Serial killer. Storie di ossessione omicida
 8804532718, 9788804532712 [PDF]

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Zitiervorschau

Carlo Lucarelli Massimo Picozzi

Serial killer Storie di ossessione omicida

© 2003 by Carlo Lucarelli and Massimo Picozzi Published by arrangement whit Agenzia Letteraria Roberto Santachiara © 2003 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Edizione Mondolibri S.p.A., Milano su licenza Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

NOTE DI COPERTINA Jack lo Squartatore, Roberto Succo, Jeffrey Dahmer, Donato Bilancia. Chi sono i serial killer e perché mai la nostra immaginazione è così colpita da queste terribili figure? La risposta più semplice è che ci fanno paura. Ma non è l'unico motivo. Il serial killer è un simbolo, è la personificazione di quanto c'è ancora di irrazionale, di ferino, di primordiale in noi e nella nostra vita apparentemente logica e ordinata. E' il mostro che aspetta in agguato, è l'orco che si nasconde nelle nostre esistenze quotidiane, nelle nostre strade, nelle nostre menti, nei nostri cuori. Carlo Lucarelli, un grande scrittore di noir, autore e conduttore di trasmissioni televisive come «Misteri in blu» e «Blu notte», e Massimo Picozzi, un professionista della follia, psichiatra e criminologo, che ha condotto il programma «SK. Predatori di uomini», uniscono la passione narrativa e la conoscenza specialistica per tracciare il ritratto di questi mostri del nostro tempo, raccontare la vita e le spaventose imprese dei più feroci omicidi seriali. Da Vincenzo Verzeni, che sconvolge l'Italia della seconda metà dell'Ottocento, ad Andrea Matteucci, che uccide alcune prostitute ad Aosta alla fine del Novecento e poi ne brucia i corpi. Da Fritz Haarmann, informatore della polizia tedesca, che trucida ventisette giovani e ne vende la carne al mercato nero, a Theodor Bundy, che pochi istanti prima di finire sulla sedia elettrica confessa l'omicidio di ben venti donne (ma alcuni gli attribuiscono un centinaio di vittime). E ancora, da Aileen Wuornos, prostituta che insanguina le strade della Florida, a Edmund Kemper, che prima di decapitare la madre fa a pezzi altre sei donne. Serial killer è anche un'esplorazione della psicologia di questi mostri efferati, delle radici biologiche delle loro azioni, della differenza di comportamento tra soggetti maschili e femminili. Ed è, infine, un'indagine su tutti gli strumenti di cui oggi dispongono detective, profiler, Magistrati per mettersi sulle tracce di queste figure di omicida ossessivo, sempre in bilico tra normalità e follia. Un viaggio terrificante nella vita e nella mente di uomini e di donne che non sono semplici criminali. Sono il lato oscuro del cuore umano.

Carlo Lucarelli (Parma 1960) è uno dei più famosi scrittori italiani. Autore e conduttore delle serie televisive «Misteri in blu» e «Blu notte», ha scritto fra l'altro: Carta bianca, L'estate torbida, Via delle oche, Almost blue, Il giorno del lupo, Mistero in blu, Guernica, L'isola dell'angelo caduto, Un giorno dopo l'altro, Lupo mannaro, Laura di Rimini e Misteri d'Italia. I casi di Blu notte.

Massimo Picozzi (Milano 1956), psichiatra e criminologo, insegna criminologia all'Università Cattaneo di Castellanza dove è responsabile del Laboratorio di analisi e ricerca sui crimini violenti. È consulente dell'Unità analisi del crimine violento (UACV) della Direzione centrale della Polizia criminale. In qualità di perito psichiatra si è occupato dei casi di cronaca nera di maggior clamore degli ultimi anni: dal delitto di suor Laura Mainetti a Chiavenna al caso di Erika e Omar a Novi Ligure, dal serial killer di Padova Michele Profeta all'omicidio di Samuele Lorenzi a Cogne, sino alle indagini sulla morte di Desirée Piovanelli a Leno. È autore di numerosi libri, tra cui Criminal Profiling, Giovani e crimini violenti, Piccoli omicidi e Pedofilia. Non chiamatelo amore.

Indice 3 Introduzione I Anatomia del serial killer La storia di Vincenzo Verzeni, 9 – La storia di Fritz Haarmann, 23- I serial killer, 42 – Nascita di un serial killer, 54 – Breve storia dell’omicidio seriale, 69 II Serial killer al femminile La storia di Milena Quaglini, 81 – La storia di Aileen Wuornos, 100 – Le donne e il crimine violento, 118 – La donna serial killer, 121 III Apparentemente sani La storia di Andrea Matteucci, 134 – La storia di Edmund Kemper, 150 – Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, 165 – La classificazione dell’FBI e il CCM, 166 -La tipologia di Holmes & De Burger, 187 IV Apparentemente folli La storia di Gaspare Zinnanti, 199 – La storia di Ed Gein, 213 -«Bad or mad», malvagi o malati, 227- Infermità di mente e imputabilità nel nostro codice penale, 241 – Il serial killer e le diagnosi dello psichiatra, 247 V Cross nation La storia di Roberto Succo, 263 – La storia di Jack Unterweger, 276 – Il comportamento «spaziale» dei criminali, 288 – Il crime linkage e la creazione dei database, 294 VI Dalla parte di chi indaga Le origini di una professione, 299 – Il criminal profiling, 302 -La vittimologia, 310 – Gli investigatori italiani sulla scena del crimine, 315

Serial killer

A Lorenzo, Alessandro e Silio, tra delitti e misteri, più che amici, fratelli C.L.

A Laura, mia moglie M.P.

Introduzione 24 gennaio 1989. Ore 7 del mattino. Sul prato che circonda la Florida State Prison c’è una folla chiassosa e vociante di più di trecento persone. Attendono, impazienti, come se fossero sul punto di festeggiare qualcosa. E lo sono. Ore 7 e 16. Improvvisamente, la luce dei fari che illumina il penitenziario si affievolisce. Pochi secondi. Poi, dopo un attimo di silenzio, urla di gioia, brindisi improvvisati con lattine di birra, i cartelli preparati da giorni che si innalzano, rivolti alle telecamere: BRUCIA TED!, ARROSTISCI ALL’INFERNO!

Theodor Robert Bundy, detto Ted, è stato giustiziato sulla sedia elettrica. Ha ucciso per l’ultima volta il 6 febbraio 1978; la vittima è una ragazzina di 12 anni, Kimberly Leach. Il suo corpo massacrato viene ritrovato solo alcune settimane dopo, scaricato nei pressi di un parco pubblico. Identificato e catturato, Bundy è condannato a morte nel luglio del 1979. Rivolgendosi a lui, Edward Cowart, il giudice che presiede la corte, appare visibilmente scosso: «Abbia cura di se stesso. Lo dico con grande sincerità. È una vera tragedia per questa corte avere constatato la sua totale perdita di umanità. Avrebbe potuto essere un buon avvocato. Avrebbe dovuto cercare di essere meno impetuoso e irruente. Mi creda. Ma lei si è davvero comportato nel peggiore dei modi».

Intelligente, affascinante, di buona cultura, Ted Bundy nasce a Burlington, nel Vermont, il 24 novembre 1946 da una ragazza madre, Louise Cowell. L’infanzia e l’adolescenza non sono segnate da traumi importanti, separazioni laceranti, maltrattamenti fisici, abusi sessuali. L’infanzia e l’adolescenza di Teddy sono un’infanzia e un’adolescenza normali. Ted Bundy comincia a uccidere il 21 gennaio 1974. Linda Ann Healy, 21 anni, scompare senza lasciare traccia. Nella sua abitazione gli investigatori trovano i segni di un’aggressione, macchie di sangue sul letto e sulla camicia da notte della vittima. Quindici anni dopo, arrestato e condannato soltanto per tre omicidi, poco prima dell’esecuzione Bundy confessa di avere ucciso più di venti ragazze e giovani donne. Alcuni gli attribuiscono addirittura un centinaio di vittime, risultato di aggressioni a sfondo sessuale iniziate già nell’adolescenza, in molti casi tuttavia le prove sono scarse, o spesso assenti. Predatore letale, Ted Bundy ha portato con sé, nella tomba, la verità su una serie impressionante di crimini, tra i più incredibili e feroci che si possano immaginare. Theodor Robert Bundy, il più celebre tra i serial killer del ventesimo secolo, il primo nella terribile e affascinante classifica degli assassini seriali. Verona, 6 ottobre 1997. Davanti alla corte d’assise si apre il processo a Gianfranco Stevanin. Tutto ha inizio la sera del 16 novembre 1994, quando Gabrielle Mugser, una prostituta austriaca, si lancia fuori dall’auto di proprietà di Stevanin, chiedendo aiuto a una volante della polizia che ha notato poco lontano. Racconta di essere stata sequestrata, costretta a rapporti sessuali violenti, minacciata con un taglierino e una pistola, bloccata e malmenata nel tentativo di fuggire una prima volta dall’abitazione in cui era stata condotta. Scattano immediate le perquisizioni in una villetta e in un vecchio casolare di proprietà dell’uomo. Saltano fuori centinaia di riviste e di foto pornografiche, i documenti di due donne scomparse, peli pubici femminili raccolti e conservati. Il 3 luglio 1995 a Torrazzo, poco lontano dall’abitazione di Stevanin, viene rinvenuto in un fossato un sacco contenente un cadavere. I resti di una seconda e di una terza vittima affiorano nel novembre e nel dicembre successivi. Alla prima udienza Gianfranco Stevanin si presenta con il cranio rasato, mettendo in bella mostra i segni di una vasta cicatrice, testimonianza di un brutto incidente. È su questo punto che la difesa fonda la propria strategia: sulla presenza di una lesione cerebrale che ha compromesso la capacità di intendere e di volere dell’uomo nel seviziare, uccidere e mutilare. Nel corso del processo, Stevanin accetta di salire sul banco degli imputati. Cinque udienze, ore e ore di confronto, con il pubblico ministero, gli avvocati di parte civile, i suoi stessi difensori. Fra le tante domande, le più inquietanti: Hai mai mangiato carne umana? Oh Dio… se dovessi risponderti, ti direi di no… certo che, con i vuoti di memoria che mi ritrovo, non posso esserne certo. Se tu l’avessi mangiata, rientrerebbe nel concetto di bene o di male? Rimanendo nella normalità… se una persona è normale, non credo… Tu sei anormale? Non lo posso sapere. Deve essere qualcun altro a spiegarmelo.

Gianfranco Stevanin, il Mostro di Torrazzo, al termine di un lungo e contrastato iter processuale viene considerato pienamente capace di intendere e di volere. L’8 febbraio 2002, la corte di cassazione conferma la sentenza d’appello e lo condanna all’ergastolo, riconoscendolo responsabile di cinque omicidi. Ted Bundy, Gianfranco Stevanin: storie di assassini seriali e di vittime innocenti. Storie di serial killer. Ma chi è il serial killer? E perché parlarne ancora? C’è un motivo se la figura spaventosa e diabolica del serial killer ci interessa, ci sconvolge e in un certo senso ci affascina così tanto. Perché ci fa paura, va bene, ma non soltanto per quello. Perché è una metafora, un simbolo, la personificazione di tutto quello che di irrazionale, di primordiale e ferino c’è ancora in noi e nella nostra vita apparentemente così logica e ordinata. È il «mostro» che aspetta in agguato nella metà oscura, in quell’altrove misterioso e inesplorato che per i nostri antenati erano il bosco e la palude, dove vivevano, misteriosi e letali, i draghi, i lupi mannari, i vampiri e gli orchi. E ora che i boschi e le paludi non ci sono più, ora che anche lo spazio cosmico sembra a portata di mano, la metà oscura in cui immaginare i mostri da fuori si è proiettata dentro, ed è nelle nostre stesse città, nelle nostre strade, dentro noi stessi, nel nostro cuore e nella nostra mente che andiamo a cercare gli orchi del nuovo millennio I serial killer. Sono loro che hanno dato ai nostri incubi il volto umano e concreto di uomini e donne comuni, a volte banali, spesso simili in tutto e per tutto proprio a noi. Chi sono? Da dove vengono? Perché fanno quello che fanno? È per cercare di dare una risposta a questa e a tante altre domande, mettendo assieme in modo definitivo tutto quanto fino a ora è stato scoperto sull’argomento, che abbiamo deciso di scrivere questo libro. Uno scrittore che viene dalla fantasia narrativa dei romanzi noir e attraverso trasmissioni televisive come «Blu notte» finisce per ritrovarsi in mezzo alla realtà concreta di atti processuali, referti autoptici e perizie psichiatriche. Un medico, un professionista nelle scienze della mente e della criminologia, che viene dalla conoscenza diretta della follia, della solitudine e della violenza delle carceri, delle aule di tribunali e attraverso una serie televisiva come «Sk. Predatori di uomini», si accosta a quel mezzo di comunicazione così potente, così incisivo che è la narrazione. Scienza e narrativa, perché il serial killer è sicuramente un argomento scientifico di enorme importanza ma è anche talmente ricco di suggestioni da non poter sfuggire, tutte le volte che ci si pensa, a una dimensione narrativa che investe con feroce violenza giornalismo, letteratura e cinema. Perché le storie dei serial killer, le storie di questi orchi del nuovo millennio che abitano la metà oscura del nostro mondo e di noi stessi sono incredibili, complesse e misteriose, ricche di contraddizioni, emozioni fortissime e colpi di scena. Per raccontarle, dobbiamo cominciare dall’inizio.

I Anatomia del serial killer

La storia di Vincenzo Verzeni Gennaio 1872. L’uomo è seduto su una sedia da misurazione, le natiche separate da una sottile listella di legno che divide in due il sedile, la schiena dritta, la nuca sorretta da un semicerchio di metallo in cima a un’asta di ferro che si alza dallo schienale. Tiene la testa ferma mentre lo scienziato gli appoggia alle tempie le punte arrotondate di un largo compasso ricurvo. Fronte larga: 130 millimetri Fronte alta: 62 millimetri Circonferenza: 561 millimetri Curva longitudinale: 360 millimetri Curva biauricolare: 315 millimetri Cesare Lombroso annota tutto scrupolosamente. La conformazione del cranio è importante per determinare eventuali anomalie del cervello, così come le proporzioni del corpo, la disposizione e la quantità dei peli, la misurazione della vista, la colorazione della pelle, la storia clinica e sociale del soggetto e di tutta la sua famiglia servono a capire se quell’uomo rigido sulla sedia sia un «delinquente nato». Anche la sua resistenza al dolore, misurata con una macchina elettrica che traduce in millimetri la sensibilità delle varie parti. Fronte: 29 millimetri Lingua: 31 millimetri Mento: 41 millimetri Dorso delle mani: manchevole Cesare Lombroso, antropologo, criminologo, docente di psichiatria all’Università di Pavia, annota tutto scrupolosamente per la perizia psichiatrica che in base agli articoli 94 e 95 del vecchio Codice penale sardo sta conducendo sull’uomo che ha davanti. La domanda è se l’uomo sia in grado di intendere e di volere, perché quello di cui l’uomo è accusato è qualcosa che fa davvero pensare alla follia. Alla follia più orrenda e più bestiale che si possa immaginare. 10 dicembre 1870. È sabato. Un gruppo di uomini sta perlustrando le campagne di Bottanuco, vicino a Bergamo. Li guida il fattore di una cascina che sta nelle vicinanze, il Cascinone Previtali. Giovanni Battista Ravasio ha una ragazza a servizio nella cascina, una ragazzina di 14 anni che si chiama Giovanna Motta. Due giorni prima, l’8 dicembre, Giovanna è partita dalla cascina per andare a trovare la famiglia a Suisio. Tra la cascina e il paese di Suisio ci sono pochi chilometri, Giovanna è partita di mattina presto, fra le sette e le otto, a piedi, naturalmente, ma avrebbe già dovuto essere di ritorno da un pezzo. Il signor Ravasio è preoccupato. Per lui e per sua moglie Maria Elisabetta quella ragazzina è come una figlia, davvero, e quando viene a sapere che a Suisio Giovanna non l’ha vista nessuno, allora si spaventa sul serio. Anche perché c’è una donna di Bottanuco, Emilia Biffi, che, tornando a casa dalla seconda messa proprio quell’8 dicembre in cui

Giovanna è partita, sulla strada che dalla chiesa parrocchiale porta al paese ha trovato un fazzoletto, sulla neve, un fazzoletto che appartiene a Giovanna. E sempre quel giorno un altro paesano, Antonio Sala, aveva rinvenuto in una capanna di paglia un santino di papa Pio IX che apparteneva a Giovanna. Il signor Ravasio non lo sa ancora, ma c’è qualcuno che ha trovato qualcosa di più inquietante. Il 9 dicembre, nel cavo di un albero di gelso, Battista Mazza, un contadino di Bottanuco, scopre delle frattaglie che pensa siano di qualche animale e non immagina neanche lontanamente che invece appartengano a un essere umano. Il signor Ravasio organizza un gruppo di uomini per andare a cercare Giovanna. La trovano che è quasi buio. È in una stradina che sta proprio a cinquanta passi dalla strada che dal Cascinone Previtali va a Suisio. Una stradella campestre che attraversa un fondo su cui si trova una tettoia, in località Tabiotto. È nuda, in mezzo alla neve, completamente nuda a parte una calza che le è rimasta sulla gamba sinistra. È stata soffocata, qualcuno le ha stretto il collo e le ha anche riempito la bocca di terra. Ma non solo. È stata massacrata da un numero incalcolabile di ferite e ha un taglio che dal petto all’inguine la spacca praticamente in due. Qualcuno le ha strappato le viscere e l’ha mutilata portandole via un polpaccio. Anche se ha segni di graffiature all’interno delle cosce, non si può dire se sia stata violentata perché genitali e organi sessuali mancano completamente. C’è anche qualcosa di strano accanto al corpo della povera Giovanna. Dieci spilloni, di quelli che le contadine portano attorno alla testa quando si acconciano nei giorni festivi, disposti simmetricamente su un sasso. Tre giorni dopo, nella capanna di paglia dove è stato trovato il santino di Pio IX, viene trovato un pezzo di carne che sembra appartenere a un polpaccio. Adesso nessuno pensa più a un animale, come per le viscere. Adesso lo immaginano tutti che è di Giovanna. Cesare Lombroso misura l’angolo facciale dell’uomo seduto rigido e paziente sulla sedia. È di 80 gradi. È importante l’angolo facciale, come tutte le misure antropometriche che possono uscire dalla media. L’indice cefalico, per esempio, è di 780. La media presa da cento maschi bergamaschi di vent’anni è inferiore di soli nove millimetri. È importante che l’indice di confronto appartenga alla stessa zona a cui appartiene il soggetto. Sono gli anni Settanta, l’Italia esiste soltanto da un decennio e tra le varie regioni che compongono il Regno ci sono ancora enormi differenze di usi, costumi, alimentazione, caratteristiche somatiche nella costruzione del corpo e nei lineamenti del volto. L’uomo sulla sedia è bergamasco, di Bottanuco, il paese di Giovanna. Ha 22 anni, è alto uno e 66 e pesa 68 chili e 300 grammi, un po’ più della media dei bergamaschi della stessa statura. Anche il cranio è un po’ più grande della media di cento soldati ventenni di Bergamo. Per il resto non presenta anomalie di rilievo, a parte una leggera asimmetria che fa sembrare il lato sinistro del volto più sviluppato del destro. Gli zigomi sono molto grandi, il naso è piccolo, la mascella inferiore sporge in avanti e i denti sono forti, con i canini molto appuntiti. Il collo è forte, taurino, la schiena e le braccia sono robuste, le mani sono grandi, mentre le gambe sono più corte e tozze. Non è un bell’uomo il bergamasco seduto sulla sedia da misurazione, ma non è questo che interessa a Cesare Lombroso. A lui interessa scoprire se è pazzo.

27 agosto 1871. Domenica. Sono passati nove mesi da quando è stata ritrovata Giovanna uccisa in quel modo, ma l’impressione a Bottanuco è ancora forte. La vita nelle campagne bergamasche è dura e anche violenta, ma non ne capitano spesso di massacri come quello. Giovanni Antonio Frigeni è un contadino che abita nel centro del paese. Sua moglie Elisabetta Pagnoncelli è uscita prestissimo, di mattina, prima per andare a messa e poi per andare nel campo in cui lavora col marito. È domenica, è un giorno di festa, ma Elisabetta vuole solo arrivare al podere per sistemare alcuni pulcini nati da poco, e tornare indietro subito. Non è lontana la sua meta, sta a Campazzo, solo una mezz’oretta di buon passo. Così mette i pulcini in due ceste e parte. Alle otto, però, non è ancora tornata. Giovanni Antonio si preoccupa subito, era successa quella bruttissima cosa soltanto nove mesi prima, esce di casa e va a cercarla sulla strada. E la trova. È in un campo di frumento a cinquecento metri da Campazzo. È completamente nuda. È stata strangolata, come dimostra la corda che ha attorno al collo e come dimostrano i segni delle sue stesse unghie che si è scavata nella pelle nel tentativo di liberarsi. Ma non sono gli unici segni che ha addosso. Anche lei come Giovanna è stata massacrata, con ferite alle braccia, alla regione lombare, alla nuca e al ventre, squarciato da un taglio da cui escono le viscere. Anche per lei è impossibile dire se sia stata violentata. Piantati nella schiena ha tre spilloni da donna, di quelli che portava per andare a messa, e altri sono sparsi tra il frumento. I pulcini sono nel podere di Campazzo, per cui è stata aggredita sulla strada del ritorno. Scrupolosamente annotati nella perizia di Cesare Lombroso ci sono anche tutti i dati relativi alla famiglia del bergamasco. Sono importanti le misure antropometriche, ma altrettanto importante è l’eredità che il soggetto si porta dietro. La famiglia è una famiglia di contadini, poveri e avari. Nel 1866 per risparmiare mangiano polenta di mais andato a male. Due zii soffrivano di cretinismo, uno con misure singolari: 72 gradi di angolo facciale e il cranio piccolissimo, appena 52 centimetri, a forma di pan di zucchero. Il padre, ipocondriaco, ha un cugino che soffre di iperemia cerebrale e un altro pregiudicato per furto. Questo per quanto riguarda la famiglia. Ma lui? Lui si chiama Vincenzo Verzeni. È nato a Bottanuco l’11 aprile 1849. È un contadino che abita in una cascina appena fuori dal paese. Silenzioso, solitario, molto intelligente anche se non è andato a scuola. Nessuno ha mai avuto niente da dire su di lui, non ha neppure un soprannome particolare, come si usa nei paesi. E docile, gentile, molto sensibile, tanto che quando era bambino e c’era la necessità di ammazzare qualche animale, un coniglio da accoppare, un pollo a cui tirare il collo, come si fa in campagna, lui era costretto a uscire di casa, perché non poteva guardare. Vive in una cascina assieme ai genitori e alle famiglie degli zii, una famiglia allargata, comune nelle zone contadine del Nord Italia, soprattutto allora. Rispetta suo padre, tanto che si lascia sgridare e anche picchiare senza reagire, ed è molto legato ai nipotini, dice che «si caverebbe il pane di bocca per loro». Non è sposato né fidanzato, perché la famiglia non vuole. I Verzeni sono molto chiusi, molto avari e molto bigotti, non ci sono soldi per i «lussi», non ci sono soldi per divertirsi, c’è solo il lavoro e una morale rigidissima, soprattutto dal punto di vista sessuale. A Vincenzo però le

donne piacciono. Non è fidanzato ma non sembra aver problemi con le ragazze, appena una lo lascia ne trova subito un’altra, e se non ha una donna si masturba. Ma non fa solo questo. Inverno 1867. Fa freddo nella campagna bergamasca, c’è la neve. Fa freddo anche in casa, dove non arriva il calore della stufa o la fiamma del camino, anche dentro ai letti, fra le lenzuola rigide e ghiacciate, riscaldate dal «prete», che tiene sollevate le lenzuola con le doghe di legno, perché non prendano fuoco con il carbone ardente che sta nello scaldino. Fa freddo, vengono i geloni alle mani e ai piedi e ci si ammala di tutto: pellagra, influenza, anche colera, che in quegli anni passa da quelle parti. Marianna Verzeni ha 12 anni ed è a letto, al caldo, perché ha avuto il colera e adesso è convalescente. E’ la cugina di Vincenzo, figlia del fratello di suo padre, e abita nella cascina con tutta la grande famiglia Verzeni, loro al piano di sopra, Vincenzo e i suoi a quello di sotto. Un giorno Vincenzo sale di sopra a visitare la cugina. La trova nel lettone, ammalata. La cugina non è molto bella, è una ragazzetta gracile, col volto ancora livido e sciupato dalla malattia, ma è giovane e svestita, lui ne ha 18 e le donne gli piacciono molto. Le salta addosso, ma non cerca di violentarla, fa un’altra cosa. Le stringe le mani attorno al collo. Gliele stringe forte, fortissimo, come se volesse ucciderla, e intanto si schiaccia contro di lei, premendola sul letto. Ha una forza incredibile, Vincenzo, superiore a quella che ha sempre dimostrato, e per Marianna è impossibile reagire. Ma poi, all’improvviso, lui la molla. Ha avuto un orgasmo. La lascia ansimante sul letto e si allontana. La cugina non dice niente a nessuno, per paura e per vergogna: la madre di Vincenzo si accorge che il figlio ha la camicia bagnata di sperma, ma non dice niente neppure lei. Il ragazzo ne parla col parroco del paese, in confessione, e il parroco lo rimprovera, gli dice che è peccato e gli intima di non farlo più. Vincenzo ci pensa. Rinunciare al peccato o cedere alla tentazione. Resistere o lasciarsi andare. Inverno 1869. In una stradina di campagna, poco fuori dal paese, Vincenzo incontra una donna. Si chiama Barbara Bravi e ha 27 anni. Lui la ferma come se volesse chiederle qualcosa, poi la trascina fuori dalla strada, nel campo, la getta a terra, la schiaccia sulla neve e non cerca di violentarla, ma l’afferra alla gola. La stringe con una forza incredibile, la immobilizza, premendosi su di lei, e stringe. Barbara cerca di lottare ma non ci riesce, e sarebbe morta se all’improvviso Vincenzo non l’avesse lasciata. Ha avuto un orgasmo ed è tornato docile e tranquillo. Barbara torna a casa e non dice niente a nessuno. La mamma di Vincenzo vede la camicia macchiata di sperma e non dice niente. Qualche giorno dopo, Vincenzo incontra un’altra donna sulla strada che porta al paese. Si chiama Margherita Esposito ed è la moglie di un distillatore di acquavite. È una donna di mezza età, ed è anche un donnone robusto, per niente bella. Vincenzo la ferma, le chiede qualcosa, poi, all’improvviso, la afferra al collo con tutte e due le mani, la rovescia a terra e le monta sopra, piantandole un ginocchio nella pancia. L’uomo sembra avere una forza incredibile, innaturale, ma anche Margherita è forte. Lotta con tutte le sue energie, perché quell’uomo la sta strozzando, cerca di liberarsi e alla fine ci riesce, riesce a rompere la stretta, a scivolare sotto quel ginocchio che la schiaccia a terra, e a scappare via. Anche lei, per paura, per pudore e per vergogna, non dice niente a nessuno.

Poi Vincenzo incontra Giovanna Motta. E questa volta non si limita a stringerle il collo. Questa volta la uccide, la sventra, le taglia le viscere, la mutila e la lascia lì, sotto la tettoia del Tabiotto. Il 27 agosto 1871 Vincenzo uccide, sventra e mutila Elisabetta Pagnoncelli. Il giorno dopo viene arrestato. Le indagini dei regi carabinieri portano rapidamente a lui. Ci sono due testimoni, due donne che passavano sulla stradina di Campazzo, che l’hanno visto assieme a Elisabetta, nel campo di frumento, anche se sul momento non hanno capito cosa stesse facendo. Ci sono tutte le testimonianze delle precedenti violenze che vengono alla luce, ma soprattutto ce n’è una, quella di un’altra cugina di Vincenzo. 26 agosto 1871. Soltanto il giorno prima del massacro di Elisabetta. Maria Previtali ha 19 anni e lavora in una filanda a Cerro. Quel giorno è sabato, ed è festa perché è Sant’Alessandro, patrono della diocesi. Maria sta andando a Suisio, a piedi, e per farlo deve passare da Bottanuco, che sta in mezzo. È quasi l’una del pomeriggio, ha superato il paese da poco più di mezzo chilometro e sta imboccando lo stradone che va a Suisio quando sente dei passi dietro di sé. Passi di una persona in corsa. Che le corre dietro. Maria è assalita dalla paura, ma subito dopo si accorge che è soltanto suo cugino Vincenzo, un cugino di secondo grado, che non frequenta ma che conosce, almeno di vista. Lui, invece, pare non averla riconosciuta, perché le chiede di dov’è, se è di Suisio e a che famiglia appartenga. Sembra una domanda fatta per attaccare discorso, Maria però risponde lo stesso, cortesemente, ma non fa in tempo a dire quasi niente che il cugino l’afferra con un braccio alla vita, la tira via dallo stradone e cerca di trascinarla in un viottolo sterrato che porta a un campo di frumento. La ragazza comincia a urlare, allora lui la getta a terra, metà dentro e metà fuori dal campo, con le gambe ancora sul viottolo. Lei grida ancora e allora Vincenzo le tappa la bocca con una mano e con l’altra l’afferra al collo e glielo stringe forte. Maria non riesce a respirare. Il frumento è alto e li nasconde alla vista, la gonna le si è alzata sulle gambe e la impaccia, il cugino la schiaccia a terra, le stringe la gola e non la molla e lei sta per soffocare. Perde quasi i sensi quando si accorge che il cugino non la sta più stringendo. Si è alzato ed è andato sullo stradone, per vedere se arriva qualcuno. Maria vorrebbe scappare, ma non ci riesce, non ha più forza, è stordita e terrorizzata e non sa cosa fare. Vincenzo torna, le si avvicina e la prende per le mani. Non fa nient’altro, le tiene le mani strette tra le sue, la guarda e non dice niente. Maria ha paura, lo implora di lasciarla andare, di non farle del male. Poi, all’improvviso, lui le lascia le mani, si alza, e la lascia andare. Cesare Lombroso annota tutto scrupolosamente, perché il suo compito è importante e non può lasciare niente al caso. Il quesito a cui deve rispondere è se Vincenzo Verzeni sia pazzo. Se lo è del tutto, allora, in base all’articolo 94 del codice penale, non può essere imputato di niente, come chiunque abbia commesso un delitto «in istato di assoluta imbecillità, di pazzia o di morboso furore». Se lo è parzialmente, allora deve essere condannato a un massimo di dieci anni di carcere, estensibili a venti di custodia in un istituto mentale. Altrimenti, per quello che ha fatto Vincenzo c’è l’ergastolo, se gli va bene. Se gli va male c’è la pena di morte. Lombroso annota tutto e confronta il caso di Verzeni con altri casi storici di omicidi sanguinari sfociati in casi di «bestialità e carnalità sfogati sui cadaveri umani».

Come il prete Mingrat, «che a ventun anni uccise due ragazze e le tagliò a pezzi per nasconderle nei boschi», o il sergente Bertrand, che profanava, mutilava e faceva a pezzi cadaveri dissotterrati dai cimiteri. O come Antoine Léger, eremita, che un giorno trascina nella sua grotta una ragazzina di dodici anni, la violenta, la uccide, la sventra e ne mangia il cuore. O addirittura Gilles de Rais, che nella Francia del XV secolo stuprò e uccise quasi un migliaio di bambini durante riti satanici tenuti nel suo castello. Lombroso analizza il comportamento di Verzeni, la sua assoluta mancanza di preoccupazione nel lasciare tracce e testimoni, ma allo stesso tempo la sua abilità nel mentire e nel nascondere i propri delitti per almeno quattro anni. Considera il minore sviluppo della parte destra della scatola cranica di Verzeni e la compensa con lo sviluppo di quella sinistra. Calcola la sua esuberanza sessuale e l’aumento della sua forza durante gli omicidi. Il fatto che in carcere si apra con gli altri detenuti, tenendo un atteggiamento cordiale e spontaneo. È pazzo, Vincenzo Verzeni? O cosa? Cesare Lombroso conclude la sua perizia, la firma e la consegna al tribunale che deve giudicare Verzeni. Io concludo, quindi, ad una diminuzione di responsabilità pel Verzeni per quanto concerne, almeno, l’ultima parte dell’atto. Che vi sia stato qualcosa di morboso nella insolita ferocia in questo atto si ammette e si spiega colle anomalie craniche e con l’ereditarietà, ma che l’ebrezza spermatica e la influenza pellagrosa e cretinosa abbiano potuto completamente renderlo inconscio di sé prima e dopo quell’atto troppo bene lo con futano la nessuna fama di bizzarro o di matto, la capacità cranica, la ricchezza di capelli, le poche alterazioni della sensibilità al dolore, l’affettività ben conservata, la calma e l’astuzia con cui subito dopo l’atto comincia a preparare un alibi, la perspicacia delle negative…

Insomma, articolo 95, vizio parziale di mente. La corte d’assise di Bergamo, però, non accetta le conclusioni di Lombroso. Per i giudici Vincenzo Verzeni è sano di mente e può essere condannato a morte. Ma per farlo ci vuole l’unanimità. Uno dei giudici non è convinto e non se la sente di votare come gli altri. Vincenzo Verzeni scampa la fucilazione e viene condannato ai lavori forzati a vita. Per Cesare Lombroso dovrebbe essere un’esperienza conclusa, un caso da esporre in una lezione all’Università di Pavia o raccogliere in un libro, e invece, qualche giorno dopo si ritrova di nuovo di fronte a Vincenzo Verzeni. Incatenato, nella sala dei colloqui del carcere, al di là del tavolo di legno che li separa, il professore da una parte e il maniaco assassino dall’altra. Vincenzo ha chiesto di potergli parlare. Vuole raccontargli perché ha fatto quello che ha fatto, e lo vuole raccontare a lui perché ha capito che il professore, Cesare Lombroso, gli vuole bene. Così Vincenzo Verzeni parla, e per parecchie ore. Aveva 12 anni quando capì per la prima volta che gli piaceva uccidere. Prima non poteva vedere ammazzare gli animali, ma poi aveva cominciato a provare un piacere intenso nel tirare il collo ai polli, tanto che a volte si infilava nel pollaio e faceva una strage, e poi, per non farsi scoprire, diceva che era entrata una faina. Con le donne che aveva avuto come fidanzate non aveva mai provato molto e non aveva mai pensato di ucciderle. O meglio, di mettergli le mani attorno al collo, perché era quello che gli dava il massimo piacere. Appena metteva le mani attorno al collo di una donna, di

qualunque donna, di qualunque età o aspetto fisico, purché fosse una donna, aveva immediatamente un’erezione, «e ne sentiva un gran gusto». La prima ragazza che aggredisce, Marianna, la cugina che sta al piano di sopra, non la uccide soltanto perché viene prima di soffocarla, e l’orgasmo cancella tutto. E così anche con le altre donne che si salvano. Ma con Giovanna ed Elisabetta l’orgasmo era arrivato in ritardo, e loro erano morte. «In quei momenti dello strozzamento» dice Verzeni, «io non vedeva più niente.» Anche sventrare le donne appena uccise gli dava piacere. Giovanna, per esempio, la sventra con un rasoio che aveva usato poco prima per farsi la barba. Non la violenta, i segni che ha all’interno delle cosce non sono dati da quello. È perché l’ha morsa per succhiarle il sangue, «con che godei moltissimo». La carne che ha staccato dal polpaccio la succhia così, cruda, e se la vorrebbe portare a casa per cuocerla e mangiarla, ma poi ha paura di farsi scoprire dalla madre e allora la nasconde nella casa di paglia. Le viscere le ha tolte per annusarle e palparle, tenendole in mano, e anche sfilare gli spilloni dall’acconciatura dei capelli di Giovanna «mi dava pure un gran diletto». Elisabetta, invece, non la uccide con la corda che le viene ritrovata attorno al collo, ma con le mani. Poi la lega e la trascina avanti e indietro per il campo di frumento «con gran piacere». Perché le abbia infilato gli spilloni nella schiena non sa spiegarselo. C’è sempre qualcosa che gli sfugge, in quello che ha fatto. «Dopo eseguiti quei fatti io provavo una gran soddisfazione, mi sentiva più bene.» Cesare Lombroso esce colpito dal colloquio, in un certo senso affascinato da quell’uomo incredibile che si trova davanti. «Quello che vi è di straordinario in questo caso» scrive «e giustifica fino ad un certo punto la sentenza e anche la perizia mia è la perfetta lucidità di mente dell’accusato… la coscienza, quindi, della sua gravità, ma nello stesso tempo l’irresistibilità dell’atto.» Lo aveva detto anche Verzeni, incatenato al di là del tavolaccio di legno. «Non ho rimorsi. Fino ad un certo punto, e me lo disse anche il confessore delle carceri, è però meglio che io sia in carcere e ci resti, perché se fossi fuori tanto era quel piacere che io non potrei fare a meno di procurarmene, e uccider altre donne.» Cesare Lombroso, il padre della criminologia, è uno scienziato famoso; non può non raccontare del caso di Vincenzo Verzeni. Lo fa in un numero della «Rivista di discipline carcerarie»; i suoi lavori varcano i confini italiani e interessano profondamente un altro celebre psichiatra, il tedesco Richard von Krafft-Ebing, che inserisce la storia del killer di Bottanuco nel suo celebre testo Psychopathia Sexualis, dato alle stampe nel 1886. Verzeni trova spazio, ovviamente, nel capitolo dedicato al sadismo: è il caso 118, che viene così introdotto: L’esempio più tipico della specie ci viene fornito dal seguente «caso Verzeni» La vita e la morte delle sue vittime dipendevano dall’anticipo o dal ritardo della sua eiaculazione. È un caso che merita di essere citato integralmente, perché riassume tutto quanto la scienza conosce sulla relazione fra voluttà e mania omicida, fino all’antropofagia.

Caso 118, senza dubbio in «buona compagnia», se soltanto si dia una scorsa all’esempio precedente.

Caso 117 – X., vignaiolo, di anni 24, lugubre fin dall’infanzia, in troverso, affetto da agorafobia, parte in cerca di un’occupazione Dopo avere girovagato per otto giorni in un bosco, puellam apprehendit XII annorum; stupratae genitalia mutilat, cor eripit, ne divora un pezzo, beve il suo sangue e seppellisce il cadavere. Tratto in arresto, sulle prime nega, ma poi finisce per confessare con cinica freddezza il suo delitto. Ascolta con indifferenza la con danna a morte ed è giustiziato. Dall’autopsia Esquirol trova aderenze patologiche fra la corteccia cerebrale ed il cervello.

Il 13 aprile 1872 Vincenzo Verzeni fa il suo ingresso nel manicomio criminale di Milano, appena fuori Porta Vittoria. Trascorre i primi giorni apparentemente tranquillo, chiacchierando con gli altri internati. Ma a poco a poco si incupisce, si inquieta: viene spostato nel raggio di massima sicurezza. In cella con lui è Giovanni Cavaglia, muratore, assassino; il 14 luglio 1871 ha massacrato a colpi di scalpello Francesco Gambro, che gli aveva dato ospitalità nella sua cascina. A Vincenzo Verzeni vengono riservati i trattamenti più moderni (e più spaventosi) che la psichiatria abbia inventato: ustioni al collo, scariche elettriche, giornate e giornate di isolamento totale, docce gelate mentre è legato a una sedia e immerso in acqua bollente. Trascorrono alcuni mesi; sembra che Verzeni si sia tranquillizzato, passeggia, gioca, legge. Nell’estate del ‘73, improvvisamente, aggredisce un infermiere, morsicandolo ai genitali, strappandogli un testicolo; quaranta giorni di isolamento ne schiantano ogni resistenza, e ogni voglia di vivere. Alle 10 della sera Vincenzo Verzeni augura la buona notte ai compagni delle celle accanto, mentre Giovanni Cavaglia già dorme. Sono le 4 del mattino quando gli infermieri lo trovano impiccato a una rudimentale corda, appeso alla grata della finestra. Respira ancora, ma nulla potrà salvarlo: muore poco dopo. Cesare Lombroso viene immediatamente informato del suicidio e, nel volgere di trentasei ore, si ritrova in sala anatomica; innanzi a lui il cadavere di Vincenzo Verzeni, necrofilo, sadico sessuale. Ne scoperchia il cranio, cerca le prove che confermino le sue teorie sul criminale atavico, in particolare una fossetta nella parte occipitale del cranio, quella anomalia che ha scoperto aprendo la testa del brigante Villella. Non trova nulla. Sette ore di ricerca, di sezioni, di esplorazioni. Nulla. La storia di Fritz Haarmann È il 1918. La Germania ha appena perso quella che sarà chiamata la Prima guerra mondiale con un bagno di sangue che le è costato sette milioni di morti. Sta per iniziare una crisi politica, sociale ed economica che nel giro di pochissimi anni porterà sulla strada otto milioni di disoccupati, con un’inflazione talmente spaventosa da far salire il cambio a 4,2 bilioni di marchi per un dollaro. C’è una fame che uccide almeno un altro milione di persone, ci sono disordini e tumulti, ci sono signori della guerra

che comandano i Freikorps, corpi franchi formati dai reduci militarizzati, che si scontrano contro le leghe degli operai, e c’è anche un tentativo di rivoluzione socialista. Ci sono morti, molti morti, che cambiano il volto politico della Germania facendola passare dalla monarchia del Kaiser alla Repubblica di Weimar e poi, alla fine, al Terzo Reich di Hitler. È in questa Germania sconvolta e allucinata che si aggira un lupo mannaro. Nei bassifondi di Hannover, caccia, uccide e sbrana una belva che sembra un lupo uscito dalla foresta che circonda la città e invece è un uomo. Il lupo mannaro si chiama Friederich Heinrich Karl Haarmann, detto Fritz. Ha 39 anni e parla con l’accento duro e largo della Bassa Sassonia, perché è proprio lì che è nato, ad Hannover. Vive al numero 27 della Cellerstrasse, nel retrobottega di un negozio. Pochissimi mobili, perché all’inizio la vedova Schildt, la padrona di casa, glielo aveva affittato come ufficio. Ma dall’agosto del 1918 il signor Fritz ci si è proprio trasferito, e ci vive in pianta stabile. Commercia in carni, e non è un commercio regolare, contrabbando, probabilmente, borsa nera, forse neanche carne di prima qualità, ma nessuno gli dice niente perché in quegli anni, in Germania, si muore di fame. Nessuno gli dice niente neanche del rumore che fa nel retrobottega, quando sega le ossa e macella la carne. Lo fa soprattutto di notte, ma che importa quando c’è la carne. Si muore di fame. Il signor Fritz si presenta bene. È un uomo robusto, di statura media, con una faccia rotonda e aperta, da persona semplice. Le orecchie un po’ sporgenti, le labbra piccole e piene, i baffetti «all’inglese» stretti sotto l’angolo del naso, come li porteranno Hitler e Charlot, danno al suo volto un’espressione un po’ buffa, da omino simpatico. Parla moltissimo e anche in fretta, con grande entusiasmo e ricchezza di particolari, e se non è proprio un affabulatore è sicuramente una persona che affascina e convince. È anche sempre ben rasato, pulito e ben vestito, con la cravatta ben annodata sotto il colletto bianco e piccolo della camicia, e anche un bel cappello dalla tesa stretta, con una elegante fascia bianca. Ha soldi e anche relazioni, dal momento che sembra faccia il confidente della polizia. Il signor Fritz si presenta bene e sembra avere molti amici. Ragazzi, anche molto giovani, che a volte si porta nell’appartamento. Ragazzi giovani e di solito anche molto belli, perché il signor Fritz sembra avere certe tendenze che la morale del tempo e anche la legge considerano «fuori norma», e un po’ anche lo si vede, dal modo di atteggiarsi un po’ femmineo, dalla voce sempre un po’ troppo acuta. Ma che importa, i gusti sessuali del signor Fritz sono un fatto privato del signor Fritz, che si è sempre comportato con tutti in modo più che discreto e corretto. Almeno sembra. Settembre 1918. Nel film di un maestro dell’espressionismo tedesco, Friedrich Murnau, per esempio, o Fritz Lang, la scena sarebbe in un bianco e nero dai contrasti violenti, segnata da ombre, fumi e volti grotteschi. Il signor Fritz è al caffè Kropcke, dalle parti della Neue Strasse, una delle strade più antiche e malfamate del centro di Hannover. In quel caffè c’è anche Friedel. Friedel ha 17 anni ed è scappato di casa. È figlio di un albergatore dei dintorni di Hannover impegnato al fronte per la guerra che sta finendo. La madre, da sola, non riesce a tenere a freno il figlio, che non studia e le ruba anche i soldi di casa. Quando il signor Rothe torna dalla guerra, Friedel se n’è già andato e ha scritto alla madre una

cartolina in cui dice che si trova bene e che prima o poi ritornerà. Al caffè, Friedel è assieme a due amici, Helmut e Hans, quando vedono avvicinarsi il signor Fritz, che si presenta come un agente della polizia giudiziaria. È elegante, distinto, ha soldi e si vede benissimo cosa vuole. I ragazzi lo seguono nel bosco qualche volta, e poi Friedel va anche a casa sua, al numero 27 della Cellerstrasse. Assieme al signor Fritz, Friedel sale le scale che portano all’appartamento. Se fosse un film di Lang o di Murnau, le loro ombre si allungherebbero appuntite sulle pareti del palazzo. A casa, da soli, il signor Fritz si rivela un amante focoso. Molto focoso. Troppo. I suoi baci sono come morsi, si attacca alle labbra di Friedel come se volesse strappargliele via e mangiargliele. Lo schiaccia contro il letto, immobilizzandolo con tutto il suo peso e poi, all’improvviso, scatta. Lo morde alla gola come un lupo, un lupo mannaro. I suoi denti bianchi e forti schiacciano la laringe di Friedel. La trachea, compressa, provoca un arresto cardiocircolatorio e al ragazzo vengono meno le forze. Il signor Fritz lo afferra alla gola con le sue dita lunghe e bianche e stringe, e intanto continua a morderlo, succhiando il sangue dalla carotide, e stringe, stringe sempre, finché si accorge che Friedel non si muove più. Allora si accascia sul suo corpo, e resta immobile qualche minuto, esausto. Poi si alza e va a farsi un caffè, nero e forte. Dopo il caffè, il signor Fritz va a prendere un secchio, alcuni stracci, una borsa di tela cerata, un’accetta e alcuni dei suoi coltelli affilati da macellaio. Trascina Friedel giù dal letto, sul pavimento, e gli copre il volto con uno straccio, perché non gli va che stia a guardarlo con gli occhi sbarrati. Gli apre la pancia con il coltello, due tagli netti dall’inguine allo sterno, lo svuota delle viscere e le getta nel secchio. Con un altro straccio asciuga il sangue che si è raccolto nel ventre del ragazzo, poi fa altri tre tagli all’altezza delle costole, le afferra con le mani e tira verso l’alto finché non si staccano. Taglia via anche il cuore, i reni e i polmoni e li getta nel secchio. Stacca la testa, stacca le gambe, ne taglia via la carne e la mette nella borsa di tela cerata. Taglia il membro di Friedel e lo fa a pezzettini, minuscoli pezzettini. Prova qualcosa di strano mentre lo fa, prova orrore ma non riesce a farne a meno. La carne raccolta nella tela cerata viene macellata e venduta, o regalata ai vicini, che non fanno troppe domande e l’accettano molto volentieri. Si muore di fame. Il resto, le viscere nel secchio e le ossa spaccate, viene nascosto nel ripostiglio e poi gettato nella Leine, il fiume che attraversa Hannover, oppure nel gabinetto comune che sta nel cortile del palazzo, un po’ alla volta, quando nessuno vede. Non è un’operazione breve, ci vuole un po’ di tempo, e intanto l’appartamento del signor Fritz continua a essere frequentato da gente, soprattutto giovani ragazzi. È proprio mentre si trova a letto con uno di questi che arriva la polizia. A portarla al 27 della Cellerstrasse sono stati Helmut e Hans, su incarico del signor Rothe, che appena tornato dalla guerra si è messo a cercare il figlio. L’agente Brauns della polizia giudiziaria di Hannover bussa di notte alla porta del signor Fritz e lo trova a letto con un ragazzino, che viene subito arrestato. Anche il signor Fritz viene denunciato e arrestato, e quando lo rimettono fuori in attesa del processo ha il tempo di far sparire una cosa e seppellirla nel cimitero di Stocken.

