Anticapitalismo e comunismo: potenzialità e antinomie di una rifondazione [PDF]

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Zitiervorschau

Livio Maitan

ANTICAPITALISMO E COMUNISMO potenzialità e antinomie di una rifondazione

~ CUEN

@ CUEN 1992 (Cooperativa Universitaria Editrice Napoletana) in Area Industrie della Cultura 80124 Napoli - Via Coroglio, 156 Tel. 081/2301019 pbx Fax 081/2301044

INDICE

Introduzione

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PARTE PRIMA Cento anni dopo

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Un bilancio essenziale

Il

Validità e limiti delle conquiste parziali Tre fattori convergenti

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"Crisi del comunismo?"

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Una messa a punto necessaria Bilancio sintetico della socialdemocrazia

19 22

Il capitalismo oggi: mistificazioni e realtà

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Le potenzialità non valorizzate Il profitto resta la molla essenziale Quali mutamentinella composizione sociale? Tendenze in Italia È possibile un rilancio globale del capitalismo?

30 32 35 ...41 :

43

PARTE SECONDA

Difficoltà e contraddizioni dell'impresa rifondatrice

55

4

Anticapitalismo e comunismo

Contraddizioni internazionali

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Internazionalizzazione,grandi aree economiche e conflittualità mondiale. Socialismo: insopprimibile dimensione sovrannazionale Quale modo di produzione?

69

"Economicismo" e "statalismo" Quale alternativa? Essenzialità della democrazia socialista

69 71 74

Quale strategia anticapitalista?

77

Difficoltà e contraddizioni Una strategia mai sperimentata ..: Qualche ipotesi di orientamento

77 79 81

Difficoltà e necessità di una ricomposizione Scomposizionee frammentazione Un problema politico centrale Con quale "materiale" rifondare?

60 64

89 :

89 91 93

Un nodo centrale: la democrazia operaia

97

Democrazia negata Significative esperienze storiche Linee di un rinnovamento

97 100 107

D nuovo sfondo: la minaccia alla vita sul pianeta Evoluzionismopositivistico e critica materialista Il grido ~ Walter Benjamin L'imperativo: invertire la tendenza Appendice

II 1 111 113 116 119

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Introduzione

Il punto di partenza per una riflessione sulle potenzialità e sulle antinomie di una rifondazione comunista non può che essere una lucida presa di coscienza del momento storico in cui stiamo'vivendo, specialmente da alcuni anni a questa parte. Autori di interessi e orientamenti diversi usano concetti come "crisi del comunismo", "crisi del marxismo" o più in generale, "crisi delle ideologie". Per parte nostra, riteniamo che sia più corretto parlare da un lato di crisi del movimento operaio, dall'altro di crisi di civiltà. Le due cose sono ovviamente legate, almeno per chi continua a considerare valido il metodo e l'analisi di fondo definiti da Marx e il progetto alternativo di società che ne deriva. Proprio perché il movimento operaio ha registrato sinora insuccessi e fallimenti nel raggiungimento del suo fine storico, cioè la costruzione di una nuova società sorta dal rovesciamento della società esistente, le società umane e la loro civiltà sono immerse in una crisi complessiva i cui elementi costitutivi sono in misura crescente percepiti anche a livello di massa. In ultima analisi, è questa crisi ch~ è alle radici delle tendenze centrifughe che si moltiplicano, del nuovo sonno della ragione non meno allarmante dei precedenti, dell' angoscia sotterranea che si rifrange nei comportamenti e nelle ideologie di movimenti sociali e politici che si diffondono in varie regioni del mondo. Questa schematica evocazione del contesto in cui dobbiamo operare, non intende suggerire prospettive crepuscolari, suscettibili di accrescere lo smarrimento e il pessimismo già largamente diffusi anche nelle file di coloro che sono rimasti sulla breccia. L'essenziale è comprendere l'im-

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l Anticapitalismo e comunismo

mensità e al tempo stesso, storicamente parlando, l'urgenza dei compiti di analisi e di generalizzazione e, a maggior ragione, di azione di tutti coloro che vogliono partecipare all'impresa della rifondazione comunista. È assimilare pienamente t'idea che questa impresa deve porsi in termini non di continuità, ma di rottura. Questo non solo perché un'impostazione continuistica impedirebbe di trarre tutte le lezioni degli errori e delle contraddizioni del passato, ma anche e soprattutto perché dobbiamo agire in un contesto che è radicalmente diverso da quello di settanta, cinquanta o anche quindici anni or sono e che è destinato a mutare forse ancor più profondamente. L'inizio di una nuova fase del movimento operaio e comunista e la ricostruzione di una prospettiva di edificazione socialista e, in ultima analisi, di una nuova città, non possono essere che il risultato di un enorme lavoro collettivo, di ampio respiro, multidisciplinare nella misura in cui esistono nessi sempre più stretti tra condizioni fisico-ambientali e condizioni socio-politiche di riorganizzazione, se non semplicemente di sopravvivenza, della comunità umana. Questo saggio non può avere che un fine incomparabilmente più modesto, quello di contribuire alla individuazione delle potenzialità effettivamente esistenti e delle contraddizioni di una rifondazione comunista e di un rilancio del movimento operaio in questa fase, in Italia in particolare.

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Capitolo primo CENTO ANNI DOPO

Il 1992 è un anno di scadenze e di anniversari. E ricorre un anniversario che dovrebbe interessarci più direttamente: nell' agosto 1892 nasceva a Genova il Partito dei lavoratori italiani che avrebbe assuQto l'anno successivo il nome di Partito socialista dei lavoratori italiani e nel 1895 quello classico di Partito socialista. Di organizzazioni operaie ne erano esistite in Italia anche prima di quella data. Ma ciò non sminuisce il valore storico-simbolico del congresso genovese. In buona sostanza, la fondazione del nuovo partito segnava l'affermazione esplicita dell' autonomia politica della classe operaia e del suo movimento organizzato.

Un bilancio essenziale Ebbene, per dare un'idea della situazione in cui ci troviamo oggi, a cento anni di distanz'l, suggeriamo una semplice, ma fondamentaleconstatazione: a parte filoni o correnti, incontestabilmenteminoritari - rappresentati essenzialmente da quanti sono confluiti nel Partito della rifondazione comunista, da ristretti settori del Partito democratico della sinistra e dal gruppo politico-culturale de "il Manifesto" -, la nozione stessa di autonomiapolitica del movimento operaio è non solo rimessa in discussione, ma negata, più o meno esplicitamente,e comunque svuotata di ogni contenuto.

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Anticapitalismo e comunismo

Qualche esempio significativo tratto da documenti di commemorazione del centenario comparsi sino ad ora (a nostra conoscenza, abbastanza scarsi). Uno dei più noti storici del PSI, Giuseppe Tamburrano ha scritto in un dossier pubblicato da "l'Unità" (26, 28 e 31 gennaio e 4 febbraio): "Il PSI celebra i suoi cento anni per ragioni solamente anagrafi che, di discendenza simbolica: niente di più. A ben vedere, vi è maggiore comunanza storica tra il PLI e Cavour, e tra il PRI e Mazzini che tra il PSI e Turati" . Apprezziamo la franchezza e condividiamo la sostanza del giudizio. Effettivamente, il PLI rispetto a Cavour e il PRI rispetto a Mazzini possono rivendicare, sia pure non senza forzature, una continuità storica, mentre difficilmente l'odierno PSI potrebbe fare lo stesso per quanto riguarda l'ispirazione ideologica e la rappresentanza di interessi di classe del suo antenato del 1892. Del resto, Tamburrano aggiunge che esiste rottura di continuità "non perché Craxi abbia «tradito» il riformismo, ma perché quel riformismo, ormai attuato il suo «programma minimo», non ha più granché da dire oggi. E nel suo «programma massimo» - il quale era tout court il socialismo

- nessuno

si riconosce

più".

Si potrebbe far notare che il «programma minimo», che, secondo Tamburrano,sarebbe stato realizzato,cioè certe conquisteparziali, hanno subito ormai una prolungata usura, grazie anche all'azione di governi di cui il PSI è stato magna parso Ma ci interessa più sottolineare come Tamburrano abbandoni esplicitamentel'obiettivo storico della creazione di una società socialista,sopprimendocon ciò stesso l'esigenza dell' autonomia politicad~1movimentooperaio. La sua conclusione,del resto, è, se possibile, ancor più chiara: "Il socialismo dell'Europa continentale è nato marxista, cioè sulla base dell'idea che la classe operaia e le sue istituzioni politiche e sindacali avrebbero espropriato - con la democrazia (socialisti) e con la violenza (comunisti) - il capitalismo e realizzato la società di liberi e uguali: cento anni dopo, nei partiti di sinistra e nei loro documenti non si trova traccia né di classismo né di marxismo, non si incontra quasi mai il nome del padre fondatore". Tutto questo è senz'altro vero per il PSI, ma vale anche per il PDS. In ultima analisi, il senso della formazione di questo nuovo partito va proprio in questa direzione, non solo in pratica, ma anche sul piano ideologico.

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Valga la definizione che Occhetto stesso ha dato della sua prospettiva nel corso del dibattito prima del congresso di Rimini: "Non si tratta di contrapporsi tra antidemocristiani e anticomunisti, come non ha senso essere antisocialisti... L'alternativa implica che una ricollocazione strategica di tutte le forze di progresso e le differenzi azioni tra conservatori, moderati e riformisti sono destinate ad attraversare gli attuali schieramenti e a dar vita a inedite aggregazioni di maggioranza e a nuove aggregazioni di opposizione e, noi pensiamo, a nuove forze politiche". Il «modello», che si vorrebbe stimolare, anche con una riforma elettorale, è quello di una contrapposizione, se non rigorosamente bipartitica, di due schieramenti, da una parte i progressisti, dall'altra i conservatori. Lo spartiacque sociale, di classe, viene così diluito sino a scomparire. Che poi, nel corso di una campagna elettorale, per non perdere voti, ci si ricordi a volte dell'esistenza di una classe lavoratrice, non cambia minimamente la sostanza delle cose. Del resto, il dossier de "l'Unità" contiene anche un'intervista con Renato Zangheri. L'intervistato, dopo aver giustamente ricordato che l'apporto di Antonio Labriola è consistito soprattutto nella rivendicazione "con rigore" dell"'autonomia politica (del movimento operaio) rispetto alle correnti borghesi", traccia un quadro sintetico della parabola del Partito socialista sino all'avvento del fascismo e della storia dello stesso Partito comunista per arrivare a porsi la domanda: "quale può essere nel mondo attuale una prospettiva di concreta emancipazione umana?". E la risposta, pur essendo meno netta di quella di Tamburrano, va nella stessa direzione: "Come minimo (sic!) andrebbe detto che il socialismo va riesaminato e che esso non coincide più con l'immagine che ne avevano i riformisti, i massimalisti e i comunisti. Quello della collettivizzazione e della socializzazione dei mezzi di produzione è divenuto ormai un mito impraticabile... Non è chiusa l'aspirazione a una società socialmente giusta. Certo questa aspirazione vive dentro la pratica graduali sta e democratica delle socialdemocrazie, tuttavia non si lascia delimitare da essa... Quel che mi pare limitato, insufficiente è l'ancoraggio di classe; come leva pur necessaria all'emancipazione". Detto altrimenti, anche in Zangheri c'è, da un lato, l'estrema relativizzazione dell"'ancoraggio di classe", dall' altro, la rinuncia all'obiettivo storico-strategico di una nuova società, fondamentalmente diversa dalla società esistente!.

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Validità e limiti delle conquiste parziali Il bilancio sintetico che si impone a un secolo dalla nascita del movimento operaio in Italia non implica affatto un giudizio sistematicamente negativo, come se nulla fosse stato realizzato e cento anni fossero trascorsi invano. Sarebbe ovviamente assurdo ignorare o sottovalutare la portata delle conquiste che le organizzazioni operaie sono riuscite a strappare, non solo in Europa occidentale: conquiste economiche, sociali, politiche e culturali, importanti intrinsecamente e forse ancora di più per la maturazione delle coscienze che hanno stimolato. In diversi periodi e in diversi paesi, nelle fasi più mature, larghi strati di proletariato e di masse popolari non solo hanno migliorato le loro condizioni materiali, ottenuto diritti politici e una serie di garanzie sociali, ma hanno egualmente potuto costruire un tessuto socio-politico e culturale parzialmente alternativo, con un complesso di organizzazioni di fabbrica, di quartiere, di associazioni di vario genere che al tempo stesso sono divenute parte integrante della vita quotidiana e hanno rafforzato la consapevolezza dei lavoratori di essere una classe distinta dalle classi dominanti e fatto apparire più concreta la prospettiva di una nuova società. Uno degli aspetti del regresso della fase attuale è appunto il deperimento, se non la pura e semplice scomparsa, di queste realtà. Al di là delle ragioni generali o specifiche di un tale riflusso, ciò rappresenta un'ulteriore conferma di una lezione elementare di tutta la storia del movimento operaio: per importanti che siano, le conquiste parziali non sono conseguite una volta per tutte, al contrario, sono sottoposte a una usura inevitabile e, a determinate scadenze, sono rimesse, parzialmente o radicalmente, in discussione. Si possono fare a questo proposito esempi innumerevoli, che, proprio per tutte le loro particolarità, rivelano una tendenza generale. Pensiamo al fatto traumatico della prima guerra mondiale, che ha ributtato indietro di decenni la classe operaia e tutte le sue organizzazioni, in primo luogo in paesi come la Germania, dove più imponente era stata l'accumulazione di forze; alla devastazione delle acquisizioni e del patrimonio del movimento operaio provocata dall' avvento del fascismo e del nazismo e di altre dittature di vario tipo in paesi balcanici e nell'Europa orientale, per non parlare dei casi più noti d~l Portogallo e della Spagna;

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alle tragedie sofferte durante la seconda guerra mondiale che, ancor più della prima, ha fatto tabula rasa delle conquiste operaie, in particolare nei paesi sotto l'occupazione nazista; alla restrizione dei diritti democratici con l'avvento in Francia della V Repubblica nel 1958; alle conseguenze dell'instaurazione in Grecia del regime dei colonnelli dopo un troppo breve interludio democratico; alla tragedia, comparabile solo a quella del 1933 in Germania, di cui sono state vittime nel 1965 in Indonesia le masse operaie e contadine e le loro organizzazioni, le cui lotte avevano conseguito risultati considerevoli nel periodo precedente e che non sono ancora uscite dal tunnel a quasi trent' anni di distanza. Per venire all'epoca più recente e a vicende per ora meno drammatiche, c'è forse bisogno di ricordare il costante riflusso del nostro movimento operaio dalla seconda metà degli anni '70 con il logoramento e l'annullamento di buona parte delle conquiste dell'immediato dopoguerra e dell'ascesa del 1968-69 e, più in generale, nella stessa Europa occidentale, il progressivo smantellamento del tanto celebrato "stato sociale"? Tutto questo dovrebbe dimostrare quanto poco fondata fosse la filosofia, meglio sarebbe dire la metafisica, del riformismo gradualistico classico della socialdemocrazia, cioè la concezione secondo cui il socialismo sarebbe stato costruito senza rotture rivoluzionarie, per "approssimazioni successive". E dovrebbe far riflettere egualmente sulla fondatezza delle concezioni neoriformistiche e neogradualistiche, rilanciate dopo la seconda guerra mondiale e via via assimilate dagli stessi partiti comunisti. Ma su questo torneremo successivamente.

Tre fattori convergenti Ritornando alla situazione attuale, la valutazione che abbiamo dato potrebbe sembrare eccessivamente pessimistica. Dopo tutto, ci si potrebbe obiettare, la classe operaia e il suo movimento organizzato non hanno subito una sconfitta paragonabile a quella del 1922, dispongono pur sempre di elementari diritti democratici e di mezzi di lotta consistenti e hanno potuto anche negli ultimi anni condurre lotte significative. Questo è senz'altro vero, anche se si iscrive in una parabola discendente. Ma, se la sconfitta di fronte al fascismo aveva provocato un vero e proprio traumatismo stimolando rimesse in discussione anche di alcuni punti fermi

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tradizionali delle concezioni del marxismo e più generalmente del socialismo, oggi assistiamo a un fenomeno per certi aspetti di maggiore portata, cioè, per ripetere un'espressione divenuta corrente, a una crisi di identità più profonda che mai in precedenza. La crisi delle società di transizione burocratizzate, il crollo di alcuni miti e il venir meno di ogni punto di riferimento internazionale sono uno dei fattori di questa crisi. Ma, soprattutto a livello di massa, l'attuale smarrimento è il risultato del convergere, oltre che di questo, di altri due fattori. Ha inciso, infatti, in misura crescente la perdita di fiducia nei tradizionali strumenti di lotta e in particolare nei sindacati. Il fenomeno ha radici abbastanza lontane e certe manifestazioni clamorose risalgono alla fine degli anni '60 e agli inizi degli anni '70. La contestazione proveniva allora da strati di avanguardia, che criticavano le direzioni sindacali perché non sfruttavano tutte le potenzialità di un movimento di massa in ascesa nel quadro di una crisi socio-politico complessiva. Tuttavia, agli occhi non solo delle grandi masse, ma anche di buona parte delle stesse avanguardie, i sindacati apparivano ancora come uno strumento utilizzabile, come la sola forza capace di esprimere un'alternativa, sia pure in termini riformistici o moderatamente riformistici, e di garantire significative conquiste parziali. A cominciare dalla cosiddetta svolta dell ,EUR, anche questa fiducia critica limitata cominciava a venir meno. E la tendenza si accentuava dopo la sconfitta alla FIAT, sulle prime, non dimentichiamolo, gabellata come vittoria, sino alla deriva degli ultimi anni e all'accettazione da parte della burocrazia sindacale della logica padronale sul piano della politica economica e della stessa organizzazione del lavoro. In terzo luogo, hanno pesato negativamente gli effetti della scomposizione e frammentazione che la classe operaia ha subito in seguito alle vaste ristrutturazioni che hanno colpito interi settori industriali, coinvolgendo a volte intere comunità locali. Allo stesso tempo hanno pesato, all'interno delle fabbriche, i mutamenti connessi alle innovazioni tecnologiche e alle nuove forme di organizzazione del lavoro. Anche a questo proposito, non si tratta di una novità assoluta, ma piuttosto di un fenomeno ricorrente. Le innovazioni provocano un disorientamento tra gli operai nella misura in cui rimettono in discussione situazioni consolidate, mansioni e competenze preesistenti, un adattamento faticosamente ottenuto, forme di controllo operaio di fatto sulle operazioni da compiere, sui ritmi, sulle pause ecc.In

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altri termini, gli operai avvertono più direttamente e dolorosamente la loro alienazione nel processo produttivo e perdono fiducia nella loro capacità di resistere e di farsi valere. Questo viene, prima o poi, superato. Ma il superamento non dipende unicamente dalle condizioni interne alla fabbrica, dipende anche e, per certi aspetti, ancor di più dal clima socio-politico complessivo, dai rapporti di forza più generali. Proprio per questo i mutamenti degli anni '80 hanno avuto conseguenze più negative e più durature che in altre fasi precedenti.

Note l Per parte sua, Nicola Tranfaglia parla di "un nuovo modello di società democratica e socialista che ponga al capitalismo limiti più efficaci di quelli applicati dagli esperimenti socialdemocratici europei" (''l'Unità'', 31 gennaio 1992). Dunque, si tratta di correttivi nel quadro di un sistema sostanzialmente mantenuto.

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Capitolo secondo "CRISI DEL COMUNISMO"?

Illeit motiv, intonato universalmente soprattutto dal 1989, è stato e continua a essere quello della crisi finale, della irreversibile sconfitta storica del comunismo. Questo fallimento sarebbe il risultato inevitabile della natura intrinseca delle teorie di Marx e di tutti coloro che si sono richiamati al marxismo in varie epoche.

Una messa a punto necessaria Va ribadito ancora una volta che una simile impostazione è da respingere innanzitutto per ragioni di metodo. Infatti, lo sviluppo storico non può essere interpretato come una sorta di traduzione in pratica di certe idee, mentre è determinato fondamentalmente da forze sociali concrete, dall'intrecciarsi e dal contrastare dei loro interessi, nonché dalla dinamica del quadro politico entro cui queste forze si confrontano. L"'ideologia", tradizionale uccello di Minerva, non sopraggiunge che al calar del sole o, fuori di metafora, ha la funzione di sistematizzare la realtà socio-economica e politica. Non intendiamo ridurre l'ideologia a pura propaganda ,senza reale influenza sugli avvenimenti. Nelle sue formulazioni più alte, l'ideologia non è propaganda e ancora meno falsificazione o distorsione deliberata. ma, per dirla in termini marxiani, è coscienza mistificata. se non automi-

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stificante. Quando viene espressa da una classe storicamente in ascesa o giunta alla maturazione del suo sistema, diventa uno strumento insostituibile, politicamente e culturalmente, e agisce come un fattore materiale. Ma anche in questo caso la chiave per comprendere la dinamica storica reale è la dinamica delle componenti sociali e politiche e non la dialettica delle idee in sé considerata. Fatta questa premessa, per una demistificazione della problematica della crisi-fallimento del comunismo, si può anche partire dal terreno ideologico o, più esattamente, teorico. Si può del tutto legittimamente rinviare i nostri avversari - siano difensori di concezioni borghesi tout court o aderiscano a correnti socialdemocratiche o socialiste - a quello che Marx, Engels e lo stesso Lenin, per non parlare di Rosa Luxemburg e di Trockij, hanno scritto sui caratteri distintivi, sulla natura e sulla dinamica di una società socialista e di quella fase del socialismo definita più specificamente comunista, nonché della fase di transizione immediatamente successiva all'avvento della nuova classe dirigente. Solo chi si è! il caso della stragrande faccia scudo della più volgare ignoranza maggioranza di quanti pontificano sulla stampa o sugli schermi televisivi

-

-, giudichi partendo da dati del tutto unilaterali

con arbitrarie forzature



il caso di certi critici anche tra i meno tendenziosi - o abbia dimenticato cose che in passato non ignorava - è il caso del folto stuolo degli intellettuali pentiti -, può sorvolare disinvoltamente sulla differenza abissale tra le concezioni teoriche e i progetti strategici dei teorici del movimento operaio e la pratica dei cosiddetti paesi socialisti. Questa differenza si era, del resto, tradotta in un autentico revisionismo. Al di là delle proclamazioni stereotipe di ortodossia, i dirigenti e gli ideologhi del "socialismo reale" hanno via via apportato rettifiche radicali alle concezioni marxiane e allo stesso metodo materialistico: a partire dalla teorizzazione apologetica del "socialismo in un paese solo" sino alla trasformazione del concetto di egemonia

del proletariato

- peraltro,

di portata

transitoria,

data la

transitorietà della sopravvivenza di una specifica classe proletaria quale si forma storicamente

in una società capitalistica

- nell'idea

del potere

onnivoro di un partito-Stato ben difficilmente rintracciabile nel pensiero di Marx e dello stesso Lenin (e non solo del Lenin di Stato e rivoluzione). Ma la risposta alle interpretazioni storiche e alle mistificazioni propagandistiche degli avversari va data soprattutto sul piano dell'analisi storica concreta, dei processi che si sono svolti nell'Unione Sovietica a partire

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dagli anni '20 e nelle altre società di transizione dalla loro stessa formazione dopo la seconda guerra mondiale. Se si vuole intraprendere un' opera feconda di rifondazione ed essere in grado di prospettare, sia pure a grandi linee, un progetto alternativo di società, di qui bisogna partire. Bisogna individuare le origini, le caratteristiche, le contraddizioni e le dinamiche di società burocratizzate in cui non solo non è mai stata portata a termine un' edificazione socialista, ma la classe operaia, i contadini e gli altri strati popolari non hanno mai avuto - o hanno perduto abbastanzarapidamente la possibilità di esercitare veramente il potere politico e di gestire l'economia e sono stati addirittura privati di organizzazioni indipendenti in grado di esprimere i loro interessi e le loro aspirazioni, costrette com'erano ad accettare il monopolio del partito-Stato, privo del benché minimo funzionamento democratico al suo stesso internol. Questa riflessione critica implica la presa di coscienza di quella che è stata, sul piano del metodo, una distorsione di fondo cui ben pochi dirigenti e teorici del movimento operaio internazionale hanno saputo sottrarsi. Mentre si affermava la validità del metodo materialistico nell'analisi del mondo capitalista e della sua dinamica (anche se molto spesso lo si applicava solo molto parzialmente), nel caso delle società burocratizzate, dall'URSS alla Cina, si rinunciava a ogni analisi sia socio-economica sia politica, si accettavano acriticamente dati e interpretazioni ufficiali, quasi sempre nelle forme più sfacciatamente propagandistiche e meno credibili. Anche quando le contraddizioni di queste società esplodevano alla luce del sole (URSS 1956, Cina 1966-67, URSS nella seconda metà degli anni '80 ecc.), invece di analizzare materialisticamente, sulla base di dati che pure esistevano, quello che stava avvenendo e quali fossero la natura e i progetti delle stesse forze che aprivano un capitolo critico e progettavano misure di riforma, ci si affidava al pensiero e all'iniziativa di personalità demiurgiche, si trattasse di Krusciov, di Mao o di Gorbaciov, di cui peraltro non ci si preoccupava di analizzare veramente le stesse formulazioni ideologiche2. Questo riesame critico storico-teorico deve essere centrato sugli avvenimenti degli ultimi anni e sui problemi che si pongono ora e non certo su richiami dottrinari, per legittimi che possano essere. In questo senso esiste il compito enorme - che non può essere assolto da un partito o da una qualsiasi organizzazione e neppure da qualche singolo individuo - di scrivere una storia dell'URSS e delle altre società burocratizzate, che sia, per così dire, una storia contemporanea, cioè parta dal punto di arrivo e

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dai problemi attuali. Sarebbe tuttavia poco scientifico e ingiusto ignorare tutto il lavoro che è stato fatto già a partire dagli anni '20 da correnti teorico-politiche, prima all'interno dell'URSS e dello stesso movimento dell'Internazionale comunista, poi al di fuori per le ragioni a tutti note,. oltre che da storici, economisti e sociologhi che hanno fornito un ampio materiale di analisi, e tentativi più o meno organici di generalizzazione. Tutto questo avrebbe potuto essere conosciuto e valorizzato già da molti decenni, se preoccupazioni politico-propagandistiche non avessero prevalso sulle esigenze conoscitive. Ma, come si suoI dire, meglio tardi che mai: che tutto questo lavoro venga utilizzato e valorizzato almeno nelle ricerche e nelle elaborazioni attuali3. Per parte nostra, non vediamo alcuna ragione di abbandonare il filone con cui ci siamo identificati sin dall'inizio della nostra riflessione teorica e della nostra militanza politica. C'è appena bisogno di aggiungere che siamo convinti che anche gli apporti più validi, verificati alla luce di una lunga e molteplice esperienza, devono oggi essere riconsiderati e rilanciati partendo dalla realtà e dalla problematica di questi anni.

Bilancio sintetico della socialdemocrazia La mistificazione sul fallimento del comunismo ha comportato, nel movimento operaio e al di fuori di esso, una seconda mistificazione, e cioè la rivalutazione della socialdemocrazia e delle sue concezioni di riformisnio gradualistico e di democratizzazione-razionalizzazione del sistema capitalistico. È, del rèsto, partendo dal presupposto che il "comunismo" era ormai irrimediabilmente condannato e che la socialdemocrazia avrebbe dovuto e potuto occupare lo spazio rimasto libero, che l'Internazionale socialista è intervenuta in Europa orientale per creare partiti o raggruppamenti a propria immagine e somiglianza. Va aggiunto che la plausibilità di un tale progetto era, direttamente o indirettamente, confermata dal fatto che vari partiti comunisti o comunque formalmente definiti alcuni già nel corso della crisi, altri dopo la caduta si ribattezzavano assumendo denominazioni di sapore socialdemocratico, battendo alla porta dell'Internazionale socialista4. Senza pregiudicare gli sviluppi futuri, a quasi tre anni di distanza dagli avvenimenti dell' 89, si può constatare che il disegno è rimasto sulla carta:

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in nessun paese la socialdemocrazia è emersa come forza politica consistente, ancora meno come forza egemonica, e nella stessa Germania orientale le speranze sono andate deluse, almeno per il momento. Paradossalmente, sono ora gli ex-partiti comunisti ribattezzati a riguadagnare una certa influenza, anche sul terreno elettorale, per loro il meno favorevole. La realtà è che partiti riformisti, per così dire, classici difficilmente possono trovare un terreno solido su cui svilupparsi e adottare una strategia credibile in un fase così tormentata come quella che i paesi dell' Europa orientale stanno attraversando e dalla quale non usciranno così presto. In ultima analisi, non possono sottrarsi a una scelta che non è solo astrattamente di principio, ma ha concrete implicazioni pratiche: o accettano, dietro lo schermo dell"'economia di mercato", la restaurazione del capitalismo - in questo caso rischiano di essere perdenti nella concorrenza con le forze più conseguentemente restauratrici che rifiutano ogni richiamo, anche ultramoderato, al socialismo -, o si oppongono alla restaurazione, all'ondata di privatizzazioni, in via di realizzazione o progettate a breve scadenza ma tutte le loro concezioni e impostazioni e i loro legami internazionali costituiscono un ostacolo difficilmente supera bile per porsi effettivamente su questo terreno, su cui dovrebbero peraltro fronteggiare la concorrenza di certi settori almeno dei vecchi partiti comunisti e di organizzazioni sindacali riciclate o di nuova formazione e di nuovi raggruppamenti di orientamento socialista. Soprattutto a partire dagli anni '70, la socialdemocrazia internazionale non ha risparmiato energie e risorse nell'intento di assumere un ruolo di primo piano anche nel Terzo mondo, cioè nei paesi capitalisti sottosviluppati. Ha cercato di definire principi e obiettivi politici, di conquistare dirigenti e quadri sindacali e settori dell'intelligentsia e, quel che è ancora più importante, di ottenere l'adesione di partiti e movimenti con base di massa, se non addirittura maggioritari elettoralmente, in particolare in America Latina e in Africa. Sono così entrati a far parte dell 'Internazionale socialista, sia pure a diverso titolo, una serie di organizzazioni, tra cui l'APRA peruviana, l'Accion democratica venezuelana, il PRO della Repubblica dominicana, il MIR boliviano, il Partito senegalese di Leopold Senghor, e altre ancora. Alcuni di questi partiti o movimenti sono stati o sono ancora al governo, spesso da soli, disponendo di una larga base di massa e dell' appoggio di organizzazioni sindacali. Ebbene, perché i socialisti e i soci al-

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democratici che hanno fatto e fanno del "fallimento del comunismo" un leit motiv della loro propaganda e delle loro teorizzazioni (nella misura in cui ancora si preoccupano di darsi una teoria), non si preoccupano di fare un bilancio dei loro partiti "fratelli" in Africa o in America Latina? La risposta è semplice: non avrebbero troppe ragioni di compiacersi. I governi diretti da queste organizzazioni, lungi non diciamo dall'aver risolto, ma anche solo dall' aver evitato l'aggravarsi dei problemi angosciosi dei loro paesi, lungi dall' aver cercato di sottrarsi all'egemonia economica imperiali sta e dall' aver dato vita a istituzioni democratiche in cui le masse potessero esprimere i loro interessi e le loro aspirazioni, hanno assolto sistematicamente il ruolo di gerenti di regimi neocoloniali. Hanno accettato le imposizioni del FMI e delle altre istituzioni capitalistiche internazionali, hanno adottato drastiche misure di austerità (che, more solito, mai hanno colpito le classi possidenti indigene o le élites degli apparati statali e dell'intelligentsia) e quando ci sono state risposte di massa a queste politiche, non hanno esitato a far ricorso alla più dura repressione, mobilitando esercito, polizia e altri corpi specializzati. Due esempi di significato quasi simbolico. Nel19861'Internazionale socialista aveva convocato un congresso a Lima, dov' era al potere l'APRA con la presidenza di Alan Garcia. Proprio al momento dell'apertura, il governo apri sta, che doveva poi fallire in modo miserando lasciando il paese in condizioni ancora più tragiche di quelle in cui l'aveva trovato, soffocava una rivolta nelle carceri massacrando centinaia di detenuti. Nel febbraio 1989, mentre gli ospiti stranieri, tra cui non pochi illustri dirigenti socialdemocratici, non avevano ancora digerito le laute pietanze dei banchetti per l'insediamento presidenziale, il presidente Carlos Perez, anch' egli membro dell'Internazionale socialista, schiacciava la. protesta della popolazione povera di Caracas facendo massacrare indiscriminatamente dall' esercito molte centinaia, se non migliaia di persone (probabilmente non meno, anche in termini assoluti, di quante non ne siano state uccise sulla piazza Tien Anmen). A tre anni distanza, lo stesso personaggio ha imposto radicali restrizioni dei più elementari diritti democratici dopo aver ridotto letteralmente alla fame milioni di venezuelani con l'applicazione di misure di privatizzazione e delle famigerate ricette del FMI. Terzo esempio, non meno illuminante: Leopold Senghor sarà un brillante letterato e teorico della négritude. Ciò non toglie che il regime che ha instaurato e trasmesso ai suoi successori, è un esempio da manuale di

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regime neocoloniale, in cui non solo non è stata presa la più timida misura "socialista", ma in cui il capitale internazionale ha mantenuto ed allargato le sue riserve di caccia, si è formata una parassitaria e vorace classe dominante indigena, la vecchia potenza coloniale ha mantenuto una pesantissima ingerenza, le masse popolari hanno subito un deterioramento costante delle già miserevoli condizioni di vita e il sistema politico, nonostante correzioni più recenti, è stato ed è più vicino al deprecato monopartitismo che a una democrazia parlamentare o presidenziale di tipo "occidentale"5. Ci si dirà che il bilancio della socialdemocrazia deve essere fatto soprattutto partendo dai paesi in cui ha avuto una più lunga tradizione, ha accumulato le forze più consistenti e ha contribuito, a volte in modo decisivo, all'introduzione del Welfare State o Stato sociale. Per la verità, sarebbe mistificatorio fare un bilancio del genere sorvolando sul fatto che la prosperità, reale o presunta, di una serie di paesi dell'Europa occidentale è stata possibile grazie ai meccanismi economici e politici di un sistema internazionale, di cui uno degli elementi essenziali è stato e continua a essere lo sfruttamento, in diverse forme, dei paesi sottosviluppati. Al di là dei discorsi di occasione e di vaghe enunciazioni di buoni propositi, nessun partito e, a maggior ragione, nessun governo socialdemocratico ha lottato contro questi meccanismi, accontentandosi tutt'al più di prospettare timidi corretti vi, rivelatisi, com'era prevedibile, del tutto inoperanti. Ma, dato e non concesso che si possa far astrazione da questo, oltre che dal ruolo che partiti socialdemocratici hanno avuto anche dopo la seconda guerra mondiale nei tentativi di impedire l'ascesa dei movimenti anti-imperialisti e nell' esercizio della più brutale repressione6, il bilancio storico complessivo della socialdemocrazia europea non è meno fallimentare di quello dello stalinismo. A questo proposito, non c'è nulla di nuovo da scoprire. Ma per rinfrescare le memorie non sarà inutile riprendere sommariamente gli argomenti essenziali, su tre piani, di una critica da un punto di vista marxista e rivoluzionario: 1) I partiti socialdemocratici o socialisti non hanno realizzato in nessun paese il fine storico che si erano prefissi al momento della loro formazione, cioè la sostituzione della società capitalista con una società socialista. Di più, ormai da molti decenni hanno rinunciato addirittura a perseguire questo fine. Come abbiamo già accennato, conquiste parziali di portata

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incontestabile sono state ottenute in varie epoche. Ma, in ultima analisi, queste realizzazioni hanno agito come elemento di riequilibrio o di ristabilizzazione del sistema, subendo successivamente un'usura che le ha largamente svuotate del loro contenuto, se non annullate completamente. 2) È nei momenti in cui partiti socialdemocratici e socialisti (anche in varianti massimalistiche) hanno avuto la maggiore influenza sulle masse lavoratrici e disposto della maggiore forza organizzata, che il movimento operaio ha subito una serie di sconfitte storiche che lo hanno disarticolato, ributtandolo indietro di decenni. Ricordiamo, per l'esempio, l'agosto 1914, quando i partiti e i sindacati operai si sono rivelati drammaticamente incapaci di contrastare la guerra e, tranne parziali eccezioni, si sono associati alle imprese belliche delle rispettive classi dominanti; il 1919 iò Germania, quando la socialdemocrazia è stata lo strumento principale della riorganizzazione dello Stato e del rilancio dell' economia capitalista in una situazione in cui, dopo la sconfitta militare, il regime era entrato in una crisi socio-politica globale senza precedenti; il 1921-22 in Italia, quando il fascismo è riuscito a imporsi nell'arco di due soli anni su un movimento operaio ricco di potenzialità, ma privo di una reale direzione; il 1933 in Germania, quando la classe operaia ha subito una sconfitta le cui conseguenze a lungo termine non sono state ancora interamente superate; il 1936-37 in Francia, quando le forze potenziali espresse dalla vittoria del Fronte popolare sono state dilapidate con un rapido esaurimento di un'esperienza, che aveva alimentato grandi speranze anche al di là dei confini francesi. Un bilancio complessivo non dissimile dal nostro è stato abbozzato da un autore non sospettabile di stalinismo o di estremismo e aperto alla socialdemocrazia, François Fejto. Vale la pena di ricordarlo: "La storia dell 'Internazionale socialista è scandita da fallimenti memorabili. 1914: i partiti e i sindacati socialisti della Germania, della Francia e degli altri paesi occidentali, nonostante i loro effettivi impressionanti, si dimostrano impotenti a impedire la guerra più stupida della storia mondiale che rende inevitabili la frammentazione e la decadenza dell'Europa. 1919: il movimento operaio, nel cui seno erano esistite in precedenza speranze rivoluzionarie e pratiche riformiste, si scinde in due, e i militanti rivoluzionari più attivi aderiscono alla III Internazionale, fondata da Lenin. 1933: il distaccamento più potente del socialismo europeo, la socialdemocrazia tedesca, incapace di padroneggiare la crisi economica,

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tenuta sotto pressione e rosicchiata da un Partito comunista che applica la politica del tanto peggio tanto meglio, capitola di fronte al nazismo. 1935-39: le esperienze di fronte popolare, lanciate per fare sbarramento ai fascismi in ascesa, non contribuiscono a rialzare il prestigio dei partiti socialisti che vi partecipano. Profittano soprattutto ai comunisti legati a Mosca. Si trascinano stancamente e si disgregano. Più tardi, nei paesi occupati dai nazisti, i partiti socialdemocratici, decimati dall' occupante, ben poco preparati alla clandestinità, sono eclissati nella Resistenza dai comunisti e hanno bisogno di molto tempo per riprendersi" (La socia/-démocratie quand meme, Robert Laffont, Parigi 1980). 3) Per venire a un periodo più recente, in particolare dall'inizio degli anni '80 a oggi, partiti socialdemocratici o socialisti hanno avuto responsabilità primarie di governo, sulla base di maggioranze presidenziali e parlamentari, in paesi come la Francia, la Spagna e la Grecia. In nessuno di questi casi sono stati capaci di realizzare le riforme economiche, sociali e politiche, peraltro molto moderate, che avevano enunciato nei loro programmi (in Francia, dopo qualche misura dei primissimi anni della presidenza di Mitterrand, c'è stato un rapido e radicale ripiegamento). Nonostante le polemiche contro concezioni e tendenze conservatrici, i governi socialdemocratici hanno accettato e tradotto in pratica orientamenti economici del tutto simili a quelli di governi conservatori o a maggioranza di destra, hanno imposto tutta una serie di misure di austerità, non hanno fatto niente per combattere la piaga di una disoccupazione cronica e crescente. Per poter imporre queste politiche, che non potevano non provocare reazioni di malcontento da parte delle masse che costituiscono la loro base elettorale, non solo non hanno introdotto nessuna reale riforma in senso democratico, ma, al contrario, si sono perfettamente inseriti nella più generale tendenza dei paesi capitalisti a restringere nei fatti i diritti democratici e ad accrescere il peso degli esecutivi con una ulteriore co~centrazione di poteri, non esitando a utilizzare largamente regole costituzionali e meccanismi imposti da governi o regimi conservatori o reazionari precedenti (dal gollismo in Francia e dallo stesso franchismo in Ispagna) e a introdurre nuove leggi o norme ancor più restrittive. Il discorso potrebbe continuare. Ma, nel quadro di questo saggio, non vogliamo aggiungere altro. Esistono tutti gli elementi per un bilancio complessivo della socialdemocrazia. Non si tratta di lanciare scomuniche o di appiccicare etichette, ma semplicemente di riandare a una lunga serie

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di esperienze su scala internazionale e nell' arco di circa ottant' anni. In conclusione, il fallimento della socialdemocrazia non è stato, per il movimento operaio, meno pesante di quello dei partiti stalinisti e ha egualmente contribuito alla perdita di identità della fase attuale.

Note l L'esistenza di questi tratti distintivi comuni non comporta un annullamento delle specificità di singole esperienze. Per esempio, un' analisi particolare è necessaria per la Cina (v. il nostro Esercito, partito e masse nella crisi cinese, Samonà e Savelli, Roma, 1969) e a maggior ragione per Cuba, dove ha avuto luogo una autentica rivoluzione e ben diverso che in altri paesi è stato il rapporto tra gruppo dirigente e masse. 2 Anche qui la caratterizzazione generica non significa che i tre personaggi abbiano avuto esattamente lo stesso ruolo e adottato le stesse concezioni e gli stessi metodi. 3 Ricordiamo in particolare le analisi di Leone Trockij, il cui contributo principale per quanto riguarda la natura dell' URSS e la sua dinamica è senza dubbio La rivoluzione tradita (ultima edizione italiana, Mondadori, Milano, 1990), i libri e i saggi di Isaac Deutscher, in primo luogo la sua trilogia su Trockij (pubblicata in Italia da Longanesi a partire dal 1956) e l'opera monumentale di E. Carr (pubblicata in Italia da Einaudi in vari volumi a partire dal 1964). Per quanto riguarda le nostre valutazioni cfr. l'articolo comparso su "Bandiera Rossa" n. 24, aprile 1992, ripreso parzialmente in appendice a questo volume. 4 Concezioni e orientamenti di ispirazione socialdemocratica si riscontrano anche nei programmi o nelle prese di posizione di raggruppamenti nuovi o rinnovati dell'ex-Unione Sovietica. Una considerazione analoga si può fare a proposito del progetto di programma del PCUS che Gorbaciov aveva presentato poco prima della crisi dell'agosto 1991. 5 Per una analisi più ampia ci permettiamo di rinviare al nostro contributo e ad altri comparsi sul numero 36 (dicembre

1989

- gennaio

1990) della rivista francese

"Quatrième Intemationale", in parte ripresi su "Bandiera Rossa" (n. 2, marzo 1990). 6 L'esempio più noto e più vergognoso è quello del ruolo del Partito socialista francese e del suo dirigente di allora Guy Mollet nella guerra contro il popolo algerino. Ma molti altri se ne potrebbero fare: per quanto riguarda i laburisti inglesi, per esempio, il loro ruolo nelle campagne militari dell'imperialismo britannico in Malesia e nel Kenya.

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Capitolo terzo IL CAPITALISMO OGGI: MISTIFICAZIONI

E REALTÀ

Proprio perché facciamo un bilancio così radicalmente negativo degli ultimi decenni di lotte del movimento operaio, dobbiamo porci una serie di interrogativi di fondo. Dalla risposta dipende se il progetto di rifondazione comunista ha un fondamento oggettivo o se invece non è che un sogno di nostalgici. Questi interrogativi si possono sintetizzare nei termini seguenti: l) L'involuzione del movimento operaio e la sua deriva moderata non sono iscritte nella realtà e nella dinamica del periodo storico in cui viviamo? Non era inevitabile che la società capitalistica riuscisse a mantenersi e ad apparire, al punto di arrivo di una lunga sequenza di avvenimenti, come l'unico quadro socio-politico possibile? 2) Le tendenze della società attuale non rimettono in discussione l'esistenza stessa della classe operaia come forza sociale decisiva e portatrice di un progetto di società qualitativamente diverso? Non sarebbe minata nei suoi stessi presupposti la costruzione teorica e strategica del marxismo e, più generalmente, del movimento operaio? 3) Da un'analisi della situazione attuale - oltre che da quella della crisi epocale cui già ci siamo riferiti - non bisogna trarre la conclusione che ogni prospettiva di trasformazione è chiusa per un periodo di tempo indefinito o, in altri termini, che il capitalismo è in grado di realizzare un rilancio su scala internazionale di ampio respiro e di durata presumibilmente lunga?

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Le potenzialità non valorizzate Non riprendiamo qui il discorso più generale sulle alternative possibili nell'URSS degli anni '20 e '30 e per il movimento operaio di vari paesi e di quello italiano più in particolare nello stesso periodo e successivamente1. Limitiamoci a qualche considerazione sulle potenzialità degli ultimi trent' anni. Prima di tutto, è un dato di fatto che anche in questo periodo la società capitalistica ha conosciuto ripetutamente crisi socio-economiche e politiche, a volte acute e prolungate. Questo non solo in quelli che continuano a essere gli anelli più deboli della catena, cioè i paesi sottosviluppati, ma anche nei paesi capitalisti più industrializzati. Così, a smentita di tutti coloro che negli anni ' 50 e ' 60, partendo da un'analisi statica e troppo immediatistica, avevano teorizzato il superamento delle crisi cicliche e di fenomeni tipici della storia del capitalismo (la disoccupazione in primo luogo), di crisi cicliche ce ne sono state e a più riprese, con tutte le ben note conseguenze. Si sono avute recessioni di particolare gravità, come quella del 1981-82 e quella tuttora in corso mentre scriviamo. Prima c'era stata la recessione del 1974-75, la più profonda di questo secolo dopo gli anni '30. Quel che è ancora più importante, la recessione della metà degli anni '70 ha segnato definitivamente l'esaurirsi del lungo boom del dopoguerra, cioè dell'onda lunga di espansione durata oltre un ventennio, e ha inaugurato una fase prolungata di ristagno da cui l'economia capitalistica non è ancora uscita, nonostante tutti gli sforzi compiuti e riprese congiunturali a volte non irrilevanti. Non sono mancate, d'altra parte, crisi sociali e politiche che, in certe fasi e in certi paesi, hanno assunto il carattere di crisi globali del sistema, con una rimessa in discussione su scala di massa dei suoi meccanismi, delle sue istituzioni e dei suoi valori. C'è appena bisogno di richiamare gli esempi più significativi: Il maggio 1968 in Francia, dove uno sciopero generale ha paralizzato il paese per circa cinque settimane, con imponenti e ripetute mobilitazioni di massa, in cui giovani studenti e giovani operai si sono trovati fianco a fianco contro le forze di repressione, facendo temere allo stesso De Gaulle e ai suoi generali il rovesciamento del regime. - La crisi italiana, che, iniziatasi nello stesso anno, si è allargata e approfondita nell'anno successivo, prolungandosi sino ai primi anni '70,

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con radici sociali ancora più profonde di quelle del movimento francese. L'odierna riscrittura della storia in chiave conservatrice tende a presentare quelle vicende come un'esplosione di irresponsabili e sterili estremismi, preludio del terrorismo, e a far dimenticare la realtà, cioè le mobilitazioni inesauribili di vasti strati sociali, non solo proletari, l'emergere impetuoso della forza nuova rappresentata dal movimento studentesco, la radicalizzazione di ampi settori di piccola borghesia che per la prima volta contestavano l' establishment, le crepe che si producevano a diversi livelli delle stesse istituzioni. - Avvenimenti non meno significativi in altri paesi europei. Per esempio, nel Belgio, una situazione critica, con uno sciopero generale, si era creata già alla fine del 1960 e all'inizio del 1961, mentre la Gran Bretagna ha attraversato una fase prolungata di aspre lotte operaie, cui non ha posto fine che l'avvento del thatcherismo (durante il quale c'è stato, tuttavia, il grande sciopero dei minatori). D'altra parte, grandi mobilitazioni e conflitti a livello di massa hanno accompagnato e seguito in Ispagna la caduta del franchismo e una crisi socio-politica ancora più profonda si è sviluppata in Portogallo dopo la fine della dittatura salazariana. In tutte queste crisi - come in altre di minoreportata - la classeoperaia, intesa in senso lato, non solo è stata la spina dorsale di lotte e mobilitazioni, ma ha rilanciato al tempo stesso il suo ruolo di forza antagonista del sistema ed egemone di un più vasto fronte sociale di contestazione anticapitalistica. Settori sempre più ampi di proletariato, stimolati dalle esperienze di lotta, hanno raggiunto livelli di coscienza senza paragone più elevati di quelli dei periodi di ristagno o di "normalità", conquistando si una vera e propria promozione culturale. Nei momenti più alti, si sono dati nuovi strumenti democratici di lotta e di organizzazione, al di fuori non solo del quadro istituzionale, ma anche del quadro organizzato tradizionale (esperienze dei consigli in Italia e, fatte le debite proporzioni, in Portogallo), immettendo sangue fresco nell' organismo del movimento operaio. In casi-limite e, va da sé, per periodi limitati, operai e tecnici hanno dato prova dell~ loro capacità di gestione delle aziende (occupazioni di fabbriche e altre situazioni analoghe). C'è appena bisogno di ricordare il precedente storico dell' ormai lontano 1920, a proposito del quale restano attuali le penetranti osservazioni e generalizzazioni del giovane Gramsci. Esperienze significative nello stesso senso sono state fatte nel biennio di

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ascesa della rivoluzione portoghese e prima ancora in Francia (all'inizio degli anni '70 c'è stato l'episodio della LIP). Tutto questo non deve essere dimenticato né sottovalutato a posteriori, soprattutto in una situazione come l'attuale in cui gli avversari fanno il possibile non solo per annullare le conquiste operaie, ma anche per cancellare la memoria storica delle più valide esperienze del passato. In realtà, se lo sbocco degli anni '80 e dei primi anni '90 è stata la situazione attuale di ristagno, di ripiegamento e di smarrimento, ciò non è dipeso affatto da una fondamentale stabilità a lungo termine del sistema dominante né da una intrinseca incapacità del proletariato di assumere il suo ruolo, ma dal permanere o dall' emergere di una serie di concreti ostacoli politici e organizzativi, che hanno impedito la valorizzazione delle potenzialità esistenti, e dall'incapacità delle organizzazioni operaie di assolvere i compiti per cui erano sorte.

Il profitto resta la molla essenziale Ci si potrebbe rispondere che, anche se quello che abbiamo detto è vero per il passato, oggi siamo in una fase del tutto nuova, in cui i meccanismi e la dinamica delle società non possono più essere interpretati sulla base dei criteri usati dal marxismo e dal movimento operaio di ispirazione marxista. Anzitutto, una precisazione preliminare. La nostra risposta sarebbe più facile, se partissimo dalla realtà dei paesi sottosviluppati, a proposito dei quali è difficile contestare la persistenza dello sfruttamento da parte di classi dominanti nazionali e internazionali, di polarizzazioni sociali laceranti e di una conflittualità esplosiva, che emerge periodicamente alla superficie. Invece, il punto di partenza deve essere l'analisi dei paesi capitalisti più industrializzati: non per un riflesso euro o americano-centrico e neppure per mettere in dubbio che anche in questa fase situazioni rivoluzionarie possano verificarsi soprattutto in paesi del cosiddetto Terzo mondo, ma per una elementare questione di metodo. Più che mai dopo la crisi delle società di transizione burocratizzate e in un contesto di crescente internazionalizzazione dell' economia, è nei centri imperialisti, "patrie" delle multinazionali e punti nevralgici della accumulazione mondiale, che vanno colti i meccanismi decisivi, con tutte le loro tensioni e contraddizioni.

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Premesso questo, una .prima domanda: le molle essenziali del capitalismo sono qualitativamente mutate o restano fondamentalmente le stesse? A rischio di sembrare ingenui, diciamo che la risposta ci pare ovvia e trasferiamo a coloro che hanno un diverso avviso l'onere della prova. L'elemento motore del capitalismo resta la ricerca del profitto: è l' abc, ma è il caso di ricordarlo a quanti. sembrano dimenticarlo. Senza il profitto, indissolubilmente legato alla proprietà privata dei mezzi di produzione, una società capitalistica non può semplicemente funzionare. Ciò non è affatto negato dai più direttamente interessati, cioè dai capitalisti e dai loro portavoce, che quotidianamente adducono l'esigenza di salvaguardare il profitto per giustificare tutte le misure di ristrutturazione, di intensificazione dei ritmi di lavoro, i licenziamenti ecc. e per pretendere dai governi decisioni che vadano nello stesso senso. Gli elementi tipici di questa fase consistono in realtà nella sempre maggiore internazionalizzazione della ricerca del profitto e nelle nuove forme tecnico-organizzative introdotte per aumentare il tasso dello sfruttamento. Se l'internazionalizzazione della ricerca del profitto comporta un esacerbarsi della concorrenza, l'aumento del tasso di sfruttamento stimola l'introduzione di politiche salariali e sociali, che provocano una pauperizzazione relativa negli stessi paesi più avanzati e una pa!lperizzazione assoluta nei paesi sottosviluppati. Coloro che durante il boom prolungato o in periodi più recenti hanno fatto dell'ironia su certe tesi marxiane a questo proposito o su loro interpretazioni abusive -, dovrebbero ormai essere più cauti. Che in questo contesto, lungi dallo scomparire o dall'at-

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tenuarsi, si moltiplichino

e si aggravino

parossisticamente

gli squilibri

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gli squilibri sempre più laceranti - tra le varie aree del mondo, tra paesi diversi di una stessa area e tra regioni diverse all'interno di uno stesso paese non è una tendenzain prospettiva, ma un dato di fatto da constatare. A questisquilibricontribuiscono,in ultimaanalisi,anchegli spostamenti di areadi attivitàdigrandigruppiindustrialie finanziari,checostituisceuna caratteristicadella fase più recente del capitalismo.Infatti, se esigenze di profittopossonoessere soddisfatte,più o meno durevolmente,tali trasferimenti provocano, tuttavia, profonde lacerazioni di settori economici e di tessutisocialinelleregionio nei paesiabbandonati,mentrenei paesio nelle regioni di nuova adozione solo fasce molto ristrette di popolazione sono eventualmenteavvantaggiatedallacreazionediposti dilavoroe, comunque,

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al prezzo di una accettazione di alti tassi di sfruttamento oltre che di traumi per l'ambiente e per il quadro sociale preesistente. Per la stessa grande borghesia, principale beneficiaria di queste operazioni, il prezzo in termini di eventuali squilibri sul piano dell' esercizio dell' egemonia sociale e politica potrebbe rivelarsi, a termine, elevato. Non ritorniamo sulla sempre maggiore concentrazione e centralizzazione del capitale. Che a questo proposito l'analisi di Marx abbia colto il segno non è contestato neppure dai suoi critici più accaniti. Non si tratta di un aspetto secondario, ma di un elemento essenziale dello sviluppo capitalistico, le cui conseguenze sociali e politiche sono dinnanzi ai nostri occhi in tanta parte del mondo e tenderanno a generalizzarsi - nessuno si faccia illusioni in merito - investendo anche i paesi attualmente considerati ricchi. Quanto alle crisi cic1iche, già vi abbiamo accennato e vi ritorneremo tra poco in questo stesso capitolo. Un elemento, che, pur non essendo nuovo in assoluto, ha assunto una incidenza qualitativamente diversa e incomparabilmente più grande che in passato, è rappresentato dal fatto che lo sviluppo economico incontrollato - o regolato ex post dalle "leggi del mercato" - e la necessità insopprimibile per il capitale di realizzare l'accumulazione allargata con l'uso indiscriminato di ogni sorta di tecnologie e fonti di energia, stanno provocando un sempre più micidiale deterioramento dell'ambiente con una erosione dello stesso sostrato naturale. Sia detto di passata, affrontare questa tematica con le categorie generiche dell'industrialismo e del produttivismo, come fanno spesso i Verdi (ma, per la verità, non solo i Verdi) significa correre il rischio di creare confusione e di eludere il problema vero. La questione se l'umanità avrebbe conosciuto miglior sorte senza l'industrializzazione, e senza lo sviluppo tecnologico soprattutto dell'ultimo secolo, è tutto sommato oziosa e può tutt' al più ispirare una critica romantica o neoromantica dell' esistente con la rievocazione di una società preindustriale e agraria, alla quale in ogni caso è impossibile ritornare. L'analisi critica deve partire dalla constatazione che la distruzione dell' ambiente avviene nel quadro del capitalismo e a causa non tanto di particolari aberrazioni di questo o quel gruppo industriale e di questo o quel governo (anche se le aberrazioni non sono mancate!), quanto dei meccanismi intrinseci del capitalismo stesso, che subordinano e devono subordinare tutto alle esigenze del profitto e della accumulazione allargata3. .

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Una conferma sin troppo evidente di quali siano i meccanismi necessari del capitalismo viene da quello che sta accadendo nei paesi dell'Europa centro-orientale e nell'ex-Unione Sovietica. Se meccanismi nuovi, nuove regole, nuovi valori si stessero effettivamente affermando nel capitalismo più moderno e più "razionale", i paesi in cui sono stati rovesciati regimi non capitalisti e non esistono sedimenti di capitalismo antico, dovrebbero costituire il terreno privilegiato di sperimentazione di queste novità. Ora, quali che siano i risultati sinora raggiunti o ipotizzabili, lo spettacolo cui si sta assistendo è il tentativo di riportare sul trono il monarca assoluto Profitto, motore supremo e irrinunciabile della tanto auspicata economia di mercato. Convergono nella ricerca del profitto i nuclei embrionali di nuova borghesia, gli intermediari, per non dire gli speculatori tout court, che proprio nel commercio intravedono la via più agevole di una rapida accumulazione, i manager provenienti dalla file della burocrazia tecnocratica e gli stessi burocrati degli apparati politici, che, costretti a riciclarsi per non essere spazzati via, diventano agenti, più o meno diretti, della restaurazione o soci "nazionali" delle multinazionali. C'è appena bisogno di aggiungere che le suddette multinazionali, come le istituzioni internazionali e i governi dei paesi capitalisti, al di là della specificità dei modi e delle forme, fissano i loro impegni e le loro scelte sulla base di un criterio primordiale: si potranno o no ricavare dei profitti (quali che siano le scadenze?). Altro che novità! Lo spettacolo di cui siamo spettatori è un miscuglio allucinante di disegni e metodi propri del neocapitalismo e dell'imperialismo più "moderno" e di forme ancestrali, barbariche, di accumulazione primitiva.

Quali mutamenti nella composizione sociale? È ricorrente il discorso, il più delle volte non suffragato da elementi analitici anche solo approssimativi, sui mutamenti intervenuti nella società odierna e in particolare sul declino, se non sulla scomparsa della classe operaia, che solo paleo-marxisti impenitenti si intestardirebbero a negare. I processi economici degli ultimi decenni - caratterizzati, non perdiamolo mai di vista, da una crescente centralizzazione e concentrazione del capitale e da straordinarie innovazioni tecnologiche e conseguenti mutamenti nell'organizzazione del lavoro - hanno indubbiamente inciso sulla

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composizione e sulla dinamica di classi e strati sociali. È ovvio che un'analisi globale approfondita di questi fenomeni, condotta, come è necessario, su scala mondiale, esigerebbe un enorme lavoro collettivo, corredato da successivi aggiornamenti. Tuttavia, tenendo conto dei dati ufficiali o ufficiosi di varia origine, che compaiono regolarmente, e di dati di fatto che dovrebbero essere di comune conoscenza, ci sembra possibile tracciare alcune linee generali. Per cominciare, è difficilmente contestabile che il peso specifico di gran lunga maggiore e, in fin dei conti, decisivo, lo hanno sempre gli strati capitalisti, di grande borghesia, che sono inseriti nei processi di internazionalizzazione e agiscono sotto forma di multinazionali o di aziende che, pur restando nazionali, hanno un raggio di azione che va ben oltre i confini di un singolo paese. Che si tratti di attività propriamente industriali e agro-industriali oppure finanziarie e commerciali, è, dal punto di vista sociale, secondario. A parte il fatto che molto spesso è difficile distinguere data la stretta connessione tra i diversi settori di attività, l'elemento determinante è che tutti partecipano al rastrellamento dei profitti, comunque questi profitti vengano suddivisi a secon~a delle situazioni, e fanno parte dello stesso tessuto sociale. Non intendiamo negare l'importanza relativa della distinzione tra attività più specificamente industriali e attività più specificamente finanziarie e ignorare l'incidenza del fatto che, specie in periodi di difficoltà per il mantenimento dei saggi del profitto, il peso di attività finanziarie o speculative tende a crescere a detrimento delle attività più direttamente produttive. Ma questo non giustifica le teorizzazioni che se ne fanno discendere su una contrapposizione tra settori borghesi "progressisti" e "moderni" e settori parassitari ed arretrati, e ancor meno una strategia di alleanza tra tutti i ceti "produttivi". Nella misura in cui hanno conosciuto una certa crescita - per esempio, in alcuni paesi asiatici e latino-americani -, gruppi élitari di paesi sottosviluppati si inseriscono, con tutti i limiti e con tutte le contraddizioni, nel processo di distribuzione internazionale dei profitti, diventando così componenti socialmente e politicamente necessarie della macchina di sfruttamento e di dominazione imperiali sta. Ritornano a volte, presentati come nuovi, discorsi sui cambiamenti che sarebbero costituiti, da un lato, dalla sostituzione dei singoli capitalisti o dei singoli gruppi familiari con le società per azioni, dall'altro, dal fatto che i detentori reali del potere sarebbero i manager e non più i proprietari

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in termini giuridici. Lasciando stare le società per azioni, la cui origine risale ormai alla notte dei tempi del capitalismo e che in nessun modo possono essere gabellate come un superamento della proprietà privata, la tesi sull'egemonia dei manager risale per lo meno agli anni '30. Le cose sono oggi ancor più chiare che cinquanta o sessanta anni fa. In ultima analisi, delle due l'una: o i manager restano semplicemente tali e allora i loro progetti e le loro decisioni operative restano subordinati alle decisioni dei proprietari - singoli o riuniti in società per azioni - o partecipano alla proprietà e in questo caso, pur assumendo una duplice figura, fanno parte integrante del gruppo sociale dominante senza divenire una nuova classe in grado di imporre propri specifici interessi, proprie norme e propri valori. Quanto la prima delle due ipotesi corrisponda ancora alla realtà, lo hanno provato recenti vicende degli Stati Uniti, dove, ritenuti responsabili delle situazioni di crisi delle aziende che dirigevano, manager famosi sono stati messi alla porta senza troppi complimenti e i consigli di amministrazione non hanno esitato a prendere misure di riorganizzazione della gestione per delimitare più nettamente i poteri manageriali4. C'è appena bisogno di ricordare che, data l'evoluzione dell'economia agricola e la sua sempre più estesa industrializzazione, hanno perso terre~o i settori di classe dominante rappresentati dagli agrari e dalla borghesia rurale in senso stretto. Questo vale da tempo per i paesi più sviluppati, dove il peso dell' agricoltura ha inciso sempre meno sul prodotto nazionale, con una drastica riduzione degli addetti a questo settore. Ma vale anche per la maggior parte dei paesi sottosviluppati, con la differenza che in questi ultimi l'industrializzazione ha coinciso per lo più con la penetrazione del capitale straniero e che gli espulsi dal processo di produzione agricolo non si inseriscono che molto limitatamente nell' economia industriale e urbana e sono quindi condannati a vivere ai margini della società. Un'ultima considerazione sulle classi dominanti, che avanziamo come ipotesi di lavoro da verificare. Dal punto di vista economico, gli strati più elevati della borghesia si sono ulteriormente rafforzati e dispongono, soprattutto grazie alle multinazionali e alle grandi concentrazioni industriali, finanziarie e commerciali, di poteri ben maggiori che in qualsiasi altra epoca. Questo non implica necessariamente un consolidamento ulteriore sul piano sociale e un rafforzamento dal punto di vista politico. In realtà, la sempre più spietata concorrenza e gli inarrestabili processi di concentrazione accrescono costantemente il numero degli sconfitti e degli

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"emarginati" con conseguente restringimento del tessuto della classe sociale egemone in quanto tale. Il fatto che gli "emarginati" lo siano in senso molto relativo non essendo certo ridotti all'indigenza, non cambia la sostanza del fenomeno. E sul piano politico una forza sociale che si contrae ha più difficoltà a esercitare la propria egemonia su altri strati sociali, indipendentemente dal rafforzamento o riconsolidamento del suo potere economico. È inevitabile che a lungo termine ciò finisca con l'influire anche sul piano economico. La crescita e l'aumentato peso specifico delle classi medie sono stati, sin dalla fine del secolo scorso, un motivo ricorrente della critica alla problematica marxiana. Lasciando da parte le dispute più o meno scolastiche sulle ipotesi che Marx e i suoi discepoli avrebbero avanzato nei loro scritti, è un'ovvia constatazione che le classi medie - o piccola borghesia nelle sue molteplici articolazioni - hanno avuto e hanno un ruolo importante nelle società contemporanee e non solo nei paesi capitalisti sviluppati. Nei periodi di normalità o di ristabilizzazione hanno contribuito in notevole misura al mantenimento dello status quo, esercitando un' influenza, diretta o indiretta, sullo stesso movimento operaio. Nei periodi di crisi hanno, invece, rappresentato un fattore di squilibrio e di radicalizzazione o di involuzione populistico-reazionaria. Per venire a periodi più recenti e a proposito di strati che sono sulla linea di demarcazione tra piccola borghesia e borghesia tout-court, vanno presi in considerazione altri due elementi. Se è vero che hanno continuato a esistere e magari ad accrescersi numericamente le piccole industrie o le imprese di tipo artigianale, nella maggior parte dei casi questi settori non hanno avuto e non hanno un ruolo autonom05. Vivono all'ombra dei grandi gruppi, delle grandi industrie, da cui ricevono com,messe e subappalti (il tanto elogiato Giappone, all'avanguardia della "modernità", fa ricorso ai subappalti in misura molto maggiore dei paesi della CEE e degli Stati Uniti). In secondo luogo, la retorica sul peso crescente di questi settori, all'insegna del "piccolo è bello", si è basata su fenomeni parziali e congiunturali, su generalizzazioni troppo frettolose, e in ogni caso comincia a non essere più di moda. A volte, si esagera addirittura in senso inverso, per esempio, quando si parla di "scomparsa delle classi medie" negli Stati Uniti, mentre il fenomeno reale che si è delineato in questo paese nell'era reaganiana è stato una differenziazione della cosiddetta

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classe media, in minima parte entrata a far parte dei settori con redditi più alti, per lo più, invece, precipitata verso il basso. Fenomeni analoghi si sono verificati nei paesi industrializzati a livello di classi medie rurali, nonostante le misure protetti ve adottate, per ragioni elettoralistiche, soprattutto da certi governi della CEE. Si assiste a un' inevitabile, ulteriore differenziazione. Da un lato, l'estendersi dell' agricoltura industrializzata, anche nei paesi sottosviluppati, comporta una crescita del lavoro salariato (il che non significa necessariamente aumento assoluto degli addetti, dati gli sviluppi tecnologici), dall'altro, gli strati medi più forti si inseriscono in questo processo raggiungendo una condizione sociale sempre più vicina a quella della borghesia (pur senza una completa identificazione). Venendo agli strati della società quantitativamente di gran lunga prevalenti, l'evoluzione degli ultimi decenni, che non sembra destinata a mutare a breve o a medio termine, è stata caratterizzata soprattutto da due fenomeni: -l'accrescersi del numero dei lavoratori salariati o dipendenti; - l'accrescersi, in gran parte del mondo, del numero di coloro che sono espulsi del tutto o in larga misura dai processi produttivi, non hanno nessun lavoro o svolgono lavori saltuari e precari, spesso ai margini della legge. Il primo fenomeno, è bene ribadirlo esplicitamente, riguarda gli stessi paesi capitalisti industrializzati. Con il protrarsi dell' onda lunga di ristagno e in seguito alle innovazioni tecnologiche, si è registrata una contrazione del numero degli operai industriali, specialmente della grande industria6. Ma non si ripeterà mai abbastanza che i tratti essenziali di una società capitalistica consistono, secondo la concezione marxiana, nella generalizzazione della produzione di merci e nella predominanza del lavoro salariato, cioè di coloro che devono vendere la loro forza lavoro per procurarsi i mezzi di sussistenza. Ora, della mercificazione universale, non solo della produzione ma di tutti gli aspetti della vita, nelle forme più rivoltanti, siamo testimoni tutti i giorni, letteralmente da quando ci svegliamo sino a quando ci corichiamo. Quanto al lavoro salariato, abbiamo già accennato alla trasformazione, in linea di diritto o di fatto, in lavoratori dipendenti di settori di piccola borghesia rurale e, aggiungiamo ora, di piccola borghesia urbana (basti pensare, per esempio, alle trasformazioni del commercio in seguito al diffondersi delle grandi reti di distribuzione). Inoltre, anche altri settori del terziario o dei servizi, hanno subito un

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processo di industrializzazione con l'introduzione di metodi di organiz~azione e gestione di tipo industriale e persino molti tra i cosiddetti liberi professionisti sono diventati, in sostanza, dipendenti di grandi società o di collettività, pur continuando a realizzare anche redditi autonomi? Va precisato che in una serie di paesi sottosviluppati, quelli ovviamente che hanno conosciuto processi sia pur parziali e deformati di industrializzazione, sono aumentati gli operai industriali, cioè i salariati più classici. Questa tendenza continuerà a manifestarsi - e a estendersi, in determinati contesti, a paesi ex-"socialisti" - nella misura in cui le multinazionali cercano di ridurre i costi agendo sempre più sistematicamente su diversi scacchieri mondiali e le moderne tecnologie permettono trasferimenti di attività con una rapidità sconosciuta sino a pochi anni fa. In conclusione, soprattutto se si valuta su scala mondiale - e1' approccio il mondiale è legittimo data l'internazionalizzazione dell' economia fenomeno di fondo è costituito dall' aumento, e non dalla diminuzione, dei lavoratori salariati e dall'aumento o il mantenimentoa livelli comunque più elevati di quelli non solo degli anni '20 e '30, ma anche dei primi decenni dopo la seconda guerra mondiale - della stessa classe operaia industriale. Quanto al secondo fenomeno, l'aumento della popolazione cosiddetta marginale, nei paesi sottosviluppati si è verificata una crescita per ora inarrestabile di strati sociali compositi, per cui la definizione più adeguata è quella di masse plebee, anche per l' assonanza con fenomeni storicamente 'remoti di emarginazione e 'di esistenza parassitaria. Proprio queste masse rappresentano -grande parte di quella popolazione al di sotto dei livelli "ufficiali" di povertà, cioè a una esistenza subumana, che - nessuna persona cosciente dovrebbe dimenticarlo neppure per un minuto - costituisce la grande maggioranza degli abitanti del pianeta (e che, aggiungiamo, è sin d'ora la vittima designata delle deva stazioni ambientali, imminenti o a lungo termine). La novità dell'ultimo decennio è che questi strati emarginati sono aumentati e continuano ad aumentare anche "nella società del benessere" dei paesi industrializzati. Esiste ormai una massa considerevole di disoccupati, che non si è ridotta in misura apprezzabile neppure in fasi di ripresa congiunturale, con il corollario che un numero crescente di persone non si è mai inserito in normali processi produttivi (è ovvio che si tratta soprattutto di giovani). La portata di questo fenomeno dal punto di vista

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dei livelli di vita è stata per ora contenuta, grazie all'esistenza di più redditi nello stesso nucleo familiare e di riserve, sia pur modeste, accumulate dalle generazioni precedenti. Ma non c'è bisogno di grandi inchieste sociologiche per capire che questi contrappesi tenderanno inevitabilmente ad agire sempre meno, se non a scomparire, salvo che si verifichi una radicale inversione di tendenza (ipotesi che, per il momento, nessuno si sente di avanzare).

Tendenze in Italia Venendo al caso dell'Italia, alla vigilia della recessione del 1974-75 era possibile constatare: - un ulteriore sviluppo della concentrazione del capitale nelle sue diverse forme; - un aumento del peso specifico sociale e polit.ico della classe operaia (il proletariato, nell'accezione che abbiamo precisato, rappresentando la netta maggioranza della popolazione attiva); - un' espansione delle classi medie nuove e di nuovi strati di proletariato a spese delle classi medie tradizionali. Via via che la recessione si precisava, si delineavano abbastanza chiaramente le tendenze più probabili (nell'eventualità che non mutasse radicalmente il quadro politico). Si sarebbe ristretto il quadro del processo di accumulazione con un incremento delle forze di lavoro espulse o emarginate, con una contrazione quantitativa della classe operaia, una progressiva erosione dei suoi livelli di vita e una sua crescente differenziazione interna. Non sarebbe aumentato il peso specifico delle classi medie, nella}:IlÌsura in cui alcuni strati più tradizionali si sarebbero ancora assottigliati mentre una ulteriore espansione dei nuovi strati sarebbe stata ostacolata dal contrarsi della produzione in generale8. A oltre quindici anni di distanza il bilancio non dà adito a dubbi: in linea di massima, sono proprio queste le tendenze che si sono concretizzate. Quando saranno noti i dati completi dell'ultimo censimento - di cui mentre scriviamo non conosciamo che qualche sommaria anticipazione -, si potranno fare analisi più sistematiche9. Per il momento, possiamo affermare, in primo luogo, che, per quanto riguarda le classi dominanti,

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valgono considerazioni analoghe a quelle accennate in generale a proposito dei paesi industrializzati. Sono continuati i processi di concentrazione, mentre hanno assunto un ruolo più rilevante gruppi industriali nuovi o relativamente nuovi (il che fa parte, del resto, della normale fisiologia di una società capitalista). Si sono accresciute, specie in certi momenti, le atti vità finanziarie e speculative, ma, come è noto, è difficile stabilire nette distinzioni per la semplice ragione che non di rado le stesse persone e gli stessi gruppi sono impegnati contemporaneamente sui vari fronti. Quanto alla tecnocrazia e alta burocrazia statale, se ha perduto prestigio nell'era di esaltazione del privato e, più concretamente, a causa degli insuccessi del settore che gestisce, non si è, tuttavia, contratta. Staremo a vedere se questo si verificherà nell'ipotesi che si realizzino i conclamati progetti di privatizzazione (un sano scetticismo in merito ci sembra del tutto giustificato). Non c'è dubbio, invece, che è ancora diminuito il peso dei proprietari di terre e della borghesia agraria. Per quanto riguarda le classi medie, è continuata l'erosione degli strati più tradizionali, non compensata da un allargamento degli strati nuovi, che in realtà non si è verificato. Il fenomeno più rilevante è stato, comunque, anche in Italia il consolidarsi, se non l'accrescersi, della assoluta preponderanza del lavoro salariato o dipendente, che include, tra l'altro, non dimentichiamolo, gran parte degli addetti alle attività terzi arielO. Infine, gli elementi di maggiore novità sono consistiti in un ristagno o in un restringimento dei salariati industriali, specialmente della grande industria, che tuttavia non corrisponde a una perdita sostanziale di peso specifico dell'industria e soprattutto dei suoi settori decisivi; in una diversa distribuzione del lavoro salariato (con un incremento netto, per esempio, nelle grandi reti commerciali); nell'aumento e nella permanenza a livelli elevati della disoccupazione, in particolare di quella giovanile; in un aumento dell' occupazone precaria e della popolazione "marginale" urbana. Quanto alle differenziazioni interne della classe operaia, si sono effettivamente accresciute e la scelta deliberata del padronato è di accentuarle ulteriormente. Ma si tratta di un problema, che ha una portata ancor più politica che sociale e su cui ritorneremo in un capitolo successivo.

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È possibile un rilancio globale del capitalismo? All'ultima delle domande che ci siamo posti all'inizio, cioè quella sulla possibilità di un rilancio di ampio respiro del capitalismo, nell'ambito inevitabilmente limitato di questo saggio, cercheremo di rispondere articolandola in tre domande più specifiche: l) È possibile una ripresa economica non puramente congiunturale dei paesi capitalisti industrializzati (CEE, America del Nord e Giappone)? 2) È possibile una inversione di tendenza nei paesi sottosviluppati? 3) È possibile a breve o a medio termine il ricupero dell'Europa centro-orientale ed ex-URSS, o addirittura della Cina, al mercato mondiale capitalista o, detto altrimenti, sono realizzabili i progetti di restaurazione capitalista? Vada sé che la risposta non è affatto semplice. Ma esistono una serie di elementi per tentarla. In primo luogo, nell'analisi delle tendenze economiche, bisogna avere presente una importante distinzione: quella tra l'andamento congiunturale a breve e medio termine e l'andamento ciclico di più ampio respiro. In questo senso, la categoria delle onde lunghe, di cui si sono serviti da lunga data economisti marxisti e non marxisti, resta valida. Per limitarsi agli ultimi settant'anni, un'onda lunga, di cui la grande depressione del 1929-32 ha costituito il momento più drammatico, si è prodotta tra le due guerre mondiali, con un alternarsi di fasi congiunturali, ma sullo sfondo di un ristagno complessivo. Una seconda fase è iniziata alla fine degli anni '40 o all'inizio degli anni '50 (a seconda dei paesi e delle aree geografiche): è stata un'onda lunga di espansione sintetizzata dal boom prolungato di circa un ventennio, al di là, anche in questo caso, delle variazioni congiunturali. Una terza fase, una nuova onda lunga di ristagno, si è aperta con la più grave recessione dopo gli anni '30, quella del 1974-75. Da questa fase, nonostante riprese congiunturali, alcune anche di durata relativamente lunga, in questa prima parte degli anni '90 l'economia capitalista internazionale non è ancora uscita. Da un punto di vista più congiunturale, la situazione attuale è, tutto sommato, chiara: l'economia capitalista è stata investita su scala mondiale da una recessione che, stando agli elementi a disposizione, è paragonabile a quella del 1981-82, se non addirittura di maggiore gravità. Meno chiaro è quali saranno le scadenze e la portata della ripresa di cui non esistono,

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mentre scriviamo, çhe alcuni timidi preannunci e non necessariamente in tutti i paesi più importanti. Comunque sia, non pochi economisti propendono per la tesi secondo cui si tratterà di una ripresa limitata e circoscritta nel tempo, che, quel che è più importante, consentirà solo molto parzialmente un riassorbimento delle conseguenze negative della recessione. In particolare, quasi nessuno si azzarda a prospettare una riduzione dell' ormai cronico fenomeno di una disoccupazione ufficialmente attorno alI 0% della popolazione attiva e in realtà ancora più elevata. Al di là delle vicende congiunturali, il battage propagandistico sul fallimento del "comunismo" serve sempre meno a mascherare la situazione delle maggiori potenze imperialistiche. La stessa Germania conosce difficoltà crescenti, congiunturali e strutturali, incontra ostacoli molto più seri del previsto nell' operazione di assimilazione capitalistica dell' ex-Repubblica democratica ed è entrata in una fase di squilibri e di conflitti quali non aveva conosciuto da quasi quarant'anni a questa parte. Ma è soprattutto sulla situazione degli Stati Uniti e sulle tendenze che si sono venute delineando in Giappone che vogliamo brevemente soffermarcÌ. Come ormai devono riconoscere, magari a denti stretti, molti di coloro che avevano ceduto alle sirene dell'apologia (a volte nelle stesse file della sinistra), l'era reaganiana non ha fatto che aggravare il declino della società nordamericana già iniziatosi negli anni '70 e forse non ha tutti i torti chi dice che anche gli Stati Uniti hanno pagato a caro prezzo la guerra freddall. In sintesi, hanno subito un declino della loro economia, particolarmente accentuato in settori industriali decisivi; hanno perduto terreno rispetto ai maggiori concorrenti nel commercio internazionale; hanno accumulato un debito estero interno ed estero colossale12; hanno dovuto ricorrere su larga scala all'intervento del capitale straniero e all'alienazione di beni nazionali; stanno pagando duramente le gravi conseguenze della insolvenza delle casse di risparmio; sono minacciati da una crisi bancaria di dimensioni imprevedibili. Il sistema scolastico e quello sanitario sono in condizioni letteralmente disastrose per la maggioranza della popolazione, che non può ricorrere alle cliniche private e accedere alle Università riservate a ristrette élites (frequentate spesso da rampolli della nostra classe dominante). E non parliamo delle cosiddette infrastrutture (strade, ponti, canalizzazioni, strutture urbane, ecc.), che sono in larga misura obsolete, se non decrepite, e che hanno provocato anche di recente vere e proprie catastrofi (per esempio, al centro ~tesso di una città "moderna"

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come Chicago). La stessa guerra del Golfo, la manifestazione più clamorosa della supremazia militare dell'imperialismo americ~o, è stata possibile senza un ulteriore aggravarsi dell'indebitamento in quanto è stata pagata quasi interamente dagli alleati europei, asiatici e mediorientali. Sulle conseguenze sociali di tutto questo esistono ormai fonti innumerevoli di documentazione 13.I fenomeni più vistosi sono assolutamente incontestabili: accentuarsi costante di una polarizzazione sociale per cui gli strati più ricchi sono divenuti più ricchi e i più poveri si sono ulteriormente impoveriti; aumento della già elevata percentuale della popolazione, tra cui un quinto dei bambini, al di sotto del livello anche ufficiale di povertà; circa un terzo dei 100 milioni di lavoratori occupati dell' era reaganiana ai limiti della povertà; impoverimento della maggioranza delle famiglie tra il 1977 e il 1991; declassamento di larghi strati di classe operaia14; riduzione dei livelli di vita di ampi settori di classe media; contrazione dei già limitati benefici sociali (assicurazioni malattie, pensioni, indennità di licenziamento, sovvenzioni sociali varie ecc.). Neppure le fonti più apologetiche osano prevedere una inversione di tendenza a scadenze prevedibili, mentre qualcuno ha immaginato addirittura scenari futuri di conflitti generalizzati ai limiti della guerra civile15. Che non si trattasse di pure fantasie, lo hanno confermato in modo clamoroso le esplosioni di fine aprile di quest'anno a Los Angeles e in altre metropoli nordamericane. Dopo questi avvenimenti gli stessi apologeti del capitalismo avranno difficoltà a contestare i dati analitici che abbiamo sommariamente richiamato. La situazione del Giappone è indubbiamente diversa da quella degli Stati Uniti. Ma è un po' paradossale che proprio quando l'imperativo di imparare dal Giappone era divenuto un luogo comune negli Stati Uniti e in Europa occidentale, il "modello" cominciasse a scricchiolare nella madrepatria. Sta di fatto che, dopo un'espansione di 59 mesi, anche in Giappone si è delineata una dinamica recessiva e si sono prodotti o accentuati fenomeni che hanno appesantito un clima politico già teso in seguito a una ondata di scandali che aveva coinvolto ampi settori dei gruppi dirigenti e in particolare il partito di maggioranza. Basti pensare alla crisi della borsa, alla minore disponibilità di capitali che ha suggerito di ridurrre, se non di sopprimere, investimenti e acquisti di proprietà all'estero, alle capacità produttive sottoutilizzate e al deteriorarsi della situazione di alcune delle maggiori società, come la Sony, la Matsushita,

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la Toyota e la Nissan, che hanno registrato i bilanci peggiori degli ultimi dodici anni e che devono far fronte per di più a un pesante indebitamentol6. I segni annunciatori di difficoltà e il sopraggiungere della difficoltà hanno suggerito progetti di mutamenti di rotta rispetto agli orientamenti di fondo del passato. Il paradosso cui abbiamo alluso all'inizio è apparso come rovesciato: tra i giapponesi cominciava a farsi strada l'idea di misure da Stato sociale proprio mentre in Europa padroni e governi facevano del loro meglio per seppellirlo! Era lo stesso presidente della Sony, Akio Morita, a dichiarare che "il Giappone dovrebbe sviluppare alcune caratteristiche delle economie dell'Europa e degli Stati Uniti e che, invece di accumulare la ricchezza nelle mani delle compagnie, dovrebbe trasferirle nelle mani degli operai e dei consumatori sotto forma di un prolungamento delle ferie, di migliori salari, di un abbreviamento della vita lavorativa, di un miglior ambiente e di una migliore qualità della vita, in particolare per quanto riguarda le abitazioni" ("Financial Times", 15-16 febbraio 1992)17.Quale migliore prova della contraddittorietà delle situazioni e della precarietà delle scelte negli stessi paesi capitalisti industrializzati? Disgraziatamente per Morita, non sarà così facile tradurre in pratica la svolta che prospetta in un contesto di crescenti difficoltà e di un acutizzarsi della concorrenza internazionale. Lo dimostra la dichiarazione di un altro manager giapponese, che ha spiegato per parte sua che "molte compagnie hanno adottato metodi benevolmente paternalisti nei momenti favorevoli, ma ora c'è bisogno di un'impostazione più tirannica" ("Business Week", 27 aprile 1992). Questo quadro dei paesi capitalisti più potenti fornisce già elementi di risposta alla domanda se è possibile che a scadenze prevedi bili si esaurisca l'onda lunga di ristagno e si delinei una nuova onda lunga di espansione. Più in generale si può dire che nessuno dei fattori che sono stati all' origine di altre onde lunghe di espansione sembrano delinearsi per il momento. Soprattutto, non si delineano fattori trainanti decisivi che possano avere la stessa funzione che hanno avuto i beni di consumo durevoli nel boom del dopoguerra nell'Europa occidentale, in cui peraltro la dinamica ascendente è stata stimolata

e sostenuta

dalle esigenze della ricostruzione

dalle

rovine della guerra. Né sembra probabile un ampliamento degli sbocchi nel Terzo mondo analogo a quello seguito all'istaurazione dei regimi neocoloniali. Settori nuovi e dinamici potranno emergere e svilupparsi, ma, almeno per ora, non se ne intravedono di tali da poter alimentare

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un'accumulazione allargata in un'ascesa di ampio respiro. I casi dell'informatica e dell'elettronica sono in proposito eloquenti. Soprattutto all'inizio degli anni '80 alcuni avevano pensato che proprio questo settore avrebbe potuto prendere il posto di quello dei beni di consumo durevoli come fattore propulsivo di una nuova onda di espansione. Non pretendiamo di fare pronostici, tanto più che non siamo specialisti in materia: possiamo, tuttavia, constatare che questa ipotesi non si è verificata e, data la natura del settore stesso e le difficoltà che incontra già da qualche tempo, non sembra che la situazione possa mutare radicalmente nel futuro. Passiamo a questo punto al secondo interrogativo, sui paesi sottosviluppati. Dal punto di vista del capitale internazionale, la possibilità di nuovi spazi appare alquanto problematica, salvo casi eccezionali che dovrebbero essere peraltro analizzati più da vicino: la posta in giuoco rischia di essere soprattutto una spietata lotta tra forze imperialiste e neocolonialiste per strapparsi reciprocamente gli spazi già esistenti. Quanto alla dinamica interna dei paesi sottosviluppati, dati forniti di recente dalle Nazioni Unite hanno messo in risalto ancora una volta la spaventosa spirale regressiva in cui sono imprigionati senza troppe speranze di cambiamentolS. In realtà, nel contesto dato, cioè senza mutamenti rivoluzionari e su vasta scala, non si vede come ci possa essere una inversione di tendenza. L'ipotesi più fondata resta che sia per il fardello del debito, sia per tutte le altre ragioni note, i paesi sottosviluppati continueranno a pagare un duro prezzo all'accresciuta concorrenza tra i paesi industrializzati, le multinazionali e le diverse aree di influenza imperialista. I vantaggi che certi paesi potranno eventualmente ottenere, per esempio, grazie ai trasferimenti di attività cui abbiamo già accennato, saranno del tutto precari e limitati (c'è appena bisogno di aggiungere che a beneficiarne non saranno, comunque, le grandi masse, ma ristrette élites locali). Aggiungiamo che gli stessi paesi che hanno registrato processi di industrializzazione e una crescita relativa negli ultimi due decenni, per esempio, la Corea del Sud e Taiwan, raggiungeranno a un determinato momento il tetto dello sviluppo nel quadro socio-economico esistente e cominceranno essi pure a pagare il prezzo dell' accentuarsi della concorrenza e ad entrare a loro volta in una fase di ristagno. Più in generale, questi paesi saranno investiti dal combinarsi di due tipi di contraddizioni: quelle che derivano dalla loro condizione di paesi arretrati o inegualmente sviluppati e quelle che derivano dalla relativa modernizzazione che hanno realizzato.

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In conclusione, non solo ci sembra di poter escludere nei paesi sottosviluppati un'inversione di tendenza, ma è anche assai improbabile che in questa o quella regione ci siano nuovi processi di parziale industrializzazione e modernizzazione paragonabili a quelli che hanno conosciuto negli anni '30 e negli anni '50 e '60 alcuni paesi latinoamericani e negli anni '70 e '80 alcuni paesi asiatici. Infine, quali sono le prospettive di restaurazione del capitalismo nell'Europa centro-orientale e nell'ex Unione Sovietica? A questo propo~ito è ancora più arduo azzardare previsioni, perché ci troviamo di fronte a una situazione storica senza precedenti e non ci può essere di aiuto nessuna analogia, sia pure relativa. A parte il fatto che lo sbocco non sarà necessariamente lo stesso per tutti questi paesi e che, per esempio, il caso della Russia è per molti aspetti ben diverso da quello dell 'Ungheria, da un lato, e di una repubblica asiatica, dall' altro, si possono avanzare due ipotesi limite. La prima è quella di un fallimento dell'operazione di restaurazione. Ciò avrebbe naturalmente ripercussioni di incalcolabile gravità per il capitalismo internazionale e lo sbocco sarepbe o un riconsolidamento poco probabile - di un regime burocratico autoritario o più verosimilmente - una decomposizione socio-economica generalizzata e prolungata con conseguenze potenzialmente esplosive per gli equilibri mondiali. La seconda è quella di un parziale successo da un punto di vista capitalista. In questo caso si creerebbe una situazione di sviluppo capitalistico in certe aree, sotto l'egemonia delle multinazionali o del capitale straniero più in generale, con settori più o meno consistenti di capitale nazionale. Emergerebbe un tipo di società e di situazioni molto più simile a quello di certi paesi classicamente sottosviluppati che a quello dei paesi capitalisti industrializzati. Nonostante gli inevitabili squilibri e contraddizioni, questo potrebbe effettivamente dare un nuovo respiro al capitalismo internazionale, specie se potesse realizzare contemporaneamente una analoga penetrazione in Cina19. Per parte nostra, consideriamo questa seconda ipotesi ben poco probabile. n tratto più caratteristico della fase attuale ci sembra un' estrema precarietà e transitorietà a tutti i livelli, con tendenza alla frammentazione e al moltiplicarsi di forze centrifughe. n cammino verso una restaurazione capitalistica sarà in ogni caso un processo lungo, conflittuale e contraddittorio. Tenendo conto della intrinseca debolezza degli attori sociali e politici

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autoctoni e delle difficoltà delle grandi potenze capitalistiche e delle loro esitazioni a impegnarsi in un'impresa dagli sviluppi difficilmente prevedibili, non è probabile una "riconquista" globale a breve e a medio termine della Russia o della cosiddetta Comunità degli Stati indipendenti (ammesso che sopravviva). Propendiamo per una variante storicamente originale, cioè il coesistere di modi di produzione e di meccanismi economici diversi con una divisione di fatto in zone d'influenza regionali e settoriali. Tensioni, divaricazioni, laceranti diseguaglianze nello sviluppo saranno inevitabili con non meno inevitabili conseguenze sociali e politiche2o. La conclusione è che, lungi dal poter rilanciarsi trionfalmente nella parte del mondo che era sfuggita al suo controllo e acquisire una rinnovata legittimità storica, il capitalismo si scontrerà ancora una volta con le contraddizioni intrinseche che ne hanno segnato il cammino e che appariranno sempre più insormontabili nell'ora del declino. Si scontrerà contemporaneamente con la logica di società che non erano più capitaliste e con certe acquisizioni che lo stalinismo e post-stalinismo non avevano completamente distrutto o svuotato di contenuto. Il tripudio del "libero mercato" e della "civiltà democratica occidentale" rischierà di trasformarsi, quali che siano le scadenze, in un boomerang fatale.

Note I A questo proposito ci permettiamo di rimandare al capitolo "Erano possibili altre alternative?" del nostro libro Al termine di una lunga marcia: dal PC] al PDS, Erre Emme, Roma, 1990. 2 Cfr., per esempio, l'ultimo capitolo del già citato Al termine di una lunga marcia: dal PC] al PDS. 3 Disastri ambientali non meno gravi sono stati provocati nelle società di transizione burocratizzate a causa dei meccanismi alienanti specifici di queste ultime, che non possiamo analizzare in questa sede. Comunque, l'elemento negativo determinante è stato l'assenza di una qualsiasi forma di gestione democratica della società. 4 Un caso da manuale è quello della GeneraI Motors, ai cui vertici è scoppiato un conflitto estremamente acuto, che si è concluso con la vittoria degli azionisti e dei "direttori non esecutivi", cioè gli uomini di fiducia degli aZionisti stessi, e la sconfitta dei manager. Per una sintesi efficace della vicenda, cfr. "Financial Times", 13 aprile 1992. 5 D'altra parte, le medie e piccole industrie più dinamiche sono spesso ad alta

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intensità di capitale e usano tecnologie di punta. I loro proprietari o i loro azionisti sono inseriti assai più nella borghesia che nelle classi medie. 6 I criteri di definizione di una grande industria sono spesso poco rigorosi, se non arbitrari. È ovvio, per esempio, che un'industria non diventa media o piccola per il fatto di passare da 10.000 a 2-3.000 dipendenti. 7 Si è discusso qualche anno fa sulle riorganizzazioni del lavoro basate sull'uso del computer a domicilio. Nella maggior parte dei casi, si tratta di una forma di dipendenza salariale appena camuffata, di una sorta di lavoro a cottimo. D'altra parte, esiste pure una vera e propria organizzazione industriale dello stesso tipo di lavoro. Un esempio sconvolgente è stato illustrato da un ottimo reportage sulle Filippine di un canale televisivo francese. Molte centinaia di giovani donne lavoravano nello stesso salone con un ordine implacabile, battendo la tastiera del loro computer senza interruzione e a ritmi impressionanti. Quelle che non commettevanonessun errore - e il margine di errore ammesso era estremamente esiguo - ricevevano un premio in natura. Ecco come un lavoro ultramoderno si rivela non meno alienante e non meno atroce del lavoro in una fabbrica del secolo scorso. 8 Cfr. a questo proposito il nostro libro Dinamica delle classi sociali in Italia, Samonà e Savelli, Roma 1975. 9Secondo la relazione generale sulla situazione economica 1991, si è verificato, rispetto al 1990, un aumento dello 0,4% dei lavoratori dipendenti. D'altra parte, il sociologo Luciano Gallino ha detto di recente: "La quota di lavoratori manuali in Italia è pressocché analoga a quella del 1951: cinque milioni di persone" ("l'Unità", 8 giugno 1992). lORicordiamo che settori di produzione che vengono classificati correntemente nel terziario, sono in realtà settori industriali o comunque direttamente legati all'industria. Il Questa tesi è apparsa di frequente sulla stampa americana negli ultimi mesi. Per esempio, uno scrittore che aveva fatto parte dello staff presidenziale di Johnson e di Nixon ha scritto su "International Herald Tribune": "Economicamente la sconfitta sovietica è completa. Ma la guerra fredda ha divorato la produttività, il reddito reale e la competitività della stessa America, lasciando un gap maligno tra ricchi e poveri e condizioni sociali vergognose e pericolose" (6 febbraio 1992). 12Il noto fenomeno italiano di un deficit statale alimentato dal pagamento degli interessi di buoni del tesoro non è meno grave negli Stati Uniti. Dati recenti sull'enorme deficit federale sono comparsi in un articolo del "New York Times" (25 aprile 1992). 13Articoli significativi sulla situazione interna sono comparsi di frequente nel corso dell'ultimo anno sulla stampa degli Stati Uniti, dal "New York Times" al "Washington Post", oltre che nell'edizione europea di "International Herald Tribune", per non parlare di pubblicazioni periodiche liberals o della sinistra marxista (per esempio, "Against the Current"). Tra i libri più significativi comparsi negli ultimi cinque anni, ce ne sono di autori degli indirizzi più disparati. Ricordiamo, per esempio, quello di un collaboratore di Nixon, Kevin Phillips, The Politics 01

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Rich and Poor (Harper Perennial, New York, 1991) e per quanto riguarda la sinistra Mike Dave, The Prisoners of the American Dream (Verso, London-New York, 1986) e Kim Moody, An lnjury to all: the decline of American Unionism (Verso, 1988). Per i problemi delle riorganizzazioni del lavoro è di notevole interesse Mike Parker e lane Slaughter, Choosing Side: Unions and the Team Concept (Labor Notes Book, Boston, 1988). 14Sulle differenziazioni in seno alla classe operaia a pàrtire dagli anni '70, cfr. il citato libro di Mile Dave, p. 278.. 15Cfr. Phillips, op. cito p. 154. 16PeriI caso della Nissan, cfr. "International Herald Tribune" (21 aprile 1992). 17Cfr. anche "Corriere della sera" (19 febbraio 1992). Lo stesso giornale, in un articolo del 25 marzo, ha fatto allusione a progettati mutamenti per quanto riguarda la definizione dei modelli di vetture che sin qui erano considerati come uno dei punti di forza dei giapponesi. Per quanto riguarda problemi dell' economia e dell' organizzazione del lavoro in Giappone segnaliamo un interessante libro di Benjamin Coriat, Penser à ['envers: travail et organisation du travail dans ['entreprise japonaise, Paris, 1991 e il saggio di Muto Ichiyo, Lutte de classe et innovation technologique au Japon depuis 1945, pubblicato nel 1990 dall'Istituto internazionale di ricerche e di formazione di Amsterdam. 18Basti qui ricordare che mentre nel 1960 il 20% più ripco della popolazione mondiale disponeva di un reddito 30 volte superiore a quello del 20% più povero, trent'anni dopo il distacco era raddoppiato. Se si confronta il miliardo più povero con il miliardo più ricco il rapporto è di 1a 150. Quanto al debito estero, il rimborso è costato ai paesi indebitati, tra il 1983 e il 1989, 242 miliardi di dollari, mentre le barriere doganali imposte dai paesi industrializzati sono costate ai paesi poveri 40 miliardi di dollari all'anno. Complessivamente, sempre secondo i calcoli degli esperti dell'ONU, ogni anno sono stati "negati" ai paesi sottosviluppati 500 miliardi di dollari, cioè dieci volte quanto hanno ricevuto sotto forma di "aiuti". 19In Cina assistiamo attualmente, soprattutto in alcune regioni, a un moltiplicarsi di società miste e a una penetrazione di capitale internazionale in varie forme, oltre che a una crescita di imprese private nazionali. n regime politico esistente, nonostante tutte le aperture, costituisce un ostacolo a uno sviluppo qualitativamente superiore in questa direzione. A un certo momento, conflitti saranno inevitabili. Nel caso di una crisi del tipo di quella che ha sconvolto l'URSS, tendenze centrifughe potrebbero operare anche in Cina, se pur non in relazione a questioni nazionali, e potrebbe, al limite, prodursi una decomposizione del paese, fenomeno già conosciuto in altre epoche prima della rivoluzione. Una situazione veramente nuova si delineerebbe qualora il passaggio a un' economia di mercato generalizzata e una restaurazione capitalistica avvenissero in forma graduale e politicamente controllata. Ma si tratta di una eventualità del tutto astratta, anche se non esclusa sul piano puramente teorico. 20Sugli sviluppi e sulle prospettive dell' ex Unione Sovietica, v. il nostro articolo "Dopo la fine dell 'URSS: quale transizione?" in "Marx centouno", n. 8, marzo 1992.

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Capitolo quarto DIFFICOLTÀ E CONTRADDIZIONI RIFONDATRICE

DELL'IMPRESA

Le risposte ai tre interrogativi posti all'inizio del capitolo precedente consentono di trarre la conclusione che i bisogni, le aspirazioni e le contraddizioni che erano stati all'origine della formazione del movimento operaio e avevano' costituito il presupposto oggettivo della sua lotta, sussistono anche dopo l'involuzione degli anni '80 e il terremoto del 1989 e del periodo immediatamente successivo. È partendo da qui che ha un senso prospettare una rifondazione comunista e, ripetiamolo, una rifondazione del movimento operaio più in generale. Vada sé che l'impresa dovrà assumere dimensioni internazionali ed è sul piano internazionale che, in ultima analisi, si deciderà del suo successo o del suo fallimento. Il nostro saggio si riferisce soprattutto al processo italiano. Non solo per l'ovvia ragione che possiamo basarci su conoscenze maggiori e più dirette, ma anche perché l'esperienza italiana è per il momento la più significativa. Dicendo questo, non crediamo di cedere a una tentazione sciovinista né a una presunzione di partito. Si tratta di prendere atto di quello che esiste e che è il risultato non tanto dell'iniziativa di coloro che si sono impegnati nell'impresa, quanto delle vicende, particolarmente ricche da tutti i punti di vista, che il movimento operaio ha vissuto nell'arco dell'ultimo mezzo secolo (per non risalire più lontano). Progetti e tentativi di rifondazione non sono mancati e non mancano in altri paesi, dalla Francia alla Spagna, dalla Grecia al Portogallo e, mutatis mutandis,

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nella stessa Germania riunificata. Ma per ora la tendenza prevalente, anche se non esclusiva, è sembrata un'evoluzione verso partiti socialisti o socialdemocratici, con rotture, per così dire, sulla destra dei partiti comunisti, e comunque di portata non paragonabile alla rottura di Rimini del febbraio 1991. L'esistenza di condizioni oggettive su cui basare non utopisticamente o velleitariamente una rifondazione comunista non costituisce di per sé una garanzia di riuscita dell' operazione. È una considerazione che può apparire banale, ma non è inutile fari a perché questa elementare verità deve costituire uno stimolo all'azione, all'azione organizzata, conditio sine qua non di un'inversione di tendenza e di un successo a medio e a lungo termine. Un'altra cosa ovvia è che dobbiamo essere coscienti delle enormi difficoltà che ci troveremo di fronte, senza lasciarci abbacinare dai successi parzialmente conseguiti. Ma non si tratta genericamente di difficoltà. Dobbiamo fare i conti con vere e proprie contraddizioni o antinomie che non esistono solo nelle nostre teste, ma prima ancora nella realtà. Queste antinomie hanno al tempo stesso radici antiche e origini più recenti e, in generale, si presentano oggi in forme più dirette e, storicamente parlando, più urgenti che in qualsiasi altro momento della vicenda secolare del movimento operaio. Per cominciare, passiamole rapidamente in rassegna, prima di affrontare la problematica che ne deriva nei capitoli successivi. Esiste innanzi tutto una contraddizione tra la crescente interdipendenza o, più precisamente, internazionalizzazione dell'economia e, in ultima analisi, delle dinamiche socio-politiche, da un lato, e, dall'altro, l'esplodere di forze centrifughe molteplici e, per quanto riguarda il movimento operaio, una frammentazione estrema c.on l'assenza di ogni punto di riferimento unificatore o anch~ solo coordinatore sul piano internazionale. Una seconda contraddizione è quella tra la necessità di superare il "modello" capitalistico di regolazione dell' economia a posteriori, tramite il mercato, con tutte le sue conseguenze devastatrici, e di istituire una regolazione ex ante, cioè una programmazione cosciente e attiva, da una parte, e, dall'altra, le tendenze attualmente prevalenti all'enfatizzazione del decentramento, delle autonomie locali e aziendali, alla negazione del ruolo dello Stato o di istituzioni politiche centrali, con la proclamazione del valore universale delle "leggi del mercato".

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In terzo luogo, c'è contraddizione tra le conclusioni unilaterali e impressionistiche che si traggono, nella maggior parte dei casi, dai bilanci di fallimento delle società di transizione burocratizzate e degli stessi partiti operai dei paesi capitalisti e che portano a una accettazione, per convinzione o per malinteso "realismo", del quadro della società esistente come l'unico possibile, almeno per un periodo di tempo indefinito, e la necessità di prospettare un'alternativa globale, di strategia anticapitalista.e di rilando delle lotte, per costruire o ricostruire movimenti e organizzazioni. In quarto luogo, esiste la contraddizione tra la frammentazione e scomposizione subite dal proletariato con le conseguenti trasformazioni, già avvenute o potenziali, nel suo tessuto. e con il suo indebolimento strutturale, per temporaneo che possa essere, e l'esigenza di una ricomposizione, riunificazione e ricentralizzazione per far fronte alle offensive avversarie in corso e a maggior ragione per rilanciare un'offensiva con obiettivi strategicamente alternativi. Sul piano più strettamente politico, c'è una almeno parziale contraddizione tra la necessità di opporsi ai disegni di "democrazia autoritaria" difendendo i diritti democratici acquisiti, siano o no iscritti nella Costituzione, e il rischio di arroccarsi su una posizione essenzialmente difensiva, apparendo come dei conservatori dello status quo nel momento in cui cresce negli sirati più larghi della popolazione il rigetto del regime esistente. Sul piano più specificamente culturale esiste poi una contraddizione tra l'esigenza di affermare un rinnovamento culturale, per così dire, rifondativo e l'ondata conservatrice e reazionaria che ha investito la cultura e gran parte dei suoi protagonisti, provocando rigurgiti delle peggiori tradizioni e dei più logori "valori" del passato. Da un punto di vista più soggettivo, la contraddizione più difficile da superare è quella tra l'esigenza di ul)a rottura di continuità con la mobilitazione di forze giovani, che non abbiano subito l'usura delle generazioni precedenti e siano in grado di porsi sulla stessa lunghezza d'onda delle generazioni nuove, e la necessità di utilizzare in questa fase forze "vecchie", che, al di là delle intenzioni soggettive, sono segnate e condizionate da esperienze, impostazioni e cariche emotive del passato. È una semplice contastazione che lo iato è ancora più grande a livello di quadri e di dirigenti. Infine, esiste una contraddizione tra il peso inerziale di una tradizione

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di patemalismo burocratico e conservatore, caratteristica comune di tanta parte del movimento operaio dalle sue stesse origini, e 1'esigenza di inaugurare e sviluppare una reale democrazia operaia, tradotta in forme di partecipazione dirette e permanenti, che è una delle condizioni essenziali perché la classe operaia riacquisti fiducia nelle proprie forze e ritrovi una propria identità. Il superamento di tutte queste antinomie non potrà avvenire, in ultima analisi, che nella pratica, sulla base delle esperienze che saranno fatte collettivamente. Ma il primo passo è prendeme coscienza e definime le origini e la portata.

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Capitolo quinto CONTRADDIZIONI

INTERNAZIONALI

Il tema dell'interdipendenza economica su scala mondiale è stato uno dei leit motiv di Gorbaciov che si è tradotto in abbozzi di teorizzazione al momento culminante della sua parabola!. È noto quale conclusione Gorbaciov stesso ne avesse tratto: si doveva abbandonare ogni idea di "contrapposizione frontale", adottare "un orientamento volto a un inserimento organico nel processo mondiale dello sviluppo economico" e comprendere che non si trattava più di "contrapporsi agli altri", ma di "sforzarsi di risolvere insieme ad essi i problemi economici (dell'URSS)". Questa problematica gorbaciovana è stata largamente ripresa nel movimento operaio, non solo dal vecchio PCI e da altri partiti di indirizzo eurocomunista, ma anche da partiti socialdemocratici che ne traevano confernia delle loro analisi e dei loro orientamenti. A ben riflettere, il concetto di interdipendenza appare subito banalmente descrittivo o, quel che è peggio, mistificatorio. Se usandolo si vuole sottolineare che i rapporti economici si sviluppano sempre di più con una interconnessione internazionale, la constatazione è ovvia e non costituisce un apporto originale alla teoria. Ma, a rigore, non si tratta tanto di una "interdipendenza" quanto di un' egemonia esercitata dai paesi e dai gruppi economici più forti, di un rapporto di dominazione-dipendenza imposto ai paesi sottosviluppati, alla quasi totalità della loro popolazione, oltre che ai salariati degli stessi paesi industrializzati. In altri termini, assistiamo a una "unificazione" del mondo sotto il segno di una sempre

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più affannosa ricerca del profitto, con tutti i mezzi e in ogni angolo del globo.

Internazionalizzazione, mondiale

grandi aree economiche e conflittualità

Detto questo, bisogna evitare ogni interpretazione semplicistica del processo di internazionalizzazione. Si tratta in realtà di un processo contrastato e segnato da molteplici contraddizioni. In primo luogo, un richiamo forse non superfluo. L' internazionalizzazione dell'economia, intrinsecamente legata alla concentrazione del capitale, non comporta una sorta di sviluppo mondiale regolato più o meno consensualmente dalle multinazionali e dalle grandi compagnie con base nazionale, ma si accompagna a una concorrenza sempre più aspra tra gli stessi gruppi dominanti, costretti a contendersi sempre di più gli stessi spazi. La battaglia in corso tra i grandi gruppi automobilistici è un esempio di per sé eloquente. Duri colpi sono stati subiti anche dai gruppi più poderosi, come la General Motors e la Ford, ed è una previsione diffusa negli ambienti interessati che il numero dei contendenti si restringerà inevitabilmente nell' arco di un decennio, quali che siano le forme specifiche del processo. In secondo luogo, esistono tensioni e conflitti costanti fra le tre grandi aree economiche, quella della CEE, dell' America del Nord, che mira a estendersi a tutta l'America Latina, e quella giapponese del Sud-Est asiatico e di una parte dell' area del Pacifico. Le difficoltà esistono anche all'interno di ciascuna area, per il loro completamento e consolidamento. Basti pensare ai conflitti all'interno della stessa CEE, anche dopo la firma del trattato di Maastricht. E non si tratta tanto, come pretendono gli europeisti più radicali o più ingenui, di incomprensioni o di riflessi conservatori, quanto di concreti conflitti di interessi, che riguardano questioni tutt' altro che secondarie, come la politica agricola, l' atteggiamento verso i concorrenti extraeuropei, l'unificazione monetaria e la Banca unica. La riunificazione tedesca ha reso le cose ancora più difficili. Discorsi analoghi si potrebbero fare per l'area dell' America del Nord, per non parlare delle difficoltà ancora maggiori che deriverebbero da un'eventuale inclusione dei paesi sudamericani. Per lo stesso Giappone gli ostacoli da superare non sono affatto trascurabili.

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Un' altra, sostanziale difficoltà: la definizione e l'organizzazione delle diverse aree di influenza sono rese più difficili dal fatto che ormai da tempo l'internazionalizzazione non solo ha accantonato i confini nazionali, ma ha contemporaneamente valicato i limiti delle varie aree sovrannazionali. Come è noto, c'è una consistente presenza di multinazionali nordamericane in Europa occidentale e di grandi gruppi europei negli Stati Uniti, per non parlare della tanto temuta penetrazione giapponese sulle opposte sponde dell' Atlantico. Siano o no realizzati i progetti attuali, la prospettiva resta quella di lotte senza quartiere, che potrebbero provocare ritorni di fiamma protezionistici e quindi rimesse in discussione almeno parziali del quadro unificato delle diverse aree. Al di là dei problemi economici, esistono problemi più strettamente politici, in particolare per quanto riguarda la Comunità europea. Nelle intenzioni dei suoi promotori e dei suoi ideologhi, questa comunità dovrebbe trasformarsi a scadenza non remota in una comunità politica, con il superamento dei diversi Stati nazionali. Proprio a questo livello va individuata una contraddizione cruciale: da un lato, gli Stati nazionali costituiscono un ostacolo al completamento del mercato unico e alla realizzazione di una compiuta unità economica, ma dall' altro, anche facendo astrazione del persistere di specifici interessi dei singoli paesi, lo Stato nazionale resta uno strumento essenziale di intervento politico e sociale - in ultima analisi, anche economico - per assicurare un equilibrio relativo delle distinte società europee e preservare i loro regimi; ed è difficile immaginare che questa funzione possa essere assolta entro scadenze ragionevolmente prevedibili da uno strumento nuovo, da un apparato statale sovrannazionale. Il problema si complicherebbe ulteriormente c'è appena bisogno di dirlo - se si realizzassero i progetti di allargamento della comunità a paesi dell'Europa centro-orientale. È opinione diffusa che, visto che il nemico comune "comunista" non esiste più o non costituisce più una minaccia, si acutizzeranno i conflitti tra le potenze imperialiste. Alcuni hanno persino affermato - con eccessivo semplicismo analitico -che la guerra del Golfo, nei disegni di Washington, era diretta contro la Germania e il Giappone non meno che contro l'Irak di Saddam Hussein. Ed è stata egualmente ventilata l'ipotesi che si possa giungere in prospettiva a nuove guerre interimperialistiche. Lasciamo stare le speculazioni confinanti con la fantapolitica. Resta che la tendenza insopprimibile all' acutizzazione dei conflitti potrebbe effettiva-

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mente assumere dimensioni militari. Questo non significa necessariamente vere e proprie guerre tra i paesi imperialisti: almeno per il periodo per cui si possono avanzare delle ipotesi, un tale sbocco comporterebbe un rischio così grande per il sistema nel suo complesso e i risultati apparirebbero così aleatori che un qualsiasi gruppo dirigente di una grande potenza ben difficilmente imboccherebbe questa strada. Tuttavia - qui non parliamo più di ipotesi, ma di dibattiti e progetti attuali - proprio perché la forza militare e la capacità di intervenire in conflitti armati e contro "nemici" di nuovo tipo costituiscono un fattore che pesa sul piano politico e quindi anche su quello economico, paesi che per ora non si erano armati che parzialmente (anche se più di quanto comunemente si creda) potranno essere indotti ad accrescere notevolmente il loro potenziale militare. Questa è, a quanto pare, la lezione che hanno tratto dalla guerra del Golfo la Germania e il Giappone. In secondo luogo, è più che giustificata l'ipotesi di un accentuarsi della tendenza a conflitti locali o regionali, di cui sappiamo quale possa essere il prezzo in termini di perdita di vite e di sofferenze umane, di devastazioni materiali e di disarticolazione dell' economia. La crisi delle società di transizione burocratizzate con tutte le lacerazioni e i conflitti anche militari che ne sono derivati, da una parte e, dall' altra, le situazioni esplosive esistenti in tutta una serie di paesi sottosviluppati hanno accresciuto nei vari gruppi dirigenti, con funzioni nazionali e internazionali, la preoccupazione che si accentuino e si moltiplichino in varie regioni del mondo le forze centrifughe più disparate, con processi sempre più incontrollabili di decomposizione e di disgregazione. Non si tratta di un allarmismo infondato o semplicemente della volontà di evocare scenari catastrofici a fini politico-propagandistici. Per convincersene, basterebbe richiamare le crisi, i conflitti, le vere e proprie guerre che hanno scandito gli ultimi trent' anni e che in molti casi non sono stati ancora superati: dalla guerra di Algeria a quella del Vietnam e alla spedizione imperialista nel Golfo Persico; dai conflitti libanesi alla guerra Iran-Irak; dalle guerre civili nell' America centrale ai massacri compiuti dalla dittature nel Cile e in Argentina; dalle tragiche vicende della Cambogia alla guerra dell' Afghanistan; dai conflitti nell' Africa del Sud alle guerre civili in una serie di altri paesi africani, dal Biafra al Sudan passando per l'Angola; dalla lotta armata in Tailandia a quelle nelle Filippine; dalle spedizioni francesi nel Ciad all'occupazione britannica nell'Irlanda del Nord; e si potrebbe continuare, per finire con la guerra

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civile che ha dilaniato l'ex-Jugoslavia e con gli scontri armati nel Caucaso e in altre regioni dell'ex-Unione Sovietica. È un quadro di instabilità e di conflittualità esteso a tutti i continenti. È in questo contesto che va individuato un fenomeno cui già abbiamo accennato, cioè l'erosione e l'indebolimento che subiscono, anche dal punto di vista sociale, le stesse classi dominanti. Che per quanto riguarda i paesi sottosviluppati uno dei punti essenziali di debolezza del sistema neocoloniale sia consistito nell'incapacità nella grande maggioranza dei casi, se non dappertutto - di creare una borghesia indigena socialmente consistente e capace di assolvere un ruolo politico stabilizzante, dovrebbe essere chiaro a tutti. Dovrebbe essere chiaro egualmente che alla radice dell'attuale instabilità dei paesi centro-europei e ancor più nell'ex-URSS è l'inesistenza o l'esiguità estrema di una classe dominante capace di imporre, con le necessarie mediazioni e alleanze, la propria egemonia, una volta che il vecchio strato dominante, la burocrazia, è letteralmente esploso senza essere più in grado di agire come forza dirigente complessiva e dato che esistono solo embrioni di nuova borghesia. Ma la crisi non risparmia la stessa borghesia dei paesi imperialisti, il cui peso specifico sociale subisce pure un restringimento, con conseguenze ancor più trasparenti a livello politico. Le crescenti difficoltà che conoscono attualmente vari paesi europei, al limite di vere e proprie crisi del sistema politico, sono, in ultima analisi, il riflesso di tutto questo. Che la gestione "socialista" più che decennale di Mitterrand e quella quasi altrettanto lunga di Gonzalez abbiano garantito il funzionamento del sistema secondo la logica capitalistica e nell'interesse della borghesia, per di più con l'adozione di misure niente affatto diverse da quelle adottate altrove da governi conservatori, è una constatazione fatta sempre più esplicitamente anche da portavoce e da ideologhi della classe dominante. Ciò non sminuisce il valore del fatto che la borghesia francese e la borghesia spagnola non abbiano saputo esprimere un proprio gruppo dirigente, capace di assumersi direttamente un ruolo egemonico, sul piano politico e tuttora abbiano difficoltà a farlo, nonostante l'usura estrema del mitterrandismo e l'usura crescente del gonzalismo. Nella stessa Gran Bretagna, la scelta di rinnovare la fiducia al gruppo dirigente conservatore non è stata affatto univoca, se è vero che alla vigilia del voto il "Pinancial Times", portavoce secolare della borghesia britannica, ha sottolineato i vantaggi di una soluzione laburista2.

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Le manifestazioni o le anticipazioni di una crisi non mancano neppure nei principali paesi extra-europei. Il sistema politico giapponese, pur così a lungo consolidato attorno all'egemonia del Partito liberaldemocratico, è scosso da una serie di conflitti e di scandali clamorosi, che hanno, tra l'altro, portato alla luce del sole i legami tra classe dirigente e malavita organizzata. Quanto agli Stati Uniti, le stesse elezioni primarie non ancora concluse mentre scriviamo, offrono uno spettacolo miserando dei mezzi cui devono ricorrere i candidati per carpire il consenso degli elettori e, quel che è ancora più importante, l'incapacità della classe dominante di esprimere gruppi dirigenti rinnovati, o comunque capaci di affrontare gli ardui compiti di un paese che è afflitto da un declino prolungato e pretende ancora di esercitare un ruolo egemonico su scala mondiale. Se questo è il quadro del mondo attuale, per tornare al punto di partenza, non si può certo condividere la prospettiva strategica di Gorbaciov. Non si tratta di cercar di risolvere insieme i problemi comuni, ma di constatare l'impasse storica in cui si trova il capitalismo, le contraddizioni a tutti i livelli del suo sistema, e di comprendere che la via d'uscita, se si vogliono evitare nuove e più devastanti catastrofi mondiali, è la lotta per una globale alternativa anticapitalistica e socialista.

Socialismo: insopprimibile

dimensione sovrannazionale

Uno dei dibattiti storici nel movimento operaio su scala internazionale è stato quello sul socialismo in un paese solo. Non riprendiamo qui i temi della controversia degli anni '20. Il verdetto dell' esperienza è ormai indiscutibile: dovrebbe essere chiaro agli occhi di tutti che quello che è stato costruito "in un paese solo" o in diversi "paesi soli" ha ben poco a che vedere con il socialismo. Ricordiamo la sintetica definizione del socialismo da parte di Rosa Luxemburg: il socialismo è "quella forma economica, che è insieme forma mondiale per eccellenza e sistema in sé armonico, in quanto rivolto non all'accumulazione, ma al soddisfacimento dei bisogni di vita dell'umanità che lavora, mediante lo spiegamento di tutte le forze produttive della terra" (Accumulazione del capitale, Einaudi, Torino, p. 196). Per l'appunto: da un punto di vista marxista il socialismo in un paese solo è una vera e propria contraddizione in termini. Il titolo stesso di legittimità storica del socialismo rispetto al capitalismo consiste,

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in ultima analisi, nella sua capacità di organizzare l'economia entro un quadro unitario su scala mondiale, ponendo fine agli squilibri laceranti e alle spaventose devastazioni che sono il prodotto del "libero mercato", cioè di una concorrenza sempre più sfrenata, entro e, sempre di più, oltre i confini degli Stati nazionali. Se, poi, si pone il problema in prospettiva, nel contesto attuale, ci si rende subito conto che una costruzione socialista su scala nazionale e potremmo ormai aggiungere anche SUscala di aree geografiche separate è ancora più improponibile che settant' anni or sono. Nel caso dei paesi sottosviluppati, una tale costruzione, anche a prescindere da misure politiche di blocco o da minacce militari del genere di quelle che tanto hanno pesato su Cuba e sul Nicaragua, sarebbe ostacolata inevitabilmente dall' arretratezza delle basi di partenza che, per di più, continuerebbero a essere condizionate in modo soffocante dalla persistente egemonia mondiale del capitalismo. C'è oggi, incontestabilmente, una presa di coscienza di tutto questo, cioè degli ostacoli e delle contraddizioni con i quali si scontrerebbe un regime rivoluzionario sin dall'indomani del rovesciamento dell' ancien régime. Ma, specie dopo l'esperienza nicaraguense e in misura quella cubana, nelle stesse file dei movimenti latino-americani, si è diffusa la tendenza a una radicale revisione strategica e ideologica, se non addirittura a una rinuncia agli obiettivi rivoluzionari socialisti e a una battaglia antimperialista3. Questo mentre non c'è più che in passato il minimo fondamento oggettivo per supporre che si possa mettere fine agli orrori del sottosviluppo nel quadro del sistema esistente. Ecco una contraddizione con la quale si scontrano i rivoluzionari in America Latina come in altri continenti. Nel caso dei paesi industrializzati, la cui dinamica economica da tempo ha varcato i confini na7:ionali, il socialismo in un paese solo comporterebbe una lacerazione traumatica dell' attuale tessuto economico, con una involuzione di portata difficilmente ca1colabile ma comunque improponibile da un punto di vista socio-politico. Del resto, quanto pesi il contesto sovrannazionale, lo hanno sperimentato, a loro modo, governi anche assai moderatamente riformatori, come il primo governo francese dopo l'elezione di Mitterrand, che pure non intendeva rimettere neppure lontanamente in discussione i meccanismi del sistema. Specie nei paesi della CEE c'è oggi una diffusa consapevolezza che le stesse battaglie per rivendicazioni economiche e sociali parziali, come

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pure per una estensione dei diritti democratici, non si possono credibilmente impostare senza tener conto dei condizionamenti sovrannazionali. Ma da questa giusta premessa le direzioni operaie politiche e sindacali non traggono la conclusione che il problema di una strategia di lotta sovrannazionale è sempre più urgentemente all' ordine del giorno. Al contrario, accettando la logica della concorrenza capitalistica, pongono al centro delle loro preoccupazioni la competitività dei diversi settori economici o delle diverse aziende "nazionali": accettano quindi dei limiti alla dinamica salariale e una erosione delle garanzie sociali acquisite in passato e rinunciano a ogni seria battaglia per la riduzione degli orari di lavoro. Non si rendono conto o non vogliono rendersi conto che tali comportamenti vanno comunque a detrimento di settori o strati di classe operaia di questo o quel paese o di una serie di paesi, cioè di quelli usciti perdenti dalla concorrenza. Il risultato finale, in ultima analisi~ non potrà essere che un indebolimento della classe operaia nef suo complesso, un logoramento del suo peso specifico, e quindi un 'ulteriore evoluzione negativa dei rapporti di forza, indipendentemente dal fatto che questo o quel settore e questo o quel un paese possano essere colpiti prima o più gravemente-di altri. Tutte queste contraddizioni possono essere sintetizzate in quella che è la contraddizione centrale della fase attuale: mentre, come si è visto, gli obiettivi delle lotte economiche e sociali e i progetti politici, per essere credibili, devono avere sempre di più una dimensione sovrannazionale, il movimento operaio è più che mai lacerato da tendenze centrifughe, diviso e frammentato, trascinato in una logica di ripiegamento settori aie o corporativo e privo di ogni credibile punto di riferimento internazionale su scala di massa. Questa contraddizione, di cui sperimentiamo letteralmente ogni giorno la portata paralizzante e sterilizzante e al cui superamento, almeno tendenziale, è legata la possibilità di una nuova fase di ripresa e di rilancio, non potrà essere superata ribadiamolo ancora una volta unicamente con enunciazioni teoriche, ma soprattutto nella pratica, con nuove, vivificanti esperienze di massa. Non per questo sono meno indispensabili lucidità analitica e sforzi di generalizzazione, soprattutto in un momento in cui, ripetiamo lo, si pongono interrogativi di fondo e primordiali questioni di identità. È compito in particolare dei militanti impegnati nell'impresa di rifondazione comunista agire sin d'ora perché si realizzino iniziative di solida-

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rietà e di unità d'azione tra sindacatie altre organizzazionidi massadi vari paesi, perché siano fissati obiettivi unitari e siano definiti piani di lotte concrete contro il comune avversario, perché si cominci a delineare una più generale strategia anticapitalista. Vada sé che iniziative e azioni in questo senso dovrebbero tendere a coinvolgere, da una parte, movimenti e organizzazionidei paesi sottosviluppati, dall'altro, le forze che faticosamente cercano di organizzarsi nei paesi scossi dalla crisi delle società di transizione burocratizzate. In ultima analisi, se la posta in giuoco ha necessariamente dimensioni mondiali, sarebbe perfettamente illusorio e addirittura suicida pensare di impegnarsi nelle battaglie di oggi e di domani senza una impostazione sovrannazionale e senza disporre di strumenti organizzativi internazionali della classe operaia e delle altre classi sfruttate. Note 1 Ci riferiamo in particolare all'articolo comparso sulla "Pravda" del 26 novembre 1989, che abbiamo analizzato in "Gli orizzonti teorici di Michail Gorbaciov", "Bandiera Rossa", n. 1, gennaio 1990. 2 L'articolo pubblicato dal "Financial Times" alla vigilia delle elezioni del 9 aprile 1992 è un vero e proprio pezzo da antologia, che illustra sobriamente le ragioni per cui, da un punto di vista della classe dominante, un governo laburista poteva essere preferibile a un governo conservatore per la gestione della società britannica nel contesto dato. 3 Concezioni e orientamenti del genere sono stati espressi, per esempio, da un dirigente nicaraguense come Tirado Lopez e da un dirigente salvadoregno come Joaquin Villalobos.

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Capitolo sesto QUALE MODO DI PRODUZIONE?

Specie dopo l'inizio della crisi delle società di transizione burocratizzate, imperversano nelle stesse file del movimento operaio ideologie anticollettivistiche, privatistiche e individualistiche. Anche molti di coloro che si sforzano di individuare le radici della crisi senza rinunciare a una critica del capitalismo, lo fanno spesso servendosi di ricorrenti stereotipi con il rischio di accrescere la confusione e di rendere ancora più difficile la definizione di una alternativa.

"Economicismo" e "statalismo" In realtà, bisognerebbe evitare di aggirare i problemi con l'uso astratto di concetti di cui non si precisino i contenuti. Così: per riprendere una tematica cui abbiamo già accennato, l'involuzione e la crisi delle società burocratizzate non sono da attribuire agli errori o ai peccati di un generico economicismo, ma al fatto che sono state imposte priorità economiche che comportavano squilibri tra i vari settori produttivi (per esempio, un privilegiamento indiscriminato e prolungato dell'industria pesante e dell'industria militare rispetto all'industria dei beni di consumo e della stessa agricoltura), che i piani sono stati elaborati verticisticamente e autoritariamente e che la difesa e l'estensione dei privilegi consumistici o di altro genere dello strato sociale dominante sono stati una molla ben più potente

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dell' esigenza di soddisfare i bisogni delle grandi masse. Così la deformazione statalistica è consistita non in un generico uso di istituzioni statali come strumenti regolatori dell' economia, ma dalla progressiva trasformazione dello Stato rivoluzionario, basato sui soviet, cioè su organismi di auto-organizzazione di massa (purtroppo di effimera durata), in un apparato dittatoriale elefantiaco, funzionale alla difesa del potere politico e dei privilegi sociali della casta dominante. Anche quando ci sono stati tentativi di attenuare le tensioni con misure di decentramento o di relativa autonomia aziendale, mai è stato rimesso in discussione il potere decisionale di ultima istanza della burocrazia centrale né il potere sostanziale dei manager ai vertici delle aziende. Nel caso-limite della Jugoslavia il sistema dell'autogestione, destinato sulla carta ad assicurare una effettiva democratizzazione dell'economia, è finito in un vicolo cieco in assenza di una pianificazione democratica su scala federale. È stata un 'ulteriore conferma del fatto che il centralismo burocratico non può, in ultima analisi, essere scongiurato se non con la soppressione dei meccanismi complessivi della società burocratizzata, con il rovesciamento del suo strato sociale dominante. Questo rovesciamento non è di per sé la soluzione del problema, ma ne è la condizione pregiudiziale storicamente necessaria. Non è forse inutile spendere qualche parola sullo "statalismo" nelle società capitaliste contemporanee, ricordando quali interessi e fattori specifici abbiano stimolato l'intervento dello Stato nell'economia, anche a livello di rapporti di produzione. Un caso classico è stato, per esempio, quello delle misure di statizzazione che negli anni '30 hanno portato in Italia alla formazione dell'IMI e dell'IRI. Come molti hanno già allora indicato!, si è trattato in realtà di una specie di "socializzazione" delle perdite, a vantaggio di settori capitalistici che più direttamente erano stati colpiti dalla depressione del 1929-32. Altra variante: i capitalisti privati non vogliono o non possono farsi carico di settori pure indispensabili allo sviluppo dell'economia, per esempio i trasporti ferroviari e la ricerca e l'utilizzazione di nuove fonti di energia, e preferiscono che se ne occupi lo Stato, servandosi magari il diritto di esigere privatizzazioni o riprivatizzazioni qualora questi settori assicurassero un profitto. In questi casi il problema non è di criticare genericamente le "statizzazioni", ma di chiarire la natura di statizzazioni che non cambiano non solo il modo di produzione, ma neppure i meccanismi di gestione, su cui i lavoratori e i cittadini in generale non possono esercitare il benché minimo controllo. C'è appena

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bisogno di aggiungere che oggi gran parte delle reazioni antistatalistiche prendono di mira proprio queste forme di gestione e, a maggior ragione e giustamente, la vergognosa utilizzazione clientelare di quello che dovrebbe essere patrimonio collettivo.

Quale alternativa? Esiste un'alternativa al sistema economico capitalistico? Ecco una domanda cui troppi, anche nel movimento operaio, danno, più o meno esplicitamente, una risposta negativa. La nostra risposta, invece, deve essere: nessun movimento di rifondazione potrà gettare solide fondamenta ed esercitare una forza di attrazione sociale, se non afferma senza nessuna reticenza la finalità del rovesciamento della società esistente, delineando un progetto alternativo. Soprattutto dopo la crisi della vecchia URSS e dei paesi dell'Europa centro-orientale, sarebbe prova non di miopia, ma di assoluta cecità cercar di eludere questo interrogativo, vivendo alla giornata, limitandosi a proclamare genericamente una identità comunista o facendo ricorso alle astratte enunci azioni di antieconomicismo o di antistatalismo che già abbiamo criticato. Neppure ci si potrà trarre di impaccio aggrappandosi alla categoria di economia mista. Per convincersene, basti pensare all'uso che si è fatto di questa formula con i riferimenti più disparati: dall'Egitto di Nasser al Nicaragua sandinista, per non parlare del nostro stesso paese2. Si tratta, tutt' al più, di una categoria empirica che serv.e a descrivere situazioni in cui, accanto ai meccanismi capitalistici più classici, esiste un diretto e consistente intervento dello Stato con la creazione di settori produttivi cosiddetti pubblici. Se non si vuole eludere il problema e contribuire alla sua mistificazione, la domanda cui bisogna rispondere è se si accetta una prospettiva di mantenimento del sistema attuale a scadenza indefinita oppure se ci si pone l'obiettivo, quali che siano le scadenze, della rottura del modo di produzione esistente e della sua sostituzione con un modo di produzione diverso qualitativamente, collettivistico, cioè non più basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sull'imperativo del profitto. In un momento di così diffusa amnesia storica non è superfluo ricordare

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che, indipendentemente dalla diversità di concezioni sui metodi di lotta, i partiti socialisti delle origini e i partiti comunisti nati da scissioni dalla socialdemocrazia avevano dato, gli uni e gli altri, una risposta non ambigua optando per il secondo corno del dilemma. Un elemento essenziale della parabola involuti va che li ha portati in un vicolo cieco, è stato la progressiva diluizione di questo obiettivo con l'adozione di una strategia di passaggio graduale al socialismo dai contorni sempre più sfumati e, in conclusione, con la rinuncia, prima nella pratica, poi anche nelle formulazioni programmatiche, a ogni finalità anticapitalista e collettivi sta. Il punto di partenza sul piano programmatico di un' impresa di rifondazione comunista, che non sia un abuso di termini, deve essere la presa di coscienza e l'affermazione esplicita che l'alternativa implica come conditio sine qua non la scelta di un nuovo modo di produzione. Dopo tante mistificazioni e false polemiche va aggiunto subito che non si tratta solo di sostituire meccanismi più propriamente economici con altri meccanismi economici, bensì di lottare per una nuova egemonia sociale e per un nuovo potere politico in connessione intrinseca con un nuovo modo di produzione. Ripetiamolo un'ennesima volta per evitare equivoci: il modo di produzione collettivistico che dobbiamo prospettare non ha nulla a che vedere con l'economia burocraticamente statizzata che è prevalsa nell 'URSS a partire dalla metà degli anni '20 e in altri paesi dopo la seconda guerra mondiale, che non può, da nessun punto di vista, costituire un "modello" per il movimento operaio e per i comunisti. Vale la pena, del resto, di ricordare che, per tutto un periodo, nei programmi dei partiti e dei sindacati operai il concetto più spesso usato è stato quello di socializzazione e non di statizzazione. Lo stesso vale per programmi redatti nei primi anni della Resistenza. Non si tratta solo di una differenza termino logica: il termine "socializzazione" esprime meglio che "nazionalizzazione" e, a maggior ragione, che "statizzazione", l'idea di una proprietà e di una gestione affidata alla società nel suo complesso. Comunque sia, non deve sussistere alcuna ambiguità su due elementi fondanti di un modo di produzione collettivistico in contrapposizione al modo di produzione capitalistico. Il primo elemento è che i mezzi di produzione non devono più appartenere a detentori privati, la cui finalità è percepire profitto, subordinando tutto il resto a questa finalità e al mantenimento del diritto di proprietà. Si potrà scegliere tra forme giuridiche diverse e diversi tipi di gestione: è

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ipotizzabile tutta una gamma di soluzioni, dalla socializzazione su scala nazionale e sovrannazionale a una gestione collettiva su scala locale o settoriale e, almeno per un certo periodo, cooperativa3. Ma, fondamentalmente, i mezzi di produzione devono essere proprietà sociale e servire prioritariamente al soddisfacimento dei bisogni della società, cioè alla produzione di valori d'uso, con uno sviluppo equilibrato dell'economia nel suo complesso. Il secondo elemento comporta una vera e propria inversione rispetto ai presupposti teorici e alla prassi del capitalismo. Come ogni sistema socio-economico, il capitalismo deve cercar di stabilire, in ultima analisi, un proprio equilibrio, rendendo operanti meccanismi regolatori del processo di accumulazione. Ma ciò si realizza tramite il mercato, regolatore decisivo. La vitalità di questa o quella azienda, di questo o quel settore è stabilita quindi a posteriori, con il ridimensionamento o l'eliminazione di questi o quei protagonisti e la prevalenza e il rafforzamento di altri. Tutti gli squilibri laceranti della storia del capitalismo, come quelli del capitalismo odierno, con la gigantesca dissipazione di risorse e con gli atroci costi sociali, sono, in ultima analisi, la conseguenza dei meccanismi di mercato, di una verifica operata a posteriori tramite la concorrenza. Se non si muta radicalmente questo sistema, non si creano neppure le condizioni preliminari per superare tutte le tensioni, le strozzature e le contraddizioni attuali che neppure i fautori del capitalismo possono far finta di ignorare. È necessario introdurre meccanismi di regolazione ex ante, cioè sostituire la logica animale del capitalismo con l'introduzione di elementi razionali, coscienti, di funzionamento, di organizzazione e di regolazione dell' economia~Si tratta di rendere possibile una progettazione sistematica che, partendo da verifiche analitiche e sperimentali, tracci linee di sviluppo che, per essere armoniose, equilibrate, prive di traumatiche fratture, non possono che essere globali, cioè abbracciare i centri nevralgici della produzione. Non dobbiamo avere esitazioni a usare il termine corrispondente a quella sostanza, cioè quello di pianificazione, anche se può apparire screditato dalla prassi staliniana e post-staliniana, una volta chiarito da quali esigenze irrinunciabili questa pianificazione sia determinata. Ogni pianificazione, che voglia essere tale, comporta necessariamente una centralizzazione. Ma nel mondo del duemila, data l' interconnessione tra i vari settori e la crescente internazionalizzazione dell' economia, supporre di poter prescindere da una centralizzazione sarebbe semplicemente assurdo.

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Equivarrebbe a ipotizzare romanticamente un ritorno a un' economia precapitalistica, a una somma di microcosmi autosufficienti, legati tra loro con forme più o meno primitive di baratto e di compensazione. Gli incubi alimentati dalle pianificazioni burocratiche e dispotiche vanno dissipati: una pianificazione non è inevitabilmente sinonimo di gestione verticistica, ma può e deve comportare la partecipazione attiva dell'intera società, cioè un'autogestione democratica. Questa autogestione deve attuarsi ai diversi livelli, di azienda e di settore produttivo, nell'ambito locale, nazionale e sovrannazionale, nessun livello essendo sufficiente separatamente dagli altri. I progressi straordinari della tecnologia e dei mezzi di comunicazione negli ultimi vent'anni e l'incontestabile elevamento dei livelli culturali, al di là di tutte le distorsioni giustamente denunciate, offrono le premesse oggettive della realizzazione di un simile progetto, su cui non hanno potuto contare- o hannopotutocontaresolodeltuttoparzialmente gli esperimenti di pianificazione tentati nel passat04.

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Essenzialità della democrazia socialista Questa impostazione del problema della pianificazione aiuta a comprendere l'essenzialità della democrazia socialista. TIproblema non è solo creare condizioni socio-economiche che diano un reale contenuto ai diritti democratici, ma egualmente assicurare una gestione democratica dell'insieme della società, a partire dall' economia, superando la dicotomia tra gestione economica ed esercizio del potere politico. Questo obiettivo non potrà essere realizzato se non con l'estensione e l'articolazione della democrazia a tutti i livelli, cioè con un attivo protagonismo di tutti i soggetti della nuova società: come produttori e produttrici, cioè lavoratori e lavoratrici, impegnati e impegnate nel processo produttivo, come consumatori e consumatrici, cioè persone che esigono di poter soddisfare i propri bisogni, e come cittadini e cittadine, capaci di determinare democraticamente tutte le scelte politiche. Solo una simile prassi democratica - reale nel senso più pregnante del termine per la prima volta nella storia -consentirà una ricomposizione della società e contemporaneamente una ricostruzione della personalità dei singoli componenti di questa società, sinora condannati alla parzializzazione, alla frammentazione e a una sostanziale mutilazione dai meccanismi alienanti di una società divisa in classi.

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Tutto quello che abbiamo detto non comporta nessun ultimatismo, teorico o pratico, che ignori la processualità di una edificazione socialista, una volta realizzato il salto qualitativo della rottura con la società capitalista. Così l'esigenza di mettere in opera un nuovo modo di produzione non implica che ci dovrà essere subito una socializzazione a tutto campo. Settori privati potranno sussistere nella misura in cui assolveranno funzioni non socializzabili in tempi brevi (quando si è voluto ignorarlo, si sono di norma provocate difficoltà e tensioni con la conseguenza ultima di ritardare o addirittura comprometter~, e non di accelerare, i processi auspicati). In particolare, questo potrà valere per certi settori dell'agricoltura e dell' artigianato. Analogamente, sarebbe assurdo in una società di transizione negare ogni funzione al mercato, che, al contrario, unitamente ad altre forme di controllo più diretto dei consumatori, costituirà un necessario strumento di verifica, per esempio della qualità dei beni di consumo. L'importante sarà che non abbia più la funzione determinante che gli è attribuita in un' economia capitalistica e che dovrà spettare, nella nuova società, agli organismi ai vari livelli dell'economia socializzata e pianificata5.

Note 1Cfr., per esempio, il libro di Pietro Grifone su Il capitale finanziario in Italia, Einaudi, Torino 1945 (scritto dall'autore al confino nell'isola di Ventotene). 2 Ricordiamo che in epoca fascista si è usato il termine "economia mista" per definire l'economia corporati va. 31nKautsky dell' epoca classica scriveva a questo proposito: "La proprietà dei mezzi di produzione può esistere, in una società socialista, nelle forme più diverse: ci potranno essere, le une accanto alle altre, proprietà nazionali, comunali, private; le cooperative di consumo e le cooperative di produzione potranno egualmente essere proprietarie" (La Révolution Sociale, Paris, Rivière, 1921 p. 197). 4 Per esempio, i mezzi usati per scegliere seduta stante a livello di milioni di persone i èantanti vincitori di un festival o i migliori calciatori di un incontro di cartello, potrebbero essere benissimo usati per inchieste e consultazioni a livello di massa su problemi economici, sociali e politici. 5 Cfr. a questo proposito certi scritti di Lenin dell'epoca successiva al comunismo di guerra e di Trockij della fine degli anni '20 e dei primi anni '30, cui ci siamo riferiti anche nell' introduzione all 'ultima edizione de La rivoluzione tradita, Mondadori,1990.

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Capitolo settimo QUALE STRATEGIA ANTICAPITALIST A?

Le difficoltà e le contraddizioni con le quali si scontra la riflessione necessaria sulle linee di una strategia anticapitalista, specie per quanto riguarda i paesi industrializzati, non sono certo minori di quelle che si devono affrontare per porre problemicrociali di una edificazionesocialista.

Difficoltà e contraddizioni Possiamo sintetizzarle, grosso modo, su tre piani: 1) Si fa oggi il bilancio di tutto un periodo storico di lotte del movimento operaio. Come abbiamo già accennato, si denunciano drasticamente tutti gli aspetti negativi o giudicati tali, ma non si sottopone a un vaglio critico sistematico quello che pur costituisce un aspetto centrale, cioè la strategia d'insieme adottata o prospettata sia dai partiti socialdemocratici sia dai partiti comunisti. 2) Anche quando si afferma la necessità di un rinnovamento radicale come premessa necessaria di ogni possibile rilancio, ci si pone sul piano dei riferimenti ideologici oppure su quello degli orientamenti e degli obiettivi a breve termine o di una fase determinata, ignorando il nesso tra i due piani, indispensabile per evitare le secche della pura e semplice giustapposizione. Si rinuncia, cioè, a prospettare un progetto strategico di

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lotta anticapitalistica, senza il quale, da un lato, l'eventuale raggiungimento di obiettivfparziali sarebbe precario e condannato a un'usura più o meno rapida, dall' altro, ogni proclamazione di intenti anticapitalistici si ridurrebbe a un esercizio declamatorio, propagandistico nel senso deteriore del termine. , 3) Il prolungarsi dell' onda lunga di ristagno e la crisi socio-politica che investe una serie di paesi pongono all'ordine del giorno non solo problemi di orientamento per una battaglia di difesa delle acquisizioni economiche e sociali degli scorsi decenni e dei diritti democratici, ma anche e soprattutto la problematica di una strategia più complessiva che permetta, a determinate condizioni, di passare al contrattacco e di far emergere un'alternativa che non si riduca a una semplice alternanza nell'assunzione di responsabilità di governo. Ma i rapporti di forza attuali a livello politico e il rafforzarsi di partiti o movimenti che prospettano soluzioni conservatrici e reazionarie, fanno apparire poco credibile, a breve e anche a medio termine, un' alternativa globale dal punto di vista dei lavoratori e velleitari i tentativi anche solo di delinearla. Per chiarire meglio il primo punto, le critiche e le autocritiche riguardano, per esempio, prese di posizione di governi o partiti socialdemocratici, linee di orientamento di partiti comunisti e atteggiamenti di direzioni sindacali; impostazioni di politica delle alleanze, in questo o in quel periodo; problemi di funzionamento delle organizzazioni e dei loro rapporti con movimenti di massa; .orientamenti e condizionamenti internazionali. Ma non si rimettono mai seriamente in discussione scelte strategiche che sono all' origine di errori e deformazioni o, comunque, hanno contribuito a determinarle. Eppure si tratta di una questione di fondo. Oggi più che in passato, partendo dalla crisi delle società di transizione burocratizzate e dal declino dei partiti comunisti in altre aree del mondo, si parla non solo di "fallimento del comunismo", ma anche di fallimento di ogni concezione e prospettiva rivoluzionaria. La lezione della storia è presentata come una condanna senza appello. Chi non si accontenti di sommarie e abusive generalizzazioni, per non parlare delle mistificazioni quotidiane, deve, tuttavia, porsi una serie di domande. Non ritorniamo qui sul "fallimento del comunismo" nell'Europa orientale e nell'URSS, di cui abbiamo già parlato. Ma, se si ripercorre la parabola storica del movimento operaio nei paesi capitalisti industrializzati, ecco gli interrogativi cui bisogna dare risposta: quali sono state le

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strategie del movimento operaio da un secolo a questa parte? quali risultati sono stati conseguiti? quali lezioni si possono trarre dalle esperienze fatte?

Una strategia mai sperimentata In primo luogo, una strategia di rovesciamento del sistema capitalista con una rottura rivoluzionaria non è stata avanzata che dai partiti socialisti nella loro prima fase (il più delle volte, del resto, in termini generici e non senza ambiguità) e dai partiti comunisti nel corso degli anni' 20 e all'inizio degli anni ' 30 (con la precisazione che durante il cosiddetto terzo periodo, più che dell'elaborazione di una strategia rivoluzionaria, si è trattato di ipotesi e progetti velleitari, in contrasto con la realtà e dettati dalle esigenze dello Stato sovietico e dell'incipiente stalinismo)l. Dunque, uno sforzo di elaborazione di una strategia rivoluzionaria non è stato fatto che durante periodi limitati e senza la sistematicità e la coerenza che ne consentissero l'assimilazione da parte di quadri e militanti di partito e di larghe avanguardie di movimenti di massa. Ancor più chiara è la risposta alla domanda se ci siano stati tentativi di traduzione in pratica di una simile strategia. Una rottura rivoluzionaria come obiettivo a breve e medio termine non è stata prospettata che nell'arco di qualche anno, sull'onda della rivoluzione d'Ottobre, in particolare in Germania e in Italia tra il 1919 e il 1923 (a parte i deliri del "terzo periodo"). Ma neppure in questi due casi-limite c'è stato un reale tentativo di tradurre in pratica una strategia rivoluzionaria. In Italia, le organizzazioni operaie non hanno certo agito con una tale prospettiva nel momento più alto della crisi, tra la primavera e l'autunno del 1920 (occupazione delle fabbriche). Quando, poi, è stato fondato il Partito comunista, che non ha raccolto che una minoranza, sia pure consistente, i rapporti di forza stavano già evolvendo a ritmo rapido a favore delle classi dominanti e delle forze politiche più reazionarie. Per quanto riguarda la Germania, non possiamo riprendere qui le analisi e i giudizi espressi su quel periodo dai punti di vista più diversi2. Ma la valutazione su cui c'è il maggior consenso, almeno tra comunisti, è che nel 1919 il partito allora largamente maggioritario, la socialdemocrazia, lungi dall' impegnarsi in un' azione rivoluzionaria, ha fatto il possibile per bloccare e soffocare ogni iniziativa

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in questo senso, mentre nel 1923 è stato il Partito comunista a giungere impreparato a scadenze decisive e quindi a non poter tradurre in pratica i progetti rivoluzionari che pure erano iscritti nelle sue tesi programmatiche. Non ci riferiamo, d'altra parte, alla guerra di Spagna per la semplice ragione che in quel caso sia il Partito socialista sia il Partito comunista sono partiti dal presupposto che il problema all'ordine del giorno fosse la difesa della repubblica democratica contro il fascismo e non la conquista del potere da parte del proletariato, agendo in conseguenza (non poniamo qui il problema della giustezza o meno di questo presupposto). La conclusione da trarre è che coloro che rifiutano ogni discorso di strategia rivoluzionaria non si basano affatto, come pretendono, su effettive esperienze storiche, ma impostano il problema in termini di auspicabilità di un'altra strategia, cioè, in ultima analisi, in termini ideologici. Una riflessione sistematica su un secolo di storia del movimento operaio dimostra, in realtà, che la strategia prevalsa quasi sempre nelle elaborazioni teoriche e ancor più nella pratica è stata quella riformista graduali sta, delineata già dalla fine del secolo scorso, a partire da Bernstein, nella socialdemocrazia tedesca, allora partito-faro dell'Internazionale socialista. Come, per parte nostra, abbiamo analizzato in altri saggi3, questa strategia è stata in larga misura adottata anche dai partiti comunisti dell'Europa occidentale, a partire dal VII congresso dell'Internazionale comunista nel 1935 e sempre più esplicitamente e sistematicamente dalla fine della seconda guerra mondiale. Quanto ai partiti socialdemocratici, hanno sempre più apertamente rinunciato all'obiettivo del superamento della società capitalista e le riforme di cui ancora parlano, sono concepite non come "approssimazioni successive" al socialismo, ma come misure di "democratizzazione" e di razionalizzazione del sistema esistente. Ora, l'esperienza anche degli ultimi decenni in Europa occidentale dimostra che una strategia riformista graduali sta può conseguire conquiste parziali anche significative, quando, per esempio, la situazione economica offra margini per concessioni salariali e le classi dominanti non abbiano bisogno di ricorrere a misure autoritarie, o, al contrario, quando una ristabilizzazione sia possibile solo con concessioni economiche e politiche, quale che sia il prezzo immediato che padronato e governo devono pagare. Ma non può rimettere in discussione il sistema in quanto tale e, lungi dall'inaugurare un passaggio graduale al socialismo, non evita l'usura, il riassorbimento o la soppressione delle stesse conquiste realizzate.

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Ribadiamolo: non si tratta di contrapporre alla politica condotta dalla quasi totalità delle organizzazioni operaie per oltre mezzo secolo - per non risalire più indietro - presupposti astrattamente dottrinari, ma di prendere atto di quello è stato il corso storico reale. Uno degli elementi più negativi e degli ostacoli più gravi per uno sviluppo positivo dell'impresa di rifondazione, consiste nel fatto che, almeno sinora, si è preferito eludere questo bilancio e, invece di partire dagli insegnamenti dell' esperienza fatta per costruire una nuova ipotesi strategica, si riprendono pigramente vecchi e abusati motivi. Esplicitamente o implicitamente, si continua a puntare su un'ipotesi gradualistica di "superamento" del capitalismo, formulata, non per caso, in termini generici e poco chiari, che rivelano, al fondo, scarsa chiarezza e scarsa consistenza.

Qualche ipotesi di orientamento Se vogliamo effettivamente rinnovare il movimento operaio, rifiutando una continuità che ci trasformerebbe nei profeti dell'inferno dantesco, costretti a camminare con la testa girata all'indietro, dobbiamo considerare compito primario l'elaborazione di una nuova strategia anticapitalistica, che corrisponda alle esigenze e sfrutti le potenzialità della fase attuale e delle fasi che si apriranno in futuro. È un compito che non potrà essere assolto che collettivamente, con il contributo pluralista di tutte le esperienze. Per parte nostra, ci limitiamo, come già nei capitoli precedenti, a suggerire alcune riflessioni e a proporre qualche indicazione di orientamento su problemi sul tappeto. Il punto di partenza per l'elaborazione di una strategia anticapitalistica resta la definizione della natura dello Stato. Un motivo ricorrente anche nelle file del movimento operaio è quello secondo cui il marxismo non avrebbe elaborato una vera e propria teoria dello Stato. Si tratta, sfortunatamente per i suoi sostenitori, di una tesi che non corrisponde affatto a verità. Certo, né Marx né altri marxisti hanno mai prodotto sull'argomento volumi ponderosi paragonabili a quelli di più o meno celebrati teorici borghesi. Ma hanno affrontato il problema almeno su tre piani dando risposte che ovviamente si possono discutere, ma di cui non si può negare 1