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Storia in Rete - Mensile - Compiega n. 101-102 marzo-aprile 2014 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In. A.P . - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona Storia in Rete - Mensile - Compiega n. 101-102 marzo-aprile 2014 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
Speciale numero 4 Aprile - Giugno 2014 4 Speciale numero Aprile - Giugno 2014
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Speciale Specialen. n.44--aprile-giugno aprile-giugno2014 2014
Gli Gli ultimi ultimigiorni giornidi diMussolini Mussolini Storia in Rete
periodico mensile mensile periodico Speciale n° n° 44 Aprile-Giugno Aprile-Giugno 2014 Speciale 2014 Compiega n° n° 101-102 101-102 Compiega Marzo-Aprile 2014 Marzo-Aprile 2014 anno X X anno [email protected] [email protected] fax 06 06 45491656 45491656 fax
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Sommario Sommario 04 Editoriale 10 04
Cronologia Editoriale
10 Atlante Cronologia 14 14 16 16 20 20 26 26
Atlante «Tutto da rifare, pover’uomo» «Tutto da rifare, pover’uomo» Aprile ‘45: la pacificazione impossibile Aprile ‘45: la pacificazione impossibile I tedeschi abbandonano la nave che I tedeschi abbandonano la nave che aff onda affonda
32 32 Collasso Collassototale: totale:leleforze forzedella dellaRSI RSI 38 25 25 aprile: aprile:calma calma(quasi) (quasi)piatta piatta 38
44 44 50 50 54 54
Arcivescovado: vertice degli equivoci Arcivescovado: vertice degli equivoci Appuntamento sul lago Appuntamento sul lago I dossier di Mussolini: da Milano Londra.diPoi, il nulla da Milano Iadossier Mussolini: Londra. Poi, il nulla 64 aChe errore fidarsi dei tedeschi...
64 72 86 72
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Obbiettivo Mussolini. In TV...
102 106 Esclusivo Esclusivo- Mussolini - Mussolinie egligli«Amerikani» «Amerikani»
118 La Lamorte mortedidiMussolini Mussolini 114 120 28 aprile: una giornata inverosimile 116 28 aprile: una giornata inverosimile 126 Una macabra messinscena 122 Una macabra messinscena 136 La pista inglese 132 Il dilemma di Giulino di Mezzegra 144 Il dilemma di Giulino di Mezzegra 136 148 IlIlcadavere cadaveren.n.167 167 154 Milza, Milza,un’occasione un’occasionesprecata sprecata 142 156 Dongo: Il pasticcio di Dongo 144 ma quante persone potevano essere «Valerio»? 160 Dongo: ma quante persone potevano essere «Valerio»? 154 La leggenda di Villa Belmonte: 170 dieci La leggenda Villa Belmonte: domandedisenza una risposta dieci domande senza una risposta 160 176 IlIlCarteggio CarteggioMussolini-Churchill Mussolini-Churchill
Che fidarsi dei tedeschi... Unaerrore spia chiamata Claretta
162 178 Spie: Spie:lalaversione versionedidiZehnder Zehnder
Dovespia sono finite leClaretta altre lettere Una chiamata del Duce a Claretta?
182 Oro Dongo, la storia finisce più 170 di Dongo: unanon catena di morti che attende giustizia 190 Oro di Dongo: una catena di morti che attende giustizia 174 Gianna e Neri: il conto è aperto 194 Gianna e Neri: il conto è aperto
86 sono fiMussolini. nite le altreInlettere 92 Dove Obbiettivo TV... del Duce a Claretta? 102 «Rapporto Mocarski»: niente di nuovo
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editoriale | d i F a b i o A n d r i o l a
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li ultimi giorni di Mussolini rappresentano uno dei più intricati e meglio tutelati enigmi della Storia non solo italiana. Per concordare con questa affermazione solo in apparenza azzardata basterà leggere le non poche pagine che compongono questo speciale. L’unicità dei fatti di Dongo – e dintorni – sta nel fatto che in poche ore (meno di tre giorni) e in uno spazio geografico abbastanza ridotto si concentrarono i piani e le azioni di numerosi attori anche di rilievo internazionale, per lo più in contrasto o per lo meno in competizione tra loro. Pochi altri enigmi storici hanno una tale complessità pur potendo vantare una simile massa di dati e testimoni e questo conferma che per mantenere un segreto non è necessario essere in pochi e fidati. Anzi – e quanti hanno letto l’inchiesta pubblicata da «Storia in Rete» nei mesi scorsi relativa al mistero di Luigi XVII possono capire – anche in presenza di molte perso-
ne a custodia di una verità la segretezza può essere tutelata benissimo. L’iperbole è solo apparente perché non c’è niente di meno affidabile di un testimone messo a confronto con altri testimoni e quindi il caos che ne deriva produce automaticamente – e chi ne ha interesse ha solo da aumentare le testimonianze – una cortina fumogena più efficace di un dossier chiuso in una cassaforte e inaccessibile per decenni o più. Tutto quello che gira intorno alla morte di Mussolini è più complicato di come la versione «ufficiale» (ufficiale solo perché ripetuta e ribadita in modo ossessivo da chi non aveva interesse a spiegare come siano andate davvero le cose) tende ad accreditare. E, a ben vedere, anche l’assenza di una verità storicogiudiziale sui quei fatti rientra nel novero dei tanti misteri, ben aggrovigliati tra loro, di Dongo e dintorni. Benché quando un governo istituisce una commissione d’inchiesta non ci sia mai da aspettarsi qualcosa di decisivo è anche vero che non provarci neanche non è di
Una cartolina turistica con i luoghi di Mezzegra e delle sue frazioni Giulino e Bonzanigo sul lago di Como, teatro delle ultime ore di Mussolini
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sicuro un bel segnale. E gli estremi per una commissione d’inchiesta ufficiale c’erano tutti: un Capo di Stato passato per le armi senza processo, vari ministri che subiscono la stessa sorte, documenti di rilievo internazionale scomparsi, miliardi in denaro dell’epoca e riserve auree ufficialmente svaniti nel nulla, vari civili uccisi in poche ore senza nessun capo d’imputazione preciso e senza processo (i fratelli Petacci ma anche Nicola Bombacci, il capitano Calistri e altri fucilati a Dongo) cui si aggiunsero vari altri morti tra i partigiani a guerra finita. Insomma, c’era di che farsi qualche domanda e invece, almeno a livello politico, si lasciò correre. Anche perché, è facile osservarlo, cercare di capire come fossero andate le cose voleva dire scomodare gran parte della nuova classe dirigente dell’Italia del 1945 che poi sarebbe stata classe dirigente – non solo politica ma anche economica e culturale - fino agli anni Sessanta e Settanta. Nel 1957, con l’apertura del processo di Padova sull’Oro di Dongo, si poteva sperare in un parziale correzione di rotta ma le speranze restarono tali perché il dibattimento si arenò dopo un paio di mesi per la morte (un suicidio che destò qualche perplessità) di un giudice popolare che non poté essere rimpiazzato perché in precedenza il Tribunale non aveva pensato a predisporre una lista di sostituti. Di rimando in rimando, anno dopo anno, la cosa finì in nulla. E così non ci fu, dopo una «non verità politica», neanche una «verità giudiziaria» nonostante le montagne di carte giudiziarie (documenti, memoriali, testimonianze) e di articoli di giornale. Ma c’è dell’altro ovviamente. Altre responsabilità sotto forma per lo più di omissioni. C’è stato, ad esempio, un errore di
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prospettiva che ha finito per falsare ogni approccio teso a fare chiarezza su quei giorni. All’interno della storia della RSI le vicende degli ultimi giorni della Repubblica di Mussolini e del suo stesso fondatore sono state per decenni costrette in un angolo formato da un lato dalla miopia un po’ snobistica della storiografia e dall’altro da una sovraesposizione di alcuni temi – su tutti l’infinita querelle sulla morte di Mussolini – temi che pur non trascurabili hanno finito per oscurarne altri non riuscendo al tempo stesso ad assumere una dimensione storica e logica solida e credibile. In altri termini, il focus sulla morte di Mussolini e della Petacci (di per sé non certo secondario) ha finito per coprire molto altro impedendo, ad esempio, di capire che quelle morti erano la conseguenza diretta – anche se non necessariamente consequenziale e voluta – di scelte e piani decisi a molta distanza. Geograficamente ma anche temporalmente. I mille fili che si intreccziarono a fine aprile 1945 sul Lago di Como in più di un caso venivano, in tutti i sensi, da lontano. Per scioglierli, venute meno la politica e la giustizia, bisognava guardare al mondo della cultura e a quello del giornalismo. Il primo, di fatto, non ha mai risposto mentre il secondo lo fatto anche troppo. Solo dagli anni Novanta, quando un De Felice ormai declinante iniziò a mettere mano all’ultima parte della sua biografia di Mussolini, quella appunto relativa alla RSI, il mondo dell’accademia, gli storici di professione, ha iniziato a guardare con un minimo di attenzione a quei fatti. Un atteggiamento ancora pieno di alterigia, limitato a pochi casi ma che comunque va segnalato perché per oltre 40 anni non c’era stato neanche quello. La scuse erano sem-
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«L’Unità» del 12 maggio 1956 con uno degli articoli confezionati per rispondere alle inchieste di alcuni giornalisti quali Franco Bandini e Giorgio Pisanò
pre quelle: la morte di Mussolini? Non ha importanza perché quel che conta – storicamente – è quello che ha fatto in vita; i documenti spariti? Favole e, comunque, quello che c’è da sapere lo sappiamo già; perché sul Lago di Como? Che domande, perché stava scappando in Svizzera… e via così. Insomma, in quei giorni non era accaduto nulla di storicamente rilevante quindi perché occuparsene? Una cecità assoluta che ben si sposava con la netta e pluridecennale volontà di settori politici, italiani e inglesi in primis, a nascondere ogni cosa, minimizzando, negando, occultando. Chi scrive ricorda ancora l’atteggiamento di sufficienza – appena mascherata da una cortesia che non riusciva a reprimere lo scetticismo – che accolse la sua relazione sul «Carteggio
Mussolini-Churchill» al convegno «L’Italia in Guerra – Il sesto anno: 1945» organizzato dalla Commissione italiana di storia militare a Milano nell’ottobre 1996. Da allora di tempo ne è passato e adesso, come se niente fosse, nessuno sorride più di fronte all’ipotesi che tra Italia e Inghilterra siano corsi accordi segreti nel 1939/1940. La cosa più surreale è che buona parte degli argomenti a sostegno di quella che è ormai considerata un’eventualità più che probabile erano già disponibili ben prima del 1995. Ma questo non è che uno dei tanti abbagli e dei tanti ritardi che il mondo accademico ha accumulato negli anni trascurando quella che sempre più appare come una evidenza. E cioè quel neanche tanto esile filo rosso che lega tre date cruciali della storia d’Italia del
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Franco Bandini (1920-2004)
Novecento: il 10 giugno 1940, il 25 luglio 1943 e il 25 aprile 1945. A parzialissima attenuante, agli storici professionisti va riconosciuto che il loro snobismo e la loro «distrazione» si sono nutrite del fatto oggettivo che gli ultimi giorni della RSI non eran fatti, per la loro stessa natura, per produrre molti documenti visto che i colloqui erano per lo più informali se non convulsi, le comunicazioni difficili, le decisioni da prendere urgenti e scabrose. Per cui meglio parlare che scrivere e, nel caso, distruggere quello che era stato messo nero su bianco. Un caso per tutti: il celebre incontro all’Arcivescovado, del pomeriggio del 25 aprile 1945 a Milano, tra Mussolini e alcuni rappresentanti del CLNAI. Un incontro di cui non c’è nessun resoconto ufficiale e di cui i presenti hanno dato spesso versioni contrastanti. Quindi la scarsità di documenti ha disincentivato i ricercatori messi di fronte a fonti di straordinaria povertà più per qualità che per quantità. Non dimentichiamo, altro esempio, che sulla condanna a morte di Mussolini, ad esempio, non esistono documenti scritti, così come nessun gerarca a Dongo venne davvero interrogato e le sue risposte verbalizzate come in
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genere si fa; del pari molte delle decisioni prese dai fascisti tra Milano e Como e poi a Dongo non hanno mai avuto nessuna veste formale: ordini a voce, biglietti, comunicazioni telefoniche o via radio. Niente che potesse restare e che potesse fornire una minima base di certezza. In queste condizioni, inevitabilmente, l’elemento umano era destinato a prendere il sopravvento. I testimoni sono la vera spina dorsale di qualunque ricostruzione di quei giorni. Interviste, memoriali e ricordi personali, sovente neanche di prima mano e in alcuni casi decisamente tardivi, l’hanno fatta da padrone col risultato di aumentare l’incertezza e confermare quel vecchio proverbio russo che dice: «Menti come un testimone oculare». Chi ha raccolto quello che c’era da raccogliere fin dal maggio 1945 ai giorni nostri? Quasi esclusivamente i giornalisti. Generazioni di reporter ed inchiestisti, alcuni di gran razza, si sono esercitati nel ricostruire i fatti del lago di Como. E l’hanno fatto con i mezzi del giornalismo, che per sua costituzione ha nemici tenaci: la fretta (ci vuole lo scoop e bisogna battere la concorrenza sul tempo), la scarsezza di spazio (un’inchiesta, per quanto lunga e approfondita,
non potrà mai essere densa come un libro con le note), l’esperienza (tranne alcuni sporadici casi nessun giornalista ha seguito dall’inizio alla fine le vicende di Dongo per cui, spesso, mancava la conoscenza approfondita, la memoria storica, che poteva suggerire la domanda in più, la curiosità ulteriore, la verifica aggiuntiva). Ma c’era anche un indubbio vantaggio che mai nessuno storico o casa editrice avrebbe potuto mai eguagliare: allora, molto più di oggi, aveva larga diffusione il giornalismo di inchiesta fatto di molti soldi e mezzi per indagare, per muoversi, per offrire compensi a testimoni, per pagare «memoriali», per acquisire documenti. C’è poi stata, ovviamente, anche la componente politica: sia che fossero di destra sia che fossero di sinistra molti bravi giornalisti non hanno mai trascurato di muoversi anche sull’onda della passione ideologica che, come sappiamo, in Italia è stata fortissima dal dopoguerra fino a tutti gli anni Ottanta. Non è certo un caso che chiunque voglia studiare «sulle fonti» quanto accadde tra il 25 e il 29 aprile tra Milano e Dongo e poi ancora Milano deve andare, più che in biblioteca, in emeroteca. Fu il quotidiano del PCI «L’Unità» a fornire una prima versione dei fatti già il 30 aprile 1945. Una versione – nonostante la fortuna che ha avuto negli anni – talmente colabrodo da accendere l’interesse di un grande cronista come Ferruccio Lanfranchi che, sul «Corriere della Sera», fece le subito le pulci con una lunga inchiesta pubblicata tra il 4 e il 14 luglio dello stesso anno. Seguiranno altre inchieste anche perché l’attenzione generale inizia ad indirizzarsi sull’«Oro di Dongo», una delle tre principali direttrici di interesse della «dongologia» (le altre sono le reali circostanze della morte di Mussolini e la natura e il destino delle sue carte riservate e sparite). Questione delicata, quella dell’«Oro di Dongo» perché è presto chiaro a tutti a
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quale partito politico sono andati in gran parte soldi e valori trovati nella colonna Mussolini. «L’Unità» risponde – e il copione si ripeterà in futuro – con una serie di articoli ispirati alla relazione di un certo «Colonnello Valerio» pubblicati nell’ottobre 1945: qualche variazione sul tema ma la tesi di fondo resta quella. Si diffonde un altro quesito: chi è il colonnello Valerio? Il PCI attende un anno e mezzo per rispondere e, quando lo fa, la «risposta» lascia molti più che perplessi: vedere nel ragionier Walter Audisio da Alessandria il «giustiziere di Mussolini» non riesce facile neanche oggi. Comunque, nel marzo 1947 è questa la realtà con cui ogni ricercatore deve fare i conti: ufficialmente «Colonnello Valerio» e Walter Audisio erano la stessa persona. E la «rivelazione» fu accompagnata da una terza serie di articoli – indovinate su che giornale… – che ripetevano con qualche modifica quanto già scritto nel 1945. A tener viva l’attenzione, anno dopo anno, concorrono varie circostanze: gli strani viaggi di Churchill tra Lago di Como e Lago di Garda, le inchieste giornalistiche su questo o quell’aspetto, le prime testimonianze «esclusive», l’apparire di strani personaggi come Enrico De Toma, il celebre processo De Gasperi-Guareschi e quello ancora più anomalo della primavera 1957 a Padova. Nel febbraio 1956, Franco Bandini (che aveva mosso professionalmente i primi passi proprio con Lanfranchi) su «L’Europeo» rilanciò in grande stile l’inchiesta sugli ultimi giorni di Mussolini: un’inchiesta di grande successo che sarebbe diventata, pochi anni dopo, un libro («Le ultime 95 ore di Mussolini», Sugar 1959). Gli fece eco, su «Oggi», un altro grande giornalista che avrebbe dedicato anni e qualche scoop a quei fatti: Giorgio Pisanò. Quest’ultimo, pubblicando una dichiarazione attribuita a Sandrino, nome di batta-
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glia di Guglielmo Cantoni, uno dei due partigiani che avrebbero fatto la guardia a Mussolini e alla Petacci la loro ultima notte e che fu in qualche modo presente alla loro morte, si attirò subito una smentita. E quale giornale scelse Cantoni per smentire quello che Pisanò gli attribuiva? «L’Unità» del 25 febbraio 1956. Poi, a testimonianza del clima che a più di 10 anni si respirava non solo lungo il Lago di Como, Cantoni pensò bene di andare per un po’ in Svizzera. Con qualche flessione le cose proseguirono anche negli anni Sessanta ma è nel febbraio 1973 che si assiste ad un vero cambio di passo. E’ ancora Bandini a dare il «la» con una clamorosa inchiesta pubblicata su «Storia Illustrata»: è l’inchiesta che lancia la tesi della «doppia fucilazione» (una seconda esecuzione davanti a Villa Belmonte per mascherare una morte avvenuta in precedenza, evidentemente per cause e con modalità non confessabili). Una tesi che, curiosamente, pur venendo rigettata e ridicolizzata (ma la realtà e gli studi più recenti, come si legge a p. 122, tendono invece ad accreditarla) ha scatenato reazioni incredibilmente tempestive e articolate. Tempo pochi giorni e la solita «L’Unità» scatena il giornalista Candiano Falaschi in una lunga contro-inchiesta che deve ribadire la versione del 1945. Non ci deve essere alcun dubbio e le interviste ad alcuni dei protagonisti di quei giorni dovrebbero servire a certificare la verità di partito. Curiosamente – o forse no – tra i «testimoni» non vengono inseriti – oltre a Luigi Longo che pure era stato segretario del partito fino a pochi mesi prima - né Walter Audisio né Aldo Lampredi, cioè i due principali responsabili della spedizione partita da Milano all’alba del 28 aprile per andare a Dongo. Eppure, anche se per poco, i due erano ancora vivi. A maggio 1973 l’inchiesta di Falaschi diventa un volumetto edito da «Editori Ri-
uniti», casa editrice controllata dal PCI. Il 20 luglio successivo Aldo Lampredi muore mentre è in vacanza in Jugoslavia. Molti anni dopo si verrà a sapere che l’anno precedente aveva consegnato ai vertici del Partito, nella persona di Armando Cossutta, una lunga relazione sui fatti di Dongo in cui fornisce dettagli dell’esecuzione di Mussolini diversi da quelli di Audisio (in particolare l’atteggiamento coraggioso di Mussolini – «Mirate al petto» – mentre Audisio lo descriveva come tremebondo e balbettante) ma, cosa in genere trascurata, polemizza aspramente proprio con Audisio di cui non apprezzava l’atteggiamento e di cui non si fidava. Non ci fu tempo per le polemiche – almeno in questo mondo – perché anche Audisio se ne andò sempre nel 1973, l’11 ottobre. Anni prima aveva fatto capire che avrebbe potuto fare uno scoop con grosse rivelazioni ma evidentemente alla fine gli mancò il coraggio. Due morti provvidenziali perché così la marmorizzazione della «verità» gradita al PCI poteva procedere
Giorgio Pisanò (1924-1997)
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spedita e senza intoppi. Del resto in quegli anni, una rivitalizzazione del Mito della Resistenza era utile ad un PCI in forte ascesa di consensi e di peso politico e che, di fronte ad un quadro traumatico fatto di terrorismo, attentati sanguinosi, tensioni sociali e scontri di piazza, aveva interesse a ricompattare le fila di una ipotetica nuova resistenza democratica che si doveva contrapporre alle tentazioni eversive che si andavano palesando. L’uso politico della storia è passato più volte da Dongo nel secondo dopoguerra e quello degli anni Settanta è stato uno dei passaggi più convinti, rumorosi e strumentali. Quando Audisio muore è già in fase di lavorazione il film che il Partito Comunista ha commissionato ad uno dei tanti registi organici, Carlo Lizzani, che nel marzo 1974 manda nelle sale il suo «Mussolini, ultimo atto». Cosa c’è meglio di un film con grossi attori internazionali (Henry Fonda, Rod Steiger, Franco Nero, Lisa Gastoni) per fissare nell’immaginario collettivo una versione che tutti sapevano fasulla? Non soddisfatto per come era stato ritratto nel film, Sandro Pertini (all’epoca presidente della Camera dei Deputati) scrisse a Lizzani (che lo riporterà in suo libro di memorie nel 2009): «…e poi non fu Audisio a eseguire la “sentenza”; ma questo non si deve dire oggi». E infatti per molto tempo si è continuato a non dirlo o a ridicolizzare chi ci provava. Per essere sicuri, nel 1975, nel trentennale della fine della Guerra Civile, si provvide a riesumare le memorie postume di Audisio, pubblicate dalla casa editrice del PCI: Teti. Titolo «In nome del popolo italiano». Novità? Nessuna ma per fare un muro solido ci vogliono tanti mattoni e il libro di Audisio non poteva guastare. Poco dopo sarebbe uscito anche il film-scandalo di Pierpaolo Pasolini, «Salò o le 120 giornate di Sodoma» e così la RSI finì definitivamente nella categoria del Male assoluto (e perverso). Insomma, una vera e propria partita a
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scacchi che vedeva il PCI da una parte e un pugno di giornalisti dall’altra: ad ogni mossa di un giocatore ne seguiva invariabilmente un’altra di segno opposto. Il libro in cui Bandini articola e sviluppa la sua teoria della «doppia fucilazione» esce nel 1978 accolto, come prevedibile, da molto scetticismo e ostilità. Ma col tempo la schiera dei sostenitori di questa versione – o comunque della non attendibilità di Audisio – non farà che crescere trovando oltretutto vari sostenitori proprio tra gli ex partigiani o gli ex comunisti: di Pertini si è detto ma a lui vanno aggiunti almeno tre nomi: l’ex segretario di Palmiro Togliatti, Massimo Caprara, l’ex responsabile dell’intelligence partigiana Aminta Migliari e il comandante del plotone di Dongo Orfeo Landini. E’ impossibile seguire la scansione di tutte le rivelazioni che si sono susseguite anche negli anni Ottanta e inizio anni Novanta. Certo è stato sorprendente, nell’aprile 1993 leggere che Urbano Lazzaro, uno dei protagonisti di Dongo, dopo 48 anni di sostanziale apatia, ora si scatenava con un libro di memorie («Dongo, mezzo secolo di menzogne», Mondadori) in cui sposava tutte le tesi più eterodosse su Dongo: «doppia fucilazione», Oro di Dongo al PCI, carteggio Mussolini-Churchill fatto sparire, partigiani scomodi eliminati dai comunisti ecc. ecc. Ma è nel settembre 1995 che nello stagno cade il sasso più grosso. Renzo De Felice, a pochi mesi dalla morte e forse consapevole che non ce la farà mai a terminare il suo ultimo libro della biografia di Mussolini, fa uscire un libro-intervista – «Rosso e Nero» – cui affida alcune delle conclusioni cui è giunto studiando la RSI e gli ultimi giorni di Mussolini. L’ultimo De Felice è convinto di un coinvolgimento inglese – sia pure tramite un ufficiale italiano nella morte di Mussolini, è convinto dell’esistenza di carteggio tra Mussolini e Churchill ed è convinto che a 50 anni dai fatti «nessuno ha mai
avuto il coraggio di raccontare che cosa è veramente successo fra il 27 e il 28 aprile a Giulino di Mezzegra». Probabilmente il timore di qualche rivelazione defeliciana induce, ancora una volta il Partito Comunista (nel frattempo diventato PDS, cioè Partito Democratico della Sinistra) a fare l’ennesimo rilancio. Nel gennaio 1996, a poco più di quattro mesi dal libro bomba di De Felice, «L’Unità» – direttore Walter Veltroni – pubblica un documento importante e cioè la già citata relazione di Aldo Lampredi sulla sua missione a Dongo e Giulino di Mezzegra. Lampredi racconta di come Mussolini abbia affrontato con coraggio la morte – cosa che confermerà anche Moretti anche se gli farà dire altre parole – e aggiunge poche, illuminanti, parole: «Non ho parlato con nessuno del gesto finale di Mussolini e questo è l’unico scritto che lo riferisce. Non ne scriverò, ne parlerò nemmeno in avvenire, a meno che il partito non lo renda pubblico. Moretti mi ha garantito che si comporterà nello stesso modo e credo che si possa prestargli fiducia. Non so quello che possa fare Audisio». Insomma, Mussolini doveva «morire male». Almeno fino a quando il Partito non avesse deciso diversamente. Ma pensare che il Partito Comunista sia stato – e lo siano ancora oggi i suoi eredi – il depositario assoluto dei segreti di Dongo non è corretto. In tanti sapevano e in tanti hanno contribuito a confondere le acque. Un caso emblematico è quello della gestione delle lettere e i diari di Claretta Petacci: oggetto di una caccia accanita per anni e anni, sequestrate dalle autorità e secretate per decenni con varie motivazioni – dalla privacy al «segreto di Stato» – di colpo sono divenute a partire dalla fine del 2009 oggetto di una sfrenata attività editoriale su cui un giorno occorrerà fare una riflessione articolata. Qui basta osservare che il ritratto di Mussolini (negli anni Trenta come a Salò) che ne esce è
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travolse anche alcuni «dongologi» invitati da chi scrive a partecipare al primo convegno scientifico sugli ultimi giorni della RSI (su iniziativa della Fondazione Istituto di Studi Storici Europei, ISSE, di Roma con la collaborazione dell’Archivio Centrale dello Stato, Centro Studi sulla RSI di Salò, la Fondazione Micheletti di Brescia e la Fondazione Ugo Spirito di Roma e il patrocinio dei Comuni di Salò e Dongo, delle Regioni Lazio e Lombardia e della Provincia di Brescia). Autori di libri e ricerche importanti (pochi: 3 o 4) non vollero esserci, adducendo motivazioni varie, mentre altri – non meno titolati e comunque di orientamenti diversi – accettarono di buon grado l’invito. Il convegno «Da Salò a Dongo: il dramma e l’enigma» (due distinti appuntamenti per 4 giornate di lavori complessive) ha segnato un momento importante nella analisi degli ultimi giorni di Salò e di Mussolini ma ha anche confermato la difficoltà di una «memoria condivisa» o, per lo meno, di una pacata riflessione storica che lasci da parte giudizi morali e rivendicazioni.
La locandina del film di Carlo Lizzani «Mussolini, ultimo atto» (1974)
abbastanza sconsolante, mediocre, piccolo borghese nel suo barcamenarsi tra una moglie avanti negli anni e una giovane amante gelosa e invadente che, oltretutto, gli disubbidirà per anni non distruggendo le lettere che lui le scrive pregandola ripetutamente di non lasciare tracce. Ovviamente, il Mussolini che esce dalle pagine di Claretta è monocorde: molti aspetti politici e culturali che di certo sappiamo lo coinvolsero non marginalmente sono completamente assenti. Insomma è un Mussolini che va letto con cautela, preso con le molle, contestualizzato. Ma è un Mussolini perfetto per contrastare l’altro Mussolini che
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esce da un’operazione editoriale ancora più discutibile che è quella, pasticciatissima, della pubblicazione dei diari – presunti – del dittatore, pubblicati poco dopo ma di cui i bene informati già sapevano tenore e contenuti. Insomma, la solita partita a scacchi dove, per una volta, non è scesa in campo «L’Unità» (il cui peso specifico è del resto in caduta libera da molti anni) ma l’immancabile schiera di storici «politicamente corretti», decisi a mettere il proprio impegno a difesa della Storia, «attaccata da tentativi revisionisti tesi a riabilitare i despoti del passato». Una preoccupazione che, nel maggio/giugno 2005,
Molto di quello che abbiamo accennato è sviluppato nelle pagine che seguono. E’ forse la prima volta che un periodico specializzato dedica così tanto spazio ad un tema che negli ultimi 69 anni di carta che ha preteso parecchia e non a caso questo è di gran lunga lo speciale monografico più ricco e denso dei nostri dieci anni di vita. Ci troverete notizie e riflessioni che difficilmente si possono trovare altrove: il quadro d’insieme si allontana molto dalle ricostruzioni convenzionali che ogni aprile la stampa italiana pubblica. Fateci caso. Quest’anno ma anche i prossimi. E siamo pronti a scommettere che, facendo i raffronti, sarete convinti di aver speso bene i vostri soldi. Buona lettura. Fabio Andriola
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cronologia | apr ile 1945: dal G arda a Piazzale Loreto 18 aprile Gargnano (Lago di Garda): Mussolini lascia il suo quartier generale, da dove ha retto la RSI dall’autunno 1943, per recarsi a Milano e riprendere «l’iniziativa politica». A spingerlo a rompere gli indugi l’atteggiamento sempre più freddo e rinunciatario dei tedeschi. Arrivato a Milano si insedia in Prefettura, in Corso Monforte.
Mussolini
20 aprile Milano: Mussolini ordina la smobilitazione degli uffici staccati dei vari ministeri e il concentramento a Milano dei soli funzionari indispensabili, destinati a seguire il governo in Valtellina. Riceve il giornalista Gian Gaetano Cabella cui rilascia la sua ultima intervista: Mussolini fa il suo bilancio della RSI e confida: «Ho qui tali prove di aver cercato con tutte le mie forze di impedire la guerra che mi permettono di essere perfettamente tranquillo e sereno sul giudizio dei posteri e sulle conclusioni della storia. Non so se Churchill è, come me, tranquillo e sereno…».
21 aprile Bologna: la città viene conquistata dalle truppe polacche e dai gruppi di combattimento del Regio Esercito Friuli e Legnano. Il giorno dopo viene presa anche Ferrara.
22 aprile Milano: Mussolini, tramite Carlo Silvestri, avanza l’offerta di un passaggio di poteri incruento alle forze partigiane di orientamento socialista e repubblicano. Esce l’ultima «Corrispondenza Repubblicana» (gli interventi giornalistici – anonimi – con cui Mussolini commentava i fatti politici durante la Repubblica Sociale). E’ la 99a, si intitola «Cronaca anticipata di un discorso inatteso» ed è una analisi polemica dell’imminente conferenza di San Francisco – da cui dovrà nascere l’ONU – cui sono chiamate a partecipare 50 nazioni tra le quali non ci sono né i Paesi
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dell’Asse, molti neutrali e alcune nazioni (come Lituania, Estonia e Lettonia) recentemente occupate dall’URSS.
23 aprile Gli anglo-americani varcano per la prima volta il Po a Guastalla, nella Bassa Reggiana. A Milano, provenienti dalle province occupate, convergono migliaia di fascisti, spesso con le famiglie. Si concentrano a piazza San Sepolcro (dove era nato il Fascismo il 23 marzo 1919). In serata un folto gruppo di camicie nere marcia verso la Prefettura per acclamare Mussolini che tiene un breve discorso.
24 aprile Milano: Il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) lancia l’ordine di insurrezione generale per le 14 del successivo 25 aprile. In tarda mattinata primi scontri tra partigiani e fascisti nella zona di Niguarda. Gli anglo-americani prendono Verona e si avvicinano a GeSchuster nova. In serata, Mussolini osserva sfilare la Brigata Nera di Milano Aldo Resega e poi riceve il cappellano delle Brigate Nere, Padre Eusebio dei Frati minori, cui confida i suoi progetti per le ore successive: «Per la Valtellina partiremo probabilmente domani sera ma desidero che prima il Cardinale Schuster celebri una messa per le forze armate in piazza del Duomo. Ad essa assisterà anche il governo della RSI al completo. Il rito sarà radiotrasmesso e al suo termine pronuncerò il mio ultimo discorso. Bisogna che il popolo italiano che amo, che ho amato e che amerò di più nell’oltretomba sappia la verità. Palerò a lungo ma senza rancore; anzi con il cuore in bocca. Sarà una confessione politica, il resoconto del mio operato, del quale assumo tutta la responsabilità». Secondo Silvestri il testo del discorso era stato già scritto ma è andato perduto così come molti altri documenti mussoliniani.
25 aprile Milano, ore 8: presso il Collegio dei Salesiani di via Copernico, il CLNAI si riunisce e approva all’unanimità la
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Cadorna
proclamazione dell’insurrezione ed emana il decreto dell’assunzione di tutti i poteri. All’incirca alla stessa ora, presso il Convento delle Stelline in corso di Porta Magenta 79, si riunisce il Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà (CVL) guidato dal generale Raffaele Cadorna; in mattinata si registrano i primi scontri specie nei pressi delle principali fabbriche cittadine.
Milano, ore 16 circa: Mussolini incontra all’Arcivescovado il generale Cadorna, comandante il CVL, e i rappresentanti del CLNAI Riccardo Lombardi (Partito d’Azione), Achille Marazza (Democrazia Cristiana) e Guido Arpesani (Partito Liberale). Mussolini spera ancora di poter patteggiare un passaggio incruento dei poteri una volta ottenute garanzie per i fascisti ma quando viene a sapere che, invece, la Resistenza esige una resa incondizionata e che i tedeschi stanno per concludere una pace separata interrompe l’incontro e rientra in Prefettura. Milano, ore 20 circa: Mussolini lascia la Prefettura e parte per Como dove stanno convergendo da tutta l’Italia del nord le residue forze della Repubblica Sociale. Lo seguiranno il giorno dopo tutte le forze fasciste che dal giorno prima si stanno raccogliendo tra il Duomo e il Castello Sforzesco, lungo via Dante. Como, ore 21 circa: Mussolini arriva in Prefettura a Como. Secondo alcune testimonianze (mai confermate) poco prima delle due di notte si recherà a Villa Mantero – meno di due chilometri in linea d’aria – dove sono già la moglie Rachele e i figli minori Anna Maria e Romano. Qualche ora prima, in Prefettura, l’ha anche raggiunto Claretta Petacci – anche se non sembra si siano incontrati – col fratello Marcello e la famiglia di lui (la compagna Zita Ritossa e i due figli).
26 aprile Milano, ore 4: la Guardia di Finanza, al comando del colonnello Alfredo Malgeri, occupa la Prefettura e la Radio oltre alle redazioni di alcuni giornali e altri edifici pubblici; Como, ore 6: Mussolini decide di spostarsi con il suo se-
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guito a Menaggio, lungo la sponda sinistra del Lago di Como. Nel giro di poche ore lo raggiunge il grosso della colonna e Claretta Petacci. Anche in questo caso non risultano incontri tra i due. Mussolini prende alloggio presso il federale del paese, Paolo Emilio Castelli. Milano, ore 7: Una lunga colonna di fasciLa Petacci sti (tra i tremila e i cinquemila) che dalle sera precedente si è andata formando a Milano parte per Como. Un’ora più tardi, Radio Milano Liberata trasmette il proclama del CLNAI in cui si intima ai fascisti di «arrendersi o perire». Milano, ore 9: Dalla stazione radio di Morivione (quartiere nella zona sud di Milano) il comandante delle brigate Matteotti, Corrado Bonfantini, annuncia la liberazione di Milano. In mattinata scontri violenti alla Innocenti di Lambrate, rioccupata per alcune ore dai tedeschi, e in piazza Napoli, con un gruppo di fascisti asserragliato nel presidio rionale della Guardia nazionale repubblicana. Menaggio, ore 10,45: Mussolini lascia Menaggio con poche persone al seguito e, cercando di seminare la scorta tedesca, si reca a Grandola e Uniti, a quattro chilometri di distanza. Anche in questo caso, viene raggiunto alla spicciolata da ministri e scorta tedesca oltre che dalla Petacci. I due si vedono, parlano e litigano. Sembra che il dittatore in quelle ore sia stato avvicinato da alcuni sconosciuti ma l’incontro è disturbato dalle sentinelle tedesche. Milano, ore 18: Nella caserma di Piazza Fiume, la Decima MAS smobilita alla presenza dei rappresentanti partigiani e del suo comandante Junio Valerio Borghese. Grandola, ore 19: al termine di una apparentemente inspiegabile sosta durata tutto il giorno, Mussolini ordina il rientro a Menaggio. Poco prima è stato informato Borghese che il ministro Tarchi e l’ex ministro Buffarini Guidi – da lui autorizzati a tentare autonomamente di espatriare in Svizzera – sono stati arrestati dalla Finanza poco prima della frontiera di Porlezza, a pochi chilometri da Grandola. Menaggio, ore 21: arriva una colonna di militari tedeschi (circa 200 uomini della FlaK, la contraerea). Poco dopo ar-
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riveranno sempre da Como tre autoblindo condotte dal segretario del Partito Fascista Repubblicano, Alessandro Pavolini.
27 aprile Menaggio, ore 4: Riunione, presieduta da Mussolini, presso la sede della Brigata Nera locale. Si decide di riprendere la strada della Valtellina senza attendere i rinforzi da Como che seguiranno appena potranno. Si decide di fare gruppo con il reparto tedesco appena giunto in paese. Menaggio, ore 6: la colonna italo-tedesca muove da Menaggio. In testa c’è l’autoblindo della Brigata Nera di Lucca comandata da Idreno Utimpergher, con Alessandro Pavolini. Musso, ore 6,30: la colonna Mussolini si trova la strada sbarrata da un sottile tronco d’albero e qualche piccolo masPavolini so. Allo stop segue una breve sparatoria tra i fascisti dell’autoblindo e i partigiaa ni della 52 Brigata Garibaldi nascosti sulla costa della montagna; dopo poco i tedeschi della colonna riescono ad iniziare una trattativa con i partigiani, scavalcando di fatto i fascisti; il comandante tedesco della colonna parte per Colico, circa 50 km più a nord, all’imboccatura per la Valtellina, per conferire con i vertici partigiani della zona; durante la lunga attesa Mussolini è visto da numerose persone andare su e giù lungo la colonna; Musso, ore 14: il comandante tedesco torna senza aver concluso molto. Gli accordi prevedono che solo i tedeschi avranno via libera mentre gli italiani dovranno essere tutti bloccati nella vicina Dongo dove avverranno le ispezioni. Dopo vari rifiuti e tentennamenti, Mussolini accetta la proposta tedesca di provare a passare il blocco partigiano, nascosto in un camion tedesco; Dongo, ore 15 circa: dopo varie ispezioni i partigiani (secondo alcune testimonianze imbeccati dagli stessi soldati tedeschi) individuano e arrestano Mussolini e lo conducono nel vicino Municipio. Nel giro di poche ore vengono catturate circa 80 persone di nazionalità italiana tra ministri, militari, funzionari, civili (tra cui alcune donne e bambini) e agenti segreti; Dongo, ore 18 circa: anche Claretta, il fratello Marcello e la famiglia di questo vengono fermati. Nel loro bagaglio
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vengono trovati importanti documenti di carattere politico così come era stato nella borsa sequestrata all’atto del fermo a Mussolini. Nel frattempo, il comandante della 52a Brigata Garibaldi, Pier Bellini delle Stelle (Pedro), decide di trasferire Mussolini in luogo più sicuro. Si opta per il piccolo presidio della Guardia di Finanza di Germasino, sui monti circostanti, a circa 5 chilometri.
Bellini delle Stelle
Siena, ore 18: dal quartier generale anglo-americano in Italia parte un messaggio diretto ai vertici partigiani di Milano: «Al comando generale e CLNAI stop fateci sapere esatta situazione Mussolini stop se siete disposti consegnarcelo vi invieremo aereo per rilevarlo stop». Germasino, ore 18,30 circa: Mussolini, scortato da Pedro e accompagnato anche dal federale di Como, Paolo Porta, arriva nella caserma della Finanza. Ci rimarrà poche ore durante le quali avrà un lungo colloquio col brigadiere Giorgio Buffelli, potrà mangiare e riposare meno di due ore. Dongo, ore 20 circa: Lungo colloquio anche tra Pedro e la Petacci. Ufficialmente Pedro cede alle incessanti richieste della donna di essere riunita a Mussolini. In realtà invece Pedro cerca di avere maggiori notizie sul ruolo della donna in virtù dei documenti che sono stati trovati nel suo bagaglio. Ottenute le informazioni, Pedro informa i suoi superiori a Como e Milano e riceve ordini precisi da attuare subito. Milano, ore 23,20: a Milano si sa dell’arresto di Mussolini già da metà pomeriggio. Ma ora il colonnello Malgeri informa il colonnello Valerio – Walter Audisio – che Mussolini è stato trasferito a Germasino.
28 aprile
Audisio
Germasino, ore 01,30 circa: Pedro torna a Germasino: deve trasferire subito Mussolini. Il dittatore viene svegliato: prima di uscire gli fasciano la testa lasciando spazio solo per occhi e bocca. Alle porte di Dongo la macchina si ferma: da una seconda vettura, accompagnata dal capitano Luigi Canali Neri, esce Claretta Petacci. Le due auto con i due prigionieri riprendono la strada verso Como.
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Moltrasio, ore 03,00 circa: percorsi circa 40 km. le auto con Mussolini e la Petacci si fermano nei pressi del molo del piccolo paese a meno di 10 chilometri da Como. Dopo varie consultazioni e la constatazione che forse una barca che doveva arrivare Canali a prelevare i prigionieri non è arrivata – o è arrivata con un contrordine – si cambia programma: su proposta del capitano Neri si decide di tornare indietro, verso Azzano, 20 km. Bonzanigo, ore 04,00 circa: Arrivati ad Azzano, sul lungo lago, voltando a sinistra verso i monti, le due auto arrivano a Bonzanigo, un piccolo paese arroccato a mezzacosta. Qui c’è la casa di alcuni conoscenti di Neri: i coniugi Giacomo e Lia De Maria. Mussolini e la Petacci vengono ospitati in una stanza al primo piano. Curiosamente tutti se ne vanno tranne due giovani partigiani di guardia: Guglielmo Cantoni Sandrino e Giuseppe Frangi Lino.
Lampredi
Como, ore 08,00: Arrivati da Milano, il colonnello Valerio e Aldo Lampredi, inviati dal CLNAI a rilevare Mussolini (con loro una dozzina di partigiani dell’Oltrepo pavese) si recano in Prefettura per avere indicazioni precise su come arrivare al luogo in cui il prigioniero è custodito. Il CLN locale non si mostra molto collaborativo.
Como, ore 10,00 circa: Lampredi abbandona di fatto Valerio a discutere in Prefettura e si reca presso la Federazione Comunista di Como. Da questo momento non si hanno più notizie di Lampredi fino alla sua ricomparsa, dopo le 14, sulla piazza di Dongo. Bonzanigo, ore 10,00 circa: Dorina Mazzola, una ragazza di 19 anni che vive vicino a Casa De Maria, avverte urla e spari dalla casa. Da lontano vede un uomo che viene malmenato da alcune persone e poi trascinato di peso lungo la via. Con lui una donna che non smette di piangere, lamentarsi e agitarsi. Poco dopo viene uccisa anche lei. Siamo intorno a mezzogiorno. Como, ore 13,00 circa: Valerio finalmente riesce a partire per Dongo con la sua scorta e dopo aver sequestrato un grosso camion vuoto. Tremezzo, orario imprecisato (ma probabilmente in tarda mattinata): all’imbarcadero Villa Sola Cabiati, a metà strada tra Azzano e Tremezzo, attraccano almeno due
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motoscafi con a bordo 13 uomini: si tratta del comandante Hyacinth Dominique Lazzarini, italo-canadese, agente dell’OSS (Office of Strategic Services) statunitense, di 10 parà della 4a Divisione Speciale del Texas e di due partigiani della zona col ruolo di guide. Il gruppo si dirige velocemente verso Casa De Maria; Dongo, ore 14,10 circa: Valerio arriva a Dongo. Chiede subito notizie dei prigionieri, stila la lista dei condannati a morte (15 persone cui si aggiungerà Marcello Petacci scambiato in un primo tempo per il figlio maggiore di Mussolini, Vittorio) che dovranno essere in numero pari agli antifascisti uccisi dalla Legione Muti su ordine dei tedeschi nell’agosto 1944 a Piazzale Loreto, per rappresaglia ad un attentato partigiano; Dongo, ore 15,15 circa: sulla piazza del comune Valerio requisisce la macchina di Giovanbattista Geninazza, di Tremezzo, e si fa portare con Lampredi e Michele Moretti, commissario politico della 52a brigata Garibaldi, a Bonzanigo a Casa De Maria. Bonzanigo, ore 16,00: Valerio è a casa De Maria, ufficialmente, per prelevare Mussolini e la Petacci.
Moretti
Giulino di Mezzegra, ore 16,10: a poche centinaia di metri di distanza da Casa De Maria, davanti al cancello di Villa Belmonte, gli abitanti della zona sentono e intravedono movimenti concitati e spari di mitra e pistola; alcuni testimoni in seguito diranno di aver visto per terra due corpi, un uomo e una donna, identificati poi come Mussolini e la Petacci. Dongo, ore 18,30: Valerio riparte per Milano con i suoi uomini e un camion pieno di cadaveri, quelli dei gerarchi fucilati a Dongo poco prima. Strada facendo si ferma ad Azzano per caricare i corpi di Mussolini e della Petacci. Milano, ore 22,30 circa: Il convoglio di Valerio viene fermato da un presidio partigiano presso la Pirelli di via Fabio Filzi. Perché si chiarisca tutto (non era facile spiegare un camion pieno di cadaveri…) occorrono oltre tre ore. Intorno alle due di notte: il camion di Valerio può riprendere la strada di Piazzale Loreto dove i cadaveri vengono allineati dove era avvenuta la fucilazione dei partigiani l’agosto precedente. Perché quei corpi vengano portati finalmente all’obitorio dovranno passare molte ore: l’ordine di toglierli da Piazzale Loreto arriverà solo il 29 aprile, nel primo pomeriggio. n
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vigilia della fine pensieri intimi di un dittatore
«TUTTO da RIFARE. POVER’UOMO...» A Salò Mussolini inizia a tradurre un libro dal titolo emblematico. L’attenta analisi di documenti e testimonianze sugli ultimi mesi di Mussolini mostra infatti un uomo contraddittorio, tentato dal privato ma attento a quello che potrà essere il giudizio della Storia su di lui e sul suo governo. Un uomo che pensa al suicidio ma che si prepara per il dopo, per quel processo dove potrà far valere le sue ragioni. Calando assi su cui però gli accenni sono molto pochi. Non a caso… di Aldo G. Ricci
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orrei provare a ragionare sull’ultimo Mussolini, cercando di trovare conferme a una tesi che mi si è venuta chiarendo mettendo in fila i fatti e, soprattutto, mettendo insieme una serie di brani, testimonianze, documenti sparsi del periodo della RSI che confermano, a mio giudizio, che il Mussolini dei 600 giorni di Salò (ma, a ben vedere, anche quello dei mesi immediatamente precedenti il 25 luglio) ha cessato di pensare e agire come un uomo politico, ma si muove piuttosto come un uomo sopraffatto dagli eventi, che li subisce come uno spettatore passivo, alternando il ruolo del laudator temporis acti a quello dell’ipocondriaco, pronto a piangersi addosso per i suoi mali, a minacciare improbabili propositi di suicidio e a lamentarsi perché il mondo congiura contro di lui; un uomo che alterna momenti di esaltazione con propositi di rivincita (rari) a momenti di depressione (molti) caratterizzati dal desiderio di sparire ed essere dimenticato; un uomo, insomma, del tutto al di sotto dei compiti che la Storia impone a chi ha scelto di mettersi nel posto e nella situazione che Mussolini ha voluto per sé e per il suo Paese. Sulla RSI ho già avuto modo di esprimere in più occasioni il mio giudizio, in particolare nella prefazione
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ai «Verbali del Consiglio dei ministri» del governo del tempo e negli interventi ai convegni sull’agricoltura e sugli ultimi giorni di Salò. Il governo della RSI si presenta come una sorta di Giano bifronte. Da una parte vi è il momento politico-militare, dove non vi è vera sovranità, ma un braccio di ferro prolungato, e per lo più perdente, con i tedeschi, dove gli spazi di sovranità rappresentano l’eccezione. Dall’altra vi è un momento amministrativogestionale, dove la sovranità è reale e continuativa e le interferenze sono, al contrario, occasionali. E’ quello che riconosce lo stesso Mussolini nell’incontro con il sottosegretario agli Esteri, Serafino Mazzolini, il 30 novembre 1944, confidato dallo stesso al suo collaboratore Mellini Ponce de Leon e da questi riportato nelle sue memorie. All’invito di Mazzolini per consolidare il governo e ridurre le interferenze tedesche, Mussolini dichiarò che «non si considerava su di un piano storico, né su di un piano politico, ma su di un modesto piano amministrativo». Né poteva essere altrimenti, aveva aggiunto «fino a che i tedeschi interferivano nella vita del Paese; disponevano di polizie e contro polizie, al cui servizio non soltanto tedeschi, ma anche italiani – o sedicenti tali – erano adibiti». Quale fosse l’importanza di questa attività amministrativa, e quanto questa abbia influito sulle condizioni di vita materiale al Nord nei 600 giorni, ma anche nella transizione successiva, ho avuto modo di illustrarlo nei
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viGiliA dellA fine pensieri intimi di un dittatore
Mussolini a Gargnano intento a scrivere la sua «corrispondenza repubblicana»
saggi sopra ricordati. Qui l’attenzione è piuttosto sull’ultimo Mussolini, improvvisamente riciclato dal ruolo di protagonista e centro delle decisioni, a quello di comparsa costretta in qualche modo a indossare panni che non sono più i suoi e interpretare un ruolo per cui non possiede più né gli strumenti né la volontà. Liberato dall’alleato, portato in Germania e poi catapultato a dirigere il governo del nuovo Stato voluto dai tedeschi per facilitare l’occupazione e l’utilizzazione del Centro-Nord e dai fedelissimi per reagire al «tradimento» e pareggiare i molti conti in sospeso, Mussolini è una sorta di sorvegliato speciale, libero solo di interpretare la parte assegnatagli, spiato e sorvegliato da tutti i protagonisti e i contendenti, nonché dalle donne della sua vita in eterna contesa. Vive alla giornata, senza progetti concreti, alternando sogni, velleità, recriminazioni e rimpianti, schiacciato dalla stanchezza e dal senso di inutilità delle ritualità quotidiane. Si definisce «un burattino», ricordando quando era stato burattinaio. Una sola convinzione positiva lo sostiene a tratti, o per lo meno è questa la plausibile motivazione che offre ad alcuni confidenti: che l’esistenza della RSI sotto la sua guida abbia risparmiato rappresaglie e lutti più gravi all’Italia da parte dei tedeschi. Di aver insomma creato una sorta di cuscinetto tra la popolazione e l’occupante, in mancanza del quale,
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anche a causa del 25 luglio e soprattutto dell’8 settembre, al nostro Paese avrebbe potuto essere riservata la stessa sorte della Polonia e simili. E’ la tesi poi ripresa dallo stesso De Felice, ma respinta da altre correnti della storiografia, secondo le quali l’esistenza della RSI avrebbe invece facilitato il compito degli occupanti. Due tesi antitetiche perché orientate da angoli visuali contrapposti, che nessuna misurazione potrà mai mettere a confronto diretto, per una conclusione definitiva, collocandole sui due piatti della bilancia della Storia. Ma al di là della ritualità delle riunioni e delle udienze, delle rare comparse a manifestazioni, degli incontri per lo più dovuti e subìti con gerarchi italiani e tedeschi, cosa passa nella mente di quello che è stato il Duce, l’uomo che nel 1922 ha rovesciato il tavolo delle regole imponendone delle nuove e prendendo in contropiede giocatori che si credevano ben più abili e smaliziati di lui? Che passo dopo passo ha tagliato progressivamente tutti i vincoli del vecchio Stato liberale, ottenendo il plauso dell’opinione pubblica nazionale e, per lungo tempo e per larga parte, anche di quella internazionale? Cosa resta dell’uomo che Hitler ha chiamato e ancora chiama il suo maestro, l’unico da cui riconosce di aver imparato qualcosa e per il quale continua a manifestare una qualche forma di debolezza? In mancanza di memorie attendibili o di lettere
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significative, e in attesa che quelle disponibili vengano pubblicate, l’unica risposta possibile a queste domande va cercata nei frammenti delle intercettazioni telefoniche o dei duplicati di lettere reperibili presso gli archivi tedeschi, nelle frasi raccolte da interlocutori più meno occasionali, nei frammenti delle veline dei tanti infiltrati intorno a lui, nei brani di documenti e lettere pubblicati in innumerevoli giornali e rotocalchi dal 1945 a oggi. Cominciamo con una considerazione sull’uso del tempo. Dalla metà di ottobre del 1943 – quando più o meno dal punto di vista logistico la situazione di Mussolini si è «normalizzata» – alla metà di aprile del 1945 – quando cominciano i preparativi per spostamenti non ancora pianificati – corrono poco più di 500 giorni. In questo arco di tempo, a quanto risulta dagli atti di sequestro dei carteggi, Mussolini scrive oltre 300 lettere a Claretta, le fa oltre 600 telefonate e la incontra alcune decine di volte. Se a
cettati, ma anche dalle occasionali confidenze ai collaboratori più vicini. L’autodefinizione ricorrente è quella di «cadavere vivente»; la descrizione di sé è quella di un vecchio malato, tormentato da dolori di ogni genere e da un’insonnia persistente. Ma soprattutto la sensazione di essere un
Una sola convinzione lo sostiene (o almeno così afferma): che l’esistenza della RSI sotto la sua guida abbia risparmiato rappresaglie e lutti più gravi all’Italia da parte dei tedeschi questo si aggiungono gli incontri e le conversazioni telefoniche con la moglie e con il figlio più grande, si capisce quanto tempo venga dedicato ai rapporti personali: normale per una persona qualsiasi, del tutto anomalo per il capo di un Paese nel turbine di un conflitto mondiale e di una guerra civile; significativo, credo, di un uomo che ormai guarda al destino proprio e dei suoi affetti piuttosto che alle sorti dei «massimi sistemi», insomma un comportamento opposto a quello di un leader politico posto di fronte a condizioni estreme. Altrettanto emblematici i contenuti di questi sfoghi, per quanto se ne possa dedurre dai brani riportati, dai documenti inter-
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uomo solo, che immagina, sull’orlo di un abisso che non vede ancora distintamente, ma di cui a tratti intuisce la vicinanza, che nel momento supremo scoprirà di non avere al fianco nessuno (anche se poi una donna smentirà questa sua sensazione). La descrizione che dà della RSI, dal punto di vista politico-militare, è disastrosa. Mussolini dichiara ripetutamente che il suo prestigio è ridotto al lumicino; che anche i Paesi «amici» non lo prendono in considerazione, lo considerano già politicamente defunto; si definisce l’amministratore di un grande comune con poteri circoscritti, tenuto dagli occupanti
come una sorta di prigioniero di lusso. Ripete a più riprese che il bilancio della Repubblica Sociale è completamente passivo, che mancano gli armamenti e i giovani richiamati se ne tornano a casa o salgono in montagna, mentre continua la guerra civile, con rappresaglie e fucilazioni. Questo è un governo che non dispone di armi, dice ai pochi confidenti. E’ un governo disarmato e le armi che ci sono rasentano il ridicolo, con gran divertimento dei «ribelli» (come Mussolini chiama i partigiani) che lo sanno e possono fare quello che vogliono. Torna a più riprese, e con insistenza, su un tema che lo affligge: la sensazione di star distruggendo il proprio passato, l’immagine che gli italiani e il mondo avevano di lui, lui che per tanti anni aveva guidato uomini ed eventi, e che oggi ne è trascinato come un fantoccio, sfiorando più il ridicolo che il tragico. Non è una sensazione soltanto degli ultimi giorni. E’ ormai diverso tempo che questo senso d’impotenza lo pervade: da quando le sorti della guerra hanno cominciato a volgere al peggio. I rovesci in Francia e in Grecia erano stati degli episodi. La perdita dell’Africa e il disastro russo avevano invece pesato in ben altro modo, così come la morte del figlio
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Mussolini nel 1944, a colloquio con un giovane volontario repubblicano
Bruno (perito in un incidente aereo nel 1941), una ferita non cicatrizzabile. La passività di fronte a Hitler a Feltre, pochi giorni prima del Gran Consiglio, sembra un segno di rinuncia; così come l’arrendevolezza di fronte ai gerarchi ribelli il 25 luglio, pur interpretata da alcuni come una strategia per passare la mano, fa pensare piuttosto a una sorta di rassegnazione. E’ questo il tratto ricorrente, insieme alla sensazione che tutto quello che è stato fatto in vent’anni sia prossimo alla scomparsa. Mai, nel corso della storia, confida a un collaboratore, si è verificata una così completa distruzione di vent’anni di fatiche e di costruzioni. Le paludi Pontine bonificate, fiore all’occhiello delle sue realizzazioni, ridotte a un grande pantano crivellato di crateri. Tiene sulla scrivania un romanzo dello scrittore tedesco Hans Fàllada, «Kleiner Mann, was nun?» [«E adesso, pover’uomo?» adattato in italiano nel 1933 come «Tutto da rifare pover’uomo» NdR], che inizia addirittura a tradurre (un segnale esplicito del tempo disponibile per impegni non di primaria importanza politica), per poi mandarlo a Claretta, confidando a un ministro che quel titolo riassume
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il punto a cui si trova la sua vita. Ad aprile del 1944 viene raggiunto dalla notizia dell’assassinio di Giovanni Gentile per mano di un gruppo di gappisti comunisti di Firenze. La notizia accresce il suo scoramento. In un appunto poi pubblicato lo definisce «poderoso pensatore fedele all’Idea». Quasi lo invidia perché la morte lo ha raggiunto inaspettata, senza preavviso, anche se il modo, come direbbe il Poeta, «ancor m’offende», segno che l’Italia sta sprofondando in un abisso di barbarie: un abisso che il Duce vede, ma che non gli suggerisce nessuna autocritica. Alle notizie che gli vengono dal fronte di guerra, l’Italia gli appare come un grande campo di manovra, dove gli eserciti e le aviazioni si scontrano indisturbati, senza che gli italiani possano fare alcunché, ma, ai suoi occhi, la responsabilità ricade solo e soltanto sulla monarchia che «ha tradito». A tratti se la prende con gli italiani, agnelli che lui ha voluto trasformare in lupi, ma che invece sono rimasti agnelli. Il Fascismo non è riuscito a creare un popolo di soldati, il comunismo sì, afferma. Gli italiani, ai suoi occhi, sono delusi, ammalati, invigliacchiti, disperati; fatta eccezione per le minoranze dell’una e dell’altra parte, si tratta di uomini che ormai non credono
ri su di lui dai quali si ricava che è stato un grand’uomo. Quindi, si arrabbia perché non ha saputo scegliere il momento giusto per morire, e fissa le date ideali al 1936 o al 1938, dopo Monaco. Rimpiange le occasioni perdute, quando si poteva fare la pace con Stalin (il macellaio mongolo, come lo chiama) e non si è fatta. Si esalta per la morte di Roosevelt, definito il grande criminale. Si commuove perché alla fine del 1944 l’Imperatore del Giappone trova il tempo per telegrafargli. I propositi più frequenti puntano tutti verso un gesto liberatore che ponga fine a malanni e umiliazioni (spesso si ispira al monologo di Amleto, ma sulla fermezza di questi propositi periodicamente enunciati e mai attuati, gli psicologi potrebbero parlare a lungo). In realtà, nel profondo, pensa che ancora tutto non sia finito, almeno sul piano dell’immagine da mostrare al mondo al termine del dramma. Accumula carte e documenti, alcuni noti, altri meno, compreso il famoso carteggio con Churchill, su cui sono corsi fiumi d’inchiostro, perché pensa di poter essere ancora protagonista in un processo di fronte alla Storia. Ma proprio questo, che è il suo obbiettivo ultimo, non compare mai nei discorsi, negli ar-
Mussolini accumula carte e documenti, alcuni noti, altri meno, compreso il famoso carteggio con Churchill, perché pensa di poter essere ancora protagonista in un processo di fronte alla Storia più a nulla e a nessuno; una massa di potenziali schiavi che alternano abulia, crudeltà e disperazione. Gli italiani gli appaiono come i degni eredi di Cesare Borgia, deboli e crudeli insieme: bravi ad ammazzarsi tra loro, meno bravi ad ammazzare i nemici. Ascolta alla radio con un collaboratore un servizio in cui vengono citati molti giudizi stranie-
ticoli, nelle lettere, nelle telefonate. Un vuoto che non è certo casuale. A dimostrazione che la carta segreta la si tiene nascosta a tutti e in tutte le circostanze. L’ultima chance di un politico che anche all’ultimo tratto del cammino non disdegnava tenere in serbo un colpo di teatro. Aldo G. Ricci
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TrATTATive neri e rossi contro la guerra civile
Aprile ’45: la pacificazione
impossibile... …eppure qualcuno ci provò. Alla vigilia del crollo si intensificarono i rapporti tra fascisti e antifascisti per arrivare ad un passaggio di poteri che scongiurasse il bagno di sangue da tutti temuto. Ma i fronti contrapposti erano troppo compositi e intrecciati per rendere il progetto attuabile: Mussolini e l’ala di sinistra del Fascismo guardavano ai socialisti e al Partito d’Azione che però erano troppo legati al Partito Comunista. I fascisti più conservatori invece dialogavano invano con i moderati della Resistenza come democristiani e liberali. Alla fine non se ne fece nulla e Mussolini guardò altrove di Stefano Fabei
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n «ponte» tra «neri» e «rossi»? E’ una delle pagine meno note, quella del tentativo da parte del Duce di trasmettere i poteri alle forze da lui ritenute meno distanti da quel Fascismo rivoluzionario cui aveva tentato di tornare con la RSI. L’argomento costituì nel secondo dopoguerra motivo di polemica sia nel campo resistenziale, tra socialisti e comunisti, sia in quello neofascista, tra intransigenti e moderati. Per decenni la storiografia ufficiale ha diffuso, incontrastata, la tesi di un’Italia in prevalenza ostile agli «occupanti»
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e di un numero, esiguo, di fascisti irriducibili al soldo dei nazisti. Al di là di tale mito, fondamento della democrazia italiana, nel Paese tra il 1943 e il 1945 fu combattuta una guerra civile che vide contrapposte due minoranze: i partigiani, in lotta per «liberare» l’Italia dalla dittatura mussoliniana – cui alcune forze della Resistenza avevano intenzione di sostituire un totalitarismo non solo di facciata e molto più duro di quello forse teorizzato, però non attuato, dal Duce – e dai suoi alleati tedeschi e per promuovere una radicale trasformazione della società; i fascisti e quanti altri, pur di diversa provenienza politica, avevano scelto di combattere sotto la bandiera
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Stefano Fabei, autore di questo articolo, nel 2011 in «I neri e i rossi» ha ricostruito la storia del tentativo di «ponte» fra fascisti e CLN alla fine della RSI
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Il filosofo napoletano Edmondo Cione (1908-1965) negli anni Sessanta. Negli ultimi mesi di guerra fu protagonista di un vano tentativo di pacificazione fra fascisti e antifascisti, boicottato dagli intransigenti di entrambi gli schieramenti
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della RSI per lealtà al Fascismo e al suo capo, per coerenza e fedeltà alla parola data. Tra le due minoranze e questo termine si addice più alla prima che alla seconda delle suddette parti - attendista rimase la massa degli italiani. Ciò premesso, nel 1944 esistevano, in entrambi i campi, uomini che avevano iniziato un lavoro inteso a stabilire un dialogo e scongiurare la guerra civile o per ridurne le conseguenze: per dirla con il socialista «mussoliniano» Carlo Silvestri, per «umanizzare la situazione». In nome di un’assoluta intransigenza a questo progetto si opponevano personaggi come Roberto Farinacci, l’alfiere del
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Fascismo più intransigente; il ministro della Cultura popolare Fernando Mezzasoma; il segretario del Partito Fascista Repubblicano Alessandro Pavolini. Da parte sua il Duce, per un’incoercibile esigenza di Stato, manovrava fin dal settembre 1943 fra le due tendenze. Ai suoi ordini operavano, a scopi distensivi, oltre al generale Niccolò Nicchiarelli, vicecomandante della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), il prefetto Gioacchino Nicoletti, il ministro dell’Educazione nazionale, Carlo Alberto Biggini, e quello della Giustizia, Piero Pisenti, i giornalisti Ugo Manunta e Gastone Gorrieri, il questore di Milano Bettini e il generale a disposizione della GNR Nunzio Luna. Essi ebbero con-
Trattative neri e rossi contro la guerra civile tatti con i socialisti Gabriele Vigorelli e Corrado Bonfantini, comandante delle brigate «Matteotti» e membro dell’esecutivo del Partito Socialista di Unità Proletaria (PSIUP) dell’Alta Italia, oltre che con il filosofo crociano Edmondo Cione, fondatore del Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista (RNRS). Il dittatore, nel novembre 1944, ricevette a Gargnano Vigorelli, favorevole alla trasmissione del potere ai socialisti e collaboratore di Bonfantini; nello stesso periodo, quest’ultimo, tramite Luna, contattò Nicchiarelli per arrivare a un accordo sul mantenimento dell’ordine, una volta ritiratisi i tedeschi, con formazioni militari composte da fascisti e partigiani. Nel corso dell’incontro autorizzato dal Duce e avvenuto a Brescia, Bonfantini disse al vicecomandante della GNR che la guerra stava terminando con l’avanzata alleata; pertanto nei territori evacuati da tedeschi e fascisti si sarebbe posta la necessità di tutelare l’ordine pubblico fino all’arrivo degli angloamericani. A Nicchiarelli, il quale dichiarò di condividere tali preoccupazioni, Bonfantini disse che c’era un solo provvedimento da prendere: la costituzione di «battaglioni del popolo» formati da membri della Guardia e da elementi designati dal Comitato di liberazione, al comando di ufficiali della GNR scelti da Nicchiarelli. L’alto ufficiale considerò l’idea degna di considerazione, affermando che occorreva agire con prudenza perché niente trapelasse ai tedeschi. Pregò pertanto il comandante partigiano di fargli avere, tramite Luna, uno schema per attuare il progetto. Di questo unico incontro con Bonfantini, nel frattempo arrestato con l’accusa di aver voluto l’uccisione del federale di Milano Aldo Resega (dicembre 1943), e della sua proposta, Nicchiarelli riferì al Duce, il quale nel gennaio successivo gli disse di accertare per quali ragioni fosse stato incarcerato e, qualora non fossero fondate, di rimetterlo in libertà, cosa che di lì a poco si verificò. Alla domanda sull’impres-
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Fascisti intransigenti e «pontisti», con i loro interlocutori fra le fila del CLNAI
Roberto Farinacci (1892-1945), fra i fondatori dei Fasci, fu sempre la voce critica e dura del radicalismo fascista
Alessandro Pavolini (19031945), segretario del PNF, fu detto il «Saint-Just della RSI» per la sua inflessibilità
sione fattagli da Bonfantini, Nicchiarelli rispose che gli era sembrato in buona fede. Nel dopoguerra il generale confermò come Mussolini avesse visto di buon occhio un’attiva collaborazione dei socialisti in seno al suo governo e permesso, a tal fine, a Cione di creare nel febbraio del 1945 il RNRS, una formazione che raccoglieva un gruppo di socialisti e sindacalisti nazionali fino allora estranei al Fascismo. Il Raggruppamento legittimava un’opposizione costituzionale all’interno della RSI, prefiggendosi l’attuazione del Manifesto di Verona e di realizzare questo programma di massima: 1) assicurare ai cittadini la libertà di parola e pensiero; 2) esercitare un controllo sull’amministrazione pubblica; 3) in-
Fernando Mezzasoma (19071945), ministro della Cultura Popolare. Fascista intransigente, rifiutò la salvezza e finì a Dongo
dirizzare verso uomini adatti le scelte nel campo delle cariche pubbliche; 4) realizzare coi fatti la socializzazione. Il RNRS per volere del Duce fu autorizzato anche a pubblicare un quotidiano, «L’Italia del popolo»: 50 mila copie, molte, considerata la penuria di carta e l’ostilità al progetto di Mezzasoma che non consentì una tiratura più elevata. Se il Capo della RSI autorizzò Nicchiarelli alla trattativa con i socialisti e il Raggruppamento a operare, sull’altro versante questa politica non fu approvata da uno dei principali leader socialisti, Sandro Pertini, o almeno così avrebbe affermato il futuro presidente della Repubblica, ma solo a guerra quasi conclusa. Mussolini voleva evitare che tornassero al potere i partiti conserva-
Carlo Alberto Biggini (19021945), ministro dell’Educazione della RSI, è uno degli uomini di cui Mussolini si fida di più
tori, gli uomini del vecchio regime accodatisi agli invasori angloamericani. A scopo distensivo, da tempo, con la collaborazione del ministro di Grazia e Giustizia, Piero Pisenti, e altri, stava accogliendo le segnalazioni di Silvestri su persone arrestate o minacciate di gravi pericoli per il loro passato antifascista, assicurandone la salvezza: furono così favoriti, tra gli altri, il comunista Franco Roveda, gli azionisti Ferruccio Parri e Riccardo Lombardi, i socialisti Guido Mazzali e Giuseppe Bentivogli, il democristiano Luigi Meda e l’anarchico Germinale Concordia. Carlo Silvestri, già giornalista de «Il Corriere della Sera», amico di Filippo Turati e di altri esponenti del riformismo socialista, conosceva Mussolini fin da quando, abbandonato il neutralismo, era stato espulso dal PSI. Interventista, dopo la conquista del potere da parte del Fascismo si era prestato a favorire il tentativo, fallito, del Duce di darsi una copertura a sinistra inserendo nel governo rappresentanti della CGL (la Confederazione Generale del Lavoro). Diventato oppositore dopo il delitto Matteotti, aveva condotto una campagna di stampa contro il governo, guadagnandosi il confino. Liberato, riammesso al giornalismo, si era poi riavvicinato al Duce e durante Mario Bonfantini, Carlo Silvestri e Guido Mazzali nel 1940, al confino per attività antifascista. Silvestri, acerrimo nemico di Mussolini durante l’affaire Matteotti, aderì alla RSI e divenne uno dei suoi principali difensori, perorando la causa della pacificazione fra fascisti e socialisti
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Piero Pisenti (1887-1980) militare e ministro della Giustizia della RSI, fu uno dei fautori della pacificazione
Niccolò Nicchiarelli (18981969), capo di SM della GNR, cercò l’accordo col CLNAI per salvaguardare l’ordine pubblico
la RSI, credendo nel «ritorno alle origini» proclamato a Verona, si era messo a disposizione «per lavorare per l’Italia e la repubblica socialista». Mussolini lo utilizzò come intermediario con le forze della Resistenza e per la trattativa con il PSIUP e il Partito d’azione, proponendo il passaggio dei poteri in cambio dell’esodo delle formazioni germaniche e della RSI, e dell’incolumità delle famiglie dei fascisti. Silvestri il 22 aprile 1945, dopo la notizia della rotta tedesca, andò a trovare in prefettura a Milano il Duce e incontrò sia Carlo Alberto Biggini, ministro dell’Educazione Nazionale, il quale lo pregò di fare il possibile per evitare la strage al momento del passaggio dei poteri, sia il ministro dell’Interno, Paolo Zerbino, che lo informò di aver in corso con i democristiani del CLNAI e gli Alleati una trattativa avviata da Angelo Tarchi, ministro dell’Economia corporativa. Alla prospettiva di consegnare il territorio della RSI al governo del Regno del Sud guidato da Ivanoe Bonomi e favorire il ritorno della monarchia e del capitalismo, Silvestri inorridiva, ritenendo che l’unica strada possibile fosse quella dell’accordo con le forze di sinistra. Una strada giudicata invece impercorribile da Zerbino, per il quale la maggior parte dei vertici del Fascismo repubblicano, ostile alla politica della socializzazione, era favorevole a dialogare con la destra antifasci-
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Mario Bonfantini (1904-1978), partigiano socialista, non riuscì a convincere Pertini a una pacificazione coi fascisti
Ferruccio Parri (1890-1981), fu il primo presidente del consiglio del dopoguerra. Onesto e probo, fu messo subito da parte
Mussolini confidò a Silvestri che il più grande dolore che avrebbe potuto provare sarebbe stato vedere spadroneggiare nel territorio della RSI carabinieri, monarchia e Confindustria sta. Era questa una prospettiva più realistica, ma secondo Silvestri, per arrivare a un serio patteggiamento, Mussolini doveva presentarsi con tutte le forze disponibili, dall’esercito di Graziani alla GNR, alle formazioni ancora disposte a difendere la causa, prendendo le distanze da quel Fascismo «di destra» che, dopo essere stato la prima causa della rovina del regime, anche a Salò aveva cercato in ogni modo di boicottare la politica sociale. L’asse tra i gerarchi «moderati», la destra antifascista e gli anglo-americani era nell’ordine naturale delle cose, essendo queste forze più o meno asservite al capitalismo e avendo l’obiettivo, col pretesto dell’anticomunismo, di fare tabula rasa delle conquiste sociali realizzate dal Fascismo e impedire ai «rossi» di ricostruire il Paese sulle fondamenta della RSI. La scelta di campo finale di Mussolini sarà a sinistra, per i valori della repubblica e del programma sociale che dovevano andare in eredità all’antifascismo repubblicano e socialista. Confidò infatti a Silvestri che il più grande dolore che potesse provare sarebbe stato vedere spadroneggiare nel territorio della Repubblica carabinieri, monarchia e
Confindustria. L’ultima posizione mussoliniana emerge in modo chiaro dalla lettera scritta da Silvestri il 22 aprile 1945 al Comitato centrale del PSIUP, in cui il giornalista si faceva mediatore della proposta del Duce di consegnare la RSI ai repubblicani e non ai monarchici, la socializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai «borghesi». Della sua persona il dittatore non faceva questione, ma chiedeva garanzie per i fascisti. La proposta, oltre che al Partito socialista, era rivolta a quello d’azione, non al PCI perché la tattica di questo escludeva che nell’attuale situazione internazionale esso potesse assumere in Italia atteggiamenti in contrasto con il riconoscimento del Paese come zona d’influenza britannica. Per ragioni di organizzazione e tempo il trapasso dei poteri, spiegava Silvestri, poteva effettuarsi solo a Milano e forse nelle città vicine dove primeggiava la presenza di operai industriali; affinché il Partito socialista, il Partito d’azione o la sua frazione anticapitalista, i repubblicani e altre forze di sinistra fuori del CLNAI potessero accettare la proposta occorreva che avessero per il domani una giustificazione di carattere contingente ma di essenziale importanza come la dichiarazione
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le formazioni volontarie fasciste si potevano impegnare a non assumere iniziative contro le forze del ClNAi o del governo di roma, con la possibilità però di continuare la lotta contro gli invasori di Milano «città aperta» e la salvaguardia degli impianti industriali e idroelettrici, premessa della ricostruzione italiana, una delle principali preoccupazioni di Mussolini. Il PSIUP, d’accordo eventualmente con il Partito d’Azione e con il tacito consenso del PCI, avrebbe preso in consegna Milano da Mussolini con un’aliquota delle forze armate della RSI che sarebbero state lasciate nella città a fini di ordine pubblico e avrebbero obbedito solo al governo provvisorio che avrebbe interpellato anche i tedeschi sulla conferma dell’integrità di Milano e delle sue industrie. Di fronte all’eventuale dichiarazione germanica di accedere alla richiesta e all’annuncio dell’evacuazione della metropoli, il governo
provvisorio avrebbe dovuto garantire che le forze armate tedesche e della RSI non sarebbero state molestate da partigiani o da altri fino a un confine da stabilirsi. Come contropartita per quanto sopra, tramite Silvestri, Mussolini chiedeva: l’incolumità delle famiglie dei fascisti e di quelli di loro isolati che sarebbero rimasti nei luoghi di abituale domicilio con l’obbligo di consegna delle armi nei termini stabiliti; l’indisturbato ritiro delle formazioni militari della RSI e germaniche per evitare conflitti e disordini fra italiani e distruzioni di impianti da parte dei tedeschi. Le formazioni volontarie fasciste si potevano impegnare a non assumere
Un generale fascista nascosto dai Pertini
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rapporti tra il generale della GNr Nunzio luna e bonfantini costituirono motivo d’imbarazzo per entrambe le parti, considerando certe «complicità» su cui è tornata «l’Unità» il 28 aprile 2009: Aldo Giannuli, tra i più noti esperti di storia dei servizi segreti, in un articolo intitolato Un’alleanza coi socialisti l’ultima mossa disperata dei repubblichini di salò, sembra lanciare una vera e propria sassata contro il presidente partigiano, uno dei monumenti più intonsi dell’antifascismo. il 7 febbraio 1946, ha scritto Giannuli, un reparto della polizia ausiliaria (partigiani) arrestò il generale luna che viveva, sotto falsa identità, nella casa milanese di Carla voltolina, futura moglie di pertini. luna dichiarò che quest’ultimo era perfettamente a conoscenza della sua vera identità e che lo aveva nascosto per ringraziarlo dei servizi resi durante la guerra di liberazione. Nell’abitazione di luna furono trovati anche documenti sulla situazione interna al partito socialista e un mazzetto di assegni firmati da bonfantini. Nonostante il generale fosse sospettato di essere finanziatore dei gruppi fascisti clandestini, l’inchiesta fu subito avocata dal questore, che prese provvedimenti contro il tenente della polizia
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che aveva operato l’arresto. luna non figurò fra gli imputati al processo contro le squadre d’Azione mussolini svoltosi poco dopo a venezia. Nelle carte del pCi milanese compare un appunto su bonfantini in cui si afferma che l’affaire luna, fu «passato sott’acqua per non mettere in cattiva luce i socialisti». Un episodio a lungo sconosciuto: è plausibile, secondo Giannuli, che le esigenze della lotta clandestina abbiano imposto molti di questi negoziati sotto banco, anche in nome di ragioni in sé nobili, ma tutto questo diventava difficile da raccontare dopo la liberazione, quando ognuno di essi sarebbe potuto apparire come un cedimento morale. e forse fu questo a obbligare pertini a quella difficile operazione per salvare l’immagine del partito. i documenti, per Giannuli, non permettono di far piena luce sulla vicenda e sulle reali motivazioni dei singoli attori, ma bastano a far capire che è una pagina di storia ancora poco nota. Affermazione condivisibile, anche se il dettaglio sconosciuto della biografia di pertini, pubblicato a 20 anni dalla scomparsa dell’ex capo dello stato non combacia in pieno con quell’immagine di assoluta intransigenza tramandata dalle agiografie ufficiali. [SF] n
iniziative operative contro le forze del CLNAI o del governo di Roma, con la possibilità però di continuare la lotta in Italia o altrove contro gli invasori. Qualora non fosse stata possibile la consegna rivoluzionaria dei poteri al PSIUP e alle altre forze di sinistra, la garanzia per l’esodo delle formazioni fasciste e per l’incolumità delle famiglie dei fascisti avrebbe dovuto avere pieno valore anche per una trasmissione di poteri tra il governo della RSI e il CLNAI. Per Mussolini era importante che quest’ultimo, e non il governo di Roma, diventasse responsabile dell’eredità repubblicana, sociale, rivoluzionaria, anticapitalistica e antimonarchica della RSI, in quanto nel CLNAI, presto o tardi, sarebbero prevalse le forze delle sinistre rivoluzionarie le quali avrebbero dovuto difendere la socializzazione e altre radicali riforme quali l’abolizione del commercio privato e la cooperativizzazione della produzione, come sacro patrimonio dei lavoratori italiani. Con la bozza della dichiarazione dettata (ma non ancora firmata) dal dittatore, Silvestri si recò da Bonfantini che doveva consegnarla all’esecutivo del Partito Scialista. Mentre aspettava la risposta, il 23 e il 24 aprile il giornalista preparò per Mussolini degli appunti riguardanti le modalità del passaggio dei poteri. Dal confronto tra i primi testi e la dichiarazione finale firmata da Silvestri e datata 25 aprile, emergono alcune notevoli modifiche, da attribuire con molta probabilità al Duce, che non ne mutavano in ogni caso la sostanza. Comunque Mussolini pareva non voler impegnarsi più di tanto prima di aver ricevuto le contro assicurazioni richieste e non voleva lasciarsi disarmare del tutto anzitempo. L’illusione sarebbe di lì a poco svanita quando il 24 aprile – alla vigilia dell’insurrezione partigiana, in un momento in cui sembrava che l’arrivo degli Allea-
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ti a Milano fosse solo questione di ore e il generale Karl Wolff, all’insaputa di Hitler, stava trattando in Svizzera il destino della Germania, con l’operazione Sunrise – si vanificavano i deboli margini dell’ultima manovra politica dell’uomo di Predappio. Anche per i socialisti meno intransigenti e meno ostili al patteggiamento, a questo punto, continuare a mantenere il pur esile filo della trattativa avrebbe potuto assumere un valore ambiguo. Per quanto pessimista, Silvestri nella mattinata scrisse un’altra nota segreta per il Duce, consigliandogli di ritirarsi da Milano nelle località predisposte per la resistenza [cioè Como e poi la Valtellina NdR], lasciando a lui e a una giunta di personalità designate dal capo della RSI il compito di «consegnare» agli antifascisti la città. Il «no» dei socialisti tuttavia ridusse le speranze di Silvestri il quale, incontrando il futuro prefetto di Milano, Riccardo Lombardi, aveva saputo che i socialisti non potevano accettare la proposta perché i partiti aderenti al CLNAI erano impegnati da vincoli così stretti che escludevano la possibilità per il PSIUP di prendere autonomamente in considerazione l’offerta. Bisognava dunque rivolgersi direttamente al CLNAI che poteva far conoscere le proposte mussoliniane agli esecutivi degli altri partiti. A deludere ulteriormente Silvestri giunse proprio la risposta dell’esecutivo socialista. Bonfantini aveva trasmesso la proposta a Basso e a Pertini il quale, rifiutando di prenderla in considerazione, disse: «Dì a Silvestri che con Mussolini non c’è proprio niente da trattare». Nel primo pomeriggio del 25 aprile 1945 Silvestri tornò dal Duce per riferire sui primi effetti della proposta della cessione dei poteri ai socialisti e agli uomini della destra del CLNAI. Il progetto, più che essere in alto mare, stava annegando nella tempesta dell’avanzata degli eserciti alleati. Soltanto pensare di
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Lettera di Piero Parini a Carlo Silvestri sui molti interventi di Mussolini a favore di Ferruccio Parri, fin dagli anni Trenta. Parri fu uno dei possibili ponti per consentire un passaggio delle consegne fra governo repubblicano e CLNAI
avere il tempo necessario a superare le posizioni degli oppositori, che si facevano sempre più rigide con l’avvicinarsi della fine, era un’ingenuità. Pertini era sempre stato autonomo: le direttive del generale americano Mark Clark e del maresciallo inglese Harold Alexander, arbitri dello
partito, a lasciar perdere i contatti con i fascisti e i loro emissari, si sentì in dovere di chiedergli questa volta come dovesse comportarsi di fronte a quella proposta. Gli fu risposto di non prenderla «in considerazione alcuna»; anzi, aggiunse Pertini, «l’insurrezione dei nostri, ormai avviata
per mussolini era importante che il ClNAi, e non il governo di roma, diventasse responsabile dell’eredità repubblicana, sociale, rivoluzionaria, anticapitalistica e antimonarchica della rsi scacchiere militare, i quali non volevano che i partigiani insorgessero senza un loro ordine, non si era mai sognato di accettarle, come, senza dubbio, rifiutò la proposta di Silvestri. Mussolini, per Lombardi e Pertini, non aveva più nessuna proposta da fare; doveva solo arrendersi. Bonfantini, più volte diffidato da Pertini, anche a nome dell’esecutivo del
dietro mio preciso ordine, doveva seguire il suo corso. La ruota aveva cominciato a girare e nessuno di noi doveva fermarla». Mussolini capì che quella via era impercorribile e cominciò a premere per incontrarsi con il vescovo di Milano, il cardinale Schuster. L’ultima chance. Stefano Fabei
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IL CREPUSCOLO DELL’ASSE ambasciatori italiani a Berlino
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1945: mentre Hitler ha compreso che non vi è altra via d’uscita dalla guerra che morire combattendo, Mussolini coltiva ancora l’idea di evitare l’ultimo, spaventoso spargimento di sangue per l’Italia. Ma proprio le SS, gli uomini che più giurano e spergiurano fedeltà ai due dittatori, hanno già intavolato trattative segrete con gli Alleati. Testimone di questa tragedia è Filippo Anfuso, ambasciatore della Repubblica Sociale a Berlino. I suoi ricordi sono al centro di un saggio sulle relazioni diplomatiche italotedesche, «L’avamposto di Mussolini nel Reich di Hitler», di cui «Storia in Rete» anticipa un passo di Gianluca Falanga |
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IL CREPUSCOLO DELL’ASSE ambasciatori italiani a Berlino
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Aprile 1945, Germania centrale: un soldato afroamericano della 12a Divisione corazzata USA si mette in posa davanti ad un gruppo di prigionieri tedeschi: gli ultimi scampoli della Wehrmacht costituiti richiamando uomini delle classi più anziane
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l 16 gennaio 1945 Hitler lascia il suo quartier generale «Nido dell’aquila» presso Ziegenberg, da dove ha condotto la fallita offensiva delle Ardenne, e ritorna a Berlino. Si sistema nel «Bunker del Führer», sotto il giardino della nuova cancelleria del Reich, da dove adesso vuole guidare l’ultima resistenza tedesca all’avanzata dei sovietici. Il «Terzo Reich» dice «affonderà combattendo». Ma in questo momento il governo nazionalsocialista è già ridotto alla rovina totale. La speranza che la coalizione nemica si sarebbe divisa, a causa dell’incompatibilità ideologica tra gli alleati occidentali e l’Unione Sovietica di Stalin, ha spinto alcuni esponenti di rilievo del governo del Reich a cercare sin dalla fine dell’estate del 1944 contatti con britannici e americani per concludere con loro una possibile pace separata a occidente. Hermann Göring, Heinrich Himmler e perfino Joachim von Ribbentrop hanno perciò inviato propri emissari, per esempio in Spagna e in Svezia. L’ambasciatore Anfuso segue con un misto di curiosità e impotenza questi tentativi disperati, quasi privati, di riconquistare
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A sinistra, Mussolini negli ultimi mesi della RSI. Il Duce era ancora convinto di poter trovare una soluzione negoziale alla guerra. A destra, l’ambasciatore a Berlino Filippo Anfuso (1901-1963) in uniforme della GNR, con il ministro degli esteri del Reich von Ribbentrop
un terreno politico, uno spazio di trattative: «Nel circolo intimo di Hitler si notava una cupa rassegnazione» scriverà dopo la guerra. L’unica eccezione è Joseph Goebbels: «Sembrava uno dei pochi a volere stringere i denti». Per quel che riguarda invece il Reichsführer delle SS Heinrich Himmler, tutti pensano che stia cercando di giungere a un compromesso con i sovietici. Ma in realtà i suoi uomini di fiducia stanno perseguendo un obiettivo completamente diverso. Himmler crede di poter offrire a britannici e americani le
re contatto con il Papa tramite gli arcivescovi di Torino e di Milano. Il Vaticano sembra a Himmler il mediatore ideale con gli alleati occidentali, dal momento che la Santa Sede si sta impegnando per risparmiare all’Italia settentrionale gli orrori di una difesa fino all’ultimo uomo e – non da ultimo – per evitare la rivoluzione sociale auspicata da molti combattenti partigiani. Si tratta di assicurare una maggioranza anticomunista per il dopoguerra. Attraverso il Vaticano, Himmler spera in un’intercessione presso i rappresentanti
«Sino a poco fa» dice Mussolini ad Anfuso «credevo possibile una mia mediazione presso Churchill. Adesso, quando si parla a Hitler dell’Inghilterra pare che venga morso dall’aspide!» divisioni delle sue Waffen-SS per una battaglia comune contro Stalin. In questa prospettiva il fronte di guerra italiano acquista di nuovo interesse. Il suo uomo in Italia, l’Obergruppenführer Karl Wolff, che in seguito al luglio è diventato anche plenipotenziario generale della Wehrmacht in Italia, viene da lui incaricato di prende-
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del Comitato di Liberazione Nazionale italiano per concludere un armistizio con i partigiani in modo da rendere possibile il ritiro delle truppe tedesche attraverso le Alpi. Infatti, con i russi nei Balcani e gli americani nella Francia meridionale, le venti divisioni della Wehrmacht tra le Alpi e la Pianura Padana sono praticamente in
trappola. L’arcivescovo di Milano, cardinale Alfredo Schuster, reagisce subito in modo positivo al tentativo di avvicinamento di Wolff. Fin dall’autunno del 144 ci sono contatti concreti e costanti tra la curia milanese e le SS. Vengono intavolate trattative che si trascinano per tutto l’inverno del 144145. Contemporaneamente, però, alcuni emissari degli Alleati che agiscono in Svizzera iniziano a
Per acquistare questo libro vai a pag. 196
I rapporti diplomatici fra Italia fascista e Reich nazista sono raccontati in «L’avamposto di Mussolini nel Reich di Hitler» di Gianluca Falanga (Marco Tropea Editore, pp. 448, € 23,00 www.marcotropeaeditore.it)
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intuire che, all’interno del comando della Wehrmacht in Italia, si discute sempre più animatamente sulla mancanza di prospettive della situazione e sulla necessità urgente di trovare vie d’uscita. Nel gennaio del 1945 i tedeschi – SS e comando della Wehrmacht – conducono trattative in piena regola per la capitolazione con gli Alleati ed esponenti del CLN, attraverso la mediazione della nunziatura apostolica di Berna, vale a dire del Vaticano, che tuttavia non condurranno ad alcun risultato. Da una parte gli esponenti nazisti Kesselring, Wolff e Rahn devono adeguarsi in ultima istanza agli umori di Hitler. Del resto conoscono già l’opinione del Führer: non accetterà mai una capitolazione in Italia. Dall’altra parte gli Alleati rifiutano categoricamente qualunque contatto, sia pure indiretto, con i capi nazionalsocialisti a Berlino. Nello stesso tempo a Gargnano anche Mussolini, che è continuamente informato da Anfuso sulle attività dell’entourage più ristretto di Hitler, riflette sulla possibilità di intavolare trattative con il nemico. «Sino a qualche
tempo fa» dice Mussolini secondo Anfuso «credevo possibile una mia mediazione presso Churchill. Adesso, quando si parla a Hitler dell’Inghilterra pare che venga morso dall’aspide! Ci ha fatto perdere due anni in Africa e infine l’abbiamo lasciata! […] Rimasti in Africa, oggi potrei ancora rivolgermi a Churchill, anche senza il consenso di Hitler, ma adesso all’Inghilterra è facile rispondere di no, pure se è convinta che il comunismo le prepari giorni diffici-
delle grandi città dell’Italia settentrionale. Ma l’arcivescovo non risponde, perché sa perfettamente come la pensano britannici e americani; quello che vale per Hitler, vale anche per Mussolini: non si tratta con i dittatori. Il 26 marzo 1945 Filippo Anfuso lascia per l’ennesima volta la capitale del Reich diretto verso il Lago di Garda. Il giorno precedente ha avuto il suo ultimo colloquio con Ribbentrop. Non si rivedranno
Il 26 marzo 1945 Filippo Anfuso lascia Berlino. Il giorno prima ha avuto il suo ultimo colloquio con Ribbentrop, che gli ha comunicato che Hitler è estremamente preoccupato del corso politico socialista radicale avviato dal Duce in Italia li». Dopo avere abbandonato, con l’accordo dell’ambasciatore, il suo antico progetto di un armistizio a oriente, in febbraio Mussolini si rivolge a sua volta al cardinale Schuster. Gli illustra a quali condizioni sarebbe disposto a trattative con gli Alleati, per risparmiare ad ambo le parti un grande spargimento di sangue nella conquista
mai più. Il membro del governo tedesco ha convocato Anfuso in una sala rimasta come per miracolo ancora intatta del ministero degli Affari Esteri, ormai quasi completamente distrutto dalle bombe, per comunicargli che Hitler è estremamente preoccupato del corso politico socialista radicale avviato dal Duce in Italia. Ribben-
«Filippo Anfuso»
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Fonti e note
Bibliografia
Controversie
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Hitler passa in rassegna gli ultimi difensori di Berlino, dei ragazzini. Il Führer aveva deciso di combattere fino all’ultimo uomo
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Karl Wolff, comandante tedesco delle SS e della polizia in Italia, e Rodolfo Graziani, ministro della Difesa fascista repubblicano, ispezionano i volontari delle SS italiane. Wolff aveva intavolato trattative cogli Alleati e la Resistenza alle spalle della RSI
trop si riferisce al programma di socializzazioni portato avanti con caparbia da Mussolini. Anfuso getta una rapida occhiata dalla finestra sulla Berlino distrutta e si affretta a congedarsi dal ministro del Reich, «nell’impossibilità di adattare [le sue parole] alla realtà», come riferirà il diplomatico anni dopo. Nelle stesse ore l’uomo di Himmler in Italia, Karl Wollf, ri-
imminente crollo del governo del Reich nonché del comando supremo a Berlino, Vietinghoff e l’intero vertice della Wehrmacht in Italia insistono con il rappresentante del governo di Washington in Svizzera, Allen Dulles, per fissare un calendario per la capitolazione e il ritiro delle truppe tedesche al di là delle Alpi. Per Mussolini, i fascisti italiani e la loro repubblica questo
Karl Wolff ha ricevuto istruzioni precise da Himmler su come mentire a Mussolini mentre le trattative segrete con il Comitato di Liberazione Nazionale per una resa tedesca procedono a ritmo serrato ferisce al generale di corpo d’amata Heinrich von Vietinghoff sullo stato delle sue trattative con gli alleati occidentali. Vietinghoff è stato nominato il 15 marzo successore del generale di corpo d’armata Kesselring nella carica di comandante supremo della Wehrmacht in Italia (Gruppo C dell’esercito). Le trattative sono a un passo dalla rottura. Prevedendo l’ormai
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significa essere ormai abbandonati al proprio destino, vale a dire consegnati alla vendetta dei partigiani. Non immaginando quanto siano avanzate le trattative segrete dei tedeschi in Svizzera, e soprattutto non sapendo che la Wehrmacht ha intenzione di piantare in asso Mussolini, l’ambasciatore Anfuso si reca in visita al capo del suo governo. Questa volta gli vuo-
le rimanere accanto il più a lungo possibile. La nomina di Anfuso a sottosegretario di Stato del ministero degli Esteri, nonché la notizia dell’arrivo del diplomatico a Gargnano, creano inquietudine in Rudolf Rahn e Karl Wolff. Entrambi temono Anfuso, perché sanno perfettamente quanto l’ambasciatore conosca in modo approfondito le dinamiche del potere in Germania e quale forte influenza sappia esercitare su Mussolini. La loro preoccupazione principale è che Anfuso possa subodorare le trattative con gli Alleati e farle fallire. Nelle prime due settimane di aprile Anfuso e Mussolini si vedono tutti i giorni. Parlano di molte cose, ripercorrono tutti gli sviluppi dei rapporti italo-tedeschi dalla presa del potere di Hitler a Berlino, per analizzare insieme gli errori più gravi e trovare loro una giustificazione. Fantasticano sulla possibilità di una «soluzione “italiana” della guerra». Inoltre Anfuso riferisce dell’ultimo colloquio con Ribbentrop e delle sue critiche
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al programma di socializzazione. Mussolini ne rimane offeso e protesta in modo energico con Rahn. Il siciliano apprezza la ritrovata vitalità del Duce, che sembra essersi lasciato alle spalle i problemi di salute degli anni precedenti. Tuttavia Anfuso non può ignorare il fatto che quell’uomo continua a essere incapace di rassegnarsi alla propria morte politica. Anfuso sa quanto il destino politico di Mussolini dipenda da Hitler. E poiché conosce perfettamente la situazione in cui si trova Hitler in quel momento – da settimane il Führer non lascia più il suo bunker, dal quale comanda armate che ormai esistono soltanto nella sua fantasia malata – Anfuso sa che il fascismo è davvero alla fine, e con lui il suo «inventore» Mussolini: «Sperò ancora di servire da intermediario tra l’Europa che s’inabissava e i vincitori? Sì: forse perché non si rendeva conto della profondità degli odii che si erano accumulati e del significato deteriore che, parallelamente, si attribuiva al termine Fascismo, e naturalmente al suo fondatore, e sottovalutava il fatto che non soltanto le armate sovietiche penetravano nel cuore dell’Europa, ma nello spirito di tutti i borghesi intellettuali e velleitari di Europa, nella generazione dei progressisti, il Fascismo era stato definitivamente condannato, dopo il lungo processo incominciato con la guerra di Spagna». Il 14 aprile Anfuso prende parte insieme a Rahn e Wolff all’ultimo colloquio italo-tedesco con Mussolini a Gargnano. Karl Wolff, che ha ricevuto istruzioni precise da Himmler il giorno prima della riunione sul modo in cui comportarsi con Mussolini, spiega che la Wehrmacht costruirà una linea difensiva alpina per un «tramonto eroico». L’ufficiale delle SS mente, perché sa che le trattative con il Comitato di Liberazione Nazio-
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nale procedono a ritmo serrato. L’espressione «tramonto» colpisce Mussolini in modo negativo. Ha già rifiutato più volte la proposta di Anfuso di raggiungere in aereo la Spagna, dove sarebbe al sicuro. Non si vuole arrendere e, se dev’essere sconfitto, vuole almeno combattere, proprio come Hitler,
mente necessaria. Sarebbe Ribbentrop a volerlo. Anfuso rimane di nuovo senza parole. Non vuole lasciare solo Mussolini. Inoltre gli ultimi collaboratori che gli sono rimasti nell’ambasciata nel Tiergarten lo informano che il ministero degli Affari Esteri ha trasferito l’intero corpo diplomatico
Mussolini rifiuta la proposta di Anfuso di fuggire in aereo in Spagna. Non si vuole arrendere e, se dev’essere sconfitto, vuole almeno combattere insieme ai suoi ultimi fedeli. Wolff gli assicura il suo appoggio. E’ l’ennesima, e ultima, bugia insieme alla sua ultima guardia del corpo e alle Brigate Nere. Mussolini risponde a Wolff che costruirà un’ultima linea difensiva del fascismo in Valtellina. I suoi interlocutori tedeschi continuano il loro gioco, assicurando il sostegno della Wehrmacht e delle WaffenSS al progetto dei fascisti italiani. È l’ultimissima bugia, l’ultimissimo atto di una tragica recita che è già durata fin troppo a lungo. Nei giorni successivi Anfuso riceve nel suo nuovo ufficio al ministero degli Esteri di Salò la visita inattesa di Rudolf Rahn. Con grande sorpresa del siciliano, l’ambasciatore tedesco prega il collega di convincere Mussolini a insistere presso Hitler per concludere un armistizio con i sovietici. Anfuso rimane senza parole. Sa che Hitler ha sempre respinto con decisione un’idea simile. Adesso che l’Armata Rossa ha già accerchiato Berlino, l’eventualità che Stalin sottoscriva un armistizio gli appare del tutto illusoria. Ciononostante Mussolini e Anfuso vengono incontro all’ambasciatore tedesco e redigono un documento che Rahn trasmette subito via telefono «al Quartier Generale di Hitler». Ma da Berlino non giunge alcuna risposta. Rahn allora insiste affinché Anfuso si rechi senza indugi a Berlino, dove la sua presenza sarebbe urgente-
in Austria, a Bad Gastein, vicino Salisburgo. Quando Anfuso lo riferisce a Rahn, questi insiste affinché si rechi almeno laggiù. «Quale significato poté allora avere quest’ultimo passo di Rahn presso Mussolini? E perché teneva tanto che io tornassi in Germania?» Anfuso dovrà riflettere molto su queste domande nei giorni successivi. Anche Mussolini nutre sospetti sull’insistenza di Rahn. Nell’ultima riunione del 14 aprile Wolff e Rahn – secondo Anfuso i due adesso agiscono in totale intesa – hanno fatto di tutto per dissuadere Mussolini dall’idea di trasferirsi a Milano per trasformarla «in una seconda Stalingrado», dove avrebbe intenzione di combattere fino alla fine. I tedeschi preferirebbero che restasse a Gargnano, oppure si rifugiasse nell’ambasciata tedesca a Merano. Ma Mussolini si mostra inflessibile. Dopo un breve momento di esitazione, tuttavia, il Duce acconsente a che Anfuso ritorni in Germania, alla condizione tuttavia che sia di nuovo al suo fianco al più presto possibile: «Bisogna che ci sia qualcuno che tiri avanti la baracca!» pare che abbia detto a un confidente.
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Gianluca Falanga [Per gentile concessione dell’editore Marco Tropea]
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APRILE la fine delle Forze Armate della RSI
COLLASSO TOTALE Tradite dai tedeschi, minate dall’interno, le forze armate della RSI crollarono in soli quattro giorni, dissolvendosi. Eppure, paradossalmente, dove furono obbligate a sostenere l’urto dell’avanzata nemica, rimasero a combattere cedendo solo di fronte alla schiacciante superiorità numerica degli Alleati e colpite nel morale da due notizie micidiali: la resa a loro insaputa dei tedeschi e la morte di Mussolini di Emanuele Mastrangelo
C
ome è stato possibile che un esercito di quasi ottocentomila uomini abbia praticamente cessato di esistere fra il 25 e il 2 aprile 145? Un dettaglio della Seconda guerra mondiale che normalmente viene liquidato con quella irrisione e sufficienza che ha sempre segnato una certa storiografia sulla Guerra Civile e la Repubblica Sociale. La realtà però è molto più complessa ed è una somma di fattori materiali e morali, di avvenimenti contingenti e infine di problemi strutturali tipicamente italiani, che è fuori luogo discutere in questa sede. Innanzi tutto va considerato che le forze armate messe in campo dalla Repubblica Sociale raggiun-
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gevano solo sulla carta gli ottocentomila effettivi ed avevano una frazione minoritaria costituita da reparti adatti al combattimento: nell’aprile del 145 si può stimare questa aliquota in territorio italiano a 5-100 mila uomini, di cui un terzo almeno fronte al nemico (dunque indisponibile per la lotta contro la guerriglia partigiana). A questi vanno aggiunti alcune decine di migliaia di brigatisti delle BBNN, solo in parte addestrati, equipaggiati e motivati al combattimento. Un’altra parte delle forze repubblicane combattenti si trovava fuori dal territorio nazionale: Balcani, Baltico, fronte orientale. E ancora, molte decine di migliaia di uomini erano completamente aggregati alle forze tedesche, specialmente nella contraerea o addirittura si
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APRILE la fine delle Forze Armate della RSI
Milano, aprile 1945: militi della Muti di varia età in posa per una foto. Di lì a pochi giorni la Legione Muti formerà il nerbo della colonna che tenterà invano di raggiungere la Valtellina per l’ultima difesa del Fascismo
trovavano nel territorio del Reich. Il resto di ciò che costituiva il dispositivo militare repubblicano in Italia era composto da reparti di servizio: logistica, salmerie, lavoratori disarmati, burocrazia militare, presidi territoriali e polizie più o meno militarizzati. Vuol dire che quando il CLNAI proclamò l’insurrezione poteva contare su un numero di guerriglieri doppio o perfino triplo (specie se si considera l’afflusso di aderenti della «venticinquesima ora») rispetto a quello delle truppe repubblicane in grado di combattere e di rispondere agli ordini dei comandi italiani. E inoltre il CLNAI godeva di molti vantaggi tattici: l’iniziativa e la possibilità di concentrare le proprie forze a volontà, le garanzie concesse dal comandante delle SS in Italia Karl Wolff,
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che si era impegnato a non attaccare più la Resistenza in cambio della disponibilità alleata a trattare una resa separata, il morale altissimo. Le basi organizzative su cui 20 mesi prima Salò aveva ricostruito quasi da zero le sue forze armate erano alquanto fragili. Nate alla garibaldina, con l’impeto del volontarismo, si era poi tentato di regolarle restituendo loro un ordine organico. Ma a questo tentativo si oppose sempre l’alleato-occupante tedesco, che in un’Italia militarmente debole vedeva solo vantaggi (anche perché i tedeschi nutrivano non poche perplessità sulla possibilità italiana di creare forze armate di qualità). Dal punto di vista del morale è innegabile che la mag-
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Divisioni e raggruppamenti di truppe della RSI Reparti della RSI
GERMANIA
Divisioni tedesche
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Ritirata e zone di concentramento per la resa
E
Reparti repubblicani ancora in armi il 2 maggio vvvvv vvvv vv
Bolzano
O.Z.A.V
Ridotto della Valtellina
Sondrio
vvv v vv vvvvv vv vvvvvv vvv vvvvvvvvv vvvvvvvvvvvv
Lugano
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Gorizia Como
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Paludi di
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LINEA VERDE II
Ravenna
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Avanzata inglese e USA fino al 6 maggio
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Argenta Comacchio
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Apuania
Avanzata inglese e USA dal 2 al 25 aprile
Pola
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La Spezia
Nizza
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Genova
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S. Benedetto Po
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Parma
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Mantova Borgoforte
Torino Liguria
CC BY SA 3.0 - 2014 Emanuele Mastrangelo
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Padova
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Vercelli
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Ivrea
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Trieste
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Treviso
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Aosta TT TTTTTT
Lubiana
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8a GB
5a US
Firenze
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Linee di resistenza delle forze della RSI
Ancona
Attacchi iugoslavi a partire dal 19 aprile
Puntate francesi dal 21 al 25 aprile
OZAK Zona d’operazioni del Litorale Adriatico
Avanzata francese dopo la ritirata tedesca
OZAV Zona d’operazioni delle Prealpi
La situazione delle forze armate della RSI nell’aprile 1945. Colte di sorpresa dalla ritirata tedesca, le truppe repubblicane cercarono di ripiegare a loro volta verso le aree di raccolta per una resa agli Alleati o verso la Valtellina, dove si sperava in una ulteriore resistenza finale. La velocità dello sfondamento nemico dopo il 19 aprile, la mancanza di ordini precisi e la fine di ogni collaborazione da parte tedesca provocò il tracollo totale. Alla fine solo pochi reparti rimasero in armi, specie sulle Alpi, contribuendo a impedire l’invasione francese. Ecco la legenda delle principali unità repubblicane al 1° aprile 1945 indicate sulla cartina: 1) div. Monterosa (aliquote); 2) div. Littorio; 3) div. San Marco; 4) div. Italia; 5) div. Etna; 6) div. Decima; 7) Unità antiguerriglia (RAP e RAU); 8) Leg. Tagliamento; 9) rtg. parà Folgore; 10) Milizia Difesa Territoriale e altri reparti
gior parte delle truppe fosse composta da richiamati o coscritti ben poco entusiasti di dover indossare una divisa per la fazione in guerra che era evidentemente destinata alla sconfitta. Inoltre i ruolini degli ufficiali, numericamente sovrabbondanti rispetto alla truppa, si trovarono riempiti da elementi delle Regie Forze Armate opportunisti o perfino in intelligenza col nemico, che non potevano non condurre male i propri reparti. Peggio ancora, molti reparti di retrovia vennero composti da ex disertori o renitenti che scesero dalle montagne dove si erano imboscati in seguito ai vari bandi di arruolamento. Un ingegnoso espediente con il quale le formazioni partigiane spedirono migliaia di uomini a «svernare» a
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spese del governo repubblicano, creando contemporaneamente cellule di resistenza, propaganda e spionaggio all’interno delle forze armate stesse. A queste deficienze circa l’elemento umano, si aggiungevano quelle sul materiale bellico: una vecchia piaga delle nostre forze armate. Armamenti ed equipaggiamenti vecchi, usurati, scarsi e soprattutto privi di munizioni, carburante e parti di ricambio. Con un panorama simile, non dovrebbe stupire se gli ottanta-centomila partigiani che fra 20 e 2 aprile si precipitarono a riconquistare le città del Nord riuscirono con relativa facilità ad aver ragione di forze (sulla carta) tre-quattro volte superiori. La realtà è che i rapporti
di forza numerici erano molto più favorevoli al CLNAI, che per giunta iniziò le operazioni di insurrezione contro forze repubblicane colte in piena «crisi di dispiegamento», quel particolare momento delle manovre militari costituito da spostamenti e incertezze che rende vulnerabile un esercito. Ma quelli che al contrario devono stupire sono i casi, tutt’altro che episodici, di resistenza fino all’ultimo offerto dalle forze repubblicane soprattutto contro gli Alleati. L’esercito di Salò era infatti costituito sì principalmente da coscritti e richiamati, ma aveva un nerbo di volontari come non si è mai visto nella storia militare italiana. La sua efficienza era dunque fortemente polarizzata: da un lato una minoranza agguerrita e fana-
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tica, dall’altro la massa degli sfiduciati e dei fatalisti in attesa della prima occasione buona per farla finita con una guerra data per perduta. Quando i primi si trovarono sotto l’urto dell’avanzata nemica, offrirono una resistenza che andò oltre le aspettative. Operativamente la maggior parte dei reparti repubblicani combattenti si trovava sotto comando tedesco: quelli schierati al fronte dipendevano dai comandi militari, quelli nelle retrovie dal comando delle SS e della polizia. Sulla frontiera orientale i reggimenti della Milizia Territoriale erano in tutto e per tutto subordinati ai tedeschi, anche amministrativamente. Questa condizione di subalternità nuoceva fortemente al morale dei soldati repubblicani: sebbene alcuni piccoli reparti integrati come truppe d’elite all’interno delle divisioni tedesche considerassero un grande onore l’essere ben considerati dai compagni di lotta della Wehrmacht, la maggior parte degli uomini subiva il disprezzo e l’alterigia degli alleati che si manifestava fino ai vertici con la scarsa fiducia che i comandi tedeschi riponevano nelle forze italiane. I reparti repubblicani non potevano così mai operare autonomamente, ma sempre «sotto tutela»: le grandi unità (le quattro divisioni di Graziani, la divisione Etna della GNR e la Decima) normalmente finirono sempre per essere frammentate in piccoli nuclei oppure intervallate con reparti tedeschi che nelle intenzioni dei loro comandi avrebbero dovuto garantirne la tenuta. Altre unità da combattimento non furono ammesse dai tedeschi alla linea del fronte, ma vennero impiegate in operazioni di grande polizia nelle retrovie: in pratica obbligate a combattere la guerra civile contro i partigiani, compito generalmente considerato ingrato, frustrante e mortificante. Non è un caso che i fenomeni di diserzioni
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più forti si siano manifestati non presso quei reparti che erano stati inviati al fronte, dove pur avrebbero potuto consegnarsi al nemico con i salvacondotti che venivano diffusi dalla propaganda alleata, ma fra coloro che erano costretti a subire il logorio della guerra civile. Uno stillicidio di perdite che fu ancora più drammatico per tutti quei presidi territoriali isolati, esposti alla propaganda e alle minacce partigiane (con tanto di vendette sui familiari dei militi repubblicani) e contro i quali i guerriglieri potevano concentrare le forze in azioni fulminee e micidiali, contando spesso e volentieri su «quinte colonne» interne alle stesse compagini repubblicane. Questa dispersione a macchia di leopardo dei reparti di Salò fu uno dei principali motivi del crollo finale. I tedeschi infatti costituivano non solo l’impalcatura del dispositivo militare dell’Asse in Italia settentrionale ma soprattutto il suo «sistema nervoso», avendo sotto controllo quasi per intero le linee
vano grandissimo affidamento, ma anche e soprattutto delle linee di comunicazione che questi controllavano. Insomma, quando iniziò il crollo del fronte i tedeschi iniziarono a consegnare più o meno pacificamente ai partigiani centraline telefoniche e impianti radio, consentendo a questi ultimi di guadagnare un vantaggio sostanziale sui fascisti già scossi dal tracollo militare al fronte: i partigiani avevano acquistato un sistema di comando e comunicazione, i fascisti diventavano ogni ora che passava sempre più ciechi e sordi. E per soprammercato, brancolando nel buio della guerra, trovavano là dove pensavano avrebbero dovuto esserci i «camerati germanici» il vuoto o peggio i partigiani… Il 9 aprile 1945, dopo una settimana di preparazione lungo tutto l’arco appenninico, le forze dell’8a Armata britannica davano inizio all’offensiva finale contro la Linea Verde. Dalle paludi di Comacchio alle colline antistanti Bologna un
Le divisioni italiane dell’armata Liguria furono letteralmente abbandonate sulla linea del fronte alpino da quelle tedesche, che il 23 iniziarono il ripiegamento senza avvisare i comandi italiani di comunicazione. Quando, a partire dalla seconda metà di marzo, le trattative del generale Karl Wolff per una resa separata delle forze tedesche iniziarono a concretizzarsi in una serie di atti di captatio benevolentiae nei confronti degli Alleati, la merce di scambio offerta dal generale delle SS fu a spese degli ignari repubblicani. In particolare Wolff si impegnò a bloccare l’ingaggio delle unità tedesche in operazioni antipartigiane, una defezione che dopo il 25 aprile colpì come un elettroshock le truppe repubblicane: improvvisamente i reparti fascisti si trovarono non solo privi di alleati sui quali face-
imponente bombardamento d’artiglieria e aereo frantumò le esauste difese dell’Asse: la maggior parte delle truppe che fronteggiavano l’8a Armata era composta da divisioni tedesche, ma fra queste c’erano anche diversi reparti italiani: battaglioni della Decima MAS, batterie anticarro-antiaeree dei giovanissimi volontari della Etna, battaglioni d’assalto della GNR. Nonostante la schiacciante superiorità di uomini e mezzi i britannici impiegarono 10 giorni ad aprirsi la strada su Bologna e, attraverso la stretta di Argenta, nel Polesine. Il 14 entravano in azione anche gli americani della 5a Armata sul fronte dell’Appennino.
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La sparizione e quindi la fine di Mussolini fu il colpo mortale al morale delle truppe fasciste. Già sconfortate dal tradimento tedesco, dall’incertezza sul loro destino, dalle minacce partigiane e dalla mancanza di ordini, le forze della RSI non ressero alla notizia dell’arresto e poi della morte del Duce Quando il 20 aprile cadde Bologna, fu chiaro a tutti che la valle del Po era perduta. Il comandante tedesco Heinrich von Vietinghoff ordinò il ripiegamento a nord del Po, sulla prevista linea del Ticino. A occi-
dente tuttavia, le divisioni italiane dell’armata Liguria furono letteralmente abbandonate sulla linea del fronte alpino da quelle tedesche, che il 23 iniziarono il ripiegamento senza avvisare i comandi italiani.
Sul fronte dell’Appennino lunigiano, invece, la divisione Italia, quella che più aveva sofferto per le diserzioni, offrì una dura resistenza all’avanzata americana, consentendo al grosso delle truppe italotede-
Il miraggio del Ridotto Alpino Repubblicano
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alla tarda estate del 1944 apparve chiaro ai vertici della RSI che occorreva iniziare a prepararsi al peggio. Fra le varie ipotesi prese in considerazione – scartando sia una ritirata in Baviera che nell’Alto Adige, dove si sarebbe rimasti sotto tutela tedesca – vi fu quella di costituire un’ultima difesa in Valtellina, dove far confluire le forze più fedeli del Fascismo e di là tentare di resistere in attesa di una svolta o di una resa onorevole. Il segretario del PFR Alessandro Pavolini si occupò del progetto a più riprese ma senza costanza, con pochi mezzi e con continui ripensamenti anche da parte di Mussolini. Pavolini comunque ordinò che in provincia di Sondrio fossero dislocate le Brigate Nere evacuate dalla Toscana (assieme ai famigliari di molti squadristi) dopo l’occupazione alleata della regione, e che si iniziasse a censire le difese esistenti e a progettarne di nuove e a predisporre depositi e acquartieramenti per altre masse di truppe e di profughi da far confluire al momento opportuno. Quando il 19 aprile gli inglesi sfondarono ad Argenta fu evidente che anche la linea del Po avrebbe retto molto poco e Mussolini convocò Pavolini e il capo provincia di Milano Costa per ordinare loro di accelerare i tempi. Ma era troppo tardi. In quel momento in provincia di Sondrio erano stanziate poche centinaia di camicie nere toscane (con le loro famiglie), quattro legioni confinarie, alcune aliquote della 4a Brigata Nera Mobile Aldo Resega, il cui grosso era impegnato
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in operazioni di antiguerriglia nel Cuneese, alcune centinaia di volontari francesi. L’incertezza e il panico che si diffuse quando ci si rese conto che i tedeschi stavano abbandonando gli italiani al loro destino complicò ulteriormente la situazione: solo il 25 sera, quando fu chiaro che il CLNAI non aveva intenzione di offrire garanzie per un passaggio incruento dei poteri ed evitare un bagno di sangue, Mussolini si decise a muovere verso Como. Dalla Liguria le prime colonne avevano iniziato a muovere verso nord il 24, ma si arrestarono nel vano tentativo di varcare il Po (i cui ponti erano quasi tutti distrutti) a Valenza, a nord di Alessandria, arrendendosi il 27, salvo un piccolo manipolo che raggiunse Cernobbio. Da Milano il grosso delle forze di cui poteva disporre Pavolini (la legione Muti, la locale brigata nera, reparti corazzati del Leonessa etc.) riuscì a partire solo all’alba del 26. Un’altra colonna di quasi due migliaia di elementi (molti dei quali civili) comandata dal prefetto Michele Morsero mosse da Vercelli
nel pomeriggio del 26: in 24 ore non riuscì che a spostarsi di 30 km finendo per arenarsi a Castellazzo Novarese dove giunse l’ordine di cessare il fuoco e accordarsi coi partigiani, che poi fecero strage dei prigionieri. Da Torino un concentramento di migliaia di militi e camicie nere (molti con le famiglie a seguito) guidato dal colonnello della GNR Giovanni Cabras esitò a muovere in direzione di Como fino al 27. Anche costoro, oltre diecimila uomini fra armati e civili, non percorsero che una quarantina di km verso est. A differenza però degli sfortunati uomini di Morsero, quelli di Cabras riuscirono a restare uniti e in armi indisturbati fino all’arrivo degli americani, il 5 maggio. Altre colonne partite dalle città lombarde – quella di Farinacci da Cremona, il battaglione Onore e Combattimento da Milano, i reparti della GNR di Brescia e Bergamo etc – trovarono le strade sbarrate dai partigiani. Ma il Ridotto crollò ancor prima che le truppe potessero affluirvi: le poche centinaia di squadristi toscani abili al combattimento radunati da Pavolini nella Valtellina furono assaliti dai parElementi delle Brigate Nere tigiani il 27 aprile e obbligati toscane in Valtellina nel 1945 alla resa – riferisce Giorgio Pisanò – con la minaccia di sterminarne le famiglie. Il forte di Colico, costruito nel 1912-14, uno dei punti chiave della difesa, era stato abbandonato il 26 dai tedeschi alle forze partigiane che assieme ad alcuni militari italiani passati in quelle ore alla Resistenza lo avevano assaltato il 25 aprile. Con la perdita di Colico, qualunque possibilità di stabilire una difesa in Valtellina sfumava definitivamente. [EM] n Aprile-Giugno 2014
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Prigionieri - fra cui un’ausiliaria - del battaglione Bassano della Monterosa, a Saluzzo. Il 2 maggio furono fucilati dai partigiani
sche di retrocedere verso nord con ordine. In teoria, l’ennesima ritirata dell’Asse in Italia avrebbe dovuto fermarsi su un nuova linea costituita sul Ticino. In pratica, il collasso delle forze italotedesche fu totale. A partire dal 24, quando i primi carri armati americani riuscirono a mettere i cingoli sulla sponda nord del Po, l’unica preoccupazione della maggior parte dei militari italotedeschi divenne come ottenere una resa onorevole nelle mani del nemico, evitando come la peste di consegnarsi ai partigiani. In questo panorama di dissoluzione faceva eccezione però un pugno di reparti repubblicani che decisero la lotta a oltranza: le batterie della Etna nel Mantovano, che ostacolarono le puntate dei corazzati americani; i carri della GNR, le SS italiane e le brigate nere che cercarono di sbarrare la via Emilia nei pressi dei pozzi petroliferi dell’AGIP di Gropparello; i battaglioni delle divisioni Littorio e Monterosa che assieme ai paracadutisti della Folgore tentarono di impedire l’invasione francese verso Cuneo e Aosta, arrendendosi solo all’arrivo degli americani fra 4 e 5 maggio. Il resto delle truppe italiane fu indotto a cessare il combattimento dalla prospettiva di raggiungere una «zona franca» costituita nei pressi di Ivrea dove
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avrebbero atteso l’arrivo degli Alleati per arrendersi: là confluirono quei reparti della Monterosa e della Littorio che riuscirono a ripiegare, la San Marco e i raggruppamenti antiguerriglia che presidiavano il Piemonte. In Veneto, la Decima MAS, dopo una velleitaria ipotesi di radunarsi per puntare sulla frontiera orientale ad arginare l’avanzata dei partigiani titini, si arrese a sua volta il 30, combattendo comunque fino al 2. In Venezia Giulia i presidi italiani, assieme ai tedeschi, che su questo fronte non gettarono le armi, furono accerchiati dagli iugoslavi e spazzati via o costretti alla resa. Pola e Fiume resistettero fino ai primi di maggio, nella vana speranza che i britannici o addirittura la Regia Marina inviassero le loro forze a rilevarli. Un discorso a parte merita la cosiddetta «colonna Pavolini» e i reparti delle Brigate Nere che si erano radunate in Valtellina per un’estrema difesa [vedi box nella pagina a fronte]. La colonna di uomini partita da Milano all’alba del 2 aprile non raggiunse mai il Ridotto Alpino Repubblicano, ingolfandosi nelle anguste strade del lago di Como e disorientata dal comportamento indecifrabile di Mussolini. Mentre a Milano la Guardia di Finanza oc-
cupava i palazzi del potere (e, ancora una volta, i centri di telecomunicazione) per conto del CLNAI, la colonna di fascisti che si sgranava subiva il peso dell’incertezza: demoralizzati, terrorizzati dalle minacce partigiane e certi oramai della sconfitta, moltissimi uomini iniziarono a disertare. Per l’intera giornata del 2 praticamente si interruppero i contatti coi capi della RSI: Mussolini era impegnato nei suoi misteriosi tentativi di contatto con agenti stranieri, Graziani si stava prodigando per far sì che una firma italiana al fatto compiuto lasciato dai tedeschi garantisse presso gli Alleati un trattamento secondo convenzioni di guerra anche ai prigionieri fascisti, Pavolini si aggirava sul lungolago in cerca di Mussolini. Quasi 12 ore di buio completo per le truppe rimaste indietro senza più ordini. Quando il 2 a sera si diffuse la notizia dell’arresto dei capi e di Mussolini stesso, il panico dilagò. Nella serata del 28 aprile iniziò a circolare anche la notizia della loro morte. La sparizione e quindi la fine di Mussolini fu il secondo colpo – quello mortale – al morale delle truppe fasciste. Già sconfortate dal tradimento tedesco e dall’incertezza sul loro destino, le forze della RSI non ressero alla notizia dell’arresto e poi della morte del Duce. Con la sua fine si spezzava anche l’ultimo vincolo d’onore. La maggioranza decise di gettare l’uniforme. Rimasero in armi solo – come detto – quei reparti alla frontiera che avevano di fronte gli eserciti invasori di Francia e Iugoslavia e pochissimi altri manipoli, per lo più galvanizzati dalla disperata necessità di non arrendersi ai partigiani. Quelli che invece credettero alle promesse dei vincitori e si consegnarono, impararono a loro spese che le guerre civili difficilmente finiscono con un leale accordo di resa. Emanuele Mastrangelo
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MILANO, 25 APRILE 1945:
CALMA PIATTA Il «Giorno della Liberazione» a Milano non accadde molto: la città era ancora saldamente in mano ai fascisti che all’alba del lasciarono indisturbati il capoluogo lombardo diretti a Como. Senza le poche centinaia di uomini della Guardia di Finanza non sarebbe stato possibile – durante la notte – neanche occupare i principali punti strategici: prefettura, radio, giornali… Tedeschi e Xa MAS rimasero nelle rispettive caserme in attesa degli Alleati. Mentre per l’arrivo in forze delle formazioni partigiane dalle montagne si dovette attendere addirittura il e il aprile di Luca di Bella
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l fatidico 25 aprile, un mercoledì, colse Milano avvolta in una atmosfera cupa: uffici pubblici quasi deserti, molte defezioni anche tra gli ausiliari di polizia. Ovviamente pessime le notizie provenienti dal fronte. Ma nulla di quello che l’agiografia resistenzialista porta a credere: niente battaglie o bagni di sangue, niente fragori di guerra o assalti «al Palazzo d’Inverno»: a eccezione di qualche scaramuccia nelle zone periferiche nessun fatto ebbe carattere insurrezionale; anzi, gli spettacoli pomeridiani risultarono assai affollati. Quel giorno, secondo il generale Nicchiarelli della GNR, il territorio della Repubblica si riduceva alla sola Lombardia e neanche tutta giacché gli Alleati erano già quasi a Brescia e insidiavano dappresso Cremona. Inoltre si registravano le prime notizie di azioni partigiane a Varese e a Legnano. La lotta era sostenuta ormai, dove lo era, solo dalle formazioni militari della RSI: i tedeschi, che con la loro mancata resistenza avevano anticipato il crollo del fronte, erano ovunque
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in ritirata, comprensibilmente desiderosi di ritornare in patria e di rischiare il meno possibile ora che i giochi sembravano fatti. Ciò nonostante, l’ambasciatore Rahn a metà tra il tragico e il ridicolo, proprio in quelle ore premeva perché il ministero delle Finanze repubblicano non facesse difficoltà a versare il contributo mensile per il mantenimento delle forze naziste di occupazione, ipotizzando il crearsi di «… una sfavorevole atmosfera in tutto l’ambiente militare tedesco, in un momento nel quale l’ambasciata e i comandi militari cercano di far tutto il possibile per evitare ulteriori danni non indispensabili al territorio italiano e per difenderlo dall’invasione nemica». Inutile dire che i tedeschi non videro una lira: del resto le preoccupazioni del governo italiano erano ben altre, diversi com’erano i pareri dei vari ministri circa il da farsi. Ma per Mussolini non c’era altra eventualità al di fuori della Valtellina e a riprova di ciò fece ordinare a tutti i reparti convergenti su Milano di dirigersi, data la situazione, direttamente verso
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Liberazioni giornate sopravvalutate
Milano, ore 7.00 del 26 aprile 1945. I primi partigiani cominciano a percorrere le strade dopo che la colonna dei fascisti, radunata all’alba a via Dante, ha evacuato il capoluogo lombardo
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Como, prima tappa dell’itinerario previsto dai piani di ripiegamento. Sul piano delle trattative era ormai quasi concluso un accordo tra il capo della Polizia Renzo Montagna e l’avvocato Renzo Garbagni (rappresentante del governo del Sud), accordo che prevedeva il concentramento dei vari repar-
NAI emanava un decreto con cui si annunciava l’assunzione da parte del comitato stesso dei poteri civili e militari: «…in nome del popolo italiano e quale delegato del governo italiano». Si annunciava inoltre la costituzione di tribunali di guerra, lo scioglimento dei reparti fascisti, la comminazione della pena di morte per «i membri del governo
i partigiani davano per scontata la resa di Mussolini mentre questi non pensava assolutamente a tale eventualità, ma desiderava semplicemente venire a patti per evitare stragi, soprattutto ai danni di chi non l’avrebbe seguito in Valtellina ti fascisti, con le proprie armi, nel triangolo Milano-Lecco-Como, sino all’arrivo degli anglo-americani. Ma tale accordo non fu preso in considerazione da Mussolini, il quale intendeva risolvere ogni cosa in un incontro col generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà (il braccio armato della Resistenza) nel pomeriggio del 25, presso l’Arcivescovado a Milano. Nel frattempo, in casa partigiana non si era inattivi: nella stessa mattina del 25 aprile il CL-
fascista e dei gerarchi del Fascismo colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, di aver distrutto le libertà popolari, compromesso e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all’attuale catastrofe». I colpevoli di reati minori se la sarebbero cavata invece con l’ergastolo. Un altro decreto aboliva – curiosamente solo in apparenza perché la legislazione sociale della RSI era sempre stata vista male sia dalle sinistre che dagli ambienti industriali – la
Sandro Pertini e Luigi Longo nel 1950, durante un comizio elettorale. I due capi partigiani decretarono che l’insurrezione avrebbe dovuto assumere la forma di una resa dei conti coi fascisti
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socializzazione «considerati gli obbiettivi antinazionali del decreto». Sempre in mattinata, Achille Marazza, rappresentante della DC in seno al CLNAI, riferiva ai colleghi del comitato sul suo colloquio, svoltosi il giorno prima, con l’industriale Gian Riccardo Cella (che aveva acquistato da Mussolini, pochi giorni prima, gli impianti del quotidiano «Il Popolo d’Italia», fondato nel 114 e che durante la RSI non era più uscito per volere dello stesso fondatore e proprietario per evitare la censura tedesca), il quale desiderava combinare per conto di Mussolini un incontro con Cadorna tramite la Curia. Già da questo colloquio balza però evidente un contrasto di propositi che vanificherà qualsiasi sforzo conciliatore: i partigiani davano per scontata la resa di Mussolini mentre questi non pensava assolutamente a tale eventualità, ma desiderava semplicemente venire a patti per evitare stragi, soprattutto ai danni di chi non l’avrebbe seguito in Valtellina. Cella e Marazza avevano convenuto di fissare l’incontro al vertice per il pomeriggio del 25 aprile, presso l’Arcivescovado, terreno formalmente neutrale. La posizione della Resistenza era però tutt’altro che unitaria: solo il liberale Arpesani condivideva l’impostazione moderata di Marazza, un moderatismo che fin dalla fondazione del Comitato si era duramente scontrato con l’intransigenza di azionisti e socialisti, ma soprattutto dei comunisti. Nonostante il generale Clark avesse espressamente ordinato alle formazioni partigiane di non agire senza l’autorizzazione del comando supremo alleato, da Roma Togliatti aveva telegrafato a Longo che l’ordine di Clark non era stato emanato con l’accordo italiano: «Tale ordine del giorno non corrisponde agli interessi del popolo. E’ nostro interesse vitale che l’armata nazionale e il popolo si sollevino in un’unica lotta per la distruzione
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I giornali del 26 aprile 1945
dei nazi-fascisti prima della venuta degli alleati». Sempre sul fronte comunista, Luigi Longo, numero due del PCI, aveva espressamente ordinato: «Nessun lasciapassare, nessun ponte d’oro a chi se ne va, ma GUERRA di STERMINIO». Da parte sua, il socialista Sandro Pertini gli aveva fatto da contraltare affermando, in polemica con gli alleati, che «non siamo loro servi. Uccidere Mussolini sarà asserire la nostra indipendenza». Il piano di insurrezione prevedeva, con inizio alle ore 14, l’occupazione delle fabbriche. I fascisti che non si fossero arresi entro quattro ore erano passibili di fucilate «a vista». Nonostante tutti i partiti fossero equamente rappresentati in seno al CLNAI, è chiaro che un partito come quello comunista aveva un peso politico e militare enorme da far valere. Ma accreditare l’immagine di un movimento partigiano ben organizzato e numericamente cospicuo sarebbe per lo meno improprio. L’atteggiamento di certi esponenti dei partiti di sinistra in realtà non poteva vantare solide basi. Infatti la Resistenza usciva proprio allora dalla profonda crisi invernale, tanto è vero che in una riunione del marzo 145 (in cui fu redatto un documento dal titolo «Direttive operative») emerse una totale mancanza di prospettive di un certo rilievo: non si faceva il minimo accenno ad una eventuale «liberazione», si auspicava un
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crollo tedesco nella cui eventualità i partigiani avrebbero dovuto assalire il nemico in ritirata per catturare «il ricco materiale» e contrastarne il passo: a che pro non è chiaro. Così come, del resto, non si capisce con quali forze si intendesse mettere in atto questi propositi. La nota concludeva col vago proposito di «voler essere presenti alla fase finale dell’insurrezione». Un po’ poco per degli aspiranti attori di primo piano. Sempre circa la posizione «rampante» del CLNAI, Bandini ha giustamente osservato che «se già nel pomeriggio del
visto, urli di sirene dalle fabbriche annunciarono lo sciopero. In mattinata, mentre Mussolini riceveva un ulteriore smentita tedesca circa le trattative con gli alleati, si era andato formando un corteo di operai che, agitando grandi cartelli in cui si chiedeva la fine della guerra e l’aumento della razione del pane, marciava verso la Prefettura: ma la manifestazione venne sciolta ben presto. Altre brevi scaramucce in periferia non intaccano la verità di fondo: il 25 aprile, a Milano, Mussolini e i suoi ebbero fino all’ultimo libertà assoluta di movimento,
«Se già nel pomeriggio del 25 aprile Mussolini avesse effettivamente firmato un atto di resa immediata, c’è da chiedersi come materialmente il comando partigiano avrebbe potuto accettarla, con quali mezzi» ha osservato Franco bandini 25 aprile Mussolini avesse effettivamente firmato un atto di resa immediata c’è da chiedersi come materialmente il comando generale avrebbe potuto accettarla, con quali mezzi se la notte successiva dovette rivolgersi alla Legione di Finanza di Milano per far occupare la Prefettura, la radio, i giornali. Figurarsi se avrebbero potuto non si dice custodire ma neppure censire, i venti o trentamila armati presenti in città». Le formazioni partigiani otterranno il controllo completo della situazione milanese solo nella serata del 26 aprile: ma già nel primo pomeriggio del 25, come pre-
oltre che un notevole vantaggio territoriale e di armati. Inoltre va sottolineato come da parte fascista si rinunciò deliberatamente a infliggere un colpo estremamente duro al CLNAI in quanto, pur essendo a conoscenza dei rifugi in cui Cadorna e altri importanti esponenti partigiani si erano rifugiati in quei giorni, nulla si fece per arrestarli. Per ciò che riguarda Mussolini, nel primo pomeriggio del 25 in Prefettura, aiutato da Carlo Silvestri, un socialista divenuto suo confidente e collaboratore durante la RSI, riempì due borse di cuoio con i fascicoli più importanti del suo archivio
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i agenti della arlo, nel 1987
fensiva alleata. Ad esempio a Milano la prima azione avvenne la notte tra il 24 e il 25 aprile mentre la Prefettura e gli altri centri nevralgici furono occupati solo nelle prime ore del 26 aprile senza grande sforzo, visto che i fascisti si erano ormai tutti concentrati presso il Castello Sforzesco ed erano in procinto di partire per Como. Per Milano (ma anche per molte altre realtà) non si può parlare di vere azioni militari partigiane di un qualche rilievo: le rappresaglie ed i massacri avranno inizio quando a Milano non ci sarà più un reparto fascista organizzato. Del resto la presenza fascista in città era, se raffrontata alle forze partigiane, predominante: nella serata del 24 era sfilata dinanzi a Mussolini la Brigata Nera «Resega»; secondo il giornalista fascista Bruno Spampanato, che era presente, c’erano Il proclama dell’insurrezione 16 autocarri carichi di brigatisti, del 26 aprile 1945, lanciato dopo 23 motocarri con mitragliere, molche i finanzieri del generale Malgeri te mitragliatrici, due pezzi antierano entrati nella Prefettura carro e quattro pezzi trainati. Se di Milano, abbandonata dai fascisti durante la notte si pensa che la punta di diamante dell’azione partigiana era formata segreto. Secondo Silvestri si tratta- da 407 finanzieri del colonnello va della documentazione relativa Alfredo Malgieri è facile dedurre agli sforzi del governo della RSI che per i rappresentanti della resiper scongiurare la guerra civile e stenza c’era da stare poco allegri, limitare l’invadenza nazista, oltre almeno finché non fossero giunti gli Alleati o per a informazioni lo meno alcune segrete sui criIl 25 aprile a Milano formazioni mini commessi i fascisti ebbero fino delle che sino a quel dalle formazioni all’ultimo assoluta momento avepartigiane comuniste e le prolibertà di movimento vano operato in montagna. Anve della compromissione britannica nell’entrata cora nel pomeriggio del 25, mentre in guerra dell’Italia. Compiuta in Arcivescovado già si discuteva e questa operazione di selezione di mentre aveva inizio lo sciopero dei documenti, Mussolini discese nel mezzi pubblici, i fascisti milanesi cortile della Prefettura per recarsi erano riuniti a Piazza San Sepolcro, guardata da reticolati e mitrain Arcivescovado. gliatrici e verso sera ancora altri In quel momento la situazione armati si unirono a loro fino a ragnell’alta Italia è differente da come giungere il numero di parecchie solitamente la si descrive, almeno migliaia di uomini. A disposiziorelativamente ai grossi centri ur- ne di questi uomini c’erano diversi bani non ancora investiti dall’of- autocarri con mitragliere, mortai,
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lanciafiamme, due cannoncini da trincea e due pezzi d’artiglieria. Da parte sua il federale di Milano, Vincenzo Costa, ha riferito che la colonna fascista che doveva seguire Mussolini a Como era formata da ben 178 automezzi, tre o quattro carri leggeri del gruppo corazzato Leonessa e contava 4.636 fascisti e 345 ausiliarie. Se una simile massa di armata non fu utilizzata per difendere la città ma si incolonnò verso Como ciò non può essere stato se non perché ci fu la volontà politica di agire in questo senso: del resto, a cose fatte, da parte partigiana si contarono 31 caduti che non è un dato da rivoluzione. Ce ne saranno molti di più, di morti, nei giorni successivi in un clima completamente diverso e saranno morti dell’altro schieramento. Lo stesso Pietro Secchia, uno dei capi militari delle formazioni comuniste, scriverà tempo dopo che «l’insurrezione milanese fu portata a compimento per mano delle forze operanti in città e senza ausilio di formazioni partigiane, tanto meno di forze alleate». Gli unici a «correre» in aiuto ai partigiani milanesi furono i fotografi dell’agenzia «Pubblifoto» guidata da Vincenzo Carrarese il quale, andando in giro per Milano la mattina del 26 aprile, rimase molto deluso dal non poter documentare nulla dell’insurrezione che ormai doveva essere in atto dal pomeriggio precedente. Ricorda Franco Bandini, all’epoca giovane giornalista del «Corriere della Sera», che Carrarese, «rientrato in via Solferino molto perplesso, decise che se i partigiani non c’erano, li avrebbe inventati. Mobilitò i suoi aiuti, gli stampatori, i ritoccatori, i distributori e se li tirò dietro sui tetti, agli angoli delle strade, nei portoni, dovunque la sua fantasia di giornalista gli suggerì: nacque così un rullo di immagini straordinarie, che «l’Unità» pubblicò il 28 con un corsivo delirante, e che
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Il principe Junio Valerio Borghese comanda la smobilitazione della Xa MAS. La cerimonia avvenne senza problemi nella caserma della Decima, alle ore 17 del 26 aprile, dieci ore dopo che il grosso delle forze fasciste aveva lasciato Milano
poi furono ripubblicate forse migliaia di volte per ricordare la liberazione di Milano. Tantoché lo storico del futuro potrà concludere che Milano sia stata liberata dal solo Carrarese». Più che conquistata, Milano fu lasciata ai partigiani. La riprova migliore, in questo senso, viene offerta dai fatti che portarono alla resa della Xa MAS, la formazione più efficiente e temuta della RSI, che aveva la propria sede a Piazza Fiume: tutta la zona era circondata da un reticolato e presidiata da marò in assetto di guerra. Nella notte tra il 25 e il 26 aprile, il principe Junio Valerio Borghese, il comandantepadrone della Xa MAS, aveva chiesto al generale tedesco Wenning se si sentiva di assumere un iniziativa militare comune, ma il tedesco si rifiutò giustificandosi con l’ordine ricevuto di tenere le truppe tedesche consegnate in caserma. Borghese riuscì a trattare per una resa onorevole che venne formalizzata
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nel pomeriggio del 26 aprile: verso no, ore 17 del 26 aprile». Le prime le 15 arrivarono gli emissari par- formazioni partigiane giunsero tigiani del CVL (Corpo Volontari a Milano nel pomeriggio del 27 della Libertà: il «braccio armato» aprile, con un ritardo tanto indel CLNAI) con i quali Borghese spiegabile quanto clamoroso. Così si trattenne brevemente. Quindi, come a Genova e Torino (tanto per citare due tra i come ha raccontato ancora casi più imporPiù che conquistata, tanti), nonoSpampanato, si Milano fu lasciata ai rivolse ai suoi stante la relatipartigiani. La riprova è va vicinanza e uomini schierati ricordando come smobilitò la Xa MAS l’urgenza della loro che la RSI situazione, le finiva con la guerra ma restavano brigate della montagna entrarono i suoi principi. Le armi sarebbero in azione quando, in genere, tutstate consegnate a lui perché la Xa to era già finito pur non essendo MAS non si arrendeva ma smobi- state attardate da combattimenti litava. Sotto una pioggia leggera o scontri degni di nota. Con quevenne fatto l’appello dei caduti: ste brigate partigiane non si riuscì «…tre squilli di tromba e la bandie- neanche ad imporre la resa ai tera repubblicana di combattimento deschi, che si arresero agli alleati: fu ammainata. (…) Gli ufficiali si riuscì però ad imporre il terropartigiani e la loro scorta erano re dando inizio a quella che Parri sull’attenti. (…) In quel momento defininirà «macelleria messicana» fu dato il saluto al Duce. I marinai e che toccherà il suo culmine, due gridarono: “A Noi!”. E così Mus- giorni dopo con Piazzale Loreto. solini fu salutato da un reparto regolare in armi della RSI a MilaLuca Di Bella
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25 aprile incontro in Arcivescovado
Il vertice degli equivoci
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e si dovesse indicare il protagonista dell’incontro all’Arcivescovado, non ci sarebbero dubbi nell’identificarlo nell’equivoco. Tanto i fascisti quanto i rappresentanti del CLNAI e lo stesso cardinale Schuster furono, nessuno escluso, vittime di un equivoco, diverso a seconda della visuale, unico nel significato di fondo e cioè che un accordo non era possibile. I fascisti si recarono in arcivescovado con l’intenzione di trattare una resa onorevole che, oltre all’onore, salvaguardasse ovviamente la vita di tutti i fascisti e delle loro famiglie, mentre i partigiani andarono all’incontro con l’intenzione di giocare un po’ d’azzardo, cercando di ottenere in breve una resa fascista incondizionata. La loro ignoranza delle reali intenzioni di Mussolini era tale che avevano pensato alla eventualità che questi si consegnasse loro già dopo il vertice organizzato da Schuster e avevano quindi approntato una stanza presso la curia per ospitarlo in attesa di trasferirlo presso la caserma della Guardia di Finanza. Ad ogni modo da parte loro la riunione non era considerata di fondamentale importanza in quanto se entro le 20 di quella sera non si fosse giunti ad un accordo, sarebbe definitivamente decollata l’insurrezione. Infine il cardinale
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Schuster ritenne di potersi atteggiare a paciere e a gran mediatore, mentre riuscì solo a essere anch’egli vittima di quell’equivoco che aveva contribuito a creare: per organizzare ad ogni costo l’incontro disse e non disse, lasciando le altre due parti praticamente all’oscuro delle posizioni dell’avversario. Ma questa furbizia non lo esentò dall’essere, al pari degli altri, vittima, in quanto credette di potersi porre al di sopra dei contendenti che invece o non lo riconoscevano come effettiva autorità (il comunista Sereni gli urlerà in serata: «lei non è il mio vescovo ») o lo consideravano arido e opportunista (in questo senso si era espresso lo stesso Mussolini). L’incontro in Arcivescovado non fu il frutto di una lunga serie di trattative. Lo attesta un appunto dello stesso Mussolini aggiunto a mano sul foglio delle udienze pomeridiane per il 24 aprile: la scritta dice: «Cardinale Schuster», ma è ovvio che non il Cardinale ma un suo emissario sia stato ricevuto quel pomeriggio in prefettura. Inoltre si sa che il 24 aprile Cella e Marazza si erano accordati in linea di massima in questo senso. Ad ogni modo solo nella tarda mattinata del 25 aprile il progetto prese corpo realmente. Cella riferì della possibilità di intavolare delle trattative sotto il patronato del Cardinale e Mus-
solini ora accettava di recarsi in arcivescovado. Sono circa le 15 del 25 aprile quando Mussolini, Bassi, Cella, Zerbino e Barracu scendono nel cortile della prefettura: gli accordi prevedevano che i partecipanti alla riunione fossero disarmati, ma tanto Mussolini quanto il prefetto Bassi pare fossero armati di rivoltella. Mussolini mostra di tenere molto all’incognito e alla segretezza su quanto si appresta a fare: rifiuta la macchina della prefettura, né vuole uscire dalla porta principale che dà su corso Monforte. Comunica inoltre a poche persone la sua destinazione: Mussolini chiama in disparte Pavolini e i federali di Milano e Mantova, Costa e Motta, e rivela loro la sua destinazione: «Il cardinale Schuster mi ha invitato in Arcivescovado. Avete ragione: non sembra che i tedeschi abbiano intenzione di schierarsi a difesa della sponda lombarda del Po. Tra qualche ora la decisione definitiva». Detto questo Mussolini sale su una grossa auto nera. Pare che molti esponenti del governo e del partito siano rimasti all’oscuro di tutto per parecchio tempo. Il momento dell’arrivo in Arcivescovado, situato nella vicina piazza Fontana, varia a seconda delle fonti: con probabilità l’arrivo fu qualche minuto prima delle 16. Non appena giunto Mussolini manda a chiamare, tramite Barracu, il maresciallo Graziani, la cui
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25 aprile incontro in Arcivescovado
Prima di lasciare Milano per Como, Mussolini accetta di incontrare i vertici partigiani. Ma il summit che si tiene sotto l’egida del cardinale Schuster è un fallimento: per mettere tutti intorno ad un tavolo, il Cardinale ha detto e non detto. E così gli uomini della Resistenza pensano che Mussolini voglia arrendersi e consegnarsi mentre il dittatore vuole solo evitare uno spargimento di sangue e garantire l’incolumità dei fascisti che non lo seguiranno verso la Valtellina. Poi un colpo di scena stravolge i piani di tutti e porta a una accelerazione degli eventi di Fabio Andriola
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Mussolini in Prefettura mentre apostrofa il tenente Birzer delle SS. è l’ultima foto del Duce da vivo.
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«Domani, l’esercito e la GNr saranno sciolti. in quanto a me, - disse il Duce ho deciso di ritirarmi in Valtellina, con una schiera di tremila camicie nere». «e così avete intenzione di continuare la guerra sulle montagne? », fece Schuster. «Ancora per poco – lo rassicurò Mussolini – ma poi mi arrenderò» presenza era ritenuta necessaria non tanto per gli eventuali aspetti militari, quanto per precedenti contatti avuti col cardinale: la trattativa che si voleva impostare da parte fascista era esclusivamente politica e poteva riguardare le sole formazioni armate del partito. Per quanto riguardava le divisioni al fronte, ogni decisione era vincolata alla sorte dei tedeschi, con i quali costituivano un dispositivo militare unico. Al primo piano Schuster è in attesa sulla soglia del salottino per le udienze. Mussolini si accomoda su un divano: i rappresentanti del CLNAI non sono ancora arrivati. Infatti, a dimostrazione dell’approssimazione della struttura organizzativa partigiana, si recò in Arcivescovado non una vera e propria delegazione ufficiale ma solo quegli esponenti che ritennero e poterono recarcisi. Al Cardinale toccò quindi di intrattenere l’ospite: per circa un’ora riversò sul malcapitato interlocutore una serie di paterne esortazioni, nella speranza che si consegnasse a lui. Schuster, che nei momenti d’oro aveva paragonato Mussolini a Cesare, trovò calzante in quel frangente il parallelo con il Napoleone di Sant’Elena, prospettando al già angustiato dittatore la prospettiva di una espiazione inevitabile, me-
diante il carcere o l’esilio. Mussolini ammise di sentirsi alla fine dei suoi “cento giorni”. Il discorso scivolò poi sui temi dell’ora: il Cardinale pregò di evitare un’inutile strage all’Italia e di accettare la capitolazione onorevole offertagli. La risposta di Mussolini fu decisa: «Il mio programma comprende due parti e due tempi diversi. In un primo tempo, domani, l’Esercito e la GNR saranno sciolti. In quanto a me, ho deciso di ritirarmi in Valtellina, con una schiera di tremila camicie nere». «E così avete intenzione di continuare la guerra sulle montagne?», fece Schuster. «Ancora per poco – lo rassicurò Mussolini – ma poi mi arrenderò». «Non illudetevi, Duce. lo so che le camicie nere che vi seguiranno non sono che 300 e non tremila come vi si fa credere». Mussolini, sorridendo, disse: «Forse saranno un po’ di più, ma non di molto. Non mi faccio illusioni». Finalmente, quasi a rompere l’impasse, entrò nel salottino il segretario del cardinale, don Bicchierai, che annunziava l’arrivo dei capi partigiani. Prima di interrompere il colloquio, Schuster offrì al dittatore un ennesimo paragone storico, che dovette suonare urtante: infatti affermò che «un giorno la storia avrebbe riferito che egli, pur di salvare l’Italia settentrionale,
si era messo da sé sulla strada di Sant’Elena, risparmiando la rovina della Lombardia». Mussolini ribatté di credere solo nella storia antica, quella che viene redatta senza passione, e molto tempo dopo. Il Cardinale ne convenne. Quindi entrarono dall’anticamera partigiani e consiglieri fascisti, tra cui il sopraggiunto Graziani. In uno dei tanti capannelli venutisi a formare in anticamera, nei minuti precedenti il prefetto Bassi, parlando con don Bicchierai e don Corbella, era venuto a conoscenza del fatto che la resa tedesca era ormai cosa fatta. Si giunse così ad una riunione ad alto livello dove i fascisti si sarebbero trovati del tutto spiazzati. Che poi Schuster sia rimasto giocato e non abbia potuto svolgere il ruolo di gran paciere e mediatore cui aspirava, è un altro discorso: certo non poteva sapere in quel momento che l’accordo di resa sarebbe stato firmato dai tedeschi altrove e non tramite lui. Fascisti e partigiani, che non si erano salutati in anticamera, entrarono in silenzio. Subito una cosa fu chiara: non ci sarebbe stato l’incontro vis-à-vis tra i soli Mussolini e Cadorna, cioè quanto il Duce si aspettava. I partecipanti al colloquio furono nove: oltre a Schuster, Mussolini e Cadorna, erano presen-
Gli uomini in Arcivescovado: fascisti, partigiani e il Cardinale, testimoni
Paolo Zerbino (1905-1945), ministro degli Interni della RSI, era subentrato a BuffariniGuidi. Fu fucilato a Dongo
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Francesco Maria Barracu (18851945), sottosegretario alla Presidenza del Consiglio della RSI. Morì anche lui a Dongo
Rodolfo Graziani (1882-1955), ministro della Difesa della RSI. Fu tra i pochi che si salvarono dalla mattanza dell’aprile 1945
Il cardinal Ildefonso Schuster (1880-1954), cercò di proporsi come mediatore fra il CLNAI e il governo repubblicano
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Mussolini rispose a Cadorna: «Non è così che intendevo. Avevo sentito parlare di determinate condizioni: salvaguardia della vita, delle famiglie, resa onorevole per le truppe. per questo sono qui: per proteggere i miei uomini e le loro famiglie, i militi fascisti... Devo sapere quale sarà la loro sorte» ti per i fascisti Zerbino, Graziani, Barracu ed in seguito Bassi, mentre per i partigiani Marazza e Lombardi cui si aggiunse poi il liberale Arpesani. Mussolini, Barracu e Zerbino moriranno di lì a poco: tutti gli altri hanno lasciato vari resoconti. Tra le varie testimonianze spesso non c’è accordo, anche tra le narrazioni di quanti si trovavano dalla stessa parte. Tuttavia, in un mare di discordanze, è possibile ravvisare alcuni punti fermi. La riunione iniziò nell’imbarazzo, soprattutto da parte partigiana: i rappresentanti del CLNAI non sapevano se stringere o meno la mano al Duce (e pare che l’abbiano stretta) che si era fatto loro incontro salutandoli cordialmente, come ha riferito Cadorna; sopraggiunti gli altri rappresentanti fascisti, Schuster tentò (pare invano) di presentare i convenuti, quindi accennò a uscire, ma Mussolini lo pregò di restare. Subito dopo Mussolini si rivolse a Cadorna: «Intendo porre fine alla guerra civile. Quali condizioni ci porta?». Cadorna rispose che, trattandosi di argomento politico, ne lasciava la trattazione all’avvocato Marazza, il quale, nuovamente sollecitato da Mussolini ad esporre le proprie proposte, disse: «le istruzioni che ho ricevuto sono rigorose, e non ho altro da chiederle se non di arrendersi senza condizioni». A questo
punto Mussolini, secondo alcuni in maniera decisa, secondo Cadorna praticamente balbettando, insorse dicendo: «Non è così che intendevo. Avevo sentito parlare di determinate condizioni: salvaguardia della vita, delle famiglie, resa onorevole per le truppe. Per questo sono qui: per proteggere i miei uomini e le loro famiglie, i militi fascisti... Devo sapere quale sarà la loro sorte». Marazza e Lombardi si affrettarono a precisare che su quelle formalità si era già d’accordo. Mussolini: «Va bene. In questo caso si può contare di venire a un accordo». Avendo fatto Cadorna riferimento alla volontà alleata di riservare alle truppe fasciste di qualsiasi genere lo stesso trattamento applicato alle truppe tedesche, in base alle norme internazionali, eccezion fatta per i possibili criminali di guerra, Graziani disse di non volere un accordo di resa stipulato all’insaputa dei tedeschi. Pare che a questo punto Zerbino abbia detto a Mussolini che Bassi era a conoscenza di fatti nuovi ed eccezionali. Bassi fu convocato e il cardinale non riuscì a mascherare un certo imbarazzo: era ormai evidente che le sue reticenze erano state inutili. Schuster ammise l’esistenza di trattative con Wolff e diede lettura di un dattiloscritto che riportava il testo dell’accordo coi tedeschi. Probabilmente è qui che bi-
sogna fissare l’esplosione di sdegno di Mussolini che pose praticamente fine ad ogni trattativa: un fatto che ha diviso gli studiosi tra quanti ritengono sincera la indignazione del Duce e chi pensa all’ennesima finzione del consumato istrione. Mussolini ebbe espressioni dure per i tedeschi: «Per una volta tanto si potrà dire che la Germania ha pugnalato nella schiena l’Italia. Ci hanno sempre trattato come servi, e alla fine mi hanno tradito. Sin da questo momento dichiaro di riprendere nei confronti della Germania la mia libertà d’azione». Pare di capire che in questo momento la discussione si sia fatta vivace. La confusione deve essere stata grande, tanto è vero che nessuno ha ricordato tutte le fasi di quel concitato dialogare, che comunque ebbe termine quando Bassi osservò che «la resa politica dei fascisti doveva essere firmata dopo la resa tedesca per ovvie ragioni d’onore. Questa osservazione indusse Mussolini a rompere ogni indugio: «Non c’è più nulla da dire. Torno in prefettura e comunicherò a Wolff la mia determinazione di denunciare alla radio la loro slealtà». Detto ciò si alzò per uscire: il Cardinale lo seguì implorandolo di non compromettere tante fatiche e chiedendogli: «Quando darà una risposta al Comitato?». «Tra un’ora», rispose Mussolini, salutando di-
dell’ultimo, inutile tentativo di evitare il bagno di sangue finale
Raffaele Cadorna (1889-1973), capo del CVL, coordinò le azioni militari della Resistenza assieme a Parri e Longo
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Riccardo Lombardi (19011984), esponente del Pd’A, era generale delle brigate di Giustizia e Libertà
Achille Marazza (1897-1967), ex ufficiale del Regio Esercito, era diventato un dirigente della Democrazia Cristiana
Sandro Pertini (1896-1990), giunse in ritardo all’incontro e non potè mettere in atto il proposito di uccidere Mussolini
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Bassi osservò che «la resa dei fascisti doveva essere firmata dopo la resa tedesca per ovvie ragioni d’onore. Questo indusse Mussolini a rompere ogni indugio: «Non c’è più nulla da dire. Torno in prefettura e comunicherò a Wolff la mia determinazione di denunciare alla radio la loro slealtà» strattamente. Mentre la delegazione fascista scendeva le scale si imbatté in Sandro Pertini che stava salendo i gradini come una furia e che non riconobbe nessuno. Pertini – che solo a cose fatte dirà che se avesse riconosciuto Mussolini gli avrebbe sparato sul posto – venne raggiunto anche da Valiani e Sereni, decisi come lui ad impedire qualsiasi trattativa. Del resto in mattinata si era deciso di chiedere la resa incondizionata, per cui la trattativa aveva stretti margini; senza contare che Longo, per il PCI, aveva detto: «Accettiamo pure di parlare con lui, sentiamo cos’ha da dire: ma a titolo personale. Il Partito Comunista non si impegna su niente di niente». Più chiari di così... Il vero problema da affrontare è se Mussolini finse lo sdegno o fu veramente colto di sorpresa dalle rivelazioni emerse durante il colloquio con i rappresentanti della Resistenza. Preliminarmente si devono osservare due fatti: per prima cosa che l’astio per i tedeschi, in Mussolini, non datava certo dal pomeriggio del 25 aprile; inoltre si deve ricordare che lo sdegno del dittatore durerà anche dopo la fine dell’incontro all’Arcivescovado, quando non c’era più bisogno di continuare una eventuale «sceneggiata», utile per giustificare la decisione di rompere le trattative. A ogni modo una differenza di fondo c’era: se i tedeschi trattavano per la resa, non così era per i fascisti o almeno per Mussolini che desiderava sì una fine incruenta della guerra ma non disonorevole. Il suo sdegno fu causato quindi dalla constatazione non tanto che i tedeschi avevano in corso trattative con gli anglo-americani (cosa di cui aveva avuto sentore sicuramente nei giorni precedenti) quanto il constatare che i nazisti avevano comple-
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tamente abbandonato gli italiani, arrivando a formulare dettagliate condizioni per concludere le trattative. Ne consegue anche che il dittatore, in Arcivescovado, non era il più informato di tutti ma, al contrario, fu quello che venne a sapere le cose dopo tutti gli altri: credeva di andare ad incontrare il solo Cadorna e invece si ritrovò ad un affollato incontro; credeva di poter trattare e invece gli si chiese la resa senza condizioni; quasi per ultimo infine è informato del dettaglio delle trattative di resa dei tedeschi, che mai gli avevano accennato nulla espressamente e che ora gli si rivelavano decisi a mollare in extremis gli italiani (come, in piccolo, non a caso avverrà due giorni dopo a Dongo). Quest’ultimo è poi un fatto certo: infatti è da smentire, una volta per tutte, il generale Wolff che nel dopoguerra ha falsato la verità, affermando nelle proprie memorie di aver messo a parte Mussolini delle trattative da lui intavolate, sin dal 15 aprile. Eppure il verbale del colloquio tra Mussolini e Wolff del 15 aprile, redatto da Filippo Anfuso, neosottosegretario agli Esteri, sono riferiti i vari temi toccati nel colloquio, un colloquio dove non venne minimamente sfiorato il tema di eventuali trattative. In sovrappiù si tenga presente che anche Allen Dulles, l’emissario statunitense che trattava con Wolff, ha riferito che certo Mussolini non sapeva nulla delle trattative in corso, essendoci un esplicito accordo coi tedeschi per tenere all’oscuro di tutto il Duce, che tuttavia aveva notizia degli spostamenti frequenti di Wolff e dei suoi, tra l’Italia e la Svizzera. Del resto è lo stesso Wolff a contraddirsi una volta di più quando, il 13 aprile 1945, dice al principe Borghese (a cui ha appena confidato di essere in trattative con gli Alleati) che a Mussolini non dirà nulla perché «se glielo dicessimo,
lo andrebbe a raccontare subito o a Claretta o a Rachele: e allora, dopo cinque minuti, addio segreto. Non gli diremo nulla». Questo due giorni prima della «presunta» rivelazione a Mussolini: un periodo sufficiente ad un eventuale ripensamento, si dirà. Ma quel ripensamento non c’è stato: la certezza, ancora una volta, proviene dalle parole dello stesso Wolff. Il 26 aprile, incontrando a Cernobbio Graziani (che aveva da poco abbandonato la colonna Mussolini), disse al maresciallo, che gli rinfacciava il tradimento: «È stata una triste, ma dolorosa necessità regolarsi così, perché se se ne fosse parlato prima a Mussolini, il segreto sarebbe divenuto nullo!». Tuttavia le rivelazioni sulle trattative dei tedeschi non costituiscono che uno dei fattori che determinarono l’abbandono della seduta da parte di Mussolini: infatti tra le parole di Bassi e la partenza dall’Arcivescovado passarono molti minuti, forse mezz’ora, occupati per intero da una vivace discussione per cui è da escludere che Mussolini abbia preso la sua decisione «a caldo», sull’onda dell’emozione. Sul suo atteggiamento giocarono altre considerazioni: innanzitutto la proposta di resa senza condizioni era lontana dalle posizioni fasciste e non concedeva molto spazio alla trattativa. In più alla riunione mancavano i partiti di sinistra che potevano vantare un controllo pressoché totale sulle forze partigiane: senza la loro garanzia nessun accordo poteva avere solide basi. Rientrando in Prefettura, Mussolini era furente: il vertice in Arcivescovado gli sembrava aver avuto il solo scopo di incapsularlo quella notte a Milano con tutto il governo. In Prefettura, sceso dalla macchina, Mussolini investì il tenente Birzer, capo della sua scorta, rinfaccian-
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tassi. Ripeté: “Pavolini darà ordini”. [...] Uscendo dall’ufficio del Duce chiesi a Zerbino se si dovessero avvertire le forze in Valtellina di scendere a Como, ma Zerbino rispose che non era il caso, perché anche da Como si poteva arrivare in Valtellina».
Una ricostruzione di come sarebbe andata se Pertini fosse giunto in Arcivescovado in tempo per incontrare Mussolini
dogli il comportamento dei suoi superiori. Il momento è immortalato in una celebre foto, l’ultima che ritrae Mussolini vivo. Visibilmente contrariato, il Duce salì quindi rapidamente le scale, dirigendosi verso il suo studio dove si radunarono ministri e gerarchi. A Bassi che gli diceva che era necessario pensare alla sua persona, rispose toccando la tasca in cui aveva la piccola pistola: «Se mai c’è questa!». Quindi ordinò di convocare il generale Wening, l’ufficiale più alto in grado tra quelli presenti a Milano in quel momento, il quale, non appena fu introdotto nell’ufficio di Mussolini, venne investito da una serie di accuse, in tedesco, da parte del dittatore. Il tedesco, impassibile e sull’attenti, sostenne l’urto senza fiatare e quando Mussolini gli ingiunse imperiosamente di allontanarsi,
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eseguì l’ordine immediatamente, battendo i tacchi. Subito dopo aver varcato la soglia, però, la sua flemma venne meno: il federale Costa lo vide scosso e lo sentì mormorare: «Wolff... Wolff... non sapevo ». Poco dopo, ascoltati i pareri dei presenti, Mussolini (come già deciso da tempo) ordinò di recarsi subito a Como, precampo per la Valtellina. La decisione provocò le proteste di molti che volevano che si restasse a Milano e anche di chi, come Costa, accolse la decisione come un rifiuto di recarsi verso il ridotto valtellinese. Narra Costa, evidenziando con il suo stesso racconto l’equivoco che lo mosse: «...mi feci avanti a chiedere perché non si andava più in Valtellina, dove fino a poco prima erano stati mandati uomini, armi e viveri. Mussolini mi guardò quasi volesse dirmi cosa mai gli raccon-
Stanco di quella inutile schermaglia, dopo aver impartito ordini a Pavolini, Mussolini aprì una finestra sul cortile interno ordinando a tutti di prepararsi alla partenza. In capo a mezz’ora i bagagli e la colonna furono pronti. Mussolini scese in cortile con in mano la celebre borsa che tanto farà parlare di sé e del suo misterioso contenuto. Lo segue Bombacci: «Dove va lui, vado io» confida. Mussolini viene fatto passare a forza tra la folla composita che riempie il cortile: c’è chi lo implora di restare, chi urla di fare in fretta, di fare passare il Duce, chi piange o semplicemente guarda. Mussolini, a scatti, parla ora con questo ora con quello. Quindi Colombo lo spinge verso l’automobile, quasi facendolo accomodare a forza. La colonna è composta da due carri armati, da due camion con le scorte tedesca e italiana oltre ad un camioncino con rimorchio contenente casse di documenti: il numero delle macchine è imprecisato, ma certo non furono meno di dieciquindici. Nella macchina di Mussolini prende posto anche Bombacci: simbolicamente, alla fine di tutto, il Capo del Fascismo lascia Milano, dove tutto aveva avuto inizio molti anni prima, con a fianco l’uomo che aveva fondato con Gramsci il Partito Comunista italiano. La Storia, che non disdegna mai le iperboli e le contraddizioni apparenti, ci dice anche a che ora si svolse questa scena incredibile e curiosamente trascurata dagli storici: erano circa le 20 del 25 aprile 1945. Fabio Andriola [email protected]
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osa intendesse fare Mussolini una volta lasciata Milano, la sera del 25 aprile 1945, è abbastanza chiaro e decisamente ben documentato. Sono decine e decine le sue dichiarazioni concordi nell’indicare una precisa volontà: a) di non consegnarsi ai partigiani (con i quali sperava comunque di arrivare ad un passaggio di poteri incruento); b) di raggiungere la Valtellina (dove da qualche mese qualcosa era stato fatto per trincerare, accantonare riserve, distaccare alcune migliaia di uomini: non molto e comunque meno di quello che era stato progettato e che era necessario ma sempre più del nulla di cui spesso si parla); c) giunto in Valtellina riprendere le trattative con gli anglo-americani forte del fatto che a nessuno conveniva un bagno di sangue per espugnare la Valle ormai a guerra finita; d) un eventuale espatrio sarebbe stato diretto verso la Spagna e non verso la Svizzera e comunque sarebbe avvenuto solo a cose fatte, a trattative concluse, e ad armi deposte. Per fare ciò Mussolini intendeva muoversi col maggior numero di ministri possibile perché non era lui solo che andava in Valtellina per l’estrema resistenza ma era tutto (o quasi) il governo della Repubblica Sociale Italiana a doversi muoversi, con tanto di riserve auree e casse dei singoli ministeri. Poi, certo, c’erano carte, documenti, dossier che – non è una sorpresa – Mussolini aveva accuratamente preparato e che rappresentavano la sua vera arma politica. Questo programma, in tutto o in parte, Mussolini lo spiega o lo accenna in numerose occasioni negli ultimi giorni, lo ribadisce al cardinale Schuster il
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25 pomeriggio in Arcivescovado, a Milano, e ci torna su anche nelle ore successive. Insomma, giusto o sbagliato, lucido o no, questo è quello che il dittatore diceva di voler fare. Questo non ha impedito che per decenni – e non di rado ancora oggi – si sia sostenuto con una ostinazione che ha radici ideologiche e non storiche che la meta dell’ultimo Mussolini fosse solo la Svizzera nonostante sapesse che sarebbe stato respinto alla frontiera, se mai ci fosse arrivato. Il tema «Svizzera» venne inaugurato dal solito Pertini già la sera del 27 aprile 1945 quando annunciò alla Radio il fermo di Mussolini a Dongo. Poi è stato un fiorire di affermazioni apodittiche durato, come si è detto, decenni e non ancora esaurito. Tra le «perle» di questa «corrente di pensiero» più «filosofica» che storica non può non essere ricordato lo sforzo fatto, ormai negli anni Ottanta, da quel Silvio Bertoldi del «Corriere della Sera» che per anni ha occupato (con Biagi, Zavoli, Petacco, Mayda e altri) uno degli scranni più in vista della divulgazione storica in Italia, un settore su cui un giorno andrà fatta una seria riflessione per vedere come quelle firme abbiano concorso al radicamento di una «vulgata» ricca di cliché e stereotipi, spesso restia a recepire novità, nuove acquisizioni o, semplicemente, a mettere in fila con un po’ di coerenza fatti e testimonianze. Riedizione di un lavoro precedente, «Piazzale Loreto» di Bertoldi (pp. 276, € 9,20, Rizzoli) è in questo senso esemplare quando affronta il tema della fuga in Svizzera, convincimento che Bertoldi sostiene, forzandolo oltre ogni logica, in virtù della testimonianza dell’incaricato d’affari svizzero a Milano, Max Troen-
dle. Troendle non dice mai nulla che faccia realmente pensare che Mussolini volesse espatriare e, da parte sua, Bertoldi conclude regolarmente in senso opposto. Imperdibile. Leggermente più sfumato è, in tempi più recenti, il goffo e tronfio tentativo di lettura del carteggio tra Mussolini e la Petacci a Salò (con varie imprecisioni oltretutto) portato avanti da Pasquale Chessa e Barbara Raggi in «L’ultima lettera di Benito» (Mondadori, 2010). Convinti di una possibile fuga in Spagna (non si sa da dove se non si arrivava comunque prima in Valtellina visto che da Milano l’unico aereo che partì fu quello con a bordo i genitori e la sorella di Claretta) Chessa e Raggi si lanciano in osservazioni cervellotiche tipo questa (cfr. pag. 30): «Il dilemma fra passaggio in Svizzera o fuga in Spagna non sussiste. E’ più che verosimile, infatti, credere che Mussolini abbia fino alla fine, ma solo alla fine, tentato entrambe le soluzioni. Alle quali però, nel suo intimo, non pensava di dover ricorrere, convinto com’era che la trattativa per la resa avrebbe ruotato intorno alle sue molteplici strategie». Tra le «molteplici strategie» che attribuiscono a Mussolini, Chessa e Raggi non sospettano neanche che ce ne fosse una che portava direttamente sulla riva sinistra del Lago di Como dove, col tempo, si è scoperto che Mussolini aveva qualche ragione di andare. Non perché intendesse andare in Svizzera ma forse perché attendeva qualcuno che dalla Svizzera doveva arrivare. In questo senso la giornata del 26 aprile 1945, completamente spesa in attesa tra Menaggio e Grandola, a metà strada tra Como e Valtellina, è emblematica. Con alcune migliaia di uomini già concentrati
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in Valtellina (che è a circa 40 km) e altre migliaia in attesa di ordini e disposizioni a Como e che presto si sbanderanno, il dittatore cerca di muoversi con libertà, senza scorta tedesca soprattutto, e ostenta la volontà di «attendere». Poi, deluso, la sera del 26, rientra a Menaggio e poche ore dopo prende la strada per il nord che per lui finirà a Dongo. Con lui c’è sempre un giovane pilota che potrebbe essere uno dei suoi non pochi figli naturali: si chiama Virgilio Pallottelli ed è figlio di una donna che Mussolini conosce bene perché è stata una sua amante per molti anni a partire dalla metà degli anni Venti: Alice de Fonseca in Pallottelli. Alice è bella, colta, affascinante, fascista, parla bene inglese e Mussolini l’ha utilizzata più volte, durante il Regime, per contatti riservati nel mondo anglosassone (per saperne di più c’è la biografia di Gianni Scipione Rossi «Storia di Alice», Rubettino 2010). Alla fine della RSI Alice è sfollata, guarda caso, sul lago di Como, sulla sponda destra, a Lezzeno. Alloggia all’Hotel Sport che è a soli 400 metri dal rifugio di un partigiano importante, il capitano Neri, alias Luigi Canali, che proprio lì viene arrestato il 7 gennaio 1945 insieme alla sua compagna (in tutti i sensi) Giuseppina Tuissi Gianna. Neri per anni, a ragione o a torto, è stato guardato con sospetto dai suoi compagni di lotta comunisti – che lo uccideranno con Gianna – e molti studiosi gli hanno attribuito contatti con i servizi alleati, in particolare inglesi. Nel suo memoriale – scritto invano per discolparsi con i vertici del PCI – Neri accenna due volte ad un «contatto» locale indicato solo per nome: «Alice». Quella «Alice» è forse la Pallottelli? Come escluderlo visto che è Neri a gestire la strana operazione che la notte del
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«L’Unità» del 26 aprile 1945 accredita la tesi del tentativo di fuga di Mussolini
27 aprile porta Mussolini all’imbarcadero di Moltrasio dove chi si doveva presentare non si presenta ed è sempre lui che indica il nuovo rifugio momentaneo del Duce e di Claretta: Casa De Maria a Bonzanigo. Lezzeno è praticamente dall’altra parte del Lago, a pochi minuti di barca. Ma da Bonzanigo dista poche centinaia di metri anche la villa, affacciata sul lago e con imbarcadero privato, di sir James Henderson, fratello dell’ex ambasciatore inglese a Berlino, uomo con grossi legami economici e di relazioni in Italia. Henderson e Mussolini si sono conosciuti negli anni Trenta. E ancora, uno dei personaggi più manovrieri della RSI è Guido Buffarini Guidi, ministro dell’Interno fino al febbraio 1945, con Mussolini fino a Grandola. Durante la RSI Buffarini ha avuto come residenza una villa proprio a Lenno, il comune subito prima di Mezzegra. Nelle pagine che seguono si troveranno ancora altri spunti che fanno ritenere più che probabile che Mussolini fosse sulla sponda del Lago
di Como per una ragione precisa, una ragione che coinvolgeva numerose altre persone, non tutte della colonna che lo seguiva. E’ il caso, ad esempio, di Pier Bellini delle Stelle, nome di battaglia Pedro, comandante più de iure che di fatto, del distaccamento della 52a Brigata Garibaldi che fermerà la colonna italo-tedesca a Musso, subito prima di Dongo. Bellini delle Stelle svolse un ruolo importante anche dopo l’arresto di Mussolini ma ha sempre parlato molto poco pur sapendo moltissimo. Inizialmente almeno pesò molto la paura di fare la fine di Neri, della Gianna o di altri che erano morti in zona subito dopo la fine della guerra. E, stando alla confidenza fatta anni dopo ad un amico – il poeta milanese Franco Loi – Bellini delle Stelle aveva tutte le ragioni di aver paura se è vero che la sera che portò a Casa De Maria Mussolini e la Petacci, volendosi opporre alla loro soppressione, si ritrovò la pistola di qualcuno alla tempia e si «convinse». Legato anche all’avvocato Bruno Puccioni – un personaggio di cui si sanno
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L’articolo di Giancarlo Candrilli sul «Secolo d’Italia» del 17 marzo 1973
varie cose ma che meriterebbe uno studio più approfondito – che dalla sua villa di Domaso influenzava molti partigiani della zona pur essendo un «fascista» con legami a 360° in Italia e all’estero, Pedro giocò – ubbidendo all’ala moderata e filomonarchica del CLNAI e del CVL – la sua parte sia sul fronte del destino di Mussolini che su quello dei suoi documenti. Nel secondo caso qualcosa probabilmente ottenne, nel primo no anche se Mussolini aveva nei suoi confronti un credito tutt’altro che trascurabile: il salvataggio di sua sorella e della sua fidanzata. Il 17 marzo 1973 il quotidiano «Il Secolo d’Italia» pubblicava un articolo di Giancarlo Candrilli, un ricercatore storico di rara intelligenza ma restio a scrivere più di tanto, che dava notizia di un documento da lui rinvenuto: un «Appunto per il Duce», datato 13 marzo 1945, in cui il prefetto Ippoliti, del Gabinetto del ministro degli Interni (che da qualche settimana era Paolo Zerbino, anche lui finito a Dongo) riferiva sulla situazione di due donne detenute a Milano e di cui proponeva la liberazione:
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«Tale provvedimento si inquadrerebbe bene nel piano di distensione che si sta realizzando in questi giorni nella Provincia di Como». Prima osservazione: a poco più di un mese dal crollo, i vertici della RSI avevano deciso di «creare un’atmosfera distesa» proprio nella Provincia di Como. E lo si fece anche usando clemenza verso due donne legate «all’avv. Bellini Piero» (Pedro) che fa parte di una «formazione di fuori-legge operante sulla Berlinghera» (un monte della zona). Una delle due donne è Luiselena Rumi, 22 anni, laureata in lettere e insegnante, legata a Bellini – dice il rapporto – «da molta simpatia». L’altra è Eleonora Bellini delle Stelle, 29 anni, anche lei insegnante a Gravedona presso un istituto religioso. L’«Appunto» fu visto da Mussolini e reca una nota a mano forse di Mussolini, forse di Zerbino, in cui si legge «Liberarle / A Celio». Celio era il prefetto repubblicano di Como. Difficile non essere d’accordo con Candrilli quando osserva che il comportamento moderato di Bellini delle Stelle a Dongo (rispettoso con Mussolini, accondiscendente
con la Petacci, ossequioso con Barracu che era una Medaglia d’oro al Valor Militare, ostile con il colonnello Valerio e le sue condanne a morte, il coinvolgimento nella strana operazione del 27 aprile notte) non poteva non essere influenzato anche da questo evento. Senza contare che, mesi prima dello stop a Dongo, i fascisti sapevano bene chi fosse Bellini delle Stelle, in quale zona operasse ed eventualmente su quali leve agire per «ammorbidirlo». Ma anche altri legami si intrecciarono a Dongo tra il 27 e il 28 aprile. Ricordiamone ancora due: nella tarda mattinata del 28 aprile arriva a Dongo, subito dopo Valerio, l’avvocato Oscar Sforni, capo del CLN comasco, che finisce per qualche ora agli arresti per ordine dello stesso colonnello (insieme al maggiore Cosimo De Angelis, del CVL di Como e più tardi a due agenti del Sud incaricati di rintracciare Mussolini: Salvatore Guastoni e Giovanni Dessy). Forni era amico dei Pallottelli e sarà lui personalmente, il 28 aprile sera, a dare notizie rassicuranti di Virgilio alla madre Alice in ansia a Lezzeno. Anche il maggiore De Angelis ha un debito con i prigionieri di Dongo: sua moglie, finita in carcere pochi mesi prima, era stata liberata per interessamento di Claretta e del fratello Marcello. A ormai circa 70 anni da quei giorni, il tema dei fitti intrecci che si sono incrociati a Dongo è stato solo abbozzato ma quanto oggi sappiamo è sufficiente a ritenere che l’ipotesi di un «Appuntamento sul Lago», lungo la strada verso la Valtellina, è forse l’unica possibile per spiegare l’enigmatico comportamento di Mussolini in quelle ore. Che poi quell’appuntamento non ci sia stato è un altro discorso. Quello che conta è che il capo del Fascismo ci contava e si comportò di conseguenza. Anche preparandosi per tempo. n
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CACCIA AL TESORO il Duce e i suoi documenti segreti
Prima di Dongo, Mussolini perse lungo la strada documenti importantissimi che finirono in mano ai partigiani tra Milano e Como già la sera del 25 aprile 1945. Un mese dopo quei dossier, grazie a tre partigiani e ad un agente segreto, erano in mano agli inglesi. Che si son ben guardati dal restituirli. Così come di ricompensare i partigiani italiani che glieli avevano fatti avere di Fabio Andriola
i DOSSIER di M da MILANO a L poi il NULLA..
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l 25 marzo 2010 su due diversi quotidiani due notizie diverse si candidavano come altrettanti tasselli di un puzzle che, lungi dall’essere completo, è ormai da tempo abbastanza chiaro. Ed è un puzzle che racconta il tortuoso percorso – tutt’altro che scontato negli esiti – che condusse l’Italia dalla «non belligeranza» alla guerra, tra il settembre 1939 e il giugno 1940. E che condusse l’Italia a fianco del-
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la Germania invece che nel campo opposto. Ma vediamo i due tasselli: il primo, segnalato da «Avvenire» è sicuramente gustoso: carte provenienti dall’archivio di Raffaello Riccardi, ministro degli Scambi e Valute di Mussolini, rivelano come lo stesso Riccardi, d’intesa con Mussolini e Ciano, abbia attivamente portato avanti trattative segrete con l’Inghilterra (già in guerra con la Germania di Hitler dal settembre 1939) per rifornirla di armi. Una collaborazione
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CACCIA AL TESORO il Duce e i suoi documenti segreti
i MUSSOLINI: a LONDRA. A... Mussolini al lavoro nel suo studio sul Lago di Garda. Durante gli ultimi mesi di vita intensificò la raccolta di documenti e dossier che potevano avere un peso politico in una trattativa con gli Alleati e i partigiani o in un suo possibile processo nel dopoguerra
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di cui avevamo già altre tracce e ammessa – è tutto dire – anche da Denis Mack Smith. Il tutto, val bene ricordarlo, a meno di sei mesi dalla firma del Patto d’Acciaio tra Italia e Germania e parallelamente all’avvio dei lavori di quel Vallo Littorio di cui si parla su «Storia in Rete»
episodica visto che, sempre a Sacerdoti, il Regime fece ricorso – non ricavandone certo un rifiuto – anche nel quando il ministero delle Comunicazioni gli commissionò un programma di coordinamento per l’assegnazione dei materiali destinati ai lavori cantieristici. Un ruolo
All’inizio del 1942 Mussolini sbalordì il capo della polizia Carmine Senise dicendo: «non vi meravigliate se sentirete alla radio un mio discorso in onore di Roosevelt» n.54. Quelle trattative subirono uno stop ai primi del ma questo non vuol dire che in quei mesi entrambe le parti non possano aver fatto o detto cose sulle quali, in seguito, sarebbe stato meglio stendere un velo. Oltretutto – particolare interessante – tra gli uomini incaricati di trattare direttamente con Londra c’era anche un ebreo, Cesare Sacerdoti, figura eminente nel mondo della cantieristica navale. Una scelta non
strategico vista la penuria di risorse durante la guerra. Due episodi che in futuro andranno inquadrati anche nella storia dell’antisemitismo fascista. Mentre, sempre il luglio, «Il Giornale» ha segnalato un libro di Ennio Di Nolfo e Maurizio Serra: «La Gabbia Infranta» (Laterza). Un volume che, stando alla recensione, è stato scritto da due autori interessati «…a mettere in evidenza la continuità dei rapporti tra USA e Italia a dispetto del conflitto; quel coacervo militardiplomatico-politico di equivoci, trappole, inerzie, bluff, casualità, mosse false e false promesse che fu coperto, anche in virtù di quella continuità, dietro lo slogan della “resa senza condizioni” che fu tradotto nel doppio armistizio (e n n e s i m o trucco) di fine estate ‘». E, in apertura del pezzo, «Il Giornale» dà un saggio di quella commistio-
Lettera d’accompagnamento alla lista delle carte prese dai partigiani a Mussolini e consegnate all’ambasciata britannica. La lista che era allegata a questo documento è scomparsa
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ne tra belligeranti: «Alla fine del ’, qualche giorno dopo che l’Italia ebbe dichiarato guerra agli Stati Uniti, il nostro ambasciatore a Washington si imbarcò per tornare in patria. E sulla nave fu raggiunto da un emissario dell’amministrazione USA che gli comunicò confidenzialmente che “quando giungerà il momento per l’Italia di prendere le sue decisioni, il popolo italiano potrà contare su un’accoglienza favorevole da parte degli Stati Uniti”. Insomma, il democratico Roosevelt guardava alla pace, senza pregiudizi (non avendone mai avuti) verso il nostro Paese e il Fascismo. A ragion veduta, quindi, all’inizio del ’ Mussolini sbalordì il capo della polizia Carmine Senise dicendo “non vi meravigliate se sentirete alla radio un mio discorso in onore di Roosevelt”». Di tutto questo – e molto altro – resta ben poca traccia negli archivi ufficiali. Per molto tempo la spiegazione è stata semplice, tautologica, conformista: non c’è niente perché non è mai esistito nulla. Ma quelli, storiograficamente, sono tempi morti e sepolti. Oggi, per lo meno, possiamo sapere perché molte carte – che pure ci furono certamente – non sono ancora disponibili e forse sono state distrutte. Oggi, per lo meno, sappiamo chi ringraziare. Come dimostrano gli estratti che pubblichiamo qui di seguito e tratti dalla seconda edizione di «Churchill-Mussolini. Carteggio segreto» di Fabio Andriola (SugarCo, ). A Dongo, Mussolini, quando venne arrestato, aveva con se due, forse tre, borse di documenti riservati. Molte carte, viste la situazione, ma ben poche se rapportate a quelle di cui il dittatore disponeva e che volle con sé fino agli ultimi giorni. Ma per quelle carte – che avrebbero aiutato a scrivere meglio e prima quello che comunque sta emergendo - il destino aveva deciso diversamente. Come spiegano le pagine che seguono (SiR) n
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na volta presa la via di Como, la sera del 25 aprile 1945, Mussolini aveva stabilito di portare le carte per lui più importanti del suo archivio divise in due gruppi: un gruppo veniva custodito in due borse di pelle da cui non si separò che al momento dell’arresto, nel pomeriggio del 27 aprile, sulla piazza di Dongo. Il grosso delle carte invece venne chiuso in una cassetta di zinco e caricato, insieme ad altri valori ed effetti personali di Mussolini, su un camioncino che faceva parte della colonna di auto che lasciò la Prefettura di Milano dopo il fallimento delle trattative con gli uomini del CLNAI in Arcivescovado. E’ di questo secondo gruppo di carte, e di quel camioncino che ora ci si occuperà. Arrivato nella prefettura di Como, Mussolini apprende che il camioncino con a bordo la cameriera di casa Mussolini, Maria Righini e l’autista Luigi Grasso, brigadiere di Pubblica Sicurezza della «Presidenziale», non è ancora arrivato. In verità, a notte inoltrata, i passeggeri del camioncino erano arrivati a Como ma senza il mezzo di trasporto con cui avevano lasciato Milano e, cosa ancor più grave, senza il prezioso contenuto che avrebbero dovuto scortare fino al capoluogo lariano. I due, non riuscendo a far ripartire il camioncino, rimasto in panne all’altezza di Saronno, avevano raggiunto Como con mezzi di fortuna e quindi riferito ogni cosa al segretario particolare di Mussolini, Luigi Gatti. (…) Pietro Caporilli, uno dei fedelissimi di Mussolini, ricorderà di aver visto Gatti uscire dalla stanza del Duce scuro in volto, afferrare il suo mitra deposto nel vano di una finestra nel corridoio e mormorare, mentre si allontanava di fretta: «Se non si ritrova il furgoncino non avrà più pace». Contrariamente a quanto affermato da
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Lettera dell’ambasciatore britannico a Roma che informa il Foreign Office di come sia entrato in possesso delle carte sottratte a Mussolini dai partigiani
Vittorio Mussolini la spedizione di Gatti non ebbe neanche un successo parziale. Con lui c’erano Mario Nudi, responsabile della «Presidenziale» e il suo guardiaspalle, il pugile Antonio Brocchi: i tre trova-
raccontando di come era entrato in possesso delle carte scomparse dal camioncino rimasto in panne: «I documenti con i tre uomini che li hanno presi sono stati portati a Roma tre giorni fa per maggiore
Mussolini aveva i documenti in due borse di pelle dalle quali non si separó se non dopo l’arresto e in una cassetta di zinco caricata su un camioncino che si perse per strada vicino Saronno rono il camioncino Fiat 1100 Balilla abbandonato dalla Righini qualche ora prima in fiamme. Secondo altre versioni i tre non trovarono nulla. Quello che è certo è che buona parte dei documenti che Mussolini riteneva utili «per discutere con gli alleati» era sparita. Il dittatore parlava a ragion veduta visto che qualche settimana più tardi, il 18 maggio 1945, l’ambasciatore inglese a Roma, sir Noel Charles scriveva al Foreign Office di Londra
sicurezza. Oggi i documenti sono stati consegnati dai loro catturatori al brigadiere Jeffries della PWB [La Psycological Warfare Branch, Sezione guerra psicologica, NdR] che era accompagnato da un collega americano. Non ci sono state contrattazioni ma sono state fatte promesse verbali tramite il PWB e me medesimo sulle linee suggerite nel paragrafo 5 del mio telegramma n. 799 e il brigadiere Jeffrey ha promesso che quando domani avrebbe visto il SAC [il Supreme Allied
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Commander, cioè Comandante supremo alleato, NdA] avrebbe mandato loro una lettera esprimendo i ringraziamenti del SAC. Egli è stato
grande ansietà per il loro destino». A chi, e a che cosa si riferiva sir Charles? La ricostruzione fatta dal diplomatico britannico pecca di ec-
«I documenti sono originali e sembrano essere una selezione fatta personalmente da Mussolini per ricattare o per autodifesa a un processo» ha scritto al Foreign Office l’ambasciatore inglese a Roma omaggiato personalmente con fazzoletto monogrammato che Mussolini indossava quando fu catturato. (…) I documenti sono originali e sembrano essere una selezione fatta personalmente da Mussolini per portarla con sé per ricattare o per la propria autodifesa al suo processo. I documenti sono stati catturati nello stesso convoglio con Mussolini stesso, il quale mostrò
cessivo semplicismo e sembra quasi che i tre personaggi fossero stati in qualche modo presenti all’arresto di Mussolini sulla piazza di Dongo. Invece il gruppo di documenti consegnati a Charles era sicuramente proveniente dalle carte del camioncino perché chi le consegnò erano il dottor Vittorio Lamberti Bocconi (sindaco di Garbagnate nei giorni dell’insurrezione) e i fratelli Arturo e Carlo Allievi, questi ultimi due comandanti della 1a Brigata del Popolo, una formazione di «partigiani bianchi» attiva proprio nella zona di Garbagnate. Che siano loro gli uomini cui accenna Noel Charles è dimostrato da numerosi documenti che rivelano, oltretutto, che sia Lamberti Bocconi che Arturo Allievi chiesero aper ta mente una ricompensa per la loro azione, benché avessero ricevuto l’ordine di consegnare ogni cosa agli inglesi da Luigi Lettera del tenente generale W.D. Morgan a Vittorio Lamberti Bocconi, Meda, presicoi complimenti per aver consegnato «nelle mani giuste» le carte di Mussolini, che «andranno ad aggiungersi a quelle che già abbiamo» dente del CLN
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di Milano, a cui avevano consegnato ogni cosa il 2 maggio. Come già accaduto per altri «lotti» di carte mussoliniane, anche i documenti catturati dagli uomini di Allievi subirono varie scremature per soddisfare le «esigenze di riservatezza» dei vari gruppi interessati a questo o quel fascicolo. (…) «Fin dalla prima ricognizione racconta Gianfranco Bianchi a proposito dei documenti finiti in mano ai partigiani di Garbagnate – il contenuto del bauletto risulta di grande interesse: ne fa fede il verbale dattiloscritto della signorina Broggi. Vi si legge che tra i fascicoli («papelette», secondo un termine burocratico) vi sono anche diciture scritte in matita blu da Mussolini. E c’è di tutto: dalle testimonianze raccolte a carico di generali e ammiragli ritenuti responsabili della catastrofe militare dell’ settembre 194, al quaderno diario riguardante il carteggio del generale Vittorio Ambrosio, capo di Stato Maggiore generale all’atto dell’armistizio. Tre fascicoli raccolgono le copie fotostatiche delle «prove» sulle quali l’anomalo Tribunale speciale straordinario di Verona aveva fondato le condanne a morte mediante fucilazione alla schiena di Galeazzo Ciano e degli altri componenti il Gran Consiglio del Fascismo (escluso il resipiscente Tullio Cianetti) i quali, la notte del 25 luglio 194, avevano votato contro Mussolini. Un’altra «papeletta» celeste contiene l’insieme degli atti di quello stesso processo di vendetta politica tra fazioni del Fascismo. A fianco, in singolare antitesi, i fascicoli giudiziari, legati con cordoncini tricolori o blu, riguardanti gli implicati nel processo per l’uccisione di Giacomo Matteotti (da cui erano usciti quasi indenni) e il dossier su Cesare Rossi, capo dell’ufficio stampa di Mussolini ai tempi della marcia su Roma, diventato clamoroso transfuga all’esplodere dello «scandalo matteottiano»
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e perciò fatto rapire a Campione d’Italia dov’era stato attirato rientrando dalla Svizzera». (…). Manca sicuramente (e significativamente) tra i «superstiti documenti» il dossier su caso Matteotti inventariato in un primo tempo e che, negli archivi statali a Roma non c’è mai stato. Una perdita non da poco se Carlo Silvestri, all’epoca dell’affaire Matteotti tra i più accaniti avversari di Mussolini, durante la RSI, dopo aver visionato le carte dell’archivio del dittatore, si convinse dell’innocenza di Mussolini e nel dopoguerra arrivò a scrivere: «Erroneamente, nel 1924, Mussolini era stato ritenuto il mandante dell’omicidio di Giacomo Matteotti (...) erroneamente, era stato ritenuto che la causale del delitto fosse da ricercarsi nella lotta condotta dall’onorevole Matteotti contro il governo fascista. La soppressione di Matteotti fu voluta e decisa da esponenti di un putrido ambiente di finanza equivoca e di capitalismo corrotto e corruttore, cui il Governo era del tutto estraneo». La presenza di un dossier sul caso Matteotti tra le carte dell’Archivio confidenziale di Mussolini era del resto nota agli inglesi fin dal febbraio 1945, come dimostra un documento già citato in precedenza che fissa le conoscenze inglesi sul contenuto e il livello di interesse delle carte del capo del Fascismo. In quel primo elenco, al punto 24 dell’ «Appendice A» si accenna infatti a «papers relative to the Matteotti trial and other trials» (cioè «carte relative al processo Matteotti e altri processi»). La documentazione relativa ad uno dei più grossi scandali che avevano segnato la storia del Fascismo, documentazione che aveva convinto uno degli avversari più acerrimi di Mussolini a mutare avviso, venne probabilmente fatta sparire nei primissimi giorni del maggio 1945. Un caso non certo isolato. (…) In realtà la sorte dei documenti del camioncino, come abbiamo ini-
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Hitler e Mussolini si incontrano nel settembre 1943, subito dopo la liberazione del Duce da parte dei paracadutisti tedeschi. Parte del carteggio sparito nel 1945 era costituito dalla corrispondenza fra i due dittatori
ziato a vedere poco fa, ha seguito oltre alle due strade individuate da Bianchi (Vaticano e archivi italiani) anche, anzi soprattutto, una pista inglese. Una pista sconosciuta fino a quando non sono emersi dal Public Record Office di Kew (Londra), cioè dall’archivio centrale dello Stato inglese, una lunga serie di documenti, integrati da una tardiva – come spesso accade in questa storia – ma illuminante storia
in panne la sera del 25 aprile ’45 e il loro arrivo nelle mani dell’ambasciatore inglese a Roma, poche settimane più tardi. (…) La prima cosa che può essere utile sottolineare è che MacKay (ma per i gruppi della Resistenza moderata il suo nome era Knight e nessuno dei due nomi è quello vero, pare: «Ma lasciamo stare: il mio vero nome è un altro») era nella zona di Dongo alla fine di aprile 1945 e sostiene che gli inglesi
Fra le carte mancanti, il caso più significativo riguarda il dossier Matteotti, inventariato in un primo momento ma mai arrivato all’Archivio di Stato di Roma dov’era destinato... di un agente segreto britannico in pensione: il capitano René MacKay. E’ MacKay l’anello di congiunzione tra il sequestro delle carte di Mussolini trasportate dal camioncino
avrebbero voluto catturare Mussolini vivo: «Lo dico con cognizione di causa: io ero lì in quei giorni, sono arrivato nella casa di Giulino di Mezzegra (la casa dove Musso-
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lini e la Petacci hanno trascorso l’ultima notte) ventiquattr’ore dopo l’esecuzione… Vede questo fazzoletto [si tratta di un foulard di seta
no furono affidati al Comitato di liberazione nazionale, per attenuare i sospetti da parte dei partigiani che avevano partecipato all’attac-
Inizialmente gli inglesi avevano catalogato le carte di Mussolini come «documenti per la sua autodifesa». Poi peró affermarono che sarebbero state usate solo «per screditarlo» verde con la scritta: «Credere, obbedire, combattere», NdA]? Lo trovai in quella casa, ripeto ventiquattr’ore dopo l’esecuzione… Poi riuscì a impossessarmi del baule con i documenti». Il percorso di MacKay si incrocia a questo punto con la vicenda dei documenti del camioncino: «Erano le carte che Mussolini aveva portato con sé, credendo che in seguito sarebbero state utili: le lettere indirizzate a Hitler e a molti suoi alleati. Avevo appreso dell’esistenza di questo baule dal colonnello Bertoni, un ufficiale di collegamento tra noi e gli italiani. Mi aveva detto che un gruppo di partigiani s’era impossessato della cassetta di zinco. E che ora era nelle mani di Lamberti Bocconi, un medico che viveva a Garbagnate. Mi precipitai dal dottor Bocconi e dopo una lunga discussione ottenni di portare le carte al nostro comando, a Roma. Naturalmente caricai sull’aereo anche Bocconi, oltre ai due fratelli Arturo e Carlo Allievi, i partigiani che avevano procurato a Bocconi le carte». MacKay ricorda inoltre sia che Lamberti Bocconi pose delle precise condizioni sia che non tutte le carte del camioncino finirono in mano inglese: «Il dottor Bocconi mi fece firmare tre condizioni: 1) che nessun danno sarebbe ricaduto sull’interesse nazionale italiano; 2) che egli avrebbe consegnato di persona i documenti alle più alte autorità britanniche; ) che non ci sarebbe stata ricompensa in denaro (…) I documenti di interesse italia-
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co del convoglio di Mussolini. A me furono consegnate le carte di respiro internazionale». Il 1 maggio 1945 i documenti, gli Allievi, Lamberti Bocconi e MacKay sono a Roma: «… li portammo nelle sede del PWB, il Psychological Warfare Branch. Al momento della consegna c’erano anche l’ambasciatore Charles Noel, il comandante del PWB Jeffries e molte altre autorità americane e inglesi. Poi non ne
ho saputo più niente». Unica precisazione di MacKay – a precisa richiesta dell’intervistatrice – è che il carteggio Mussolini-Churchill «tra i documenti che io riportai a Roma sicuramente non c’era…». Del resto, non doveva stare tra le carte del camioncino ma in quelle conservate nelle borse che seguirono Mussolini fino a Dongo. La storia raccontata da MacKay si inserisce alla perfezione in quello che i documenti hanno già consentito di appurare. Ad esempio è del maggio 1945, ed è indirizzata al dottor Vittorio Lamberti Bocconi, una lettera scritta dal tenente generale W.D. Morgan, capo dello staff del feldmaresciallo inglese Harold Rupert Alexander, comandante alleato per tutto lo scacchiere del Mediterraneo. La lettera,
Lettera del ministero degli Interni britannico con la quale si chiede di ricompensare Lamberti Bocconi per aver consegnato le carte di Mussolini al Regno Unito
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su carta intestata dell’Allied Force Headquarters, si ricollega a quella scritta il 1 maggio precedente dall’ambasciatore inglese Noel Charles: «Il brigadiere Jeffries – scriveva Morgan – mi ha consegnato gli incartamenti che contengono alcune delle carte di Mussolini che voi insieme al geometra Allievi Arutro [così nel testo, NdA] di Zeno e Allievi Carlo di Zeno gli avete consegnato a ROMA il 1 maggio per la trasmissione al Comandante Supremo Alleato. Queste carte sono una aggiunta molto preziosa alle altre che abbiamo già ottenuto, e assicurandovi che sono state consegnate nella mani giuste, voi avete reso un leale servizio alla causa per la quale abbiamo combattuto. I rispettabili e patriottici scrupoli che vi hanno impedito di consegnare queste carte fino a quando un ufficiale alleato non vi ha assicurato che il vostro paese non avrebbe ricevuto danno dalla vostra azione sono stati pienamente apprezzati. Potete essere sicuro che (queste carte) saranno usate solo per il discredito di Mussolini e di tutto quello che ha significato. Il feldmaresciallo Alexander, perciò, mi incaricato di esprimervi la sua gratitudine per la vostra azione». La lettera scritta da Morgan consente alcune considerazioni, utili a completare ulteriormente il quadro che questo libro si sforza di delineare: per prima cosa Morgan rivela che a meno di un mese dalla morte di Mussolini molte carte, oltre a quelle provenienti dai fratelli Allievi e da Lamberti Bocconi, erano già in possesso alleato. E questo conferma una volta di più l’interesse, soprattutto inglese, a recuperare alla svelta i documenti che Mussolini aveva così scrupolosamente raccolto e a cui annetteva così grande importanza. A questa considerazione se ne può accostare una seconda: Morgan assicura Lamberti Bocconi che il materiale che ha consegnato non nuocerà all’Italia ma sarà usato esclusivamente «per
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il discredito di Mussolini e di tutto quello che ha significato». Curiosa affermazione perché, riferendosi a quelle stesse carte, pochi giorni prima l’ambasciatore inglese a Roma ne aveva dato una valutazione diversa («I documenti sono originali e sembrano essere una selezione fatta personalmente da Mussolini per portarla con sé per ricattare o per l’autodifesa al suo processo»): come possano, al tempo stesso, dei dossier avere un valore autodifensivo e, riferiti alla stessa persona, contenere notizie fortemente compromettenti, tali da gettarla nel discredito è un dilemma che pare senza soluzione. E, a ben vedere, quale delle due interpretazioni può essere la più corretta lo dice un semplice fatto: e cioè che, a quanto risulta, nessuno dei documenti consegnati da Bocconi e dagli Allievi è stato mai usato dagli angloamericani per mettere in cattiva luce un qualche aspetto dell’attività di Mussolini e del Fascismo. (…) La terza considerazione suggerita dalla lettera di Morgan riguarda l’accenno agli scrupoli che i tre italiani avrebbero mostrato all’ato della consegna delle carte agli inglesi: se ci furono degli scrupoli patriottici, come attestano le dichiarazioni del capo dello staff di Alexander, ce ne furono anche altri, ben più prosaici. «Sono stato inca-
La sede degli Archivi di Stato britannici a Londra, prima che fossero trasferiti a Kew Gardens
ni è stata consegnata alle autorità militari Alleate in Italia da tre italiani, due dei quali hanno chiesto che la loro azione possa ricevere una qualche forma di ricompensa oltre che pecuniaria». Così, dalle carte rintracciate presso il Public Record Office si evince chiaramente che sia Lamberti Bocconi che Arturo Allievi domandarono non solo una ricompensa formale (che dovrebbe essere rappresentata dalla lettera ufficiale di Morgan con il plauso di Alexander) ma anche una ricompensa materiale. Ma la vicen-
Nessuno dei documenti consegnati agli Alleati sembra essere stato mai usato dagli angloamericani per mettere in cattiva luce un qualche aspetto dell’attività di Mussolini e del Fascismo ricato dal ministro Eden – scriveva l’11 luglio 1945 il sottosegretario agli Esteri del governo inglese, Hoyer Millar, al suo collega dell’Home Office, il ministero degli Interni – di informarla che una raccolta di importanti documenti segreti che il signor Mussolini tentava di portar fuori dall’Italia quando fu catturato e giustiziato dai partigiani italia-
da riveste un interesse che va ben al di là del puro colore non tanto per le caratteristiche delle richieste italiane (un corso di specializzazione in medicina per Lamberti Bocconi e una domanda d’assunzione presso una compagnia aerea per Allievi, che era pilota) quanto per il gran daffare che si fece, almeno in un primo tempo, a Lon-
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dra per cercare di accontentarli. (…) Tra settembre e ottobre 1945 è Lamberti Bocconi a tenere banco: il 21 settembre chiede di essere mandato in Sud Africa «per alcuni mesi» per studiare sul posto i metodi per la cura e la prevenzione della tubercolosi e della «pulmonary silicosis». Inoltre il medico milanese chiede di poter fare un breve soggiorno in Gran Bretagna per studiare i metodi dell’organizzazione anti-tubercolotica anche per sopperire alle lacune accumulate durante gli anni della guerra, durante i quali non era possibile aggiornarsi. Il tanto agognato via libera arriva per Lamberti Bocconi però solo nell’ottobre 194 dopo che, nei lunghi mesi d’attesa, al medico italiano era stato trasmessa (novembre 1945) solo una pubblicazione sulla teoria e sulla pratica delle cure della tubercolosi in Gran Bretagna. Ma i problemi non sono finiti: Lamberti Bocconi pensa che il suo soggiorno di studio debba essere a carico del governo inglese che, invece, non la pensa così. Precisando i termini della questione a Lamberti Bocconi, un funzionario dell’ambasciata inglese in Italia si offre di trovare una soluzione alternativa e conclude: «Voglio cogliere l’occasione per assicurarvi che i servigi che avete reso sono stati sicuramente apprezzati dalle autorità britanniche inte-
La conclusione: il documento con cui i partigiani italiani che hanno consegnato le carte di Mussolini agli inglesi vengono ricompensati con 100 sterline
ni otterranno l’unica cosa che non avevano chiesto: soldi. Accompagnati, forse, da qualche malinteso se, qualche mese dopo, l’ambasciata inglese deve ancora prendere
«Con i documenti che sono sul camioncino si può discutere con gli alleati» avrebbe detto Mussolini la notte tra il 25 ed il 26 aprile alla Prefettura di Como. I partigiani che catturarono quelle carte, ne discussero con gli inglesi per oltre due anni.... ressate e che la presente situazione è dovuta esclusivamente alla natura eccezionale della ricompensa che avete chiesto». Il finale di questa storia è simile a quello di una farsa. E non solo perché, alla fine, i tre partigiani italia-
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l’iniziativa di scrivere a Lamberti Bocconi per precisare: «Ho la sensazione – scrive A. R. Moore il 2 agosto 194 – che probabilmente c’è stato un equivoco poiché il 2 febbraio è stata versata una somma di 1 sterline sul vostro conto presso la Banca Commerciale di Milano.
Questo è stato fatto in seguito ad un colloquio che mister Malcolm ha avuto con il signor Carlo Allievi, che lo ha informato che questo era in realtà il vostro desiderio». Una conclusione dal sapore beffardo per la vicenda di carte così importanti per stessa ammissione degli inglesi. «Comunque vadano le cose, con i documenti che sono sul camioncino si può discutere con gli alleati» avrebbe detto Mussolini la notte tra il 25 ed il 2 aprile alla Prefettura di Como. Se tre oscuri partigiani con quelle carte sono riusciti a discutere con gli inglesi per oltre due anni, chissà quanto avrebbe trovato da dire uno come lui. Fabio Andriola [email protected]
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TRADIMENTI tra Menaggio e Dongo
Che errore fidarsi d e Nelle sue ultime ore di libertà Mussolini gioca d’azzardo. E perde. Tutto va storto sia perché il suo probabile piano – un appuntamento in extremis con emissari alleati – è una scommessa difficile, sia perché sono in troppi a remare contro. Non ultimi i tedeschi che lo controllano ossessivamente, ne condizionano i movimenti, influenzano le sue scelte e, alla fine, lo consegnano ai partigiani a Dongo con un clamoroso voltafaccia che lascia tutti di stucco. Lui per primo… di Fabio Andriola
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a sera del 25 aprile Mussolini e il suo seguito sono in prefettura a Como: il piano, verosimilmente, è quello di portare a conclusione, in extremis, un contatto con emissari anglo-americani che devono giungere dalla vicina Svizzera. Questo spiega il girovagare del Duce e del suo seguito, nelle ore successive, lungo il confine: un girovagare che ha tratto in inganno i molti che per anni hanno creduto (non ingenuamente ma spinti dal pregiudizio ideologico) che cercasse il momento migliore per espatriare in Svizzera. Ma la cosa non ha né senso né riscontri. Per il suo piano Mussolini ha bisogno di avere con sé, quale merce di scambio e di pressione, molte delle sue carte. Molte ma non tutte: tra i fascicoli che si porta dietro infatti non ci sono alcuni dossier che rimasti a Villa Feltrinelli verranno catturati dagli inglesi pochi giorni dopo. Tra i molti incartamenti rinvenuti, alcuni dimostrano come Mussolini avesse pronte armi polemiche e politiche per precisare anche
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Una presunta foto di uno dei camion della colonna della contraerea tedesca che trasportava Mussolini poco prima di consegnarlo a un posto di blocco partigiano
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d ei tedeschi...
TRADIMENTI tra Menaggio e Dongo
la sua posizione verso i tedeschi a guerra finita. Dal «Catalogo preliminare dei documenti trovati nella Villa di Mussolini», inventario fatto il 24 maggio 1945 dagli inglesi, risultano rapporti sulla situazione delle forze armate italiane dopo il settembre ‘4, sulla condotta delle truppe tedesche in Italia, sulla situazione dei lavoratori italiani in Germania («Italian Slave Labor in Germany» è la traduzione inglese dell’intestazione del fascicolo), dossier personali su Albert Kesserling, sul generale von Vietinghoff-Scheel, su Hitler (completo al 1945, precisano gli inglesi), sulla situazione nelle località adriatiche della Venezia-Giulia (1944-aprile 1945) e sui rapporti tra il ministero dell’Interno e la Germania nel corso del 1944. Il 0 maggio 1945 venne redatto un rapporto addizionale «numero » da cui risulta, tra le altre cose, una serie di incartamenti, riuniti dagli alleati sotto la dicitura «ITALO-GERMAN Affairs» con dossier sulla situazione degli italiani internati in Germania e sulle condizioni dei lavoratori italiani nel Reich; la documentazione delle proteste di Mussolini a Hitler per le atrocità commesse dai tedeschi nel nord Italia e un piano per la tutela delle installazioni italiane a Genova e Venezia datato aprile 1945. Ma questo, visto l’incalzare degli avvenimenti, era un discorso da rimandare a dopo: le carte che contavano erano quelle da usare al tavolo con gli inglesi. Per contattarli in santa pace però Mussolini aveva bisogno di non avere troppa gente intorno, men che meno quel rompiscatole del tenente Birzer che non lo mollava un attimo, ufficialmente perché aveva l’ordine di portarlo
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Birzer non lo mollava un attimo, ufficialmente perché aveva l’ordine di portarlo in Germania, di fatto perché forse tra gli accordi di Wolff con gli Alleati c’era anche l’impegno a consegnare il dittatore a loro agenti. Nel dopoguerra, poi, dichiarò che si era impegnato per non far espatriare Mussolini in Svizzera in Germania, di fatto perché non è improbabile che tra gli accordi di Wolff con gli anglo-americani ci fosse anche l’impegno a consegnare il dittatore a loro agenti. Nel dopoguerra, Birzer ha comunque fatto di tutto per sostenere che la sua preoccupazione maggiore in quelle ore era di veder Mussolini imboccare la frontiera svizzera. Le ultime istruzioni ricevute dal consolato tedesco a Milano erano state chiare: «Se Karl Heinz [il nome in codice che i tedeschi avevano dato a Mussolini NdR] tenta di fuggire, lo uccida». Arrivato in Prefettura a Como a sua volta, Birzer dispone quattro sentinelle per «prevenire la fuga del Duce». Allo stesso scopo piazza il camion con i suoi uomini subito dietro la macchina di Mussolini, nel cortile. Dopo tre ore, sono le quattro del mattino del 26 aprile, Mussolini decide improvvisamente di lasciare Como per andare a Menaggio. E’ probabile che questo suo spostamento, oltre che per scongiurare un possibile bombardamento su Como – di questo l’ha convinto il prefetto della città, Renato Celio, che è già in contatto con i partigiani – sia motivato anche da qualche possibilità di contatto con gli inglesi: Menaggio è un piccolo centro 5 km a nord di Como, sul lago, e Mussolini vi si vuole recare con un seguito molto ridotto e composto solo da italiani. Molti gerarchi, a dimostrazione di quanto Mussolini tenga per sé ogni decisione, pensano anche loro che voglia andare in Svizzera e si precipitano con lui in cortile per seguirlo. «Karl Heinz scappa!» urla, irriverente, una sentinella tedesca e Birzer scatta. Mette in moto la sua auto e la mette di traverso, impe-
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dendo a chiunque di uscire dal cortile. Poi va da Mussolini e lo apostrofa: «Duce, come potete partire senza che la scorta sia avvertita?». Mussolini, irritato, gli risponde in tedesco: «Vi prego di smetterla. Levatevi di torno. Posso fare quello che voglio e andare dove mi pare. Lasciate libera la strada» intima indicando l’auto di Birzer. «Non senza la vostra scorta, Duce». Ad un certo punto interviene anche Graziani: «Sgomberate l’uscita! Il Duce può fare ciò che vuole!». Birzer prima protesta dicendo che gli è stato affidato un compito e che la responsabilità di quanto potrebbe accadere, per i suoi superiori, sarebbe solo sua. Poi, ma c’è il sospetto che abbia lavorato un po’ di fantasia, ricorda che si rischiò lo scontro armato tra italiani e tedeschi. Alla fine però, quando la colonna si muove, sono più tedeschi che italiani quelli che Mussolini porta con sé a Menaggio. Le auto si fermano davanti alla sede della locale Brigata Nera. Mussolini, braccia conserte e pensieroso, rimane una decina di minuti a guardare lo spettacolo dell’alba sul lago. Poi entra nella sede della Brigata Nera, ascolta la relazione del federale del paese, Emilio Castelli e accetta di andare a casa sua, per riposare qualche ora. Birzer mette sue sentinelle ovunque, sempre più convinto (lui dice) che Mussolini voglia fuggire in Svizzera. Invece Mussolini è determinato, e lo dice a più riprese a quanti tra i suoi premono perché tenti di espatriare davvero, ad andare in Valtellina. Non prima però di aver avuto l’incontro che attende e che lo induce a perdere ore preziose, ore che alla fine si riveleranno decisive. Menaggio ad un certo momento – siamo nella tarda mattinata del 26 aprile – ha
visto affluire decine e decine di macchine, camion, mezzi militari. Ormai tutti sanno che Mussolini è lì, e allora si decide un nuovo spostamento, verso la montagna, nel paesino di Grandola e Uniti, quattro chilometri da Menaggio in direzione est. Proseguendo su quella strada, per circa sette km., si arriva a Porlezza nei cui pressi c’è uno dei posti di frontiera con la Svizzera. La destinazione però è quella dell’albergo Miravalle, a Grandola appunto, dove c’è un presidio della guardia confinaria: un centinaio di uomini, e dove il dittatore, con maggior tranquillità e sicurezza, potrebbe attendere degli emissari dalla Svizzera. Ricorda il federale Castelli di aver concordato con Mussolini «uno stratagemma allo scopo di farlo arrivare a Grandola da solo, con una minima scorta e senza il corteo dei ministri e delle SS tedesche (...) Sarebbe salito in automobile con Porta, Bombacci e due dei miei militi e si sarebbe diretto a grande
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A Menaggio la colonna si ferma. Mussolini, braccia conserte e pensieroso, rimane una decina di minuti a guardare l’alba sul lago, determinato, e lo dice a quanti premono perché tenti di espatriare, ad andare in Valtellina. Non prima però di aver avuto l’incontro che attende e che lo induce a perdere ore preziose dendo strada con la sua macchina – ricorda un testimone, Pietro Carradori, attendente di Mussolini – urlando e strepitando come mi dissero gli autisti dei ministri, e sorpassando all’impazzata per raggiungerci (...) Era stato colto alla sprovvista, rimanendo sette od otto macchine indietro e, con la pistola in pugno, minacciava perché gli liberassero la via».
Un’intervista al tenente Birzer che comandava la scorta di Mussolini. Inizialmente l’ufficiale delle SS cercò di non farsi seminare dal dittatore, stanco della sua asfissiante presenza, ma poco prima dell’arresto del Duce si rivelò inspiegabilmente inerte
velocità sulla strada di Porlezza. Ma la vettura del Duce, favorita dal vantaggio conseguito in partenza, giunta ad una certa curva da me indicata, avrebbe svoltato rapidamente a sinistra, puntando sul Miravalle, sopra Grandola. Le altre automobili, non facendo in tempo ad accorgersi della manovra, avrebbero proseguito così per Porlezza, perdendo di vista Mussolini». Mentre Mussolini sta per salire in macchina, Birzer si materializza ancora una volta: «Duce, posso chiedervi dove siete diretto, ora?». E Mussolini, chiudendo lo sportello: «Venite con me e vedrete». Il tedesco lo prende in parola e per riguadagnare il terreno perduto alla partenza, fa il diavolo a quattro, essendo rimasto in fondo alla colonna delle auto, «chie-
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Stranamente – si fa per dire – Birzer ventiquattro ore più tardi, al primo sbarramento partigiano, perderà baldanza ed efficienza lasciando che Mussolini venga arrestato senza muovere un dito. Tuttavia, l’attivismo del tenente delle SS non fu coronato da pieno successo. Infatti se con lui lo stratagemma di Castelli e Mussolini fallì, ebbe invece successo con la seconda auto tedesca e con l’autocarro con gli uomini di Birzer. Per cui, davanti all’albergo Miravalle arrivò in un primo tempo il solo Birzer, la cui macchina era stata quasi speronata da un camion italiano, nell’evidente tentativo di farlo desistere dall’inseguimento. La lunga sosta di Mussolini a Grandola è stata variamente interpretata: a lungo, sulla scorta di una visione forzata ideologicamente, si è cercato di spacciarla per una ulteriore prova della volontà di Mussolini di espatriare – addirittura a piedi con la Petacci! – nella vicina Svizzera. A questo aveva contributo anche la testimonianza di Birzer che aveva interpretato a modo suo un fatto interessante e cioè che Mussolini avrebbe incontrato proprio nel giardino dell’albergo Miravalle alcuni sconosciuti. A Grandola – dove un voce raccolta in anni recenti vorrebbe che dall’entourage del dittatore si era cercato di prendere in affitto una
villetta già qualche mese prima del crollo – Mussolini in modo quasi ostentato «aspetta»: qualcosa o qualcuno? Di certo attende la notizia che l’accordo tra tedeschi e anglo-americani per la resa nazista in Italia sia formalizzato e annunciato. Non a caso esorta il direttore del «Corriere della Sera», Ermanno Amicucci, che è tra quanti lo seguono, a sentire le notizie dalla Radio. Radio Monteceneri in mattinata e Radio Milano poco dopo danno Mussolini già per catturato così come l’edizione del 26 aprile del quotidiano socialista «l’Avanti». Ma le notizie che interessano Mussolini non arrivano, in alcun modo. Quando a sera si decide di rientrare a Menaggio per riprendere l’indomani all’alba la strada per la Valtellina, Mussolini dice di voler attendere «ancora mezz’ora». Le vere ragioni di tanta insistenza per restare al Miravalle – che non è al centro del paese di Grandola – non le sapremo mai. Oltretutto quella sosta non aveva portato fortuna a Mussolini: la Petacci, che l’aveva raggiunto pure lì (ma lui, oltre ai tedeschi, in quel frangente avrebbe volentieri fatto a meno anche di lei), gli aveva fatto l’ennesima scenata di gelosia per quella ragazzina in divisa che gli vedeva sempre intorno. Pensava ad una giovane amante e invece era una figlia naturale di Mussolini, Elena Curti, incaricata in quelle ore di tenere i contatti con Pavolini a Como. Un Pavolini quanto mai evanescente e inconcludente alla prova dei fatti e che porta non poche responsabilità nel disastro di quei giorni. A Grandola come a Menaggio, Mussolini attende infatti l’arrivo delle migliaia di fascisti che sono già da ore a Como e che devono seguirlo
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A Grandola come a Menaggio, Mussolini attende l’arrivo delle migliaia di fascisti che sono già da ore a Como e che devono seguirlo in Valtellina. Non sa che nel frattempo – complice anche il segreto con cui avvolge le sue mosse – a Como i vertici fascisti si sono accordati con CLN e Alleati per una resa in Valtellina (dove da tempo sono già state radunate alcune migliaia di uomini: tra i tre e i cinquemila a seconda delle stime). Non sa che nel frattempo – complice anche il segreto con cui avvolge le sue mosse e il conseguente sconcerto che ha causato tra i suoi – a Como i vertici fascisti hanno concluso un accordo con CLN ed emissari angloamericani per una resa pacifica e conseguente concentramento dei fascisti in Val d’Intelvi, una zona che si apre sulla sinistra del lago di Como, all’altezza di Argegno, a metà strada tra Como e Menaggio. Del resto anche tra quanti sono fisicamente con lui, il capo del Fascismo stenta ad imporre la propria visione delle cose: molti lo spingono ad espatriare davvero in Svizzera. Anche Claretta lo fa, al Miravalle, nel corso di una concitata discussione a porte chiuse (ma i muri non erano insonorizzati…): a un certo punto, per evitare che le urla della donna fossero sentite all’esterno, Mussolini si precipita a chiudere una finestra, inciampa, cade e batte il capo. Prima o dopo questo incidente, la moglie del comandante del reparto che occupa il Miravalle, sente una voce femminile chiedere insistentemente a Mussolini di salvarsi rifugiandosi in Svizzera e Mussolini che risponde negativamente: «Non voglio diventare lo zimbello del mondo!». E di non aver nessuna intenzione di passare la frontiera lo ripeterà numerose volte in quelle ore a vari uomini del seguito tra cui l’ex ministro dell’Interno, Guido Buffarini-Guidi, e il ministro dell’Economia Corporativa Angelo Tarchi che alla fine ottengono il permesso di tentare autonomamente l’espatrio. Non faranno che pochi chilometri prima di essere arrestati. La
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Hitler con Karl Wolff, comandante SS della polizia in Italia. Wolff trattò la resa con gli Alleati a insaputa del suo Führer e dei comandi dell’esercito tedesco in Italia. E, ovviamente, dei vertici fascisti, Mussolini innanzi tutto...
notizia arriva ben presto al nutrito gruppo italo-tedesco che circonda Mussolini e questo aiuta la decisione di rientrare a Menaggio. Mussolini non farà altri tentativi di scrollarsi di dosso la scorta tedesca quando la sera del 26 rientra a Menaggio dove, nella notte, arriverà «casualmente» una colonna tedesca di circa 200 uomini della FlaK – la contraerea – e comandata da un ufficiale rimasto misterioso per anni. Recentemente si è appurato che si trattava del tenente dell’Aeronautica Willy Flamminger. E’ alla colonna tedesca che, su proposta di Birzer e Pavolini (arrivato anche lui a Menaggio alla quattro di notte tra il 26 e il 27 aprile ma con sole tre autoblindo e pochi uomini e per questo viene duramente rimproverato da Mussolini che sconfessa tutti gli accordi presi dai suoi a Como senza sua autorizzazione), il seguito di Mussolini (80 persone circa), nel collasso generale delle forze fasciste a Como, decide
di accordarsi per raggiungere la Valtellina anche se Flamminger sostenne di essere diretto a Merano. Ma per arrivare a Merano a quel punto si poteva per forza passare solo dalla Valtellina. E questa è una delle tante ma non l’ultima delle infinite contraddizioni di quelle ore: infatti è indubbio che per arrivare in Valtellina – Merano o non Merano – la strada che corre lungo la sponda sinistra del Lago di Como è la più lunga e la meno pratica. Si è detto che la colonna prese quella strada perché aveva dovuto fare tappa a Cernobbio per prendere ordini dal generale Wolff che li aveva il suo comando. Ma quando mai si è visto che il capo di un reparto per ricevere istruzioni si reca presso i suoi superiori con tutti i propri uomini al seguito? Oltretutto, la FlaK aveva da tempo pronti i piani di ripiegamento che prevedevano appunto la meta di Merano ma poiché il reparto non proveniva da Como ma dall’aeroporto della Malpensa il tragitto poteva comunque
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Mussolini contava probabilmente di avere dei contatti con emissari provenienti dalla Svizzera prima di raggiungere la Valtellina. Da qui la necessità di fiancheggiare la zona di confine non certo per attraversarlo ma per facilitare chi avrebbe dovuto varcarlo verso l’Italia comprendere l’ipotesi di prendere la strada che per la Valtellina parte da Lecco. E’ la stessa obiezione che in passato si è mossa a Mussolini: perché prendere la strada di Como se si faceva prima da Lecco? La risposta – che non vale per i tedeschi – è doppia: in primis perché tutte le forze fasciste avevano ricevuto da giorni l’ordine di convergere a Como e poi perché, come si è visto, Mussolini contava probabilmente di avere dei contatti con emissari provenienti dalla Svizzera prima di raggiungere la Valtellina. Da qui la necessità di fiancheggiare la zona di confine non per attraversarlo ma per facilitare chi avrebbe dovuto varcarlo verso l’Italia. Ad ogni modo, se mai c’era stato il progetto di un «appuntamento sul Lago» per Mussolini, la sera del 26 aprile 1945, mentre il Duce rientra a Menaggio con i suoi da Grandola, sa che se non saltato del tutto quell’appuntamento è per lo meno rinviato a nuova data. Oppure a quell’incontro ci andrà qualcun altro, magari quel Marcello Petacci, fratello di Claretta, che poche ore dopo – sotto l’identità falsa di diplomatico spagnolo – cercherà di farsi rilasciare dai partigiani di Dongo dicendo di avere un appuntamento con l’ambasciatore inglese in Svizzera, sir Clifford Norton, proprio per la sera del 27 aprile. Con mille pensieri in testa ma anche con la speranza di avere ancora qualche carta da giocare – lo dirà addirittura anche dopo l’arresto a Dongo – Mussolini alle sei della mattina del 27 aprile parte da Menaggio in direzione nord. La Valtellina, in fondo, è a meno di 40 km e la ci sono migliaia di uomini fedeli e in armi così come ce ne sono altrettanti a Como: Pavolini
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ha mandato indietro due autoblindo e il prefetto Vezzalini a richiamare tutti gli uomini disponibili con l’ordine tassativo di aprirsi la strada verso nord e ricongiungersi a Mussolini. La colonna italo-tedesca è lunga oltre un chilometro, conta 14 automobili italiane e 200 tedeschi su camion: in testa, non a caso, l’autoblindo italiana con Pavolini che cerca così di condizionare il comportamento generale in caso di imprevisti. Ma non gli riuscirà neanche questa. Mussolini è ancora nella sua Alfa Romeo 2800 mimetizzata, pioviggina, più che primavera sembra autunno. Quello che si muove lentamente non è esattamente un vero e proprio reparto armato ma comunque rappresenta una forza più che sufficiente ad aprirsi la via verso la Valtellina vista la pochezza delle formazioni partigiane della zona. E invece fa pochissima strada. Dopo qualche chilometro, 12 per l’esattezza, appena passato il paesino di Musso, c’è il primo stop: un po’ di massi e il fusto di un alberello «sbarrano» la strada, poco più di una striscia d’asfalto stretta tra il lago e la montagna. E’ un blocco partigiano. C’è una breve sparatoria: spara l’autoblindo di Pavolini, si spara dalla costa della montagna, poi il solito ufficiale tedesco Flamminger (Birzer e Kisnatt, nel frattempo, da mastini si sono trasformati in fantasmi) interviene per intavolare una trattativa. I fascisti vogliono passare comunque, i tedeschi non si capisce, ma se non si spara loro sono più contenti, i partigiani bluffano clamorosamente, dicendo di essere in tanti, bene armati e decisi a tutto. Alla fine, il solito Flamminger, oltrepassa il blocco per andare
fino a Colico, ancora un po’ più a nord, per trattare con i responsabili della divisione partigiana: ci mette svariate ore, almeno sei, per fare un tragitto di pochi chilometri e tornare con le pive nel sacco. Nonostante le sue forze, ha accettato di fare perquisire e disarmare la colonna a Dongo, dove verranno trattenuti tutti gli italiani mentre per i tedeschi ci sarà via libera. Come si vede una trattativa «molto difficile» e un accordo decisamente articolato: a prima vista, Flamminger si è semplicemente calato le braghe e ha accettato il diktat partigiano. Se invece si mette in relazione il suo comportamento con quanto avviene poco dopo il suo ritorno, allora l’ipotesi del complotto del generale Wolff per consegnare Mussolini prende ulteriormente corpo. Mussolini, mentre attende il rientro di Flamminger, sfoga ancora una volta il suo risentimento verso i tedeschi: questa volta, ai suoi occhi, gli Alleati sarebbero poco meno che degli stupidi perché trattando così a lungo hanno dato modo agli avversari di ottenere rinforzi e migliorare le proprie posizioni. Il Duce morde il freno e non fa nulla per nascondersi: molti tra gli abitanti della zona lo vedono camminare su e giù lungo la colonna. La voce che tra quegli automezzi e quegli armati ci sia Mussolini si sparge velocemente e questo rende ancora più incomprensibile il tentato stratagemma (non a caso fallito) di poche ore più tardi quando si cercherà di far passare il blocco partigiano a Dongo ad un Mussolini camuffato da tedesco, nascosto in un camion. Mentre attende ansioso il ritorno dell’ufficiale tedesco, Mussolini freme: vorrebbe passare con la for-
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Mussolini aveva pensato di poter padroneggiare una situazione caotica dove erano all’opera forze più grandi della sua. E’ indubbio che se solo parte delle cose progettate e sperate si fosse avverata l’epilogo sarebbe stato diverso. Tutto congiurò contro, con l’accanimento che il Fato riserva ai grandi sconfitti di un caso c’è chi ricorda le parole aspre e di rimprovero, soprattutto per Pavolini, per come si era finiti in quella situazione. Mussolini aveva anche lui delle responsabilità ovviamente, prima fra tutte, quella di aver pensato di poter padroneggiare una situazione caotica dove oltretutto erano all’opera forze più grandi della sua. Ma è indubbio che se solo una parte delle cose che si erano progettate e sperate per quelle ore si fosse avverata l’epilogo sarebbe stato diverso. Tutto congiurò contro quello che restava della RSI con l’accanimento che il Destino riserva davvero solo ai grandi sconfitti.
Un’altra presunta foto della colonna tedesca sulla strada del lungolago
za senza perdere altro tempo oltre a quello perduto per il suo probabile appuntamento andato a vuoto. Poi, una volta udite le condizioni «ottenute» dal tedesco, sbotta: «Quando il comandante tedesco entrò nell’autoblinda – è ancora Carradori che ricorda – parlò con Mussolini in tedesco, dicendogli che loro potevano passare ma gli italiani no. Poi lo invitò ad andare con loro, confondendosi coi soldati e il personale dell’aviazione. Mussolini tassativamente disse: “No. Andate pure. Io rimango con gli italiani”. “Duce”, rispose il maggiore [in realtà il tenente Flamminger, NdA], “vi ho detto che vi porterò in salvo e vi ci porterò, se venite con noi”. Il Duce si adirò. Fu l’unica volta che lo vidi davvero adirato. Disse: “Ma nemmeno per sogno. Io rimango coi miei camerati. Andate pure. Non verrò mai
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con voi”. Allora tutti gli altri insorsero: “Invece sì, Duce! Dovete mettervi in salvo. Dovete andare perché se avete questa possibilità, noi torniamo a Como per ricongiungerci con le forze di Graziani e con quelle di Vezzalini; ed allora cercheremo di raggiungere voi nel posto prestabilito”, cioè a Merano. Questa fu la voce e la convinzione di tutti e, per primo, di Pavolini (...) tutti insomma tentarono di persuaderlo. Non c’era verso». Interviene anche Claretta Petacci. Ma Mussolini in un primo tempo non ascolta né lei né Bombacci che in quelle ore è stato la sua ombra. Alla fine cede. Le discussioni riprendono subito dopo perché non vuole indossare il cappotto e l’elmetto tedeschi. Ma alla fine cede anche su questo. I ricordi dei testimoni sono confusi ma in più
Secondo gli accordi Mussolini doveva salire su un camion tedesco, il secondo della colonna, accompagnato da Carradori che aveva alcune borse e un mitra. Ma appena Mussolini salì sul camion 4, Flamminger impedì a Carradori di seguire il dittatore cui poté consegnare solo le due famose borse di documenti. Così, con un pastrano troppo largo e lungo, con due borse di documenti, un mitra e una pistola, Mussolini muove verso l’appuntamento col Destino, solo, circondato da tedeschi. Non sa ancora, né forse ha mai saputo, che il suo destino era già segnato: il travestimento, qualunque ne fosse l’origine e la motivazione, non poteva servire a molto visto che tutti sapevano, e da varie ore, che lui era in quella colonna. I partigiani sapevano così bene chi cercare che vennero fatte ben tre ispezioni della colonna, un po’ timorose e guardinghe per la verità, finché non venne individuato il camion dove stava Mussolini. Addirittura, tra la prima e la seconda ispezione alcuni partigiani chie-
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I partigiani sapevano così bene chi cercare che vennero fatte ben tre ispezioni della colonna finché non venne individuato il camion dove stava Mussolini. Secondo uno dei partigiani presenti, Rizieri Molteni, dei soldati scesi da altri mezzi gli indicarono il camion n. 34, dicendo sotto voce: «Duce, Duce»...
Il tratto del lungolago di Como presso Musso, dove la colonna della FlaK tedesca fu fermata da un posto di blocco partigiano
dono apertamente a Flamminger se il Duce si trova su qualche macchina della colonna. L’ufficiale nega, pare, con decisione anche se la domanda dei partigiani è poco più che retorica visto che da 6 ore almeno la presenza di Mussolini in zona è di dominio pubblico. In compenso alcuni soldati tedeschi, forse per sveltire le cose e riprendere subito la strada di casa, svelano la presenza di Mussolini. Secondo uno dei partigiani presenti, Rizieri Molteni, dei soldati scesi da altri mezzi gli indicarono con insistenza il camion n. 4, dicendo sotto voce: «Duce, Duce». Un altro scopritore di Mussolini, il calzolaio di Dongo Giuseppe Negri, avrebbe invece ricevuto l’input da un autista tedesco che gli avrebbe ammiccato indicando col pollice il camion alle sue spalle. Sono almeno tre o quattro le persone che si sono arrogate il merito di aver in-
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dividuato nel finto ubriaco addormentato del camion 4, l’ormai ex capo del Fascismo. Riconosciuto e fatto scendere, Mussolini si è già tolto l’elmetto e gli occhiali scuri e si calcato la sua abituale bustina militare. Il cappotto invece lo toglierà una volta condotto nel municipio del paese. E quando dopo qualche ora, vorranno trasferirlo altrove e gli offriranno di indossarlo di nuovo per uscire, lo rifiuterà sdegnato: «Non ne voglio più sapere. Ne ho abbastanza di questi tedeschi. Non voglio più vedere la loro divisa». Ma la vera uscita di scena, Mussolini l’aveva fatta appena sceso dal camion, nella piazza affollata di Dongo. Fatta una decina di metri si era voltato e, tra lo stupore e il rimprovero, aveva pronunciato forse le sue ultime parole in tedesco: «Aber so ohne Kampf?»
[Ma così, senza lotta?]. Come se già non bastasse quello che effettivamente era accaduto, poche ore dopo, giunta la notizia a Milano, la macchina della propaganda iniziò a girare a pieno regime e non si sarebbe fermata per molti anni, anzi decenni. A dare il là al festival delle balle fu il solito Sandro Pertini che, la sera del 27 aprile, dai microfoni di «Radio Milano» annunciò trionfante: «Il capo di questa associazione a delinquere, Mussolini, mentre giallo di livore e di paura tentava di varcare la frontiera Svizzera, è stato arrestato». Ora, risolto un grosso problema – e cioè catturare alla svelta Mussolini – i vertici della Resistenza ne hanno un altro, ancora più grande: che fare di questo prigioniero così ingombrante? Fabio Andriola [email protected]
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MITI OPACHI l’altra faccia della Petacci
Quale fu l’effettivo ruolo giocato dall’amante di Mussolini nelle ultime e segrete trame della RSI? Dal saggio di Fabio Andriola «Carteggio Segreto» esce un ritratto molto lontano da quello dell’iconografia dominante in cui, fascisti e antifascisti, riconoscono alla figura della Petacci una nobiltà d’animo, un disinteresse personale e un coraggio ammirevoli. In realtà la donna, non sempre in modo pienamente consapevole, fu a lungo – e fino alla fine – coinvolta in un gioco molto più grande di lei e di cui tenevano le fila non solo i tedeschi ma anche gli anglo-americani…
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omo, 25 aprile sera. Lasciata Milano alla volta della Valtellina, Mussolini si fermò alcune ore alla Prefettura di Como. Lì lo raggiunse la notizia che il camioncino che portava numerosi e importanti documenti ed effetti personali, benché regolarmente partito da Milano, non era mai arrivato a Como. Nella Prefettura comasca ci sono molte persone: numerosi sono infatti i gerarchi e i ministri al seguito di Mussolini che viaggiano con le famiglie. Anche il ministro della Cultura Popolare Fernando Mezzasoma è accompagnato dalla moglie Anna, che in un angolo, accanto alla moglie del ministro degli Interni Paolo Zerbino, osserva «i movimenti dei nostri mariti che escono ed entrano nella stanza del Duce». La notizia che si sono perse le tracce del camioncino aumenta la concitazione e, con lei, esplodono rancori e contraddizioni rimaste sopite per tutti i lunghi mesi della RSI. E’ infatti in quel frangente, mentre il capo della segreteria di Mussolini, il prefetto Luigi Gatti, e l’aiutante del Duce, il colonnello Vito Casalinuovo, partono alla ricerca del camioncino, che Zerbino sbotta: «Secondo Zerbino – ricorda una stupefatta Anna Mezzasoma – il “camioncino è stato consegnato dalla Petacci al generale Wolff ”. La frase mi suona misteriosa e priva di senso». E invece, Zerbino, non a caso ministro degli Interni – e in quanto tale conoscitore di molti retroscena – oltre che uomo di fiducia dell’ultimo Mussolini, aveva più di una ragione per pronunciare quelle parole. Quello che sfuggiva alla moglie
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di Fabio Andriola del ministro Mezzasoma era ben chiaro a molti uomini di vertice della RSI: Claretta Petacci, l’amante storica di Mussolini, era un vero pericolo. E con lei la sua famiglia: il padre, il professor Francesco Saverio, la madre, Giuseppina, la sorella, Myriam, e soprattutto il fratello maggiore, Marcello. La storia del «clan Petacci» non è stata ancora fatta nel senso che l’attenzione che la figura di Claretta ha focalizzato su di sé da sempre ha sviato la curiosità dalle personalità e soprattutto dalle attività di altri membri della sua famiglia. Attività che dovevano essere ben note soprattutto nei mesi della RSI e che non dovevano riscuotere il plauso dei vertici repubblicani visto l’atteggiamento riservato a Marcello Petacci sulla piazza di Dongo dai 15 membri della colonna Mussolini che i partigiani guidati dal Colonnello Valerio si stavano apprestando a fucilare. Un membro del plotone di esecuzione, Dick cioè Oreste Alpeggiani, ha raccontato così la scena: «Quando li vidi allineati al parapetto del lungo lago, scortato da due partigiani giunse Marcello Petacci, fatto portare da Valerio. L’uomo, privo delle scarpe, si lagnava di essere scambiato per Vittorio Mussolini e chiedeva ai gerarchi di riconoscerlo davanti a tutti. Cosa che fecero per poi iniziare una cagnara di proteste perché lo dicevano un traditore non degno di morire con loro. Pavolini e Barracu erano i più accesi nella protesta». Impossibile separare, nel ruolo “politico” oltre che
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nella considerazione dei gerarchi, la figura di Marcello da quella di Claretta e non solo perché il primo evidentemente operava sfruttando il ruolo della sorella. Su entrambi pesava infatti il sospetto di collusioni con servizi segreti stranieri: i tedeschi per la donna, forse gli inglesi per Marcello che comunque si era distinto nei traffici di frontiera
vi contorni nel corso degli anni ma che era tale già non molti anni dopo la fine della guerra. «La morte di Claretta - ha osservato Dino Campini, segretario del ministro Biggini - non ha dunque un senso se non alla luce del mistero della linea d’ombra, del segreto dei carteggi. La donna sapeva o poteva sapere e quindi doveva sparire. Non è lo-
«Il fratello della Petacci, uomo ambizioso e intrigante, era forse in contatto con gli angloamericani. E attraverso di lui gli Alleati controllavano in diretta il pensiero e le decisioni di Mussolini» con la Svizzera. E’ in virtù di questo, ma anche di altro come vedremo, che il tema del carteggio passa attraverso i Petacci. Un’evidenza che si è andata arricchendo di nuo-
gico pensare che uccidendola si sia voluto punirla per l’attaccamento a un uomo: sarebbe stupido anche per dei criminali. Dietro la morte di Claretta si sentono frusciare
carte compromettenti, quelle di cui qualcosa poteva magari sapere». Ormai, in qualche maniera, il giudizio che viene dato di Claretta Petacci, una giovane donna immolatasi per il suo amore verso Mussolini, può quindi essere corretto. Amore e sacrificio finale a parte, Claretta Petacci ha giocato sicuramente un ruolo tutt’altro che secondario nella storia segreta della RSI, arrivando a conoscere fatti di straordinaria importanza e rivelando, al tempo stesso, una scarsa propensione alla discrezione. Intorno a lei e al fratello si muoveva in continuazione una fitta schiera di agenti segreti e controllori: durante la RSI molti sospettavano la Petacci, più che di fiaccare lo spirito di Mussolini, di trescare con i tedeschi e con gli inglesi: «Il capo
Claretta: una vita da favola, senza lieto fine
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lara Petacci detta Claretta (Roma, 28 febbraio 1912 - Giulino di Mezzegra, Como, 28 aprile 1945) - è nota per essere stata a lungo legata sentimentalmente fino a condividerne la morte - a Benito Mussolini. Figlia di Giuseppina Persichetti e di Francesco Saverio Petacci (1883-1970), direttore per alcuni anni di una clinica a Roma e introdotto negli ambienti vaticani in qualità di medico archiatra, Clara - detta «Claretta» - pare fosse ammaliata dalla figura di Mussolini sin da giovanissima. Sua sorella era l’attrice Miria di San Servolo. [...] Nel 1932 Clara riuscì a conoscere Mussolini di persona ed a stringere con lui una relazione. La Petacci era allora già sposata con il tenente della Regia Aeronautica Riccardo Federici (dal quale si sarebbe separata ufficialmente nel 1936). All’epoca del suo incontro con Mussolini, Clara aveva vent’anni, trenta di meno del suo amante. Mussolini era sposato dal 1915 con rito civile e dal 1925 con rito religioso con Rachele Guidi (detta «donna Rachele»), che aveva conosciuto già durante l’infanzia e alla quale era legato sin da prima del 1910. Gli erano inoltre state attribuite numerose amanti, [...]
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e aveva da poco concluso una lunga ed importante relazione con Margherita Sarfatti. Mussolini prese a frequentare la Petacci con regolarità, ricevendone le visite puntuali anche nel suo studio di Capo del governo a Palazzo Venezia. Clara rimase per molti anni fedele all’amato «Ben», come chiamava Mussolini anche nella corrispondenza, suscitando facezie ed amenità tra quanti ne erano informati. [...] Clara era appassionata di pittura e aveva aspirato a divenire attrice cinematografica. Ebbe il ruolo di compagna segreta di Mussolini, di cui condivise i momenti più bui e il destino finale, pare senza mai avanzare la pretesa che l’amante lasciasse per lei la moglie Rachele. La vicinanza di Clara a Mussolini finì per innalzare il rango della sua famiglia, alimentando voci relative a favoritismi e possibili episodi di corruzione, dei quali veniva prevalentemente ritenuto responsabile il fratello Marcello. [...] Nell’ala destra del piano terreno [della villa a La Camilluccia della famiglia Petacci] era posizionata l’alcova di Claretta e Benito. Composta da una camera con pareti e soffitto ricoperte da specchi ed arredata con
mobili rosa, era servita da una stanza da bagno rivestita in marmo nero e dotata di grande vasca mosaicata, posta a filo del pavimento, che voleva imitare le vasche termali romane. All’indirizzo della residenza Petacci (via della Camilluccia 355/357) erano inviate numerose lettere che richiedevano i buoni uffici di Clara per petizioni rivolte a Mussolini. Dopo la caduta del Fascismo la villa fu confiscata con l’accusa che fosse stata acquistata con fondi sottratti dal bilancio dello Stato ad opera di Mussolini. La famiglia si oppose al provvedimento e ottenne che la villa fosse restituita, dimostrando l’accusa infondata. [...] Travolta dagli eventi della seconda guerra mondiale, Clara Petacci fu arrestata il 25 luglio 1943, alla caduta del regime, per essere poi liberata l’8 settembre, quando venne annunciata la firma dell’armistizio di Cassibile. Tutta la famiglia abbandonò Roma e si trasferì nel nord Italia controllato dalle forze tedesche, ove poi sorse la Repubblica Sociale. Clara si trasferì in una villa a Gardone, non lontano dalla residenza di Mussolini e dalla sede del governo repubblicano a Salò. Il 27 aprile 1945, [...] fu anch’ella bloc-
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del servizio segreto della Repubblica, Apollonio - scrive Zanella - non esita a sorvegliare i rapporti tra Clara e i tedeschi facendo collocare un microfono in un lampadario di villa Mirabella: tale attività la porta avanti fino a quando, per ordine del Reich, come rappresaglia all’estromissione di Buffarini, viene spedito a Dachau». Nel dopoguerra Apollonio, confermò di non essersi sbagliato: «Che poi il Petacci, uomo ambizioso ed estremamente intrigante, fosse proprio in Svizzera in contatto con gli Alleati, si può solo supporre. Per quanto mi riguarda, sarei portato a non escluderlo per niente. E’ assai probabile che attraverso lui (e attraverso Claretta che non capiva la gravità di ciò che le chiedeva di fare suo fratello) gli angloamericani controllassero di primissima mano il pen-
De Gasperi mandò i carabinieri a prendere le carte di Claretta: lettere scambiate tra Mussolini e la Petacci e i diari della donna. Fu impossibile qualunque verifica perché il governo italiano impose il segreto siero e le decisioni di Mussolini». Ed era lo stesso Mussolini però, a ben vedere, a non fidarsi troppo di questa donna ingombrante di cui aveva tentato più volte di liberarsi ma invano. Perché tanta debolezza in un uomo che in diversi periodi della propria vita non aveva esitato a troncare bruscamente lunghe relazioni, a volte nonostante la presenza di figli? Cosa aveva Claretta in più delle altre per poter contare sul fatto che, magari anche contro voglia, il Duce non l’avrebbe mai allontanata da sé in modo definitivo? Non a caso, Franco Bandini ha
Claretta Petacci fotografata nel settembre 1944
cata a Dongo da una formazione della 51a Brigata partigiana, che intercettò la colonna di automezzi tedeschi con i quali il duce viaggiava. Taluni affermano che le sia stata offerta una via di scampo, da lei ricusata decisamente. Il giorno dopo, 28 aprile, dopo il trasferimento a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como, Mussolini e Clara furono entrambi fucilati, sebbene su Clara non pendesse alcuna condanna. La versione ufficiale della morte di
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Mussolini è stata tuttavia contestata ed esistono diverse versioni sull’andamento dei fatti. [...] Il giorno successivo, il 29 aprile, a piazzale Loreto (Milano), i corpi di Benito Mussolini e Claretta Petacci furono esposti (assieme a quelli delle persone fucilate a Dongo il giorno prima), appesi per i piedi alla pensilina di un distributore di carburanti, dopo essere stati oltraggiati dalla folla. [...] (Fonte www.claretta.org) n
parlato di un «triplice mistero» che circonderebbe la figura di Claretta: «Quello, tutto psicologico, del suo legame con Mussolini; l’altro, politico della sua influenza vera o presunta che lei e la sua famiglia ebbero sulle vicende del periodo che va dal 1934 al 1945; ed infine quello della sua morte, assieme all’uomo amato, in qualche luogo del basso Lago di Como». E, dopo aver parlato della scarsità e della incertezza di molte fonti e testimonianze, Bandini conclude che, ad ogni modo, tutto quello che oggi sappiamo non ci dice nulla circa il punto «maggiormente interessante per lo storico: e cioè del sentimento, variabile col tempo, che per lei Mussolini nutrì e per converso della reale influenza che Claretta ebbe, o poté illudersi di avere». Mussolini quindi non seppe, non volle o non poté mai liberarsi di Claretta. E tutto questo nonostante non si fidasse completamente di una donna che pure non aveva lesinato prove
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«Carteggio Segreto Churchill Mussolini» di Fabio Andriola è edito da Sugarco (410 pp., € 24,00)
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e parole di dedizione. Una fiducia la sua tutt’altro che incondizionata come testimonierebbero – sembra – numerosi e pressanti inviti a distruggere le lettere che le inviava nei mesi della RSI. Quelle lettere, insieme alle minute di quelle di lei e ai diari tenuti da Claretta per gran parte della sua vita, non sono ancora consultabili [al momento della pubblicazione del libro da cui è tratto questo capitolo le carte della Petacci erano ancora secretate. Sono state parzialmente rivelate solo a
rabella, a Gardone sul Garda, per farsi “consegnare” dai padroni di casa, i coniugi Cervis, le carte che Claretta aveva affidato loro prima di partire per Milano, a fine aprile 1945. In realtà la consegna fu “coatta” in quanto i carabinieri si erano presentati a colpo sicuro e si erano fatti consegnare quanto i Cervis avrebbero voluto continuare a nascondere fino al giorno in cui avessero potuto consegnare il tutto agli eredi di Claretta. Tra il giardino e il porticato vennero fuori tre piccole
Donna Rachele sapeva quello che l’amante del marito faceva da tempo: «Esasperata, le rinfacciai di aver fatto fotografare e messo al sicuro, in Svizzera e in Germania, alcune lettere delicatissime che mio marito le aveva scritto» partire dal NdR] perché, con una decisione che ha destato più di uno stupore, fin dal 12 aprile 1956 la Corte di Cassazione ha stabilito che quelle carte dovevano restare in possesso dello Stato «in quanto contengono riferimenti alla politica estera e interna dell’Italia». La decisione sanciva, di fatto quanto già il governo guidato da Alcide De Gasperi aveva stabilito giusto sei anni prima, quando cioè i carabinieri si erano presentati a Villa Mi-
casse – ma forse una di quelle casse era in realtà una valigia – colme di carte. Lettere scambiate tra Mussolini e la Petacci, i diari della donna e una divisa del dittatore. Subito si sparse anche la voce che tra le carte ci fossero anche i diari, o parte di essi, di Mussolini dal 1921 al luglio 1943. Ma fu impossibile qualunque verifica perché, come già si è detto, il governo italiano dispose il segreto sulle operazioni di recupero. Villa Mirabella, posta nel complesso del Vittoriale dannunziano, era stata la seconda residenza di Claretta sul Garda. A differenza della precedente abitazione, Villa Fiordaliso, non era stata teatro di scene drammatiche come quelle che esamineremo tra poche righe ma anche tra quelle mura si era parlato di questioni importanti. E dal tele-
fono di Villa Mirabella erano partite telefonate che, intercettate dai tedeschi al pari di varie lettere, ci dicono molto di quanto la Petacci sapeva e, soprattutto, faceva (…): Claretta: «Mi permetti, dunque, di fare un paio di fotocopie?» Mussolini: «Tu sai che volentieri te lo permetterei, ma sai anche ciò che temo». Claretta: «Questo timore è infondato, conosco molto bene la persona, e il lavoro sarà fatto da lui personalmente». Mussolini: «So anche questo, ma per ora non ti dò alcun permesso. Forse troverò io stesso una strada sicura». Claretta: «Non devi essere così diffidente, c’è ancora gente fidata e seria». Mussolini: «Non lo dubito, ma devi ancora attendere. Claretta: «Sono un po’ arrabbiata, ma come sempre ti perdono, quindi aspetterò». La cosa stupefacente è che quella telefonata avvenne non più di due o tre mesi – molto probabilmente nel dicembre 1944 – dopo il rapido consumarsi di uno dei maggiori scandali della RSI. Uno scandalo datato 8 ottobre 1944 e ambientato nella prima residenza sul Garda
Claretta Petacci incontrò una sola volta Rachele Guidi, la moglie dell’uomo di cui è stata amante per quasi dieci anni. L’incontro, anzi, lo scontro, avvenne sul lago di Garda, a Villa Fiordaliso (oggi albergo e ristorante a cinque stelle) a fine ottobre del 1944. Anche in quell’occasione emersero prove che Claretta copiava e consegnava a ignoti lettere e documenti ricevuti dal Duce
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dell’amante di Mussolini: era stato lo stesso dittatore ad ordinare al questore Emilio Bigazzi Capanni, capo della Presidenziale, la squadra di agenti addetti alla persona del Duce, di andare a perquisire la casa di Claretta Petacci. Il fondato sospetto di Mussolini era che Claretta avesse fatto copie di sue lettere personali e avesse passato ai tedeschi gli originali. Ad ogni modo, quello che è certo è che la denuncia era partita da Donna Rachele, preoccupata che il marito si potesse compromettere politicamente «perché in quelle lettere sfoga i suoi risentimenti nei confronti dei tedeschi, rivela la verità sui colloqui con l’ambasciatore Rahn e il comandante delle SS Wolff, fa capire di considerare un bluff l’insistenza di Hitler nel dichiarare che vincerà la guerra. Come si può essere tanto ingenui da lasciarsi andare a confessioni del genere, pur sapendo che la Petacci è controllata ora per ora dai tedeschi? Che è stato Wolff in persona a farla liberare dal carcere di Novara dopo l’otto settembre per ricondurla accanto al Duce, a Gardone? Che tutte le telefonate della signora passano attraverso il centralino della Gestapo? Che in casa sua, a Villa Fiordaliso, vive Villa Fiordaliso, residenza di Claretta sul Lago di Garda. Nel riquadro la sua camera da letto
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con lei, con la scusa di proteggerla, il tenente SS Franz Spoegler, agente dei servizi segreti nazisti? Come non sospettare che, sia pure in buona fede, la signora sia tenuta a ricambiare i favori e la protezione, accettando di fornire elementi di cui le si assicura che serviranno soltanto a tutelare il più possibile Mussolini nell’opinione del Führer, proprio grazie al “filtro” dell’affezionato Wolff? La “dritta” a Donna Rachele era arrivata da Nino Martini, un industriale romagnolo a lei
dell’OSS americano, tale Edward Como; che un certo Kurt Muller, tedesco, lavorava in realtà per conto dell’Intelligence Service inglese; che un ufficiale italiano, Paolo Bernari, venuto dal Sud, si era infiltrato come telefonista a Gargnano». Alle 9,30 dell’8 ottobre, Bigazzi, accompagnato da un commissario di PS, da due agenti e dallo stesso Martini si recano a Villa Fiordaliso. La reazione della Petacci è furiosa tanto che arriva a minacciare con una pistola i presenti. Poi sviene.
In Svizzera Marcello Petacci teneva forse i contatti con lo stesso John Clifford Norton, ambasciatore di Londra a Berna. E’ lui, probabilmente, il regista del girovagare di Mussolini sulle sponde del Lago di Como fedele, che aveva un figlio nel comando del battaglione della Guardia del Duce. Il ragazzo era sveglio e aveva scoperto un traffico di documenti. E anche altro: «Martini sapeva anche altre cose, o credeva di saperle. Per esempio, che intorno alla Petacci c’era un giro di agenti segreti non solo tedeschi, ma anche Alleati. Sapeva che, fingendosi cameriere d’un ristorante di Torri del Benaco, agiva sul Garda una spia
Nonostante l’atmosfera melodrammatica la realtà però si fa strada prepotentemente: le informazioni di Martini si rivelano infatti esatte. Durante la perquisizione saltano fuori 13 copie di lettere di Mussolini: una ventina di fogli in tutto e nessun originale. Nonostante le precedenti promesse di far arrestare “quella donna” «se mi porterete una sola copia», Mussolini di fronte all’evidenza non prenderà alcun provvedimento. Anzi, convocherà Martini per apostrofarlo duramente: «Dunque avevate ragione, e con ciò? Credete forse d’essere riuscito a fermare i carri armati di Alexander?». Dopo cinque giorni fece pace con l’amante. «Invece l’affare delle
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All’ombra del potere: donne e uomini del «clan Petacci»
Francesco Saverio Petacci, il padre di Claretta. Archiatra pontificio (medico del papa) sotto Pio XI. Nell’aprile ‘45 vola in Spagna con la moglie
Marcello Petacci, fratello maggiore di Claretta. Senza scrupoli, approfitterà della posizione della sorella per le sue mene affaristiche e diplomatiche
Giuseppina Persichetti, madre di Clara. Fu lei a inventare il diminutivo Claretta. A lei, negli anni Trenta, Mussolini chiese «il permesso di amare sua figlia»
copie era serio – ha scritto Silvio Bertoldi – Sia perché confidenze private, rivelazioni, giudizi polemici di Mussolini venivano trasmessi a chi non avrebbe mai dovuto conoscerli, sia perché si mormorò che altre fotocopie avessero preso la via della Svizzera, probabilmente insieme con gli originali. E né allora, né poi, se ne è più saputo qualcosa».
chele. Ovviamente, nelle rispettive versioni è sempre “l’altra” a fare la figura peggiore anche se non si può non notare che, a posteriori, i racconti di Donna Rachele siano venati da una certa pietà e compassione. Quello che in questa sede importa è però un’altra cosa. Un particolare confermato, nella sostanza, da entrambe le versioni e che, tra le altre cose, ci dice che Bigazzi non aveva frugato bene a Villa Fiordaliso. Secondo la versione Petacci, durante il litigio Claretta per dimostrare che Mussolini l’amava tirò fuori delle lettere che il dittatore le aveva scritto. Donna Rachele scattò: «Non le voglio vedere! Non m’interessano! Non voglio portarvi via
Claretta possedeva, duplicava e distribuiva, non sembra credibile che l’offerta della Petacci cadesse così rapidamente nel vuoto. Infatti, nella versione ribadita più volte nel dopoguerra dalla stessa consorte del dittatore, la scena è un po’ diversa: «Si sollevò lentamente dalla poltrona e scomparve su per le scale. Quando tornò, aveva fra le mani dei fogli bianchi arrotolati e me li tese dicendo: “Sono trentadue lettere. Me le ha mandate vostro marito”. Mi bastò un’occhiata: non erano lettere, erano solo copie dattiloscritte. Allora gridai: “Non voglio portarvi via niente, non è questo lo scopo della mia visita…”». Dunque Claretta non solo non distruggeva le lettere che Mussolini gli scriveva ma le copiava. O, peggio, le faceva copiare. Perché? Donna Rachele quella sera mostrò di sapere quello che l’amante del marito, apparentemente incline soprattutto ai pianti e ai mancamenti, faceva da chissà quanto tempo: «Allora, esasperata, le dissi che non potevo soffrire le donne che risolvono ogni problema con le lacrime e gli svenimenti e le rinfacciai molte cose: di aver fatto fotografare e messo al sicuro, in Svizzera e in Germania, alcune lettere delicatissime che mio marito le aveva scritto durante la loro lunga relazione (…); di avere per-
La pace sul lago durò molto poco. Un paio di settimane in tutto. Quanto cioè separò la perquisizione di Bigazzi, ispirata da Donna Rachele, da un vero e proprio blitz della stessa signora Mussolini a Villa Fiordaliso. Di quella tragica
I diplomatici del Regno d’Italia si attivarono per chiedere agli spagnoli «severe indagini» sui «beni portati dai Petacci e soprattutto sui documenti che essi potevano aver trafugati in Italia». Si mosse anche l’ambasciata inglese a Madrid serata, condita da pioggia battente, svenimenti, telefonate di un imbarazzato Mussolini, urla e comprimari (l’SS Spoegler, il ministro Buffarini Guidi, il solito Martini…) incapaci di metter pace tra le due donne, restano due versioni: quella riferita da Myriam Petacci, che raccolse a caldo le confidenze della sorella, e quella di Donna Ra-
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niente! Tenetevele pure ché, tanto, vi pentirete, e si pentirà anche lui, perché un uomo che non rispetta la moglie…». Claretta ribatté che «il Duce ha sempre manifestato il massimo rispetto per voi, come madre dei suoi figli…» e il discorso prese un’altra direzione. In realtà, visto che da tempo Donna Rachele batteva sul tasto delle lettere che
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Miriam Petacci, sorella minore di Claretta, attrice cinematografica. Riceverà le ultime confidenze della sorella pochi giorni prima di Dongo
Zita Ritossa, compagna di Marcello Petacci. Con lui, Claretta e i suoi due figli, visse e vide tutti i momenti cruciali delle ultime ore di Mussolini
messo l’impianto di un cavo telefonico fra la nostra villa e la sua abitazione e infine di tenere contatti con persone poco raccomandabili. (…) Le dissi tutto: che ognuna delle telefonate che si scambiavano lei e Benito veniva registrata e il testo inviato in cinque copie ai comandi tedeschi. Che i servizi d’informazione inglese e americano facevano capo anche a lei per tenere Mussolini sotto controllo e che doveva diffidare di tutti…». A questo punto è difficile dubitare che Claretta, non si sa fino a che punto consapevole e consenziente, non fosse al centro di un complesso – o forse semplicemente tortuoso – gioco che, nella migliore tradizione della politica e dello spionaggio, prevedeva più ruoli e più livelli di impegno per uno stesso protagonista. Quello che sapeva Donna Rachele ovviamente lo sapeva anche Mussolini. Claretta, a quanto risulta, non fece sostanziali e decise obbiezioni alle accuse mossele. Abbiamo anche visto che effettivamente duplicava documenti di provenienza mussoliniana chiedendone a volte – come risulta dall’intercettazione telefonica – il permesso allo stesso Mussolini. Alla luce di quanto emerso non possiamo quindi non considerare a tutti gli effetti la Petacci come un giocatore di una partita la cui mano finale si sa-
rebbe dovuta giocare sul Lago di Como, a fine aprile 1945.
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Mussolini, sul finire della RSI si ritrovò, anche se non sappiamo fino a che punto lo aveva desiderato davvero, ad avere in Claretta un pezzo della sua strategia. Una tessera di cui comunque non si poteva più fare a meno, sia perché ormai era tardi e sia perché quella tessera ne se ne tirava regolarmente dietro un’altra, non meno ambigua e sicuramente meno disinteressata: Marcello Petacci. Non è forse un caso che sia stato proprio il segretario del PFR Alessandro Pavolini a guidare la rivolta dei condannati a morte di Dongo (…) Dal suo pun-
crollo. In Svizzera Petacci, si ritiene, teneva i contatti con gli inglesi, forse con lo stesso sir John Clifford Norton, ambasciatore di Londra in territorio elvetico. E’ lui, probabilmente, l’oscuro regista dello strano girovagare di Mussolini, nella giornata del 26 aprile, su e giù per la sponda sinistra del lago di Como: Como, Menaggio, Grandola e poi ancora Menaggio. Che cercava Mussolini, ben attento ad aver con sé solo alcuni fidati gerarchi, deciso a non ascoltare i richiami di Pavolini che lo voleva tra i fascisti concentrati a Como e desideroso di scrollarsi di dosso la scorta tedesca che, con la scusa della sicurezza, ne condizionava i movimenti? Cercava un contatto con emissari inglesi, un contatto magari prospettato e organizzato da Marcello Petacci? E’ una vecchia convinzione, messa nero su bianco già nel 1950, da Ferruccio Lanfranchi, il primo cronista che si sia interessato a fondo alle vicende di Dongo: «...Mussolini, dopo il colloquio con Petacci [il aprile a Menaggio, nella casa del Federale Castelli, NdA], si sarebbe indotto a scrivere, di suo pugno, una lettera al ministro Norton. Noi crediamo che questa lettera non sia stata distrutta. Quella lettera era stata scritta nella fiducia di poter contare su dichiarazioni
Solo, con due borse di documenti (di cui una sparirà subito) Mussolini si reca al suo appuntamento col destino. Claretta, inconsapevole, dopo averlo incitato a seguire l’infido consiglio dei tedeschi, sarà ancora al suo fianco... to di vista, l’odio di Pavolini verso Marcello Petacci (odio condiviso da molti altri gerarchi che magari intuivano quello che non sapevano) era ben indirizzato. Via via che la fine della RSI si avvicinava, Petacci aveva intensificato i suoi viaggi in Svizzera, l’ultimo dei quali era iniziato il 19 aprile ed era terminato il 23 aprile successivo, alla vigilia del
fatte precedentemente da Churchill e, forse su impegni presi dal premier britannico o su promesse di lui. Logico quindi che i documenti fossero affidati a colui che si era assunto il compito di intermediario sfidando, per salvare la vita a Mussolini (e quindi alla sorella, che sapeva votata alla stessa sorte) il disprezzo dei capi fascisti che
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non si erano tutti resi conto della fine inevitabile: Marcello Petacci. Ecco perché, considerandolo dal loro punto di vista un “traditore”, per aver trattato con gli inglesi, i gerarchi condannati a morte dal colonnello Valerio chiesero di non essere fucilati con lui. Che il carteggio fosse tenuto da Marcello Petacci è ormai provato. Ma nessuno sinora ha fatto piena luce su questa vicenda, la quale conserva, anche per noi che pure abbiamo indagato con scrupolo alla ricerca della verità, parecchie lacune...». Forse l’unica pecca della ricostruzione di Lanfranchi sta nel fatto che quella lettera a Norton Mussolini non la scrisse il 26 aprile a Menaggio ma il giorno prima, nella prefettura di Milano. Il sofisticato (o semplicemente contorto?) piano di salvezza organizzato da Mussolini prevedeva anche il coinvolgimento del segretario di prima classe del Consolato spagnolo di Milano, Don Fernando Canthal y Giron. Canthal incontrò varie volte Mussolini negli ultimi giorni alla prefettura di Milano: l’ultimo incontro fu proprio il 25 aprile poco prima del fallimento dell’incontro in Arcivescovado. Dietro a tutto ci sarebbe
Petacci lo invita ad andare con lui in prefettura: incontrano il Duce, che apprezza l’iniziativa e la collaborazione del console e prepara la lettera con la quale offre tra l’altro “la resa delle forze armate della Repubblica Sociale”». In questo senso va la testimonianza della compagna di Marcello, Zita Ritossa, ma il contenuto della conversazione è confermato, oltre che dal fatto che nelle tragiche ore di Dongo Petacci si qualificherà come diplomatico spagnolo con tanto di credenziali e bandiera sul cofano della propria auto, anche dal rapporto inviato dallo stesso Canthal il 6 maggio 1945 al suo ministero degli Esteri. Il tergiversare dei fascisti sul lago di Como può quindi essere messo in relazione con l’attesa spasmodica per i risultati della missione di Canthal. Al riguardo non è senza significato che, nel momento estremo, Mussolini abbia pensato di rivolgersi ad un inglese ed è altrettanto plausibile che, comunque sia, il passo successivo sarebbe stato un lungo esilio. Lo dimostrerebbe quel lasciapassare per la Spagna, ben piegato in una busta gialla del “Fascio Repubblicano Sociale di Dongo” (e questa busta, già da sola, sembra suggerire molte cose) trovato addosso a Mussoli-
Durante l’autopsia addosso a Mussolini fu trovato un lasciapassare per la Spagna piegato in una busta del «Fascio Repubblicano Sociale di Dongo». Chi gliel’ha dato? E perché? E’ molto probabile che il Duce ricevette il documento sul Lago... stato ancora Marcello Petacci che, quel mattino, chiede a Canthal asilo per la sua famiglia nel consolato di Spagna e con l’occasione domanda al diplomatico anche se «è disposto a portare un messaggio di Mussolini a Berna, all’ambasciatore inglese Norton. Lo spagnolo risponde che è pronto a compiere la sua delicata e importante missione di pace. Incoraggiato, Marcello
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ni, nella tasca posteriore dei suoi pantaloni, sul tavolo delle autopsie a Milano, il 30 aprile 1945. Quella busta venne trovata da uno dei medici presenti, il professor Pierluigi Cova che ricorda che il documento era datato 14 settembre 1944 ed era intestato a due coniugi di cui Cova non ricorda il cognome. Un ufficiale partigiano presente all’autopsia strappò di mano il foglio a
Cova che non fece in tempo ad esaminarlo per bene. Ma quella busta del Fascio di Dongo può voler dire che forse quel documento cambiò di mano proprio nelle ultimissime ore di vita del dittatore visto che è impensabile che a Milano, in prefettura o al consolato di Spagna, qualcuno avesse provveduto a rinchiudere un simile documento in una busta intestata al Fascio repubblicano di uno sconosciuto paesino del comasco. E perché mai quel qualcuno consegnò un lasciapassare per la Spagna ad un Mussolini ormai solo, già prigioniero o sul punto di diventarlo? Infatti il particolare della busta fa propendere per la circostanza secondo la quale Mussolini non partì da Milano col documento in tasca ma lo ricevette sul Lago. (…) Ma qualcosa Mussolini riuscì, in extremis, a mandarlo ugualmente in Spagna. Dovevano essere la stessa Claretta e probabilmente una copia di importanti documenti da mettere al sicuro. Invece la donna non obbedì alle sollecitazioni dell’amante e rimase a Milano, forse compromettendo così una parte dei piani di Mussolini per mettere al sicuro le sue carte. Al suo posto invece partirono i genitori, la sorella e il cognato di Claretta e poche altre persone (tra cui, sembra, il leader filo-nazista belga, Leon Degrelle, capo del partito rexista) con un aereo Savoia-Marchetti S.83 con insegne croate decollato dall’aeroporto milanese di Linate all’alba del 23 aprile 1945. L’arrivo dell’aereo, nonostante l’atterraggio su una pista secondaria dell’aeroporto militare di Prat de Llobregat di Barcellona, fu subito notato dalle autorità diplomatiche del Regno d’Italia le quali subito si attivarono per chiedere agli spagnoli che «severe indagini fossero fatte sui beni e valute portate dalle persone in questione e soprattutto sui documenti che essi potevano aver
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trafugati in Italia». (…) Il sospetto che tra gli 80 bauli caricati a fatica sul Savoia-Marchetti ci fossero anche altri documenti oltre a queste lettere di Mussolini era diffuso in Spagna in quei giorni. Al punto che, poco dopo l’atterraggio, significativamente, si mosse anche l’ambasciata inglese a Madrid, la cui richiesta di sequestro dei beni dei passeggeri del velivolo cadde però nel vuoto. Era la fine di maggio del 1945: in quei giorni come si è visto la caccia ai documenti di Mussolini era già frenetica. E’ quindi così azzardato ipotizzare che, al pari del suo collega di Roma, anche l’ambasciatore inglese a Madrid non volesse lascia-
re nulla di intentato per cercare di recuperare carte e documenti di qualche interesse per Londra? Il rifiuto di Claretta di volare in Spagna con i documenti che le sarebbero stati affidati fu probabilmente uno degli intoppi che il piano di Mussolini incontrò al momento finale. Fallite tutte le altre strade, Mussolini si vide costretto a scio-
Il peregrinare di Mussolini ha tratto in inganno molti studiosi convinti che sul Lago di Como stesse cercando di espatriare in Svizzera. Al contrario è molto probabile che c’era invece qualcuno che lo doveva raggiungere in un «appuntamento sul lago»
Claretta Petacci ritratta dal fotografo Luxardo intenta nella lettura del memoriale di Benito Mussolini «Storia di un anno», pubblicato nel 1944
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gliere in extremis tutti i fili sul lago di Como: costeggiando la frontiera svizzera, ma senza mai avvicinarsi troppo, Mussolini ha tratto in inganno molti studiosi, convinti che stesse in realtà cercando il momento migliore per tentare l’espatrio. Invece era probabilmente qualcun altro che lo doveva raggiungere. (…) E’ molto probabile che Mussolini, il 26 aprile, attendesse, ol-
tre alle camicie nere che gli aveva promesso Pavolini e che invece si stavano disperdendo nel caos di Como, qualche emissario con cui continuare la lunga trattativa dei mesi precedenti. Per farlo non aveva bisogno di Claretta, ovviamente. Ma forse erano i tedeschi a volere che la donna stesse con lui. E per farlo bastava assecondare la cocciuta determinazione della Petacci a stare vicino al suo Ben. In questo senso può essere letto un episodio poco noto ma illuminante. In un frangente in cui Mussolini cerca di seminare in tutti i modi i tedeschi (lo ha fatto lasciando la prefettura di Como, lo farà poche ore dopo sulla strada per Grandola), Claretta ha un modo decisamente singolare di presentarsi a Menaggio. All’entrata del paese un posto di blocco delle Brigate Nere la ferma e solo l’intervento del colonnello Casalinuovo può farla arrivare a una villa attigua alla caserma della Brigata Nera. Ancora una volta, a pochi metri da Mussolini che in quel momento, siamo nelle prime ore del mattino del 26 aprile, sta riposando nella casa del vice federale del paese, Paolo Emilio Castelli: «La donna arriva poco dopo Mussolini. Si presenta con due tedeschi alla sorella della padrona di casa, Cornelia
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Pezzara. “La signora deve dormire qua!”. Di fronte all’imposizione, alla donna non resta che replicare: “Si accomodi”. Due tedeschi controllano l’entrata principale e altri due quella secondaria, dall’altra parte della casa: ma lo fanno dall’interno, per non dare nell’occhio, mentre nel palazzotto di fronte stazionano in gran mostra gli uomini di Birzer». Poche ore più tardi, non invitata, Claretta raggiungerà col fratello e la famiglia di lui, anche Grandola, dove nel frattempo si è trasferito
del distacco – ricorda l’attendente di Mussolini, Pietro Carradori – Gatti chiese: “Duce, devo venire con voi?”. E Mussolini rispose: “No, soltanto Carradori mi seguirà”. Ero in borghese, con un giubbone di pelle nera. Presi dall’autoblinda i due mitra, il mio e il suo, le due borse che mi aveva consegnato a Milano, in Prefettura, all’atto della partenza, e il pacco con dentro i cinque milioni di lire, e tenendo tutto ben stretto nel braccio destro, afferrai con la sinistra il parapetto del cassone del camion
La Petacci a Dongo cercò in tutti i modi di celare le carte ma di fronte alle minacce brutali di Pedro, confessa la presenza di una borsa di documenti tra le valige trasportate sull’auto del «console spagnolo» Mussolini con il grosso dei gerarchi. E, stando ai testimoni, il vederla di lontano non aiutò il Duce a mutare di umore, comprensibilmente pessimo in quelle ore. Difficile dire che valore ebbe realmente la «carta Claretta» nel gioco dei tedeschi e in quello di Mussolini. Due giochi divergenti come dimostrerà la circostanza della salita di Mussolini sul camion tedesco per superare lo sbarramento partigiano di Dongo. «Quando arrivò il momento
per issarmi a bordo. Fu Fallmeyer a strapparmi giù dalla ruota su cui avevo appoggiato il piede sinistro, gridando come un forsennato: “Nein! Nein!”. In quel momento vidi poco distante Giovanni, un maresciallo delle SS di origine altoatesina della scorta di Birzer che parlava perfettamente italiano e di cui ero amico. “Giovanni”, gli gridai, “diglielo tu a questo stronzo che è il Duce che mi vuole!”. Niente da fare. Il camion partì a tutto gas. Feci appena in tempo a lanciare oltre il parapetto del cassone
le due borse. Soltanto quelle». E così, solo, con un pastrano troppo largo e lungo, con due borse di documenti (di cui una sola entrerà con lui, poco dopo, nel municipio di Dongo) Mussolini muove verso l’appuntamento col destino, circondato da tedeschi. Claretta, imperterrita e inconsapevole, dopo averlo incitato a seguire l’infido consiglio dei tedeschi, sarà ancora con lui di lì a poco (…). Così come Claretta è morta perché sapeva è altrettanto vero che, ad un certo punto, il piano di salvezza che avrebbe dovuto portare Mussolini vivo e prigioniero lontano dal lago di Como comprese, contro ogni logica apparente, anche Claretta. Perché lei e non qualche ministro, come ad esempio il ministro degli Interni repubblicano, Paolo Zerbino, oppure quel Barracu che sappiamo aver partecipato a più di un colloquio con emissari stranieri durante la RSI? O il comunque noto e rappresentativo – oltre che odiato – Alessandro Pavolini? Oppure, perché non il colonnello Casalinuovo, aiutante di Mussolini e custode di tanti suoi segreti? No, alla fine, la notte tra il 2 e il 28 aprile 1945 si scelse di unire al dittatore una donna di cui pochi avevano sentito parlare e che probabilmente Mussolini non avrebbe
Un vizio eterno chiamato «diplomazia segreta»
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uesto libro si occupa di uno degli errori principali di Mussolini, il più tragico. L’entrata in guerra dell’Italia nel Secondo conflitto mondiale ha determinato infinite conseguenze per l’Italia sul piano geopolitico, militare, economico e politico interno. Ma le più gravi, e ancora non rimarginate, sono forse le conseguenze psicologiche determinate da date choc come l’8 settembre 1943 o il 25 aprile 1945. Tutto questo ha avuto origine dal tavolo da poker della diplomazia nel 1939-1940? Sicuramente sì, ma a quel tavolo, a contendersi le po-
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ste in gioco, c’erano più giocatori di quanto in genere si dica e non tutti i bluff e i rilanci trovano posto nei moltissimi libri di storia che tentano di raccontare quello snodo, drammatico soprattutto per la storia europea. A quel tavolo l’Italia si sedette con un precedente che risaliva alla primavera di 25 anni prima, quando il governo Salandra – resistendo alle blandizie tedesche – stipulò
con Inghilterra e Francia quel «Patto di Londra» che avrebbe deciso il nostro ingresso nella Prima guerra mondiale e che inglesi e francesi (sostenuti dagli USA), sempre pronti a rinfacciare all’Italia veri e presunti voltafaccia e debolezze, si guardarono a guerra finita dal rispettare appieno. Il «Patto di Londra» rientra a pieno titolo nella categoria – ricchissima di esempi in ogni periodo
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o agli anglo-americani in compagnia della propria amante. Del resto, che una certa sorpresa abbia colto Mussolini nel momento in cui scoprì che era stato ricongiunto alla Petacci lo si ricava dallo scarno scambio di battute riportato dai testimoni: - Anche voi, qui, signora? - Preferisco così, Eccellenza. Secondo quanto asserito per anni da lui stesso, fu Pedro a decidere di unire i due, dopo un lungo e drammatico colloquio con Claretta, nel municipio di Dongo, la sera del 27, mentre Mussolini è a Germasino. Secondo Pedro Mussolini, nella
I partigiani Pedro (Pier Bellini delle Stelle) e Bill (Urbano Lazzaro), rispettivamente comandante e vice commissario politico della 52a Brigata Garibaldi
mai scelto come compagna in quel frangente. Sia perché aveva cercato di allontanarla da sé più volte sia perché avrebbe dovuto coinvolgerla in situazioni pericolose sia, infine, perché a livello di immagine non ci avrebbe fatto una bella figura a trovarsi in mano al CLN
storico – dei patti segreti. E’ possibile che, entrata nella Prima guerra mondiale per onorare un patto segreto, l’Italia abbia seguito un iter simile (con un governo diverso ma con lo stesso sovrano e con gli stessi protagonisti internazionali: Francia, Germania, Inghilterra e, sullo sfondo, Stati Uniti) anche in occasione della sua entrata nella Seconda guerra mondiale? La questione del «carteggio Mussolini-Churchill» è, a ben vedere, tutta qui. Non più - allentata la morsa delle ideologie e dei loro troppi «a priori» storiografici - ipotesi da fanta politica, buona per complottisti o per rotocal-
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invece il colloquio avrebbe avuto contenuti decisamente meno romantici con Pedro deciso a sapere tutto sui piani della coppia per contattare gli anglo-americani. La Petacci avrebbe cercato in tutti i modi di negare ma alla fine, di fronte alle minacce brutali di Pedro, cede e confessa la presenza di una borsa di documenti tra le valige trasportate sull’auto del console spagnolo. «L’interrogatorio di Clara - osserva Zanella - ha come fine di scoprire dove siano nascosti i documenti che Mussolini deve offrire a Churchill per salvarsi la vita; e questo significa che chi ha
«L’interrogatorio di Clara - dice Zanella - ha il fine di scoprire dove siano nascosti i documenti che Mussolini deve offrire a Churchill per salvarsi la vita. E questo significa che chi ha rivelato a Pedro l’identità della donna sa che lei ha quelle carte» caserma della Finanza, gli avrebbe chiesto, in modo goffo e imbarazzato, di salutargli “quella signora” svelando così la presenza della Petacci tra i prigionieri della colonna. Tornato a Dongo Pedro avrebbe avuto quindi un lungo colloquio con una piagnucolosa Petacci, nel corso del quale lei gli avrebbe chiesto con insistenza di essere riunita al suo Ben. (…) Secondo Lazzaro
chi a caccia di rivelazioni sensazionali. E neanche esempio di disinformazione messo a punto, in articulo mortis, dai servizi segreti della Repubblica Sociale Italiana. Ma una concreta e credibile spiegazione di quello che accadde, dietro le quinte, non solo nel maggio-giugno 1940 ma anche nei mesi successivi quando le scelte politiche e militari italiane sembrarono – ma lo furono davvero? – ancora più improvvisate e insensate di quelle che avevano portato il Paese in guerra. (dall’Introduzione di Fabio Andriola a «Carteggio segreto Churchill-Mussolini», SugarCo editore) n
rivelato a Pedro l’identità della donna sa bene che ella ha quei documenti o almeno ne conserva una copia. Facile quindi intendere che voglia impossessarsi di quei documenti». (…) Non resta quindi che accentrare l’attenzione sulle mosse di Bellini delle Stelle “dopo” il colloquio con Claretta. Per prima cosa si reca (dicendo poi, quasi sicuramente mentendo, di essere stato chiamato) all’albergo Dongo per parlare con Marcello Petacci. Poi, subito dopo, decide di trasferire immediatamente Mussolini e la Petacci in un luogo segreto. E’ l’inizio di quello che da molti è stato interpretato come l’estremo tentativo dell’ala moderata e filo-alleata del movimento partigiano di portare in salvo i due prigionieri e, una volta trasferitili sull’altra sponda del lago, a Villa Cademartori, di consegnarli il prima possibile agli alleati. Pedro, a Dongo, non era che il terminale di una catena che partiva da Milano, da Raffaele Cadorna, coman-
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toria Doc» (www.storiadoc.com) il portale del documentario storico creato da «Storia in Rete» offre anche un interessante e approfondito documentario dedicato alla figura di Claretta Petacci. Passata alla storia come la donna che affrontò la morte pur di stare vicino all’uomo che amava, Benito Mussolini, fu una figura con una sua nobiltà quindi, in un periodo drammatico e oscuro della storia d’Italia. Eppure l’oscurità di quei mesi intaccò anche Claretta il cui operato è ricco di ambiguità, cosa che non era sfuggita né ai servizi di sicurezza della Repubblica di Salò né allo stesso Mussolini che, ad-
dirittura, nell’ottobre 1944 ordinò che la casa della Petacci sul Garda venisse perquisita alla ricerca di sue lettere e documenti riservati. Che vennero trovati, mettendo in chiaro
che Claretta passava informazioni ai tedeschi. Ma in un periodo dove i doppi giochi erano all’ordine del giorno si fece largo la tesi che, anche in virtù degli strani affari del fratello Marcello, da Claretta partissero informazioni raccolte poi da agenti inglesi e americani. Era quanto sosteneva la moglie di Mussolini, Donna Rachele, che affrontò la Petacci in un drammatico faccia a faccia pochi mesi prima della fine della RSI. Ma niente fermò Claretta che continuò a giocare – non del tutto consapevole – il suo ruolo di pedina-informatrice a fianco di Mussolini fino al drammatico epilogo di Giulino di Mezzegra. n
Il documentario è in streaming su StoriaDoc a solo ,$ fino al giugno http://storiadoc.com/una-spia-chiamata-claretta/ dante del Comitato Volontari della Libertà (CVL), il braccio armato della resistenza, e che aveva il più importante trait d’union nel colonnello Giovanni Sardagna, comandante CVL di Como: «Io ricevetti - racconterà in seguito Sardagna nella notte dal 2 al 28 aprile l’ordi-
un tratto di strada, rientrando poi per sopraggiunge difficoltà». (…) A Moltrasio Mussolini e la Petacci non furono imbarcati su nessun motoscafo per raggiungere Villa Cademartori e invece, dopo una breve sosta, prese la via di Bonzanigo, per Casa De Maria da cui for-
Perché Churchill se la prese per la morte di Claretta? Forse erano stati violati dei patti. O forse l’uccisione del Duce e della Petacci aveva sì tolto di mezzo due scomodi testimoni ma anche complicato terribilmente il recupero delle loro carte... ne del comando generale Volontari della Libertà di Milano (CGCVL) di portare Mussolini e gli altri a Milano o quanto meno a Como, al sicuro. Il trasporto non era facile per mancanza di mezzi e più ancora di scorta sicura, tuttavia presi gli accordi con il comandante della 52a che lo aveva catturato; questi mi assicurò che avrebbe spedito il prigioniero, come infatti fece, per
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se non uscì più vivo. La sorda lotta tra falchi e colombe all’interno del movimento partigiano si era risolta evidentemente con la vittoria dei primi. Più del moderato Pedro, poterono i comunisti come Michele Moretti, Pietro e l’ambiguo Luigi Canali, il capitano Neri che, non a caso, l’avevano seguito-scortato da Dongo. E così la sorte di uomini e carte fu decisa. Con disappunto di
qualcuno. Infatti il 10 maggio 1945 Churchill scrisse al feldmaresciallo Alexander per chiedergli che venisse ordinata un’inchiesta sulla morte di Mussolini e, in particolare, sul perché fosse stata uccisa anche la Petacci. Il premier in quella lettera arrivò a definire l’azione del colonnello Valerio «proditoria e codarda». Perché Churchill se la prese così tanto? Forse davvero erano stati violati dei patti, impedita l’esecuzione di accordi presi in precedenza. O forse, più semplicemente, la soppressione repentina di Mussolini e della Petacci aveva tolto sì di mezzo due pericolosi testimoni ma aveva complicato terribilmente il recupero delle loro carte di cui, già dopo il loro arresto, era iniziata la diaspora (e la moltiplicazione per fotocopie) che abbiamo visto e che fece dannare i servizi segreti inglesi per molti anni. Fabio Andriola [Per gentile concessione dell’editore SugarCo]
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Dove son finite le altre lettere del DUCE a CLARETTA? Una recente pubblicazione ha reso finalmente disponibili – dopo anni di polemiche e rifiuti – le lettere scritte da Mussolini all’amante Claretta Petacci durante i drammatici mesi della RSI. Ma curiosamente si notano clamorose assenze come osserva uno storico e giornalista che alle lettere tra Claretta e Mussolini ha dato una caccia lunga decenni di Luciano Garibaldi
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ualcosa non quadra, nel libro di Benito Mussolini intitolato «A Clara», sottotitolo «Tutte le lettere a Clara Petacci», pubblicato dalla Mondadori a cura dell’Archivio di Stato (pp. 404, € 24,90). Ciò che non quadra è proprio quel sottotitolo. Le lettere scritte dal Duce alla sua amante nei mesi della RSI e riprodotte nel libro, infatti, sono tante (precisamente 318, recapitate alla destinataria tra il 10 ottobre 1943 e il 18 aprile 1945), ma non tutte. Mancano alcune, molto importanti sotto il profilo storico: quelle, cioè, relative ai contatti segreti con Churchill e ai tentativi di Mussolini di porre fine alla guerra in occidente per fare fronte comune con gli Alleati contro l’avanzata sovietica da oriente. Un esempio per tutti. Nel libro non c’è traccia della lettera scritta da Mussolini all’amante il 14 marzo 1945. Eccone il testo: «Claretta mia cara, hai ragione. Si avvicina
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il giorno in cui Hitler si convincerà della necessità di trattative dirette con l’Inghilterra. Lui conosce le mie possibilità. Ma ha paura, io conosco la ragione di questa sua paura. E maledico questa mia conoscenza, perché mi dà l’incubo di essere vile, di non sapermi decidere ad agire, sebbene senta l’assoluta necessità, anzi il dovere, di agire, finalmente. Però, agire d’accordo con Hitler significa rischiare di correre il pericolo di compromettere la nostra situazione e la nostra possibilità di salvare il salvabile. Agire di nostra iniziativa? Da soli? Non è consigliabile. Non voglio mettermi nella traccia dei Savoia e degli altri traditori! Quale tormento! E quale crisi di coscienza!». Una lettera da cui si evince che Claretta Petacci era a conoscenza di ogni problema politico dello Stato, anche dei più delicati. Al posto di questa missiva, e sempre con la stessa data del 14 marzo, il libro Mondadori-ACS propone un’altra breve lettera con cui il Duce
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CARTE SPARITE epistolari a pezzi e bocconi accompagna all’amante un libro di Grazia Deledda! Ma andiamo avanti. Il 2 aprile di quel fatale 1945, Claretta aveva fatto recapitare al Duce, dal fedelissimo SS-Obersturmführer Franz Spögler, la seguente lettera: «La mia convinzione, ferma, è sempre una sola: non scendiamo a patti! I Savoia, Badoglio e soci stanno facendoci un tranello! Tu per loro sei un fuorilegge, un condannato a morte. Ascolta il mio consiglio: sta’ in guardia! Hanno tutti l’interesse a farti tacere per sempre! Tu dici: parlano i documenti. Ma loro sanno che i documenti si comperano, si rapinano, si distruggono. Un fatto è sicuro: se tu, se il carteggio, doveste essere un giorno in loro possesso, le tue ore di vita, nonché quelle del carteggio, sarebbero contate! Ben, ti supplico, non prendere decisioni senza consultarti con chi sai!». Lettera che dimostra, tra l’altro, la straordinaria capacità di preveggenza della giovane donna, perfettamente cosciente che il destino del suo grande amore (ma anche il suo) era strettamente legato al carteggio con Churchill. Ebbene, che cosa riporta, il libro Mondadori-ACS, alla data del 2 aprile ‘45? Una lettera di Mussolini in cui si legge: «Mentre la ruota continua a girare sempre più vorticosamente, tu continui a parlarmi di futilità. Sarebbe delittuoso se non fosse grottesco. Ad ogni modo, ti avverto che cambio donna ogni ora, dico ogni ora. Va bene? Va bene così? Ho parlato chiaro e ho detto che o si decide la partenza o non se ne fa nulla». Sicuramente il Duce scrisse questa lettera. Ma è impensabile che non abbia risposto, con una seconda lettera, alle esortazioni riguardanti il carteggio. Tanto più che, per lui e Claretta, Franz Spögler aveva la valenza di un browser di posta elettronica. A volte si scambiavano lettere anche due o tre volte al giorno.
Claretta Petacci
Veniamo al dunque. Gli esempi che ho appena citato, e che riportai già nel mio libro «La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci?» (prima edizione Ares, 2002), provengono dal materiale che il 28 marzo 1973 il generale Karl Wolff, già comandante delle SS tedesche in Italia durante l’occupazione e la Guerra Civile, consegnò al giornalista e storico Ricciotti Lazzero che era andato a intervistarlo. Quel materiale consisteva in copie di lettere tra Mussolini e Claretta e registrazioni stenografiche di telefonate tra Mussolini e vari personaggi (anche di primo piano, come il
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generale Graziani e lo stesso Hitler) tra cui la stessa Petacci. Wolff disponeva delle registrazioni perché chiaramente era lui il destinatario delle intercettazioni telefoniche e delle lettere e perché aveva ordinato a Spögler e agli altri occasionali «fattorini» di fotografarle scrupolosamente, una per una, prima di consegnarle ai due destinatari. Del resto, non è una novità che i tedeschi la facessero da padroni durante i 18 mesi della RSI. Perché Wolff abbia consegnato quello scottante materiale a Ricciotti Lazzero non è difficile da spiegarsi. Per soldi. Wolff non faceva mai niente per niente. Uscito dal carcere militare dopo 12 anni
nio. Io non cederò. Il Capoccia sono io! Fa intendere questo anche a Spögler. Lui senz’altro riferirà all’ambasciatore, e questo a sua volta ai suoi. Se Kappler crede di potersi burlare di me si sbaglia di grosso. Anche se è un protetto di Wolff. Io sono fermamente deciso a fare piazza pulita. Oggi come oggi, non sono più costretto a tenere la bocca chiusa e non temo più nessuno. Lo si sappia! Dunque, stai tranquilla. Telefonami verso le 19». Nel libro Mondadori-ACS la lettera non c’è. Così come non c’è alcuna lettera che faccia riferimento ad una importantissima telefonata intercorsa tra i due all’indomani della Conferenza di Yalta (la conferenza fra russi, americani e inglesi che decretò la divisione in due dell’Europa
«...perché Ricciotti Lazzero, uno degli storici più autorevoli della RSI, tenne nel cassetto quelle lettere e quelle registrazioni per 21 anni e si decise a pubblicarle nel suo “Il sacco d’Italia” solo nel ‘94?» di detenzione e rimasto senza lavoro, campava vendendo memoriali e documenti a giornalisti e storici. Ne so qualcosa. Nell’83 andai ad intervistarlo, per conto del settimanale «Gente», nella cittadina di Prien-amChiemsee, in Baviera, dove viveva, e dovetti portare con me quattro milioni di lire in marchi tedeschi: un milione per ognuno dei quattro articoli poi pubblicati. Piuttosto, non ho mai saputo perché Ricciotti Lazzero, uno degli storici più autorevoli e documentati della RSI, tenne nel cassetto quelle lettere e quelle registrazioni per ventuno anni. Finché si decise a pubblicarle nel suo libro, di successo, «Il sacco d’Italia», anch’esso Mondadori, nel 1994. Ma riprendiamo la lettura dei documenti di cui non c’è traccia nelle lettere di Mussolini a Claretta pubblicate da Mondadori-ACS. In data 8 febbraio 1945, Mussolini scrive: «Clara mia, non impressionarti per i battibecchi fra Buffarini e il dr. Apollo-
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creando la «cortina di ferro») nel febbraio 1945. Nel corso della telefonata (stenografata in italiano e riferita subito a Wolff), Mussolini sintetizzava a Claretta le osservazioni che aveva preparato «per il rapporto a Hitler che spedirò nei prossimi giorni»: «La situazione sta precipitando. La possibilità di successo di una presa di contatto allo scopo di un inizio di trattative è grande. Il momento è il migliore perché la conferenza di Yalta ha segnato un abisso tra le opinioni degli USA e quelle dell’URSS e perché Churchill ha riconosciuto il pericolo. La proposta annessione all’URSS della Polonia e dei Paesi baltici parla chiaro. L’Inghilterra è molto scossa e i miei rapporti con Churchill sono oggi ancora ottimali, tanto che escludo a priori difficoltà. Come desideri, ti mando in visione oppure ti porto una copia della lettera a Churchill». E’ davvero strano, ma molto strano, che nel libro Mondadori-ACS non vi sia traccia di tutto ciò.
Andiamo avanti. Il 22 marzo 1945, gli stenografi registrano la seguente telefonata tra il Duce e Claretta: Mussolini: «Come promesso, ti ho telefonato subito, Il nostro colloquio è terminato». Claretta: «Sono venuti tutti?». M.: «Sì. Soltanto Pavolini è arrivato in ritardo». C.: «Lo so. Due ore fa era ancora a Salò». M.: «Sarebbe stato meglio se non fosse venuto affatto. E’ stato di nuovo l’unico ad opporsi». C.: «Hai visto? Lo avevo detto». M.: «Dal suo punto di vista è comprensibile. Se egli sapesse tutto, allora…». C.: «Non è necessario». M.: «Ma lui non può capire la situazione, non può collaborare. Perciò io devo rispettare il suo punto di vista di parte. Lui non conosce gli avvenimenti accaduti pochi giorni prima della nostra entrata in guerra. Non ne ho parlato con nessuno. E Churchill ancora meno. Bisognerà raccontare una buona volta questa storia. Chi dovrebbe parlarne oggi? In tutto la conoscono cinque persone». C.: «Nel frattempo sono avvenute molte cose nuove…». M.: «Lascia stare… Oggi stesso posso venire a Gardone. Potremo discuterne». C.: «Ti aspetto». Strepitosa telefonata con un chiaro riferimento agli accordi segreti del 1940 tra Mussolini e Churchill che determinarono la nostra entrata in guerra nel fatale 10 giugno 1940. Improbabile che non ve ne sia traccia nel frenetico e quotidiano invio di lettere all’amante. Nella lettera datata 22 marzo ‘45 riprodotta nel libro Mondadori-ACS, Mussolini si limita a replicare ad una evidente scenata di gelosia di Claretta: «Non ho visto la Ruspi [una delle amanti «storiche» di Mussolini, NdR] dal 16 dicembre a Milano. Chiunque affermi il contrario – fosse anche il Padreterno – non è che un miserabile mentitore. Niente fantasie in proposito. Tutto il resto
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del tuo dattilografato è un tessuto di supposizioni. Basta col manicomio! (…) Bisogna ormai riportare il nostro amore dal piano manicomiale in cui è scivolato, su un altro piano: quello di una volta». E di Churchill? Non un cenno. A questo punto sorge spontanea una domanda: chi, come e quando ha «alleggerito» le carte Petacci consegnate all’Archivio di Stato? E, prima ancora, come finirono all’Archivio di Stato quelle carte (lettere e diari) che continuano a consentire ai due massimi editori italiani, Rizzoli e Mondadori, di sfornare un libro dietro l’altro sempre sul tema dei rapporti tra il Duce e la sua amante? Andiamo con ordine. 19 aprile 1945: Benito Mussolini, 61 anni, capo della RSI, lascia Villa Feltrinelli, a Gargnano, per raggiungere la Prefettura di Milano, dove si deciderà il da farsi: arrendersi o combattere fino all’ultimo uomo. A Claretta Petacci, 32 anni, che vive interminabili giornate in solitudine a Villa Mirabella, Gardone Riviera, all’interno del Vittoriale di D’Annunzio, raccomanda di restarsene al sicuro nella villa, guardata dai tedeschi. Ma Claretta non resiste e convince Franz Spögler a condurla a Milano, dove si riunisce ai genitori e alla so-
rella Myriam , in procinto di fuggire per raggiungere la Spagna. Essi sperano che Claretta abbia deciso di unirsi a loro, ma la giovane li disillude subito: «Sono venuta a Milano per stare vicina a lui!». Soltanto alla sorella Myriam rivela di avere
pagnia della contessa. I coniugi Cervis e Claretta vivono dunque sotto lo stesso tetto. Claretta passa le sue interminabili giornate, in attesa delle sempre più rare e frettolose visite di Mussolini, al tavolo di un enorme salone, vergando
«Sorge spontanea una domanda: chi, come e quando ha “alleggerito” le carte della Petacci consegnate all’Archivio di Stato? E, prima ancora, come finirono all’ACS quelle carte?» affidato, prima di partire, ai coniugi Carlo e Caterina Cervis, ciò che ha di più prezioso al mondo: due scatoloni contenenti più di seicento lettere inviatele dal Duce nell’arco di dodici anni, nonché un diario che parte dal 1932 (anno in cui Claretta, allora ventunenne, conobbe Mussolini) e termina il giorno della sua partenza per Milano, appunto il 18 aprile 1945. I coniugi Cervis sono divenuti, dall’ottobre precedente (cioè dall’ottobre 1944, data del suo trasferimento da Villa Fiordaliso, teatro di una drammatica scenata fattale da Donna Rachele, a Villa Mirabella), i suoi migliori amici e i suoi confidenti. Villa Mirabella appartiene alla contessa Maria Gallese di Montenevoso, vedova di Gabriele D’Annunzio: Caterina Cervis è la dama di com-
pagine e pagine di diario. In quelle pagine Claretta annota tutto ciò che il Duce le confida, per lettera o per telefono: non pettegolezzi (non è più il tempo), ma informazioni politiche, militari, diplomatiche. E le estreme speranze di salvezza. Quelle pagine sono, dunque, uno straordinario documento storico. Pochi giorni dopo, i genitori e la sorella Myriam partono per raggiungere l’aeroporto militare di Ghedi (Brescia), dove li attende un aereo che li porterà a Barcellona. Nel dare loro l’ultimo abbraccio, Claretta fa scivolare una busta nella borsetta della sorella dicendole: «Ti prego, aprila soltanto quando sarai arrivata in Spagna». Myriam trattiene a stento i singhiozzi. Quella lettera contiene il testamento di
Mussolini durante una rivista alle truppe della RSI nel 1944
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La copertina dell’epistolario di Benito Mussolini con Claretta Petacci: «A Clara. Tutte le lettere a Clara Petacci 1943-1945», a cura di Luisa Montevecchi, Mondadori-ACS, 2011, pp. 404 Aprile-Giugno 2014
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«Emilio Re, direttore dell’Archivio di Stato, aveva definito la Petacci “non solo la favorita del dittatore, ma anche la fiduciaria, qualche volta l’incitatrice, se non la consigliera”» Claretta. Eccone il testo integrale: «Non penarti per noi. Io seguo il mio destino che è il suo. Non lo abbandonerò mai, qualunque cosa avvenga. Non distruggerò con un gesto vile la suprema bellezza della mia offerta, e non rinuncerò ad aiutarlo, ad essere con lui sinché potrò. Tutte le mie carte sai dove sono. Conservale e rispettale. Tienile tu: te le affido, e tu, a tua volta, le affiderai a tuo figlio, se Iddio te ne darà uno, o a Benghino [«Benghino» è Benvenuto, il nipotino prediletto, figlio primogenito del fratello Marcello, che ha 6 anni e mezzo; il secondogenito, Ferdinando, ha appena 3 anni; NdR]. Tu capirai quale dei due sarà in grado di comprenderle. Tu che hai vissuto tutta la mia vita d’amore, tu che hai visto sin da piccolissima, tu che sei stata la piccola “paciera”, la “vivandiera”, la nostra “piccola idiota” dei giorni felici, tu sai tutto. Nessuno meglio di te può essere custode dei miei scritti. Troverai le sue lettere. Sono parte di me, sacro ricordo e indivisibile proprietà. Ti prego, qualunque cosa accada, fa sì che sia finalmente detta la verità. Non piangere per quel che ti dico. Non è pessimismo, né malinconia: è desiderio di sapermi sicura su ciò che mi è più caro. Tu sola puoi comprendermi». 19 aprile 1950. Quando, dopo cinque anni di esilio in Spagna, la giovane Myriam tornò in Italia e si presentò alla casa dei Cervis con in pugno la lettera della sorella, si sentì dire di essere stata preceduta dai carabinieri, che avevano sequestrato tutto. Chi li aveva avvertiti? Non si è mai saputo, sebbene si sia a lungo sospettato di un giornalista del «Corriere della Sera» che si sarebbe guadagnato le confidenze dei Cervis, compresa
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la notizia che le carte della Petacci erano sepolte nel giardino della villa. Ed era stato proprio scavando nel giardino che i carabinieri avevano trovato le due casse. Da quel momento, e fino alla morte, avvenuta nel 1991, Myriam Petacci non cessò un istante di rivendicare la proprietà delle carte. Ma tutti i suoi sforzi, le sue battaglie legali, le sue istanze ai vari ministeri furono vani. Così come sono stati vani per decenni i tentativi posti in atto dall’unico erede vivente di Claretta, il nipote Ferdinando, figlio del fratello di Clara e Myriam, Marcello, nonostante Ferdinando abbia avuto il padre trucidato a Dongo, mentre suo fratello, Benvenuto, detto «Benghino», vedendo il papà massacrato sotto i suoi occhi, uscì di senno e morì in giovanissima età. Anche rispettando il cinquantennale «segreto di Stato», Ferdinando avrebbe avuto diritto ad entrare in possesso delle carte della zia a partire dal 1995. Invece ha dovuto attendere la scadenza della secretazione settantennale riguardante le «situazioni puramente private delle persone» per avere voce in capitolo sulla consultazione, e la pubblicazione, dei diari di Claretta, che difatti stanno venendo alla luce anno per anno (nel 2009 quelli del ’39, nel 2010 quelli del ’40, nel 2011 quelli del ’41 e così via). A questo punto, può essere di un certo interesse storico ricostruire i fatti che mi coinvolsero nella vicenda dei diari di Claretta Petacci. Accadde nel 1995, data di scadenza del segreto di Stato apposto ai documenti dell’amante del Duce dopo che Emilio Re, direttore dell’Archivio di Stato cui l’incartamento era stato consegnato dai carabinieri
che lo avevano sequestrato ai Cervis, aveva definito la Petacci «non solamente la favorita del dittatore, ma anche la fiduciaria, qualche volta l’incitatrice, se non la consigliera». In quell’anno, unitamente al compianto Alessandro Zanella, storico e autore del più importante libro sulla RSI, «L’ora di Dongo» (Rusconi, 1993), chiesi di potere esaminare le carte Petacci. Ma l’Archivio me ne impedì la consultazione, accampando un ulteriore periodo di vent’anni per proteggere la privacy delle persone coinvolte, così come previsto – mi fu precisato – dal 2° comma del DPR 1409/63. Allora mi rivolsi direttamente al ministro degli Interni dell’epoca, Giorgio Napolitano (dal cui ministero dipendono gli Archivi), specificando che mi sarei accontentato di sfogliare, sotto il vigile occhio dei funzionari dell’Archivio, soltanto le pagine dei diari comprese tra gli ultimi mesi del 1944 e il gennaio del 1945. Ciò che m’interessava non era la «privacy», non erano le lenzuola di Villa Fiordaliso né quelle di Villa Mirabella, ma sapere che cosa aveva scritto Claretta nei giorni corrispondenti alle date delle telefonate tra lei e il Duce riguardanti i contatti con Churchill. Da tempo si sapeva che Claretta, durante le sue lunghe notti insonni a villa Fiordaliso, scriveva moltissimo. Infatti i suoi diari hanno una mole mostruosa, ben 15 mila
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«I diari della Petacci, così come le lettere di Benito a Claretta, erano sicuramente stati “ripuliti” molto tempo prima. Ossia, subito dopo il loro ritrovamento a villa Mirabella»
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pagine: mille per ogni diario, come confidava alla sorella Myriam. Napolitano mi fece rispondere dal suo sottosegretario Abate, il quale, firmandosi «pel Ministro» (sic), mi precisò che i funzionari dell’Archivio di Stato avevano provveduto a consultare i diari di Claretta alle date da me e da Zanella indicate nella richiesta, e non avevano trovato nulla di ciò che ci interessava. Confesso che, sul momento, rimasi perplesso. Ma ora che il tesoro cartaceo della povera Petacci sta tumultuosamente venendo alla luce, mi rendo conto che il sottosegretario Abate, «pel ministro Napolitano», diceva il vero. Quei diari, così come le lettere di Benito a Claretta, erano sicuramente stati «ripuliti» molto, ma molto tempo prima. Ossia, subito dopo il loro ritrovamento nelle due casse seppellite nel giardino di villa Mirabella. Appare a questo punto difficile porre in dubbio che già nel 1950, quando i documenti vennero scoperti dai carabinieri sotterrati in due bauli nel giardino della villa dei Cervis, ai quali Claretta li aveva affidati prima di lasciare Gardone, «qualcuno», magari «incaricato» dal vincitore della Seconda guerra mondiale, si sia premurato di purgarli delle parti per lui più compromettenti. D’altra parte, questo è stato il destino subìto da tutte le carte che potevano provare qualcosa di
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imbarazzante per gli inglesi. Per esempio, le copie fotografiche del carteggio con Churchill che Mussolini aveva consegnato al fidato ambasciatore giapponese Shin’rokuro Hidaka. Quando, trent’anni fa, gliene feci chiedere conto da un amico giapponese, lui rispose sibillino di avere consegnato tutto al suo governo. Che naturalmente oppose anch’esso il segreto di Stato. Ugualmente sparite nel nulla le copie fotografiche che Mussolini consegnava al suo ministro di fiducia Carlo Alberto Biggini. Del resto, lo storico e giurista professor Ubaldo Giuliani-Balestrino, nel suo recente saggio dal titolo «Il carteggio Mussolini-Churchill alla luce del processo Guareschi» (Settimo Sigillo, Roma, 2010) ha ampiamente dimostrato come il primo ministro britannico fosse ben presente sulla scena italiana ancora nei primi Anni Cinquanta, allorché si incaricò di fornire un sostanzioso e decisivo appoggio al capo del governo italiano Alcide De Gasperi, che aveva querelato il grande giornalista Giovannino Guareschi, direttore del «Candido», per averlo inguaiato proprio con le carte contenute nel dossier De Toma, una delle tante copie del carteggio Mussolini-Churchill che il Duce aveva voluto preparare in vista della resa dei conti. Da tempo immemorabile, a chi mi chiede se esistono le prove dei contatti tra Mussolini e Churchill, rispondo che non bisogna certo pensare a lettere dirette che iniziavano con «Caro Winston» o «Caro Benito». Ma dei rapporti tramite emissari nessuno può più dubitare. Pietro Carradori, l’autista del Duce, mi raccontò nel ‘94 di averlo trasportato due volte la notte, di
nascosto, da Salò a Ponte Tresa, al confine con la Svizzera, per incontrare gli inviati di Churchill. E anche i partigiani che parteciparono a quelle vicende, ormai anziani, negli anni Novanta iniziarono ad incrinare il muro di omertà alzato per mezzo secolo: Urbano Lazzaro, il famoso comandante Bill che aveva catturato Mussolini sulla piazza di Dongo, scrisse due libri di grande importanza storica. E peccato che l’Istituto Storico della Resistenza di Pavia non mi abbia consentito, quando ne feci richiesta, di ascoltare la cassetta con la testimonianza che aveva lasciato, prima di morire, uno dei partigiani dell’Oltrepò pavese membri del plotone d’esecuzione di Dongo. Tornando al libro MondadoriACS, sono da segnalare i commenti di due validi storici come Elena Aga-Rossi e Giuseppe Parlato. Quest’ultimo affronta la tematica del carteggio Mussolini-Churchill e scrive in proposito: «Non è questa evidentemente la sede per esprimere un giudizio sull’esistenza del carteggio, ma soltanto per evidenziare che Mussolini fece affidamento su tali documenti per una soluzione negoziata della crisi del Fascismo». Quanto a Elena Aga-Rossi, nel suo intervento si legge: «Le lettere alla Petacci dell’ultimo periodo mostrano che Mussolini era convinto di avere ancora delle opzioni aperte, anche se tali opzioni non sono mai chiarite». E perché «non sono mai chiarite»? Perché dalla collezione epistolare accuratamente custodita da Claretta Petacci furono probabilmente sottratte tutte le lettere più scottanti, relative ai progetti dell’ultimo Mussolini. Luciano Garibaldi
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OBBIETTIVO MUSSOLINI Nuove trasmissioni, nuovi libri, nuove teorie per un dramma senza fine come i suoi misteri. Intorno alle ultime ore del capo del Fascismo continua il dibattito come al solito confuso, pasticciato, lacunoso. Eppure, a ben vedere, le cose che si sanno sono sufficienti per chiarire molti punti, per suggerire nuove direzioni di ricerca e fare giustizia di vecchie storie bugiarde. Che invece, tornano continuamente a galla, complice non più l’ideologia, ma semplicemente la superficialità dei soliti storici della domenica di Fabio Andriola
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l miglior modo di nascondere la verità è sicuramente quello di aumentare a dismisura informazioni, rivelazioni e ricostruzioni. Davanti alla montagna di notizie che si andrà a formare, anche un osservatore smaliziato rischierà di perdersi o, per lo meno, di fare il classico passo falso. E’ quello che accade, ormai da decenni, intorno agli ultimi giorni di Mussolini, un pugno di ore e tanti enigmi spesso sottovalutati nel loro complesso, confinati soprattutto da chi ne sa e ne capisce poco nel girone – infernale per gli storici – della storia aneddotica. Insomma pura e semplice curiosità, spesso un po’ morbosa che nulla può aggiungere o togliere a quello che conta davvero per la storia vera, quella con «S» maiuscola. Se tutto questo fosse vero non stareste leggendo questo articolo. La realtà degli ultimi giorni di Mussolini è molto più complessa di quanto comunemente si creda e scriva. Complicata certo, per l’affastellarsi di testimonianze, personaggi «minori», di nomi senza volto, di carte sparite, di silenzi infiniti, di perizie scientifiche, di preziosi e denaro scomparsi, di orari che combaciano o meno… ma
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soprattutto articolata perché nelle ore che separano il 25 aprile 1945 e il successivo 28 aprile, tra Milano e l’alto lago di Como si scontrarono o incrociarono piani e uomini che provenivano da molto lontano: fascisti e partigiani comunisti, partigiani azionisti e Guardia di Finanza, socialisti, liberali e democristiani, militari tedeschi e americani, agenti più o meno segreti di varie nazionalità (compresa quella Svizzera). E su tutti Benito Mussolini, con i suoi progetti, le sue incertezze e soprattutto il suo destino: è lui la figura chiave di quelle ore, di quei piani e di quegli uomini, l’elemento che condizionerà tutti gli altri. La differenza che passa tra l’idea prevalente, soprattutto nell’Accademia, di un Mussolini in fuga che, confuso, sbandato e abbandonato dai suoi, incappa nei suoi giustizieri, e quella di un intrecciarsi di piani e obbiettivi diversi, compresi quelli del dittatore, è la stessa che passa tra uno scippo in metropolitana e il «Colpo del Secolo». E’ ovvio che l’approccio psicologico di chi, a distanza di anni, si interroga su quei fatti risentirà sempre del pre-giudizio che grava sull’oggetto
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Benito Mussolini fotografato nel 1945. Nel riquadro: Dongo, paese sul lago di Como, nello stesso anno
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dell’indagine. E’ questo l’errore di impostazione che ha portato fuori strada molti storici «di professione» oltretutto infastiditi dal doversi impegnare in un settore egemonizzato, fin dall’inizio, da giornalisti. Che in molti casi avranno anche preso le loro belle cantonate ma cui dobbiamo, fin dai primi anni Cinquanta, un’importante messe di informazioni e riscontri ancora oggi fondamentali per capire, per lo meno per sommi capi, cosa accadde prima e dopo Dongo. Il punto di partenza di ogni ricerca dovrebbe essere sempre lo stesso: conoscere bene fatti, persone e luoghi. Quindi, quando tutte le carte valide sono sul tavolo, provare a costruire una propria interpretazione. Sembra facile ma evidentemente non lo è visto che non lo fa quasi nessuno nonostante l’attenzione per gli ultimi giorni di Mussolini non accenni a diminuire. Come dimostrano alcune «novità» in televisione e in libreria… «Obbiettivo Mussolini» è una miniserie andata in onda a maggio 2008 su «History Channel»: tre puntate per analizzare in modo documentaristico tre momenti della vita del dittatore fascista: gli attentati che lo perseguitarono nei primi anni di governo; i tentativi tedeschi di liberarlo dalla prigionia del Gran Sasso dopo il 25 luglio ’43; e la caccia all’uomo che si scatenò nei suoi confronti all’indomani del 25 aprile 1945. Un documentario da guardare con occhio critico, diciamo pure severo, nei confronti di un’operazione che dal punto di vista storico si è rivelata more solito decisamente raffazzonata e dilettantesca non solo nella cura dei dettagli che - quando si tratta di Storia - così
Mussolini saluta dal palco del Teatro Lirico di Milano, il 16 dicembre 1944
secondari poi non sono mai. A volte certe cose fanno sorridere come quando si vede una ricostruzione (in gergo docu-fiction) in cui l’anarchico Michele Schirru che nel 1931, in una stanza d’albergo, si prepara ad attentare alla vita di Mussolini e per aver ben chiare le fattezze del suo obbiettivo fissa una foto del periodo della RSI, quindi di ben 13 anni dopo… Altre pecche, ben più gravi, sono invece quelle contenu-
te nella terza puntata della serie, quella dedicata agli ultimi giorni di Mussolini dove errori sostanziali si mischiano a sciatterie ed omissioni di una certa importanza. Questo, va precisato, per il semplice fatto che la Storia ha bisogno, come condizione essenziale, della precisione. E, ad esempio, parlare del discorso del Teatro Lirico di Milano di Mussolini del 16 dicembre 1944, quindi in piena Repubblica Sociale, e mo-
La differenza fra l’idea di un Mussolini in fuga che, confuso e abbandonato da tutti, incappa nei suoi giustizieri, e quella di un intrecciarsi di piani e obbiettivi diversi, compresi quelli del dittatore, è la stessa che passa tra uno scippo in metropolitana e il «colpo del secolo» |
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strare un Mussolini che parla al Teatro Adriano di Roma almeno tre anni prima, non è proprio indice di accuratezza visto che le immagini del discorso di Milano esistono. Oltretutto di quel discorso esiste anche la registrazione audio quindi perché farlo recitare da un attore? Anche la scelta degli intervistati non sembra delle più felici, visto che erano per lo più privi di una conoscenza approfondita del tema su cui sono stati chiamati (ed hanno accettato) di parlare. Spiace ad esempio veder coinvolto in un’operazione così raffazzonata un docente serio come Alessandro Campi (Storia delle dottrine politiche a Perugia) così come un ricercatore non meno preparato nel suo campo come Mauro Canali, di cui però non si ricordano ricerche specifiche sull’argomento «Dongo e dintorni». Il racconto delle ultime vicende mussoliniane è zeppo di «perle»: ad esempio scopriamo che tra le «ipotesi» fantasiose che vengono proposte a Mussolini per una eventuale fuga c’è «la fuga in aereo». Ipotesi così fantasiosa che l’aereo (un Savoia Marchetti con insegne croate) che sarebbe stato a disposizione di Mussolini partì tranquillamente da Milano il 23 aprile e dopo poche ore di volo senza intoppi atterrò a Madrid. A bordo, tra gli altri, anche i genitori e la sorella di Claretta Petacci. Scopriamo che arrivato a Casa De Maria (quindi varie ore dopo la cattura) il Duce sarebbe ancora «in divisa nazista» mentre il famoso travestimento consistette nell’indossare solo un pastrano tedesco e un elmetto. Mussolini, secondo alcune testimonianze venne riconosciuto proprio perché dal cappotto tedesco facevano capolino i pantaloni della divisa militare italiana con la caratteristica banda nera su grigioverde. Appena riconosciuto Mussolini si liberò del cappotto – che del resto aveva
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Settembre 1945: riunione degli esponenti di CLNAI e CLN. Il CLNAI fu determinato nel perseguire l’eliminazione di Benito Mussolini dopo la cattura a Dongo
indossato controvoglia, dopo varie insistenze – e non volle più indossarlo nonostante sentisse freddo. Ad esempio, lo rifiutò platealmente a chi glielo porgeva nel Municipio di Dongo prima di trasferirlo a Germasino, sui monti sopra il lago. Il Municipio di Dongo poi nel rac-
per cui sorge naturale la domanda: «dove si son documentati gli autori?» – se ne aggiungono poi altre, e di più gravi, perché alterano sostanzialmente la sequenza dei fatti così come è conosciuta e assodata in alcuni punti fondamentali. Partiamo dalle omissioni: non
Raffaele Cadorna voleva prendere Mussolini e consegnarlo agli Alleati; comunisti, socialisti e azionisti volevano invece catturarlo, sottoporlo a sommario processo e quindi giustiziarlo platealmente a Milano, a Piazzale Loreto conto di «Obbiettivo Mussolini» diventa, per due volte, niente poco di meno che «la prefettura di Dongo» mentre il luogo chiave di tutta la vicenda, Casa De Maria a Bonzanigo, il luogo dove probabilmente si consumerà la tragedia la notte tra il 27 e il 28 aprile, diventa un «rudere isolato a pochi chilometri da lago». In realtà Casa De Maria era ed è la più grande casa del paese, ieri come oggi regolarmente abitata e dista, in linea d’aria circa 800 metri dalla riva del lago. Altro che chilometri. A queste ed altre imprecisioni – in cui non cade nessun libro tra quelli pubblicati negli ultimi vent’anni,
vengono mai citati in 50 minuti di documentario alcuni dei più importanti protagonisti di quelle ore: ad esempio il generale comandante delle SS in Italia, Karl Wolff, probabile regista occulto della cattura di Mussolini; oppure il generale Raffele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà, cioè il braccio militare della Resistenza che la sera del 27 aprile 1945, subito dopo l’arrivo a Milano della notizia dell’arresto di Mussolini a Dongo, ingaggiò un silenzioso e duro braccio di ferro con i politici di sinistra che egemonizzavano il Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia (Pertini, Longo, Valiani, Sereni,
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Il comandante delle SS in Italia Karl Wolff a colloquio con il Reichsfürher SS Heinrich Himmler. Wolff é probabilmente uno dei responsabili della cattura di Mussolini da parte dei partigiani
Bauer…): Cadorna voleva prendere Mussolini e consegnarlo agli Alleati; i comunisti, socialisti e azionisti volevano catturarlo e processarlo e giustiziarlo platealmente a
Moltrasio, 45 chilometri più a sud verso Como che, a sua volta, dista dal paesino rivierasco solo otto chilometri. Un trasferimento pericoloso – oggi, con strade infinita-
In futuro le argomentazioni a sostegno della «fuga in Svizzera» potranno essere una buona base per uno studio su come ideologia, faziosità e ottusità hanno condizionato l’approfondimento storico in Italia Milano, a Piazzale Loreto, luogo di un eccidio nazi-fascista nell’agosto 1944 che aveva fortemente impressionato l’opinione pubblica. Per un pelo Cadorna non riuscì nel suo intento, nonostante la rete di presidi della Guardia di Finanza presenti sul lago e ad alcuni partigiani non comunisti come il comandante della 52a Brigata Garibaldi di Dongo, quell’ambiguo e reticente conte Pier Bellini delle Stelle, nome di battaglia Pedro, che gestirà i trasferimenti di Mussolini dal municipio di Dongo alla casermetta della GdF di Germasino e poi, la notte del 27, d’improvviso, da Germasino all’imbarcadero di
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mente migliori di quelle dell’epoca, ci vogliono circa tre quarti d’ora – in un’atmosfera incerta dove lungo la strada si poteva incontrare chiunque: tedeschi, gruppi di fascisti, formazioni partigiane d’altro orientamento, agenti o avanguardie inglesi o americane… In «Obbiettivo Mussolini» di tutto questo non v’è traccia: non Bellini delle Stelle (e neanche un altro grande assente, il capitano Neri, cioè Luigi Canali) ma il comunista Michele Moretti decide tutto, anche di unire a Mussolini proprio Claretta Petacci. Una scelta che nessuno si è peritato di analizzare con un po’ di malizia: perché unire
a Mussolini una donna di cui nessuno conosceva l’identità – e che comunque non aveva alcun ruolo o spessore politico per i partigiani del comasco – e non figure di primo piano, presenti a Dongo: un Alessandro Pavolini, segretario del PNF, un Paolo Zerbino, ministro degli Interni, un Francesco Maria Barracu, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio… O magari l’aiutante di campo di Mussolini, il colonnello Vito Casalinuovo o l’attendente del Duce, Piero Carradori… No, si sceglie la Petacci e si affronta un viaggio pericoloso per portarli semplicemente a Casa De Maria (chissà quante case sicure c’erano per i partigiani prima di quella) e non verso un ormai non ipotetico appuntamento con una barca che da Moltrasio avrebbe dovuto attraversare il lago e approdare in una villa sicura. Anche da un semplice punto di vista «drammaturgico» una maggiore aderenza alla realtà aiuterebbe la narrazione, aggiungerebbe sale alla storia. Invece il pattume si nutre di banalità, anche sotto forma
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I luoghi delle ultime ore di Mussolini e della Petacci a Mezzegra, piccolo paese sulle sponde del Lago di Como: Casa De Maria nella frazione di Bonzanigo e Villa Belmonte in quella di Giulino
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supporre che, forse, nel tragitto tra Germasino e Moltrasio Mussolini abbia cullato più di una speranza… Il fascino e la dannazione della «dongologia» stanno nella raccolta minuziosa e nel riordino di mille tasselli come questi. Che, inseriti nel contesto cronologico giusto, possono far intuire una verità storica altrimenti irraggiungibile. E’ il caso del lungo tergiversare di Mussolini tra Como e Menaggio tra l’alba del 26 aprile e il mattino successivo. Perché un uomo che ha alcune migliaia di fedelissimi a Como resta tra Menaggio e Grandola per tutte quelle preziosissime ore? Se la destinazione è subito la Valtellina perché non prendere la strada di Lecco e fare subito quei 100 km che dividono Como da Sondrio, il maggior centro della Valle dove da settimane erano concentrati alcune migliaia di soldati della RSI compresa la Guardia del
Duce? O si sostiene che Mussolini era ormai completamente avulso dalla realtà – ma testimonianze decisive in questo senso non ce ne sono – oppure si deve ammettere che avesse un piano. Poiché il lato sinistro del lago di Como costeggia il confine svizzero per anni ha tenuto banco l’idea che Mussolini volesse raggiungere la Svizzera per salvarsi. Poteva farlo in aereo, poteva andare in Spagna e invece avrebbe provato, un po’ furbescamente, ad attendere il momento giusto per presentarsi a qualche posto di frontiera fuori mano e cercare di farsi dare asilo pur sapendo che non lo avrebbero accolto. In futuro le argomentazioni a sostegno della «fuga in Svizzera» potranno essere una buona base per uno studio su come l’ideologia, la faziosità (e l’ottusità) hanno condizionato l’approfondimento storico in Italia. Seconda ipotesi: Mussolini forse aveva un «appuntamento», doveva
Nella ricostruzione delle ultime ore di Mussolini solo la raccolta minuziosa e il riordino di mille tasselli da inserire nel contesto cronologico giusto, possono far intuire una verità storica altrimenti irraggiungibile Bonzanigo Casa De Maria
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di errori banali e banali dimenticanze. Come quella di non sottolineare come Mussolini – tutt’altro che avulso dalla realtà in quei giorni, pur con tutte le delusioni e preoccupazioni che poteva avere – avesse in Claretta e in suo fratello Marcello due importanti pedine per cercare di vincere la partita che aveva intrapreso, chissà quanto tempo prima. Carte riservate, molte a carattere «diplomatico» in senso lato, dovevano arrivare nelle mani giuste: e Mussolini, si sa per certo, le affidò anche ai fratelli Petacci che avevano certo più possibilità di lui di passare inosservati eventuali posti di blocco. Fine della digressione. I telespettatori che vedranno o hanno visto «Obbiettivo Mussolini» sapranno solo che Mussolini e la Petacci («che tanto aveva insistito con Moretti…») vengono portati a Casa De Maria direttamente da Germasino, senza soste intermedie. Non sapranno invece, tra le altre cose, che curiosamente al momento dell’autopsia all’istituto di Medicina legale di Milano, la mattina del 30 aprile, nella tasca posteriore dei pantaloni di Mussolini verrà trovato un salvacondotto per la Spagna intestato ad una copia di coniugi dai nomi che il testimone, un giovane medico presente, il dottor Pierluigi Cova, purtroppo non ha saputo ricordare. Ma dettaglio ancora più intrigante quel documento era in una busta intestata al «Fascio Repubblicano di Dongo». Non Milano, Como o Menaggio ma Dongo. Quasi che quelle carte fossero state prelevate da un gruppo di documenti e inserite in una busta per essere consegnate al loro destinatario proprio dopo il fermo della colonna Mussolini e l’arresto dei suoi componenti. Verrebbe da
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Claretta Petacci, amante di Mussolini. Finora pochissimi hanno preso in considerazione il suo ruolo nei contatti segreti fra Duce, tedeschi e alleati
dialettica con i tedeschi. Anche in questo caso lo sforzo da fare è quello di guardare al passato non con i nostri occhi ma con quelli di chi c’era allora…
A Menaggio, Mussolini ha sconfessato i fascisti che, in sua assenza, hanno deciso di trovare un accordo con gli Alleati. Un accordo che è inconciliabile con quanto il Duce spera ancora di fare perfezionare un qualche accordo prima di raggiungere la Valtellina. Non si perde tutto quel tempo con borse piene di documenti scottanti e un pilota d’aereo al seguito (quel capitano Piero Calistri che finirà fucilato a Dongo con gli altri gerarchi il pomeriggio del 28 aprile 1945, colpevole di chissà cosa…) solo perché non si sa cosa fare. Forse neanche la Valtellina era l’ultima tappa prevista e sperata. Per fare qualunque cosa, sostiene ad esempio Marino Viganò, uno dei più acuti studiosi di queste vicende, probabilmente Mussolini attendeva una
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notizia che doveva giungere da un momento all’altro: l’annuncio della resa tedesca. Se i tedeschi si fossero arresi mentre lui era ancora libero avrebbe potuto denunciare il tradimento dell’alleato, tutto quello che aveva dovuto subire soprattutto negli ultimi due anni e considerare lavata l’onta dell’armistizio dell’8 settembre 1943 quando l’Italia di Badoglio aveva cambiato repentinamente alleanze dopo tre anni di guerra. Non bisogna infatti sottovalutare l’importanza del trauma dell’8 settembre per gli uomini della RSI e nella spesso difficile
Purtroppo per Mussolini la firma della resa tedesca arrivò quando lui e gli altri morti di Dongo erano già a Piazzale Loreto. Questo non deve far accantonare il fattore «nazista» nelle ultime giornate del Duce: l’ostinato marcamento a uomo degli uomini della scorta tedesca (che Mussolini - atteggiamento strano per uno che sta solo perdendo tempo - cercherà di scrollarsi di dosso nel trasferimento da Menaggio a Grandola il 26 aprile), il fatto che, in seguito allo stop prima di Dongo, il 27 aprile, venne impedito dai tedeschi all’attendente di Mussolini, Piero Carradori, di salire sul camion tedesco col Duce (cosa che getta ovviamente una luce completamente diversa su tutta la faccenda) e, ultimo ma non ultimo dettaglio, il fatto che sulla piazza di Dongo le perquisizioni da parte dei partigiani furono insistenti, come se sapessero cosa cercare. E non a caso, un testimone ricorda l’autista del camion tedesco su cui era Mussolini che ad un certo punto indicò il proprio automezzo, indirizzando di fatto le ricerche. C’è poi da osservare la stranezza del tempestivo arrivo della colonna tedesca, l’unica che transitò lungo la strada Regina – la strada costiera sul lato sinistro del Lago di Como – proprio mentre in campo fascista regnava l’impasse più totale. In «Obbiettivo Mussolini» - come del resto in molte altre ricostruzioni - non c’è alcun sospetto di come si siano svolte davvero le cose in quelle ore convulse. Il rifiuto di Mussolini di rientrare a Como creò un vero corto circuito nei fascisti che a migliaia stavano convergen-
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do – come stabilito da giorni – da tutto il Nord Italia verso il capoluogo lariano: a differenza di quanto asserito da Campi nella trasmissione, Pavolini a Menaggio - all’alba del 27 aprile - si presenta con pochi uomini e le famose tre autoblindo degli squadristi lucchesi non perché non ha altro da portare ma perché vuole convincere Mussolini a rientrare e a cambiare piano: invece della Valtellina la vicina Val d’Intelvi dove si è deciso (compreso Vittorio Mussolini, che è rimasto a Como) di far convergere tutte le forze fasciste in attesa dell’arrivo degli anglo-americani. Di fronte al diniego di Mussolini Pavolini decide di restare al fianco del suo Duce e di inviare Enrico Vezzalini e due blindo indietro, a Como, con l’ordine di riorganizzare le forze e prendere la strada per la Valtellina. Di fatto, a Menaggio, Mussolini ha sconfessato i suoi che a Como, in sua assenza, han deciso di trovare un accordo con gli emissari angloamericani. Un accordo che non si
Marcello Petacci, fratello di Claretta. I contorni del suo ruolo nei contatti segreti di quell’ultima primavera di guerra sono ancora oscuri
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concilia con quanto Mussolini spera ancora di poter fare. Lo snodo, anche in questo caso, è psicologico e sta nell’attitudine del dittatore a condividere con pochissime persone convinzioni e progetti. Non di rado anche gerarchi di un certo peso erano all’oscuro dei pensieri e
re. Oggi l’osservazione potrà sembrare leziosa ma nell’ottica degli anni Cinquanta, con i giornalisti di mezzo mondo pronti a sborsare cifre importanti per memoriali e «interviste esclusive» di chiunque avesse avuto a che fare con Mussolini nelle sue ultime ore, è strano
Nel municipio di Dongo sono tutti prigionieri, alcuni feriti, al Duce hanno sequestrato la sua borsa con i documenti «importanti per il futuro dell’Italia», i tedeschi li hanno abbandonati. Ma Mussolini ha ancora parole di speranza... delle decisioni di Mussolini: questo accadeva ai tempi di Palazzo Venezia, questo accadde fino all’ultimo. E ci sono più indizi che ci dicono, ad esempio, che Pavolini di molte cose era all’oscuro. Mussolini finché può tiene a distanza il segretario del Partito fascista repubblicano, né del resto, ancora al mattino del 27 aprile sembra mostrare particolari preoccupazioni per la propria sicurezza. Non è vero, come sostenuto da Campi, che Mussolini salì sulla blindo già a Menaggio con la Petacci e Pavolini. Fino allo stop di Musso, il dittatore resta nella sua auto. Poi, si muove liberamente tra una macchina e l’altra durante le lunghe ore d’attesa mentre il comandante tedesco della colonna tratta con i partigiani. La gente del posto lo vede (la strada provinciale passa in mezzo al Paese), la voce che lui sia nella colonna corre veloce. Altro motivo per restare perplessi circa tutta l’operazione del travestimento e per capire, di converso, invece l’insistenza dei partigiani di Dongo nel cercare «qualcosa» nei camion tedeschi. E’ poi straordinariamente sorprendente che di quelle decine di soldati testimoni – pensiamo solo ai vari tedeschi che erano sullo stesso camion sul quale venne scoperto Mussolini – nessuno abbia mai avuto voglia di parla-
che nessuno abbia avuto voglia di parlare a cominciare dal comandante della colonna, quel tenente Fallmeyer che forse non si chiamava così e forse non era neanche un semplice tenente, che attese gli anni Ottanta per far avere sue notizie – reticenti e vaghe – al giornalista tedesco Erich Kuby (autore del libro «Il tradimento tedesco», Rizzoli). Un’anomalia che forse avrebbe meritato qualche riflessione in più anche perché quella colonna tedesca sconfinò davvero in Svizzera, caso unico e raro in quei giorni per un reparto tedesco. «Coraggio, coraggio Carradori: la partita non è ancora chiusa». Sono parole incredibili quelle dette da Mussolini al suo attendente che, pesto e sanguinante dopo la cattura, gli capita vicino nella sala del municipio di Dongo. Sono tutti prigionieri, alcuni feriti, a Mussolini hanno appena sequestrato la sua borsa con documenti che lui stesso definisce importanti per il futuro dell’Italia, i tedeschi li hanno abbandonati. E Mussolini ha ancora parole di speranza. Parole di circostanza potrebbe obiettare il San Tommaso di turno. Parole indicatrici, forse, di qualcosa che non sappiamo ancora ma che possiamo intuire tra le pieghe di quelle ore. Proviamo a metterle in fila rapidamente: sulla blindo ferma
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Il partigiano Urbano Lazzaro, detto Bill, indica il muro di Casa De Maria a Giulino di Mezzegra dove sarebbe avvenuta l’esecuzione di Mussolini e della Petacci. Una versione contraddetta da troppi indizi
La cosa certa è che, qualunque cosa sia accaduto a Casa De Maria, non era una cosa da rendere pubblica. Claretta Petacci ne fu testimone e questo la condannò a morte: fu uccisa probabilmente con una raffica alle spalle per lo stop partigiano, poco prima di salire sul fatale camion tedesco, Mussolini ha un veloce scambio di battute con Claretta Petacci. Testimone oculare è l’ultima superstite di quei fatti, almeno per parte fascista: è Elena Curti, figlia naturale di Mussolini: «…sentivo la voce di Mussolini che diceva: “Non devi preoccuparti, tutto è in ordine. Anche se venisse fermato, Marcello ha il passaporto diplomatico e nessuno può trattenerlo”. Dal suo tono, dedussi che lei insisteva e lui si spazientiva». Il Marcello cui accenna Mussolini è Marcello Petacci, fratello maggiore di Claretta, munito di passaporto diplomatico spagnolo che, fermato a Dongo, protesterà in tutti i modi la propria falsa identità, sostenendo di avere entro sera un appuntamento con l’ambasciatore inglese in Svizzera, sir Edward Norton. A Marcello Petacci verranno trovati documenti di grande importanza, carte finite poi nel mare magnum delle carte scomparse in quei giorni e di cui sarebbe troppo lungo fare qui la
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storia. Carte che dovevano servire a qualcosa che non sappiamo e che invece, finite nelle mani sbagliate, segnarono la fine di parte delle speranze di Mussolini e la morte di Marcello, il giorno successivo, sulla piazza di Dongo. Quando Mussolini parla a Carradori Marcello Petacci non è stato ancora bloccato definitivamente e il Duce non ha quindi motivo di pensare che le cose si siano messe male irrimediabilmente. Non lo pensa probabilmente anche quando lo vanno a prendere per portarlo a Moltrasio, qualche ora dopo. Se lo accostano a Claretta e non ad altri – deve aver pensato – vuol dire che certi meccanismi hanno funzionato, che qualcuno si è mosso. E che forse il salvacondotto per la Spagna che ha nei pantaloni e che gli verrà trovato prima dell’autopsia a Milano, potrà essere usato quanto prima. Forse. Come si vede lo stato delle conoscenze rende la lettura dei fatti di Dongo più intrigante e articolata di come in genere la si raffigura. Sap-
piamo abbastanza per considerare con scetticismo gran parte delle ricostruzioni di quei giorni, non sappiamo abbastanza per poter riscrivere compiutamente la storia di quei momenti. Questo vale per quanto ha preceduto la cattura di Mussolini, per le ore della prigionia del dittatore e, ovviamente, anche per la vexata quaestio della sua morte. La cosa certa è che, qualunque cosa sia accaduto a Casa De Maria, non era una cosa da rendere pubblica. Claretta Petacci ne fu testimone e questo la condannò a morte: fu uccisa, probabilmente anche con una raffica alle spalle, mentre era vestita. Il che fa supporre che la sua morte sia giunta successivamente a quella di Mussolini. Tutto il pasticcio che è sorto in seguito (una quindicina di versioni diverse, un numero di sospetti o sedicenti killer che due mani non bastano, versioni, calibri e angolazioni inconciliabili, frasi più o meno famose etc. etc.) nasce soprattutto dall’operazione di copertura che gli ambienti partigiani del comasco misero in atto in qualche modo (probabilmente per correre ai ripari dopo un evento improvviso) insieme ai vertici partigiani di Milano e del PCI. Il fatto che nessuno, nell’Italia ufficiale del 1945 e anni seguenti, avesse voglia di andare ad indagare come si sarebbe dovuto e potuto ha di fatto complicato le cose. Che oggi, un pezzetto alla volta, è possibile chiarire con una lentezza esasperante e senza la certezza che un giorno tutti i tasselli andranno al loro posto. Il sospetto è che ci si debba accontentare di quello che c’è. Che comunque non è poco, sicuramente troppo per stare comodamente in uno svogliato documentario di 50 minuti, in un libro-scoop. Fabio Andriola [email protected]
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Sopravvalutazioni L’ultima «verità» su Dongo
E l’agente USA «scoprì» quel che poteva. POCO Spunta dagli archivi di Washington una lunga relazione sugli ultimi giorni di Mussolini e la sua morte. La scrisse «a caldo», troppo «a caldo», Valerian Lada-Mocarski, uomo dei servizi USA di origine russa, sentendo numerosi testimoni ma trascurandone molti altri. I più importanti. Eppure si cerca di presentare quel rapporto come la verità definitiva sulle vicende avvenute tra il 25 e il 28 aprile, tra Milano e Giulino di Mezzegra. Le cose stanno molto diversamente. E sono iniziate molti mesi prima del loro epilogo di Marino Viganò
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e escono ormai uno alla settimana di libri sui casi di Dongo dell’aprile 1945, quasi che la strabocchevole letteratura non sia satura. L’annuncio, finalmente, della pubblicazione di un documento con valore di fonte non può che spianare un po’ le rughe di scetticismo che si fan più profonde a ogni apparizione di testi secondari nei quali in modo ripetitivo si citano o contraddicono altri testi secondari o loro capitoli; senza aver attinto mai direttamente a una fonte primaria. Con la conseguenza, inevitabile, di fabbricare castelli d’ipotesi, deduzioni e conclusioni fantastiche su tesi di fatto inesistenti, smontabili con facilità a patto di rifarsi alle or ora evocate fonti primarie. Il documento in
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questione è un rapporto redatto nell’autunno 1945 da Valerian Lada Mocarski, colonnello del Office of Strategic Services (OSS) statunitense, al tempo basato in Svizzera, entrato in Italia il 29 aprile 1945 e autore di una non superficiale né trascurabile inchiesta sui passaggi che tra Milano, Como, Dongo avevano condotto Mussolini e gli altri a quella fine disperata e ingloriosa. Con onestà intellettuale, la curatrice dell’articolo di divulgazione di parti del testo su «Nuova storia contemporanea» (2009, n. 1) ammette che una sintesi del lavoro - a nostro giudizio tutto quanto valeva poi la pena di conoscere - era già comparsa sul mensile «Atlantic Monthly», a Boston, nel dicembre 1945. Con altrettanta onestà, non si può che constatare come senza aver letto l’intero documento in originale, specie le dichiarazioni
allegate, risulti arduo un commento critico sui dettagli puntuali della relazione Lada Mocarski. In senso più ampio, tuttavia, qualche considerazione si può trarre già dai passi estrapolati e tradotti. Il memoriale consta, in effetti, della ricostruzione di una serie di episodi di quelle giornate, tramite acquisizione delle testimonianze di una quarantina di protagonisti delle diverse parti coinvolte: fascisti, partigiani e neutri. La minuzia del tentativo, la ricchezza di documentazione, la vicinanza ai fatti sono senz’altro il pregio maggiore dell’inchiesta. Proprio l’immediatezza, che dà all’autore accesso a quei protagonisti, a ridosso dell’accaduto, costituisce però la debolezza dell’elaborato. Moltissimi altri testimoni di primo piano, detentori ciascuno
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La prima pagina del cosiddetto «Rapporto Mocarski»
d’una tessera più o meno grande e significativa del mosaico di quegli avvenimenti, sfuggono difatti all’ufficiale del OSS; facendogli mancare non pochi elementi fondamentali per un quadro più completo e corretto. Brillano fra gli assenti, per esempio, i pochi ma ben informati sottufficiali della Guardia di Finanza, protagonisti autentici di quelle giornate - le cui relazioni di servizio sono inviate al comando di legione di Milano subito dopo gli accadimenti; e tutti, diconsi tutti, i vertici del Partito Comunista direttamente o indirettamente implicati, altri protagonisti di primo rango nel prendere decisioni. Appaiono, al contrario, un paio di notori fanfaluccatori alla ricerca di notorietà: i primi della lunghissima schiera che, su quei fatti, ha campato per sessant’anni; e
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che l’anagrafe si sta incaricando di cancellare progressivamente. Qui, è chiaro, Lada Mocarski non ha né merito, né colpa: la sorte, forse anche il poco tempo a disposizione, forse pure la convinzione di avere assolto il proprio compito inducono il segugio del OSS a chiudere allora l’inchiesta. I cui risultati, certo non disprezzabili, s’è detto, non si discostano molto per la verità da quelli pazientemente raccolti, selezionati, rielaborati nell’inchiesta parallela e analoga di Ferruccio Lanfranchi, giornalista del «Corriere d’Informazione»; che sul quotidiano milanese pubblica a fine guerra una serie di articoli nei quali si riscontrano quasi gli stessi testimoni, la medesima acribia nella descrizione e gli uguali, inevitabili errori e vuoti. Altro dato evidente, il discutibile valore probatorio di
alcune testimonianze e di parti di esse. Chiaro che ogni testimone sia più preciso su episodi ai quali ha di persona assistito, mentre quelli raccolti di seconda mano paiano vaghi; per cui il racconto - anche il più «innocente» e «veritiero» - risulta una sommatoria di fatti acquisiti, di ipotesi e di illazioni, che la stessa prossimità alle vicende impedisce di comparare con più fonti. Ciò rientra, tuttavia, nella dinamica normale della valutazione di attendibilità. Nel caso del memoriale Lada Mocarski, la consueta metodologia d’interpretazione e comparazione deve inoltre fare i conti con una eccezionale «reticenza» - per usare un termine gentile, che si potrebbe voltare in un altro più rude - di parecchi intervistati. Sicché la traiettoria di quell’inchiesta, qua e là già deviata dai motivi elencati, finisce
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Moltissimi altri testimoni di primo piano, detentori ciascuno d’una tessera più o meno grande e significativa del mosaico di quegli avvenimenti, sfuggono alle domande dell’ufficiale dell’OSS; facendogli mancare non pochi elementi fondamentali per un quadro più completo e corretto sulle secche di silenzi, depistaggi, complicità vantaggiosi per tutti. Tanto per non restare nel vago: il cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, omette «molti dettagli» - attesta lo stesso colonnello statunitense - sulla riunione con membri del governo fascista, del CLNAI e del CVL cui presenzia il 25 aprile a Milano, mentre altri dati basilari sfuggono alla sua stessa comprensione; il capo della provincia di Como, Renato Celio, si guarda dal confessare di avere provocato l’allontanamento di Mussolini dalla città il 26 all’alba,
mandando allo sbaraglio il Duce e il suo seguito, fattore primo degli atti successivi, mentre dà versioni personalissime su ulteriori episodi tutt’altro che marginali; Pier Bellini delle Stelle, comandante la 52a Brigata partigiana Garibaldi di Dongo, glissa sul proprio ruolo nel tentativo di consegnar Mussolini vivo a inviati imprecisati da Como, Milano o chissà dove; Leo Valiani si astiene dal chiarire al colonnello statunitense che l’ordine di fucilare Mussolini e gli altri prigionieri di Dongo è un «colpo di mano» del Comitato insurrezionale (Sereni,
Il cardinale Ildefonso Schuster (1880-1954), arcivescovo di Milano in una foto del 1948. Schuster fu uno dei testimoni più importanti degli avvenimenti dell’aprile 1945, ma, intervistato dall’agente OSS Lada Mocarski, fu estremamente reticente
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Pertini, Valiani stesso) che prevarica CLNAI e CVL. E ancora: il generale Raffaele Cadorna, comandante il CVL, sorvola sul proprio tentativo di recupero di Mussolini vivo, nella «notte di Moltrasio» sulla quale si ha, sempre in «Nuova storia contemporanea», una rilettura un po’ lontana da quella che i documenti primari attestano; testimoni fondamentali quali Salvatore Guastoni, Giovanni Dessy, Davide Luigi Grassi svicolano evidentemente dal fornire tutta una serie di informazioni su ulteriori iniziative per catturare il Duce vivo. Altri personaggi, di contorno, iniziano invece a spargere le fandonie che nel corso dei decenni inquineranno molte ricostruzioni della vicenda. Dei documenti «persi per strada» dal Duce cammin facendo, minime: solo accenni. Nessun affidavit, e nessun interrogatorio a quanto sembra, di altri agenti del OSS sguinzagliati alla ricerca di Mussolini con licenza d’arresto - Daddario, Thompson, McDonough tanto per elencare quelli attestati da carteggi e testimoni. Non sono pochi quindi i vuoti, parecchie le inesattezze, molte le vanterie involontariamente registrati dal Lada Mocarski nel suo testo. Tutto giustificabile, accettabile nella visione a distanza ravvicinata del lavoro di Lada Mocarski sull’oggetto. Sarà un caso che nel 1966 a quest’inchiesta, utile ma incompleta, ne sia seguita un’altra di lancinante meticolosità? Poiché quell’anno sotto colore di scrivere una storia del Counter Intelligence Corps (CIC), peraltro mai pubblicata, un «incaricato» - probabilmente un ufficiale di qualche agenzia sta-
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non è corretto dire che il Duce vada alla cieca incontro al suo destino: esistono tre documenti diretti, oltre ad altri indiretti, nei quali esplicita una strategia d’uscita: un complesso ma intelligibile progetto di Mussolini per tentare di trarsi fuori dal vicolo cieco del crollo del suo potere Walter Audisio, detto Valerio, sedicente esecutore di Mussolini e Claretta Petacci
Il saggio «La fine» di Giorgio Cavalleri, Franco Giannantoni e Mario Cereghino (Garzanti). Facendo leva sul Rapporto Mocarski tenta di riproporre una lettura datata degli ultimi giorni di Mussolini
tunitense - bersaglia a più vasto raggio e con ben altra consapevolezza quasi tutti i protagonisti superstiti, mostrando di avere fiutato quali «quesiti» davvero siano degni di risposta. Lettere zeppe di richieste pignole e talora snervanti («lei signor… alle ore 12. minuti primi… all’angolo tra la via… e la via… vedeva il signor… »), missive con repliche più o meno precise e volonterose si incrociano per mesi. Poi, il silenzio assoluto. Nessuno, a quanto è dato oggi sapere, quella «storia del CIC» l’ha mai letta… Ciò, è naturale, non toglie interesse al rapporto Lada Mocarski a patto di tenere a mente che è un testo da «storicizzare». Diverso, se lo si ritenesse fonte in tutto attendibile. Per i dettagli, anzitutto. Diamone due. Un allegato cambiamento di attitudine di Walter Audisio, Valerio, a Como a seguito d’una telefonata
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dalla quale avrebbe appreso, solo allora, che la sua missione era di fucilare i membri del governo fascista. Falso: testimoni diretti hanno precisato che «Valerio», già a Milano, tenta di scansar la missione di morte, «girandola» al colonnello Alfredo Malgeri, comandante la legione della GdF. Illazioni su quel preteso cambio di destinazione della missione si sprecano, senza esito. Una presunta implicazione di Luigi Canali, capitano Neri, nella fucilazione di Mussolini. Falso: sentenza eseguita dal solo Walter Audisio, Valerio, presenti Aldo Lampredi, Guido, e Michele Moretti, Pietro. Ma nella relazione Lada Mocarski pare assente soprattutto il disegno generale. A giudicare dalle pagine del rapporto edite, Lada Mocarski «manca» difatti - né potrebbe essere altrimenti - il reale percorso che porta il Duce da Milano a Como a Menaggio sino all’epilogo
di Giulino di Mezzegra. In quanto è un tragitto che avrebbe richiesto un’allora impossibile ricostruzione delle tappe precedenti, dal Garda a Milano, e molto altro. Non è del tutto corretto dire che il Duce vada a caso incontro al suo destino: esistono tre documenti diretti, oltre ad altri indiretti, nei quali esplicita una strategia d’uscita. Questa però è politica, non grand guignol, e come tale proprio non «interessa». Sin quando non si accetterà che i «fatti di Dongo» non prendono avvio il 2 aprile 1945, ma il 4 giugno 1944 [giorno della caduta di Roma NdR] - le carte lo provano - il complesso ma intelligibile progetto di Mussolini per tentare di trarsi fuori dal vicolo cieco del crollo definitivo del suo potere effimero resterà quindi ancora, a lungo, del tutto indecifrabile. Marino Viganò
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ESCLUSIVO un’altra storia del 27 e 28 aprile 1945 Mussolini passa in rivista un reparto delle forze armate repubblicane
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C’
è un episodio dei fatti di Como e Dongo dell’aprile 1945 che sollecita ancora un approfondimento. E non è l’esecuzione del Duce, sulla quale sembra impossibile scrivere qualcosa d’equilibrato, dopo l’affastellarsi di ipotesi non sempre limpide per intenti e metodologia di ricerca. Si tratta
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invece del tentativo di consegna dell’ex capo del Fascismo, vivo, agli Alleati da parte del CVL; e di quello speculare di cattura da parte degli inviati statunitensi. Azioni da mettere a contesto, e che oggi carte inesplorate contribuiscono a indagare meglio. I fatti, nell’essenziale, sono noti da settant’anni: la notte del 27 sul 28 aprile 1945, Mussolini e Clara Petac-
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ESCLUSIVO un’altra storia del 27 e 28 aprile 1945
Nelle poche ore che hanno separato la cattura del Duce dalla sua morte c’è stato spazio anche per una speranza di salvezza, almeno momentanea. Una salvezza targata Stati Uniti e che vide per un pugno d’ore impegnati, tra Milano e l’alto lago di Como, partigiani moderati, uomini dei servizi, militari italiani e statunitensi. Poi, in piena notte, il piano viene annullato mentre Mussolini e la Petacci con alcuni partigiani sono in attesa al molo di Moltrasio. Una storia in parte già nota ma che oggi è possibile riscrivere al meglio grazie ad un importante dossier inedito (che supera per accuratezza, attendibilità e ampiezza il troppo esaltato «Rapporto Lada-Mocarski») per oltre quarant’anni. Il titolo? «Rete a strascico per il Duce» di Marino Viganò
L I «AMERIKANI» ci, intercettati quel giorno stesso a Musso e a Dongo da partigiani della 52a brigata Garibaldi, sono avviati, sotto scorta leggera, su due auto, in direzione Como. Alle porte della città, dopo breve sosta, il piccolo convoglio riprende la via dell’alto Lario, per abbandonare i due prigionieri, sotto una scorta ancora più esigua, poco oltre la metà del tragitto, a Giulino di Mezzegra. Protagonisti di quel trasporto, orari di partenza e d’arrivo,
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la probabile destinazione iniziale del gruppo, grazie a testimonianze attendibili, non lasciano interrogativi irrisolvibili. Più controverse si direbbero le giustificazioni del cambio di rotta a obiettivo quasi raggiunto, e cioè la mancata consegna a un ufficiale del servizio informazioni della Regia Marina e a un aderente del CLN comasco, in nome e per conto di un settore del CVL milanese; tappa di una rimessa successiva nelle mani
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Con la rapida avanzata delle truppe americane fu allertato un reparto già pronto per la cattura di Mussolini, come mostra nei dettagli una fonte eloquente ma inspiegabilmente trascurata
L’«ordine» di consegna del CIC con la risposta del comandante la piazza di Como: «Mussolini and Graziani are to be brought to Brivio for the disposition of the American police - John G. McDonough Special Agent, CIC, Ist Armoured Div.», «segreto Mussolini ed altri gerarchi si trovano prigionieri a Dongo - una missione è già partita da Como per tradurli qui - Graziani è stato accompagnato però a Milano dal Cap. Daddario americano - Jl Ten. Col. Com.te G. Sardagna»
del CVL stesso, o in alternativa di agenti degli Alleati, specie dei servizi informativi dell’Esercito statunitense. Sui passaggi enigmatici di quelle ore si sono difatti succedute letture basate su documentazione frammentaria, distorte non di rado da interpretazioni arbitrarie o tratte da premesse erronee, a loro volta all’origine di conclusioni improbabili per la prassi di dare per sicure, per ripetizione, asserzioni prive di basi, tra le quali va guadagnandosi immeritata popolarità il presunto
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assoluto disinteresse dei servizi Alleati a catturare Mussolini. Ipotesi imbastita, in sostanza, sulle poche righe di una storia ufficiale dell’Office of Strategic Services (OSS, il servizio informazioni militare centrale statunitense), da cui si avrebbe che Allen Dulles, direttore della centrale a Berna dell’OSS stesso, avrebbe ordinato al viceconsole USA a Lugano, Donald P. Jones, di trascurare l’inseguimento dell’ex dittatore: «The OSS master spy refused to bring the fascist dictator into a neu-
tral country, where he might be given temporary asylum. Jones was instructed to “keep clear” of the Duce». Eppure quest’ordine si direbbe più sottile: si vieta soltanto al caposettore di traghettare il personaggio – un potenziale «criminale di guerra» – nel paese neutrale, per non creare un caso politico lesivo della neutralità elvetica; e si ricalibrano le disposizioni operative date a un incaricato, Emilio Q. Daddario, tenente dell’OSS, giunto difatti in territorio italiano solo nel tardo pomeriggio del 27 aprile. La presenza a Como di agenti già fatti filtrare da Jones di propria iniziativa il 26 aprile all’alba – cioè il capitano di corvetta Giovanni Dessy e un intermediario, Salvatore Guastoni – rinforzati, l’alba del 27 aprile, da tre nuclei d’italiani fiancheggiatori dell’OSS, con radiotrasmittente, prova tuttavia che, almeno in una prima fase, gli ordini sono differenti: «impossessarsi di Mussolini, difenderlo, avvertire Daddario per un suo intervento diretto e decisivo», scriverà uno di loro, Mario Tognato. Intervento che, proibito poi da Dulles, sarà abbandonato dagli agenti dell’OSS alle dirette dipendenze di costui, ma non dai primi incaricati di Jones e del SIS della Regia Marina, i citati Guastoni e Dessy. Approdati in una città percorsa da reparti fascisti in disfacimento, e in parte passata sotto il controllo del CLN locale, costoro si troveranno impegnati su tre fronti: accreditarsi presso il CLN, frazionato in correnti partitiche, come ovunque, non tutte «collaborative» con le forze moderate; cercare contatti coi capi delle formazioni fasciste confluite nel capoluogo lariano ai quali proporre una smobilitazione, essendo caduto alla partenza del Duce qualunque piano di resistenza nel centro urbano; tentar di agganciare Mussolini stesso, isolato a Menaggio, lungo strade ormai impercorribili dalla tarda mattinata di quel
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Appunto manoscritto di Thomas M. Johnson, allora brevemente ricoverato al Mounds Park Hospital di Saint Paul (Minnesota), a George F. Elliot
26 aprile persino a mezzi blindati, per recuperarlo agendo in base a un piano accettabile e a offerte ragionevoli, e metterlo al sicuro, benché non in territorio svizzero neutrale. Il tutto nell’atmosfera da fine di regime, col suo drammatico passaggio di poteri. Come operino, e in quali reali condizioni, Guastoni e Dessy, delegati del viceconsole USA, è notorio a grandi linee, pure da insospettabili fonti neofasciste. Meno noto, si direbbe, su quali referenti possano contare per garantire la sicurezza di eventuali prigionieri di guerra presi in carico, e anzitutto, nel caso, del Duce stesso. Posto che gli scenari plausibili sarebbero un paio: ricongiungimento con il grosso delle forze fasciste accampate a Como, mediante staffetta per il rientro nella città presidiata; oppure ricongiungimento con parte delle forze fasciste fatte defluire da Como, in una «zona neutra», individuata nella valle d’Intelvi. Conclusione sensata, soprattutto se in vista dell’imminente sopraggiungere delle forze armate statunitensi, segnalate in rapida avanzata da Cremona su Brescia e Bergamo; e dell’allertamento, nelle fila di quelle formazioni, di un reparto già predisposto per la cattura di Mussolini, come mostra con abbondanza di dettagli una fonte eloquente ma inspiegabilmente trascurata. Inclinati dall’esperienza a scorgere dietro la parola «mistero» piuttosto una pessima ricerca che un vero intrigo, si è infatti accantonato un improduttivo scavo negli archivi dell’OSS, a dir poco aridi sulla faccenda, per puntare su quelli dell’agenzia identificata per protagonista dell’episodio: il Counter Intelligence Corps (CIC), ovvero il controspionaggio militare. I risultati non si sono fatti attendere, in forma di una massa documentaria di 1.300 fogli, dedicati esclusiva-
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mente al «caso Mussolini» e al mancato appuntamento del 27 aprile 1945. Documenti espliciti, probanti, ineccepibili che, se non mettono la parola «fine» sul caso, fissano perlomeno alcuni cardini di principio, dai quali mai più retrocedere. Si tratta, nello specifico, delle risultanze dell’inchiesta condotta tra l’inizio del 1965 e la fine del 1966 da due ufficiali del medesimo CIC, Thomas M. Johnson e George F. Elliot, incaricati dal governo degli USA della redazione di una storia complessiva del corpo sulla base di milioni di documenti da questo prodotti durante il Secondo conflitto mondiale su tutti i fronti bellici. Il programma storiografico, titanico anche per il fronte dell’Italia post-8 settembre 1943, evidenzia – oltre a tante vicende «reggimentali» – alcuni snodi di taglio «politico» più intriganti, il cui vertice è proprio la mancata cattura di Mussolini tra il 27 e il 28 aprile 1945. Un piano documentato da tre livelli di fonti: la corrispondenza interna fra i due responsabili dell’indagine; la loro
cor r ispondenza esterna coi protagonisti, sia statunitensi sia italiani; la massa di relazioni, memoriali e affidavit raccolta con metodo e tenacia durante quell’inchiesta. E da un rapporto conclusivo, più volte aggiornato, dal titolo significativo «Dragnet for the Duce» («Rete a strascico per il Duce»), dov’è sintetizzata in modo plastico quell’affannosa rincorsa. Presentare in breve quest’inchiesta non è affatto agevole, poiché i materiali sono – è ovvio – in gran parte in lingua, e qualunque «traduzione» rischia di «tradire» l’originale: la corrispondenza interna in inglese-americano ricco di espressioni colloquiali e rimandi criptici; la corrispondenza esterna anch’essa parzialmente cosparsa di frasi idiomatiche; le relazioni, i memoriali, gli affidavit pieni d’informazioni minute, che implicano complesse analisi comparate di innumerevoli altre fonti e testimonianze. In questa sede non si possono, dunque, che fornire elementi di base per riconsiderare, alla luce delle carte, quanto accaduto. Tenuto conto che
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Una delle centinaia di lettere di Thomas M. Johnson a George F. Elliot, con la raccomandazione di celare nella relazione finale «Dragnet for the Duce» dettagli compromettenti di e su Franca, «feeler» del Duce, circa i suoi rapporti personali con Mussolini
Per gli Alleati, il Duce è un «high-priority target», nella speranza di ottenerne la collaborazione in cambio di garanzie sulla vita per fargli rivelare segreti su personaggi e fatti tedeschi e italiani gli stessi analisti del CIC mostrano di avere avviato l’inchiesta su letteratura secondaria, e di echi della vicenda giunti sino a loro distorti; ma di averla portata avanti con perizia, riuscendo a svincolarsi dalle chiacchiere giornalistiche per puntare su fonti di origine controllata, senza farsi mancare giudizi taglienti nei confronti di certa storiografia facilona. Sicché, sotto quest’inedito profilo, la vicenda avrebbe i contorni che ora si tentano di restituire. Per gli Alleati, il Duce è un «highpriority Intelligence and Counter Intelligence target», con una certa probabilità di farsi collaborativo se
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convinto di non venire giustiziato, al punto da rivelare un sacco di segreti – se trattato correttamente – almeno per due rispetti: racconterebbe svariati retroscena su Hitler, i nazisti e altri grossi calibri, su personalità politiche e militari italiane, sulle fazioni e gli intrighi interni in Germania e Italia; potrebbe venire processato come «criminale di guerra», per dare un esempio dell’azione democratica delle potenze Alleate e per demoralizzare Hitler e i circoli nazisti. In quanto obiettivo primario, Mussolini è perciò sulla lista delle priorità degli agenti del controspionaggio – OSS e CIC – sul campo ognuno nel proprio ambito, e non sem-
pre col necessario coordinamento. Quali indizi avrebbero gli Alleati, specie statunitensi, che il Duce sarebbe disposto a consegnarsi a loro? Ne hanno certezza da quando egli stesso, poco avanti l’attacco sul Po del 19 aprile 1945, manda oltre le linee un’emissaria a raggiungere un ufficiale inglese («Englishman») al Comando delle forze Alleate, da lui conosciuto in passato. Dell’inviata non sono menzionate le generalità, i documenti che probabilmente si riferiscono ai suoi dati personali son stati estratti dal dossier – ma registrandone per correttezza l’estrazione – e nelle lettere Johnson e Elliot concordano sul principio di attenuare determinati aspetti della vicenda nel rapporto finale e di non divulgarne i tratti sociali e fisici che ne permetterebbero l’identificazione: romana, di buona famiglia, parlata e atteggiamento raffinati, avvenenza inconsueta per un’italiana di quelle origini (si specifica ch’è alta e bionda), padre ufficiale dell’esercito con ottime entrature negli ambienti fascisti, lei stessa fascista, infatuata e «amante» di Mussolini, addestrata in una scuola di spionaggio italiana per la spedizione nell’Italia meridionale, e nel dopoguerra affidatasi – con non eccelsi esiti però – a un «moghul» dell’industria cinematografica. Franca – nome di copertura non ricollegabile, si precisa, a quello reale –, definita una «feeler» (sonda) lanciata dal dittatore nel campo avversario, intercettata oltre le linee da Raniero René Reno Francazzi, agente del 305o Distaccamento CIC, IV Corpo, Task Force 45, 92a Divisione, e del CIC Detachment presso la 10a Divisione da montagna, confessa presto la propria missione e rivela il «desi-
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derio» di Mussolini di stabilire un contatto con un determinato «ufficiale anziano» britannico dell’AFH a Caserta, noto al dittatore. Motivo: avviare negoziati con gli Alleati. Con quale fine: nessuna evidenza, nulla comunque a che vedere con la «resa incondizionata» pretesa dagli Alleati stessi. Circostanze di scarso rilievo, se Franca non avesse poi fornito, in maniera emozionale e dettagliata, un resoconto del crescente stato depresso e ansioso di Mussolini, tale da fare nascere un’attitudine di cauto ottimismo circa la sua volontà di divenire un «cooperative witness» (testimone cooperativo, appunto), nel caso in cui venisse preso in custodia dagli agenti degli Alleati. Da ciò la caccia lanciata dal 14 aprile 1945 dalla 5a Armata statunitense e dal CIC in particolare, durante l’avanzata verso nord. La partenza del dittatore per Milano, il 18 aprile, a dispetto dei tedeschi ai quali ha promesso di non agire senza avvisarli, alla ricerca di una «Italian solution» nella quale giocare una parte, dà il via a un rush delle forze statunitensi per raggiungerlo: John G. Crystal, capitano del CIC, si getta avanti verso il capoluogo lombardo, con due jeep di suoi collaboratori, appena è al corrente che la città è sotto il controllo dei partigiani; giungendovi nel pomeriggio del 26 aprile, in tempo per metter le mani sugli importanti «intelligence targets» elencati nella sua lista, prima che vengano eliminati dalla fazione comunista. Lista al primo posto della quale campeggia, è ovvio, il nome di Mussolini, ormai lontano, ignaro che il Gruppo di Combattimento «A» della 1a Divisione corazzata del brigadiere generale Daniels sta «ruggendo» da sud-est su Como, per sbarrar la frontiera con la Svizzera a reparti tedeschi in ritirata. Su quella strada, il 27 aprile sera, un gruppo di partigiani di Brivio, sulla riva dell’Adda, a sud est di
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Parte finale di una lunga relazione di Raniero Francazzi a Thomas M. Johnson sul «caso» del colonnello Valerio e sul recupero a Como di Rachele Mussolini e dei figli minori Romano e Anna Maria, per assicurarne l’incolumità
Lecco, ha notizia improvvisa, giunta dall’alto Lario, della cattura del dittatore a Dongo, quel pomeriggio. È allora che lo special agent John McDonough, del 501° Distaccamento CIC, appena giunto in paese, manda tramite un inviato a Como il noto messaggio: «Mussolini and Graziani are to be brought to Brivio for the disposition of the American police – John G. McDonough Special Agent, CIC, Ist Armoured Div.». Raggiunto il mattino dopo, 28 aprile, dal collega special agent Richard W. Lindsay, lo mette al corrente dell’accaduto. I due concordano sia meglio che McDonough si porti di persona a Como, anziché attenderne la consegna a Brivio, poiché ormai l’81° Squadra di Cavalleria da Ricognizione è data nei pressi della città pronta a entrarvi: McDonough vi approda in
effetti verso le 10:00 di quel 28 aprile, recandosi immediatamente in prefettura, ove il locale Comitato di liberazione nazionale sta redigendo una risposta interlocutoria alla sua richiesta, in quanto il prigioniero è destinato al Comitato di liberazione nazionale alta Italia e al Corpo volontari della libertà a Milano. Nel frattempo, la «task force» della 1a Divisione corazzata al comando del colonnello Dewey, raggiunta Bergamo appunto con Richard W. Lindsay, distacca anche gli special agents Francis M. Divilio e Louis G. Di Bona, e un agente del SIM, tale Botello, alla volta di Como, dove arrivano alle 18:50, avviando l’interrogatorio di Dessy e Guastoni, i già menzionati agenti dell’OSS, e del già capo della provincia fascista
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Renato Celio, sull’arrivo in città del colonnello Valerio; sulla reclusione a Dongo dei due inviati del CLN comasco, Cosimo Maria De Angelis e Oscar Sforni, incaricati di prelevare i prigionieri fascisti e portarli nel capoluogo e invece incarcerati in malo modo dal colonnello Valerio; sull’esecuzione dei 15 gerarchi sul lungo lago di Dongo il pomeriggio del 28 aprile. Vicende, queste, ormai notissime alla storiografia. Il rapporto «Dragnet for the Duce» sottolinea che le informazioni arrivate alle orecchie di McDonough, la sera del 27, erano «the first actual news of Mussolini’s whereabouts that had reached any member of the 501st CIC Detachment, which was now the one CIC outfit which had any chance of
getting it»; ma aggiunge tuttavia come l’esercito potesse ritenere che l’OSS fosse a capo di una tale azione, cadendo nel fraintendimento – abbastanza comune – su chi dovesse occuparsi della faccenda. Ancora, un lato controverso della questione: il tentativo effettivo di consegna di Mussolini vivo agli Alleati, la notte del 27 sul 28 aprile, meglio focalizzato da Johnson ed Elliot dopo la lettura di alcuni articoli del giornalista Franco Bandini e uno scambio di corrispondenza con il tenente colonnello Giovanni Sardagna di Hohenstein, comandante militare la piazza di Como in nome del generale Raffaele Cadorna, comandante del CVL a Milano. Sul fatto, la documentazione di provenienza
Due inviati del CLN comasco, De Angelis e Sforni, incaricati di prelevare i prigionieri fascisti e portarli nel capoluogo furono invece incarcerati in malo modo dal colonnello Valerio
CIC si confronta con il vero problema: qual è il reale atteggiamento del comando generale del CVL? Quali sono le azioni, invece, a titolo autonomo del comando piazza locale? E quali quelle degli altri protagonisti, più o meno implicati nel tentativo? Le ombre sembrano, qui, addensarsi e superare largamente il livello militare per attingere quello politico, o meglio di alta politica. Già il 30 aprile, nel rapporto mensile d’informazioni del 501° Distaccamento CIC, è evidenziato il capitolo «Mussolini Benito, and Family», con rapida rassegna dei fatti e notazione che il CLN comasco, di fronte alla richiesta di McDonough, aveva fatto presente che c’era già un precedente ordine di consegna del Duce al comando milanese. Gli attori in campo, interrogati se agenti del CIC, raggiunti almeno in parte via lettera e invitati a rendere testimonianza se agenti dell’OSS o protagonisti italiani, si possono così suddividere: gli agenti McDonough e Lindsay, allertati la sera del 27 aprile, ma giunti a Como solo il 28, tardi per inserirsi; gli agenti Dessy e Guastoni, emanazione l’uno del Servizio informazioni militare del Regno del Sud e della missione Nemo [cioè lo spionaggio militare della Resistenza, NdR], nonché della cellula OSS di Lugano, l’altro solo dell’OSS basato a Lugano, e la cui relazione del 1° maggio – firmata da Dessy – non accenna al tentativo notturno di salvataggio del Duce al quale, da altri elementi, si avrebbe invece per certa un’attiva loro partecipazione; il tenente colonnello Sardagna, motore di quel tentativo assieme a persone di sua assoluta fiducia; il generale Cadorna, le cui decisioni si direbbero l’enigma più intrigante e ambiguo e dell’intera, nebulosa vicenda. Quanto emerge,
Uno dei moltissimi appunti di lavoro di Thomas M. Johnson, sul rilievo di Mussolini come obiettivo del CIC e quale possibile prigioniero «cooperante»
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specie dalla testimonianza di McDonough, è che quando costui alle 10:00 del 28 incontra Sardagna, il colonnello gli riconsegna il foglio con l’ordine ricevuto la sera innanzi, con una sua risposta già redatta, pronta per l’inoltro a Brivio: «segreto Mussolini ed altri gerarchi si trovano prigionieri a Dongo – una missione è già partita da Como per tradurli qui - Graziani è stato accompagnato però a Milano dal Cap. Daddario americano – Jl Ten. Col. Com.te G. Sardagna». Si tratta, lo riferirà Sardagna, del primo tentativo da lui organizzato per raggiungere Mussolini, quello basato sulla spedizione di Giovanni Dessy con alcuni dirigenti fascisti: Franco Colombo (il comandante della Legione autonoma Ettore Muti), Pino Romualdi (vice segretario del Partito Fascista Repubblicano) e Vanni Teodorani (giornalista, capo della segreteria militare di Mussolini nonché suo uomo di fiducia anche perché marito di una nipote), bloccato il pomeriggio del 27 da una formazione partigiana che arresta tutti. Il terzo tentativo è in atto allora, il 28, a opera del gruppo guidato da «un colonnello che agiva agli ordini di Cadorna», cioè del nucleo guidato da Valerio che di lì a breve si rivelerà di tutt’altro orientamento. Ulteriori cause del ritardo dell’azione del CIC nella caccia a Mussolini sono state l’incertezza su quali formazioni siano operative e disponibili nel Comasco per la cattura effettiva; nonché la scarsissima cognizione della geografia dei luoghi, ovvia, e del tutto comprensibile, per un esercito straniero in fase di cauta avanzata nel territorio nemico, tenuto magari da reparti anche irregolari. Il secondo tentativo, quello notturno del 27 sul 28, il più rischioso e sfocato, è invece al centro di un fitto va e vieni di quesiti di Johnson e di risposte di Sardagna, ancora da contestualizzare e collegare alla re-
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Nota di Francis M. Divilio sull’intervento degli agenti Louis G. Di Bona e James Kelly nel recupero di Rachele Mussolini e dei figli minori il 29 aprile 1945
stante documentazione. Ciò che pare chiaro, a parziale rettifica di quanto scritto da Bandini – presto abbandonato quale fonte dagli analisti del CIC, poiché trovato inattendibile su troppi punti in base alle relazioni ricevute dagli special agents – sono i seguenti dati: ordine del generale Cadorna ma non finalizzato alla consegna di Mussolini agli Alleati; coordinamento di Sardagna finalizzato invece a consegnarlo agli Alleati; attività operativa di Pier Luigi Bellini delle Stelle, Pedro, comandante del distaccamento Puecher della 52a brigata Garibaldi
Luigi Clerici di Dongo, finalizzato a consegnarlo al CLN locale o al CLNAI milanese; acquiescenza passiva di Luigi Canali, Neri, capo di stato maggiore della 52a, per consegna al CLN locale o al CLNAI milanese; assenso per motivi gerarchici di Michele Moretti, Pietro, commissario politico della 52a per consegna al CLN locale o al CLNAI milanese; annullamento dell’operazione a missione quasi compiuta, essendo mutate le condizioni quadro al sopraggiungere dell’81a Squadra statunitense nei pressi di Como. È evidente difatti a Johnson ed Elliot che la
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«The 501st Counter Intelligence Corps Detachment», di Francis M. Divilio, foglio 4, precisazioni sull’avanzata verso Lecco del Gruppo di Combattimento «A» della 1a Divisione corazzata, al comando del generale Daniels, e sulle iniziative con il comando piazza di Como per la cattura di Mussolini dello special agent John McDonough tra la sera del 27 e la giornata del 28 aprile 1945
prima tappa di questo tentativo privato, eccedente il mandato del generale Cadorna, comandante del CVL – e cioè portare il Duce a villa Cademartori a Blevio, sulla sponda opposta del lago di Como – prenda in questo contesto una luce differente: non solo vi è il rischio, per il CLNAI e il CVL, e l’occasione, per il comando piazza comasco, della consegna di Mussolini; ma costui, essendo spuntata l’81a Squadra, verrebbe a trovarsi «behind the Allied lines, with the Americans at Como between him and Milan», si sottolinea; con il dubbio che Sardagna, avvisato Cadorna del piano Blevio, non sia andato oltre a specificare la circostanza, «for fear of receiving an outright order not to hand il Duce over to the Allies». In ogni caso il risultato è identico: al giungere della testa del grosso del Gruppo di Combattimento «A», in marcia faticosa, dentro la città alle 24:00 del 27 sul 28 (secondo il rap-
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porto operativo divisionale), il piano Blevio è annullato direttamente da Milano, cortocircuitando il comando di Como. Appunto di Johnson su Sardagna: «Suggerisco di considerare attentamente il suo punto di vista, che consegnare Mussolini agli Alleati sarebbe stata la miglior cosa per l’Italia e per l’Intelligence Alleata. Un punto di vista filo-fascista è che il quartiere generale delle forze Alleate non volesse realmente Mussolini, per timore che rilasciasse dichiarazioni sprezzanti: ma se così fosse perché tutti gli sforzi per catturarlo? Di certo, il quartiere generale delle forze Alleate non avrebbe fatto tali sforzi senza l’OK di Churchill e Roosevelt». E qui semmai torna in questione il contrordine di Dulles a Daddario, già accennato, alla cattura del Duce, coi risvolti politici: giunge dall’alto o, nel vuoto di potere zeppo
d’intrighi e personalismi seguito alla morte di Roosevelt, il 12 aprile, rientra fra le licenze del direttore dell’OSS a Berna? In altre parole, può divenire produttivo analizzare il materiale del CIC per delineare le filiere di appartenenza di gruppi e singoli e valutarne motivi apparenti e reali nell’agire in quelle giornate. Posto che, s’è detto, la filiera Dulles-Jones-Daddario, ovvero dell’OSS, è indipendente da quella Crystal-McDonough-LindsayDivilio-Di Bona, del CIC; che la retromarcia di Dulles non tocca affatto quest’altra filiera, e neppure blocca – o non riesce a bloccare – quella Dessy e Guastoni, ormai approdata a Como e attivatasi, per quanto si indovina, con finalità pure indipendenti e in parte divergenti persino fra i due protagonisti; che le istruzioni di Cadorna richiedono ancora di venir meglio decifrate, mentre le disposizioni di Sardagna non corrispondono affatto agli ordini del suo superiore; che gli stessi esecutori del piano ideato da Sardagna non paiono, in alcuni casi, avere alcuna cognizione della mèta verso la quale sono diretti mentre in altri casi si opporrebbero se solo supponessero di quale mèta si tratta. Altri ancora infine pur sospettando quale sia la mèta non si oppongono esplicitamente alla sgradita soluzione. Senza scordare che il piccolo convoglio col Duce si ferma a Moltrasio, periferia nord di Como, con l’avanguardia degli Alleati a Lipomo, periferia sud-est; e l’appuntamento salta non per un ritardo. Molti altri gli elementi offerti dal dossier del CIC in merito, utili per rettificare pubblicazioni ora imprecise, ora deliranti nell’inanellare catene di tesi e deduzioni su letteratura secondaria, senza aver attinto a una sola fonte affidabile: assente qualunque intervento britannico diretto, la storia non vede sul terreno uomini del SOE (lo Speciale Operations Executive britannico); del tutto marginale, e ininfluente, sarebbe poi il ruolo di Luigi Canali, il capitano Neri, altrove consi-
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Incipit di una delle svariate redazioni della relazione finale «Dragnet for the Duce», stesa da Thomas M. Johnson e George F. Elliot
derato il vero perno dell’ “operazione consegna” in quanto presunto agente inglese, nonostante il suo nome quasi neppure compaia nella documentazione del CIC, a comprova del non collegamento, stando alla documentazione statunitense, con alcun servizio segreto anglo-americano; nessun cenno a un trasferimento del prigioniero a Brunate, sede peraltro di una centrale SIM collegata alla missione Nemo, non coinvolta – è evidente – né nel piano Sardagna, né nella filiera del CIC, come confermano due relazioni del responsabile della base, colonnello Giuseppe Rizzani. A tali dati probatori «per sottrazione», «in negativo», se ne aggiungono invece altri decisamente significativi «per aggiunta», «in positivo»: l’ansia di Mussolini di contattare gli Alleati, meglio se i britannici, manifestata con l’invio oltre le linee di Franca
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poco avanti il 19 aprile a raggiungere l’«Englishman» all’AFQ di Caserta, e con l’analoga richiesta, il 25 aprile, a Fernando Canthal y Girón, console generale di Spagna a Milano, di aprire un canale col ministro di Gran Bretagna a Berna, sir Clifford Norton; il contemporaneo, parallelo timore
Milano a Como, anziché l’attesa nel capoluogo lombardo o – perché no? – l’andare incontro alle forze Alleate in avanzata, per una autoconsegna priva di rischi per la vita. Intricato, s’è detto, il dossier del CIC, quando analizzato a fondo darà risposte più attendibili sui fatti, nella meccanica e nei fini dichiarati o riposti degli attori coinvolti, e certo più verosimili di quelle in circolazione. E aiuterà, è probabile, anche a tratteggiare quella che pur nelle circostanze di un crollo di regime irrimediabile si direbbe una linea di strategia d’uscita immaginata da Mussolini, con esiti politici più che personali; così come, sul fronte opposto, le opposte opinioni che i vari interlocutori (o avversari) del dittatore avevano preso in esame per il suo futuro immediato: in libertà, con facoltà di decidere a chi e con quali garanzie consegnarsi; o in prigionia, ormai oggetto, non più soggetto di trattative politiche connesse alla collocazione dell’Italia del dopoguerra entro lo spazio geopolitico degli Alleati occidentali. Collocazione che l’ex Duce, nel corso d’un processo, avrebbe potuto minare, testimoniando contro le forze moderate che l’avevano sorretto, finendo così per favorire, paradossalmente, il nemico di sempre: il Partito Comunista. Il PCI, da parte sua, contro i propri interessi immediati, s’incarica di levarlo di torno nel quadro di una collaborazione ancora leale tra URSS,
L’ex Duce, in un eventuale processo, avrebbe potuto minare la collocazione dell’Italia nel blocco ovest, testimoniando contro le forze moderate che l’avevano sorretto, finendo così per favorire il PCI tuttavia degli stessi britannici, ai quali alla moglie Rachele raccomanda di non consegnarsi – così i rapporti degli agenti del CIC che l’hanno in custodia – poiché ne riceverebbe un cattivo trattamento, preferendo invece per quanto possibile gli statunitensi; il ripiegamento comunque da
USA e Gran Bretagna. Le tre potenze vincitrici, al di là della tattica e della propaganda, sono ancora decise a stabilizzare di comune accordo il continente, lasciando l’Italia al di qua della «cortina di ferro». Marino Viganò
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nº 4
nº 6
nº 5
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numero 27 Gennaio 2008
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LUI, LEI, L’ALTRO
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Nella Francia del ‘600 fra Rennes-le-Chateau e Tolosa nasce la Setta degli Angeli
I cicisbei: amanti ufficiali, stipendiati e approvati dai mariti italiani nel ‘700
Pancho Villa, Fidel Castro, Roberto Farinacci: tre vite per «la causa»
OLTRE VENTICINQUE ANNI DOPO, LA VERA STORIA DELLA P2
numero 44 Giugno 2009
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1929
KATIN
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La Storia si ripete. Se banchieri e Stati avessero guardato al passato, forse oggi avremmo un futuro meno nero...
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Dal caso Moro-Spachtholz alla Stazione di Bologna: i misteri del terrorismo in Italia
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numero 63 Gennaio 2011
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RENOVATIO IMPERII
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IL RITORNO DI JOHN SILVER ARCHIVI IN POLVERE
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LADIGIOCONDA CHI È QUEL SORRISO? DOSSIER - CHI VUOLE MORTE LE NAZIONI E PERCHÉ
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I congressi degli scienziati che fecero l’Unità d’Italia prima del Risorgimento
n° 63
Mensile - anno 10 - N. 99 gennaio 2014 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
Mensile - anno 8 - N. 78 aprile 2012 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
Intervista con Bjorn Larsson, romanziere che ha fatto rivivere il pirata de “L’isola del Tesoro”
UNITI PER LA SCIENZA
IL RITORNO DEI
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n° 45/46
LONGOBARDI
Mensile - anno 8 - N. 79 maggio 2012 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
numero 78 Aprile 2012
Feroci, pr Anche a s eunuchi,
Li hanno sognati in molti ma nessuno è mai davvero passato all’azione. Storia di un vezzo nazionale che nel ’76 ha contagiato anche i nostri alleati atlantici
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1947: processo-spettacolo all’assassina che aveva ucciso e trasformato in sapone tre donne
I SOSIA
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DONNE D
Le false memorie di Montanelli. E le troppe versioni sulla fine del partigiano Scagliosi
7-06-2009 19:44:55
LA SAPONIFICATRICE
Ottone III, l’Imperatore adolescente che voleva affrontare l’Apocalisse
ITALY
CONFUSIONI PARTIGIANE
Ma la Chiesa è stata davvero così dura col grande scienziato?
L’emigrazione italiana è stata davvero simile a quella che si affolla ai nostri confini oggi? Viaggio controcorrente in un luogo comune duro a morire
n° 44
Mensile - anno 7 - N. 63 gennaio 2011 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
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Shakespeare era inglese ma le sue opere sono decisamente «italiane». Nuove, clamorose ricerche allungano la lista degli «scippi» ai danni della nostra Storia
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Intervista con lo storico che ha svelato le stragi alleate in Sicilia nel 1943
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nº 25/26
Mensile - anno 5 - N. 44 giugno 2009 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
numero 42 Aprile 2009
nº 24
Mensile - anno 8 - N. 80 giugno 2012 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
nº 23
Un nuovo libro rilancia un mito necessario per una nazione che sta perdendo l’anima
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GARIBALDI, EROE AL 100% I VIOLENTI LIBERATORI
Ma è davvero impossibile parlare bene di un re come Vittorio Emanuele III?
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Piacenza 1547: Pier Luigi Farnese muore vittima di un complotto internazionale. Oggi un convegno lo riscopre “padre” dello Stato Nuovo
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Mensile - anno 7 - N. 65 marzo 2011 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
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Mensile - anno 3 - N. 25-26 novembre-dicembre 2007 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
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ALAN TURING, IL GENIO
Cento anni fa nasceva il padre dell’Intelligenza Artificiale, condannato perché omosessuale
Mensile - anno 8 - N. 81-82 luglio-agosto 2012 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
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nº 0
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IL CAPO DEI CAPI
Don Vito Cascio Ferro, l’uomo che inventò la Mafia unendo Sicilia e New York
AMMAZZA
La fine del d mascherata Ma chi tram
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È a metà ‘800 che nasce l’imperialismo a stelle
• La guerra civile scatenata da Lincol • Lo sterminio dei pellerossa • Il colonialismo nei Caraibi e nelle Filip
n° 81-82
a? Ti aiutiamo noi! HeDY LaMarr
Nel ‘700 i cantanti più quotati non erano tutti ex uomini. Erano donne…
Marcello Staglieno contesta chi liquida il grande giornalista come un bugiardo incallito
Nell’Inghilterra puritana del XVII secolo bruciare libri era una vera moda
20 luglio 1944: una bomba deve eliminare Hitler. Ma qualcosa va storto…
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DANTE
obiettivo
MUSSOLINI
UNA BIOGRAFIA DA RISCRIVERE GIALLI
NON È
MAI TROPPO
TARDI
CHI HA PICO dellaUCCISO MIRANDOLA ?
Gabriele
Testi
WIKIPEDIA Come tratta la Storia la più grande enciclopedia di tutti i tempi?
GIALLI STORICI: CHI HA UCCISO PICO DELLA MIRANDOLA E ANGELO POLIZIANO?
n° 30
n° 31
numero 49-50 Novembre-Dicembre 2009
numero 51 Gennaio 2010
STORIA
IN RETE
| 22
Maggio
Mensile - anno 3 - N. 15\16 - gennaio\febbraio 2007 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Roma
Mensile - anno 3 - N. 17 - marzo 2007 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Roma
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LA CARTA DEI MISTERI
LA MORTE DI GIUDA
Torino, 1958: un delitto irrisolto porta alla ribalta uno strano assassino
Nel 1941 negli USA spunta una mappa che anticipa la Guerra Fredda. Oggi il web si infiamma...
Cosa è davvero accaduto durante le ultime ore del più grande traditore?
La vera storia dei rapporti tra Roma e Tripoli: un secolo di guerre, ricatti, affari e «amnesie»
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Nel 1946 dove comandava Un secolo di scontri Salvatore Giuliano la Repubblica all’ombra dello sport da Anversa a Pechino vinse nettamente. Un caso?
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COLONIALISTI INSOSPETTATI
24 ORE CON NAPOLEONE
Era davvero necessario L’Italia coloniale è stata auspicata Alle Tuileries si viveva e giusto regalare alla Libia da alcuni Padri della Patria: di corsa. Come piaceva la Venere di Cirene? Mazzini,Pascoli, Giolitti, Amendola… al padrone di casa
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Perseguitato dal Vaticano? Non proprio. Già nel 1921 a Roma si credeva alla stimmate del futuro Santo
LA VERITÀ SU
PADRE PIO
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LA VENERE SVENDUTA
Mensile - anno 4 - N. 36 ottobre 2008 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
AL ROGO, AL ROGO
Mensile - anno 4 - N. 35 settembre 2008 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
«DIFENDO MONTANELLI»
Mensile - anno 4 - N. 33-34 luglio-agosto 2008 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
CASTRATI. PER FINTA
Incredibile: nella Firenze del Duecento vivevano due Dante Alighieri. Ma con idee politiche opposte
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Ecco come la politica uccide il nostro passato: trascurando, negando, manipolando, dimenticando…
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Pubblicata la storia dell’uomo che curò (a modo suo) il dittatore
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Li hanno sognati in molti ma nessuno è mai davvero passato all’azione. Storia di un vezzo nazionale che nel ’76 ha contagiato anche i nostri alleati atlantici
In Liguria, nel 1797, Napoleone incassa una mezza sconfitta dai Granatieri di Sardegna
Un nuovo libro rivela: la donna che morì per Mussolini brigò fino all’ultimo a vantaggio dei tedeschi.
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Nella Roma del Rinascimento Clelia Farnese è al centro di una lotta a colpi di pennello
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Feroci, pronte a tutto. Anche a sfruttare eunuchi, figli e sultani
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Le false memorie di Montanelli. E le troppe versioni sulla fine del partigiano Scagliosi
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Ma la Chiesa è stata davvero così dura col grande scienziato?
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numero 52 Febbraio 2010
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1942: gli inglesi attaccano convinti che gli italiani sono una facile preda. E invece li attende una dura sconfitta
LA MONACA DI MONZA
IL GENIO DI PERGOLESI LO SCIPPO DEL TELEFONO
In mostra a Milano la vera e triste storia di Suor Virginia: amori e orrori del ‘600 lombardo
PUGNI E PENNELLI
I BEATI PAOLI
LA NAVE DI D’ANNUNZIO GIUSEPPE BUONAPARTE
Nella Roma di 400 anni fa Il Vate volle al Vittoriale la nave E’ dura essere il fratello Caravaggio, tra risse e invidie, Puglia per ricordare i difensori maggiore di Napoleone ma dell’italianità in Dalmazia rivoluzionava la pittura non avere le sue ambizioni…
A tre secoli dalla nascita Tutte le manovre di Bell per rubare a Vendicatori del popolo o setta l’autore de “La serva padrona” Innocenzo Manzetti prima e a Meucci dedita a oscuri crimini? Un mistero dopo un’invenzione tutta italiana ha una nuova biografia nella Sicilia del XVII Secolo
SISSI IMPERATRICE TRISTE... ALLENDE IL RAZZISTA ...soprattutto per la pessima fiction che ha fatto rimpiangere i film degli anni Cinquanta
Eroe della libertà e democrazia Salvator Allende fu un sostenitore delle sterilizzazioni dei dementi
IL PRINCIPE MECENATE
È a metà ‘800 che nasce l’imperialismo a stelle e strisce: • La guerra civile scatenata da Lincoln • Lo sterminio dei pellerossa • Il colonialismo nei Caraibi e nelle Filippine
n° 81-82
Da Arafat a Litvinenko, due gialli “radioattivi” che la scienza smentisce
Due scoop giornalistici contro il pontefice, messi ai raggi X si rivelano falsi e tendenziosi
SANTE&PECCATRICI
Dal chiostro al marciapiede, storie di donne fra vite estreme: il convento o la prostituzione
Dalle memorie del boss Gentile un retroscena sul Referendum del ‘46: un patto segreto tra Monarchia e Onorata Società. Con la mediazione degli Stati Uniti...
La scia di morte lasciata dal PCI per occultare il furto del «tesoro del Duce». Con l’omertà della DC
Maria de’ Medici, regina di Francia fra intrighi, omicidi e colpi di Stato
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Mensile - anno 6 - N. 54 aprile 2010 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
n° 54 numero 72 Ottobre 2011
CADORNA, L’ARCITALIANO No alla damnatio memoriae del Generalissimo, specchio di vizi e virtù del Bel Paese
IL VERO LORENZACCIO
Lorenzino de’ Medici, il “Bruto toscano”, raccontato da una nuova biografia
9/11
LA VERITA SOTTO ATTACCO Ecco quello che non torna nelle verità ufficiali. E in quelle alternative...
L’Eroe dei Due Mondi voleva un’Europa orientale liberata dall’oppressione ottomana
10 GIUGNO 1940: L’ITALIA È IN GUERRA. UN NUOVO LIBRO RISCRIVE LA STORIA DI UNA DECISIONE SURREALE. PRESA PER INSEGUIRE LA PACE...
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DECISIONI REVOCABILI
numero 91 Maggio 2013
Eredi e amici del padre dell’Evoluzionismo all’origine di equivoci e mistificazioni
n° 89
LA RIVOLTA DEL RUM
1808, alle radici dell’Australia: fra governatori corrotti, contrabbandieri e ammutinati
I Mondiali del Sudafrica sono lo spunto per rileggere i legami tra politica e pallone
Ecco i veri perché di una scelta tragica che ha segnato per sempre il destino di una nazione.
GIUGNO 1940
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numero 75 Gennaio 2012
GUERRA
L’Acqui Storia è sotto l’attacco di chi vuole rimetterlo sotto la tutela dei “soliti noti”
LA FATIMA ITALIANA
Su «Storia in Rete» la lettera con cui Innocenzo III scomunicò i Crociati nel 1203
1944: a Ghiaie una bambina dice d’aver veduto la Madonna. Ma la Chiesa nega tutto
PERFIDA ALBIONE GRAN BRETAGNA VS ITALIA: DUE SECOLI DI INGERENZE E SGAMBETTI
LA STORIA RIVIVE
Due libri anglo-russi sul KGB hanno Una nuova rubrica dedicata edizioni italiane «taroccate». alle rievocazioni storiche in All’insaputa degli autori... collaborazione con Ars Histori æ
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FASCISMO MUSEO?
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Quanti uomini delle Logge divennero presidenti all’alba della potenza americana?
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numero 93 - 94 Luglio - Agosto 2013
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I nostri 007 avevano scoperto ogni dettaglio dell’invasione della Sicilia. Ma nessuno li ascoltò
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Da Mattei alla strategia della tensione fino a Ustica: un libro esplosivo rilegge la nostra storia durante la Prima Repubblica. E svela che avevamo due nemici mascherati da alleati: Gran Bretagna e Francia
numero 76 Febbraio 2012
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ENIGMA NOSTRADAMUS
Il veggente ha davvero sognato il futuro per poi nasconderlo nelle sue enigmatiche terzine?
TORNA IL “PROFETA NERO”
NAZISMO OCCULTO
Un nuovo saggio ripropone la figura Le radici esoteriche di Alfredo Oriani, l’intellettuale di del partito di Hitler fine Ottocento che ispirò Mussolini dalla Teosofia a Thule
IDIVIDONO BRIGANTI ANCORA
In un dossier le polemiche sugli eccidi di Pontelandolfo dell’agosto 1861
Il piano di Mussolini per sganciarsi dai tedeschi mandato a monte dal Re
numero 95 Settembre 2013
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Oltre sessantamila i casi di sterilizzazioni forzate negli States del XX secolo
Dalla V2 alla bomba atomica le armi segrete che ottennero risultati opposti alle attese
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Statistica, fisica e chimica suggeriscono che il Sacro Lino possa essere autentico
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Le aggressioni ai veterani della Grande Guerra e l’ascesa del Fascismo
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L’ordine – clamoroso – arrivò nel 1944 da Mussolini. Lo rivela un’inchiesta sul servizio segreto antinazista ZA
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Le memorie di un dissidente svelano un lato oscuro del Partito Comunista Italiano
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NISMO NEGAZIO
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Marzo 1911: l’Italia è scossa dal sanguinoso epilogo di uno scandaloso adulterio
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Documenti appena pubblicati svelano i dubbi dello statista dopo il “golpe bianco” del 1915
L’Italia sembra voler mandare in soffitta l’uomo che l’ha unita. Ma è un lusso che si può permettere?
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SUOCERE IMPERIALI Una biografia spiega come Matidia aiutò Adriano a tenere in pugno Roma
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Nel settembre 1939 i Savoia il racconto in diretta del sanguinoso portano via da Torino il Sacro Lino. scontro che, alla fine, vide il trionfo Per paura che i nazisti lo rubino dei Cavalieri di S. Giovanni sui Turchi
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Mensile - anno 7 - N. 72 ottobre 2011 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
1943: mentre Roosevelt e Churchill vogliono la guerra totale, Mussolini - complice il Giappone - prepara la pace tra Hitler e Stalin
I paralleli fra le politiche di Monti I terribili veleni alla base Leone XII, il papa che tentò e del cancelliere Brüning che fra ‘31 dei cosmetici del Medioevo di ricostruire la sacralità e ‘33 mandò in rovina la Germania e del Rinascimento dello Stato della Chiesa
I “LAGER DEI SAVOIA”
TRATTATIVE STATO-MAFIA
DITTATORI IN CERCA DI PACE
Cosa c’è dietro la più bizzarra leggenda della musica? Una nuova inchiesta riscrive un pezzo di storia del XX secolo tra figli segreti, rock, esoterismo e analisi in stile CSI...
L’ITALIA COME WEIMAR?
Si infiamma il dibattito su Fenestrelle: davvero i forti piemontesi furono luogo di sterminio dei soldati dell’esercito borbonico sconfitto?
PICCA E ARCHIBUGIO
Udine toglie la piazza dedicata Le teorie militari di Machiavelli, inascoltate in patria ma applicate al Generalissimo: una decisione che fa torto ad un grande soldato con successo all’estero
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numero 87-88 Gennaio-Febbraio 2013
L’ITALIANA A PARIGI
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numero 71 Settembre 2011
Mensile - anno 7 - N. 71 settembre 2011 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
Mensile - anno 6 - N. 51 gennaio 2010 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
Mensile - anno 5 - N. 49-50 novembre-dicembre 2009 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
Nel 1700° della battaglia di Ponte Milvio si aprono le celebrazioni dell’Imperatore
Quando gli USA testavano le bombe atomiche sui loro stessi cittadini e soldati
Veronica Franco, cortigiana veneziana del ‘500, seppe unire sesso e cultura
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numero 85-86 Novembre-Dicembre 2012
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La fine del dittatore, una farsa mascherata da rivolta popolare. Ma chi tramava dietro le quinte?
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Bombe nel ‘44, pallottole nel’81: nuove chiavi di lettura spiegano due enigmi legati al Vaticano...
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Servizi segreti e fortificazioni contro i nazisti. Patti inconfessabili con inglesi e americani. Dossier riservati finiti a Londra. Ecco la verità su…
Mensile - anno 9 - N. 91 maggio 2013 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
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ATTENTATI AL PAPA
Una grande mostra a Roma fa revisionismo (e giustizia) per l’Imperatore superstar
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Da Carlo VIII a Sarkozy, dal Regno di Napoli alla Libia 500 anni di politica, invasioni, furti e dispetti francesi all’Italia
La polemica sui libri di testo rischia di nascondere i veri mali del sistema scolastico italiano
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ALAN TURING, IL GENIO
Mensile - anno 8 - N. 81-82 luglio-agosto 2012 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
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Mensile - anno 8 - N. 83-84 settembre-ottobre 2012 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
numero 81-82 Luglio-Agosto 2012
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IL NEMICO FRANCESE
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nº 65
Torna la teoria della pista inglese: partigiani e agenti di Londra si allearono per far fuori il Duce?
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LA MORTE DI MUSSOLINI SCUOLA, STORIA E LITI
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Cento anni fa moriva Salgari, Gli USA celebrano anche loro lo scrittore che ha fatto un Centocinquantesimo: quello sognare generazioni di italiani della Guerra di Secessione
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STORIA SVENDESI
IL PAPÀ DI SANDOKAN
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Mensile - anno 7 - N. 68 giugno 2011 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
La fondatrice della Teosofia: il primo di una serie di ritratti dedicati ai Grandi Iniziati
Mensile - anno 9 - N. 87-88 gennaio-febbraio 2013 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
MADAME BLAVATSKY
Nel 1926 esilio e morte dell’ultimo Sultano impedirono ai musulmani di unificarsi
Mensile - anno 7 - N. 66 aprile 2011 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
Mensile - anno 7 - N. 65 marzo 2011 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
o sessuale: una micidiale a in voga da venti secoli
150° Anniversario: riapre a Torino lo storico Palazzo Carignano
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Alto Adige, Unità d’Italia e Governo: tutto quello che non si sarebbe dovuto fare e che invece è stato regolarmente fatto
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Rievocazione e living history si mettono in mostra a Ferrara
Chi era Maria Beatrice d’Este, che nel ‘700 fu l’unica italiana a salire sul trono inglese
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IL GRANDE
DITTATORE
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n° 47
L’ITALIA IN CROCE
Dal Rinascimento ad oggi: breve storia dei giudizi e dei pregiudizi (stranieri e non) su un Paese troppo diverso dagli altri
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Mensile - anno 7 - N. 67 maggio 2011 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
Mensile - anno 5 - N. 48 ottobre 2009 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
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In Russia sono tanti i nostalgici di Stalin, il più spietato tiranno di tutti i tempi. Un altro modo di fare i conti con la propria Storia?
Mensile - anno 6 - N. 57-58 luglio-agosto 2010 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
LA BEFFA DI TOBRUK
Mensile - anno 8 - N. 76 febbraio 2012 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
Nella dissoluta Firenze del ‘500 il grande pensatore si distraeva con le cortigiane
IL MEDIOEVO? FU “LUMINOSO” LO SMEMORATO PIÙ FAMOSO…
Parla Gigi Di Fiore, lo storico Altro che “secoli bui”… Chiara Frugoni … è stato quello di Collegno. impegnato a ricostruire le colpe prestigiosa studiosa dell’età di mezzo Negli anni Venti un uomo perse degli uomini del Risorgimento ne racconta pregi, invenzioni e stile di vita la memoria. E trovò due famiglie
Mensile - anno 9 - N. 95 settembre 2013 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
PORNO MACHIAVELLI
I CAVALIERI NERI
Mensile - anno 6 - N. 56 giugno 2010 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
IL NEMICO DELLA STORIA…
La prospettiva perfetta nega … per lo storico Franco Cardini è Storia dei Cavalieri teutonici, la realtà: da secoli è questa soprattutto il “politicamente corretto”. i duri crociati che portarono la dura legge del “Trompe l’oeil” Come spiega in un’intervista esclusiva la croce nelle steppe dell’Est
Mensile - anno 8 - N. 75 gennaio 2012 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
ARTISTICI INGANNI
Mensile - anno 9 - N. 93-94 luglio-agosto 2013 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
DIPINGENDO SENTIVA LE VOCI IL CORRIERE DEL DUCE
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Mensile - anno 6 - N. 55 maggio 2010 - Poste Italiane S.p.A. Sped. In A.P. - D.L 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004) art.1comma 1 - DRCB - Verona
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Possiamo assolvere l’uomo La vita ordinaria e straordinaria A Salò che incarichi svolgeva di Caporetto e dell’8 Settembre? di Augustin Lesage, il minatore per conto di Mussolini il figlio Ecco le tesi di accusa e difesa divenuto artista in nome dell’Aldilà di una sua ex amante?
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Parla il fustigatore dello “storicamente corretto”
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la morte di Mussolini | misteri e contraddizioni
«L’
ordine è di fare in pubblico, questo è l’ordine». Così dice il colonnello Valerio al neo sindaco di Dongo, Giuseppe Rubini, il pomeriggio del 28 aprile 1945. Rubini sta protestando perché non vuole la fucilazione dei 15 prigionieri fascisti sulla piazza antistante il Comune. Valerio non sente ragioni e procede. Nei tanti resoconti pubblicati dal 30 aprile 1945 al libro postumo uscito nel 1975, Walter Audisio – passato alla Storia appunto come il colonnello Valerio – non ha mai spiegato una contraddizione non da poco del suo operato di quelle ore: perché ostinarsi a voler fucilare alla schiena ma in pubblico, con tanto di rituale i condannati (prigionieri condotti in fila indiana al parapetto del lungolago; schieramento del plotone; ordini regolamentari del comandante del plotone sia ai condannati che
ai suo uomini, ecc. ecc.) quando poco prima avrebbe giustiziato Mussolini e la Petacci sparando loro di fronte e in gran segreto? La fucilazione alla schiena – cui, non a caso, tentarono di ribellarsi i condannati – è un’esecuzione infamante, riservata a uomini che non meritano riguardi (ma durante la guerra e dopo, spie italiane e criminale tedeschi vennero fucilati dagli anglo-americani frontalmente) mentre la fucilazione frontale denota rispetto. Ma Mussolini non era il peggior nemico dei partigiani? Perché riservare a lui una fucilazione onorevole e «privata» e ai suoi, poco dopo e a pochi chilometri di distanza, un’esecuzione pubblica e infamante? Il quesito – quando è stato, di rado, formulato – non ha mai trovato risposta. E’ andata così e basta. Ma ci sono anche altre incongruenze nella versione corrente della fucilazione di Mussolini a cui in genere però non si pone
grande attenzione. Ad esempio, il luogo. Il cancello di Villa Belmonte: Valerio/Audisio racconta di averlo «scelto» mentre in macchina saliva a Bonzanigo per andare a prendere Mussolini. Ora, a chiunque sia capitato di percorrere via XXIV maggio a Mezzegra sa che di posti analoghi a Villa Belmonte ce ne sono anche altri; oltretutto la villa non è isolata più di tanto: salendo ci sono case con giardino sia sull’altro lato della strada – che non è certo larghissima (ancora oggi due auto che procedano nei due sensi devono rallentare per passare l’una accanto all’altra) – che, poco prima, sullo stesso lato. Senza trascurare il fatto che la villa, quel pomeriggio, era abitata e che tra il cancello e la casa non corrono forse più di una decina di metri. Insomma, Villa Belmonte non ha – e non aveva – nessuna caratteristica particolare tale da farla scegliere come luogo ideale per l’esecuzione più
Dongo, pochi istanti prima della fucilazione. Perché Audisio, che aveva concesso a Mussolini una esecuzione privata e al petto insistette per fucilare pubblicamente e alle spalle i gerarchi?
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importante della Storia italiana. Eppure Valerio/Audisio volle fare tutto proprio lì... E ancora: tanto Audisio che gli altri partigiani presenti (Moretti, Lampredi, Geninazza) che hanno raccontato – con qualche diverso dettaglio non trascurabile – la dinamica dei fatti seguendo la sua falsa riga non hanno mai pensato di correggere una ulteriore, evidente stortura presente nei loro racconti. Infatti, da una parte sostengono in genere che Claretta Petacci fu uccisa per sbaglio, perché al momento dell’esecuzione iniziò ad agitarsi, ad abbracciare Mussolini, a frapporsi tra lui e il mitra di Valerio. Ma se non doveva essere giustiziata perché portarla fino a Villa Belmonte? E inoltre, una volta lì, perché farla scendere dall’auto se non doveva interferire? E infine, perché, una volta scesa dall’auto farla stare a fianco di Mussolini e non tenerla a distanza, magari affidandola a uno degli uomini che dovevano sorvegliare la strada a monte e a valle del fatidico cancello? Anche a non voler credere all’ipotesi avanzata da Franco Bandini circa la «doppia fucilazione» come non porsi domande su come venne portata a compimento la missione che Valerio asseriva di avere? Missione che avrebbe riguardato, a sentire i protagonisti, solo Mussolini e non la Petacci (ma poche ore prima da Milano era arrivato l’ordine di prendere proprio lei – tra i tanti gerarchi e ministri catturati – per portarla col Duce verso Moltrasio)? L’idea è che quindi qualcosa di imprevisto sia accaduto e che, a posteriori, si sia dovuto cercare di rimediare, inventando lì per lì una versione che doveva essere, senza riuscirci, attendibile. Una versione
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che, oltretutto, in barba ad ogni logica, evidenza e testimonianza (molti videro qualcosa quel pomeriggio tra Bonzanigo e Giulino) tace costantemente sul fondamentale apporto, logistico e non solo, dato dai partigiani della zona comandati dall’azzanese Comandante Roma, al secolo Martino Caserotti (1901-1977) che aveva come nome di battaglia anche Arturo. Secondo più di una ricostruzione, ad esempio, sarebbe stato lui a sparare il colpo di grazia ad un Mussolini agonizzante. «La morte di Mussolini deve rimanere un mistero. Ed è meglio che sia così…». Avrebbe detto così, negli anni Ottanta, Leo Valiani a un giovane studioso, Alessandro De Felice, nipote dello storico Renzo, che lo aveva avvicinato alla Fondazione Feltrinelli. Valiani con Pertini era stato – forse ancora più di Longo – il vero motore della rapida decisione presa il 27 notte a Milano di uccidere alla svelta Mussolini (e la Petacci, verosimilmente, anche se nessuno l’hai mai detto apertamente) per evitare che qualche missione alleata arrivasse a metterlo in salvo. Confidandosi con Alessandro De Felice, Valiani quel giorno avrebbe anche aggiunto, sempre in relazione alla morte di Mussolini, che «Londra ha suonato la musica, e il PCI è andato a tempo». Tradotto: l’ordine è arrivato da Londra e il PCI ha eseguito. Pochi anni dopo, nel 1995, Renzo De Felice affermò – nel libro «Rosso e Nero» – che «fecero tutto i partigiani. Ma fu un agente dei servizi inglesi, italiano di origine, che li esortò a fare presto, a chiudere in fretta la partita Mussolini. Come dire: “Guardate che se arrivano gli Alleati in tempo utile, ve lo scippano, come vuole l’armistizio”». Il nome di quell’uf-
Leo Valiani (1909-1999)
ficiale inglese, italiano di origine, De Felice non lo fece ma oggi è possibile immaginare che si riferisse, con forte probabilità, all’enigmatico Malcolm Smith, inglese di nome e di fatto anche se ha trascorso gran parte della sua vita in Italia (era nato a Palermo nel 1910 ed è morto a Como nel 1991). Ma all’epoca De Felice non sapeva che il suo amico Leo Valiani gli aveva nascosto di essere stato a lungo un agente inglese lui stesso. Solo nel maggio 2010 è emerso che Valiani, morto nel 1999, oltre ad essere uno dei leader del Partito d’Azione, era un agente dello Special Operations Executive (SOE) inglese col nome in codice di Giuseppe Federico. Gli stessi inglesi ammisero che per il SOE Valiani «ha fatto un buon lavoro con il Comitato di liberazione di Milano» e addirittura la sua attività venne giudicata da Londra «di valore inestimabile». Valiani si dimise dal SOE a fine luglio 1945 perché, divenuto un leader politico «intende evitare nel modo più assoluto – così si legge nel suo fascicolo personale relativo alla sua attività con il SOE – che il suo legame con gli interessi inglesi possa essere manifesto». Ormai quello che doveva fare (compreso il silenzio) per i suoi referenti inglesi l’agente Giuseppe Federico l’aveva fatto. n
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APRILE distrazioni diffuse
Una giornata inverosimile a Roma assieme ai lter Audisio marcia Wa ni gia rti Moranino pa iti ab rontini e Francesco 1947: indossando gli torio Bardini, Ilio Ba Vit ra ist sin da ta: compagni di lot
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APRILE distrazioni diffuse
Analizzando i racconti dei partigiani che condussero Mussolini e la Petacci a Casa De Maria emergono numerose incongruenze: tutti si disinteressarono per molte, troppe ore dei preziosi prigionieri, lasciati in custodia a due ragazzi stanchi ed inesperti. Un atteggiamento curioso, uguale a quello che ebbero anche i vertici della Resistenza a Milano, a cominciare da un insolitamente distratto Luigi Longo, numero due del Partito Comunista. Forse l’unica spiegazione di tanta approssimazione apparente è una sola: a Casa De Maria, ormai, non c’era più nessuno da sorvegliare. Nessuno ancora in vita…
S
di Maurizio Barozzi
e si analizzano gli avvenimenti verificatisi la mattina del 28 aprile 1, giorno in cui venne ucciso Benito Mussolini, così come raccontati dalla «storica versione» sulla quella fucilazione, avvenuta ufficialmente davanti al cancello di Villa Belmonte in Giulino di Mezzegra alle 16,1, emerge con tutta evidenza come non solo si notano molti aspetti incongruenti e poco credibili ma vi sono anche vistose lacune nei fatti raccontati. Riassumiamo intanto quello che la «vulgata» ci racconta, attenendoci esclusivamente alle documentazioni rilasciate dai presunti protagonisti di quella impresa e a cui rimandiamo per i riferimenti, vale a dire: 1. Il primo anonimo e breve resoconto della fucilazione di Mussolini, pubblicato dall’«Uni-
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Uno degli articoli pubblicati da «L’Unità» nell’autunno 1945 per affermare la «verità ufficiale» sulla morte di Mussolini
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tà» – organo ufficiale del Partito Comunista – il aprile 1; 2. i 2 articoli pubblicati sempre dall’«Unità» dal 18 novembre al 2 dicembre 1, basati su relazioni del colonnello Valerio, avallati da due righe di presentazione scritte da Luigi Longo, all’epoca numero due del PCI, già comandante delle Brigate Garibaldi e vice comandante del Corpo Volontari
attraverso le fasi di una fucilazione e quindi venne messo addosso a un cadavere gettato ai piedi del cancello di Villa Belmonte. Ergo, Mussolini era morto in altro orario che non le asserite 16,1 del 28 aprile e in altro luogo, come anche indicava il suo stivale destro, con la lampo di chiusura saltata e quindi impossibilitato a chiudersi a dimostrazione che Mussolini non
Longo disse al commissario politico Albero che quelli di Audisio dovevano sbrigarsi perché a Dongo sarebbe potuta arrivare la missione USA di Daddario per sottrarre il Duce all’esecuzione della Libertà (CVL, il «braccio» militare della Resistenza; . i sei articoli della serie «Il Colonnello Valerio racconta», ancora sull’«Unità», pubblicati a partire dal 2 marzo del 1 e questa volta firmati da Walter Audisio; . il libro postumo «In nome del popolo italiano» Edizioni Teti 1, sempre di Walter Audisio; . la «Relazione riservata al partito» del 12 di Aldo Lampredi, detto Guido Conti, resa nota integralmente dall’«Unità», il 2 gennaio del 16; 6. le testimonianze di Michele Moretti, detto Pietro Gatti, e di altri importanti partigiani, raccolte da Giusto Perretta, presidente dell’Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione, nel libro «Dongo, 28 aprile 1. La verità», Ed. riveduta 1. Come si vede siamo in presenza di ben sei resoconti. Essi sono tra loro alquanto discordanti e in pratica vanno a sostituire una mai rilasciata relazione ufficiale agli organi dello Stato. La confutazione della «storica versione» avviene, più che altro, evidenziando le tante e gravi contraddizioni che queste relazioni riportano tra loro. Successivamente si sono anche aggiunti i rilievi peritali retrospettivi su vari reperti mostrati da foto e filmati, i quali hanno dimostrato, per esempio, che il giaccone indossato da Mussolini, privo di buchi e strappi, non era passato
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avrebbe potuto deambulare per essere portato alla fucilazione e comunque, nel caso, qualcuno lo avrebbe pur notato, cosa invece non avvenuta. Attraverso l’applicazione di un semplice metodo deduttivo, andremo a sviluppare una diversa esposizione dei fatti dimostrando che quei resoconti non sono del tutto veritieri anche perché, se così fosse, avremmo dovuto leggere ben altre cronache. Secondo la «storica versione», verso le di mattina del 28 aprile 1 Benito Mussolini e Clara Petacci, furono nascosti nella casa colonica dei coniugi De Maria in quel di Bonzanigo. La comitiva che in quella piovosa notte aveva viaggiato su due auto trasportava, oltre i due prigionieri, il comandante della 2a Brigata Garibaldi Luigi Clerici cioè Pier Bellini delle Stelle nome di battaglia Pedro, un senese ex ufficiale dell’Esercito, vicino ad ambienti non comunisti; Michele Moretti nome di battaglia Pietro Gatti, vice commissario politico della 2a Brigata Garibaldi, un operaio comunista fedelissimo al partito; Luigi Canali nome di battaglia Neri, un comunista idealista e atipico per quel partito, in disgrazia con il comando lombardo delle Brigate Garibaldi che, presumendo un suo tradimento nei mesi precedenti, lo aveva condannato a morte anche se la condanna era rimasta congelata. Canali, ex coman-
dante di quella Brigata, era riapparso a Dongo proprio dopo la cattura di Mussolini e qui accolto dai compagni della 2a Brigata Garibaldi: gli era stato conferito subito l’anomalo grado di capo di Stato Maggiore. Sulla strada per Casa De Maria, prima dell’alba del 28 aprile, oltre ai due autisti delle macchine, vi erano poi anche la partigiana Giuseppina Tuissi, nome di battaglia Gianna, ex collaboratrice dei GAP e amante di Canali, il giovane Guglielmo Cantoni, detto Sandrino e Giuseppe Frangi detto Lino. Ufficialmente Mussolini e la Petacci vennero lasciati in quella casa sotto la guardia armata dei soli Sandrino e Lino mentre, poco dopo le , Bellini delle Stelle (Pedro) tornò a Dongo mentre Canali (Neri) con Moretti (Pietro) e la Tuissi (Gianna), con l’altra macchina, andarono a Como, alla Federazione del PCI. Quella stessa mattina, intanto, a Milano presso il Comando Generale del CVL, Walter Audisio alias colonnello Valerio (un ragioniere comunista già ispettore del CVL e in quel momento adibito a compiti di polizia di piazza) e Aldo Lampredi, alto dirigenti comunista, di fatto il vice di Longo al comando, verso le 6, partono con un plotone di circa 12 partigiani di scorta, più i loro due comandanti Alfredo Mordini, nome di battaglia Riccardo, e Orfeo Landini detto Piero, per recarsi a
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La prima pagina de «L’Unità» del 29 aprile 1945. L’articolo sulla morte di Mussolini fu scritto da Longo. Il giorno dopo comparve il primo resoconto dei fatti di Audisio
Dongo, previo passaggio in Prefettura dal CNL di Como. Ufficialmente devono prendere in consegna i fascisti e i ministri della RSI catturati il giorno precedente e portarli a Milano, ma in realtà hanno il segreto ordine di fucilarli sul posto come poi, infatti, avverrà. Questa missione, investita di un ordine del CVL, era stata predisposta durante la notte da Luigi Longo e poi avallata dal generale Raffaele Cadorna, formalmente comandante del CVL, ma di fatto con una autorità più che altro nominale. Alla partenza del plotone, Longo disse ad Alberto Mario Cavallotti, Albero, commissario politico delle Divisioni dell’Oltrepò, che quelli di Audisio devono sbrigarsi perché a Dongo potrebbe arrivare la missione americana di Daddario che potrebbe prendere il Duce, sottraendolo così all’esecuzione. In sostanza si era allestita una missione «ufficiale» CLNAI/CVL, con il fine di coinvolgere nelle previste fucilazioni, come necessario per esigenze politiche e rispetto agli Alleati, tutte le componenti della Resistenza ed in particolare quelle che, in quel momento, avevano sotto controllo i prigionieri, cioè il CLN comasco e il comando della 2a Brigata Garibaldi di Dongo. Ed ecco qui una prima incongruenza. Nessuno, né Longo, né al Comando CVL, informa Audisio che Mussolini a Dongo non c’è più
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perché, notte tempo, è stato trasferito in località segreta. Il presupposto che a Milano non sappiano di questo trasferimento non è plausibile perché difficilmente il trio di comandanti della 2a Brigata Garibaldi, ovvero Bellini delle Stelle, Canali e Moretti avrebbero, di solo loro iniziativa, spostato Mussolini da Germasino dove era momentaneamente custodito dalla Guardia di Finanza, aggiungendoci per giunta la Petacci. Quindi a Milano, come anche risulta da vari particolari, dovevano sapere del trasferimento notturno e comunque il PCI aveva nel trio di partigiani che nascose Mussolini, Michele Moretti un suo uomo di fiducia il quale, se collaborò a quel trasferimento, aveva sicuramente avuto disposizioni in proposito. Ma lo stesso Pier Bellini delle Stelle è molto difficile che non fosse stato incaricato dai suoi superiori, di orientamento moderato e monarchico, nel CVL o nel CLNAI. Ammettiamo comunque che a Milano, in prima mattina, ancora non sappiano che Mussolini durante la notte è stato trasferito in località segreta. Fatto sta, però, che questa mancata informazione ad Audisio si ripete, ancor più gravemente, verso le 11 quando, dalla prefettura di Como, il colonnello telefona a Longo, a Milano, per chiedere disposizioni visto che quelli dal CLN lariani gli facevano problemi. Si racconta che ad Audisio venne detto, a
alla federazione comunista, direttamente da Bonzanigo, Luigi Canali e Michele Moretti, i quali avevano fatto rapporto sul trasferimento notturno. Ai due partigiani era stato detto, dai dirigenti Dante Gorreri e Giovanni Aglietto, che bisognava sentire il partito a Milano e aspettare ordini. Non è pensabile che alle 11, quando Longo venne raggiunto dalla telefonata di Audisio, il partito non avesse ancora ricevuto questa informazione. Ed allora come si spiega che Longo lascia Audisio a bisticciare nel caos di Como e non gli dice almeno di contattare la vicina federazione comunista? Moretti e Canali erano arrivati in federazione comunista tra circa le 6 (così riferì Aglietto) e le (secondo Moretti) del 28 aprile, ma viene raccontato che dopo aver fatto rapporto, incredibilmente, i due – i soli a conoscenza dell’ubicazione del nascondiglio e soprattutto in grado di arrivarci senza che i partigiani lasciati di guardia in quella casa gli sparino contro – vengono lasciati andar via per conto loro e neppure gli viene fatto sapere che in mattinata dovrebbe arrivare da Milano una missione del CVL con l’ordine di prendere Mussolini. Ma altrettanto clamoroso è anche il comportamento di Aldo Lampredi che, giunto a Como con Audisio, si defila di soppiatto portandosi via il capo scorta Alfredo Mordini, l’au-
Nessuno da Milano informa Audisio che Mussolini è stato trasferito da Dongo, permettendogli per giunta di riunirsi alla Petacci. Che i partigiani della 52a abbiano agito di loro iniziativa non è realistico brutto muso, sia pure come modo di dire: «o fucilate lui, o sarete fucilati voi!». Ma, clamorosamente, Longo avrebbe omesso di dire che Mussolini non era più a Dongo da molte ore. Eppure a quell’ora Longo avrebbe ben dovuto sapere del trasferimento di Mussolini in altro luogo. La mattina presto, infatti, a Como erano arrivati
to dello stesso colonnello Valerio e l’autista, certo Giuseppe Perrotta. Lampredi, a sentir lui, si sarebbe recato alla federazione comunista per cercare aiuti nella complicata situazione che si era creata in prefettura. Ma guarda caso, però, egli non torna da Audisio, ma parte per Dongo dopo mezzogiorno, portandosi dietro an-
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che Aglietto e Mario Ferro e dopo che, anche Audisio, era finalmente partito per Dongo. Dice Lampredi che andava a Dongo per contattare Moretti e Canali che erano a conoscenza del nascondiglio di Mussolini. Stranamente però i due gruppi, quello di Audisio e quello di Lampredi, pur percorrendo una strada «a fettuccia» priva di traffico, ma zeppa di posti di blocco partigiani, arriveranno a Dongo quasi alla stessa ora (le 1,1). Anzi, teoricamente, si sarebbero forse anche sorpassati, ma comunque senza che gli uni abbiano avuto sentore degli altri! Intanto a Milano, Longo si comporta in modo abbastanza strano: al mattino presto, partito Valerio non si sa bene cosa faccia. Sembra che stia ancora un po’ al comando del CVL e poi vada agli stabilimenti dell’ex quotidiano mussoliniano «Il Popolo d’Italia» dove prepara le edizioni dell’«Unità». Alle 11, come abbiamo visto, parla con Audisio a Como, poi intorno alle 1 va incontro al comandante Cino Moscatelli in arrivo a Milano con le sue divisioni della Valsesia. Verso le 16 infine tiene un comizio in piazza Duomo. Ebbene, come mai Longo non appare preoccupato che la fucilazione di Mussolini, per imprevisti vari, possa sfumare? Non sembra si informi della missione del colonnello Valerio, eppure Longo, ancora in quel primo pome«Walter Audisio»
La voce «Walter Audisio» esiste su Wikipedia in 4 lingue Accuratezza
Fonti e note
Bibliografia
Controversie
Vetrina in
nessuna lingua
Gendarmi della Memoria
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riggio, non sa più nulla di Audisio il dove da tempo non si fa vedere dai quale, ignaro di dove fosse Mussolini, suoi. In pratica sparisce anche lui di sta per arrivare a Dongo. Un compor- scena, allegro e spensierato in un bel tamento curioso quadretto familiavisto che in quelle re. Lo ritroviamo Longo non mostra stesse ore si stava qualche ora dopo alcuna preoccupazione svolgendo una dela Dongo dove, incirca la riuscita le operazioni più torno alle 1,1, delicate di tutta la della missione inviata vede arrivare il guerra: la presa in plotone di Audisio a fucilare Mussolini consegna del nee se ne preoccupa mico numero uno della Resistenza, un perché insospettito da quei strani parnemico oltretutto conteso dalle forze tigiani che non conosce. A Mussolini moderate e dagli americani. evidentemente non ci pensava più. Stesso copione anche per Luigi CaMa Longo non è il solo ad compor- nali, l’enigmatico Neri. Canali, come tarsi curiosamente in quei frangenti: a Moretti, dopo aver lasciato Mussolini non preoccuparsi apparentemente di e la Petacci a Casa De Maria è andato come sia andata a finire con Musso- dalla federazione comunista di Como lini, c’è anche Pedro il quale è uscito e sembra che subito dopo, assieme a dopo le , da casa dei De Maria dove Gianna e Remo Mentasti, detto Anha lasciato in custodia Mussolini e la drea, suo compagno, debbano pasPetacci. Sembra che sia passato per sare in prefettura dove è in corso un Como, poi intorno alle 8 incontra Bill, riunione del CLN al completo con il Urbano Lazzaro, a Dongo, il quale gli neo sindaco Marnini. Di tutto questo restituisce il comando della brigata però non si hanno però validi risconche aveva preso durante la sua assen- tri mentre sembra più sicuro che Caza. Da questo momento in poi di lui nali sia andato a salutare la mamma e di cosa faccia esattamente, non si sa Maddalena Zannoni (che confermerà più nulla, fino a quando un inaspet- il particolare), ma in prefettura, in tato e indesiderato colonnello Valerio, ogni caso, non incontra Audisio e il dopo le 1,1 non lo tira fuori dal suo suo plotone, arrivati verso le 8,. Caufficio e lo fa venire in piazza a confe- nali arriverà poi a Dongo, anche lui rire. Non risulta che Bellini delle Stelle intorno alle ore 1, forse poco prima abbia informato il comando del CVL di Valerio. o il CNL a Milano o a Como degli ultimi avvenimenti notturni (se invece E Mussolini e la Petacci, a casa De lo ha fatto è veramente sospetto che Maria con i loro guardiani? Dimentiquesto particolare non venga raccon- cati apparentemente. Riconsideriamo tato, né da lui né da chi avrebbe rice- ora questi avvenimenti: Mussolini e vuto l’informazione). Niente. Pare che la Petacci erano stati lasciati in quelsi dedichi a incombenze del momento, la casa di Bonzanigo da circa le del faccia qualche misteriosa telefonata e mattino ed ivi abbandonati assieme ai poco altro. Per lui Mussolini è ben due «carcerieri» (il giovane Guglielmo sistemato e si possono dormire sonni Cantoni Sandrino e Giuseppe Frangi tranquilli. Di fatto sparisce di scena Lino). E’ poco credibile, che Lino e per tutta la mattinata. E’ evidente che Sandrino, due partigiani stanchissigli è stato ordinato di farsi discreta- mi che praticamente non dormono mente da parte. da oltre due giorni, siano stati lasciati, per più di 11 ore filate, nella casa con La «storica versione» recita che, fatto i prigionieri, senza un cambio o un rapporto in federazione comunista, controllo. Oltretutto, poteva esserci Moretti se ne torna a Dongo, passan- il pericolo che l’arrivo verso l’alba in do prima dal paesino di Tavernola casa De Maria fosse stato notato dai
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Il mitra con cui Audisio avrebbe ucciso Mussolini e la Petacci, conservato come cimelio a Tirana
paesani o poteva esser stato confidato a qualcuno dai due contadini; infine, bisognava pur mettere in conto, anche se improbabile, la presenza in giro di qualche gruppetto fascista sbandato e in armi mentre era più concreto il pericolo dell’arrivo di qualche spedizione di servizi o di emissari stranieri, che avevano molte basi nei dintorni, scatenati sulle tracce del Duce. E come escludere l’eventualità che Mussolini potesse, con qualche grossa promessa, vera o falsa che fosse, corrompere i giovani carcerieri? O meglio ancora, che si potesse verificare un tentativo di ribellione o addirittura di suicidio dei prigionieri con risvolti cruenti e imprevedibili? Insomma, possibili imprevisti e variabili erano numerosi e tutti incontrollabili da Dongo o Como dove pure erano andati i responsabili delle ultime decisioni, tutti partigiani di esperienza come Pedro, Neri e Pietro. Per la versione ufficiale, invece, le cose andarono davvero così: nessuno fece apparentemente nulla e si preoccupò di nulla fino all’arrivo del colonnello Valerio poco prima delle 16. Ben undici ore, durante le quali Mussolini e la Petacci avevano tranquillamente dormito, si erano svegliati e avevano mangiato. Undici ore quasi allegre, assurdamente tranquille, fino al sopraggiungere del colonnello Valerio. Ma c’è ancora un altro elemento di riflessione. E’ impossibile che con
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quel prigioniero super ricercato par- sua amante la Gianna, (Tuissi) è un tigiani di così diverso orientamento altro comunista, però atipico, attore con interessi e storie così divergenti no al quale è stato fatto il vuoto atpotessero fidarsi tra loro. E contem- torno: come non pensare che ora non poraneamente per i due autisti, Edo- operi per conto di qualche intelligenardo Leoni e Dante Mastalli: sebbene ce? Eppure, tutti questi personaggi, lasciati con l’imposizione del silen- all’alba del 28 aprile, si dividono apzio, non si poteva avere la certezza pena lasciata Casa De Maria, andanche, a lungo ando ognuno per la dare, confidandoPer 11 ore il Duce e la propria strada, si con qualcuno, Petacci sono lasciati a mostrando vernon facessero «la so gli altri una frittata». C’era poi Casa De Maria con solo improbabile, rePedro che non era due esausti partigiani ciproca e cieca ficerto comunista e ducia? Non è crea far la guardia che aveva sì operadibile. Neppure to in sintonia con gli altri ma aveva dei partigiani inesperti e da operetpur sempre come riferimento diri- ta, avrebbero potuto agire in questo genti non comunisti: a chi avrebbe modo. Se il pomeriggio non fosse dovuto dar conto? Non avrebbe po- sopraggiunto a Dongo Walter Aututo rivelare la prigione di Mussolini disio, fino a quando tutti costoro e far intervenire uomini interessati avrebbero continuato a disinteresa prelevare i prigionieri impeden- sarsi della prigione di Bonzanigo? do la loro immediata esecuzione? E lui stesso, tanto orgoglioso di aver Ci troviamo quindi davanti ad un catturato il dittatore, come poteva quadro irreale e assurdo che si fonfidarsi dei comunisti che, forti del- da su resoconti palesemente improla maggiore efficienza e organizza- babili e omertosi, pieni di lacune: zione, avrebbero potuto imporre le preoccupazioni, ordini, incarichi di loro decisioni (non a caso, infatti, la verifica, sopralluoghi e altro ancora. federazione comunista di Como era Anche per questo è quindi probabile stata subito informata da Moretti e che la «pratica» Mussolini sia stata Canali)? E da parte sua Pietro (Mo- già chiusa lo stesso mattino del 28 retti), che è invece un comunista li- aprile, con la sua uccisione a Casa gio agli ordini di partito, come può De Maria, come del resto dimostragarantire al partito e a se stesso che no molti altri elementi e alcune imaltri non prendano sotto il proprio portanti testimonianze. controllo Mussolini, sottraendolo al Maurizio Barozzi PCI? Anche il Neri (Canali), con la
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SCIENZA&STORIA morti misteriose
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Mussolini fu ucciso in modo completamente diverso da come si racconta: i colpi mortali arrivarono al petto mentre era in maglietta. Poi venne il turno di Claretta Petacci, trucidata alle spalle. Questo dicono medicina legale e tecnologia digitale di fronte a fotografie viste e riviste ma che solo da pochi anni possono svelare particolari decisivi. Si riapre così il dossier sul primo cadavere eccellente della nostra storia recente: perché il dittatore venne rivestito? Cosa si voleva nascondere? di Fabio Andriola |
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SCIENZA&STORIA morti misteriose
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cciso da qualcuno che gli sparava a meno di mezzo metro di distanza, mentre era senza camicia e senza stivali e lontano, almeno un po’, da Claretta. Gli ultimi istanti di Mussolini possono ora essere riscritti: ancora una volta, è vero, perché in fondo siamo in uno di quei gialli senza fine e per questo ricostruiti mille volte in modo diverso, ora per un fatto sostanziale, ora per un dettaglio. Ma questa riscrittura probabilmente è l’ultima. Infatti è ora il turno non del solito testimone più o meno attendibile ma è la scienza a irrompere nel più intricato giallo della nostra storia recente. E forse non solo della nostra. E’ grazie ad un inedito – almeno per l’indagine storica – connubio che si sta facendo finalmente largo la verità su quanto accadde in un orario imprecisato il 28 aprile 1945 in una casa di Bonganigo, frazione di Mezzegra, uno dei tanti paesini che affollano la costa sinistra del lago di Como. Il connubio, nato per aiutare le indagini delle più importanti polizie del mondo, è quello formato dalla medicina legale e dall’informatica digitale. Foto vecchie di decine d’anni possono da poco tempo rivelare particolari impensabili e dare così agli occhi esperti di inquirenti e anatomopatologi nuovi elementi di valutazione. Una tecnica combinata che, per restare all’Italia, è stata applicata intorno a casi celebri della nostra cronaca nera (dal Mostro di Firenze al Caso Ilaria Alpi solo per citarne due) da un piccolo ma qualificatissimo gruppo nato a Pavia, intorno alla cattedra di Medicina legale retta dal professor Giovanni Pierucci.
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I corpi di Mussolini e della Petacci sul selciato di piazzale Loreto. Qualcuno ha messo fra le mani dell’ex dittatore un asta di bandiera a mo’ di scettro
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Tra tanti casi da risolvere su cadaveri recenti, Pierucci e i suoi si dedicano da qualche tempo anche a due cadaveri eccellenti, quelli, appunto, di Benito Mussolini e Claretta Petacci. E un pugno di foto terribili, quelle scattate a Piazzale Loreto a Milano la mattina del 29 aprile 1945 e quelle scattate suc-
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cessivamente all’obitorio milanese fino alle ultime fasi dell’autopsia fatta sul corpo di Mussolini, si sono rivelate sufficienti per riscrivere un pezzo di storia avvolto da sempre nel mistero. Quelle foto, opportunamente trattate al computer, hanno infatti svelato particolari che, incrociati con le osservazioni fatte sul tavolo d’autopsia dal professor Mario Cattabeni la mattina del 30 aprile 1945 e con le odierne conoscenze tanatologiche (thanatos in greco vuol dire «morte») e balistiche ci restituiscono una dinamica dei fatti decisamente lontana da quella che, a firma «Colonnello Valerio». Quella versione è apparsa a più riprese sull’organo dell’ex PCI, «L’Unità» già a ridosso degli eventi e poi più e più volte fino al libro postumo, uscito negli anni Settanta, titolato «In nome del popolo italiano» e firmato «Walter Audisio». Già, perché dal 1947 era venuto fuori che il terribile Valerio che, urlando e imprecando, era piombato sul lago di Como, aveva dispensato ordini e fucilato, oltre a Mussolini e – per sbaglio? – la Petacci, una quindicina di persone, era un certo ragioniere di Alessandria, con qualche precedente per antifascismo e una lunga militanza nel reparto amministrativo della famosa fabbrica di cappelli, la «Borsalino». E quel ragioniere rispondeva al nome di Walter Audisio. Per gli incredibili svarioni, spesso corretti o sostituiti con altri particolari rivelatisi non meno imprecisi, dei suoi racconti Audisio-Valerio non è mai stato preso molto sul serio. E quanto arriva dai laboratori dell’università di Pavia sembra confermare la sensazione che Audisio, in un modo o nell’altro, fece la parte della testa di legno. Una parte pesante, a tratti imbarazzante perché in fondo si trattava pur sempre di passare alla Storia per aver ammazzato qualcuno. Ma una parte ben ricompensata: il PCI in-
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Il cancello di Villa Belmonte, a Giulino di Mezzegra (Como) è un luogo noto e imbarazzante per l’amministrazione locale che lo indica con un cartello che è un capolavoro di ipocrisia.... fatti lo fece eleggere per più legislature in Parlamento e poi gli trovò un posto tranquillo all’ENI dove già aveva trovato stipendio almeno un altro dei protagonisti dei fatti di Dongo e dintorni: quel Pier Bellini delle Stelle che catturò Mussolini e poi se lo vide portar via, lui che comunista non era, dai suoi compagni di brigata che invece erano
comunisti tutti d’un pezzo. Ma sia che Audisio abbia realmente svolto la parte del leone nell’uccisione di Mussolini sia che sia stato un comprimario, resta il fatto che il suo racconto faceva acqua da tutte le parti già prima che Pierucci e i suoi ufficializzassero il frutto delle loro ricerche. Ma ad aggiungere mistero al mistero bisogna anche ricor-
In questa fotografia il professor Giovanni Pierucci, fino a pochi anni or sono titolare della cattedra di Medicina Legale all’Università di Pavia, con alcuni dei suoi collaboratori (il dottor Bello, la dottoressa Carlesi e la dottoressa Chen). Pierucci ha coordinato il gruppo di esperti che ha riaperto il «caso Mussolini»
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29-30 aprile 1945: l’ultimo «bagno di folla»
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Nella pagina a fronte il cancello di Villa Belmonte nel 1945 e (in questa pagina) come si presenta oggi. Nel riquadro, il cartello turistico
...ma l’ipocrisia più grande è forse quella che ancora oggi punta a collocare in questo punto il luogo in cui Mussolini e la Petacci vennero giustiziati come ha raccontato il colonnello Valerio dare che anche altri protagonisti di quelle drammatiche ore hanno, alla luce di quanto oggi scienza e tecnologia ci dicono, dato una versione dei fatti che ormai non sta più in piedi. Anche perché quasi tutti hanno seguito il canovaccio fissato a caldo da Valerio con suo resoconto (non firmato) su «L’Unità» del 30 aprile 1945, cioè andato in edicola quasi in contemporanea con l’inizio dell’autopsia all’Istituto di Medicina Legale di Milano. Canovaccio che, limato e rivisto a più riprese, ha trovato una «sistemazione» nel libro «In nome del popolo italiano» che Audisio scrisse all’inizio degli anni Settanta e che verrà pubblicato nel 1975 dopo la sua improvvisa morte nell’ottobre 1973 per un attacco di cuore. Cosa ha raccontato per una vita ValerioAudisio? Ha raccontato di essere andato sul lago di Como, per ordine dei vertici della Resistenza a Milano, con l’incarico di fare immediatamente giustizia; ha raccontato di essere stato prima a Dongo (ove erano prigionieri tutti i membri della colonna Mussolini fermata il
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giorno prima nel paese immediatamente precedente, Musso) e poi, verso le 15, a Bonzanigo dove andò a prendere Mussolini e la Petacci per fucilarli davanti ad un cancello, quello ormai celebre di Villa Belmonte, distante poche centinaia di metri dalla Casa De Maria dove i due prigionieri avevano passato la notte. Una incongruenza cui se ne assommeranno molte altre nel giro di pochissimo tempo: Valerio racconta di aver sparato al petto a Mussolini mentre poco dopo, tornato a Dongo, insisterà in modo maniacale perché i 15 fascisti (alcuni ministri e parecchi poveri cristi senza particolare peso specifico) che ha deciso di fucilare vengano giustiziati da traditori, e quindi alle spalle; racconta che la Petacci morì per sbaglio («La Petacci, fuori di sé, stordita, si era mossa confusamente, fu colpita anche lei e cadde di quarto a terra. Erano le 16,10 del 29 aprile 1945») quando poco prima tutti, nel Municipio di Dongo, l’avevano sentito dire «Claretta Petacci: a morte!» anche se, a prescindere dall’assenza di accuse e condan-
Piazzale Loreto, tarda mattinata del 29
Milano, obitorio: sera del 29 aprile
Milano, obitorio: prima mattina del 30
Milano, obitorio: tarda mattinata del 30
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I protagonisti dell’eccidio di Giulino di Mezzegra: giustizieri e testimoni
Walter Audisio, nome di battaglia Colonnello Valerio: ufficialmente avrebbe fatto tutto lui, ma il suo racconto fa acqua da ogni parte
Aldo Lampredi, alto funzionario del PCI. Era a Giulino ma ha riferito alcuni dettagli diversamente da Audisio. Però anche il suo racconto non regge
Michele Moretti, partigiano comunista di Como. La sua testimonianza è smentita dai riscontri scientifici e fotografici
ne pendenti sulla donna, all’epoca nessuno praticamente sapeva chi fosse e soprattutto che faccia e che ruolo avesse l’amante del Duce; racconterà anche dopo la pubblicazione dell’autopsia di Cattabeni (che indica nove colpi ricevuti in vita dal dittatore) di aver esploso cinque colpi di mitra (un MAS calibro 7,65 di fabbricazione francese) la cui storia meriterebbe un capitolo a parte visto che, a seconda delle
ta nella montagna»; strade percorse in discesa che invece dovettero essere fatte in salita; l’indicazione della presenza con lui di uno che sicuramente non c’era: Urbano Lazzaro, detto Bill, uno che di suo ha comunque contribuito ad ingarbugliare le cose nel dopoguerra...).
alterare la dinamica sostanziale: arrivo a Bonzanigo (Casa De Maria) nel primo pomeriggio del 28 aprile, prelevamento dei due prigionieri, esecuzione di entrambi a Villa Belmonte (Giulino di Mezzegra), rientro a Dongo, fucilazione in piazza dei 15 fascisti prescelti più Marcello Petacci, il fratello maneggione di Claretta, caricamento di tutti i cadaveri sul camion con cui Valerio e i suoi erano arrivati da Como, sosta a Mezzegra per caricare i corpi di Mussolini e della Petacci e poi di corsa a Milano per la macabra esposizione a Piazzale Loreto. In questo quadro si sono avute però alcune sostanziali divergenze: ad esempio Aldo Lampredi, un alto e fidato dirigente comunista che andò con Audisio sul Lago, dirà che Mussolini, invece di essere balbettante e tremebondo come lo descrisse Audisio, aveva aperto il pastrano (particolare che si rivelerà di grande interesse come vedremo) e sfidato i suoi esecutori: «Sparate al petto». Michele Moretti, uno dei più sicuri uomini del PCI nel Comasco e commissario politico della 52a Brigata Garibaldi, la formazione partigiana che aveva fermato la colonna italo-tedesca a Musso il 27 aprile, anche lui presente
Come si è detto altri protagonisti di quelle vicende hanno dato nel tempo versioni diverse senza però
Nell’autopsia di Mussolini si trascurarono particolari importanti a cominciare dall’esame del corpo vestito e non lavato. Indumenti e pelle infatti possono fornire al medico legale notizie preziose soprattutto di carattere balistico versioni, venne smembrata per darne un pezzo-ricordo a tutti i protagonisti ovvero venne spedita a Mosca quale omaggio dei comunisti italiani a Stalin ovvero finì in Albania con tanto di expertise firmata da Audisio che negli anni Cinquanta la donò al dittatore comunista albanese Hoxha. E si potrebbe andare avanti ancora molto con l’elenco degli svarioni, delle incongruenze e dei veri e propri errori presenti nel racconto di Audisio-Valerio (Casa De Maria, una casa di tre piani visibile a grande distanza e inserita nel paese, definita «casetta a mezza costa, incastona-
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In rosso i colpi ricevuti in vita da Mussolini (in blu i corrispondenti fori di uscita indicati dall’autopsia): secondo Cattabeni furono nove, per gli esperti di Pavia potrebbero essere 11
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Pier Bellini delle Stelle, Pedro: benché messo da parte dai comunisti conserverà sempre uno stretto riserbo sulla storia
Lia De Maria: Mussolini e la Petacci vennero portati a casa sua. Era tra i pochi che sapevano ma non ha mai detto molto, forse per paura
Dorina Mazzola, vicina di casa dei De Maria: la mattina del 28 aprile 1945 vide e sentì cose che non collimano con la versione di Valerio
a Giulino di Mezzegra, confesserà poco prima di morire negli anni Novanta che un attimo prima della raffica fatale Mussolini aveva invece gridato «Viva l’Italia!»... E poi l’autista che aveva condotto Valerio, Lampredi e Moretti da Dongo a Bonzanigo, Giovanbattista Geninazza, o uno dei due partigiani che avevano sorvegliato Mussolini a Casa De Maria (ma si lascia un personaggio così importante con due soli ragazzini di guardia in momenti come quelli?), Guglielmo Cantoni detto Sandrino che nel dopoguerra, torchiati da vari giornalisti, dissero e non dissero, facendo capire di sapere qualcosa ma di non aver visto davvero ogni cosa e, soprattutto, di avere una gran fifa. E così, a mezza bocca, confidarono solo qualcosa, facendo però capire che Valerio non l’aveva raccontata
giusta ma che a Villa Belmonte c’era stata la fucilazione e che Mussolini e la Petacci erano morti più o meno come s’era sempre detto. Ma raccapezzarsi nel dedalo di confidenze, depistaggi, testimonianze «inedite», memoriale annunciati e spariti, false identificazioni e teorie varie richiederebbe diversi interi numeri di «Storia in Rete». In questi sessantuno anni, tanti ne son passati dalle grigie giornate di Dongo e dintorni, sono almeno 18 le versioni della morte di Mussolini che si sono via via affacciate mentre i possibili «giustizieri» oltre ad Audisio sarebbero una decina.
lesi, altre hanno chiaramente mirato a depistare. Sul fronte storicogiornalistico le tappe fondamentali della ricostruzioni di quei fatti sono riconducibili al lavoro di alcuni giornalisti d’inchiesta: primo tra tutti, anche in ordine di tempo, fu Ferruccio Lanfranchi del «Corriere della Sera» che già nell’estate del 1945 avvertì puzza di bufala nei racconti diffusi dall’«Unità» e prese ad indagare aiutato da un giovane cronista alle prime armi: Franco Bandini. Già nell’autunno 1945 l’inchiesta di Lanfranchi costrinse il PCI a fornire una versione diversa dei fatti. Poi negli anni Cinquanta il testimone passò a Bandini e ad un altro cronista di razza, Giorgio Pisanò. Poi sono arrivati Luciano Garibaldi e, negli anni Novanta, l’importante ricostruzione di
Fare ordine non è stato facile: molte inchieste hanno aiutato a chiarire alcuni passaggi, altre a smascherare bugie più o meno pa-
Casa De Maria come era nel 1945 e come è oggi. La foto a colori mostra più o meno a quale distanza (ma senza gli alberi, che all’epoca non c’erano) Dorina Mazzola poté osservare cosa accadeva nel cortile dei De Maria la mattina del 28 aprile 1945
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Una delle prime immagini scattate il 29 aprile 1945 a piazzale Loreto. L’applicazione di un filtro particolare mostra che sul giaccone del Duce (di foggia inconsueta, altro particolare anomalo) non ci sono fori di proiettile, sia quelli noti che quelli individuati a Pavia
un avvocato ammalato di storia, te vestito, altrettanto sicuramente Alessandro Zanella. Ma tutte que- i colpi che lo avevano raggiunto ste inchieste avevano un «difetto»: in vita erano stati sparati da più persone e da trascuravano, Benché raggiunto da a ngola zioni a vantaggio della logica almeno 9 colpi, a Piazzale diverse, fore di alcune Loreto Mussolini indossava se nel corso di un furioso impor tanti un giaccone che non corpo a corpo testimonianze, l’aspetto presentava fori di proiettile. che, a questo punto, non scientifico e Come è possibile? poteva che esmedico lesersi verificato gale. Ed è da qualche tempo proprio questo in Casa De Maria ben prima delle aspetto l’unica speranza per po- 16,10 del pomeriggio del 28 aprile ter fare un po’ di luce su uno dei 1945. Le «armi» di Alessiani? Una gialli più complicati della storia, grande esperienza e la meticolosa non solo italiana. Se non altro per osservazione delle foto, messe in dire come non andarono le cose. modo cronologico, scattate il 29 In qualche modo un apripista c’è aprile 1945 a Milano e il loro instato: si chiamava Aldo Alessiani e crocio con le notizie contenute nel già a metà degli anni Ottanta aveva verbale d’autopsia. Un verbale purintuito alcune cose che ora hanno troppo lacunoso sia perché redatto trovato conferme, integrazioni e in circostante di tempo e luogo non approfondimenti (oltre a qualche ideali (lo stesso Cattabeni scrivecorrezione) nelle ricerche condotte rà della pressione psicologica e del dal professor Pierucci a Pavia. Cosa disturbo arrecato dalle continue aveva capito Alessiani, un medico intrusioni nella sala settoria di genlegale di Ascoli Piceno poi stabili- te che voleva verificare la morte di tosi a Roma, basandosi sulle foto di Mussolini e/o inveire sul cadavere) Piazzale Loreto, su quelle scattate sia perché furono trascurate alcune all’obitorio di Milano e sulla – per fasi fondamentali in qualunque aucerti versi lacunosa – autopsia fat- topsia a cominciare dall’esame del ta su Mussolini? Aveva capito che corpo vestito e non lavato. Induil dittatore era stato ucciso in cir- menti e pelle non lavata infatti poscostanze sicuramente diverse da sono fornire al medico legale nuquelle raccontate da Valerio-Audi- merose e importanti informazioni, sio e dagli altri: probabilmente c’era soprattutto di carattere balistico, stata una collutazione, sicuramente perché ogni colpo d’arma da fuoco il dittatore non era completamen- lascia tracce di polvere, di affumi-
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catura, di bruciature, aloni e fori che permettono di ricostruire ad esempio la distanza di sparo, l’inclinazione dei fori d’entrata e uscita e, a volte, il tipo di arma usato. Quello che Alessiani non poté vedere ma solo intuire è stato invece visto e approfondito dai computer usati dal piccolo gruppo di ricerca che si è formato intorno al professor Pierucci a Pavia: Francesco Gavazzeni, esperto informatico, Gabriella Carlesi e Gianluca Bello, medici legali. La base di partenza è stata infatti la rivoluzione digitale che sta stravolgendo la vita dell’uomo da qualche anno: le nuove tecnologie messe a punto in campo informatico aprono nuovi campi di ricerca ad esempio nelle indagini criminali. Le più importanti polizie del mondo lavorano ormai abitualmente su foto di cui il computer può leggere una scala di milioni di variazioni del colore mentre un occhio umano ne può cogliere solo alcune migliaia. Insomma, i computer oggi possono vedere cose che l’occhio umano non potrebbe vedere mai da solo. Questo vale per ogni cosa, comprese vecchie foto in bianco e nero di sessant’anni fa. Come quelle scattate a Piazzale Loreto. Ed è così, che per prima cosa, il gruppo di Pavia si è messo a studiare le prime fotografie realizzate a Milano, sui cadaveri scaricati da poco dal camion proveniente da Dongo.
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Gli effetti di un colpo esploso a pochi centimetri di distanza su una maglietta del tipo di quella indossata da Mussolini. Effetti simili sono stati evidenziati sulle foto scattata a Piazzale Loreto: segno che quando fu colpito Mussolini indossava solo quell’indumento
L’applicazione di speciali filtri ha permesso quindi di analizzare il busto di Mussolini e scoprire, con una certa sorpresa un primo dato fondamentale: benché raggiunto da almeno nove colpi in vita Mussolini indossa un giaccone che non presenta fori di proiettile! Infatti un foro, anche minimo, dovrebbe produrre un’alterazione di colore (in questo caso nella scala dei grigi) che in questo casa manca in maniera clamorosa anche perché i fori dovrebbero essere molti. Unica spiegazione possibile: quel giaccone (tra l’altro di foggia non militare e con un vistoso bottone allacciato in alto a destra all’altezza del collo) è stato fatto indossare ad un Mussolini ormai cadavere. Un cadavere che poche ore dopo, spogliato in parte e appeso per i piedi al famoso traliccio del distributore di benzina di Piazzale Loreto, avrebbe rivelato altri dati importanti. A cominciare da una maglietta letteralmente intrisa di sangue in corrispondenza non solo dei sette colpi ricevuti tra spalla, petto e base del collo ma anche nella zona addominale dove si vedono con chiarezza i risultati di due colpi, curiosamente non rilevati nell’autopsia di Cattabeni. I rilievi
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fotografici e digitali hanno rilevato stro (che ha a lungo attirato l’attenin corrispondenza di questi colpi zione per la sua anomalia) mostra (soprattutto quelli all’altezza della che probabilmente ebbe il tempo di spalla sinistra e quelli all’addome), fare un gesto automatico di difesa, in mezzo alle macchie di sangue la portando istintivamente il braccio presenza del caratteristico alone a protezione del volto. Un gesto che di polvere incombusta e di micro- ha un senso in un contesto confuparticelle che ogni colpo d’arma da so, in una lotta non nel caso di una fuoco deposita sul corpo colpito se esecuzione vera e propria, dove lo lo sparo è avvenuto ad una distan- scarno rituale porta in genere il za non superiore ai 50 cm. Il raf- condannato a non muoversi. fronto tra l’alone di polvere e altri dati riscontrati in corrispondenza Altra conclusione: Valerio-Audidei colpi noti e quanto rilevato in sio ha raccontato di aver sparato presenza dei colpi all’addome pre- cinque colpi mentre l’autopsia parsenta un quadro la di nove colpi. assolutamente Claretta potrebbe esser E ora sembra si uniforme: in possa salire adstata colpita alle spalle, tutti i casi codirittura a undipiosi versamenti ci quasi tutti, se rovinando in terra di sangue, fori e provocandosi le lesioni non tutti, spasicuramente rati ad un uomo in limine mortis al setto in maglietta e d’entrata, un alone che rivela ad una distanza nasale e agli zigomi una distanza di molto ravvicinasparo tra i 30 e i 40 cm. Conclu- ta. Non si fucila una persona spasione: le polveri e i versamenti di rando a mezzo metro di distanza! sangue dimostrano che Mussoli- Ma c’è dell’altro. Dell’altro che rini, quando fu colpito, non aveva guarda Claretta Petacci. Sulla gioaddosso che la maglietta con cui vane donna (una figura meno limarrivò fino all’obitorio di Milano e pida e romantica di quello che si è forse i pantaloni. E il colpo entrato sempre voluto credere, ma questo nella parte interna del braccio de- sarà, prossimamente, tema di un
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La Petacci a Piazzale Loreto: sul corpo della donna è possibile individuare alcuni colpi che la raggiunsero alle spalle in vita
altro articolo) non venne fatta nes- i segni escoriazioni e tumefazioni). suna autopsia per esplicito ordine Si può concludere che la donna sia del Comitato Liberazione Nazio- stata picchiata in vita? Pierucci e i nale Alta Italia e le foto che le ven- suoi sono molto prudenti su questo nero scattate furono molto meno punto anche perché la stessa foto, a di quelle fatte a Mussolini. Tutta- proposito dei fori di proiettile visivia, una fotografia in particolare, bile, racconta altre cose e suggerisce scattata alla donna sul selciato di altre dinamiche. Infatti alcuni dei Piazzale Loreto prima del macabro colpi al petto sono sicuramente fori appendimento, è in grado di forni- di uscita, segno che la donna fu colpita alle spalle re importanti da una raffica informazioni. Il punto di domanda è che potrebLa donna, con una espres- uno: quale importanza mai be averla fatta poteva avere spostare il cadere pesansione stranain mente serena, luogo della morte del Duce temente avanti, faccia a non ha perdudi poche ore e di qualche terra. Una cato la sua belcentinaio di metri? duta rovinosa, lezza: giacca del tailleur mortale, che e camicetta sono aperte sul petto può, con una certa probabilità, aver trafitto da numerosi colpi, la testa provocato la frattura del setto nareclinata sulla sinistra. La guancia sale e le forti contusioni ad occhio destra mostra i segni di un violento e zigomo. Si tratterebbe in conclucalcio dato con una scarpone che sione di lesioni «in limine mortis» ha lasciato sulla pelle l’impronta cioè sul confine della morte il cui della propria suola. Ma la medicina sopraggiungere non impedisce al legale ci dice che quel calcio (per corpo, per un brevissimo periodo, questo ancora più infame) è stato di continuare a funzionare. dato quando Claretta era già morta. Mentre le tumefazioni al naso e tra Il poco che è ricavabile dalla foto lo zigomo e l’occhio destri sono «le- di Claretta Petacci è però suffisioni vitali» (riconoscibili, come nel ciente a smentire ancora una volta caso dei colpi d’arma da fuoco rice- il racconto di Valerio e rafforzare vuti in vita, dal fatto che la presen- quello che in qualche modo la genza di un’attività cardiaca e quindi te del Lago di Como sussurra da della pressione sanguigna, portano sempre, da quando cioè si è preso a ad una concentrazione di sangue in parlare – anche grazie ad una foto corrispondenza della lesione: da qui poco nota – della pelliccia di visone
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che indossava Claretta al momento della morte. Pelliccia che finita nelle mani del partigiano Luigi Conti (poi sindaco di Dongo) è stata fotografata nel maggio 1945 da Amedeo Giovenzana, fotografo dilettante di Gravedona. Quella foto mostra uno squarcio ben evidente, al centro della schiena, un palmo abbondante sotto il livello delle scapole. Mussolini svestito, Claretta vestita. Lui colpito di spalle, lei di schiena. Colpi: per lui 9 o undici, per lei almeno quattro tutti concentrati tra lo sterno e il seno sinistro. Anche a prescindere dalle tante imprecisioni e incongruenze, già da questi rilievi la versione di Valerio e degli altri perde ogni consistenza. Ma, ad abundantiam, possiamo ancora aggiungere un altro paio di macigni in grado di seppellire definitivamente l’esecuzione di Villa Belmonte e i suoi testimoni. Il primo macigno è rappresentato da uno stivale sdrucito e che può ancora oggi essere osservato in una teca accanto alla tomba di Mussolini a Predappio. Era lo stivale destro del dittatore: alcune immagini di Piazzale Loreto lo mostrano con la parte superiore completamente rovesciata all’esterno e oggi si nota la cerniera lampo rotta. Già Alessiani aveva collegato questo particolare ad una possibile rivestizione del cadavere. I partigiani, cercando di infilare lo stivale ad un corpo già irrigidito dal rigor mortis, avrebbe faticato a calzarlo e nei vari tentativi avevano rotto la lampo col risultato che il piede era stato inserito nella calzatura ma la parte del gambale era restata libera di muoversi come ben si vedrà a Piazzale Loreto. Il secondo macigno è una testimonianza. L’ultima in ordine di tempo a venir fuori e raccolta nel 1996 da Giorgio Pisanò che la pubblicò nel suo libro «Gli ultimi cinque secondi di Mussolini» (Il Saggiatore). E’ la testimonianza di Dorina Mazzola, una donna che il 28 aprile 1945 aveva 19 anni e abitava meno di 200 metri da Casa De
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È on line “Mussolini, una morte da riscrivere”
«S
toria Doc» (www.storiadoc.com) il portale del documentario storico creato da «Storia in Rete» consente di guardare in streaming il documentario «Mussolini, una morte da riscrivere». Un’inchiesta che grazie alle più recenti tecniche medico legali e digitali porta a conclusioni molto diverse dalla versione ufficiale a proposito della morte di Mussolini. Oggi, sulla scorta di analisi innovativa condotte su foto e filmati scattati nell’aprile 1945 a Piazzale Loreto e all’Istituto di Medicina Legale di Milano, si può sostenere che il dittatore fu ucciso e poi rivestito, secondo modalità e probabilmente tempi diversi da quelli di Claretta Petacci. Ma perché quella messinscena? n
Il documentario è in streaming su StoriaDoc a solo ,$ fino al giugno http://storiadoc.com/mussolini-una-morte-da-riscrivere/ Maria. Duecento metri rappresentati da un prato che oggi ha qualche albero ma che allora era completamente sgombro. Una buona visuale e il silenzio dei paesi di sessant’anni fa consentirono alla Mazzola di vedere e sentire cose che si attagliano alla perfezione con quanto emerge dalle ricerche svolte a Pavia. Brevemente: la ragazza, verso le 10 del mattino del 28 aprile, sentì urla e spari provenire da Casa De Maria, una quindicina di persone si affannavano dentro e fuori la casa e nel cortile. Tra queste notò una persona calva e in maglietta (un particolare che la colpì perché aveva piovuto da poco e faceva freddo) che camminava a fatica nel cortile. Da una finestra una donna urlava disperata. Poi una raffica di mitra e un po’ di silenzio. Poco dopo, dalla stradina che scende da Casa De Maria verso il lago e che passa accanto alla casa dei Mazzola, Dorina vide tre persone che camminavano lentamente e una donna, in lacrime, che li seguiva. L’uomo al centro era trascinato dagli altri due, la testa era reclinata sul petto: insomma era un corpo morto. La donna gridava: «Cosa
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vi hanno fatto! Come vi hanno ridotto!». Con il suo modo di fare era un evidente ostacolo alla marcia dello strano corteo. E quando si avvicinarono altri uomini armati si udirono altre urla e poi, poco prima che il campanile della Chiesa di Bonzanigo suonasse mezzogiorno, una raffica di mitra. Solo dopo qualche tempo Dorina scoprì che i due erano Mussolini e la Petacci. Questo è ciò che si può dire oggi, allo stato delle conoscenze storiche, scientifiche e medico legali. Restano ancora molti punti interrogativi: cosa accadde veramente quella mattina? Perché si dovette inscenare qualcosa a Villa Belmonte nel pomeriggio? Chi erano i reali protagonisti di quei momenti? Solo partigiani del luogo o anche uomini arrivati da Como o Milano? Erano solo italiani o come qualcuno ha detto (cfr. Luciano Garibaldi «La pista inglese») c’erano anche agenti stranieri? In fondo Villa Henderson, di proprietà di uno dei più importanti rappresentanti della comunità inglese in Italia fin dagli anni Venti, sir James Henderson, è
a soli 700 metri da Casa De Maria e il suo imbarcadero direttamente sul lago avrebbe potuto consentire movimenti in arrivo e partenza discreti e rapidi... Ma il punto interrogativo più grande rimane uno e, in qualche modo, comprende e riassume tutti gli altri: quale grande importanza politica prima e storica poteva avere spostare di qualche centinaio di metri il luogo e di poche ore ore l’ora di morte di un prigioniero la cui sorte, probabilmente, era comunque segnata? Con miope supponenza molti storici, incapaci di districarsi in un groviglio di fatti, nomi e moventi, hanno spesso liquidato tutta la questione dicendo che il come e il quando morì Mussolini ha poco interesse per la Storia. Eppure, per non dire quel «come» e quel «quando» si mossero per anni potenti forze decise a non far trapelare qualcosa che evidentemente temevano fortemente. Oggi possono sembrare sottigliezze. Eppure per qualcuno non lo sono state per decenni. Fabio Andriola [email protected]
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ANTICIPAZIONI La «pista inglese»
Così gli inglesi giocarono gli americani Rilanciata da un libro del francese Milza, la «Pista Inglese» - cioè il possibile coinvolgimento britannico nella brutale uccisione di Mussolini e Claretta Petacci - era già stata articolata anni fa dal nostro Luciano Garibaldi in «La Pista Inglese» (del 2002) e quindi in un volume pubblicato negli Stati Uniti nel 2004, «Mussolini: the secrets of his death». Ecco il capitolo di quel libro, che Milza ha ricalcato, ma non ha citato (come molti altri, del resto...) di Luciano Garibaldi
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ANTICIPAZIONI La «pista inglese»
er capire come fu possibile, a un ristretto ma agguerrito gruppo di agenti britannici del SOE (Special Operations Executive), giocare in tutto e per tutto i loro colleghi dell’agguerritissimo OSS (Office of Strategic Services) americano e arrivare prima di essi sull’obiettivo numero uno, ossia Benito Mussolini, è necessaria una premessa storica. Fin dall’entrata in guerra degli Stati Uniti contro l’Italia, dopo il proditorio attacco giapponese di Pearl Harbour del 7 dicembre 1941, il governo del presidente Roosevelt si era trovato in difficoltà con la vasta comunità di origine italiana che pure lo aveva sostenuto durante la campagna elettorale. Questa comunità era infatti, in grandissima maggioranza, di sentimenti fascisti e ammirava sinceramente Mussolini, l’uomo che aveva saputo trarre l’Italia – il loro Paese e il Paese dei loro padri – da una condizione di serie B per innalzarlo al ruolo di potenza mondiale. Oltre ai ben sei milioni di votanti di origine italiana, si erano stabiliti negli Stati Uniti numerosi fuoriusciti antifascisti, alcuni di essi uomini di grande prestigio, come il musicista Arturo Toscanini, lo scienziato atomico Enrico Fermi, lo storico Gaetano Salvemini, il fondatore del Partito popolare (cattolico) don Luigi Sturzo, l’ex ministro degli Esteri Carlo Sforza, l’ex comandante delle Brigate Internazionali in Spagna Randolfo Pacciardi. Per un certo periodo questi fuoriusciti, riuniti nella «Mazzini Society», accarezzano l’idea, lanciata da Max Ascoli, presidente della Società, di dar vita ad una Legione italiana di combattenti da impiegare a fianco dell’US Army. Candidato a comandarla è Randolfo Pacciardi, date le sue indubbie capacità militari. Ben presto, però, l’idea decade, anche perché, su pressione del dipartimento di Stato, Max Ascoli viene convinto ad accettare nell’organizzazione alcuni esponenti moderati della comunità italo-americana, che non hanno alcuna intenzione di prendere le armi per sparare contro soldati italiani. Un documento della Foreign Nationalities Branch dell’OSS datato 3 agosto 1943 distingue, all’interno della comunità italiana, una destra, una sinistra e un centro. Decisamente maggioritaria è la destra, che fa capo all’«American Committe for Italian Democracy», presieduto dal giudice Ferdinando Pecora e conta fra i suoi aderenti il giudice Felix Forte di Boston, animatore dei «Sons of Italy» (500 mila aderenti), il famoso giornalista Generoso Pope, editore e direttore de «Il progresso italoamericano», il quale – tra l’altro – non ha mai nascosto la sua aperta ammirazione per il Fascismo, Charles Fama, presidente dell’Ordine dei Medici di New York, e così via. Portavoce privilegiato del Comitato è il giornalista Drew Pearson, della catena editoriale Hearst. Al Comitato aderiscono altresì una figura internazionale come Amedeo P. Giannini, fondatore e presidente della Bank
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Il misterioso Fallmeyer
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allmeyer viene di volta in volta definito dai protagonisti di quelle ore, tenente, capitano, tenente colonnello. Queste contraddizioni sono solo apparenti. Il tenente Fallmeyer era la maschera. Ma chi c’era dietro questa maschera? Chi era effettivamente questo tenente Fallmeyer, che nessun giornalista, nessuno storico, riuscirà a rintracciare dopo la guerra? Sicuramente qualcuno che poteva ordinare qualunque cosa a Fritz Birzer ed esserne rapidamente obbedito. Appunto, un ufficiale superiore, forse proprio un tenente colonnello, che doveva avere credenziali assolutamente irrefutabili (e per chi conosce le gerarchie militari, è evidente che fossero molto probabilmente credenziali del servizio segreto). Che fosse depositario di una altissima
autorità è assolutamente certo, altrimenti non si potrebbe spiegare come un ufficiale delle SS come Birzer, investito di una missione così importante, sotto l’influenza di un pari grado della Wehrmacht addetto tra l’altro a servizi logistici, come ufficialmente si era qualificato Fallmeyer, potesse in pochi minuti decidere la sorte di Mussolini. L’autorità di Fallmeyer doveva di conseguenza essere tale da garantire in maniera completa Birzer. In questa luce si spiega anche l’asciutto rapporto di Birzer su quei fatti redatto, guarda caso, a richiesta di Wolff, ben cinque anni dopo, nel 1950, quando l’inasprirsi della guerra fredda poteva far temere una sterzata nella politica occidentale» [tratto da Luigi Imperatore, «I giorni dell’odio», Ciarrapico, Roma, 1981, pagg. 163-64] n
segreto del marzo 1945 firmato da Earl Brennan, capo del Secret Intelligence, e diretto al dipartimento di Stato, «da un pugno di personaggi pagati dagli inglesi o sotto la loro diretta influenza, come Gentili, Max Salvadori, Emilio Lussu, Alberto Cianca, la maggior parte dei quali sono leader e attivi ai vertici del Partito d’Azione e almeno due dei quali (Gentili e Salvadori) è risaputo essere membri dei servizi segreti inglesi». Peraltro, è di tutta evidenza che gli interessi americani e quelli britannici, nei confronti del futuro della penisola, non coincidevano. Già in un rapporto OSS datato 14 agosto 1944 e riportato nel libro «Gli Americani in Italia», si poteva leggere: «La Gran Bretagna mira all’eliminazione di ogni minima minaccia italiana sulle vie di comunicazione dell’impero britannico che collegano il Mediterraneo al Mar Rosso e all’Oceano Indiano, e alla completa dipendenza economica e politica dell’Italia rispetto all’Inghilterra. La Gran Bretagna perciò vuole in Italia un regime conservatore che garantisca l’esecuzione del trattato di armistizio, blocchi la minaccia comunista e tenga una linea favo-
Mussolini con al fianco il capo della scorta tedesca, tenente Fritz Birzer, che lo abbandonerà poco dopo, forse per ordine del tenente Fallmeyer
Non è improbabile che la cattura di Mussolini fosse stata preordinata e organizzata nei particolari grazie a un accordo tra il generale delle SS Karl Wolff e i servizi segreti britannici of America, il colonnello Charles Poletti, che diventerà governatore prima di Palermo, poi di Roma e di Milano, e il parlamentare Thomas D’Alessandro. «Insomma, il fior fiore dell’antica colonia fascista che, per le elezioni italiane del 1948, si impegnerà in una furibonda campagna contro il Fronte Popola-
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re». Delusi dalle remore del dipartimento di Stato e dalle sue paure di perdere l’appoggio elettorale della stragrande maggioranza degli oriundi italiani, alcuni fuorusciti decidono di allearsi con gli inglesi e di mettersi al loro servizio. È il caso di Alberto Tarchiani, «circondato e dominato», si legge in un rapporto
Per acquistare questo libro vai a pag. 196
La tesi di Garibaldi sulle ingerenze britanniche nella morte di Mussolini è esposta in «La Pista Inglese», Ares edizioni, pp. 240, € 15,00 www.ares.mi.it
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revole agli interessi inglesi». Tra le clausole del trattato di armistizio vi era la consegna di Mussolini vivo al comando del XV Gruppo d’Armate dipendente dal generale americano Mark Clark, che, verso la fine del mese di aprile 1945, aveva posto la sua base a Siena. Ma i servizi speciali britannici non erano d’accordo. E si mossero con straordinaria efficienza e rapidità non appena si diffuse la notizia che Mussolini, nel primo pomeriggio del 27 aprile, era stato fatto prigioniero dai partigiani della 52a Brigata Garibaldi sulla piazza di Dongo. Per il vero, non è da escludersi che quella cattura fosse stata preordinata e organizzata nei minimi particolari grazie a un accordo tra il generale delle SS Karl Wolff e gli stessi servizi segreti britannici. Così sostiene Erich Kuby nel suo libro «Il tradimento tedesco» e così conferma, con un ragionamento difficilmente contestabile, un ricercatore italiano, Luigi Imperatore [autore del libro «I giorni dell’odio» NdA], secondo il quale l’afflusso dei 40 camion della contraerea tedesca al comando del tenente (o colonnello?) Fallmeyer (o Schallmeyer?) provenienti dalla Lombardia e diretti in Valtellina attraverso la strada costiera occidentale del lago di Como sarebbe stato ordinato da Wolff al preciso scopo di consentire a un gruppo di partigiani manovrati dagli inglesi (ossia i capi della 52a Brigata Garibaldi) la cattura di Mussolini. Non a caso, tra la lunga e misteriosa sosta del Duce a Menaggio – che inizia nella notte tra il 25 e il 26 aprile – e la successiva intercettazione della colonna italo-tedesca, la mattina del 27 aprile, a Musso, tra Menaggio e Dongo, i due plotoni tedeschi incaricati di vegliare sulla sicurezza del Duce (ma anche di controllarne le mosse), ovvero quello comandato dal tenente Otto Kisnatt (dipendente del RSHA, Reichssicherheitshauptamt) e quello, formato da SS, al comando del
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Emilio Daddario nel 1939. Durante la guerra servì nell’OSS e fu l’autore della cattura di Rodolfo Graziani, ma nella vicenda dell’assassinio di Mussolini fu ingannato dagli inglesi
tenente Fritz Birzer, in pratica si dileguano e lasciano carta bianca al misteriosissimo Fallmeyer. Il quale ben avrebbe potuto, in esecuzione di un ordine di Wolff, e in conformità alle trattative di resa iniziate segretamente in Germania, e all’insaputa del Führer, dallo stesso capo supremo delle SS Heinrich Himmler, consegnare Mussolini agli Alleati, più precisamente agli inglesi: non direttamente, ma attraverso una formazione partigiana all’interno della quale gli agenti inglesi erano di casa e il cui coman-
Svizzera, in circostanze misteriose, da parte del generale delle SS Wolff. Esisteva evidentemente un progetto per fare arrendere al generale britannico Alexander le forze tedesche in Italia. Lo scopo di queste esplicite manovre era di concedere una tregua a Ovest: un ovvio tentativo per frenare la guerra degli Alleati occidentali, in modo che i tedeschi potessero gettare tutte le loro forze contro la Russia». Conosciamo le inutili esortazioni giunte per cablogramma dal Comando alleato di Siena al CLNAI di Milano nel tardo pomeriggio del 27 aprile, non appena diffusa dalla radio la notizia della cattura del Duce, con l’esplicita richiesta di consegnare Mussolini agli incaricati, che sarebbero giunti con un aereo all’aeroporto di Bresso. E conosciamo la risposta – redatta dai membri comunisti del CLNAI – che falsamente affermava l’impossibilità di consegnare Mussolini, perché «già fucilato stesso posto ove precedentemente fucilati da nazifascisti quindici patrioti». Il primo degli agenti dell’OSS americano ad essere ingannato è sicuramente il capitano Emilio Q. Daddario. Di base a Lugano, non appena informato della cattura di Mussolini, si preci-
Un cablogramma ordina ai carcerieri di Mussolini «Custodite il prigioniero con ogni riguardo. Non gli sia torto un capello. Piuttosto di fargli violenze, in caso di fuga, lasciatelo andare» dante, il conte Pier Bellini delle Stelle, era addirittura di madre inglese. Una insospettabile conferma a tale ipotesi viene da una fonte assolutamente autorevole. «Il primo accenno alla defezione germanica», scrive il generale Dwight Eisenhower nel suo libro «Crociata in Europa», «fu un sondaggio da parte dell’ambasciata tedesca a Stoccolma. Il nostro governo respinse le proposte. Un altro arrivò dalla
pita a Milano e, a sua volta, esige la consegna di Mussolini. È con lui il tenente Aldo Icardi, membro della missione Chrysler. Ai due americani, i capi del comitato insurrezionale (Longo, Pertini, Valiani e lo stesso comandante dei Volontari della Libertà, generale Raffaele Cadorna) chiedono un lasciapassare per il colonnello Valerio che ancor oggi non si sa esattamente chi fosse, ma di cui Daddario, senza
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troppo andare a fondo, prende per buono il nome fasullo che gli viene fornito: Giovanni Battista Magnoli, di Cesare. Con questo lasciapassare scritto in inglese e firmato da un ufficiale dell’OSS, il colonnello Valerio parte per la sua missione, che è quella di portare a Milano Musso-
della Guardia di Finanza di Germasino, ove viene accolto con ogni riguardo. In quanto a Mc Donough, è opportuno sapere che questo ufficiale è in contatto con il viceconsole americano a Lugano, nonché agente dell’OSS Donald Pryce Jones, alias «Scotti», il quale, venuto a conoscen-
Un fiduciario dei servizi USA, Salvatore Guastoni, aveva assicurato che gli americani avevano la più alta stima del Duce, e che egli aveva tutto da guadagnare a consegnarsi agli Alleati lini più altri quindici, in modo che siano fucilati «solennemente» in piazzale Loreto. Ma Daddario non lo sa. Gli fanno credere esattamente l’opposto, e lui la beve. Gli fanno infatti leggere il cablogramma inviato alle ore 18,30 al brigadiere della Guardia di Finanza Remo Scappini, che comanda la caserma di Dongo: «Custodite bene il prigioniero con ogni riguardo. Non gli sia torto un capello. Piuttosto di fargli violenze, in caso di tentativo di fuga, lasciatelo andare». Daddario non è l’unico americano ad essere volgarmente ingannato. Scrive Zanella: «Da Siena, frattanto, sempre via radio, viene avvisato l’agente speciale americano del CIC, Counter Intelligence Corps, aggregato alla prima Divisione corazzata americana in avvicinamento a Como, John Mc Donough, il quale, dalla cittadina di Brivio, spedisce a Como, nel tardo pomeriggio sempre del 27, e tramite un corriere partigiano, un suo messaggio autografo diretto al tenente colonnello Giovanni Sardagna, del CVL, che si era installato nella Prefettura. Il messaggio dice: “Mussolini and Graziani are to be brought to Brivio for the disposition of the American Police. John Mc Donough, special agent, CIC, First Armoured Division”. È a seguito di questo preciso ordine americano che Mussolini viene trasferito dal municipio di Dongo alla vicina e assai più sicura caserma
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za della cattura del Duce, ha immediatamente dato disposizione a due suoi uomini – Salvatore Guastoni e il capitano di vascello della Marina italiana Giovanni Dessì – di togliere Mussolini dalle mani dei comunisti e di consegnarlo alla polizia militare americana. In realtà, Salvatore Guastoni è da un pezzo sulla scena e sta cercando in tutti i modi di convincere Mussolini, ancora libero, ad arrendersi agli americani. Leggiamo questa vivida descrizione della riunione svoltasi nei locali della prefettura di Como nel pomeriggio del 26 aprile,
Il giornalista Ermanno Amicucci, presente alla riunione in prefettura a Como fra capi del CLN e della RSI
scritta da Ermanno Amicucci, l’ex direttore del «Corriere della Sera» presente al fatto: «Nella sede della Prefettura, il capo della provincia Renato Celio era circondato dai capi del CLN, da elementi della Resistenza, da agenti degli Alleati venuti anche dalla vicina frontiera svizzera. Si discuteva e si studiava un modus vivendi, si progettava uno sbocco pacifico all’intricata situazione, mentre in Federazione i capi fascisti riorganizzavano i reparti e davano istruzioni ai gregari [si tratta delle formazioni fasciste che erano confluite su Como per ordine di Alessandro Pavolini NdA]. Nel pomeriggio (Pavolini nel frattempo era andato a Menaggio per conferire col Duce) il capo della provincia Celio, d’accordo con gli altri gerarchi, convocò una riunione in Prefettura di capi fascisti e di capi del CLN per stabilire le condizioni dell’esodo dei fascisti e della presa di possesso del CLN in maniera pacifica. I fascisti erano molti, ma disorganizzati e piuttosto demoralizzati. (...) Vito Mussolini e Vanni Teodorani [entrambi nipoti di Mussolini NdR] manifestarono l’intenzione di raggiungere la colonna del Duce e chiesero che, se non fosse stato possibile consentire a tutte le forze fasciste di dirigersi verso la Valtellina, fosse almeno concesso loro il libero transito fino a Menaggio. Udita questa dichiarazione, un certo signore, che disse di chiamarsi Guastoni e si rivelò per un agente del servizio segreto alleato, fece a Vito e a Teodorani una proposta. Con tono di amicizia, dichiarandosi “un vecchio fascista” che però, sicuro della vittoria degli Alleati, non aveva approvato l’entrata in guerra dell’Italia, ed era quindi passato nel campo avverso facendo la spola tra la Lombardia e la Svizzera con missioni segrete, disse ai due che approvava pienamente il loro proposito, ma li pregò di raggiungere il Duce per persuaderlo a tornare indietro e a
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Per saperne di più - Luciano Garibaldi, «La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci?», Ares, 2002 - Franco Bandini, «Vita e morte segreta di Mussolini», Mondadori, 1978 - Fabio Andriola, «Appuntamento sul lago», SugarCo, 1990 - Roberto Faenza e Marco Fini, «Gli Americani in Italia», Feltrinelli, 1976 - Alessandro Zanella, «L’ora di Dongo», Rusconi, 1993 - Peter Tompkins, «L’altra Resistenza», Rizzoli, 1955 - Giorgio Pisanò, «Gli ultimi cinque secondi di Mussolini», Il Saggiatore, Milano, 1996
di confidenze, il Guastoni assicurò che gli anglo-americani avrebbero presto e radicalmente liquidato le organizzazioni comuniste». Dunque, quel «certo signore che disse di chiamarsi Guastoni» aveva a cuore l’incolumità e la salvezza di Mussolini e parlava in nome e per conto del governo degli Stati Uniti d’America. Già il 21 aprile aveva incontrato segretamente a Milano Vittorio Mussolini, il figlio primogenito del Duce, per cercare di arrivare a una resa incruenta. Ma
Un gruppo di partigiani in posa davanti all’autoblinda della «Colonna Pavolini» catturata sulla strada per Dongo -
«Morte di Benito Mussolini»
La voce «Morte di Benito Mussolini» esiste su Wikipedia solo in italiano Accuratezza
Fonti e note
Bibliografia
Controversie
Vetrina in
nessuna lingua
Gendarmi della Memoria minimo
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massimo
Guastoni il 21 aprile aveva incontrato segretamente Vittorio Mussolini, per trattare una resa incruenta. Ma il Duce aveva in testa un progetto del quale non aveva parlato neppure col figlio consegnarsi agli Alleati. Elevando quindi un inno alla lealtà, all’umanità e alla saggezza degli angloamericani, egli cercò di convincere i due nipoti di Mussolini che il Duce – per il quale, a quanto egli era in grado di assicurare, gli americani avevano la più alta stima e il massimo riguardo – aveva tutto da guadagnare a consegnarsi agli Alleati che gli avrebbero riservato un trattamento cavalleresco, anziché rischiare di cadere nelle mani dei comunisti, dai quali non c’era da aspettarsi nulla di buono. In vena
Mussolini aveva in testa un progetto diverso e segreto, del quale non aveva parlato neppure con il figlio. Per questo l’operazione Guastoni non andò in porto. Eppure le sue credenziali erano assolutamente in regola. La lettera che egli aveva esibito al prefetto di Como Celio, non appena arrivato dalla Svizzera, diceva testualmente: «Bern, April th . The Foreign Service of the United States of America – American General Consulate – Bern. Il dottor Salvatore Guastoni, in servizio nostro e della Marina Mili-
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Al vertice alla prefettura di Como, quando fu promessa al Duce una «onorata prigionia di guerra» negli USA, erano presenti emissari americani e del Regno d’Italia, ma nessun britannico tare Italiana, è da noi autorizzato a trattare il passaggio dei poteri nel migliore dei modi evitando vittime». Il documento era firmato dall’uomo di Allen Dulles a Lugano, Donald Pryce Jones. Soltanto il primo – e probabilmente il più importante – dei tanti uomini di Dulles giocati sul tempo dagli uomini di Churchill. La cronaca di Amicucci troverà conferma nelle memorie di Vanni Teodorani [il primo in assoluto ad affermare l’esistenza di ordini inglesi dietro l’assassinio di Mussolini NdA], pubblicate nove anni dopo, nell’ottobre 1954, sul settimanale «Asso di Bastoni», sotto il titolo «Perché fu ucciso Mussolini?»: «Guastoni mi assicurò che Mussolini sarebbe stato accolto in
onorata prigionia di guerra dalle Forze Armate degli Stati Uniti, senza essere diviso né dalla scorta, né dal seguito: chi desiderava, poteva seguirlo per servirlo in prigionia. Nessuna offesa alla sua incolumità, e soprattutto alla sua dignità, sarebbe stata, né allora né in seguito, consentita». È anche da sottolineare il fatto che al summit svoltosi nella Prefettura di Como non abbia partecipato nessun agente direttamente dipendente dagli inglesi. I presenti erano tutti o al servizio degli americani, o alle dipendenze del governo di Roma. Su questo curioso e strano particolare concordano le testimonianze di tutti i gerarchi fascisti presenti a quella riunione e che riuscirono poi a salvare la pelle (Pino Romualdi, Vito Mussolini, Vanni Teodorani), nonché quelle degli esponenti antifascisti (il comandante di Marina Giovanni Dessì, il maggiore Cosimo Maria De Angelis e il prefetto Renato Celio).
Il certificato di morte di Mussolini
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Anche dopo la cattura di Mussolini, gli agenti americani erano sicuri di farcela. Ecco il racconto di Pino Romualdi, in quel momento vicesegretario del Partito Fascista Repubblicano e nel dopoguerra tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano: «Verso le nove di sera [del aprile NdA] venne di nuovo il comandante della Regia Marina Giovanni Dessì e mi disse che Mussolini
e tutti gli altri erano stati fermati a Musso e che nella nottata li avrebbero trasferiti con le barche dall’altra parte del lago, a Bellagio. Mi disse, esattamente: “Li porteranno a Bellagio. Lei vuole essere consegnato alla Questura qui di Como, in mano ai partigiani, o vuole andare con il gruppo?”. Risposi: “Non voglio essere consegnato ai partigiani. Mandatemi con il gruppo”». In quel momento, gli agenti inglesi erano già all’opera sul posto e Mussolini, assieme a Claretta Petacci, stava per essere prelevato dalla casermetta della Guardia di Finanza di Germasino per essere trasportato in un posto che soltanto il capitano Neri conosceva: una piccola, modesta casa di mezza collina a Bonzanigo, frazione del Comune di Tremezzina, una trentina di chilometri più a Sud. A meno di 600 metri dalla villa di uno dei più autorevoli e potenti sudditi di Sua Maestà Britannica. Del resto, che la presa di possesso politica del territorio italiano fosse stata fortemente voluta, fin dall’inizio, da Churchill, lo denuncia senza remore uno dei più autorevoli agenti americani in Italia durante il secondo conflitto mondiale, Peter Tompkins, che in un suo libro ammette senza mezzi termini quanto segue: «Fu molto facile, per gli inglesi, evitare che gli americani mettessero le mani sul Duce. Furono partigiani italiani a fare tutto, ma fu un agente del servizio segreto britannico, di origine italiana, che li spronò ad agire per a chiudere in fretta il capitolo Mussolini. (...) Quanto alla morte di Claretta, non ha senso se non la si mette in rapporto con la corrispondenza segreta Mussolini-Churchill: lei sapeva e perciò doveva essere tolta di mezzo». «Perché», si chiede ancora Tompkins, «un accordo fra Churchill e Mussolini stretto durante gli incontri segreti avvenuti a Porto Ceresio e sul Lago d’Iseo doveva
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L’agente dell’OSS Peter Tompkins nel 1944
essere così radicalmente cancellato da imporre l’uccisione dello stesso Mussolini e di Claretta Petacci? La reputazione di Churchill sarebbe stata gravemente danneggiata se si fosse venuti a sapere che aveva complottato con il Duce del fascismo e con alcuni generali nazisti in Italia per far sì che italiani e tedeschi unissero le loro forze a quelle degli Alleati occidentali per combattere tutti insieme contro l’URSS, specie per chi sapeva che erano stati i 20 milioni di morti sovietici nella Seconda guerra mondiale a salvare l’Europa dal dominio di Hitler e dei nazisti. Era ancora troppo presto perché il mondo potesse accettare le idee che l’ex premier britannico avrebbe poi esposto nel 1946, durante il discorso di Fulton, nel Missouri». La stessa vicenda spionistico-militare di Tompkins è sintomatica. Nato ad Athens, in Georgia, nel 1919, Tompkins aveva trascorso gran parte dell’infanzia nella villa che i genitori possedevano a Forte dei Marmi, in Toscana, e parlava, fin da ragazzino, un italiano perfetto. Agli inizi della guerra era già, giovanissimo, corrispondente da Roma del «New York Herald Tribune». Reclutato nel 1941 dal colonnello William Donovan, «Coordinator of Information» di Roosevelt, prese parte ad azioni segrete in Grecia e fu quindi inviato, dopo lo sbarco americano in Sicilia del luglio 1943, a Roma, dove contava numerose e autorevoli amicizie, tra cui il Principe di Piemonte (il futuro re Umberto II), il duca Aimone di Savoia Aosta, re di Croazia, Camillo Caetani, già suo compagno di studi a Harvard. Ma vediamo in quali circostanze: «Io non sapevo», scrive Tompkins, «che gli inglesi, ansiosi di ottenere il controllo esclusivo dello spionaggio in Italia, non avevano voluto fornire un aeroplano per paracadutarmi nei
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pressi di Roma. (...) Soltanto agli inizi del settembre 1943 il capo locale dell’OSS per l’Italia, un italo-americano che aveva fatto il sindacalista nel Connecticut, Vincent Scamporino, fu in grado di organizzare il mio lancio con la 82 a Divisione Aerotrasportata
inviato dai superiori comandi al Quartier Generale di Allen Dulles a Wiesbaden, «per cospirare contro l’URSS», come scrive nel suo libro di memorie. In effetti, erano i giorni in cui i servizi segreti americani non esitavano a ingaggiare ex nazisti ed ex fascisti, considerati par-
Secondo Tompkins «Furono i partigiani a fare tutto, ma fu un agente del servizio segreto britannico di origine italiana che li spronò ad agire per chiudere in fretta il capitolo Mussolini» poco a Nord di Roma per la mattina del 9 settembre». All’ultimo momento il lancio della Divisione fu sospeso e Tompkins dovette raggiungere Roma via mare con una torpedo boat partita da Palermo e attraccata a Salerno. Da qui ebbe inizio la sua missione che lo portò a diventare, nella primavera del 1944, comandante dell’OSS a Roma. Si impegnò a fondo nelle operazioni militari lungo la Linea Gotica durante l’inverno 1944-45, ma, nei giorni della liberazione del Nord Italia, anziché a Milano fu
ticolarmente preziosi per la guerra fredda all’URSS: Tompkins non era d’accordo. Meglio in ogni caso – a giudizio dei suoi superiori – allontanarlo da Roma, dove il suo posto fu preso da James Angleton. In definitiva, anche queste divisioni ideologiche all’interno dell’apparato spionistico americano possono ben spiegare perché le carte decisive della mortale partita con il Fascismo fossero finite in mani britanniche. Luciano Garibaldi [email protected]
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Il dilemma di Giul in Riesumare la salma del Duce: è questo l’ennesimo capitolo di una storia senza fine e che a quasi nessuno interessa vedere chiarita. In un baillame di dichiarazioni si è perso di vista il nocciolo - storico (oggi) e politico (ieri) - della questione. E forse neanche un filmato custodito negli USA – se c’è – potrà aiutare a fare luce una volta per tutte su una vicenda in cui l’unica certezza è su come NON sono andate le cose di Fabio Andriola
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se la verità stesse davvero arrivando dagli Stati Uniti? Una sorta di remake di «Arrivano i dollari» potrebbe finalmente mettere fine ai misteri della morte di Mussolini? Al posto di un’ereditiera e della sua giovane complice-notaio, un ancora misterioso signore e il suo ancor più misterioso archivio audiovisivo. Al posto di Sordi, Billi, Riva e Taranto – tutti decisi ad intascare l’eredità del classico Zio d’America – i cugini Mussolini, non meno litigiosi degli eredi della commedia. Alla fine beffati da un’eredità che arriverà, ma dopo un anno di penitenza. Mentre in questo caso, speriamo che quando arriverà questo famoso filmato di due minuti e mezzo (di cui già parlava De Felice, ma senza crederci molto), in cui sarebbero fissati «gli ultimi secondi di vita di Mussolini e della Petacci» e forse anche il volto dei loro uccisori, non ci si debba ancora una volta far cascare le braccia per la bufala (tipo quelle di certi video di Al Qaeda o dell’attacco dell’11 settembre), una delle tante, troppe che da sessantun anni inquinano i serissimi e complicatissimi fatti di Dongo e Giulino di Mezzegra. Dove, sia detto per inciso, spesso si è detto si aggirassero in quelle ore alcuni personaggi armati di macchina fotografica… Ai primi di settembre la richiesta di Guido Mussolini (figlio
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di Vittorio Mussolini, il primogenito maschio più vicino politicamente al padre Benito e purtroppo anche tra i più reticenti nel dopoguerra) ha conquistato la ribalta: ha chiesto al riesumazione della salma del nonno per permettere ai medici legali di fare una ricognizione dei resti del dittatore e stabilire una volta per tutte cause e dinamiche della morte più enigmatica e più raccontata della nostra storia. E forse di tutta la storia. Ma l’affondo di Guido Mussolini non ha, almeno in un primo tempo, trovato terreno fertile. Il Procuratore della Repubblica di Como Alessandro Maria Lodolini, competente per territorio e come tale destinatario dell’istanza degli avvocati di Mussolini, ha detto subito no. E per dirlo il più chiaramente possibile è emerso dalle proprie ferie per incontrare i giornalisti per dire che, comunque, il no definitivo lo avrebbe detto al rientro dalle sue vacanze, cioè dopo il 14 settembre. Ma, sensibile alle esigenze della stampa, Lodolini ha dichiarato che a suo avviso «la vicenda si presenta come improcedibile dal punto di vista penale, perché, ha spiegato, se mai qualcuno dovesse essere imputato di omicidio, si tratterebbe comunque di omicidio semplice, senza aggravanti, per cui il reato sarebbe abbondantemente prescritto». E nel caso comunque si riuscisse a sostenere un’accusa non prescritta, a prescindere dalla qualificazione del reato «ricordiamoci – ha precisato Lodo-
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ul ino di Mezzegra lini – che c’é stata l’amnistia di Togliatti, del 22 giugno 1946, che ha cancellato tutti i reati». Omicidio semplice? Il dottor Lodolini definisce «omicidio semplice», quasi fosse «un semplice omicidio», l’uccisione di un capo di Stato, in circostanze del tutto irrituali, senza un processo sia pur sommario e con una serie di colpi sparati a freddo e quasi a bruciapelo. E la Petacci? C’è anche il duplice omicidio semplice? Ma l’iniziativa di Guido Mussolini (accompagnata da interviste un po’ troppo sopra le righe) ha dato anche ad altri l’opportunità di dire la propria. E’ bastato non aver mai scritto una riga sui fatti – complicatissimi e ricchi di implicazioni diplomatiche e politiche – di Dongo e Giulino di Mezzegra per poter dire qualunque cosa. Anzi in genere solo una: una riesumazione sarebbe inutile e forse anche immorale. Così, tra gli altri Pierre Milza, Giovanni Sabbatucci, Nicola Tranfaglia, Angelo Fiori, Arrigo Petacco, Nicola Caracciolo… In realtà le cose stanno diversamente. Ma per prima vediamo cosa controbatte l’avvocato Luciano Randazzo, che col collega Carlo Mo-
ranti, cura gli interessi del nipote di Mussolini: «Non chiediamo in realtà una riesumazione ma una comparazione: ossia chiediamo che venga acquisita l’originaria consulenza autoptica pubblicata nel 1950 perché l’originale è sparito. Chiediamo – prosegue – che fine ha fatto e per quale motivo venne disposta questa consulenza e perché non venne utilizzata nell’indagine, mai aperta. Guido Mussolini non vuole assolutamente la riesumazione del corpo». E poi: «L’amnistia di Togliatti non contempla i crimini di guerra e comunque il solo parlare di amnistia presupporrebbe che un omicidio c’è stato». Insomma la schermaglia è solo agli inizi. Anche perché Randazzo ha annunciato di aver arruolato nella sua squadra di consulenti «il criminologo Francesco Bruno, il prof. Natale Fusaro e il prof. Aldo Barbaro dell’Istituto Medicina Legale de La Sapienza». Le prossime mosse si baseranno anche sulle opinioni di questi personaggi. Ma per destreggiarsi nel mare di dichiarazioni, reazioni e smentite che ci aspetta sarà utile mettere alcuni punti fermi. A cominciare dal perché si è parla tanto della
La camera da letto di Villa Belmonte dove Mussolini e Claretta Petacci passarono la loro ultima notte di vita. Nella pagina a fronte, la copertina di «Storia in Rete» n.7
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L’orribile mostra dei cadaveri di Benito Mussolini e Claretta Petacci nel mucchio di corpi esposti a Piazzale Loreto. Da questa e da altre foto similari il prof. Giovanni Pierucci è stato in grado di ricostruire una precisa ipotesi della meccanica dell’omicidio di Mussolini
Le certezze sulla morte di mussolini sono soltanto in negativo: non sappiamo con certezza né chi ha sparato e come, né dove l’ha fatto, né quando l’ha fatto. e anche il perchè non è affatto scontato morte di Mussolini. Oltre alle ovvie considerazioni simboliche o di cronaca nera (il sangue fa sempre notizia e la morbosità è accresciuta quando c’è di mezzo un personaggio famoso e carismatico) c’è un fatto semplice, scandalosamente semplice: non c’è mai stata un’inchiesta ufficiale, un’istruttoria e un processo per chiarire fatti la cui rilevanza storica è evidente oggi, figuriamoci cinque, dieci o venti anni dopo il loro contorto e ancora oscuro verificarsi. Su questa diffusa assenza di volontà di capire, ha scritto parole incisive Franco Bandini, un maestro di giornalismo e di storia, che quasi solo ha cercato per anni di far luce in questo come in altri enigmi italiani:«Non c’è dramma nella storia moderna più potente della morte di Benito Mussolini e della sua amica Claretta Petacci – scriveva Bandini circa trent’anni fa nel suo «Vita e morte segreta di Mussolini» – «e nello stesso tempo, non c’è mistero che sia durato più a lungo. E anche popolo, come quello italiano, che più facilmente si sia contentato, per oltre trent’anni, di una verità di comodo, miracolosamente tagliata su una versione che ebbe e ha
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ancora il potere di soddisfare tutti, o forse di non scontentare nessuno (…) C’è una sola verità, la morte. E Mussolini è morto: che importanza può avere spaccare il capello in quattro, scomodare molte venerabili ombre, e cercare ostinatamente il “chi”, il “quando” e il “dove”, secondo quanto comanda il codice anglosassone (ma soltanto anglosassone) del buon giornalismo?». Curiosamente Bandini non ha aggiunto altre due domande cui, secondo la tradizione, deve rispondere un giornalista – ma anche uno storico – quando racconta un fatto: il «come» e il «perché». Ora, le certezze sulla morte di Mussolini sono solo in negativo: non sappiamo con certezza né chi ha sparato e come (e cioè quante persone, con quali armi e da quali angolazioni), né dove l’ha fatto, né quando l’ha fatto. E, a ben vedere, anche «il perché» non è così scontato. Seguiamo ancora il lucido ragionare di Bandini: «Dovremmo partire dalla verità, e poi concludere se interessa o no, se ha valore o no: per trent’anni, invece, è accaduto il contrario, si è detto – subito e dopo
– che non valeva la pena cercare la verità, perché, qualunque essa fosse, non avrebbe spostato di un millimetro il semplice fatto che Mussolini era morto, e ben morto. Straordinaria retroversione mentale, cieca e sorda di fronte all’unico obbiettivo della ricerca storica sulla vicenda umana, che è l’appurare il “come”, dei fatti, il portare alla luce i loro nessi segreti, i mille piccoli ruscelli che compongono e generano il grande fiume degli avvenimenti». Con stupore Bandini trent’anni fa, e noi oggi con lui, constatava come nessuno abbia mai pensato di capire esattamente come siano andate le cose, visto anche che il principale sedicente protagonista di quelle ore, il colonnello Valerio, alias Walter Audisio, ragioniere alessandrino poi deputato PCI, ha raccontato i fatti in un modo semplicemente incredibile, smentendosi più volte e inserendo di volta in volta particolari decisamente poco attendibili. Senza contare le omissioni: «Ma, in trent’anni e più, non disse mai le due cose veramente importanti: chi gli aveva ordinato di uccidere Mussolini, nonché Claretta, e quali erano i partigiani che lo aiutarono in questa sua missione (…) Una Nazione più avvertita, una “cultura” politicamente attenta, un giornalismo davvero geloso della sua prerogativa fondamentale, l’informazione per l’informazione, una Magistratura
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Dettaglio della tavola autoptica dei colpi ricevuti da Mussolini: in rosso e in blu i fori di entrata e uscita delle pallottole sparate quando era vivo. In verde e marrone i fori di entrata e uscita inferti post mortem. Il foro marcato con la lettera A non ha corrispondente in uscita. E’ ipotizzabile che il proiettile sia rimasto all’interno del cadavere e che si trovi ancora fra i resti del Duce
indipendente e non intimidita, non si sarebbero mai accontentati di così poco». E invece… trent’anni dopo il sunto dei primi trent’anni di consolidata incertezza fatto da Bandini, le reazioni all’iniziativa di Guido Mussolini fanno capire che poco è cambiato. Anzi, siamo andati indietro. Sui giornali la cronaca dei giorni che vanno dal 25 (giorno in cui Mussolini lascia Milano per Como senza nessuna intenzione di andare in Svizzera) al 28 aprile 1945 (giorno in cui, ad un’ora imprecisata, Mussolini e la Petacci muoiono) gli errori erano a ogni rigo. E nessuno che abbia avuto l’impulso di sentire quel professor Giovanni Pierucci, dell’Università di Pavia, che recentemente ha messo, con il piccolo gruppo di collaboratori, un punto fermo sulla vicenda della morte del capo del Fascismo. «Storia in Rete» ne ha parlato abbondantemente nel numero 7, uscito a maggio del 2006. Pierucci e i suoi hanno dimostrato, con l’aiuto delle più avanzate tecniche di ricerca, che Mussolini fu ucciso da una serie di colpi sparati a distanza ravvicinata (40-50 cm.) mentre indossava solo una maglietta. I colpi lo raggiunsero da angolazioni differenti, il che può far lecitamente supporre la presenza di più sparatori e forse ad una colluttazione. Il corpo fu rivestito sommariamente prima di essere esposto a Piazzale Loreto. Tutto questo, unito al fatto che mol-
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to probabilmente la Petacci fu uccisa con una raffica di mitra alle spalle ma vestita, fa pensare che la dinamica della duplice – semplice? – uccisione non abbia avuto come scenario il cancello di Villa Belmonte dove la versione ufficiale di Audisio-Valerio colloca il momento fatale. E se la sparatoria mortale non avvenne lì dove si dice avvenne? E poi, poiché uno era svestito e l’altra no, la morte per i due è avvenuta nello stesso contesto o, come è facile ipotizzare, in momenti diversi? Come ha osservato il professor Pierucci i dati dell’autopsia
re un’idea in più sulla dinamica dei fatti: infatti Audisio-Valerio ha sempre sostenuto di aver sparato con un mitragliatore calibro 7,65. Se la pallottola dovesse risultare di calibro diverso avremmo la prova provata – se mai ce ne fosse bisogno – che Audisio-Valerio ha mentito oppure che non ha raccontato tutta la verità e che, con lui, forse ha sparato anche qualcun altro. Un dettaglio? Forse. Ma perché allora tacere le reali circostanze di quella morte? Il sospetto, legittimo, è che tacendo e mentendo si vogliano coprire veri-
Tra i colpi ricevuti da Mussolini ce n’è uno alla base del collo che non mostra foro d’uscita. Se la pallottola fosse ancora fra i resti del Duce si potrebbe risalire all’arma. E a chi sparò... sono compatibili sia con la versione tradizionale (che colloca la morte del dittatore alle 16, 10 del pomeriggio del 28 aprile) sia con le versioni alternative che accennano a orari diversi ma sempre nella prima mattina dello stesso giorno. Ma allora un’ipotetica riesumazione del cadavere di Mussolini cosa potrebbe dire che già non si sa? In realtà una cosa la potrebbe rivelare. Tra i colpi ricevuti da Mussolini ce n’è uno, alla base del collo, di cui l’autopsia fatta all’alba del 30 aprile 1945 dal professor Mario Cattabeni non rivela l’ipotetico foro di uscita. E’ opinione di Pierucci e dei suoi che forse quel proiettile è stato «trattenuto». Rintracciando quel proiettile si potrebbe risalire al calibro e ave-
tà ritenute rilevanti. Verità storiche oggi allora anche giuridicamente e politicamente rilevanti. L’ideologia non c’entra. Casomai, prima si fa chiarezza poi ci si fa un’opinione e non il contrario. Oggi sappiamo solo come non andarono le cose (e cioè che le versione più nota fa acqua da ogni parte). Sarebbe paradossale che l’amnistia Togliatti del 1946 impedisse oggi di recuperare almeno un po’ del terreno perduto su una morte non casuale e non banale di un individuo che, a prescindere dal nome, ha diritto a quello che si riserva ad ogni persona, in ogni inchiesta giudiziaria. Intanto aspettiamo, se c’è, lo scoop d’Oltreceano… Fabio Andriola [email protected]
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Pietà l’è morta Milano, 30 aprile 1945
Il cadavere
n.167 Dopo lo scempio di Piazzale Loreto, i corpi di Mussolini, Claretta e degli altri fucilati di Dongo vennero portati all’obitorio. Il giorno dopo venne eseguita l’autopsia in condizioni che, due diversi testimoni, confermano essere state difficili. In un’atmosfera macabra e surreale i cadaveri vengono maneggiati con poco rispetto, a tratti con scherno, quasi sempre con indifferenza. Del resto in quel momento i morti si contano a centinaia, militari e civili, fascisti e partigiani, uomini e donne che, come racconta un testimone, «nella morte erano tutti ritornati uguali» di Andrea Riggio
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l finale è triste, macabro e cupo come i giorni che l’hanno preceduto. Lo spettacolo osceno di Piazzale Loreto è stato descritto, fotografato e filmato al punto di entrare nell’immaginario di tutti, anche a decenni di distanza. Quando finalmente i corpi vengono tolti dalla piazza nel primo pomeriggio del 29 aprile, una domenica, e portati intorno alle 15 all’Obitorio comunale la cagnara li insegue anche lì. Racconterà il dottor Pierluigi Cova: «Per tutto il pomeriggio del 29 aprile, giorno domenicale, la folla fa ressa ai cancelli dell’Obi-
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torio di Via Ponzio per vedere le vittime: è una vera fiera! Gli improperi che vengono indirizzati alle vittime sono innumerevoli e spesso sconci “porco, purcuni, purscel, vacca, animai, culatoni, carogne ecc.”». Cova è uno dei medici che, il mattino seguente, alle 7,30, presenzierà alla autopsia di Mussolini condotto dal professor Caio Mario Cattabeni. Un’autopsia che si svolse in condizioni limite e che – in realtà – non fu, secondo alcuni, una vera e propria autopsia ma una semplice “ricognizione cadaverica” che, tradotto, significa un esame un po’ più superficiale. Sicuramente
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Pietà l’è morta Milano, 30 aprile 1945
Medici, cronisti, partigiani e semplici curiosi in posa dietro al cadavere di Mussolini dopo l’autopsia all’obitorio comunale di Milano
la squadra che si dedicò ad esaminare il cadavere di Mussolini era abbastanza curiosa e composita: Cova era un radiologo, il professor Emanuele D’Abundo era un neurologo mentre il professor Enea Scolari era un dermatologo, direttore dell’Istituto di Clinica Dermosifilopatica dell’Università di Milano. La ragione della presenza di questi specialisti sarebbe stata, secondo Cova, quella soprattutto di capire se erano fondate o meno le voci secondo le quali Mussolini era entrato in guerra mentalmente già alterato dalla sifilide, forse contratta negli anni giovanili in cui aveva vissuto in
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Svizzera: «Volevamo capire perché Mussolini ci avesse portato in guerra e alla malora, se davvero era stata la sifilide a provocargli alterazioni psichiche che magari avrebbero potuto spiegare decisioni pazzesche come l’entrata in guerra». In una sua relazione, tenuta riservata per quarant’anni, Cova – pur attestando amicizia e considerazione per Cattabeni – scrive cose abbastanza diverse da quelle ribadite dal suo collega in più d’un documento e pubblicazione. Stranamente poi, da parte sua,
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Cattabeni indica tra i presenti sia D’Abundo che Scolari ma non cita Cova. Non basta: in una prima stesura del verbale di autopsia, Cattabeni parla inizialmente di sette colpi ricevuti da Mussolini in vita mentre nella versione poi resa pub-
in cui fu condotto quell’esame, il che forse spiega alcune mancanze e incongruenze. Racconta Cova: «Durante la esecuzione dell’autopsia entrano nella Sala Anatomica due partigiani reduci dai campi di concentramento: vogliono vedere
«Verso la fine dell’ autopsia dovetti assistere a scene terribili, quando arrivarono certi partigiani o pseudopartigiani a sputare sul cadavere. la cosa peggiore alla quale abbia assistito nella mia vita» ha raccontato il dottor Pierluigi Cova blica i colpi “premortali” salgono a nove. Invece Cova parla di cinque colpi in tutto: quattro al petto e uno al braccio destro («Tutto ciò fa sospettare che Benito Mussolini abbia fatto un istintivo gesto di riparo col braccio»). Eppure gli altri colpi d’arma da fuoco ricevuti in vita dovevano essere abbastanza evidenti tanto che sono stati individuati, pochi anni or sono, anche dalle immagini esaminate dal gruppo di ricerca dell’Università di Pavia coordinato dal professor Pierucci. Sia Cattabeni che Cova ricordano le condizioni eccezionali
Piazzale Loreto: un uomo intento ad accanirsi sui cadaveri di Mussolini e Claretta Petacci si presta per una foto
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da vicino il Duce per assicurarsi della sua morte e dettogli qualche improperio se ne vanno». In un’intervista il medico ricorderà anche un altro episodio: «Anche verso la fine dell’ autopsia dovetti assistere a scene terribili, quando, con il corpo ancora riverso sul tavolo, arrivarono certi partigiani o pseudopartigiani a sputare sul cadavere. La cosa peggiore alla quale abbia assistito nella mia vita». Cattabeni, più sobriamente, scriverà nella sua relazione che «…facevano irruzione ogni tanto, per l’assenza di un servizio armato d’ordine pubblico, giornalisti, partigiani e popolo…». All’esame era presente anche un rappresentante del CLNAI stando alla testimonianza di Cova che però ne fornisce solo il nome di battaglia, Guido, e la qualifica di «generale partigiano, medico, membro del Comitato Nazionale di Liberazione e incaricato ora della Direzione della Sanità Militare». Ed è a questo personaggio che si deve collegare un episodio spesso trascurato. Cova ne parla sia nella sua relazione sia in un’intervista del 199 al quotidiano «La Repubblica» (del 13 dicembre) dove aggiunge qualche particolare non secondario. Ecco quello scrisse Cova nella sua relazione: «Nella tasca posteriore dei pantaloni si rinviene una busta gialla intestata al “Fascio Repubblicano Sociale di Dongo”
(paese del lago di Como) senza indirizzo, che contiene un foglio di carta da lettera intestato al Consolato Spagnuolo di Milano: il foglio, non sdrucito, porta la data del 1 settembre 19 ed è scritto a macchina con caratteri scuri, in lingua spagnola: nel complesso sono circa quattro o cinque righe: metà di una di queste porta scritti in matita con i caratteri della calligrafia spagnola due nomi di coniugi “Isabella y Alonso” (segue il cognome che non ricordo). In calce alla lettera, all’angolo superiore destro su tre righe, è scritto con calligrafia minuta, in matita “a macchina in rosso, in inchiostro rosso, poi cancellare”. Il testo della lettera non è ricordato ma il suo tenore è questo: Si pregano le autorità spagnole di accogliere i Signori (i nomi sono sopracitati) profughi della guerra attuale e cittadini spagnoli che vogliono rientrare in patria. Firmato, con firma ben chiara, il nome del Console Spagnolo a Milano. Tra noi presenti nella Sala Anatomica ci si pone la soluzione del problema riguardante la lettera ritrovata: è una lettera troppo poco sgualcita per essere dello scorso anno: indubbiamente è retrodatata al settembre del 19 ma è assai recente e i nomi dei personaggi sopra indicati sono i falsi nomi sotto i quali dovevano celarsi Benito Mussolini e Claretta Petacci: i nomi, scritti in matita, avrebbero dovuto a suo tempo, secondo le indicazioni date in calce al foglio, essere ricalcati con inchiostro rosso (e in questo caso sul facsimile della calligrafia spagnola) o trascritti a macchina, sempre però in inchiostro rosso. La lettera viene consegnata al generale medico partigiano perché la depositi alla sede del Comitato nazionale centrale di Liberazione». Nel 199, Cova aggiunse qualche dettaglio: «Trovai quel documento. Era un salvacondotto. Mentre lo stavo leggendo, mi si avvicinò un tizio e mi disse: “Questo devi consegnarlo
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a me, perché sono un comandante partigiano”. Mi rifiutai, ci fu una mezza baruffa, alla fine fui costretto a cedere». Ma come si presentava il corpo di Mussolini prima dell’autopsia. Rispetto al rapporto di Cattabeni quello di Cova è più ricco di particolari: «Il cadavere di Benito Mussolini indossante un paio di pantaloni militari grigio-verdi della Milizia fascista, sporchi di fango e di sangue e lacerati, è rivestito di un paio di mutande di lana lunghe, crivellate da qualche proiettile e insanguinate; calza degli stivali di cuoio con i legacci anteriori alla caviglia, aperti dietro dove vi è una chiusura “lampo” metallica - gli stivali di cuoio sono giallo scuri - Ai piedi dei calzini chiari di cotone bianco (…) Il cadavere di Mussolini viene spogliato degli abiti e degli stivali e lo si pesa: sono 7 chilogrammi (…) Il capo di Mussolini è rasato. Il corpo, piuttosto adiposo specie all’addome risulta piuttosto peloso e solo al torace vi sono peli grigi mentre sul resto della cute sono neri - La schiena è quasi glabra - Il torace appare notevolmente sviluppato, anzi eccezionalmente grasso mentre magre sono le braccia, con muscolatura normale o forse un poco apotropica, specie alla radice del braccio - Ambedue i deltoidi e bicipiti sono piuttosto apotropici - Alle mani, con dita corte e tozze nessun anello - Nessun segno di tatuaggio sulla cute - Il pene lungo circa 10 centimetri è del calibro di circa 2 centimetri: i testicoli sono grossi ognuno quanto una noce e duri - Sull’arto destro sia sulla faccia centro laterale della coscia che su quella della tibia, ampie cicatrici cutanee retraenti e pallide, che in basso raggiungono la caviglia: sono i segni delle ferite riportate nella guerra mondiale 191-191». Nell’intervista del 199 Cova tirerà le conclusioni dell’esame condotto su Mussolini: «Era sanissimo. In
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Piazzale Loreto: la folla inveisce contro i corpi appesi
seguito, venne esaminato anche il cervello, alla ricerca di eventuali lesioni riferibili ad una forma luetica. Ma gli esami furono tutti negativi. Così come non trovammo riscontro alle diagnosi secondo le quali avrebbe dovuto soffrire di un’ ulcera gastrica o duodenale, tanto che era tenuto costantemente sotto controllo da vari luminari. I suoi disturbi erano, evidentemente, psicosomatici». Alle , tutto era finito. Cova conferma che non vennero eseguite altre autopsie né su Claretta né sugli altri cadaveri provenienti
La sua cronaca venne pubblicata solo in parte dal suo giornale: troppo lunghi e scabrosi – almeno per quel momento – i particolari del suo racconto che, alla fine degli anni Ottanta, vennero dallo stesso Romani forniti al dottor Aldo Alessiani, autore di una affascinante ricerca sulla morte di Mussolini che venne distribuita a pochi fortunati ma mai pubblicata come il suo autore sperava. Nel suo dossier Alessiani riporta integralmente la minuta dell’articolo che Romani scrisse quel 30 aprile 195 e che venne pubblicato solo in parte. La mattina del 30 i clamori
«Nella tasca posteriore dei pantaloni si rinviene una busta gialla intestata al “Fascio repubblicano Sociale di Dongo” (paese del lago di Como) senza indirizzo, che contiene un foglio di carta da lettera intestato al Consolato Spagnuolo di milano» da Dongo. E mentre Cattabeni e Cova si concentravano sul corpo di Mussolini, in un’altra parte dell’obitorio un altro testimone – praticamente ignorato per decenni – si muoveva tra i corpi senza vita con la curiosità e gli occhi del giornalista. Era Bruno Romani, corrispondente di guerra del giornale «Risorgimento liberale»: a lui dobbiamo una descrizione forse unica dell’atmosfera macabra delle ore successive a Piazzale Loreto.
erano davvero cessati: «Fummo in parte sorpresi anche dalla atmosfera distesa, indifferente che regnava intorno all’edificio. All’interno nessun segno che indicasse l’eccezionalità della giornata. Non si vedeva in giro né un custode né un inserviente, e quindi nessuno fu in grado di dirci dove si trovassero i corpi di Mussolini e dei gerarchi. La sola persona nella quale ci imbattemmo, fu un tale che usciva dal sotterraneo con gli
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occhi strabuzzati e un fazzoletto premuto sulla bocca. Rispose alla nostra domanda con un cenno della mano che additava la scala che portava nel sottosuolo. Via via che scendevamo, le nostre narici percepivano, sempre più intenso, un odore acre e nauseante di corpi in decomposizione». Il racconto di Romani continua descrivendo il mesto girovagare tra i corpi, poco meno di 200,
Ed erano facce livide, smunte, atteggiate nelle pose più disparate. Sulla maggior parte di esse si leggevano espressioni di terrore, come di chi aveva visto la morte incombere su di lui. Altre facce invece erano come deformate da smorfie di dolore, tanto da dare l’impressione che dalle loro labbra contratte uscissero dei lamenti o delle grida. (…) Erano soprattutto, corpi di uomini, vestiti con abiti civili oppure nelle uniformi
«era sanissimo. in seguito, venne esaminato anche il cervello, alla ricerca di eventuali lesioni riferibili ad una forma luetica. ma gli esami furono tutti negativi. Così come non trovammo riscontro alle diagnosi per le quali avrebbe sofferto di ulcera» che giacevano nei grandi stanzoni al piano interrato dell’obitorio: «Sul pavimento, ammassati l’uno accanto all’altro, giacevano centinaia di corpi inanimati. Avevano tutti la faccia rivolta verso l’alto.
dei reparti fascisti, della polizia, delle unità partigiane (…) Pochi i cadaveri già identificati e ai quali era stato attribuito, scritto su di un cartellino, un nome. Nella morte erano tutti ritornati uguali: fasci-
La richiesta - accordata dal CLNAI - degli ufficiali medici della 5a Armata USA di prelevare un campione di cervello di Mussolini per verificarne la salute mentale: durante la guerra la propaganda alleata aveva cercato di far passare Mussolini per un pazzo o un mentecatto. Il campione tuttavia rivelò che il cervello era normale
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sti, partigiani, militari, cittadini ignoti giacevano senza distinzioni sul freddo piancito e marcivano insieme. Su alcuni di quei corpi, che i familiari o gli amici avevano riconosciuto, erano stati deposti dei mazzi di fiori, oppure dei nastri rossi o tricolori. Invece ad altri cadaveri erano state conficcate nel ventre delle aste di legno dalla punta aguzza che reggevano dei cartelli recanti le scritte: “Traditore”, “Spia dei fascisti”, “Carogna fascista”. Parenti, amici, semplici curiosi si muovevano cautamente tra quei morti, cercando di non calpestarli. Ed ogni volta che uno di essi veniva riconosciuto, si verificavano le stesse scene: si levavano striduli lamenti, preghiere recitate ad alta voce, ed anche imprecazioni e maledizioni». Romani e il suo accompagnatore vengono indirizzati al piano superiore dove è in corso l’autopsia di Mussolini. Arrivano che è quasi tutto finito: «La stanza era gremita di medici, di ufficiali americani, di fotografi». L’attenzione di Romani è attratta da un personaggio in particolare che, terminate le operazioni di ricucitura, prese a misurare il corpo di Mussolini con un metro di metallo arrotolato “del tipo usato dai capimastri e dai falegnami”: «E via via annotava i dati su di un taccuino. Era così meticoloso che non trascurò nessuna parte del corpo, neppure le più intime. Noi lo guardavamo affascinati. Egli ci spiegò che era un antropologo e che si proponeva di ricostruire la personalità di Mussolini attraverso i suoi dati antropometrici. (…) “E lei ha rilevato nelle misurazioni qualcosa di anormale?”. “No, proprio nulla. Era, nell’insieme, un uomo normale”». E per sostenere la sua tesi, contento di poter verificare metro alla mano, che Mussolini non era un “Superuomo” neanche da un punto di vista genitale, l’uomo
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riprese le misurazioni: «Si mise a rivoltare il cadavere – continua Romani – Fece tutto da solo. Nessuno gli badava. Gli altri medici e scienziati avevano concluso i loro interventi e quel corpo nudo, che sembrava ormai essere tutt’uno con la lastra di marmo, non suscitava più neppure curiosità. Nella manovra compiuta dall’antropologo, l’enorme testa tentennò di nuovo. Un inserviente abbozzò un sorriso: “Era davvero una bella testa” mormorò. Il corpo, muovendosi, sprigionò un acuto odore di alcool e di acido fenico (…) Fosse stato un morto qualunque si sarebbe gridato allo scandalo e alla profanazione. Ma era Mussolini e si frugava con curiosità morbosa nel suo cervello, nel suo intestino, perfino nel suo sesso alla ricerca del perché di venti anni di storia e di dittatura». Anche a Claretta non si mostrò molto rispetto. Romani la trova accanto al cadavere di Achille Starace, l’ex segretario del Partito Fascista, deposta in una cassa di legno grezzo, su un giaciglio di trucioli: «Il suo volto era ricoperto di lividi, il collo appariva gonfio e i capelli crespi, in disordine. La gonna era legata a metà coscia con un pezzo di spago e scopriva le gambe ben tornite e modellate da calze di seta sfilacciate e strappate in più punti. La camicetta era sbottonata mostrando il seno contenuto da un reggiseno ricamato. Un inserviente si avvicinò alla cassa. Portava un berretto a visiera disposto di traverso, ed indossava una camicia di flanella consunta, piena di rammendi. Dalle sue labbra sottili pendeva una sigaretta fumata per metà e che l’individuo sembrava succhiare. (…) Con un gesto della mano della mano richiamò la nostra attenzione, come se avesse voluto dire: “Ora state a vedere cosa vi combino io”. Senza abbandonare il mozzicone di siga-
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Le casse con i cadaveri di Mussolini, la Petacci e Starace all’obitorio. Al corpo di Claretta non furono risparmiati oltraggi nemmeno poco prima di chiudere la bara
retta, si inginocchiò accanto alla bara, sollevò il corpo della Petacci afferrandola per le ascelle, appoggiò la testa della morta sulle proprie ginocchia e rimase immobile
ce per tutta risposta raddoppiò la forza dei colpi di martello. L’altro, allora, visibilmente stizzito, riadagiò il corpo della Petacci sul fondo della cassa, vi gettò sopra alcune
«Sul pavimento, ammassati l’uno accanto all’altro, giacevano centinaia di corpi inanimati. Ad alcuni erano state conficcati nel ventre dei cartelli recanti le scritte: “traditore”, “Spia dei fascisti”, “Carogna fascista”» scrisse il corrispondente Bruno romani in quella posizione per alcuni secondi, quasi dovesse posare davanti ad un fotografo. Poi, dopo averci strizzato furbescamente l’occhio, frugò nelle tasche dei pantaloni e ne trasse fuori una lametta Gilette con la quale tagliò, all’altezza dello sterno, il reggipetto. Il seno della donna, di una perfezione scultorea, esplose nella sua nudità. L’inserviente prese uno dei seni nel cavo della mano, fece il gesto di soppesarlo e quindi disse, guardandosi all’intorno: “E’ ancora bello duro”. Un ghigno gli serrò le labbra facendo oscillare il mozzicone di sigaretta. La cenere si distaccò e piovve sul petto nudo. L’uomo girò lo sguardo come se volesse rendersi conto dell’effetto prodotto sugli astanti dal suo gesto e dalle sue parole ma, con sua grande delusione, nessuno reagì. L’inserviente che stava inchiodando la bara di Stara-
manciate di trucioli e si allontanò continuando a succhiare il suo mozzicone di sigaretta». Ormai tutto stava finendo. Le casse con i cadaveri di Dongo stavano per essere portate al Cimitero del Musocco per essere sepolte in modo anonimo. Prima di lasciare l’obitorio ad ogni corpo venne assegnato un numero: a Starace il 15, a Claretta il 1, a Mussolini il 17… «Un medico in camice bianco – conclude Romani – mentre osservava accanto a noi il corpo nudo di Mussolini mormorò: “Sic transit gloria mundi”». Ma nella versione “censurata” Romani aveva raccontato del suo accompagnatore che, uscendo dall’Obitorio, aveva esclamato: «Mi sento come Dante all’uscita dall’Inferno». Andrea Riggio
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STRONCATURE «Gli ultimi giorni di Mussolini»
Un’occasione SPRECATA
L’ultimo lavoro dello storico francese Pierre Milza sulla morte di Mussolini avrebbe avuto tutte le carte in regola per divenire una pietra miliare della storiografia, accreditando una volta per tutte decenni di inchieste in un ambito quantomai conservatore come quello accademico. Un obbiettivo mancato completamente fra approssimazioni, errori e una bibliografia incerta di Paolo Simoncelli
S
i può capire, (ma non giustificare) il conforto esorcizzante del provincialismo della nostra cultura con la corsa all’elogio di tutto ciò che viene dall’estero, in particolare dalla Francia, indipendentemente da qualsiasi considerazione di merito. Ma distrarsi o tacere come fatto fino ad oggi dinanzi ad approssimazioni, svarioni e cantonate diventa complicità; a maggior ragione se il volume cui si imputano, «Gli ultimi giorni di Mussolini» (Longanesi, 2011, pp. 367, € 24,00), è destinato alla divulgazione, e se l’autore è uno studioso autorevole (e francese) come Pierre Milza.
desiderare. Il volume finisce per non essere un racconto divulgativo, reso storicamente attendibile da una completa bibliografia finale; né un saggio scientifico con tanto di fonti minuziose a piè di pagina; queste vanno e vengono dove capita, e dove capita sono omesse. E sì che il tema è di straordinaria importanza, non tanto per l’euristica della vicenda (comunque da accertare): il Duce è stato fucilato a Giulino di Mezzegra nel pomeriggio, o a casa De Maria nella mattina? Quanto per il mistero, e gli omicidi correlati, che hanno accompagnato e sorretto la traballante versione tradizionale. Cosa c’era da temere dall’eventuale spostamento di luogo e di orario della fucilazione? Evidentemente qualcosa stride ancor oggi, e proprio la pertinacia nel non dire la verità ha comportato il diffondersi di versioni viepiù fantasiose e l’accreditamento di protagonisti viepiù improbabili.
Buona l’intenzione di valutare lo stato di informazioni sulle circostanze sempre più dubbie della morte di Mussolini (l’unica cosa oggi certa è che non sono vere le versioni ripetutamente e contraddittoriamente fornite dal suo supposto responsabile: il colonnello Valerio; dubbia persino la sua individuazione in Walter Audisio). Ma proprio per ciò ci si doveva attendere dal volume una completez- «Gli ultimi giorni di Mussolini» za di informazioni che invece lascia a di Pierre Milza (Longanesi)
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Oggi ne sappiamo molto di più, ma su questo molto di più non fa luce il volume. Perché, ad esempio, trascurare i risultati di studi, da quelli di Fabio Andriola a quelli di Luciano
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Il partigiano Walter Audisio, sedicente giustiziere di Mussolini. La sua versione delle ultime ore del Duce è oramai dimostrato essere inattendibile
Garibaldi (salvo elencarne in bibliografia altri, precedenti e diversi, tanto per citazione d’obbligo), che hanno prodotto documenti utili ad aprire nuove prospettive di ricerca? Perché citare di seconda mano vecchi articoli del 16 di Ricciotti Lazzero e dimenticarne il volume che più di ogni altro ha contribuito ad avvalorare l’ipotesi dell’esistenza del «carteggio segreto» tra Churchill e Mussolini? Carteggio che può ben essere la causa principale della «doppia morte» del Duce. E ancora, ricordata da Milza l’opportunità di non delegittimare aprioristicamente la memorialistica dei saloini, perché ometterne ogni riferimento bibliografico e testimoniale sui veri o presunti incontri segreti con agenti inglesi alla fine del ’44, ecc.? Interrogativi che però vengono progressivamente resi inani dalla lettura del volume che riserva infatti non delusioni ma sorprese. Qualche esempio sparso: un partigiano comunista ben noto per la sua efferatezza, «un certo Cassinelli», non viene dunque individuato la prima volta che si incontra nel volume (p. 20), ma ritrova identità 3 pagine dopo (Leopoldo Cassinelli detto Lince). Alcune testimonianze vengono adattate al racconto un po’ alla leggera: i due colpi di grazia al Duce morente, che sarebbero stati esplosi dal capitano Neri (Luigi Canali, partigiano comunista finito assassinato per aver infranto l’omertà sulla vera morte di Mussolini), diventano per Milza «due colpi alla testa», esclusi dall’autopsia che lo stesso Milza ha citato
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alcuni capitoli prima. Ma sono questioni di lana caprina di fronte a confusioni e sviste ben più allarmanti: le allusioni fatte da De Felice nel «Rosso e nero» edito nel 1, in merito alla vera morte di Mussolini, suscitano discussioni o polemiche, ma il relativo rinvio di Milza ad un «op. cit.» di Claudio Pavone, riporta al solo volume citato di questo storico, «Una guerra civile», edito quattro anni prima del testo defeliciano. Caso analogo, ben più grave, quello che vede protagonista Giorgio Amendola, morto nel 10, ma che quindici anni dopo, secondo Milza, sarebbe impegnato sull’«Unità» a commentare il «Rosso e nero» di De Felice, intervenendo sempre sulle controverse vicende della morte del Duce e della vera identità del colonnello Valerio (p. 32). Palese la confusione fatta da Milza col noto articolo di Amendola del 20 luglio ’7, relativo alla defeliciana «Intervista sul fascismo», articolo in cui però non si fa alcun cenno al colonnello Valerio e alla morte del Duce! E, peggio, capita anche di leggere che «nel 142 (…) il capo della polizia Arturo Bocchini suggerì a Ciano» di far sottoporre il Duce a cura antiluetica (p. 240); ma Bocchini era morto nel ’40… E via di questo passo. Possibile che un volume destinato a divulgazione, in una collana di prestigio, giunga a tanto? Nella distrazione generale? Tempi calamitosi (per i lettori ben più che per gli autori)! n
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ItAlIA 1945 gli ultimi giorni di Mussolini
I pasticci di Dongo
La piazza del comune di Dongo nelle convulse ore del 28 aprile 1945
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Italia 1945 gli ultimi giorni di Mussolini
Un libro made in France rilancia – male e confusamente – la tesi che la morte di Mussolini non sia avvenuta come comunemente si tende a far credere. E lo fa dimenticando e trascurando alcune notizie che invece avrebbero reso la ricostruzione più solida e attendibile. A cominciare dalle pagine dedicate alla cosiddetta «pista inglese»…
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apita sempre più spesso di sentire parlare di Mussolini e dei tanti enigmi che ancora avvolgono i suoi ultimi giorni. E se ne parla non perché ci siano novità – che pure ci sarebbero ma nessuno se ne interessa – ma perché si continua a ripetere il solito copione: la «fuga» in Svizzera, l’Oro di Dongo, i «Diari» (che a Dongo non ci furono mai), il cappotto tedesco, il Colonnello Valerio e l’altra mezza dozzina di possibili sparatori, il coraggio e la dedizione di Claretta, lo scempio di Piazzale Loreto… Poi, ogniqualvolta muore un tiranno o un terrorista (come nel recente caso di Bin Laden) la fabbrica del parallelo storico sballato riparte in quarta, sempre uguale a se stessa: quello che fu fatto a uno può essere stato fatto anche ad un altro? Le giustificazioni di allora valgono oggi oppure no? Gli USA allora si comportarono in un modo perché oggi in un altro? E poi, il solito Diritto: quello, incerto, che nei momenti rivoluzionari o di vuoto istituzionale, viene chiamato a sancire atti arbitrari (come è accaduto con la morte di Mussolini). E poi il Diritto internazionale che autorizza o non autorizza tutto a seconda della capitale di Stato dove è declinato al momento. Il tutto, ovviamente, senza riflettere un solo istante sul fatto che Mussolini non ha niente a che vedere, da nessun punto di vista, con personaggi come Saddam Hussein o con un Osama Bin Laden. L’ultimo libro sugli ultimi giorni di Mussolini è uscito poche settimane prima della morte di Osama Bin Laden, il super terrorista ucciso misteriosamente e frettolosamente da un commando USA nella sua villa-rifugio in Pakistan. I paralleli – oltretutto estendibili a numerosi altri fatti storici – si esauriscono in paio di domande, destinate a rimanere senza risposta, ieri come oggi: come è andata davvero? E, soprattutto, era proprio necessario? Invece di uccidere brutalmente non sarebbe stato meglio un processo invece di incanalare tutta la potenza mediatica dell’avvenimento nel dopo (plateale nel caso di Piazzale Loreto; fintamente plateale con Bin Laden
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di Fabio Andriola con giornali e TV chiamati per giorni a commentare e raccontare un fatto di cui manca – almeno al momento – ogni riscontro documentale). Domande che, tornando alla Storia, troviamo in qualche modo anche nel libro che spiega queste e le pagine che seguono: «Gli ultimi giorni di Mussolini» del francese Pierre Milza (Longanesi, pp. 368, € 24,00). Del libro si è parlato soprattutto al suo apparire in Francia per un «dettaglio» che va prima riferito e poi spiegato: Milza – quindi non il solito «storico improvvisato» (per gli storici «accademici» quelli che si occupano di Dongo e dintorni lo sono per definizione e in qualche caso, anche recente, la definizione corrisponde a verità) – crede alla «pista inglese». Cos’è la «pista inglese»? E’ una cosa di cui molti parlano ma di cui pochi hanno idea: per «pista inglese», a proposito della morte di Mussolini, si intende il coinvolgimento dei servizi segreti inglesi nella rapida uccisione del dittatore fascista in contrasto con i desiderata degli americani più propensi – in quell’occasione – ad un processo. L’interesse inglese a far fuori alla svelta Mussolini potrebbe essere stato motivato invece dal fatto che a Londra non si gradiva l’idea di veder emergere documenti e testimonianze scottanti che avrebbero rivelato il tourbillon di accordi, proposte e controproposte che – nel miglior stile della cosiddetta «diplomazia parallela» – caratterizza spesso gli inizi e le fini delle guerre e che avrebbero interessato, anche ma non solo, i rapporti tra Italia e Gran Bretagna. Insomma, la «pista inglese» autorizza a tirare un unico filo rosso che parte dal giugno 1940 (entrata dell’Italia nella Seconda guerra mondiale) e conduce al Lago di Como, nell’aprile 1945. Ovviamente, soprattutto quando si ha a che fare con servizi segreti, operazioni speciali e compagnia sparante, non è strettamente necessario che chi vuole una cosa debba necessariamente farla in prima persona: c’è sempre pronto ad essere impiegato qualcuno sul campo: un alleato momentaneo, un utile idiota, un fedele esecutore… Gli inglesi poi avevano in quel frangente dalla loro il miglior partner che ci si potesse augurare: il
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Partito Comunista che, con Partito d’Azione e socialisti, aveva il controllo di gran parte del movimento partigiano e una fitta rete di uomini sul terreno. A questo fronte se ne contrapponeva un altro formato dai
non mancano omissioni, sbavature, incertezze, disattenzioni e una certa tendenza a «colorire» il racconto con fesserie e deduzioni arbitrarie e infondate. Qui avrebbe potuto utilmente intervenire l’editing
Gli inglesi avevano in quel frangente dalla loro il miglior partner possibile: il Partito Comunista che, con Partito d’Azione e socialisti, aveva il controllo di gran parte del movimento partigiano partiti moderati in seno al CLNAI, il Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia (democristiani, liberali), più i militari che facevano capo al generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari per la Libertà (CVL) strettamente legati agli alleati, soprattutto agli americani. Terzo attore, poco considerato ma decisivo: i tedeschi che impegnati in fitte trattative per porre fine alla guerra in Italia avevano già da tempo «mollato» i camerati della Repubblica Sociale Italiana e che potrebbero benissimo aver messo sul piatto anche la «consegna» di Mussolini. Cosa che la dinamica della cattura di Dongo consentirebbe di sostenere. Tutto questo è in parte ripreso da Milza in un lavoro dichiaratamente divulgativo, che si presenta come un compitino diligente anche se
dell’editore italiano ma la collana – diretta da Sergio Romano – è la stessa (anche se allora la sigla usata fu quella del Corbaccio) che nel 1998 pubblicò un libro incredibile per superficialità e scorrettezza sul tema: «Mussolini e gli inglesi» di Richard Lamb. Ma quello che fa del libro di Milza l’ennesima occasione perduta per aiutare il grande pubblico a vedere quegli avvenimenti cruciali in un’ottica diversa da quella portata avanti per decenni sono le omissioni. La scusante, parziale, c’è: su Dongo si è scritto molto, nell’arco di oltre sessant’anni, sostenendo tutto e il contrario di tutto, per cui è facile perdersi, confondersi, farsi sfuggire quell’articolo o quella testimonianza. Ma Milza non ha dimenticato dei dettagli: ad esempio ha tralasciato completamente il libro di Alessandro Zanella («L’Ora di Dongo», Rusconi, 1993) che, oltre a fornire una
Anni Cinquanta: a sinistra l’ex comandante partigiano Pier Bellini delle Stelle, Pedro. A destra Urbano Lazzaro, Bill
cronologia precisissima di quelle convulse ore ha messo l’accento sull’attività dell’avvocato fiorentino Bruno Puccioni (filofascista ma ben introdotto tra i partigiani del comasco) che dalla sua villa di Domaso (a sei km a nord di Dongo) influì decisamente sulle scelte dei partigiani della 52a Brigata Garibaldi di Pier Bellini delle Stelle sia per quanto riguardo il fallito piano per «salvare» Mussolini la sera del 27 aprile 1945 e consegnarlo agli americani sia per la riproduzione e la destinazione di parte dei documenti segreti che il Duce portava con sé. Milza, inoltre, pur dedicando qualche pagina alla «pista inglese» non parla poi mai apertamente di chi a quella pista ha dedicato un intero volume nel 2002 (inserito in bibliografia ma non letto). Ecco perché abbiamo deciso di riproporre un capitolo del libro di Garibaldi, tratto dalla sua edizione americana (completamente rivista e aggiornata nel 2004): poche pagine limpide che raccontano molte cose che non troverete mai nei libri su Dongo che inclinano verso quella che De Felice, con una punta di condivisibile disprezzo, chiamava «vulgata». Una «vulgata» di cui però anche lui – come vedremo – era vittima inconsapevole. Milza si schiera da tempo sul fronte defeliciano anche se sui giorni finali di Mussolini lo storico di Rieti non fece in tempo a dire molto. Del resto, quello che sapeva è ormai noto da tempo agli studiosi che, anzi, oggi hanno a disposizioni informazioni molto più attendibili e dettagliate di quelle di cui poteva disporre De Felice prima di morire. Per De Felice quindi si possono trovare delle attenuanti che invece risulta più difficile perdonare a Milza: che non ha letto, ad esempio, i fondamentali saggi di Marino Viganò – altra firma nota ai lettori di «Storia in Rete» – sulla presunta «fuga in Svizzera» di Mussolini e sulla notte del 27 aprile, la notte del
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mancato «salvataggio» di Mussolini. Deficiataria anche la conoscenza dello storico francese sul tema del famoso e misterioso carteggio Mussolini-Churchill su cui esistono alcuni testi abbastanza documentati e vari articoli. Ma è sulla questione della morte che, forse, il libro di Milza pecca di più perché tralascia di ricordare alcune cose che invece avrebbero dato più peso e spessore al suo libro. Ne elenchiamo alcuni. Ad esempio, pur facendo propri i dubbi sulla reale identità del Colonnello Valerio (al secolo Walter Audisio, dirigente comunista, ufficialmente l’uomo che «giustiziò» Mussolini e, chissà perché, anche la Petacci) e sul ruolo che potrebbe avere avuto davvero nelle ore trascorse sulla sponda sinistra del lago di Como il 28 aprile 1945, Milza non cita un paio di testimonianze importanti. La prima è quella del regista Carlo Lizzani che nel 2009 ha rivelato che Sandro Pertini, socialista e «falco» degli irriducibili della Resistenza, nel 1975 gli confidò – per iscritto – che «…e poi non fu Audisio a eseguire la sentenza: ma questo non si deve dire oggi». Parole che fanno «scopa» con quanto riferito poco più di un anno fa dallo scrittore e poeta milanese Franco Loi nelle sue memorie – «Da bambino il cielo» (Garzanti) – a proposito di una confidenza ricevuta anni addietro dal suo amico Pier Bellini delle Stelle, il comandante dei partigiani che avevano arrestato Mussolini a Dongo: «L’esecutore, il sedicente comandante Valerio, per certo non era Walter Audisio. Si presentò con un generico foglietto del CLN. L’uccisione di Mussolini e della Petacci avvenne a Villa De Maria [in realtà Casa De Maria, la casa di contadini dove Mussolini e la Petacci vennero condotti la notte tra il 27 e il 28 aprile 1945, sempre lungo la sponda sinistra del Lago di Como, NdR] a Bonzanigo, la sera prima del giorno in cui fu dichiarata. Bellini,
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Una scena del film «Mussolini ultimo atto» di Carlo Lizzani (1974), ricostruzione cinematografica in linea con la «versione ufficiale» della morte del Duce fornita dal PCI, che tuttavia fu smentita perfino da Pertini subito dopo averlo visto
contrario, era stato minacciato con una pistola alla tempia…». E queste parole, a loro volta, coincidono con quanto pubblicato da «Storia in Rete» nell’ormai lontano 2006 con l’inchiesta in cui davamo con-
C’entrano davvero gli inglesi? Milza ha trascurato un’altra circostanza importante: tra gli uomini che a Milano vollero e decisero la morte di Mussolini c’era anche uno dei capi del Partito d’Azione, Leo Va-
Carlo Lizzani nel 2009 ha rivelato che Pertini «falco» della Resistenza - già nel 1975 gli aveva scritto: «non fu Audisio a eseguire la sentenza: ma questo non si deve dire oggi» to delle ricerche di alcuni esperti dell’Università di Pavia coordinati dal professor Giovanni Pierucci, decano della medicina legale in Italia. Da quegli esami emergeva con chiarezza che Mussolini fu ucciso, a distanza molto ravvicinata (massimo 50 cm) mentre indossava la sola maglietta e con colpi sparati da più angolazioni. Il corpo venne quindi rivestito dopo la sua morte. Claretta invece venne colpita mentre era vestita e indossava la sua pelliccia, quindi, verosimilmente in un momento diverso – e probabilmente in un luogo diverso – da quello che aveva visto l’uccisione del suo amante. Tutte circostanze che smentiscono, una volta di più, la versione «ufficiale» che vuole i due giustiziati davanti al cancello di Villa Belmonte, alle 16,10 del 28 aprile 1945. Ma chi sparò allora? E per ordine di chi?
liani, un uomo dalle cui labbra De Felice pendeva ma che in tante ore di colloqui e conciliabili omise sempre di raccontare all’amico storico una cosa non indifferente: e cioè che fino al luglio 1945 era stato, regolarmente retribuito, un agente del SOE (il servizio segreto britannico specializzato in operazioni speciali). Un legame di cui lo stesso Valiani, ad un certo punto, non voleva si parlasse, come emerge dalle carte del suo fascicolo. Un fascicolo in cui si legge però anche che Valiani «ha fatto un buon lavoro con il comitato di liberazione di Milano» e che la sua attività è stata per gli inglesi «di valore inestimabile». La «pista inglese» appunto. O meglio, la «pista italo-inglese». Fabio Andriola [email protected]
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IDENTITÀ MULTIPLE giustizieri in trasferta
Ma quante persone
potevano essere
«VALERIO»? Nell’aprile Bandini pubblica su «Il Giornale» una magistrale inchiesta per raccontare che a Dongo c’erano più persone che potevano essere il colonello Valerio, l’uomo che aveva condotto l’esecuzione di Mussolini e dei gerarchi. Nel dopoguerra il PCI indicò Walter Audisio; negli anni Ottanta si è parlato di Luigi Longo. In queste pagine si fa un altro nome: Giovanni Pesce, storico comandante dei GAP il cui nome di copertura era Magnoli, proprio come Audisio. Con lui, in quelle ore ci sarebbe stato anche un veterano della Resistenza: Domenico Tomat. Tomat aveva il grado di colonnello e due nomi di battaglia: Silvio ma anche Valerio. Su lui e Pesce gravano oltretutto pesanti indizi. Non ultima una sorprendente richiesta di perdono. A Donna Rachele… di Franco Bandini
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ra le molte ragioni per le quali sulla fucilazione di Mussolini, di Claretta e dei gerarchi ha potuto gravare sino ad oggi un mistero lungo mezzo secolo, una ve n’è che comprende e spiega tutte le altre: ed è la nostra incapacità a separare razionalmente i fatti della guerra civile e della Resistenza dall’immagine stereotipata che se ne è costruita poi. Accade la stessa cosa a quei mariti «che son gli
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ultimi a sapere»: i fatti sono sotto i loro occhi, ma essi li interpretano secondo una griglia psicologica immaginaria. Nonostante tutti gli sforzi, una storia autentica della Resistenza non solo non esiste, ma è anche impossibile che esista. Venne combattuta da pochi, in più assai dispersi su di un’area settentrionale della penisola dopotutto vastissima. Ad ottobre del 1944, sul libro paga di Paolo Caccia-Dominioni, che amministrava i fondi del CLNAI, figuravano soltanto seimila nomi,
saliti a non più di 20 mila nel marzo 1945. Coloro che scelsero la montagna non ebbero mai una percezione esatta di cosa succedeva nelle grandi città: ed in queste, spericolati nuclei di «gappisti» agirono in modo pressoché autonomo, spesso incontrollato. Comandi, inesistenti per lunghissimo tempo: ma poi distrutti uno dopo l’altro ad opera di spie ed infiltrati, sui quali è caduto quel silenzio che è l’erede necessario di ogni doppio gioco. Documenti, pochissimi: in compenso una profusio-
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IDENTITÀ MULTIPLE giustizieri in trasferta Giovanni Pesce (1918-2007), fu il più temuto e violento esponente dei GAP a Milano. Esperto di tattiche di guerriglia e terrorismo, uccise, fra gli altri, il giornalista Ather Capelli, il 31 marzo 1944
ne di «nomi di battaglia» scelti con limitata fantasia, simili perciò tra loro, e in più cambiati più volte dalla stessa persona. Infine, testimonianze posteriori sulle quali lo storico non può davvero fare il minimo affidamento. Questo magma incandescente, del quale una popolazione rassegnata ed indifferente ebbe soltanto un vago sentore, è stato «ricostruito» dopo la fine del conflitto in un tutto organico, nel quale campeggiano in bell’ordine nomi e ruoli, ordini ed azioni, volontà ed obiettivi, rivestendosi di una logica che è stata accettata ed introiettata proprio perché l’uomo rifugge dai guazzabugli delle realtà casuali. Chiarezza e semplicità confortano e rassicurano, poco importa come nascono. Così è accaduto che sulla sponda ovest del Lago di Como sia comparsa, nelle storie, una 52ª Brigata Garibaldi che come tale non era mai esistita ma che, comunque, nel marzo 1945,
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contava 19 partigiani, più o meno attivi negli 80 chilometri che vanno da Como a Chiavenna. E così è accaduto che tutte le nostre inchieste di mezzo secolo abbiano sempre girato attorno a non più che una ventina di nomi, Pedro, Bill, Lino, Valerio, Lampredi, Mordini e così via, quasi chè quel fatale 28 aprile il lago non fosse una caldaia ribollente nella quale si agitavano e scontravano Brigate Nere e fascisti sbandati, reparti, comandi tedeschi e unità rapide alleate, dozzine di uomini di sette od otto servizi diversi, insorti dell’ultima ora e formazioni partigiane accorse da tute le parti, specie dal Lago Maggiore: il tutto non nello spazio vuoto di un deserto, ma nel folto di una popolazione che contava su quella sponda, non meno di centomila abitanti. Il nostro torto, parlo di noi giornalisti e storici «non credenti» alle versioni ufficiali (che è poi una bella contraddizione in termini), è quello di essersi lasciati abbacinare da quei nomi e da quel lago. Ed anche da quella data, 28 aprile: quando il 28 aprile sul lago, del lago, non è il 28 aprile di Milano, così come – a Milano – il 28 non è il 27, e nemmeno il 26. Torto fatale per cinquant’anni poiché le cose del lago, in realtà, eran solo la conseguenza di ciò che era cominciato proprio a Milano, il 21 aprile: un sabato nervoso, pieno di foschi presagi. Quella mattina, due «gappisti» in bicicletta attaccarono coi mitra e con le bombe a mano un piccolo posto della Guardia Nazionale fascista in via Bergognone, a pochi passi da Piazza Napoli. I militi saltano fuori e rispondono al fuoco, protetti dai ripari di sacchetti di sabbia, ferendo il più giovane dei due. Si tenta la fuga, forzando sui pedali: ma il ferito, Annibale Soregotti,
«L’Unità» del 1° aprile 1947, con la cronaca dell’apparizione pubblica a Roma di Audisio e Secchia nel tentativo di puntellare la versione «ufficiale» sull’uccisione di Mussolini
mentre l’altro si dilegua, rompe la catena. Cerca di difendersi, poi lo catturano, lo portano al Comando, lo torturano per quattro giorni, quindi lo fucilano la sera del 25, in via Serbelloni: in quel momento, Mussolini ha già abbandonato la città, diretto a Como. (…) La cattura del Soregotti produsse un fortissimo allarme nelle squadre GAP della zona. In funzione del fatto che i militi della GNR, appartenenti al 608° Comando di Piazza Napoli, erano da tempo sulle tracce delle attività gappiste non soltanto del momento, ma anche molto remote, a cominciare dall’autunno 1943. Il rischio di una catastrofe non ammetteva dilazioni, e dilazioni non vi furono: la mattina del 26 un gruppo misto di «gappisti» e operai partigiani della Borletti e della CGE, armati di un panzerfaust, attaccano la caserma di Piazza Napoli, occupata da 32 ufficiali e militi, li sbaragliano e li catturano, fucilandone subito 12 sul ponte del fiume Olona. Gli altri 20, assai malconci, son condotti prigionieri nei sotterranei della Borletti. Traggo dal racconto che a tempo debito mi fece Dante Castelli, comunista e vicecommissario politico della Borletti, i tragici particolari di quel che avvenne (…) Nella giornata del 27 i venti superstiti del 608° Comando GNR, fatti prigionieri il giorno precedente, vengono fucilati a piazza Tripoli, anche qui sul ponte del fiume Olona, e parte dei cadaveri finiscono nelle sue acque. Ma oramai il volger delle ore ha portato una si-
Si vedrà quali salti mortali sian stati poi fatti per sostenere che Magnoli era il nome di battaglia non di Giovanni Pesce, ma di Walter Audisio, il ragioniere di Alessandria sul quale venne scaricato l’onore e l’onere della fucilazione di Mussolini |
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curezza mai prima conosciuta, e strabilianti novità: dal lago e dalle zone intermedie, provengono informazioni di prima mano, tanto che Dante Castelli, si vede offrire l’incarico di andare a prendere «verso Como» due camioncini, stipati di documenti mussoliniani, con la promessa di esser poi nominato prefetto in Valtellina. Ma Castelli storce il naso: è il Commissario della 4ª Divisione e preferisce restare a Milano. «La sera del 27 però – racconta – arrivò al Cesare Tuissi, fratello della Gianna, una telefonata dall’alto lago, molto eccitata. Vi si diceva che Mussolini
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era stato arrestato e che vi erano moltissime valigie da recuperare, per cui al buio, saltarono su un camioncino della CGE e su un paio di auto una dozzina di “gappisti” e partigiani, sia della Borletti che della CGE stessa. Io penso che alcuni si sian mossi per metter le mani su Mussolini, altri per “acchiappare le valigie”. Io non mi mossi neppure questa volta». A capo di questa spedizione notturna si trova il più spericolato ed audace tra tutti i «gappisti» operanti a Milano, Giovanni Pesce, poi medaglia d’oro della Resistenza, ex
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miliziano in Spagna nella Brigata Garibaldi e confinato a Ventotene nel maggio 1940 fino all’agosto del 1943. In quel momento, Giovanni Vittorio Pesce ha appena compiuto 27 anni e ne ha combinate veramente di tutti i colori, a Torino come a Milano. Lo chiamano «fulmine di guerra» e, da quanto ora si sa, mai definizione fu più azzeccata. Come Pesce, non lo conosce in quel momento nessuno, poiché ha cambiato più identità che capelli in testa. Ora, in questo 27 aprile, ha in tasca una carta d’identità intestata a Giovanbattista Magnoli, di Cesare, nato a Castelvetro. Come tale è stato assunto dalla Borletti nelle funzioni di direttore di mensa il 24 gennaio 1944, il che gli consente una grande libertà d’azione ed assenze più che giustificate. Difatti, opera come «gappista» sia a Torino che a Milano fino al giugno, dopodiché si stabilisce definitivamente nella capitale lombarda. I suoi colpi cadono quasi tutti di sabato e domenica, e questo gli consente una stupefacente ubiquità. Naturalmente, il documento è falso. Esistono due Castelvetro, quello Piacentino e quello di Modena, ma in nessuno dei due si rintraccia un Giovanbattista Magnoli. Si vedrà quali salti mortali sian stati poi fatti per sostenere che Magnoli era il nome di battaglia non di Giovanni Pesce, ma di Walter Audisio, il ragioniere di Alessandria sul quale venne poi scaricato l’onore e l’onere della fucilazione di Mussolini. Il quale ragioniere, la cui cugina prima, Franca De Tomasi, è la “capa contabilità” della Borletti, ha insistito in quelle stesse ore di persona e per telefono con il colonnello Alfredo Malgeri, liberatore di Milano con i suoi 407 uomini della Guardia di Finanza, perché si rechi sul lago a prendere e scortare Mussolini sino in città. Ma ora, alle 11,30, chiama per l’ultima volta il colonnello stesso e gli dice: «contrordine: adesso provvederemo noi in altro modo». Nasce in questo preciso istante quel-
la che è stata chiamata, giustamente, la «notte degli inganni», e nascono qui i disperati tentativi, tutti falliti, che la parte moderata della Resistenza mette in opera non tanto (e forse) per salvar la pelle al fuggiasco dittatore, quanto per dare alle cose un corso più regolare, soprattutto in linea con gli impegni ferrei già presi con gli Alleati. Nella tragedia del Fascismo morente sul lago, la Borletti occupa un posto di proscenio, però rimasto in ombra (…) In sostanza, la Borletti è una grande industria poco accentrata, attorno alla quale gravitano, famiglie comprese, almeno 30 o 40 mila uomini e donne. Da questo vasto serbatoio, nasce a metà del 1944, la 113ª Brigata Garibaldi, la cui zona di sfollamento, in caso di pericolo per qualcuno dei suoi componenti, è l’alto lago di Como, e più precisamente Dongo. L’origine è semplice, perfino banale. Dante Castelli, comunista integrale e influente nel Comitato di agitazione interno, ha una casetta estiva a Rezzonico, e rapporti di amicizia con gli operai delle Ferrovie Falck di Dongo. Qui, poco dopo l’armistizio, costituisce il Comitato di Liberazione locale: e a esso avvia, a mano a mano, tutti i dipendenti della ditta che per una ragione o per l’altra, corrono serio pericolo di arresto e di fucilazione. Uno dei primi è Pietro Terzi, aiutante alla contabilità della Borletti, seguito dai fratelli Cesare e Giuseppina Tuissi, meglio conosciuta come Gianna. (…) Ma non arrivano soltanto uomini e donne, a Dongo. Anche aiuti consistenti, poiché i proprietari della Borletti sono strettamente connessi al movimento partigiano. Romualdo Borletti, chiamato anche Aldo, ma più noto col soprannome di Micio, sportivo, ufficiale pilota abbattuto e ferito gravemente davanti a Sollu, partigiano, arrestato dai tedeschi ad un valico di frontiera e nuovamente ferito, è uno dei cinque uomini (Edoardo Visconti,
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I quindici – anzi i sedici - di Dongo di Luca Di Bella Guglielmo Mozzoni, Stefano Porta e Dino Bergamasco sono gli altri), che fa la spola tra la Svizzera e Milano con i fondi destinati al movimento clandestino, consegnandoli ad Alfredo Pizzoni del Comitato nazionale e amministrati da Enrico Falck. (…) Non fa dunque meraviglia che una solida base operaia e una efficace alleanza con buona parte del ceto alto-borghese di Milano, abbiano fatto della Broletti il punto di riferimento della Resistenza del Nord, né che nei suoi molti edifici si sia venuto gradatamente a costituire il Comando politico-militare di essa, dai Valiani ai Longo, dai Lampredi ai Pesce. (…) Quando parte per il lago di Como, a notte inoltrata del 27 aprile, Giovanni Pesce è sicuramente l’uomo più informato, al momento, della situazione reale a Dongo. Gli sfugge soltanto che Cadorna, comandante generale del Corpo Volontari della Libertà, ha già messo in moto le sue scarse truppe, molto nominali, per tentare un recupero di Mussolini. Se lo faccia per esser già venuto a sapere «chi era partito», forse non chiariremo mai: è probabile di sì. Anche chi ha le mani legate conserva tuttavia l’uso delle orecchie. Del resto, le ore coincidono: Cadorna chiede al suo amico colonnello Sardagna, della piazza di Como, di far scendere il lago a Mussolini e Claretta fino a Moltrasio, per traghettarli poi in barca a Blevio, nella Villa dell’industriale Cademartori, vedi caso a un passo dalla «Capranica» dei Borletti. Insiste più volte in tarda serata, ed effettivamente Mussolini, bendato come una mummia, vien fatto scendere da Germasino, alle due di notte del 28 aprile. Ma a Moltrasio, la colonnetta dei partigiani della 52ª coi due prigionieri non arriverà mai, e invano Cademartori attenderà i suoi illustri ospiti a Blevio
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a loro tragedia, personale e collettiva, è stata sempre guardata di fretta, quasi di sfuggita, soffocata da quello che accadeva a pochi chilometri di distanza tra Bonzanigo e Giulino di Mezzegra tanto quanto da quello che si era deciso nelle ore precedenti a Milano. Ma dell’esecuzione, come si dice in genere, «dei 15 gerarchi» [recentemente è stata cancellata su Wikipedia una modifica che specificava, carte alla mano, che non tutti i 16 di Dongo erano «gerarchi» NdR], a Dongo restano aspetti umani, politici e storici solo in parte documentati dalla documentazione (anche fotografica) che testimonia i loro ultimi momenti, affrontati da tutti con grande dignità e fermezza. Tra l’ottantina di italiani fermati nella colonna Mussolini vennero scelti loro secondo criteri ma chiariti, sicuramente discutibili e che vanno addossati – chiunque egli sia stato – al Colonnello Valerio che con modi bruschi e sbrigativi non volle ascoltare ragioni: doveva tornare a Milano con 15 cadaveri (tanti quanti erano stati gli antifascisti fucilati a Milano nell’agosto 1944 per rappresaglia ad un attentato partigiano contro un furgone tedesco), ripartì con 18 cadaveri. Infatti, oltre a Mussolini e alla Petacci, poi fece ammazzare (non ci sono altre espressioni possibili) anche Marcello Petacci, uno che gli stessi fascisti avrebbero messo al muro (e che non vollero con loro sul lungolago di Dongo) ma per
fino all’alba. Il piano di Cadorna è naufragato, senza una spiegazione. Nel suo diario, sotto la data del 24 giugno 1971, il colonnello Sardagna scriveva amareggiato: «Detto questo (che cioè il processo a Mussolini si sarebbe risolto in una farsa), debbo dire che negli anni successivi agli avvenimenti ho potuto chiarire con molti dei presenti alle ultime ore di Mussolini in alto lago, molti punti oscuri e molte inesattezze su tempi e persone per cui tante veri-
Il 27 aprile Giovanni Pesce è sicuramente l’uomo più informato, al momento, della situazione reale a Dongo. Gli sfugge soltanto che Cadorna già si è attivato per tentare un recupero di Mussolini |
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probabili malversazioni e intrallazzi e che di fronte alla «giustizia partigiana» però non potevano avere alcun rilievo. Scambiato inizialmente per Vittorio Mussolini, figlio del Duce che invece era lontano chilometri in quel momento, Petacci mentre lo portavano a morire provò a scappare, si gettò nel lago e dopo qualche bracciata fu fulminato da un numero imprecisato di colpi. Alle finestre dell’albergo Dongo c’erano anche la sua compagna Zita Ritossa (pare poi violentata nelle ore successive) e i due figli, il più piccolo dei quali non si riprese mai dallo choc. I “gerarchi” che da vivi e da vivo non l’avevano voluto con loro a morire se lo ritrovarono da cadavere con loro cadaveri fino a Milano, fino a Piazzale Loreto e poi fino all’obitorio. Ma forse in morte le cose apparirono meno gravi agli occhi di uomini condannati a morte senza vere colpe se non quelle di essere stati nel posto sbagliato per aver seguito un uomo e un credo politico che in quei giorni stavano tramontando. Ecco i loro nomi: Francesco Maria Barracu (59 anni), mutilato di guerra e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio; Nicola Bombacci (66 anni), ex deputato e fondatore del Partito Comunista, giornalista e confidente di Mussolini; Pietro Calistri (31 anni), ufficiale di aeronautica; Vito Casalinuovo (47 anni) colonnello della GNR e ufficiale di ordinanza
tà non sono più tali e tanti misteri svaniscono. Non sarò però io a parlare per conto di altri, sono ancora vivi, parlino loro». Benché «loro» non abbiano mai parlato, né prima né dopo quel 1971, è possibile chiarire, intanto, «i tempi dell’alto lago» cui fa riferimento il colonnello, portando alla luce il fatto straordinario che, stando alle versioni “ufficiali” le esecuzioni di Giulino di Mezzegra (vere o false che fossero), e quelle dei gerarchi a Dongo furono in realtà contemporanee. Dico straordinario per due ragioni: la prima è che si tratta, dopo cinquant’anni, di una novità assoluta, e la seconda che non ce ne siamo accorti per lo stes-
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I fucilandi di Dongo. Pochi istanti dopo i partigiani li costringeranno a voltarsi di spalle, indifferenti alle onorificenze di cui molti di loro erano decorati
di Mussolini; Goffredo Coppola (46 anni) docente di letteratura greca e latina all’università di Bologna di cui è anche rettore dal gennaio 1944, dal marzo 1944 presidente dell’Istituto di Cultura Fascista; Ernesto Daquanno (48 anni), giornalista, direttore dell’Agenzia Stefani; Luigi Gatti (31 anni), tenente della GNR, capo della Segreteria Particolare del Duce; Agostino Liverani (49 anni), ministro delle Comunicazioni; Fernando Mezzasoma (38 anni), ministro della Cultura Popolare; Mario Nudi (32 anni), responsabile della Presidenziale, la scorta di polizia per il Capo del Governo; Alessandro Pavolini (41 anni), ministro di Stato in quanto segretario del Partito Fasci-
so mezzo secolo. Credo che converrà rifletterci sopra. Per l’esecuzione di Mussolini e Claretta, il colonnello Valerio, ovvero il ragionier Walter Audisio, ha sempre fornito il «tempo» delle 16,10 del 28 aprile. Il Tribunale civile e penale di Como porta invece le 16,30 e l’atto di morte del Comune di Tremezzina, per Mussolini Benito e Petacci Clarice, «le 16,20 circa». Si può perciò concludere che i due siano stati dati ufficialmente per morti non prima delle 16,10 e non dopo le 16,30. Per i 16 tra ministri funzionari e militari fucilati a Dongo, le «versioni ufficiali», ivi compreso il colonnello Valerio, non hanno mai fornito un «tempo» qualunque: egli stesso si limita a scrivere nelle sue memorie
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sta Repubblicano, comandante delle Brigate Nere; Paolo Porta (44 anni), federale di Como; Ruggero Romano (50 anni), ministro dei Lavori Pubblici; Idreno Utimperghe (40 anni), sindacalista, comandante della Brigata Nera di Lucca; Paolo Valerio Zerbino (39 anni), ministro dell’Interno dal 21 febbraio 1945, in precedenza Alto Commissario per il Piemonte. In tutto sei ministri, sei militari e sette civili considerando anche Marcello Petacci. In tempi normali o anche davanti ad un qualunque tribunale minimamente serio nessuno di loro avrebbe avuto problemi con la sola eccezione di Pavolini, Zerbino e forse Utimperghe. Ma quelli non erano tempi normali. n
(postume) che ripartì per Milano alle 18,30. A questo vuoto documentario ufficiale, fa riscontro una lunga serie di precisazioni, la prima delle quali, in fatto di autorevolezza, è quella del colonnello, poi generale Alfredo Malgeri, il quale ne scrisse su un suo prezioso libretto, redatto sui rapporti di ben sei brigadieri e marescialli della Guardia di Finanza che avevano partecipato ai fatti. Egli racconta sobriamente le esecuzioni, e tacitamente aggiunge: «sono le 16,20». Don Mai-
netti, parroco di Musso e attore non secondario di quel dramma, indica nel suo memoriale che ebbe la notizia «verso le 16,30», e il comandante del plotone d’esecuzione, Orfeo Landini, raccontando la sua esperienza al giornalista Renato Salvadori, è addirittura lapidario: «“Giù le sicurezze” – “Puntate” – “Fuoco”. Erano le 16,25». Altre precisazioni che sarebbe assai lungo esaminare, si ricavano da una minuta ricostruzione di tutto ciò che avvenne quel pomeriggio del 28 aprile nella ribollente pentola della piazza principale di Dongo. Tuttavia, corrono 28 chilometri di allora pessima strada tra Giulino e Dongo, segmentati, quel giorno, da quattro posti di blocco partigiani, e in più invasi da una vera fiumana di donne e uomini, attirati fuori di casa, dalle sensazionali novità, prima fra tutte quella dei favolosi tesori trasportati dalla «colonna Mussolini». In nessun caso è possibile trasferirsi dall’una all’altra località in meno di 40 minuti, forse 50. Dal che discende che il Valerio di Dongo non era quello di Giulino. Ve ne erano infatti due, e ben avevano ragione Pier Bellini delle Stelle e Urbano Lazzaro, al processo di Padova, nel dichiarare che non erano affatto sicuri che il Valerio di Dongo fosse anche la stessa persona presentata alla Basilica di Massenzio, ai primi del 1947, come il «vero» giustiziere di Mussolini. Saremmo però rimasti forse per sempre con questo stesso dubbio se Giovanni Pesce, che fu appunto a Dongo quel pomeriggio, non avesse commesso due errori, in realtà poco spiegabili: uno, quello di apporre la firma Magnoli, in chiare lettere stampatello, al piede della lista dei prigionieri fatti dalla 52ª il giorno prima. E il secondo, quello di aver
Stando alle versioni «ufficiali» le esecuzioni di Giulino di Mezzegra (vere o false che fossero), e quelle di a Dongo furono contemporanee. E non ce ne siamo accorti per mezzo secolo... |
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Domenico Tomat (al centro della foto), maggiore durante la Guerra Civile spagnola con i compagni Giuseppe Cresto (di profilo) e Renzo Giua (senza berretto)
indicato a un suo partigiano, nel salone d’oro del Comune, l’elegante figura di Paolo Zerbino, ministro degli Interni della morente Repubblica, spiegandogli: «E’ il federale di Vercelli». Poi si avvicina al prigioniero e ridendo gli dice: «Hai visto su chi va la taglia adesso?». Quello della taglia è un debole di Giovanni Pesce, del resto giustificato. Nei suoi libri pubblicati poco dopo la guerra ne parla una dozzina di volte. Nel marzo 1944, ne ha già otto sulla sua testa, e il premio è giunto a 500 mila lire subito dopo l’uccisione, a Torino, di Ather Capelli [giornalista, vice direttore de “La Stampa”, NdR]. Poi passa a un milione, come dire, oggi, almeno un miliardo [di lire]. Il firmatario dei proclami sui giornali e sui manifesti agli angoli delle strade è sempre Paolo Zerbino. Mettiamoci nei panni di Giovanni Pesce in quel momento,
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in quel luogo, davanti a «quel» prigioniero. Quale enorme controllo sarebbe stato necessario per tenere la bocca chiusa? Così, Giovanni Pesce è a Dongo, quel pomeriggio. Ma con lui si trova anche, accorso da Chiavenna, il suo vecchio comandante della 2ª Compagnia Mitraglieri della Brigata Garibaldi in Spagna, capitano Domenico Tomat. Uomo incredibile, con una vicenda incredibile e una stupefacente grazia «sovrana» concessagli da Sandro Pertini appena salito alla Presidenza della Repubblica. Della quale nessuno ha mai saputo nulla. Come tutti certamente ricordano, Sandro Pertini sale alla prima carica dello Stato l’8 luglio 1978. E’ il settimo presidente della Repubblica e a lui, come ai precedenti e successivi, spetta uno dei poteri più delicati politicamente e umana-
mente, quello di grazia. Lo esercita subito: il 5 dicembre di quell’anno giunge sul suo tavolo la domanda di grazia di un vecchio partigiano friulano, Domenico Tomat, in quel momento esule in Francia da più di trent’anni per sfuggire ad una condanna all’ergastolo inflittagli nel luglio 1954 dalla Corte d’assise d’appello di Venezia. (…) Nel 1923, in una rissa di taverna a margine delle elezioni amministrative, ci scappa il morto, il milite fascista Alfredo Giorgini. Arrestato, Tomat passa in carcere un anno, poi la Corte di Venezia lo assolve per insufficienza di prove nei riguardi dell’assassinio e, l’anno dopo, anche per il reato di resistenza alla forza pubblica. Finalmente libero, emigra con molti suoi congiunti in Francia, e vi si naturalizza nel luglio 1928. Nel 1936, la Spagna chiama, Tomat accorre, partecipa a quasi tutte le battaglie della Garibaldi, Belchite, Majadahonda, Guadalajara. Fa una rapidissima carriera, fino al comando interinale della Brigata, quando Randolfo Pacciardi lo lascia. Diventa maggiore e riporta una grave ferita ad un braccio. Accanto a lui e sotto di lui – primo fra tutti Giovanni Pesce – militano quasi al completo quei comunisti che di lì a cinque o sei anni diverranno i capi del movimento partigiano in Italia, e poi i «gros bonnets» del Partito. Nel 1939 Domenico Tomat è di nuovo in Francia, nell’Aube. E nel 1940, come soldato semplice di una Divisione francese, combatte l’ultima battaglia della morente III Repubblica sulle Alpi. Poi si dà al «maquis» [termine che indica la Resistenza francese, NdR] nella sezione italiana dei Francs Tireurs, con una medaglia, la cui motivazione non si è rintracciata. (…) Alla fine, nel 1944, passa in Svizzera, dove lo arrestano per motivi ignoti. Poi lo liberano o fugge, ricomparendo in Friuli e quindi in Valtellina; ora è colonnello, e comanda una Brigata d’assalto, appunto la Valtellina.
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Per le storie pubblicate dopo, il suo nome di battaglia è Silvio; ma quando Giorgio Amendola gli scrive nelle sue «Lettere a Milano», lo chiama Valerio. Pochissimi giorni dopo la Liberazione, Tomat è a Tenzone, e prende il comando di una formazione partigiana locale. Il 16 maggio 1945, sequestra il coetaneo Faustino Pascolo, che ritiene autore della «spiata» del 1923, e lo seppellisce vivo. Pochi giorni dopo, sequestra e uccide anche Luigi Grimaz, partigiano e congiunto del Pascolo, che si è dato d’attorno per conoscere la sorte toccata al Pascolo stesso. I due cadaveri riaffiorano nel maggio e giugno dell’anno dopo e si fa presto a concentrare i sospetti sul bollente colonnello partigiano. Il quale ripara nuovamente in Francia a scanso di guai. Nel dicembre 1951, la Corte di Udine eroga per lui una condanna all’ergastolo in contumacia. Nel 1954, quella di Venezia conferma, per cui, nel settembre, la sentenza diviene irrevocabile. Questa vecchia storia non molto esemplare avrebbe un’importanza marginale nel gran quadro bellico e postbellico, se non fosse per alcune considerazioni ed incredibili fatti che l’hanno accompagnata e conclusa; il primo dei quali è che le Corti di Udine e di Venezia non ritennero di applicare a Tomat quella sanatoria a larghe maglie che aveva passato un colpo di spugna su molti reati attribuibili al «clima» pre e post Liberazione. Questa severità, fu probabilmente una conseguenza non solo della «particolare efferatezza» dei due assassinii, ma anche del fatto che Tomat erano addebitabili altri tre omicidi per i quali però mancavano le prove. Un secondo punto, molto delicato, è che Sandro Pertini concesse la grazia il 10 agosto 1979, nonostante la mancanza del perdono da parte delle «parti offese», nonostante la proposta di rigetto avanzata dalla procura generale e nonostante l’av-
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Tomat scrisse: «Spesso ho invocato il perdono di Mussolini, per avere pace, e sento che mi è stato concesso. Ma mi manca il suo, Donna Rachele: ho bisogno di esser perdonato anche da lei» verso parere della magistratura e carabinieri locali. Quel 10 agosto, alla vigilia delle ferie, il ministro Morlino comunicava per telegramma l’avvenuta concessione del condono e concludeva, «pregasi immediata assicurazione stesso mezzo». Inoltre, non venne data nessuna notizia pubblica di questa decisione. Silenziosamente, Tomat rientrò subito in Italia e morì a Tenzone del 1985. Infine, si deve aggiungere che la segreteria della presidenza ha sempre opposto un netto rifiuto alla consultazione della pratica, giustificandosi col dire che si trattava di «atti privati» della presidenza stessa. Tesi assai singolare. Le ragioni per le quali il presidente Pertini passò sopra le pur rigide limitazioni al suo potere di grazia, sono chiare da gran tempo e cioè da quando, nel 1972, comparve un piccolo libretto, intitolato «La restituzione dei resti di Mussolini nel drammatico racconto della vedova». Esso era basato su una lunga intervista con Rachele, ottenuta da Anita Pensotti. Ad un certo punto Rachele raccontava: «Molti, in questi anni, mi scrivono o vengono a trovarmi sperando di essere liberati dai loro rimorsi. Qualche tempo fa ho ricevuto una lettera dalla Francia. Diceva: “Gentile Signora, sono un partigiano che non può più tornare in Italia non per ragioni politiche, ma per altre colpe. Mi sono creato una famiglia, ho due bambine e vorrei tanto che potessero vedere la nostra patria, i luoghi dove sono nato, in cui sono cresciuto. Ma non si può, e sono ultimamente tormentato dai rimorsi. Spesso ho invocato il perdono di Mussolini, per avere pace, e sento che mi è stato concesso. Ma mi manca il
suo, Donna Rachele: ho bisogno di esser perdonato anche da lei”. Gli ho risposto senza benevolenza. “Se mio marito vi ha perdonato”, gli dissi, “è stato troppo buono. Non vi hanno condannato per motivi politici, ma per altri delitti. E’ giusto che dobbiate espiare”. Mi ha scritto di nuovo insistendo: “Mussolini mi spinge ad implorare ancora il vostro perdono, Donna Rachele”. Ma io non mi sono lasciata commuovere. Aspetti un po’, gli farà bene”». Non esiste alcun dubbio sull’identità del postulante. A quell’epoca, soltanto Tomat era esule in Francia, si era fatto una famiglia di due figli, ed aveva sulla coscienza «altre colpe non politiche». Ancora meno dubbi sussistono sul fatto che Rachele ne conosceva l’identità, e che ebbe con lui una corrispondenza più articolata e lunga di quanto emerge dal brano riportato. Il cui finale quell’aspetti un po’, adombra una porta psicologicamente socchiusa, che poi, probabilmente, fu aperta del tutto, nel senso che Domenico Tomat finì con l’avere il sospirato perdono. Quel che conta è però altra cosa, cioè la ragione per la quale il Tomat aveva bisogno del perdono di Rachele: è ancora l’altra, ad essere strettamente connessa, che concerneva i «meccanismi intimi» della concessione della grazia. Sandro Pertini, come si sa, era un avvocato, e probabilmente si chiese cosa sarebbe successo se, una volta emanato il provvedimento, fosse saltato fuori che Tomat era l’uccisore o uno degli uccisori di Mussolini. La figura di quest’uomo non era certo irreprensibile, con l’aggravante che il suo notorio «cattivo carattere» poteva aver impresso a quella esecuzione un marchio an-
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i agenti della arlo, nel 1987
cor più reprensibile, come del resto era accaduto a quel Pascolo, la cui morte brutale era costata l’ergastolo a Tomat. Il perdono di Rachele, più che necessario, era obbligatorio. Si può forse andare anche più in là. Con i presidenti precedenti, Einau-
piazzale Loreto, tra la deposizione dei cadaveri, alle ore 3 della domenica 29 aprile e l’arrivo dei primi e mattinieri cittadini, verso le 8. «Buchi» rimasti tali per mezzo secolo, perché nessuno si è mai chiesto per quale ragione il camion ci mise più
Sappiamo tutto di Mussolini fino alle due di notte tra il 27 e il 28, quando parte da Dongo diretto a Moltrasio; e dalle 18 di quel sabato in poi, cioè dal viaggio finale a piazzale Loreto. Vi è allora un buco documentario pressoché assoluto di sedici ore di, Gronchi, Segni, Saragat e Leone era fuori discussione che potesse andare a buon fine una richiesta di grazia di quel genere. Ma con Pertini, la possibilità esisteva, poiché esisteva in parallelo, e per la prima volta, anche il timore politico che saltasse fuori la verità, nuda e cruda. Dal canto suo, Rachele non riparlò più di questo episodio, e poi morì il 30 ottobre 1979, tre mesi dopo l’avvenuta concessione della grazia a Tomat. Prima, però, avvertì che si sarebbe portata nella tomba «un terribile segreto familiare», ed aggiunse che doveva rimanere tale: aveva pensato di confidarlo al Pontefice, ma poi ci aveva rinunziato. Forse era proprio questo. Tornare ora, a quel 28 aprile sul lago, significa prendere coscienza del fatto che sappiamo tutto di Mussolini e Claretta fino alle due della notte tra il 27 e il 28, quando partono da Dongo diretti a Moltrasio; e dalle 18 di quel sabato in poi, cioè da quando i loro cadaveri vengono raccolti dal grande autocarro giallo che li trasporta a piazzale Loreto. Vi è allora un buco documentario pressoché assoluto di sedici ore, che attende di essere illuminato. Altri due buchi, più piccoli, si trovano tra quella partenza funebre delle 18 e l’arrivo dell’autocarro presso la «Pirelli» di via Fabio Filzi a Milano, circa alle 22,30. Nonché a
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di quattro ore a tornare a Milano, né che strani tipi fossero i componenti del Comitato di Liberazione, che pur avvertiti da Valerio dell’arrivo sul piazzale, se ne rimasero tranquillamente a dormire; salvo scandalizzarsi poi. (Ma per la verità, si mossero e ci andarono, presero disposizioni e poi scomparvero, seguiti da una macchina piena di giornalisti, i quali si dimenticarono di essere tali). Per comprendere cosa successe davvero nel «buco maggiore» è necessario rifarsi non alle «versioni» pubblicate dall’«Uni-
Il plotone di Valerio arrivava dall’Oltrepo pavese di Luc
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er decenni la loro identità è stato uno dei non pochi segreti della Guerra Civile. Un muro di silenzio, voluto e custodito dal partito comunista, che si è incrinato solo a partire dagli anni Ottanta. Chi erano gli uomini che accompagnarono il colonnello Valerio da Milano fino a Dongo e tornarono con un camion carico di cadaveri, cadaveri «prodotti» da loro? Iniziamo da quello che era il loro comandante ed è sempre stato l’unico di cui si è conosciuta l’identità: Orfeo Landini (1913-1993), comandante dell’Oltrepo Pavese e, nella primavera 1945, a capo della SIP (Servizio informazioni e polizia) della Resistenza. E’ Landini (che nel dopoguerra avrà vari problemi con la giustizia per alcuni fatti di sangue come l’esecuzione di numerosi prigionieri) a scegliere 12 ragazzi tra quelli delle varie formazioni dell’Oltrepo pavese e a comandarli insieme ad un altro «duro» della resistenza comunista nel pavese: Alfredo Mordini (1902-1969), nome di battaglia Riccardo, ispettore politico della 3a Divisione Garibaldi-Lombardia. E’ la sagoma di Mordini, ripreso alle spalle, quella che si vede in alcune immagini dell’esecuzione di Dongo, nel pomeriggio del 28 aprile 1945. Agli ordini di Landini e Mordini, all’alba di quello stesso giorno, erano partiti dalle scuole di Viale Romagna a Milano, 13 ragazzi in divisa color kaki nuove fiammanti. Grazie alle ricerche dello storico di Voghera, Fabrizio Bernini, solo negli anni Novanta si è
potuto fare un elenco dei «fucilatori dell’Oltrepo» di cui, fino a quel momento, si conoscevano solo i nomi di battaglia e l’identità di due o tre di loro. Bernini, nel suo libro «Così uccidemmo il Duce» (CDL, 1998) scriverà che si trattava di Mario Monfasani (Sipe) di Menconico (PV), Oreste Alpeggiani (Dick) di Zavattarello (PV), Giulio Mirani (Giulio) di Zavattarello (PV), Renato Rachele Codara (Codaro) di Belgioioso (PV), Emilio Vincenzo Fiori (Renato) di Pietragavina di Varzi (PV), Giacomo Bruni (Arturo) di Perducco di Zavattarello (PV), Paolino Girani (Peter) di Voghera, Stefano Colombini (Steva) di Zavattarello, Pietro Zelaschi (Barba) di Ponte Nizza (PV), Germano Guerrini Morelli (Gildo) di Varzi (PV) ed Adriano Gobbi (Cecca) di Milano. A questi undici si affiancano poi William e Lino, la cui identità rimane ancora vaga. Di tutti loro è oggi ancora vivo solo Giacomo Bruni, Arturo, 92 anni, che qualche anno fa è stato intervistato (mostrandosi ancora reticente sui fatti di Dongo) dal regista Ivano Tajetti che ha realizzato un dvd (per informazioni: http://arturofilm. blogspot.it). Oltre a proteggerli da possibili ritorsioni da parte dei neofascisti nel dopoguerra (un pericolo più ipotetico che reale visto che non si registrarono mai particolari attacchi a personalità della Resistenza) l’identità dei partigiani dell’Oltrepo in trasferta a Dongo doveva essere salvaguardata probabilmente anche
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Il cadavere semicongel rinvenuto nel 1983 a partire dal quale gli inquirenti sono riusciti a incastrare Richard
tà» dal 1947 in poi, ma alla prima, che abbiamo sempre ritenuto goffa e abborracciata, comparsa sul finire dell’aprile 1945. In essa, l’estensore cita fatti poi radicalmente cambiati nelle relazioni successive. Dice per esempio «arrivai con un piccolo autocarro», «feci sedere Mussolini su una panca di pietra», poi (dopo la fucilazione) … trascinammo i cadaveri alla macchina» e così via. Abbiamo sempre letto e riletto queste frasi con un certo sarcasmo, vedendovi la prova di una menzogna intenzionale. Ma non ci siamo mai
resi conto che, invece, si trattava della pura verità, poiché l’estensore (che non era il colonnello Valerio) aveva raccolto, direttamente od indirettamente, spezzoni della realtà, così come era stata raccontata dagli autori dell’esecuzione. Giovanni Pesce, infatti, era proprio giunto sui luoghi con un piccolo autocarro, che era quello della CGE, come si è detto. Aveva davvero fatto sedere Mussolini su una panca di pietra, che esisteva ad un centinaio di metri da casa De Maria, aveva davvero trascinato i cadaveri in
di Luca Di Bella
Con il mitra ancora fumante un partigiano, forse Alfredo Mordini, guarda i corpi dei fucilati di Dongo accasciarsi sulla balaustra del lungolago
per non permettere fughe di notizie che poi si verificarono regolarmente, sempre negli anni Novanta, ma da parte del più insospettabile di tutti: Landini. Sempre a Bernini l’ormai anziano ex partigiano «rivelò» (senza riscuotere grande attenzione ma complicando ulteriormente la vita ai dongologi che videro aumentare la folta schiera di presunti «giustizieri» di Mussolini) di essere stato presente all’uccisione – per di più non negli orari dichiarati da Valerio/Audisio – e accreditando la teoria della «doppia fucilazione»: secondo Landini, Mussolini (uscito senza cappotto) e la Petacci erano già stati uccisi «prima delle 16» in un vicolo, lungo via del Riale, poco sotto casa De Maria. A sparare erano stati Moretti e Mordini (la cui raffica aveva colpito alle spalle Claretta e raggiunto Mussolini al petto). Poi, con i corpi a terra, spararono anche altri presenti tra cui lo stesso
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Landini ma non Valerio a cui si inceppò l’arma e il capitano Neri che non volle. Tra i presenti anche due dei ragazzi del plotone dell’Oltrepo di cui però Landini negli anni Novanta non ricordava più i nomi. Successivamente i corpi vennero portati davanti al cancello di Villa Belmonte: «Al cancello della villa si svolse la cosiddetta sceneggiata che doveva costituire la versione ufficiale della fucilazione di Mussolini. Scaricati cadaveri, posti leggermente addossati al muretto, forse anche Bill fece fuoco con Guido [cioè Lampredi, NdR] e Riccardo [Mordini, NdR] sui corpi già privi di vita. Io mi posi poco lontano. Quindi ce ne andammo lasciando di guardia ai cadaveri due partigiani comaschi: Lino e Sandrino». Prima di tornare a casa c’era ancora da fare a Dongo: sparare e uccidere ancora. n
macchina, e davvero aveva «disceso» la stradella che porta al lago, e non percorso la via del Riale, fino al famoso lavatoio. In quei primissimi mesi dopo la Liberazione, al PCI era parsa sufficiente garanzia blindare con un segreto al calcestruzzo i nomi sia degli esecutori di Mussolini sia degli appartenei al plotone di Dongo. Ma alla gelida psicologia conventuale di quei dirigenti appena usciti da decenni di clandestinità, era sfuggito che, attorno a loro, la gente aveva abbracciato la nuovissima libertà con entusiasmo innocente. Specie i giornalisti. Fu così che vidi arrivare al «Corriere della Sera» prima la partigiana Gianna, e poi Zita Ritossa, la compagna di Marcello Petacci, entrambe reduci da Dongo. Si appollaiarono su Ferruccio Lanfranchi, cattivo carattere e grande professionista, e innescarono senza saperlo il fiorire sempre più massiccio di decine, forse centinaia di contributi ed inchieste; per le quali, già nel 1947, il PCI fu costretto a tirar fuori dal cappello a cilindro Walter Audisio, come «vero » fucilatore di Mussolini e Claretta. Pessima scelta, con pessimi risultati: ma anche un tetragona volontà di mantenere il silenzio sui nomi. Credo che forse una o due persone soltanto abbiano, oggi, una visione completa di ciò che successe sul lago in quelle 16 ore. Vi sono però una dozzina di punti fermi irrefutabili che costituiscono la griglia e la gruccia di quella lugubre storia, così come ora mi appare: fermo restando il fatto che data la straordinaria delicatezza di questa ricerca, non è mai stato possibile riscontrarle direttamente sulle fonti. Adesso c’è un lavoro di decifrazione da fare. Lo si farà, forti del fatto che la conoscenza non uccide, ma l’ignoranza sì. di Franco Bandini (da «Il Giornale» del 16, 17 e 18 aprile 1996)
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GIORNATE COMPLICATE ancora sul 28 aprile ‘45
La leggenda di V
10 DOMANDE SE Incongruenze, omissioni, particolari trascurati, testimoni in contraddizione: la fine di Mussolini è avvolta in una serie quasi inestricabile di misteri e cortine fumogene che tengono lontana la verità da quasi settant’anni. Ma a chi giova, dopo così tanto tempo, mantenere il segreto su quei fatti? E’ forse questa la domanda più importante di tutte. Una domanda che, in sé, ne racchiude molte altre. Abbiamo provato a metterle in fila… di Luciano Garibaldi 1. VILLA BELMONTE: PERCHÈ LÀ E NON SUL LUNGOLAGO DI DONGO?
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artiamo dal DVD «Mussolini, una morte da riscrivere», regia di Alessandra Gigante, realizzato nel 2011. Basato sulle indagini scientifiche condotte dall’équipe del professor Francesco Pierucci, dell’Università di Pavia, il documentario assesta un colpo definitivo alla versione classica che colloca la morte di Benito Mussolini e Claretta Petacci davanti al cancello di Villa Belmonte alle 16,10 del 28 aprile. Ebbene, quell’inchiesta al tempo stesso storica e medico-legale ribalta una volta per sempre quasi settant’anni anni di
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menzogne. Veniamo ai fatti. Il colonnello Valerio – che secondo i testi di storia era il ragioniere Walter Audisio, ma secondo Bill (il comandante partigiano che catturò il Duce) era Luigi Longo, numero due del PCI – giunto a Dongo nel primo pomeriggio di sabato 28 aprile 1945, annunciò sulla pubblica piazza di aver ricevuto l’ordine dal CLNAI di giustiziare sul posto «Mussolini e i ministri di Salò». Non ubbidì alla lettera. Mussolini e Claretta non c’erano perché – così fece capire – erano rimasti a Giulino di Mezzegra, nella casa dei De Maria, dove li aveva portati prigionieri, la sera prima, il capitano Neri. Pertanto decise che li avrebbe “sistemati” subito dopo. E non si capisce perché non li avesse portati ammanet-
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larchivio.
www.rotaryfirst100.org
GIORNATE COMPLICATE ancora sul 28 aprile ‘45
Villa Belmonte:
ENZA RISPOSTA SMLI
vincia La Pro
e
onlin
tidian
, quo
CC 3.0 IN
omo o di C
tati a Dongo, per fucilarli assieme agli altri. Quanto a questi «altri», non si limitò ai «ministri di Salò», ma per far numero (e gli restò stretto persino il quindici, che avrebbe dovuto coincidere con i 15 martiri di piazzale Loreto fucilati un anno prima dai fascisti), fece sparare su un capitano dell’Aeronautica, un impiegato del ministero dell’Interno, un giornalista, un vecchio ex comunista e così via. Poi, al termine della mattanza, si avviò con i suoi cecchini verso Giulino di Mezzegra, dove, in mattinata, aveva constatato la presenza dei cadaveri del Duce e della sua amante, e organizzò la messa in scena della fucilazione dei due corpi ormai quasi rigidi davanti al cancello di Villa Belmonte. Affinché non
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Da sinistra, in alto: il cancello di villa Belmonte dove sarebbe avvenuta la seconda fucilazione di Mussolini e della Petacci; Pertini, uno dei capi partigiani più risoluti a volere la morte del Duce; la scena da «Mussolini ultimo atto» che ricostruisce la fine di Mussolini secondo l’inattendibile descrizione di Walter Audisio; uno dei referti realizzati sul cadavere di Mussolini dopo Piazzale Loreto; l’industriale inglese James Handerson, uomo con importanti agganci diplomatici che abitava a poche centinaia di metri dal casale dove furono tenuti prigionieri Mussolini e la Petacci prima di assassinarli; il professor Aldo Alessiani, medico legale, autore del primo studio di medicina forense sui cadaveri del dittatore e della sua amante; la copertina di uno dei saggi di Franco Bandini sulla vicenda di Dongo, uno dei molti libri ignorati dalla vulgata; l’archivio dell’INSMLI, dove giacciono ancora dei faldoni secretati; il Neri e la Gianna, partigiani assassinati dai loro compagni perché avevano visto o sentito troppo sui fatti di Dongo; il palazzo di giustizia di Milano, dove si sono arenate varie richieste di riaprire il «caso Mussolini»
potessero assistere a quella messa in scena, non a caso furono rigorosamente allontanati tutti gli abitanti della zona. Le domande-chiave sono dunque queste: perché
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mai Valerio non Perché nessuno vedesse Arpesani. E sulla rimasero da vivere dopo quell’aprifucilò Mussolini stessa lunghezza le 1945, il ragionier Walter Audisio che si trattava di una d’onda quelle di (presentato dal PCI come il colone la Petacci assieme agli altri messinscena, i partigiani Ferruccio Parri, nello Valerio), non basterebbe un linasco- bro. Ma restiamo alle più eclatanti. sul lungolago di allontanarono chiunque ancora sto in Svizzera, Nel memoriale dettato a «l’Unità» e Dongo? Perché da Villa Belmonte che aggiungerà: pubblicato dal quotidiano tra il 18 la fucilazione «Quanto ai fuci- novembre e il 17 dicembre 1945, indei due amanti avvenne segretamente? Perché si lati sulla piazza di Dongo che Valerio dugiava con grande enfasi sul botta sparò ai due frontalmente mentre scelse secondo criteri che ignoro, mi e risposta avuto con Claretta, quana Dongo si insistette non poco per pare che vari di essi non meritassero, do le avrebbe negato il permesso di fucilare pubblicamente i condanna- in assoluto, quella fine». In effetti, il infilarsi le mutandine. Un episodio ti alle spalle, un gesto infamante a CLNAI era tenuto a osservare il DLL contraddetto già all’epoca da Lia cui molti fascisti cercarono invano (Decreto legislativo luogotenenziale) De Maria, che ospitava il Duce e la di ribellarsi? Perché tutti gli abitanti n. 142 del 22 aprile 1945, che riguar- Petacci, e che rivelò come Claretta della zona di Giulino di Mezzegra dava «i delitti commessi da Mussolini dovesse per forza già indossare quel furono mandati via e nessuno poté e dai ministri fascisti» e istituiva, per capo intimo essendo nei giorni delassistervi? Il PCI e il CVL non lo giudicarli, le CAS (Corti d’Assise Stra- le mestruazioni. Orbene, nel libro ordinarie). Perché il CLNAI avrebbe di Audisio «In nome del popolo spiegarono mai. dovuto agire illegalmente? Per ribel- italiano», uscito postumo nel 1975 lione al governo del Luogotenente? (Teti Editore), l’episodio scompa2. CHI CONDANNò A MORTE Non esisteva la benché minima ragio- re. Fanno invece capolino altre ne per farlo. È che, di fronte al fatto assurdità: come quella che Walter«MUSSOLINI E COMPLICI»? compiuto, cioè all’avvenuta uccisione Valerio si sarebbe rivolto insistenordine di fucilare Mussolini di Mussolini e di Claretta Petacci nel- temente col «tu» a Mussolini, pur e i suoi ministri non esisteva. la mattinata del 28 aprile (ormai è cer- avendogli fatto credere di essere un Il CLNAI, rappresentante le- to, ad opera di partigiani “ispirati”dai fascista venuto a liberarlo. Infine, gittimo del governo Bonomi nell’Ita- servizi britannici come ammesso il libro si diffonde nel descrivere la lia del Nord, non aveva emesso alcuna molti anni dopo dallo stesso Valiani), «viltà tremebonda» di Mussolini di condanna a morte, che peraltro non previ frenetici e convulsi accordi con fronte al suo «giustiziere», particoera di sua competenza, né tantomeno Roma il CLNAI fu costretto a farfu- lare smentito dagli stessi partigiani alcun ordine di esecuzione. Sandro gliare la ridicola comunisti, come Pertini, rappresentante del Partito rivendicazione Michele MoretI tre partigiani che Socialista all’interno del CLNAI, nel postuma, conceti Pietro, e Aldo dissero d’aver fucilato Lampredi Guidiscorso pronunciato alla radio alle pita, sottoscritta ore 20 del 27 aprile (quindi parecchie e diramata alla Mussolini riferirono tre do. Il 23 gennaio ore dopo la notizia che Mussolini era stampa il 29 apriversioni differenti delle 1996 «l’Unità» stato catturato) e ritrasmesso alle ore le. La seguenpubblica la resue ultime parole... 13 del giorno seguente (Mussolini era te: «Il CLNAI lazione sui fatti già morto), disse: «Egli dovrà essere dichiara che la scritta da Aldo consegnato a un tribunale del popo- fucilazione di Mussolini e compli- Lampredi, funzionario del PCI, e da lo perché lo giudichi per direttissima. ci, da esso ordinata, è la conclusione lui consegnata nel 1975 all’onorevole Egli dovrà essere e sarà giustiziato. necessaria di una fase storica che la- Armando Cossutta. Dalla relazione Questo noi vogliamo, nonostante scia il nostro Paese ancora coperto di si evince che Mussolini, al momenche pensiamo che per quest’uomo il macerie materiali e morali», eccetera, to di morire, non sbavò (versione plotone d’esecuzione sia troppo ono- eccetera, eccetera... Audisio), né tuonò «Viva l’Italia!» re: egli meriterebbe di essere ucciso (versione Moretti), ma gridò: «Micome un cane tignoso». Senza il «cane rate al petto!». Inspiegabile e senza tignoso» ma con analogo riferimento 3. COSA DISSE DAVVERO MUS- ragione questo postumo riconoscialla necessità di un «tribunale» furo- SOLINI PRIMA DI MORIRE? mento dell’organo ufficiale comuno le dichiarazioni dei rappresentanti nista reso a un uomo (Mussolini) er descrivere nel dettaglio demonizzato per oltre mezzo secodel Partito d’Azione Leo Valiani, della le contraddizioni in cui in- lo, da parte di una persona (LamDemocrazia Cristiana Achille Maciampò, nei 23 anni che gli predi), che tutto fino a quel morazza e del Partito Liberale Giustino
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mento lasciava intendere non fosse stata neppure presente alla morte del Duce. Sta di fatto che tale significativa dichiarazione fu estratta da un cassetto dopo ventuno anni, nel bel mezzo dell’infuriare delle polemiche sulla «ipotesi inglese» avanzata per primo dall’autore di queste dieci domande (e avvalorata dalle dichiarazioni del professor Renzo De Felice) e sulle incongruenze della vulgata di sinistra.
industria tessile Cucirini-Cantoni, nonché fratello dell’ex ambasciatore inglese a Berlino sir Neville Henderson, e molto vicino a Churchill. Questa circostanza potrebbe finalmente spiegare perché Mussolini insistette a voler percorrere la stretta e pericolosa Strada Regina anziché la più breve e sicura statale della sponda orientale del lago per raggiungere il ridotto della Valtellina. Con ogni probabilità, aveva in agenda un incontro con sir Henderson (da lui ben conosciuto e più volte incontrato durante il Ven4. MA L’HANNO LETTA L’AU- tennio), che avrebbe potuto fargli da tramite per la consegna del carteggio TOPSIA di Mussolini? con Churchill in cambio della salvezl verbale di autopsia di Musso- za sua e del suo seguito. «Nel corso lini redatto dal professor Caio degli anni», scrive Andriola, «ha Mario Cattabeni rileva che preso sempre più piede l’ipotesi di nello stomaco del Duce non v’era un appuntamento sul lago organizzato in extremis alcuna presenza da Mussolini per di cibo. Al conL’autopsia ha dimostrato salvare il salvatrario di quanto che il Duce morì bile mediante affermato sia da Walter Audisio, a stomaco vuoto. Audisio un’estrema trattativa diplomasia da Lia De ha dunque mentito tica che aveva Maria, secondo sul suo «ultimo pasto» al centro anche cui il prigioniero i documenti riavrebbe mangiato a mezzogiorno del 28 aprile, latte, servati del suo archivio». Non c’è da polenta, pane, salame e frutta. Que- stupirsi, in fondo, se i più accreditati sto particolare avvalora l’ipotesi «dongologi» hanno fatto finora orecche Mussolini non poté consumare chie da mercante di fronte a questa quel pranzo, perché a quell’ora era significativa coincidenza: si sa, da noi, chi tocca la vulgata «muore». già morto.
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5. JAMES HENDERSON: CHI ERA COSTUI?
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ue libri, il mio «Mussolini: the secrets of his death» (pubblicato a New York da Enigma Books nel 2004) e «Carteggio segreto Churchill-Mussolini», di Fabio Andriola (pubblicato da Sugarco nel 2007) si soffermano con ampi dettagli su una curiosa coincidenza: la presenza, a poche centinaia di metri da casa De Maria, a Mezzegra, sul lago di Como, di villa Henderson, appartenente all’inglese sir James Henderson, proprietario della celebre
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rità sulle ultime ore di Mussolini), redatto dal compianto professor Aldo Alessiani, per 40 anni consulente medico legale del Tribunale di Roma, da cui — in base a osservazioni sulla traiettoria dei proiettili e sulla rigidità cadaverica al momento dell’autopsia — si evince che la morte di Mussolini non può che risalire al mattino del 28 aprile e i colpi non possono essere stati sparati che dall’alto verso il basso e non dal basso verso l’alto, come invece sarebbe accaduto qualora la fucilazione fosse avvenuta dinanzi al cancello di Villa Belmonte. 7. E QUESTI LIBRI LI HANNO LETTI O NO?
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on è possibile non tenere conto della versione di un esponente della Resistenza, Urbano Lazzaro Bill, vicecommissario politico della 52a Brigata Garibaldi, nonché l’uomo che catturò Mussolini, il quale, nel suo libro «Dongo, mezzo secolo di menzogne» (Mondadori, 1993) ricostruisce minuziosamente la morte di Mussolini, collocandola al mattino del 28 aprile dinanzi a casa De Maria e attribuendola non già a Walter Audisio, ma appunto al numero due del PCI, Luigi Longo, comandante in capo delle Divisioni Garibaldi. Nel testo ormai classico di Franco Ban6. LO STUDIO DEL PROFESSOR dini «Vita e morte segreta di MussoALESSIANI LO CONOSCONO? lini» (Mondadori, 1978) per la prima volta la morte di Mussolini e della siste un lungo studio (una Petacci viene collocata nella mattina copia del quale, ben tre- del 28 aprile dinanzi a casa De Macento pagine, da tempo in ria, mentre alle 16,30, davanti al canpossesso dell’autore di queste die- cello di Villa Belmonte, furono «rici domande, e un’altra copia nelle fucilati» i due cadaveri di Mussolini mani del regista e della Petacci, Renzo Martiaccreditare la E’ davvero incredibile la per nelli che da anni versione ufficiacoincidenza fra l’ultimo le nel frattempo cerca invano un produttore didecisa nel corso luogo di prigionia di sposto a fargli delle frenetiche Mussolini e la residenza realizzare finaltelefonate tra di sir Henderson mente il film-veValerio e i vertici
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del PCI e del CVL (Corpo Volontari 8. PERCHé ANCORA TANTI SE- Bonzanigo. Lo prova la penosa testidella Libertà). Già nel 1950, il grande GRETI DOPO DECENNI? monianza resa al processo di Padova giornalista Paolo Monelli, nella sua del 1957, così riferita da Bill (a pagina resso l’INSMLI (Istituto per 177 de «L’oro di Dongo»): «Riecco opera storica «Mussolini piccolo la storia del movimento di Sandrino. Con Lino aveva fatto la borghese», sottolineava le contradliberazione in Italia) di Pa- guardia a Mussolini e Claretta Pedizioni che rendevano inverosimile la ricostruzione «ufficiale» della via esistono due cassette registrate tacci nella casa dei De Maria a Bonmorte di Mussolini. Lo storico man- «a futura memoria» di due membri zanigo. Prima nega che Neri fosse tovano Alessandro Zanella, prema- del plotone d’esecuzione di Dongo, presente alla fucilazione di Mussotali Barbieri, già lini [secondo la vulgata; NdA], ma è turamente scomparso, nel libro L’INSMLI possiede nastri c o m m i s s a r i o costretto poi ad ammettere che c’era. politico della Nega di essere stato presente alla fu«L’ora di Dongo» registrati da due formazione «Ca- cilazione e anche di avere fatto la (Rusconi, 1993), ricostruisce la dei membri del plotone pettini», e Gar- guardia ai due cadaveri. Mi fa pena fucilazione di d’esecuzione di Dongo. della, in seguito Sandrino: mente in modo tale che sindaco PCI di tutti si convincono che mente, ma Mussolini e della Ma sono secretati Voghera. Su tali egli sa che il rischio maggiore che sta Petacci come avr e g i s t r a z i o n i correndo è quello di dire la verità». venuta la mattina del 28 aprile davanti a casa De Maria, continua a essere mantenuto il sea opera del capitano Neri (Luigi Ca- greto e, alla richiesta dell’autore di nali), della partigiana Gianna (Giu- queste domande di poterle ascolta- 10. PERCHé LO STATO ITAseppina Tuissi) e dei loro compagni, re, il direttore dell’Istituto, profes- LIANO NON HA VOLUTO FAR basando tale sua ricostruzione su un sor Giulio Guderzo, oppose a suo LUCE? documento giudiziario coevo da lui tempo un cortese ma netto rifiuto. ritrovato, in cui il fratello della par- Esistono anche un memoriale «da na copiosa scia di sangue actigiana Gianna attribuisce alla so- rendersi noto solo dopo la morte» comuna i tanti testimoni dei rella e a Neri il merito (o la respon- redatto dal membro del CLN di fatti di Dongo e di Bonzanisabilità) dell’evento. Il che può ben Como Ferrero Valsecchi e un ana- go (a partire da Luigi Canali, il capitavalere anche nel caso che i mandanti logo documento no Neri, e da Giuo gli esecutori materiali siano stati a firma del parTuissi, la C’è una scia di sangue seppina agenti agli ordini dei servizi britan- tigiano Sandripartigiana Gianche parte da Dongo: nici, come apertamente affermato no, Guglielmo na), e raggiunma dopo i fascisti, morirono ge prontamente da un controverso testimone come Cantoni: Bruno Giovanni Lonati (che negli q u e s t ’ u l t i m o coloro che anche partigiani, i loro anche è Novanta si è attribuito l’uccisione documento abbozzano un’infamiliari e giornalisti di Mussolini). Secondo la testimo- scomparso dopo dagine, magari nianza di Dorina Mazzola, raccolta la morte dello per scoprire la da Giorgio Pisanò e pubblicata nel stesso Cantoni. Che cosa c’è da na- sorte toccata ai propri cari (Michele libro «Gli ultimi cinque secondi di scondere dopo tanto tempo? Bianchi, padre della partigiana Anna Mussolini» (Il Saggiatore, 1996), Bianchi, soppressa perché aveva visto Mussolini e la Petacci furono uccisi troppo), o perché sono onesti e si batla mattina del 28 aprile sotto casa dei 9. è VERO CHE DIRE LA VERI- tono per la verità e la giustizia (Franco De Maria a Bonzanigo. E ancora: in Tà SIGNIFICAVA MORIRE? De Agazio, giornalista, fondatore e diuna intervista concessa da Angerettore del «Meridiano d’Italia»). Nel antoni era stato lasciato di frattempo scompare l’«oro di Dongo». lo Carbone, 83 anni, al giornalista guardia dal capitano Neri Così come scompaiono i documenti Gaspare Di Sclafani e pubblicata davanti a casa De Maria che Mussolini portava con sé. Lo Stato dal settimanale «Gente» n. 19 dell’8 maggio 1999, l’ex partigiano e ami- insieme al suo compagno Giusep- italiano (potere legislativo, potere eseco del presidente Pertini, afferma di pe Frangi Lino. Quest’ultimo morì cutivo, potere giudiziario) continua a essere stato presente ai fatti e dice: pochi giorni dopo, ucciso da una tacere ormai da quasi settant’anni. E «Non è vero che Claretta Petacci fu raffica di mitra. Quanto a Sandrino, se ci si rivolgesse alla Corte di Giustiuccisa con Mussolini davanti al can- fu lasciato vivere perché si impegnò zia dell’Aia? cello di Villa Belmonte. È una storia a dimenticare per sempre ciò che aveva visto e udito quella mattina a inventata di sana pianta». Luciano Garibaldi
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il carteggio | u n a v e r i t à n e g a t a
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olti dei temi toccati in questo numero monograf ico di «Storia In Rete» avrebbero meritato uno speciale tutto per loro. Anche per il carteggio Mussolini/ Churchill è così e in questo caso non posso che rimandare al saggio dedicato a questo argomento (disponibile nella libreria in fondo a questo fascicolo). Nelle pagine seguenti si potranno leggere ampi stralci di un documento discusso ma di indubbio interesse, scritto negli anni Cinquanta da un agente segreto presente nella colonna Mussolini a Dongo e, a suo dire, molto attivo – al pari di molti altri agenti di vari paesi e agenzie – nei mesi successivi la fine della guerra nel recupero delle carte dell’immenso archivio di Mussolini. Tra quelle carte c’era anche il cosiddetto carteggio con Churchill ma c’era anche molto altro. Di questo “altro”, la descrizione più articolata la si trova in un libro uscito negli anni Cinquanta e presto sparito dalla circolazione. Lo aveva scritto Franco Tabasso, figlio di un agente segreto italiano che si chiamava Aristide Tabasso. Un uomo che in un paese normale avrebbe avuto la riconoscenza e il prestigio che meritano gli eroi. Ma l’Italia, lo sappiamo, non è un paese normale. Il libro si intitola «Su Onda 31 Roma non risponde» e racconta – sulla scorta dei racconti e dei documenti lasciati da Tabasso – le avventure di questo agente tra il 1940 e il 1945 prima in Africa Orientale e poi in Italia. Alla fine della guerra Tabasso lavora con gli americani del CIC ma non dimentica di essere italiano e monarchi-
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Churchill in uno dei suoi viaggi sul lago di Como subito dopo la fine della guerra
co e così, dopo aver bruciato sul tempo i tanti che nella primavera/ estate 1945 (e anche dopo) davano la caccia alle carte di Mussolini, ne trovò molte e le consegnò a Umberto II di Savoia poco prima della fine della monarchia in Italia e l’esilio per il Re. Cosa c’era tra le carte recuperate da Tabasso? Lo dice lui stesso, dando la definizione più precisa a tutt’oggi, di cosa era l’archivio mussoliniano. Una raccolta di documenti che si aggirava sui 40 kg: «qualche car-
tella interessava molto da vicino il grande statista inglese». Ma c’erano altre cartelle che riguardavano Badoglio, l’ammiraglio Cavagnari, i gerarchi De Vecchi e Bianchi; il maresciallo Rommel, la Santa Sede: «Non è quindi soltanto Churchill che avrebbe interesse a riavere quello che egli ha scritto e che, in un giorno non lontano, sarà certamente pubblicato – scriveva Tabasso – Il contenuto di quelle carte è sicuramente in contrasto con quanto l’opinione internazio-
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nale ha sempre creduto e crede ancora (...) Chissà cosa penserebbe la gente nell’apprendere, per esempio, che Mussolini venne ripetutamente sconsigliato ad intraprendere una guerra contro l’Inghilterra. (…) Sarebbe davvero imbarazzante sapere che chi sconsigliava quella guerra, non era né un generale né un uomo politico, bensì il defunto Sovrano Vittorio Emanuele III. (…). Ci sono lettere di esponenti politici e militari di quell’epoca, osannanti al Duce del fascismo. Lo stesso Churchill scriveva in una lettera, parlando della politica di Mussolini, che essa doveva essere definita “sana, saggia e dotta”. Ci sono “suppliche” al Duce, con le quali si chiede per sé e per i figli il titolo di duca, una villa, un vitalizio, in virtù di servizi prestati». De Felice, poco prima di morire, dava per scontato che le lettere tra Mussolini e Churchill ci fossero state. In «Rosso e Nero» afferma: «Le “lettere” con Churchill potrebbero riservare, invece, qualche inedita sorpresa (…) Molto più interessante sarebbe recuperare certi fascicoli che Mussolini portava con sé a Dongo, che sono arrivati a Roma; portati alla presidenza del Consiglio da un inviato del CLNAI (esiste la ricevuta della loro consegna) e poi… scomparsi, forse “restituiti” agli inglesi, ma – voglio sperare – prima fotocopiati». De Felice usò la propria autorevolezza per infrangere un tabù che nel frattempo ha iniziato comunque a vacillare – dopo decenni di miopi ironie – per il continuo emergere di riscontri circa rapporti segreti tra Italia e Gran Bretagna nel 1939/1940. Recentemente, Emilio Gin dell’Università di Salerno, ha pubblicato un volume («L’ora segnata dal destino», Edizioni Nuova Cultura,
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«Su Onda 31 Roma non risponde» di Franco Tabasso (1957)
2012) in cui documenta come l’Italia arrivò alla guerra per cercare la pace. Un’iperbole solo apparente in cui un “carteggio Mussolini/Churchill” ci sta tutto specie se inteso in un’accezione più ampia di quella che tende a ridurre tutto a 62 lettere recuperate dai partigiani a Dongo e vendute a buon prezzo agli inglesi nell’estate 1945 da alcuni esponenti della resistenza comasca che prima però avevano fatto – come sperava de Felice – delle fotocopie. Che ad oggi attendono ancora di rivedere la luce mentre gli originali sarebbero andati distrutti per mano di Churchill in occasione del suo viaggio in Italia del settembre 1945. Di cosa parliamo quando parliamo del carteggio Mussolini/Churchill? Si tratta di una definizione convenzionale con la quale vanno intesi tutti quei contatti diplomatici segreti intercorsi subito prima e durante la Seconda guerra mondiale tra Italia e Gran Bretagna. Un dato che poggia su basi logiche e documentarie non trascurabili. Quali sono queste basi? Possiamo individuare tre punti principali: 1) Mussolini aveva carte cui annet-
teva grandissima importanza e fece di tutto per metterle al riparo e per riprodurle per poterne disporre nel dopoguerra, verosimilmente a scopi di autodifesa. Mussolini, di cui si può dir tutto tranne che fosse uno sprovveduto, dichiarò svariate volte di avere “pezze di appoggio” per dimostrare le proprie buone ragioni ai suoi nemici e alla Storia. 2) Soprattutto gli inglesi mostrarono grande interesse per le carte di Mussolini ben prima dell’aprile 1945 e, dopo la morte del Duce, lasciarono molte tracce della loro attività di intelligence, tesa negli anni seguenti proprio a recuperare i dossier mussoliniani. 3) Non solo si parlava a chiare lettere di un carteggio tra Mussolini e Churchill prima dell’aprile ‘45 (cosa che smonta le accuse di falso mosse da alcuni storici inglesi) ma dell’esistenza di quel carteggio hanno lasciato testimonianza un po’ tutti: fascisti e Mussolini in testa ovviamente, ma anche partigiani, tedeschi e pure inglesi. A questo si può aggiungere che da che mondo è mondo la diplomazia segreta (o parallela) è parte integrante dei rapporti internazionali sia in tempo di pace che in guerra. Come è possibile negare, anche semplicemente in via ipotetica, che Londra e Roma (e poi Salò) abbiamo tenuto contatti riservati e che di quei contatti sia rimasta qualche traccia cartacea? E, infine, come è possibile scartare l’idea che, il 25 aprile 1945, lasciando Milano, Mussolini contasse anche su quelle carte per spuntare vantaggi ora che sul fronte militare tutto era perduto? Per questo aveva bisogno di portare con sé quelle carte lungo la sponda sinistra del lago di Como. Erano i suoi assi per la partita finale che era convinto dovesse essere ancora giocata. Il Destino, però, la pensava diversamente… n
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Intelligence il memoriale Zanessi
La versione di
Zehnder
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a storia della Repubblica Sociale Italiana è anche una storia di intelligence, di spionaggio, di piani segreti, di personaggi ambigui. Non è complottismo ma un dato di fatto, confermato anche da Renzo De Felice nel celebre libro-intervista «Rosso e Nero» del 1995. Questa considerazione vale anche per gli ultimi giorni di Mussolini, per le sue ultime ore sia da uomo libero sia da vivo. La stessa colonna italotedesca era piena di figure su cui non è mai stato possibile fare chiarezza e il cui ruolo era ed è rimasto nell’ombra. Intorno o alle calcagna di Mussolini c’erano uomini dei servizi segreti della RSI, del Regno del Sud, della Resistenza, dell’intelligence inglese, gli americani del CIC (Counter Intelligence Corps) e dell’OSS (Office of Strategic Service), probabilmente i servizi tedeschi e, pare, anche un paio di uomini dei servizi della vicina Svizzera che figurano tra gli arrestati a Dongo: Mario Salvadero e Hans van Rech. Nello stesso elenco in cui figurano i due probabili 007 elvetici c’è anche un altro nome quasi sempre trascurato nei libri e nelle inchieste su Dongo e dintorni. Si tratta di Angelo Zanessi (o Zanesi). Tra i pochi ad avergli dedicato un po’ di attenzione c’è Alessandro Zanella (in «L’ora di Dongo», Rusconi 1993): «Angelo Zanessi Zehnder, alias ZZ, ovvero il Capitano Zehnder, è una delle più misteriose “primule rosse” e dei più spregiudicati avventurieri del conflitto». Di Zanessi non si sa moltissimo: poco più che trentenne, nato in Calabria da padre belga – un ingegnere – infanzia e adolescenza tra Belgio e Francia, pilota di auto da corsa negli anni Trenta, fisicamente prestante, colto. E, ovviamente, spregiudicato. Zanessi arriva a Dongo con alle spalle numerose azioni, più o meno documentate, tutte concordi nel descriverlo perfettamente calato nell’atmosfera di quei giorni cupi e frenetici: «Tra il Lago e la Svizzera – scrive ancora Zanella – operavano decine e decine di uomini dei servizi
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informativi d’ogni parte del mondo, con radio trasmittenti clandestine sui monti vicini e nei posti strategici. Agenti d’ogni razza, uomini e donne; e parecchi di questi erano informatori doppi, tripli o quadrupli, perché lavoravano contemporaneamente per più servizi e per più nazioni, anche in guerra tra loro». Zanessi, ad esempio, tresca con i nazisti anche se viene dalle fila del SIM (Servizio Informazioni Militari) e durante la RSI compie – dice – alcune azioni in collegamento con tedeschi e partigiani per la consegna di armi paracadutate dagli americani poco prima del 25 aprile (infatti grazie ai tentativi di captatio benevolentiae di Wolff, fin da marzo tra tedeschi e partigiani non si sparava più un colpo, o quasi, e questo spiega la calma piatta soprattutto in quei giorni tra Como e Dongo). Osserva Zanella: «Le connessioni tra lo spionaggio e il controspionaggio tedesco e quello alleato esistevano, eccome, e le trattative di Wolff per la resa germanica lo dimostravano». Zanella sbaglia però quando dice che Zanessi – e con lui due suoi stretti collaboratori che conosciamo solo come Cirus, sembra di origine slava, e l’italiano Cioni – lavori per gli inglesi. In realtà, in quelle ore, tra Menaggio e Dongo, Zanessi lavora anche – forse soprattutto – per gli americani. Lo racconta lui stesso in un memoriale scritto alla fine del 1956 quando tutte le questioni riguardanti i fatti di Dongo ripresero vita – specie sui giornali – perché per l’aprile successivo era previsto l’inizio del processo di Padova che avrebbe dovuto dire una parola definitiva sulla questione dell’Oro di Dongo e delle uccisioni di quel periodo. Il processo finì nel nulla (e forse non per caso) ma restano le carte e gli articoli usciti in quei mesi. Tra cui, appunto, il “Memoriale Zanessi” che fu pubblicato – a cura di Giuseppe Dell’Ongaro – in 32 puntate sul quotidiano missino «Il Secolo d’Italia» tra il 2 febbraio e il 17 marzo 1957. A riprova che la colonna tedesca improvvisamente materializzatasi a Menaggio la sera del 26 aprile non era probabilmente lì per caso sta anche
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INTELLIGENCE il memoriale Zanessi
Mussolini fotografato nel periodo della RSI mentre gioca a scacchi
I retroscena di Dongo nel racconto di un agente segreto, Angelo Zanessi, messo nel dimenticatoio ma che sicuramente c’era e che era noto per giocare su più tavoli: dagli americani ai partigiani passando per i tedeschi. Neri e Gianna? Erano della sua squadra. I documenti di Mussolini? Li scippò lui ai partigiani. La Petacci? Uno strumento nelle mani del Duce e dei suoi piani segreti. Una prospettiva diversa su fatti, carte e uomini in quelle ore drammatiche. Uno sguardo da prendere con le molle? Sicuramente. Ma che non può essere ignorato… di Luca Di Bella
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nel fatto che tra gli uomini della FlaK smaniosi di arrivare a Merano per tornare a casa c’era proprio Zanessi in divisa tedesca insieme al suo collega Cirus. Tra i partigiani della zona inoltre Zanessi può contare, tra gli altri, su Oreste Gementi, comunista, comandante della piazza di Como per il CVL, nome di battaglia Riccardo, sul capitano Luigi Canali, Neri, e sulla compagna di questi, la partigiana Giuseppina Tuissi, Gianna. Obbiettivo di Zanessi e dei suoi uomini era il recupero dei documenti di Mussolini, documenti di cui fornisce (con qualche imprecisione che, visto il personaggio, forse non è involontaria) una serie di notizie nel suo Memoriale, scritto in un italiano non sempre limpido ma ricco di informazioni: «…il carteggio Mussolini è una definizione troppo generica in quanto tutti pensano, erroneamente, che Mussolini abbia raccolto tutti i documenti importanti in un blocco solo e che se li sia portati con sé fino a Dongo, e che la nebulosa sulla fine di tali documenti sorga solo in quel momento e solo a Dongo. Nulla di più errato, e penso che proprio con questa errata premessa tutti coloro che hanno seguito le vicende dei documenti fissando il loro sguardo solo a Dongo, si sono ridotti a dare in pasto all’opinione pubblica quella caterva di notizie contraddittorie, di supposizioni fatte passare per realtà e di “rivelazioni” inventate. Occorre quindi precisare che i documenti importanti si possono così suddividere: ) Quelli nascosti in tre cassette dalla Petacci alla villa De Cervis a Gardone [villa Mirabella, al Vittoriale, l’ultima residenza della Petacci sul Garda, NdR] (sotto l’impianto del garage) contenevano le
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lettere di Mussolini alla Petacci, il diario della Petacci, tre dei 1 volumi del diario di Mussolini, un fascicolo intestato “Il caso Delser” [in realtà dovrebbe trattarsi del dossier su Ida Dalser, amante di Mussolini prima del e a cui diede un figlio, Benito Albino, NdR] e una lastra di zinco con una serie di dieci numeri di cinque cifre. (…). L’informatore Cirus del servizio informazioni inglese, essendo militare tedesco della scorta di protezione di Mussolini, dette la prima dettagliata relazione che io da Verona feci giungere al servizio alleato. Questi documenti furono denominati dal servizio segreto alleato con la frase convenzionale “GIFT PACKAGE”. ) Archivio storico: 2 cassette che il 17 aprile furono da Gatti [Luigi Gatti, segretario particolare di Mussolini, NdR] portate a Palazzo Monforte [la Prefettura di Milano, NdR] a Milano e poi caricate il giorno della fuga sul camioncino guidato dal Nudi [Mario Nudi, capo della scorta personale di Mussolini, NdR]. Vanno aggiunte le tredici cassette in alluminio della riserva aurea della Repubblica di Salò (…) Nello stesso camion fu caricata anche la somma che il Governo di Salò doveva pagare ai tedeschi per le spese di occupazione del mese di aprile (sei miliardi circa). Denominazione convenzionale: “DOORWAY”. ) A Palazzo Monforte furono però levati alcuni documenti, e cioè: corrispondenza MussoliniHitler, di carattere non eccezionale, ma copiosissima. Cartelle su alcuni personaggi del Fascismo, relazioni e delazioni tra vari Comandi fascisti della Repubblica di Salò. Questi furono chiusi in due casse zincate ed affidate a Buffarini Guidi che provvide a sotterrarle in una villa
di Milano presso suoi conoscenti (in seguito da noi recuperate). Denominazione convenzionale: “IDENTIFICATION”. ) Una borsa gialla che Mussolini aveva affidato alla Petacci contenente le lettere di Churchill, meno due, che il Duce portò con sé nel memoriale vero e proprio. Una relazione del ministro Chamberlain [Neville Chamberlain, primo ministro inglese dal al , NdR]. La Petacci era rimasta a Gardone in attesa che un ufficiale del servizio propaganda tedesco la prelevasse e la portasse in Svizzera con un lasciapassare che il generale Wolff aveva dato a Mussolini nel gennaio, con la firma ed autenticazione del generale stesso. Con questo avrebbe passato tranquillamente la frontiera con la borsa dei documenti, quando ne avesse ricevuto l’ordine da Mussolini. Denominazione convenzionale: “FREEDOM”. ) Numero 15 diari annuali di Mussolini (fino al 192) ed altri documenti del peso di circa 0 chilogrammi, il tutto in due pacchi rettangolari avvolti in carta catramata. Questi documenti, allorché la colonna giunse a pochi chilometri fuori Milano, furono scaricati dal camioncino che sembrava fosse in avaria e caricati su di un furgone mortuario che era già in attesa con una cassa da morto, compresa quella di zinco. I documenti furono richiusi nella cassa quando il resto della colonna proseguì verso Como, ed il “funerale” partì verso Milano. Ove finì quella cassa? Non si seppe subito perché nella cartella della Petacci vi era un biglietto scritto a matita che accennava al contenuto dei documenti che si dovevano mettere nella cassa, ma nel punto in cui doveva essere indicata la località del seppellimento, il documento era cifrato, e seguiva la parola “Mirabella”. In seguito si seppe che la chiave per decifrare la località si trovava nei documenti nascosti a Villa Mirabella, a Gardone. E si seppe pure che tanto segreto si era fatto perché la Petacci temeva che Buffarini Gui-
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di venisse a conoscere ove si voleva collocare la cassa, in quanto era certo che in essa c’era un dossier a lui intestato con il titolo “Il Granducato di Toscana”. Questo riferì Buffarini stesso quando, interrogato dai nostri servizi a San Vittore dove si trovava prigioniero, gli proponemmo di salvargli la vita se avesse indicato ove era stata tumulata la cassa. Ma non sapeva nulla in merito e fu fucilato. Indicò invece al CIC americano il punto ove fece seppellire i documenti di cui al n. 3 IDENTIFICATION; che furono tutti ritrovati dalla sezione del capitano Edward Gastaldo (zona 3) che aveva sede in piazzale Fiume e tradotti in lingua inglese. Denominazione convenzionale: “U.K. JOURNEY”. ) Due borse di pelle, una nera, e una marrone, che contenevano il memoriale vero e proprio, l’unico giunto sino a Dongo. I documenti contenuti nella busta di cuoio marrone che Mussolini aveva con sé all’atto del suo arresto, custoditi in un album del tipo di quelli che vengono adoperati per la raccolta di fotografie, erano divisi nei seguenti gruppi secondo l’argomento: l° gruppo: “Casa Savoia”: a) una lettera autografa dell’allora Principe di Piemonte che chiedeva l’onore di aprire le ostilità sul fronte francese prima che la vittoria arridesse esclusivamente ai tedeschi; b) una lettera di Vittorio Emanuele III scritta dopo il colloquio avuto con Hitler e con la quale il sovrano manifesta la sua piena identità di vedute sull’entrata in guerra; c) due lettere dell’ex re Boris di Bulgaria, scritte in francese e che si riferivano a colloqui dallo stesso avuto con l’ex re Vittorio, dalle quali si rileva il pensiero di quest’ultimo o circa l’eventualità di una partecipazione dell’Italia al conflitto già in atto. ° gruppo: “Relazioni internazionali”: a) 20 lettere in sloveno del cetnico Draza Mihailovic, dalle quali risulta che lo stesso fu prima sostenuto dall’Inghilterra e poi abbandonato dopo l’intervento russo in favore di Tito; b) 1 lettere di Chur-
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chill scritte nel periodo che va dalla guerra in Abissinia al 25 luglio 193; c) relazione sul convegno tenuto a Bordighera con Franco ed originali di una lettera a quest’ultimo inviata dal sottosegretario di Stato [americano, NdR], Cordell Hull, dalla quale risulta l’azione svolta dagli USA (ancora non belligeranti) per impedire che la Spagna si affiancasse all’Italia e alla Germania; d) proposta di Chamberlain del 193 per un’alleanza franco-inglese-italiana contro la Russia; e) originale del telegramma inviato da Hitler, all’atto dell’intervento in Polonia, e lettera contemporanea, relativa alla richiesta di uno spostamento di divisioni sul fronte occidentale; f) carteggio Dolfuss. 3° gruppo: “I traditori”. Documenti circa avvenuti accordi dei reparti della X Mas con i partigiani. Nella busta di colore marrone c’erano inoltre, racchiusi in copertine separate, documenti relativi al caso Balbo, al caso Matteotti, al caso Quaglia [Carlo Quaglia, informatore di polizia che contribuì a sventare l’attentato contro Mussolini organizzato dall’ex deputato socialista Zaniboni il novembre , NdR], all’ammiraglio Canaris [capo dello spionaggio militare tedesco, arrestato dalla Gestapo per intelligenza col nemico NdR] (ogni documento reca appunti, note e richiami di pugno di Mussolini), più tre lettere, la prima delle quali indirizzata da Hitler a Mussolini, nel maggio del 192, per chiedergli a quale punto siano i suoi sondaggi con la Russia, di cui gli aveva parlato nel convegno di Salisburgo: dice che conviene sospendere tutto, perché controproducente; la seconda, di D’Annunzio, che rimprovera il Duce per avere anticipato la Marcia su Roma prevista per il novem-
bre; e la terza, di Jacke Koci [ministro dell’Interno albanese all’epoca dell’invasione italiana dell’Albania, nel , NdR], riguardante il re Zog di Albania con riferimento a Ciano e a Jacomoni [Francesco Jacomini, governatore italiano dell’Albania, NdR]. I documenti contenuti nella borsa di pelle nera, che Mussolini aveva con sé, rimasero in un primo momento in possesso dei partigiani Bill (brigadiere di Finanza Lazzaro Urbano) e Pedro (Conte Pier Bellini delle Stelle) e furono poi ceduti al Maggiore americano All [così nel testo, NdR] del CIC zona 3 di cui era capo il Colonnello Christall, dietro consegna dei documenti dei dossiers dell’OVRA e della cartella “Nenni”. A tale carteggio è accluso quello formato dalle relazioni dall’Inghilterra dell’ambasciatore Grandi [Dino Grandi, ambasciatore d’Italia a Londra dal al , NdR] prima e dopo l’applicazione delle sanzioni economiche nei confronti dell’Italia. Nella busta sequestrata alla Petacci si trovano: a) documenti relativi ad una trattativa segreta imbastita fra la RSI e il Giappone per stabilire come negoziare insieme una pace separata con l’Unione Sovietica: iniziativa stroncata dall’eccidio di Schio [sequestro e uccisione da parte dei partigiani di tre diplomatici giapponesi nel giugno/luglio , NdR]; b) tutto il dossier relativo all’ammiraglio Canaris; c) tutti i documenti raccolti sui soprusi, sulle violenze e sulle violazioni dei patti compiuti dai tedeschi in Italia; d) note relative all’armistizio tra Francia e Germania: armistizio che Mussolini, sostiene fatto contro l’Italia; e) fascicolo relativo all’arresto Borghese ed all’azione della Decima Mas; f)
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fascicolo intitolato al “Granducato di Toscana” (riguardante la famiglia Ciano); g) memoriale Ciano contenuto in una piccola agenda, dal quale risulta tutta l’azione svolta da esso contro i tedeschi (…). Da notare che Mussolini, nel memoriale che aveva con sé, aveva stabilito come dovevano essere ripartiti i suoi documenti in caso di morte e aveva avvertito che quelli che aveva affidato alla Petacci non dovevano cadere in alcun modo in mano ai tedeschi, o perdenti o vincenti, e non dovevano venire resi di pubblica ragione prima di 10 anni dalla fine della guerra: questo perché tali documenti compromet-
volle che a Feltre riuscisse a salvare il salvabile, tanto lo si aspettava al varco il 25 luglio…».
tevano la monarchia e il governo Badoglio, ed alcuni compromettevano ufficiali e personalità che pur servendo il Governo regio erano rimasti in contatto con la Repubblica di Salò durante la guerra. Tra i documenti che occorreva, a tutti i costi, mantenere segreti c’era una nota di Vittorio Emanuele III, scritta il 15 maggio 193, ove il re scriveva che era necessario attivare dei contatti coi governi dell’Inghilterra e dell’America per giungere allo sganciamento dalla Germania, e ce n’è un altro in cui il Duce spiega che al convegno di Feltre egli aveva già in animo ci annunciare ad Hitler il distacco italiano ma, in precedenza, lo Stato Maggiore disapprovò tale proposta, e così pure Ciano che era stato contro Hitler. Secondo Mussolini questa era la prima dimostrazione della congiura in atto e perciò non si
to di questa borsa era stato preso in visione dallo scrivente, da Pedro, da Bill, Aimone, Neri e due partigiani di cui non so il nome in un lasso di tempo limitatissimo, all’incirca quindici minuti: erano in lingua inglese, tedesca e francese. Qui di più non debbo precisare. Solo affermo che non riuscii, dopo la scomparsa della borsa gialla, ad ottenere a nessun costo la borsa nera. Allora consigliai Cirus di rientrare a Como con lo sloveno Logich per mettere in salvo almeno i documenti della borsa gialla. Così avvenne. Qui sorse la prima discussione con Pedro e Bill per il recupero dei documenti da parte del Comando alleato. Questi chiarivano che finché le truppe alleate non erano giunte nella zona, il CLN aveva il diritto sui prigionieri e sul bottino considerato preda bellica. Per fortuna il mio agente Raghic trovò due partigiani
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Successivamente, Zanessi racconta di come, verosimilmente già tra il 2 e il 30 aprile 195, riuscì ad entrare in possesso di buona parte dei documenti mussoliniani, anche grazie ad una vera e propria trattativa con il PCI comasco, trattativa che includeva anche i soldi e i valori sequestrati nella colonna Mussolini: «Qui entra di nuovo in scena Cirus, e la borsa gialla con l’aiuto di Neri (ragionier Luigi Canali) viene messa in salvo a Como. E’ da notarsi che il contenu-
di guardia ai valori in Municipio, che erano stati suoi compagni di prigionia politica a San Vittore assieme a Riccardo (Oreste Gementi), capo del CLN di Como [in realtà capo della Piazza militare di Como per il CVL, NdR], e allo Sforni [Oscar Sforni, presidente del CLN di Como, NdR], e così poté intrattenersi con loro. Nel frattempo io incaricavo Neri di impadronirsi delle due borse mettendogli a disposizione anche Cirus. Io dovevo intrattenermi intanto con Pedro ed Aimone in modo da deviare i loro sospetti. Pietro [Michele Moretti, comunista, commissario politico della a Brigata Garibaldi, NdR] intanto voleva subito che fossero incamerati i soldi che Mussolini aveva con sé (10 sterline oro e 1 milione e 00 mila lire in assegni) che gli erano stati sequestrati e sigillati in due buste, indi messi nella busta gialla dei documenti. Pedro, Neri e Bill si opposero, ma, poco dopo, mentre cominciavano ad affluire le valigie sequestrate alla colonna, ed i valori, Pietro prese la borsa gialla e fu sorpreso da Neri e da Cirus mentre in portineria cercava di sottrarre le due buste con i valori [la scena, con tutta probabilità, si svolge nel Municipio di Dongo, NdR]. Io giungevo in quel momento dall’esterno e consigliai Neri di lasciare i valori a Pietro ed in cambio del nostro silenzio lui ci avrebbe lasciato la borsa con il resto. Pietro accettò, ma qualche ora dopo, quando vide che molto oro e molti soldi erano stati raccolti, ci offerse di nuovo le due buste affinché gli fossero restituite le “scartoffie” per la sparizione delle quali il Pedro era disperatissimo. Non fu accettato e, come spiegai, i documenti furono messi in salvo. La sera Pedro minacciò Pietro con la pistola, ma tutti testimoniarono che egli era uscito dal Municipio senza alcuna borsa. Dal Casalinuovo e dal Calistri [difficile che Calistri, unitosi alla colonna Mussolini solo a Menaggio il giorno prima potesse avere informazioni riservate di quel genere, NdR] seppi che i documenti DOORWAY erano stati
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nascosti a Villa Mantero a Como [la villa dove aveva trovato rifugio prima dii cercare di espatriare in Svizzera la moglie di Mussolini, Donna Rachele, con i due figli più piccoli, NdR]. Difatti, l’indomani li rintracciammo ed io mi preoccupai di prelevare in un primo tempo i documenti relativi all’OVRA (ciò, seguendo le direttive impartitemi dal Servizio alleato ancora prima del 25 aprile) che erano al completo a cominciare da un elenco del 1927 il cui capolista era un certo dottor Nudi. Rintracciammo anche la cartella “Nenni”. Il giorno 30 aprile il comunista commissario di PS Cappuccio, della Questura di Como, piomba sui rimanenti documenti e sceglie ciò che gli sembra utile, ma non trova, suo malgrado, quelli dell’OVRA che voleva sottrarre per salvare Nenni (il 29 luglio – i documenti – vengono definitivamente presi in consegna dal Capo della Polizia, dottor Ferrari). (…) I documenti della borsa nera rimasero in mano al CLN di Como e più precisamente al tenente Spero Glauco, aiutante maggiore del comandante del CLNAI, Riccardo, Gementi Oreste. Con Gementi io presi contatto il pomeriggio del 25 aprile al comando di via Tadini n. 25, Milano, dato che questi aveva il compito di preparare la colonna del CLN che avrebbe poi inseguito quella di Mussolini. E dato che io avevo l’ordine di seguire le sorti di questa colonna, stabilii che il Gementi dovesse trovare le modalità per salvare da un eventuale conflitto a fuoco me e i documenti che dovevo seguire per conto del Comando alleato. Per maggiore sicurezza lasciai alcuni miei agenti a sua disposizione col compito di rimanere nella colonna inseguitrice, ma, per fortuna, quando la controcolonna giunse a Como, la colonna Mussolini era già a Menaggio nella sua seconda tappa; tant’é che io feci in tempo a portare i miei uomini a Menaggio, ove la colonna Mussolini si accingeva a ripartire alla volta
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di Porlezza senza Graziani, il quale, dopo un vero conflitto con Pavolini che insisteva per la difesa in Valtellina, decise di tornare indietro. (…) Nel frattempo a Como giunse un cifrato che segnalava dover prendere contatti in Prefettura con il capitano di corvetta Giovanni Dessy del SIS della Regia Marina Italiana che doveva mettersi a nostra disposizione per aiutarci a salvaguardare la vita di Mussolini. Purtroppo a lui si accodarono Romualdi, Colombo e Vito Mussolini che, riconosciuti, provocarono l’arresto di tutti da parte dei partigiani. Cosi fallisce la missione Dessy. Dopo la scomparsa della borsa gialla e dei documenti dell’OVRA sembrò che i partigiani non se ne curassero gran che in quanto erano occupatissimi nelle vicende dell’oro e del denaro. Di ciò non parlo perché esula dallo scopo di queste righe: dirò solo che queste vicende non interessavano il nostro Comando e provocarono in seguito l’uccisione dei miei migliori agenti, il rag. Luigi Canali e la Gianna (Giuseppina Tuissi) che troppo hanno dimostrato la loro appartenenza al nostro Comando occultato e che erano sospettati dal PCI di aver fatto scomparire la borsa gialla a Dongo per consegnarla al Comando Alleato. Faccio notare che ero riuscito ad agganciare al servizio nostro anche Gementi e Spero Glauco, e difatti feci loro consegnare dal Maggiore [inglese] Malcom Smith, la tessera dell’Intelligence Service, ma loro erano troppo importanti per essere sospettati. Fu così che ottenni che lo Spero consegnasse a noi anche i documenti della borsa nera, ma in cambio dovemmo dare al CLN quasi tutti
i documenti dell’OVRA non senza però averli prima fotografati». L’azione di Zanessi richiama quella, tra gli altri, dell’avvocato Bruno Puccioni, fiorentino, fascista ma anche in contatto con americani e partigiani, che dalla sua villa a Domaso, subito dopo Dongo, giocò un ruolo importante nella questione dei documenti mussoliniani una volta fallito il suo tentativo (d’accordo con Pedro ma in contrasto con l’ala comunista della 52a Brigata Garibaldi) di mettere in salvo Mussolini. Puccioni, attivo a destra anche nel dopoguerra, al contrario di Zanessi non ha scritto, forse saggiamente, un memoriale. Che, anche per questo, negli anni Cinquanta finì in carcere per una serie di inchieste condotte da magistratura e servizi segreti italiani. Tra le altre cose si era vantato di aver visto e fotografato il celebre dossier che documentava le azioni di Mussolini per proteggere l’ex amico socialista Pietro Nenni – negli anni Quaranta e Cinquanta personaggio di primo piano dell’Italia repubblicana. E poi, cosa non meno grave, “rivelò” di aver trattato lui con gli inglesi (una storia simile la racconterà anche il colonnello Tommaso David, ex dei servizi segreti di Salò) per scambiare carte compromettenti in cambio del ritorno di Trieste all’Italia. Cosa ci sarà stato di vero? Di sicuro Zanessi finì in carcere dopo aver compiuto azioni alla James Bond, sicuramente arrivò a Dongo, sicuramente vide e ascoltò. Fece anche davvero qualcosa? Quando si parla di agenti segreti tocca spesso chiudere un articolo o un libro con un punto interrogativo. E non sarà qui che si farà un’eccezione. Luca Di Bella
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la storia non finisce più Mussolini scherza con un milite della Legione Tagliamento nel 1944
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Polemiche misteri italiani
Il lago di Como presso Dongo.
Ancora nuove rivelazioni, nuovi memoriali, nuove voci sul più misterioso delitto della storia italiana. Come sono morti Mussolini e la Petacci? Ma soprattutto come sono finiti prima sulla riva sinistra del Lago di Como e poi a Menaggio, Grandola, Dongo e Giulino di Mezzegra? E perché è così difficile trovare la verità dopo tutto questo tempo?
L
a morte di Mussolini (e di Claretta Petacci) è un romanzo a puntate che non finisce (e non finirà) mai più. Praticamente, non passa mese senza che qualcuno corra ad apportare modifiche, notizie, pensieri, tesi, controtesi, che ogni volta fanno a pugni con le precedenti, contribuendo a trasformare la fine del Fascismo
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di Luciano Garibaldi sul lago di Como in un romanzo praticamente perpetuo. Ci limitiamo alle novità degli ultimi mesi. Il fresco dongologo Alberto Bertotto (si è iscritto anch’egli al club e non possiamo che prenderne atto), autore de «La morte di Mussolini. Una storia da riscrivere» (PDC Editori, 2008), ci ha scritto per segnalarci una notizia appena appresa. Che sarebbe questa: Niccolò Nicchiarelli, all’epoca capo di Stato Maggiore
della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) aveva ricevuto da Mussolini, un mese prima del crollo del 25 aprile, l’incarico di affittare una casa privata a Grandola, il paese collinare sul lago di Como. La fonte della notizia sarebbe al di sopra di ogni sospetto. Si tratta infatti del nipote del generale Nicchiarelli. Non c’è dubbio che la novità è di sicuro interesse storico. Infat-
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Nel muretto di Villa Belmonte vi sono i fori dei proiettili della presunta fucilazione. Peccato che il muretto è alto solo 125 cm, un po’ poco per aver ricevuto raffiche destinate al petto del Duce... ti, essa è una clamorosa conferma della tesi di coloro che hanno sposato la cosiddetta «pista inglese». Mussolini, cioè, aveva da tempo un «appuntamento sul lago» evidentemente con agenti britannici con i quali doveva trattare una resa speciale in cambio degli scottanti materiali in suo possesso riguardanti Winston Churchill. E’ questa la tesi di Fabio Andriola, che non ha caso ha intitolato proprio «Appuntamento sul lago» (SugarCo, 1990) uno dei suoi libri dedicati alla fine di Mussolini. E’ noto che Mussolini andò effettivamente proprio a Grandola il 26 aprile, dopo essersi stabilito nella casa del segretario del Partito Fascista di Menaggio, Castelli. Una decisione ancora oggi non chiara, complicata dal tentativo di Mussolini di lasciarsi alle spalle l’asfissiante scorta tedesca e di rimanere per lunghe ore, senza un apparente motivo, in luogo lontano da tutto tranne che dal confine svizzero che però non aveva intenzione di passare. A Grandola
Mussolini entrò però nella caserma della Milizia Confinaria (sistematasi nell’Hotel Miravalle). Evidentemente Nicchiarelli non aveva potuto trovare la casa in affitto. Che poi, all’appuntamento, gli inglesi (loro…) non si siano fatti vivi, questo è un particolare che rafforza la tesi della trappola tesa al Duce dagli uomini al servizio di Churchill. Altre novità sono emerse durante la realizzazione di un reportage mandato in onda dalla rete televisiva «TV Espansione» di Como, diretta da Mario Rapisarda, con testimonianze inedite sulla fine di Mussolini e della Petacci. Tra le testimonianze più importanti pronunciate nel corso di quella interessante e ben realizzata trasmissione vi è quella di don Luigi Barindelli, parroco di Giulino di Mezzegra (il paese dove furono uccisi il Duce e la sua amante), il quale ha riferito che il 29 aprile, ossia il giorno dopo le esecuzioni capitali di Giulino e di Dongo (dove vennero fucilati i
Guglielmo Cantoni detto Sandrino, uno dei due partigiani di guardia a casa De Maria. Nel dopoguerra mantenne il più stretto silenzio su ciò che aveva veduto
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cosiddetti “gerarchi” nonché Marcello Petacci, fratello di Claretta), un fotografo di Azzano si recò dinnanzi al mitico cancello di Villa Belmonte e scattò una serie di fotografie ai fori, causati sulle pietre del muretto dalle raffiche di mitra con le quali il colonnelo Valerio aveva ucciso Mussolini e – pare per disgrazia – la Petacci. Il fotografo in questione aveva poi stampato delle cartoline, contrassegnando i fori con dei cerchietti bianchi. Ebbene, il muretto in questione era (ed è) alto solo un metro e 25 centimetri, mentre le raffiche raggiunsero al petto Mussolini e la sua amante, decisamente più alti. Quindi, i colpi avrebbero dovuto essere esplosi più in alto rispetto all’altezza del muretto e non conficcarsi in esso. Una prova schiacciante dell’assunto secondo il quale il “colonnello Valerio” - chiunque egli sia stato – sparò delle raffiche a vuoto contro il muretto per far credere, a chi, dall’interno delle proprie abitazioni, era in ascolto, che si era proceduto a una esecuzione capitale, come poi sarebbe stato raccontato urbi et orbi (ma soprattutto orbi). Del resto da qualche tempo gira voce che i figli dei De Maria, fatti sloggiare da casa in piena notte per lasciare la loro camera a Mussolini e alla Petacci, il giorno dopo, al rientro dalla baita dove s’erano trasferiti obtorto collo, raccontarono ad un amico di aver trovato la madre, aiutata da altre donne, a ripulire il pavimento dell’ingresso di casa, tutto macchiato di sangue. Cosa che, stando alla versione ufficiale non sarebbe possibile perché Valerio-Audisio ha sempre sostenuto di aver condotto all’esterno della casa i due condannati senza nessun problema. In realtà, quel pomeriggio, alle 16,10 – ora della fucilazione, secondo la vulgata – Mussolini e Claretta erano morti da un bel po’, come dimostrerà scientificamente l’autopsia condotta all’alba del 30 aprile
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su due corpi ormai completamente usciti dalla rigidità cadaverica, al punto da risultare, come scriverà il professor Caio Mario Cattabeni, in uno stato di “avanzato rilasciamento muscolare”. Come doveva essere per due persone assassinate da almeno un giorno e mezzo. Un altro elemento a favore della “pista inglese”, che vuole il Duce e Claretta uccisi la mattina del 28 aprile, e non quel pomeriggio. L’ultima novità è quella “sparata” da un quotidiano milanese che su Mussolini “ci marcia” parecchio (perché – come dice il proverbio – «tira più Mussolini che cento paia di buoi»): il memoriale che Giovanni Battista Geninazza, l’autista della vettura che portò da Dongo a Mezzegra il colonnello Valerio. Geninazza, scomparso recentemente, avrebbe scritto ciò che vide quel giorno a Giulino di Mezzegra. Le sue figliole, ora che il babbo non c’è più, si sono decise a rendere noto ciò che il loro padre tenne rigorosamente segreto per 64 anni. Per quale motivo, poi, visto che coincide né più né meno con la vulgata già smontata da grandi storici come Franco Bandini e Renzo De Felice e ridotta in pezzi da Massimo Caprara, all’epoca segretario di Togliatti, poi comunista pentito? «Dal diario del Geninazza», ci ha scritto Ubaldo Croce, un altro dongologo particolarmente ferrato, anche perché comasco, «risulta che le cose andarono più o meno proprio come la vulgata le ha raccontate fino ad oggi. Ovvero: Mussolini e Claretta prelevati nel pomeriggio del 28 aprile dalla casa De Maria, a Bonzanigo, portati davanti al vicino muretto di Villa Belmonte, e qui abbattuti a raffiche di mitra dal colonnello Valerio, alias Walter Audisio, presenti Aldo Lampredi Guido e Michele Moretti Pietro». Si chiede Croce, e noi con lui: «Ma perché mai Geninazza rifiutò sempre di farsi intervista-
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Massimo Caprara (1922-2009). Già segretario di Palmiro Togliatti, definì la versione ufficiale data dal PCI della morte di Mussolini un «falso deliberato»
re, se il suo racconto coincide con quello dei capi comunisti che Massimo Caprara ha definito “un falso deliberato”? Che motivo aveva, il compianto Geninazza, di rifiutarsi di rispondere alle richieste di farsi intervistare, fattegli da più di un giornalista, se la sua testimonianza serviva – così come serve, ora che è stata resa nota - a rafforzare la vulgata? «Mi pare evidente che c’è qualcosa che non quadra. E non
ricordare che tante persone vissero nel terrore di dover parlare, di dover raccontare ciò che avevano visto. Uno per tutti: Guglielmo Cantoni, Sandrino, uno dei due partigiani che erano stati lasciati di guardia a casa De Maria. L’altro, Giuseppe Frangi, Lino, fu eliminato da una provvidenziale raffica di mitra pochi giorni dopo gli eventi di Dongo e Giulino, perché parlava (ed ammazzava) troppo. E’ comprensibile
Mentre Audisio descrisse Mussolini come un vile che tremava di paura, Lampredi riferì che si aprì la giacca e disse: “Sparate al petto!”. Invece Moretti disse che gridò “Viva l’Italia!”»... mi riferisco alle divergenze, tutto sommato marginali, riscontrabili nelle testimonianze – ampiamente pubblicate in libri e decine di articoli – di Walter Audisio, di Aldo Lampredi e di Michele Moretti. In proposito, mi limito a ricordare che, mentre Audisio descrisse Mussolini come un vile che tremava di paura, Lampredi riferì che si aprì la giacca e disse: “Sparate al petto!”, e Moretti che gridò “Viva l’Italia!”». Già. E’ davvero strana, questa testimonianza post mortem. Basterebbe
il gusto per lo scoop. Ma qui di scoop non c’è nemmeno l’ombra. Se il diario di Geninazza conferma sostanzialmente la versione ufficiale del CLNAI, dov’è la novità? E perché, finché visse, non volle mai parlare visto che aveva solo da confermare quello che tutti, anche se lontano dalla logica, sostenevano? Ecco un buon motivo per aprire una nuova pagina sugli interminabili misteri del lago di Como. Luciano Garibaldi
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“è UN ROMANZO LA
STORIA
CHE RACCONTA LA VERITà
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La spy story del carteggio fra churchill e mussolini: ecco chi e cosa si cela dietro uno dei misteri meglio custoditi dellA Seconda guerra mondiale...
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ome mai l’Italia è entrata nella Seconda guerra mondiale? E perché per mesi ha evitato di mettere in campo operazioni militari di un certo rilievo? L’improvvisa decisione di Mussolini del giugno 1940 ebbe, tra le sue premesse, anche contatti segreti con gli inglesi? Insomma,
l’Italia nel 1940 si mosse sulla falsariga del 1915, quando il segretissimo «Patto di Londra» determinò
l’ingresso italiano nella Prima guerra mondiale? Domande che potrebbero avere una risposta nei contenuti del «Carteggio Mussolini-Churchill», uno degli enigmi più famosi della storia del Novecento.
Un enigma di cui oggi però sappiamo molto. Abbastanza per non considerarlo più un impenetrabile
mistero ma casomai un clamoroso episodio di diplomazia segreta intorno al quale, anche dopo la fine della guerra, si sono mossi agenti segreti e faccendieri, partigiani e ufficiali di varie nazionalità, personalità del calibro di Togliatti, De Gasperi, Umberto II. Oltre che, ovviamente, Churchill...
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GUERRA CIVILE le mani (insanguinate) sull’«oro del Duce» / 1
Una CATENA di MORTI che attende GIUSTIZIA Il libro-inchiesta di Servello e Garibaldi «Perché uccisero Mussolini e Claretta. La verità negli archivi del PCI», rivela clamorose novità: ecco come e perché il governo De Gasperi, per favorire gli interessi di Togliatti e Longo, decise di insabbiare le indagini sulla grande rapina di Dongo, accantonò gli inquirenti che avevano scoperto la verità e fece scarcerare i sicari arrestati dal generale Leone Zingales di Averaldo Costa
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copo dichiarato era quello di chiarire i misteri della pagina più oscura della recente storia d’Italia, la pagina che ha dato origine alla Repubblica nella quale ancora viviamo. Ovvero, la scomparsa del «tesoro di Dongo» (i valori sequestrati alla colonna Mussolini in fuga da Como in quei giorni di fine aprile 1945) e la serie di omicidi che ne era seguita. In questa impegnativa ricerca storica si sono cimentati Franco Servello e Luciano Garibaldi, dando alle stampe, per conto dell’editore Rubbettino, la seconda edizione del loro libro-inchiesta «Perché uccisero Mussolini e Claretta». Mentre il titolo è rimasto invariato, rispetto alla prima edizione uscita due anni fa, il sottotitolo è diventato: «La verità negli archivi del PCI». La nuova edizione presenta in effetti importanti novità grazie alla pubblicazione di documenti storici inediti che gli autori hanno rintracciato presso l’Archivio Storico del Tribunale Supremo Militare e presso l’Archivio di Stato. Tra essi, le prove delle manovre poste in atto per neutralizzare l’azione del generale Leone
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Zingales, che stava per giungere alla verità, e le prove degli accordi sotterranei intercorsi tra DC e PCI per mettere una pietra tombale sui risultati delle indagini di Ciro Verdiani, l’ispettore generale di Pubblica Sicurezza che aveva ricostruito il furto, ad opera di funzionari del PCI, di ingenti valori tutti di spettanza dello Stato. Partiamo dalle carte di Ciro Verdiani. Già in data 25 dicembre 1945, ossia soltanto otto mesi dopo la «great robbery», la grande rapina di Dongo, Ciro Verdiani poteva scrivere: - che il tesoro di Dongo era sicuramente finito nelle mani del PCI di Como e poi di Milano; - che il PCI stava operando per nascondere e sottrarre alla legge gli autori della rapina e degli omicidi che ad essa avevano fatto seguito. Quanto a questi ultimi, cioè agli omicidi, Verdiani scriveva di «una minaccia di morte incombente su chiunque troppo sappia o voglia sapere, o dica, sulla destinazione e il possesso del cosiddetto “oro del Duce”, minaccia che ha trovato già esecuzione in elementi partigiani del PCI che avevano l’intenzione di ribellarsi, come il capitano Neri e la partigiana Gianna
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GUERRA CIVILE le mani (insanguinate) sull’«oro del Duce» / 1
Il tronco piazzato dai partigiani che sbarrò la strada alla colonna di fascisti a Dongo. In basso, il giornalista Franco De Agazio, ucciso nel 1947 dalla Volante Rossa per aver scoperto la verità sull’oro sottratto dai partigiani a Dongo
ed altri, soppressi per mandato del PCI». Non basta: nel rapporto, Verdiani faceva i nomi dei sicari (Leopoldo Cassinelli, Lince e Maurizio Bernasconi, Maurizio) e indicava, quale mandante, addirittura Luigi Longo, il numero due del PCI. Il «rapporto riservato» di Verdiani, rintracciato dagli autori e pubblicato integralmente per la prima volta, costituisce un atto d’accusa sia nei confronti della Democrazia Cristiana, che vanificò con i più svariati espedienti procedurali tutte le istruttorie intraprese a carico dei comunisti, sia nei confronti del PCI il quale, in cambio del favore, pose un freno definitivo alle frange più estremiste che preparavano una sorta di rivoluzione onde omologare l’Italia agli altri Stati europei divenuti vassalli dell’Unione Sovietica. Chi, come il giornalista Franco De Agazio, fondatore e direttore del settimanale «Meridiano d’Italia», avesse insistito per l’affermazione della verità, sarebbe stato eliminato fisicamente. A ciò avrebbe provveduto il PCI. Il «rapporto Verdiani» non lascia margini di dubbio in proposito. Franco De Agazio fu assassinato a Milano, dalla «Volante Rossa», il 14 marzo 194 [vedi «Storia in Rete» n. NdR]. Il suo posto, alla guida del settimanale
di battaglia, fu preso dal nipote, Franco Servello, che riuscì a scampare più volte agli agguati tesigli dagli estremisti di sinistra e che oggi contribuisce, con questo libro, a gettare un raggio di luce sulle storie inconfessabili del nostro Paese. Di sicuro interesse storico è anche la serie di documenti che gli autori hanno rinvenuto presso l’Archivio storico del Tribunale Supremo Militare e che consente di ricostruire finalmente in maniera completa l’itinerario della vicenda giudiziaria che ebbe a protagonista il generale Leone Zingales, il magistrato militare che voleva far luce sul furto del «tesoro di Dongo» e assicurare alla giustizia i suoi responsabili nonché autori di una serie di omi-
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Il «rapporto riservato» di Verdiani, rintracciato dagli autori e pubblicato integralmente per la prima volta, costituisce un atto d’accusa sia nei confronti della DC, che vanificò, con i più svariati espedienti procedurali tutte le istruttorie intraprese a carico dei comunisti, sia nei confronti del PCI cidi iniziati con la soppressione del capitano Neri e della partigiana Gianna. Come rilevano Servello e Garibaldi, se al generale Leone Zingales fosse stato consentito di proseguire il suo lavoro di operatore di giustizia, egli avrebbe finito con l’aprire un’indagine anche sulle fucilazioni di Dongo, dato che erano state eseguite dai partigiani senza che fosse stata pronunciata alcuna sentenza di morte da nessun tribunale autorizzato. Infatti, anche la postuma, e ridicola, rivendicazione stilata il 29 aprile 1945 dal
CLNAI di Milano, non poteva avere, né avrà mai, sul piano storico, il valore di una sentenza legittima. In proposito, è sufficiente rileggere quelle righe: «Il CLNAI dichiara che la fucilazione di Mussolini e complici, da esso ordinata, è la conclusione necessaria di una fase storica che lascia il nostro Paese ancora coperto di macerie materiali e morali». Senza tener conto del fatto che, tra i cosiddetti «complici» del Duce, furono fucilati un capitano dell’Aeronautica che aveva chiesto un passaggio alla colonna
Mussolini, un impiegato del ministero dell’Interno, un giornalista, un vecchio ex comunista e così via. Zingales, incaricato dal Procuratore Generale militare di fare chiarezza sulla serie di omicidi iniziata con la soppressione di Neri e della Gianna, si era subito messo all’opera e, in breve tempo, avendo raccolto indizi ritenuti più che sufficienti, aveva emesso una serie di mandati di cattura nei confronti di partigiani del Comasco ritenuti responsabili sia della sottrazione
IL CARTEGGIO CLARETTA-BENITO IN TV
Se la «grande storia» resta nell’ombra del pettegolezzo – di Paolo Simoncelli
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a progressiva utilizzazione del Fondo Petacci, conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato, sta offrendo così una serie di nuovi spunti agli studi sul Fascismo, in particolare sull’ultimo Fascismo, i cui primi risultati sono stati offerti da una serie di edizioni di lettere di Claretta e Mussolini; e anche del Diario di Claretta per il 1939-40. Ostacoli formali, relativi alla natura considerata «privata» di questa documentazione, non consentono ancora una sua completa e immediata disponibilità, ma comportano il rispetto di tempi di legge (70 anni dagli eventi) o preventive autorizzazioni ministeriali. Tuttavia i frutti fin qui noti sembrano comportare un rischio «intimistico»: dar spazio prevalentemente ad una corrispondenza privata capace di esser letta in senso uguale e contrario a quella precedente e notoria sulla virilità del Duce. Non sembra però essere questo il caso del programma «Ben e Clara. Le ultime lettere» andato in onda per quattro puntate settimanali a partire dal 22 settembre 2012 su RAIStoria (e che RAI3 alle 21.00 del 5 settembre ha presentato in anteprima). Si tratta di un documentario di Giuseppe Giannotti, Davide Savelli
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e Clemente Volpini (a quest’ultimo dobbiamo anche il precedente servizio su «L’uomo che arrestò Benito Mussolini», andato in onda su ResRAIStoria il 6 dicembre 2010, che incrocia questi documenti, dato che il colonnello Frignani, esponente della resistenza militare a Roma, e fucilato alle Ardeatine, ebbe e nascose in più copie la documentazione di Claretta; su questa specifica vicenda è inoltre da segnalare il recente volume di A. Droghetti, «Elena Hoehn», Edizioni San Paolo, 2012). Il documentario sulla RSI dei tre autori, basato sul Fondo Petacci, va detto a loro merito, riduce il rischio del prevalente taglio «intimistico» ancorché, a causa di alcuni commenti di ospiti, non scompaia del tutto. L’insieme della documentazione rimane comunque d’impronta svetoniana («Le Vite dei dodici Cesari» con vista a tratti dal buco della chiave) ma il programma spazia mettendo assieme aspetti privati e politici che vedono Mussolini inviare all’amata ritagli di giornali che lo offendono (da cui il titolo omonimo del programma RAI: «Mussolini. Il cadavere vivente»), e averne il conforto di un amore che non scema; ma pure annotazioni e sfoghi comprensibili contro i tragici tradimenti del 25 luglio e 8 settembre ’43, e la progressi-
va devastazione del territorio italiano da parte dei bombardieri angloamericani. Sintomatico il rancoroso sfogo di Claretta contro il silenzio di Pio XII sulla vergognosa (e inutile) distruzione dell’abbazia di Montecassino; «Quanto lontani i tempi di Leone e Giulio», le risponde Mussolini il 18 febbraio ’44, alludendo a Leone Magno che fermò Attila, e al «fuori i barbari» attribuito a Giulio II. Così la documentazione filmata e fotografica indugia anche sulla «grande storia», e con ciò sulle progressive delusioni del Duce: l’incomprensione per la «socializzazione» delle imprese contro cui agivano i grandi industriali nel loro esclusivo interesse di capitalisti; la mancata difesa della Valle del Po e, forse maggiore, la delusione per la disattenzione riscontrata a Berlino delle sue «mirabili» giornate milanesi del dicembre ’44, dove al Lirico, il 16, era riuscito ancora una volta ad infiammare gli animi («C’era nella folla – ne scriverà a Claretta il 18, ancora a caldo – qualche cosa di ‘ritrovato’»); ma quel discorso, così ancora a Claretta il 7 gennaio ’45, «è stato ignorato in Germania»; comprensibilmente; Mussolini, tra l’altro, vi aveva infatti rivendicato l’importanza dell’apporto fornito
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Chi, come il giornalista Franco De Agazio, fondatore e direttore del settimanale «Meridiano d’Italia», avesse insistito per l’affermazione della verità, sarebbe stato eliminato fisicamente. A ciò avrebbe provveduto il Partito Comunista. Il «rapporto Verdiani» non lascia margini di dubbio del «tesoro» sia della catena di omicidi. Evidentemente le iniziative di Zingales avevano creato non pochi problemi politici al governo De Gasperi (governo di cui facevano ancora parte il PCI e il PSI, allora strettamente legati nel patto socialcomunista). Lo dimostra una lettera «riservatissima – personale» inviata dal procuratore generale militare Borsari al ministro della Difesa Luigi Gasparotto, ritrovata e resa pubblica da Servello e Garibaldi. Con quella lettera, senza alcuna motivazione, Zingales veniva ri-
mosso dal suo incarico. Fatto fuori l’unico funzionario, capace, per onestà e coraggio, di far luce sugli orrori di Dongo e di Como, da quel giorno ebbe inizio quello che gli autori definiscono «un inverecondo valzer di passaggi di competenze»: prima Como, poi Milano, poi Padova, dove tutto si arenò dieci anni dopo, e si concluse con la colossale beffa del processo «rinviato a nuovo ruolo» e mai più riaperto. Tutto ciò senza che mai nessuno si azzardasse, neanche di sfuggita, a parlare di omicidio premedita-
oncelli Claretta Petacci
dalla RSI allo sforzo bellico tedesco e, in un’analisi comparativa dei vari «tradimenti» di Stati europei, quello italiano del luglio-settembre ’43 veniva considerato minore! Negli ultimi giorni, infine, la decisione di lasciare il Garda per «andare a far politica a Milano». Parole allusive e foriere, chissà, di qualche colpo a sorpresa. Qui le fonti tedesche sui due amanti potrebbero apportare altra documen-
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tazione, magari altrettanto intimista ma politicamente assai più sensibile. Questo è stato un rilievo avanzato anche di recente a margine delle varie edizioni dell’epistolario tra Claretta e Benito. E ancora disatteso; chissà perché. La ricerca storica del resto, come ogni esperienza scientifica, non acquisisce dati una volta per tutte, ma progressivamente. Ben vengano, intanto, anche questi. n
to per le uccisioni di Mussolini, di Claretta Petacci, di suo fratello Marcello e degli altri quindici fucilati sul lungolago di Dongo. Tutti davano per scontato che quelle uccisioni fossero un fatto bellico, un «atto di guerra», benché avessero riguardato prigionieri arresisi per lo più senza fare uso delle armi. La premessa a questa storica débâcle della giustizia fu posta all’indomani stesso della defenestrazione di Zingales, allorché il Generale subentratogli nell’incarico di giudice istruttore militare, dispose la scarcerazione di tutti coloro che erano stati fatti arrestare da Zingales. L’alto ufficiale giustificò la decisione (che aveva preso su suggerimento giuntogli dai vertici del governo) con un documento (fino ad oggi inedito), anch’esso scoperto dagli autori del libro-inchiesta, che dimostra come la Giustizia militare, asservita a fini politici, si fosse occupata solo ed esclusivamente della scomparsa dei valori della «colonna Mussolini», ignorando la catena di omicidi legati a tale scomparsa, e dando per scontato che il bottino sarebbe servito a «far fronte alle necessità della lotta partigiana». Quali «necessità», dato che la lotta partigiana era ormai terminata? E perché, allora, consegnare tutto alla Federazione di Como del Partito Comunista, e non al generale Cadorna, comandante del CVL (Corpo Volontari della Libertà), dal quale dipendevano tutte le formazioni partigiane? Interrogativi ai quali mai ufficialmente, fino ad oggi, è stata data una risposta decente. Ecco perché Servello e Garibaldi hanno sottotitolato la seconda edizione con la frase: «La verità negli archivi del PCI». Averaldo Costa
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GIANNA e NERI:
un CONTO APERTO Franco Servello e Luciano Garibaldi ricostruiscono in una nuova edizione della loro inchiesta la serie di omicidi premeditati compiuti per ordine del PCI contro quegli stessi combattenti e militanti comunisti che si opponevano al furto del «tesoro di Dongo». Le due prime vittime erano state Luigi Canali, il capitano Neri, capo di stato maggiore della 52a Brigata Garibaldi, e Giuseppina Tuissi, la partigiana Gianna. I due cadaveri, gettati nelle acque del lago di Como, scomparvero per sempre e non furono mai più ritrovati di Franco Servello e Luciano Garibaldi
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a morte di Neri e di Gianna fu l’inizio di una orribile catena di delitti le cui vittime avevano una sola colpa: sapevano qualcosa sui due primi omicidi, oppure volevano far luce su di essi. Su questi crimini, così come sulla sparizione del «tesoro di Dongo», non fu mai fatta giustizia. Non vi riuscì il generale Leone Zingales, il procuratore militare incaricato di indagare sui delitti, ma costretto a dimettersi prima di aver portato a termine il suo lavoro, né vi riuscirà la Corte d’Assise di Padova, cui, dieci anni dopo, verrà assegnato il processo. Ma ecco la tragica serie degli omicidi seguiti alla soppressione di Neri e Gianna. Nei giorni seguenti, furono assassinati, e gettati nel lago, Anna Bianchi, per un certo periodo dattilografa presso il comando della
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«banda Lince»; suo padre Michele, fervente comunista, che voleva vendicare la figlia; Eufrosina Fontana, che aveva raccolto le confidenze di Anna Bianchi; Lina Chiappo, la ex staffetta partigiana Dina che, sotto tortura, aveva parlato con le Brigate Nere e che, per il solo fatto di esistere, scagionava automaticamente Neri dalle false accuse rivoltegli dal «tribunale» comunista; due partigiani di Cinisello Balsamo, Magni e il Biondino, amici di Gianna. Il fratello di Gianna, Cesare Tuissi, che era al corrente della verità sulla morte di Mussolini e della Petacci, fu fatto segno a raffiche di mitra; bombe a mano furono lanciate contro un sottufficiale dei carabinieri troppo solerte, il brigadiere Ettore Manzi, comandante della stazione di Dongo, da cui dipesero le prime indagini sui fatti di quei giorni e che aveva fatto quanto poteva per risparmiare i prigionieri fascisti a lui affidati. Pedro e Bill furono
attirati in un agguato ai primi di giugno a Gravedona e si salvarono rispondendo a colpi di mitra. Nei due anni seguenti, l’assassinio di Franco De Agazio, il direttore del «Meridiano d’Italia» che stava per raggiungere la verità sui misteri di Dongo, e il pestaggio a sangue di don Giuseppe Brusadelli, direttore de «L’Ordine», il quotidiano cattolico di Como, ottennero lo scopo prefissato di intimidire i giornali più aggressivi, che troppo avanti si erano spinti nelle congetture e rivelazioni sulle misteriose morti del lago. Tra questi, «L’Italia», diretto da monsignor Pisoni (con gli articoli di Arrigo Galli) e il «Corriere Lombardo», fondato da Edgardo Sogno e diretto da Angelo Magliano. Chi non si arrese mai furono la mamma e la sorella di «Neri» che, con successivi esposti e denunce alla questura e alla magistratura, segnalarono con nome e cognome mandanti ed esecutori dei delitti.
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GUERRA CIVILE le mani (insanguinate) sull’«oro del duce» / 2
La partigiana Gianna e il Capitano Neri, assassinati da sicari del PCI per essersi opposti all’appropriazione del cosiddetto «tesoro di Dongo»
Ma lo Stato continuava a latitare. Il 10 novembre 1945, il CLN di Como, nelle persone del suo presidente Enrico Stella e del segretario Oscar Sforni (entrambi non comunisti) aveva presentato un esposto alla magistratura sulla sparizione del «tesoro della RSI». Fu il punto di partenza di un’indagine che, dopo alterne e contrastanti vicende, si concluse il 6 ottobre 1949 con una sentenza di rinvio a giudizio per peculato, malversazione e omicidio plurimo emessa dalla sezione istruttoria della Corte d’appello di Milano «contro Dante Gorreri, Pietro Vergani più altri 28». Ma il
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Nuova edizione con documenti inediti per l’inchiesta di Franco Servello e Luciano Garibaldi «Perché uccisero Mussolini e Claretta» (Rubbettino, pp. 284, € 16,00 www.rubbettinoeditore.it)
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processo, per tutta una serie di supplementi di istruttoria e richieste di legittima suspicione, iniziò soltanto il 29 aprile 1957, dinanzi alla Corte d’assise di Padova. Il PCI aveva provveduto a mettere al sicuro i due uomini accusati di essere i mandanti, Vergani e Gorreri, facendoli eleggere deputati al Parlamento. Sul banco degli imputati, in catene, c’era soltanto Maurizio Bernasconi (Mirko), l’ex vicecomandante della «polizia del popolo», uno dei due accusati di aver assassinato Gianna, arrestato per una serie di rapine. Ecco la descrizione che di lui fece Franco Di Bella, inviato del Corriere della sera al processo di Padova: «Occhi sottili, da mandarino cinese, naso leggermente adunco, dall’alto dei suoi 24 anni di carcere, osserva il processo con atteggiamento distaccato, come un baronetto inglese potrebbe occhieggiare dalle tribune i suoi cavalli al paddock». Latitanti gli imputati dei reati più gravi. A piede libero i due parlamentari comunisti. Benché si trattasse di ricercare la verità sull’origine e sulla fine di un ingente tesoro, lo Stato non si costituì parte civile. L’onestà e la fermezza del presidente della Corte, Augusto Zen («Il fatto che i gerarchi fascisti», dettò a verbale, «non abbiano lasciato tutti quei valori al
cardinale Schuster e li abbiano portati con sé è stato la causa della loro fine», dichiarò coraggiosamente), non furono sufficienti a smuovere la reticenza di chi, come il generale Luigi Cadorna, avrebbe finalmente potuto chiarire il mistero di Dongo, ma non volle farlo. Walter Audisio poté permettersi di gridare: «Il vero processo lo faremo noi, capi partigiani!», e Luigi Longo poté vantarsi con queste parole: «Noi comunisti non dobbiamo rendere conto a nessuno: non prevedevamo, allora, che la Resistenza sarebbe finita sul banco degli imputati». Era comunque stabilito che gli assassini di Neri, della Gianna e di tutti gli altri, gli autori forse della più grande ruberia della storia d’Italia, non dovessero pagare. Il 24 luglio 1957 uno dei sei giurati, Silvio Andreghetti, di 63 anni, ebbe un collasso e fu ricoverato in ospedale. Il presidente Zen rinviò l’udienza al 5 agosto. Pochi giorni dopo, Andreghetti («colui che», nel ricordo di Alice Canali, «seguiva con maggiore partecipazione e sensibilità le vicende del processo») si suicidò in ospedale. O fu suicidato. Il processo fu rinviato a nuovo ruolo. E, da oltre mezzo secolo, aspetta ancora di essere celebrato. n [per gentile concessione di Rubbettino Editore]
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Guareschi avvennero gravissime illegalità: zia graca e chimica e non furono ascoltati a. Guareschi scontò oltre un anno di carase della testimonianza di De Gasperi, poi
saggio l’autore - un giurista - pone in luce assurdità del processo dimostrando che criminalizzare il carteggio tra Mussolini e ntemente tale carteggio conteneva accordi Mussolini disse più volte “queste carte valvinta”. convalida l’ormai nota teoria della pista incui fu Churchill a far uccidere il capo del etacci. ueste pagine la magistratura italiana ha il re istanza di revisione del processo contro lutare lo scrittore parmense.
tta apparsa su “Candido” n. 17 del 25 Aprile 1954
Ubaldo Giuliani-Balestrino
Il carteggio Churchill-Mussolini alla luce del processo Guareschi
Il carteggio Churchill-Mussolini alla luce del processo Guareschi
ani-Balestrino, (Parma, 1933) è ordinario Commerciale presso la Facoltà di Econoo di Torino. Avvocato di Cassazione ha inersità di Genova, Rio de Janeiro, Caracas e di molte monograe giuridiche ha anche italista: questo sconosciuto (2001) e Il seo (2008).
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La storia dei tentativi, velleitari forse ma tenaci e ripetuti, che molti “neri e rossi” durante la Guerra civile fecero per provare a fermare la strage tra italiani. Tutto fallì - scrive Fabei - soprattutto per volontà di due uomini: Lelio Basso e Sandro Pertini.
Un romanzo storico che ricostruisce le ultime ore di Mussolini e i retroscena della caccia al dossier che ne seguì ad opera di agenti di varie nazioni. Non a caso Paratico si è dichiaratamente ispirato a “la pista inglese” di Garibaldi
L’avamposto di Mussolini nel Reich di Hitler Gianluca Falanga Marco Tropea Editore pp. 448, € 23,00 I rapporti Italia fascista / Terzo Recih attraverso i quattro ambasciatori italiani a Berlino. Filippo Anfuso, l’ultimo, accompagnerà e testimonierà le difficili relazioni della RSI con l’invadente e prepotente alleato nazista.
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Bombardamenti e stragi: la “liberazione” dell’Italia è stata macchiata da mille episodi che hanno rovinato la “gioia” del ritorno alla libertà
”Una storia della Resistenza” che prende le mosse dal “segreto brutto” confessato con molto pudore e dopo molto tempo da Primo Levi. Partigiani assassinati da altri partigiani: un lontano eccidio pone ancora oggi questioni scottanti che dividono gli storici
Che dimensioni ebbe il fenomeno delle diserzioni nelle Forze Armate della RSI? È vero che la maggioranza dei suoi arruolati non vedeva l’ora di fuggire? Di chi era la responsabilità del gran numero di “assenti arbitrari” fra i ranghi della RSI?
Bernini scioglie il mistero sulla identità del plotone di partigiani che accompagnò Valerio a Dongo. Il loro comandante poi, Orfeo Landini, ammise di essere stato presente alla morte di Mussolini. Che non avvenne a Villa Belmonte...
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I retroscena dell’8 settembre ‘43 affiorano nella storia dell’agente inglese Dick Mallaby, con il Re da Roma e Brindisi. E, nel ‘44, protagonista di un clamoroso bluff con le SS
Nei mesi della “non belligeranza” italiana, mesi di grande attivismo per la diplomazia segreta, affondano le radici misteri di cui si sentirà l’esistenza solo nell’aprile 1945
Poco prima di morire De Felice affida a un piccolo libro/intervista il succo delle sue ricerche e delle sue riflessioni su Mussolini e il Fascismo, la morte, la “pista inglese”, il carteggio con Churchill, la Guerra civile
Una biografia non banale della donna che morì sì per Mussolini ma fu anche molto altro. Festorazzi infatti non nasconde i lati negativi e ambigui di Claretta, soprattutto durante il periodo di Salò
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La breve e tumultuosa vita del commissario Calabresi durante gli “anni di piombo”. Assassinato da Lotta Continua nel 1972, Calabresi e questo libro hanno ispirato la fiction di Rai1 “Gli anni spezzati. Il Commissario”
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Biografia del comandante della Guardia Nazionale Repubblicana durante la RSI e tra i principali attori del “Progetto Valtellina”: il generale Nicchiarelli svolse un ruolo non secondario anche negli ultimi giorni della Rsi
Il 10 giugno 1940 il Regno d’Italia entrò in guerra contro Francia e Inghilterra. Ma l’esito drammatico era stato scritto nei 5 anni precedenti dai responsabili della produzione industriale, in gara a chi faceva la cosa più sbagliata
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