Quando è entrato, quella notte, l’agente Brauns non se ne è accorto, ma dietro la stufa, nascosta sotto un pezzo di giornale, c’era ancora la testa di Friedel. Prima di quel giorno, il signor Fritz era già stato dentro, e non soltanto per il paragrafo 175 del codice penale tedesco, quello che punisce le «offese al pudore e all’onore sessuale». Friedrich Heinrich Karl Haarmann era nato in una famiglia piccoloborghese, piuttosto benestante grazie al piccolo capitale in beni immobili del padre. Friedrich, ultimo di sei fratelli, va alla scuola comunale, si comporta bene, è sempre molto educato, ma non studia e si fa bocciare. Prova a lavorare, va a bottega da un fabbro come apprendista ma non gli piace e lascia il lavoro. Entra nella scuola per sottufficiali di Neu-Breisach, ma anche lì non funziona. Il giovane allievo Haarmann è disciplinato e scrupoloso ma ogni tanto ha crisi d’angoscia, oppure si «incanta», come se fosse completamente assente. Viene ricoverato all’ospedale militare più volte e alla fine viene congedato dalla scuola militare e rimandato a casa. È il 1895, Fritz ha 16 anni ed è un giovanottone robusto, leggermente obeso. Il padre cerca di metterlo a lavorare nella fabbrica di sigari che nel frattempo ha comprato, ma Fritz non ci sta. Odia il padre, col quale litiga in continuazione, e al lavoro alla fabbrica di sigari preferisce la vita spensierata e vagabonda. Ha conosciuto una donna, una sua vicina di casa di 35 anni, con la quale ha avuto la sua prima esperienza sessuale, ma non è quello che cerca. Al giovane Fritz piacciono i ragazzini più piccoli e nel 1897 viene denunciato per aver adescato dei bambini e per averli violentati. Finisce all’ospedale psichiatrico di Hildesheim, dove lo giudicano «frenastenico» e «alienato socialmente pericoloso». In manicomio, Fritz non ci vuole rimanere. Ci sta male e deve anche essergli successo qualcosa, perché è terrorizzato all’idea di non riuscire ad andarsene o di doverci tornare. Scappa due volte e alla fine riesce a passare in Svizzera, dove resta per un po’ a lavorare in un cantiere navale e in una farmacia a Zurigo. Ma, anche lì, non dura. Fritz torna ad Hannover, riprende a lavorare nella fabbrica del padre e si fidanza con Erna, una ragazzona bionda figlia di un operaio della fabbrica. Deve ancora fare il militare e nel 1900 arriva la cartolina precetto dell’esercito che lo manda a Bitsch nel 10° battaglione Cacciatori. Il soldato Haarmann è un soldato modello, scrupoloso, zelante, disciplinato, il suo tenente lo definisce addirittura «il miglior fuciliere della compagnia». Poi, all’improvviso, gli accade la stessa cosa che gli era successa alla scuola per sottufficiali. Il soldato Haarmann sviene durante una marcia, ha le vertigini, finisce all’ospedale militare di Strasburgo dove gli viene diagnosticata una forma di «schizofrenia giovanile» unita a una grave forma di «frenastenia» che è degenerata in «demenza congenita». L’ospedale gli riconosce una parziale insufficienza mentale, lo giudica del tutto inabile al servizio militare e parzialmente anche al lavoro, e lo congeda con ottime note personali assegnandogli una pensione militare di ventun marchi al mese. Tornato a casa, Fritz riprende a litigare col padre, ma riesce a farsi prestare da lui mille e cinquecento marchi per aprire una pescheria e sposare Erna. La apre, la pescheria, ma in poco tempo ha già perso tutto il capitale e il negozio comincia ad andare male. Fritz litiga con Erna, che lo caccia di casa e anche dal negozio. Fritz chiude con lei, chiude con le donne, diventa l’amante del cameriere di un conte e comincia a

vagabondare per la città, cercando di organizzare furti e piccole truffe, per i quali viene spesso scoperto e arrestato. Finisce seriamente in carcere nel 1913, condannato a cinque anni per furto. Cinque anni di reclusione che lo salvano interamente dal massacro della Prima guerra mondiale. Fuori dal carcere, Fritz va prima a Berlino e poi torna a casa. Sta un po’ dalla sorella, poi si sposta, affitta dalla vedova Schildt due stanze nella Cellerstrasse e intanto frequenta la stazione di Hannover, che in quegli anni è diventata una specie di piazza del mercato. È piena di gente a tutte le ore del giorno e della notte, gente che traffica in ogni tipo di merce, legale e illegale, trasformando le sale d’aspetto in piccoli mercatini specializzati. Il signor Fritz inizia un commercio sotto banco di carne, vestiti e altri oggetti. Non si sa da dove provengano, se li abbia comprati, rubati o che altro, ma non importa. Si muore di fame. Alla stazione di Hannover ci sono anche i vagabondi e i ragazzi scappati di casa, come Friedel. Il signor Fritz ne conosce tanti e se li porta al 27 della Cellerstrasse, prima di essere scoperto dall’agente Brauns. Allora cambia casa, si sposta al numero 15 della Seylitzstrasse e dice alla padrona di casa che vuole impiantare un deposito di sigari, prodotti chimici e altro. La signora Hederich, però, non ci vede chiaro in tutto quel viavai di ragazzi giovani, e quando la polizia perquisisce l’appartamento perché Hermann Koch, uno studente di 14 anni figlio di un rivenditore di biciclette, è scomparso e le sue tracce portano proprio lì, revoca l’affitto al signor Fritz. Il quale allora si trasferisce in Nikolastrasse numero 13, dalla signora Kroell, che però non gradisce quello che succede nel suo appartamento e allora il signor Fritz si sposta un po’ più in là, al numero 47. È l’ottobre del 1919. il signor Fritz è alla stazione di Hannover, per uno dei suoi soliti giri. C’è anche un ragazzo di 17 anni, che si chiama Hans. Hans Grans è scappato di casa dopo aver litigato col padre Figlio di un cartolaio della città vecchia, poverissimo e con una famiglia numerosa, Hans ha lasciato il liceo scientifico per fare l’apprendista in una ferramenta e poi in una società elettrica e alle poste, anche se in realtà ci sta solo per rubare i soldi della cassa. Prima di farsi scoprire passa in un Freikorp, il distaccamento Heuschkel, ma viene cacciato anche da lì Tornato dal padre, si fa mantenere dicendo di essere in attesa della chiamata dell’esercito, ma non è vero, e quando il padre lo scopre scappa di casa. Alla stazione un amico gli fa notare quell’uomo robusto e ben vestito e gli dice che quello là, per un bel ragazzo, è capace anche di pagare venti marchi. Hans è un bel ragazzo. È biondo, alto e snello, e ha un aspetto effeminato, quasi virginale. Avvicina lui il signor Fritz e accetta di seguirlo fino al suo appartamento nella Nikolastrasse. Al signor Fritz, Hans piace molto, moltissimo, ma non lo uccide. Se ne innamora. La Germania è appena uscita dalla guerra. Ne è uscita sconfitta e il trattato di Versailles che ha dettato le condizioni della resa è stato particolarmente duro. Il primo obiettivo delle potenze che hanno vinto è stato quello di disarmarla, imponendo la riduzione dell’esercito e lo smantellamento totale della flotta. Anche la polizia viene ridimensionata. Nel vuoto politico e istituzionale seguito alla sconfitta, la polizia si dimostra assolutamente insufficiente a mantenere l’ordine pubblico e la sicurezza. A destra i reduci disoccupati che costituiscono i «corpi franchi» al servizio di industriali

e signori della guerra, a sinistra le organizzazioni degli operai e in mezzo la criminalità che cresce in proporzione alla crisi economica. Nel 1918 Hannover è una città di 450 mila abitanti, in cui i pochi, malpagati e corrotti agenti della polizia di Stato, che deve garantire l’ordine pubblico, e i pochi, malpagati e corrotti funzionari della giudiziaria, che deve condurre le indagini, non bastano. Bisogna ricorrere agli ausiliari e agli informatori reclutati direttamente fra la malavita, che possono passare informazioni in cambio di denaro, favori e un occhio chiuso. È il caso del signor Fritz, che conosce il mondo della borsa nera, dei traffici illegali e della prostituzione omosessuale. Ogni tanto il signor Fritz vende qualcuno dei suoi conoscenti, fa compiere una retata, segnala alla polizia un ragazzo scappato di casa che è meglio sia ritrovato dai suoi genitori. In cambio, per gli abitanti dei quartieri bassi di Hannover e per i ragazzi della stazione diventa l’agente Haarmann. A un certo punto fonda anche un’agenzia di investigazioni private, l’Agenzia americana di investigazioni Lasso, mettendosi assieme a un ex funzionario di polizia, il commissario a riposo Olfermann. Assieme al suo amico Hans, l’agente Haarmann si trasferisce al Furst Zur Lippe, una tranquilla locanda a conduzione familiare nella parte orientale della città. Per il signor Wiedermann e per sua figlia sono due distinti signori, ben curati e ben vestiti, che lavorano nel commercio. In realtà, Haarmann si procura vestiti usati fingendo di lavorare per un’organizzazione che raccoglie fondi per i profughi dell’Alta Slesia, o rubandoli direttamente dai cortili in cui sono stati lasciati ad asciugare. Devono spostarsi spesso per non destare sospetti, così nell’estate del 1921 affittano una stanza al numero 8 della Neue Strasse. È lo scenario ideale per un film di Murnau o di Lang un quartiere dai contrasti fortissimi, allucinati, a metà fra cupe atmosfere gotiche e lo squallore della decadenza. Il quartiere si chiama «l’Isola», o «la Piccola Venezia», un’isola circondata dalle acque della Leine, nel centro della città vecchia, torri sassoni, la sinagoga, la chiesa, le mura del castello a picco sul fiume, e poi l’ospizio dei poveri, bettole malfamate, locali equivoci, vicoli stretti, vecchie case piccole e degradate. Il numero 8 della Neue Strasse è così, una stanza che si affaccia sull’androne di un antico palazzo sul fiume, che la signora Rehbock ha affittato al signor Haarmann come deposito, con la possibilità di farci dormire un custode, ogni tanto. Ma il signor Haarmann, l’agente Haarmann, ci ha fatto portare un letto e un lavamano, una piccola bacinella da toilette, e praticamente ci vive. E neanche da solo. Con un giovane biondo e snello, molto carino, e a volte anche con tre donne, tre prostitute, Elli, Anni e Dorchen, che a volte usano la stanza come piedi-à-terre per il loro lavoro. Non sono le uniche a frequentare Neue Strasse numero 8. Ci sono anche ragazzi giovani e carini, di quelli che l’agente Haarmann incontra alla stazione. A volte, quando ce n’è uno particolarmente carino, il signor Fritz chiude la porta e non lascia entrare nessuno. Non solo, oscura le finestre che danno sulla strada e quella che si affaccia sul cortile. E tappa anche il buco della serratura. 12 febbraio 1923. Fritz Franke ha 17 anni. È uno studente di musica, figlio di un albergatore di Berlino. È scappato di casa assieme al suo amico Paul, hanno rubato qualcosa in casa e l’hanno venduta per comprarsi il biglietto per Hannover, con l’intenzione di proseguire poi per Amburgo. Alla stazione di Hannover incontrano un

uomo, un signore distinto che dice di essere un agente di polizia, l’agente Haarmann. Fritz è molto carino. L’agente Haarmann manda Paul in un ostello e si porta Fritz a casa, dove lo presenta agli altri, ad Hans, a Elli e a Dorchen. Escono anche assieme, vanno a ballare allo Schutzenheime, dove Fritz si mette anche a suonare il piano. Sulla strada del ritorno a casa, Hans dice a Dorchen che quella sera il signor Haarmann gli farà la pelle, al giovane Fritz di Berlino, ma Dorchen non capisce. I giorni seguenti la stanza al numero 8 della Neue Strasse è sbarrata, con le finestre chiuse e la toppa della serratura oscurata. Haarmann sta lavorando, con i coltelli, gli stracci, l’accetta e la bacinella in cui mettere la carne. Stacca la testa del giovane Fritz, prende un coltello piccolo e affilato e taglia il cuoio capelluto, come gli indiani dei romanzi d’avventura, lo stacca dal cranio e lo riduce a striscioline sottili. Appoggia la testa su una stuoia di raffia e la copre con altri stracci. È per non far rumore quando la fa a pezzi picchiando con il retro dell’accetta. Il cervello lo butta nel secchio, le ossa finiscono nella Leine, davanti al Castello, sepolte nella melma degli argini. Quando la porta della stanza si apre di nuovo il pavimento, il letto e i mobili sono perfettamente puliti e non c’è traccia del giovane Fritz. A parte i suoi vestiti, che Haarmann consegna ad Hans perché li venda alla stazione. Ha proseguito il suo viaggio per Amburgo, dice Haarmann a Dorchen, che però non è convinta. C’è quella bacinella piena di carne che la insospettisce, così ne prende un po’ e assieme a Elli va dalla polizia. Dorchen l’ha visto il giovane Fritz, proprio la mattina dopo quella notte allo Schutzenheime, è entrata per un momento nella stanza e l’ha trovato a letto, immobile, bianchissimo, come un cadavere. Poi è arrivato Haarmann, che ha coperto il ragazzo con un lenzuolo e l’ha mandata via. Alla polizia, le due ragazze parlano con il commissario Muller, della polizia giudiziaria, ma il commissario, che non sembra prenderle molto sul serio, non fa neppure analizzare la carne che gli hanno portato. E perché dovrebbe? Loro sono due prostitute e l’uomo che stanno accusando, l’agente Haarmann, è uno dei suoi principali informatori. 20 marzo 1923. Wilhelm Schultze ha 16 anni e mezzo e fa l’apprendista scrivano. Abita in una cittadina vicina e tutti i giorni va a lavorare ad Hannover, in treno. Alla stazione incontra l’agente Haarmann. Accetta di seguirlo a casa. Finisce nel ripostiglio che sta nel sottoscala, in fondo alla stanza, parte nel secchio e parte nella Leine. 23 maggio 1923. Roland Huch ha 15 anni ed è uno studente del ginnasio, scappato di casa per andare ad arruolarsi in marina. Per farlo va alla stazione e incontra l’agente Haarmann. La sua carne e i suoi vestiti vengono venduti alla vicina di casa, la moglie del barbiere Wegenhenkel. Fine di maggio 1923. Hans Sonnenfeld ha 19 anni. È scappato di casa e bazzica la stazione di Hannover. Ha un fidanzato che si chiama Heinz Mohr. Sono inseparabili, ma un giorno Heinz lo perde di vista e non lo trova più Qualche giorno dopo vede il mantello di Hans addosso a un altro uomo. L’agente Haarmann. 25 giugno 1923. Ernst Ehremberg ha solo 13 anni. Va a scuola, ma ogni tanto il padre calzolaio lo usa come garzone, per consegnare a domicilio il lavoro fatto in bottega. Il piccolo Ernst, però, non è un aiutante molto scrupoloso, un giorno un cliente gli paga un lavoro e lui perde i soldi e per paura della reazione del padre scappa di

casa. Alla stazione incontra l’agente Haarmann. È un signore distinto, gentile, è anche un suo vicino di casa. Perché non fidarsi? A qualcuno questo viavai di giovani che a volte non escono più dal numero 8 della Neue Strasse sembra strano. Il tabaccaio che ha il negozio proprio dall’altra parte della strada si insospettisce. Una notte lo vede uscire con dei sacchi e decide di seguirlo. Il signor Haarmann va al fiume e getta i sacchi in acqua. C’è anche chi si chiede da dove venga tutta quella strana carne che gira nel quartiere. La polizia non fa niente, il commissario Muller non indaga, ma l’aria comincia comunque a farsi pesante, e quando succede Haarmann fa sempre una cosa molto semplice: cambia casa. Rothe Reine numero 2. Davanti alla sinagoga c’è una mansarda non ammobiliata, al terzo piano, in cima a una scala ripida e stretta. Sette metri per sette, in cui ci possono stare un letto incastrato sotto lo spiovente del tetto, due tavolini, due sedie e un lavamano. Stampe pornografiche alle pareti. Una pentola appesa al soffitto con una catena. Il bagno in cortile In fondo non è peggio delle altre stanze e può andare. Soprattutto perché la padrona di casa, la signora Engel, ha un piccolo ristorante. 24 agosto 1923. Heinrich Struss, 18 anni. Impiegato mo dello di una compagnia di assicurazioni e figlio devoto e coscienzioso. Mai una notte fuori casa. Il 24 va al cinema con un’amica e non torna più a casa. 24 settembre 1923. Paul Bronischewski, 17 anni. Lavora come apprendista tornitore a Bochum e sta tornando dalle vacanze che ha trascorso a Garz. In mezzo alle due stazioni c’è quella di Hannover. Fine settembre 1923. Richard Graf, 17 anni. Vuole andare in America ma non ha né soldi né passaporto. Alla stazione incontra un signore gentile, l’agente Haarmann, che gli promette un lavoro, e anche un alloggio. A casa sua. 12 ottobre 1923. Wilhelm Erdner, 16 anni. Tutte le mattine alle sei va a lavorare in bicicletta in una fabbrica di macchine. Un giorno viene fermato da un agente della polizia giudiziaria. L’agente è gentile, distinto, il giovane Wilhelm lo segue volentieri e non torna più a casa. Ai vicini di casa tutto quel viavai di ragazzi giovani e carini suona davvero un po’ strano. Certo, il signor Haarmann è simpatico e gentile, ha sempre degli ossi per Fuchsie, il cane dei Lindner, un sacco di carne da vendere al ristorante della signora Engel, grasso conservato in bottiglie, salsicce addirittura, fatte proprio da Haarmann… però quel chiasso infastidisce. Certo, la signora Fobbe, quella del secondo piano, e la signora Muhlhan, del terzo, sono convinte che l’agente Haarmann sia una brava persona che fa del bene a poveri ragazzi in difficoltà per puro spirito umanitario… però tutto quell’andare e venire con i secchi da vuotare nel gabinetto in cortile fanno pensare. 24 ottobre 1923. Christoph Wolf, 15 anni. È alla stazione assieme al fratello maggiore quando dice che deve allontanarsi un momento per andare in bagno. Non torna più. 27 ottobre 1923. Heinz Brinkmann, 13 anni. Heinz sta a Clausthal, lontano, e deve andare a trovare il fratello che fa il militare ad Hannover. Perde il treno, prende quello dopo e arriva ad Hannover alle undici di sera. È tardi e Heinz non sa dove andare a dormire. C’è un agente della polizia giudiziaria che sta pattugliando la stazione, è così gentile e distinto, ha lui un alloggio per la notte… perché non accettare?

10 novembre 1923. Adolf Hannappel ha 17 anni e lavorava come apprendista presso una cascina in campagna, ma è stato licenziato perché è un attivista comunista, con la pistola. Adolf la vende e si paga il biglietto per andare ad Hannover, dove ha trovato lavoro in una fabbrica di formaggi. Sta aspettando nella sala d’aspetto di terza classe, seduto sul suo baule, quando arrivano due uomini. Uno è un ragazzo biondo e snello, di nome Hans, ma l’altro è un agente della polizia giudiziaria. Adolf segue l’agente Haarmann e il suo amico a prendere qualcosa al Caffè Kròpcke e nessuno sa più niente di lui. 6 dicembre 1923. Adolf Hennies, 19 anni. Fa il commesso in un negozio ma vorrebbe cambiare. C’è un uomo, un agente di polizia, che gli ha promesso un lavoro e dei vestiti nuovi. 5 gennaio 1924. Ernst Spiecker, 17 anni. È andato in città per testimoniare a un processo e vicino al tribunale incontra l’agente Haarmann. Lo conosce, lo ha già visto in alcuni caffè, e accetta di seguirlo fino a casa. La mattina Haarmann si sveglia e si trova nel letto Ernst, freddo e immobile, con ancora l’espressione terrorizzata sul volto. Lo ha ucciso durante la notte. Così lo trascina sul pavimento e lo fa a pezzi come al solito. 15 gennaio 1924. Heinrich Koch, 19 anni. Frequenta il giro degli omosessuali e conosce un cameriere gentilissimo, che gli regala cinquanta sigarette se dorme con lui una notte. Il cameriere è Haarmann. Heinrich ci va e ne esce vivo, ma non vuole più stare a casa con i suoi, così torna da quel cameriere così gentile. 2 febbraio 1924. Willi Seger, 19 anni, frequenta il giro degli omosessuali ed è un teppista che bazzica la stazione. Si prostituisce per professione, conosce Haarmann e va con lui molte volte nella mansarda al numero 2 della Rothe Reine, finché all’improvviso sparisce. 8 febbraio 1924. Hermann Speichert, 16 anni. Apprendista elettrotecnico. Ha conosciuto un signore che vuole portarlo all’estero. 6 aprile 1924. Alfred Hogrefe, 17 anni. Apprendista meccanico. Non ha voglia di andare a scuola e quando il padre scopre che ha marinato le lezioni vende la bicicletta per comprarsi una valigia e scappa di casa per andare ad Hannover. La prima notte dorme in stazione, la seconda a casa di un agente della polizia giudiziaria, l’agente Haarmann. È l’unico posto in cui può andare e ci torna anche altre volte, finché non scompare anche lui. Metà aprile 1924. Hermann Bock, 22 anni. Operaio disoccupato, bazzica la stazione e conosce Haarmann da tanto tempo, lavorando per lui ogni tanto a piazzare le cose che deve vendere. È grosso e robusto, non è un ragazzo e non ha nessuna tendenza omosessuale, ma un giorno lo vedono entrare nella mansarda di Haarmann con una valigia e qualche giorno dopo Haarmann ha addosso il suo vestito. 26 aprile 1924. Robert Witzel, 18 anni, frequenta il giro degli omosessuali assieme al fratello maggiore e all’amico Friedrick. Cercano incontri al Caffè Kropcke o nei gabinetti dietro il palazzo, e fanno di tutto in cambio di soldi. Fra i loro incontri c’è anche l’agente Haarmann, che preferirebbe l’amico Friedrick ma riesce soltanto a portarsi a casa Robert. Lo uccide quella sera stessa, lo fa a pezzi e lo getta nella Leine.

La carne non è l’unica cosa che si vende bene ad Hannover in quegli anni. Ci sono anche i vestiti, soprattutto se usati e a buon mercato. L’agente Haarmann ne ha tanti: cappotti, abiti interi, calzoni, cappelli, tagli di stoffa, bretelle. Li vende a poco, li regala, oppure li consegna ad Hans o alla signora Engel perché li vendano loro. Chi li compra non si chiede da dove vengano. In Germania, in quegli anni, c’è la depressione, l’inflazione, e manca tutto. 9 maggio 1924. Heinz Martin, 14 anni, orfano di guerra. Sogna di diventare un ingegnere navale e di fuggire dalla cittadina di Chemnitz in cui vive. Lo fa con dodici dei trentadue marchi ricevuti in regalo per la cresima. Per arrivare al porto di Bremerhaven si ferma alla stazione di Hannover, incontra Haarmann e scompare. 24 maggio 1924. Fritz Witting ha 17 anni ed è un bel ragazzo alto e biondo. Ha perso il posto di rappresentante di commercio e sta cercando un altro lavoro. Frequenta il Caffè Kropcke, dove conosce Hans e l’agente Haarmann e li segue fino alla mansarda. Ma, quando sono a letto, Haarmann si accorge che Fritz ha una mano atrofizzata e lo butta fuori di casa. Fritz torna altre volte, insiste per farsi ricevere anche se Haarmann finge di non essere in casa. Poi Haarmann cede e lo fa entrare. Da quel momento Fritz scompare e il suo abito si trova addosso ad Hans. 26 maggio 1924. Friedrich Abeling, 11 anni, i capelli tagliati a caschetto. Scappa di casa con solo venti pfenning che si è fatto dare dalla madre con una scusa. L’agente Haarmann lo trova nelle strade della città vecchia e lo adesca promettendogli dei regali. 5 giugno 1924. Frederich Koch, 16 anni. Apprendista fabbro. Va a scuola ad Hannover tutte le mattine, da Herrenhausen, con il treno delle sette. Alla stazione conosce l’agente Haarmann, che un giorno lo ferma mentre sta andando a scuola e se lo porta via. 14 giugno 1924. Erich De Vries, 17 anni, garzone presso un fornaio. Resta chiuso fuori casa perché i suoi sono andati a fare una gita e tornano solo verso mezzanotte. Intanto Erich, vagando per la città in attesa di poter rientrare, ha incontrato due uomini, uno giovane e uno più anziano. Il giorno dopo sta facendo il bagno nella Ohe quando arriva l’agente Haarmann e attacca discorso. Dopo averlo ucciso, Haarmann lo fa a pezzi, lo infila nella borsa da lavoro di Frederich, l’apprendista fabbro ucciso la settimana prima, e in cinque o sei viaggi lo butta nella stagno davanti al Castello. È l’ultimo. Il 22 giugno 1924 Fritz Haarmann viene arrestato. Già il 17 maggio 1924 alcuni bambini che giocano vicino al Castello trovano un teschio umano. Un altro lo restituisce il fiume il 29. Altri due riaffiorano sulla riva della Leine il 13 giugno. Sul momento si pensa che appartengano all’Istituto di anatomia di Gottinga o che vengano dal cimitero vicino. Ma il fatto che siano stati staccati dal collo con un oggetto acuminato e privati del cuoio capelluto col taglio netto di un coltello bene affilato fa pensare a ipotesi più inquietanti. Quando vengono trovati un sacco di ossa umane in un prato fuori città e un altro teschio, comincia a diffondersi il panico. Centinaia di persone setacciano «l’Isola», frugano sotto i ponti e sulle rive della Leine, bloccano addirittura il corso del fiume e trovano almeno cinquecento resti umani, che appartengono ad almeno ventidue persone, tutte comprese tra i 15 e i 20 anni.

Alla polizia vengono in mente tutte le denunce arrivate sul conto di un certo Fritz Haarmann, sedicente agente di polizia giudiziaria. Tutte le segnalazioni su quel viavai di ragazzi giovani e carini, di vestiti a poco prezzo, di carne venduta sottobanco. Il 22 giugno è lo stesso Haarmann a presentarsi alla polizia. Non sospetta nulla di quello che stanno pensando di lui, vuole solo denunciare un ragazzo col quale ha litigato alla stazione. Il ragazzo a sua volta accusa Haarmann di averlo violentato e la buoncostume coglie il pretesto per arrestarlo. La mansarda della Rothe Reine viene perquisita e tutti gli oggetti appartenenti ad Haarmann o da lui consegnati a qualcuno vengono sequestrati. Sono quattrocento, e vengono esposti al commissariato a disposizione di chiunque avesse in famiglia un ragazzo scomparso. Ne vengono identificati almeno un centinaio. Haarmann si difende dicendo che quegli abiti e quegli oggetti li ha ricevuti dai ragazzi quando erano ancora in vita, ed è difficile provare il contrario. Poi, un giorno, i genitori di Robert Witzel, uno dei ragazzi scomparsi, sono al commissariato quando vedono passare la signora Engel assieme al figlio. La madre del ragazzo riconosce gli abiti di Robert sul figlio della signora Engel. Ci sono ancora i documenti di Robert nella tasca della giacca. La signora Engel dice che quei vestiti glieli ha dati Haarmann. Che è stato visto assieme a Robert poco prima che scomparisse. E di Robert viene scoperto il cranio tra i resti trovati in riva al fiume. Gli indizi cominciano a es sere tanti. Fritz Haarmann cede e comincia a confessare. Il 16 agosto viene trasferito all’ospedale psichiatrico di Gottinga, dove resta fino al 25 settembre 1924, quando viene rinviato a giudizio. Intanto, l’8 luglio, è stato arrestato anche il suo amico Hans. Il processo Haarmann inizia il 4 dicembre 1924. Il lupo mannaro viene accusato di aver ucciso in modo premeditato e volontario ventitré persone. Il suo amico Hans è accusato di istigazione all’omicidio in almeno due casi e di ricettazione. L’accusa ha raccolto gli indizi in sessanta volumi di atti giudiziari e produce più di duecento testimoni, comprese Elli e Dorchen, le due prostitute che frequentavano la mansarda. Per difendersi, Haarmann e Hans hanno un vecchio avvocato d’ufficio, dopo che gli altri hanno rifiutato l’incarico. Il processo è breve e, nonostante l’argomento, viene pubblicizzato il meno possibile. A seguirlo c’è un cronista d’eccezione, lo psichiatra e filosofo Theodor Lessing, che poi racconterà tutta la storia in un libro documentatissimo. Secondo Lessing si tratta di un processo scomodo, perché mostra tutti i limiti, l’ottusità e la corruzione della polizia tedesca di quegli anni, che non si accorge dei delitti di Haarmann, non se ne interessa e quasi arriva a coprirli. E mostra anche i limiti della psichiatria contemporanea. Haarmann viene esaminato da tre periti psichiatri molto vicini al tribunale e dichiarato «normale e abbietto», perfettamente in grado di intendere e di volere. Secondo Lessing, invece, nonostante abbia ucciso anche per abitudine e per procurarsi il denaro vendendo gli oggetti dei ragazzi, Haarmann era spinto all’omicidio attratto dalla bellezza delle sue vittime e dalla loro carica erotica. «E’ più facile quando si ama» dice Haarmann durante un interrogatorio. Lessing scrive tutto sul suo giornale e viene espulso dall’aula. Haarmann confessa alcuni degli omicidi che gli vengono attribuiti, a volte dicendo semplicemente «aggiungete anche questo». Altri li rifiuta decisamente, alcuni li scari-

ca su Hans. Dice di aver denunciato il ragazzo con cui aveva litigato alla stazione perché sperava che questo avrebbe fatto saltar fuori tutto, così lo avrebbero preso e sarebbe finito quel massacro. Abbassa gli occhi solo una volta, quando la madre di Hermann Speichert, in tribunale, sviene alla vista degli abiti del figlio. Il 19 dicembre 1924 il processo si conclude. Friederich Heinrich Karl Haarmann viene condannato per ventiquattro omicidi. Hans per istigazione all’omicidio di Adolf Hannappel e Fritz Witting. Tutti e due sono condannati a morte. Hans ricorre in appello e riesce a farsi commutare la condanna in dodici anni di reclusione. Haarmann accetta la sentenza. Il 15 aprile 1925 viene portato vicino alle mura rosse della prigione di Hannover e ghigliottinato. Un tragico destino lo accomuna a Theodor Lessing, psichiatra, socialista, eccezionale biografo del processo, costretto per le sue idee politiche a lasciare la Germania. Ma non basta: il governo di Hitler mette una taglia di 80 mila marchi sulla testa di questo «nemico del popolo tedesco». Raggiunto da sicari nazisti, viene assassinato in Cecoslovacchia. È il 1933, sono passati solo otto anni dall’esecuzione del lupo mannaro di Hannover, ma lo scenario sociale in cui il mostro ha ucciso appare completamente stravolto. I serial killer Il termine serial killer ha una storia relativamente recente, e d’altra parte è solo dagli anni Cinquanta che i ricercatori hanno cominciato a distinguere le varie forme di omicidio. È il criminologo James Reinhardt, in un suo libro del 1957, Sex Perversion and Sex Crimes, a utilizzare per primo la definizione di chain killer per indicare l’assassino che lascia dietro di sé, appunto, una «catena» di omicidi. Alcuni anni più tardi, nel 1966, John Brophy, uno studioso inglese, identifica lo stesso fenomeno con il termine serial murderer, definizione ripresa dallo psichiatra forense Donald Lunde circa dieci anni dopo, nel suo testo Murder and Madness. Nel 1988 il National Institute of Justice statunitense elabora una prima descrizione di ciò che, in concreto, si intende per omicidio seriale: l’uccisione di una serie di due o più soggetti, delitti separati e commessi generalmente, ma non sempre, da un unico autore. I crimini possono essere attuati con un intervallo di tempo che varia da poche ore sino a molti anni, e il movente va ricercato non tanto in un guadagno immediatamente identificabile, quanto nella gratificazione di un bisogno psicologico profondo dell’assassino. Le caratteristiche della scena del crimine, il comportamento dell’omicida, il rapporto con la vittima e le violenze agite su di essa riflettono le componenti sadiche e sessuali dell’autore. Nel 1992 Robert Ressler, agente speciale dell’FBl, pubblica Whoever Fights Monster. Il libro viene presentato come l’autobiografia del più celebre cacciatore di assassini seriali, un faccia a faccia con alcuni fra i più terribili killer statunitensi, un manuale, frutto dell’esperienza di vent’anni, per imparare a «identificare e riconoscere il

mostro sconosciuto che ci cammina accanto». Al di là delle usuali enfatizzazioni pubblicitarie, il testo ha il merito di riportare alcune testimonianze preziose sulla personalità del criminale che, d’ora innanzi, sarà universalmente chiamato «serial killer». Sempre Robert Ressler, con la collaborazione dell’altrettanto celebre John Douglas e della psichiatra Ann Burgess, pubblica nel 1992 il Crime Classification Manual, vero e proprio trattato sui delitti violenti, dove la proposta di classificazione si basa sul movente del criminale. Anche il CCM dà una propria definizione di serial killer: «Tre o più eventi omicidiari, commessi in tre luoghi differenti, separati da un intervallo di “raffreddamento emozionale” (cooling-off period)». Il concetto di cooling-off permette di comprendere come l’assassino seriale sia un predatore soggetto a un ciclo, che inizia con una progressiva eccitazione, si muove dalla preparazione dell’evento in forma di fantasia sino alla sua realizzazione, e si conclude con un momento, successivo al delitto, di detensione, di scarico emozionale. Può essere un periodo di durata variabile, a cui fa seguito il nuovo imporsi di una fantasia sadica, di una fase di progettazione, di identificazione della vittima, di appostamento, di pedinamento, cattura, morte. Negli ultimi anni, anche l’unità specializzata dell’FBI si è allineata alla commissione del National Institute of Justice, nel ritenere sufficienti due vittime e non più tre per poter parlare di serialità omicida; questa è la definizione che adotteremo d’ora in avanti e che ritornerà nelle pagine di questo libro. Con il termine mass murder, traducibile come «omicidio di massa», gli esperti dell’FBI identificano l’uccisione di quattro o più persone da parte di uno o più autori, nel corso di un unico evento che si realizza nel medesimo luogo. La necessità di classificare ha condotto poi il Federai Bureau a distinguere due sottocategorie, proponendo definizioni che sembrano il segno di un involontario quanto macabro umorismo: il «family» e il «classic». Ma, sia che il responsabile colpisca vittime legate da vincoli di parentela oppure no, il mass murderer solitamente non impegna i detective in un lavoro importante di investigazione. La strage, infatti, si conclude di solito con il suicidio dell’autore, che pone fine direttamente alla propria vita, oppure si espone scopertamente ai colpi delle forze di polizia chiamate all’intervento. Non è possibile rintracciare in questi casi il terribile e letale binomio «sesso e morte» che quasi sempre caratterizza il serial killer; il movente va ricercato, piuttosto, in una frustrazione subita, nei sentimenti di vendetta a lungo covati verso chi viene considerato un ingiusto e ingiustificato persecutore; importa poco se nella realtà non ci sia mai stata prevaricazione, umiliazione, torto, e se, invece, ogni elemento faccia parte del delirio paranoico di una mente malata. Sala del consiglio di Zug, Svizzera: sono le 10.35 del 27 settembre 2001. Friedrich Leibacher, 57 anni, elude ogni forma di sorveglianza e fa irruzione sparando all’impazzata. A cadere sotto i suoi colpi sono giornalisti, parlamentari, il pubblico presente alla seduta. Nessun piano preordinato, solamente una cieca furia distruttiva. Al termine del massacro rivolge la pistola contro di sé: un colpo alla tempia pone fine alla sua vita e apre, nel contempo, tragici interrogativi. Era possibile prevedere, comprendere lo sconvolgimento di una mente malata? Perché di una mente malata certamente si tratta.

Leibacher qualche tempo addietro era venuto alle mani con un conducente di autobus; apparentemente un banale litigio, ma ciò aveva aperto in lui una profonda ferita psicologica, lo aveva indotto ad avviare una serie impressionante di rivendicazioni, di esposti, di ricorsi presentati alla corte suprema di Zurigo. Lo scontro con l’autista era divenuto per lui la metafora dell’ingiustizia, una quotidiana ossessione: ogni richiesta respinta o, peggio ancora, banalizzata e ignorata era divenuta alimento per la sua fame di vendetta. Tra i banchi della sala del consiglio si contano quattordici morti, sedici feriti. La fotografia di una strage. Lo spree killer, l’omicida compulsivo, colpisce a morte più vittime, in due o più luoghi differenti. Le aggressioni tuttavia, a differenza che nel caso del serial killer, fanno parte di un unico evento: l’assassino uccide ripetutamente, senza che vi sia un momento di raffreddamento emozionale, tutto diviene parte di un singolo, prolungato momento distruttivo. Come nel caso del mass murderer, lo spree killer non maschera il proprio rituale di sangue, non si nasconde, non occulta; si muove anzi in una sorta di clamorosa sfida, che lo conduce spesso alla morte, una morte non di rado ricercata. È anzi possibile in alcuni casi immaginare come la prima e più importante spinta che condurrà alla strage sia proprio la ricerca dell’annientamento personale. La fine: un suicidio, oppure un conflitto a fuoco altrettanto suicida. Ma non sempre gli avvenimenti seguono questo destino. Port Arthur rappresenta uno dei luoghi più caratteristici della Tasmania, forse la meta turistica più frequentata del paese. È il 28 aprile 1996, domenica, e una folla di turisti cerca ristoro al Broad Arrow Café, dopo una mattinata passata tra bancarelle e negozietti di souvenir. L’una e trenta del pomeriggio: un giovane di piacevole aspetto e con lunghi capelli biondi fa il suo ingresso nel locale, ordina uno spuntino, e, senza rivolgersi a nessuno in particolare, commenta come vi siano pochi turisti giapponesi nel bar. Poi si muove verso il fondo del locale, ed estrae da una voluminosa borsa che porta con sé una videocamera, piazzandola su un tavolo libero. Rimane a fissare per alcuni minuti una coppia di origini asiatiche. Senza che nessuno riesca a comprendere ciò che sta per accadere, apre la sua sacca ed estrae un fucile semiautomatico AR15. Uccide la coppia, poi, facendosi largo tra la folla, comincia a sparare metodicamente, con calma, con precisione, rivolgendosi prima alla sua destra, quindi alla sua sinistra. Trascorrono meno di 30 secondi prima che lasci il Broad Arrow Café: all’interno venti persone giacciono senza vita, quindici sono ferite. Fuori, spara alla folla e parecchi turisti vengono colpiti. Si dirige verso un autobus turistico parcheggiato poco lontano, e spara all’autista e ai tre passeggeri. Quelli che attendevano di salire sul mezzo provano a ripararsi, si buttano a terra, cercano rifugio sotto il bus: con calma l’uomo prende la mira e fa fuoco, prima di far ritorno alla sua auto. Percorre poche centinaia di metri e incontra una giovane donna che passeggia con i suoi due figli. Colpisce a morte la madre e il figlio più piccolo. Il bimbo più grande cerca di fuggire, si nasconde dietro un albero. L’uomo lo segue, lo raggiunge, lo uccide. Ritorna alla sua auto e si allontana; percorre un breve tratto, verso una Bmw parcheggiata. Tre colpi raggiungono i tre occupanti dell’auto che muoiono all’istante.

Il killer porta il suo fucile sulla Bmw e si dirige con la nuova auto verso il Seascape Cottage, il pensionato locale. Lungo il tragitto, un’altra coppia ferma in una vettura: un’ultima esecuzione. Resta asserragliato nella costruzione alcune ore, e alle 8 e 25 del 29 aprile l’assassino si consegna alle forze dell’ordine. Il suo nome è Martin Bryant, 28 anni, alto, di carnagione chiara, verrà descritto come un tipo strano, solitario, un po’ «ritardato». Alcuni psichiatri faranno una diagnosi di schizofrenia, altri riscontreranno la presenza di una grave malattia mentale chiamata sindrome di Asperger. Per tutta la durata del processo, Bryant sorriderà mentre vengono descritti i suoi delitti, sino a ridere apertamente durante la visione di una registrazione amatoriale che testimonia il massacro. Verrà tuttavia giudicato capace di intendere e di volere e condannato al carcere a vita, senza possibilità di libertà sulla parola. Nell’arco di diciannove ore Martin Bryant ha colpito a morte trentacinque innocenti, uomini, donne e bambini, ferendone altri diciotto. Martin Bryant, il più famoso spree killer della storia, è oggi ospite della Hobart’s Risdon Prison. In un’intervista rilasciata subito dopo il processo, la madre di Martin dichiarerà: «Avrei preferito che mio figlio fosse morto insieme alle sue vittime». La scena del crimine L’analisi della scena del crimine rappresenta il primo passo in qualunque indagine, sia che ci si debba occupare di un furto con scasso, sia che si abbia a che fare con un omicidio efferato. La scena del crimine appare ancora più importante nel caso dei delitti seriali, perché lì, con il ripetersi degli omicidi, il serial killer inevitabilmente racconta qualcosa di sé agli investigatori. E racconta in ogni scena un particolare in più, un dettaglio che rimanda al proprio modo di percepire e di comportarsi; in alcuni casi, non rari, l’omicida lascia un segno chiaro, lancia una sfida, poco importa agli investigatori quanto egli ne sia consapevole. La capacità di leggere e interpretare correttamente la scena di un delitto nasce da un’unica, originale abilità di sintesi, fatta di preparazione scientifica, di esperienza sul campo, di intuizione, potremmo dire, artistica. «Intuizione artistica»: può sembrare un’immagine forzata, da libro giallo o da pellicola hollywoodiana. Invece, molto semplicemente, gli agenti speciali dell ’FBI spesso descrivono il teatro di un crimine come la tela di un pittore e il detective procede come un critico d’arte impegnato nello sforzo di cogliere l’animo dell’artista nella disposizione delle forme o nella distribuzione dei colori. Ma la scena di un crimine non è certamente solo una palestra per cultori delle arti figurative, e si fonda su paradigmi certi, il primo dei quali, principio base della criminalistica, lo dobbiamo a Edmond Locard, responsabile del laboratorio della polizia scientifica di Lione, a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Locard, nel 1910, enuncia il suo celebre «principio di interscambio»: «Quando due oggetti entrano in contatto tra loro, ne deriva un trasferimento di materiale dall’oggetto “A” all’oggetto “B” o viceversa, oppure si ha un trasferimento reciproco». In sostanza: ogni criminale lascia sulla scena traccia di sé, e di ogni scena rimane traccia nel criminale.

Il riferimento alla scena del crimine ci consente di aggiungere elementi per identificare il serial killer; riprendiamo, illustrandoli con esempi, le caratteristiche principali dell’azione dell’assassino, i comportamenti evidenziabili sulla scena del crimine che è necessario analizzare e comprendere: il modus operandi, la firma, la forensic awareness, lo staging e Yundoing. Il modus operandi rappresenta l’insieme dei comportamenti, delle azioni che il criminale compie per realizzare il proprio delitto; si tratta di tutto ciò che viene ritenuto indispensabile per raggiungere lo scopo prefissato. Il killer apprende progressivamente quale condotta, fra le tante, sia quella più economica ed efficace. Per questo motivo il modus operandi può modificarsi da un delitto al successivo, in base all’esperienza. Un esempio, nel caso delle rapine in ville isolate, è la pratica di utilizzare polpette avvelenate per i cani da guardia, di isolare le linee telefoniche, di forzare porte e finestre sempre poste sul retro delle abitazioni. 14 luglio 1974. La spiaggia sulle rive del lago Sammamish. Janice Orr e Denise Naslund, belle ragazze giovani e dai lunghi capelli scuri, scompaiono nel nulla. Da tempo gli investigatori sanno di avere a che fare con un assassino seriale, perché le ragazze svanite senza lasciare traccia sono già molte e di alcune di loro, a distanza di tempo, è stato rinvenuto il cadavere. Finalmente una testimonianza: Janice Graham, anche lei giovane e carina, racconta d’essere stata avvicinata da un uomo attraente, di età fra i venti e i venticinque anni, che si è presentato a lei con il nome di Ted. Gentile, affascinante, vestito con un paio di jeans e una t-shirt bianca, colpisce particolarmente l’attenzione di Janice per l’ingessatura che porta a un braccio, sospeso al collo da una fascia. L’uomo racconta di essersi infortunato durante una partita di tennis e le chiede aiuto per issare una tavola da vela sul tetto della propria auto. In fondo non c’è nulla di male a dare una mano a quel ragazzo, che fra l’altro è anche giovane e carino. Giunti però all’area del parcheggio, Janice non trova alcuna tavola da caricare. Ted le dice allora che avrebbero dovuto recuperarla nella casa dei suoi genitori, e la invita a salire in auto e ad accompagnarlo. La ragazza ha un’esitazione: «Si è fatto tardi, devo correre, mio marito mi sta aspettando…». Un’esitazione che le salva la vita. L’uomo le sorride e la saluta. Poco più tardi, però, mescolata alla folla, Janice vede Ted dirigersi verso la propria auto. Al suo fianco una ragazza: bella, giovane, sorridente. Ted Bundy userà più volte questo stratagemma. Il suo sorriso è nel contempo seduttivo e innocente e la simulata lesione al braccio lo fa apparire innocuo. Le ragazze che accettano alla fine di salire sulla sua Volkswagen trovano una seconda, ben più allarmante sorpresa: la maniglia della loro portiera è stata rimossa. Non è possibile fuggire dall’auto. A differenza del modus operandi, la firma, o signature per gli autori di lingua inglese, non rappresenta un comportamento indispensabile per portare a compimento l’azione criminale. Evidenzia piuttosto un bisogno psicologico profondo, un messaggio più o meno consapevole lanciato agli investigatori e, come tale, si ripresenta con costanza nei successivi delitti della serie. Comportamento statico dunque, e di grandissima importanza per la decifrazione della personalità, dei conflitti, dei bisogni, dei

disturbi. Per illustrare gli aspetti di signature nei delitti di un serial killer, il Crime Classification Manual racconta il caso di Steven Pennell. Steven Pennell è un assassino, un sadico sessuale autore di almeno tre omicidi, tutti ai danni di prostitute con una storia di tossicodipendenza alle spalle. Il modus operandi del killer, costante nei diversi delitti, prevede il contenimento della vittima, legata con corde e immobilizzata con nastro isolante: solo in questo modo Pennell può torturare, esercitando nel contempo un controllo totale. La firma di questo assassino si rivela invece nella natura delle lesioni inflitte. Pennell si accanisce infatti su alcune parti del corpo, in particolare sul seno e sulle natiche, colpendo e martoriando con vari oggetti quali martelli, pinze e tenaglie. L’aggressività sadica si scatena su vittime ancora in vita, per la gratificazione sessuale che il killer trae dalla sofferenza delle donne. Un altro elemento riconducibile alla firma dell’assassino è la modalità con cui si libera dei cadaveri: pienamente visibili, gettati con fredda indifferenza ai bordi di una strada di grande passaggio. Insieme al modus operandi e alla firma, altro elemento fondamentale del comportamento dell’assassino è la forensic awareness, un termine difficile da tradurre ma che, in sostanza, può essere riassunto come l’attenzione del criminale a tutti quegli accorgimenti prima, durante e dopo la commissione di un delitto, finalizzati a non lasciare tracce o indizi che possano far risalire alla sua identità. Per illustrare il concetto di forensic awareness, viene solitamente presentato l’esempio di uno stupratore seriale, la cui carriera criminale si concluse con l’omicidio della sua ultima vittima; l’uomo aggrediva giovani donne nel più assoluto silenzio, il volto incappucciato, costringendole dopo la violenza subita a denudarsi degli abiti che portava via con sé, e a lavarsi con un detersivo industriale. Di fronte a un delitto con queste caratteristiche, anche in assenza di una serialità, il detective può ipotizzare che il delinquente sconosciuto sia in realtà un soggetto con una precedente carriera criminale, e muoversi quindi alla ricerca di passate condanne per episodi di segno simile. Ovviamente la forensic awareness è una condotta appresa e generalmente si modifica a ogni successivo episodio, rendendo sempre più difficile il lavoro di investigazione. Se modus operandi, firma e forensic awareness sono peculiarità del criminale, staging e undoing si riferiscono invece alle caratteristiche della scena del delitto e della disposizione della vittima. Lo staging, la messa in scena, rappresenta la deliberata alterazione della scena del crimine prima dell’arrivo delle forze di polizia. Due sono le motivazioni alla base dello staging: la prima, la più intuibile, risponde all’esigenza di depistare gli investigatori allontanando i sospetti dall’autore del reato. La seconda, meno frequente, è tipicamente associata alle morti nel corso delle cosiddette autoerotic fatalities, le pratiche sessuali autoerotiche che, per errore o leggerezza, possono concludersi con la morte del soggetto, particolarmente incline a coltivare la solitudine del piacere, pertanto non facilmente soccombile in caso di necessità. In questi casi, infatti, il piacere sessuale viene ricercato attraverso una asfissia controllata dal soggetto stesso; costrizioni al collo riducono l’apporto di sangue arterioso al cervello, e la condizione di lieve ipossia che si viene a creare amplificherebbe l’inten-

sità di un orgasmo ottenuto attraverso la masturbazione. Ecco allora che chi interviene per primo sulla scena da un lato non vuole comparire, dall’altro può avvertire il bisogno di proteggere la vittima o i suoi familiari dalla vergogna dell’umiliazione. Un classico caso di staged crime scene è descritto da Vernon Geberth nel suo importante testo Practical Homicide Investigation. Alla Sezione omicidi del New York Police Department giunge la segnalazione di una morte per suicidio; la vittima è una giovane donna. A chiamare aiuto, il marito, appena rientrato a casa. Il detective intervenuto sulla scena rinviene il corpo sul pavimento del bagno, accanto alla vasca per metà piena. Il marito, visibilmente scosso, racconta di aver trovato la moglie completamente immersa nell’acqua, di avere spostato il corpo posandolo a terra e di aver tentato una rianimazione bocca a bocca. «Mia moglie soffriva di depressione e probabilmente ha deciso di togliersi la vita prendendo le medicine che lo specialista le aveva prescritto, e quindi lasciandosi annegare nella vasca da bagno…» Ad avvalorare l’ipotesi del suicidio la scientifica rinviene un flacone vuoto di psicofarmaci, accanto al cadavere. Il detective tuttavia nota subito la presenza dei segni di una leggera contusione nella zona del collo; il ma rito prontamente afferma di aver premuto una mano alla gola della donna, nel tentativo di rianimarla. La versione dell’uomo appare poco convincente; l’investigatore solleva le palpebre della vittima: petecchie congiuntivali, piccole emorragie puntiformi tipicamente associate allo strangolamento. La prima ipotesi di suicidio dev’essere modificata: siamo di fronte a un caso di omicidio. La sicurezza dell’investigatore induce il marito a confessare: aveva aggredito la moglie uccidendola nel corso di una lite. Per mascherare l’omicidio aveva poi spogliato la donna, riempito la vasca, immerso il corpo per poi estrarlo e adagiarlo a terra, e alla fine mettere a fianco del cadavere il flacone vuoto di farmaci an tidepressivi. Il risultato dell’esame autoptico avrebbe comunque permesso di verificare l’assenza di acqua nei polmoni della vittima, deceduta prima dell’immersione; ma il medico legale avrebbe steso il suo referto solo alcuni giorni dopo.

A differenza dello staging, l’undoing (traducibile con «disfare», «annullare») sulla scena del crimine è un’evenienza rara. Anch’esso rappresenta una deliberata modificazione del luogo in cui è stato commesso un crimine, ma va attribuita al rimorso dell’assassino, che si sente in qualche misura colpevole del delitto, e cerca di prenderne le distanze, quanto meno sul piano simbolico. Può allora ricoprire il volto della vittima, spostarne il corpo, ricomporlo in una posizione di dignità, la dignità che egli ha svilito con la sua mortale aggressione. Nascita di un serial killer Il serial killer non è il normale cittadino, il vicino della porta accanto che, all’improvviso, una mattina si sveglia e decide di cominciare a uccidere. Il suo comportamento è frutto di una storia di esperienze traumatiche iniziate nella più tenera età e proseguite negli anni. Alcuni assassini seriali hanno subito maltrattamenti fisici e psicologici, abusi sessuali, traumi cranici, altri possono essere condizionati da una predisposizione alla violenza già presente alla nascita. In ogni caso, è intorno al trauma che si costruisce la struttura della personalità del futuro killer. Per i ricercatori, l’omicidio seriale rappresenta una modalità comportamentale unica e originale, che fonda le proprie radici e si alimenta nella violenza. Violenza, crimine: scienziati, filosofi e giuristi da sempre si interrogano sulle cause che conducono l’uomo a sopraffare il proprio simile, a prevaricare, a infliggere sofferenze, spesso estreme, spesso gratuite, sino alla morte. L’aggressività è un istinto

umano innato e inevitabilmente centrale nella vita emozionale degli individui o è qualcosa che il genere umano sviluppa in modo reattivo o difensivo rispetto a un ambiente percepito come frustrante o minaccioso? Come in ogni campo del sapere, è forte la tentazione di riportare ogni evento a un’unica spiegazione che possa risultare sufficiente e completa. Ecco quindi il proliferare di dotti articoli su qualificate riviste scientifiche che, a seconda del momento storico, sottolineano le caratteristiche biologiche innate, oppure lo sviluppo psicologico disarmonico, le disturbate relazioni familiari, i maltrattamenti subiti o l’ambiente sociale in cui il futuro serial killer è cresciuto. Ognuno di questi tentativi si è mostrato inevitabilmente parziale; il comportamento criminale è comunque un comportamento umano, pertanto costituito da un’inestricabile interazione tra eredità e ambiente: solo un approccio integrato può farci compiere dei passi avanti nella comprensione. Biologia e violenza … in genere, i più tra i delinquenti nati hanno orecchi ad ansa, capelli abbondanti, scarsa la barba, seni frontali spiccati, mandibola enorme, mento quadro o sporgente, zigomi allargati, gesticolazione frequente: tipo, insomma, somigliante al mongolico e qualche volta al negroide… Gli omicidi abituali hanno lo sguardo vitreo, freddo, immobile, qualche volta sanguigno o iniettato; il naso spesso aquilino, adunco o meglio grifagno, sempre voluminoso; robuste le mandibole, lunghi gli orecchi, larghi gli zigomi; crespi, abbondanti i ca pelli e oscuri; assai di frequente canini molto sviluppati, labbra sottili; frequenti il nistagmo e le contrazioni unilaterali del volto, con cui scopronsi i denti canini quasi a sogghigno o minaccia…

Così scrive Cesare Lombroso, il fondatore della moderna criminologia, in L’uomo delinquente: l’anno è il 1876. Nella sua descrizione dei delinquenti, Lombroso fa propria l’eredità della fisiognomica aristotelica prima, della frenologia settecentesca poi: discipline antiche, basate sul lo studio delle correlazioni tra l’aspetto somatico di un individuo e il suo carattere, il suo modo di sentire e di rapportarsi al mondo, la sua tendenza, innata, a commettere crimini. Non sono trascorsi molti anni dalla rivoluzione darwiniana, e lo scienziato italiano pone le basi per un’interpretazione dei comportamenti criminali fondata sulla biologia. La sua eredità è stata raccolta da studiosi di ogni paese e differenti discipline: da medici e psicologi, più di recente da endocrinologi e genetisti, nel tentativo di identificare un’unica spiegazione causale, un unico momento scatenante, evidenziando di volta in volta la responsabilità delle strutture cerebrali, il ruolo degli ormoni, l’importanza dei cromosomi. Alterazioni o danni in alcune zone dell’encefalo sono stati posti in correlazione con un aumento dei comportamenti violenti. Chiamati in causa sono soprattutto i lobi frontali e temporali e le loro connessioni con le altre aree cerebrali. Quanto più precoce è il danno, prima cioè che vengano appresi nel corso dello sviluppo gli opportuni schemi di autocontrollo, tanto maggiore è il rischio di condotte aggressive. Le alterazioni neurologiche possono inoltre produrre una maggiore suscettibilità agli effetti di alcol e droghe. Quando poi il danno cerebrale comporta un difetto di intelligenza nel soggetto, ecco aumentare il rischio di una marginalizzazione sociale, di un’adesione a contesti subculturali dove la violenza rappresenta la modalità primitiva e privilegiata di comunicazione.

Le ricerche sulla biochimica della violenza si sono concentrate su due principali categorie di sostanze: i neurotrasmettitori e gli ormoni. Tra i neurotrasmettitori la serotonina sembra avere un ruolo di primo piano nella regolazione della violenza: bassi valori di serotonina sono stati infatti associati a comportamenti aggressivi, soprattutto di tipo impulsivo. Anche la dopamina viene spesso chiamata in causa, così come, negli studi più recenti, si è puntata l’attenzione sull’ossido di azoto. Da alcuni decenni, invece, le ricerche sul ruolo degli ormoni vedono il testosterone come principale imputato nel l’aggressività; anche in questo campo non sono mancati i ripensamenti, e oggi l’influenza delle alterazioni nella concentrazione di questa sostanza viena posta in correlazione con quelle di altri elementi: estrogeni, prolattina, cortisolo. Ancor più recente delle ricerche sulla neuropsicologia e sulla biochimica della violenza è lo studio del DNA culminato con il progetto Genoma, che ha certamente illuso i ricercatori più ingenui sulla possibilità di ridurre l’uomo, e il suo comportamento, alla decifrazione di una serie di sequenze genetiche. Gli studi classici sull’assetto cromosomico in soggetti con tendenza alla violenza e ai comportamenti antisociali si sono concentrati sulla presenza di un cromosoma soprannumerario (47 XXY o 47 XYY). Due tuttavia sono le obiezioni che vengono mosse a questi lavori: la prima riguarda il numero esiguo di soggetti affetti dall’alterazione, se confrontato con l’incidenza dei crimini; la seconda evidenzia come la particolare concentrazione di individui con un cromosoma soprannumerario tra la popolazione carceraria detenuta per reati violenti potrebbe dipendere dal difetto di intelligenza che l’anomalia trascina, con la conseguente minor capacità di operare scelte di vita più economiche: crimine, arresto e detenzione, infatti, non rappresentano quasi mai opzioni intelligenti! Robert Joe Long è l’assassino seriale che meglio pare rappresentare l’importanza della predisposizione biologica al crimine violento. Nasce in West Virginia il 14 ottobre 1953 ed è portatore di un’anomalia congenita: un cromosoma X in soprannumero. Durante l’adolescenza l’alterazione nell’assetto genetico determina una produzione eccessiva di ormoni femminili, l’ingrossamento delle ghiandole mammarie e la necessità di un intervento chirurgico Dall’età di cinque anni Long subisce poi una serie impressionante di traumi, prevalentemente concentrati al capo: è sbalzato da un’altalena, cade dalla bicicletta, viene disarcionato da un pony. A vent’anni resta coinvolto in un incidente stradale: cade dalla sua moto, riporta un ennesimo trauma cranico ed è ricoverato in ospedale. Da questo momento inizia a lamentare violenti attacchi di cefalea alternati a momenti di rabbia improvvisa. A partire dal 1980 aggredisce e violenta cinquanta donne. Arrestato nel novembre del 1981, viene rilasciato perché alcune dichiarazioni testimoniali risultano contraddittorie. Da quel momento inizia a uccidere. Tra il maggio e il novembre del 1984 colpisce a morte almeno nove vittime, prevalentemente prostitute. Nel novembre violenta una giovane, ma le risparmia la vita impietosito dal racconto di abusi sessuali che la diciassettenne avrebbe subito dal padre. La testimonianza della ragazza porta gli investigatori sulle tracce di Robert Joe Long, senza purtroppo impedire che il serial killer faccia la sua ultima vittima. Viene arrestato il 17 novembre 1984 e condannato alla sedia elettrica il 25 giugno 1986. È ancora oggi ospite del braccio della morte.

Arthur Swacross nasce nel 1945 nel Maine, e, prima dell’arresto, avvenuto il 3 gennaio 1990, si rende responsabile della morte di undici donne, che aggredisce sessualmente prima di uccidere; successivamente ne mutila il corpo, se ne ciba in rituali cannibalici, ne sottrae parti che conserva come trofei per alimentare le proprie fantasie malate. La sua mappa cromosomica rivela la presenza di un elemento maschile in più, e anch’egli, come Long, ha subito ripetuti traumi cranici durante l’infanzia e l’adolescenza. Il suo caso solleva accese dispute tra i consulenti psichiatri chiamati a testimoniare al processo. Le stigmate biologiche non riducono la sua responsabilità dinanzi alla giuria. Dopo sei ore di camera di consiglio il verdetto è unanime: colpevole, dovrà scontare duecentocinquant’anni di carcere. Psicologia e violenza Dalla psicoanalisi all’etologia, dall’approccio cognitivo-comportamentale alla psicologia evoluzionistica, dalle teorie dell’attaccamento di Bowlby agli studi sull’apprendimento sociale, risulta impossibile esaurire la mole delle ricerche centrate sul rapporto fra psicologia e violenza. Quando si parla di serial killer il campo più indagato è certamente quello che riguarda il ruolo dei traumi infantili. Un numero importante di assassini seriali presenta infatti nella propria storia infantile una condizione di grave abbandono o di abuso psicologico e fisico. Appartengono spesso a famiglie altamente conflittuali o disgregate, sovente vengono allevati da un solo genitore. Tuttavia, benché il rischio di crescere e divenire violenti omicidi per questi bambini sia certamente da considerarsi alto, le piccole vittime si ritagliano spesso un ruolo del tutto normale nella società, pur a prezzo di una sofferenza personale e di ferite a stento cicatrizzate. E vi sono comunque molti assassini seriali cresciuti in ambienti caratterizzati da buone relazioni affettive e da una sana comunicazione familiare. Il 5 settembre 1930, poco prima della sua esecuzione, Carl Panzram dichiara di avere ucciso ventun persone nella sua carriera di assassino seriale. Già all’età di 8 anni viene fermato dalla polizia per comportamenti di grave disturbo in stato di ubriachezza. A chi, dopo l’arresto avvenuto all’età di 37 anni, gli chiede del suo passato, Panzram dichiara: «Tutti i miei familiari sono normali esseri umani; gente onesta che lavora duro. Tutti tranne me. Sono stato un animale da quando sono nato. Quando ero molto giovane, cinque o sei anni, ero un ladro e un bugiardo, un essere ignobile, spregevole. Più crescevo, più diventavo ignobile». La breve citazione autobiografica di Panzram ci riporterebbe a considerare il serial killer come il prodotto di un difetto congenito, di caratteristiche innate. La conclusione è semplice: ogni tentativo di comprensione ci obbliga alla cautela, allo scetticismo: mai assumere posizioni rigidamente deterministiche. Ma torniamo al ruolo degli insulti psicologici subiti nell’infanzia. In psichiatria è descritto un disturbo mentale che ha spesso alla base un grave e precoce trauma: il «disturbo dissociativo dell’identità» (DDl). La manifestazione essenziale del DDl è la

presenza di due o più distinte identità o stati di personalità che in modo ricorrente assumono il controllo del comportamento. Il soggetto è incapace di ricordare notizie personali importanti, e il difetto appare troppo esteso per essere spiegato con una banale tendenza alla dimenticanza. Il DDl può essere anche visto come una tecnica di sopravvivenza altamente creativa che il bambino utilizza per sfuggire a una situazione di abuso fisico, sessuale e psicologico estrema e ripetuta. La dissociazione gli permette di separare l’esperienza del trauma dai sentimenti di intensa paura sperimentati, che altrimenti lo porterebbero a un totale annientamento, alla perdita di contatto con la realtà e alla follia. Le tracce dei traumi subiti permangono però assai più a lungo dei normali ricordi. Sebbene scisse e nascoste in un angolo apparentemente irraggiungibile della mente, spesso spingono il bambino a scegliere inconsapevolmente giochi centrati su aggressività e violenza, a ricorrere a un mondo immaginario di sogni a occhi aperti, di fantasie sempre più caratterizzate, nel corso degli anni, da rappresentazioni sadiche e sessuali. Le esperienze violente compromettono anche la capacità di sperimentare relazioni significative con gli altri, che divengono, nell’età adulta, una pura e semplice estensione di sé, privati di ogni caratteristica di autonomia personale. Sappiamo che ogni bambino può reagire a situazioni di stress mettendo in atto comportamenti più o meno adattativi. Abbiamo già affermato, infatti, che non si può prevedere una carriera criminale come conseguenza di un grosso trauma. È comunque certo che il disagio, anche nel caso in cui prenda le forme della malattia psichiatrica, può esprimersi in giovane età con manifestazioni più visibili ed eclatanti, oppure maggiormente coperte e nascoste. Nel 1963 MacDonald ipotizza l’esistenza di una triade di sintomi, del tutto caratteristica, espressione nel bambino di una grave alterazione psichica che condurrà, se non immediatamente trattata, a comportamenti antisociali da adulto. Queste condottesintomo sono la crudeltà verso gli animali, l’enuresi (perdita involontaria di urina durante la notte dopo i 5-6 anni di età) e la piromania; tutte e tre devono essere presenti perché si possa parlare, per il bambino, di un rischio futuro di divenire un assassino seriale. La triade viene ripresa nelle ricerche sui serial killer dell’Unità di scienze del comportamento dell’FBI, ed è rintracciata nel passato di numerosi assassini seriali coinvolti in progetti di studio. Tuttavia i lavori più recenti giudicano suggestiva, ma non scientificamente fondata, la validità predittiva della triade di John MacDonald. L’ennesimo capitolo di analisi della figura del serial killer da ripensare e riscrivere. Il ruolo delle fantasie Abbiamo incontrato la fantasia come strumento che permette al bambino traumatizzato di sfuggire al mondo dei suoi carnefici; nella fantasia il piccolo ha il controllo della situazione, nella fantasia può reindirizzare l’ostilità e la violenza di cui è bersaglio, dirigendola verso gli altri. Soprattutto fra i serial killer che uccidono per il piacere sessuale, ma in quasi tutti gli assassini seriali, sognare a occhi aperti, fantasticare un’esperienza sadica e brutale con la vittima è un momento comune e centrale. Il comportamento che l’omicida tiene sulla scena del crimine si modella appunto su tali fantasie, che anticipano l’azione. Ma l’impossibilità che la vittima risponda all’ag-

gressione in modo esattamente prevedibile conduce a una discrepanza fra quanto immaginato e quanto sperimentato nel momento dell’esplosione della violenza. Non ci potrà mai essere piena corrispondenza fra aspettativa e realtà: ecco quindi carburante per nuove e sempre più raffinate fantasie. La maggior parte di noi mette in scena, nell’immaginario, situazioni dalle più innocenti alle più aggressive, attribuendo loro un valore sostanzialmente positivo, spesso terapeutico. Nel serial killer, invece, violenza e sesso sono asserviti a un piacere maggiore: il totale controllo della vittima. Ciò è talmente importante che spesso la morte della vittima costituisce un evento antieconomico nella ricerca di piacere: così si spiega il racconto di coloro che sono riusciti a sopravvivere a un assassino proprio aderendo allo schema di comportamento proposto dall’aggressore, uno schema di pieno asservimento alla sua fantasia di controllo totale. Le torture e le umiliazioni che il serial killer attua rappresentano poi il tentativo di disumanizzare, spersonalizzare la vittima. È durante l’aggressione, la degradazione, la tortura, che le fantasie legate all’originario trauma infantile trovano spazio e si traducono in atti di violenza. Possono trascorrere anche dieci o vent’anni fra gli eventi traumatici e il comportamento omicidiario, periodo durante il quale il killer si è totalmente dissociato dal trauma, lo ha rimosso e confinato al di fuori dell’area di consapevolezza. La dissociazione ha permesso all’omicida di mantenere un sufficiente controllo della realtà e un accettabile inserimento nel mondo sociale. Ma quando interviene un fattore scatenante, un trauma che anche simbolicamente riconduce al passato, un’umiliazione, un abbandono, la drammaticità dell’esperienza infantile riprende il sopravvento, minaccia di travolgere un equilibrio psichico esile e precario, di annientare. È necessario fronteggiare l’angoscia, il panico, l’insopportabile sensazione di completa vulnerabilità: occorre agire, per riprendere il controllo, per ristabilire una continuità. Uccidere diviene un mezzo per dominare paure inesprimibili. Il primo delitto può non essere pienamente progettato e costruito con precisione: l’assassino è allora maldestro, forse la morte della vittima non è nemmeno ricercata consapevolmente. La sensazione di onnipotenza, tuttavia, è inesprimibile. Non è più possibile rinunciarvi. Dalla fantasia all’omicidio Joel Norris, psicologo statunitense, per primo identifica e descrive il comportamento dei serial killer come scandito da un andamento ciclico, secondo il succedersi di fasi ben distinte e fortemente intrecciate: fase aurorale: il killer gradualmente si ritrae dalla realtà, se ne distacca, elaborando fantasie sempre più precise e articolate, che lo spingono all’azione; fase di puntamento: l’assassino è alla caccia della sua preda, su un terreno che studia con attenzione. Concentrato, determinato, si è trasformato in un predatore letale; fase della seduzione: avviene l’approccio con la vittima, che viene prima sedotta, poi ingannata e sopraffatta; fase della cattura: la vittima è totalmente controllata dal suo aggressore, la fantasia può trovare la sua rappresentazione;

fase omicidiaria: l’omicidio avviene con modalità fortemente simboliche, rimandando a situazioni di grande impatto vissute nell’infanzia. Costituisce nello stesso tempo uno scarico emotivo e sessuale; fase totemica: il serial killer cerca di protrarre il più a lungo possibile il piacere derivato dall’uccidere. Ecco quindi il fotografare, lo smembrare, gli atti cannibalici, l’impossessarsi di parti del corpo o oggetti della vittima come trofei; fase depressiva: subentra non appena l’illusione svanisce, il piacere viene meno, e l’assassino realizza che nulla è cambiato nella sua vita, l’onnipotenza assaporata nel disporre della vita e della morte della vittima ha lasciato spazio alla sua profonda inadeguatezza, all’impossibilità di colmare l’abisso della propria solitudine. Il ciclo è completo. Nell’ultima fase, la depressiva, in qualche caso può avvenire che l’assassino cerchi di agevolai e la propria identificazione e la cattura, giungendo a volte persino alla confessione; il suo racconto allora può essere accolto con grande scetticismo. Occorre tuttavia ricordare come in ogni indagine su un grave delitto, seriale o no, compaia spesso un mitomane e come in ogni caso non sia facile distinguerlo immediatamente. Foligno, 4 ottobre 1992. Simone Allegretti, 4 anni, scompare, rapito mentre sta giocando vicino alla propria abitazione. Due giorni più tardi, in una cabina telefonica, un biglietto scritto con un normografo dà indicazioni su come ritrovare il corpo del piccolo: è il primo delitto di Luigi Chiatti che, in calce al suo messaggio, chiede aiuto, firmandosi «il mostro». Sull’assassino viene messa una taglia e viene attivato un numero telefonico per chiunque sia in grado di dare informazioni utili alle indagini. Trascorrono tre giorni prima che Stefano Spilotros, un agente immobiliare di Milano, chiami accusandosi del delitto. Il 17 ottobre viene arrestato, ma cinque giorni di carcere lo inducono a ritrattare: lasciato dalla fidanzata, si sarebbe dichiarato colpevole per il desiderio di essere ucciso. Ma, quasi sempre, alla fase depressiva, allo scarico della tensione accumulata, non segue la confessione. Riprendono le fantasie, sempre più sadiche, sempre più realistiche, sempre più imperiose: ed ecco riprendere la caccia a una nuova vittima. La fase totemica: trofei e souvenir Alcuni assassini seriali amano collezionare trofei o souvenir che appartengono alla vittima, oppure sono a essa collegati. Gli analisti dell ’FBI solitamente distinguono i «trofei», raccolti da quelli che definiscono gli assassini «organizzati» per ricordare il proprio successo nella caccia, dai «souvenir», più tipici dei killer «disorganizzati», oggetti che costituiscono il fulcro delle loro fantasie malate, catalizzatori di nuovi progetti di distruzione. Anche se la distinzione non è da tutti riconosciuta, trofei e souvenir vanno riferiti a un unico momento del ciclo del serial killer secondo Norris: la fase totemica. Nel caso di omicidi a sfondo sadico-sessuale, il trofeo può poi essere rappresentato da una parte del corpo della vittima. Dal punto di vista investigativo è evidentemente importante identificare cosa sia stato sottratto, per poterne individuare il significato simbolico e, unitamente ad altri

dettagli della scena del crimine, ricostruire il profilo di personalità dell’assassino ancora sconosciuto. Jerome Henry Brudos nasce nel gennaio del 1939 nel Sud Dakota e ancora bambino si trasferisce con la propria famiglia in California. Due sono i momenti fondamentali che segnano la sua infanzia: una madre dominante, incapace di qualunque manifestazione d’affetto, e l’interesse feticistico, precoce e insolito, per le calzature femminili. Ha appena compiuto 5 anni quando, tra i rifiuti abbandonati, scopre un paio di scarpe con i tacchi alti: le porta a casa, le indossa rimirandosi allo specchio, ma viene scoperto dalla madre che si infuria, gliele strappa dalle mani e le distrugge dandogli fuoco. La reazione della donna fisserà per sempre il valore trasgressivo del feticcio: negli anni successivi Jerome sottrae le scarpe della sorella. Ha imparato a non farsi scoprire. A 16 anni non è capace di resistere alla tentazione di rubarle ai vicini di casa. Un anno dopo, per la prima volta, deve affrontare un tribunale minorile: ha aggredito una ragazza che rifiutava le sue violente richieste di un rapporto fisico. Dopo essere stato sottoposto a un trattamento psichiatrico che però non dà alcun risultato, si arruola nell’esercito nel 1959. Ha 20 anni e i suoi sogni cominciano a popolarsi di ragazze che si insinuano di notte nel suo letto. Jerome ha comportamenti strani, si aliena le simpatie dei compagni ed è costretto ad abbandonare la vita militare dopo pochi mesi. Nel 1961 ha il suo primo rapporto sessuale: la ragazza rimane incinta e lui è costretto a sposarla. Il matrimonio non inciderà per nulla sulle sue condotte perverse. L’interesse di Brudos non si limita più alle scarpe, ma si estende alla biancheria intima, che sottrae dalle case del vicinato durante le sue visite notturne. In occasione di uno di questi furti una donna si sveglia improvvisamente e lo sorprende: la aggredisce, facendole perdere conoscenza, e prima di lasciare l’abitazione con i suoi trofei la violenta. Il 26 gennaio 1968 Jerome Brudos fa la sua prima vittima: Linda Slawson, 19 anni, bussa alla porta dell’uomo proponendogli l’acquisto a rate di un’enciclopedia. Dopo di lei il serial killer colpirà altre quattro volte. Delle vittime conserva trofei: asporta il seno di una donna, lo tratta con sostanze chimiche e lo trasforma nel suo fermacarte preferito. Attinge alla sua collezione di indumenti intimi per vestire i cadaveri, agghindarsi egli stesso e scattare fotografie che colleziona, prima di liberarsi dei corpi che getta in un fiume. Ma, come spesso accade negli omicidi seriali, l’assassino abbandona la prudenza: una vittima prescelta sfugge all’aggressione. Brudos inizia allora a contattare studentesse del vicino campus universitario, invitandole telefonicamente per un appuntamento. Identificato e catturato, la polizia ne perquisisce l’abitazione rinvenendo la sua «collezione di trofei». In uno degli scatti, accanto al corpo senza vita di una vittima agghindato e messo in posa, inavvertitamente ha ritratto se stesso. Il 27 giugno 1969 viene condannato al carcere a vita.

Il modello trauma-controllo Eredità biologica, cromosomi e sostanze chimiche, traumi psicologici e abusi sessuali, fantasie sadiche e stati dissociativi. Proviamo a ricondurre le tante possibili cause di cui abbiamo discusso in un’unica cornice di riferimento, anche perché, sino a oggi, nessuno dei fattori illustrati è risultato di per sé sufficiente a permettere di predire con buona certezza un futuro comportamento omicida, tanto meno con carattere di serialità. Nel modello trauma-controllo, il ruolo centrale è occupato da un evento significativo e destabilizzante subito nell’infanzia. La combinazione di più eventi traumatici produce un danno ben maggiore di un singolo insulto, secondo una logica esponenziale più che di sommazione aritmetica. Il primo risultato osservabile nel bambino è un sentimento di autostima estremamente bassa, che lo condizionerà per tutta la vita. Quasi tutti gli assassini seriali appaiono infatti come soggetti profondamente disturbati da sentimenti di inadeguatezza e da dubbi circa le proprie capacità. Insieme alla certezza di non avere alcun valore e pregio, il bambino sperimenta la già citata dissociazione, come pure il potere di consolazione e salvezza delle fantasie. Durante la sua esistenza, il futuro serial killer si espone poi a fattori facilitanti: l’uso di alcol e di droghe, il consumo di materiale pornografico, l’interesse per il mistico e l’occulto rinforzano le costruzioni di fantasia che, gradualmente, si arricchiscono di componenti sadiche e perverse. L’abitudine a ricorrere all’esperienza della dissociazione, d’altro canto, se da un lato permette al bambino di sopravvivere, dall’altro gli impedisce di adottare meccanismi più evoluti di adattamento alle frustrazioni ambientali. Ogni avvenimento che in età adulta riecheggi il trauma infantile potrà costituire l’elemento precipitante un processo di ben maggiore complessità.

Modello trauma-controllo*

Breve storia dell’omicidio seriale

Lucusta, l’avvelenatrice Anno Domini 69, 9 gennaio. Una folla di cittadini romani si affretta verso il circo, dove si celebrano gli Agonalia, i festeggiamenti in onore del dio Giano. Acrobati, scontri fra gladiatori, le fiere portate da paesi lontani, ma, soprattutto, la pubblica esecuzione di Lucusta, l’avvelenatrice. L’imperatore Galba dispone che venga dapprima violentata da una giraffa ammaestrata, quindi data in pasto a tigri e leoni. Questa è la fine riservata al primo, documentato serial killer della storia. A narrarne le imprese, circa un secolo più tardi, è Apuleio. Nel 54 d.C. Agrippina la Giovane, madre di Nerone, chiama Lucusta e le affida un incarico: preparare un piatto di funghi avvelenati per il proprio marito, l’imperatore Claudio. Lucusta svolge il suo compito con diligenza ed efficacia, ma la fortuna le volta le spalle: viene incarcerata per un secondo omicidio. Nerone, salito al trono in seguito alla scomparsa di Claudio, si ricorda di lei. Invia la guardia pretoriana, che la preleva dal carcere salvandola da un’esecuzione già fissata. In cambio dovrà eliminare Britannico, figlio di Claudio e legittimo erede, in aperto conflitto con Nerone, l’usurpatore. Un primo ten-

tativo fallisce; al secondo, Britannico muore. Per Lucusta l’immunità è garantita, ma il suicidio di Nerone, nell’a.D. 68, la lascia in totale balia dei suoi nemici. Galba ne ordina l’esecuzione. Che Lucusta rappresenti davvero il primo caso di serial killer della storia appare suggestivo, ma di certo assassini capaci di uccidere ripetutamente, e solo per soddisfare un bisogno psicologico che appare incomprensibile, sedotti nel profondo dal fascino del male, sono sempre esistiti. La storia, per esempio, di solito trascura quei killer che, inseriti in organizzazioni malavitose, sono stati impiegati per la sistematica eliminazione dei rivali; per citarne alcuni possiamo parlare di Vincent Coll (19091932), psicopatico autore di più di sette omicidi, coinvolto nella guerra fra bande rivali al tempo del proibizionismo; oppure Vincenzo Gibaldi (1903-1936), soprannominato «the Machine Gun», assoldato da Al Capone e primo sospettato della strage di San Valentino. Questi, come altri personaggi saliti alla ribalta delle cronache, sono in realtà veri e propri serial killer, individui che hanno semplicemente trovato l’opportunità di impiegare il loro «talento» in un’impresa economicamente vantaggiosa. Nella loro storia, infatti, è sempre rintracciabile qualche vittima uccisa al di fuori di un incarico commissionato, oppure il segno di una crudeltà del tutto inutile e sproporzionata al compito assunto. Così come, in ogni conflitto armato, nelle guerre civili, durante le operazioni di «pulizia etnica», è sempre possibile identificare un omicida efferato, un serial killer. Ma ripercorriamo brevemente la storia dei serial killer, narrando le imprese di alcuni di loro, alcuni tra i più celebri. Gilles de Rais, maresciallo di Francia 14 LUGLIO 1440, LETTERA DEL VESCOVO DI NANTES

Diamo notizia per mezzo di queste lettere che, visitando la parrocchia di Sainte-Marie, in Nantes, nella quale Gilles de Rais, qui sotto designato, soventemente risiede, nella casa volgarmente detta di La Suze, parroc chiano della detta chiesa, e visitando altre chiese parrocchiali, ci sono giunte alcune voci insistenti, poi le accuse e le dichiarazioni di buone e discrete persone… Abbiamo appreso fra le altre cose, come sendo per noi cosa certa, che il nobiluomo, messer Gilles de Rais, cavaliere, signore del detto luogo e barone, nostro suddi to e nostro giudicabile, con il concorso di certi suoi complici, aveva sgozzato, ucciso e massacrato in modo odioso numerosi fanciulli innocenti, che aveva praticato con detti fanciulli la lussuria contro natura e il vizio di sodomia, sovente fatto e fatto fare l’orribile evocazione dei demoni, aveva a questi sacrificato e stretto pat ti con essi, e perpetrato altri enormi crimini entro i confini della nostra giurisdizione; e abbiamo altresì appre so attraverso le inchieste dei nostri commissari e procuratori che il detto Gilles de Rais aveva commesso e perpetrato i crimini summenzionati e altre dissolutezze nella nostra diocesi come pure in altri luoghi che da essa dipendono.

Si apre così l’inchiesta ecclesiastica segreta, riportata da Georges Bataille nel suo libro II processo di Gilles de Rais. Di nobili origini, Gilles de Rais nasce nel 1404. Maresciallo di Francia, combatte a fianco di Giovanna d’Arco, al comando di duecento cavalieri schierati contro l’invasore inglese. Partecipa personalmente all’incoronazione di Carlo VII, per poi ritirarsi a vita privata, passando dall’una all’altra delle cinque splendide dimore che possiede. Inizia presto una vita di dissolute stravaganze, dichiarando di volere avvicinare il proprio modello: l’imperatore Caligola. Pedofilo sadico, molesta e uccide i figli dei contadini del luogo, indifferentemente maschi e femmine. Si dedica alla cartomanzia, al-

l’alchimia, alla magia nera, dando fondo alle proprie risorse economiche, vendendo terre e palazzi. Nel 1439 incontra Francesco Prelati, un prete scomunicato. I due tentano, utilizzando il sangue di giovani vittime, di trasformare il piombo in oro. Sempre più a corto di denaro, Gilles de Rais viola ingiunzioni reali e aggredisce un religioso venuto in ambasciata. È il suo più grande errore: la Chiesa cattolica non può più tollerare, non può più mascherare le nefandezze di un uomo un tempo ricco e potente. Catturato, nell’ottobre 1440 viene sottoposto a tortura insieme a complici e servitori. Confessa una serie impressionante di delitti. I resti di 50 cadaveri vengono ritrovati nella torre di una delle sue dimore; altrettanti in una seconda residenza. Il 26 ottobre viene strangolato a morte, il suo corpo è dato alle fiamme. Gli studiosi di criminologia più cauti gli attribuiscono almeno duecento omicidi, altri ricercatori parlano di una cifra quattro volte superiore. Erzsébet Bàthory, la Contessa sanguinaria Erzsébet, o Elisabeth, Bàthory nasce nel 1569, figlia di un aristocratico e della sorella del re di Polonia; una nobile famiglia che, tuttavia, da alcuni decenni registra segnali di chiara e inarrestabile decadenza. Oltre ad annoverare magistrati e re, giudici e prelati, la casata Bàthory si distingue per la presenza di assassini, stupratori, alcolizzati, epilettici, omosessuali, satanisti. Erzsébet stessa, durante l’adolescenza, viene introdotta al culto di Satana e ai piaceri della tortura. La sua bellezza deve fare i conti con invisibili e distruttive tare genetiche. Il 5 maggio 1575, Erzsébet Bàthory si unisce in nozze con il conte Ferenc Nàdasdy, a cui è stata promessa già dall’età di 11 anni. La coppia si stabilisce nel castello di famiglia, nel nordovest dell’Ungheria e qui, come in altri palazzi di proprietà del conte, vengono allestite speciali camere della tortura, per venire incontro ai desideri e ai bisogni perversi della donna. Rituali alchemici, rapporti sessuali disordinati, sia con uomini sia con donne. Quando la rabbia o la noia si fanno eccessive, la Bàthory ama porvi rimedio infliggendo torture alle giovani ragazze che servono a palazzo. Il conte Nàdasdy cerca di mettere un freno alle dissolutezze della moglie ma, alla fine, è impaurito dalla ferocia della consorte e cerca di trascorrere la maggior parte del tempo lontano da lei. Quando, nel 1604, l’uomo muore, Erzsébet Bàthory perde qualunque freno inibitore. Sperimenta ogni tipo di tortura, di mutilazione ante e post mortem. Nessuna delle ragazze reclutate tra le famiglie contadine lascia viva la dimora della contessa e d’altro canto i diritti dei nobili sui servitori concedono poco spazio a un’efficace denuncia. Anche se i corpi delle vittime vengono abbandonati vicino al palazzo, smembrati e lasciati in pasto a lupi e altri selvatici carnivori, il sangue reale e un cugino primo ministro garantiscono alla Bàthory una sufficiente tutela. Quanto meno fino al 1609, quando la Contessa Sanguinaria commette un imperdonabile errore: tra le nuove vittime sceglie una giovane particolarmente graziosa, appartenente tuttavia alla nobiltà minore del luogo. La notizia raggiunge il trono ungherese, e re Mattia invia immediatamente il conte Gyòrgy Thurzó a investigare. Il 26 dicembre 1610, durante un’ispezione notturna, Thurzó sorprende Erzsébet Bàthory e i suoi servitori nel mezzo di una sanguinaria or-

gia di tortura, perversione e morte. Inevitabile l’arresto e il processo, che si apre nel gennaio del 1611, presieduto dal giudice Theodosius Syrmiensis. Alla contessa vengono attribuiti almeno ottanta omicidi. Gli storici parlano di un numero ben superiore di vittime, stimate fra le trecento e le seicentocinquanta. Ma mentre i complici vengono giustiziati, la Contessa sanguinaria ha salva la vita. Trascorre tre anni e mezzo in una stanza del castello di Csejthe, porte e finestre sono murate, lasciando solo una piccola apertura per il passaggio dell’aria e del cibo. Il 21 agosto 1614 viene trovata morta. Jesse Pomeroy, il più giovane serial killer della storia Jesse Pomeroy nasce a Boston nel 1860. Il suo nome e le sue gesta, quasi dimenticati, vengono riprese ne L’alienista, di Caleb Carr. Si sa poco della sua vita sino all’età di 11 anni, quando inizia ad aggredire e torturare altri bambini. Fra l’autunno e l’inverno del 1871 attira in trappola e sevizia sette giovani ragazzi: li percuote, incide la carne con il coltello, conficca spilloni nel loro corpo. Il labbro leporino e un occhio alterato da un difetto congenito rendono Jesse facilmente identificabile. Denunciato, viene rinchiuso in riformatorio, dove si suppone che avrebbe dovuto essere trattenuto sino al compimento dei 21 anni. Comprende in fretta come una buona condotta possa garantirgli presto la libertà: esce dopo poco più di un anno. Ma ora non lo attrae più infliggere dolore, ora desidera uccidere. La prima vittima è una bambina, rapita e ferita a morte nel marzo del 1874. Un mese più tardi è la volta di un bimbo di 4 anni. Il corpo, rinvenuto, mostra i segni di una inaudita violenza: la testa appare quasi staccata dal collo. Gli investigatori sospettano subito del giovane Pomeroy e lo interrogano, chiedendogli se sia lui l’autore dell’omicidio. La risposta del ragazzo è disarmante: «Suppongo di averlo fatto io». Jesse Pomeroy ha 14 anni. L’opinione pubblica ne chiede l’esecuzione. Il governatore, con una sentenza decisamente illuminata per l’epoca, ne ordina invece l’internamento a vita. Trascorrono quarantun anni prima che Jesse Pomeroy stabilisca qualche contatto con altri detenuti. Muore in carcere nel 1932, all’età di 72 anni. È stato il più giovane serial killer della storia. Jack the Ripper, il Mostro di Whitechapel Il 16 ottobre 1888, George Lusk, presidente del Comitato di vigilanza di Whitechapel a Londra, riceve per posta una scatola; all’interno la metà di un rene umano, conservato in vino rosso. Il dottor Openshaw, medico legale, redige un rapporto in cui attesta che l’organo presenta caratteristiche simili a quello rimosso a una vittima, Catherine Eddowes. Non è possibile tuttavia giungere a una conclusione certa. Ad accompagnare il macabro dono, una lettera scritta in un inglese sgrammaticato: Dall’inferno Mr Lusk Sir

Vi ho mandato la metà di un rene che ho preso a una donna e conservato per voi. L’altro pezzo l’ho fritto e mangiato era molto gustoso Posso mandarvi il coltello insanguinato che lo ha tolto se solo voi attenderete ancora un momento Firmato prendetemi quando potete Mishter Lusk1

Mary Ann (Polly) Nichols è assassinata il 31 agosto 1888, venerdì. Annie Chapman muore l’8 settembre, sabato. Elizabeth Stride viene uccisa domenica 30 settembre. Catharine Eddowes è assassinata lo stesso giorno. Mary Jane (Marie Jeanette) Kelly, l’ultima vittima, viene mutilata e uccisa il 9 novembre 1888. Cinque vittime certe hanno reso Jack lo Squartatore il serial killer più celebre della storia, sicuramente non il primo, non il più prolifico, non il più efferato. La peculiarità della vicenda dello squartatore di Whitechapel sta nella collocazione storica delle sue imprese. Jack the Ripper è il primo assassino seriale a colpire in una grande città, nel momento in cui larghi strati di popolazione escono dall’analfabetismo e la stampa rappresenta un fattore di grande spinta al cambiamento. In un periodo di intenso fermento politico, tanto i liberali quanto i riformisti, e non ultimi i separatisti irlandesi, utilizzano le notizie sui crimini efferati dello Squartatore inserendoli in campagne sociali a sostegno dei propri progetti, a denigrazione dei propositi degli avversari. La copertura giornalistica garantisce poi, novità assoluta, la creazione di un mito che, da metropolitano, diviene presto mondiale. Joseph Vacher, lo Squartatore del Sudest francese Di Joseph Vacher è certa la data della morte, il 31 dicembre 1898, ma non si sa quasi niente di tutto il resto. Sappiamo che, ultimo di quindici figli di una povera famiglia contadina, cerca di sfuggire a una vita di fame e miseria arruolandosi nell’esercito. Problemi con i compagni e i superiori lo portano presto allo sconforto e, in un momento di disperazione, tenta il suicidio tagliandosi la gola. Nel 1893 spara a una giovane donna che lo ha respinto, senza tuttavia colpirla. Tenta nuovamente il suicidio e fallisce ancora una volta. Rimane però menomato dal colpo di arma da fuoco che dirige verso se stesso: perde la vista da un occhio, metà del volto resta per sempre paralizzata, e l’instabilità psichica si fa ancora più marcata. Dimesso dall’Hòpital Saint-Robert, nei pressi di Grenoble, dopo alcuni mesi, nel 1894, Vacher inizia una vita di disordinati vagabondaggi. In tre anni e mezzo uccide sette donne e quattro giovani uomini, mutilandone il corpo nelle zone genitali. Il 4 agosto 1897 Vacher aggredisce una donna nei boschi presso Touman. Un uomo e una donna accorrono e lo immobilizzano, consegnandolo poi alla polizia. Giudicato responsabile solo di un delitto di poco conto , offesa alla pubblica decenza – viene condannato ad appena tre mesi di carcere. Senza che vi sia nulla più che un forte sospetto sulla sua partecipazione alla serie di omicidi registrata nella regione, Vacher si dimostra il peggior nemico di se stesso. Come in molti altri casi, il serial killer pare sentirsi spinto dal bisogno di confessare,

di andare incontro a una giusta punizione. Inaspettatamente indirizza un biglietto ai giudici che lo stanno esaminando: «Si! Ho commesso io i crimini… li ho commessi tutti in un momento di pazzia». Tenta però di giustificarsi: avrebbe ucciso undici persone, meritandosi il soprannome di Ripper (squartatore) del Sudest, per neutralizzare l’avvelenamento permanente del suo sangue, dovuto al morso di un cane rabbioso, subito all’età di otto anni. L’eminente professor Alexandre Lacassagne dirige il collegio peritale incaricato di stabilire la capacità di intendere e di volere di Vacher. Il risultato della perizia è chiaro: l’assassino è mentalmente sano e in grado di partecipare al processo. Il serial killer si rivolge allora alla corte urlando frasi senza senso, nel tentativo di dimostrare la propria follia e sfuggire alla sentenza di morte che si va profilando per lui. «Gloria a Gesù! Lunga vita a Giovanna d’Arco! Gloria ai grandi martiri del nostro tempo! Gloria al grande Redentore!» Con scarsi risultati. All’età di 29 anni Joseph Vacher viene ghigliottinato sulla pubblica piazza. I serial killer nel XX secolo La stima della presenza e della diffusione degli assassini seriali, nelle varie epoche storiche come pure ai giorni nostri, risente di quello che, in criminologia, viene definito il «numero oscuro». Il numero oscuro comprende gli episodi delittuosi dei quali non vi è registrazione, per l’assenza di una denuncia, oppure per il mancato riconoscimento del reato. Se pensiamo, per esempio, che una delle vittime preferenziali del serial killer è la prostituta, la cui scomparsa spesso non induce allarme e cade tragicamente nell’indifferenza, possiamo ben comprendere la precisione solo relativa delle statistiche ufficiali. Il fenomeno del serial killer è comunque tipico del XX secolo, anzi, per essere più precisi, registra un incremento a partire dagli anni Sessanta, e un’esplosione nel decennio seguente. Dal 1890 al 1910 si registrano fra i dieci e i venti casi, da trenta a poco più di quaranta sono i serial killer in azione per ogni successivo decennio, sino al 1960. Il loro numero raddoppia, sfiorando il centinaio, nel periodo 1960-69. La crescita appare inarrestabile: tra il 1970 e il 2000 le segnalazioni riguardano circa seicento criminali efferati. Le scienze criminologiche e il mondo delle investigazioni iniziano a occuparsi con la dovuta attenzione del fenomeno solamente a partire dagli anni Ottanta. Dagli studi, divenuti ormai numerosissimi, emergono dati significativi: la maggiore presenza di assassini seriali si registra nei paesi industrializzati. Gli Stati Uniti ne detengono il poco invidiabile primato: da soli raccolgono oltre il 60% della casistica. Assai staccati, nell’ordine, seguono la Gran Bretagna e l’Italia, con poco più del 5% dei casi, la Francia, la Germania e la Russia, con percentuali variabili dal 2,5 al 3%. Presenti e attivi soprattutto nelle aree metropolitane, i serial killer sono, nel 90% dei casi, di sesso maschile, e prediligono l’uso di armi da fuoco. Tuttavia, ogni volta che la componente di sadismo sessuale è prevalente, ecco che l’assassino uccide con

modalità che permettono un contatto con il corpo della vittima: accoltellano, strangolano, annegano, percuotono. Dove ad agire è una donna, lo strumento di morte preferito è il veleno. La serialità omicida è pressoché sempre interrazziale: quasi mai un assassino di colore sceglie le sue vittime tra soggetti di razza bianca e viceversa. La realtà italiana Anche per il nostro paese il serial killer è una figura di grande presa, maledetta e affascinante, in grado di incidere profondamente nell’immaginario collettivo. Si pensi al filo che unisce Leonarda Cianciulli, la Saponificatrice di Correggio, a Donato Bilancia, il più prolifico assassino della storia italiana, sino all’interesse dei media per il serial killer di Padova: un criminale capace di calamitare l’attenzione anche per la teatralità delle sue imprese, le richieste ricattatorie di miliardi alla questura di Milano per porre fine alla catena di delitti, le carte da gioco lasciate accanto al corpo di una delle vittime, vera e propria firma. Un segnale di riconoscimento dell’autore e nel contempo di sfida alle autorità e alle forze di polizia. In Italia, come nel mondo, l’incremento del fenomeno si registra a partire dagli anni Settanta. Dal 1975 a oggi sono stati identificati e catturati poco più di quaranta assassini, responsabili della morte di oltre duecento innocenti. Per quanto riguarda la distribuzione geografica, oltre due terzi dei casi si registrano nel Nord del paese, con la Lombardia in testa; non vi è sostanziale differenza fra Centro e Sud Italia. Un vivace dibattito è tuttora aperto sul numero di serial killer attivi e non ancora riconosciuti. Alcuni ricercatori lo stimano fra i trenta e i cinquanta; gli investigatori delle unità specializzate ritengono non superi la decina. Quest’ultima ipotesi appare probabilmente più fondata.

II

Serial killer al femminile

La storia di Milena Quaglini È il 2 agosto 1998. È domenica, mancano dieci minuti alle quattro del pomeriggio e nella sala operativa della compagnia dei carabinieri di Stradella fa un gran caldo. Il vicebrigadiere Demontis è di turno al centralino del 112 quando arriva una telefonata. È una voce femminile, la voce di una donna adulta, che quasi non gli dà il tempo neanche di dire «Pronto… 112». «Ho ammazzato mio marito.»

Il vicebrigadiere Demontis si irrigidisce sulla sedia. Lo sa che non è uno scherzo, lo sente dalla voce, quella donna è molto agitata e se lui sbaglia qualcosa, se la aggredisce, se le chiede troppo, magari quella mette giù il telefono e addio, perché il numero da cui li sta chiamando è quello di un cellulare. Così cerca di tranquillizzarla, di trattenerla, le chiede se ci sia qualcun altro in casa con lei. Sì, le figlie. Due figlie, di 5 e 8 anni. Ed è possibile parlare con loro? Tanto per accertarsi che stiano bene. Sì, è possibile. La donna chiama la più grande, che sta guardando la televisione. Il vicebrigadiere attende col fiato sospeso e dopo pochissimo eccola al telefono, con la sua voce da bambina. Chi sei? Un amico di papà. È in casa papà? Dov’è? No, papà non è in casa. È uscito la mattina presto per fare il mercato e non è ancora tornato a casa. Hanno mangiato da sole. Sì, anche l’altra sorellina sta bene. Sì, gli ripassa subito la mamma. Il vicebrigadiere parla con la donna. Riesce a scoprire che si chiama Milena, Quaglini Milena, e che abita a Broni, un paese vicino a Stradella, sempre in provincia di Pavia. E mentre continua a parlare con la donna, con Milena, il vicebrigadiere Demontis manda una macchina, con dentro un maresciallo e un appuntato, e avvisa la stazione dei carabinieri di Broni, che corrano tutti a vedere cos’è successo. Parla ancora il vicebrigadiere, parla a lungo con la signora Milena, finché la donna non gli passa il maresciallo Battaglia, che nel frattempo è arrivato. Sì, è andato a guardare dove ha detto la donna. Sì, è successo davvero. Ha ammazzato suo marito. La storia di Milena Quaglini, uxoricida, è una storia apparentemente semplice. Una brutta storia di violenza familiare che all’improvviso, quando sembra che nessuno se lo aspetti, scoppia. All’apparenza Milena Quaglini e suo marito Mario Fogli sono una coppia normale. Lui ha 52 anni, viene da Comacchio, in provincia di Ferrara, ed è un bell’uomo distinto, che fa il camionista per un’azienda edile. Lei, Milena, di anni ne ha 41 ed è una donna minuta, piacevole, molto riservata. Ha un hobby, la pittura. Dipinge, Milena, dipinge moltissimo, a olio, ad acquarello e a carboncino, nature morte, paesaggi, vedute di Broni. Anche soggetti politici, come una donna che si strappa dagli occhi una benda tricolore, perché sia lei che suo marito sono due attivisti della Lega Nord. Alla festa della Lega di Rivanazzano c’era anche un gazebo con tutti i suoi quadri esposti. Milena e Mario abitano al terzo piano di una palazzina anni Settanta nel centro di Broni e hanno due figlie, due bambine. C’è anche un maschio, avuto da Milena in un precedente matrimonio, che ha 18 anni e non vive con loro. Una coppia normale, dicono subito gli amici, i conoscenti e i compagni di partito ai giornalisti. Assolutamente normale. Ma è vero? Prima ai carabinieri e poi al sostituto procuratore che la interroga, Milena racconta una storia diversa.

Milena e Mario litigavano sempre. Milena dice che era lui a provocare i litigi. Perché non voleva in casa l’altro figlio, il maschio, che infatti se n’era andato due mesi prima, dopo l’ennesimo scontro. Perché non voleva che lei lavorasse: una donna che lavora, diceva, una donna che lavora prima o poi tradisce il marito. Ma di soldi in famiglia non ce n’erano abbastanza, perché anche lui lavorava poco e, più che portarli a casa, i soldi li spendeva. Litigi violenti, dice Milena, molto violenti, con lui che la picchiava, tanto da romperle un paio di denti e sfondarle un timpano. C’è anche una denuncia raccolta dai carabinieri due anni prima e poi ritirata da Milena per cercare di recuperare il rapporto col marito. E ci sono anche le testimonianze della madre e della sorella di Milena, delle figlie, e anche di alcuni vicini. Non c’è solo questo. C’è che Milena beve. Soffre di crisi depressive e allora comincia a bere, e parecchio. Viene seguita anche dal Sert, il servizio per la cura delle tossicodipendenze. Prende antidepressivi. Tensioni, litigi, insulti, botte, depressione e alcol, dice Milena. Poi, all’improvviso, non ce la fa più. È il 1° agosto 1998, sabato sera, verso le dieci e mezzo. Milena e Mario hanno appena finito di litigare furiosamente e lui se ne va a dormire, mentre lei mette a letto le bambine e poi resta in salotto a guardare la televisione. Aspetta. Aspetta fino a mezzanotte. Poi si alza dal divano e in punta di piedi attraversa il corridoio fino alla soglia della camera da letto. Sente che dorme. Lo sente respirare, pesantemente. Allora va nel ripostiglio, dove c’è una corda per le tapparelle, una striscia di nastro molto resistente. Ne taglia un pezzo, un pezzo lungo e poi forma due cappi alle estremità. Torna in camera, sempre in punta di piedi. Sale sul letto, scosta il lenzuolo e rapida passa un cappio attorno alle caviglie di Mario, stringendolo appena, poi fa girare la corda attorno ai polsi del marito e l’altro cappio glielo passa attorno al collo. Voleva fargli paura, dirà ai carabinieri, dargli una lezione. Voleva solo che fosse meno cattivo. Però, quando gli passa il cappio attorno al collo, Milena stringe forte e Mario si sveglia. Cominciano a lottare. Mario rotola giù dal letto, con la faccia contro il pavimento, e Milena lo colpisce alla nuca con un abat-jour che sta sul comodino. Mario si volta, e le tira uno schiaffo, facendole perdere la lampada, ma non può muoversi, non può alzarsi, perché ha i piedi legati e quella corda attorno al collo. Milena prende un cofanetto di legno da sopra un cassettone e colpisce Mario con quello, sempre alla testa, ma lui glielo toglie di mano, le strappa la camicia da notte. Allora Milena si alza, afferra la corda che stringe il collo di Mario, attorciglia il braccio sinistro attorno al nastro e per tirare più forte mette anche un piede sul collo del marito, alla base della spalla. Tira con tutta la sua forza, finché non lo sente tossire. A quel punto lo lascia e corre in cucina per cercare un coltello con cui tagliare la corda, lo trova, torna indietro ma è troppo tardi. Mario è morto. Le bambine, che dormono nella stanza vicina, non si sono accorte di niente. Milena resta ferma, sul letto, a guardare Mario. Ci resta tre quarti d’ora. Poi lo tocca e conclude che è davvero morto. Resta ferma ancora per tanto tempo, fino alle quattro, poi

si accorge che si è irrigidito e che la testa gli si è gonfiata. Le fa paura, non vuole guardarlo e non vuole che le bambine lo vedano, così prende dei sacchi, quelli neri della spazzatura, e lo avvolge con quelli. Lo avvolge anche in una coperta, lo lega con un altro pezzo di corda da tapparella e lo trascina sul terrazzo della camera da letto, coprendolo con un tappeto. C’è una macchia di sangue sul lenzuolo, dalla parte di Mario. Milena prende le lenzuola e le mette in lavatrice, poi rifà il letto, butta la corda con cui ha ucciso il marito nella pattumiera, e quando le bambine si svegliano fa come se non fosse successo niente. Papà è uscito a fare delle commissioni, non torna a pranzo. Resiste fino alle quattro del pomeriggio. Poi chiama i carabinieri. Fin dai primi interrogatori, alla caserma dei carabinieri di Stradella, Milena non fa che piangere e ripetere che non voleva farlo. Lo ripete in carcere e lo ripete al giudice, assistita da un avvocato di Milano, Licia Sardo, che la difende con passione. Il processo si tiene col rito abbreviato e il 26 aprile 1999 il giudice per l’udienza preliminare presso il tribunale di Voghera condanna Milena Quaglini a quattordici anni di reclusione. L’avvocato Sardo ricorre in appello e in attesa del processo Milena viene trasferita agli arresti domiciliari, prima in clinica, per curare i suoi problemi con l’alcol, e poi da un amico conosciuto in ospedale, che ha una casa a Bressana e che ha accettato di ospitarla. Ma Milena non riesce a stare tranquilla. Il 5 ottobre i carabinieri la trovano fuori casa, di notte, a bordo di una Fiat Regata bianca. Ha anche contraffatto la patente, cambiandosi il cognome. Milena non potrebbe uscire perché è agli arresti domiciliari, così i carabinieri la denunciano per evasione. Un paio di giorni dopo, la storia si ripete. Milena è rimasta fuori casa senza chiavi e verso mezzanotte chiama i vigili del fuoco, che arrivano assieme ai carabinieri. Questa volta gli arresti domiciliari vengono revocati definitivamente e Milena torna nel carcere femminile di Vigevano. È il 7 ottobre 1999. La storia di Milena Quaglini uxoricida finisce qui. Ed è a questo punto che ne comincia un’altra. Il 6 ottobre 1999 scompare un uomo. Si chiama Angelo Porrello, ha 53 anni e fa il tornitore. Vive in una villetta a Bascapè, sempre vicino a Pavia, e da quel giorno, da quel 6 ottobre, non l’ha più visto nessuno. La figlia lo ha chiamato perché doveva incontrarlo per parlargli di affari di famiglia, ma non l’ha trovato. L’ha chiamato tante volte, anche al cellulare, ma niente. Niente neanche da parte dell’ex moglie, che non vive con lui, e che è andata a cercarlo a casa. Niente. Così l’ex moglie va dai carabinieri di Sannazzaro, un paese vicino, e denuncia la scomparsa di Porrello Angelo di anni 53, residente in via eccetera eccetera. Porrello lo ritrovano il 24 ottobre. La sua ex moglie, un’amica e un vicino di casa si sono messi a battere la casa e il giardino di Angelo palmo a palmo. Nel giardino c’è una concimaia, una vasca di mattoni, rettangolare, chiusa da un coperchio di lamiera. Angelo Porrello è lì dentro. Nudo, rannicchiato come un feto, in avanzatissimo stato di decomposizione, tanto che non si riesce neanche a prendergli le impronte e all’inizio, per un momento, si potrebbe anche dubitare che sia lui. Ma lo è. Come è morto Angelo Porrello? Sul momento è difficile capirlo. Sono passati quindici giorni dalla scomparsa, quindici giorni chiuso in quella concimaia. Sembra che Porrello abbia un segno attor-

no al collo, sembra, e sembra che non ci siano altre ferite o tracce di violenza sul suo corpo, ma sarà l’autopsia a dirlo. Neanche in casa ci sono segni di lotta, in camera da letto, per esempio, dove è tutto a posto. Al piano di sotto della villetta ci stanno altri inquilini, ma non hanno visto o sentito niente. Vuol dire che il fatto è accaduto di notte e chi ha messo Porrello in quella concimaia lo ha fatto col buio. Perché ce lo ha messo qualcuno lì dentro. All’ipotesi del suicidio, al fatto che Angelo si sia infilato da solo in quella concimaia, tirandosi addosso il coperchio di lamiera e chiudendolo dall’esterno, non ci ha mai pensato seriamente nessuno. Ma chi l’ha ucciso, Angelo Porrello? Le indagini dei carabinieri fanno emergere subito un particolare che riguarda il suo passato. Un brutto passato. Porrello era stato in carcere per violenza sessuale su minori, un fatto avvenuto nel ‘91, per il quale era stato condannato a sei anni di reclusione. Era uscito l’anno prima. Non è un tipo facile, Porrello, e ai carabinieri viene in mente che forse qualcuno ha voluto fargliela pagare per qualcosa, qualche altra violenza. Metterlo in quella concimaia, oltre che per nascondere il corpo, sembra quasi un gesto di spregio. Poi, emerge qualcosa. In principio non è neppure un indizio, soltanto un collegamento, che non vorrebbe dire niente se non fosse relativo a una persona molto particolare. Milena Quaglini. Angelo Porrello conosceva Milena. A casa di Angelo vengono trovate due lettere spedite da Milena il 7 e l’11 ottobre, quando presumibilmente l’uomo era già morto e lei era stata arrestata per essere evasa dagli arresti domiciliari. Sono lettere abbastanza formali, in cui lei lo chiama «sig. Angelo» e gli dà addirittura del lei. Ma sono davvero così formali i rapporti fra Milena e Angelo? Fino dai primi di ottobre Milena Quaglini e Angelo Porrello vengono visti assieme mentre entrano in casa di lui. Vengono visti in giardino, mentre lui le tiene un braccio sulle spalle. Vanno in giro sulla macchina di lui, una Regata bianca, che è anche la stessa sulla quale Milena si trovava la sera che è stata sorpresa dai carabinieri. Angelo, poi, parlando con la figlia, le ha detto che si è messo assieme a una donna, una donna di 40 anni, con la quale ha intenzione di convivere. Una donna che si chiama Milena. E l’ultima volta che qualcuno li vede assieme, a bordo della Regata, quasi fuori dal paese, sono le dieci del mattino di quel 5 ottobre in cui Angelo scompare. Milena viene raggiunta nel carcere femminile di Vigevano e interrogata dalla polizia. Ammette di conoscere Angelo. Non voleva più stare a Bressana, nella casa in cui scontava gli arresti domiciliari, perché aveva litigato con l’amico con cui divideva l’appartamento, così si era data da fare per trovare un’altra sistemazione. C’era un settimanale di inserzioni, «Passaparola», dove c’era un annuncio in cui un «53enne divorziato dinamico longilineo, casa propria cerca compagnia piacevole max 40enne per amicizia convivenza poi si vedrà». La sua intenzione era quella, farsi affittare una stanza nell’appartamento in cambio di lavori domestici. Si era messa d’accordo con Porrello e aveva già spostato tutte le sue cose a casa sua, a Bascapè, con la Regata, in attesa dell’autorizzazione da parte del magistrato a cambiare domicilio. In tutto si sa-

ranno visti tre volte, lui era stato sempre corretto e lei non sapeva neppure che fosse morto. C’è qualcosa che non torna. A Bascapè, i carabinieri del Comando provinciale di Pavia indagano. In una pattumiera a casa di Angelo trovano cinque confezioni vuote di medicinali, accuratamente avvolte nella carta stagnola. Scatole di sonniferi marca Halcion, le stesse che si trovano anche a casa di Milena, a Bressana. E poi ci sono alcuni capelli nel letto di Angelo, e alcuni peli in un salvaslip trovato nella spazzatura. I carabinieri repertano tutto e lo passano al laboratorio per gli esami del DNA. Appena viene a sapere delle indagini, l’avvocato Sardo, che aveva difeso Milena nel primo processo, parte da Milano e va a trovarla in carcere. «Il giallo di Bascapè» come lo chiamano i giornali, non è chiaro, e Milena ha sicuramente bisogno di assistenza. Anche perché nel frattempo è emersa un’altra cosa. Qualcuno si ricorda che qualche anno prima Milena era stata testimone di un’altra morte misteriosa. Era il 1995, Milena si era temporaneamente separata da Mario Fogli, il secondo marito, e viveva a Este, in provincia di Padova. Lavorava come custode in una palestra e faceva le pulizie a casa di un uomo, un signore di 83 anni, Giusto Dalla Pozza. Il 27 ottobre, un venerdì, Milena va a casa del signor Giusto nel tardo pomeriggio, per preparargli da mangiare. Trova la porta socchiusa, con le chiavi infilate nella serratura. La luce è spenta, ma quando l’accende si accorge che il pavimento è tutto sporco di sangue rappreso. C’è un chiarore che viene dalla camera da letto, il chiarore di un abat-jour, e allora Milena va a vedere e trova il signor Giusto steso a terra, sotto il comodino rovesciato, con la testa coperta di sangue. Chiama il 113, gli agenti arrivano, portano il signor Giusto all’ospedale ma non c’è niente da fare. È in coma per una serie di fratture al cranio e dieci giorni dopo muore. Milena racconta che due giorni prima, il 25 ottobre, era successa una cosa simile. Aveva trovato il signor Giusto per terra, mezzo svenuto, con una ferita alla testa e lui le aveva detto che erano stati due uomini, due suoi amici, a cui aveva prestato dei soldi. Le indagini si orientano subito sull’ipotesi di un giro di usura tenuto dal signor Giusto, ma non arrivano a niente e si fermano lì. Adesso, però, è tutto diverso. La versione dei fatti è quella di Milena, e Milena allora era soltanto una donna separata dal marito, incensurata e con la fedina penale pulita. Adesso è un’assassina confessa, ed è coinvolta nelle indagini di un altro omicidio. La sua versione dei fatti sembra meno credibile di quanto potesse essere quattro anni prima. Anche l’avvocato Sardo ha dei dubbi. Per l’omicidio del marito aveva difeso Milena con passione. L’aveva vista come una donna debole e instabile, maltrattata e picchiata, che all’improvviso cede a un raptus di follia. Ma di fronte alla morte di Angelo Porrello e anche a quella del signor Giusto comincia ad avere qualche incertezza. Forse Milena non è soltanto un’uxoricida. Forse è qualcos’altro. Dopo il primo incontro in carcere, l’avvocato Licia Sardo rilascia un’intervista alla «Provincia Pavese». Dice che incontrerà Milena un’altra volta perché ci sono dei particolari che le sono sfuggiti. Dice che ha chiesto a Milena di riflettere bene prima del prossimo incontro e che spera tanto che le racconti la verità. Ma dice anche che non ha nessuna intenzione

di rinunciare alla sua difesa. Continuerà a essere il suo avvocato e spera di esserle ancora utile. La settimana dopo, al secondo incontro, Milena è tranquilla. Con la morte di Angelo Porrello, lei non c’entra niente. L’unica cosa che può dire è che lui, in quel periodo, era nervoso. Le aveva detto che non mangiava da tre giorni. Perché? Perché era preoccupato. Perché preoccupato? Non glielo ha detto. Non erano così in confidenza. L’avvocato Sardo non è convinta. Non sono convinti i carabinieri e non è convinta la procura. In attesa dei risultati del DNA, Milena viene indagata per omicidio. Il 23 novembre 1999, sottoposta a un interrogatorio di quasi quattro ore nel carcere femminile di Vigevano, Milena crolla e confessa di aver ucciso lei Angelo Porrello. La storia di Milena Quaglini uxoricida è improvvisamente cambiata. Sta diventando la storia di Milena Quaglini serial killer. Quel giorno, il 5 ottobre 1999, avevano pranzato assieme nella casa di Angelo, a Bascapè. Pastasciutta al sugo di pomodoro. Poi lui ci ha provato. Non era mai successo prima, non così brutalmente. Le ha messo le mani addosso, voleva portarla in camera da letto, voleva anche che si mettesse una sottoveste. A lei non andava, ha resistito e lui l’ha picchiata. Le ha tirato uno schiaffo, lei ha cercato di allontanarlo e lui gliene ha tirato un altro, in faccia. Così ha dovuto arrendersi. Porrello l’ha trascinata in camera da letto e ha avuto un rapporto sessuale con lei. Non gli è bastato, ne voleva un secondo, ma a metà Milena è riuscita a fermarlo e ad allontanarsi con la scusa di fare un caffè. È scesa dal letto ed è andata nell’altra stanza, in salotto, dove c’era una di quelle macchinette elettriche che fanno il caffè. Ci ha messo sotto la tazzina, ma prima, con un po’ di acqua calda, ci ha sciolto dentro qualcosa. Dieci pasticche di Halcion, il sonnifero, un intero blister, più altre pasticche di Trittico, un antidepressivo, quasi altrettante. Sono medicine che ha con sé e che le sono state prescritte per i suoi disturbi. Angelo, intanto, si è rivestito, è arrivato in salotto e si è seduto sul divano. Milena gli dà la tazzina e lo guarda mentre beve il caffè senza accorgersi di nulla, perché c’è tanto zucchero, più di tre cucchiaini. Poi, però, Angelo nota che c’è qualcosa di strano in quella tazzina, un fondo azzurrastro, e comincia a capire qualcosa. Cosa mi hai fatto? le dice, e si lancia verso di lei, con le braccia tese e le mani aperte, per afferrarla al collo. Ma non ce la fa e crolla a terra, sul pavimento. Qui il racconto è poco verosimile; nemmeno un sedativo molto più forte in vena agisce così rapidamente; a stomaco pieno devono essere passati alcuni minuti prima che «crollasse». Mentre erano a letto, Milena aveva pensato di addormentarlo con i tranquillanti, per calmarlo, per toglierselo di torno. Ma adesso, al vederlo così, a terra, privo di sensi, le viene un’altra idea. Lo prende per le ascelle e lo trascina nella stanza da bagno. Lo spoglia, lo mette nella vasca, chiude il tappo e apre l’acqua. Poi se ne va. Sono le quattro e mezzo del pomeriggio. Milena torna dopo un’ora. Angelo è dentro la vasca, ha vomitato, ci sono anche degli escrementi e così Milena capisce che è morto. Passa un’altra ora senza fare niente, poi lo riprende per le ascelle, lo trascina fino in giardino. Si sono fatte le sei, è già buio e non la vede nessuno. Mette Angelo

dentro la concimaia, chiude il coperchio di lamiera, poi torna in casa, pulisce la vasca da bagno, getta nella spazzatura le confezioni di farmaci e se ne va. Due omicidi. Mario Fogli e Angelo Porrello. Non basta. Qualche giorno dopo, il 1° dicembre 1999, durante un altro interrogatorio in cui precisa meglio i particolari dell’omicidio di Angelo, Milena aggiunge un’altra cosa. Quell’altro giorno era il 27 ottobre 1995. Milena stava facendo le pulizie a casa del signor Giusto, quando lui era entrato in cucina e l’aveva presa per un braccio e Milena aveva capito subito cosa voleva da lei. Le aveva anticipato dei soldi, no? Quattro milioni. Sì, ma l’accordo era che glieli avrebbe scalati dalla paga a centomila lire al mese. Sei proprio una stupida, le aveva detto lui, una stupida che non capisce niente, e aveva ricominciato a tirarla per il braccio. Era vecchio, il signor Giusto, ma era ancora molto forte, così Milena aveva afferrato una lampada e lo aveva colpito alla testa con quella, parecchie volte. E poi, anche quella volta, se n’era andata, per tornare più tardi e fingere di trovare il signor Giusto. Mario Fogli, Angelo Porrello, Giusto Dalla Pozza. Gli omicidi sono tre. Milena Quaglini è una serial killer. La prima consulenza psichiatrica (è di parte, la perizia la fa lo specialista del giudice e basta, accusa e difesa fanno le consulenze) su Milena la conduce il dottor Mario Mantero, psichiatra e criminologo. La conduce per conto dell’avvocato di Milena, Licia Sardo, che continua a difenderla. Milena fa fatica a parlare della sua infanzia. «Descrive un padre molto violento, alcolizzato e prepotente» dice il dottor Mantero. «La madre, casalinga, vivente, è descritta come persona di modesta levatura genitoriale, incapace di costituire un polo affettivo e educativo alternativo al marito, che subiva anch’essa.» Poi arriva Mario. «Il nuovo convivente si rivelava persona dedita all’alcol e violenta verso i figli e la compagna. Il rapporto si deteriora e seguono periodi di separazione con successive riunioni in un’atmosfera sempre più conflittuale. Nel 1992, mentre aspetta la seconda figlia, la Quaglini, precedentemente astemia, inizia ad abusare di alcol. Negli anni successivi, l’abuso diverrà cronico, con manifestazioni accessuali associate ad anomalie comportamentali.» Milena tenta anche il suicidio, più volte, tagliandosi le vene e prendendo farmaci, tanto che finisce spesso al pronto soccorso. Quando finisce in carcere dopo il primo omicidio, nota il dottor Mantero, «appare decisamente depressa», alternando a uno stato di grave abbattimento «crisi di agitazione psicomotoria, perdite di coscienza in sindrome ansioso-depressiva, crisi isteriche con contrazioni tonico-cloniche (le convulsioni) e stato pseudoconfusionale.» Fuori dal carcere per gli arresti domiciliari, Milena non sa dove andare. Non la vuole nessuno. La madre la sbatte fuori di casa e la sbattono fuori anche da una comunità religiosa, perché continua a bere. Si fa ricoverare in una fondazione di recupero e finisce in ospedale perché la trovano in «coma di natura non specificata». Quando finisce in carcere dopo il secondo omicidio, Milena viene curata con una terapia antidepressiva e al momento, nell’aprile del 2000, «lavora e appare in fase di apparente remissione dello stato depressivo e in astinenza da alcol». Quando parla dei suoi delitti, dice il dottor Mantero, «la critica circa i propri comportamenti criminosi appare gravemente deficitaria». Milena si dispiace per aver sottratto il padre alle sue

bambine, ma «a tratti sembra che i reati siano stati compiuti da un’altra identità, alla quale la Quaglini si rivolge in terza persona». La conclusione del consulente psichiatra è che «è emersa una ricca sintomatologia con rilevanti aspetti psicotico-isterici e depressivi. Tale sintomatologia è in atto da anni, non curata, ed è di grado tale da incidere in modo profondo sulla capacità di intendere e di volere della Quaglini che ne risulta totalmente abolita». Infermità mentale, insomma. Per il dottor Mantero, Milena non è in grado di intendere e di volere, non va punita, va solamente curata. La seconda perizia viene ordinata dal tribunale nel maggio del 2000 e affidata al professor Gianluigi Ponti, professore di psicopatologia forense e di criminologia all’Università di Milano. In tutti i colloqui Milena si presenta «ben curata nella persona e nel suo abbigliamento, lucida, ben partecipe, normalmente orientata, ben disponibile a esporre le vicende di vita e anche a parlare dei tre delitti, senza apparenti reticenze e con un eloquio ben articolato, ricco e semmai anche fin troppo esuberante». Però, quando parla dei particolari dei delitti, di quando ha ucciso Mario, Angelo e il signor Giusto, «l’emotività» dice il professor Ponti «è apparsa piuttosto distaccata, poco partecipe». A un certo punto, dopo aver raccontato i particolari dell’uccisione di Mario, cambia discorso e comincia a parlare della sua pittura. Milena non appare più depressa, anzi, sembra serena. Ha fatto amicizie in carcere, si trova bene col personale di custodia ed è contenta perché ha potuto riprendere a dipingere. Le dispiace soltanto di non poter vedere i figli. Alla fine dei colloqui si dimostra «acriticamente fiduciosa sul suo futuro giudiziario, proponendosi in buona sostanza come vittima delle circostanze e dell’alcolismo piuttosto che come colpevole, costretta a difendersi dalle prepotenze e dalle angherie da sempre subite da tutti e specialmente dalle tre persone che ha ucciso». Anzi, secondo il professor Ponti, Milena sembra anche «compiaciuta degli apprezzamenti e dei conforti ricevuti da tante persone sconosciute dopo che le sue vicende sono diventate di dominio pubblico». Date le circostanze della sua vita, per la fragilità della sua personalità, per la dipendenza cronica dall’alcol e anche per le modalità stesse degli omicidi, il professor Ponti ritiene che «la capacità di intendere e volere dell’imputata, al momento della commissione dei delitti, fosse, come anticipato, grandemente scemata». Vizio parziale di mente, quindi. Seminfermità mentale. Per lei si prospetta un primo periodo da trascorrere in un carcere comune, quindi, prima di poter tornare in libertà, la reclusione per qualche tempo in una casa di cura, dove possano verificare il suo stato mentale. Il processo d’appello per l’omicidio di Mario si conclude il 13 ottobre 2000. La corte d’assise d’appello di Milano riconosce il «vizio parziale di mente» e dimezza la condanna già inflitta a Milena per la morte del marito. Sei anni e otto mesi al posto dei quattordici anni a cui era stata condannata. L’avvocato Licia Sardo è soddisfatta, anche se puntava all’infermità totale. E adesso? si chiede Milena, riferendosi agli altri due processi che l’aspettano. E gli altri, adesso, cosa faranno? Il processo per la morte del signor Giusto va ancora meglio. Il 2 febbraio 2001 la corte d’assise di Padova condanna Milena solo per eccesso colposo di legittima dife-

sa. Non è possibile provare né che avesse premeditato il suo delitto, né che al momento di colpire volesse davvero uccidere il signor Giusto. Quindi, un anno e otto mesi. Manca ancora il processo per l’omicidio di Angelo. Milena non sembra preoccuparsene. Quando arriva la sentenza di Pavia, non va neppure in tribunale e se ne resta nella sua cella nel carcere femminile di Vigevano. A dipingere. La terza perizia psichiatrica sul serial killer Milena Quaglini viene affidata al professor Maurizio Marasco, specialista in neurologia e psichiatria, professore di psicopatologia forense e criminologia presso l’Università La Sapienza di Roma. Mentre parla di Mario, Milena passa all’improvviso alla terza persona. «Lui aveva i suoi lati buoni e io ricordo sempre le cose belle, anche se so che lei lo ha ucciso.» Lei chi? Perché parla così di se stessa? «A volte mi capita,» dice Milena «a tale proposito lo psicologo dice che io mi sdoppio e parlo di me come se parlassi di un’altra persona. Comunque sono consapevole di averlo ucciso io e so a volte di fare le cose solo per puro istinto, poi quando ci penso mi rendo conto che non dovevo farle.» Secondo il professor Marasco, «la Sig.ra Quaglini presenta un disturbo del carattere di tipo isterico nel cui ambito si colgono, peraltro, tratti di personalità che rimandano al Disturbo Borderline». Un soggetto, dice il professore, che presenta anomalie del carattere e alterazioni a tratti della personalità. «In altri termini ci troviamo di fronte a una personalità psicopatica.» Però, «andando ad esaminare l’atto-reato della Quaglini si coglie chiaramente nella condotta delittuosa la totale assenza di un significato psicopatologico» giudiziariamente rilevante. Quando ha ucciso Angelo Porrello, per esempio, era «perfettamente consapevole del fatto che stava uccidendo un uomo», anche se era il suo violentatore, e l’ha fatto «con una freddezza e una lucidità implacabili, senza alcun ripensamento e senza alcuna esitazione». Sia prima sia dopo non emergono «segni di comportamento folle, incongruo, afinalistico ed incomprensibile». Cerca anche di costruirsi un alibi, facendosi arrestare dai carabinieri per finire in carcere quando Angelo Porrello sarà ritrovato e scrivendogli quelle lettere quando è già morto da alcuni giorni. Semmai Milena è impulsiva, e quando uccide non pensa alle conseguenze di quello che sta facendo. Ha anche un quoziente di intelligenza superiore alla media: 115, quando per la maggior parte della gente oscilla tra 90 e 110. Pure l’alcolismo non c’entra molto. Intanto, dice il professor Marasco, quando ha ucciso Milena non si trovava sotto l’effetto dell’alcol, e comunque il bere non ha mai compromesso la sua capacità critica e di giudizio e la sua capacità di volere. Oltretutto non è possibile trovare nella donna i segni di una intossicazione cronica, i danni irreparabili all’organismo, al cervello, al fegato che potrebbero giustificare un’attenuazione delle sue responsabilità. I delitti di Milena sono «tre gravi reati caratterizzati da efferata violenza e nei quali aleggia il comune denominatore della triade sesso-violenza-morte, spinta dal bisogno impellente della donna di punire il partner, di vendicarsi nei suoi confronti per i torti subiti, quasi a simboleggiare la vendetta nei confronti della figura paterna, triade che rimanda alla figura criminologica del serial killer». Insomma, per il professor Marasco, «al momento dei fatti per cui si procede, Quaglini Milena era capace di intendere e di volere».

La perizia psichiatrica del professor Marasco viene depositata l’11 maggio 2001. II 28 il professore espone le sue conclusioni durante un’udienza del processo per l’omicidio di Angelo Porrello che si tiene alla corte d’assise di Pavia. Milena le ascolta in silenzio, pallida e con gli occhi bassi. L’avvocato Sardo annuncia una consulenza di parte. L’udienza viene rimandata al 24 settembre. In aula Milena viene interrogata dal pubblico ministero Mauro Vitiello. Resta calma e risponde a tutto, alzando la voce solo una volta, quando il pubblico ministero cerca di dimostrare che si è trattato di un omicidio premeditato. «Sono stufa marcia, è una vita che va avanti così, che prendo botte in famiglia. Che motivo avevo io di uccidere Porrello se non era un maiale, un bastardo… cosa ci ricavavo? Forse un’eredità? Me lo dica lei, dottor Vitiello.» Sono le ultime battute del processo. La sentenza è attesa per la fine di ottobre. Il 16 ottobre 2001 è un martedì ed è l’una di notte. Milena è nella sua cella nel carcere di Vigevano. Aspetta che passi la sorvegliante che a ogni ora apre lo spioncino per controllarla, poi fa a strisce un lenzuolo e le intreccia assieme per confezionare un cappio. Lo attacca a un gancio per appendere gli abiti che sta nell’armadio, ci infila la testa dentro e poi si lascia cadere, sollevando le ginocchia. La trova la sorvegliante del turno successivo, all’una e cinquanta. Ha un livido rosso attorno al collo, respira ancora e il suo cuore batte molto debolmente. Troppo debolmente. Non ce la fa. La portano al pronto soccorso dell’ospedale civile di Vigevano, ma alle due e quindici muore. La storia di Milena Quaglini serial killer finisce qui. Le vere ragioni che hanno spinto Milena Quaglini a uccidere, a uccidere ripetutamente, sono e rimarranno per sempre sconosciute; si è parlato di una vita di sofferenze, di maltrattamenti, di violenze e prevaricazioni sessuali; ma ciò non spiega completamente i delitti, attuati con lucidità, freddezza, mai solamente una semplice reazione d’impulso. Sembra anzi che Milena abbia cercato e trovato nelle sue vittime la dimostrazione di quanto gli uomini sappiano essere spregevoli e violenti, capaci di vedere nella donna solamente un oggetto sessuale. Nessuno potrà mai comprendere che cosa abbia innescato in Milena, in un certo momento della sua vita, la rabbia letale, l’incapacità di sopportare, tradotta poi in un desiderio di rivalsa, nell’omicidio, nello spregio; perché certamente nel gettare il cadavere di Angelo Porrello in una concimaia, nell’affidarlo all’eternità semiaffondato nel letame c’è tutta la rabbia, ma anche tutta la rivincita, tutto il disprezzo e, per una volta nella vita, l’affermazione di se stessa. Anche l’ipotesi dello sdoppiamento della personalità non convince; non pare infatti che se ne sia trovata traccia nella vita della donna, precedentemente e al di fuori dei delitti; note isteriche, depressione, ansia, certamente sì; certamente Milena Quaglini è stata una persona con una vita sofferta, un disagio psicologico anche profondo. Ma forse vi sono altri misteri che avvolgono la vita e la morte di Milena Quaglini All’uscita dal tribunale, al termine di una delle molte udienze, al pubblico ministero che indaga sui delitti giunge una voce, un’indiscrezione: che cerchi a Jesi, dove la Quaglini ha abitato per un periodo; probabilmente troverà un altro omicidio, un caso irrisolto, un uomo di mezz’età, morto nel proprio appartamento.

Il magistrato chiede alle forze dell’ordine di fare una ricerca su tutti i delitti irrisolti avvenuti nella zona, in quel periodo. La risposta: non abbiamo trovato nulla. Ma qualche dubbio ancora rimane: Milena Quaglini, unica serial killer in Italia con Leonarda Cianciulli, la Saponificatrice di Correggio, potrebbe aver lasciato dietro di sé un’altra vittima. La storia di Aileen Wuornos La Cadillac del ‘77 è una bella macchina, a chi piace il genere. Una delle ultime grandi Cadillac, lunga come un treno, con una mascherina larga come quella di un camion. Adesso è un pezzo di antiquariato e ci sono anche molti siti di «‘77 Cadillac owners» su Internet, ma nel 1989 è soltanto una bella macchina grande con dodici anni di vita, un po’ vecchia per il ritmo con cui cambia l’auto in America chi ha uno standard di vita elevato. Per questo, a Daytona, in Florida, una macchina come quella può passare inosservata, soprattutto se se ne sta ferma in una strada fuori città, a Ormond Beach, nella contea di Volusia. Ma se sta troppo ferma, prima o poi, finisce che qualcuno la nota. Succede agli inizi di dicembre. Qualcuno vede quella grande Cadillac del ‘77 ferma da un sacco di tempo e va a guardarci dentro. È vuota, ma ci sono tutte quelle macchie di sangue e così chiama la polizia. Arriva un detective del Dipartimento di polizia della contea di Volusia che si chiama Bob Kelly, e la prima cosa che fa, naturalmente, è cercare di scoprire a chi appartiene la Cadillac. La macchina è intestata a un uomo che si chiama Richard Mallory. Ha una cinquantina d’anni e vive a Clearwater, sempre in Florida, una cittadina a 133 miglia da Daytona. Richard Mallory è il proprietario di un negozio di elettronica, ma in quel momento è fuori, c’è un commesso che lo sostituisce per un po’ di tempo. Fa sempre così, il signor Mallory, se ne va all’improvviso, affida il negozio a qualcuno e sparisce per cinque o sei giorni, poi torna, licenzia l’impiegato e riprende la vita di sempre. Cosa faccia in quei giorni di fuga lo sanno tutti a Clearwater: se ne va in giro per lo stato a bere e a cercare donne. E infatti nel cruscotto della macchina ci sono un sacco di preservativi e mezza bottiglia di vodka. Alcol e sesso sono gli unici hobby che ha, perché per il resto è un solitario diffidente, al limite della paranoia. Ha divorziato cinque volte e in tre anni ha cambiato serratura al suo appartamento almeno otto volte. Richard Mallory lo trovano il 13 dicembre 1989. Jimmy Bronchi e James Dawies sono due uomini che vivono raccogliendo rifiuti metallici dalle discariche lungo la strada. Ce n’è una particolarmente ricca in un boschetto vicino alla Interstate 95, nella contea di Volusia, e lì trovano il corpo di un uomo completamente vestito, avvolto in un tappeto. È caldo in Florida, anche a dicembre, e il corpo dell’uomo è in avanzato stato di decomposizione, ma il detective Kelly, che si occupa del caso, riesce a prendergli le impronte digitali. È Richard Mallory, il proprietario della Cadillac ‘77. Qualcuno l’ha ammazzato sparandogli tre colpi calibro 22 al petto. Prima di arrivare in Florida, Bob Kelly lavorava nella polizia di Boston. È un buon detective e si mette subito sul caso Mallory, ma non arriva molto lontano. Richard

non aveva amici, frequentava soltanto donne, per quella sua ossessione del sesso, ed erano quasi tutte spogliarelliste o prostitute. Ce n’è una, una spogliarellista di Daytona che si è data il nome curioso di Chastity, che risulta un po’ più sospetta delle altre, ma su di lei non si trova niente. Le indagini durano qualche mese, ma, a parte il fatto che a uccidere Richard è stata probabilmente una donna, non emerge niente di concreto e il caso Mallory, come si dice in gergo, diventa «freddo». Così il detective Kelly lo mette da parte e si occupa d’altro. Quasi sei mesi dopo, il 5 maggio 1990, nella contea di Brooks, in Georgia, viene trovato il corpo di un uomo. È un maschio, bianco, di mezza età, ed è completamente nudo. È stato abbandonato vicino alla Interstate 75, poco dopo il confine di stato con la Florida. Lo hanno ammazzato con due colpi calibro 22, ma a parte questo non c’è altro che si possa capire di quell’omicidio. L’Ufficio investigativo della polizia della Georgia non sa niente del caso Mallory, l’identità dell’uomo nudo resta sconosciuta e il caso viene archiviato come John Doe, il nome convenzionale dato a tutti i cadaveri non identificati di sesso maschile, Jane Doe se la vittima è di sesso femminile. Un mese dopo ce n’è un altro. Il 1° giugno 1990 il corpo di un uomo viene trovato in un bosco vicino alla Interstate 19, nella contea di Citrus, in Florida, quaranta miglia a nord di Tampa. È completamente nudo, a parte un berretto da baseball che ha ancora in testa. È il detective Jerry Thompson, del Dipartimento di polizia della contea di Orange, a occuparsi del caso e a scoprire che l’uomo nudo col berretto da baseball si chiamava David Spears, aveva 43 anni e viveva a Bradenton, in Florida, dove faceva il camionista. E infatti si trova anche il suo camion, nella contea di Marion, fermo sulla Interstate 75, con le portiere chiuse, come se fosse stato parcheggiato, ma senza il libretto di circolazione. La polizia lo aveva notato qualche giorno prima e stava cercando di capire di chi fosse quando è stato trovato anche Spears. David Spears è stato ucciso con sei colpi calibro 22. Ma la contea di Citrus dista quasi cinquecento miglia da Daytona e nessuno mette in relazione l’omicidio con il caso Mallory e neanche con il caso John Doe della contea di Brooks. Il detective Thompson scava nella vita di Spears ma non emerge niente: David era un brav’uomo con un sacco di amici, aveva ottimi rapporti con tutti, anche con la sua ex moglie. Per un po’ viene sospettato l’uomo che ha trovato il corpo, Matthew Cocking, un perito agrario che possiede una pistola e ha un pessimo carattere, ma Cocking non c’entra niente e la pista finisce lì. Thompson, però, non molla e chiede l’aiuto di una criminologa per tracciare un profilo psicologico. Secondo Dayle Hinman, la criminologa, non si è trattato di un omicidio a scopo di rapina. David Spears si è spogliato da solo, di sua volontà, e probabilmente lo ha fatto con una donna. Una donna che poi lo ha ucciso. Non è l’unico e non è l’ultimo. Appena qualche giorno dopo, il 6 giugno 1990, nella contea di Pasco, trenta miglia a sud di quella di Citrus, viene trovato un altro uomo. È anche lui un maschio bianco, sui quarant’anni, è nudo ed è stato abbandonato qualche miglio fuori dalla Interstate 75. È in avanzatissimo stato di decomposizione, tanto che non si riesce neppure a prendergli le impronte digitali, e se non fosse per la sua macchina, che viene trovata il giorno dopo nella contea di Marion, sarebbe anche lui un altro John Doe. Invece si chiamava Charles Carskaddon, aveva quarant’anni e lavorava come cow-boy in un rodeo a Booneville, nel Missouri. Era sparito dal 31

maggio, quando era partito da Booneville per andare a trovare la fidanzata, a Tampa. È così ridotto male che anche i proiettili che l’hanno ucciso sono stati danneggiati dal processo di decomposizione, ma si riesce comunque a capire che sono calibro 22. E sono nove, nove colpi calibro 22 sparati addosso a un altro maschio bianco sui quarant’anni. A occuparsi di questo caso è il detective Tom Muck, del Dipartimento di polizia della contea di Pasco. Il detective Muck è uno che si informa anche su quello che succede nelle contee vicine, e soprattutto ha buona memoria. Non gli è difficile ricordarsi di un caso simile avvenuto appena una settimana prima a solo trenta miglia da lì, così chiama lo sceriffo di Citrus e si mette in contatto con il detective Thompson. Da una rapida ricerca salta fuori anche il John Doe della contea di Brooks, in Georgia, e i casi vengono messi in relazione. Siamo all’inizio degli anni Novanta, e saranno casi come questo a far capire quanto sia fondamentale avere un archivio centrale che raccolga tutti i dati dei crimini violenti permettendo di collegare omicidi avvenuti a distanza. Abbiamo quindi tre vittime, tre maschi bianchi, sui quaranta, uccisi a colpi di calibro 22 e abbandonati nudi lungo le strade interstatali. Quattro, se si aggiunge anche Richard Mallory di Daytona, che per adesso non è ancora nel conto. Sono già abbastanza. Lungo le strade della Florida c’è un serial killer. Ci sono le scene del crimine, si sanno le caratteristiche dell’arma, delle ferite, si conoscono le vittime, le loro abitudini: ecco che diventa possibile tracciare un identikit psicologico dell’assassino: le vittime sono maschi. Le vittime sono nude. Sul pavimento di un paio di auto vengono trovati preservativi usati e anche alcuni capelli lunghi e biondi sulla tappezzeria. Le vittime viaggiavano spesso, per lavoro o per piacere, e sembrano essere stati colti di sorpresa, senza violente colluttazioni. L’assassino, il serial killer, è probabilmente una donna, forse una prostituta che batte lungo le strade interstatali della Florida. Bob Kelly, Jerry Thompson, Bob Muck e lo sceriffo della contea di Brooks non lo sanno ancora, ma hanno ragione. A uccidere i quattro maschi bianchi e di mezza età è stata una donna, e proprio una prostituta. Si chiama Aileen Carol Wuornos. Aileen Wuornos ha 34 anni ed è nata a Rochester, nel Michigan, il 29 febbraio 1956. Inizialmente il suo cognome è Pittman, perché è così che si chiama suo padre, Leo, che però si separa dalla famiglia qualche mese dopo la sua nascita. Non è un bel tipo, il signor Pittman, è uno psicopatico molestatore di bambini che entra ed esce da una serie di manicomi nel Kansas e nel Michigan e che verrà ucciso in carcere nel 1969. La madre di Aileen, Diane, l’ha sposato quando aveva 15 anni, ha avuto il suo primo figlio, Keith, ha avuto Aileen e poi si è separata da lui. Ma a fare la ragazza madre non ci riesce, Keith e Aileen piangono sempre, sono bambini tristi, pieni di problemi, e così, nel 1960, li lascia ai nonni materni e se ne va. Lauri e Britta Wuornos adottano i bambini dandogli il loro cognome e li portano a vivere a Troy, sempre nel Michigan, assieme ai loro figli. Aileen e Keith non sanno di essere stati adottati, credono che i nonni siano i loro veri genitori e crescono assieme agli altri fratelli, ma non sono tranquilli. All’età di 6 anni Aileen si brucia il volto mentre cerca di appicca-

re incendi usando una bomboletta di gas per accendini. All’età di 12 anni scopre di essere stata adottata. Con il signor Wuornos il rapporto non è facile, perché è un uomo violento, spesso ubriaco, molto severo con i figli, e quando Aileen scopre che Lauri non è il suo vero padre rifiuta completamente la sua autorità. A 14 anni rimane incinta, non si sa di chi, perché Aileen ha cominciato a fare sesso con tutti, compreso, dice lei, suo fratello Keith. Trascorre il periodo della gravidanza in un istituto per ragazze madri di Detroit, dove nel gennaio del ‘71 lascia il suo bambino perché venga adottato. Ce n’è abbastanza, direbbero gli psichiatri, per creare una personalità instabile e disturbata, ma i guai di Aileen non finiscono qui. Nel luglio di quell’anno muore la nonna Britta. Diane, la vera madre di Aileen, torna a farsi viva. Ha una strana idea, una vera e propria ossessione. Crede che Britta sia stata uccisa da Lauri ed è sicura che i suoi figli siano in pericolo, così li rivuole a vivere con lei, in Texas. Ma Aileen non ci vuole andare, rifiuta anche l’autorità della madre, così lascia la scuola e se ne va di casa. Gira per lo stato in autostop e vive facendo la prostituta. Lee si fa chia mare. Ha 15 anni. Viene arrestata per la prima volta nel maggio del ‘74, a Jefferson County, nel Colorado. L’hanno presa mentre correva in macchina, completamente ubriaca, sparando dal finestrino con una pistola calibro 22. Dà un nome falso, Sandra Kretsch, e scappa dalla città prima del processo. Tornata in Michigan, Aileen si sposa con Lewis Fell, un uomo molto più anziano di lei, tanto che cammina aiutandosi con un bastone. Fell è benestante, ha una buona rendita che gli viene da una ditta di forniture ferroviarie, ma Aileen spende tutti i suoi soldi e quando lui non vuole più darglieli lei lo picchia con il suo bastone. Alla fine Fell ottiene un’ordinanza restrittiva che gli tenga Aileen lontana e poi anche il divorzio, soprattutto quando Aileen viene arrestata ad Antrim County per aver colpito alla testa un barista con una palla da biliardo. Di nuovo a Troy, Aileen viene arrestata perché guida ubriaca e senza patente, e all’improvviso diventa ricca. Suo fratello Keith muore di cancro alla gola, lasciandole diecimila dollari di assicurazione. Aileen li spende tutti in due mesi. Quando sente di essere in trappola, ogni volta che capisce di essere arrivata in fondo e di non farcela più, Aileen scappa. La sua via di fuga è l’autostop, sono le grandi strade interstatali ai cui bordi si può appostare aspettando qualcuno che la faccia salire e la porti lontano, verso una nuova vita, verso un posto nuovo in cui le cose ricomincino da capo e vadano tutte per il verso giusto, una buona volta. La direzione scelta è quella della Florida, perché lì almeno è caldo, e l’autostop la porta fino a Daytona Beach. Ma, anche lì, le cose non vanno per il verso giusto. Aileen arriva a Daytona nel 1976. Ha 20 anni. Cerca una sistemazione e per questo cerca un uomo, ma quelli che incontra non sono certo quelli giusti. Di solito sono piccoli delinquenti di serie B, meschini e violenti, anche con lei. Ci stanno un po’, la picchiano e poi se ne vanno, ed è dopo una di queste separazioni che Aileen cerca di uccidersi, sparandosi un colpo di pistola allo stomaco. Delinquenti di serie B. È con uno di questi che nel 1981 Aileen cerca di rapinare un negozio di merci usate a Edgewater, ma anche lì va tutto storto e finiscono dentro tutti e due. Aileen si prende una condanna per rapina a mano armata e sta in carcere tredici mesi, fino al giugno dell’83. Fuori passa di nuovo da un arresto all’altro, per aver cercato di spacciare as-

segni falsi in una banca di Key West, per aver rubato una pistola a Pasco County, per guida senza patente sulla Florida Highway, per aver rubato una macchina, resistendo poi all’arresto, a Miami. Fra un arresto e l’altro, per mantenersi, continua a fare la prostituta sulle strade della Florida, e anche quello non è un lavoro facile, in cui vada tutto per il verso giusto. Nel giugno dell’86 viene arrestata nella contea di Volusia per aver puntato una pistola a un cliente dopo avergli chiesto duecento dollari. Quando lo sceriffo di Volusia l’arresta, le trova addosso parecchie munizioni, e anche una pistola sotto il sedile dell’auto. Una calibro 22. Quasi ogni volta che l’arrestano, Aileen dà un nome diverso. L’aveva imparato quando l’avevano presa nel Colorado, nel ‘74. Sandra Kretsch, aveva detto di chiamarsi, adesso Lori Grody, come una sua zia, e poi anche Susan Blahovec. Aileen, Sandra, Lory, Susan… Lee ha trent’anni ed è già entrata e uscita dalla prigione un sacco di volte. È stata picchiata e maltrattata, ha corso su è giù per le strade della Florida e del Michigan senza mai fermarsi, non ha una casa, non ha soldi, non ha un uomo, quasi non ha un nome, ha soltanto una gran rabbia verso tutti e una pistola. Poi, all’improvviso, Aileen si innamora. Non di un uomo, non di uno dei suoi soliti banditi di mezza tacca, ma di una donna. Si chiama Tyria, Tyria Moore, e Aileen la incontra allo Zodiaco, un bar per gay di Daytona. Tyria ha 26 anni e Aileen se ne innamora per davvero, sinceramente ricambiata. Sono inseparabili e Tyria lascia il suo lavoro come cameriera in un motel per seguire Aileen, che continua a fare la prostituta su e giù per le strade della Florida. Sembra davvero che tra loro due possa costruirsi qualcosa di solido. Per il primo anno. Poi le cose ricominciano ad andare nel modo sbagliato. Tyria e Aileen bevono molto e litigano sempre più violentemente. E poi Aileen sta diventando vecchia. Non è mai stata una bellezza, e con la vita che ha fatto e tutto quello che ha passato non è certo una squillo d’alto bordo. Batte negli squallidi motel lungo le interstatali, i soldi che guadagna sono sempre meno e per due non bastano più. La vita di Aileen, le sue reazioni a quello che le succede diventano sempre più violente. Nel 1987, assieme a Tyria, si fa arrestare dalla polizia di Daytona per aver colpito un uomo con una bottiglia. Si fa buttare fuori da un autobus dall’autista, distrugge un appartamento a Daytona Beach. È arrabbiata, Aileen, sempre di più, e gira costantemente con una pistola nella borsa. Poi, la sera del 30 novembre 1989, Tyria la vede tornare a casa dal lavoro, ubriaca e con una macchina nuova. Dice che l’ha presa a un cliente. E che l’ha ucciso. Sul momento Tyria non le crede, ma sbaglia. Il cliente si chiamava Richard Mallory ed è soltanto il primo della serie. Richard Mallory, il John Doe della contea di Brooks, David Spears, Charles Carskaddon, sono già quattro e non sono gli ultimi. Il 30 luglio 1990 Eugene Burness, detto Troy, 50 anni, parte col suo camioncino dalla fabbrica dove lavora, una ditta di insaccati di Ocala. È mattina presto, e ha una serie di posti in cui effettuare le consegne sulla strada statale 19, lungo la quale ci sono bar, caffè e piccoli ristoranti. È lì, soprattutto nelle stazioni di servizio per camionisti, che Aileen batte. Quella sera Troy Burness non riporta il camion alla ditta. Quella notte non torna a casa. Il datore di lavoro e la moglie di Troy chiamano lo sce-

riffo della contea di Marion, che trova il camion in una stradina dietro la statale 19. Troy lo trovano cinque giorni dopo, a otto miglia di distanza, in un boschetto della Foresta Nazionale di Ocala. È una famiglia che sta facendo un picnic a scoprirlo, già così decomposto dal clima umido della Florida che la moglie riesce a riconoscerlo soltanto dalla fede che porta al dito. Gli hanno sparato due colpi, uno al petto e l’altro nella schiena. Due colpi calibro 22. L’11 settembre 1990 scompare Dick Humphreys. Dick ha 53 anni, e lavora per il Dipartimento di salute e dei servizi di riabilitazione della Florida, dove si occupa di controllare le accuse di abuso sui minori. È un investigatore, Dick Humphreys, già capo della polizia in una contea dell’Alabama, un uomo esperto e anche armato, ma quel giorno, proprio il giorno dopo che ha festeggiato il suo trentacinquesimo anniversario di matrimonio, scompare. Si è fermato da qualche parte e ha incontrato Aileen. Lo trovano il giorno dopo, il 12 settembre, nella contea di Marion, ucciso da sette colpi di pistola. Calibro 22. Una settimana dopo viene trovata anche la sua macchina, abbandonata in una vecchia stazione di servizio di Live Oak, nella contea di Swanee. Il 19 novembre 1990 viene trovato un altro uomo. Si chiama Walter Gino Antonio, ha 60 anni e fa il camionista e la guardia giurata part time a Merritt Island. È in un bosco vicino a Cross City, nella contea di Dixie, ed è completamente nudo, a parte i calzini. Gli hanno sparato tre volte nella schiena e una in testa, quattro colpi calibro 22. I suoi vestiti vengono trovati in una zona disabitata nella contea di Taylor e la sua macchina viene rinvenuta nella contea di Breward, cinque giorni dopo. Sette uomini uccisi in meno di un anno. Nonostante siano sparsi per tutta la Florida, anche la stampa comincia a fare due più due e il caso scoppia su tutti i giornali. C’è un serial killer che ammazza maschi bianchi sui quaranta-cinquant’anni, abbordati per la strada. Lo scambio di informazioni tra i detective Kelly, Thompson e Muck e lo sceriffo della contea di Brooks non basta più. Viene costituita una task force, un pool di investigatori, coordinato dal capitano Steve Binegar, che comanda la Divisione investigativa della polizia della contea di Marion. Sulla scorta delle osservazioni condotte dagli altri detective sui primi casi, il gruppo di agenti del capitano Binegar sta cercando una persona dalle caratteristiche abbastanza precise. È una donna, probabilmente una prostituta. Abborda le sue vittime nei bar e nelle stazioni di servizio lungo le strade della Florida, oppure chiede semplicemente un passaggio come autostoppista. Quando entra in contatto con la vittima quasi sempre la convince ad appartarsi per avere un rapporto sessuale, aspetta che l’uomo si spogli nudo e poi lo uccide sparandogli con una calibro 22. Poi ruba tutto quello che le serve, prende la macchina, abbandona il corpo della vittima lontano dal luogo del delitto, lascia i suoi effetti personali da qualche altra parte, e infine, quando non le serve più, abbandona anche la macchina, di solito in un’altra contea. Un predatore, insomma, una predatrice che caccia le sue vittime appostandosi e colpendole quando meno se lo aspettano. Inizialmente le indagini sembrano ristagnare, con l’unico risultato che quasi nessuno, per tutte le strade della Florida, è più disposto a dare passaggi agli autostoppisti. In realtà, il pool del capitano Binegar ha già qualcosa in mano, una pista che risale a sei mesi prima.

Il 4 luglio 1990 Rhonda Bailey se ne stava a prendere il fresco sotto la veranda di casa sua lungo la strada statale 315, vicino a Orange Springs, in Florida. All’improvviso, una Pontiac Sunbird che arriva a gran velocità esce di strada e si pianta fra i cespugli. Ne escono due donne, che imprecano furiosamente l’una contro l’altra e si danno da fare per togliere qualcosa da dentro la macchina – lattine di birra, per esempio – e nasconderla in un boschetto vicino alla strada. La signora Bailey chiede se si sono fatte male e se hanno bisogno di qualcosa, ma loro dicono di no, che non importa, che non c’è proprio bisogno di chiamare la polizia, perché papà vive poco lontano, proprio lungo la strada. Così, anche se una sanguina da un braccio e la Pontiac ha il parabrezza sfondato, rimontano in macchina, riescono a tirarla fuori dai cespugli e si allontanano lungo la strada. La signora Bailey è convinta che quelle due povere ragazze abbiano bisogno di aiuto, così chiama i vigili del fuoco di Orange Springs. Intanto la macchina è stata abbandonata e quando il pompiere volontario Hubert Hewett arriva, trova soltanto due ragazze che stanno camminando lungo la strada. Gli chiede se siano quelle dell’incidente ma loro dicono di no, che non c’entrano niente, e se ne vanno. Strano, ma niente di grave. Sarebbe una storia di cui dimenticarsi se non fosse che la Pontiac Sunbird abbandonata appartiene a Peter Siems, 65 anni, ex marinaio della marina mercantile e poi predicatore di una setta cristiana, che era partito il 7 giugno da Jupiter, in Florida, per andare a trovare alcuni parenti in Arkansas. Non c’era mai arrivato. John Wisnieski, un detective della polizia di Jupiter, mette in relazione la scomparsa di Siems con le due ragazze che hanno abbandonato la sua macchina, si fa dare una descrizione dal pompiere e dalla signora Bailey e la manda in giro, facendola pubblicare dal «Bollettino delle attività criminali» della Florida. C’è anche l’impronta di una mano insanguinata, sul cruscotto. Una donna mora, che non parla molto, e una bionda, molto nervosa, con relative descrizioni sommarie e le impronte della donna ferita. La bionda nervosa. I dati vengono ripresi dalla task force del capitano Binegar e da lì finiscono sulla stampa. Arrivano un sacco di segnalazioni. C’è un uomo a Homosassa Springs che dice che quasi un anno prima due donne che corrispondono alla descrizione hanno comprato da lui una roulotte. Hanno lasciato anche il nome: Tyria Moore la mora e Lee la bionda. C’è una donna a Tampa che dice di aver lavorato con loro in un motel a sud di Ocala. Si chiamavano Tyria Moore la mora e Lee Blahovec la bionda. C’è un altro uomo, che vuole rimanere anonimo. Ty Moore e Lee Blahovec hanno comprato un caravan da lui, a Homosassa Springs. Ty era mora e sembrava succube di Lee, che era bionda, nervosa e dominatrice, e faceva la prostituta. La ricerca sugli identikit frutta alcuni nomi. Per la mora uno solo: Tyria Moore. Per la bionda, un sacco di nomi: Susan Blahovec, Lee Blahovec, Cammie Marsh Green, Lori Grody, Sandra Kretsch… Con le impronte digitali va meglio. Cammie Marsh Green ha venduto a un banco di pegni di Daytona una videocamera e un rivelatore radar che appartenevano a Richard Mallory, il primo uomo ucciso, e per farlo ha dovuto lasciare le impronte digitali, come richiesto dalla legge. Stessa cosa a Ormond Beach, dove ha impegnato la cassetta degli attrezzi presa dal camion di David Spears, e a Volusia, dove ha impegnato la fede di Walter Antonio. Le impronte vengono inviate a Jenny Ahern, che lavora all’Afis, l’Automatic Fingerprints Identification System, il programma che rac-

coglie e confronta tutte le impronte digitali registrate. Non salta fuori niente. Allora Jenny va dalla polizia di Volusia e controlla di persona le impronte registrate al locale Dipartimento di polizia. E trova che le impronte di Cammie Green sono le stesse di quella Lory Grody a cui era stata sequestrata una pistola a Volusia. Sono anche le stesse lasciate sul cruscotto della Pontiac di Peter Siems dalla bionda ferita nell’incidente. Finiscono al National Crime Information Center, a cui arrivano risposte sia dalla Florida sia dal Colorado e dal Michigan. Nonostante gli innumerevoli alias, corrispondono tutte a una persona sola. Aileen Carol Wuornos. La prostituta assassina, la predatrice delle strade della Florida, la serial killer, è lei. La caccia ad Aileen Wuornos inizia il 5 gennaio 1991. Aileen, intanto, è rimasta sola. Tyria l’ha lasciata. Anzi, è scappata. Perché non ce la faceva più con quella vita, perché litigavano sempre, e soprattutto perché aveva paura di lei. Lee aveva detto che non le avrebbe mai fatto del male, ma lei non ne era sicura. Aveva ucciso tanta gente, Lee, e con tutta quella rabbia. Rimasta sola, Aileen è più disperata e arrabbiata che mai. Le cose, di nuovo, non erano andate per il verso giusto. E così lei aveva continuato a battere le strade della Florida, ad abbordare le sue vittime, e a ucciderle. La sera dell’8 gennaio è in un pub di Port Orange quando vede un ragazzo carino, che può fare al caso suo. Si fa chiamare Bucket ed è un piccolo spacciatore di droga che viene dalla Georgia e lavora assieme a un amico che chiamano Drums. È lui a notarla e ad avvicinarla, e anche a offrirle da bere. Bevono assieme per ore, e intanto parlano e parlano, fanno amicizia. Sembra l’uomo giusto, Bucket, per mettercisi assieme e magari farsi mollare più avanti, come al solito, quando le cose smettono di andare per il verso giusto. Oppure per andare in un posto appartato con la sua macchina, farlo spogliare nudo e poi ucciderlo. Aileen non lo sa, ma Bucket non si chiama Bucket e non fa lo spacciatore. Si chiama Mike Joyner ed è un agente di polizia sotto copertura, come il suo collega Drums, che non si chiama Drums ma Dick Martin. Sono in giro da giorni, come altre coppie di poliziotti sotto copertura, coordinati da un comando che si trova in un motel vicino, il Covo dei Pirati, e che assegna a ogni coppia i locali, i caffè, i motel e le aree di servizio della Florida da battere a caccia di Aileen. Erano lì da giorni, a bere birra e giocare a biliardo al Last Resort, quando hanno visto entrare Aileen e non gli è parso vero. Ma non vogliono arrestarla, non subito. Vogliono parlarle, Joyner vuole farle dire qualcosa di compromettente per avere prove concrete in caso di arresto, perché è facile sbagliarsi, mettere Aileen in condizione di ottenere la libertà provvisoria con un’accusa che non regge e vedersela sparire di nuovo. È quello che sta cercando di fare quando la polizia di Port Orange entra nel pub e arresta Aileen. Joyner e Martin chiamano subito il posto di comando al Covo dei Pirati e riescono a far rilasciare Aileen, che torna nel pub senza sospettare di nulla. Sospiro di sollievo. Joyner aggancia di nuovo Aileen e restano a bere fino alle dieci di sera. Poi lei se ne va. Loro le stanno dietro e vedono che mentre cammina lungo Ringwood Avenue ci sono due agenti del Dipartimento legale della Florida che la stanno seguendo con una macchina, a fari spenti. Di nuovo Joyner e Martin chiamano il comando e riescono a far rientrare gli agenti senza che Aileen si accorga di niente. La seguono fino a un altro pub, un locale per motociclisti, dove fingono di incontrarla di nuovo, per caso. Si

bevono un sacco di birre e la lasciano verso mezzanotte, a dormire sul sedile di dietro di una vecchia macchina ferma nel parcheggio. Hanno un piano: tornare il giorno dopo con un microfono addosso, farla parlare e registrare tutto in modo da poterlo usare come prova. Ma il giorno dopo c’è una festa di «bikers», i motociclisti che scorrazzano in bande per tutta l’America, e non è il caso di rischiare che Aileen se ne vada via con uno di loro e sparisca di nuovo. Così decidono di procedere all’arresto, ma con un trucco. Convincono Aileen ad andare in un motel con loro, ma appena fuori dal pub arriva lo sceriffo Larry Hozepa, della contea di Marion, che arresta Aileen con un vecchio mandato di cattura per porto abusivo di arma da fuoco. La arresta come Lori Grody, così che non possa neanche sospettare di essere ritenuta l’autrice dei sette omicidi che ha commesso, e per maggiore sicurezza arresta anche Bucket e Drums. Le prove a carico di Aileen sono soltanto indiziarie e possono non essere sufficienti per incastrarla. L’impronta del palmo sul cruscotto dell’auto di Peter Siems, per esempio, prova soltanto che lei sia salita sull’auto e che avesse una mano insanguinata, non che l’abbia ucciso. Per incastrarla davvero ci vuole altro. Ci vuole l’arma del delitto con le sue impronte. Oppure ci vuole Tyria Moore. Tyria viene trovata il giorno dopo. Il 10 gennaio 1991 viene localizzata a casa della sorella a Pittston, in Pennsylvania. Due detective della task force volano laggiù per parlarle. Potrebbero arrestarla e accusarla di complicità in omicidio, ma non è tanto l’impunità a convincere Tyria a parlare. È terrorizzata da Aileen, ha paura che la trovi e la uccida come ha ucciso quei sette uomini. Accetta immediatamente di collaborare. Come testimone, però, non serve a molto. Dice di conoscere qualche particolare soltanto sul primo omicidio, perché Aileen le ha detto di aver ucciso un uomo e niente di più. Per gli altri, quando la vedeva tornare e capiva che aveva fatto qualcosa, e capiva anche che stava per raccontarglielo, le diceva che non voleva sapere niente. Qualcosa di utile però può farlo. Il 14 gennaio la portano in Florida, in un motel di Daytona, e da lì le fanno chiamare Aileen in carcere, mentre loro ascoltano e registrano. Con la scusa che aspetta dei soldi dalla madre per pagare la cauzione, Tyria parla con Aileen per tre giorni di seguito. All’inizio Aileen sembra convinta di essere dentro solo per quella vecchia accusa di possesso d’armi dell’86, ma quando Tyria fa riferimento agli omicidi non si lascia andare e le risponde comunque con allusioni e metafore, come se parlasse in codice. Dopo un po’ sembra quasi che abbia capito, che immagini di essere ascoltata, anzi no, non «sembra», ha capito, ha capito tutto e lo dice chiaramente che sa che Tyria non è da sola e che c’è qualcuno con lei. Qualcuno pronto a registrare la sua con fessione. Ma continua a parlare. Non vuole che Tyria venga implicata negli omicidi e così, il 16 gennaio glielo dice chiaramente, a Tyria e a quelli che l’ascoltano. È pronta a confessare. La prima cosa che fa Aileen con la sua confessione è scagionare Tyria da ogni responsabilità. Lei non c’era, lei non sa niente, lei non c’entra con quegli omicidi. La seconda è affermare che tutti sono avvenuti per legittima difesa, perché quegli uomini l’avevano rapita, l’avevano picchiata e violentata. Richard Mallory, per esempio, era ubriaco e aveva fumato marijuana. L’aveva caricata in macchina, poi l’aveva legata alla ruota di scorta, l’aveva violentata e sodomizzata. Lei era riuscita a liberarsi, ave-

va preso la pistola dalla borsetta e l’aveva ucciso. E la stessa cosa era successa con gli altri. Non è una linea di difesa intelligente, comporta un sacco di ammissioni compromettenti e non convince nessuno. Il suo avvocato d’ufficio glielo dice ma Aileen non lo ascolta. Sembra che ci tenga a confessare tutti quegli omicidi, sembra che le piaccia. Le piace raccontare la sua storia a chiunque, anche ai secondini del carcere di Volusia, cambiando i particolari e aggiustandoli in modo da farci la figura della vittima che si è soltanto difesa e vendicata. Aileen parla anche con i giornalisti che scrivono su di lei chiamandola «la Damigella della Morte». Scrivono di tutto, come quando lei racconta che nella sua carriera di prostituta ha avuto almeno duecentocinquantamila uomini, cosa che comporterebbe una media di almeno trentacinque rapporti sessuali ogni giorno per vent’anni. Diventa famosa, Aileen, così famosa che Arlene Pralle, una signora di 44 anni appartenente alla setta dei cristiani rinati, le scrive una lettera su invito espresso, dice, di Gesù Cristo. Arlene adotta legalmente Aileen, le procura un collegio di avvocati e tiene per lei i contatti con la stampa. E firma diritti letterari e cinematografici, come alcuni dei suoi avvocati e molti poliziotti, per un totale di parecchi libri, due film e un’opera teatrale. Il processo ad Aileen Carol Wuornos inizia il 14 gennaio 1992. Per motivi di strategia processuale riguarda soltanto l’omicidio di Richard Mallory. La difesa, infatti, pensa che la tesi della legittima difesa sia più facile da dimostrare se riguarda un solo omicidio e l’accusa sembra cascarci. Ma il procuratore di stato ha un asso nella manica. C’è una legge in Florida che permette di introdurre nel dibattimento anche prove di altri omicidi se queste possono servire a chiarire quello in corso. E quando queste prove arrivano, quando arrivano le perizie dei medici legali e soprattutto le confessioni videoregistrate di Aileen, con tutti quei particolari, la tesi della legittima difesa, di sette consecutive legittime difese, sembra assurda e cade. Aileen comincia a perdere la testa. Sembrava davvero ingenuamente convinta di farla franca e a mano a mano che il processo va avanti diventa sempre più nervosa e arrabbiata. Non parla più e su consiglio del suo avvocato si appella al Quinto emendamento almeno venticinque volte. Il 27 gennaio 1992, la corte si ritira per deliberare. Restano in camera di consiglio due ore e poi ritornano col verdetto. Aileen Carol Wuornos è colpevole di omicidio di primo grado. Dal banco degli imputati, trattenuta a stento dagli agenti, Aileen si scaglia contro la giuria urlando di essere innocente, che è stata violentata, e che vorrebbe che anche loro, spazzatura dell’America, fossero violentati. Tre giorni dopo, il 31 gennaio, in accordo con le richieste della giuria, il giudice Uriel Blount condanna Aileen a morire sulla sedia elettrica. Neanche gli altri processi vanno bene. Aileen modifica la sua versione. Dice che Richard Mallory l’ha violentata ma gli altri no, stavano per farlo ma lei li ha uccisi prima. Poi conclude augurando che la moglie e i figli del pubblico ministero Ric Ridgeway vengano violentati e sodomizzati. Il 15 maggio, il giudice Thomas Sawaya la condanna a morte anche per gli omicidi di Dick Humphreys, Troy Burness e David Spears. Stesso verdetto, in giugno, per l’omicidio di Charles Carskaddon, e nel febbraio del 1993 per quello di Walter Gino Antonio. Del corpo di Peter Siems non è

mai stata trovata traccia, per cui, per quell’omicidio, niente processo. Neanche la scoperta che in effetti Richard Mallory fosse stato dieci anni in prigione per violenza sessuale cambia le cose. La corte suprema dello stato della Florida conferma tutte le sentenze. Sulla testa di Aileen Carrol Wuornos, detenuta nel braccio della morte del carcere della Florida, pendono sei condanne alla sedia elettrica. Inizia il rituale degli appelli, ma nel 2002 Aileen scrive una lettera alla corte suprema. «Sono una che odia seriamente la vita umana» dice «e vorrei uccidere ancora.» Il governatore Jeb Bush ordina una perizia psichiatrica che stabilisce che Aileen è in grado di intendere e di volere e che il suo desiderio di farla finita e arrivare presto alla sentenza è sincero. L’ultimo a intervistarla nella cella della morte è Nick Bromfield, un produttore inglese che realizza su di lei un documentario di trentacinque minuti. Il giorno dopo, mercoledì 9 ottobre 2002, alle nove e quarantasette della mattina, Aileen Carol Wuornos viene uccisa con un’iniezione letale, perché nel frattempo i metodi di esecuzione in Florida sono cambiati e la sedia elettrica non si usa più.

Le donne e il crimine violento La maggior parte delle ricerche sul crimine violento e le tipologie criminali riguardano il sesso maschile, e ciò va attribuito alla presunzione che l’uomo sia più aggressivo, violento, e abbia una maggiore versatilità nei delitti rispetto alle donne. Se questo appare statisticamente vero, è anche reale la difficoltà di riconoscere la criminalità violenta nella figura femminile, tipicamente associata a un ruolo materno, di accoglienza e di protezione. Tuttavia, a partire dagli anni Settanta, molti studi evidenziano come il movimento di liberazione della donna abbia permesso una maggiore possibilità d’espressione non solamente per quanto riguarda una sessualità più libera e consapevole, una distribuzione più equa nelle opportunità di lavoro e di carriera rispetto agli uomini, ma anche nel campo delle condotte criminali, con un aumento nel numero e nella gravità dei delitti, compreso l’omicidio, anche seriale. Le differenze nel commettere un omicidio indotte dal sesso di appartenenza sono state indagate seguendo due prospettive di ricerca: la prospettiva biologica e quella dell’apprendimento sociale. La maggior parte degli studi sugli aspetti biologici si è concentrata sull’influenza degli ormoni nel processo di crescita. In particolare si è chiamato in causa il già citato testosterone, per la possibilità che alti livelli di questa sostanza possano interferire con l’acquisizione di una identità di genere concorde con il sesso cromosomico. E indurre quindi nella donna un comportamento più «maschile». Si è visto inoltre come l’esposizione intrauterina del feto a livelli inappropriati di testosterone, a causa di una patologia endocrina della madre, possa condizionare un comportamento maggiormente aggressivo nelle figlie neonate. Anche l’effetto del progesterone e degli estrogeni può condurre all’aumento o alla diminuzione della tendenza a rispondere con violenza alle situazioni di frustrazione.

Ma appare comunque poco proficuo avviare ricerche che ipotizzino il coinvolgimento di una singola sostanza biochimica, o anche di un gruppo di ormoni, per le profonde e inestricabili interazioni tra l’assetto biologico e i fattori psicosociali. La prospettiva dell’apprendimento sociale ci consegna una seconda chiave di lettura delle condotte aggressive. La differenza nel comportamento violento, incluso l’omicidio, può trovare un’altra spiegazione nel diverso ruolo che la donna ricopre rispetto al maschio nella cultura occidentale. I modelli culturali trasmessi attraverso la tradizione, i genitori, la letteratura, il cinema e la televisione insegnano come l’aggressività sia una caratteristica più appropriata nel sesso maschile. Con le dovute eccezioni, ai bambini si regalano armi giocattolo, alle bambine le bambole. Questa rappresentazione viene confermata anche durante la crescita, conducendo gli uomini, in maggior misura che le donne, ad approvare il ricorso alla forza come strumento di controllo, di successo, di comunicazione personale. L’apprendimento delle caratteristiche connesse al ruolo non esaurisce le differenti posizioni rispetto al ricorso alla violenza: pare infatti che la donna abbia una maggiore e più rapida capacità, in situazioni critiche, di elaborare strategie che non implichino l’uso della violenza. Ed è più facile che la donna sperimenti una sofferenza per la vittima e si preoccupi del disvalore sociale di una sua aggressione, della perdita di rispettabilità, della compromissione dei rapporti con gli altri. Sotto il profilo psicologico vi sono poi studi che analizzano la differente risposta, maschile e femminile, a una situazione di abuso subita nell’infanzia. Mentre gli uomini tendono a riprodurre le proprie esperienze traumatiche scaricandole all’esterno e divenendo a loro volta violenti, le donne sono inclini a rivolgere verso di sé la rabbia e la colpa, con comportamenti sostanzialmente autolesivi quali la prostituzione, la tossicodipendenza, se non addirittura il suicidio.

La donna serial killer Kelleher & Kelleher nel 1998 danno alle stampe un importante lavoro, centrato sullo studio della donna serial killer. Esaminando 100 casi a partire dal 1900, descrivono l’assassina seriale come più attenta, metodica, precisa e fredda nell’esecuzione del delitto rispetto all’uomo: occorrono infatti in media otto anni di indagini, il doppio che per i maschi, per identificare e catturare una donna serial killer. Secondo le statistiche, negli USA il genere femminile è responsabile del 15% dei crimini violenti e del 28% dei delitti contro la proprietà. Ma, e questo è un dato significativo, dal 1970 i reati commessi da donne sono aumentati del 138%, mentre per gli uomini l’aumento è stato «solo» del 57%. La donna serial killer è un fenomeno tipicamente statunitense, e rappresenta nello stesso tempo solo l’8% del campione americano ma il 74% dei casi mondiali. Secondo Eric Hickey, sono soprattutto il movente e i metodi utilizzati che differenziano le assassine seriali dai loro corrispettivi di sesso maschile; ecco la sintesi del

suo lavoro del 2002 su 62 omicide, capaci, in alcuni casi, di uccidere ricorrendo contemporaneamente a più mezzi lesivi e sulla spinta di motivazioni complesse: Mezzo utilizzato

1. Veleno (80%) 2. Armi da fuoco (20%) 3. Corpi contundenti (16%) 4. Soffocamento (16%) 5. Armi da taglio/punta (11%) 6. Annegamento (5%)

Movente

1. Economico (74%) 2. Controllo (13%) 3. Divertimento (11%) 4. Piacere sessuale (10%) 5. Sostanze stupefacenti, coinvolgimento in sette e culti, copertura di altri delitti, sentimenti di inadeguatezza (24%)

Ma la classificazione più completa e interessante la dobbiamo ai già citati Kelleher & Kelleher: SK che agiscono da sole Vedove nere

uccidono sistematicamente i mariti, i compagni, o altri membri della famiglia Angeli della morte uccidono sistematicamente chi è affidato alle loro cure per qualche forma di assistenza SK che agiscono in concorso Team killer medica uccidono o partecipano a un omicidio in Predatrici sessuali uccidono sistematicamente associazione con almeno un altro partner compiendo azioni di chiara natura sessuale Assassine per vendetta uccidono sistematicamente per odio o gelosia Assassine per profitto/ per crimine

uccidono sistematicamente per un tornaconto economico, o nel corso di un altro reato Altre tipologie di SK Le assassine mentalmente disturbate

uccidono con modalità apparentemente immotivate e vengono giudicate non imputabili per malattia di mente Le assassine spinte da movente incomprensibile

uccidono per ragioni totalmente incomprensibili I casi irrisolti

l’omicidio irrisolto presenta caratteristiche che possono essere attribuite all’azione di una o più donne

Le vedove nere Iniziano di solito la loro carriera criminale dopo i 25 anni uccidendo mariti, partner, familiari, ma anche persone con le quali hanno sviluppato un rapporto di cono-

scenza diretta. Di solito colpiscono per almeno dieci-quindici anni prima di essere identificate, con un numero di vittime che oscilla da sei a otto. L’arma preferita è il veleno, che viene utilizzato con accortezza, in modo da indurre sintomi che possono essere ricondotti a malattie diagnosticabili. Il successo conduce l’assassina a impossessarsi dei beni della vittima, oppure a incassare i premi assicurativi previsti. Belle Gunness nasce Brinhyld Paulsdatter Storset in Norvegia, l’11 novembre 1859, emigra negli Stati Uniti nel 1881, dove cambia il suo nome in Belle e, tre anni più tardi, sposa Mads Sorensen, un immigrato anch’egli proveniente dalla Norvegia. I due aprono un negozio che viene distrutto dalle fiamme l’anno seguente. Belle afferma che all’origine dell’incendio vi sarebbe stata una lampada a olio, mai rinvenuta. Con il denaro della polizza di assicurazione, la coppia acquista un’abitazione che va in fiamme nel 1898: ancora un risarcimento, e ancora una seconda casa, anch’essa rasa al suolo dal fuoco. Carolina, la prima figlia della coppia, viene trovata morta nel 1896. Due anni dopo è la volta del piccolo Axel: per entrambi viene posta la diagnosi di enterocolite fulminante. In realtà un medico più attento avrebbe riconosciuto i segni dell’avvelenamento, presenti anche in Mads Sorensen, che muore il 30 luglio 1900. La morte dell’uomo viene liquidata come evento naturale, dovuto a una malattia cardiaca di cui soffriva da tempo. La vedova incassa il premio assicurativo e lascia la città, e con lei due figlie naturali e un bimbo in custodia. Nell’aprile 1902, Belle sposa Peter Gunness, agricoltore. Otto mesi più tardi un pesante macinacarne cade da uno scaffale uccidendolo sul colpo. Anche il ragazzo a lei affidato scompare tre anni più tardi dalla fattoria della donna. Sola con le figlie, Belle inizia a reclutare manodopera per la conduzione della fattoria, braccianti che vengono impegnati in varie mansioni e, improvvisamente, «lasciano» il lavoro. Pubblica annunci sui giornali in lingua norvegese del Midwest, nella rubrica per cuori solitari, descrivendosi come una vedova ancora piacente alla ricerca di un marito. Nessuno dei candidati che si presentano alla fattoria pare possedere i requisiti necessari, e scompaiono senza lasciare traccia. Il 28 aprile 1908 casa Gunness viene distrutta da un incendio: vengono rinvenuti quattro cadaveri; tre appartengono a bambini, mentre il quarto è il corpo senza testa di una donna, che si suppone appartenga a Belle. Una settimana più tardi vengono alla luce i resti di altri cadaveri: il coroner identifica dieci maschi e due femmine, oltre a un numero imprecisato di frammenti ossei appartenenti ad altri soggetti. Inizia a farsi strada il sospetto che Belle Gunness possa essere scampata alle fiamme, portando con sé oggetti di valore e beni sottratti alle vittime. Una nuova ricerca permette di recuperare la protesi dentaria della donna, e l’inchiesta viene archiviata con la certificazione di morte di Belle per mano di ignoti. Negli anni successivi e in più parti degli Stati Uniti, testimoni oculari dichiarano di avere riconosciuto la vedova nera. Nel 1931 le viene attribuito l’avvelenamento di un ottantunenne depredato dei suoi risparmi. Ancora nel 1935 un gruppo di lettori di una rivista gialla affermano di averla riconosciuta in alcune foto scattate in Ohio.

Belle Gunness è ritenuta responsabile dell’omicidio di sedici persone riconosciute, e sospettata per altre dodici. Ancora oggi nulla si sa della sua sorte dopo l’incendio del 1908.

Gli angeli della morte Iniziano a uccidere solitamente poco dopo i vent’anni, in luoghi dove la morte costituisce un evento naturale: ospedali, cliniche, case di riposo. Qui l’omicidio può essere facilmente occultato, e l’assassino può sperimentare il potere di decidere a chi concedere la vita o dare la morte. Anche il mezzo per colpire è a portata di mano: è sufficiente aggiungere un farmaco in terapia, raddoppiarne la dose, interrompere il flusso di ossigeno. Una sciagurata inclinazione a vantarsi della propria onnipotenza conduce gli angeli della morte a una «breve carriera»: uno o due anni, con un numero medio di vittime intorno a otto; l’identificazione appare più difficile nel caso di assassine mobili, capaci cioè di licenziarsi per essere poi riassunte in altre strutture sanitarie: in questo caso il numero di omicidi può raddoppiare. Waltraud Wagner è una giovane aiuto infermiera di 23 anni quando, nel 1983, uccide per la prima volta al Lainz Hospital di Vienna. La sua carriera criminale ha inizio con un’anziana paziente di 77 anni, che la implora di porre fine alle sue sofferenze: una dose generosa di morfina esaudisce i suoi desideri. È a questo punto che la Wagner sperimenta la gratificazione di assurgere a dea della morte, in grado di disporre dell’altro a suo piacimento. Coinvolge nel corso di alcuni mesi tre complici: Maria Gruber, una ragazza madre di quattro anni più giovane, Irene Leifold, di 21 anni, e Stephanija Mayer, divorziata, emigrata dalla Iugoslavia, che ha vent’anni più di lei. La Wagner non solo detiene la leadership del gruppo, ma addestra le compagne nelle tecniche di eliminazione, primeggiando in inventiva e sadismo. Con il passare del tempo si registra un’accelerazione nei delitti, così la Mayer abbandona il gruppo, e Waltraud Wagner consolida il suo ruolo. A partire dal 1987 i decessi divengono sempre più frequenti, e il reparto in cui operano le assassine viene soprannominato «il padiglione della morte». Sempre più spavalde, le donne abbandonano la necessaria prudenza: nel febbraio del 1989, durante una pausa nel bar dell’ospedale, chiacchierano fra loro delle imprese omicide, vantandosene reciprocamente. Ma un medico che siede accanto a loro casualmente ne coglie i discorsi e corre subito alla polizia. Sei settimane di indagini portano, il 7 aprile, all’arresto delle donne. Nonostante tenti di ritrattare durante il processo, attribuendosi non più di dieci omicidi volti solamente ad alleviare le sofferenze di poveri malati, Waltraud viene riconosciuta pienamente colpevole e condannata al carcere a vita. Il presidente della giuria, il cancelliere Franz Vranitzky, definisce gli omicidi del Lainz Hospital «il crimine più brutale e raccapricciante dell’intera storia dell’Austria». Confessando in carcere quarantanove omicidi, trentanove dei quali compiuti da sola, Waltraud dice: «Quelli che mi stavano sui nervi venivano spediti direttamente in

un letto libero del buon Dio. Naturalmente i pazienti resistevano, ma noi eravamo più forti: potevamo decidere se quei vecchi matusalemme potevano vivere o morire. In ogni caso il loro biglietto per l’aldilà era scaduto». Le predatrici sessuali Rappresentano una situazione estremamente rara, se è vero che negli Stati Uniti l’unica serial killer appartenente a questa tipologia è Aileen Wuornos, di cui abbiamo narrato la storia in questo capitolo. Lo studio allargato alla casistica mondiale permette di tratteggiarne le caratteristiche principali: come il loro corrispettivo maschile, nel momento in cui iniziano a uccidere hanno un’età variabile dai 30 ai 50 anni, sono geograficamente mobili e agiscono sotto la spinta di fantasie compulsive di tipo sadico-sessuale; in tre anni di carriera criminale media sono responsabili della morte di almeno sei innocenti. Le assassine per vendetta Le donne che uccidono ripetutamente motivate da un sentimento di vendetta sono rare; più facilmente esse colpiscono una sola volta. Ciò che rende particolare la figura delle vendicatrici è la «qualità» della rabbia, un’ostilità profonda e diffusa, al confine con la patologia; sono affascinate da una sorta di ossessiva attrazione per le qualità più oscure della vendetta, e uccidono senza alcun periodo di raffreddamento emozionale fra un delitto e il successivo. Negli studi epidemiologici questo genere di serial killer inizia la propria carriera criminale a un’età di circa 22 anni e colpisce sia membri della propria famiglia sia soggetti identificati simbolicamente con un contesto che l’ha danneggiato, maltrattato o umiliato. Tre o quattro sono le vittime, in un periodo di due anni, sebbene in alcuni casi ne trascorrano anche cinque prima dell’identificazione e della cattura. Benché le vendicatrici siano sufficientemente capaci di controllare le emozioni per condurre in porto con successo i propri criminali propositi, talvolta si rivelano poco accorte e incapaci di un’accurata pianificazione. Paradossalmente, quando vengono catturate, possono mostrare un profondo rimorso per i loro crimini, in un tentativo di compensazione per l’intensità della loro ostilità. Ellen Etheridge ha 22 anni quando, nel 1912, sposa un ricco milionario texano, che le porta in dote non solo un enorme patrimonio, ma pure otto figli avuti dalla precedente moglie. Inizia a sviluppare una insanabile gelosia verso i piccoli, esasperata dall’attaccamento che il padre mostra nei loro confronti. L’arsenico sarà il mezzo con cui cercherà di liberarsene: due alla volta, con un intervallo di circa sei mesi. L’autopsia della quarta vittima svela tracce di veleno ed Ellen viene accusata di omicidio. Confessa ed è condannata al carcere a vita. Le assassine per profitto Contrariamente al solito, questa tipologia di serial killer si ritrova più facilmente fuori dai confini statunitensi. Si tratta di assassine intelligenti, capaci di pianificazio-

ne e abili nell’esecuzione dei delitti, come pure nell’evitare l’identificazione e l’arresto. Possono essere assunte come killer a contratto, per eliminare il coniuge, rivali in affari, familiari con ricche polizze assicurative. Iniziano a uccidere dai 25 ai 30 anni, la loro carriera può durare un decennio o anche più, e non sempre si conclude con la cattura; utilizzano un’ampia varietà di mezzi lesivi per uccidere e l’omicidio avviene in un contesto di totale indifferenza per la vittima. Dorothea Puente, californiana di 57 anni, è una donna attraente che gestisce un pensionato a Sacramento. I suoi modi garbati e la sua intelligenza fanno sì che riesca a convincere il Dipartimento servizi sociali a inviarle clienti dopo avere ottenuto sovvenzioni statali e facilitazioni per la gestione della sua attività. Sistematicamente uccide i pensionanti appropriandosi dei loro sussidi: la lista delle persone ufficialmente scomparse mostra almeno venticinque vittime. Nell’autunno del 1988 un terribile fetore che proviene dalla sua residenza provoca le lamentele dei vicini e l’arrivo della polizia che, sul retro della casa, rinviene i resti di sette cadaveri. Dorothea Puente viene accusata e condannata per la morte di nove individui (altri due corpi vengono ritrovati in un fiume che scorre poco vicino). L’iter processuale si presenta complesso e si conclude solo nel 1993. L’età della donna, 64 anni, induce la commutazione della pena di morte nell’ergastolo. Le team killer Rappresentano circa un terzo delle donne serial killer, e possono uccidere in complicità con un uomo, con una donna, oppure far parte di un vero e proprio team familiare. La coppia uomo-donna è certamente la più comune, e gli omicidi sono tipicamente di natura sessuale; la donna ha circa 20 anni, e la carriera criminale dura uno o due anni al massimo. Nel caso in cui siano due donne a costituire un team, l’età media è di circa 25 anni e l’attività omicida è più prolungata, dai due ai quattro anni. Il team familiare ha vita più breve, meno di un anno, e la componente femminile è più giovane; non vi è un mezzo lesivo preferito e l’età della vittima varia mediamente dai 9 ai 15 anni. Nel 1957 Charles Starkweather uccide la sua prima vittima, nel corso di una rapina: ha 19 anni. Nato da una famiglia povera del Nebraska, trascorre l’adolescenza disordinatamente, tra alcol e piccoli reati. Il suo idolo è il James Dean di Gioventù bruciata. La sua ragazza, Caril Ann Fugate, ha 14 anni. Nel gennaio 1958 il giovane si presenta in casa di Caril, ne uccide il padre, la madre e la sorellina di due anni. La ragazza aiuta il fidanzato a nascondere i corpi, racconta ai vicini che i familiari sono indisposti e fugge con Charles. Nella settimana successiva i due rapinano e uccidono sette persone. Prende il via una lunga caccia all’uomo. Sarà un ufficiale di polizia con l’aiuto di un privato cittadino a porre fine alla loro fuga.

Charles Starkweather viene giustiziato sulla sedia elettrica nel 1959 mentre la sua ragazza viene condannata al carcere a vita, che lascia per buona condotta, in libertà vigilata, nel 1977. Le assassine mentalmente disturbate Raramente nell’omicidio seriale viene riconosciuta la presenza di un disturbo psichiatrico di tale importanza da compromettere totalmente la capacità di intendere e di volere dell’assassino. Sono solitamente i legali degli «angeli della morte» che propongono una strategia difensiva centrata sul concetto di «insanity». Ciò tuttavia non esclude che il serial killer, in alcuni casi, possa effettivamente essere affetto da una grave malattia mentale. 15 ottobre 1970, manicomio criminale di Pozzuoli: muore, per emorragia cerebrale, Leonarda Cianciulli, meglio conosciuta come la Saponificatrice di Correggio. Nata in provincia di Avellino nel 1893, si trasferisce a Correggio al seguito del marito Raffaele Pansardi, che ha trovato impiego presso l’Ufficio del registro dopo il dramma del terremoto della Marsica che li ha coinvolti. La coppia, con i quattro figli, si stabilisce in un appartamento rispettabile e, grazie al risarcimento dello stato per i danni subiti, avvia un’attività di commercio di abiti usati. La relazione extraconiugale che intrattiene con il cascinaio Abelardo Spinarelli non distrae Leonarda dai suoi doveri di madre, che anzi esercita con grande affetto e dedizione, dando ai figli un’istruzione che, in quell’epoca (siamo negli anni Trenta), era solitamente riservata alle famiglie ricche e nobili: il primogenito frequenta la facoltà di lettere all’Università di Milano, i due fratelli il liceo classico, la bimba più piccola l’asilo dalle suore. La casa della Cianciulli è ben frequentata, e anche se qualcuno la descrive come personalità «un poco strana ed eccentrica», la donna è una buona conversatrice, e non disdegna di invitare le amiche per un tè. Fra queste, in particolare, tre le fanno visita con maggiore assiduità: Ermelinda Setti, detta Rabitti, una ragazza madre, Clementina Soavi, nubile e occupata a gestire un piccolo asilo privato, e Virginia Cacioppo, in passato cantante soprano con qualche successo all’estero. Il 17 dicembre 1939 Ermelinda Setti saluta la vicina, si concede alle attenzioni di una parrucchiera a cui racconta che sta per lasciare la città, diretta al Sud, dove ha trovato marito. La vedono infilare il portone dove risiede la Cianciulli. Nessuno ne avrà più notizia. Nell’estate del 1940 è la volta di Clementina Soavi: racconta che, tramite alcuni amici, ha ottenuto un posto di direttrice in un collegio di Firenze. Come la Rabitti prima di lei, affida tutti i suoi beni a Leonarda Cianciulli, affinché ne ricavi la maggior somma possibile. Il 5 settembre la Soavi passa per un ultimo saluto all’amica. Trascorrono poche settimane e il 30 novembre 1940 Virginia Cacioppo lascia Correggio. Va dicendo da qualche tempo che l’attendono in una cittadina del Centro Italia per un posto di responsabilità nella conduzione di un magazzino. Anche lei va dalla Cianciulli per una visita di commiato. Questa volta, però, succede qualcosa. I familiari dell’ultima vittima si insospettiscono della sua improvvisa partenza: Virginia Cacioppo non ha nemmeno lasciato un recapito dove essere rintracciata, non ha portato con sé alcun indumento. Compaiono buoni del tesoro di proprietà dell’ex cantante li-

rica e a cercare di venderli è don Adelmo Frattini, parroco di San Giorgio in Correggio. Il questore di Reggio Emilia, coinvolto dai familiari della Cacioppo, avvia le indagini: le perquisizioni nell’abitazione della Cianciulli permettono di ritrovare i resti delle vittime. Arrestata, dopo poche ore confessa i suoi delitti, dapprima coinvolgendo l’amante, quindi dichiarando di avere agito da sola: ha ucciso, fatto a pezzi e bollito le parti dei cadaveri nella soda caustica, ricavandone sapone e candele. Viene internata nel manicomio criminale di Aversa dove inizia a scrivere le sue memorie, che intitola «Le confessioni di un’anima amareggiata». In oltre settecento pagine narra degli omicidi e delle modalità di smembramento dei corpi sin nei più piccoli particolari, fornendo una chiave per la comprensione delle sue efferatezze. La madre l’aveva promessa in sposa a un cugino e lei, contravvenendo a quanto deciso, si era legata a Raffaele Pansardi, meritandosi una maledizione: i figli che avrebbe partorito sarebbero morti prima di lei. Leonarda Cianciulli partorisce diciassette volte: solo quattro bimbi sopravvivono. Leggendo i libri del figlio, apprende come nell’antichità si ricorresse al sacrificio umano per placare gli dei. Si convince dei suoi poteri di strega e di avere la capacità di dare temporaneamente la morte per trovare all’anima delle vittime un corpo migliore. Per questo motivo aveva cominciato a uccidere. Le assassine spinte da movente incomprensibile Sono serial killer che agiscono senza alcun motivo decifrabile; né loro stesse, né le autorità inquirenti riescono a dare spiegazione comprensibile delle loro azioni. Audrey Hilley è una casalinga di 42 anni. Vive ad Anniston, in Alabama, e nel preparare caffè e rinfreschi per i propri familiari e per i figli dei vicini decide di aggiungere arsenico alle bevande. L’intossicazione è grave per molte vittime dell’avvelenamento, fatale per tre di loro. Durante il processo dichiara di soffrire di improvvise crisi di perdita di coscienza, durante le quali la personalità della sua cattiva gemella prende il sopravvento. Giudicata non imputabile per vizio di mente, si comporta da detenuta modello, meritandosi più periodi di licenza premio, durante i quali, puntualmente, tenta di nuovo di avvelenare qualcuno, sino a quando i giudici la condannano al carcere a vita. I casi irrisolti Gli investigatori non posseggono in questi casi indizi risolutivi, e tuttavia modus operandi, tipologia della vittima, scelta dell’arma e altri elementi ancora fanno sospettare che dietro il ripetersi dei delitti vi sia la mano assassina di una donna. Tra il 1984 e il 1985 nell’ospedale Prince George del Maryland si registrano diciassette decessi e gravi conseguenze in numerosi altri pazienti, dovuti a iniezioni endovenose di potassio; la maggior parte delle vittime è ospite dell’unità di rianimazione, dopo interventi chirurgici o emergenze cliniche. Nonostante i sospetti degli investigatori, nessuno è stato mai formalmente indagato per i delitti.

III

Apparentemente sani

La storia di Andrea Matteucci Aosta non è una città grande. Non è una metropoli tentacolare, con periferie degradate, downtown deserte dopo l’ora di chiusura della metropolitana e grattacieli dormitorio in anonime aree residenziali. Aosta è una cittadina di trentacinquemila abitanti, capoluogo di una piccola regione grande poco più di una valle. «Attorniata dalle cime del monte Emilius (3559 metri), della Becca di Viou (2856 metri) e della Becca di Nona (3142 metri)», come dice il sito ufficiale del comune, «la città si trova nella zona più ricca della valle della Dora Baltea, in corrispondenza del punto di confluenza con il torrente Buthier, proveniente dalla Valpelline.» Una cittadina di montagna, che ha conservato la pianta e le rovine dei tempi dell’imperatore Augusto, e che sarebbe soltanto quello, una bella cittadina di montagna, se non fosse per i trafori del Monte Bianco e del Gran San Bernardo, per i casinò di Saint-Vincent e per i privilegi della regione autonoma. Ma anche così, Aosta resta poco più di una bella cittadina di montagna. L’ultimo posto in cui immaginare un serial killer. È il 1980, una tranquilla sera d’estate. C’è un uomo di mezza età che si chiama Domenico Raso, che sta passeggiando in una zona appartata del centro di Aosta, proprio sotto le rovine dell’Arco di Augusto. È un posto buio, un po’ nascosto, quasi deserto a quell’ora, frequentato da chi vuole incontrare qualcuno e vuole farlo con discrezione. Il signor Raso, infatti, è un omosessuale e lì, vicino all’Arco, cerca incontri. Vede un ragazzo, un ragazzo alto e magro, sui 18 anni, che lo interessa. Lo avvicina e il ragazzo accetta di scambiare due chiacchiere. Si chiama Andrea, ed è di Aosta anche lui, appena uscito da una comunità religiosa a cui lo ha affidato il tribunale dei minori. Poca cosa, un piccolo reato, molto stupido. Quattro anni prima, quando ne aveva 14, era entrato nella macelleria in cui lavorava con una pistola scacciacani. Voleva compiere una rapina, o forse voleva solo scherzare, non se lo ricordava più neanche lui, e i suoi compagni, comunque, non ci avevano creduto neanche per un momento e lo avevano lasciato lì, in mezzo alla stanza, con la sua pistola in mano, senza neanche considerarlo. Era stato lui, una settimana dopo, a consegnarsi alla polizia e ad autodenunciarsi, sicuro che prima o poi lo avrebbero fatto i colleghi, o forse soltanto per farsi prendere sul serio da qualcuno. Il reato era ridicolo, ma i suoi l’avevano comunque buttato fuori di casa, per cui il tribunale lo aveva affidato alla comunità. A 18 anni, come da legge, era tornato a casa, dove rimaneva poco, perché preferiva andarsene in giro per la città. Come quella sera. Al signor Domenico, Andrea piace. Gli chiede se vuole andare con lui dietro il monumento, sotto l’Arco, dove non li vede nessuno, e Andrea accetta. Il signor Domeni-

co gli chiede se vuole fare l’amore con lui, e Andrea sembra accettare anche quello. Ma appena gli è vicino lo colpisce con un pugno in pieno viso, poi lo afferra per i capelli, si sfila un coltello da boy-scout dalla cintura e glielo pianta nella schiena. La lama si incastra fra le vertebre dell’uomo e non esce più. Andrea cerca di sfilarla ma non ci riesce, così lascia cadere a terra il signor Domenico e cerca di andarsene. Ma fa solo pochi passi, perché l’uomo ha cominciato a gridare, molto, e molto forte, tanto che prima o poi arriverà qualcuno. Andrea torna indietro, sotto il monumento romano, tira fuori il coltello e ricomincia a colpire quell’uomo, tante volte, al petto e alla schiena. Si ferma solo quando è lo stesso signor Domenico a chiederglielo. «Adesso basta!» gli dice «ormai sono morto.» Ed è vero. Andrea smette di colpire, si allontana dall’Arco di Augusto, getta il coltello nel primo cassonetto che trova e scappa. Andrea si chiama Andrea Matteucci, ed è nato a Torino il 24 aprile 1962. Non è una famiglia facile, la sua. Il padre è un operaio con precedenti penali per furto e ricettazione, ma Andrea non fa in tempo a conoscerlo, perché lascia la famiglia poco dopo la sua nascita. Quasi non fa in tempo a conoscere neppure la madre, che lo lascia subito in affidamento alla sorella perché sarebbe un intralcio al suo lavoro. La signora Matteucci, infatti, si prostituisce in casa, e non sarebbe facile farlo con un bambino così piccolo, appena nato. Andrea vive a Foggia, dalla zia Lina, tranquillo e felice, fino a 5 anni. Poi arriva una signora che non ha mai visto e che vuole prenderlo e portarlo con sé. Dice di essere sua madre, ma come? Non è Lina sua mamma? Così Andrea segue la signora fino ad Aosta, dove però non va a vivere con lei, non ancora. La signora lo mette in un collegio, un istituto religioso, in cui resta anche a dormire, e ci sta finché non ha 9 anni. Poi, passa in un altro collegio, dove finisce di fare le elementari, ma non dorme più lì dentro, torna a casa tutti i giorni, anche se non gli piace. La signora Matteucci, infatti, vive con un uomo collerico e violento. E anche lei è strana. Intanto lo tratta male, è brusca e sprezzante nei suoi confronti, lo chiama «coniglio» e «cagone», e gli dice che è come suo padre, quello che se n’è andato, un uomo da niente, un coniglio, appunto, un cagone. Lei no, lei è una donna forte, che mantiene la famiglia facendo «la vita» per portare i soldi a casa. Una donna così forte che si vanta addirittura di aver ucciso due persone. A una avrebbe sparato, in fronte, con una pistola, perché aveva parlato male di lei. Un altro, un cliente, lo avrebbe evirato perché non voleva pagarla. Avrebbe ammazzato anche un cane, il cane di una vicina, l’avrebbe impiccato perché la vicina le stava antipatica. E avrebbe anche provocato la morte della nonna, che secondo Andrea imbottiva di pasticche e prendeva a pugni in testa. Strana anche la nonna, comunque, che beveva l’aceto e aveva allucinazioni in cui vedeva i morti, sia di notte che di giorno. A 13 anni, Andrea ruba una bicicletta. Lo fa assieme a un amico, ma poi ha talmente paura di essere scoperto e portato via dai carabinieri che cambia la bici rubata con quella dell’amico. A casa, però, il patrigno lo vede con quella bicicletta che non gli appartiene, lo riempie di botte e lo porta in giro per il quartiere, dicendo a tutti che è un ladro. Andrea è così umiliato e arrabbiato che prova per la prima volta una sen sazione fortissima e quasi incontenibile. Quella di uccidere. A 14 anni Andrea finisce dentro per quella sciocchezza della rapina alla macelleria. Resta in una comunità fino a 18 anni, poi esce e trova lavoro come meccanico in una officina di Quart, vicino ad Aosta. Ma a casa non ci sta bene. Nella comunità, con

don Luciano e gli altri ragazzi, lì sì che ci stava bene, ma a casa no. La madre continua a dirgli che non guadagna abbastanza, che è un coniglio e un cagone, che lei sì che è una donna forte e lui invece è come quell’inetto e vigliacco di suo padre. Così Andrea esce, una sera, e per dimostrare a se stesso di non essere un coniglio e un cagone decide di ammazzare il primo che incontra. E incontra il signor Domenico. Aosta non è un posto da serial killer. Quasi non è neppure un posto da omicidi, da delitti comuni. La criminalità organizzata c’è ma non si avverte e gli omicidi che comunque avvengono sono pochi e, dopo essere rimasti sulle prime pagine dei giornali, scompaiono e vengono quasi dimenticati. Succede così anche con quello del signor Domenico. Andrea non viene scoperto. Quello che ha fatto non lo ha lasciato indifferente, anzi, lo ha sconvolto, soprattutto quando ha letto sul giornale che l’uomo aveva due figli, tanto che lo sogna parecchie volte, la notte, come un incubo. Giura a se stesso che non l’avrebbe fatto mai più. Una cosa da rimuovere, da dimenticare completamente. Nessuno lo sospetta, nessuno lo cerca, nessuno viene a prenderlo. Caso chiuso. Arriva la cartolina del servizio militare e Andrea parte. Vuole farsi mandare più lontano che può da casa sua e allora fa domanda per entrare nei paracadutisti. Viene preso e va a Livorno, dove si fa tutto l’anno di ferma senza problemi, come barelliere, fino a congedarsi col grado di caporalmaggiore. Fare il militare gli piace, tanto che al momento del congedo pensa addirittura di firmare per la ferma prolungata e rimanere in servizio. Esita, ci pensa, lascia perdere, parte, poi ci ripensa, torna indietro per firmare, ma ormai è troppo tardi, si è congedato. Per rientrare dovrebbe seguire una trafila molto più lunga e complicata, ma Andrea non se la sente e non lo fa. A casa, ad Aosta, Andrea conosce una ragazza a una festa. E’ un amico a presentargliela e Andrea comincia a frequentarla finché, nel 1983, non la sposa. Vanno a vivere prima a Saint-Pierre, poi a Sarre, un paesino vicinissimo ad Aosta e molto vicino anche alla casa della madre di Andrea, e alla fine a Villeneuve, dove Andrea trova lavoro come commesso in un negozio di alimentari. Nel 1987 gli nasce anche un figlio. Una moglie, un figlio, un lavoro, sembra una vita normale, e sembra quasi che Andrea abbia completamente dimenticato quel delitto compiuto tanti anni prima, come se fosse stato commesso da un’altra persona, in un’altra dimensione. Poi, le cose cominciano a cambiare. Andrea lascia il lavoro come commesso e si mette a fare lo scalpellino, prima sotto padrone e poi in proprio, in un laboratorio che apre ad Arvier, un paese vicino. Ma il lavoro non va bene, e non vanno bene neanche i rapporti di Andrea con la moglie. Non fanno più l’amore, litigano e ci si mettono di mezzo anche i suoceri, che danno sempre ragione alla figlia. Ogni tanto, uno dei due lascia l’altro e abbandona la casa, per poi tornare e ricominciare da capo. Ma non funziona. Una sera, è il 1992, Andrea esce di casa con una pistola in tasca. Ha litigato di nuovo con la moglie, è un periodo che litigano sempre, tutti i giorni, e lui è molto stressato. Vede tutto nero. Così esce a cercare una prostituta con cui andare a sfogarsi. È da un pezzo che fa così, che non ha più rapporti con la moglie e cerca le prostitute che battono in zona. Però questa volta ha preso con sé un’arma, una specie di pistola che spara un pallettone e serve a uccidere le mucche, una cosa che Andrea ha comprato in

uno dei tanti momenti in cui pensava di cambiare lavoro, mettere su un allevamento, per esempio. Andrea sta passando da Brissone a bordo del suo furgoncino quando vede una ragazza che gli piace. È una biondina con gli occhiali, in minigonna, che si chiama Daniela. Andrea si ferma e la ragazza accetta di salire con lui. Si appartano e cominciano a fare l’amore, ma Andrea è troppo arrabbiato e la cosa non funziona. Daniela, poi, non è molto gentile, gli mette fretta, e quando capisce che sta solo perdendo tempo insiste perché lui la riaccompagni dove l’ha trovata. Andrea vorrebbe parlare, ma Daniela no, sta lavorando, ha fretta e vuole tornare al suo posto sulla strada. Andrea obbedisce, scarica Daniela, ma continua a pensarci. Pensa che le prostitute sono tutte uguali, che sono volgari, che ricattano e umiliano la gente. Come la madre. Allora torna indietro e chiede a Daniela di riprovarci con lui. La carica in macchina e le fa una strana domanda. Le chiede se ha dei figli. Daniela dice di no e allora Andrea le punta la pistola alla nuca e le spara. Ma Daniela non muore, è solo ferita, è terrorizzata, e vuole che Andrea la porti all’ospedale. Andrea dice che lo farà, la porta in un altro posto, fuori mano, finge di aiutarla a uscire dalla macchina e invece le spara un’altra volta alla testa. Daniela muore sul colpo. Andrea la porta fino ad Arvier, vicino al suo laboratorio da scalpellino, scava una buca e la seppellisce. Prima però le porta via i gioielli, con l’intenzione di regalarli alla moglie. La rabbia, infatti, gli è passata. Sente dentro di sé la sensazione piacevole di aver fatto pulizia di una persona indegna. Però ci pensa, a quello che ha fatto, continua a pensarci per un mese, e poi torna ad Arvier, una notte. Disseppellisce il corpo di Daniela, lo fa a pezzi con un coltello, lo mette in un bidone e gli dà fuoco. Ma il fuoco non prende, così Andrea buca la lamiera del bidone perché l’aerazione faciliti la combustione. Otto ore, e di Daniela non resta altro che cenere, che Andrea disperde in una discarica. In aprile Andrea si separa dalla moglie. Separazione consensuale, con il figlio, che ha 5 anni, che rimane con la madre. Andrea si trova un altro appartamento, sempre a Villeneuve, e va a vivere da solo. E’ allora che incontra di nuovo suo padre, quello vero, quello che non aveva mai conosciuto perché se n’era andato subito dopo la sua nascita. Il signor Matteucci dice che stava cercando Andrea da trent’anni, che aveva avuto dei guai con la giustizia, ma che adesso aveva pagato e voleva ricominciare assieme a lui. Ha un lavoro, in Puglia, e vuole che Andrea vada giù con lui, a Terlizzi, in provincia di Bari, per aiutarlo. Andrea accetta, chiude il laboratorio da scalpellino e va in Puglia, ma quando arriva ha una sorpresa. Il lavoro che il padre gli ha promesso non è proprio un lavoro. Neanche quello del padre è proprio un lavoro. Il signor Matteucci ha un magazzino in cui ricetta camion rubati, che svuota del carico e poi smonta per riciclarli sul mercato. Ad Andrea quel lavoro non piace. Vorrebbe tornarsene indietro e lasciar perdere, ma il signor Matteucci l’ha incastrato, si è fatto dare tutti i risparmi di Andrea e adesso lui è senza un soldo. E poi c’è Anna Maria. Il signor Matteucci ha una convivente e questa ha una figlia che si chiama Anna Maria. Andrea la conosce, Anna Maria gli piace e i due si mettono assieme. Così,

pressato dalle esigenze economiche e dai legami sentimentali, Andrea accetta. Ruberà camioncini e furgoni ad Aosta e li porterà giù, fino in Puglia, nel deposito del padre. Ma Andrea non è felice. Il lavoro non gli piace e anche con Anna Maria, con cui convive ad Aosta, le cose non vanno bene. Di nuovo si mette in mezzo la suocera, questa volta la convivente del padre, che vuole che Anna Maria torni a Terlizzi, perché Andrea è un buono a nulla che non guadagna abbastanza soldi e le fa mancare tutto. Andrea fa avanti e indietro tra Villeneuve e Terlizzi, ruba camioncini per il padre, litiga con Anna Maria, litiga con la suocera e non è felice. Agosto 1994. Andrea è a casa sua, a Villeneuve, e si sente disperato. Allora esce di casa con la pistola in tasca. Vuole andare con una prostituta, come di nuovo succede spesso, ma non è proprio sesso quello che vuole. Vuole vedere se è gentile con lui o se gli fa «girare le scatole» come fanno Anna Maria e la suocera. Se ne va in giro a bordo di un Ape Piaggio, quando sulla strada che da Villeneuve va a Chambave vede una ragazza di colore che gli piace. Si chiama Clara, batte sulla statale 26 e accetta di salire con lui. Ma non è gentile, non abbastanza, gli mette fretta, gli mette anche soggezione. Hanno un rapporto sessuale completo, col preservativo, ma Andrea non è soddisfatto, vorrebbe parlare ma Clara ha fretta. Litigano, lei comincia a urlare, a dire parolacce, e allora lui la colpisce al volto con un pugno. Poi tira fuori la pistola e le spara. Un colpo alla testa e poi subito un altro, per essere sicuro, questa volta, che sia morta. Aspetta un’ora e dopo, come se fosse obbligato da qualcosa che non capisce, ha un altro rapporto sessuale con il corpo della ragazza. Torna a casa con il suo Ape e trascina Clara in cucina. Prende un coltello e le taglia la testa. Le taglia anche le gambe e le braccia, porta tutto ad Arvier, lo butta in un bidone, lo stesso usato due anni prima, e gli dà fuoco. Questa volta ha aperto una specie di finestrella nella lamiera, e ha usato soltanto legna. Cinque, sei ore al massimo e anche Clara finisce in cenere. Andrea tiene le ceneri a casa, nascoste, per una notte, poi va sulla Dora e dal ponte di Villeneuve le disperde sull’acqua del fiume. 1980, un omosessuale conosciuto sotto l’Arco d’Augusto. 1992, una prostituta che batteva a Brissone. 1994, una prostituta che batteva sulla statale, a Chambave. Andrea ha ucciso già tre volte. È un serial killer. I periodi di crisi cominciano a farsi più frequenti. Dodici anni tra il primo e il secondo omicidio, due anni tra il secondo e il terzo. Adesso un mese. Il 10 settembre 1994, Andrea sta percorrendo la statale con la sua Fiat Uno. È a caccia, questa volta. Vede una prostituta di colore all’altezza di Nus, un altro paese dei dintorni. La convince a salire e anche a seguirlo fino a casa, a Villeneuve. Lucy si chiama la ragazza, e con lei Andrea ha un rapporto sessuale completo. Poi, di nuovo in macchina, per tornare a Nus, dove Lucy si piazzerà al suo posto sulla statale ad aspettare il prossimo cliente. E invece l’auto di Andrea non va a Nus, va ad Arvier, nel solito piazzale davanti al suo vecchio laboratorio da scalpellino, dove c’è il bidone. Lucy è sorpresa, anche spaventata, cosa vuole fare quel cliente che all’improvviso è diventato così strano? Vuole ucciderla. Ma non con la pistola, questa volta, cerca di soffocarla con un cuscino che ha in macchina, ma non ci riesce, perché Lucy è forte e

si divincola, e allora lui prova a rifarlo con uno straccio. Niente da fare, Lucy si libera, riesce ad aprire la macchina e scappa. Non passa molto tempo, otto mesi. Intanto Andrea si è messo con un’altra ragazza che ha conosciuto, Anna. Ma non basta: anche se va ancora tutto bene, non serve. Il 12 maggio 1995 Andrea passa per la strada che va ad Arnaud con un furgone. È pomeriggio, anche abbastanza presto, e c’è ancora luce, ma le prostitute che battono sulla statale ci sono già. Andrea ne vede una che gli piace. Non è una ragazza di colore, è un’albanese che si chiama Albana, e quando Andrea si ferma per contrattare cosa e a quanto, lei accetta e accetta anche di seguirlo in una stradina isolata, dove hanno un rapporto sessuale, nel furgone. Tutto bene, tutto a posto, Andrea paga e la riporta sul luogo di lavoro. Ma poco dopo, attorno alle 18, Andrea torna. Dice ad Albana che gli è simpatica, che si è trovato bene con lei e che vorrebbe avere un altro rapporto. Albana sale di nuovo sul furgone e di nuovo si appartano, ma questa volta Andrea vuole qualcos’altro, vuole parlare, vuole qualcosa che Albana non capisce. Lei comincia ad avere fretta, comincia ad arrabbiarsi, vuole essere riportata indietro, ma Andrea non vuole farlo, allora lei comincia a urlare e lui le tira uno schiaffo. La spinge fuori dal furgone e la colpisce alla testa con una chiave inglese. Albana cerca di difendersi, ma non ci riesce. Andrea prende un coltello da dentro alla macchina, la colpisce quattro o cinque volte e le taglia la gola. Poi la rimette nel furgone. Torna indietro, ma si accorge di non avere molta benzina e si ferma a fare il pieno a un distributore, col corpo di Albana in macchina. Appena si fa buio va a casa a Villeneuve, e trascina Albana in uno stanzino. Aspetta, aspetta sette ore, poi, spinto da qualcosa che non sa controllare, ha un rapporto sessuale col corpo della ragazza. Col preservativo, come con Clara. Intanto si è fatto tardi. Andrea deve portare un camion rubato giù a Terlizzi, e così, quella notte stessa, parte e va in Puglia. Torna il 17 maggio, cinque giorni dopo, e Albana è sempre lì, nello stanzino. Bisogna disfarsene, così Andrea prende il solito coltello, la taglia a pezzi, la mette in sacchetti di plastica e la porta ad Arvier, al solito bidone, dove butta anche gli stracci che ha usato per pulire lo stanzino. Questa volta ci vuole anche meno che con le altre, quattro, cinque ore al massimo, e anche Albana è in cenere e finisce nella Dora. Di lei restano solo due catenine d’oro, che Andrea tiene per regalarle ad Anna, la ragazza con cui si è fidanzato da poco. Passa poco più di un mese, ma questa volta Andrea non uccide. Perché viene arrestato. Qualcuno lo ha visto caricare Albana. I carabinieri rintracciano il suo furgone e ci trovano sopra tracce di sangue della ragazza. Il 26 giugno 1995, Andrea Matteucci finisce in camera di sicurezza. All’inizio cerca di difendersi. Non l’ha mai vista quella donna, ma i carabinieri lo tengono sotto pressione per tutta la notte e allora dice che sì, è vero, ha visto Albana la sera in cui è scomparsa, ma non ci ha fatto niente, non l’ha neanche fatta salire sul furgone. È stata lei che ci si è appoggiata e l’ha sporcato di sangue perché era stata picchiata da un cliente precedente. Non regge.

I carabinieri lo interrogano di nuovo il giorno dopo, a mezzogiorno, lo tengono ancora sotto pressione e lui ammette che sì, è responsabile della morte di Albana, ma involontariamente. Le ha dato una spinta e lei ha battuto la testa. Non regge neanche quello. Dalle contraddizioni di Andrea e da un confronto con casi precedenti salta fuori un aggancio con un vecchio omicidio avvenuto negli anni Ottanta, l’omicidio di un omosessuale di nome Domenico. E saltano fuori anche altri due omicidi, avvenuti nel ‘92 e nel ‘94, due prostitute, Zago Daniela e Omoregbee Clara. E anche un tentato omicidio solo sette mesi prima, Oman Lucy, un’altra prostituta, che viene interrogata dai carabinieri e conferma tutto. A questo punto Andrea crolla. Ammette tutti e quattro gli omicidi. È un serial killer. La perizia psichiatrica su Andrea Matteucci viene ordinata dal pubblico ministero Pasquale Longarini. A far parte del collegio peritale sono il professor Francesco Bruno, dell’Università La Sapienza di Roma, il professor Anselmo Zanalda, dell’Università di Torino, e il dottor Paolo De Pasquali, psichiatra. Cominciano a esaminare Andrea Matteucci nel luglio del ‘95, nel carcere di Aosta, dove è rinchiuso. Si trovano di fronte un uomo di 33 armi, «ordinato nell’aspetto generale e nell’abbigliamento», che solo al momento dell’arresto era apparso in «stato ansioso con modesta confusione mentale, molto insicuro», ma poi, nonostante sia sottoposto a regime di massima sicurezza, «non ha mai manifestato comportamenti abnormi né antisociali, né ha mai lamentato sintomi psicopatologici specifici». Un uomo sano e tranquillo, alto 180 centimetri, peso 86 chili, polso 76, pressione 60-180, negativo al test HIV. Disponibile e collaborativo nei confronti degli esaminatori, «adeguato e sintonico, non diffidente né ossequioso». Andrea parla volentieri e racconta tutto quello che ricorda. Non subito, aggiunge dettagli a ogni colloquio, soprattutto quando si tratta di descrivere momenti molto scabrosi, come il depezzamento dei corpi o gli atti sessuali con le ragazze morte. Lì si confonde, nasconde particolari, si mostra ansioso e dopo anche sconvolto, ma alla fine racconta tutto. Quando parla di quello che ha fatto e della sua vita, mostra sentimenti contrastanti. «Mostra rancore parlando della madre e del patrigno,» scrivono i periti «mentre è sprezzante nel riferire delle vittime, che considera prive di dignità e di comprensione umana: nel ricordare le fasi degli omicidi diviene freddo e duro, senza tradire sentimenti di rimorso o colpa, a eccezione di quelli rivolti agli eventuali figli delle vittime o verso le eventuali sofferenze inferte alle vittime stesse.» Quando parla della madre, Andrea dice tante cose, vere o false che siano. Cose molto strane e molto interessanti. «Lei mi diceva che aveva fatto il patto di sangue con Satanik, che le parlava con la coda, le zampe; io tra me e me le rispondevo mentalmente che avevo fatto il patto con Dio e tutte le persone come lei le avrei tirate e gettate via come erbacce», e mentre lo dice, mima il gesto di strappare l’erba. Anche quando parla del motivo per cui ha commesso gli omicidi, Andrea dice cose interessanti. Ha ucciso il signor Domenico per una prova di coraggio. In quel periodo si sentiva «sempre pauroso, avevo paura di stare da solo, fino a poco tempo fa; avevo paura che qualcuno mi prendesse la notte, e dovevo dormire supino». A uccidere

qualcuno ci pensava già da due o tre anni, anche se la sua coscienza gli diceva che era una cosa che non si doveva fare. E quando ricorda l’episodio, dicono i periti, Andrea «gesticola ripetendo i movimenti compiuti in quella circostanza. Appare freddo, poco emozionato, piuttosto distaccato nei confronti della vittima. Si sofferma più sulle difficoltà pratiche dell’uccisione che sulla figura della vittima, che sembra considerare alla stregua di un sacco per l’allenamento dei pugili». E dopo aver ucciso Daniela, Andrea dice di aver sentito «il piacere di aver fatto pulizia di una persona indegna. Se avesse avuto dei figli non l’avrei fatto, ma quelle che ho ucciso non ne avevano. Anzi, l’ho fatto per non permettergli di avere dei figli». Per quanto riguarda Clara, notano i periti, «il racconto è freddo, trapela una partecipazione emotiva improntata alla rabbia, al risentimento, come nel precedente delitto». E per Albana, «pure in questo caso il racconto si sviluppa in modo sintetico, secco, con scarsa partecipazione emotiva. Non mostra rimorso per quello che ha fatto, non appare afflitto da sensi di colpa». E quando parla degli atti sessuali avuti con le ragazze uccise, «egli assicura che avvennero per vie naturali e con l’uso del preservativo. Sottolinea come il rapporto fosse un atto dovuto, quasi un bisogno di spregio». Il professor Bruno, il professor Zanalda e il dottor De Pasquali incontrano Andrea cinque volte, tra l’agosto e il settembre del 1995. Al termine dei colloqui, «quando questi si è congedato da noi dalla sua mimica facciale trapelava una notevole apprensione: era evidente in lui la speranza di essere riuscito a fornire una buona impressione, cosa del resto comprensibile in considerazione della sua attuale posizione giuridica, della quale il periziando si rende perfettamente conto». Andrea lo sa che il suo futuro è nelle mani dei periti. È il secondo punto indicato dal pm Longarini nella richiesta di perizia psichiatrica. Sapere se «Matteucci Andrea al momento dei fatti di cui sopra fosse o meno, per malattia o altra infermità, in tale stato di mente da escludere o da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e volere e dunque se i disturbi psichici abbiano inciso sulla capacità del soggetto di comprendere il significato del comportamento delinquenziale posto in essere secondo schemi abituali di pensiero e di autodeterminarsi e in quale misura relativamente agli articoli 88 e 89 codice penale». Andrea è accusato di quattro omicidi compiuti con particolare efferatezza. Se viene considerato in grado di intendere e di volere e pienamente responsabile rischia quattro ergastoli. Se no, articoli 88 e 89, la sua posizione cambia. Per i periti, «si può escludere che il periziando sia affetto di cerebropatie o deficit intellettivi… Si può altresì escludere che egli sia affetto da infermità nosograficamente qualificabili come psicosi, in quanto, per ciò che è a nostra conoscenza, nel corso della vita egli ha sempre mantenuto un contatto con la realtà ed una capacità di rapportarsi agli altri, senza aver presentato deliri o allucinazioni, al punto da essere in grado di conservare un’attività lavorativa». Questo, però, non significa che Andrea sia a posto. «Va detto però, in positivo, che il Matteucci non è scevro da disturbi psicopatologici, poiché si sono evidenziati sintomi circoscrivibili nei seguenti ambiti: disturbo depressivo non altrimenti specificato; disturbo del controllo degli impulsi; disturbo dell’identificazione psico-sessuale; disturbo di personalità misto con manifestazioni schizoidi, dipendente e ossessivo-com-

pulsiva; perversione sessuale (necrofilia e necromania)». Non solo, «il periziando ha sempre dichiarato di bruciare i cadaveri allo scopo di farne perdere le tracce. Tuttavia, il prolungato ricorso al fuoco e la soddisfazione provata nell’incendiare i cadaveri lasciano pensare che nel soggetto si riscontri un certo grado di pirofilia, se non di vera e propria piromania». Insomma, dicono i periti, «emerge dal colloquio una personalità molto fragile, segnata da evidenti frustrazioni psicoaffettive, priva di identificazioni positive, dalla scarsa identità psicosessuale, con tratti ossessivo-compulsivi, dominata da talune perversioni sessuali e, in taluni frangenti di stress psicofisico, dall’incapacità di controllare gli impulsi». Ma allora, Andrea, quando ha ucciso, era in grado o no di intendere e di volere? «Il Matteucci al momento dei fatti di cui sopra era, per tali disturbi psicopatologici, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la sua capacità di volere, ossia di liberamente autodeterminarsi (art. 89 codice penale), preservandosi integra la capacità di intendere.» Parzialmente in grado di volere, quindi. Non è finita. «Tali disturbi psichici persistono al momento dell’indagine peritale ed è verosimile che, al di fuori di uno specifico trattamento psicofarmacologico e terapeutico, essi continueranno a persistere per tempo indeterminato.» Andrea dev’essere ricoverato e curato in una struttura psichiatrica. Non solo. «Il Matteucci è da considerarsi persona socialmente pericolosa.» Il 16 aprile 1996, la corte d’assise d’Aosta dichiara Andrea colpevole dell’omicidio di Albana e del tentato omicidio di Lucy. Per quanto riguarda Clara e il signor Domenico, l’assassino è sicuramente lui, ma non esistono prove che lo stabiliscano, a parte la sua confessione, e viste le sue condizioni mentali l’avvocato Ada Lizzio, che difende Andrea, ha buon gioco a far accettare un ragionevole dubbio. Solo un omicidio quindi, quello di Albana, per cui Andrea viene condannato a ventiquattro anni di carcere. Al processo d’appello un colpo di scena: Andrea Matteucci viene riconosciuto colpevole di tutti e quattro gli omicidi. Confermato il vizio parziale di mente, la nuova sentenza lo condanna a trent’anni di carcere La storia di Edmund Kemper In cantina c’è il Diavolo. Sta dentro un’enorme caldaia che ruggisce e vomita fuoco dallo sportellino di metallo rovente, un mostro ansimante incastrato nell’angolo della cantina, che all’improvviso si accende e illumina il buio, tingendolo di rosso. Lì dentro, in quella tana infernale, c’è il Diavolo, pronto a uscire, e poco lontano, seduto sul letto, con le braccia allacciate attorno alle ginocchia, c’è lui, il piccolo Ed. Ed ha 12 anni e anche se è molto grande per la sua età è ancora soltanto un bambino. Sua madre l’ha mandato a letto senza cena, per punizione, e l’ha chiuso in cantina, dove Ed dorme di solito, perché ha due sorelle che hanno una camera al piano di sopra ma non sta bene che lui dorma con loro, adesso che sta crescendo. Ha le idee chiare su come si deve tirare su un ragazzo, sua madre, con rigore e disciplina, e anche con un sacco di botte, quando serve. Urla, sua madre, con quella voce tonante, lo picchia con la cintura, e con forza, anche, perché è un donnone grande e grosso, uno e

ottanta di altezza per novantacinque chili di peso. Lo picchia e poi giù di sotto, in cantina. Col Diavolo. Anche Ed è grande e grosso. È cresciuto in fretta, troppo in fretta per la sua età, e ha un corpo quasi da adulto, ancora disarmonico per le fasi dello sviluppo. Sua madre e le sue sorelle lo prendono in giro, per questo. Anche i compagni di scuola lo prendono in giro. Di amici, praticamente, non ne ha nessuno, anche se è in gamba, Ed, e anche molto intelligente, perché ha un quoziente di oltre 140, una cosa che negli Stati Uniti possiede non più del 2% della popolazione. Ma è timido, Ed, non parla molto e si vergogna sempre, come quando va da qualche parte, in paese, entra in una stanza e lo guardano tutti, perché non hanno mai visto un ragazzino così alto e così grosso. Se ci fosse suo padre sarebbe diverso, ma suo padre non c’è, se n’è andato di casa. Lui e sua madre si sono separati quando il figlio aveva 9 anni, dopo una vita di litigate e sfuriate violente che facevano piangere Ed, chiuso in camera sua, a sentirli urlare da dietro la parete. Poi il padre se n’è andato, loro si sono trasferiti dalla California a Helena, nel Montana, e la madre ha cercato altri uomini, tutti molto buoni e gentili con lui, ma che a lui non piacevano, perché non erano suo padre. Adesso sua madre non ne vuole neanche sentir parlare del suo ex marito, e quando capita, quando Ed le fa qualche domanda, lei lo aggredisce insultandoli tutti e due. Si chiama Edmund Emil Kemper Jr, suo padre, come suo nonno, che si chiama Edmund Emil Kemper Sr, e come lui, che si chiama Edmund Emil Kemper III, ma che si è sempre fatto chiamare Ed. Ed non ha amici, non ha una ragazzina, gioca con le sorelle, una più piccola e una più grande di lui di cinque anni. Fanno un gioco strano, lui immagina di essere un condannato alla sedia elettrica, si fa legare su una poltrona e mima un’esecuzione, poi tocca alle sorelline. Ma non gli piacciono, le sue sorelle, perché sua madre va d’accordo solo con loro, perché sono due donne come lei, mentre i maschi come lui, come suo padre o come gli altri uomini con cui si mette, quelli si diverte a umiliarli e a trattarli male. Basta che la sua sorella piccola faccia un guaio e dia la colpa a lui che su bito sua madre le crede e lo manda giù in cantina. Col Diavolo. È il 1972. Sono passati tredici anni. La signora Kemper si è risposata, ha divorziato di nuovo e si è trasferita in un appartamentino di due stanze a Santa Cruz, in California, dove ha trovato lavoro come responsabile amministrativa nel campus della locale Università. Si è portata dietro Ed, che adesso ha 25 anni ed è sempre più grande e più grosso, un ragazzone di più di due metri e 160 chili, con due enormi baffoni neri, come si portavano allora, negli anni Settanta. Ed lavora come operaio nel Dipartimento ponti e strade della California, vive in un appartamento da solo e sembra abbastanza tranquillo, nonostante i rapporti con la signora Kemper siano sempre gli stessi, con lei che lo comanda a bacchetta, che lo sgrida e lo umilia, anche se almeno adesso non lo chiude più in cantina. Ed è un bravo ragazzo, gentile, sensibile, conosciuto da tutti, in città e anche al campus, perché ci lavora la madre. Non ha molti amici, ha avuto solo un paio di ragazze e quando esce, la sera, va al Jury Room, un bar frequentato soprattutto da poliziotti, che lo conoscono bene anche loro. Beve un po’ ed è spesso ubriaco, ma non ha

mai combinato guai e non ha mai fatto male a nessuno. Lo chiamano Big Ed, ed è talmente a posto, il ragazzo, che il capo della squadra mobile del Dipartimento di polizia di Santa Cruz gli permette di uscire con la figlia e lo invita spesso a cena. A parte andare a cena dallo sceriffo, uscire ogni tanto con sua figlia e frequentare gli altri poliziotti al Jury Room, il divertimento preferito di Ed è andarsene in giro con la macchina nei dintorni del campus. Ha una macchina particolare, Ed, che si è comprato con i soldi dell’assicurazione dopo un incidente in moto. È una grossa auto che potrebbe sembrare una macchina della polizia, e l’ha anche equipaggiata con radiotrasmittente, microfono e antenna. Non ci va soltanto in giro ad ammirare il panorama della California con quella macchina, ci carica le autostoppiste. Tante, tantissime, anche quattrocento in due anni. Attenzione, però, non autostoppiste qualunque, sarebbe facile, ce ne sono un sacco in giro, soprattutto hippie che chiedono passaggi in quegli anni, gli anni Settanta. Ed le sceglie con attenzione, in base a una serie di caratteristiche che ha annotato su un foglio, imparando a riconoscere subito a occhio le persone giuste, o, al limite, chiedendo direttamente informazioni. Intanto devono essere donne, e giovani. Devono essere carine, pulite e ben vestite. Devono essere ricche e di buona famiglia. Una specie di Barbie, insomma, il modello della perfetta studentessa californiana tipo reginetta del ballo della scuola. Come Mary Ann Pesce e Anita Luchese, due studentesse dello State College di Fresno che stanno andando a vedere l’Università di Stanford dopo un paio di giorni trascorsi a quella di Berkeley. Sul momento, vedendo quel ragazzone così grosso, non vogliono salire, ma poi si lasciano convincere dalla sua aria tranquilla e gentile. Sembra anche che abbia fretta, perché guarda l’orologio. Uno così, uno che deve andare anche lui di corsa in qualche posto, non può essere un malintenzionato. Adesso Ed sembra tranquillo, ma una volta non era così. Quando era bambino e lo chiudevano in cantina, Ed era un ragazzo «difficile», un caratteriale. Intanto non ci stava bene a Helena, una cittadina di ventimila abitanti tra i boschi del Montana, lo stato delle Montagne Rocciose, dove d’inverno fa molto freddo e d’estate fa caldissimo. Preferiva la California, in cui era nato. Poi andava male a scuola, non legava con i compagni e non riusciva a fare amicizia. Aveva quella maledetta abitudine di fissare la gente, e cominciava a fare paura, così grande e grosso. E inoltre litigava con le sorelle e aveva i soliti problemi con la madre. Dire che fosse un ragazzo caratteriale, forse, è dire poco. Ed ha strane fantasie. Pensa continuamente alla morte, immagina scene di violenza e questo gli piace. Violenza sugli altri, sui compagni di classe, sulle sorelle, sugli uomini che stanno con sua madre, ma anche violenza su se stesso. Di notte esce di casa e vaga per la cittadina, spiando le altre famiglie dalle finestre. Poi si stende per terra, in mezzo alla strada, rischiando di essere investito, e quando gli automobilisti si fermano e scendono a vedere cos’è successo lui scappa via. Un giorno litiga con la sorella e per ripicca le prende la Barbie e le taglia le mani e la testa. Questa cosa della decapitazione, soprattutto, lo ossessiona. Fin da quando ha visto un prestigiatore in un negozio, che ha chiamato dal pubblico una ragazza e ha finto di decapitarla con un trucco. Ed ha provato un piacere così intenso da perdere quasi i sensi.

Il primo essere vivente con cui si sfoga è il gatto di casa. Ed lo prende, lo sotterra ancora vivo, poi lo tira fuori, gli taglia la testa e se la porta giù, in cantina, come un trofeo. La famiglia si procura un altro gatto e lui uccide anche quello, facendolo a pezzi con un grosso coltello e tagliandogli la parte superiore del cranio per scoprirne il cervello. I rapporti con la madre diventano sempre più tesi, così la signora Kemper decide di allontanarlo e di mandarlo a casa del padre, in California. All’inizio, a Los Angeles, assieme a Edmund Emil Kemper Jr, Edmund Emil Kemper III torna un ragazzo tranquillo, ma non dura molto. Non sopporta la moglie di suo padre e il fratellastro, così anche il signor Kemper decide di allontanarlo e spedisce Ed dai nonni, in una fattoria di diciassette acri a North Fork, sempre in California. Là, con la nonna Maude e il nonno Edmund Emil Kemper Sr, il giovane Edmund Emil Kemper III starà finalmente tranquillo. È il 1963, sono le vacanze di Natale, e Ed non ha ancora 16 anni. Sembra che funzioni. Ed resta là e comincia a frequentare il liceo di una città vicina, dove non va male, anzi, fa molti progressi. I suoi insegnanti lo trovano calmo, coscienzioso, così tranquillo che ci si dimentica addirittura di lui. In realtà si sfoga in un altro modo. Appena ha un momento libero esce nei campi attorno alla fattoria con una carabina calibro 22 e spara a tutto quello che si muove. Ammazza uccellini, conigli, anatre, qualunque cosa. A sua nonna non piace. È un po’ come sua madre, nonna Maude, dura e volitiva, il vero uomo di casa. Litiga spesso con Ed, che sposta su di lei le sue fantasie omicide. Nonna Maude deve immaginarlo, perché ha paura di quel ragazzone grosso, tanto che va a nascondere la 45 del marito, perché non si sa mai. Poi, un giorno, succede. È il 27 agosto 1964, Ed sta passando davanti alla porta di dietro, quella che dà sulla cucina, e vede nonna Maude seduta al tavolo, di schiena. Punta il fucile e le spara, tre volte. Quindi entra in casa, avvolge la testa della nonna in una tovaglia e la trascina nella camera da letto. Aspetta che arrivi Edmund Emil Kemper Sr, che è stato a fare compere in città, attende che abbia cominciato a scaricare la spesa dal camioncino e gli spara un colpo di fucile alla nuca. A questo punto, non sa più cosa fare. Si rende conto di quello che ha commesso, si rende conto che gli è piaciuto e questo lo spaventa. Chiama sua madre, nel Montana, per raccontarle tutto e sua madre gli ordina di mettere giù il telefono e di chiamare subito lo sceriffo. Ed confessa subito, anzi, dice che ad ammazzare la nonna ci aveva pensato spesso. Il nonno no, quello lo ha fatto soltanto perché ormai aveva già ucciso la nonna. Ed viene richiuso in un carcere minorile in attesa che uno psichiatra lo esamini e decida cosa si deve fare di lui. Lo psichiatra lo dichiara paranoico e psicopatico e quindi non perseguibile per quello che ha commesso. Così, il 6 dicembre 1964, Ed fa il suo ingresso nel manicomio criminale di Atascadero. Ci resta cinque anni. Entra che ne ha 16 e ne esce che ne ha 21, quando il tribunale dei minori giudica che possa essere rilasciato sulla parola. Ad Atascadero, infatti, Ed è stato un paziente modello. Ha collaborato con gli psichiatri, si è sottoposto a tutti i test e a tutte le terapie, si è trovato un lavoro come inserviente nel laboratorio di psi cologia. Si è anche avvicinato alla religione e ha cominciato a studiare la Bibbia.

A qualcuno viene il dubbio che finga. A differenza di quanto succedeva a scuola, Ed lega con gli altri detenuti, molti dei quali sono psicopatici stupratori, che gli raccontano le loro storie e come fanno a scegliere e ad avvicinare le vittime. Le fantasie di violenza tornano e in un posto come Atascadero sembrano pensieri normali, cose di tutti i giorni. Ma Ed non le racconta a nessuno. Il 30 giugno 1969 Ed viene rimesso in libertà per tre mesi, sotto la supervisione del tribunale, e si iscrive al college di Atascadero, con l’intenzione precisa di diventare un poliziotto, perché quello che si vede attorno, tutti quegli hippie e quei capelloni, non gli piace. Lui è un uomo d’ordine. Ma nel modulo per la domanda ci sono i limiti di altezza, che comprendono anche un massimale. Ed non può fare il poliziotto perché è troppo alto. Gli studi però vanno bene, il tribunale si convince che il ragazzo è cambiato e su indicazione degli psichiatri dell’ospedale lo affida a sua madre, a Santa Cruz, con la fedina penale pulita, perché al momento degli omicidi non era perseguibile. 7 maggio 1972. Mary Ann e Anita sono esattamente il tipo della perfetta studentessa californiana. Al loro paese saranno state sicuramente le reginette del ballo di qualche scuola. Due Barbie altezzose, sofisticate e sfottenti, esattamente il tipo di ragazza che sua madre gli ha detto che lui non potrà mai frequentare. Non lo vorrebbero un tipo come lui. Lo rifiuterebbero, come lo ha sempre rifiutato sua madre. Un po’, quelle due Barbie e sua madre, in un certo senso, si assomigliano. Vogliono andare a Stanford, ma Ed non le porta là. Gira un po’ nei dintorni con la sua macchina che sembra un’auto della polizia, poi si dirige verso un’area disabitata, fuori città. Le ragazze non fanno in tempo ad accorgersene e, del resto, non potrebbero più farci niente. Ed ha fatto una modifica alle serrature delle portiere, un congegno che ha inventato lui e che dal suo posto, con un pulsante vicino al volante, riesce a bloccare tutte le sicure dell’auto, imprigionando le ragazze con lui. Ma soprattutto ha un coltello sotto al sedile, che tira fuori e punta sulle due piccole Barbie. Ed fa scendere Anita e la chiude dentro il baule. Mary Ann invece la ammanetta e la fa stendere a faccia in giù sul sedile di dietro. È la prima volta che fa certe cose, e non sa neanche lui bene come comportarsi. Le infila un sacchetto di nylon sulla testa e cerca di strangolarla con un nastro di stoffa, ma non ci riesce, perché lei si divincola troppo e il nastro si rompe. Allora Ed prende il coltello e la colpisce sulla schiena, una, due, tre volte, ma Mary Ann non muore ancora, lotta, si muove, cerca di alzarsi e urla. Allora Ed le taglia la gola, da un orecchio all’altro. Uscito dall’auto tira fuori Anita dal baule. È coperto del sangue di Mary Ann e quando Anita lo vede cerca di scappare, ma lui l’afferra e la colpisce col coltello, al fianco, finché lei non cade a terra. È fatta. Ma Ed è confuso e non sa esattamente cosa fare. Gira per un po’ nei dintorni, con i corpi delle due ragazze in macchina e se qualcuno, qualche pattuglia della polizia, avesse l’idea di fermarlo, sarebbe davvero nei guai, ma non succede. Allora Ed va a casa sua, approfitta di un momento in cui fuori non c’è nessuno e porta le due ragazze nel suo appartamento. Qui le spoglia, le fotografa con una polaroid e le fa a pezzi. Taglia le due teste, che mette su una poltrona, incantandosi a guardarle. Poi le prende, le porta in camera da letto e ha un rapporto sessuale con loro. Così non pos-

sono rifiutarlo. Così può possederle, completamente, gli appartengono, del tutto e per sempre. Il giorno dopo, carica di nuovo i corpi in macchina e va a sotterrarli nei dintorni di Santa Cruz. Le teste, invece, le tiene per un po’, poi le getta in una scarpata. Le famiglie Pesce e Luchese, non avendo più notizie delle figlie, sporgono denuncia alla polizia, che non prende le indagini molto sul serio. Sono gli anni Settanta, siamo in California e succede un sacco di volte che le ragazze di buona famiglia scompaiano per un po’ e poi tornino, magari con un ragazzo hippie. Mary Ann e Anita vengono classificate come persone scomparse, anche se davvero non le cerca nessuno. E in ogni caso, anche se la polizia avesse voluto farlo, non sarebbe andata a cercarle dal buon vecchio Big Ed del Jury Room. Quello che esce addirittura con la figlia dello sceriffo. Ed però non si accontenta della figlia dello sceriffo. Non si accontenta neppure delle foto che ha scattato alle ragazze uccise, che per un po’ gli bastano ma poi non più. Allora prende la macchina ed esce di nuovo. A caccia. 14 settembre 1972. C’è una ragazzina che si è stufata di aspettare l’autobus e sta facendo l’autostop. È una studentessa di danza, ha 15 anni e si chiama Aiko Koo. È una bella ragazza dall’aria pulita, una piccola Barbie dalle fattezze orientali, perché è di origine coreana. Appena sale in macchina, Ed tira fuori il coltello. La porta fuori città, in una zona deserta, sulle montagne e cerca di soffocarla tappandole il naso e la bocca, ma riesce solo a farle perdere conoscenza. Appena rinviene, Aiko comincia a urlare e a divincolarsi, e allora Ed la strangola con il suo foulard. Poi la tira fuori dalla macchina, la stende a terra e la violenta, da morta. Sulla strada per casa, Ed si ferma in un bar per bere un paio di birre, perché tutto quello che è successo gli ha messo una gran sete. Nel parcheggio del locale c’è la sua macchina, col corpo di Aiko nel baule. Dopo il bar, Ed va a cena a casa di sua madre, e ogni tanto esce per andare ad aprire il baule e guardarci dentro. Aspetta che si faccia buio, poi torna a casa sua, porta Aiko nel suo appartamento e la stende sul suo letto, per guardarla, prima di farla a pezzi e andare a sotterrarne il corpo. Tiene soltanto le mani e la testa, per un po’. Il giorno dopo aver ucciso la piccola Barbie coreana, Ed va al colloquio periodico con gli psichiatri, che lo giudicano a posto e non pericoloso, se non per il modo incosciente di guidare la macchina. Nel baule dell’auto parcheggiata davanti all’ospedale, c’è la testa di Aiko. Cominciano a saltare fuori alcuni corpi nell’area della Baia, ma non sono né quelli di Aiko, né quelli di Mary Ann e Anita. Mentre Ed sta precipitando sempre più in fondo al proprio delirio omicida, ci sono almeno altri due serial killer che stanno colpendo in quella zona e in quegli anni. C’è John Frazier, un appassionato di occultismo che si infila in una villa e uccide otto persone in nome della Terza guerra mondiale dichiarata dal Popolo dell’universo libero. E c’è Herbert Mullin, un tossicodipendente sadomasochista, che si aggira attorno a Santa Cruz uccidendo chi incontra quando glielo ordinano «le voci». Saltano fuori corpi e comincia a diffondersi la psicosi del serial killer, ma questo non impedisce ad altre piccole Barbie di fare l’autostop sulle strade della Baia, e di accettare passaggi da un tipo a posto, tranquillo e gentile, come Ed.

Come Cindy Schall, un’altra giovane studentessa, che sale in macchina con Ed il 9 gennaio 1973. Ed non si fida più delle sue mani o del coltello e il giorno prima ha comprato sottobanco una pistola, una piccola automatica calibro 22. La tira fuori appena Cindy si accorge che non la sta portando dove gli ha chiesto ma sulle colline vicino a Watsonville, nei dintorni di Santa Cruz. Ed la fa scendere dall’auto, la fa entrare nel baule e poi le spara con la 22. Va a casa di sua madre, che è fuori per lavoro, la porta in camera di lei e ha un rapporto sessuale con il suo corpo. Poi la fa a pezzi nel la vasca da bagno, stando bene attento a ripulire tutto, perché la madre non si accorga di quello che è successo. Il corpo lo mette in un sacco di plastica e lo getta in mare. La testa la seppellisce nel giardino sul retro, proprio sotto la finestra della signora Kemper. Il corpo di Cindy viene trovato solo ventiquattro ore dopo il delitto. È la prima delle ragazze uccise da Ed che salta fuori, ma nessuno ha ancora distinto quell’omicidio dagli altri che avvengono in quei giorni e, soprattutto, nessuno ha mai pensato a Ed. Le piccole Barbie continuano a salire nella sua macchina. La signora Kemper lavora all’università, Ed è conosciuto da tutti e ha anche un adesivo del campus sulla macchina. Se non ci si può fidare di lui… 5 febbraio 1973. Rosalind Thorpe fa l’autostop addirittura di notte. Ed la incontra mentre sta girando in macchina, furioso per un litigio violentissimo appena avvenuto con la madre, e le offre un passaggio. Perché no? È appena ripartito con l’auto che vede un’altra ragazza che fa l’autostop e allora offre un passaggio anche a lei. Perché no? Rosalind Thorpe e Alice Lin sono due studentesse del campus. Se ne stanno tranquille in macchina con quel ragazzone, una seduta davanti e l’altra dietro, quando Ed fa notare qualcosa a Rosalind, qualcosa che sta sulla strada, fuori dal finestrino. Rosalind si gira a guardare e Ed le spara nella nuca con la sua 22. Poi, senza neanche fermarsi, si gira all’indietro e spara anche ad Alice, che si sta coprendo il volto con le mani. È avvenuto tutto in fretta, ancora per le strade dell’università, con la polizia che gira in pattuglia per il campus e non si è accorta di niente. Ed porta le ragazze fuori città e le infila nel baule. Va a fare benzina in una stazione di servizio e poi va a cena a casa della madre. Dice che deve andare a prendere le sigarette e invece va sul retro, dove ha parcheggiato la macchina, e decapita le due ragazze. Fa in fretta, perché è diventato abilissimo, infila la lama del coltello nella gola e poi, girandolo, stacca la vertebra e taglia. Ma non gli basta. Aspetta che sua madre sia andata a letto, e quindi porta il tronco di Alice in casa e lo violenta sul pavimento della cucina. Poi fa sparire tutto lontano da Santa Cruz, sull’autostrada della Baia. Nessuno pensa a Ed, Big Ed che si ubriaca al Jury Room assieme ai poliziotti. Sa quello che stanno facendo e come proseguono le indagini sugli omicidi perché sono loro stessi a raccontarglielo, rispondendo a tutte le domande di quel ragazzone grosso che avrebbe voluto essere un poliziotto. Ed, intanto, ha cominciato ad accarezzare l’idea di giocare con loro. Fargli arrivare dei messaggi. Fargli degli scherzi, come andare a cena dallo sceriffo, ammazzare lui, sua figlia e tutta la sua famiglia e poi far trovare le loro teste sulla tavola apparecchiata, nei piatti. Oppure, iniziare lo sterminio sistematico di tutti i suoi vicini. Vorrebbe

fare tante cose, Ed, ma ce n’è una che gli interessa davvero. È la cosa che gli stava a cuore fin dall’inizio e di cui comincia a rendersi conto soltanto adesso. Uccidere sua madre. Si sente pronto la notte del Venerdì Santo del 1973. Ci ha pensato tutta la settima na. Quando la madre ritorna a casa, la sera, lui è già ubriaco. Sale in camera sua e la trova a letto, a leggere un libro. Litigano, come al solito, poi Ed torna a letto e aspetta che la madre si sia addormentata. Sono le quattro di notte. Ed prende un martello, torna di sopra in camera della madre e mentre lei sta ancora dormendo le sfonda la testa con un colpo. Poi, con un coltello, le apre la gola. Le taglia la laringe, l’organo che serve ad articolare la voce, e cerca di buttarla nel tritarifiuti del lavandino, ma torna sempre fuori. Allora finisce di decapitare la madre e ne mette la testa sulla mensola del camino, come bersaglio per le freccette, e le urla contro tutto quello che non è mai riuscito a dirle fino a quel momento. Prima, però, ne violenta il corpo. Non gli basta. Non riesce a fermarsi. C’è un’amica della madre, Sara Hallett, che il pomeriggio dopo chiama al telefono. Ed è nell’appartamento e approfitta per invitarla a cena, una cena a sorpresa per festeggiare la madre. Sara arriva puntuale senza sospettare nulla e, appena si siede a tavola, Ed la stordisce con un colpo alla testa e la strangola con il foulard che aveva preso ad Aiko, la ragazza di origine coreana uccisa l’anno prima. Poi la decapita, la spoglia, la porta a letto e la violenta. Quella notte dorme nel letto della madre. La mattina scrive un biglietto sull’uccisione della madre e lo lascia nell’appartamento, in vista. Sabato, ore 5.15. L’orribile macellaio sanguinario non l’ha fatta soffrire. È stato veloce: dormiva. Volevo che fosse così. Non è un lavoro fatto male e incompleto, ragazzi miei! È stata solo mancanza di tempo: ho un mucchio di cose da fare!!!

Poi monta nella macchina di Sara Hallett e parte. È confuso. Ha lasciato una confessione, ma sembra che abbia paura di farsi prendere, perché abbandona la macchina in una stazione di servizio con la scusa di farla riparare e ne affitta un’altra, con la quale guida per diciotto ore di fila, fino in Colorado. Si ferma solo per fare benzina, bersi una soda e farsi dare una multa per eccesso di velocità. Arriva in un paesino che si chiama Pueblo e lì si ferma, stanchissimo. E fa un’altra cosa strana. Prende il telefono, chiama il Dipartimento di polizia di Santa Cruz e confessa i suoi delitti. Non ci crede nessuno. All’inizio pensano che sia solo un mitomane, poi riescono a capire che si tratta di Edmund Emil Kemper III e allora ci credono anche meno. Ed? Big Ed? Quello del jury Room? Quello che esce con la figlia dello sceriffo? Cos’avrebbe fatto? Impossibile, sarà ubriaco. Alla fine cominciano a credergli, vorrebbero andare a prenderlo ma a questo punto lui non riesce neppure a dirgli dove si trova. Pueblo, da qualche parte, nel Colorado. Quando gli uomini dello sceriffo di Santa Cruz arrivano e lo portano nella stazione della polizia locale, nella sala degli interrogatori, davanti al registratore acceso, Ed comincia a parlare e non si ferma più finché non confessa tutti gli omicidi che ha commesso, nei minimi dettagli, anche i più mostruosi e incredibili. In tutto sono otto. Ed confessa tutto. La dinamica degli omicidi, i dettagli delle esecuzioni, anche particolari nuovi, come il fatto che abbia mangiato parte della sua terza vittima. Porta gli

investigatori sui luoghi in cui ha nascosto i corpi delle donne uccise, restituisce i feticci e gli oggetti rubati. E’ una confessione così piena ed esauriente che non lascia nessuna possibilità di difesa al suo avvocato d’ufficio, James Jackson, che può solo invocare la completa infermità mentale. Per l’accusa, invece, Ed non è così pazzo. Secondo il dottor Joel Fort, lo psichiatra che lo ha seguito al manicomio di Atascadero dopo l’omicidio dei suoi nonni, Ed non è né paranoico né schizofrenico, ma solo un criminale ossessionato dal sesso e dalla violenza. E anche il tentativo di suicidio che Ed compie cercando di tagliarsi con una penna a sfera durante il processo, per il dottor Fort, è solo un modo per attirare l’attenzione su di sé. Il processo dura tre settimane. La giuria si ritira e resta pochissimo in camera di consiglio, appena cinque ore. Quando esce ha il suo verdetto all’unanimità: Edmund Emil Kemper III è colpevole di omicidio di primo grado per tutti gli otto delitti di cui è imputato. E siccome è perfettamente sano di mente, dovrà passare un breve periodo di osservazione all’ospedale psichiatrico di Vacaville, per poi essere rinchiuso nella prigione di Folsom. Per tutta la vita. Folsom non è un carcere come tutti gli altri. E’ un istituto di massima sicurezza, uno dei più duri e spesso anche dei più violenti, dove vengono rinchiusi gli assassini più feroci, i membri delle gang, i serial killer. Ed, però, ci si trova bene, e dimostra una tranquillità e un equilibrio che non sembrava mai avere avuto prima. Un detenuto modello, di mezza età, che insegna informatica agli altri prigionieri e lavora per un’associazione di non vedenti trascrivendo testi letterari in linguaggio braille. Che si sottopone a tutti i test e gli esami psichiatrici con docilità, zelo e anche con una sorta di compiacimento, soprattutto nel raccontare gli aspetti più razionali nell’organizzazione e nell’esecuzione dei suoi omicidi. Un serial killer che sa parlare di sé con grande competenza psicologica, approfondendo tutti gli aspetti del suo carattere, talmente conscio dei suoi problemi da non chiedere mai la libertà condizionata, che comunque difficilmente gli sarebbe concessa, perché altrimenti sarebbe costretto a ricominciare a uccidere. Così «cooperativo», Big Eddie, da impegnarsi ad aiutare anche altri detenuti «difficili». Come Herbert Mullin, uno degli altri due serial killer che agivano attorno a Santa Cruz all’inizio degli anni Settanta. Little Herb Mullin, rinchiuso a Folsom, finisce nella cella di fianco a quella di Ed Kemper, che lentamente riesce a fare amicizia con lui e a renderlo molto più collaborativo e aperto, sia nei confronti degli altri detenuti sia delle guardie e degli psichiatri della prigione. È anche una star, Eddie Kemper, che nel 1988 si fa intervistare da un canale satellitare della televisione assieme a un altro famoso serial killer, John Wayne Gacy, trentatré adolescenti stuprati e uccisi a Chicago tra il ‘73 e il ‘78. Un uomo tranquillo, che ogni tanto, però, fa ancora paura. Come quando si trova nella sala colloqui assieme a Robert Ressler, agente speciale dell’Unità di scienze del comportamento dell’FBl. Ressler ha bisogno di qualcosa e chiama l’agente di guardia fuori dalla porta. L’agente non risponde. Ressler lo chiama ancora ma niente. Allora Edmund Emil Kemper III, due metri d’altezza, 160 chili di peso, otto omicidi, gli fa notare che è il momento del cambio di turno e che per almeno un quarto d’ora non ci sarà nessuno. Gli fa presente che non gli sarebbe per niente difficile, ma proprio per

niente, alzarsi, prenderlo, staccargli la testa e metterla sul tavolo, solo per fare una sorpresa alle guardie. E sorride. Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali La nostra mente non può mai smettere di cercare analogie, porre confronti, stabilire un ordine: in sintesi, classificare. La necessità di classificare rappresenta la condizione indispensabile a ogni processo di conoscenza, e certamente le scienze psichiatriche e criminologiche si fondano su definizioni, raggruppamenti, tipologie. I primi sistemi di classificazione utilizzati in psichiatria risalgono a Ippocrate che, nel V secolo a.C., distingueva la mania dalla melanconia, l’epilessia dall’isteria, le freniti, disordini mentali acuti con alterazioni febbrili, dai disturbi sciiti, con i quali indicava il moderno travestitismo. Platone a sua volta differenziava le follie divine, imputabili di volta in volta ad Apollo, Dioniso, Afrodite, dalle follie naturali, in cui era possibile riconoscere una base fisica. Ma di classificazione psichiatrica in senso moderno si può parlare solo con gli studi di Pinel e di Esquirol, realizzati in Francia a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, per poi giungere a Kraepelin che, nella sua proposta del 1891, parla per la prima volta di dementia praecox, ribattezzata schizofrenia da Bleuler nel 1911. Non potendo riassumere l’immenso contributo di Sigmund Freud, con un salto temporale giustificato dalla necessità di sintesi, giungiamo al 1952, quando l’American Psychiatric Association pubblica la prima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM). A questa versione ne seguono altre, sino al DSM IV TR del 2001, mentre la quinta revisione è prevista per il 2007. Gradualmente il manuale americano diviene uno dei maggiori testi di riferimento, giudicato da molti insostituibile, da altri aspramente criticato. I sostenitori pongono l’accento sull’importanza di un riferimento diagnostico universalmente accettato, la possibilità di un linguaggio comune a tutti i ricercatori, che permetta di definire in modo chiaro e condiviso cosa si intende per depressione maggiore, oppure per disturbo dissociativo, o ancora per schizofrenia. I detrattori lo definiscono uno strumento troppo limitato per comprendere l’uomo e il suo disagio, studiato per ridurre la complessità a categorie, forzando tutto in confini angusti, spesso definiti artificiosamente, se non addirittura creati. Tuttavia il DSM porta con sé l’innegabile vantaggio di una sufficiente chiarezza nelle definizioni dei termini. A esse ci rifacciamo per descrivere gli assassini mentalmente disturbati. Ma soprattutto il DSM ha una grande importanza nello studio dei delitti violenti, perché ha costituito il riferimento teorico per la costruzione di un altro trattato, il Crime Classification Manual, il manuale per la classificazione del crimine che viene dato alle stampe nel 1992 da John Douglas e Robert Ressler, agenti speciali dell’FBl, con il contributo di Ann Burgess, psichiatra, e di Allen Burgess.

La classificazione dell’FBl e il CCM Fra il 1979 e il 1983 viene avviata e condotta una ricerca scientifica fondamentale sulla serialità omicida. Con un approccio pragmatico tipicamente statunitense Ann Burgess, John Douglas e Robert Ressler decidono di comprendere le caratteristiche del serial killer e del suo comportamento omicida, conducendo un’intervista su trentasei soggetti, ospiti dei penitenziari americani. Di ogni caso vengono studiati i rapporti di polizia, le foto delle scene del crimine, le testimonianze, i referti autoptici. Tutti gli assassini hanno ucciso spinti da una sessualità perversa, lasciandosi alle spalle un totale di 118 vittime. I risultati del lavoro vengono presentati nel 1992, in un testo chiamato Sexual Homicide: Patterns & Motives, dove grande spazio viene riservato alla proposta, già illustrata in un numero speciale dell’«FBl Law Enforcement Bulletin» del 1985, di suddividere i serial killer in organizzati e disorganizzati, assassini capaci di comportamenti traducibili in scene del crimine a loro volta organizzate e disorganizzate.

Caratteristiche delle scene del crimine organizzate e disorganizzate* Scena del crimine organizzata

Scena del crimine disorganizzata

Aggressione pianificata Aggressione improvvisa/ non pianificata La vittima è persona sconosciuta Vittima/luoghi conosciuti Personalizza la vittima Depersonalizza la vittima Controlla la relazione verbale con la vittima Minimo controllo della relazione verbale La scena del crimine riflette un controllo com- La scena del crimine si presenta caotica e dipleto sordinata Esige una vittima sottomessa Improvvisa violenza sulla vittima Utilizza mezzi di contenzione Minimo uso di contenzione fisica Compie atti aggressivi prima della morte Atti sessuali successivi alla morte Nasconde il corpo Cadavere lasciato in vista Armi e tracce/prove assenti sulla scena Armi e tracce/prove spesso presenti Trasporta la vittima o il cadavere Cadavere lasciato sul luogo dell’omicidio

John Douglas, in particolare, afferma di avere iniziato a utilizzare i termini nel momento in cui si era accorto che il linguaggio tecnico impiegato dagli psichiatri e dagli psicologi generava in lui più confusione che chiarezza. Per esempio i termini «psicopatico», «antisociale» e «sociopatico» venivano impiegati per descrivere il medesimo quadro, e un assassino come Charles Manson veniva diagnosticato da alcuni come uno schizofrenico paranoide, da altri semplicemente come una personalità disturbata. Ecco quindi l’esigenza di ridurre l’ambiguità, ricorrendo a termini funzionali, che illustrassero il comportamento tenuto da un criminale sulla scena di un delitto e le corrispondenti caratteristiche personali, relazionali, sociali. Se la dicotomia organizzato/disorganizzato può essere attribuita a ogni autore di reato violento (quindi anche a stupratori o autori di incendi dolosi), il suo campo principale di applicazione è l’omicidio, specie se con carattere di serialità.

Caratteristiche degli offender (aggressori) organizzati e disorganizzati* Offender organizzato

Intelligenza media o superiore Socialmente competente Predilige lavori che richiedono abilità Sessualmente adeguato Alto ordine di genitura Padre con occupazione stabile Disciplina inconsistente nell’infanzia Emotività controllata durante il crimine Utilizzo di alcol durante il delitto

Offender disorganizzato

Intelligenza sotto la media Socialmente inadeguato Predilige lavori semplici e generici Sessualmente inadeguato Basso ordine di genitura Padre con occupazione precaria Disciplina rigida nell’infanzia Ansia durante l’esecuzione del crimine Minimo uso di alcol

Stress situazionali precipitanti Minimi stress situazionali Vive da solo Vive con il partner Vive/lavora vicino alla scena del crimine Si sposta con un’auto in buone condizioni Ha minimo interesse per le notizie dei media Segue il crimine attraverso le notizie sui media Va incontro a significative modificazioni comPuò cambiare lavoro o lasciare la città dopo il portamentali (abuso di alcol/droghe, religiosità delitto eccessiva ecc.)

Vernon Geberth, nel suo Practical Homicide Investigatimi (1996), riprende con maggiori dettagli la descrizione degli aggressori organizzati e disorganizzati, e ne presenta punto per punto le caratteristiche personali, relazionali e sociali. Nata dall’osservazione della realtà statunitense, la proposta ha un’indubbia validità a livello internazionale. L’offender organizzato Profilo socio-personale dell’offender organizzato: ETÀ: approssimativamente ha la stessa età della vittima; questa tipologia di offender va dai 18 ai 45 anni, con una media al di sotto dei 35; SESSO: solitamente maschio; RAZZA: quasi sempre appartiene alla stessa razza della vittima; l’investigatore deve comunque considerare le caratteristiche geografiche, etniche e vittimologiche dell’area in cui è avvenuto il delitto; STATO CIVILE: sposato o convivente; solitamente adeguato sotto l’aspetto della sessualità; la compagna, nella relazione, occupa una posizione importante; LIVELLO INTELLETTIVO/SCOLARIZZAZIONE: ha un’intelligenza normale o superiore alla media; ha completato la high school e può avere avuto qualche esperienza al college; comunque, durante gli studi si è distinto per problemi di disciplina; noto per la mancanza di sensibilità e la tendenza all’aggressione fisica; da sempre descritto, in ambito scolastico, come un soggetto che si esprime al di sotto delle proprie possibilità; LIVELLO SOCIOECONOMICO: appartiene alla classe media; PRECEDENTI PSICHIATRICI: nessuno;

CARATTERISTICHE FISICHE:

solitamente ben strutturato fisicamente, tende ad avere cura

della propria persona; RESIDENZA: abita a una certa distanza dal luogo del crimine, con l’eccezione del primo delitto, che può commettere vicino alla residenza; la sua dimora è ben curata, ed è situata in una zona residenziale del ceto medio; AUTOVETTURA: di classe media, berlina o ancor più facilmente station-wagon, può essere di colore scuro e assomigliare ai modelli in uso alle forze di polizia; è pulita e ben tenuta; qualora si ritenga che l’aggressore sia giovane, l’auto, rossa o nera, potrà riflettere il bisogno di apparire «macho»; se nell’area del crimine lo status symbol della virilità è rappresentato dal possesso di un pick-up, l’aggressore facilmente ne avrà uno, appunto rosso o nero; OCCUPAZIONE LAVORATIVA: questo tipo di aggressore può svolgere qualunque lavoro, ma predilige un’occupazione che proietti un’immagine virile: camionista, guardia giurata, vigile del fuoco, addetto alle demolizioni possono essere professioni tipicamente scelte da un offender organizzato, come pure un lavoro che abbia a che fare con il sangue e la morte, per esempio il paramedico. Può essere conosciuto per abbandono del posto di lavoro, oppure per licenziamenti imputabili a scarso impegno. Vi è una certa distanza tra il luogo dove è occupato e la scena del crimine, che tuttavia può trovarsi lungo il percorso fra abitazione e posto di lavoro; PRECEDENTI DURANTE IL SERVIZIO MILITARE: svolto nell’esercito o tra i marines, con ferma volontaria; ha avuto problemi disciplinari e può essere stato congedato con disonore; PRECEDENTI PENALI: vi possono essere precedenti arresti per aggressione e violenza sessuale, violazioni del codice della strada, multe non pagate. Se vi sono segnalazioni per violenza interpersonale, i documenti evidenziano atti di sadismo e di crudeltà eccessiva, ben oltre le lesioni provocate in semplici risse. Ama far del male a coloro con i quali è arrabbiato e probabilmente progetta l’aggressione con questo scopo nella mente. Caratteristiche generali di comportamento dell’offender organizzato: 1. socialmente ben adattato; 2. socievole ed estroverso, sembra la persona che vorresti avere per amico; presto tuttavia si rivela un soggetto preoccupato solo di se stesso; la sua disponibilità è solo apparente; 3. buon conversatore; possiede capacità di relazione che utilizza in chiave manipolatoria; 4. irresponsabile, indifferente al bene comune e a ogni sua azione che possa offendere o danneggiare gli altri; 5. spesso descritto come un damerino, frequenta bar e salotti con clientela in gran parte femminile; 6. veste bene, con capi firmati, ed è consapevole del proprio stile; 7. ha frequenti appuntamenti con donne diverse, più partner sessuali, ed è noto per vantarsi delle sue conquiste; 8. metodico e astuto, pianifica il crimine e seleziona la vittima e il luogo dell’aggressione; 9. viaggia di frequente, esce in perlustrazione alla ricerca della vittima ideale;

10. i conoscenti sanno del suo carattere violento e generalmente evitano di essere coinvolti in discussioni con lui; 11. quando insultato o minacciato risponde con violenza, se non immediatamente dopo poco tempo. Manifesta la sua rabbia ed è noto per portare rancore. E un soggetto incapace di accettare critiche; 12. è un mentitore patologico; fa promesse che non intende mantenere. Non è possibile dargli fiducia quando impegna la propria parola; 13. non adempie ai propri obblighi di natura economica; 14. non prova senso di colpa o rimorso per le proprie azioni; è un soggetto privo di moralità, capace di attribuire agli altri le proprie manchevolezze; 15. personalità camaleontica, può condurre una vita «a compartimenti» ben distinti; 16. non modifica il proprio comportamento dopo avere ricevuto una punizione; non apprende dai propri errori, ricadendo ripetutamente nelle medesime condotte d’offesa; se fermato, dichiarerà d’essere dispiaciuto. Quello che veramente proverà sarà il rammarico d’essere stato fermato; 17. è un attore consumato, capace di interpretare qualunque ruolo desideri, evocare qualunque stato d’animo, piangere vere lacrime, suscitare simpatia e manipolare i sentimenti degli altri; 18. ha una storia di abusi fisici e sessuali in famiglia, e la spiegazione dei suoi delitti può ricondursi al cosiddetto «ciclo di abuso», una sindrome che vede il soggetto abusato nell’infanzia identificarsi con l’aggressore e divenire a sua volta, da adulto, un individuo abusante; 19. in lui si riscontra una triade di comportamenti nell’infanzia e nell’adolescenza, costituita da crudeltà verso piccoli animali, enuresi e piromania; sono fattori, questi, che possono essere utilizzati per la predizione di future condotte violente, come pure dello sviluppo di un disturbo antisociale di personalità; 20. ha un alto ordine di genitura nella famiglia, spesso è il primogenito; 21. nell’infanzia ha ricevuto una disciplina inconsistente; 22. il padre ha avuto un’occupazione stabile; 23. può selezionare una vittima che ricorda una figura femminile significativa nella sua esistenza, per aspetto, lavoro, stile di vita; 24. sceglie vittime che può controllare e dominare; questa tipologia di aggressore ha bisogno di una vittima sottomessa; 25. la scena del crimine riflette una rabbia controllata; utilizza mezzi per immobilizzare la vittima, tanto che possono essere presenti sulla scena corde, catene, nastro adesivo, manette, oppure usa parti degli indumenti stessi della vittima; 26. può possedere una sorta di «kit personale» fatto di armi o mezzi per immobilizzare, che porta con sé entrando e uscendo dalla scena del delitto; 27. vi è prova di torture, violenza sessuale e atti sadici compiuti sulla vittima prima della morte; 28. colleziona trofei della propria vittima, come gioielli o altri oggetti, che spesso può donare a figure femminili per lui importanti. Il trofeo ha comunque un valore psicologico, rimandando al piacere dell’aggressione e permettendo la costruzione di nuove fantasie;

29. segue le notizie che riguardano i suoi crimini sui media. Può collezionare ritagli di giornale, leggere i quotidiani, ascoltare la radio, guardare la televisione, concentrandosi sulle dichiarazioni della polizia per comprendere lo stato delle indagini; 30. può comunicare con le autorità. Talvolta ama gettare esche alla polizia fornendo informazioni, direttamente o attraverso i media. Tutto ciò fa parte e sostiene l’attività di fantasia del killer, e gli permette di rinforzare il suo senso di superiorità rispetto a quanti gli danno la caccia; è incoraggiato dall’apparente incapacità della polizia di risolvere i delitti che commette e trova grande piacere nel misurare i propri messaggi in funzione della frustrazione e del senso di confusione che può indurre; 31. può aggirarsi nei locali abitualmente frequentati da poliziotti, con lo scopo di cogliere frammenti di conversazione che riguardano le indagini; può essere noto come un «amichevole scocciatore»; 32. è arrabbiato o depresso prima del delitto; 33. situazioni stressanti che precipitano il crimine possono riguardare problemi economici, di lavoro, o di rapporto; 34. può avere mostrato grande interesse per armi ed esplosivi; 35. usualmente trasporta la vittima o il suo cadavere; 36. solitamente nasconde il corpo della vittima per impedirne la scoperta agli investigatori; fanno eccezione i killer che desiderano «rilasciare una dichiarazione» attraverso il delitto; in questi casi il cadavere viene posizionato per «l’effetto shock» che produce; 37. spesso possiede una collezione di materiale pornografico, soprattutto sadomaso, e mostra un avido interesse per la tortura, le fantasie sadiche e il materiale per il bondage. Vi sono anche ricerche che indicano la predilezione per le riviste centrate sulle detective story, dove sono descritti in modo particolareggiato brutali crimini sessuali, nonché le più aggiornate tecniche di investigazione. Talvolta il comportamento tenuto sulla scena del crimine trae ispirazione dal materiale collezionato dall’aggressore; questo costituisce naturalmente un’informazione investigativa determinante; 38. attento ai media e agli sviluppi investigativi, l’offender può cambiare lavoro o lasciare la città se si sente minacciato; 39. può giungere a intromettersi nelle indagini, prendendo parte alla ricerca della persona scomparsa. La storia di Robert Yates, omicida seriale organizzato Ottobre 2000: Robert Yates Jr, padre di cinque figli, pilota militare decorato per i servigi resi alla nazione, membro della Guardia nazionale, viene dichiarato colpevole di quindici omicidi e sospettato di altri diciotto. È il più prolifico serial killer mai condannato nello stato di Washington. Nato in una famiglia apparentemente normale, circondato dall’affetto e dal sostegno dei genitori, Yates si rivela un bimbo ubbidiente, uno studente attento, un ottimo sportivo, inserito nella squadra di football della high school che frequenta. Ha una grande passione, che coltiva non appena si rende economicamente indipendente: le auto. Ama pulire e lucidare la Corvette bianca che possiede, con la quale attraversa

lentamente il quartiere a luci rosse della sua città: qui individua e uccide almeno otto delle quindici vittime che gli vengono attribuite; quasi tutte le donne uccise hanno alle spalle una storia di droga e prostituzione. Il primo cadavere viene ritrovato il 22 febbraio del 1990. La vittima è stata uccisa con un colpo alla testa. Per dieci anni si susseguono omicidi con caratteristiche simili. Dopo un estenuante lavoro di investigazione che coinvolge le forze dell’ordine di numerosi stati americani, Yates viene identificato e arrestato. Accusato dell’omicidio di dieci donne nella zona di Spokane tra il 1996 e il 1998, di due delitti avvenuti nel 1975 a Walla Walla, Washington, e della morte di un’altra vittima, il cui corpo viene rinvenuto nella contea di Skagit nel 1998, Robert Yates viene condannato a 408 armi di carcere. Prima dell’inizio del processo, i familiari sottoscrivono una dichiarazione: «Bobby è un figlio amorevole, attento e sensibile, un fratello simpatico e disponibile, un padre comprensivo, generoso e dedito alla famiglia, a cui piace giocare a football, pescare e andare in campeggio con i figli. Noi ci sentiamo profondamente affranti per le famiglie che hanno subito una perdita. Chiediamo che tutti i giudizi siano sospesi fino a che il giusto percorso della legge non sia terminato». Firmato: I membri della famiglia di Robert L. Yates. Ma il suo debito con la giustizia non è ancora stato saldato, perché dal carcere di Pierce, Yates viene trasferito a Tacoma dove gli viene contestata un’altra imputazione: si ritiene sia responsabile del duplice omicidio di Connie La-Fontaine Ellis e Melinda Mercer. L’accusa, avanzata dal procuratore durante il dibattimento, è terribile: «Yates aveva un hobby diabolico. Uccideva per il piacere del brivido e perché amava poi avere rapporti sessuali con i cadaveri». Il processo dura meno di due mesi. La giuria stabilisce per Yates la pena di morte per l’omicidio aggravato di Connie LaFontaine Ellis e Melinda Mercer. Nell’ascoltare la sentenza, l’uomo, con lo sguardo basso, afferma: «Mi piacerebbe ringraziare la corte per la disponibilità accordatami e la professionalità mostrata». Lo fa con un’ultima dichiarazione, letta in aula. Ho preparato questa dichiarazione così da non lasciare nulla nel mio cuore che debba essere detto. A tutte la famiglie delle vittime, alla mia famiglia e alla società, alle famiglie di Melinda Mercer e Connie LaFontaine, lo so che state soffrendo molto. Non ho parole per confortarvi, per spiegare, giustificare o attenuare tutto il male, la sofferenza, la perdita e la morte che ho causato. Alcune cose non possono essere espresse e comprese con linguaggio umano. Il mondo è un luogo spaventoso, e io l’ho reso per molti ancora più terribile. Ho causato molta sofferenza e devastazione. Centinaia di persone sono state ferite e sono addolorate a causa dei miei gesti. Ho lasciato che il peccato entrasse nella mia vita. Ho lasciato che crescesse e maturasse in me fino alle estreme conseguenze: la morte. La ricompen sa per il peccato porta alla morte. Il peccato e la trasgressione possono avere inizio impercettibile, ma, se la sciati senza controllo, maturano in qualcosa di orribile. Credo che il peccato ci accechi. Io sono rimasto accecato. Con il peccato dentro non avevo il potere di sconfiggere questa mia natura malvagia. C’erano momenti – lunghi periodi – in cui mi trovavo fra crimini raccapriccianti, e c’erano momenti di relativa calma: non accadeva niente di male. Ma quella natura peccaminosa, che ha causato così tanta violenza, non mi ha mai ve ramente lasciato. La Bibbia dice che il cuore è infido sopra ogni altra cosa e non vi è rimedio; chi può capir lo? I nostri cuori possono ingannarci oltre qualsiasi nostra capacità di comprendere, e sicuramente il mio lo poteva. Da qualche parte, fra tutta questa devastazione, Dio bussava alla porta del mio cuore, ma non lo pote vo accogliere dentro di me. Pensavo tra me: «Come può un Dio amare o sentire qualcosa che non è puro?». Pensavo di non essere abbastanza buono neanche per parlare a Dio, e se Lui non avesse voluto ascoltarmi, al -

lora chi l’avrebbe fatto? La mia colpa è stata come una malattia che corrodeva la mia anima. Non potevo dividerla con nessun altro. Il peccato e la colpa corrodono la nostra mente. Tutti siamo colpevoli di qualcosa durante la nostra vita. Il mio peccato e la mia colpa mi stavano opprimendo. Era diventato difficile vivere con me stesso. Pochi uomini hanno mai provato il senso di colpa che io sento per l’orrore che ho portato nelle vostre vite. Ho cer cato di purificare me stesso da questa colpa attraverso il rifiuto. Questo ha causato solo cose ancora peggiori. Vivevo una doppia vita. Rimanevo nel rifiuto – rifiuto dei miei bisogni, rifiuto di qualcuno o qualche luogo dove trovare aiuto. Attraverso il mio rifiuto, non potendo far fronte alla realtà, pensavo di potermi corregge re, che se avessi tenuto tutto per me, un giorno sarei potuto andarmene. Questo è il rifiuto. Con il mio rifiuto mi sono nascosto dalla realtà, la realtà che nessuno è solo in questo mondo. Ma quello ero io, solo e nel rifiu to. Anche dopo il mio arresto a Spokane nell’aprile del 2000, per circa due settimane ho perseverato. Sono rimasto nel rifiuto. Nel maggio del 2000, quando ho cominciato a leggere del mondo di Dio per la prima volta in più di 25 anni, ho iniziato a capire che qualcuno aveva visto tutti gli orribili crimini che avevo commesso. Qualcun altro era lì nello stesso momento, e stava guardando ogni mia vittima morire. Dio ha visto tutto.

Robert Yates si trova oggi nel braccio della morte, in attesa dell’esecuzione. L’offender disorganizzato Profilo socio-personale dell’offender disorganizzato: ETÀ: varia da 16 a meno di 40 anni, con una maggiore frequenza tra i 17 e i 25. L’età della vittima non ha grande importanza per l’aggressore. La vittima selezionata è semplicemente scelta sulla base dell’opportunità: un soggetto che si trova nel luogo sbagliato al momento sbagliato; SESSO: solitamente maschio; RAZZA: di norma della stessa razza della vittima. Come nel caso dell’offender organizzato, gli investigatori devono comunque considerare le caratteristiche geografiche, etniche e vittimologiche dell’area in cui è avvenuto il delitto; STATO CIVILE: single; LIVELLO INTELLETTIVO/SCOLARIZZAZIONE: intelligenza al di sotto della media, con una storia di fallimenti scolastici e precoce abbandono; LIVELLO SOCIOECONOMICO: classe sociale povera o media; PRECEDENTI PSICHIATRICI: può avere una storia di disturbi mentali, con ricoveri o con trattamenti ambulatoriali; CARATTERISTICHE FISICHE: può avere qualche segno esteriore che lo distingue dalla popolazione generale, dall’acne a un difetto fisico più marcato; RESIDENZA: abita nelle vicinanze del luogo del delitto; vive usualmente da solo in un appartamento in affitto, oppure con i genitori, o ancora con un familiare, spesso una donna più vecchia di lui; AUTOVETTURA: di solito non possiede una vettura, e se ne ha una è un vecchio modello malridotto. Considerando l’area in cui è avvenuto il delitto, l’offender può possedere una vecchia auto in cattivo stato se ci troviamo in una zona rurale, o che non ne possieda affatto se ci troviamo in un contesto urbano; OCCUPAZIONE LAVORATIVA: può essere disoccupato. Se lavora, la sua occupazione non è specializzata, più facilmente semplice e di basso profilo, senza contatti con il pubblico; PRECEDENTI DURANTE IL SERVIZIO MILITARE : probabilmente nessuna storia di servizio militare. Se ha scelto di arruolarsi lo ha fatto nell’esercito, e può essere stato scartato perché ritenuto non idoneo; PRECEDENTI PENALI: arresti per esibizionismo, furto con scasso, sottrazione di oggetti per utilizzo feticistico (biancheria intima, per esempio). Caratteristiche generali di comportamento dell’offender disorganizzato:

1. ha una vera e propria avversione per la società; rifiuta i contatti in quanto ritiene di essere rifiutato per la sua inadeguatezza; 2. è un solitario, isolato. Apparentemente tranquillo e chiuso in se stesso, può essere considerato da chi lo conosce una sorta di eremita; 3. si mantiene sempre al di sotto delle aspettative, ha di sé un’immagine povera, veste abiti trasandati e sporchi; 4. è trascurato nell’igiene della persona; 5. i conoscenti lo considerano singolare e bizzarro; appare un tipo strano, sia nell’aspetto sia nel comportamento; 6. interiorizza rabbia, ferite e paura; 7. ha vita sessuale inadeguata; può non avere mai avuto rapporti in precedenza, né appuntamenti. Ogni relazione interpersonale è per lui estremamente faticosa; 8. è fortemente coinvolto in attività sessuali sostitutive, autoerotiche, con voyeurismo, esibizionismo, fantasie sadiche, pornografia; tutto per compensare l’incapacità alla relazione; 9. vive più intensamente durante le ore notturne; 10. non ha amici; 11. vive da solo o con un familiare, più anziano e di sesso femminile; 12. ha un basso ordine di genitura; 13. il padre non ha mai mantenuto a lungo un’occupazione; 14. ha subito una disciplina severa da bambino; 15. è in preda all’ansia durante il delitto; 16. utilizza alcol in quantità minime; 17. ha scarsissimo interesse per i media; 18. manca dell’astuzia tipica dell’offender organizzato; 19. commette il suo delitto con un’aggressione stile «blitz», inducendo immediatamente al silenzio la vittima, spesso tramortendola. Un’improvvisa violenza e la morte della vittima seguono in breve tempo; 20. la sua è un’aggressione istintiva; utilizza un’arma di opportunità, trovata magari sulla scena, e lì abbandonata dopo l’aggressione, non lontano dal corpo della vittima; lascia sulla scena tracce di sé; 21. la scena del crimine appare disordinata; vi può essere imbrattamento ematico sulla vittima, sull’aggressore, su mobili e pareti, o ancora la presenza di colpi eccessivi inferti al corpo; 22. vi può essere depersonalizzazione della vittima, con violenza estrema delle lesioni al volto; 23. possono essere presenti segni di morsicature al seno, alle natiche, al collo, alle cosce, all’addome; 24. può registrarsi il depezzamento post mortem del corpo, in una sorta di attività esplorativa; talvolta vi è segno di attività cannibalica; 25. possono essere compiuti atti sessuali sulla vittima, con l’inserimento di oggetti nelle cavità naturali, la masturbazione sul corpo o sugli indumenti, l’eiaculazione nelle ferite inflitte; di solito non vi è penetrazione fallica, per incapacità dell’aggressore disorganizzato, spesso impotente;

26. la scena del crimine può trovarsi in un luogo appartato, ma non vi è un reale sforzo per occultare il cadavere. Il luogo del delitto può trovarsi in prossimità dell’abitazione o del luogo di lavoro dell’offender; 27. il corpo della vittima può essere posizionato per scopi simbolici significativi per l’aggressore; 28. vi può essere traccia di ritualità non solo nella disposizione del corpo, o nella costruzione della scena, ma anche nella distribuzione delle tracce lasciate; 29. l’offender può sottrarre alla vittima un souvenir, un ricordo, talvolta costituito da una parte del corpo stesso della vittima; può riportare il souvenir sia sulla scena del delitto sia sul luogo di sepoltura della vittima; 30. si può registrare un significativo cambiamento nel comportamento dell’aggressore, dopo il crimine, con abuso di alcol o sostanze, oppure un eccessivo coinvolgimento in attività religiose o di altro tipo. La storia di Richard Trenton Chase, omicida seriale disorganizzato Fin dai primi anni di vita, Richard Trenton Chase presenta evidenti disturbi mentali. Da adulto è affetto da una forma di ipocondria aggravata dall’abuso di sostanze stupefacenti e costretto a due prolungati soggiorni in reparti psichiatrici. La prima degenza è motivata dall’abitudine di uccidere conigli per bere il loro sangue. Il secondo periodo di ricovero termina con una diagnosi di dimissione assolutamente generica, dove si parla di «condizioni mentali stabilizzate». Immediatamente l’uomo riprende una spirale discendente, ricominciando a vampirizzare piccoli animali mentre contemporaneamente sua madre decide, di propria iniziativa, di ridurgli la terapia farmacologica: a lei non pare che il figlio, in fondo, stia poi così male. Il 29 dicembre 1977, Chase inizia a uccidere esseri umani quando, inspiegabilmente, spara al cinquantunenne Ambrose Griffin. Anche Theresa Wallin, 22 anni, incinta di tre mesi, viene freddata sulla porta d’ingresso della propria abitazione. Chase ha finalmente a disposizione una vittima umana; trascina il corpo nella stanza da letto, ne asporta parte del seno, seziona e apre la cavità addominale estraendone le viscere. Accoltella la donna ripetutamente al petto, lasciando poi nel bagno un vasetto di yogurt che ha utilizzato per raccogliere e bere il suo sangue. Quattro giorni dopo, Chase uccide ancora: le vittime sono Evelyn Miroth, il suo bimbo di 6 anni Jason, il nipote di 22 mesi David Ferreira, e un amico di famiglia, Danny Meredith. Quando la compagna di giochi di Jason giunge presso la casa dove l’aspetta l’amico, nessuno risponde alla porta. I vicini, in allarme, entrano nell’abitazione e si trovano davanti a una scena raccapricciante: Jason e Danny sono stati semplicemente colpiti a morte, ma ben altro destino è occorso a Evelyn Miroth, colpita alla testa, sventrata, sodomizzata, pugnalata al collo e agli occhi. Vi sono segni sulla scena che fanno ipotizzare che anche in questo caso l’assassino abbia bevuto il sangue della vittima. Ancora più terribile è la sorte del piccolo David, che Chase ha portato via con sé, disturbato dall’arrivo dell’amica di Jason. Naturalmente è chiaro agli investigatori, sin dal primo istante, che non vi sono speranze di trovare in vita il bambino: c’è infat-

ti il foro di un proiettile e del sangue nel box dove David giocava, e residui di materia cerebrale sono rinvenuti nella vasca da bagno. Si scopre in seguito che Chase si è impadronito dell’auto di Meredith e ha portato il bambino con sé, a casa propria, continuando con le attività di mutilazione e di vampirismo cominciate sulla scena del crimine. Il cadavere decapitato del piccolo verrà trovato un paio di mesi più tardi in un’area abbandonata. Per fortuna questi delitti segnano la fine del comportamento criminale di Chase. I vicini infatti vedono l’uomo sempre più impaurito, si accorgono della sua condotta sempre più bizzarra e notano una rassomiglianza con gli identikit diffusi dalla polizia. Contattano gli investigatori. Il giorno dopo, Chase viene fermato davanti alla propria abitazione. I detective lo trovano con i vestiti e le scarpe sporchi di sangue, il portafoglio di Meredith nelle tasche. Una volta entrati in casa hanno la certezza di aver messo le mani sul responsabile degli omicidi: l’odore è terribile, insopportabile, macchie di sangue coprono la maggior parte degli oggetti, nel frigorifero sono conservate parti di corpo umano. Come prevedibile, la difesa di Chase punta sul proscioglimento per incapacità di intendere e di volere. E’ necessario, tuttavia, spostare la sede del processo da Sacramento a San José, per le reazioni violentissime dei cittadini e l’odio manifestato nei confronti del killer. Il punto di maggior clamore, durante la battaglia processuale, si verifica quando Chase prende la parola in difesa di se stesso, dichiarando di avere agito in stato confusionale durante gli omicidi e pertanto di non aver avuto coscienza che il piccolo Ferreira fosse un essere umano. Le sue parole non convincono. Chase viene giudicato sano di mente, e condannato a morte: la sua destinazione è la sedia elettrica del penitenziario di Saint Quentin. Tuttavia si sottrae alla sentenza prevista per lui dallo stato della California, ingerendo una quantità letale di farmaci. Richard Trenton Chase, uno degli esempi più eclatanti di serial killer disorganizzato, muore il 26 dicembre 1980. La classificazione dell’FBI che suddivide gli autori in organizzati e disorganizzati ha certamente promosso una maggiore uniformità nel linguaggio investigativo, costituito la premessa di base per un’attività di ricerca con criteri di scientificità e portato a un miglioramento nella qualità dell’investigazione. Affascinati dal «mito americano», rischiamo infatti di riconoscere alle forze di polizia statunitensi una competenza ben lungi dall’essere certa. Questo è stato vero, almeno, sino all’istituzione dell’Unità di scienze del comportamento, alla definizione del progetto VICAP, alla creazione di archivi computerizzati e centralizzati; avvenimenti, questi, che però non datano più di trent’anni. Prima di allora, e spesso ancor oggi, a intervenire sulla scena del delitto non sono i «federali», ma gli uomini dello sceriffo della contea, eletto dai concittadini. Nel piccolo paese il rappresentante delle forze di polizia può alternare la tutela della sicurezza della comunità a un più prosaico lavoro di barbiere o di ferramenta: un volonteroso dilettante. Ma, accanto ai pregi, è giusto parlare dei difetti di questa classificazione. In prima istanza il lavoro di ricerca svolto da Burgess, Douglas e Ressler, che ha condotto alla definizione della tipologia, non è mai stato presentato alla comunità scientifica. Non vi è traccia di pubblicazione né completa, né parziale; non è nota la struttura del que-

stionario utilizzato per intervistare i trentasei assassini seriali, non si sa quanti abbiano risposto e a quali domande non abbiano dato riscontro. Non vi sono poi risultati certi sull’efficacia della dicotomia organizzato/disorganizzato nella risoluzione dei casi; quando John Douglas parla di almeno 1000 profili psicologici positivi elaborati a partire dalla tipologia dell’FBI, in realtà non dice nel dettaglio che cosa significhi «positivo». Possiamo così ipotizzare uno spettro di soluzioni che varia dall’identificazione certa all’indicazione marginale, dall’orientamento chiaro delle indagini, alla verifica ex post di alcune suggestioni. Tuttavia l’unità specializzata dell’FBI prosegue nel lavoro di studio e di approfondimento e, dalla fine del 2001, ha preso avvio una seconda importante ricerca sulle caratteristiche di personalità dei serial killer, sempre attraverso un programma di interviste a criminali detenuti per omicidi seriali. Un’ultima osservazione critica, in realtà subito evidente agli stessi agenti speciali dell’FBI, è rappresentata dalla frequente sovrapposizione di caratteristiche organizzate e disorganizzate. Inevitabile perciò ricorrere a una terza categoria, alla tipologia mixed. Uno dei casi più utilizzati per chiarire il concetto di mixed riguarda la notissima vicenda di O.J. Simpson,2 dove la scena del delitto mostra chiaramente la premeditazione dell’aggressione. L’assassino porta con sé l’arma, i guanti e il berretto, pianificando il delitto. Ma non prevede la presenza di un terzo soggetto, in questo caso Ron Goldman, l’amante della moglie. Il controllo della situazione è perso del tutto e la scena del crimine riflette il passaggio dall’organizzazione alla disorganizzazione. Esiste poi un’altra situazione che può essere ricondotta a un quadro mixed: l’azione di due criminali che agiscono di concerto. Quando si realizza tale condizione una parte della scena può apparire ben organizzata, mentre altre parti mostrano confusione e disordine, riflesso di una totale assenza di controllo. Il Crime Classification Manual Nel 1992 viene pubblicata la prima edizione del Crime Classification Manual, premiato due anni dopo come il più importante contributo mai scritto per il lavoro di intelligence delle forze di polizia. La prefazione del testo racconta di come, a partire dagli anni Ottanta, si siano registrati i più importanti progressi nel campo dell’investigazione criminale: gli studi sugli assassini a sfondo sessuale, gli stupratori, i pedofili violenti, gli incendiari, inizialmente utilizzati per elaborare e affinare le tecniche di profilo psicologico, confluiscono nella progettazione e nella realizzazione del manuale. Per realizzare il CCM viene costituito un team composto da profiler, investigatori ed esperti della salute mentale, che lavorano insieme per ben sei anni. Scopo dichiarato del gruppo è mettere a punto un testo che permetta di standardizzare la terminologia nel campo della giustizia criminale, facilitare lo scambio di comunicazioni tra operatori della legge, forze di polizia e specialisti in scienze della mente, sviluppare un sistema di classificazione che permetta la creazione di archivi e l’avanzamento della ricerca nel settore della investigazione. Il CCM affronta tre principali categorie di delitti violenti – l’omicidio, le aggressioni sessuali e gli incendi dolosi – attraverso una chiave di lettura privilegiata: il movente che ha spinto il criminale all’azione.

Gli autori distinguono quattro categorie motivazionali: il delitto realizzato nell’ambito di un’impresa criminale, di una ragione personale, di una spinta sessuale, oppure nel contesto di un gruppo. Ogni reato, sia esso l’omicidio legato a un rapimento oppure il delitto avvenuto in famiglia, o ancora compiuto per ispirazione politica e religiosa, viene illustrato attraverso un approccio completo: vittimologia, caratteristiche della scena del crimine, tracce di interesse criminalistico, suggerimenti investigativi. Interessanti ed emblematici, al termine dei dati tecnici forniti al lettore, appaiono i casi che illustrano ciascuna tipologia descritta. L’assassino seriale ha la sua collocazione in più di una categoria prevista dal CCM, ma è soprattutto nella tipologia dell’omicidio sessuale che troviamo riuniti la maggior parte dei serial killer.

La tipologia di Holmes & De Burger Nel 1985 James De Burger e Ronald Holmes pubblicano sulla rivista «Federai Probation» un interessante contributo, dal titolo Profiles in Terror: the Serial Murderer. Sulla base del movente, del modus operandi, della scelta della vittima, delle attività compiute sul cadavere, giungono a definire una classificazione che, qualche anno dopo, viene ripresa e ulteriormente sostenuta da Ronald e Stephen Holmes (1996). Gli autori si mostrano fortemente critici verso l’impostazione dell ’FBI, e non considerano il lavoro svolto a Quantico dotato delle indispensabili premesse di scientificità e rigore metodologico che una ricerca sul crimine e sui criminali dovrebbe possedere. Holmes & Holmes si muovono, nella loro attività di studio, sulla base della convinzione che i serial killer possiedano un retroterra comportamentale comune e momenti condivisi rintracciabili: - la genesi dell’omicidio seriale va quasi sempre rintracciata nella psicologia dell’assassino; - le motivazioni dell’omicidio, anche se possono apparire insensate per l’investigatore, possiedono una loro logica per il serial killer; - il guadagno che l’omicida ottiene dall’uccidere e che lo induce a commettere nuovi delitti è pressoché sempre di natura psicologica. A coronamento della loro ricerca, gli autori propongono una classificazione che distingue i serial killer nei quali l’interesse primario e il comportamento sono centrati sull’atto, nel quale la morte della vittima avviene con rapidità, dagli assassini focalizzati sul processo, dove la vittima viene mantenuta più a lungo in vita. Alla prima categoria appartengono i killer allucinati e i

missionari, nella seconda rientrano gli edonisti e gli autori di omicidi seriali orientati al controllo e al dominio della vittima. Serial killer allucinati Si tratta, in sostanza, di gravi malati mentali, soggetti affetti da psicosi, che agiscono in preda ad allucinazioni visive o uditive, accompagnate da interpretazioni deliranti. Le voci, le immagini, spingono a uccidere per conto di Dio, oppure di Satana, legittimando la violenza. Herb Mullin nasce il 18 aprile 1947, e trascorre l’infanzia e l’adolescenza senza particolari problemi. Figlio di un veterano della Seconda guerra mondiale, è un ragazzo brillante e sensibile, ben inserito a scuola, coinvolto con ottimi risultati nelle attività sportive. L’estate successiva al diploma di scuola superiore il suo caro amico Dean Richardson muore in un incidente stradale.

L’avvenimento sembra costituire il punto di rottura nella vita del ragazzo, che costruisce nella sua camera una sorta di santuario dedicato al compagno scomparso e comincia a essere ossessionato da idee religiose, dalla reincarnazione, dalla premonizione di imminenti disastri naturali. La droga inizia a far parte della vita di Mullin e l’uso di spropositate dosi di acidi contribuisce a comprometterne irrimediabilmente lo stato mentale. Il suo comportamento dapprima preoccupa, quindi spaventa i familiari e gli amici. Viene fatta una diagnosi di schizofrenia paranoide e Mullin comincia a entrare e uscire dagli ospedali psichiatrici senza che nulla riesca, se non a guarirlo, quantomeno a stabilizzarlo. Mullin adotta personalità diverse: discepolo yoga, hippie, boxeur dilettante, ma è costantemente disturbato da voci allucinatorie. Ogni stravagante tentativo di trovare un’identità, fittizia ma rassicurante, è destinato a fallire. La sua tormentata ricerca di serenità trova sbocco nell’omicidio. Il 13 ottobre 1972 Mullin uccide un vagabondo in una stradina di Felton, in California, nei pressi della propria abitazione: finge un guasto alla propria auto e quando l’uomo si avvicina per dargli una mano lo colpisce a morte con una mazza da baseball. Le caratteristiche della vittima non creano grande allarme quando, pochi giorni dopo, ne viene scoperto il cadavere. Mary Guilfoyle, una giovane autostoppista di Santa Cruz, è la seconda vittima di Mullin, che le dà un passaggio, la pugnala, incide il suo corpo e ne estrae gli organi interni. Quel che rimane della ragazza viene scoperto solo nel febbraio successivo. Il 2 novembre dello stesso anno Mullin sta gironzolando per le navate della chiesa cattolica di Los Gatos quando, senza apparente motivo, si avvicina a padre Henri Tomsi e lo uccide nel suo confessionale. Il 25 gennaio 1973 è la volta di Jim Gianera, uno spacciatore a lui noto, e di sua moglie. Teatro del delitto è l’abitazione della coppia a Santa Cruz: prima di abbandonare i due cadaveri, Mullin infierisce su di loro colpendoli ripetutamente con un coltello. Lascia l’appartamento per uccidere ancora: spara a Kathy Francis e ai suoi due bambini, e ne mutila i corpi con un coltello. Il 10 febbraio Herb passeggia tra i boschi di una riserva naturale, quando si imbatte nella tenda occupata da quattro ragazzi. I giovani lo invitano ad accettare ospitalità e a sedersi con loro, ma la cortesia viene ricambiata con alcuni colpi di fucile. I cadaveri vengono ritrovati una settimana più tardi. Pochi giorni dopo il serial killer uccide per l’ultima volta: a cadere mentre lavora nel vialetto davanti alla propria abitazione è Fred Perez. Ma in questa occasione c’è un testimone, un vicino di casa di Perez che ha assistito all’omicidio. Nel volgere di poche ore Mullin viene arrestato. La detenzione e il processo sono caratterizzati dal comportamento bizzarro dell’imputato, che già in occasione del primo interrogatorio da parte degli investigatori sorprende i detective cominciando improvvisamente a inveire e a urlare «silenzio!». Il killer dichiara di avere ucciso per un’ottima ragione: ha impedito un devastante terremoto in California, salvando innumerevoli vite. Afferma anche di udire «voci», inclusa quella del padre, che gli hanno ordinato di uccidere, e ancora di avere ottenuto telepaticamente il permesso di sparare dagli stessi giovani raccolti nella tenda. In

carcere Mullin sbraita in continuazione, e passa gran parte del tempo in cella annotando le sue contorte teorie. Il processo ruota, come prevedibile, intorno alle condizioni mentali di Mullin. Il difensore racconta alla corte delle idee bizzarre che riempivano la sua mente, fin da bambino: per esempio era certo che i familiari, quando era ancora piccolo, avessero deciso di nascondergli la sua natura di bisessuale, concedendogli tuttavia di sperimentare il piacere dell’orgasmo dall’età di sei anni. Mullin, al termine del dibattimento, prende la parola, si difende con veemenza sostenendo che vi è una chiara cospirazione per annullarlo prima che egli acquisisca una grande potenza nella sua prossima reincarnazione, uno dei temi religiosi a cui è particolarmente legato. Prosegue dichiarando di essere il leader designato della sua generazione, in quanto Albert Einstein è morto nel giorno della sua nascita. Per quanto riguarda gli omicidi, Mullin è lapidario: sono le stesse vittime che hanno acconsentito al suo letale proposito. «Ciascun Homo sapiens comunica telepaticamente,» dice «solamente che ciò non è accettato dalla società.» Anche se sconcertata da tanta confusione e follia, la corte ritiene comunque Mullin capace di intendere e volere e lo condanna per l’omicidio di dieci persone. La condanna è alla prigione a vita, ma Mullin potrebbe ottenere la libertà sulla parola nel 2025. Serial killer missionari A questa tipologia appartiene l’assassino seriale che fa propria la «missione» di liberare il mondo da una categoria di soggetti che giudica non meritevoli di vivere, oppure di danno e pericolo per la società: prostitute, omosessuali, minoranze etniche, appartenenti a particolari fedi religiose. Una volta catturati e sottoposti ad accertamento psichiatrico, quasi mai rivelano una malattia mentale così grave che ne risulti compromessa totalmente la capacità di intendere e volere. Joseph Franklin da Madison, Wisconsin, appartiene al Ku Klux Klan, frequenta gruppi neonazisti ed è profondamente convinto che le coppie interrazziali rappresentino un peccato contro Dio. L’uomo è anche certo che il sistema della giustizia sia troppo indulgente con i «negri» ed è sospettato di aver piazzato un ordigno esplosivo nella sinagoga di Chattanooga, nel Tennessee. Franklin è anche un cecchino micidiale: attraversa il paese colpendo a morte almeno quindici vittime, la maggior parte delle quali sono coppie costituite da un uomo di colore e una donna bianca. Spara appostandosi di solito sul tetto di centri commerciali, e grazie alla sua grande mobilità sfugge all’identificazione e alla cattura. Le uniche notizie che si hanno di lui in relazione agli omicidi riguardano la sua presenza fisica nelle città al momento dei crimini. La serie di delitti ha finalmente termine nel 1980 quando viene arrestato in Florida per un omicidio avvenuto a Salt Lake City: due uomini di colore colpiti mentre fanno jogging in compagnia di una ragazza bianca. Franklin viene condannato per quattro volte al carcere a vita nel 1981. Joseph Paul Franklin rappresenta il caso non frequente di serial killer motivato dall’odio razziale: di città in città, di stato in stato, si è mosso con lo scopo preciso di ri-

pulire il mondo. Ha ucciso a caso, facendo le sue prime vittime, Alphonse Manning e Toni Schwenn, a Madison, Wisconsin, nel 1977. In totale il nome di Franklin viene associato a venti omicidi e numerosi altri crimini: rapine in banca e attentati dinamitardi. Fra i delitti confessati vi sono almeno due vittime conosciute: il leader per i diritti civili Vernon Jordan, e Larry Flint, manager dell’industria della pornografia, responsabile di avere ospitato, nelle pagine delle sue patinate riviste, immagini erotiche di coppie interrazziali. Attualmente Franklin, dopo avere raccolto più condanne a vita, è ospite del braccio della morte in un carcere del Missouri: l’omicidio di un uomo di religione ebraica avvenuto dinanzi a una sinagoga è il delitto che ha fatto sì che venisse condannato alla pena capitale. Serial killer edonisti Uccidono per piacere. È possibile suddividere questa categoria in tre sottogruppi, sufficientemente distinti: gli assassini per tornaconto personale, quelli orientati al piacere sessuale e i killer alla ricerca del brivido. PER TORNACONTO

Il piacere, la gratificazione per l’assassino non derivano unicamente dall’omicidio, ma anche dal guadagno personale che proviene dalla morte della vittima. La maggior parte delle donne protagoniste di delitti seriali appartiene a questa tipologia. Siamo nel 1929. Herman Drenth abita in una zona di campagna della Virginia. Ha costruito una stanza in cemento, isolata, sotto la propria casa. Sospettato di almeno cinquanta omicidi, sceglie le proprie vittime fra le vedove che rispondono ai suoi annunci nelle rubriche dei cuori solitari, nella speranza di un nuovo matrimonio. Quando le donne gli chiedono di visitare il suo ranch, qualche volta accompagnate dai figli, egli trova il modo di gettarle nella stanza segreta. Invita poi le vittime a sottoscrivere la rinuncia dei propri beni in suo favore, e raccoglie le attestazioni in un secchio che cala dall’alto. Uccide subito i bambini con un martello, mentre lascia morire le donne di fame, o le percuote a morte più tardi. Durante gli interrogatori racconterà di aver provato una eccitazione sessuale nell’udire le urla delle sue vittime provenire di notte dal locale. Un giorno arriva una segnalazione anonima che mette in allarme gli ispettori postali: vengono alla luce insolite donazioni, sospetti movimenti di denaro, conti bancari chiusi, somme ritirate con delega sempre dallo stesso uomo: Herman Drenth, che viene identificato e arrestato. Nel giardino della sua abitazione vengono estratti i corpi di cinque vittime: Aster Eicher e i suoi tre bambini, giunti dall’Illinois, e Dorothy Lemke dal Massachusetts. Quando gli inquirenti gli chiedono conto della quantità di oggetti di provenienza sconosciuta, ritrovati in suo possesso, Drenth si limita a borbottare: «Me ne avete affibbiati cinque, ne vorreste altri cinquanta?». Condannato a morte, viene impiccato il 18 marzo 1932.

PER PIACERE SESSUALE

Sono assassini che coniugano il letale binomio di sesso e morte, dove la sessualità emersa durante l’aggressione, la tortura, la mutilazione e il cannibalismo costituisce un’esperienza di erotismo estremo. Tim Spencer dal 1984 al 1987 violenta e strangola sette persone, sei donne e un uomo. Ogni delitto sembra diverso dall’altro e induce gli investigatori a sospettare vi sia più di un assassino e la presenza di comportamenti imitativi: è un errore che porta, nel 1985, all’arresto della persona sbagliata. Un errore dimostrato dall’esame del DNA, anche se saranno necessari cinque anni prima che il detenuto innocente venga prosciolto e il colpevole incarcerato. Timothy Spencer diviene a suo modo celebre proprio perché è stato il primo caso a essere identificato e condannato sulla base dei risultati della prova del DNA. La serie di stupri e omicidi che lo vedono protagonista inizia nel gennaio del 1984, quando violenta e uccide ad Arlington, Virginia, la giovane Carol Hamm. Torna in azione nel settembre del 1987: la vittima è Debby Davis, a Richmond. Due settimane dopo la stessa sorte è riservata a Susan Hellams. Diane Choo, teenager, viene uccisa in novembre, nella sua abitazione appena fuori Richmond; Susan Jucker muore in dicembre, nella propria casa ad Arlington. Le tracce biologiche, il liquido seminale che lascia sul corpo delle vittime, tutte sottoposte a violenza sessuale, permette di collegare Spencer ad almeno tre dei cinque omicidi, anche se è probabile ne abbia commessi un numero maggiore. L’esecuzione della condanna capitale avviene il 27 aprile 1994. ALLA RICERCA DEL BRIVIDO

Per questo assassino la dimensione della sfida è centrale; il rischio assunto nel pedinamento, nella cattura, nell’uccisione rappresentano un cocktail di eccitazione e brivido non meno importante dell’esecuzione finale. William Suff, conosciuto anche come «il killer delle prostitute di Riverside» o come «il killer del lago Elsinore», è un quarantenne che lavora come commesso in un magazzino del governo nella Riverside County, California. Ama fare la parte del poliziotto, scrive libri, guida auto elaborate; i vicini lo descrivono come stupido ma simpatico, sempre occupato ad aiutare gli altri. Suff comunque è già stato ospite delle prigioni federali negli anni Settanta, per avere picchiato a morte, con la moglie, la figlia di due mesi. Negli aranceti della Riverside County, Suff scarica il corpo di tredici vittime, tutte prostitute, anche se gli investigatori ritengono che l’uomo sia responsabile di almeno ventidue omicidi avvenuti nella zona. Suff si sposta a bordo di un furgone nel distretto a luci rosse, avvicina le prostitute, le accoltella e si libera dei loro corpi. Fermato a un posto di blocco, la scientifica trova nel veicolo le prove che lo collegano ad almeno due delitti, per i quali viene arrestato e condannato a morte nel 1995. William Suff sembra rappresentare alla perfezione la descrizione di Stevenson del dottor Jekyll e di Mr Hyde.

Nel 1997 esce una sua raccolta di scritti e poesie, curata dall’amico Brian Lane, e lui stesso promuove il suo lavoro letterario in un intervento televisivo registrato dal braccio della morte che lo ospita al penitenziario di San Quintino. Serial killer orientati al dominio sulla vittima Il piacere è ricercato attraverso il controllo totale della vittima: l’umiliazione e la degradazione di un innocente esaltano nell’assassino il senso di onnipotenza. È una gratificazione tanto grande quanto effimera, che inevitabilmente impone nuove vittime sacrificali secondo una serialità che può arrestarsi solo con la cattura o la morte del killer. Per sua stessa ammissione, il trentanovenne Robert Berdella ha un carattere difficile. Proprietario del Bob’s Bizarre Bazaar a Kansas City, Missouri, Berdella distribuisce biglietti da visita in cui è riportata un’avvertenza: «Ho il veleno nella testa». A casa si trasforma: gentile e disponibile, collabora con i vicini per l’istituzione di un programma di prevenzione del crimine e viene al massimo visto come uno stravagante. Almeno sino al pomeriggio del 2 aprile 1988. Quel giorno un vicino di Berdella uscito per una passeggiata nota uno sconosciuto nudo e rannicchiato sulla veranda. E’ un giovane di una ventina d’anni, vestito solamente di un collare per cani allacciato al collo, che racconta di tali abusi sessuali da indurre il passante a chiamare immediatamente la polizia. Il ragazzo dice di essere stato prigioniero di Berdella per i passati cinque giorni e vittima di ripetute aggressioni sessuali, finché non è riuscito a raggiungere una finestra, arrampicarsi e fuggire. Gli investigatori fermano subito Berdella e ispezionano la sua abitazione alla ricerca di prove che avvalorino la testimonianza del giovane aggredito. In oltre trecentocinquanta fotografie rinvenute, sono ritratti più di venti individui sottoposti a torture sessuali. Sei di questi saranno identificati come vittime di omicidio, mentre gli altri sono partner consenzienti dei rituali sado-masochistici di Berdella. Il killer è ossessionato dalla creazione del perfetto schiavo sessuale: stabilisce una sorta di «regolamento della casa» e chiunque sbagli viene punito con bastonate e scosse elettriche. In più Berdella sperimenta l’uso di differenti tipi di droga che inietta nel corpo dei suoi schiavi: torazina, tranquillanti d’uso veterinario, curaro. Si abbandona infine a ogni eccesso sessuale. Il 4 aprile 1988, Robert Berdella viene accusato di sodomia, sequestro di persona e aggressione. La cauzione viene inizialmente fissata a 500 mila dollari, revocata tuttavia il giorno seguente quando, nell’esaminare le foto rinvenute nell’abitazione dell’uomo, si nota che uno dei soggetti, ritratto appeso per i piedi, è inequivocabilmente morto. Mentre si comincia a scavare nel giardino intorno all’abitazione di Berdella, gli investigatori analizzano la lista delle persone scomparse a partire dal 1984. Il 19 dicembre 1988 Robert Berdella viene dichiarato colpevole dell’omicidio di primo grado di Robert Sheldon, e di omicidio di secondo grado per altre quattro vittime. Condannato al carcere a vita, muore durante la detenzione per un improvviso attacco cardiaco.

IV Apparentemente folli

La storia di Gaspare Zinnanti È il 12 marzo 1997. Sono le nove e mezzo del mattino e la metropolitana di Milano è affollata; linea 3, stazione Sondrio, la fermata prima della Stazione Centrale. I treni passano velocemente, si fermano un attimo e ripartono, preceduti da un soffio di aria calda che per un momento cancella l’odore di polvere e di bruciato che c’è in tutte le metropolitane del mondo. C’è un sacco di gente alla stazione Sondrio a quell’ora, una folla che aspetta ordinata al di qua della linea gialla che corre lungo il bordo del marciapiede, uomini, donne, ragazzi, anziani, bambini, tutti in fila, uno accanto all’altro, perché le porte che si aprono sui fianchi dei vagoni sono tante, e per aspettare un punto vale l’altro. Fra la gente in attesa c’è anche una donna. Si chiama Genoveffa, ha quarant’anni ed è una donna come tante altre, normale, senza niente che possa attirare l’attenzione. La signora Genoveffa sta aspettando il treno per raggiungere Marcello, suo marito, con cui ha appuntamento in centro. Niente di strano, niente di speciale, niente di pericoloso. Non è vero. La signora Genoveffa non lo sa, ma in quel momento sta rischiando la vita. Non dovrebbe essere così, è in una tranquilla e civile stazione della metropolitana di una città civile e tranquilla come Milano, è a distanza di sicurezza dal marciapiede, dietro la riga gialla, sono le 9.30 del mattino, è in mezzo a un sacco di gente civile e tranquilla, e invece la signora Genoveffa è in pericolo. Perché fra tutta quella gente civile e tranquilla che affolla la stazione Sondrio quella mattina, dietro di lei, c’è un uomo. Un uomo sui trent’anni, che indossa un paio di scarpe da ginnastica bianche, jeans chiari e un giubbotto di pelle scura. Un uomo che la guarda. La signora Genoveffa non lo sa, ma quell’uomo si sente mancare l’aria. Non riesce a respirare, è convinto di morire, è sicuro che morirà in quel momento ma prima che questo accada sa che deve fare una cosa. Uccidere. Uccidere la signora Genoveffa. Così l’uomo fa un passo avanti, si fa largo tra la folla e si avvicina alla signora. Aspetta. Aspetta che arrivi il treno. Poi fa un altro passo avanti, appoggia la mano sulla schiena della signora Genoveffa e la spinge giù dal marciapiede. Il macchinista vede quella donna che cade sui binari e comincia a frenare, con uno stridio disperato che sa di metallo rovente. Ci riesce quasi, a fermarsi, quasi, perché investe la signora Genoveffa e la lancia lontano, procurandole un trauma cranico con lacerazione cerebrale. Ma non la uccide. La signora Genoveffa non riesce a parlare ma è cosciente e ricorda tutto, e quando è in grado di farlo racconta che cosa le è successo. Non è caduta

da quel marciapiede, non ha perso l’equilibrio, non è stato un incidente, quello. Qualcuno, lei lo ha sentito bene, l’ha spinta da dietro. E non c’è soltanto lei a dirlo, ci sono anche molti testimoni che hanno visto un uomo muoversi in modo sospetto alle sue spalle e poi scappare. Un uomo fra i venticinque e i trent’anni, alto un metro e settantacinque circa, di corporatura media, con i capelli castano chiaro e una specie di barba. La polizia lo cerca, ne ha fatto un identikit abbastanza preciso, che va in onda anche su «Chi l’ha visto?», qualche giorno dopo. Tutti si chiedono perché. Perché quell’attentato alla stazione Sondrio della linea 3 della metropolitana di Milano. Perché quel 12 marzo, a quell’ora. Perché la signora Genoveffa. In realtà, un vero perché, uno di quelli da romanzo giallo, uno di quei moventi razionali e deducibili che potrebbero trovare posto nelle «Venti regole per scrivere un giallo» di un giallista classico come S.S. Van Dine, un movente così non c’è. La signora Genoveffa non lo sa, ma stava per essere l’ennesima vittima di un serial killer. La terza, per la precisione. Il serial killer della metropolitana di Milano ha un volto molto simile a quello tratteggiato nell’identikit. E ha anche un nome e un cognome. Si chiama Gaspare Zinnanti. Gaspare è nato a Palermo nel 1962. Figlio unico, perde il padre in un incidente stradale quando è ancora piccolo e allora la madre lo mette in collegio, dove resta fino a 14 anni. Quando esce, Gaspare comincia a frequentare brutta gente, ragazzi difficili, amici che lo mettono sulla cattiva strada. Si droga e praticamente vive alla giornata, finché non gli arriva la cartolina del servizio militare. Ci resta tutto l’anno e sembra quasi che la vita militare gli faccia bene, che gli dia una regolata. Finita la leva, va a Torino, dove si sposa con una ragazza che fa la dattilografa. Lavora anche lui, prima in un supermercato e poi come muratore, ma cambia continuamente posto, perché finisce per litigare sempre con i superiori e i compagni di lavoro. Un giorno, dopo una discussione con un ragazzo con cui lavora, gli viene una gran rabbia, che diventa una gran voglia di ammazzarlo, ma lì si ferma e non succede niente. Non sta bene, Gaspare, cerca anche di suicidarsi e resta per un mese sotto osservazione psichiatrica. Litiga anche con la moglie, litiga troppo, si separa da lei e va a raggiungere la madre a Magenta, ma non ci resta molto. Va a Milano, dove non ha una casa fissa. Dorme dove gli capita, a casa di qualche amico, alla Stazione Centrale, anche sulle panchine, qualche volta. Si droga, eroina, hashish e Roipnol, anche se non è ancora costretto a farlo regolarmente. Vive di espedienti. Ruba le macchine, scippa le signore, rapina negozi con una pistola di plastica. E si prostituisce, sia con uomini che con donne. Piccoli reati, che lo hanno fatto conoscere in questura e gli hanno fatto passare, complessivamente, sei anni in galera. Gaspare non conosce soltanto disperati, tossicodipendenti e barboni. È un bel ragazzo, sa parlare e sa muoversi, ha anche un’aria distinta, affabile e gentile. Conosce una donna benestante, divorziata, più grande di lui. Francesca Coelli ha 52 anni ed è una donna molto libera, che negli ultimi anni ha avuto una serie di avventure. Ha una vera e propria passione per le riviste e i video porno e la relazione che ha con Gaspare è soprattutto sessuale. A Gaspare Francesca non piace molto, dice che è anche brutta,

ma non c’è problema, va bene lo stesso. È il ‘92 quando la conosce. Ci sta assieme un paio d’anni, poi finisce dentro per altri due, e quando esce torna con lei. Un giorno, attorno al 10 marzo del ‘97, Gaspare e Francesca sono a pranzo assieme, a casa di lei, in via Vanvitelli. Francesca dice una frase. Dice: «Tu sai cosa devi fare», o qualcosa del genere. Qualunque cosa intenda, e sempre che abbia detto veramente una frase del genere, Gaspare capisce una cosa precisa. Ci pensa a quella cosa, ci pensa per un giorno e mezzo. Poi si decide. Un pomeriggio, verso le sei, mentre Francesca gira per casa vestita di un pareo, come fa di solito, lui la segue in silenzio, finché lei non gli volta le spalle. Gaspare ha un martello in mano, che ha preso dalla cassetta degli attrezzi che sta sotto al lavandino. Colpisce Francesca alla testa con quello e la uccide. Poi si mette a piangere, e resta così, a piangere da solo in quella casa, finché non si scuote. Allora si lava e si cambia e mette i vestiti sporchi di sangue in un sacchetto, che butta nella spazzatura assieme al martello insanguinato. Prende 35 mila lire dalla borsa di Francesca, esce di casa chiudendo la porta con le chiavi e va in treno fino a Roma. Vorrebbe vivere lì, e dimenticarsi di tutto. Ma non può. Deve tornare a Milano. C’è un’altra cosa che deve fare. Intanto, il 21 marzo, la polizia ha trovato il corpo di Francesca. È in ginocchio, piegata in avanti, con la testa fracassata, morta almeno dieci-dodici giorni prima. Il capo della squadra mobile di Milano, Luca Carluccio, e il sostituto procuratore di turno, Laura Cairati, si trovano per le mani un vero giallo. La porta dell’appartamento regolarmente chiusa a chiave, l’arma del delitto nella spazzatura. Ci sono le impronte sul manico, ma a chi appartengono? Chi stava frequentando Francesca prima di essere uccisa? La polizia comincia le indagini. Prima o poi a Gaspare ci arriveranno. Prima o poi, anche presto. Lui, intanto, uccide ancora. Gaspare non frequentava soltanto Francesca. Frequenta anche un uomo di 58 anni, Alvaro Calvi. Alvaro ha fatto tanti mestieri, è stato marinaio, ha fatto il portavalori e adesso è in pensione. È omosessuale, Alvaro, e da tempo ha una relazione con un giovane carino e dai modi gentili. Gaspare. Si conoscono da quando lui, Gaspare, era un ragazzino e aveva 14 anni. Gaspare resta a Roma un giorno solo, poi riparte, torna a Milano e va da Alvaro. Prima però passa dalla metropolitana. Linea 3, stazione Sondrio. Vede una donna che sta aspettando vicino al bordo del marciapiede, si sente mancare il respiro e la getta giù sui binari. Ma è solo un intermezzo, perché quello che deve fare lo deve fare con Alvaro. Non lo vede da un po’ di tempo, da quando è uscito di galera l’ultima volta, e gli piomba in casa così, senza avvertirlo. Alvaro è contento di vederlo, quel ragazzo gli è sempre piaciuto, ed è contento anche di prenderlo in casa con sé, nel suo monolocale di viale Monza. Restano assieme parecchi giorni, durante i quali hanno parecchi rapporti sessuali. Ci pensa per tutti quei giorni, anche quando guarda la televisione e al telegiornale parlano di quello strano incidente alla metropolitana e poi dicono che è stato trovato

anche il corpo di Francesca. Ci pensa in continuazione. Non vorrebbe farlo, ma sa che lo farà lo stesso, perché deve. È Alvaro che glielo fa capire, come Francesca. Gli fa capire che deve farlo. Una mattina, verso le dieci e mezzo, Alvaro è seduto al tavolo del soggiorno, intento a fare la schedina. Gaspare è alle sue spalle, con in mano un martello che ha comprato in una ferramenta. Gaspare lo colpisce alla testa, come Francesca, e lo uccide. Questa volta, però, non piange. Si lava, si cambia perché si è sporcato i vestiti di sangue, lava anche il martello. Poi esce, chiude a chiave l’appartamento di Alvaro e butta il martello in un bidone della spazzatura. La polizia entra nel monolocale di viale Monza il giorno dopo, sabato 22, e si trova di fronte a un altro giallo. I fili, tuttavia, cominciano ad annodarsi e portano veloci verso Gaspare. Che intanto, però, riesce a uccidere ancora. C’è un uomo, un tossicodipendente, che Gaspare conosce di vista e di cui non sa neanche bene il nome, «Michele» o «Francesco». Si chiama Vincenzo, invece, Vincenzo Zenzola, ha 43 anni e vive in una palazzina abbandonata dalle parti di via Ripamonti, alla periferia sud di Milano. Gaspare lo incontra la sera stessa di venerdì, dopo che ha ucciso Alvaro. Non sa dove andare a dormire e così segue Vincenzo nella palazzina, dove ci sono delle coperte. Vincenzo si addormenta subito, Gaspare no. Resta sveglio a pensare. A pensare a quello che deve fare. Non lo fa di notte, perché è troppo buio e ha paura di sbagliare. Non lo fa neanche di giorno, quando Vincenzo si sveglia, perché Vincenzo è grande e grosso e gli fa paura. Aspetta che Vincenzo si riaddormenti, dopo un quarto d’ora di chiacchiere, e solo allora lo fa. Lo colpisce alla testa con un martello e lo uccide. Questa volta non butta via subito il martello. Lo tiene con sé ancora per un po’, perché adesso non riesce più a fermarsi, e deve fare subito quello che deve fare. Uccidere ancora. Ma non può, perché c’è troppa gente in giro e non trova mai l’occasione giusta. Così vaga per la città fino alle due di notte, decide di rimandare al giorno dopo e va a dormire alla Stazione Centrale. La mattina dopo è domenica. Gaspare ha fame, ma non ha soldi per mangiare. Vuole procurarseli come fa di solito, con una rapina, e trova anche un complice, un ragazzo di Mestre che si chiama Sandro e ha 27 anni. Sandro non lo sa, ma sarebbe lui la quarta vittima del serial killer, se non succedesse qualcosa. Gaspare e Sandro hanno scelto una ragazza come bersaglio per la loro rapina. È sola, sta passando da una zona appartata della stazione, quando si trova davanti quei due tipi, armati di una siringa che dicono infetta. La ragazza gli consegna tutto quello che ha: 73 mila lire. La ragazza, però, non è una ragazza qualunque. È una giornalista, che conosce bene le notizie di quei giorni e ha visto sia l’identikit sia alcune foto uscite sui giornali. Raffigurano un uomo che viene ricercato come testimone chiave per due delitti e che assomiglia molto a Gaspare.

La ragazza corre subito al posto di polizia della Stazione Centrale a denunciare la rapina. E sottolinea che uno dei due ragazzi è l’uomo che tutti stanno cercando. Sono le 13.30 quando due agenti della Polfer trovano Gaspare nei dintorni della Stazione Centrale. E lo arrestano. All’inizio l’accusa con cui Gaspare finisce in manette è soltanto quella di rapina, ma la polizia sta accumulando prove e indizi per i primi due omicidi. Ci sono le impronte sul martello e ci sono anche i vestiti sporchi di sangue che Gaspare ha ancora addosso. E anche Gaspare le dà una mano. Appena compare davanti al giudice si autoaccusa dell’omicidio di Francesca e di Alvaro. Ma anche del tentato omicidio della signora Genoveffa. E dell’omicidio di Vincenzo, di cui non si ha ancora notizia, finché non è lo stesso Gaspare a indicare la palazzina abbandonata in via Sibari in cui si trova il corpo dell’uomo, seminudo, sotto una coperta insanguinata. Tre omicidi, quasi quattro. Non è un assassino qualunque, Gaspare Zinnanti. È un serial killer Confessa tutto, Gaspare, con tanti particolari e senza nessuna reticenza. Incontra il pubblico ministero il 23 marzo e parla, raccontando tutto quello che ha fatto. Poi, però, cambia versione. Incontra il giudice per le indagini preliminari Alessandro Rossato e dice altre cose, e lo fa in modo sconnesso, a volte mettendo insieme fatti e circostanze che non hanno senso. Dice: «Io al giudice gli dico delle cose e lui scrive, ma non ci sono le prove perché nessuno mi ha visto fare niente. C’erano tutti gli indizi contro di me per quella donna e quindi ho detto che sono stato io, ma quando dalla perizia verranno fuori le impronte che non sono le mie allora lì dirò altre cose». Non è stato lui a uccidere quelle tre persone? E allora come faceva a sapere della morte di Vincenzo? E’ stato lui a far trovare il corpo… «C’è un motivo che adesso non voglio dire. Io sapevo che lo Zenzola era morto ma non voglio dire altro… Ci sono dei motivi che col tempo verranno fuori per i quali all’altro giudice ho detto di averlo ucciso io, invece a lei dico la verità. So chi ha ucciso lo Zenzola, ma lo dirò solo dopo che ho visto la perizia. Per adesso dico che non sono stato io. Io non sono stupido e voglio fare le cose bene e con calma.» Non regge molto come autodifesa. Ma Gaspare insiste. Parla di un’altra persona. Una ragazza. «Dopo aver fatto una passeggiata sono tornato a casa con una ragazza che mi ha chiesto chi era la Coelli e le ho detto che era la mia donna e ho capito che si era ingelosita moltissimo. La ragazza ha un nome francese.» Conosceva anche Alvaro, la ragazza col nome francese. «Ho fatto conoscere a quella ragazza col nome francese il Calvi, il quale si è innamorato subito di lei.» E la descrive, anche: «Era bionda, anche se non di colore platino. L’ho conosciuta alla Stazione Centrale circa un mese fa. La ragazza dormiva dove capitava, si prostituiva per potersi pagare la droga ma io non volevo. Spesso la trovavo a dormire sopra le panchine». Alla fine salta fuori anche il nome, Dolly. Li ha uccisi tutti lei, tutti e tre, per ven detta e gelosia nei suoi confronti. Non ci crede nessuno.

Gaspare racconta tante cose, contraddittorie e sconnesse, ma dice anche cose ancora più strane. Soprattutto riguardo agli omicidi e alle sue vittime. Dice: «Io gli volevo bene». Dice: «Io non li odiavo». Dice: «Non volevo che soffrissero, la vita è triste, è fatta di tanti passaggi, si deve passare da uno stadio all’altro, io volevo far del bene». Sono frasi strane, che non è facile capire. Per questo appena Gaspare finisce a San Vittore lo psichiatra del carcere ordina per lui «sorveglianza a vista» e gli prescrive una terapia a base di psicofarmaci. Il 3 aprile, i sostituti procuratori Laura Cairati e Rosario Spina, che si occupano del caso, chiedono aiuto al professor Gianluigi Ponti, docente di psicopatologia forense e criminologia all’Università di Milano, perché ci capisca qualcosa. Il professor Ponti e i suoi collaboratori incontrano Gaspare in tre colloqui, e ogni volta sembra quasi che incontrino una persona diversa. Il 5 aprile Gaspare è «garbato, gentile, rispettoso, con il fare di persona ben educata e con quell’aspetto di giovane per bene che suscita stupore e che rimane immutato anche nel momento in cui narra i truculenti omicidi che ha commesso». Disponibilissimo a parlare di sé e di tutto quello che ha fatto, sia con i magistrati sia con il professor Ponti. Solo, ogni tanto ride. Si lascia andare a una risatina intermittente, «un risolino fatuo», dice il professore, che a volte diventa una risata spiegata, quasi sempre a sproposito. Non c’è molto da ridere in quello che racconta Gaspare, anche se lui lo fa con grande naturalezza. «Sotto il profilo affettivo egli mostra una sorta di indifferenza per quello che ha fatto, come se massacrare tre persone in modo tanto violento, e aver cercato di ucciderne una quarta gettandola sotto la metropolitana, fossero le cose più naturali del mondo che non suscitano in lui nessuna reazione emotiva.» Ma nel secondo colloquio, il 7 aprile, l’atteggiamento di Gaspare cambia. È arrabbiato. È arrabbiato perché è ancora in prigione. Ma come, dice, «ho fatto del bene e mi ripagano col male»? Continua a ridacchiare ogni tanto, ma è arrabbiato con tutto il mondo. Sì, perché tutta quella gente che ha ucciso, Gaspare l’ha uccisa a fin di bene e dovrebbe addirittura essere premiato. Lo spiega. Dice di aver ucciso quelle persone «per far loro del bene», perché «la morte è il buio, ma poi viene la luce». Ha una missione da compiere: salvare l’umanità. E non è una missione che si sia inventato da solo, gli è stato comandato. Gli è stato ordinato da Gesù Cristo in persona. Punire gli uomini. Salvare gli uomini. Ucciderli. Gaspare non è molto chiaro, naturalmente. Delira, si contraddice, si interrompe, ridacchia in continuazione. Accavalla i pensieri e i concetti. È stato Gesù a ordinargli di uccidere. No, non è stato Gesù. È lui Gesù. Gaspare è il Figlio di Dio che deve giudicare tutti gli uomini. «Con l’incoerenza che è tipica di chi vive una così intensa condizione psicotica,» dice il professor Ponti «nel suo delirio mistico salvifico e di grandezza finisce poi per affermare che deve ammazzare anche Dio e lo Spirito Santo.» È un fiume in piena, Gaspare, anche se è arrabbiato. Ma vuole dimostrare che stava solo facendo del bene. Che doveva «castigare la gente», Gaspare lo sapeva già da qualche anno. Ma è solo da due o tre mesi che «sentivo nell’aria delle voci e delle presenze, come se il Signore mi chiedesse aiuto, e il Crocifisso mi diceva ho bisogno di te, vienimi incontro, era

una cosa strana, sentivo la presenza di Gesù ma erano tre Gesù, e perciò ho dovuto uccidere tre persone». Delira, Gaspare, ma il suo non è il delirio di un mitomane. È il folle delirio di un assassino seriale che ha ucciso tre persone, quasi quattro, e che avrebbe ucciso ancora. «Essendo l’illogicità una costante del suo pensiero,» dice il professore «nonostante avesse compiuto la missione facendo tre vittime, afferma poi che avrebbe dovuto ucciderne ancora altre, tanto che dopo l’omicidio dello Zenzola tenne con sé il martello, del quale si sbarazzò solo più tardi.» Uccidere, ma non per motivi sessuali. Il sesso qui non c’entra. «È importante segnalare che nelle sue folli motivazioni la tematica sessuale è del tutto estranea.» Non è un sadico perverso che ha ucciso per il piacere sessuale che la sofferenza delle vittime gli assicurava. La relazione sessuale che Gaspare aveva con Francesca e Alvaro non ha nessun peso nella sua decisione di ucciderli. Gaspare ridacchia quando parla del rapporto con loro e anche di quando si prostituiva. Non gli importa niente, sono dettagli, non c’entrano. Li ha uccisi perché doveva farlo. Se ne erano accorti anche loro, anzi. Glielo avevano chiesto. E Dolly? La ragazza svizzera di origine francese che avrebbe ucciso tutta quella gente per gelosia nei suoi confronti? Ah no, Dolly non c’entra. No, anzi, non solo non c’entra, non esiste proprio, Dolly. Non è mai esistita. Se l’è inventata lui. E ridacchia, mentre lo dice. All’ultimo incontro con gli psichiatri, il 10 aprile, l’atteggiamento di Gaspare è cambiato ancora. Adesso è furioso. Gaspare, in prigione, non ci vuole stare. Non hanno il diritto di tenercelo, dopo tutte le buone azioni che ha fatto, perché ha fatto semplicemente il bene delle sue vittime e la volontà di Dio. Non possono bloccare così la sua missione. Quindi, se non lo lasciano andare, farà una strage. Scapperà di galera e non sarà difficile, perché dentro ha una forza invincibile, una «immensa forza» che gli permette di fare tutto quello che vuole. Scapperà e farà una strage e nessuno «avrà scampo fino alla fine dell’universo, perché anche se mi uccidono io poi risusciterò». Vuole uccidere tutto il mondo, «perché mi hanno dato il male per il bene che ho fatto; sono troppo arrabbiato, se avessi un mitra o una pistola continuerei a uccidere». Ha un piano per scappare, Gaspare. Uno dei suoi, un delirio, che spiega ridacchiando come sempre. «Anche se mi danno tre ergastoli io non li farò perché mi ammazzo, prenderò la rincorsa e sbatterò la testa contro il muro, così andrò nella luce.» Sembra un personaggio di un film dell’orrore, Gaspare. Sembra Candy Man, che se lo nomini cinque volte si materializza e ricomincia a uccidere. Sembra Freddy Kruger che torna sulla terra negli incubi dei ragazzi. Gaspare morirà, resusciterà da qualche parte e ricomincerà a uccidere. Per sempre. Fino alla fine dell’universo. Il professor Ponti, i suoi colleghi con lo specialista in test mentali, esaminano Gaspare accuratamente. Il loro responso è molto chiaro.

«Si tratta di una forma di schizofrenia acuta caratterizzata dalla presenza di deliri bizzarri e confusi di vario contenuto (religioso, salvifico, di grandiosità e di distruzione) che comportano nel paziente il convincimento di essere stato investito per volontà divina del compito di uccidere le vittime per la loro salvezza.» Ci sono anche le allucinazioni, quelle uditive, con le voci che Gaspare sente di continuo, il Crocifisso che gli parla, e quelle visive, con oggetti indefiniti che fluttuano nell’aria. Uno schizofrenico, che ha manifestato la malattia all’improvviso, come dimostra il fatto che fino a quel momento ha condotto una vita quasi normale, facendo senza problemi il servizio militare, sposandosi, trovando e compiendo vari lavori. Però, adesso, Gaspare è così. Quando i sostituti procuratori Cairati e Spina hanno nominato il professor Ponti, volevano capire cosa passava nella sua testa, ma soprattutto volevano sapere alcune cose. Se sia in grado di intendere e di volere, se possa essere processato e se sia ancora pericoloso. «Venendo ora alla valutazione psichiatrico-forense,» scrive il professor Ponti nella perizia «la gravità della sintomatologia è di tale rilievo che deve necessariamente comportare il giudizio di totale assenza di capacità di intendere e di volere al momento della commissione dei delitti.» Bene. Non in grado di intendere e di volere. E adesso? «Qualche perplessità suscita invece il giudizio sulla capacità processuale: da un lato lo Zinnanti, persistendo nell’attualità in piena acuzie, nonostante le cure praticate in carcere, la psicosi da cui è affetto, vede ridotta la sua capacità di coscientemente partecipare al processo.» D’altra parte, sa bene chi è, dove si trova e di cosa sia chiamato a rispondere «ed è pure in grado in qualche modo di difendersi col dichiararsi innocente o con l’insinuare l’ipotesi che sia un altro l’omicida». Per cui forse, proseguendo con le cure, aumenteranno le sue capacità di partecipare a un processo. Bene. Ed è ancora pericoloso? «Nessun dubbio per quanto attiene alla pericolosità: che è elevatissima e attuale, sia nei confronti del prossimo che di se medesimo. Si sono già prima sottolineati i propositi di stragi che egli va progettando per vendicarsi di essere stato messo in carcere nonostante il bene che ha fatto alle vittime uccidendole; e deve aggiungersi che il rilevantissimo rancore per esser stato imprigionato è alimentato anche dal convincimento di essere colui che gli uomini non possono giudicare, essendo Dio in persona. In ogni momento, e del tutto imprevedibilmente, egli può mettere in atto il proposito apertamente dichiarato di uccidere chiunque gli capiti a tiro.» È pericoloso, Gaspare, pericolosissimo. