarla.» Sorrisi al pensiero e trascinai Mor verso la vetrina successiva, standole appiccicata per riscaldarmi. Amren e il principe di Adriata non avevano fatto dichiarazioni ufficiali, ma a volte rivedevo in sogno quel momento in cui lei si era spogliata della sua pelle immortale e Varian si era inginocchiato. Amren era stata una creatura di fiamme e zolfo, creata in un altro mondo per infliggere le punizioni decise da un dio crudele, per essere il suo carnefice delle masse di mortali inermi. Per quindicimila anni era rimasta bloccata nel nostro mondo. E non aveva amato – non di quell’amore che può modificare la storia, che può mutare il destino – finché non aveva conosciuto quel principe di Adriata dai capelli d’argento. O, perlomeno, amato nella maniera in cui Amren poteva amare qualcosa. E quindi, certo, non c’era niente di ufficiale tra loro. Ma sapevo che lui era venuto a trovarla, in segreto, nella nostra città. Soprattutto perché alcune mattine Amren incedeva nella casa di città con un sorrisetto compiaciuto simile a quello di un gatto. Ma se pensavo a ciò a cui aveva rinunciato, per poterci salvare... Io e Mor notammo il gioiello in vetrina nello stesso istante. «Quello» dichiarò lei. Io mi stavo già dirigendo verso la porta d’ingresso a vetri; quando entrammo, si udì l’allegro tintinnio di un campanello d’argento. La negoziante spalancò gli occhi ma sembrò raggiante quando indicammo il gioiello, e lo posò subito su un cuscinetto di velluto nero. Inventò una scusa gentile – disse che doveva prendere qualcosa dal retro – per lasciarci un po’ di intimità davanti al bancone di legno lucido. «È perfetto» sussurrò Mor; le pietre spezzavano la luce e sembravano ardere internamente. Feci scorrere un dito sull’elegante montatura d’argento. «E tu che regalo vuoi?» Mor scrollò le spalle. Il pesante cappotto marrone faceva risaltare il ricco color terra dei suoi occhi. «Ho tutto ciò di cui ho bisogno.» «Prova a dirlo a Rhys. Dice che al Solstizio non si dovrebbero ricevere regali di cui si ha bisogno, ma quelli che non si comprerebbero mai per se stessi.» Mor alzò gli occhi al cielo. Ero tentata di fare altrettanto, ma insistei: «Allora, che cosa vuoi tu?». Fece scorrere un dito su una gemma tagliata. «Niente. Io... Non c’è niente che voglia.» A parte le cose che forse non era pronta a chiedere, a cercare. Esaminai di nuovo il gioiello e chiesi con tono disinvolto: «Sei andata spesso da Rita, ultimamente. C’è una persona che vorresti portare alla cena del Solstizio?». Mor mi guardò negli occhi. «No.» Doveva decidere lei quando e come informare gli altri di quello che mi aveva detto durante la guerra. Soprattutto, quando e come dirlo ad Azriel.
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Il mio unico ruolo era starle accanto... coprirle le spalle quando ne aveva bisogno. E così continuai: «Che cosa regali agli altri?». Lei si accigliò. «Dopo secoli di doni, è una gran rottura di palle trovare qualcosa di nuovo per tutti loro. Azriel deve avere un cassetto pieno di tutti i pugnali che gli ho comprato nel corso dei secoli, ne sono sicura; è troppo educato per buttarli via, ma non li userà mai.» «Pensi sinceramente che darebbe mai via lo StrappaVerità?» «L’ha dato a Elain» disse Mor, ammirando una collana di pietra lunare nella teca di vetro del bancone. «Lei gliel’ha restituito» la corressi, e non riuscii a evitare di ricordare la lama nera che trafiggeva la gola del re di Hybern. Ma Elain l’aveva restituito; l’aveva messo nelle mani di Azriel dopo la battaglia, proprio come lui aveva fatto prima con lei. E poi se n’era andata senza voltarsi. Mor mormorò qualcosa fra sé e sé. La gioielliera tornò un attimo dopo e io firmai il mio conto di credito personale, cercando di non rabbrividire per l’enorme somma di denaro che era appena scomparsa con un tratto di penna d’oro. «A proposito di guerrieri Illyrian,» dissi mentre camminavamo nella piazza del Palazzo, piena di gente, e giravamo attorno a un carrello dipinto di rosso che vendeva tazze di cioccolata bollente «che diavolo posso comprare per loro?» Non avevo il coraggio di chiedere che cosa avrei dovuto prendere per Rhys, perché, anche se adoravo Mor, mi sembrava sbagliato chiedere consiglio a un’altra persona su che cosa comprare alla mia Metà. «In tutta onestà, potresti regalare un nuovo coltello a Cassian e lui ti bacerebbe. Ma Az probabilmente preferirebbe non ricevere regali, solo per evitare di essere al centro dell’attenzione mentre li apre.» Risi. «Vero.» Proseguimmo, tenendoci sottobraccio; gli aromi di nocciole tostate, pigne e cioccolato sostituivano il solito profumo di sale, limone e verbena che riempiva la città. «Conti di andare a trovare Viviane durante il Solstizio?» Nei mesi trascorsi dalla fine della guerra, Mor era rimasta in contatto con la Signora della Corte dell’Inverno; forse presto Viviane ne sarebbe diventata la Signora Suprema, se dipendeva da lei. Erano state amiche per secoli, fino a quando il regno di Amarantha non aveva interrotto i contatti, e, anche se la guerra con Hybern era stata brutale, una delle conseguenze positive era stato il riaccendersi della loro amicizia. Rhys e Kallias avevano un’alleanza ancora tiepida, ma sembrava che il rapporto di Mor con la Metà del Signore Supremo dell’Inverno avrebbe fatto da ponte tra le nostre due corti. La mia amica mi rivolse un sorriso pieno di calore. «Forse uno o due giorni dopo. Loro festeggiano per tutta una settimana.» «Ci sei già stata?» Scosse la testa e i capelli dorati catturarono la luce Fae dei lampioni. «No. Di solito tengono chiusi i loro confini, anche agli amici. Ma con Kallias ora al potere e, soprattutto, con Viviane al suo fianco, stanno ricominciando ad aprirsi.»
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«Posso solo immaginare le loro celebrazioni.» Le brillarono gli occhi. «Viviane me ne ha parlato, una volta. Fanno sembrare le nostre decisamente noiose. Ballano e bevono, banchettano e si scambiano regali. Ci sono falò ruggenti in cui bruciano interi tronchi d’albero, calderoni pieni di vino caldo e speziato e il canto di mille menestrelli che percorre tutto il palazzo, a cui fanno eco le campanelle delle grandi slitte trainate da quei bellissimi orsi bianchi.» Sospirò e io feci altrettanto, mentre le immagini che aveva evocato aleggiavano nell’aria gelida tra noi. Lì a Velaris festeggiavamo la notte più lunga dell’anno. Nel territorio di Kallias, a quanto pareva, festeggiavano l’inverno stesso. Il sorriso di Mor svanì. «Sono venuta a cercarti per un motivo preciso, sai.» «Non solo per fare acquisti?» Mi diede una gomitata. «Dobbiamo andare alla Città Spaccata. Stasera.» Rabbrividii. «“Dobbiamo” nel senso di “tutti noi”?» «Almeno io, tu e Rhys.» Trattenni un gemito. «Perché?» Mor si fermò davanti a un venditore ed esaminò le sciarpe ben piegate. «Per rispettare la tradizione. Attorno al Solstizio, facciamo una visitina alla Corte degli Incubi per augurare loro ogni bene.» «Davvero?» Mor fece una smorfia, annuì al venditore e proseguì. «Come ho detto, è una tradizione. Per incoraggiare la buona volontà. Quella poca che c’è. E, dopo le battaglie di quest’estate, non farebbe male.» Keir e il suo esercito di Oscuranti avevano combattuto, dopotutto. Attraversammo il centro del Palazzo, molto affollato, passando sotto un reticolo di luci Fae che cominciavano appena a sfavillare. Da un punto silenzioso e assopito dentro di me, arrivò svolazzando il nome del dipinto. Il gelo e le stelle. «Quindi tu e Rhys avete deciso di dirmelo poche ore prima di dover andare?» «Rhys è stato via tutto il giorno. Ho deciso io di andare stasera. Se non vogliamo rovinarci il Solstizio vero e proprio con questa visita, è meglio farlo adesso.» C’erano ancora diversi giorni tra quel momento e la vigilia del Solstizio. Ma Mor mantenne un’espressione indifferente. Insistetti: «Tu amministri la Città Spaccata e tratti sempre con loro». Praticamente la governava, quando non c’era Rhys. E gestiva il suo terribile padre. Mor intuì che domanda c’era dietro la mia affermazione. «Stasera ci sarà Eris. L’ho saputo stamattina da Az.» Rimasi in silenzio, in attesa. Gli occhi marroni di Mor si incupirono. «Voglio vedere di persona quanto sono diventati amiconi lui e mio padre.» Per me era una ragione sufficiente.
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l calar del crepuscolo ero raggomitolata sul letto, calda, comoda e assonnata tra gli strati di coperte e piumoni, quando Rhys finalmente tornò. Sentii il richiamo del suo potere molto prima che si avvicinasse alla casa, una melodia oscura che attraversava il mondo. Mor aveva annunciato che non saremmo andati alla Città Spaccata prima di un’ora o giù di lì; con tutto quel tempo a disposizione, avevo scartato i documenti sulla scrivania in palissandro dall’altra parte della stanza e avevo preso un libro. Ero riuscita a leggere appena una decina di pagine quando Rhys aprì la porta della camera da letto. I suoi indumenti Illyrian brillavano di neve sciolta, e altra luccicava sui capelli scuri e sulle ali mentre chiudeva silenziosamente la porta. «Esattamente dove ti ho lasciata.» Sorrisi e posai il libro accanto a me. Fu quasi inghiottito dal piumone color avorio. «Non è forse l’unica cosa in cui sono brava?» Rhys cominciò a togliersi di dosso le armi e poi i vestiti con un sorriso da mascalzone che gli sollevava un angolo della bocca. Ma, nonostante l’umorismo che gli illuminava gli occhi, ogni movimento era pesante e lento, come se combattesse la stanchezza a ogni respiro. «Forse dovremmo dire a Mor di rimandare l’incontro alla Corte degli Incubi.» Aggrottai la fronte. Lui si tolse la giacca di cuoio, che atterrò rumorosamente sulla sedia della scrivania. «Perché? Se davvero ci sarà Eris, vorrei sorprenderlo con una mia visitina.» «Perché sembri esausto, ecco perché.»
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Si mise una mano sul cuore con aria drammatica. «La tua preoccupazione mi riscalda più di qualsiasi fuoco invernale, amore mio.» Alzai gli occhi al cielo e mi misi a sedere. «Perlomeno hai mangiato?» Alzò le ampie spalle, che sforzarono la stoffa della camicia scura. «Sto bene.» Quando spinsi via le coperte, gli scivolò lo sguardo sulle mie gambe nude. Mi sentii invadere dal calore, ma infilai i piedi nelle pantofole. «Ti porto qualcosa da mangiare.» «Non voglio...» «Quando hai mangiato l’ultima volta?» Un silenzio imbronciato. «Ecco, come pensavo.» Mi misi sulle spalle una vestaglia bordata di pelliccia. «Lavati e cambiati. Partiamo tra quaranta minuti. Torno fra poco.» Raccolse le ali, e la luce Fae indorò l’artiglio sopra ciascuna di esse. «Non c’è bisogno che tu...» «Lo voglio fare e lo farò.» Detto questo, uscii e percorsi il corridoio azzurrino. Cinque minuti dopo, un Rhys in mutande mi tenne aperta la porta mentre entravo con un vassoio tra le mani. «Visto che hai portato su tutto quello che c’era in cucina» brontolò mentre andavo verso la scrivania «tanto valeva che scendessi io.» Non si era ancora vestito per la nostra visita. Gli mostrai la lingua, ma poi mi accigliai mentre esaminavo la scrivania ingombra alla ricerca di spazio libero per il vassoio. Niente. Anche il tavolino vicino alla finestra era coperto di oggetti. Tutti oggetti importanti e vitali. Mi rassegnai a posarlo sul letto. Rhys si sedette e piegò le ali dietro di sé prima di allungare le mani per tirarmi in grembo, ma io le schivai e mi mantenni a una prudente distanza. «Prima pensa alla cena.» «Allora dopo mangerò te» ribatté, sorridendo maliziosamente, ma si tuffò sul cibo. La velocità e intensità con cui lo divorava furono tali da farmi passare ogni desiderio provocato dalle sue parole. «Non hai mangiato per niente, oggi?» Un lampo di occhi viola mentre finiva il pane e attaccava l’arrosto freddo. «Una mela, stamattina.» «Rhys.» «Avevo da fare.» «Rhys.» Posò la forchetta, e la bocca ebbe un guizzo che era quasi un sorriso. «Feyre.» Incrociai le braccia. «Nessuno ha troppo da fare per poter mangiare.» «Ti stai agitando.» «Agitarmi è il mio compito. E, poi, tu ti agiti parecchio. Per cose molto più banali.» «Il tuo ciclo non è banale.» «Avevo un po’ di dolore...» «Ti contorcevi sul letto come se qualcuno ti avesse sventrato.» «E tu ti comportavi come una chioccia prepotente.» «Non ti ho vista sbraitare contro Cassian, Mor o Az quando si sono preoccupati per te.» «Loro non hanno provato a imboccarmi come se fossi un’invalida!»
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Rhys ridacchiò e finì il suo cibo. «Mangerò regolarmente se mi permetti di trasformarmi in una mamma chioccia prepotente due volte l’anno.» Giusto, perché il mio ciclo era così diverso in quel corpo. Erano finiti i disagi mensili. Mi era sembrato un dono. Fino a due mesi prima. Quando avevo scoperto com’era. Al posto dei disagi mensili delle donne umane, c’era – due volte all’anno – una settimana di dolori atroci che laceravano il ventre. Persino Madja, la guaritrice preferita di Rhys, poteva fare poco per quel dolore... se non farmi perdere conoscenza. C’era stato un momento durante quella settimana in cui avevo preso in considerazione tale rimedio. Il dolore partiva dalla schiena e dalla pancia fino ad arrivare alle cosce e alle braccia; mi sembrava di essere attraversata da fulmini viventi. Le mestruazioni non erano mai state piacevoli quando ero umana, e addirittura c’erano stati giorni in cui non riuscivo ad alzarmi dal letto. Quando ero stata Creata, a quanto pareva, l’amplificazione delle mie qualità non si era limitata alla forza e ai lineamenti Fae. No, per niente. Mor aveva poco da offrirmi oltre alla commiserazione e alla tisana di zenzero. “Perlomeno succede solo due volte l’anno” aveva detto per consolarmi. “Sono due volte di troppo” ero riuscita a gemere. Rhys era rimasto con me per tutto il tempo, accarezzandomi i capelli, sostituendo le coperte surriscaldate e fradice di sudore, e anche aiutando a pulirmi. Quando avevo obiettato al fatto che stesse lì mentre mi toglievo la biancheria sporca, si era limitato a dire “Il sangue è sangue”. A quel punto ero a malapena in grado di muovermi senza piagnucolare, quindi non avevo assimilato del tutto quelle parole. Né avevo assimilato bene ciò che implicava quel sangue. Evidentemente la miscela contraccettiva che Rhys mi aveva preso stava funzionando. Ma concepire, tra i Fae, era così raro e difficile che a volte mi chiedevo se aspettare di essere pronta ad avere figli mi si sarebbe potuto ritorcere contro. Non avevo dimenticato come mi era apparso l’Intagliaossa. Sapevo che non l’aveva scordato neanche Rhys. Ma non aveva insistito e non mi aveva chiesto niente. Una volta gli avevo detto che volevo vivere con lui, sperimentare la vita con lui, prima di avere figli. Lo pensavo ancora. C’era così tanto da fare: i nostri giorni erano troppo pieni di impegni anche solo per pensare di portare un bambino al mondo, e la mia vita era così appagante che – anche se un figlio sarebbe stata un’immensa benedizione – per il momento avrei sopportato quell’agonia due volte all’anno. E avrei anche aiutato le mie sorelle a sopportarla. Non avevo mai preso in considerazione i cicli di fertilità Fae, e spiegarli a Nesta ed Elain era stato disagevole, a dir poco. Nesta si era limitata a fissarmi in quel modo freddo e imperturbabile. Elain era arrossita e aveva mormorato qualcosa sulla sconvenienza di certi argomenti. Ma loro erano state Create quasi sei mesi prima. Stava per succedere. Molto presto. Ammesso che la loro Creazione non interferisse. Avrei dovuto capire come convincere Nesta a mandarmi un messaggio, quando il suo ci-
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clo fosse iniziato. Come diavolo avrei potuto lasciare che sopportasse quel dolore da sola? Non ero neanche sicura che ce l’avrebbe fatta, da sola. Elain, perlomeno, sarebbe stata troppo gentile per mandare via Lucien se lui avesse voluto aiutarla. Era troppo gentile per mandarlo via anche in una giornata normale. Si limitava a ignorarlo o gli rivolgeva appena la parola finché lui non capiva l’antifona e se ne andava. Per quanto ne sapevo, non le si era più avvicinato dal giorno dopo la battaglia finale. Lei non faceva altro che curare i suoi giardini e piangere silenziosamente la sua vita umana perduta. Piangere Graysen. Non avevo idea di come potesse sopportarlo Lucien. Non che avesse mostrato interesse a colmare quel divario tra loro. «Su che pianeta sei finita?» mi chiese Rhys, scolando il vino e mettendo da parte il vassoio. Se avessi voluto parlare, mi avrebbe ascoltata. Se non avessi voluto, mi avrebbe lasciata in pace. Era stato un nostro patto tacito fin dall’inizio: ascoltare quando l’altro ne aveva bisogno e concedere spazio quando era necessario. Lui stava ancora lentamente cercando la maniera per raccontarmi tutto quello che gli era stato fatto, tutto quello a cui aveva assistito nel Regno Sotto la Montagna. C’erano ancora notti in cui baciavo via le sue lacrime, una per una. Quell’argomento, tuttavia, non era altrettanto difficile. «Stavo pensando a Elain» dissi, appoggiandomi al bordo della scrivania. «E a Lucien.» Rhys inarcò un sopracciglio e io condivisi le mie riflessioni. Quando conclusi, aveva un’espressione meditabonda. «Lucien si unirà a noi per il Solstizio?» «Sarà una brutta cosa, se lo farà?» Rhys mormorò qualcosa e ripiegò ulteriormente le ali. Non avevo idea di come potesse resistere al freddo durante il volo, anche se si schermava. Ogni volta che avevo provato a volare, nel corso delle ultime settimane, avevo resistito a malapena qualche minuto. L’unica volta che ci ero riuscita era stata la settimana prima, quando il nostro volo dalla Casa del Vento si era fatto molto più caldo. Alla fine Rhys disse: «Posso sopportare di stargli vicino». «Sono sicura che lui apprezzerebbe tutto questo galoppante entusiasmo.» Fece un mezzo sorriso che mi attirò verso di lui; mi fermai tra le sue gambe. Mi posò pigramente le mani sui fianchi. «Posso lasciar correre le derisioni» disse, studiandomi il viso. «E il fatto che nutra ancora qualche speranza di riunirsi, un giorno, con Tamlin. Ma non posso lasciar correre il modo in cui ti ha trattata dopo il Regno Sotto la Montagna.» «Io posso. È una cosa che gli ho perdonato.» «Be’, scusami, ma io non ci riesco.» Rabbia gelida oscurava le stelle in quegli occhi viola. «Ancora quasi non riesci a parlare con Nesta» dissi. «Eppure con Elain parli gentilmente.» «Elain è Elain.» «Se biasimi una, devi biasimare anche l’altra.» «No, non necessariamente. Elain è Elain» ripeté. «Nesta è... lei è Illyrian. Lo dico come un complimento, ma ha un cuore da Illyrian. Quindi non ci sono scuse per il suo comportamento.»
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«L’estate scorsa lo ha più che compensato, Rhys.» «Non posso perdonare nessuno che ti abbia fatto soffrire.» Parole fredde e brutali, pronunciate con una grazia così disinvolta. Ma ancora non gli importava di chi aveva fatto soffrire lui. Passai una mano sulle spire e i vortici dei tatuaggi sul suo petto muscoloso, seguendone le linee intricate. Rabbrividì sotto le mie dita e gli si contrassero le ali. «Loro sono la mia famiglia. Dovrai perdonare Nesta, prima o poi.» Mi appoggiò la fronte sul petto, proprio tra i seni, e mi avvolse le braccia attorno alla vita. Per un lungo minuto si limitò a inalare il mio odore, come per riempirsene i polmoni in profondità. «Vorresti questo come regalo per il Solstizio da parte mia?» mormorò. «Che perdoni Nesta per aver permesso alla sorella quattordicenne di andare in quei boschi?» Gli misi un dito sotto il mento e gli tirai su la testa. «Non riceverai nessun regalo per il Solstizio da me, se continui con queste stupidaggini.» Un sorriso malizioso. «Sciocco» sibilai, cercando di indietreggiare, ma le sue braccia mi strinsero più forte. Restammo in silenzio, fissandoci l’un l’altro. Poi Rhys mi disse attraverso l’Unione: “Un pensiero per un pensiero, Feyre cara?”. Sorrisi alla richiesta, il vecchio gioco tra noi. Ma il sorriso svanì mentre rispondevo “Oggi sono entrata nell’Arcobaleno”. “Oh?” Mi strofinò il naso contro lo stomaco. Gli feci scorrere le dita tra i capelli scuri, godendomi le ciocche setose contro i miei calli. “C’è un’artista, Ressina. Mi ha invitata a dipingere con lei e altri, fra due sere.” Rhys si tirò indietro per studiarmi il viso, poi inarcò un sopracciglio. «Perché non hai l’aria entusiasta?» Feci un cenno per indicare la nostra stanza e tutta la casa di città, e poi sbuffai. «Non dipingo niente da un po’.» Fin da quando eravamo tornati dalla battaglia. Rhys rimase in silenzio, lasciandomi riordinare il groviglio di parole dentro di me. «Mi sentirei egoista» ammisi. «Se mi prendessi il tempo per dipingere, quando c’è così tanto da fare e...» «Non è egoista.» Mi strinse le mani sui fianchi. «Se vuoi dipingere, allora dipingi, Feyre.» «C’è gente, in questa città, che non ha ancora una casa.» «Dedicare alla pittura qualche ora al giorno non cambierà lo stato dei fatti.» «Non è solo questo.» Mi chinai fino a toccargli la fronte con la mia; il suo profumo di agrumi e di mare mi riempì i polmoni, il cuore. «Ci sono troppe... troppe cose che vorrei dipingere. Che ho bisogno di dipingere. Scegliendone una...» Feci un respiro tremulo e mi tirai un po’ indietro. «Non sono sicura di essere pronta a vedere che cosa verrebbe fuori, se ne dipingessi qualcuna.» «Ah.» Mi tracciò linee sulla schiena, con un movimento rilassante e amoroso. «Che tu ti unisca a loro questa settimana o tra due mesi, penso che dovresti andare. Che dovresti
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provarci.» Esaminò la stanza e poi il folto tappeto, come se potesse vedere l’intera casa lì sotto. «Possiamo trasformare in uno studio la tua vecchia camera da letto, se vuoi...» «Non ce n’è bisogno» lo interruppi. «È che... La luce non è ideale là dentro.» Di fronte alle sue sopracciglia inarcate, ammisi: «Ho controllato. L’unica stanza che andrebbe bene è il soggiorno, e preferirei non fare puzzare tutta la casa di pittura». «Credo che non dispiacerebbe a nessuno.» «Dispiacerebbe a me. E comunque mi piace stare per conto mio. L’ultima cosa che voglio è avere Amren dietro di me, che mi critica mentre lavoro.» Rhys ridacchiò. «Si può scendere a patti con Amren.» «Non sono sicura che stiamo parlando della stessa Amren, allora.» Sorrise, mi attirò di nuovo a sé e mormorò contro il mio stomaco: «Il giorno del Solstizio è anche il tuo compleanno». «E allora?» Stavo cercando di dimenticare quel fatto. E lasciare che anche gli altri lo dimenticassero. Il sorriso di Rhys si mitigò e divenne felino. «E, allora, significa che riceverai due regali.» Gemetti. «Non avrei mai dovuto dirtelo.» «Sei nata nella notte più lunga dell’anno.» Le sue dita mi accarezzarono di nuovo la schiena. In basso. «Fin dal primo istante eri destinata a essere al mio fianco.» Mi passò – lentamente, pigramente – una mano tra le natiche. Visto che ero in piedi davanti a lui, poté sentire subito il mio odore cambiare quando il calore iniziò a propagarsi nel mio corpo. Prima che mi mancassero le parole, riuscii a dire lungo l’Unione: “Tocca a te. Un pensiero per un pensiero”. Mi diede un bacio proprio sull’ombelico. «Ti ho già parlato di quella prima volta che trasmutasti, quando mi placcasti nella neve?» Gli diedi uno schiaffetto sulla spalla, sul muscolo duro come la pietra. «Questo è il tuo pensiero per un pensiero?» Sorrise contro il mio stomaco mentre le sue dita continuavano a esplorare e a blandire. «Mi affrontasti come un Illyrian. Mossa perfetta, un colpo diretto. Ma poi ti ritrovasti distesa su di me, ansimante. Non desideravo altro che restare nudi.» «Com’è che la cosa non mi sorprende?» Ma gli passai le dita tra i capelli. La stoffa della mia vestaglia era poco più che una ragnatela tra noi mentre faceva una risata sulla mia pancia. Non mi ero messa niente, sotto. «Mi facevi impazzire. In tutti quei mesi. Ancora non riesco bene a credere di esserci riuscito. Ad averti.» Mi si strinse la gola. Questo era il pensiero che voleva scambiare, che aveva bisogno di condividere. «Ti volevo, anche nel Regno Sotto la Montagna» dissi piano. «Lo attribuivo a quelle circostanze orribili, ma dopo che l’abbiamo uccisa, quando non potevo dire a nessuno come mi sentivo... quanto fosse davvero brutta la situazione, a te lo dicevo. Sono sempre riuscita a parlare con te. Penso che il mio cuore sapesse che eri mio molto prima che me ne rendessi conto razionalmente.» Gli brillarono gli occhi e seppellì di nuovo il viso tra i miei seni; le mani continuava-
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no ad accarezzarmi la schiena. «Ti amo» sussurrò. «Più della vita, più del mio territorio, più della mia corona.» Lo sapevo. Aveva rinunciato alla sua vita per riforgiare il Calderone, il tessuto di cui era fatto il mondo stesso, perché io potessi sopravvivere. Non avevo potuto essere furiosa con lui per quel motivo, subito dopo o nei mesi successivi. Era di nuovo vivo: un dono per cui non avrei mai smesso di essere grata. Alla fine, comunque, ci eravamo salvati a vicenda. Tutti noi l’avevamo fatto. Lo baciai in cima alla testa. «Ti amo» sussurrai sui suoi capelli nero-blu. Le mani di Rhys mi strinsero la parte posteriore delle cosce, l’unico preavviso prima che ci capovolgesse e mi bloccasse sul letto mentre mi strofinava il collo con il naso. «Una settimana» disse sulla mia pelle, ripiegando con grazia le ali dietro di sé. «Una settimana con te in questo letto. Non voglio altro, per il Solstizio.» Risi affannosamente, ma lui mosse i fianchi e si spinse contro di me; le barriere tra noi erano poco più che pezzetti di stoffa. Mi sfiorò la bocca con un bacio. Le ali erano una parete scura dietro le sue spalle. «Pensi che stia scherzando.» «Siamo forti, come Fae Superiori» riflettei, cercando di concentrarmi mentre mi tirava il lobo dell’orecchio con i denti, «ma una settimana di fila di sesso? Non credo che sarei in grado di camminare. O che tu potresti ancora funzionare, perlomeno la tua parte preferita.» Mi morse la delicata curva dell’orecchio e mi si piegarono le dita dei piedi. «Allora dovrai solo baciare la mia parte preferita e farla guarire.» Feci scivolare una mano su quella sua parte preferita – che era anche la mia – e la strinsi attraverso la stoffa. Gemette, spingendosi contro il mio tocco, e l’indumento scomparve, lasciando solo il mio palmo contro la sua durezza, come velluto al tatto. «Dobbiamo vestirci» riuscii a dire, pur continuando ad accarezzarlo. «Più tardi» ringhiò, succhiandomi il labbro inferiore. Si tirò indietro, appoggiandosi sulle braccia tatuate ai lati della mia testa. Uno era coperto dai suoi simboli Illyrian, l’altro dal tatuaggio uguale a quello sulle mie braccia: l’ultimo patto che avevamo fatto. Per affrontare insieme tutto ciò che ci attendeva. Pulsavo nel profondo, con lo stesso ritmo del mio fragoroso battito cardiaco, e avevo bisogno di sentirlo dentro di me, di possederlo... Come per deridere quelle mie pulsazioni, si sentì bussare alla porta della camera. «Tanto perché lo sappiate» cinguettò Mor dall’altro lato «fra poco dobbiamo andare.» Rhys fece un ringhio sommesso che mi percorse la pelle, e i capelli gli scivolarono sulla fronte mentre girava la testa verso la porta. Non c’era altro che un intento predatorio nei suoi occhi vitrei. «Abbiamo trenta minuti» disse con ammirevole fluidità. «E ti ci vogliono due ore per vestirti» lo schernì Mor attraverso la porta. Una pausa a effetto. «E non sto parlando con Feyre.» Rhys fece una risata che era quasi un brontolio e abbassò la fronte contro la mia. Chiusi gli occhi, respirando il suo odore, mentre aprivo le dita. «Non è finita» mi promise, con voce roca, prima di baciarmi l’incavo della gola e allontanarsi. «Vai a terrorizzare qualcun altro» gridò a Mor, roteando il collo mentre faceva svanire le ali e si avviava verso il bagno. «Devo vestirmi.»
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Mor ridacchiò e i suoi passi lievi presto svanirono. Mi accasciai sui cuscini e respirai profondamente, raffreddando il bisogno che mi scorreva dentro. Sentii gorgogliare l’acqua nel bagno, e poi un fievole guaito. Non ero l’unica che aveva bisogno di raffreddarsi, a quanto pareva. In effetti, quando entrai in bagno, pochi minuti dopo, Rhys stava ancora rabbrividendo mentre si lavava nella vasca. Un tuffo delle dita nell’acqua saponosa confermò i miei sospetti: era gelida.
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MORRIGAN
on c’era luce in quel luogo. Non c’era mai stata. Persino le ghirlande sempreverdi, le corone di agrifoglio e gli scoppiettanti fuochi di betulla in onore del Solstizio non potevano squarciare l’eterna oscurità che dimorava nella Città Spaccata. Non era il tipo di oscurità che Mor aveva imparato ad amare a Velaris, il tipo di oscurità che faceva parte di Rhys quanto il suo sangue. Era l’oscurità del marciume, della decomposizione. L’oscurità soffocante che faceva appassire ogni forma di vita. E il maschio dai capelli d’oro in piedi davanti a lei nella sala del trono, tra le imponenti colonne su cui erano scolpite quelle bestie squamose e striscianti, era stato creato da tale oscurità. Vi prosperava. «Perdonate se abbiamo interrotto i vostri festeggiamenti» disse Rhysand a Keir. E al maschio accanto a lui. Eris. La sala del trono si era svuotata. Una parola di Feyre, ed era scomparsa la solita gente che in quel luogo pranzava, danzava e complottava, lasciando solo Keir e il figlio maggiore del Signore Supremo della Corte dell’Autunno. Keir parlò per primo, aggiustandosi i risvolti della giacca nera. «A che cosa dobbiamo questo piacere?»
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Il tono era beffardo. Mor poteva ancora sentire gli insulti sibilati che c’erano dietro, sussurrati molto tempo prima nell’appartamento privato della sua famiglia, bisbigliati a ogni riunione e raduno a cui non era presente suo cugino. “Mostruosità mezzosangue.” “Una disgrazia per la nostra stirpe.” «Signore Supremo.» L’aveva detto senza pensarci. E la voce, la voce che usava lì... non era la sua. Non usava mai la sua, mai, laggiù con loro nell’oscurità. Mor mantenne la sua voce fredda e inesorabile mentre lo correggeva: «A che cosa dobbiamo questo piacere, Signore Supremo». Lasciò intravedere un balenare di denti. Keir la ignorò. Era il suo insulto preferito: agire come se una persona non valesse il fiato necessario per parlarle. “Prova qualcosa di nuovo, miserabile bastardo” pensò Mor. Rhys intervenne prima che lei decidesse di dirlo ad alta voce, e il suo potere oscuro riempì la stanza, la montagna: «Siamo venuti, naturalmente, a fare gli auguri per il Solstizio a te e ai tuoi. Ma pare che tu abbia già un ospite da intrattenere». Le informazioni di Az erano state impeccabili, come sempre. Quella mattina l’aveva trovata nella biblioteca della Casa del Vento, che leggeva un volume sulle usanze della Corte dell’Inverno, e lei non gli aveva chiesto come avesse fatto a sapere che Eris sarebbe andato lì quella sera. Aveva imparato da tempo che forse Az gliel’avrebbe detto o forse no. Ma quel maschio della Corte dell’Autunno in piedi accanto a Keir... Mor si costrinse a guardare Eris. A guardarlo negli occhi color ambra. Più freddi di qualsiasi sala della corte di Kallias. Erano sempre stati così dal momento in cui l’aveva conosciuto, cinque secoli prima. Eris posò una mano pallida sul petto della sua giacca color peltro, il ritratto della galanteria della Corte dell’Autunno. «Ho pensato anch’io di portare i miei auguri per un buon Solstizio.» Quella voce. Quella voce setosa e arrogante. Nel corso dei secoli non erano cambiati neanche il tono e il timbro. Erano gli stessi di quel giorno. Luce solare calda e avvolgente passava tra le foglie, e le faceva brillare come rubini e topazi. L’odore umido e terroso di cose marce sotto le foglie e le radici su cui giaceva. Su cui era stata gettata e lasciata. Le faceva male tutto. Ogni parte di sé. Non poteva muoversi. Non poteva fare altro che guardare il sole filtrare attraverso il fitto baldacchino di rami molto più in alto, ascoltare il suono del vento tra i tronchi argentei. E ascoltare anche quel dolore, che si irradiava verso l’esterno come fuoco vivo a ogni suo respiro irregolare e stridulo... Passi leggeri e regolari fecero scricchiolare le foglie. Sei paia di piedi. Una squadra di frontiera, una pattuglia. “Aiuto. Qualcuno mi aiuti...” pensò Mor. Una voce maschile, estranea e profonda, imprecò. Poi tacque. Tacque quando si avvicinò una sola persona. Lei non poteva voltare la testa, non poteva sopportare quel dolore atroce. Non poteva fare altro che respiri umidi e tremolanti. «Non toccarla.»
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Quei passi si fermarono. L’avvertimento non serviva a proteggerla. A difenderla. Conosceva la voce che parlava. Aveva temuto di udirla. Adesso lo sentiva avvicinarsi. Ne percepiva il riverbero nelle foglie, nel muschio, nelle radici. Come se la terra stessa tremasse davanti a lui. «Nessuno la tocchi» disse l’uomo. Era Eris. «Se lo facciamo, diventa una nostra responsabilità.» Parole fredde e insensibili. «Ma... ma le hanno inchiodato un...» «Nessuno la tocchi.» Inchiodato. Le avevano piantato addosso dei chiodi. L’avevano tenuta bloccata a terra mentre urlava, l’avevano tenuta mentre ruggiva contro di loro, e poi mentre li implorava. E poi avevano tirato fuori quei chiodi di ferro lunghi e brutali. E il martello. Tre chiodi. Tre colpi di martello, soffocati dalle sue urla, dal dolore. Iniziò a tremare; odiava tremare, tanto quanto aveva odiato implorare. Il suo corpo era devastato dal dolore agonizzante, quei chiodi nell’addome erano implacabili. Un bel volto pallido apparve sopra di lei, oscurando le foglie simili a gioielli. Imperturbato. Impassibile. «Mi sembra di capire che non desideri vivere qui, Morrigan.» Avrebbe preferito morire lì, dissanguarsi lì. Avrebbe preferito morire e tornare... tornare sotto forma di un essere malvagio e crudele, e massacrarli tutti. Doveva averglielo letto negli occhi. Un sorrisino gli incurvò le labbra. «Come pensavo.» Eris raddrizzò la schiena e si voltò. Le dita di Mor si curvarono tra le foglie e il terreno argilloso. Avrebbe voluto farsi crescere degli artigli, gli stessi artigli di Rhys, e lacerare quella gola pallida. Ma non era quello il suo dono. Il suo dono... il suo dono l’aveva portata lì. Spezzata e sanguinante. Eris fece un passo indietro. Qualcuno dietro di lui sbottò: «Non possiamo lasciarla a...». «Possiamo, e lo faremo» disse semplicemente Eris, mentre si allontanava con passo risoluto. «Lei ha scelto di insozzarsi; la sua famiglia ha scelto di trattarla come un rifiuto. Ho già riferito loro la mia decisione in merito.» Una lunga pausa, più crudele del resto. «E non ho l’abitudine di scoparmi gli avanzi degli Illyrian.» Non riuscì più a impedirselo, a quel punto, e le lacrime presero a scorrere, calde e ardenti. Sola. L’avrebbero lasciata sola, lì. I suoi amici non sapevano dove fosse andata. Lei stessa sapeva a malapena dov’era. «Ma...» Quella voce dissenziente intervenne di nuovo. «Via.» Non ci furono altre proteste, dopo. E quando il suono dei loro passi si affievolì e poi svanì, tornò il silenzio. Il sole e il vento e le foglie. Il sangue e il ferro e la terra sotto le sue unghie. Il dolore.
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Un colpetto della mano di Feyre contro la sua la strappò via da quella radura insanguinata appena oltre il confine della Corte dell’Autunno. Mor lanciò uno sguardo grato alla sua Signora Suprema, che Feyre ignorò abilmente, concentrandosi di nuovo sulla conversazione. Da cui, del resto, non si era mai distratta. Feyre aveva assunto il ruolo di signora di quella orribile città con molta più disinvoltura di lei. Vestita di uno scintillante abito color onice, con il diadema della luna crescente sulla testa, la sua amica interpretava benissimo la parte dell’imperiosa sovrana. Sembrava far parte di quel luogo quanto le bestie serpeggianti che si attorcigliavano, scolpite e incise ovunque. Forse era così che, un tempo, Keir aveva immaginato potesse diventare Mor stessa. Non com’era in quel momento, con l’abito rosso brillante e audace, o con quei gioielli d’oro ai polsi e alle orecchie, che lì nell’oscurità splendevano come la luce del sole. «Se volevi che questo vostro rapporto rimanesse privato» stava dicendo Rhys con calma letale «forse non è stata una mossa saggia incontrarsi in una riunione pubblica.» Effettivamente. Il castaldo della Città Spaccata agitò una mano. «Perché lo dovremmo nascondere? Dopo la guerra, siamo tutti così buoni amici.» Lei sognava spesso di sventrarlo. A volte con un coltello; a volte a mani nude. «Come vanno le cose alla corte di tuo padre, Eris?» chiese Feyre con tono tranquillo e annoiato. Quegli occhi color ambra non contenevano altro che disgusto. Vedendo quello sguardo, un boato riempì la testa di Mor. Riuscì a stento a sentire la sua risposta, pronunciata con voce strascicata. O la risposta di Rhys. Una volta la deliziava provocare Keir e quella corte, per tenerli sull’attenti. Diamine, quella primavera aveva anche spezzato alcune ossa del castaldo, dopo che Rhys gli aveva frantumato le braccia fino a renderle inutilizzabili. L’aveva fatto con gioia, dopo quello che Keir aveva detto a Feyre, e poi si era rallegrata quando sua madre l’aveva bandita dai loro alloggi privati. Un bando che era ancora in vigore. Ma dal momento in cui Eris era entrato in quella sala del consiglio diversi mesi prima... “Hai più di cinquecento anni” ricordava spesso a se stessa. Avrebbe potuto affrontarlo, gestirlo meglio di così. “Non ho l’abitudine di scoparmi gli avanzi degli Illyrian.” Anche ora, anche dopo che Azriel l’aveva trovata in quei boschi, dopo che Madja l’aveva guarita e le ferite dei chiodi non le deturpavano più il ventre... Non sarebbe dovuta andare lì quella sera. Le si tese la pelle, il suo stomaco si agitò. “Vigliacca.” Aveva affrontato tanti nemici, combattuto molte guerre, eppure quello, quei due maschi insieme... Mor percepì – più che vedere – Feyre irrigidirsi accanto a lei per qualcosa che aveva detto Eris. La sua Signora Suprema gli rispose: «A tuo padre è proibito entrare nelle terre degli umani». Nessuna possibilità di compromesso con quel tono, con l’acciaio negli occhi di Feyre.
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Eris si limitò a scrollare le spalle. «Non credo che spetti a te deciderlo.» Rhys si infilò le mani in tasca; era il ritratto stesso della grazia disinvolta. Eppure le ombre e l’oscurità punteggiata di stelle che aleggiavano da lui, che facevano rabbrividire la montagna sotto ogni suo passo, erano il vero volto del Signore Supremo della Corte della Notte. Il più potente Signore Supremo della storia. «Suggerirei di ricordare a Beron che non sono previste espansioni territoriali. Per nessuna corte.» Eris non sembrò turbato. Niente lo aveva mai sconcertato, scomposto. Fin dal momento in cui l’aveva conosciuto, Mor aveva odiato quella distanza, quella freddezza. Quella mancanza di interesse o di sentimenti nei confronti del mondo. «Allora ti suggerirei, Signore Supremo, di parlarne con il tuo caro amico Tamlin.» «Perché?» La domanda di Feyre era affilata come una lama. La bocca di Eris si curvò in un sorriso da vipera. «Perché il territorio di Tamlin è l’unico che confina con le terre umane. Direi che chiunque voglia espandersi dovrà prima attraversare la Corte della Primavera. O, quanto meno, ottenere l’autorizzazione del suo Signore Supremo.» Quella era un’altra persona che un giorno lei avrebbe ucciso. Se Feyre e Rhys non l’avessero preceduta. Non le importava che cosa avesse fatto Tamlin durante la guerra, non le importava che avesse portato con sé Beron e le forze umane. Che avesse ingannato Hybern. Quello che Mor non avrebbe dimenticato, non avrebbe potuto perdonare era un’altra scena, un’altra femmina distesa a terra. Il viso freddo di Rhys divenne riflessivo, però. Lei gli leggeva la riluttanza negli occhi, il fastidio per il fatto che la soffiata venisse da Eris, ma le informazioni erano informazioni. Mor lanciò un’occhiata a Keir e scoprì che la stava osservando. A parte l’ordine iniziale al castaldo, lei non aveva detto una parola. Non aveva contribuito a quell’incontro. Non si era fatta avanti. Vedeva la soddisfazione negli occhi di Keir. “Di’ qualcosa. Pensa a qualcosa da dire. Per ridurlo a niente.” Ma Rhys ritenne che avessero finito e quindi prese Feyre sottobraccio e li condusse via; la montagna tremava davvero sotto i loro passi. Mor non aveva idea di che cosa avesse detto a Eris. “Patetica. Codarda e patetica.” “La verità è il tuo dono. La verità è la tua maledizione.” “Di’ qualcosa.” Ma le parole giuste per colpire suo padre non le vennero in mente. Con la veste rossa che le fluttuava dietro, Mor voltò le spalle a lui e al sogghignante erede della Corte dell’Autunno e seguì il suo Signore Supremo e la sua Signora Suprema mentre attraversavano l’oscurità e tornavano nella luce.
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7 RHYSAND
«Tu sì che sai come fare regali per il Solstizio, Az.»
Voltai le spalle alla parete di vetro del mio studio personale alla Casa del Vento. Velaris era immersa nei colori del primo mattino. Il mio capo delle spie – nonché fratello – restò al lato opposto della grande scrivania di quercia; le mappe e i documenti che aveva portato ne costellavano la superficie. Il viso era inespressivo come se fosse fatto di pietra. Era stato così fin dal momento in cui aveva bussato alla doppia porta dello studio, subito dopo l’alba. Come se avesse saputo che non riuscivo più a dormire, dopo l’avvertimento non tanto sottile di Eris su Tamlin e sui suoi confini. Feyre non ne aveva parlato quando eravamo tornati a casa. Non sembrava pronta a parlare di come affrontare il Signore Supremo della Corte della Primavera. Si era addormentata rapidamente, lasciandomi a rimuginare davanti al fuoco nel soggiorno. Non c’era da meravigliarsi che fossi volato lì prima dell’alba, perché il freddo pungente scacciasse via da me il peso della notte insonne. Dopo quel volo, le mie ali erano ancora insensibili in alcuni punti. «Volevi informazioni» disse Az con dolcezza. Al suo fianco, l’elsa di ossidiana dello StrappaVerità sembrava assorbire i primi raggi del sole. Alzai gli occhi al cielo, appoggiandomi alla scrivania e indicando i fogli che aveva compilato. «Non avresti potuto aspettare fino a dopo il Solstizio per questa particolare gemma?» Poi lanciai uno sguardo al suo viso impassibile e aggiunsi: «Non c’è bisogno di rispondere». Un angolo della bocca di Azriel si sollevò, le ombre gli scivolarono sul collo come tatuaggi viventi, gemelli di quelli Illyrian che aveva sotto gli indumenti di cuoio.
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Ombre diverse da tutte quelle che i miei poteri evocavano, a cui parlavano. Era nato in una prigione priva di luce e di aria, una prigione studiata per distruggerlo. E lui, invece, ne aveva imparato la lingua. Anche se i Sifoni color cobalto dimostravano che il suo lignaggio Illyrian era reale, neanche il ricco folklore di quel popolo guerriero, del mio popolo guerriero, sapeva spiegare da dove provenissero i doni del cantaombre. Certo non erano collegati ai Sifoni, al puro potere letale che la maggior parte degli Illyrian possedeva e incanalava attraverso quelle pietre per evitare di distruggere tutto quello che incrociava. Compreso il portatore stesso. Distogliendo gli occhi dalle gemme sulle sue mani, guardai aggrottato la pila di fogli che Az mi aveva consegnato pochi istanti prima. «L’hai già detto a Cassian?» «Sono venuto direttamente qui» rispose Azriel. «Arriverà presto anche lui, comunque.» Mi mordicchiai un labbro mentre studiavo la mappa del territorio Illyrian. «I clan sono più numerosi di quanto mi aspettassi» ammisi, e feci svolazzare nella stanza uno stormo di ombre per alleviare il potere che si agitava, irrequieto, nelle mie vene. «Anche nei miei calcoli più pessimistici.» «Non sono tutti i membri di questi clan» disse Az, ma la sua espressione cupa minò quel tentativo di attenuare il colpo. «Questo numero complessivo riflette solo i luoghi in cui si diffonde il malcontento, non dove si trovano le maggioranze.» Indicò uno dei campi con un dito sfregiato. «Qui ci sono solo due femmine che sembrano vomitare veleno a proposito della guerra. Una è vedova e l’altra è madre di un soldato.» «Dove c’è fumo, c’è fuoco» replicai. Azriel studiò a lungo la mappa. Gli permisi di restare in silenzio, sapendo che avrebbe parlato solo quando fosse stato davvero pronto. Da ragazzi, Cassian e io avevamo dedicato ore a prendere a pugni Az, cercando di convincerlo a parlare. Non aveva mai ceduto. «Gli Illyrian sono pezzi di merda» disse piano, troppo piano. Aprii la bocca e la richiusi. Le ombre gli si raccolsero attorno alle ali, poi si riversarono sullo spesso tappeto rosso. «Passano la vita a addestrarsi come guerrieri, eppure, quando non tornano a casa, le loro famiglie ci considerano i cattivi che li hanno mandati a combattere?» «Le loro famiglie hanno perso qualcosa di insostituibile» risposi con cautela. Azriel agitò una mano piena di cicatrici e, mentre le dita tagliavano l’aria, il suo Sifone color cobalto brillò. «Sono ipocriti.» «E che cosa vorresti che facessi, allora? Sciogliere il più grande esercito di Prythian?» Az non rispose. Io sostenni il suo sguardo, però. Sostenni quello sguardo gelido che, a volte, ancora mi spaventava a morte. Avevo visto che cosa aveva fatto ai suoi fratellastri secoli prima. Lo sognavo ancora. A continuare a turbarmi non era l’atto in sé. Ne avevano meritato ogni parte. Ogni singola dannata azione. Era il precipizio ghiacciato in cui era caduto Az che a volte si levava dal fondo della mia memoria. Quel gelo ora stava cominciando a formarsi nei suoi occhi. Così dissi con calma, ma la-
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sciando ben poco spazio per la discussione: «Non ho intenzione di sciogliere gli Illyrian. Non hanno un posto in cui andare, comunque. E, se provassimo a trascinarli fuori da quelle montagne, potrebbero scatenare proprio l’assalto che stiamo cercando di disinnescare». Az non disse niente. «Ma forse ancora più pressante» continuai, puntando un dito sul continente tentacolare, «è il fatto che le regine umane non sono tornate nei rispettivi territori. Sono rimaste in quel loro palazzo comune. Oltre a ciò, la popolazione generale di Hybern non è esattamente entusiasta di aver perso questa guerra. E, senza più il muro, chissà quali altri territori Fae potrebbero tentare di conquistare terre umane?» Quell’ultimo pensiero mi fece irrigidire la mascella. «Questa pace è fragile.» «Lo so» disse infine Az. «Quindi potremmo aver bisogno nuovamente degli Illyrian, prima che sia finita. Devono essere disposti a versare sangue.» Feyre lo sapeva. L’avevo tenuta al corrente di ogni rapporto e riunione. Ma quell’ultima cosa... «Terremo d’occhio i dissidenti» conclusi, lasciando che Az percepisse il rombo del potere che si agitava dentro di me, facendogli capire che parlavo molto sul serio. «Cassian sa che sta crescendo il dissenso nei vari campi ed è pronto a fare tutto quello che è necessario per risolvere il problema.» «Non sa quanti sono.» «E forse dovremmo aspettare per dirglielo. Fino a dopo le feste.» Az batté le palpebre. Spiegai sottovoce: «Avrà già abbastanza problemi da affrontare. Lascia che si goda le festività, finché può». Io e Az badavamo a non nominare Nesta. Non tra di noi, e certamente non davanti a Cassian. Non lo prendevo neanche in considerazione. Altrettanto valeva per Mor, dato il suo insolito silenzio sulla questione da quando la guerra era finita. «Si arrabbierà con noi per averglielo tenuto nascosto.» «Ne sospetta già una gran parte, quindi a questo punto è solo una conferma.» Az fece scorrere il pollice lungo l’elsa nera dello StrappaVerità; le rune argentate sul fodero scuro scintillavano alla luce. «E le regine umane?» «Continueremo a tenerle d’occhio. Tu continuerai a tenerle d’occhio.» «Vassa e Jurian sono ancora con Graysen. Li informiamo?» Era uno strano gruppo, quello nelle terre umane. Visto che non era mai stata assegnata una regina alla porzione di territorio alla base di Prythian, ma c’era solo un concilio di ricchi signori e mercanti, Jurian si era in qualche modo assunto il compito di guidarli. Usando la tenuta di famiglia di Graysen come postazione di comando. E Vassa... lei era rimasta. Il suo custode le aveva concesso una tregua dalla maledizione, quell’incantesimo che la trasformava in un uccello di fuoco di giorno e la faceva tornare donna di notte. E la legava al lago di lui, nel profondo del continente. Non avevo mai visto in funzione un simile incantesimo. Avevo provato a usare il mio potere su di lei, e ci aveva provato anche Helion, alla ricerca di fili da sciogliere. Non avevo trovato niente. Era come se la maledizione fosse intessuta nel suo stesso sangue.
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Ma la libertà di Vassa sarebbe finita. Lucien l’aveva detto mesi prima, e andava ancora a trovarla abbastanza spesso da sapere che non era cambiato nulla. Sarebbe dovuta tornare al lago, dallo stregone che la teneva prigioniera, a cui era stata venduta dalle stesse regine che si erano riunite di nuovo nel loro castello comune. Quello che un tempo era anche il castello di Vassa. «Vassa sa che le regine saranno una minaccia fino a quando non verranno affrontate» dissi infine. Un’altra notizia che ci aveva riportato Lucien. Almeno a me e ad Az. «Ma, a meno che le regine non superino i limiti, non spetta a noi affrontarle. Se facessimo irruzione, anche se fosse per impedire loro di scatenare un’altra guerra, saremmo considerati invasori, non eroi. Abbiamo bisogno che gli umani negli altri territori si fidino di noi, se vogliamo sperare di raggiungere una pace duratura.» «Allora forse se ne dovrebbero occupare Jurian e Vassa. Finché Vassa può ancora farlo.» L’avevo preso in considerazione. Io e Feyre ne avevamo discusso per tutta la notte, parecchie volte. «Agli umani deve essere data la possibilità di governarsi da soli. Di decidere per se stessi. Anche ai nostri alleati.» «Invia Lucien, allora. Come nostro Emissario umano.» Studiai la tensione nelle spalle di Azriel, le ombre che lo riparavano in parte dalla luce del sole. «Lucien è via, in questo momento.» Az inarcò le sopracciglia. «Dove?» Gli strizzai un occhio. «Sei il mio capo delle spie. Non dovresti saperlo?» Az incrociò le braccia, il viso elegante e freddo come il leggendario pugnale al suo fianco. «Non seguo i suoi movimenti.» «Perché?» Neanche un barlume di emozione. «È la Metà di Elain.» Attesi il seguito. «Seguirli sarebbe un’invasione dell’intimità di lei.» Perché avrebbe saputo quando e se Lucien la cercava. E che cosa facevano insieme. «Sei sicuro di questo?» chiesi con calma. I Sifoni di Azriel lampeggiarono e le pietre diventarono scure e minacciose come il mare più profondo. «Dov’è andato Lucien?» Raddrizzai la schiena per il tono di comando. Ma risposi, con voce strascicata: «È andato alla Corte della Primavera. Sarà lì per il Solstizio». «Tamlin lo ha buttato fuori, l’ultima volta.» «Sì. Ma lo ha invitato per le feste.» Probabilmente perché Tamlin si era reso conto che l’alternativa era passarle da solo in quella villa. O in quello che ne era rimasto. Non mi ispirava nessuna compassione. Non quando potevo ancora sentire il puro terrore di Feyre mentre Tamlin distruggeva lo studio. Mentre la rinchiudeva in quella casa. Anche Lucien l’aveva lasciato fare. Ma avevo fatto pace con lui. O ci provavo. Con Tamlin, era più complicato. Così complicato che, di solito, non mi permettevo di soffermarmici. Era ancora innamorato di Feyre. Non potevo biasimarlo per questo. Anche se mi faceva venire voglia di squarciargli la gola.
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Allontanai quel pensiero. «Discuterò di Vassa e Jurian con Lucien, quando tornerà. Vedrò se sarà pronto per un’altra visita.» Inclinai la testa. «Pensi che possa sopportare la presenza di Graysen?» Il viso inespressivo di Az era il motivo per cui non perdeva mai a carte con noi. «Perché dovrei valutarlo io?» «Vuoi dire che non bluffavi quando hai detto che non segui ogni movimento di Lucien?» Niente. Assolutamente niente su quel viso, nel suo odore. Le ombre, qualunque cosa fossero, si nascondevano troppo bene. Troppo. Azriel disse solo, con voce fredda: «Se Lucien ucciderà Graysen, sarà una liberazione». Tendevo a essere d’accordo. E così la pensavano Feyre... e Nesta. «Sono quasi tentato di concedere a Nesta i diritti di caccia, per il Solstizio.» «Le farai un regalo?» No. Più o meno. «Penso che finanziare il suo appartamento e l’alcol sia un dono sufficiente.» Az si passò una mano tra i capelli scuri. «Siamo...» Era insolito per lui incespicare con le parole. «Dovremmo fare regali alle sorelle?» «No» risposi, e dicevo sul serio. Az sembrò fare un sospiro di sollievo. “Sembrò”, perché neanche un filo d’aria gli uscì dalle labbra. «Penso che a Nesta non importi un accidente, e non credo che Elain si aspetti di ricevere qualcosa da noi. Lascerei che le sorelle si scambino regali tra loro.» Az annuì con espressione distante. Picchiettai con le dita sulla mappa, proprio sopra la Corte della Primavera. «Potrò dirlo a Lucien io stesso, tra un giorno o due. Di andare alla tenuta di Graysen.» Azriel inarcò un sopracciglio. «Vuoi far visita alla Corte della Primavera?» Avrei voluto poterlo negare. Ma invece gli dissi ciò che Eris aveva insinuato: che forse Tamlin non avrebbe avuto voglia di rafforzare i suoi confini con il regno umano, o forse avrebbe lasciato che li attraversasse chiunque. Dubitavo che avrei avuto una notte di riposo decente finché non l’avessi saputo con certezza. Quando conclusi, Az tolse una particella invisibile di polvere dalle scaglie di cuoio del suo guanto. L’unico segno del suo fastidio. «Posso venire con te.» Scossi la testa. «È meglio che lo faccia da solo.» «Ti riferisci al vedere Lucien o Tamlin?» «Tutti e due.» Lucien l’avrei potuto sopportare. Tamlin... Forse non volevo testimoni per quello che avremmo potuto dire. O fare. «Chiederai a Feyre di venire con te?» Lanciai un’occhiata agli occhi nocciola di Azriel e capii che aveva compreso benissimo le ragioni per cui preferivo andare da solo. «Glielo chiederò tra qualche ora» dissi «ma dubito che vorrà. E dubito che farò del mio meglio per convincerla a cambiare idea.» Pace. Avevamo la pace a portata di mano. Eppure c’erano dei debiti non riscossi che volevo sistemare.
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Az annuì con aria di intesa. Era lui che mi aveva sempre capito meglio, più degli altri. A parte la mia Metà. Non avevo mai saputo se fosse merito dei suoi doni o, semplicemente, del fatto che io e lui eravamo più simili di quanto molti pensassero. In ogni caso, Azriel sapeva un paio di cosette sui vecchi conti da regolare. Sugli squilibri da correggere. E così era per la maggior parte della mia cerchia ristretta, supponevo. «Non si sa niente di Bryaxis, immagino.» Sbirciai verso il marmo sotto i miei stivali, come se potessi vedere fino alla biblioteca sotto quella montagna e ai livelli inferiori, ora vuoti, che un tempo erano stati occupati. Anche Az studiò il pavimento. «Neanche un sussurro. Né un urlo, se è per questo.» Ridacchiai. Quel mio fratello aveva un senso dell’umorismo perverso e maligno. Ormai da mesi avevo progettato di dare la caccia a Bryaxis, di prendere Feyre e lasciarle rintracciare l’entità che, in mancanza di una spiegazione migliore, sembrava essere la paura stessa. Ma, come succedeva a molti miei piani per la mia Metà, si era messo di mezzo il dirigere quella Corte e capire il mondo all’esterno. «Vuoi che gli dia la caccia?» Una domanda disinvolta e imperturbabile. Agitai una mano e il mio anello, simbolo dell’Unione, catturò la luce del mattino. Il fatto che non avessi ancora sentito Feyre era sufficiente a dirmi che dormiva ancora. E, per quanto fosse allettante l’idea di svegliarla solo per sentire il suono della sua voce, non mi andava di farmi inchiodare le palle al muro per averle interrotto il sonno. «Lascia che anche Bryaxis si goda il Solstizio» dissi. Un raro sorriso curvò le labbra di Az. «Generoso da parte tua.» Inclinai la testa con fare drammatico, il ritratto della magnanimità regale, poi mi lasciai cadere sulla sedia e appoggiai i piedi sulla scrivania. «Quando parti per Rosehall?» «La mattina dopo il Solstizio» rispose, voltandosi verso la scintillante distesa di Velaris. Fece una lieve smorfia. «Devo provvedere ancora a qualche acquisto, prima di andare.» Rivolsi a mio fratello un sorriso storto. «Comprale qualcosa da parte mia, ti va? E mettilo sul mio conto, questa volta.» Sapevo che Az non l’avrebbe fatto, ma lui annuì lo stesso.
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CASSIAN
i stava avvicinando una tempesta. Giusto in tempo per il Solstizio. Non si sarebbe scatenata ancora prima di un giorno o due, ma Cassian poteva sentirne l’odore nel vento. Evidentemente lo sentivano anche gli altri nel campo di Rifugio dal Vento, perché le solite attività avevano preso un ritmo rapido ed efficiente. Case e tende venivano controllate, stufati e arrosti erano in preparazione, e gli passavano accanto persone in arrivo o in partenza prima del previsto. Cassian aveva concesso alle ragazze un giorno libero per quei preparativi. Aveva ordinato che tutti gli allenamenti e gli esercizi, compresi quelli dei maschi, fossero rinviati a dopo la tempesta. Le pattuglie a raggio limitato sarebbero comunque andate in perlustrazione, formate solo da guerrieri esperti e desiderosi di mettersi alla prova contro i venti sicuramente brutali e le temperature gelide. I nemici avrebbero potuto colpire anche durante una tempesta. Se fosse stata forte come lui pensava, quel campo sarebbe stato sepolto sotto la neve per diversi giorni. Ed era per quel motivo che si trovava nel piccolo centro artigiano del campo, al di là delle tende e di una manciata di case permanenti. C’erano solo poche botteghe a entrambi i lati della strada non lastricata, nient’altro che una pista di terra nei mesi più caldi. Una bottega di generi alimentari, che aveva già affisso un cartello TUTTO ESAURITO, due fabbri, un calzolaio, un intagliatore di legno e un venditore di stoffe. L’edificio in legno del sarto era relativamente nuovo, almeno per gli standard Illyrian; forse aveva una decina d’anni. Sembrava che sopra la bottega, al primo piano, ci fosse-
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ro alloggi, con le lampade accese all’interno. E, nella vetrina, c’era esattamente quello che era venuto a cercare. Un campanello sopra la porta di vetro impiombato tintinnò quando entrò Cassian, stringendo a sé le ali anche se la porta era più larga del normale. Lo accolse un gradito e delizioso calore, e lui si chiuse subito la porta alle spalle. La femmina giovane e snella dietro il bancone di pino era già in piedi, immobile. E lo osservava. Cassian notò innanzitutto che aveva cicatrici sulle ali. Cicatrici brutali e precise lungo i tendini centrali. Si sentì ribollire lo stomaco per la nausea, ma le rivolse un sorriso e si diresse verso il bancone lucidato. Menomata. Era stata menomata. «Sto cercando Proteus» disse, guardando la femmina negli occhi castani. Svegli e accorti. Era stata colta alla sprovvista dalla sua presenza, ma non aveva paura. I capelli scuri, intrecciati in maniera semplice, lasciavano vedere bene la sua pelle abbronzata e il viso stretto e spigoloso. Un viso non propriamente bello, ma sorprendente. Interessante. Lei non abbassò gli occhi, anche se le femmine Illyrian venivano addestrate e costrette a farlo. No: anche se le cicatrici da taglio dimostravano che le brutali usanze tradizionali erano in uso nella sua famiglia, sostenne lo sguardo di Cassian. Gli ricordava Nesta, quello sguardo. Era franco e inquietante. «Proteus era mio padre» disse lei, slacciandosi il grembiule bianco e rivelando un semplice vestito marrone. Poi emerse da dietro il bancone. Era. «Mi dispiace» disse lui. «Non è tornato a casa dalla guerra.» Cassian si impedì di abbassare il mento. «Sono ancora più dispiaciuto, allora.» «Perché dovresti esserlo?» Una domanda impassibile e disinteressata. Protese una mano sottile. «Sono Emerie. Questa bottega è mia, adesso.» Aveva tracciato un confine. E un confine insolito. Cassian le strinse la mano e non lo sorprese scoprire che la sua presa era forte e risoluta. Aveva conosciuto Proteus. Era rimasto stupito quando si era unito all’esercito durante la guerra. Cassian sapeva che aveva una sola figlia e nessun figlio maschio. Nemmeno parenti maschi stretti. Con la sua morte, l’attività sarebbe dovuta andare a uno di loro. Ma era indicativo che sua figlia si fosse fatta avanti, avesse insistito che quella bottega era sua e avesse continuato a gestirla. Esaminò lo spazio piccolo e ordinato. Diede un’occhiata alla bottega dall’altra parte della strada, con l’insegna del tutto esaurito. Poi a quella di Emerie, pieno di merci. Come se avesse appena ricevuto nuovi rifornimenti. O come se non vi fosse entrato nessuno. Mai. Il fatto che Proteus avesse posseduto e costruito quel posto, in un accampamento in cui l’idea delle botteghe era nata solo una cinquantina di anni prima, significava che aveva avuto un bel po’ di soldi. Forse abbastanza perché Emerie potesse tirare avanti. Ma non per sempre. «Sì, sembra proprio che sia tua» disse infine, riportando l’attenzione su di lei. Emerie si era allontanata di un paio di piedi, la schiena dritta, il mento sollevato.
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Aveva visto anche Nesta in quella particolare posizione. L’aveva chiamata la posa “Truciderò i miei nemici”. Ormai Cassian aveva dato un nome a circa due dozzine di posizioni di Nesta. A partire da “Ti divorerò gli occhi per colazione” fino a “Non voglio che Cassian sappia che sto leggendo sconcezze”. Quell’ultima era decisamente la sua preferita. Sopprimendo un sorriso, Cassian indicò le graziose pile di guanti foderati di vello di pecora e le grosse sciarpe che adornavano la vetrina. «Prenderò ogni indumento invernale che hai.» Le sopracciglia scure della ragazza si sollevarono verso l’attaccatura dei capelli. «Dici sul serio?» Lui si infilò una mano in tasca, tirò fuori un sacchetto di monete e glielo porse. «Questo dovrebbe coprire il costo.» Emerie soppesò il sacchetto di pelle nel palmo della mano. «Non ho bisogno di carità.» «Allora prenditi il costo dei tuoi guanti, stivali, sciarpe e cappotti, qualunque sia, e restituiscimi il resto.» Lei non rispose, ma gettò il sacchetto sul bancone e andò alla vetrina. Trasferì sul bancone tutto ciò che lui chiedeva, in pile e mucchi ordinati, poi si spostò nella stanza sul retro e ne emerse con altre merci. Continuò finché non ci fu più spazio vuoto sul bancone lucido, dopodiché si mise a contare il denaro e si udì solo il suono delle monete tintinnanti. Poi, senza una parola, gli restituì la borsa. Cassian si trattenne dal dirle che era una dei pochi Illyrian ad aver mai accettato i suoi soldi. Gli altri, in gran parte, ci avevano sputato sopra o li avevano gettati a terra. Anche dopo che Rhys era diventato Signore Supremo. Emerie studiò i mucchi di indumenti invernali sul bancone. «Vuoi che trovi borse e scatole?» Lui scosse la testa. «Non sarà necessario.» Di nuovo, la ragazza inarcò le sopracciglia scure. Cassian infilò una mano nel sacchetto del denaro e mise tre pesanti monete sull’unico spazietto vuoto che riuscì a trovare sul bancone. «Per le spese di spedizione.» «A chi?» sbottò Emerie. «Vivi sopra il negozio, vero?» Un conciso cenno di assenso. «Allora presumo che tu ne sappia abbastanza di questo campo, di chi vive nell’abbondanza e di chi non ha niente. Qui, tra qualche giorno, si abbatterà una tempesta. Vorrei che distribuissi questi indumenti tra quelli che potrebbero soffrirne di più.» Lei batté le palpebre e Cassian vide che lo stava rivalutando. Poi studiò la merce ammucchiata. «A loro... a molti di loro non piaccio» disse, più piano di quanto lui avesse mai sentito parlare. «Non apprezzano neanche me. Sei in buona compagnia.» Le si curvarono le labbra, con riluttanza. Non era esattamente un sorriso. Certo non avrebbe sorriso a un maschio estraneo. «Considerala una buona pubblicità per questo negozio» proseguì lui. «Di’ che è un dono da parte del loro Signore Supremo.»
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«Perché non da parte tua?» Non voleva rispondere a quella domanda. Non quel giorno. «Meglio lasciarmi fuori.» Emerie lo soppesò per un momento, poi annuì. «Mi assicurerò che, entro il tramonto, tutto questo sia stato consegnato a chi ne ha più bisogno.» Cassian chinò la testa in segno di ringraziamento e si diresse verso la porta di vetro. Probabilmente la porta e le finestre di quell’edificio, da sole, erano costate più di quanto la maggior parte degli Illyrian potesse permettersi da anni. Proteus era stato un uomo ricco, un buon uomo d’affari. E un guerriero decoroso. Per mettere a rischio tutto quello arruolandosi, doveva anche aver posseduto un po’ di orgoglio. Ma le cicatrici sulle ali di Emerie, la prova del fatto che non avrebbe mai più assaporato il vento... Una parte di lui desiderava che Proteus fosse ancora vivo. Perché così avrebbe potuto ammazzarlo lui stesso. Cassian afferrò la maniglia di ottone; il metallo era freddo contro il suo palmo. «Mio signore Cassian.» Voltò la testa e vide che Emerie era ancora dietro il bancone. Non si prese la briga di correggerla, di dire che non accettava – e non avrebbe mai accettato – l’uso di “mio signore” prima del suo nome. «Buon Solstizio» disse lei, concisa. Cassian le sorrise. «Anche a te. Mandami un messaggio se hai problemi con le consegne.» La ragazza sollevò il mento sottile. «Sono sicura che non sarà necessario.» C’era fuoco in quelle parole. Emerie avrebbe fatto accettare gli indumenti alle famiglie, che li volessero o no. Aveva già visto quel fuoco... e quell’acciaio. Quasi si chiedeva che cosa sarebbe potuto succedere se le due femmine si fossero incontrate. Che cosa ne sarebbe potuto venir fuori. Cassian uscì dal negozio e si addentrò nella giornata gelida, con la campanella che tintinnava dietro di lui. Come a preannunciare l’imminente tempesta. Non solo la tempesta che si stava dirigendo verso quelle montagne. Ma forse anche una che si preparava lì da molto, molto tempo.
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FEYRE
on avrei dovuto cenare. Era il pensiero che mi attraversava la testa mentre mi avvicinavo allo studio di Ressina, con il buio totale sopra di me. Mentre vedevo le luci riversarsi nella strada gelida, mescolandosi al bagliore dei lampioni. A quell’ora, tre giorni prima del Solstizio, c’erano acquirenti dappertutto: non solo i residenti del quartiere, ma quelli di tutta la città e delle campagne. Così tanti Fae Superiori e Fae, tra cui Fae dall’aspetto che non avevo mai visto prima. Ma tutti sorridevano, tutti sembravano risplendere di allegria e di buona volontà. Era impossibile non sentire il fremito di quell’energia sotto la mia pelle, anche se i nervi minacciavano di rimandarmi a casa, vento gelido o no. Mi ero trascinata fin lì un pacco pieno di materiali con una tela infilata sotto il braccio; non sapevo se i materiali sarebbero stati forniti o se sarebbe stato scortese presentarmi nello studio di Ressina con l’aria di chi si aspetta di ricevere tutto. Ci ero andata a piedi dalla casa di città, perché non volevo trasmutare trasportando tutte quelle cose, e non volevo rischiare di farmi strappare via la tela dal vento pungente mentre ero in volo. Non avevo ancora imparato a mantenere il mio calore interno, a schermarmi dal vento mentre volavo, nonostante le mie lezioni ormai occasionali con Rhys o Azriel, e con un peso tra le braccia, più il freddo... Non avevo idea di come facessero gli Illyrian, sulle loro montagne, dove faceva freddo tutto l’anno. Forse lo avrei scoperto presto, se il dissenso e il malcontento si fossero diffusi nei campi. Ma non era il momento adatto per pensarci. Il mio stomaco era già abbastanza a disagio.
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Mi fermai a una casa di distanza dallo studio di Ressina, con i palmi sudati sotto i guanti. Prima di allora non avevo mai dipinto con un gruppo. Raramente mi andava di condividere i miei quadri con qualcuno. E quella prima volta di nuovo davanti a una tela, senza essere sicura di che cosa sarebbe potuto uscire da me... Un richiamo lungo l’Unione. “Tutto bene?” Una domanda casuale e sommessa. La cadenza della voce di Rhys mi lenì i tremori lungo i nervi. Mi aveva detto dove intendeva andare il giorno dopo. Che informazioni voleva recuperare. Mi aveva chiesto se volevo andare con lui. Avevo risposto di no. Anche se ero in debito con Tamlin per la vita della mia Metà, anche se gli avevo augurato pace e felicità, non desideravo vederlo. Parlare con lui. Trattare con lui. Non per molto tempo, di sicuro. Forse per sempre. Forse era per quel motivo, forse era perché, dopo aver rifiutato l’invito di Rhys, mi ero sentita peggio di come stavo prima, che quella sera mi ero avventurata nell’Arcobaleno. Ma a quel punto, di fronte allo studio condiviso di Ressina, sentendo già le risate che si levavano dalla sala in cui lei e gli altri si erano riuniti per il loro lavoro collettivo settimanale, la mia determinazione si spense come una candela. “Non so se posso farlo.” Rhys rimase in silenzio per un momento. “Vuoi che venga con te?” “A dipingere?” “Sarei un ottimo modello per i nudi.” Sorrisi, senza preoccuparmi di essere da sola in strada con innumerevoli persone che mi passavano accanto. Comunque, il cappuccio mi nascondeva la maggior parte del viso. “Spero che mi perdonerai, ma non ho voglia di condividere con altri la visione del tuo corpo glorioso.” “Forse ti farò da modello più tardi, allora.” Un lieve tocco sensuale lungo l’Unione, che mi scaldò il sangue. “È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ci siamo divertiti con la pittura.” Mi balenarono in mente quella casa e il tavolo della cucina, e mi si seccò la bocca. “Mascalzone.” Una risatina. “Se vuoi entrare, entra. Se non vuoi, non farlo. Spetta a te decidere.” Aggrottai la fronte e abbassai lo sguardo sulla tela infilata sotto un braccio, la scatola di colori tenuta dall’altro. Guardai accigliata lo studio a trenta piedi di distanza. C’erano ombre fitte tra me e quella macchia dorata di luce. “So che cosa voglio fare.” Nessuno mi notò trasmutare dentro la galleria chiusa e lo studio in fondo alla strada. E, con le finestre sbarrate, nessuno si accorse delle sfere di luce Fae che accendevo e facevo fluttuare nell’aria, trasportate da una lieve brezza.
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Ovviamente, con le finestre chiuse solo da assi e la casa vuota da mesi, la stanza principale era gelida. Così fredda che posai i miei pacchi e saltellai sulla punta dei piedi mentre osservavo quello spazio. Probabilmente era stato bello prima dell’attacco: c’era un’enorme finestra rivolta a sud, che lasciava passare infinita luce, e il soffitto a volta era punteggiato di lucernari, anch’essi chiusi con assi. La galleria sul davanti era forse larga trenta piedi e profonda cinquanta, con un bancone a metà di una parete e una porta che doveva dare su uno studio o un magazzino sul retro. Un rapido esame mi disse che avevo ragione in parte: il magazzino era sul retro, ma lì non c’era luce naturale per dipingere. Solo finestre strette sopra una fila di lavandini incrinati, alcuni ripiani di metallo ancora macchiati di vernice e vecchi prodotti per la pulizia. E pittura. Non proprio pittura, ma il suo odore. Respirai profondamente, sentii che quell’odore mi penetrava nelle ossa, lasciai che vi si depositasse insieme alla quiete di quel luogo. La galleria sul davanti era stata anche il suo studio. Polina doveva aver dipinto mentre chiacchierava con i clienti che osservavano i quadri appesi, di cui riuscivo appena a distinguere i contorni contro le pareti bianche. Il pavimento era di pietra grigia, e frammenti di vetro brillavano ancora tra le fessure delle pietre. Non volevo iniziare a dipingere, la prima volta, davanti ad altri. Sarei riuscita a malapena a farlo davanti a me stessa. Era sufficiente a scacciare ogni senso di colpa per aver ignorato l’offerta di Ressina. Dopotutto non le avevo promesso niente. Così evocai il mio fuoco per cominciare a riscaldare l’aria, e feci ardere piccole sfere di fiamme a mezz’aria in tutta la galleria. Illuminandola ulteriormente. Ridandole vita con il calore. Poi andai in cerca di uno sgabello.
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FEYRE
ipinsi e dipinsi e dipinsi. Il mio cuore rimbombò per tutto il tempo, regolare come un tamburo da guerra. Dipinsi finché non mi vennero crampi alla schiena e finché il mio stomaco non si mise a gorgogliare, esigendo cioccolata calda e un dessert. Avevo saputo che cosa doveva uscire da me nell’istante stesso in cui mi ero appollaiata su uno sgabello traballante che avevo recuperato nel retro. Ero riuscita a malapena a tenere il pennello abbastanza fermo da tracciare i primi tratti. Era per la paura, sì. Ero sufficientemente onesta con me stessa da ammetterlo. Ma anche per il puro e semplice scatenarsi di qualcosa, come se io fossi stata un cavallo da corsa liberato dal recinto, come se l’immagine nella mia mente fosse stata una rapidissima visione e io avessi dovuto correre per stare al passo con lei. Ma aveva cominciato a emergere. A prendere forma. E sulla sua scia era arrivata una sorta di quiete, come uno strato di neve che ricopriva la terra. Che annullava quello che c’era sotto. Era stato più purificante, più tranquillizzante di tutte le ore che avevo passato a ricostruire quella città. Altrettanto appagante, sì, ma dipingere, lasciare uscire il soggetto e affrontarlo, era stato una liberazione. Il primo punto per chiudere una ferita. Le campane della torre di Velaris suonarono dodici rintocchi prima che mi fermassi. Prima che abbassassi il pennello e fissassi ciò che avevo creato. Ciò che mi guardava a sua volta. Me stessa.
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O la me stessa che avevo visto dentro l’Ouroboros, quella bestia fatta di squame, artigli e oscurità; di rabbia e gioia e freddo. Tutto quello che c’era in me. Ciò che stava in agguato sotto la mia pelle. Non ero fuggita quando l’avevo visto nello specchio. E non ero fuggita dipingendolo. Sì, era il primo punto per chiudere una ferita. Ecco l’effetto che mi faceva. Con il pennello penzoloni tra le ginocchia, con quella bestia immortalata sulla tela, il mio corpo si afflosciò un po’. Come se fosse senza ossa. Studiai la galleria, la strada dietro le finestre sbarrate. Nessuno era venuto a indagare sulle luci accese, durante le ore che avevo passato lì. Alla fine mi alzai, mi stirai e gemetti. Non potevo portarlo con me. Il quadro doveva asciugarsi, e non gli avrebbe certo fatto bene l’aria notturna, resa umida dal fiume e dal mare lontano. Di sicuro non l’avrei riportato alla casa di città, perché non volevo che qualcuno lo trovasse. Neanche Rhys. Ma lì... Se anche fosse entrato qualcuno, non avrebbe saputo chi l’aveva dipinto. Non l’avevo firmato con il mio nome. Non volevo. Se l’avessi lasciato lì ad asciugare durante la notte, se fossi tornata il giorno dopo, poi l’avrei potuto sicuramente nascondere in un ripostiglio nella Casa del Vento. L’indomani, allora. Sarei tornata l’indomani a reclamarlo.
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RHYSAND
ra primavera, eppure non lo era. Quella non era la terra in cui avevo vagato un tempo, nei secoli passati, o che avevo visitato quasi un anno prima. Il sole era mite, la giornata limpida, i distanti cornioli e lillà erano ancora in eterna fioritura. Distanti... perché nella tenuta non fioriva nulla. Le rose rosa che un tempo si erano arrampicate sui muri di pietra chiara dell’ampia villa non erano altro che ingarbugliati intrecci di spine. Le fontane si erano seccate, le siepi non potate avevano perso la loro forma. La casa stessa aveva un aspetto migliore il giorno dopo essere stata vandalizzata dagli sgherri di Amarantha. Non c’erano segni visibili di distruzione, ma c’era troppo silenzio. Un’assenza di vita. Le grandi porte di quercia, però, erano innegabilmente danneggiate. C’erano profondi e lunghi segni di artigli. In piedi sul gradino più alto della scala di marmo che conduceva a quelle porte d’ingresso, osservai i brutali squarci. Avrei scommesso che li avesse fatti Tamlin, dopo aver capito che Feyre aveva ingannato lui e la sua Corte. Ma il carattere di Tamlin era sempre stato la sua rovina. Qualsiasi brutta giornata avrebbe potuto produrre quei solchi. Forse quel giorno ne avrebbe prodotti altri. Il mio sorrisetto era facile da evocare. Lo stesso valeva per la postura disinvolta, con una
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mano nella tasca della giacca nera, senza ali o indumenti di cuoio Illyrian in vista, mentre bussavo alle porte rovinate. Silenzio. E poi... Tamlin stesso aprì la porta. Non sapevo bene che cosa commentare: il maschio smunto davanti a me o la casa buia dietro di lui. Era un bersaglio facile. Un bersaglio troppo facile; non valeva la pena di deridere i vestiti – un tempo eleganti – che avevano un disperato bisogno di essere lavati, i capelli arruffati che chiedevano a gran voce di essere spuntati. La villa era vuota, non si vedeva un servitore, non c’erano decorazioni per il Solstizio. Neanche gli occhi verdi che guardarono i miei erano quelli a cui ero abituato. Ossessionati e tetri. Non c’era una scintilla di vita. Sarebbe bastato qualche minuto per farlo a pezzi, anima e corpo. Per finire quello che senza dubbio era iniziato il giorno in cui Feyre aveva gridato in silenzio al loro matrimonio, e io ero andato lì. Ma... avevamo bisogno di pace. Il nostro obiettivo era la pace. Avrei potuto farlo a pezzetti dopo aver raggiunto quell’obiettivo. «Lucien mi aveva detto che saresti venuto» disse Tamlin in segno di saluto, con una voce piatta e senza vita come i suoi occhi, una mano ancora appoggiata alla porta. «Buffo... pensavo che fosse la sua Metà ad avere il dono della veggenza.» Tamlin si limitò a fissarmi, ignorando – o non rilevando – l’umorismo. «Che cosa vuoi?» Nessun suono dietro di lui. Su ogni acro di quella tenuta. Nemmeno un singolo cinguettio. «Sono venuto per fare due chiacchiere.» Gli rivolsi un sorrisetto che, lo sapevo, lo mandava su tutte le furie. «Posso scomodarti per una tazza di tè?» Le sale erano buie, le tende ricamate erano chiuse. Una tomba. Quel posto era una tomba. A ogni passo verso quella che una volta era stata la biblioteca, mi sentivo avvolgere dalla polvere e dal silenzio. Tamlin non parlò, non fornì alcuna spiegazione per la casa vuota. Per la distruzione nelle stanze accanto a cui passammo, quando le porte scolpite erano aperte abbastanza da farmi vedere l’interno. Mobili in frantumi, dipinti a brandelli, pareti crepate. Lucien non era andato lì per fare ammenda durante il Solstizio, capii mentre Tamlin apriva la porta della biblioteca buia. Lucien era andato lì per pietà. Per misericordia. La mia vista si adattò all’oscurità prima che Tamlin agitasse una mano e accendesse le luci Fae nelle loro coppe di vetro.
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La biblioteca non era ancora stata distrutta. Probabilmente mi aveva portato nell’unica stanza di quella casa che avesse ancora mobili utilizzabili. Tenni la bocca chiusa mentre ci dirigevamo verso una grande scrivania al centro della sala; Tamlin occupò una sedia decorata e imbottita su un lato della scrivania stessa. In quei giorni doveva essere l’unica cosa rimasta che somigliasse a un trono. Mi adagiai sul sedile uguale di fronte a lui e il legno chiaro gemette in segno di protesta. Probabilmente quelle sedie erano state pensate per ridenti cortigiani, non per due guerrieri adulti. Cadde il silenzio, denso come il vuoto di quella casa. «Se sei venuto a gongolare, puoi risparmiarti lo sforzo.» Mi posai una mano sul petto. «Perché dovrei disturbarmi?» Nessun segno di divertimento. «Di che cosa volevi parlare?» Studiai con ostentazione i libri, il soffitto a volta dipinto. «Dov’è il mio caro amico Lucien?» «A caccia della nostra cena.» «A te non interessano queste cose, al momento?» Gli occhi di Tamlin rimasero spenti. «Se n’è andato prima che mi svegliassi.» A caccia della cena, perché lì non c’erano servitori che preparassero il cibo. O che lo comprassero. Non potevo dire di soffrire per lui. Mi dispiaceva solo per Lucien, che ancora una volta era stato intrappolato dall’amicizia. Posai una caviglia sopra un ginocchio e mi appoggiai allo schienale della sedia. «Cos’è questa faccenda che ho sentito, sul fatto che non fai rispettare i tuoi confini?» Un attimo di silenzio. Poi Tamlin indicò la porta. «Vedi qualche sentinella che possa farlo?» Anche loro lo avevano abbandonato. Interessante. «Feyre ha fatto bene il suo lavoro, non è vero?» Un lampo di denti bianchi, un barlume di luce nei suoi occhi. «Seguendo le tue istruzioni, senza dubbio.» Sorrisi. «Oh, no. Ha fatto tutto lei. Intelligente, non è vero?» Tamlin strinse il bracciolo curvo della sedia. «Credevo che il Signore Supremo della Corte della Notte non si disturbasse a vantarsi.» Non sorrisi mentre replicavo: «Penserai che dovrei ringraziarti, per avere contribuito a resuscitarmi». «Non mi illudo: il giorno in cui mi ringrazierai di qualcosa, Rhysand, sarà il giorno in cui le fiamme dell’inferno diventeranno fredde.» «Poetico.» Un ringhio basso. Troppo facile. Era fin troppo facile innervosirlo, irritarlo. E anche se non avevo dimenticato il muro, la pace di cui avevamo bisogno, dissi: «Hai salvato la vita della mia Metà in diverse occasioni. Te ne sarò sempre grato».
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Sapevo che le parole avevano colpito nel segno. La mia Metà. Basso. Era stato un colpo basso. Avevo tutto: tutto ciò che avevo desiderato, sognato, che avevo chiesto alle stelle di concedermi. Lui non aveva niente. Aveva ricevuto tutto e l’aveva sprecato. Non meritava la mia pietà, la mia compassione. No, Tamlin si meritava tutto quello che si era tirato addosso, quella parvenza di vita. Si meritava ogni stanza vuota, ogni ginepraio di spine, ogni pasto che doveva procurarsi da solo. «Lei sa che sei qui?» «Oh, certo.» Uno sguardo al viso di Feyre il giorno prima, quando l’avevo invitata, mi aveva dato la risposta prima che lei la pronunciasse: avrebbe preferito non vedere mai più il maschio di fronte a me. «E» continuai «è stata turbata quanto me nell’apprendere che i tuoi confini non sono custoditi come speravamo.» «Senza più il muro, mi servirebbe un esercito per sorvegliarli.» «Questo si può organizzare.» Tamlin emise un lieve ringhio, e un accenno di artigli gli brillò sulle nocche. «Non lascerò entrare la tua specie nelle mie terre.» «La mia specie, come la chiami tu, ha combattuto buona parte della guerra che tu hai contribuito a provocare. Se hai bisogno di pattuglie, fornirò i guerrieri necessari.» «Per proteggere gli umani da noi?» Un ghigno beffardo. Mi prudevano le mani per la voglia di stringergliele attorno alla gola. In effetti delle ombre si stavano incurvando sulla punta delle mie dita, araldi degli artigli in agguato proprio lì sotto. Quanto odiavo quella casa. L’avevo odiata dal momento in cui vi avevo messo piede quella notte, quando era stato versato il sangue della Corte della Primavera, come pagamento di un debito che non avrebbe mai potuto essere ripagato. Il pagamento per due coppie di ali, affisse nello studio. Tamlin le aveva bruciate molto tempo prima, mi aveva detto Feyre. Non faceva differenza. Era stato lì, quel giorno. Aveva detto a suo padre e ai suoi fratelli dove mi avrebbero aspettato mia sorella e mia madre. E non aveva fatto nulla per aiutarle mentre venivano massacrate. Vedevo ancora le loro teste in quei cesti, i loro visi ancora stravolti dalla paura e dal dolore. E li vedevo di nuovo quando guardavo il Signore Supremo della Primavera; entrambi avevamo assunto il potere in quella notte intrisa di sangue. «Per proteggere gli umani da noi, sì» dissi, con voce minacciosamente bassa. «Per mantenere la pace.» «Quale pace?» I suoi artigli si ritrassero sotto la pelle mentre incrociava le braccia, meno muscolose di come le avevo viste l’ultima volta, sui campi di battaglia. «Non c’è niente di diverso. È sparito il muro, tutto qui.» «Possiamo fare in modo che sia diverso. Migliore. Ma solo se partiamo con il piede giusto.»
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«Non permetterò l’accesso alle mie terre neanche a un solo bruto della Corte della Notte.» La sua gente lo disprezzava già a sufficienza, a quanto pareva. E a quella parola – bruto – ne ebbi abbastanza. Era un territorio pericoloso. Almeno per me. Era pericoloso lasciarmi trascinare dal mio temperamento. Perlomeno quando c’era lui. Mi alzai dalla sedia, Tamlin non si mosse. «È colpa tua tutto quello che ti è successo» dissi, ancora a voce bassa. Non avevo bisogno di urlare per trasmettere la mia rabbia. Non ne avevo mai avuto bisogno. «Hai vinto» sembrò sputare, inclinandosi in avanti. «Hai la tua Metà. Non è sufficiente?» «No.» La parola echeggiò nella biblioteca. «L’hai quasi distrutta. In ogni modo possibile.» Tamlin mi mostrò i denti. Io gli mostrai i miei, e al diavolo il controllo del temperamento. Lasciai che un po’ del mio potere rimbombasse nella sala, nella casa, nei giardini. «Però è sopravvissuta. È sopravvissuta a te. E tu hai ancora sentito il bisogno di umiliarla, di sminuirla. Se volevi riconquistarla, vecchio mio, non era quella la strada più saggia.» «Vattene.» Non avevo finito. Non ci ero neanche arrivato vicino. «Ti meriti tutto quello che ti è accaduto. Ti meriti questa casa patetica e vuota, ti meriti le tue terre devastate. Non mi interessa se hai offerto quel nucleo di vita per salvarmi, non mi interessa se ami ancora la mia Metà. Non mi importa se l’hai salvata da Hybern o, prima, da mille altri nemici.» Le parole si riversavano da me, fredde e regolari. «Spero che tu viva il resto della tua miserabile vita qui, da solo. Mi darà molta più soddisfazione che massacrarti.» Feyre una volta era giunta alla stessa decisione. Allora ero stato d’accordo con lei, e lo ero ancora, ma solo ora la capivo veramente. Gli occhi verdi di Tamlin divennero feroci. Mi irrigidii, mi preparai... lo volevo. Volevo che lui saltasse su da quella sedia e si lanciasse contro di me, volevo che i suoi artigli cominciassero a squarciarmi. Il sangue mi martellava nelle vene, il mio potere vorticava dentro di me. Combattendo, avremmo potuto distruggere quella casa. Ridurla in macerie. E poi avrei trasformato le pietre e il legno in nient’altro che polvere nera. Ma Tamlin si limitò a fissarmi. E, dopo un istante, abbassò gli occhi sulla scrivania. «Vattene.» Sbattei le palpebre, l’unico segno della mia sorpresa. «Non ti va una rissa, Tamlin?» Non si disturbò a guardarmi di nuovo. «Vattene» si limitò a ripetere. Un maschio distrutto. Distrutto dalle sue stesse azioni, dalle sue scelte. Non era un problema mio. Non meritava la mia compassione. Ma mentre trasmutavo, e il vento oscuro mi sferzava intorno, una strana sensazione di vuoto mise radici nel mio stomaco. Tamlin non aveva scudi attorno alla casa. Non c’era niente che potesse impedire a qual-
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cuno di trasmutare lì dentro, che potesse impedire ai suoi nemici di apparire nella sua camera da letto e tagliargli la gola. Era quasi come se stesse aspettando che qualcuno lo facesse. Incontrai Feyre che stava tornando a casa; presumibilmente era stata a fare acquisti, perché alcune borse le pendevano dalle mani inguantate. Il suo sorriso quando atterrai accanto a lei, con la neve che ci sferzava intorno, mi fece l’effetto di un pugno nel cuore. Tuttavia il sorriso svanì immediatamente quando mi guardò bene in faccia. Anche se eravamo nel bel mezzo di una trafficata strada cittadina, mi mise una mano sulla guancia. «È andata così male?» Annuii e appoggiai la guancia alla sua mano. Il massimo che potevo fare. Mi diede un bacio sulla bocca; le sue labbra mi sembrarono così calde da farmi capire che avevo freddo. «Torna a casa con me» disse, prendendomi a braccetto e stringendosi a me. Obbedii e le presi le borse dall’altra mano. Mentre superavamo vari isolati e attraversavamo la gelida Sidra, e poi risalivamo le ripide colline, glielo raccontai. Le riferii tutto quello che avevo detto a Tamlin. «In confronto a come insulti Cassian, direi che sei stato abbastanza mite» osservò quando ebbi finito. Sbuffai. «In questo caso non era necessario imprecare.» Rifletté sulle mie parole. «Sei andato lì perché eri preoccupato per il muro, o solo perché volevi dirgli quelle cose?» «Tutte e due le cose.» Non potevo mentirle su quell’argomento. «E forse massacrarlo.» Un lampo d’allarme le accese gli occhi. «E questo a che cosa è dovuto?» Non lo sapevo. «Ho solo...» Mi mancarono le parole. Strinse il braccio attorno al mio, e mi voltai per studiarle il viso. Era aperto, comprensivo. «Le cose che hai detto... non erano sbagliate» dichiarò. Nessun giudizio, nessuna rabbia. Una parte del vuoto che avevo dentro si riempì un po’. «Avrei dovuto essere il maschio più maturo.» «Sei il maschio più maturo quasi tutti i giorni. Hai il diritto di commettere un errore.» Fece un ampio sorriso. Luminoso come la luna piena, più bello di qualsiasi stella. Non le avevo ancora preso un regalo per il Solstizio. Né per il compleanno. Inclinò la testa vedendo il mio cipiglio e la treccia le scivolò su una spalla. Ci passai sopra una mano, per il piacere di sentire quei fili di seta contro le mie dita congelate. «Ci vediamo a casa» dissi, ridandole le borse. Fu il suo turno di aggrottare la fronte. «Dove vai?» La baciai sulla guancia, respirando il suo profumo di lillà e pera. «Devo sbrigare qualche commissione.» E poi guardarla, camminare accanto a lei, non aveva placato la rabbia che ancora mi si agitava nelle viscere. No: quel bel sorriso mi faceva venire voglia di trasmutare di nuovo alla Corte della Primavera e piantare la mia lama Illyrian nelle viscere di Tamlin.
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Ero proprio il maschio più maturo. «Vai a dipingere un quadro di me nudo» le suggerii, ammiccando, e mi lanciai nel cielo gelido. Il suono della sua risata danzò con me per tutto il tragitto fino al Palazzo del Filo e dei Gioielli. Esaminai tutto quello che la mia gioielliera preferita aveva disposto sul velluto nero sopra il bancone di vetro. Sotto le luci del suo accogliente negozio accanto al palazzo, avevano un fuoco interno che sembrava chiamare con un cenno. Zaffiri, smeraldi, rubini... Feyre li aveva tutti. Be’, in quantità moderate. Tranne quei bracciali di diamanti che le avevo dato per la Notte delle Stelle. Li aveva portati solo due volte. Quella notte in cui avevo ballato con lei fino all’alba, osando appena sperare che potesse iniziare a provare per me una frazione di quello che provavo per lei. E la notte in cui eravamo tornati a Velaris, dopo la battaglia finale con Hybern. Quando aveva indossato solo quelli. Scossi la testa e dissi alla Fae snella ed eterea dietro il bancone: «Per quanto siano belli, Neve, non credo che la Signora voglia gioielli per il Solstizio». Una scrollata di spalle, per niente delusa. Ero un cliente abituale e Neve sapeva che presto mi avrebbe venduto qualcos’altro. Fece scivolare il vassoio sotto il bancone e ne tirò fuori un altro, muovendo dolcemente le mani velate dalla notte. Non era uno spettro, ma qualcosa di simile: il suo corpo alto e snello era avvolto da ombre permanenti. Solo i suoi occhi, simili a carboni ardenti, erano sempre visibili. Il resto tendeva ad apparire e scomparire, come se le ombre si aprissero per rivelare una mano scura, una spalla, un piede. Il suo popolo era tutto composto da maestri gioiellieri, che vivevano nelle più profonde miniere di montagna della nostra corte. La maggior parte dei nostri cimeli di famiglia era stata creata dai Tartera, compresi i braccialetti e le corone di Feyre. Neve agitò una mano ombrosa sul vassoio che aveva sottoposto al mio esame. «Li avevo selezionati in precedenza. Se non è troppo presuntuoso, potresti prenderli in considerazione per la Signora Amren.» In effetti, tutti sembravano cantare il nome di Amren. Pietre grandi, castoni delicati. Gioielli possenti, per la mia possente amica. Che aveva fatto così tanto per me, per la mia Metà, per la nostra gente. Per il mondo. Esaminai i tre gioielli. Sospirai. «Li prendo tutti.» Gli occhi di Neve brillarono come una fornace vivente.
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12 «Che diavolo è quella roba?»
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Era la sera successiva, e Cassian sorrideva agitando una mano verso il mucchio di rami di pino deposti sul tappeto rosso, al centro dell’atrio. «Decorazioni per il Solstizio. Direttamente dal mercato.» La neve aderiva alle sue spalle larghe e ai capelli scuri, e le guance abbronzate erano arrossate dal freddo. «E queste le chiami decorazioni?» Lui fece un sorrisetto furbo. «Le tradizioni della Corte della Notte prevedono un mucchio di rami di pino in mezzo al pavimento.» Incrociai le braccia. «Divertente.» «Dico sul serio.» Lo fissai e lui rise. «Sono per il ripiano del camino, per la ringhiera e per qualsiasi altra cosa, sciocca. Mi vuoi aiutare?» Si scrollò di dosso il cappotto pesante, rivelando una giacca e una camicia nere, e lo appese nell’armadio dell’ingresso. Rimasi dov’ero e battei a terra un piede. «Che c’è?» chiese, inarcando le sopracciglia. Era raro vedere Cassian vestito con qualcosa che non fosse la divisa Illyrian di cuoio, ma quegli indumenti, anche se non erano eleganti come quelli che indossavano di solito Rhys o Mor, gli stavano bene. «Gettarmi ai piedi un mucchio di rami è il tuo modo di salutare, in questi giorni? Un po’ di tempo in quel campo Illyrian e dimentichi tutte le buone maniere.» Cassian in un secondo mi fu addosso, mi sollevò da terra e mi fece roteare finché non mi venne la nausea. Gli presi a pugni il petto, imprecando.
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Alla fine mi rimise giù. «Che cosa mi hai portato per il Solstizio?» Gli diedi uno schiaffetto sul braccio. «Un enorme mucchio di chiudi-quella-boccaccia.» Rise di nuovo e io gli strizzai l’occhio. «Cioccolata calda o vino?» Cassian mi circondò con un’ala e fece voltare entrambi verso la porta della cantina. «Quante bottiglie buone ci ha lasciato il piccolo Rhysie?» Ne bevemmo due prima che arrivasse Azriel, desse un’occhiata ai nostri tentativi ubriachi di decorazione e decidesse di migliorarli prima che chiunque altro potesse vedere il casino che avevamo fatto. Seduti su un divano davanti al fuoco di betulla nel soggiorno, ghignavamo come demoni mentre il cantaombre raddrizzava le corone e le ghirlande che avevamo buttato qua e là, raccoglieva gli aghi di pino che avevamo sparso sui tappeti e, soprattutto, scuoteva la testa per quello che vedeva. «Az, rilassati per un minuto» biascicò Cassian, agitando una mano. «Prendi un po’ di vino. Biscotti.» «E togliti il cappotto» aggiunsi, puntando la bottiglia verso il cantaombre, che non si era nemmeno preoccupato di spogliarsi prima di sistemare il nostro casino. Azriel raddrizzò una parte floscia della ghirlanda sul davanzale della finestra. «È quasi come se vi foste sforzati di rendere tutto il più brutto possibile.» Cassian si afferrò il cuore. «Questo ci offende.» Azriel rivolse un sospiro al soffitto. «Povero Az» dissi, riempiendomi un altro bicchiere. «Il vino ti farà sentire meglio.» Lui mi lanciò un’occhiataccia, poi guardò la bottiglia, poi Cassian... e infine attraversò in un lampo la stanza, mi tolse la bottiglia di mano e ingollò il resto. Cassian ghignò di gioia. Soprattutto perché in quel momento Rhys disse, dalla porta: «Be’, almeno ora so chi sta bevendo tutto il mio vino migliore. Ne vuoi un’altra bottiglia, Az?». Azriel quasi sputò il vino nel fuoco, ma si costrinse a deglutire e a voltarsi, rosso in faccia, verso Rhys. «Vorrei spiegare...» Rhys rise, e quel suono intenso rimbalzò sulle modanature di quercia intagliata della stanza. «Cinque secoli, e pensi che non sappia ancora che, se il mio vino finisce, di solito c’è dietro Cassian?» Il quale alzò il bicchiere in segno di saluto. Rhys esaminò la stanza e ridacchiò. «Si capisce benissimo quali decorazioni avete fatto voi due, e quali ha cercato di sistemare Azriel prima che io arrivassi.» Azriel si stava massaggiando una tempia. Rhys mi guardò e inarcò un sopracciglio. «Mi aspettavo di meglio, da un’artista.» Gli mostrai la lingua. Un istante dopo mi disse nella mente: “Risparmia quella lingua per dopo. Ho qualche idea su come usarla”. Mi si incurvarono le dita dei piedi nei calzettoni spessi e alti. «Fa un freddo infernale!» proclamò Mor dall’ingresso, distogliendomi dal calore che stava crescendo dentro di me. «E chi diavolo ha lasciato le decorazioni in mano a Cassian e Feyre?»
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Azriel sembrò strozzarsi con quella che avrei giurato essere una risata, e il suo viso normalmente ombroso si illuminò all’ingresso di Mor, rosea per il freddo, che si soffiava aria nelle mani. Lei, invece, si accigliò. «Voi due non potevate aspettare che arrivassi anch’io, prima di aprire il vino buono?» Sorrisi quando Cassian disse: «Avevamo appena attaccato la collezione di Rhys». Rhys si grattò la testa. «È lì per tutti voi, lo sapete. Servitevi pure.» «Parole pericolose, Rhysand» lo ammonì Amren mentre attraversava impettita la porta; era quasi inghiottita dalla sua enorme pelliccia bianca. Sopra il colletto erano visibili solo i capelli scuri, lunghi fino al mento, e i suoi occhi d’argento. Sembrava... «Sembri una palla di neve rabbiosa» disse Cassian. Strinsi le labbra per trattenere una risata. Ridere di Amren non era mai una mossa saggia. Anche ora, con i suoi poteri in buona parte scomparsi e un corpo stabile da Fae Superiore. La palla di neve rabbiosa lo fissò con gli occhi socchiusi. «Attento, ragazzo. Non ti conviene dare il via a una guerra che non puoi vincere.» Sbottonò il colletto e tutti la ascoltammo mentre diceva chiaramente: «Soprattutto con Nesta Archeron che verrà per il Solstizio, tra due giorni». Sentii qualcosa che si propagava tra loro: Cassian, Mor e Azriel. Sentii la pura rabbia che emanava Cassian, la cui allegria mezza ubriaca svanì di colpo. Disse a bassa voce: «Chiudi la bocca, Amren». Mor stava osservando così da vicino che era difficile non fissarla. Io lanciai un’occhiata a Rhys, ma un’espressione contemplativa si era impossessata della sua faccia. Amren si limitò a sorridere, e quelle labbra rosse si aprirono tanto da mostrare la maggior parte dei suoi denti bianchi mentre andava verso l’armadio dell’ingresso e diceva, da sopra una spalla: «Mi divertirò a vedere come ti fa a brandelli. Ammesso che arrivi sobria». E quello era sufficiente. Rhys sembrava avere la stessa idea ma, prima che potesse dire qualcosa, intervenni io: «Lascia perdere Nesta, Amren». Amren mi rivolse quello che si sarebbe potuto considerare uno sguardo di scuse. Ma, mentre infilava il suo enorme cappotto nell’armadio, si limitò a dire: «Sta arrivando Varian, quindi datevi pace». Elain era in cucina e stava aiutando Nuala e Cerridwen a preparare la cena. Anche se mancavano due notti al Solstizio, erano venuti tutti nella casa di città. Tutti tranne una persona. «Sai qualcosa di Nesta?» chiesi a mia sorella a mo’ di saluto. Elain sollevò il busto dalle pagnotte roventi che aveva tirato fuori dal forno; aveva i capelli raccolti solo a metà e il grembiule, sopra il vestito rosa, imbiancato dalla farina. Sbatté le palpebre sui grandi occhi castani. «No. Le ho chiesto di unirsi a noi stasera e, quando avesse deciso, di farmelo sapere. Non ho avuto risposta.» Agitò uno strofinaccio sul pane per raffreddarlo un po’, poi sollevò una pagnotta e picchiettò sul fondo. Ne uscì un suono cupo che evidentemente la convinse. «Credi che valga la pena di andarla a prendere?»
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Elain si mise lo strofinaccio sulla spalla sottile e si arrotolò le maniche fino al gomito. La sua pelle aveva preso colore in quei mesi, almeno finché non era arrivato il freddo. Le si era anche riempito il viso. «Vorresti che ti rispondessi come sua sorella o come veggente?» Mantenni il viso calmo e sereno e mi appoggiai al tavolo da lavoro. Elain non aveva accennato ad altre visioni. E noi non le avevamo chiesto di usare il suo dono. Se esistesse ancora, con la distruzione del Calderone e poi la sua riformazione, non lo sapevo. E non glielo volevo chiedere. «Conosci Nesta meglio di me» risposi cautamente. «Pensavo che ti facesse piacere dire la tua.» «Se Nesta non vuole venire qui stasera, portarla qui sarebbe un problema tale che non ne varrebbe la pena.» La voce di Elain era più fredda del solito. Lanciai un’occhiata a Nuala e Cerridwen e quest’ultima scosse la testa come per dire “Non è in una buona giornata”. Come tutti noi, Elain stava guarendo pian piano. Aveva pianto per ore il giorno in cui l’avevo portata su una collina ricoperta di fiori selvatici alla periferia della città, fino alla lapide di marmo che avevo fatto erigere lì in onore di nostro padre. Avevo ridotto il suo corpo in cenere dopo che il re di Hybern l’aveva ucciso, ma si meritava comunque un luogo di riposo. Per tutto quello che aveva fatto alla fine, si meritava la bellissima lapide su cui avevo fatto scolpire il suo nome. Ed Elain si era meritata un luogo in cui fargli visita, in cui parlare con lui. Ci andava almeno una volta al mese. Nesta non c’era mai stata. Aveva ignorato il mio invito a venire con noi quel primo giorno, e ogni volta successiva. Mi piazzai accanto a Elain e presi un coltello dall’altra parte del tavolo per iniziare a tagliare il pane. Lungo il corridoio echeggiavano i suoni della mia famiglia: la risata luminosa di Mor copriva il rombo di Cassian. Attesi di avere una pila di fette fumanti prima di dire: «Nesta fa ancora parte di questa famiglia». «Davvero?» Elain infilò il coltello in profondità nella pagnotta successiva. «Di certo non si comporta come se fosse così.» Nascosi il mio cipiglio. «È successo qualcosa, oggi, quando l’hai vista?» Elain non rispose. Continuò ad affettare il pane. E quindi continuai anch’io. Non mi piaceva quando gli altri cercavano di costringermi a parlare. Le avrei offerto la stessa cortesia. Continuammo a lavorare in silenzio, poi iniziammo a riempire i vassoi con il cibo che Nuala e Cerridwen avevano dichiarato pronto; le loro ombre le velavano più del solito. Per garantirci un senso di intimità. Lanciai loro uno sguardo di gratitudine, ma entrambe scossero la testa. Non era necessario ringraziarle. Avevano passato più tempo con Elain di quanto ne avessi passato io. Capivano i suoi stati d’animo, sapevano di che cosa aveva bisogno a volte. Fu solo quando Elain e io eravamo nel corridoio, e stavamo portando nella sala da
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pranzo il primo dei piatti da portata, che lei parlò. «Nesta ha detto che non vuole venire al Solstizio.» «Va bene.» Anche se mi si torse qualcosa nel petto. «Ha detto che non vuole venire neanche in altre occasioni. Mai.» Mi fermai, studiando il dolore e la paura che in quel momento lampeggiavano negli occhi di Elain. «Ha detto perché?» «No.» Rabbia: c’era anche rabbia sul viso di Elain. «Ha detto solo... ha detto che noi abbiamo le nostre vite, e lei ha la sua.» Che lo dicesse a me, poteva andar bene. Ma a Elain? Inspirai. Il mio stomaco gorgogliò quando mi si riempì il naso con il profumo di salvia e limone del pollo arrosto che tenevo tra le mani. «Le parlerò.» «No» disse Elain in tono piatto, riprendendo a camminare; veli di vapore le fluttuavano sulle spalle dal piatto di patate al rosmarino arrostite che aveva in mano, come se fossero le ombre di Azriel. «Non ti ascolterà.» Altroché se l’avrebbe fatto. «E tu?» mi costrinsi a chiedere. «Stai... bene?» Elain mi guardò da sopra una spalla quando entrammo nell’atrio, poi girò a sinistra, in sala da pranzo. Nel soggiorno lì di fronte, tutte le conversazioni si interruppero all’odore del cibo. «Perché non dovrei stare bene?» chiese, con il volto illuminato da un sorriso. Avevo già visto quei sorrisi. Sulla mia dannata faccia. Ma gli altri arrivarono precipitosamente dal soggiorno, e Cassian diede un bacio su una guancia a Elain in segno di saluto, poi quasi la sollevò per spostarla e poter andare al tavolo da pranzo. Dopo arrivò Amren che rivolse un cenno del capo a mia sorella. Le luci Fae, sparse sulle ghirlande nell’ingresso, facevano scintillare la sua collana di rubini. Poi Mor, che le schioccò un bacio su ogni guancia. Poi Rhys, scuotendo la testa a Cassian, che aveva iniziato a servirsi dai piatti che Nuala e Cerridwen trasmutavano lì. Dato che Elain viveva con noi, la mia Metà la salutò solo con un sorriso prima di prendere posto alla destra di Cassian. Azriel emerse dal soggiorno, con un bicchiere di vino in mano e le ali ripiegate all’indietro, che lasciavano vedere la sua giacca nera – semplice ma bella – e i pantaloni dello stesso colore. Più che vederla, sentii mia sorella immobilizzarsi mentre Az si avvicinava, e le sussultò la gola. «Hai intenzione di tenerti quel pollo tutta la notte?» mi chiese Cassian dal tavolo. Accigliandomi, andai verso di lui e posai il piatto sulla superficie di legno. «Ci ho sputato dentro» dissi con dolcezza. «Il che lo avrà reso ancora più delizioso» cantilenò Cassian, e subito sorrise. Rhys ridacchiò e bevve un lungo sorso del suo vino. Io andai al mio posto – annidata tra Amren e Mor – in tempo per vedere Elain che diceva ad Azriel: «Ciao». Az non disse niente. No, le si era appena avvicinato.
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Mor si tese, accanto a me. Ma Azriel si limitò a prenderle dalle mani il pesante piatto di patate e a dirle, con una voce dolce come la notte: «Siediti. Ci penso io». Le mani di Elain rimasero a mezz’aria, come se il fantasma del piatto fosse ancora lì tra loro. Poi sbatté le palpebre, abbassò le mani e notò il suo grembiule. «Io... torno subito» mormorò, e corse lungo il corridoio, prima che potessi spiegarle che a nessuno sarebbe importato se si fosse presentata a cena coperta di farina, e che avrebbe potuto semplicemente sedersi. Azriel mise le patate al centro del tavolo e Cassian ci si tuffò. O, almeno, ci provò. Un istante la sua mano stava puntando il cucchiaio da portata; l’istante successivo si era fermata, perché le dita sfregiate di Azriel gli si erano avvolte attorno al polso. «Aspetta» disse Azriel, con voce imperiosa. Mor spalancò la bocca, tanto da farmi temere che i fagiolini mezzo masticati al suo interno cadessero nel piatto. Amren sorrise appena da sopra il bordo del suo bicchiere. Cassian lo fissò inebetito. «Che cosa devo aspettare? La salsa?» Azriel non mollò la presa. «Aspetta che tutti siano seduti prima di mangiare.» «Maiale» aggiunse Mor. Cassian studiò il piatto di fagiolini, pollo, pane e prosciutto già mezzo mangiato nel piatto di Mor. Ma rilassò la mano e si appoggiò allo schienale della sedia. «Non sapevo che tenessi tanto alle buone maniere, Az.» Azriel lasciò la mano di Cassian e fissò il suo bicchiere di vino. Elain entrò, senza grembiule e con i capelli appena intrecciati. «Per favore, non state ad aspettarmi» disse, prendendo posto a capotavola. Cassian lanciò un’occhiataccia ad Azriel. Az badò bene a ignorarlo. Ma Cassian aspettò che Elain si fosse riempita il piatto prima di prendere altro cibo. Lo stesso fecero gli altri. Incrociai lo sguardo di Rhys, che era all’altro lato del tavolo. “Di che si trattava?” Rhys affettò abilmente il suo prosciutto glassato. “Non aveva niente a che fare con Cassian.” “Oh?” Rhys diede un morso e, con il coltello, mi fece cenno di mangiare. “Diciamo solo che l’ha toccato un po’ troppo da vicino.” Vedendomi confusa, aggiunse: “Ha ancora alcune cicatrici per quanto riguarda il modo in cui fu trattata sua madre. Molte cicatrici”. Sua madre, che era stata una serva, quasi una schiava, quando lui era nato. E anche dopo. “Nessuno di noi si preoccupa mai di aspettare che tutti si siedano, men che meno Cassian” dissi. “Può colpire in momenti inaspettati.” Feci del mio meglio per non guardare il cantaombre. “Capisco.” Mi voltai verso Amren e studiai il suo piatto. Piccole porzioni di tutto. «Ti stai ancora abituando?» Amren grugnì, facendo rotolare qua e là le sue carote arrostite al miele. «Il sangue ha un sapore migliore.» Mor e Cassian quasi si strozzarono.
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«E non perdevo tanto tempo per consumarlo» grugnì Amren, sollevando un minuscolo brandello di pollo arrosto verso le labbra dipinte di rosso. Ci volevano pasti piccoli e lenti per Amren. Il primo pasto normale che aveva mangiato al ritorno dalla battaglia, una scodella di zuppa di lenticchie, l’aveva fatta vomitare per un’ora. Quindi era stato necessario un adattamento graduale. Non poteva ancora tuffarsi nei pasti come tendevamo a fare tutti noi. Non sapevamo se era un problema totalmente fisico o se, forse, aveva bisogno di un periodo di adattamento psicologico. «E poi ci sono altre spiacevoli conseguenze del mangiare» continuò Amren, tagliando le sue carote in minuscole schegge. Azriel e Cassian si scambiarono un’occhiata, poi entrambi sembrarono trovare i loro piatti molto interessanti. Anche se un sorriso era spuntato sui loro visi. Elain chiese: «Che tipo di conseguenze?». «Non rispondere» disse subito Rhys, indicando Amren con la forchetta. Amren gli sibilò, con i capelli scuri che ondeggiavano come una cortina di notte liquida: «Sai quanto è disagevole dover trovare un posto per liberarmi ovunque io vada?». Un suono effervescente provenne dal lato del tavolo dov’era Cassian, ma io strinsi le labbra. Mor mi afferrò un ginocchio sotto il tavolo; tremava per lo sforzo di tenere a freno la sua risata. Rhys chiese ad Amren: «Vuoi che cominciamo a costruire bagni pubblici per te in tutta Velaris, Amren?». «Dico sul serio, Rhysand» scattò Amren. Non osavo incrociare lo sguardo di Mor. O di Cassian. Uno sguardo e mi sarei dissolta in risate. Amren agitò una mano verso di sé. «Avrei dovuto scegliere una forma maschile. Almeno puoi tirarlo fuori e andare dove ti pare senza doverti preoccupare di versare...» Cassian perse la battaglia contro l’ilarità. Poi Mor. Poi io. E persino Az ridacchiò un po’. «Davvero non sai ancora come fare la pipì?» ruggì Mor. «Dopo tutto questo tempo?» Amren ribolliva. «Ho visto animali...» «Dimmi che sai come funziona un gabinetto» esplose Cassian, battendo il palmo aperto sul tavolo. «Dimmi che sai almeno questo.» Mi premetti una mano sulla bocca, come se potessi ricacciare indietro la risata. Dall’altra parte del tavolo, gli occhi di Rhys erano più luminosi delle stelle e la sua bocca una linea tremante mentre cercava, senza riuscirci, di rimanere serio. «So come sedermi sulla tazza» ringhiò Amren. Mor aprì la bocca, con l’ilarità che le danzava sul viso, ma Elain chiese: «Avresti potuto farlo? Avresti potuto decidere di assumere una forma maschile?». La domanda interruppe di colpo le risate, come una freccia scoccata tra noi. Amren studiò mia sorella, che era arrossita per quel nostro discorso a tavola. «Sì» disse semplicemente. «Prima, nella mia altra forma, non ero né l’uno né l’altro. Semplicemente ero.» «Allora perché scegliesti quel corpo?» chiese Elain, mentre le curve della sua treccia castano-dorato catturavano la luce Fae del lampadario. «Ero più attratta dalla forma femminile» rispose semplicemente Amren. «Pensai che era più simmetrica. Mi appagava.»
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Mor guardò accigliata la sua stessa forma, i suoi considerevoli pregi. «Vero.» Cassian ridacchiò. Elain chiese: «E dopo esserti ritrovata in quel corpo, non potevi cambiare?». Gli occhi di Amren si strinsero leggermente. Raddrizzai la schiena e spostai lo sguardo tra l’una e l’altra. Era insolito che Elain parlasse tanto, ma stava migliorando. La maggior parte dei giorni era lucida, forse silenziosa e incline alla malinconia, ma consapevole. Elain, con mia sorpresa, sostenne lo sguardo di Amren. Dopo un momento Amren disse: «Me lo chiedi perché ti incuriosisce il mio passato o il tuo futuro?». La domanda mi lasciò troppo sbalordita per pensare a rimproverare Amren. Lo stesso accadde agli altri. La fronte di Elain si aggrottò prima che potessi intervenire. «Che cosa intendi?» «Non si può tornare a essere umani, ragazza» disse Amren, forse con una traccia di gentilezza. «Amren» la ammonii. Elain arrossì ulteriormente e drizzò la schiena. Ma non scappò. «Non so di che cosa tu stia parlando.» Non avevo mai sentito la voce di Elain così fredda. Guardai gli altri. Rhys era accigliato, Cassian e Mor stavano entrambi facendo una smorfia, e Azriel... C’era compassione sul suo bel viso, mentre guardava mia sorella. Compassione e dolore. Erano mesi che Elain non parlava dell’essere stata Creata, o del Calderone, o di Graysen. Avevo pensato che forse si stesse abituando a essere una Fae Superiore, che forse avesse iniziato a distaccarsi dalla sua vita mortale. «Amren, hai un vero talento per rovinare la conversazione a cena» disse Rhys, facendo roteare il suo vino. «Chissà, forse potresti farne una carriera.» La sua seconda in comando lo fulminò con gli occhi. Ma Rhys sostenne il suo sguardo, con un ammonimento silenzioso sul viso. “Grazie” dissi lungo l’Unione. In risposta mi giunse una calda carezza. «Scegliti avversari della tua stessa taglia» disse Cassian ad Amren, infilandosi con foga il pollo arrosto in bocca. «Mi dispiacerebbe per i topi» borbottò Azriel. Mor e Cassian ulularono divertiti, guadagnandosi un rossore da parte di Azriel e un sorriso di gratitudine da parte di Elain, e non mancarono occhiate truci da parte di Amren. Ma qualcosa in me si rilassò sentendo quella risata, vedendo tornare la luce negli occhi di Elain. Non avrei permesso che quella luce si attenuasse ulteriormente. “Devo uscire dopo cena” dissi mentalmente a Rhys mentre riprendevo a mangiare. “Ti andrebbe un volo fino all’altro capo della città?” Nesta non apriva la porta. Bussai forse per due minuti abbondanti, fissando accigliata il corridoio poco illumina-
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to dell’edificio fatiscente in cui aveva scelto di vivere, poi inviai un filo di magia attraverso l’appartamento oltre quella porta. Rhys aveva eretto barriere intorno all’intero edificio, e con la nostra magia unita, l’unione delle nostre anime, non c’era possibilità di resistere al filo di potere che avevo proiettato attraverso la porta e dentro l’appartamento stesso. Niente. Nessun segno di vita o... o peggio ancora. Non era a casa. Avevo una buona idea di dove potesse essere. Quando tornai sulla strada gelata, vorticai le braccia per mantenermi in equilibrio mentre i miei stivali scivolavano sul ghiaccio che ricopriva le pietre. Appoggiato a un lampione, Rhys ridacchiò e non si mosse di un pollice. La luce Fae gli indorava gli artigli in cima alle ali. «Stronzo» bofonchiai. «La maggior parte dei maschi aiuterebbe la sua Metà se stesse per spaccarsi la testa sul ghiaccio.» Si staccò dal lampione e venne verso di me, ogni movimento fluido e calmo. Anche dopo tutto quel tempo, avrei passato ore a guardarlo. «Ho la sensazione che, se fossi intervenuto, mi avresti staccato la testa a morsi per essermi comportato come una chioccia prepotente. Mi hai già chiamato così.» Brontolai una risposta che lui scelse di non sentire. «Non è a casa, allora?» Brontolai di nuovo. «Be’, ci sono esattamente altri dieci posti in cui potrebbe essere.» Feci una smorfia. Rhys chiese: «Vuoi che la cerchi?». Non parlava di andare a cercarla fisicamente, ma di usare il suo potere per trovare Nesta. Non avevo voluto che lo facesse prima, perché mi sembrava una sorta di violazione della sua intimità, ma visto che faceva un freddo tremendo... «Va bene.» Rhys mi circondò con le braccia e poi con le ali, avvolgendomi nel suo calore, mentre mi mormorava tra i capelli: «Tieniti forte». L’oscurità e il vento turbinarono attorno a noi, e io nascosi il viso sul suo petto, inspirando il suo odore. Poi ci furono risate e canti, musica ad alto volume, l’odore pungente della birra stantia, il morso del freddo... Gemetti quando vidi dove ci aveva trasmutati, dove aveva individuato mia sorella. «Ci sono cantine in questa città» disse Rhys, rabbrividendo. «Ci sono sale da concerto. Ristoranti raffinati. Circoli eleganti. Eppure tua sorella...» Eppure mia sorella era riuscita a trovare le taverne più squallide e miserabili di Velaris. Non erano molte. Ma lei le frequentava tutte. E quella, la Tana del lupo, era di gran lunga la peggiore. «Aspetta qui» dissi sopra il suono di violini e tamburi che fuoriusciva dalla taverna,
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mentre mi staccavo dal suo abbraccio. In fondo alla strada, alcuni festaioli ubriachi ci avvistarono e tacquero. Sentirono il potere di Rhys, forse anche il mio, e decisero di andare altrove per un po’. Di sicuro sarebbe accaduto lo stesso nella taverna, e di sicuro Nesta si sarebbe risentita perché le avevamo rovinato la serata. Perlomeno, da sola, sarei potuta passare più o meno inosservata. Sapevo che, se fossimo entrati entrambi, mia sorella si sarebbe sentita attaccata. Quindi sarei andata io. Da sola. Rhys mi baciò la fronte. «Se qualcuno ti fa una proposta, digli che saremo liberi tutti e due tra un’oretta.» «Sciò.» Gli feci cenno di andarsene e ridussi i miei poteri a una specie di sussurro dentro di me. Mi mandò un bacio. Scacciai anche quello con un cenno e attraversai la porta della taverna.
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ia sorella non aveva compagni di bevute. Per quel che ne sapevo, usciva da sola e si trovava compagnia nel corso della notte. E ogni tanto portava qualcuno a casa con sé. Non le avevo chiesto niente. Non ero nemmeno sicura di quale fosse stata la sua prima volta. Non osavo nemmeno chiedere a Cassian se lo sapeva. Dopo la guerra si erano scambiati a malapena qualche parola. E quando mi immersi nella musica popolare della Tana del lupo e individuai mia sorella, seduta con tre maschi a un tavolo rotondo e poco illuminato in fondo alla taverna, potei quasi vedere incombere dietro di lei lo spettro di quella giornata contro Hybern. Sembrava che avesse perso ogni oncia di peso che aveva guadagnato Elain. Il suo viso si era fatto ancor più orgoglioso e spigoloso di prima, gli zigomi parevano abbastanza affilati da tagliare. Aveva i capelli raccolti nella solita coroncina intrecciata, indossava il suo abito grigio preferito ed era, come sempre, perfettamente pulita nonostante il tugurio in cui si trovava. Nonostante fosse in una taverna puzzolente e surriscaldata che aveva visto anni migliori. Secoli migliori. Una regina senza trono. Ecco come avrei chiamato il dipinto che mi venne in mente. Gli occhi di Nesta, dello stesso grigio-azzurro dei miei, si sollevarono nell’istante in cui mi chiusi alle spalle la porta di legno. Nulla balenò sul suo viso, oltre a un vago disprezzo. I tre Fae Superiori al suo tavolo erano tutti abbastanza ben vestiti, per essere frequentatori di quel posto.
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“Probabilmente sono damerini benestanti che esplorano la vita notturna.” Trattenni una smorfia quando la voce di Rhys mi colmò la testa. “Fatti gli affari tuoi.” “A proposito, tua sorella li sta battendo a carte con molta facilità.” “Ficcanaso.” “Tu ami la mia curiosità.” Strinsi le labbra e inviai un gesto volgare lungo l’Unione mentre mi avvicinavo al tavolo di mia sorella. La risata di Rhys rimbombò contro i miei scudi, come un tuono punteggiato di stelle. Nesta tornò semplicemente a fissare il ventaglio di carte che aveva in mano; la sua postura era l’epitome di una gloriosa noia. Ma i suoi compagni mi guardarono quando mi fermai proprio sul bordo del loro tavolo di legno macchiato e sfregiato. Bicchieri mezzi pieni di liquido ambrato, mantenuti freddi grazie a una qualche magia della taverna, erano coperti da goccioline di condensa. Il maschio all’altro lato del tavolo – un bel Fae Superiore dall’aspetto sbarazzino, con i capelli come oro filato – incrociò il mio sguardo. La sua mano di carte cadde sul tavolo mentre chinava la testa. Gli altri seguirono il suo esempio. Solo mia sorella, che stava ancora studiando le carte, rimase indifferente. «Mia signora» disse un maschio magro dai capelli scuri, lanciando un’occhiata diffidente a mia sorella. «Come possiamo esserti utili?» Nesta non alzò nemmeno lo sguardo, mentre sistemava una delle sue carte. Bene. Sorrisi dolcemente ai suoi compagni. «Mi dispiace molto interrompere la vostra serata, gentiluomini.» Avrei dovuto dire maschi, supponevo. Un residuo della mia vita umana, che il terzo maschio rilevò inarcando appena un sopracciglio spesso. «Ma vorrei scambiare qualche parola con mia sorella.» Era un congedo abbastanza chiaro. Si alzarono tutti insieme, lasciarono lì le carte e presero i loro bicchieri. «Andiamo a farceli riempire» dichiarò quello dai capelli dorati. Aspettai che arrivassero al bancone, senza guardarsi alle spalle, e poi scivolai sul sedile traballante che aveva lasciato libero quello con i capelli scuri. Lentamente, gli occhi di Nesta si alzarono verso i miei. Mi appoggiai allo schienale della sedia, facendo gemere il legno. «Quale ti saresti portato a casa stasera?» Nesta riunì le sue carte con uno scatto e le posò sul tavolo a faccia in giù. «Non l’avevo ancora deciso.» Parole gelide e piatte. L’accompagnamento perfetto per l’espressione sul suo viso. Mi limitai ad attendere. Anche Nesta attendeva. Immobile come un animale. Immobile come la morte. Una volta mi ero chiesta se fosse quello il suo potere. La maledizione che le aveva inflitto il Calderone.
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Niente di ciò che avevo visto – intravisto – in quei momenti contro Hybern era sembrato morte. Solo bruto potere. Ma l’Intagliaossa l’aveva sussurrato. E io l’avevo vista brillare fredda e luminosa nei suoi occhi. Ma non la vedevo da mesi, ormai. Non che l’avessi frequentata molto. Passò un minuto. Poi un altro. Silenzio assoluto, fatta eccezione per l’allegra musica del gruppo di quattro elementi all’altro lato dello stanzone. Potevo aspettare. Potevo stare lì ad aspettare tutta la dannata notte. Nesta si appoggiò allo schienale della sedia, con l’evidente intenzione di fare altrettanto. “Io punto su tua sorella” disse Rhys lungo l’Unione. “Taci.” “Sto prendendo freddo, qui fuori.” “Piccolo Illyrian.” Una risatina cupa, poi l’Unione tacque di nuovo. «Quella tua specie di “Metà” starà al freddo tutta la notte?» Sbattei le palpebre, chiedendomi se avesse potuto percepire i pensieri che ci eravamo scambiati. «Chi ti dice che sia qui?» Nesta sbuffò. «Dove va uno, segue l’altro.» Mi impedii di pronunciare tutte le potenziali risposte che mi erano balzate sulla lingua. Chiesi invece: «Elain ti ha invitata a cena stasera. Perché non sei venuta?». Il sorriso di Nesta fu lento, affilato come una lama. «Volevo sentire suonare questi musicisti.» Lanciai uno sguardo al gruppo. Più bravi del gruppo medio da osteria, ma non erano un granché come scusa. «Lei ti voleva lì.» “E io ti volevo lì” pensai. Nesta si strinse nelle spalle. «Avrebbe potuto mangiare qui con me.» «Sai bene che Elain non si sentirebbe a suo agio in un posto come questo.» Inarcò un sopracciglio ben curato. «Un posto come questo? Che posto sarebbe?» Alcune persone si stavano voltando verso di noi. Signora Suprema... io ero la Signora Suprema. Insultare quel posto e le persone che lo frequentavano non mi avrebbe fatto guadagnare sostenitori. «Elain non sopporta gli affollamenti.» «Non era così.» Nesta fece roteare il liquido ambrato nel suo bicchiere. «Amava i balli e le feste.» Altre parole rimasero inespresse: “Ma tu e la tua corte ci avete trascinate in questo mondo. Le avete portato via quella gioia”. «Se ti prendessi la briga di passare da casa, vedresti che si sta riadattando. Ma i balli e le feste sono un’altra cosa. Elain non ha mai frequentato taverne, in passato.» Nesta aprì la bocca, senza dubbio per cambiare discorso ed evitare il motivo per cui ero andata lì. Quindi la interruppi prima che potesse farlo. «Non è questo il punto.» Occhi gelidi come l’acciaio fissarono i miei. «Puoi arrivarci, allora? Vorrei tornare al mio gioco.» Pensai se spargere le carte sul pavimento viscido di birra. «Il Solstizio è dopodomani.» Niente. Nemmeno un battito di ciglia.
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Intrecciai le dita e le misi sul tavolo in mezzo a noi. «Che cosa posso dire per farti venire?» «Per amore di Elain o per te?» «Per entrambe.» Un altro sbuffo. Nesta esaminò la stanza; ormai tutti badavano bene a non guardarci. Sapevo che, senza che ci fosse bisogno di chiederglielo, Rhys aveva creato una barriera del suono attorno a noi. Alla fine, mia sorella si voltò a guardarmi. «Mi vuoi corrompere, allora?» Non trasalii. «Voglio vedere se sei disposta a ragionare. Se posso fare in modo che per te ne valga la pena.» Nesta piantò la punta dell’indice sopra il mazzo di carte e le aprì a ventaglio sul tavolo. «Non è nemmeno una nostra festività. Noi non abbiamo festività.» «Forse dovresti provarci. Potresti divertirti.» «Come ho detto a Elain: voi avete le vostre vite e io ho la mia.» Lanciai di nuovo uno sguardo alla taverna. «Perché? Perché vuoi la distanza a tutti i costi?» Si sistemò meglio sul sedile e incrociò le braccia. «E perché dovrei far parte della tua allegra piccola brigata?» «Sei mia sorella.» Di nuovo, quello sguardo vuoto e freddo. Attesi. «Non verrò alla tua festa» disse. Se Elain non era riuscita a convincerla, di certo non ci sarei riuscita io. Chissà perché non l’avevo capito prima. Prima di sprecare il mio tempo. Ma feci ancora un tentativo... un ultimo tentativo. Per amore di Elain. «Papà vorrebbe che tu...» «Non finire quella frase.» Nonostante lo scudo acustico attorno a noi, non c’era nulla che impedisse di vedere mia sorella che scopriva i denti. Di vedere le sue dita che si piegavano in artigli invisibili. Il naso di Nesta si increspò di rabbia pura mentre ringhiava: «Vattene». Una scenata. Stava per diventare una tremenda scenata. Così mi alzai e nascosi il tremore delle mie mani stringendole a pugno lungo i fianchi. «Per favore, vieni» fu tutto quello che dissi prima di voltarmi verso la porta. Il percorso tra il suo tavolo e l’uscita mi sembrava molto lungo. Vedevo incombere tutte le facce a cui dovevo passare accanto. «Il mio affitto» disse Nesta dopo che ebbi fatto due passi. Mi arrestai. «L’affitto?» Sorseggiò dal suo bicchiere. «Il pagamento è previsto per la settimana prossima. In caso te lo fossi dimenticato.» Era totalmente seria. Risposi con voce asciutta: «Vieni al Solstizio e mi assicurerò che venga consegnato». Nesta aprì la bocca, ma io mi voltai di nuovo, fissando ogni volto stupito che mi guardava passare. Sentii lo sguardo di mia sorella che mi perforava la schiena, in mezzo alle scapole, per tutto il tragitto fino a quella porta d’ingresso. E per tutto il volo di ritorno.
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nche se gli operai interrompevano di rado le riparazioni, ci sarebbero voluti ancora anni prima che la ricostruzione fosse conclusa. Soprattutto lungo la Sidra, dove Hybern aveva inflitto i danni peggiori. Delle tenute e delle case un tempo grandiose, lungo l’ansa sudorientale del fiume, rimanevano quasi solo macerie; i loro giardini coperti di vegetazione e le rimesse per barche private erano semisommerse nel dolce flusso delle acque turchesi. Ero cresciuto tra quelle case, avevo partecipato alle feste e ai banchetti che duravano fino a tarda notte, avevo trascorso luminose giornate estive oziando sui prati in pendenza, acclamando le regate sulla Sidra. Le facciate di quelle case mi erano familiari come i visi dei miei amici. Erano state costruite molto prima che io nascessi. Mi ero aspettato che durassero più a lungo di me. «Le famiglie non ti hanno detto quando torneranno, vero?» Udii la domanda di Mor al di sopra dello scricchiolio della ghiaia chiara sotto i nostri piedi, mentre camminavamo sui terreni coperti di neve di una di queste proprietà. Mi aveva trovato dopo pranzo, un pasto solitario, cosa rara in quel periodo. Feyre ed Elain erano a fare acquisti in città e, quando mia cugina era apparsa nell’atrio della casa di città, l’avevo subito invitata a fare una passeggiata. Era passato molto tempo dall’ultima volta che io e Mor avevamo camminato insieme. Non ero così stupido da credere che, con la fine della guerra, fossero guarite tutte le ferite. Soprattutto quelle tra me e Mor.
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E non ero così stupido da ignorare il fatto che stavo rimandando questa passeggiata da un bel po’, e che lei aveva fatto altrettanto. Avevo visto i suoi occhi diventare distanti, quella sera alla Città Spaccata. Il suo silenzio dopo il ringhio iniziale di ammonimento a suo padre mi aveva detto abbastanza sul percorso della sua mente. Era un’altra vittima di quella guerra: dover collaborare con Keir ed Eris aveva offuscato qualcosa in mia cugina. Oh, lo nascondeva bene. A parte quando si era trovata faccia a faccia con i due maschi che l’avevano... Non mi permisi di concludere quel pensiero, di evocare quel ricordo. Anche cinque secoli dopo, la rabbia minacciava di inghiottirmi tanto da farmi distruggere la Città Spaccata e la Corte dell’Autunno. Ma spettava a lei uccidere quelle persone. Era sempre stato così. Non le avevo mai chiesto perché avesse aspettato così a lungo. Avevamo girato tranquillamente nella città per una mezz’ora, passando quasi inosservati. Una piccola benedizione del Solstizio: erano tutti troppo impegnati con i loro preparativi, per fare caso a chi passeggiava nelle strade gremite. Non avevo idea di come fossimo finiti in quella zona. Ma eccoci lì, e come unica compagnia avevamo i blocchi di pietra caduti e spaccati, le erbacce secche per l’inverno e il cielo grigio. «Le famiglie» dissi infine «sono nelle loro altre tenute.» Li conoscevo tutti, nobili e ricchi mercanti che avevano lasciato la Città Spaccata molto prima che le due metà del mio regno venissero ufficialmente separate. «E non contano di tornare presto.» Forse non sarebbero mai tornate. Avevo sentito da una di loro, la matriarca di un impero mercantile, che probabilmente avrebbe venduto la sua proprietà piuttosto che affrontare la dura prova di ricostruire da zero. Mor annuì distrattamente; il vento gelido le sferzava ciocche di capelli sul viso mentre si fermava nel mezzo di quello che una volta era stato un giardino formale, che scendeva dalla casa al fiume ghiacciato stesso. «Keir verrà qui presto, vero?» Era rarissimo che lo chiamasse “mio padre”. Certo non la biasimavo. Quel maschio non era suo padre da secoli. Da molto prima di quel giorno imperdonabile. «Sì.» Ero riuscito a tenere a bada Keir, da quando la guerra era finita. Ma mi ero preparato: sapevo che – indipendentemente da quanto lavoro gli assegnassi, indipendentemente dalle mie interruzioni delle visite di Eris – avrebbe visitato quella città. Forse avevo provocato io quella situazione, imponendo il confinamento della Città Spaccata per così tanto tempo. Forse le loro orribili tradizioni e le loro menti ristrette non avevano fatto che peggiorare durante quel lunghissimo periodo. Quel territorio era loro, sì, ma non avevo dato loro nient’altro. Non mi stupiva che fossero così curiosi nei confronti di Velaris. Anche se Keir desiderava visitarla solo per tormentare sua figlia. «Quando?»
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«Probabilmente in primavera, se ho indovinato.» La gola di Mor sussultò, il suo viso si gelò in un modo a cui avevo assistito molto raramente. In un modo che odiavo, se non altro perché era colpa mia. Mi ero detto che ne era valsa la pena. Gli Oscuranti di Keir erano stati cruciali per la nostra vittoria. E lui aveva subito perdite per questo. Quel maschio era un vero coglione, ma aveva fatto la sua parte. Non avevo altra scelta che fare la mia. Mor mi esaminò dalla testa ai piedi. Avevo optato per una giacca nera in lana più pesante e avevo rinunciato alle ali. Il fatto che Cassian e Azriel soffrissero, perché si congelavano le ali, non significava che dovessi farlo anch’io. Rimasi immobile, lasciando che Mor arrivasse alle sue conclusioni. «Mi fido di te» disse alla fine. Chinai la testa. «Grazie.» Agitò una mano e si mise di nuovo a passeggiare lungo i sentieri di ghiaia chiara del giardino. «Ma vorrei ancora che ci fosse stato un altro modo.» «Anch’io.» Attorcigliò le estremità della sua grossa sciarpa rossa e poi le infilò nel cappotto marrone. «Se tuo padre viene qui» proposi «posso fare in modo che tu sia altrove.» Non aveva importanza che fosse stata lei a insistere per il confronto con il castaldo ed Eris, quella sera. Lei si accigliò. «Ne dedurrebbe, e a ragione, che mi sono nascosta. Non gli darò questa soddisfazione.» Non era il caso di chiederle se pensava che sarebbe venuta anche sua madre. Non parlavamo della madre di Mor. Mai. «Qualunque cosa tu decida, ti sosterrò.» «Lo so.» Si fermò tra due piccoli bossi e guardò il fiume gelido al di là. «E sai che Az e Cassian li terranno d’occhio come falchi per tutta la visita. Stanno preparando i protocolli di sicurezza da mesi, ormai.» «Davvero?» Annuii gravemente. Mor fece un sospiro. «Vorrei che potessimo ancora minacciare di scatenare Amren sulla Città Spaccata.» Sbuffai e guardai, oltre il fiume, il quartiere appena visibile sopra l’altura. «Una parte di me si chiede se lo desideri anche Amren.» «Presumo che le farai uno splendido regalo.» «Neve stava praticamente saltellando di gioia quando sono uscito dal negozio.» Una risatina. «Che cosa hai preso per Feyre?» Infilai le mani nelle tasche. «Questo e quello.» «Niente, quindi.» Mi passai le dita tra i capelli. «Niente. Qualche idea?» «È la tua Metà. Non dovrebbe esserci un istinto per cose del genere?» «È impossibile fare acquisti per lei.» Mor mi lanciò uno sguardo ironico. «Patetico.»
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Le diedi un colpetto con un gomito. «Che cosa le hai comprato tu?» «Per saperlo, dovrai aspettare la sera del Solstizio.» Alzai gli occhi al cielo. In tutti i secoli passati da quando l’avevo conosciuta, Mor non era migliorata nella scelta dei regali. Avevo un cassetto pieno di orribili gemelli che non avevo mai usato, un paio più sgargiante dell’altro. Ero fortunato, però: Cassian aveva un baule pieno zeppo di camicie di seta di vari colori dell’arcobaleno. Alcune avevano persino le balze. Potevo solo immaginare gli orrori in serbo per la mia Metà. Sottili lastre di ghiaccio scivolavano pigramente lungo la Sidra. Non osavo chiedere a Mor di Azriel, che cosa gli avrebbe regalato, che intenzioni aveva nei suoi confronti. Non mi andava di essere scaraventato in quel fiume ghiacciato. «Avrò bisogno di te, Mor» dissi a bassa voce. Il divertimento negli occhi di Mor si trasformò in attenzione da predatrice. C’era una ragione per cui aveva fatto la sua parte in battaglia e poteva lottare contro qualsiasi Illyrian. Io e i miei fratelli avevamo supervisionato gran parte del suo addestramento, ma per anni lei aveva viaggiato in altri regni, in altri territori, per imparare quello che sapevano fare loro. Proprio per quel motivo dissi: «Non riguarda Keir e la Città Spaccata, e neanche la necessità di mantenere la pace abbastanza a lungo perché le cose si stabilizzino». Incrociò le braccia, in attesa. «Az può infiltrarsi nella maggior parte delle Corti, nella maggior parte dei territori. Ma potrei aver bisogno di te per persuadere quelle terre.» Perché i pezzi che erano sparsi sul tavolo... «I negoziati sul trattato si stanno trascinando troppo a lungo.» «Non sta succedendo niente.» Era vero. Troppi alleati titubanti avevano detto di essere occupati con la ricostruzione, e che si sarebbero riuniti di nuovo in primavera per discutere i nuovi termini. «Non dovresti stare via per mesi. Solo qualche visita qua e là. Visite informali.» «Informali, ma dovrei far capire a regni e territori che, se si spingono troppo oltre o entrano in terre umane, li spazzeremo via?» Feci una mezza risata. «Qualcosa del genere. Az ha un elenco dei regni che hanno maggiori probabilità di oltrepassare il limite.» «Se io svolazzerò per il continente, chi si occuperà della Corte degli Incubi?» «Lo farò io.» I suoi occhi marroni si socchiusero. «Non lo fai perché pensi che io non sia in grado di gestire Keir, vero?» Terreno molto, molto pericoloso. «No» risposi, e non mentivo. «Penso che tu ne sia in grado. So che lo sei. Ma i tuoi talenti sono più utili altrove, al momento. Keir vuole creare legami con la Corte dell’Autunno; lasciaglielo fare. Qualunque cosa stiano tramando lui ed Eris, sanno che li stiamo tenendo d’occhio, e sanno quanto sarebbe stupido se uno di loro ci provocasse. Una parola a Beron, e la testa di Eris rotolerà.» Allettante. Era fortissima la tentazione di dire al Signore Supremo dell’Autunno che suo figlio maggiore ambiva al suo trono e che era disposto a prenderlo con la forza. Ma avevo anche fatto un patto con Eris. Forse era stata una follia, ma solo il tempo l’avrebbe rivelato.
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Mor giocherellò con la sua sciarpa. «Non ho paura di loro.» «Lo so.» «È solo che... stare vicino a loro, insieme...» Si ficcò le mani nelle tasche. «Probabilmente è come ti senti tu vicino a Tamlin.» «Se può consolarti, cugina, l’altro giorno mi sono comportato piuttosto male.» «È morto?» «No.» «Allora direi che ti sei controllato in modo ammirevole.» Risi. «Sembri assetata di sangue, Mor.» Alzò le spalle e guardò di nuovo il fiume. «Se lo merita.» Lo meritava davvero. Mi guardò di sbieco. «Quando dovrei partire?» «Fra qualche settimana, forse tra un mese.» Annuì e tacque. Avrei potuto chiederle se voleva sapere dove sarebbe potuta andare per iniziare, secondo me e Azriel, ma il suo silenzio era molto eloquente: sarebbe andata ovunque. Era stata rinchiusa entro i confini di quella corte per troppo tempo. La guerra contava ben poco. E non sarebbe successo dopo un mese, o forse neanche dopo qualche anno, ma lo vedevo: c’era un cappio invisibile che le stringeva il collo un po’ di più, ogni giorno che passava lì. «Prenditi qualche giorno per pensarci» le proposi. Girò la testa verso di me e i capelli dorati catturarono la luce. «Hai detto che avevi bisogno di me. Non sembrava che io avessi molte possibilità di scelta.» «Hai sempre una scelta. Se non vuoi andare, va bene.» «E chi lo farebbe al mio posto? Amren?» Uno sguardo d’intesa. Risi di nuovo. «Certo non Amren. Non se vogliamo la pace.» E poi aggiunsi: «Fammi solo un favore e prenditi un po’ di tempo per pensarci, prima di dire di sì. Considerala una proposta, non un ordine». Tacque ancora una volta. Insieme, guardammo i banchi di ghiaccio che scivolavano lungo la Sidra, verso il mare lontano e selvaggio. «Vince lui, se vado?» Una domanda sommessa, esitante. «Questo puoi deciderlo solo tu.» Mor si voltò verso la casa in rovina e il terreno dietro di noi. Ma mi accorsi che non fissava quelli: guardava verso est. Verso il continente e le terre al suo interno. Come se si stesse chiedendo che cosa poteva attenderci lì.
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ovevo ancora trovare un regalo per Rhysand, o almeno farmi venire una vaga idea di che cosa donargli per il Solstizio. Per fortuna, Elain mi si avvicinò silenziosamente a colazione; Cassian era ancora praticamente svenuto sul divano del salotto di fronte all’atrio e non c’era traccia di Azriel sul divano di fronte a lui su cui si era addormentato. Entrambi erano stati troppo pigri – e forse un po’ troppo ubriachi, dopo tutto il vino che avevamo bevuto la notte prima – per trascinarsi fino alla minuscola camera degli ospiti che avrebbero condiviso durante il Solstizio. Mor aveva preso la mia vecchia camera da letto, senza preoccuparsi di tutte le cose che vi avevo stipato, e Amren era tornata nel suo appartamento alle prime ore del mattino, quando finalmente eravamo andati a letto. Sia la mia Metà sia Mor stavano ancora dormendo, e io ero stata contenta di lasciarli dormire. Si erano meritati quel riposo. Ce lo meritavamo tutti. Ma Elain pareva insonne tanto quanto me (io lo ero soprattutto per la bruciante conversazione con Nesta, che neanche il vino che avevo bevuto una volta a casa aveva potuto smorzare) e voleva sapere se mi interessava una passeggiata in città; mi aveva fornito una scusa perfetta per andare a fare altri acquisti. Com’era decadente. Mi sembrava decadente ed egoista fare acquisti, anche se era per le persone che amavo. In città – e fuori – c’erano tante persone che non avevano quasi nulla, e mi irritava ogni momento che passavo a sbirciare nelle vetrine e a far scorrere le dita sulle varie merci. «So che non è facile per te» osservò Elain mentre vagavamo nella bottega di una tessi-
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trice, ammirando i begli arazzi, i tappeti e le coperte su cui aveva raffigurato varie scene della Corte della Notte: Velaris sotto il bagliore della Notte delle Stelle, le coste rocciose e selvagge delle isole settentrionali, le stele dei templi di Cesere, i simboli della Corte, cioè le tre stelle che incoronavano un picco montano. Smisi di guardare un rivestimento murale con quella immagine e mi voltai. «Che cosa non è facile?» Le nostre voci erano poco più che un mormorio in quello spazio tranquillo e caldo, per rispetto verso gli altri che ammiravano le opere. Gli occhi castani di Elain vagarono sulle insegne della Corte della Notte. «Acquistare cose senza un disperato bisogno di farlo.» In fondo alla bottega a volta, rivestita di pannelli di legno, un telaio vibrò e scattò mentre l’artista dai capelli scuri continuava il suo lavoro, fermandosi solo per rispondere alle domande dei clienti. Com’era diverso... Quel posto era così diverso dalla casa degli orrori che era appartenuta alla Tessitrice del Bosco. A Stryga. «Abbiamo tutto il necessario» ammisi a Elain. «Comprare regali mi sembra eccessivo.» «È la loro tradizione, però» ribatté Elain, con il viso ancora arrossato dal freddo. «Durante la guerra hanno combattuto e sono morti per proteggere anche questa tradizione. Forse è meglio vederla così, invece che sentirsi in colpa. Meglio ricordare che questa giornata significa qualcosa per loro. Per tutti loro, indipendentemente da chi ha di più, chi ha meno. E nel seguire le tradizioni, anche attraverso i regali, onoriamo coloro che hanno lottato per la loro stessa esistenza, per la pace di cui gode adesso questa città.» Per un momento mi limitai a fissare mia sorella, meravigliandomi per la saggezza che aveva appena espresso. Non c’erano tracce dei suoi poteri profetici. Solo occhi limpidi e un’espressione aperta. «Hai ragione» dissi, e mi misi a guardare l’insegna davanti a me. L’arazzo era stato tessuto con un filato così nero che sembrava divorare la luce, così nero che quasi stancava gli occhi. Il ricamo, tuttavia, era in filo d’argento, no, non d’argento: in una sorta di filo iridescente che, a ogni movimento, creava scintille di colori. Come se fosse stata intessuta la luce delle stelle. «Stai pensando di comprarlo?» chiese Elain. Non aveva comprato niente durante l’ora che avevamo già passato fuori, ma abbastanza spesso si era fermata a riflettere. Le serviva un regalo per Nesta, aveva detto. Stava cercando un regalo per nostra sorella, anche senza sapere se si sarebbe degnata di unirsi a noi l’indomani. Ma Elain era sembrata più che soddisfatta di limitarsi a guardare la città ronzante di vita, di ammirare i filamenti scintillanti di luce Fae tra gli edifici e sulle piazze, di provare tutti gli assaggi di cibo offerti da un venditore zelante, di ascoltare i menestrelli che suonavano vicino alle fontane attualmente silenziose. Come se, quel giorno, anche mia sorella avesse avuto bisogno di una scusa per uscire di casa. «Non so a chi potrei regalarlo» ammisi, allungando un dito verso la stoffa nera dell’arazzo. Quando la mia unghia toccò la superficie morbida come il velluto, sembrò svanire.
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Come se il materiale avesse davvero assorbito tutto il colore, tutta la luce. «Ma...» Guardai la tessitrice all’altra estremità della galleria, che aveva sul telaio metà di un’altra opera. Lasciando incompiuto il mio pensiero, andai verso di lei. La tessitrice era una Fae Superiore, con una figura piena e la pelle chiara. Aveva una ciocca di capelli neri intrecciata dietro alla testa, che le ricadeva lungo la spalla del suo spesso maglione rosso. Pratici pantaloni marroni e stivali foderati di lana completavano il suo abbigliamento. Abiti semplici e comodi. Quello che avrei potuto indossare io per dipingere. O per fare qualsiasi altra cosa. Quello che stavo indossando sotto il mio pesante cappotto blu, a dir la verità. La tessitrice interruppe il suo lavoro, fermò le dita abili e alzò la testa. «Come posso esserti utile?» Nonostante il suo bel sorriso, gli occhi grigi erano... silenziosi. Non sapevo in che altro modo definirli. Silenziosi, e un po’ distanti. Il sorriso cercava di compensare, ma non riusciva a mascherare la pesantezza al loro interno. «Volevo sapere dell’arazzo con l’insegna» dissi. «Quel tessuto nero... che cos’è?» «Me lo chiedono almeno una volta all’ora» disse la tessitrice; sorrideva ancora, ma non c’era allegria nei suoi occhi spenti. Mi tirai un po’ indietro. «Mi dispiace aggiungermi alla lista.» Elain si spostò al mio fianco, con una coperta pelosa rosa in una mano e una viola nell’altra. La tessitrice respinse le mie scuse con un cenno della mano. «È un filato insolito. Le domande sono previste.» Passò una mano sulla cornice di legno del telaio. «Io lo chiamo Vuoto. Assorbe la luce. Crea una completa mancanza di colore.» «L’hai fatto tu?» chiese Elain, girando la testa per guardare l’arazzo. Un solenne cenno del capo. «Un mio nuovo esperimento. Per capire come si possa creare, tessere l’oscurità. Per vedere se potevo andare più lontano, più in profondità di quanto abbia fatto qualsiasi altro tessitore.» Essendo stata anch’io sospesa in un vuoto, mi sentivo vicina a quel tessuto in un modo snervante. «Perché?» I suoi occhi grigi si spostarono di nuovo verso di me. «Mio marito non è tornato dalla guerra.» Quelle parole franche e aperte mi echeggiarono dentro. Mi sforzai di sostenere il suo sguardo mentre continuava: «Ho iniziato a provare a creare Vuoto il giorno dopo aver saputo che era morto». Ma Rhys non aveva chiesto a nessuno, in quella città, di unirsi ai suoi eserciti. Aveva voluto che fosse una scelta personale. Vedendo la confusione sul mio viso, la tessitrice aggiunse dolcemente: «Pensava che fosse giusto. Contribuire ai combattimenti. Se ne andò con molti altri che la pensavano allo stesso modo, e si unì a una legione della Corte dell’Estate in cui si imbatterono mentre andavano verso sud. Morì nella battaglia di Adriata». «Mi dispiace» dissi dolcemente. Elain fece eco alle parole, con la sua voce gentile. La tessitrice continuò a fissare l’arazzo. «Pensavo che avremmo passato altri mille anni
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insieme.» Iniziò a rimettere in movimento il telaio. «Nei nostri trecento anni di matrimonio, non siamo mai riusciti ad avere figli.» Le sue dita si muovevano con estrema grazia e, nonostante l’argomento, non esitavano mai. «Non ho nemmeno una parte di lui, quindi. Se n’è andato, e io no. Vuoto è nato da quella sensazione.» Non sapevo che cosa dire mentre le sue parole mi si depositavano dentro. Mentre lei continuava a lavorare. Sarei potuta morire io. Sarebbe potuto morire Rhys. Quella stoffa straordinaria, creata e tessuta nel dolore che avevo sfiorato per un attimo e che speravo di non provare mai più, conteneva una perdita da cui probabilmente io non mi sarei mai ripresa. «Continuo a sperare che sarà più facile, ogni volta che racconto a qualcuno di Vuoto» disse la tessitrice. Se la gente lo chiedeva con la frequenza a cui aveva accennato... io non lo avrei potuto sopportare. «Perché non lo togli da lì?» chiese Elain, con il viso pieno di compassione. «Perché non voglio tenerlo per me.» La navetta volò attraverso il telaio, come se avesse una vita propria. Nonostante l’equilibrio e la calma della tessitrice, potevo quasi sentire il suo tremendo dolore che si irradiava nella stanza. Un tocco del mio potere da daemati e avrei potuto alleviare quel dolore, ridurre quella pena. Non l’avevo mai fatto per nessuno, ma... Ma non potevo. Non lo avrei fatto. Sarebbe stata una violazione, pur eseguita con le migliori intenzioni. E la sua perdita, il suo infinito dolore le avevano fatto creare qualcosa. Qualcosa di straordinario. Non potevo portarglielo via. Anche se me lo avesse chiesto. «Il filo d’argento...» chiese Elain. «Come si chiama?» La tessitrice mise di nuovo in pausa il telaio; i fili colorati vibravano. Sostenne lo sguardo di mia sorella. Non provò neanche a sorridere, stavolta. «Lo chiamo Speranza.» La mia gola si strinse in maniera insopportabile, gli occhi mi bruciavano così tanto che dovetti voltarmi e tornare a quello straordinario arazzo. La tessitrice spiegò a mia sorella: «L’ho creato dopo aver padroneggiato Vuoto». Rimasi a fissare il tessuto nero; era come scrutare in un pozzo dell’inferno. E poi fissai il filo d’argento vivo e iridescente che lo attraversava, luminoso nonostante l’oscurità che divorava ogni altra luce e colore. Sarebbe potuto succedere a me. E a Rhys. Era quasi andata così. Eppure lui era vivo, e il marito della tessitrice no. Noi eravamo sopravvissuti, mentre la loro storia si era conclusa. A lei non era rimasta una parte del marito. Non come avrebbe voluto, perlomeno. Io ero fortunata, così tremendamente fortunata che potevo persino lamentarmi della necessità di fare acquisti per la mia Metà. Il momento in cui era morto era stato il peggiore della mia vita, e probabilmente sarebbe rimasto un atroce ricordo, ma eravamo sopravvissuti. In questi mesi, gli “e se...” mi avevano perseguitato. Tutti gli “e se...” a cui eravamo scampati per un soffio.
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E c’era la festa dell’indomani, quell’occasione per festeggiare il fatto che eravamo insieme, che eravamo vivi... L’impossibile profondità del nero davanti a me, l’improbabile sfida di Speranza che splendeva attraverso il nero, mi sussurrò la verità prima che me ne rendessi conto. Prima che capissi che cosa volevo regalare a Rhys. Il marito della tessitrice non era tornato a casa. Ma il mio sì. «Feyre?» Elain era di nuovo al mio fianco. Non avevo sentito i suoi passi. Non sentivo alcun suono da un po’. La galleria si era svuotata, mi resi conto. Ma non mi importava. Mi avvicinai ancora una volta alla tessitrice, che aveva fermato di nuovo il telaio sentendo il mio nome. Aprì un po’ di più gli occhi e chinò la testa. «Mia signora.» Ignorai quelle parole. «Come...» Accennai al telaio, al pezzo semilavorato che prendeva forma sulla sua cornice, alle opere sulle pareti. «Come fai a continuare a creare, nonostante quello che hai perso?» Se notò che mi si era spezzata la voce, non lo diede a vedere. Disse solo, con lo sguardo triste e addolorato che incrociava il mio: «Devo». Quella semplice parola mi colpì come una mazzata. La tessitrice continuò: «Devo creare, o sarà stato tutto per niente. Devo creare, o mi raggomitolerò su me stessa per la disperazione e non mi alzerò più dal letto. Devo creare perché non ho altro modo di esprimere quello che provo». Aveva posato una mano sul cuore; a me bruciavano gli occhi. «È difficile» disse, continuando a guardarmi negli occhi, «e fa male, ma, se mi dovessi fermare, se lasciassi silenziare questo telaio o il fuso...» Distolse lo sguardo, infine, e fissò il suo arazzo. «Allora non ci sarebbe la Speranza che risplende nel Vuoto.» Mi tremarono le labbra e lei si protese per stringermi una mano; le sue dita callose erano calde a contatto con le mie. Non avevo parole da offrirle, non sapevo trasmetterle ciò che mi si agitava nel petto. Riuscii solo a dire: «Vorrei comprare quell’arazzo». L’arazzo era un regalo per me e per nessun altro, e sarebbe stato consegnato alla casa di città nel tardo pomeriggio. Io ed Elain esplorammo vari negozi per un’altra ora, poi lasciai mia sorella a fare i suoi acquisti al Palazzo del Filo e dei Gioielli. Trasmutai direttamente dentro lo studio abbandonato nell’Arcobaleno. Avevo bisogno di dipingere. Avevo bisogno di tirare fuori quello che avevo visto, che avevo provato nella galleria della tessitrice. Finii col restarvi tre ore. Alcuni dipinti furono schizzi rapidi. Altri cominciai solo a delinearli con carta e matita, rimuginando sulla tela necessaria, sui colori che avrei voluto usare. Dipinsi attraverso il dolore che provavo per la storia della tessitrice, dipinsi per la sua
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perdita. Dipinsi tutto ciò che sorgeva dentro di me, lasciando che il passato si riversasse sulla tela e provando un beato sollievo a ogni pennellata. Non mi stupì essere colta sul fatto. Feci appena in tempo a saltare giù dallo sgabello quando si aprì la porta d’ingresso ed entrò Ressina, con uno spazzolone e un secchio tra le mani verdi. Certo non feci in tempo a nascondere tutti i dipinti e i materiali. Ressina, dovevo dargliene atto, si fermò di colpo e sorrise semplicemente. «Sospettavo che fossi qui. Ho visto le luci l’altra sera e ho pensato che fossi tu.» Il cuore mi batteva forte, avevo il viso caldo come una fornace, ma riuscii a produrre un sorriso a labbra serrate. «Scusa.» La Fae attraversò la sala con grazia, pur tirandosi dietro quegli attrezzi per la pulizia. «Non c’è bisogno di scusarti. Avevo solo intenzione di pulire un po’.» Lasciò cadere con un lieve tonfo lo spazzolone e il secchio contro una delle pareti bianche senza quadri. «Perché?» Posai il pennello sulla tavolozza, che era su uno sgabello accanto al mio. Ressina si mise le mani sui fianchi sottili e studiò la stanza. Per misericordia o per mancanza di interesse, non guardò troppo a lungo i miei quadri. «Nella famiglia di Polina non hanno discusso la possibilità di vendere, ma ho pensato che lei non avrebbe voluto che il posto fosse un disastro.» Mi morsi un labbro e annuii, a disagio, accanto al disordine che avevo aggiunto. «Scusa se... se non sono venuta nel tuo studio, l’altra sera.» Ressina si strinse nelle spalle. «Ancora una volta, non c’è bisogno di scusarsi.» Era molto raro che qualcuno al di fuori della cerchia ristretta mi parlasse con tanta disinvoltura. Persino la tessitrice era diventata più formale, quando mi ero offerta di comprare il suo arazzo. «Sono solo contenta che qualcuno stia usando questo posto. Che tu lo stia usando» aggiunse Ressina. «Penso che a Polina saresti piaciuta.» Non risposi, e cadde il silenzio. Cominciai a raccogliere le mie cose. «Mi tolgo di mezzo.» Andai ad appoggiare alla parete un quadro che si stava ancora asciugando. Un ritratto a cui ormai pensavo da tempo. Lo inviai in quello spazio tra i regni, insieme a tutti gli altri su cui stavo lavorando. Poi mi chinai a prendere il mio pacco di materiali. «Quelli potresti lasciarli.» Mi fermai, con una mano attorno alla cinghia di cuoio. «Non è mio questo posto.» Ressina si appoggiò al muro accanto al secchio e allo spazzolone. «Forse potresti parlarne con la famiglia di Polina. Hanno buoni motivi per vendere.» Mi raddrizzai e sollevai il pacco. «Può darsi» risposi vagamente e, mentre mi avviavo verso la porta, inviai nello spazio tra i regni il resto dei materiali e dei quadri, senza preoccuparmi della possibilità che si schiantassero uno contro l’altro. «Vivono in una fattoria a Dunmere, vicino al mare. In caso ti interessasse.» Non era probabile. «Grazie.»
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Potevo percepire il suo sorriso mentre raggiungevo la porta d’ingresso. «Felice Solstizio.» «Anche a te» risposi girando appena la testa prima di svanire in strada. E andai a sbattere contro il petto duro e caldo della mia Metà. Rimbalzai da Rhys con un’imprecazione e lo guardai male, mentre lui rideva e mi afferrava le braccia per evitare che scivolassi sulla strada ghiacciata. «Stai andando da qualche parte?» Lo fissai accigliata, ma poi lo presi sottobraccio e mi misi a camminare rapidamente. «Che cosa ci fai qui?» «Perché stai scappando da una galleria abbandonata come se avessi rubato qualcosa?» «Non stavo scappando.» Gli diedi un pizzicotto al braccio e provocai un’altra profonda, roca risata. «Stavi camminando con una velocità sospetta, allora.» Non risposi finché non arrivammo al viale che scendeva verso il fiume. Sottili lastre di ghiaccio scivolavano sopra le acque turchesi. Potevo sentire la corrente che scorreva ancora sotto di loro, ma non forte quanto nei mesi più caldi. Come se, per l’inverno, la Sidra fosse caduta in un sonno crepuscolare. «È lì che avevo dipinto» dissi alla fine mentre ci fermavamo al parapetto del lungofiume. Fui investita da un vento freddo e umido che mi scompigliò i capelli. Rhys me ne mise un ciuffo dietro l’orecchio. «Oggi ci sono tornata e sono stata interrotta da un’artista, Ressina. Ma lo studio apparteneva a una femmina Fae che non è sopravvissuta all’attacco della primavera scorsa. Ressina stava ripulendo la galleria per suo conto. Per conto di Polina, nel caso la famiglia di Polina volesse venderla.» «Possiamo comprare uno studio per te, se hai bisogno di un posto dove dipingere da sola» propose, con i capelli indorati dalla tenue luce del sole. Nessuna traccia delle sue ali. «No, no, il punto non è tanto essere sola quanto... avere il luogo giusto per farlo. Un luogo che mi dia la sensazione giusta.» Scossi la testa. «Non so. Dipingere aiuta. Aiuta me, voglio dire.» Feci un sospiro e osservai quel viso che per me era la cosa più preziosa del mondo, mentre mi echeggiavano dentro le parole della tessitrice. Lei aveva perso suo marito. Io no. Eppure lei continuava a tessere, continuava a creare. Posai una mano sulla guancia di Rhys, e lui vi si appoggiò mentre io chiedevo con calma: «Pensi che sia stupido domandarsi se la pittura possa aiutare anche gli altri? Non la mia pittura, voglio dire. Ma insegnare agli altri a dipingere. Lasciare che dipingano. Persone che potrebbero avere problemi da affrontare, come li ho io». Gli si addolcirono gli occhi. «Credo che non sia affatto stupido.» Gli passai un pollice sullo zigomo, assaporando ogni punto di contatto. «Se fa sentire meglio me, forse sarebbe lo stesso per gli altri.» Rimase in silenzio, offrendomi quella compagnia che non richiedeva nulla, non chiedeva nulla mentre continuavo ad accarezzargli il viso. Eravamo Metà da meno di un anno. Se le cose fossero andate male durante quella battaglia finale, quanti rimpianti mi avrebbero consumato? Sapevo... sapevo quali mi avrebbero colpita di più, colpita più a fondo. Sapevo quali cose avevo il potere di cambiare.
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Alla fine abbassai la mano. «Pensi che verrebbe qualcuno? Se fosse disponibile uno spazio del genere, una possibilità del genere?» Rhys rifletté, mi studiò gli occhi e poi mi baciò una tempia; la bocca era calda contro il mio viso gelido. «Dovrai aspettare e vedere, suppongo.» Un’ora dopo trovai Amren a casa sua. Rhys doveva partecipare a un’altra riunione con Cassian e i comandanti Illyrian al campo di guerra di Devlon, e mi aveva accompagnata alla porta del suo edificio prima di trasmutare. Arricciai il naso quando entrai nel caldissimo appartamento di Amren. «C’è un odore... interessante qui dentro.» Amren, seduta al lungo tavolo da lavoro al centro dello spazio, mi rivolse un sorriso sferzante e poi indicò il letto a baldacchino. Lenzuola sgualcite e cuscini di traverso la dicevano lunga sugli odori che stavo rilevando. «Potresti aprire una finestra» dissi, indicando tutte quelle all’altro lato dell’appartamento. «Fuori fa freddo» si limitò a dire, e tornò a... «Un puzzle?» Amren inserì un minuscolo pezzo nella sezione a cui stava lavorando. «Perché, dovrei fare qualcos’altro durante la mia vacanza del Solstizio?» Non osai rispondere, ma mi tolsi il cappotto e la sciarpa. Amren manteneva il fuoco nel camino a un livello tale che la stanza era quasi soffocante. O lo faceva per sé o per il suo compagno della Corte dell’Estate, di cui non vedevo traccia. «Dov’è Varian?» «È uscito a comprare altri regali per me.» «Ancora?» Quella volta mi fece un sorriso più ridotto: un lato della sua bocca rossa fremette mentre lei inseriva un altro pezzo nel suo puzzle. «Ha deciso che non bastavano quelli che mi ha portato dalla Corte dell’Estate.» Sorvolai anche su quella frase. Mi sedetti di fronte a lei al lungo tavolo di legno scuro ed esaminai il puzzle completato a metà; sembrava essere una sorta di scena agreste autunnale. «Un tuo nuovo passatempo?» «Senza quell’odioso Libro da decifrare, ho scoperto che mi mancano cose del genere.» Un altro pezzo fu piazzato nel punto giusto. «È il quinto che faccio, questa settimana.» «La settimana è iniziata solo da tre giorni.» «Non li fanno abbastanza difficili per me.» «Quanti pezzi ha, questo?» «Cinquemila.» «Sbruffona.» Amren emise un suono di disapprovazione, poi raddrizzò la schiena, se la massaggiò e fece una smorfia. «Fa bene alla mente, ma male alla postura.» «Meno male che hai Varian con cui tenere in esercizio anche il corpo.» Amren rise, e il suono sembrò il gracchiare di un corvo. «Davvero una buona cosa.»
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Quegli occhi d’argento, ancora misteriosi, ancora illuminati da una traccia di potere, mi scrutarono. «Non sei venuta qui per tenermi compagnia, suppongo.» Mi appoggiai allo schienale della vecchia sedia traballante. Non c’erano due sedie uguali attorno al tavolo. In realtà, ognuna sembrava di un decennio diverso. O di un secolo diverso. «No, in effetti.» La seconda in comando del Signore Supremo agitò una mano dotata di lunghe unghie rosse e si chinò di nuovo sul suo puzzle. «Procedi.» Feci un respiro profondo. «Si tratta di Nesta.» «Lo sospettavo.» «Le hai parlato?» «Viene qui spesso.» «Davvero?» Amren tentò, senza riuscirci, di inserire un pezzo nel suo puzzle; i suoi occhi saettavano sui pezzi attorno a lei, divisi in base al colore. «È così difficile da credere?» «Non viene alla casa di città. O alla Casa del Vento.» «A nessuno piace andare alla Casa del Vento.» Presi un tassello e Amren fece schioccare la lingua in segno di ammonimento. Posai di nuovo la mano su un ginocchio. «Speravo che tu potessi avere un’idea di che cosa le sta succedendo.» Amren non rispose per un po’ ed esaminò invece i pezzi disposti tutt’attorno. Stavo per ripetermi quando disse: «Mi piace tua sorella». Una dei pochi, ad apprezzarla. Amren alzò gli occhi su di me, come se avessi pronunciato le parole a voce alta. «Mi piace perché piace a ben poche persone. Mi piace perché non è facile starle vicino, né capirla.» «Ma?» «Ma niente» disse Amren, tornando al puzzle. «Visto che mi piace, non sono incline a spettegolare sul suo stato attuale.» «Non sono pettegolezzi. Sono preoccupata.» Lo eravamo tutti. «Si sta avviando su una strada che...» «Non tradirò la sua fiducia.» «Ti ha parlato?» Troppe emozioni mi attraversarono tutte insieme. Sollievo per il fatto che Nesta avesse parlato con qualcuno, confusione perché la prescelta era Amren, e forse anche un po’ di gelosia per il fatto che mia sorella non si fosse rivolta a me... o a Elain. «No» disse Amren. «Ma so che non vorrebbe che meditassi sul suo percorso con nessuno. Con te.» «Ma...» «Dalle tempo. Dalle spazio. Dalle la possibilità di risolvere la questione da sola.» «Sono passati mesi.» «È un’immortale. I mesi sono irrilevanti.» Strinsi i denti. «Si rifiuta di venire a casa per il Solstizio. Elain avrà il cuore spezzato se non...»
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«Elain, o tu?» Quegli occhi d’argento mi inchiodarono. «Entrambe» dissi tra i denti. Di nuovo, Amren passò al setaccio i suoi pezzi. «Elain ha i suoi problemi su cui concentrarsi.» «Per esempio?» Amren si limitò a lanciarmi un’occhiata. La ignorai. «Se Nesta si degna di farti visita» risposi, e l’antica sedia gemette mentre la spingevo indietro e mi tiravo su, poi presi il cappotto e la sciarpa dalla panchina vicino alla porta, «dille che significherebbe molto se venisse per il Solstizio.» Amren non si disturbò ad alzare lo sguardo dal suo puzzle. «Non ti prometto niente, ragazza.» Era il meglio che potessi sperare.
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RHYSAND
uel pomeriggio, Cassian lasciò cadere la sua borsa di cuoio sul lettuccio contro la parete della quarta camera da letto, nella casa di città; il contenuto tintinnò. «Hai portato armi al Solstizio?» chiesi, appoggiandomi allo stipite della porta. Azriel posò la sua borsa sul letto di fronte a quello di Cassian e poi lanciò a nostro fratello un vago sguardo di allarme. Dopo aver perso conoscenza sui divani del soggiorno la notte prima, e dopo aver – probabilmente – dormito scomodi, si erano finalmente decisi a sistemarsi nella camera assegnata loro. Cassian alzò le spalle e si lasciò cadere sul letto, più adatto a un bambino che a un guerriero Illyrian. «Alcuni potrebbero essere regali.» «E il resto?» Cassian si sfilò gli stivali, si appoggiò alla testiera del letto e incrociò le braccia dietro la testa mentre le sue ali si posavano sul pavimento. «Le femmine portano i loro gioielli. Io porto le mie armi.» «Conosco alcune donne in questa casa che si potrebbero offendere per questa frase.» Cassian mi rispose con un sorriso perfido. Lo stesso sorriso che aveva rivolto a Devlon e ai comandanti un’ora prima, durante la nostra riunione. Tutto era pronto per affrontare la tempesta; tutte le pattuglie erano presenti all’appello. Una riunione ordinaria, a cui non avrei avuto bisogno di partecipare, ma era sempre bene ricordare loro la mia presenza. Soprattutto prima che si radunassero tutti per il Solstizio. Azriel si avvicinò all’unica finestra in fondo alla camera e sbirciò nel giardino sottostante. «Non sono mai stato in questa stanza.» La sua voce da mezzanotte riempì la stanza.
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«Questo perché tu e io siamo stati spinti in fondo alla gerarchia, fratello» rispose Cassian, le cui ali erano drappeggiate sul letto e sul pavimento di legno. «Mor ha la camera bella, Elain vive nell’altra e quindi noi ci becchiamo questa.» Non disse che l’unica camera rimasta vuota, la vecchia stanza di Nesta, sarebbe rimasta disponibile. Non lo fece neanche Azriel. «Meglio della soffitta» suggerii. «Povero Lucien» commentò Cassian con un sorriso. «Ammesso che Lucien si faccia vivo» lo corressi. Non ci aveva fatto sapere se sarebbe venuto o no. O se sarebbe rimasto in quel mausoleo che Tamlin chiamava casa. «Io punto sul fatto che verrà» disse Cassian. «Vuoi scommettere?» «No» rispose Azriel, senza voltarsi dalla finestra. Cassian si mise a sedere, e sembrava il ritratto dell’indignazione. «No?» Azriel si richiuse nelle ali. «Ti piacerebbe se la gente scommettesse su di te?» «Voi stronzi scommettete su di me tutto il tempo. Ricordo l’ultima volta: tu e Mor scommettevate sul fatto che le mie ali sarebbero guarite.» Sbuffai. Era vero. Azriel rimase alla finestra. «Nesta starà qui, se viene?» All’improvviso Cassian notò che il Sifone sulla sua mano sinistra aveva bisogno di una lucidata. Decisi di risparmiarlo e dissi ad Azriel: «Il nostro incontro con i comandanti è andato come ci si poteva aspettare. Devlon aveva effettivamente preparato un programma per l’addestramento delle ragazze, per quando sarà passata la tempesta in arrivo. Non credo che fosse solo per fare scena». «Comunque mi sorprenderebbe se se ne ricordassero, una volta passata la tempesta» disse Azriel, voltandosi finalmente dalla finestra che dava sul giardino. Cassian grugnì in segno di approvazione. «Qualcosa di nuovo sui dissensi nei campi?» Mantenni un’espressione neutra. Az e io avevamo deciso di aspettare fino a dopo le vacanze per rivelare a Cassian tutto quello che sapevamo, chi sospettavamo – o sapevamo – ci fosse dietro. Gli avevamo detto le cose basilari, però. Quanto bastava per placare ogni senso di colpa. Ma conoscevo Cassian tanto quanto conoscevo me stesso. Forse anche meglio. Se l’avesse saputo in quel momento, non sarebbe stato in grado di lasciar correre. E, dopo tutto quello che aveva sopportato in quei mesi, e anche molto prima, mio fratello si meritava una pausa. Almeno per qualche giorno. Ovviamente quella pausa aveva già incluso l’incontro con Devlon e un’estenuante sessione di allenamento in cima alla Casa del Vento, quella mattina. Fra tutti noi, Cassian era quello a cui suonava più estraneo il concetto di rilassamento. Azriel si appoggiò alla pediera di legno intagliato in fondo al letto. «C’è poco da aggiungere a quello che sai già.» Con che disinvoltura e facilità mentiva. Era molto più bravo di me. «Ma hanno capito che la situazione sta peggiorando. Il momento migliore per valutarla è dopo il Solstizio, quando saranno tornati tutti a casa. Allora vedremo chi è che
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diffonde discordia. Vedremo se il dissenso è cresciuto, mentre festeggiavano tutti insieme, o se è stato seppellito dalla neve.» Era il modo perfetto per rivelare, più avanti, tutto quello che sapevamo. Se gli Illyrian si fossero ribellati... Non volevo portarmi così avanti con il pensiero. Non volevo calcolare quanto mi sarebbe costato. Quanto sarebbe costato a Cassian combattere le persone di cui voleva ancora disperatamente far parte. Ucciderli. Sarebbe stato molto diverso da quello che avevamo fatto agli Illyrian che avevano servito Amarantha e fatto cose terribili in suo nome. Molto diverso. Allontanai quel pensiero. Dopo. Dopo il Solstizio. Ce ne saremmo occupati allora. Cassian, per fortuna, sembrava incline a fare altrettanto. Non che lo biasimassi, visto che aveva dovuto sopportare un’ora di atteggiamenti da stronzi, prima che trasmutassimo lì. Anche se erano passati secoli, i signori dei campi e i comandanti continuavano a sfidarlo. A sputargli addosso, praticamente. Cassian toccò la pediera con le dita dei piedi, e non aveva neanche allungato completamente le gambe. «Comunque, chi usava questo letto? Andrebbe bene per Amren.» Sbuffai. «Attento a non piagnucolare troppo. Feyre ci chiama “piccoli Illyrian” già troppo spesso.» Azriel ridacchiò. «È migliorata così tanto, nel volo, che penso ne abbia il diritto.» Mi sentii traboccare di orgoglio. Magari non le veniva naturale, ma compensava con la grinta e la concentrazione. Avevo perso il conto delle ore che avevamo trascorso in aria, del tempo prezioso che eravamo riusciti a ritagliare per noi stessi. Dissi a Cassian: «Posso vedere se riesco a trovarvi due letti più lunghi». Alla vigilia del Solstizio, ci sarebbe voluto un piccolo miracolo. Avrei dovuto mettere sottosopra Velaris. Lui agitò una mano. «Non ce n’è bisogno. Sono già meglio del divano.» «A parte il fatto che ieri notte eri troppo ubriaco per salire le scale» dissi con tono beffardo, ed ebbi in risposta un gestaccio, «sembra che lo spazio in questa casa sia davvero un problema. Potete stare su alla Casa del Vento, se preferite. Posso trasmutarvi lì.» «La Casa è noiosa.» Cassian sbadigliò per enfatizzare il concetto. «Az sparisce nelle ombre e io resto lì tutto solo.» Azriel mi lanciò uno sguardo che diceva: “Proprio un piccolo Illyrian”. Nascosi il mio sorriso e risposi a Cassian: «Forse dovresti prenderti un posto tutto tuo, allora». «Ne ho uno in Illyria.» «Volevo dire qui.» Cassian inarcò un sopracciglio. «Non ho bisogno di una casa, qui. Mi serve solo una stanza.» Toccò di nuovo la pediera con le dita dei piedi, facendo oscillare il pannello di legno. «Questa andrebbe benissimo, se non avesse un lettino da bambole.» Ridacchiai di nuovo, ma mi trattenni dal replicare che forse avrebbe potuto desiderare un posto tutto suo. Presto. Non che stesse accadendo qualcosa su quel fronte. E non sembrava che sarebbe successo tanto presto. Nesta aveva messo ben in chiaro che non aveva alcun interesse per Cassian;
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non le piaceva neanche trovarsi nella sua stessa stanza. Sapevo perché. L’avevo visto accadere, mi ero sentito spesso così. «Forse quello sarà il tuo regalo per il Solstizio, Cassian» risposi invece. «Un nuovo letto qui.» «Meglio dei regali di Mor» mormorò Az. Cassian rise e il suono rimbombò sui muri. Io diedi un’occhiata verso la Sidra e alzai un sopracciglio. Sembrava raggiante. La vigilia del Solstizio aveva totalmente permeato Velaris, placando il brusio che aveva pulsato per la città nelle ultime settimane, come se tutti si fossero fermati ad ascoltare la neve che cadeva. Una nevicata leggera, senza dubbio, in confronto alla tempesta selvaggia che si stava scatenando sulle montagne dell’Illyria. Ci eravamo riuniti nel soggiorno; il fuoco scoppiettava, si aprivano le bottiglie e il vino scorreva. Non si erano fatti vedere né Lucien né Nesta, ma l’atmosfera era tutt’altro che cupa. In effetti, quando Feyre emerse dal corridoio della cucina, mi presi un momento per divorarla con gli occhi dalla poltrona su cui ero seduto, accanto al fuoco. Andò dritta da Mor, forse perché Mor aveva in mano il vino, la bottiglia già protesa. Ammirai la visuale da dietro mentre il bicchiere di Feyre veniva riempito. Faticavo a tenere sotto controllo i miei furiosi istinti, con quella particolare visuale. Con le forme sinuose della mia Metà, con la sua aura così vibrante, anche in quella stanza piena di tante personalità. Il suo abito di velluto blu notte la fasciava perfettamente, lasciando ben poco all’immaginazione, prima di ricadere sul pavimento. Aveva lasciato i capelli sciolti, leggermente arricciati alle estremità; sapevo che più tardi avrei voluto immergere le mani in quei capelli, sparpagliando i pettini d’argento che li fissavano ai lati della testa. E poi le avrei tolto quel vestito. Lentamente. «Mi farai vomitare» sibilò Amren, dalla poltrona accanto alla mia, prendendomi a calci con la sua scarpina di seta argentata. «Tieni a freno quel tuo odore, ragazzo.» Le lanciai uno sguardo incredulo. «Scusa.» Guardai Varian, in piedi accanto alla sua poltrona, e in silenzio gli porsi le mie condoglianze. Varian, vestito con i colori azzurro e oro della Corte dell’Estate, si limitò a sorridere e a inclinare la testa verso di me. Com’era strano vedere lì il principe di Adriata. Nella mia casa di città. Che sorrideva. Che beveva il mio liquore. Finché... «Festeggiate il Solstizio anche alla Corte dell’Estate?» Finché Cassian non decise di aprire la bocca. Varian voltò la testa verso il punto in cui Cassian e Azriel giacevano sul divano, i suoi capelli argentei scintillanti alla luce del fuoco. «Quello estivo, ovviamente. Visto che ci sono due solstizi.» Azriel nascose il suo sorriso bevendo un sorso di vino.
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Cassian mise un braccio sullo schienale del divano. «Ci sono davvero?» Madre nei cieli. Ecco che razza di notte sarebbe stata, dunque. «Non preoccuparti di rispondergli» disse Amren a Varian, sorseggiando il suo vino. «Cassian è proprio stupido come sembra» aggiunse con uno sguardo tagliente. Cassian alzò il bicchiere in segno di saluto prima di bere. «Suppongo che il vostro Solstizio estivo si svolga più o meno come il nostro» dissi a Varian, anche se conoscevo la risposta. Ne avevo visti parecchi, molto tempo prima. «Le famiglie si riuniscono, si mangia, ci si scambiano regali.» Varian mi rivolse un cenno, e avrei giurato che fosse di gratitudine. «Infatti.» Feyre apparve accanto a dov’ero seduto e il suo profumo mi riempì i polmoni. La tirai giù perché si appollaiasse sul bracciolo della mia poltrona. Lo fece con una familiarità che mi riscaldò nel profondo, senza nemmeno preoccuparsi di guardare nella mia direzione prima di posarmi un braccio sulle spalle. Metteva il braccio lì solo perché poteva. Metà. La mia Metà. «Quindi Tarquin non celebra per niente il Solstizio d’inverno?» chiese a Varian. Lui scosse la testa. «Forse avremmo dovuto invitarlo» rifletté Feyre. «C’è ancora tempo» dissi io. Solo il Calderone sapeva quanto avessimo bisogno di alleanze. Più che mai. «Vedi tu se è il caso, principe.» Varian abbassò lo sguardo su Amren, che sembrava totalmente concentrata sul suo calice di vino. «Ci penserò.» Annuii. Tarquin era il suo Signore Supremo. Se fosse venuto lì, l’attenzione di Varian sarebbe stata altrove. Lontano da dove desiderava concentrarsi, per i pochi giorni che poteva passare con Amren. Mor si lasciò cadere sul divano tra Cassian e Azriel, e i suoi riccioli dorati rimbalzarono. «Comunque mi fa piacere che siamo solo noi» dichiarò. «E tu, Varian» si corresse. Varian le offrì un sorriso che significava: apprezzo lo sforzo. L’orologio sulla mensola del camino suonò le otto. Come se fosse stata evocata, entrò Elain. Mor si alzò all’istante, offrendole vino, insistendo. Tipico. Elain lo rifiutò cortesemente e si sistemò su una delle sedie di legno nel bovindo. Tipico anche quello. Ma Feyre stava fissando l’orologio, con la fronte aggrottata. “Nesta non arriva.” “L’hai invitata per domani.” Inviai una carezza rilassante lungo l’Unione, come se potesse spazzare via la delusione che si irradiava da lei. La mano di Feyre si strinse sulla mia spalla. Alzai il bicchiere e tutti si zittirono. «Alle famiglie vecchie e nuove. Che inizino i festeggiamenti del Solstizio.» Bevemmo tutti a quello.
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FEYRE
a mattina del Solstizio, mi svegliò il bagliore del sole sulla neve; filtrava dalle nostre pesanti tende di velluto. Guardai accigliata il raggio di luce e mi voltai, distogliendo lo sguardo dalla finestra. Ma la mia guancia si scontrò con qualcosa di increspato e solido. Di sicuro non era il mio cuscino. Staccandomi la lingua dal palato, massaggiandomi la testa per scacciare il dolore che si era piantato sul lato sinistro della fronte grazie alle ore di bevute, risate e altre bevute ancora fino alle prime ore del mattino, mi tirai su il necessario per vedere che cosa c’era vicino al mio viso. Un regalo. Avvolto in carta crespa nera e legato con filo d’argento. E accanto, sorridente, c’era Rhys. Aveva appoggiato la testa su un pugno e drappeggiato le ali sul letto, dietro di sé. «Buon compleanno, Feyre cara.» Gemetti. «Come fai a sorridere dopo tutto quel vino?» «Non avevo una bottiglia tutta per me, ecco come.» Mi passò un dito lungo il solco della spina dorsale. Mi alzai sui gomiti e studiai il pacchetto. Era rettangolare e quasi piatto, spesso solo uno o due pollici. «Speravo che te ne dimenticassi.» Rhys sorrise. «Certo che lo speravi.» Sbadigliando mi sollevai in ginocchio, allungai le braccia sopra la testa e poi tirai il regalo verso di me. «Pensavo che avremmo aperto i regali stanotte insieme agli altri.»
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«È il tuo compleanno» rispose. «Le regole non si applicano a te.» Alzai gli occhi al cielo, ma feci un sorrisino. Tolsi la carta crespa e tirai fuori uno splendido blocco rilegato in pelle nera e morbida, così morbida che era quasi come il velluto. Sul davanti, stampigliate in semplici lettere d’argento, c’erano le mie iniziali. Aprii la copertina flessibile, scoprendo pagina dopo pagina di una bella carta spessa. Erano tutte vuote. «Un album da disegno» disse. «Solo per te.» «È bellissimo.» Lo era davvero. Semplice, ma di fattura squisita. Quello che avrei scelto per me, se un tale lusso non mi fosse sembrato eccessivo. Mi chinai per baciarlo, sfiorandogli la bocca. Con la coda dell’occhio, vidi apparire sul cuscino un altro oggetto. Mi tirai indietro: c’era in attesa un secondo regalo, una grande scatola avvolta in carta ametista. «Ancora?» Rhys agitò pigramente una mano, con pura arroganza Illyrian. «Pensavi che un album da disegno sarebbe bastato per la mia Signora Suprema?» Arrossii e aprii il secondo pacchetto. All’interno c’era una sciarpa azzurra di lana morbidissima. «Così puoi smettere di rubare quelle di Mor» disse ammiccando. Sorrisi e mi avvolsi attorno la sciarpa. Era una goduria, su ogni punto della mia pelle. «Grazie» dissi, accarezzando il materiale pregiato. «Il colore è bellissimo.» «Mmh.» Un altro gesto della mano e apparve un terzo regalo. «Questo sta diventando eccessivo.» Rhys si limitò a inarcare un sopracciglio e io, ridacchiando, aprii il terzo pacchetto. «Una nuova cartella per i miei materiali da pittura» sussurrai, facendo scorrere le mani sulla pelle pregiata mentre ammiravo tutte le varie tasche e cinghie. Dentro c’erano già una serie di matite e una di carboncini. Anche quella borsa aveva un monogramma con le mie iniziali, insieme a una minuscola insegna della Corte della Notte. «Grazie» dissi di nuovo. Il sorriso di Rhysand si fece più intenso. «Avevo la sensazione che i gioielli non sarebbero stati in cima alla tua lista di desideri.» Era vero. Per quanto belli, non mi interessavano molto. E ne avevo già in abbondanza. «Questo è esattamente quello che avrei chiesto.» «Se non avessi sperato che la tua Metà dimenticasse il tuo compleanno.» Sbuffai. «Se non l’avessi sperato.» Lo baciai di nuovo, e quando feci per allontanarmi, mi fece scivolare una mano dietro la testa e mi trattenne. Mi baciò profondamente, pigramente, come se non desiderasse fare altro per tutto il giorno. Avrei potuto farci un pensierino. Ma riuscii a staccarmi; incrociai le gambe, mi sistemai comodamente sul letto e presi il mio nuovo album da disegno e la cartella dei materiali. «Voglio ritrarti» dissi. «Come regalo di compleanno da me e per me.» Il suo sorriso era decisamente felino.
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Aggiunsi, aprendo il mio album da disegno sulla prima pagina: «Una volta hai detto che l’ideale sarebbe stato un nudo». A Rhys brillarono gli occhi; un sussurro del suo potere fece spalancare le tende, e il sole di metà mattina inondò la camera, mostrò tutto il suo glorioso corpo nudo disteso sul letto e illuminò le tenui sfumature rosse e dorate delle sue ali. «Fai del tuo peggio, Spezzamaledizioni.» Mi sentivo scintillare il sangue. Tirai fuori un carboncino e iniziai. Erano quasi le undici quando uscimmo dalla nostra camera. Avevo riempito pagine e pagine del mio album: avevo disegnato le sue ali, i suoi occhi, i suoi tatuaggi Illyrian. E così tante parti del suo bel corpo nudo che non avrei mai mostrato quell’album a nessuno, tranne lui. Rhys aveva mormorato la sua approvazione quando l’aveva sfogliato, sorridendo per l’accuratezza dei miei disegni riguardanti certe aree del suo corpo. La casa di città era ancora silenziosa mentre scendevamo le scale; la mia Metà si era messa gli indumenti di pelle Illyrian, per qualche strana ragione. Se la mattina del Solstizio includeva una delle estenuanti sessioni di allenamento con Cassian, sarei stata ben felice di restare a casa e iniziare a mangiare le leccornie; arrivava già il loro profumo dalla cucina in fondo al corridoio. Entrando nella sala da pranzo trovammo la colazione in attesa, ma non c’era nessuno degli altri. Rhys mi spostò la sedia per farmi accomodare al mio solito posto a metà tavolo, poi si sedette accanto a me. «Immagino che Mor sia ancora di sopra a dormire» dissi, mettendo un dolcetto al cioccolato nel mio piatto, poi uno nel suo. Rhys affettò il pasticcio di porri e prosciutto e me ne mise un pezzo nel piatto. «Ha bevuto anche più di te, quindi immagino che non la vedremo fino al tramonto.» Sbuffai e porsi la tazza per farmi versare il tè che mi stava offrendo, mentre si levava il vapore dal beccuccio della teiera. Ma due massicce figure riempirono l’arco della sala da pranzo e Rhys si arrestò. Anche Azriel e Cassian – che dovevano essersi avvicinati in punta di piedi – indossavano i loro indumenti Illyrian. E, a giudicare dai loro sogghigni schifosi, sapevo che non sarebbe finita bene. Si mossero prima che potesse farlo Rhys, e solo un lampo del suo potere impedì alla teiera di cadere sul tavolo quando lo trascinarono via dalla sedia, puntando verso la porta d’ingresso. Io mi limitai a addentare il mio dolcetto. «Per favore, riportatelo indietro tutto intero.» «Ci prenderemo cura di lui» promise Cassian, con un perfido umorismo negli occhi. Anche Azriel stava sorridendo quando disse: «Se riesce a tenere il passo con noi». Alzai un sopracciglio e, proprio mentre svanivano dal portone, sempre trascinando Rhys, la mia Metà mi disse: «Tradizione». Come se quello spiegasse qualcosa. E poi se ne andarono, solo la Madre sapeva dove.
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Ma almeno nessuno degli Illyrian si era ricordato del mio compleanno, e ne resi grazie al Calderone. Quindi, con Mor addormentata ed Elain probabilmente in cucina – che aiutava a preparare quel cibo delizioso il cui aroma riempiva la casa – mi concessi un raro pasto tranquillo. Mangiai anche il dolcetto che avevo messo nel piatto di Rhys, insieme alla sua porzione di pasticcio. E poi un’altra. La tradizione, sì. Visto che avevo poco da fare, oltre a riposarmi, fino a un’ora prima del tramonto, quando sarebbero iniziati i festeggiamenti, mi piazzai alla scrivania nella nostra camera da letto per sbrigare alcune scartoffie. “Che attività festosa” commentò Rhys lungo l’Unione. Potevo praticamente vedere il suo sorrisetto. “E dove sei esattamente?” “Non ti preoccupare.” Fissai l’occhio sul palmo della mia mano, anche se sapevo che Rhys non lo usava più. “Questo mi fa proprio pensare che dovrei preoccuparmi.” Una risata sinistra. “Cassian dice che potrai prenderlo a pugni quando torneremo a casa.” “Cioè quando?” Una pausa troppo lunga. “Prima di cena?” Ridacchiai. “Meglio che non ne sappia niente, eh?” “Molto meglio.” Continuando a sorridere, lasciai cadere il filo che ci univa e rivolsi un sospiro ai fogli che mi fissavano. Fatture, lettere e conti... Alla fine sollevai un sopracciglio e tirai verso di me un tomo rilegato in pelle. Un elenco delle spese domestiche, solo mie e di Rhys. Una goccia d’acqua rispetto alla ricchezza rappresentata dai suoi beni. Dai nostri beni. Presi un foglio e cominciai a sommare le spese fatte fino a quel momento, aggrovigliandomi con la matematica. I soldi c’erano, se avessi voluto usarli. Se avessi voluto comprare quello studio. Nel fondo per gli “acquisti vari” c’era denaro a sufficienza. Sì, avrei potuto comprare quello studio in un baleno con la fortuna che ora possedevo. Ma l’idea di usare tutti quei soldi in maniera così disinvolta, anche se lo studio non sarebbe stato solo per me... Chiusi il libro mastro, infilai i miei calcoli tra le pagine e mi alzai. I documenti potevano aspettare. Decisioni del genere potevano aspettare. Il Solstizio, mi aveva detto Rhys, era per la famiglia. E dato che lui, al momento, lo stava trascorrendo con i suoi fratelli, io avrei dovuto trovare almeno una delle mie sorelle. Incrociai Elain a metà del percorso per la cucina; stava portando un vassoio di crostatine al tavolo della sala da pranzo. Su cui si stava accumulando un assortimento di delizie cotte al forno, torte a vari strati e biscotti glassati, panini coperti di zucchero e torte alla frutta spruzzate di caramello. «Quelli sembrano proprio belli» le dissi a mo’ di saluto, indicando i biscotti a forma di cuore sul vassoio. Sembrava tutto bello.
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Elain sorrise; la sua treccia dondolava a ogni passo verso il crescente mucchio di cibo. «Il sapore è all’altezza dell’aspetto.» Posò il vassoio e si pulì le mani coperte di farina sul grembiule che indossava sopra il vestito rosa polvere. Anche in pieno inverno, lei era sempre un’esplosione di colori e di sole. Mi passò una delle crostatine, con lo zucchero scintillante. Le diedi un morso senza esitare e mi lasciai sfuggire un mormorio di piacere. Elain era raggiante. Esaminai il cibo che stava assemblando e, tra un boccone e l’altro, le chiesi: «Da quanto tempo ci lavori?». Alzò una spalla. «Dall’alba.» E poi aggiunse: «Nuala e Cerridwen si erano alzate ore prima». Avevo visto la gratifica che Rhys aveva dato a ognuna di loro per il Solstizio. Era più di quanto la maggior parte delle famiglie guadagnasse in un anno. Ma loro meritavano ogni singolo marco di rame. Soprattutto per quello che avevano fatto per mia sorella. In quella cucina le avevano fornito compagnia, uno scopo, un senso di normalità. Era per loro che aveva comprato quelle coperte morbidissime dalla tessitrice, una rosa lampone e l’altra lilla. Elain mi studiò a sua volta mentre finivo la tortina e ne prendevo un’altra. «Hai avuto sue notizie?» Sapevo a chi si riferiva. Proprio mentre aprivo la bocca per dire di no, bussarono alla porta di casa. Elain si mosse così velocemente che riuscivo a malapena a starle dietro, spalancò la porta di vetro satinato che dava sull’atrio, e quindi aprì la pesante porta d’ingresso di quercia. Ma non era Nesta che stava lì sulla soglia, con le guance arrossate dal freddo. No: Elain fece un passo indietro e tolse la mano dalla maniglia, permettendomi di vedere Lucien che faceva un sorriso tirato a entrambe. «Buon Solstizio» fu tutto ciò che disse.
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«Sembri star bene» dissi a Lucien quando ci fummo sistemati sulle poltrone davanti al
fuoco. Elain si appollaiò in silenzio sul divano vicino. Lucien si scaldò le mani al fuoco di betulla; la luce proiettava sul suo viso toni rossi e dorati, e quelli dorati erano uguali al colore del suo occhio meccanico. «Anche tu.» Un’occhiata di sbieco verso Elain, rapida e fugace. «Anche voi, tutte e due.» Elain non disse nulla, ma perlomeno chinò la testa in segno di ringraziamento. Nella sala da pranzo, Nuala e Cerridwen continuarono ad aggiungere cibo al tavolo. Erano diventate poco più che ombre gemelle, e passavano attraverso le pareti. «Hai portato regali» dissi, indicando la piccola pila che aveva messo vicino alla finestra. «Qui si usa così per il Solstizio, no?» Repressi un sussulto. Il mio precedente Solstizio era stato alla Corte della Primavera. Con Ianthe. E Tamlin. «Sei il benvenuto, se vuoi fermarti stasera» lo invitai, visto che Elain non l’avrebbe certo fatto. Lucien si mise le mani in grembo e si appoggiò allo schienale della poltrona. «Grazie, ma ho altri programmi.» Pregai che non si accorgesse del barlume di sollievo sul viso di Elain. «Dove andrai?» chiesi invece, sperando che restasse concentrato su di me. Pur sapendo che era un compito impossibile. «Io...» Lucien cercò a tentoni le parole. Non per inventare una bugia o una scusa, come
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capii un attimo dopo. Me ne resi conto quando disse: «Sono stato alla Corte della Primavera, ogni tanto. Ma, se non sono qui a Velaris, sto per lo più con Jurian. E con Vassa». Raddrizzai la schiena. «Davvero? Dove?» «C’è una vecchia casa padronale nel Sudest, nel territorio degli umani. Jurian e Vassa l’hanno... ricevuta in regalo.» Dalle rughe che gli circondavano la bocca, probabilmente sapevo chi aveva fatto in modo che avessero la tenuta. Graysen... o suo padre. Non osavo guardare Elain. «Rhys mi aveva detto che erano ancora a Prythian. Non avevo capito che fosse una base così permanente.» Un breve cenno del capo. «Per ora. Mentre le cose si sistemano.» “Cose” come il mondo senza un muro. Come le quattro regine umane che occupavano ancora il palazzo all’altro lato del continente. Ma non era il momento giusto per parlarne. «Come stanno... Jurian e Vassa?» Rhys mi aveva detto abbastanza su come stava Tamlin. Non mi andava più di sentirne parlare. «Jurian...» Lucien sospirò e studiò il soffitto di legno intagliato sopra di lui. «Ringrazio il Calderone per la sua esistenza. Non avrei mai pensato di poterlo dire, ma è vero.» Si passò una mano tra i setosi capelli rossi. «Sta facendo funzionare tutto. Penso che a quest’ora sarebbe stato incoronato re, se non fosse per Vassa.» Contrasse le labbra e apparve una scintilla in quell’occhio rossastro. «Lei se la cava abbastanza bene. Assapora ogni secondo della sua temporanea libertà.» Non avevo dimenticato la sua supplica di quella notte, dopo l’ultima battaglia contro Hybern. Mi aveva implorata di spezzare la maledizione che la rendeva umana durante la notte, uccello di fuoco durante il giorno. Una regina che un tempo era stata orgogliosa, e che lo era ancora, sì, ma alla disperata ricerca della sua libertà. Del suo corpo umano. Del suo regno. «Lei e Jurian vanno d’accordo?» Non li avevo visti interagire; potevo solo provare a immaginare come si comportassero quando erano nella stessa stanza. Entrambi cercavano di guidare gli umani che occupavano il lembo di terra all’estremità meridionale di Prythian. Che era rimasto senza governo per tanto tempo. Troppo a lungo. Non c’erano più re o regine in quelle terre. Nessun ricordo dei loro nomi, delle loro stirpi. Almeno tra gli umani. Forse i Fae lo sapevano. Forse Rhys lo sapeva. Ma tutto ciò che restava, di chi un tempo aveva governato la punta meridionale di Prythian, era un assortimento eterogeneo di signori e signore. Nient’altro. Niente duchi o conti o nessuno dei titoli che una volta avevo sentito menzionare dalle mie sorelle mentre parlavano degli umani nel continente. Non c’erano titoli del genere nelle terre dei Fae. A Prythian. No, c’erano solo Signori Supremi e Signori. E ora una Signora Suprema. Mi chiedevo se gli umani avessero preso a usare solo “signore” come titolo grazie ai Fae Superiori che erano stati in agguato a nord del muro. Ma che ora non lo erano più.
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Lucien rifletteva sulla mia domanda. «Vassa e Jurian sono le due facce della stessa medaglia. Per fortuna, la loro visione del futuro dei territori umani per lo più coincide. Ma i metodi su come ottenerlo...» Aggrottò la fronte in direzione di Elain, poi fece una smorfia a me. «Questo non è un discorso molto adatto al Solstizio.» Assolutamente no, ma non mi importava. E, per quanto riguardava Elain... Mia sorella si alzò in piedi. «Vado a preparare il tè.» Anche Lucien si alzò. «No, non preoccuparti. Sono...» Ma lei era già fuori della stanza. Quando non udimmo più i suoi passi, Lucien si accasciò sulla poltrona e fece un lungo respiro. «Come sta?» «Meglio. Non fa menzione dei suoi poteri. Ammesso che ci siano ancora.» «Bene. Ma è ancora...» Gli guizzò un muscolo nella mascella. «Lo piange ancora?» Le parole erano poco più di un grugnito. Mi morsi un labbro, valutando quanta verità rivelare. Alla fine decisi di dire tutto. «Era profondamente innamorata di lui, Lucien.» I suoi occhi rossastri lampeggiarono di rabbia latente. L’istinto incontrollabile di una Metà: eliminare qualsiasi minaccia. Ma lui rimase seduto. Anche se le sue dita si conficcarono nei braccioli della poltrona. Continuai: «Sono passati solo pochi mesi. Graysen ha chiarito che il fidanzamento è terminato, ma forse ci vorrà un po’ più tempo perché lei lo superi». Di nuovo quella rabbia. Non per gelosia o per una minaccia, ma... «È uno dei peggiori stronzi che io abbia mai incontrato.» Lucien lo aveva conosciuto, capii. In qualche modo, vivendo con Jurian e Vassa in quella tenuta, si era imbattuto nell’ex fidanzato di Elain. Ed era riuscito a lasciarlo in vita. «Tendo a essere d’accordo con te, su questo argomento» ammisi. «Ma ricorda che erano fidanzati. Dalle il tempo di accettarlo.» «Di accettare una vita incatenata a me?» Le mie narici si dilatarono. «Non è quello che intendevo.» «Non vuole avere niente a che fare con me.» «E tu vorresti, se fossi al suo posto?» Non rispose. Feci un tentativo: «Dopo la fine del Solstizio, perché non vieni a stare qui una settimana o due? Non nel tuo appartamento, voglio dire. Qui, nella casa di città». «Per fare cosa?» «Per passare un po’ di tempo con lei.» «Non credo che sopporterebbe due minuti da sola con me, figurati due settimane.» Aveva la mascella contratta, mentre studiava il fuoco. Fuoco. Il dono ereditato da sua madre. Non da suo padre. Sì, era il potere di Beron. Il potere del padre che, per quel che ne sapeva il mondo, lo aveva generato. Ma non di Helion. Il suo vero padre. Non ne avevo ancora parlato a nessuno, a parte Rhys.
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Ma non era il momento giusto neppure per quello. «Quando hai affittato l’appartamento» mi azzardai a dire «speravo volesse dire che saresti venuto a lavorare qui. Con noi. Che saresti stato il nostro Emissario con gli umani.» «Perché, non lo sto facendo?» Inarcò un sopracciglio. «Non sto inviando rapporti bisettimanali al vostro capo delle spie?» «Potresti venire a vivere qui, sto dicendo solo questo» insistei. «Vivere davvero qui, fermarti a Velaris più di qualche giorno per volta. Potremmo procurarti un alloggio migliore...» Lucien si alzò. «Non ho bisogno della vostra carità.» Mi alzai anch’io. «Ma quella di Jurian e Vassa ti va bene?» «Ti sorprenderebbe vedere come andiamo d’accordo noi tre.» Erano amici, mi resi conto. Non sapevo come, ma erano diventati suoi amici. «Quindi preferiresti restare con loro?» «Non sto con loro. La tenuta è nostra.» «Interessante.» Il suo occhio dorato ronzò. «Che cosa è interessante?» In quel momento non sentivo per niente l’atmosfera festiva, quindi dissi bruscamente: «Che ora tu ti senta più a tuo agio con gli umani che con i Fae Superiori. Se vuoi sapere che cosa ne penso...». «Non particolarmente.» «Sembra che tu abbia deciso di metterti con due persone senza patria.» Lucien mi fissò, a lungo e intensamente. Quando parlò, la sua voce era aspra. «Buon Solstizio a te, Feyre.» Si voltò verso l’atrio, ma gli afferrai un braccio per fermarlo. I muscoli rigidi del suo avambraccio si spostarono sotto la seta sottile della giacca color zaffiro, ma lui non fece nulla per scrollare via la mia mano. «Non intendevo questo» dissi. «Qui hai una casa. Se la vuoi.» Lucien studiò il soggiorno, l’atrio al di là e la sala da pranzo dall’altra parte. «La Banda degli Esiliati.» «La che?» «È così che ci chiamiamo. La Banda degli Esiliati.» «Vi siete dati un nome.» Cercai di non far trasparire la mia incredulità. Lui annuì. «Jurian non è un esule» dissi. Vassa, sì. Lucien, a quel punto, lo era doppiamente. «Il regno di Jurian non è altro che polvere e ricordi semidimenticati, la sua gente si è dispersa ed è stata assorbita da altri territori molto tempo fa. Può chiamarsi come vuole.» Sì, immaginavo che potesse, dopo la battaglia contro Hybern, dopo l’aiuto che ci aveva dato. Ma chiesi: «E che cosa intende fare, esattamente, questa Banda degli Esiliati? Ospitare eventi? Organizzare comitati per progettare feste?». L’occhio metallico di Lucien scattò leggermente e si restrinse. «Puoi essere stronza quanto la tua Metà, lo sai?» Vero. Sospirai di nuovo. «Mi dispiace. Ho solo...» «Non ho nessun altro posto dove andare.» Prima che potessi obiettare, aggiunse: «Hai ro-
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vinato ogni mia possibilità di tornare alla Corte della Primavera. Non da Tamlin, ma nella Corte oltre casa sua. Tutti credono ancora alle bugie che hai inventato o mi credono complice del tuo inganno. E per quanto riguarda questa casa...». Si liberò dalla mia presa e si diresse verso la porta. «Non sopporto di stare nella stessa stanza con lei per più di due minuti. Non sopporto di stare in questa Corte e sapere che è la tua Metà a pagare quello che indosso.» Studiai la giacca che portava. L’avevo già vista. Ai tempi di... «Tamlin l’ha mandata ieri alla nostra tenuta» sibilò Lucien. «Ha mandato i miei vestiti. I miei averi. Tutto. Li ha spediti dalla Corte della Primavera e me li ha fatti scaricare sulla soglia della porta.» Bastardo. Era ancora un bastardo, nonostante quello che aveva fatto per me e Rhys durante l’ultima battaglia. Ma la colpa di quel comportamento non era solo di Tamlin. Avevo creato io quella spaccatura. L’avevo creata con le mie stesse mani. Non mi sentivo abbastanza in colpa da volermi scusare. Non ancora. Forse mai. «Perché?» L’unica domanda che mi venne in mente. «Forse ha avuto qualcosa a che fare con la visita della tua Metà, l’altro giorno.» Mi si irrigidì la spina dorsale. «Rhys non ti ha coinvolto in questa faccenda.» «Potrebbe anche essere. Qualunque cosa abbia detto o fatto, Tamlin ha deciso che desidera rimanere solo.» Il suo occhio rossastro si incupì. «La tua Metà avrebbe dovuto sapere che non è il caso di prendere a calci un maschio abbattuto.» «Non posso dire di essere particolarmente dispiaciuta, se l’ha fatto.» «Avrete bisogno di Tamlin come alleato prima che si depositi la polvere. Procedete con cautela.» Non volevo proprio pensarci, quel giorno. Qualsiasi giorno. «Non ho più niente a che fare con lui.» «Tu forse, ma Rhys no. E faresti bene a ricordarlo alla tua Metà.» Un impulso lungo l’Unione, come in risposta. “Tutto bene?” Lasciai che Rhys vedesse e sentisse tutto quello che era stato detto: gli trasmisi la conversazione in un batter d’occhio. “Mi dispiace avergli causato problemi” disse Rhys. “Ti serve che torni a casa?” “Ci penso io.” “Fammi sapere se hai bisogno di qualcosa” aggiunse Rhys, e l’Unione tacque. «Comunicazioni?» chiese piano Lucien. «Non so di che cosa tu stia parlando» risposi, e il mio viso era il ritratto della noia. Mi lanciò uno sguardo consapevole, proseguì verso la porta e prese il suo cappotto pesante e la sciarpa dai ganci dei pannelli di legno. «La scatola più grande è per te. Quella più piccola è per lei.» Mi ci volle un attimo per capire che si riferiva ai regali. Mi guardai alle spalle per vedere i begli involucri di carta argentata, i fiocchi azzurri su entrambe le scatole. Quando mi voltai di nuovo, Lucien se n’era andato. Trovai mia sorella in cucina, che guardava fischiare il bollitore.
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«Non si è fermato per il tè» dissi. Nessuna traccia di Nuala o Cerridwen. Elain tolse il bollitore dal fuoco. Sapevo di non essere davvero arrabbiata con lei, né con nessun altro a parte me stessa, ma dissi: «Non potevi rivolgergli almeno una parola? Un saluto gentile?». Elain si limitò a fissare il bollitore fumante mentre lo appoggiava sul bancone di pietra. «Ti ha portato un regalo.» Quegli occhi castani da daino si voltarono verso di me. Più limpidi di quanto li avessi mai visti. «E questo gli dà diritto al mio tempo, ai miei affetti?» «No.» Battei le palpebre. «Ma è un bravo maschio.» Nonostante le nostre dure parole. Nonostante quelle stronzate sulla Banda degli Esiliati. «Ti vuole bene.» «Non mi conosce.» «Non gli dai neanche la possibilità di provare a farlo.» Strinse le labbra, l’unico segno di rabbia sul suo volto aggraziato. «Non voglio una Metà. Non voglio un maschio.» Voleva un uomo umano. Solstizio. Era il Solstizio e tutti dovevamo essere allegri e felici. Certamente non era il caso di litigare a destra e a manca. «Lo so.» Feci un lungo respiro. «Ma...» Ma non avevo idea di come finire quella frase. Il fatto che Lucien fosse la sua Metà non significava che avesse diritti sul suo tempo. Sui suoi affetti. Lei apparteneva a se stessa, ed era in grado di fare le sue scelte. Di valutare i suoi bisogni. «È un bravo maschio» ripetei. «Ed è... è solo che...» Mi sforzai di trovare le parole giuste. «Non mi piace vedervi infelici.» Elain fissò il piano di lavoro e i dolci – sia finiti sia incompleti – disposti sulla superficie, il bollitore che si stava raffreddando. «Lo so.» Non c’era altro da dire. Così le toccai una spalla e uscii. Elain non disse una parola. Trovai Mor seduta sugli ultimi gradini delle scale; indossava un paio di pantaloni larghi color pesca e un maglione bianco pesante. Una combinazione dello stile usuale di Amren e del mio. Mentre gli orecchini d’oro lampeggiavano, Mor mi rivolse un sorriso torvo. «Qualcosa da bere?» Tra le sue mani apparvero una caraffa e un paio di bicchieri. «Madre nei cieli, sì.» Aspettò che mi fossi seduta accanto a lei sui gradini di quercia e avessi bevuto un sorso di liquido ambrato, che mi fece bruciare la gola e mi riscaldò il ventre, e poi mi chiese: «Vuoi un mio consiglio?». No... Sì. Annuii. Mor bevve a lungo dal suo bicchiere. «Stanne fuori. Non è pronta, e non lo è nemmeno lui, non importa quanti regali porti.» Inarcai un sopracciglio. «Ficcanaso.» Mor si appoggiò contro i gradini, senza traccia di pentimento. «Lascialo vivere con la
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sua Banda di Esiliati. Lascia che si occupi di Tamlin a modo suo. Lascia che capisca dove vuole stare. Chi vuole essere. E lo stesso vale per lei.» Aveva ragione. «So che ti senti ancora in colpa per la Creazione delle tue sorelle.» Mor mi diede un colpetto al ginocchio con il suo. «Ed è per questo che vuoi risolvere tutto per loro, ora che sono qui.» «Ho sempre voluto farlo» dissi, cupa. Mor fece un sorriso storto. «Ecco perché ti amiamo. Perché ti amano.» Non ero tanto sicura che mi amasse anche Nesta. Mor continuò: «Sii paziente. Le cose si risolveranno da sole. Lo fanno sempre». Un altro nocciolo di verità. Mi riempii il bicchiere, posai la caraffa di cristallo sul gradino dietro di noi e bevvi di nuovo. «Voglio che siano felici. Tutti loro.» «E lo saranno.» Pronunciò quelle semplici parole con tanta convinzione che le credetti. Inarcai un sopracciglio. «E tu... sei felice?» Mor sapeva che cosa intendevo. Ma lei si limitò a sorridere, facendo roteare il liquore nel suo bicchiere. «È il Solstizio. Sono con la mia famiglia. Sto bevendo. Sì, sono molto felice.» Abilmente evasiva. Ma mi andava bene prendere parte a quell’evasione. Feci tintinnare il mio pesante bicchiere contro il suo. «A proposito della nostra famiglia... Dove diavolo sono?» Gli occhi marroni di Mor si illuminarono. «Oh... oh, non te l’ha detto, vero?» Il mio sorriso vacillò. «Dimmelo tu.» «Stanno facendo quello che fanno loro tre, ogni mattina del Solstizio.» «Comincio a innervosirmi.» Mor posò il bicchiere e mi prese per un braccio. «Vieni con me.» Prima che potessi obiettare, ci aveva trasmutate. Mi colpì una luce accecante. E il freddo. Un freddo vivo e brutale. Un freddo eccessivo per i maglioni e i pantaloni che indossavamo. Neve. E sole. E vento. E montagne. E... una casa. La casa. Mor indicò il grandissimo campo in cima alla montagna. Coperto di neve, proprio come l’avevo visto l’ultima volta. Ma invece che una distesa piatta e ininterrotta... «Quelli sono fortini di neve?» Annuì. Qualcosa di bianco attraversò il campo, qualcosa di bianco, duro e scintillante, e poi... L’urlo di Cassian echeggiò sulle montagne intorno a noi. Seguito da un «Bastardo!». La risata di risposta di Rhys fu luminosa come il sole sulla neve. Studiai le tre pareti di neve – le barricate – che delimitavano il campo mentre Mor erigeva uno scudo invisibile contro il vento pungente. Che, tuttavia, fece ben poco per scacciare il freddo. «Stanno facendo una battaglia a palle di neve.»
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Annuì di nuovo. «Tre guerrieri Illyrian» dissi. «I più grandi guerrieri Illyrian della storia. E stanno combattendo a palle di neve.» Gli occhi di Mor brillavano di gioia e malizia. «Da quando erano bambini.» «Hanno più di cinquecento anni!» «Vuoi che ti dica il numero attuale di vittorie?» La guardai a bocca aperta. Poi fissai il campo. Le palle di neve che volavano con brutale e rapida precisione mentre teste scure spuntavano dai muri che avevano costruito. «Niente magia» recitò Mor «niente ali, niente pause.» «Sono qui fuori da mezzogiorno.» Erano quasi le tre. Cominciai a battere i denti. «Io sono sempre rimasta dentro a bere» disse Mor, come se quella fosse una risposta. «Come fanno a decidere chi ha vinto?» «Chi non subisce danni da assideramento?» La guardai di nuovo sbalordita, battendo i denti. «Ma è ridicolo.» «C’è altro alcol in casa.» Nessuno dei maschi sembrava averci notate. Azriel spuntò fuori, lanciò due palle di neve verso il cielo e scomparve di nuovo dietro il suo muro di neve. Un attimo dopo, volarono verso di noi feroci imprecazioni di Rhys. «Coglione.» C’era gioia in ogni sillaba. Mor mi prese di nuovo a braccetto. «Non credo che quest’anno vincerà la tua Metà, amica mia.» Mi adagiai nel suo calore e ci avviammo nella neve alta fino alla casa, il cui camino sbuffava fumo contro il cielo azzurro e limpido. Piccoli Illyrian, proprio.
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inse Azriel. Era la sua centonovantanovesima vittoria, a quanto pareva. I tre erano entrati in casa un’ora dopo, sgocciolando neve, con la pelle chiazzata di rosso e sorrisi che andavano da un orecchio all’altro. Mor e io, accoccolate insieme sul divano sotto una coperta, ci limitammo ad alzare gli occhi al cielo. Rhys mi diede un bacio sulla testa, annunciò che loro tre avrebbero fatto un bagno di vapore nella baracca rivestita di cedro adiacente alla casa, e poi se ne andarono. Sbattei le palpebre verso Mor mentre svanivano, lasciando che l’immagine si stabilizzasse. «Un’altra tradizione» mi disse. La bottiglia di alcol color ambra era quasi vuota, e mi girava la testa. «Sono un’usanza Illyrian, in realtà, le capanne riscaldate. I birchin. Un branco di guerrieri nudi, seduti insieme nel vapore, a sudare.» Battei di nuovo le palpebre. Le labbra di Mor si contrassero. «È praticamente l’unica bella usanza che gli Illyrian abbiano mai inventato, a essere onesti.» Sbuffai. «Quindi loro tre sono lì dentro. Nudi. E sudano.» Madre nei cieli. “Ti interessa dare un’occhiata?” Le fusa oscure echeggiavano nella mia mente. “Vecchio bavoso. Torna alla tua sudata.” “C’è spazio per un’altra persona, qui.”
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“Pensavo che le Metà fossero territoriali.” Lo sentivo sorridere come se stesse sorridendo contro il mio collo. “Sono sempre ansioso di sapere che cosa accende il tuo interesse, Feyre cara.” Esaminai la casa attorno a me, le superfici che avevo dipinto quasi un anno prima. “Mi è stata promessa una parete, Rhys.” Una pausa. Una lunga pausa. “Ti ho già presa contro una parete. Contro queste pareti.” Un’altra lunga, lunga pausa. “È maleducazione stare sull’attenti mentre si è nel birchin.” Le mie labbra si incurvarono mentre gli inviavo un’immagine. Un ricordo. Di me sul tavolo della cucina a pochi piedi di distanza. Di lui inginocchiato davanti a me. Le mie gambe avvolte intorno alla sua testa. “Sei una creatura crudele e malvagia.” Sentii sbattere una porta in qualche angolo della casa, e poi un uggiolio distintamente maschile. Poi pugni sul legno, come se qualcuno stesse cercando di rientrare. A Mor brillarono gli occhi. «L’hai fatto sbattere fuori, vero?» Il mio sorriso di risposta la fece scoppiare a ridere. Il sole stava tramontando verso il mare lontano al di là di Velaris quando Rhys si accostò alla mensola del camino di marmo nero, nel salotto della casa di città, e sollevò il suo bicchiere di vino. Tutti noi – una volta tanto, eleganti dal primo all’ultimo – sollevammo i nostri. Avevo scelto di indossare il mio abito della Notte delle Stelle, rinunciando alla corona ma mettendo i braccialetti di diamanti ai polsi. Il vestito brillava e splendeva nella mia linea visiva mentre stavo al fianco di Rhys e osservavo il suo bellissimo viso. Stava dicendo: «Alla benedetta oscurità da cui siamo nati e alla quale ritorneremo». Alzammo i bicchieri e bevemmo. Guardai la mia Metà, nella sua più bella giacca nera, con il ricamo d’argento che brillava alla luce del sole. “Questo è tutto?” gli chiesi lungo l’Unione. Inarcò un sopracciglio. “Volevi che continuassi a blaterare o è meglio cominciare a festeggiare?” Le mie labbra si contrassero. “Mantieni davvero le cose informali.” “Dopo tutto questo tempo, ancora non mi credi.” Fece scivolare una mano dietro di me e mi diede un pizzicotto. Mi morsi un labbro per non ridere. “Spero che tu mi abbia fatto un bel regalo per il Solstizio.” Toccava a me pizzicarlo; lui rise e mi diede un bacio sulla tempia, poi uscì dalla stanza. Senza dubbio per prendere altro vino. Al di là delle finestre, era calata l’oscurità. La notte più lunga dell’anno. Trovai Elain, bellissima nel suo abito color ametista, che studiava quell’oscurità. Feci per andare verso di lei, ma qualcuno mi batté sul tempo. Il cantaombre indossava giacca e pantaloni neri simili a quelli di Rhysand, perfettamente confezionati per adattarsi alle sue ali. Aveva ancora i Sifoni su entrambe le mani,
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e le ombre seguivano i suoi passi, arricciandosi come tizzoni turbinanti, ma non si vedevano altre tracce del guerriero che era in lui. Soprattutto quando disse gentilmente a mia sorella: «Buon Solstizio». Elain voltò le spalle alla neve che cadeva nel buio e fece un sorrisino. «Non ho mai partecipato a una di queste festività.» Amren – dall’altra parte della stanza, con Varian al suo fianco, splendente nelle sue vesti principesche – proclamò: «Sono decisamente sopravvalutate». Mor sorrise. «Dice la donna che si riempie le tasche ogni anno. Non so com’è che non ti hanno ancora derubata sulla strada verso casa, con tutti quei gioielli addosso.» Amren mostrò i suoi denti troppo bianchi. «Attenta, Morrigan, o riporto indietro la graziosa cosina che ti ho preso.» Mor, con mia sorpresa, tacque subito. E così fecero gli altri, quando Rhys tornò con... «No, dimmi che non è vero» sbottai. Lui mi fece un ampio sorriso da sopra la gigantesca torta a vari strati che aveva tra le braccia... e sopra le ventun candeline scintillanti che gli illuminavano il viso. Cassian mi diede una pacca sulla spalla. «Pensavi di poterci sfuggire, eh?» Gemetti. «Siete tutti insopportabili.» Elain fluttuò al mio fianco. «Buon compleanno, Feyre.» I miei amici – la mia famiglia – riecheggiarono quelle parole mentre Rhys posava la torta sul tavolino basso davanti al fuoco. Guardai mia sorella. «L’hai...?» Annuì. «Però l’ha decorata Nuala.» Fu allora che mi resi conto di come erano stati dipinti i tre diversi strati. In alto: fiori. Al centro: fiamme. E sul fondo, sullo strato più largo... stelle. Le stesse cose che un tempo avevo disegnato sulla cassettiera di quella casetta fatiscente. Un disegno diverso per ognuna di noi, per ogni sorella. Quelle stelle e lune che erano state inviate a me, alla mia mente, dalla mia Metà. Molto prima che ci conoscessimo. «Ho chiesto a Nuala di metterli in quest’ordine» disse Elain mentre gli altri si radunavano attorno a noi. «Perché sei le nostre fondamenta, quello che ci sostiene. Lo sei sempre stata.» Mi si annodò la gola in maniera insopportabile e le strinsi la mano in risposta. Mor, che fosse benedetta dal Calderone, gridò: «Esprimi un desiderio e passiamo ai regali!». Almeno una tradizione era uguale da entrambi i lati del muro. Incrociai lo sguardo di Rhys sopra le candele scintillanti. Il suo sorriso fu sufficiente a trasformare la tensione alla gola in un bruciore agli occhi. “Che desiderio esprimerai?” mi chiese lungo l’Unione. Una domanda semplice e franca. E osservandolo, guardando quel bel viso e quel sorriso disinvolto, tante di quelle ombre svanirono, con la nostra famiglia raccolta attorno a noi, con l’eternità che era una strada davanti a noi... lo seppi. Seppi esattamente che desiderio volevo esprimere, come se fosse un pezzo dei puzzle
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di Amren che si incastrava, come se i fili dell’arazzo della tessitrice rivelassero finalmente il disegno che dovevano formare. Non glielo dissi, però. Presi fiato e soffiai. La torta prima di cena era assolutamente accettabile al Solstizio, mi informò Rhys mentre posavamo i nostri piatti su qualsiasi superficie disponibile nel soggiorno. Soprattutto prima dei regali. «Quali regali?» chiesi, esaminando la stanza vuota, fatta eccezione per le due scatole di Lucien. Gli altri mi sorrisero mentre Rhys schioccava le dita e... «Oh.» Scatole e borse, tutte colorate e decorate, riempirono i bovindi. Mucchi e montagne e torri di pacchetti. Mor si lasciò sfuggire uno strillo di gioia. Mi voltai verso l’atrio. Avevo lasciato i miei in un ripostiglio delle scope al secondo piano... No. Eccoli. Dietro agli altri, tutti incartati. Rhys mi strizzò un occhio. «Mi sono preso la libertà di aggiungere i tuoi regali al bottino comune.» Inarcai le sopracciglia. «Tutti ti hanno affidato i loro doni?» «È l’unico di cui ci si può fidare, l’unico che non ficca il naso» mi spiegò Mor. Guardai Azriel. «Lui no» disse Amren. Azriel fece una smorfia con aria colpevole. «Capo delle spie, ricordi?» «Cominciammo a farlo due secoli fa» continuò Mor. «Quando Rhys sorprese Amren che letteralmente scuoteva una scatola per capire che cosa ci fosse dentro.» Amren fece schioccare la lingua mentre io ridevo. «Quello che non hanno visto era Cassian, quaggiù, dieci minuti prima, che annusava ogni pacchetto.» Cassian le lanciò un sorriso pigro. «Non sono stato colto in flagrante, io.» Mi rivolsi a Rhys. «E così tu saresti il più degno di fiducia?» Rhys sembrò decisamente offeso. «Sono un Signore Supremo, Feyre cara. L’onore incrollabile è incorporato nelle mie ossa.» Mor e io sbuffammo. Amren si diresse verso la pila di regali più vicina. «Comincio io.» «Non avevo dubbi» mormorò Varian, guadagnandosi sorrisi da me e da Mor. Amren gli sorrise dolcemente e poi si chinò a prendere un regalo. Varian ebbe il buonsenso di rabbrividire solo quando lei gli ebbe voltato le spalle. Ma Amren prese un regalo avvolto in carta rosa, lesse il bigliettino con il nome e lacerò la confezione. Tutti tentammo di nascondere i nostri sussulti e nessuno ci riuscì. Avevo visto animali strappare brani dalle carcasse con meno ferocia. Ma lei sorrideva quando si voltò verso Azriel, con squisiti orecchini di perle e diamanti nelle mani. «Grazie, cantaombre» disse, inclinando la testa.
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Azriel si limitò a inclinare la testa a sua volta. «Sono contento che passino l’ispezione.» Cassian superò Amren a gomitate, guadagnandosi un sibilo di avvertimento, e iniziò a lanciare regali. Mor prese al volo il suo e distrusse l’involucro con lo stesso entusiasmo di Amren. Poi sorrise al generale. «Grazie, caro.» Cassian assunse un’aria compiaciuta. «So che cosa ti piace.» Mor tenne in alto... Quasi mi strozzai. Anche Azriel, che si voltò di colpo verso Cassian. Cassian gli fece l’occhiolino mentre l’impalpabile negligé rosso oscillava tra le mani di Mor. Prima che Azriel potesse esprimere ad alta voce quello che ci stavamo chiedendo tutti, Mor mormorò tra sé e sé e poi disse: «Non lasciatevi ingannare: non riusciva a decidere che cosa regalarmi, quindi si è arreso e me lo ha chiesto apertamente. Io gli ho dato istruzioni precise. Per una volta nella vita, le ha seguite alla lettera». «Un guerriero perfetto, in tutto e per tutto» commentò Rhys. Cassian si appoggiò allo schienale del divano e stese davanti a sé le lunghe gambe. «Non preoccuparti, Rhysie. Te ne ho preso uno uguale.» «Dovrò indossarlo per te?» Risi, e mi sorprese sentire un’eco della mia risata nella stanza. Era Elain. Il suo regalo... Mi precipitai verso la pila di regali prima che Cassian potesse lanciarne un altro e cercai il pacchetto che avevo incartato con cura il giorno prima. L’avevo appena visto dietro una scatola più grande quando lo sentii. Un colpo alla porta. Solo uno. Rapido e duro. Lo sapevo. Sapevo, prima ancora che Rhys mi guardasse, chi era in piedi dietro quella porta. Tutti lo sapevano. Cadde il silenzio, interrotto solo dallo scoppiettio del fuoco. Un attimo e poi mi mossi, con il vestito che mi frusciava attorno mentre attraversavo l’atrio, spalancavo la porta di vetro impiombato e poi quella di quercia, e mi preparavo all’assalto del freddo. All’assalto di Nesta.
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FEYRE
a neve si attaccava ai capelli di Nesta mentre stavamo a fissarci ai due lati della soglia. La notte gelida le aveva tinto di rosa le guance, ma il suo viso rimaneva solenne. Freddo come i ciottoli spolverati di neve. Aprii un po’ di più la porta. «Siamo in salotto.» «Ho visto.» Arrivavano fino all’atrio conversazioni incerte ed esitanti. Senza dubbio era un nobile tentativo da parte di tutti: volevano fornirci un po’ di intimità, dare un senso di normalità a quella situazione. Visto che Nesta restava sul pianerottolo, le tesi una mano. «Dai, ti prendo il cappotto.» Cercai di non trattenere il respiro mentre lei guardava oltre le mie spalle, verso l’interno della casa. Come se stesse valutando se fare quel passo oltre la soglia. Al limite del mio campo visivo, un barlume viola e oro: Elain. «Ti ammalerai se rimani lì al freddo» disse a Nesta, con un ampio sorriso. «Vieni a sederti con me accanto al fuoco.» Gli occhi grigio-azzurri di Nesta si posarono sui miei. Diffidenti. Calcolatori. Restai dov’ero. Tenni aperta quella porta. Senza una parola, mia sorella varcò la soglia. In un momento l’aiutammo a togliersi il cappotto, la sciarpa e i guanti; sotto c’era uno di quegli abiti semplici ma eleganti che prediligeva. Aveva optato per un grigio ardesia. Niente gioielli. Certamente non aveva regali con sé, ma almeno era venuta.
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Elain prese Nesta sottobraccio per condurla nel salotto, e io le seguii, osservando il gruppo che aveva interrotto le conversazioni. Osservando soprattutto Cassian, che era in piedi davanti al fuoco con Az. Sembrava perfettamente rilassato, con un braccio appoggiato sulla mensola scolpita del camino, le ali ripiegate ma non serrate, un vago sorriso sul volto e un bicchiere di vino in mano. Puntò i suoi occhi nocciola su mia sorella senza muoversi di un pollice. Elain si era incollata un sorriso in faccia mentre conduceva Nesta non verso il fuoco come aveva promesso, ma verso l’armadietto dei liquori. «Non portarla al vino, portala al cibo» la esortò Amren dalla poltrona su cui era appollaiata, mentre si infilava nei lobi gli orecchini di perle che le aveva regalato Az. «Vedo il suo culo ossuto anche attraverso il vestito.» Nesta si fermò a metà della stanza, con la schiena rigida. Cassian era immobile come la morte. Elain si fermò accanto a nostra sorella; quel sorriso stampato stava vacillando. Amren fece un sorrisetto furbo a Nesta. «Buon Solstizio, ragazza.» Nesta fissò Amren, finché il fantasma di un sorriso non le incurvò le labbra. «Begli orecchini.» Più che vederlo, percepii che tutti si rilassavano un pochino. Elain disse allegramente: «Avevamo appena iniziato con i regali». Solo quando lo disse, mi venne in mente che su nessuno dei pacchetti in quella stanza c’era il nome di Nesta. «Non abbiamo ancora mangiato» dissi, indugiando sulla soglia tra il salotto e l’atrio. «Ma, se hai fame, possiamo prepararti un piatto...» Nesta accettò il bicchiere di vino che Elain le mise in mano. Non mancai di notare che, quando Elain si voltò di nuovo verso l’armadietto degli alcolici, versò un dito di liquore color ambra in un bicchiere e lo buttò giù con una smorfia prima di affrontare di nuovo Nesta. Amren, a cui non sfuggiva nulla, fece un lieve sbuffo. Ma l’attenzione di Nesta si era rivolta alla torta di compleanno ancora posata sul tavolino; tutti avevamo attinto più volte ai suoi vari strati. Nel silenzio, sollevò lo sguardo verso il mio. «Buon compleanno.» Feci un cenno di ringraziamento. «Ha fatto Elain la torta» la informai, anche se era abbastanza inutile. Nesta si limitò ad annuire e poi si diresse verso una sedia sul fondo della stanza, vicino a una delle librerie. «Potete tornare ai vostri regali» disse con voce bassa, ma non debole, mentre si sedeva. Elain si precipitò verso un pacchetto sulla parte anteriore del mucchio. «Questo è per te» annunciò a nostra sorella. Lanciai a Rhys uno sguardo implorante. “Per favore, ricomincia a parlare. Per favore.” Parte della luce era svanita dai suoi occhi viola mentre studiava Nesta che beveva. Non rispose lungo l’Unione, ma disse invece a Varian: «Tarquin organizza una festa ufficiale per il Solstizio d’estate o ci sono incontri più informali?».
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Il principe di Adriata non perse un colpo e si lanciò in una descrizione – forse inutilmente dettagliata – delle celebrazioni alla Corte dell’Estate. Lo avrei ringraziato più tardi. A quel punto Elain aveva raggiunto Nesta e le stava porgendo quella che sembrava una scatola pesante avvolta nella carta. Vicino alle finestre, Mor si mise in moto e porse il suo regalo ad Azriel. Non sapendo chi guardare, rimasi sulla soglia. La compostezza di Azriel non vacillò nemmeno quando aprì il suo regalo: un assortimento di asciugamani azzurri ricamati, con le sue iniziali sopra. Un azzurro acceso. Dovetti distogliere lo sguardo per non ridere. Az, a suo merito, rivolse a Mor un sorriso di ringraziamento, con le guance che si arrossavano e gli occhi nocciola fissi su di lei. Guardai altrove notando come erano colmi di calore, di desiderio. Mor respinse i ringraziamenti con un cenno della mano e fece per passare a Cassian il suo regalo, ma il guerriero non lo prese. Né distolse gli occhi da Nesta che toglieva la carta marrone dalla scatola e scopriva una serie di cinque romanzi in una scatola di pelle. Lesse i titoli e poi alzò la testa verso Elain. Elain le sorrise. «Sono entrata in quella libreria. Hai presente quella del teatro? Ho chiesto un consiglio, e la donna, voglio dire la femmina... ha detto che i libri di questa autrice sono i suoi preferiti.» Mi avvicinai abbastanza da poter leggere uno dei titoli. Narrativa romantica, sembrava. Nesta tirò fuori uno dei libri e ne sfogliò le pagine. «Grazie.» La parola era rigida... aspra. Alla fine Cassian si voltò verso Mor e aprì il suo regalo senza alcun riguardo per la bella carta in cui era avvolto. Rise, qualunque cosa ci fosse dentro la scatola. «Proprio quello che ho sempre desiderato.» Ci mostrò quelle che sembravano essere mutande di seta rossa. L’abbinamento perfetto con il negligé di lei. Con Nesta occupatissima a sfogliare i suoi nuovi libri, passai ai regali che avevo incartato il giorno prima. Per Amren: un contenitore pieghevole studiato appositamente per i suoi puzzle. Così non avrebbe dovuto lasciarli a casa se avesse voluto visitare terre più soleggiate e più calde. Questo le fece alzare gli occhi al cielo ma mi fece ottenere un sorriso di apprezzamento. La spilla di rubini e argento, a forma di ali piumate, mi valse un raro bacio sulla guancia. Per Elain: un mantello celeste con fori per le braccia, perfetto per il giardinaggio nei mesi più freddi. E per Cassian, Azriel e Mor... Grugnii mentre trascinavo i tre dipinti incartati. Poi attesi in silenzio, nervosa, mentre li aprivano. Mentre guardavano che cosa c’era dentro e sorridevano. Non avevo idea di che cosa regalare a loro tre, a parte quelle cose. I quadri a cui avevo lavorato di recente: momenti delle loro storie. Nessuno di loro commentò i dipinti, disse che cosa ci vedevano. Ma ognuno di loro mi baciò sulla guancia in segno di ringraziamento.
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Prima che potessi dare a Rhys il suo regalo, me ne trovai un mucchio in grembo. Da Amren: un manoscritto miniato, antico e bellissimo. Da Azriel: colori rari e palpitanti portati dal continente. Da Cassian: un vero fodero di cuoio per una lama, da mettermi lungo il solco della spina dorsale come un autentico guerriero Illyrian. Da Elain: pennelli fini con il monogramma delle mie iniziali e le insegne della Corte della Notte sui manici. E da Mor: un paio di pantofole foderate di pelliccia. Pantofole di un rosa brillante foderate di pelliccia. Niente da Nesta, ma non mi importava. Neanche un po’. Gli altri si scambiarono i loro regali e finalmente trovai il momento giusto per portare l’ultimo dipinto a Rhys. Si era soffermato vicino al bovindo, silenzioso e sorridente. L’anno precedente era stato il suo primo Solstizio dopo Amarantha, questo il secondo. Non volevo sapere com’era stato, che cosa gli aveva fatto, durante quei quarantanove Solstizi che si era perso. Rhys aprì con cura il mio regalo, sollevando il dipinto in modo che gli altri non lo vedessero. Osservai i suoi occhi vagare su quello che c’era sopra. Guardai la sua gola muoversi. «Dimmi che non è il tuo nuovo animaletto domestico» disse Cassian, che si era intrufolato dietro di me per sbirciare. Lo spinsi via. «Impiccione.» Il viso di Rhys rimase solenne; i suoi occhi luminosi come stelle quando incontrarono i miei. «Grazie.» Gli altri si misero a parlare un po’ più rumorosamente, per darci un po’ di intimità in quella stanza affollata. «Non ho idea di dove potresti appenderlo» dissi «ma volevo che lo avessi tu.» Che lo vedesse lui. Perché su quel dipinto gli mostravo ciò che non avevo rivelato a nessuno. Ciò che mi aveva rivelato l’Ouroboros: la creatura dentro di me, la creatura piena di odio e di rimpianto, di amore e di spirito di sacrificio, la creatura che poteva essere crudele e coraggiosa, triste e gioiosa. Gli avevo dato la me stessa che nessuno, tranne lui, avrebbe mai visto. Che nessuno, tranne lui, avrebbe mai capito. «È bellissimo» disse, con la voce ancora roca. Battei le palpebre per allontanare le lacrime che mi fecero spuntare quelle parole e mi adagiai nel bacio che mi premette sulla bocca. “Sei bellissima” sussurrò nell’Unione. “Anche tu.” “Lo so.” Risi e mi tirai indietro. “Scemo.” Erano rimasti solo pochi pacchetti, quelli di Lucien. Aprii il mio e trovai un regalo per me e per la mia Metà: tre bottiglie di ottimo liquore. “Ne avrete bisogno” diceva il biglietto. Passai a Elain la scatoletta con il suo nome sopra. Quando lo aprì, le svanì il sorriso.
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«Guanti incantati» lesse dal cartoncino. «Non ci si taglia né si suda troppo quando si fa giardinaggio.» Mise da parte la scatola senza guardarla per più di un istante. E mi chiesi se magari preferisse avere le mani tagliate e sudate, se lo sporco e i graffi fossero la prova del suo lavoro. Se le dessero gioia. Amren strillò di gioia – davvero strillò – quando vide il regalo di Rhys, i gioielli che scintillavano nelle loro varie scatole. Ma la sua gioia si fece più tranquilla, più intenerita quando aprì il regalo di Varian. Non mostrò a nessuno di noi che cosa c’era dentro la scatolina e poi gli rivolse un piccolo sorriso privato. Era rimasto un minuscolo pacchetto sul tavolo accanto alla finestra: Mor lo sollevò, guardò l’etichetta con il nome e disse: «Az, questo è per te». Il cantaombre inarcò le sopracciglia, ma la sua mano sfregiata si protese per prendere il regalo. Elain, che stava parlando con Nesta, si voltò. «Oh, quello è da parte mia.» Il viso di Azriel non cambiò espressione a quelle parole. Non fece nemmeno un sorriso mentre apriva il regalo e rivelava... «L’ho fatto fare da Madja» spiegò Elain. Azriel aggrottò la fronte sentendo nominare la guaritrice preferita della famiglia. «È una polvere che puoi mescolare con qualsiasi bevanda.» Silenzio. Elain si morse un labbro e poi sorrise, imbarazzata. «È per il mal di testa che ti fanno venire sempre tutti. Visto che ti strofini le tempie così spesso.» Di nuovo silenzio. Poi Azriel piegò all’indietro la testa e rise. Non avevo mai sentito un suono così profondo e gioioso. Cassian e Rhys lo raggiunsero; il primo strappò la bottiglia di vetro dalla mano di Azriel e la esaminò. «Fantastico» disse. Elain sorrise di nuovo e chinò la testa. Azriel riprese il controllo, abbastanza da poter dire: «Grazie». Non avevo mai visto i suoi occhi così luminosi; i toni del verde tra il marrone e il grigio sembravano vene di smeraldo. «Questo è un regalo inestimabile.» «Coglione» disse Cassian, ma rise di nuovo. Nesta osservava con diffidenza dalla sua sedia, tenendo in grembo il regalo di Elain... il suo unico regalo. Irrigidì leggermente la schiena. Non per le parole, ma perché Elain rideva con loro. Con noi. Come se Nesta ci stesse guardando da una specie di finestra. Come se fosse ancora in piedi in giardino, a guardare dentro casa. Però mi sforzai di sorridere. Di ridere con loro. Avevo la sensazione che Cassian stesse facendo altrettanto. La notte fu un insieme confuso di risate e bevute, anche se Nesta stava seduta quasi in silenzio al tavolo da pranzo pieno zeppo. Fu solo quando l’orologio suonò le due che i presenti cominciarono a sbadigliare. Amren e Varian furono i primi ad andarsene, il secondo portando tutti i regali di lei tra le brac-
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cia, la prima avvolta nella bella pelliccia di ermellino che le aveva regalato lui: un secondo regalo, oltre a quello – qualunque cosa fosse – che era in quella scatoletta. Nesta si sistemò di nuovo in salotto, ma mezz’ora dopo si alzò in piedi. Con calma augurò la buona notte a Elain, le diede un bacio sulla testa e si diresse verso la porta d’ingresso. Cassian, accoccolato sul divano con Mor, Rhys e Azriel, non si mosse nemmeno. Ma io sì: mi alzai e seguii Nesta fino alla porta d’ingresso; stava indossando i suoi vari strati di abbigliamento. Aspettai che fosse entrata nell’anticamera e poi allungai una mano. «Ecco.» Nesta si voltò a metà verso di me, concentrandosi su ciò che avevo in mano. Il piccolo pezzo di carta. La nota del banchiere per l’affitto. E qualcosa in più. «Come promesso» dissi. Per un momento, pregai che non lo prendesse. Che mi dicesse di strapparlo. Ma le labbra di Nesta si limitarono a contrarsi, e le sue dita non esitarono mentre prendeva i soldi. Poi mi voltò le spalle e uscì dalla porta principale, nell’oscurità gelida. Rimasi nella fredda anticamera, con la mano ancora tesa; indugiava sulle mie dita la spettrale aridità di quell’assegno. Sentii dei tonfi sulle assi del pavimento dietro di me, e poi fui spostata di lato con delicatezza ma con decisione. Accadde così in fretta che ebbi a malapena il tempo di rendermi conto che Cassian era passato come una furia ed era uscito dal portone. Dietro mia sorella.
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CASSIAN
e aveva avuto abbastanza. Non sopportava più quella freddezza, quell’asprezza. Non sopportava più quella spina dorsale dritta come una spada e quello sguardo tagliente come un rasoio, che nel corso di quei mesi era solo diventato più tagliente. Cassian non riusciva a udire quasi niente a parte il ruggito nella sua testa, mentre avanzava a passo di carica nella notte nevosa. Si rese appena conto del fatto che aveva spostato di lato la sua Signora Suprema per arrivare alla porta principale. Per arrivare a Nesta. Lei era già arrivata al cancello, camminando con quella grazia risoluta nonostante il terreno ghiacciato. Teneva sotto il braccio la sua collezione di libri. Fu solo quando Cassian la raggiunse che si rese conto di non avere niente da dire. Niente da dire che non la spingesse a ridergli in faccia. «Ti accompagno a casa» fu tutto ciò che gli uscì dalla bocca. Nesta si fermò appena oltre il basso cancello di ferro, con il viso freddo e pallido come la luce della luna. Bellissima. Anche se aveva perso peso, lì in piedi sulla neve era bella come la prima volta che l’aveva vista, a casa di suo padre. E infinitamente più letale. In tanti sensi. Lei lo studiò. «Non è necessario.» «È una lunga camminata, ed è tardi.» “E non mi hai detto una sola stramaledetta parola per tutta la notte” aggiunse mentalmente.
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Non che lui le avesse parlato. Nesta aveva messo abbastanza in chiaro, in quei primi giorni dopo l’ultima battaglia, che non voleva avere niente a che fare con lui. Con nessuno di loro. Lui la capiva. La capiva davvero. Gli ci erano voluti mesi – anni – dopo le sue prime battaglie per riadattarsi. Per fronteggiare il mondo. Diavolo, anche lui si stava ancora riprendendo da quello che era successo in quella battaglia finale contro Hybern. Nesta mantenne la sua posizione, orgogliosa come tutti gli Illyrian. E anche più feroce. «Torna in casa.» Cassian le rivolse un sorriso storto, un sorriso che la mandava su tutte le furie, lo sapeva. «Penso di aver bisogno di aria fresca, comunque.» Lei alzò gli occhi al cielo e si mise a camminare rapidamente. Cassian non era così stupido da offrirsi di portarle i libri. Restò al passo con lei, invece, attento a eventuali chiazze di ghiaccio sui ciottoli. Erano sopravvissuti a malapena a Hybern. Non era il caso che lei si spezzasse il collo per strada. Nesta resisté per tutto un isolato di case dai tetti verdi, allegre e ancora piene di canti e risate, prima di fermarsi. Si voltò verso di lui. «Torna a casa.» «Lo farò» le rispose, sorridendo di nuovo. «Dopo che ti avrò salutata sulla porta di casa.» Sulla porta del merdoso appartamento in cui insisteva a vivere. Dall’altra parte della città. Gli occhi di Nesta, uguali a quelli di Feyre eppure completamente diversi, acuti e freddi come l’acciaio, si posarono sulle mani di Cassian. Su ciò che racchiudevano. «Che cos’è quello.» Un altro sorriso mentre sollevava il pacchetto avvolto nella carta. «Il tuo regalo per il Solstizio.» «Non voglio un regalo.» Cassian la superò e glielo lanciò tra le mani. «Questo lo vorrai.» Perlomeno pregava che fosse così. Aveva impiegato mesi per trovarlo. Non aveva voluto darglielo davanti agli altri. Non sapeva nemmeno se sarebbe andata lì quella sera. Era ben consapevole del lavoro di persuasione che avevano fatto Elain e Feyre. Proprio come era ben consapevole dei soldi che aveva visto Feyre dare a Nesta pochi istanti prima che lei uscisse. “Come promesso” aveva detto la sua Signora Suprema. Avrebbe voluto che non lo facesse. Avrebbe voluto molte cose. Nesta gli si mise accanto, respirando pesantemente per tenere il passo con le sue lunghe gambe. «Non voglio niente da te.» Lui si costrinse a inarcare un sopracciglio. «Ne sei sicura, tesoro?» “Non ho rimpianti nella mia vita” pensò “a parte questo. Che non abbiamo avuto tempo.” Cassian respinse quelle parole. Respinse l’immagine che lo tormentava in sogno, notte dopo notte: non Nesta che reggeva la testa del re di Hybern come un trofeo; non il modo in cui il collo di suo padre si era spezzato tra le mani di Hybern. Ma l’immagine di lei china su di lui, che copriva il corpo di Cassian con il proprio, pronta a subire tutto il potere del re per lui. Pronta a morire per lui... con lui. Quel corpo snello e bellissimo, inarcato su di lui, tremante di terrore, disposto ad affrontare quella fine.
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Non l’aveva vista, neanche di sfuggita, per mesi. Non aveva visto il suo sorriso, né sentito la sua risata. Sapeva che beveva, sapeva degli altri maschi. Diceva a se stesso che non gli importava. Diceva a se stesso che non voleva sapere chi fosse il bastardo che aveva colto la sua verginità. Diceva a se stesso che non voleva sapere se quei maschi significavano qualcosa... se lui significava qualcosa. Non sapeva perché diavolo gli importasse. Perché si preoccupasse. Fin dall’inizio. Anche dopo che lei gli aveva dato una ginocchiata nelle palle, quel pomeriggio, a casa di suo padre. Anche quando aveva detto: “Ho spiegato chiaramente che cosa voglio da te”. Non aveva mai incontrato qualcuno capace di mettere tanto significato in così poche parole, di porre tanta enfasi su “te” da renderlo un vero e proprio insulto. Cassian strinse la mascella. E non si preoccupò di trattenersi quando disse: «Sono stanco di giocare a questi giochi di merda». Lei teneva il mento alto, era il ritratto dell’arroganza regale. «Io no.» «Be’, tutti gli altri sì. Forse potresti sforzarti un po’ di più, quest’anno.» Quegli occhi sorprendenti scivolarono verso di lui, e lui faticò a mantenere la sua posizione. «Sforzarmi?» «So che per te è una parola straniera.» Nesta si fermò in fondo alla strada, proprio lungo la gelida Sidra. «Perché dovrei sforzarmi di fare qualcosa?» I suoi denti brillarono. «Sono stata trascinata in questo tuo mondo, in questa Corte.» «Allora vai da qualche altra parte.» La sua bocca si trasformò in una linea tesa, a quelle parole di sfida. «Forse lo farò.» Ma sapeva che non c’era un altro posto in cui andare. Non aveva soldi, e non aveva una famiglia al di fuori di quel territorio. «Scrivici, ogni tanto.» Lei si mise di nuovo a camminare rapidamente, mantenendosi lungo la riva del fiume. Cassian la seguì, odiandosi. «Potresti almeno venire a vivere alla Casa» iniziò, e Nesta si voltò verso di lui. «Smettila» ringhiò. Lui si arrestò, allargando leggermente le ali per bilanciarsi. «Smettila di seguirmi. Smettila di cercare di trascinarmi nel tuo piccolo circolo felice. Smettila di fare tutto quanto.» Quando li aveva davanti agli occhi, Cassian riconosceva gli animali feriti. Sapeva che potevano scoprire i denti, che potevano mostrare cattiveria. Ma ciò non gli impedì di dire: «Le tue sorelle ti amano. Non riesco proprio a capire perché, ma ti amano. Se non puoi sforzarti per il bene del mio piccolo circolo felice, almeno potresti farlo per loro». Quegli occhi sembrarono colmarsi di vuoto. Un vuoto infinito e senza profondità. Ma Nesta disse solo: «Vai a casa, Cassian». Poteva contare sulle dita di una mano il numero di volte che lei aveva usato il suo nome. Che lo aveva chiamato in un modo diverso da “tu” o “quello là”. Si voltò verso il suo appartamento, verso la sua parte sudicia della città.
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Fu l’istinto che gli fece afferrare la sua mano libera. Le dita inguantate di lei sfregarono contro i suoi calli, ma lui tenne duro. «Parla con me. Nesta. Dimmi...» Gli strappò la mano dalla presa. Lo fissò. Come una regina potente e vendicativa. Lui attese, ansimando, che lo frustasse con le parole. Che lo facesse a brandelli. Ma Nesta si limitò a fissarlo, arricciando il naso. Lo fissava, poi sbuffò... e se ne andò. Come se lui non fosse niente. Come se non valesse il suo tempo. Non valesse lo sforzo. Un bastardo Illyrian di bassa nascita. Quella volta, quando lei andò avanti, Cassian non la seguì. La osservò finché non divenne un’ombra contro l’oscurità... e poi scomparve completamente. Rimase a fissarla, con il regalo ancora in mano. Cassian affondò la punta delle dita nel legno tenero della scatolina. Fu grato del fatto che le strade fossero vuote, quando lanciò quella scatolina nella Sidra. La scagliò così forte che l’impatto spaccò il ghiaccio e l’acqua schizzò sugli edifici che fiancheggiavano il fiume. Poi il ghiaccio si riformò all’istante sopra il foro che aveva aperto. Come se quel foro, e il regalo, non fossero mai esistiti. NESTA
Nesta chiuse la quarta e ultima serratura della porta del suo appartamento e si accasciò contro il legno scricchiolante e marcio. Il silenzio calò attorno a lei, accogliente e soffocante. Silenzio, per lenire il tremito che l’aveva inseguita in tutta la città. Lui l’aveva seguita. Lo sentiva nelle ossa, nel sangue. Si era tenuto alto nei cieli, ma l’aveva seguita finché lei non era entrata nell’edificio. Sapeva che, in quel momento, era su un tetto vicino e aspettava che si accendesse la sua luce. Istinti gemelli combattevano dentro di lei: avrebbe voluto non toccare la luce Fae e farlo aspettare nell’oscurità gelida e, allo stesso tempo, accendere quella ciotola e liberarsi della sua presenza. Liberarsi di tutto ciò che era lui. Scelse la seconda opzione. Nel silenzio semibuio e denso, Nesta indugiò accanto al tavolo contro il muro, vicino alla sua porta di casa. Fece scivolare la mano in tasca e tirò fuori l’assegno piegato. Era abbastanza per tre mesi di affitto. Cercò la vergogna dentro di sé, ma non riuscì a trovarla. Non vi trovò niente. Niente di niente. Ogni tanto c’era rabbia. Una rabbia rovente e acuta che la feriva.
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Ma il più delle volte c’era solo silenzio. Squillante, ronzante silenzio. Non provava niente da mesi. C’erano giornate in cui non sapeva esattamente dove fosse o che cosa avesse fatto. Passavano veloci e tuttavia sgocciolavano via. Così facevano i mesi. Un battito di palpebre ed era arrivato l’inverno. Un altro battito di palpebre e il suo corpo era diventato troppo magro. Vuoto... come si sentiva lei. Il freddo rigido della notte si insinuò attraverso le imposte logore e le provocò un altro brivido. Ma non accese il fuoco nel focolare all’altro lato della stanza. Riusciva con difficoltà a sopportare i crepitii e gli schiocchi del legno. Era riuscita a malapena a sopportarlo nella casa di città di Feyre. Schiocco; scricchiolio. Com’era possibile che nessuno avesse mai notato quanto il suono fosse simile a quello delle ossa rotte, di un collo spezzato? Non aveva mai acceso il fuoco in quell’appartamento. Si era tenuta calda con coperte e strati di indumenti. Sentì un fruscio e poi un rimbombo di ali all’esterno dell’appartamento. Nesta emise un sospiro tremante e si lasciò scivolare lungo la parete finché non fu seduta sul pavimento. Finché non si portò le ginocchia contro il petto e si mise a fissare l’oscurità. Il silenzio continuava a imperversare e a echeggiare attorno a lei, che però non provava niente.
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FEYRE
rano le tre quando gli altri andarono a letto. E quando Cassian tornò, silenzioso e pensieroso, e buttò giù un bicchiere di liquore prima di salire di sopra. Mor lo seguì, con la preoccupazione che le danzava negli occhi. Azriel ed Elain rimasero in salotto; mia sorella gli mostrò i piani che aveva abbozzato per espandere il giardino sul retro della casa di città, usando i semi e gli strumenti che la mia famiglia le aveva regalato quella sera. Non sapevo proprio se a lui interessassero quelle cose, ma gli inviai una silenziosa preghiera di ringraziamento per la sua gentilezza prima che io e Rhys scivolassimo di sopra. Feci per togliermi i braccialetti di diamanti ma Rhys mi fermò e mi strinse i polsi tra le mani. «Non ancora» disse con dolcezza. Aggrottai la fronte. Lui si limitò a sorridere. «Tieniti forte.» Arrivarono l’oscurità e il vento, e io mi aggrappai a lui mentre ci trasmutava... Lume di candela e fuoco scoppiettante e colori... «La casa?» Doveva avere modificato le barriere per permetterci di trasmutare direttamente all’interno. Rhys sorrise, mi lasciò andare, si spostò con aria spavalda al divano davanti al caminetto e vi si lasciò cadere, con le ali che toccavano il pavimento. «Per avere un po’ di pace e tranquillità, Metà.» C’era una promessa oscura e sensuale nei suoi occhi punteggiati di stelle.
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Mi morsi un labbro mentre mi avvicinavo al bracciolo arrotondato del divano e mi ci sedevo; alla luce del fuoco, il mio vestito luccicava come un fiume. «Sei bellissima stasera.» La voce era bassa, ruvida. Passai una mano sul mio abito; il tessuto mi brillava sotto le dita. «Me lo dici ogni sera.» «E parlo sul serio.» Arrossii. «Mascalzone.» Inclinò la testa. «Probabilmente le Signore Supreme dovrebbero indossare un vestito nuovo ogni giorno» riflettei, sorridendo all’abito, «ma sono affezionata a questo.» Mi fece scorrere una mano lungo la coscia. «Sono contento.» «Non mi hai mai detto dove l’hai preso, dove hai preso tutti i miei vestiti preferiti.» Rhys inarcò un sopracciglio scuro. «Non l’hai mai capito?» Scossi la testa. Per un momento non disse nulla e chinò la testa per studiare il vestito. «Li ha fatti mia madre.» Mi immobilizzai. Rhys sorrise con tristezza all’abito scintillante. «Era una sarta, nel campo in cui era cresciuta. Non faceva quel lavoro solo perché le era stato ordinato di farlo; lo faceva perché le piaceva. E continuò a farlo anche quando divenne la Metà di mio padre.» Mi sfiorai la manica con una mano riverente. «Io... non ne avevo idea.» Lui aveva gli occhi luminosi come le stelle. «Molto tempo fa, quando ero ancora un ragazzo, fece tutti i tuoi abiti. Un corredo per la mia futura sposa.» Gli sussultò la gola. «Ogni abito... ogni indumento che ti ho dato, lo ha realizzato lei. Per te.» Mi pungevano gli occhi mentre sussurravo: «Perché non me l’hai mai detto?». Alzò una spalla. «Temevo che potesse... infastidirti indossare abiti confezionati da una donna che è morta secoli fa.» Mi misi una mano sul cuore. «Sono onorata, Rhys. Più di quanto sappia dire.» Gli tremava leggermente la bocca. «Lei ti avrebbe amata.» “È stato un regalo fantastico, come tutti gli altri che ho ricevuto” dissi lungo l’Unione. Mi chinai finché le nostre sopracciglia non si toccarono. “L’avrei amata.” Percepii la sua gratitudine senza che lui dicesse una parola e rimanemmo lì, inalando i reciproci odori per lunghi minuti. Quando finalmente fui di nuovo in grado di parlare, mi scostai. «Stavo pensando...» «Devo preoccuparmi?» Gli diedi una pacca sugli stivali e lui fece una risata profonda e roca; il suono si avvolse attorno alle mie parti più intime. Gli mostrai i palmi, l’occhio su entrambi. «Voglio che questi vengano cambiati.» «Oh?» «Dato che non li usi più per curiosare su di me, ho pensato che potrebbero diventare qualcos’altro.» Mise una mano sul suo ampio petto. «Non ho mai ficcato il naso.»
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«Sei il più grande ficcanaso che abbia mai incontrato.» Un’altra risata. «E che cosa, esattamente, vorresti sui tuoi palmi?» Sorrisi ai dipinti che avevo fatto sui muri, sulla mensola del camino, sui tavoli. Pensai all’arazzo che avevo comprato. «Voglio una montagna, con tre stelle.» Le insegne della Corte della Notte. «Lo stesso che hai sulle ginocchia.» Rhys rimase a lungo in silenzio, con un’espressione imperscrutabile. Quando parlò, la sua voce era bassa. «Quelli sono segni che non si possono alterare.» «È un bene che io abbia intenzione di restare per un po’, allora.» Rhys si mise a sedere lentamente, sbottonando la parte superiore della sua aderente giacca nera. «Sei sicura?» Annuii lentamente. Si mise davanti a me, con delicatezza mi prese le mani nelle sue e mi voltò i palmi verso l’alto. L’occhio di gatto ci fissava. «Non ho mai ficcato il naso, sai.» «Altroché se l’hai fatto.» «Va bene, l’ho fatto. Puoi perdonarmi?» Diceva sul serio: lo preoccupava che avessi considerato una violazione le sue sbirciatine. Mi alzai in punta di piedi e lo baciai dolcemente. «Immagino di poterci riuscire.» «Mmh.» Mi passò un pollice sugli occhi disegnati di entrambi i palmi. «Qualche ultima parola prima che ti marchi per sempre?» Mi martellò il cuore, ma risposi: «Ho un ultimo regalo di Solstizio per te». Rhys si immobilizzò sentendo la mia voce sommessa e tremante. «Oh?» Con le mani unite alle sue, accarezzai le pareti impenetrabili della sua mente. Le barriere caddero all’istante e mi permisero di entrare. Mi permisero di mostrargli l’ultimo mio regalo. Quello che speravo considerasse un regalo. Le sue mani si misero a tremare attorno alle mie, ma non disse nulla finché non mi ritirai dalla sua mente. Finché, di nuovo, non ci guardammo in silenzio. Il suo respiro divenne affannoso, i suoi occhi erano rivestiti d’argento. «Sei sicura?» ripeté. Sì. Era la cosa di cui mi sentivo più sicura. L’avevo capito, l’avevo sentito nella galleria della tessitrice. «Sarebbe... sarebbe davvero un regalo per te?» osai chiedere. Strinse le dita attorno alle mie. «Oltre misura.» Come in risposta, una luce lampeggiò e sfrigolò sui miei palmi; abbassai lo sguardo e scoprii che le mie mani erano diverse. La montagna e le tre stelle adornavano il centro di ogni palmo. Rhys mi stava ancora fissando, con il respiro irregolare. «Possiamo aspettare» disse piano, come se avesse paura che la neve lì fuori, che continuava a cadere, sentisse i nostri sussurri. «Non voglio aspettare» risposi, e dicevo sul serio. La tessitrice mi aveva fatto capire anche quello. O forse mi aveva solo fatto vedere chiaramente quello che desideravo in silenzio da un po’ di tempo. «Potrebbero volerci anni» mormorò. «Posso essere paziente.» Inarcò un sopracciglio a quelle parole, e io sorrisi e mi corressi. «Posso provare a essere paziente.»
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Il suo sorriso di risposta mi fece sorridere a mia volta. Rhys si sporse e mi sfiorò il collo, proprio sotto l’orecchio. «Cominciamo stasera, mia Metà?» Mi si contrassero le dita dei piedi. «L’idea era questa.» «Mmh. Sai qual era la mia idea?» Un altro bacio – quella volta sull’incavo della mia gola – mentre le sue mani mi scivolavano dietro la schiena e cominciavano a slacciare i bottoni nascosti del mio vestito. Quel prezioso, bellissimo vestito. Inarcai il collo per dargli un accesso migliore, e lui obbedì e passò la lingua sul punto che aveva appena baciato. «La mia idea» continuò, mentre il vestito scivolava via e si ammucchiava sul tappeto, «riguardava questa casa e una parete.» Aprii gli occhi proprio quando le sue mani iniziarono a tracciare lunghe linee lungo la mia schiena nuda. La parte inferiore della mia schiena nuda. Vidi Rhys che mi sorrideva, vidi che i suoi occhi avevano le palpebre pesanti mentre osservava il mio corpo nudo. Nudo, a parte i braccialetti di diamanti ai polsi. Feci per togliermeli, ma lui mormorò: «Lasciali». Il mio stomaco si strinse nell’attesa, i miei seni diventarono dolorosamente pesanti. Gli sbottonai il resto della giacca, con le dita tremanti, e gliela tolsi, insieme alla camicia. E ai pantaloni. Poi fu in piedi nudo davanti a me, con le ali leggermente allargate, con il petto muscoloso che si sollevava, mostrandomi l’evidente prova di quanto fosse pronto. «Vuoi iniziare dalla parete o lasciarla per ultima?» Le sue parole erano gutturali, appena riconoscibili, e il luccichio nei suoi occhi si trasformò in qualcosa di predatorio. Fece scivolare una mano lungo la parte anteriore del mio busto, con sfrontata possessività. «O vuoi la parete per tutto il tempo?» Mi cedettero le ginocchia e mi ritrovai oltre le parole. Oltre tutto, tranne lui. Rhys non attese la mia risposta ma si inginocchiò davanti a me, con le ali drappeggiate sul tappeto. Poi mi baciò l’addome, come per esprimere reverenza e gratitudine. Poi mi diede un bacio più in basso. E ancora più in basso. Gli feci scorrere una mano tra i capelli, proprio mentre lui mi afferrava una coscia e mi sollevava la gamba sopra la sua spalla. In qualche maniera mi ritrovai appoggiata alla parete vicino alla porta, come se ci avesse trasmutati. La mia testa colpì il legno con un lieve tonfo quando Rhys abbassò la bocca verso di me. Se la prese con calma. Mi leccò e mi accarezzò finché non fui devastata, poi rise contro di me, scuro e rigoglioso, prima di erigersi in tutta la sua altezza. Prima di sollevarmi, con le mie gambe attorno alla sua vita, e bloccarmi contro il muro. Rhys incrociò il mio sguardo; un braccio era appoggiato alla parete, l’altro mi sosteneva. «Come vuoi che sia, mia Metà?» Avrei potuto giurare che intere galassie turbinassero nel suo sguardo. Nell’ombra tra le sue ali dimoravano le gloriose profondità della notte.
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«Così forte da far cadere i quadri» gli ricordai, senza fiato. Rise di nuovo, sommesso e perverso. «Tieniti forte, allora.» Che la Madre e il Calderone mi salvassero. Le mie mani gli scivolarono sulle spalle e affondarono nei muscoli duri. Ma lui si spinse dentro di me lentamente, molto lentamente. Così sentii ogni piccola parte di lui, ogni punto in cui eravamo uniti. Inclinai di nuovo la testa all’indietro e mi sfuggì un gemito. «Ogni volta» grugnì lui. «Ogni volta sei stupenda.» Strinsi i denti, respirando forte dal naso. Si fece strada, spingendo con piccoli movimenti, permettendomi di adattarmi a ogni pezzetto di lui. E quando fu tutto dentro di me, quando la sua mano si strinse sul mio fianco... si fermò. Mossi i fianchi, alla disperata ricerca dell’attrito. Ma Rhys si spostò con me, negandomelo. Mi leccò la gola. «Penso a te, a questo, ogni dannata ora» mormorò contro la mia pelle. «Al tuo sapore.» Si ritirò leggermente, poi si rituffò. Io ansimai, appoggiando la testa contro la dura parete dietro di me. Rhys emise un suono di approvazione e si ritirò un po’. Poi spinse di nuovo. Forte. Sentii sbatacchiare qualcosa alla mia sinistra. Ma non mi importava più. Mentre Rhys si fermava ancora una volta, non mi importò più sapere se davvero stessimo facendo cadere i quadri dalla parete. «Ma soprattutto penso a questo. Alla sensazione che mi dà sentirti attorno a me, Feyre.» Spinse ancora, stupendo e implacabile. «Che sapore hai sulla mia lingua.» Gli piantai le unghie nelle ampie spalle. «Penso al fatto che, anche se avremo mille anni insieme, non mi stancherò mai di questo.» L’orgasmo iniziò a raccogliersi lungo la mia spina dorsale, escludendo ogni suono e ogni sensazione tranne il punto in cui eravamo uniti, in cui ci toccavamo. Un’altra spinta, più lunga e più forte. Il legno gemette sotto la sua mano. Lui abbassò la bocca sul mio petto e mi mordicchiò, e poi leccò via il dolore che mi faceva sfrecciare il piacere nel sangue. «Come mi permetti di farti cose così cattive e terribili.» La sua voce era una carezza che mi faceva muovere i fianchi, per implorarlo di muoversi più velocemente. Rhys si limitò a ridacchiare piano, perfidamente, mentre mi privava dell’unione totale e sfrenata che desideravo. Aprii gli occhi abbastanza a lungo da poter guardare in basso, dove lo vedevo unito a me, che si muoveva così dolorosamente piano dentro e fuori di me. «Ti piacerebbe guardare?» ansimò. «Guardare come mi muovo dentro di te?» In risposta, visto che ero ormai al di là delle parole, rivolsi la mia mente al ponte tra noi e sfiorai i suoi scudi inespugnabili. Mi fece entrare all’istante, perché potessimo comunicare da mente a mente e da anima ad anima, e poi vidi attraverso i suoi occhi, vidi che guardava in basso mentre mi stringeva un fianco e spingeva.
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Disse, con tono seducente: “Guarda come ti scopo, Feyre”. “Oh” fu la mia unica risposta. Mani mentali correvano lungo la mia mente, la mia anima. “Guarda come ci incastriamo perfettamente.” Il mio corpo, che avvampava, era inarcato contro la parete, pronto per accoglierlo, pronto per lui. “Capisci perché non riesco a smettere di pensare a questo... a te?” Di nuovo si ritirò e rientrò, e smise di smorzare il suo potere. Le stelle tremolavano intorno a noi, che eravamo circondati da una dolce oscurità. Come se fossimo le uniche anime in tutta una galassia. Eppure Rhys era ancora davanti a me, e aveva le mie gambe avvolte attorno alla vita. Usai le stesse mani mentali per sfiorarlo e sussurrai: “Puoi prendermi anche qui?”. Quella sua gioia perfida vacillò. Tacque. Anche le stelle e l’oscurità si fermarono. Allora rispose, con uno sguardo da predatore: “Sarebbe un piacere”. E poi non ebbi più le parole necessarie a descrivere quello che succedeva. Era tutto quello che volevo: un tripudio di sensazioni, le implacabili spinte dentro di me, il suono delle nostre pelli una contro l’altra e dei corpi contro il legno. La notte cantava tutt’intorno a noi, le stelle sfrecciavano come fiocchi di neve. E poi c’eravamo noi. Uniti da mente a mente, sdraiati su quel ponte tra le nostre anime. Lì non avevamo corpi, ma lo sentii mentre mi seduceva, mentre il suo potere oscuro si avvolgeva attorno al mio, mentre lambiva le mie fiamme, succhiava il mio ghiaccio, faceva stridere gli artigli contro i miei. Lo sentii mentre il suo potere si fondeva con il mio, si ritirava e poi fluiva, dentro e fuori, finché la mia magia si scatenò e si allacciò a lui, ed entrambi fummo frenetici e ardenti insieme. Per tutto il tempo si mosse dentro di me, implacabile e trascinante come il mare. Ripetutamente, ancora, potere, carne e anima, finché probabilmente non mi misi a urlare, finché mi sembrò di sentirlo ruggire, e il mio corpo si contrasse attorno a lui ed esplose in mille pezzi. E poi io esplosi in mille pezzi, tutto quello che ero si frantumò in stelle, galassie e comete, nient’altro che pura gioia splendente. Rhys mi abbracciò, mi avvolse, la sua oscurità assorbì la luce che scintillava ed esplodeva, mantenendomi integra, tenendomi insieme. E quando la mia mente poté di nuovo formare parole, quando potei sentire di nuovo la sua essenza attorno a me, il suo corpo che si muoveva ancora nel mio, gli inviai quell’immagine un’altra volta, nell’oscurità e nelle stelle: il mio dono. Forse il nostro dono, un giorno. Rhys raggiunse il culmine con impeto, spalancando le ali. E nelle nostre menti, lungo la nostra Unione, la sua magia proruppe, la sua anima inondò la mia, riempiendo ogni crepa e cavità e non ci fu più una parte di me che non fosse piena di lui, che non traboccasse della sua oscura, gloriosa essenza e del suo amore smodato.
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Rimase sepolto in me, appoggiandosi pesantemente al muro mentre ansimava contro il mio collo: «FeyreFeyreFeyre». Stava tremando. Tremavamo entrambi. Radunai le forze necessarie ad aprire gli occhi. Aveva la faccia sconvolta. Stordita. Mi fissava con la bocca un po’ aperta, guardava il bagliore che si irradiava ancora dalla mia pelle, luminoso contro le ombre baciate dalle stelle che si riversavano dalla sua. Per lunghi momenti, ci limitammo a fissarci. A respirare. E poi Rhys diede un’occhiata obliqua al resto della stanza. A quello che avevamo fatto. Gli si formò un sorriso malizioso sulle labbra mentre guardavamo i quadri che si erano effettivamente staccati dal muro, le cornici spezzate sul pavimento. Da un tavolino lì vicino era persino caduto a terra un vaso; ne restavano piccoli frammenti azzurri. Rhys mi baciò sotto l’orecchio. «Detrarrò questi danni dal tuo stipendio, sai.» Girai la testa di scatto verso di lui e lasciai la presa sulle sue spalle per dargli un colpetto sul naso. Rise e mi sfiorò una tempia con le labbra. Ma io fissai i segni che gli avevo lasciato sulla pelle e che stavano già svanendo. Fissai i tatuaggi che aveva sul petto, sulle braccia. Anche una vita da immortale non mi sarebbe bastata per dipingere ogni sfaccettatura di lui. Di noi. Lo guardai di nuovo negli occhi e trovai le stelle e l’oscurità che mi attendevano. Trovai una casa che mi attendeva. No, non mi sarebbe certo bastata. Né per ritrarlo né per conoscerlo. Neanche interi eoni sarebbero bastati per tutto quello che volevo fare e vedere con lui. Per tutto l’amore che volevo dargli. Un quadro splendeva davanti a me: Notte trionfante – e le stelle eterne. «Fallo di nuovo» sussurrai, con la voce roca. Rhys sapeva che cosa intendevo. E non ero mai stata così felice di avere una Metà Fae come quando si indurì di nuovo un istante dopo, mi calò sul pavimento e mi girò sullo stomaco, poi si immerse profondamente in me con un ringhio. E anche quando alla fine crollammo sul tappeto, appena in grado di evitare i quadri rotti e i frammenti del vaso, incapaci di muoverci per un bel po’ di tempo, quell’immagine del mio dono rimase tra noi, scintillante e luminosa come una stella. Quel bel ragazzo dagli occhi azzurri e dai capelli scuri che una volta mi aveva fatto vedere l’Intagliaossa. Quella promessa per il futuro. Velaris stava ancora dormendo quando io e Rhys vi tornammo, la mattina dopo. Tuttavia la mia Metà non ci portò alla casa di città, ma a una tenuta lungo il fiume; l’edificio era in rovina, i giardini un groviglio. La nebbia aleggiava su gran parte della città in quell’ora prima dell’alba.
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Scorrevano tra noi ciò che avevamo fatto la notte prima e le parole che ci eravamo scambiati, invisibili e solide come la nostra Unione delle Metà. Non avevo preso il mio tonico contraccettivo a colazione. Non avrei ricominciato presto a prenderlo. «Non mi hai chiesto del tuo regalo per il Solstizio» disse Rhys dopo un po’, mentre i nostri passi facevano scricchiolare la ghiaia ghiacciata dei giardini lungo la Sidra. Sollevai la testa dalla sua spalla mentre camminavamo lentamente. «Suppongo che stessi aspettando per fare una rivelazione drammatica.» «Suppongo di sì.» Si fermò e io mi fermai accanto a lui mentre si voltava verso la casa dietro di noi. «È questo.» Sbattei le palpebre guardando le macerie della magione. «Questo?» «Consideralo due regali in uno, per il Solstizio e per il compleanno.» Indicò la casa, i giardini, i terreni che arrivavano fino al bordo del fiume. Con una perfetta visuale notturna dell’Arcobaleno, grazie alla curvatura del terreno. «È tuo. Nostro. L’ho acquistato alla vigilia del Solstizio. Tra due giorni arriveranno gli operai per cominciare a rimuovere le macerie e abbattere il resto della casa.» Sbattei di nuovo le palpebre, a lungo e lentamente. «Mi hai comprato una proprietà.» «Tecnicamente sarà la nostra proprietà, ma la casa è tua. Ricostruiscila a tuo piacimento. Tutto ciò che vuoi, tutto ciò di cui hai bisogno... costruiscilo.» Il costo... il costo di quel dono doveva essere più che astronomico. «Rhys.» Fece qualche passo e si passò le mani tra i capelli blu-neri, con le ali ben serrate. «Non abbiamo spazio nella casa di città. Noi due riusciamo a malapena a far stare tutto in camera da letto. E nessuno vuole abitare alla Casa del Vento.» Indicò di nuovo la magnifica tenuta che ci circondava. «E quindi costruisci una casa per noi, Feyre. Realizza i tuoi sogni più sfrenati. È tua.» Non avevo parole per descrivere quello che stavo provando. «È... il costo...» «Non preoccuparti per il costo.» «Ma...» Ero rimasta a bocca aperta davanti a quella terra addormentata e aggrovigliata, alla casa in rovina. Immaginai che cosa avrei potuto voler ricostruire, lì. Mi tremavano le ginocchia. «Rhys... è troppo.» La sua faccia divenne mortalmente seria. «Non è troppo per te. Niente è mai troppo per te.» Mi circondò la vita con le braccia e mi baciò una tempia. «Costruisci una casa con uno studio per dipingere.» Mi baciò l’altra tempia. «Costruisci una casa con un ufficio per te e uno per me. Costruisci una casa con una vasca da bagno abbastanza grande per noi due... e per le ali.» Un altro bacio, questa volta sulla guancia. «Costruisci una casa con camere per tutta la nostra famiglia.» Mi baciò l’altra guancia. «Costruisci una casa con un giardino per Elain, un’area di allenamento per i piccoli Illyrian, una biblioteca per Amren e un’enorme cabina armadio per Mor.» Risi all’idea. Ma Rhys mi zittì con un bacio sulla bocca, lungo e dolce. «Costruisci una casa con stanze per i bambini, Feyre.» Il mio cuore si strinse fino al punto di far male, e ricambiai il bacio. Lo baciai ancora, e ancora, in mezzo a quella proprietà ampia e luminosa. «Lo farò» promisi.
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RHYSAND
l sesso mi aveva distrutto. Mi aveva completamente rovinato. La notte prima, si era arresa incondizionatamente qualsiasi parte residua della mia anima che non le appartenesse già. E, poi, vedere l’espressione di Feyre quando le avevo mostrato la tenuta in riva al fiume... Mi tenni stretto il ricordo del suo viso bello e splendente mentre bussavo alle porte d’ingresso incrinate della villa di Tamlin. Nessuna risposta. Attesi un minuto. Due. Inviai un filo di potere attraverso tutta la casa, a sondare. Quasi temendo quello che avrei potuto trovare. Ma ecco... nelle cucine. Un livello più in basso. Era vivo. Aprii la porta ed entrai. I miei passi echeggiavano sui pavimenti di marmo scheggiati. Non mi preoccupai di silenziarli. Probabilmente aveva percepito il mio arrivo nel momento stesso in cui ero trasmutato sui gradini d’ingresso. In pochi minuti raggiunsi la cucina. Non ero ben preparato alla scena che mi attendeva. Un grande alce giaceva morto sul lungo tavolo da lavoro al centro della stanza semibuia, e la luce spenta che filtrava dalle finestrelle illuminava la freccia che gli attraversa-
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va la gola. Il sangue si stava raccogliendo sul pavimento di pietra grigia, e il suo gocciolio era l’unico suono. L’unico suono, mentre Tamlin sedeva davanti al tavolo e fissava la bestia abbattuta. «La tua cena sta sgocciolando» gli dissi a mo’ di saluto, indicando la pozza sul pavimento. Nessuna risposta. Il Signore Supremo della Primavera non mi guardò nemmeno. “La tua Metà avrebbe dovuto sapere che non è il caso di prendere a calci un maschio abbattuto.” Mi si erano piantate in testa le parole che aveva detto Lucien a Feyre, il giorno prima. Forse era per quello che avevo lasciato Feyre a sperimentare con i nuovi colori che le aveva regalato Azriel ed ero trasmutato lì. Osservai il possente alce, i suoi occhi scuri, aperti e vitrei. Accanto alla testa ispida c’era un coltello da caccia, conficcato nel legno. Ancora nessuna parola, nemmeno un accenno di movimento. Benissimo, allora. «Ho parlato con Varian, il principe di Adriata» lo informai dall’altra parte del tavolo; l’impalcatura dell’alce era come un cespuglio di spine tra noi. «Gli ho detto di chiedere a Tarquin di inviare soldati al tuo confine.» L’avevo fatto la sera prima, prendendo da parte Varian durante la cena. Aveva accettato subito e giurato che l’avrebbe fatto. «Arriveranno entro pochi giorni.» Nessuna risposta. «È accettabile per te?» Nell’ambito delle Corti delle Stagioni, quella dell’Estate e quella della Primavera erano state a lungo alleate, fino a quella guerra. Tamlin sollevò lentamente la testa; i capelli dorati erano sciolti, opachi e arruffati. «Pensi che mi perdonerà?» Aveva la voce stridula. Come se avesse urlato. Sapevo chi intendeva. E non sapevo che cosa rispondergli. Non sapevo se il suo augurio di felicità equivalesse al perdono. Chissà se Feyre avrebbe mai voluto offrirgli il suo perdono. Il perdono poteva essere un dono per entrambi, ma quello che aveva fatto... «Vorresti che lo facesse?» I suoi occhi verdi erano vuoti. «Me lo merito?» No. Mai. Doveva avermelo letto sul viso, perché mi chiese: «Tu mi perdoni... per tua madre e tua sorella?». «Non ricordo di aver mai sentito scuse da parte tua.» Come se le scuse potessero mettere tutto a posto. Come se le scuse compensassero la perdita che ancora mi divorava, il vuoto che era rimasto dove un tempo brillavano le loro belle e luminose vite. «Non credo che le scuse faranno differenza, comunque» disse Tamlin, rimettendosi a fissare l’alce abbattuto. «Per nessuno dei due.» Era a pezzi. Completamente a pezzi. “Avrete bisogno di Tamlin come alleato prima che si depositi la polvere” aveva detto Lucien alla mia Metà. Forse era anche per quello che ero venuto lì. Agitai una mano; la mia magia si mise ad affettare e staccare, e il mantello dell’alce sci-
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volò sul pavimento con un fruscio di pelo e un tonfo di carne bagnata. Un altro guizzo di potere e fette di carne si tagliarono dai lati e si ammucchiarono vicino alla stufa scura, che presto si accese. «Mangia, Tamlin» dissi. Non sbatté nemmeno le palpebre. Non era perdono, non era gentilezza. Non potevo dimenticare... non avrei mai dimenticato quello che aveva fatto alle persone che amavo di più. Ma era il Solstizio, o lo era stato. E, forse perché Feyre mi aveva fatto un regalo più grande di qualsiasi cosa potessi mai sognare, dissi: «Potrai lasciarti deperire e morire dopo che avremo risolto i problemi di questo nostro nuovo mondo». Una pulsazione del mio potere e una padella di ferro scivolò sul fornello ormai caldo, una bistecca di carne vi atterrò dentro con uno sfrigolio. «Mangia, Tamlin» ripetei, e svanii in un vento scuro.
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MORRIGAN
veva mentito a Feyre. Più o meno. Sarebbe andata alla Corte dell’Inverno. Ma non presto come aveva detto. Viviane, almeno, sapeva quando aspettarla veramente. Si scrivevano ormai da mesi, ma Mor non le aveva ancora rivelato nemmeno dove si sarebbe trovata tra il Solstizio a Velaris e la sua visita alla casa di montagna dei Signori della Corte dell’Inverno. Non le piaceva parlare di quel posto. Non ne aveva mai parlato agli altri. E mentre Mor galoppava sulle colline innevate con la sua cavalla, Ellia, una massa solida e calda sotto di sé, si ricordò del perché. La nebbia del primo mattino aleggiava tra i dossi e gli avvallamenti della vasta tenuta. La sua tenuta. Athelwood. L’aveva comprata trecento anni prima per la sua quiete. L’aveva tenuta per i cavalli. Ellia percorreva le colline con grazia instancabile, scorrendo veloce come il vento dell’ovest. Mor non era stata allevata per cavalcare. Non se trasmutare era infinitamente più veloce. Ma, con la trasmutazione, non le era mai sembrato di spostarsi davvero. Di andare, correre, precipitarsi al luogo successivo. Le bastava desiderarlo, e si ritrovava lì. I cavalli, invece... Mor percepiva ogni pollice della terra su cui galoppavano. Sentiva il vento e fiutava le colline e la neve, e poteva vedere la muraglia di una fitta foresta alla sua sinistra. Vivo. Era tutto vivo, e lei lo era ancora di più, quando cavalcava. Ad Athelwood c’erano già sei cavalli quando l’aveva acquistata, perché il proprietario
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precedente si era stufato di loro. Tutte razze rare e ambite. Valevano quanto la vasta tenuta e i trecento acri incontaminati a nordovest di Velaris. Una terra di ondulate colline e di ruscelli gorgoglianti, di antiche foreste e di mari che si infrangevano sulle rive. Non le piaceva stare da sola a lungo, non lo sopportava. Ma alcuni giorni qua e là erano necessari, erano vitali per la sua anima. E uscire con Ellia era ringiovanente come ogni giorno passato a crogiolarsi al sole. Fece fermare la giumenta in cima a una delle colline più grandi e la lasciò riposare, anche se Ellia dava strattoni alle redini. Se fosse stato per lei, avrebbe corso fino a farsi scoppiare il cuore: non era mai stata docile come avrebbero voluto i suoi allevatori. Mor l’amava ancora di più per quel motivo. Era sempre stata attratta da ciò che era indomito e selvaggio. Mentre cavalla e cavallerizza respiravano affannosamente, Mor osservò i suoi terreni ondulati e il cielo grigio. Grazie agli indumenti Illyrian e alla galoppata, si sentiva piacevolmente calda. Pregustava la gioia di una lettura pomeridiana accanto al fuoco scoppiettante nella vasta biblioteca di Athelwood, seguita da una ricca cena, e poi sarebbe andata a letto presto. Quanto sembravano lontani il continente e la richiesta di Rhys. Andare là, fare la spia, la cortigiana e l’ambasciatrice, vedere quei regni chiusi da tempo, dove un tempo avevano dimorato gli amici... Sì, il suo sangue la spronava. Le diceva: “Vai più lontano che puoi. Vai con il vento”. Ma andarsene, far credere a Keir che il suo patto con Eris l’avesse spinta ad allontanarsi... “Codarda. Patetica codarda” disse a se stessa. Mise a tacere i sibili nella sua mente e fece scorrere una mano lungo la criniera innevata di Ellia. Non ne aveva parlato durante gli ultimi giorni a Velaris. Preferiva fare quella scelta da sola, e aveva capito che la notizia avrebbe potuto gettare un’ombra sull’allegria. Sapeva che Azriel sarebbe stato contrario, che avrebbe voluto saperla al sicuro. Come sempre. Cassian avrebbe approvato, anche Amren, e Feyre si sarebbe preoccupata ma avrebbe acconsentito. Az sarebbe stato furibondo e si sarebbe chiuso ancor più in se stesso. Non aveva voluto sottrargli la gioia. Non più di quanto facesse già normalmente. Ma a un certo punto avrebbe dovuto dirglielo, indipendentemente da che cosa avrebbe deciso. Ellia appiattì le orecchie contro la testa. Mor si irrigidì, seguendo lo sguardo della giumenta. Stava fissando il bosco intricato alla loro sinistra, poco più che un mucchio di alberi da quella distanza. Accarezzò il collo di Ellia. «Tranquilla» sussurrò. «Tranquilla.» Si sapeva che anche da quei boschi erano emersi antichi terrori. Ma Mor non sentiva odori particolari, non vedeva niente. Il viticcio di potere che lanciò verso i boschi rivelò solo i soliti uccelli e altri piccoli animali, più un cervo che beveva da un foro in un ruscello ghiacciato.
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Niente, tranne... Là, in mezzo a un groviglio di spine. Una chiazza di oscurità. Non si muoveva, sembrava non fare altro che aspettare. E guardare. Era qualcosa di familiare e, allo stesso tempo, di estraneo. Il suo potere le sussurrò di non toccarlo, di non avvicinarsi. Neanche da quella distanza. Mor obbedì. Ma continuò a osservare quell’oscurità tra le spine; era come se un’ombra si fosse addormentata in mezzo a loro. Non come le ombre di Azriel, che si intrecciavano e sussurravano. Era qualcosa di diverso. Qualcosa che contraccambiava, che la osservava a sua volta. Era meglio lasciarlo indisturbato. Tanto più che, a casa, la attendevano un fuoco scoppiettante e un bicchiere di vino. «Prendiamo la strada più breve per tornare indietro» mormorò a Ellia, accarezzandole il collo. La cavalla non aveva bisogno di ulteriori incoraggiamenti e si lanciò al galoppo, allontanandole dal bosco e dall’ombroso osservatore. Cavalcarono sopra e tra le colline, finché i boschi non rimasero nascosti dalle nebbie dietro di loro. Che cos’altro avrebbe potuto vedere, scoprire, in terre in cui nessuno della Corte della Notte si avventurava da millenni? La domanda si ripresentava a ogni passo tonante di Ellia sulla neve, sul ruscello e sulla collina. La risposta echeggiò tra le rocce, gli alberi e le nuvole grigie nel cielo. “Vai. Vai.”
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FEYRE
ue giorni dopo, mi trovavo sulla soglia dello studio abbandonato di Polina. Le finestre sbarrate e le ragnatele cascanti erano sparite. Rimaneva solo uno spazio aperto, pulito e ampio. Lo stavo ancora guardando a bocca aperta quando passò Ressina, senza dubbio proveniente dal suo studio, e si fermò sulla strada. «Buon Solstizio, mia Signora» mi disse, con un sorriso luminoso. Non ricambiai il sorriso e continuai a fissare la porta aperta. La sala al di là. Ressina mi mise una mano sul braccio. «C’è qualcosa che non va?» Strinsi le dita lungo i fianchi, per racchiudere la chiave di ottone nel palmo della mano. «È mia» dissi piano. Il sorriso di Ressina ricominciò a crescere. «Ah, davvero?» «Me l’ha data la sua famiglia.» Era successo quella mattina. Avevo trasmutato alla fattoria della famiglia di Polina e nessuno era sembrato sorpreso quando ero apparsa. Come se mi stessero aspettando. Ressina inclinò la testa. «E, allora, perché hai quell’espressione?» «Me l’hanno regalata.» Allargai le braccia. «Ho provato a comprarla. Ho offerto il denaro alla sua famiglia.» Scossi la testa, ancora confusa. Non ero nemmeno tornata alla casa di città. Non l’avevo neppure detto a Rhys. Mi ero svegliata all’alba; Rhys era già andato a incontrare Az e Cassian all’accampamento di Devlon, e avevo deciso di non aspettarlo. Non aveva alcun senso rimandare la vita. Sapevo che cosa volevo. Non c’era motivo di
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rinviare. «Mi hanno consegnato l’atto di proprietà, mi hanno detto di firmarlo con il mio nome e mi hanno dato la chiave.» Mi strofinai la faccia. «Hanno rifiutato i miei soldi.» Ressina emise un lungo fischio. «Non mi sorprende.» «La sorella di Polina, però» dissi, con la voce che tremava mentre infilavo la chiave nella tasca del cappotto, «mi ha suggerito di usare il denaro per qualcos’altro. Ha detto che, se volevo darlo via, potevo donarlo a “Pennello e Scalpello”. Tu sai che cos’è?» Ero stata troppo sbalordita per chiederglielo; ero riuscita solo ad annuire e a dire che avrei fatto così. Gli occhi ocra di Ressina si addolcirono. «È un ente di beneficenza per artisti che hanno bisogno di aiuto finanziario. Fornisce a loro e alle loro famiglie i soldi per il cibo, l’affitto o i vestiti, così non devono soffrire la fame o la mancanza di qualcos’altro mentre creano.» Non riuscivo a frenare le lacrime che mi offuscavano la vista. Non potevo impedirmi di ricordare gli anni in quel tugurio, il cupo dolore della fame. L’immagine di quei tre piccoli contenitori di colori che avevo apprezzato tanto. «Non sapevo che esistesse» riuscii a sussurrare. Anche se avevo aiutato tante associazioni, come volontaria, non l’avevo sentito nominare. Non sapevo che ci fosse un luogo, un mondo, in cui gli artisti potevano essere apprezzati. In cui ci si prendeva cura di loro. Non avevo mai sognato una cosa del genere. Una mano calda e snella mi si posò sulla spalla e la strinse delicatamente. Ressina chiese: «Allora che cosa ne farai? Dello studio, dico». Esaminai lo spazio vuoto davanti a me. No, non vuoto, ma in attesa. E da lontano, come se venisse trasportata dal vento gelido, udii la voce del Suriel. “Feyre Archeron, ho una richiesta. Lascia questo mondo migliore di come l’hai trovato.” Inghiottii le mie lacrime e mi rinfilai una ciocca di capelli nella treccia prima di risponderle. «Non è che per caso stai cercando una socia totalmente inesperta, vero?»
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RHYSAND
e ragazze si trovavano nel campo di addestramento. Erano solo sei, e nessuna sembrava entusiasta, ma erano lì; facevano smorfie, ma cercavano di seguire le istruzioni svogliate di Devlon su come maneggiare un pugnale. Perlomeno Devlon aveva dato loro qualcosa di relativamente semplice da imparare. Sarebbe stato ben diverso se la lezione fosse stata sugli archi Illyrian, di cui c’era una pila nel campo delle ragazze, lungo i bordi tracciati con il gesso. Come per schernirle. Un buon numero di maschi non era abbastanza forte da brandire quegli archi possenti. Sentivo ancora la frustata della corda contro la mia guancia, il mio polso, le mie dita durante gli anni che avevo impiegato per imparare a usarli. Se una delle ragazze avesse deciso di imbracciare l’arco Illyrian, avrei supervisionato io stesso le sue lezioni. Mi attardai con Cassian e Azriel all’estremità dei recinti di combattimento; il campo di Rifugio dal Vento risplendeva di una luce vivida per la neve fresca che era caduta durante la tempesta. Come previsto, la tempesta era finita il giorno prima, due giorni dopo il Solstizio. E, come promesso, il signore del campo aveva mandato le ragazze all’addestramento. La più giovane aveva circa dodici anni, la maggiore sedici. «Pensavo che ce ne fossero di più» mormorò Azriel. «Alcune sono partite con le loro famiglie per il Solstizio» disse Cassian, senza distogliere gli occhi dall’addestramento, sibilando ogni tanto quando una delle ragazze faceva una mossa sbagliata senza che Devlon la correggesse. «Non torneranno prima di qualche giorno.» Gli avevamo mostrato gli elenchi compilati da Az: i possibili piantagrane nei vari cam-
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pi. Da allora Cassian era stato distante. C’era più malcontento di quanto ci aspettassimo. Molti di loro appartenevano al campo Cresta di Ferro, famigerato rivale del nostro; era lì che Kallon, figlio del suo Signore, stava cercando di fomentare il maggior dissenso possibile. Tutto diretto contro me e Cassian. Una mossa coraggiosa, tenuto conto del fatto che Kallon era ancora un guerriero novizio. Non avrebbe nemmeno affrontato il Rito fino alla primavera successiva o quella dopo ancora. Ma era cattivo quanto quel bruto di suo padre. Anche di più, aveva affermato Az. “A volte ci sono incidenti durante il Rito” avevo suggerito, quando Cass aveva sentito quella notizia e si era irrigidito. “Non disonoreremo il Rito interferendo” si era limitato a rispondere. “Ci sono spesso incidenti durante il volo, allora” aveva detto Azriel con voce fredda. “Se quel ragazzetto vuole rompermi i coglioni, può farsene crescere un paio e farlo allo scoperto” aveva ringhiato Cassian, e la questione si era conclusa lì. Lo conoscevo abbastanza da lasciar fare a lui, da lasciargli decidere come e quando affrontare Kallon. «Nonostante i dissensi nei campi...» dissi a Cassian, indicando i recinti di addestramento. I maschi si tenevano a debita distanza da dove si allenavano le poche femmine, come se temessero di contrarre qualche malattia mortale. Patetici. «Questo è un buon segno, Cass.» Azriel annuì in approvazione e le sue ombre lo avvilupparono. La maggior parte delle donne del campo si era rifugiata in casa quando era apparso lui. Una rara visita dal cantaombre. Mito e terrore insieme. Az sembrava altrettanto dispiaciuto di essere lì, ma aveva acconsentito quando glielo avevo chiesto. Forse era salutare, per Az, che a volte ricordasse da dove veniva. Indossava ancora gli indumenti di pelle Illyrian. Non aveva provato a far rimuovere i tatuaggi. Una parte di lui era ancora Illyrian. Lo sarebbe sempre stata. Anche se avrebbe voluto dimenticarlo. Cassian non disse nulla per un minuto; il suo viso era una maschera di pietra. Era stato distante anche prima che, quella mattina, ci riunissimo intorno al tavolo nella vecchia casa di mia madre per consegnargli il rapporto. Era distante dal Solstizio. Avrei scommesso una bella cifra sul perché. «Sarà un buon segno» disse infine Cassian «quando lì ci saranno venti ragazze e si presenteranno ogni giorno per un mese di fila.» Az sbuffò. «Scommetto che...» «Niente scommesse» disse Cassian. «Non su questo argomento.» Az sostenne lo sguardo di Cassian per un momento, con i Sifoni color cobalto che lampeggiavano, e poi annuì. Aveva capito. Quella missione di Cassian, iniziata anni prima e forse prossima al completamento... per lui andava oltre le scommesse. Risaliva a una ferita che non si era mai davvero rimarginata. Gli posai un braccio sulle spalle. «Piccoli passi, fratello.» Gli rivolsi un sorriso, pur sapendo che non mi arrivava agli occhi. «Piccoli passi.» Per tutti noi. Il nostro mondo poteva benissimo dipendere da quello.
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FEYRE
e campane della città annunciavano le undici del mattino. Era passato un mese. Io e Ressina eravamo in piedi vicino alla porta d’ingresso, vestite in modo quasi identico: maglioni lunghi e spessi, pantaloni caldi e stivali da lavoro robusti e foderati di lana. Stivali che avevano già schizzi di colore. Nelle settimane trascorse da quando la famiglia di Polina mi aveva regalato lo studio, io e Ressina eravamo andate lì quasi tutti i giorni. Per preparare il posto. Per studiare la nostra strategia. Le lezioni. «Arriveranno da un momento all’altro» mormorò Ressina, guardando il piccolo orologio su una delle pareti bianche e luminose dello studio. Quello era stato un dibattito senza fine: di che colore dipingerle? Prima le volevamo gialle, poi avevamo deciso che forse non sarebbe stato l’ideale come sfondo per i dipinti. Il nero e il grigio erano troppo cupi per l’atmosfera che ci interessava, il beige – come il giallo – poteva anche stare male con le cose da appendere... Alla fine avevamo optato per il bianco. La stanza sul retro, però, l’avevamo dipinta a colori vivaci: uno diverso su ogni parete. Verde, rosa, rosso e azzurro. Ma quello spazio frontale... era vuoto. A parte l’arazzo che avevo appeso a una parete, il nero del Vuoto ipnotizzante. Era un promemoria. Un promemoria come l’assurda iridescenza di Speranza, che scintillava in ogni parte. Ci ricordava di superare le perdite, per quanto potessero essere travolgenti. Di creare. E poi c’erano i dieci cavalletti e gli sgabelli disposti in cerchio al centro del pavimento.
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In attesa. «Verranno?» mormorai a Ressina. La Fae spostò il peso da un piede all’altro, l’unico segno esteriore della sua preoccupazione. «Hanno detto che sarebbero venuti.» Nel mese in cui avevamo lavorato insieme, era diventata una buona amica. Una cara amica. L’occhio di Ressina per il design era impeccabile, tanto che le avevo chiesto di aiutarmi a progettare la casa sul fiume. È così che la chiamavo. Perché tenuta sul fiume... no. L’avremmo chiamata casa, anche se sarebbe stata la più grande di quella città. E questo non per pavoneggiarci, ma semplicemente per praticità. Per le dimensioni della nostra corte, dalla nostra famiglia. Una famiglia che forse sarebbe cresciuta ancora. Ma quello riguardava il futuro. Per il momento... Passò un minuto. Poi due. «Su, forza» mormorò Ressina. «Forse non hanno capito giorno e ora?» Ma, mentre lo dicevo, apparvero. Ressina e io trattenemmo il fiato mentre il branco girava l’angolo e puntava verso lo studio. Erano dieci bambini, Fae Superiori e Fae, e alcuni dei loro genitori. Solo alcuni di loro, perché gli altri non erano più vivi. Mantenni un caldo sorriso sul volto, anche se mi martellava il cuore per ogni bambino che passava dalla nostra porta, circospetto e insicuro, e si raggruppava con gli altri vicino ai cavalletti. Mi sudavano i palmi mentre i genitori li raggiungevano, con i visi meno guardinghi ma comunque esitanti. Esitanti, ma speranzosi. La speranza non era solo per se stessi, ma per i bambini che avevano portato lì. Non avevamo fatto molta pubblicità. Ressina aveva contattato alcuni amici e conoscenti e aveva detto di chiedere in giro. Di chiedere se in quella città c’erano bambini che potevano aver bisogno di un luogo in cui esprimere gli orrori che avevano vissuto durante la guerra. Se c’erano bambini che non riuscivano a parlare di ciò che avevano dovuto subire, ma che forse sarebbero riusciti a dipingerlo, disegnarlo o scolpirlo. Forse non avrebbero fatto nessuna di quelle cose, ma il semplice atto di creare qualcosa... sarebbe potuto essere un balsamo per loro. Come lo era stato per me. Come lo era stato per la tessitrice, per Ressina e per tanti altri artisti di quella città. Appena si era sparsa la voce, erano arrivate richieste di informazioni. Non solo da genitori o tutori, ma da potenziali istruttori. Artisti dell’Arcobaleno desiderosi di aiutare, di tenere classi. Io avrei tenuto una lezione al giorno, se me l’avessero permesso i miei doveri di Signora Suprema. Ressina ne avrebbe tenuta un’altra. E c’era un programma a rotazione di altri insegnanti per il terzo e il quarto corso della giornata. E c’era anche la tessitrice, Aranea. Perché la reazione di genitori e famiglie era stata travolgente. “Quando iniziano le lezioni?” era stata la domanda più frequente. Subito dopo, c’era: “Quanto costa?”.
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Niente. Niente, dicevamo loro. Era gratis. Nessun bambino e nessuna famiglia avrebbe mai dovuto pagare le lezioni o i materiali. La stanza si riempì, e io e Ressina ci scambiammo rapidamente uno sguardo sollevato. E anche nervoso. Poi mi voltai verso le famiglie riunite in quella sala aperta e soleggiata, sorrisi ancora una volta e cominciai.
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n’ora e mezza dopo, lui era lì fuori ad aspettarmi. Quando tutti i bambini se ne andarono, alcuni ridendo, altri ancora con l’aria grave e gli occhi spenti, tenne la porta aperta per loro e per le loro famiglie. Rimasero tutti a bocca spalancata, chinando la testa, e Rhys contraccambiò con un sorriso ampio e amichevole. Adoravo quel sorriso. Adoravo quella grazia disinvolta mentre entrava nella galleria, senza traccia delle ali, e osservava i dipinti che si stavano ancora asciugando. Studiò i colori che mi erano schizzati sul viso, sul maglione e sugli stivali. «Giornata dura in ufficio, oggi?» Mi tirai indietro una ciocca di capelli. Pur sapendo che probabilmente era macchiata di azzurro, dal momento che le mie dita ne erano coperte. «Dovresti vedere Ressina.» In effetti era andata nel retro, pochi istanti prima, per lavarsi la faccia che era diventata rossastra. A uno dei bambini era sembrata una bella idea formare una bolla mescolando tutti i colori per vedere come sarebbe diventata, e poi farla fluttuare nella stanza. Dove si era scontrata con il suo viso. Rhys rise quando glielo mostrai attraverso l’Unione. «Ottimo uso dei suoi poteri in erba, perlomeno.» Sorrisi, esaminando uno dei dipinti accanto a lui. «È quello che ho detto io. Ressina non l’ha trovato altrettanto divertente.» Anche se, in realtà, si era divertita anche lei. Sorridere era stato un po’ difficile, però, visto quanti bambini avevano cicatrici visibili e invisibili. Rhys e io studiammo il dipinto di una ragazzina i cui genitori erano stati uccisi nell’at-
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tacco. «Non abbiamo dato loro suggerimenti dettagliati» dissi, mentre gli occhi di Rhys vagavano sul quadro. «Abbiamo solo suggerito di dipingere un ricordo. Questo è quello che ha tirato fuori lei.» Era difficile da guardare. Le due figure. Il colore rosso. Le figure nel cielo, i loro denti feroci e gli artigli allungati. «Non portano i loro quadri a casa?» «Questi si devono asciugare, prima, ma le ho chiesto se voleva che lo tenessi in un posto speciale. Ha detto di buttarlo via.» Negli occhi di Rhys balenava la preoccupazione. Dissi a bassa voce: «Voglio tenerlo. Per metterlo nel mio futuro ufficio. Così non dimenticheremo». Così non avremmo dimenticato che cosa era successo, per che cosa ci stavamo dando da fare. Lo stesso motivo per cui era appeso lì alla parete l’arazzo di Aranea con le insegne della Corte della Notte. In risposta, lui mi baciò una guancia e passò al dipinto successivo. Rise. «Spiegami questo.» «Questo ragazzo era terribilmente deluso dai regali che ha ricevuto per il Solstizio. Soprattutto perché non includevano un cucciolo. Quindi il suo “ricordo” è quello che spera di avere in futuro, di lui e del suo “cane”. Con i suoi genitori in una cuccia, mentre lui e il cane vivono nella casa vera e propria.» «Che la Madre aiuti i suoi genitori.» «È stato lui a creare la bolla.» Rise di nuovo. «Che la Madre aiuti voi, allora.» Gli diedi una gomitata, ridendo a mia volta. «Mi accompagni a casa per pranzo?» Abbozzò un inchino. «Sarà un onore, mia Signora.» Alzai gli occhi al cielo e gridai a Ressina che sarei tornata dopo un’ora. Rispose di prendermela con calma. La lezione successiva sarebbe iniziata solo alle due. Avevamo deciso di partecipare a tutte le lezioni iniziali, perché i genitori e i tutori potessero conoscerci. E anche i bambini. Sarebbero passate due settimane intere prima di completare l’intero elenco delle classi. Rhys mi aiutò a mettermi il cappotto e mi rubò un bacio, poi uscimmo nella giornata soleggiata e gelida. L’Arcobaleno era pieno di vita attorno a noi; artisti e acquirenti ci rivolsero cenni del capo e saluti mentre ci avviavamo verso la casa di città. Lo presi a braccetto e mi annidai nel suo calore. «È strano» mormorai. Rhys inclinò la testa. «Che cosa è strano?» Sorrisi. A lui, all’Arcobaleno, alla città. «Questa sensazione, questa eccitazione quando mi sveglio ogni giorno. Vederti, lavorare, semplicemente essere qui.» Quasi un anno prima, gli avevo detto il contrario. Avevo desiderato il contrario. Il suo viso si addolcì, come se anche lui lo avesse ricordato. E capisse. Continuai: «Lo so che c’è tanto da fare. So che ci sono cose che dovremo affrontare. E diverse abbastanza presto». A quelle parole, alcune delle stelle nei suoi occhi si oscurarono. «So che ci sono gli Illyrian, le regine umane e gli umani stessi, e tutto il resto. Ma no-
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nostante questo...» Non riuscii a completare la frase. Impossibile trovare le parole giuste. Oppure pronunciarle senza cadere a pezzi in pubblico. Così mi appoggiai a lui, a quella forza inesauribile, e dissi lungo l’Unione: “Mi rendi talmente felice. Ho una vita felice, e non smetterò mai di essere grata del fatto che ne fai parte anche tu”. Alzai lo sguardo e scoprii che non si vergognava affatto – anche se eravamo in un luogo pubblico – di avere lacrime che gli scorrevano sulle guance. Ne asciugai qualcuna prima che il vento gelido potesse congelarle, e Rhys mi sussurrò all’orecchio: «Nemmeno io smetterò mai di essere grato di averti nella mia vita, Feyre cara. E, qualunque cosa ci aspetti» fece un piccolo, gioioso sorriso «la affronteremo insieme. Ce ne godremo ogni momento insieme». Mi inclinai di nuovo verso di lui e il suo braccio mi strinse le spalle. E mi strinse la parte superiore del braccio, decorato con il tatuaggio che portavamo entrambi, quella promessa tra noi. La promessa di non separarci mai, fino alla fine. E anche dopo. “Ti amo” gli dissi lungo l’Unione. “Per forza: non ho difetti.” Prima che potessi dargli una gomitata mi diede un altro bacio, rapido e ansante. “Alle stelle che ascoltano, Feyre.” Per asciugare le ultime lacrime gli passai una mano sulla guancia, su quella pelle calda e morbida, e imboccammo la strada che ci avrebbe portato a casa. Verso il nostro futuro, verso tutto ciò che ci attendeva. “Ai sogni che si avverano, Rhys.”
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Illustrazione di Charlie Bowater
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UNA CORTE DI NEBBIA E FURIA
ALI E BRACI UNA SCENA ELIMINATA DA UNA CORTE DI NEBBIA E FURIA
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on era a caccia di litigi, disse Cassian a se stesso mentre – per la quinta volta – volava in cerchio sopra la vasta tenuta, nonostante il freddo fuori stagione; quell’inizio di primavera era così brutale da togliere il respiro anche al guerriero Illyrian più temprato. Era stato Rhys a chiedergli di consegnare un’altra lettera per le regine umane, perché Az stava cercando un modo per superare le malevole difese che avevano piazzato attorno al loro palazzo, e Mor non voleva mettere piede nel regno dei mortali se non era proprio indispensabile. Amren, naturalmente, era fuori discussione, semplicemente perché era Amren e sarebbe stato come mandare un felino delle pianure in un recinto di agnelli. Quindi restava solo lui. Be’, ci sarebbe stata anche Feyre, ma lei e Rhys erano... occupati. E, certo, forse aveva accettato un po’ troppo in fretta di andarci, ma... Cassian esaminò la tenuta, i terreni resi fangosi dal disgelo, il villaggio lontano e la foresta minacciosa e piena di gemme. Quando se n’era andato da lì dopo il loro primo incontro, non sapeva bene che rapporto si fosse creato fra loro o chi avesse avuto la meglio. E, che la Madre lo dannasse, nelle ultime settimane si era ritrovato a riesaminare ogni parola e ogni sguardo che aveva scambiato con lei, più e più volte. Non c’era stato nulla di piacevole, neanche una sillaba uscita dalla bocca pungente e crudele di Nesta. Cassian emise un sospiro, e il vento lo portò via. Non sapeva che cosa fosse peggio: averci pensato così tanto o essersi precipitato alla tenuta con tale velocità. Per poi rimanere lì a ciondolare. Quel pensiero lo spinse in un tuffo rapido e quasi avventato verso il tetto verde della casa; il manto della sua magia lo rendeva poco più che un vento nefasto e un sordo battito di ali. I cavalli nelle stalle vicine si agitarono e nitrirono percependo la sua presenza,
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ma gli stallieri scrutarono le immediate vicinanze, non videro nulla di allarmante e ripresero il lavoro. Cassian cercò di non pensare a quanto era stato facile, al fatto che quella mancanza di percezioni, quella mancanza di istinto, probabilmente sarebbe costata loro la vita se il muro fosse stato abbattuto. Se uno come lui avesse deciso di trasformare quella tenuta nella sua personale riserva di caccia. L’aveva visto accadere nell’ultima guerra. Non c’erano stati molti umani così ricchi da possedere una proprietà, ma lui aveva visto che cosa era rimasto di interi accampamenti di schiavi quando uno dei Fae aveva deciso di divertirsi. Gli bastò quel pensiero per stringere i denti e concentrarsi sulla porta d’ingresso davanti a lui. Il giorno prima avevano fatto sapere esattamente quando aspettarlo. Quindi, quando bussò alla porta d’ingresso, questa venne spalancata dopo un istante. Il movimento brusco gli disse quale sorella lo stava aspettando. Ma lui era avvolto dalla sua magia, e quindi Nesta Archeron – e il suo viso così perfetto da essere inquietante – non videro altro che chiazze di neve residua sul prato fangoso e sul vialetto in pendenza che lo attraversava, e i ciottoli su cui luccicava il ghiaccio che si stava sciogliendo. Aprì con disinvoltura la porta per farlo passare e gridò a quell’insopportabile ficcanaso della governante che non c’era nessuno e che doveva essere stato il vento. Giusto. Perché fare andare via tutti i domestici così spesso avrebbe potuto far sorgere troppi sospetti. Soprattutto tenendo conto del fatto che l’altra sorella era fidanzata con un imbecille che andava a caccia di Fae. La governante si precipitò nell’atrio immacolato per controllare che davvero non ci fosse nessuno, ma Nesta si limitò a informarla che stava andando di sopra e che non voleva essere disturbata per un’ora. La donna aprì la bocca per obiettare, ma Nesta, con un tono notevolmente asciutto, ripeté il suo ordine e iniziò a salire la grande scalinata. La governante socchiuse gli occhi fino a ridurli a una fessura mentre la giovane padrona si allontanava a grandi passi, e Cassian – silenzioso come la morte – girò attorno all’anziana donna e poi seguì Nesta sulle scale. Si stava concentrando tanto sul non fare rumore, sul tenere le ali ben serrate in modo che non facessero frusciare nulla, che notò appena il pesante abito viola chiaro, più semplice di altri che le aveva visto indossare: il corpetto attillato metteva in risalto la vita sottile, le maniche aderenti mostravano le braccia snelle. Aveva una corporatura più esile di Feyre ed Elain, se non si teneva conto del seno generoso che Cassian intravide quando Nesta arrivò in cima alle scale e svoltò a sinistra. Non che lui lo guardasse. Non lo guardò tanto, perlomeno. Per quel che ne sapevano tutti, Nesta stava semplicemente andando con calma verso la sua stanza, forse un po’ scontrosa e stizzita. Ma appena entrò nella spaziosa camera da letto, piena di velluti e sete in varie tonalità di blu e argento, e un attimo dopo richiuse la porta di quercia, perse quel portamento pesante e lento. E lui fece svanire il suo manto.
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Come unico segnale di disagio o sorpresa, Nesta batté le ciglia. E forse Cassian lasciò che le sue ali si allargassero un po’, mentre lei lo guardava. «Sei in ritardo di dieci minuti» si limitò a dirgli, spostandosi verso l’estremità opposta della stanza, dove ardeva un fuoco contro il freddo di quell’inizio di primavera. Lì il crepitio delle fiamme avrebbe coperto le loro voci. Ragazza sveglia. «Ho altri doveri, sai» disse lui sottovoce, sorridendo. Per esempio, volteggiare sopra la casa compilando un elenco di insulti raffinati da lanciarle, in risposta a una discussione inventata. Come un perfetto idiota. «E io» replicò Nesta, simile a una colonna di ghiaccio e acciaio accanto al camino «che pensavo di averti sentito svolazzare in giro per dieci minuti. Deve essere stato un piccione bloccato in uno dei comignoli.» Cassian si limitò a fissarla. E Nesta fissò lui. Si infuriò con una velocità vertiginosa per quelle parole, per la sua assurda perfezione. Una lama che aveva preso vita, ecco che cos’era quella donna. Le rivolse un sorriso lento e malizioso, quel tipo di sorriso che – aveva scoperto – la mandava in bestia. Un sorriso che le avrebbe fatto sfoderare immediatamente quei suoi stupendi artigli. «Salve, Nesta. Mi fa piacere vederti.» Nessuna reazione, nessuna modifica del suo odore vedendo il sorriso che di solito faceva scappare i nemici di Cassian. Niente, a parte una lieve dilatazione delle narici. «Come sta mia sorella?» “Sta guarendo” pensò – e quasi disse – lui. “Cerca di sfuggire al fatto che si sta innamorando di Rhys, e ignorando esplicitamente il fatto che lui si è innamorato di lei tanto tempo fa. E che tutti gli indizi indicano che sono Metà, ma non sono così stupido da andarlo a dire a uno dei due.” Quindi si limitò a rispondere: «Molto indaffarata». Un guizzo nella gola di Nesta. «Così indaffarata da non poterci degnare di una visita, a quanto pare.» «Feyre ha già abbastanza da fare, con la faccenda di Hybern e tutto il resto.» Nesta inclinò la testa, e il fuoco fece risaltare la lucentezza dorata dei suoi capelli. Un predatore che valutava un degno avversario. «E qual è il tuo ruolo in tutto questo?» Cassian allargò i piedi. «Io comando gli eserciti di Rhys.» I suoi occhi grigio-azzurri lo percorsero con uno sguardo che avrebbe potuto tranciare le palle di un maschio più debole. «Tutti?» «Quelli principali.» Lei sbuffò e guardò di nuovo il fuoco. Cassian non si era mai sentito così rifiutato e sminuito. Si irrigidì. «E tu che cosa fai, esattamente, di importante?» La ragazza sollevò la testa di scatto. Oh, quella domanda aveva colpito nel segno. «Perché mai dovrei giustificarmi» disse Nesta, e la sua voce era letalmente fredda, «con un maschio talmente pieno di sé che nella stanza c’è spazio solo per la sua enorme testa?» Toccò a Cassian sbattere le palpebre.
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Poi le si avvicinò, percorrendo a lunghi passi il tappeto tra loro. Lei non si ritrasse, non fece un passo indietro. Si limitò a sollevare il mento per incrociare lo sguardo del maschio che torreggiava su di lei, che allargò leggermente le ali e che le chiese tra i denti: «Hai ricevuto notizie dalle regine?». Nesta abbassò le sopracciglia. «Comandi gli eserciti del Signore Supremo, ma sei sempre un bruto. Non puoi intimorirmi con le parole, quindi cerchi di intimorirmi con la tua mole imponente.» «Enorme...» «Hai bisogno di me molto più di quanto io abbia bisogno di te. Quindi ti suggerirei semplicemente di mostrarti d’accordo, chiudere per bene quelle ali da pipistrello e chiedere le cose con gentilezza.» Lui non fece niente del genere. Invece fece un passo avanti, posò una mano sulla mensola del camino e si chinò verso di lei per respirare quel suo odore. L’odore lo colpì allo stomaco con tale forza che riuscì a malapena a concentrarsi, e solo grazie a cinque secoli di autodisciplina riuscì a guardarla negli occhi e a impedire che i propri ruotassero all’indietro, a restare fermo e a impedirsi di seppellire il viso nell’incavo tra il suo collo e la sua spalla, a impedirsi di avvicinarsi ancora, di... toccarla. Mantenne la stessa distanza tra loro, poco più di un palmo tra i loro visi, ma lei non arrossì. Era giovane: ventidue, ventitré anni al massimo. Ma era già stata con un uomo? Non avrebbe dovuto preoccuparsene, neanche chiederselo, e per lui non faceva differenza, ma... di solito, lo capiva. Con lei era diverso, invece: Cassian non poteva leggerla affatto. Quindi avvicinò la testa, mentre i capelli scuri gli scivolavano sulla fronte, e disse con tono suadente: «Potrei fare altre cose con gentilezza, Nesta Archeron». Quel maschio Fae, Cassian, era pericoloso. Certo, era pericoloso in tutti i modi che uno si aspetterebbe: alto, muscoloso, esperto di armi e di guerra. Poi c’erano quelle enormi ali e un piccolo particolare: era un letale guerriero Fae che serviva il più potente Signore Supremo della storia. Un Signore Supremo con cui sua sorella si era invischiata: anzi, di cui sua sorella si stava innamorando, se aveva interpretato bene gli indizi. Il Signore Supremo l’amava già follemente, quello era evidente. Ma Cassian era pericoloso anche per un motivo totalmente diverso. Non per il bel viso, ma per quegli occhi nocciola che soppesavano tutto e tutti. Mentre stava lì in piedi contro la mensola del camino, si sentiva ardere tutto il lato sinistro del corpo per il fuoco scoppiettante; Cassian torreggiava su di lei, così vicino da respirare la sua stessa aria. Nesta contò i propri respiri. Sostenne il suo sguardo, sperando intensamente che non vedesse troppo lontano, troppo in profondità. Meglio tenerlo distratto con le parole taglienti, con un totale rigetto. Oppure... con la frase che aveva buttato lì, una proposta per metterla alla prova. Senza dubbio l’aveva fatto per trovare un’altra debolezza, per vedere se c’era un modo per superare le sue difese.
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“Altre cose con gentilezza.” Un sorrisino le incurvò le labbra. «Se volessi farmi palpare da un maschio» disse, a testa alta, «preferirei chiederlo a uno dei cani.» Quel sorriso insopportabile non sfumò. E Cassian puntò dritto alla gola chiedendo: «Sei mai stata con un maschio, Nesta?». Mentire o dire la verità: che cosa avrebbe funzionato meglio? Nel dubbio, rispose semplicemente: «E tu?». Cassian sbuffò e il suo fiato le accarezzò le labbra. «L’ho chiesto prima io, tesoro.» Inclinò la testa, e quei capelli nerissimi gli scivolarono come seta sulla fronte. «A meno che tu non preferisca le femmine?» Non sarebbe stato affatto un insulto, in quel caso, ma la domanda era provocatoria e quindi gli posò una mano impudente sul petto. Sotto il cuoio dell’aderente divisa da combattimento c’erano muscoli scolpiti, e il suo calore le scaldò il palmo. Fuoco. La faceva pensare al fuoco fatto carne. Gli premette delicatamente sul petto la mano, che sembrava più piccola contro l’ampiezza di quel torso. Un assassino esperto: predatore per nascita e per addestramento. Arrogante per natura. Cassian si raddrizzò solo quando lei osò avvicinarsi ancora; dovette farlo perché, altrimenti, sarebbe svanita la distanza tra le loro bocche. «Chi e che cosa preferisco non è affare tuo» disse Nesta. «Né lo è...» «Non hai risposto alla mia prima domanda. O tutte queste altre domande sono una manovra diversiva?» «Che te ne importa?» «Un’altra domanda.» Un sorriso arrogante. E a quel punto, con facilità, lei trovò la risposta che – lo sapeva – lo avrebbe ferito. Nesta sfiorò con il corpo quello di lui, un tocco appena accennato, ma lo fece irrigidire in ogni caso. Gli fece comunque espandere le pupille, che quasi divorarono quelle iridi nocciola. Cantilenò: «No, non l’ho mai fatto». Era la verità. Premette la mano su quel petto rivestito di cuoio. «Perché avrei dovuto prendermi il disturbo? Quando ho avuto l’età giusta, ero circondata solo da persone di basso livello, bruti e bastardi. Preferisco usare la mia mano che farmi insudiciare dalle loro.» Ogni traccia di divertimento sparì dal viso di Cassian. Nesta avrebbe potuto giurare di aver udito il suono della propria freccia che colpiva il bersaglio. Sapeva qualcosa su come era cresciuto. E quindi gli aveva detto la verità, avvolgendola in un fascio di lame che l’avrebbero lacerato se ci avesse pensato troppo. No, non era stata con nessun maschio, Fae o umano. Tomas avrebbe voluto, ma lei... una parte di lei sapeva che il suo futuro non era con lui. Sapeva del padre odioso, sapeva che lui non faceva nulla per impedire a quell’uomo di picchiare la moglie. A malapena si era lasciata baciare da Tomas, e il giorno in cui l’aveva lasciato, lui... Deglutì e cercò di scacciare il ricordo di ciò che lui aveva detto e fatto. Il suono del suo vestito che si lacerava. No, non era arrivato a tanto, ma... Quando Tomas
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aveva tentato di farlo, lei aveva provato un terrore cieco, prima di mettersi a gridare e di liberarsi graffiandolo. E non l’aveva mai detto a nessuno. Qualcosa doveva essere apparso sul suo viso, nel suo odore. Perché l’irritazione di Cassian svanì... no, si trasformò. In qualcos’altro, in qualcosa... Rabbia. Fu quella che raggelò la faccia di Cassian. Pura rabbia ardente. La fece rimanere senza fiato, le tolse la sensazione di avere avuto la meglio mentre lui chiedeva a denti stretti: «Chi è stato?». Odiava Tomas, lo odiava così tanto che a volte sperava che venisse investito da un carro, ma non augurava a nessuno il tipo di morte che promettevano gli occhi di Cassian. «Non so di che cosa stai parlando» disse, e fece per ritirare la mano. Lui la afferrò, con un movimento troppo rapido per gli occhi, e la tenne lì. Il cuore di Cassian stava galoppando: un galoppo possente e fragoroso. Quel maschio era pericoloso, pericoloso, pericoloso. Se non altro per il fatto che la faceva sentire così fuori controllo. Che Nesta non aveva idea di cosa avrebbe fatto lui – o di che cosa avrebbe fatto lei – se l’avesse trovata in uno stato di vulnerabilità, anche solo per un momento. «Qualcuno ti ha fatto del male?» chiese Cassian, con una voce così profonda che lei riusciva appena a capirla. Quell’ira, quella totale immobilità: ecco com’era lui quando era sul punto di uccidere. Quando voleva uccidere. La sua mano premette contro quella di Nesta, che sentì il raschio dei calli. Non gli aveva risposto. «Cambierebbe qualcosa se qualcuno l’avesse fatto? Mi vedresti in modo diverso, mi tratteresti in modo diverso?» «Andrei a cercarlo e gli frantumerei ogni osso del corpo.» Un brivido le scese lungo la schiena, non perché lui le facesse paura, ma per la verità che c’era in quella promessa. La sincerità. «Non mi conosci» disse. «Perché dovresti farlo?» Cassian ringhiò e si avvicinò a poco a poco, tenendole stretta la mano, poi si fermò. Come se avesse assimilato la domanda. Come se avesse assimilato la realtà. Batté le palpebre. «Lo farei per chiunque.» Nesta sapeva che diceva sul serio, e che l’avrebbe fatto. Forse era quello che la innervosiva, che le faceva venir voglia di ferirlo. L’assoluta sincerità. Sapere che non prometteva con leggerezza e che onorava le sue promesse. Che vedeva e diceva la verità e che, al loro primo incontro, aveva soppesato come si era comportata lei quando vivevano nella casupola. La sua codardia, il suo egoismo. La rabbia che l’aveva consumata, tanto da desiderare che facessero tutti la fame, solo per vedere se quel loro padre inetto avrebbe fatto qualcosa per salvarli. E poi era intervenuta la piccola Feyre, e Nesta aveva odiato anche lei per quello: Feyre aveva fatto l’impensabile ed era riuscita a mantenerli in vita. Non sapeva che cosa farsene, di quella rabbia. La bruciava ancora e la braccava, le fa-
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ceva ancora venire voglia di lacerare le cose, di urlare e di fare a pezzi il mondo. Percepiva tutto con troppa intensità, con troppa acutezza. A volte pensava di odiare e di prendere a cuore, di amare e di temere più delle altre persone. Poteva vivere tutte quelle emozioni in pochi momenti, come se si stesse provando diversi vestiti, e nessuno se ne accorgeva o se ne preoccupava. Tranne lui. Lui lo vedeva, lo sentiva. Quel primo pomeriggio, l’aveva guardata – non il viso e il corpo che notavano gli umani, ma aveva guardato lei – e aveva visto tutto. Per quello aveva voluto ferirlo, prima che potesse rivelare quelle cose a tutti gli altri, voleva trovare un modo per spezzarlo in modo che non potesse... La mano che premeva la sua contro il petto divenne più delicata. Il pollice di Cassian, con il polpastrello irruvidito dai calli, gliene accarezzò il dorso. Un ceppo si mosse nel fuoco e si spezzò; le braci esplosero e illuminarono la stanza. Lei lo stava fissando. Cassian batté le palpebre e socchiuse la bocca. Poi si chinò verso di lei e Nesta si ritrovò a inclinare la testa all’indietro, esponendo il collo, concedendogli un accesso totale mentre lui le sfiorava la gola con il naso. Che la Madre e il Calderone lo maledicessero entrambi. Quella donna. Nesta. Cassian non riusciva a indietreggiare dalla linea che, con ogni evidenza, era stata tracciata tra loro. Per un momento aveva desiderato strozzarla, poi le aveva letto quel terrore sul viso per qualcosa successo in passato ed era diventato così brutalmente calmo da spaventare persino se stesso, poi... poi si era fermato tutto, come se fossero dentro l’occhio di un ciclone, ed eccola lì. E, in quegli occhi grigio-azzurri, poteva vedere i pensieri che le turbinavano dentro come se fossero fumo sotto vetro. La mente scaltra al lavoro dietro quel viso, il viso che non era riuscito a togliersi dalla testa in quelle settimane. E quindi si era... mosso. E poi Nesta aveva sollevato il mento, permettendogli di accedere alla sua gola. Tutti gli istinti del suo corpo emersero con veemenza, così violenti che dovette bloccarli con una stretta brutale, altrimenti si sarebbe ritrovato in ginocchio a implorare un suo tocco o qualsiasi altra cosa. Invece si chinò e le sfiorò il lato del collo con la punta del naso. Morbida: la sua pelle era così morbida, così fragile. Riusciva a sentire l’odore del sangue mortale che scorreva sotto la pelle. Cassian inspirò nei polmoni il suo profumo, che lo eccitò e si insidiò in profondità, affondando in lui gli artigli. “Nesta Nesta Nesta” pensò. Lei chiuse gli occhi ed emise un lieve ansito quando Cassian passò le labbra lungo la linea che aveva già sfiorato con il naso. Quasi gli cedettero le ginocchia quando la mano sottile di Nesta premette contro la sua
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divisa di cuoio. Cercò di non pensare a che effetto gli avrebbe fatto quella mano altrove. Quella mano che lo afferrava; che lo accarezzava. “Ancora, ancora, ancora” cantava il suo corpo. Inclinò la testa e le baciò un altro punto, più vicino alla mascella. Il frenetico battito del cuore di Nesta sembrava la vibrazione delle ali di un colibrì, ma il suo corpo rimase teso e sciolto allo stesso tempo; un rossore si era diffuso sul suo petto, facendosi strada verso i suoi seni meravigliosi. Seni grandi abbastanza da riempirgli il palmo, da accarezzare finché lei non lo avesse pregato... Sentiva il ritmo frenetico delle sue pulsazioni proprio sotto la bocca. Sfiorò quel punto con la lingua. Fu quel tocco a farla sobbalzare e indietreggiare. Nesta andò a sbattere contro i pannelli di legno, così forte che Cassian allungò un braccio. Ma lei aveva gli occhi spalancati, sembrava livida di rabbia, e si portò una mano alla gola. Cassian sapeva che avrebbe detto qualcosa di velenoso e la prevenne: «Sei un po’ tesa in questi giorni, Nesta?». Lei abbassò la mano e sibilò: «Tutto questo è opera della tua magia Fae?». Lui fece una risata che sembrava un latrato. «No. Anche se mi lusinga che tu lo pensi.» Nesta lo guardò torva, ma fece una risatina sommessa e riflessiva. «Bene» disse, passandogli accanto e andando verso la finestra con passi calmi e calcolati. «Se è questo che può fare un guerriero Fae, un bastardo qualunque, non mi stupisce che mia sorella si sia legata così tanto ai Signori Supremi.» Stronza. Stronza, per l’insulto a lui e a Feyre. «Che cosa ti ha dato più fastidio, Nesta? Che lo volessi anche tu, o che sia stato un bastardo a farti provare queste cose?» «È stato un lungo inverno. Quando c’è poca scelta, non si può essere schizzinosi.» Ritirò su un muro dietro l’altro e la sua postura divenne più rigida. Che importanza aveva? Che importanza aveva? Aveva già abbastanza merda di cui occuparsi. Metterci dentro anche una mortale, con cui la situazione sarebbe diventata imbarazzante dopo qualche decennio, era... folle. E poi avrebbe dovuto spiegarlo a tutti. A Mor. Si sentì gelare il sangue. Non era stupido. Sapeva che lei e Azriel erano... qualunque cosa fossero. Sapeva che Azriel si era innamorato di Mor nell’istante stesso in cui lei era entrata impettita nell’accampamento Illyrian, cinque secoli prima. E Cassian era stato geloso: degli sguardi timidi di Mor ad Azriel in quelle prime settimane, e del fatto che il suo più caro amico e fratello... guardava qualcun altro. Del fatto che lei era apparsa, e Azriel era cambiato. Non c’erano stati grandi cambiamenti, ma Cassian sapeva che il suo amico non apparteneva più solo a lui e Rhys. E quindi, quando Mor gli aveva chiesto di andare a letto con lei... l’aveva fatto. Da coglione geloso e stupido, l’aveva fatto, e se ne era pentito immediatamente, quando si era reso conto di aver preso la sua verginità e aveva realizzato l’enormità di ciò che era successo. Ma poi lei se n’era andata e Azriel non aveva fatto niente, e... Mor era ancora lì tra loro.
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In qualche punto, tra amica e amante. Gli era cara come se fosse del suo sangue, ma... Cassian si era odiato per l’espressione che aveva visto, dopo, sul viso di Azriel. E poi per quello che aveva fatto a Mor la sua stessa famiglia. Aveva avuto amanti, alcune per una notte e altre per mesi, e a Mor non era mai importato, ma... Quella donna in piedi davanti a lui come una colonna d’acciaio e di fiamme... Cassian non voleva parlare di lei a Mor. Di come le aveva sfiorato il collo. Riuscì a dire: «Visto che desideravi una distrazione, ne dedurrò che le regine non si sono messe in contatto e me ne andrò». Prima che riuscisse a castrarlo completamente. Fece schioccare le dita e la lettera di Rhys apparve tra loro. La gettò su un tavolo basso lì vicino. «Spediscila alle regine il prima possibile.» Nesta spostò lo sguardo tra lui e la lettera, raddrizzando le spalle. «Di’ a mia sorella e a quel suo nuovo Signore Supremo di mandare qualcun altro, la prossima volta.» Cassian scoprì i denti in un sorriso feroce. «Di’ a quell’altra tua sorella che preferiremmo trattare con lei.» «Elain deve restare fuori da questa faccenda. Meno viene associata con la tua specie, meglio è.» Lui non riuscì a trattenersi. «Perché le lasci sposare quel coglione fanatico?» «Lui ha buone ragioni per odiare la tua specie. Come tutti noi.» «Questa è una stronzata, e lo sai.» «Pensavo che te ne stessi andando.» «Hai una stramaledetta opinione su ogni altro essere vivente. Perché non vuoi dire a Elain che sta per sposare un mostro?» «Forse tutti voi maschi siete mostri.» Se qualcuno le aveva fatto del male, non la biasimava affatto per quel sentimento. Ma rispose con tono ancora tagliente: «Lei merita di meglio di una persona del genere». «Verissimo.» Con voce piatta e fredda. Lui insisté, semplicemente perché non riuscì a impedirselo: «E che cosa meriti tu?». Un sorriso lento; sembrava davvero un felino delle pianure che si prepara a uccidere. Poi: «Certo più di un bastardo qualunque». “Stronza” pensò lui. Ma disse con voce strascicata: «Che brava alleata sei, Nesta. Ricordami di portarti un libro sulla strategia militare, la prossima volta. Forse allora avrai una possibilità». Uno sguardo freddo e piatto. «È più facile, no?» bisbigliò Cassian, andandole di nuovo vicino, senza preoccuparsi di chi li potesse vedere in piedi nel bovindo. «Brandire le parole e la freddezza come un’armatura per impedire a tutti di vedere dove e come hai fallito, e il fatto che non ti è importato finché non è stato troppo tardi.» Solo l’odio brillava negli occhi di Nesta; nessun accenno di quel desiderio assopito che gli aveva sconvolto i sensi. «Be’, io lo vedo, Nesta Archeron. E tutto quello che vedo è una ragazza annoiata e viziata...»
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Si mosse con una rapidità impressionante per un essere umano, ma era comunque troppo lenta per impedirgli di bloccarla. Cassian le afferrò il ginocchio sollevato, vicinissimo alle sue palle, e lo strinse abbastanza forte da farla sibilare. «Un colpo da due soldi» le disse con un mezzo sorriso. «Vieni a giocare con me, Nesta, e ti insegnerò modi molto più interessanti per mettere in ginocchio un maschio.» Nesta cercò di liberarsi, ma Cassian non la lasciò andare. Si inclinò all’indietro e lui la prese per la vita e se la tirò più vicino, per impedirle di cadere dalla finestra. Ridacchiò vedendosi circondato dalle sue gonne. «E, comunque, che cosa nascondi sotto tutto questo?» Nesta si stabilizzò abbastanza da strappare il ginocchio dalla sua presa. «Fuori da casa mia.» Cassian si limitò a sorriderle. Lei si sollevò verso di lui. Cassian pensò che volesse strangolarlo, e fu proprio per quello che le afferrò i polsi, ma... Le mani di Nesta, fredde e ferme, gli si posarono sui lati del viso. Poi gli tirò giù la testa. Il respiro di Cassian divenne irregolare mentre le posava lo sguardo sulla bocca, mentre i due corpi si accostavano, mentre sentiva contro di sé quei seni così morbidi. “Stupido, stupido, stupido...” si disse. Non gli importava. Non gliene fregava niente. Lei si sollevò sulla punta dei piedi, avvicinò la bocca alla sua... E poi il dolore gli esplose tra le gambe, bloccandogli il respiro, quando il dannato ginocchio di lei colpì il bersaglio. Cassian indietreggiò barcollando e imprecando ferocemente. Lei sbuffò, guardandolo mentre cadeva a sedere su una poltrona, si afferrava lo stomaco, cercava di rimettere ordine nel suo cervello... «Siete tutti uguali», disse, imperiosa come la notte e fredda come l’alba. «Forse essere un immortale ti rende prevedibile.» «Tu...» ansimò lui. Una risatina sommessa uscì da quelle labbra, che lui era stato prontissimo ad assaporare, a divorare. «No, le regine non hanno mandato notizie» disse Nesta, andando verso la porta. «Non ne ho più saputo niente.» Cassian ordinò alle sue gambe di muoversi, ma il dolore persisteva e gli immobilizzava le ginocchia. «Spedirò la lettera domani mattina.» Nesta si fermò con la mano sul pomo della porta e voltò la testa verso di lui. «Non sai nulla di chi sono, di che cosa ho fatto e di che cosa voglio. E, già che siamo in argomento... ricordati di mandare qualcun altro, la prossima volta. Se ti vedrò sulla porta di casa mia, urlerò così forte da allertare la servitù.» La guardò a bocca aperta; il dolore diminuì abbastanza da permettergli di alzarsi barcollando.
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Ma Nesta se n’era già andata e camminava con grazia lungo il corridoio. Un servitore la chiamò e lei mormorò una risposta. Un minuto dopo, se ne andò anche lui. Non dalla porta d’ingresso, ma passando dalla finestra della sua dannata camera, come un ladro nella notte. Si lanciò in cielo prima che qualcuno potesse stupirsi per il fruscio e per il battito delle ali. Cassian non volò più in cerchio sopra la casa. Ma si sentì osservato dallo sguardo di Nesta mentre si librava in direzione del muro. Anche quando fu troppo distante per essere visto, continuò a sentirsi addosso quegli occhi grigio-azzurri. Quella sensazione lo seguì fino a Velaris.
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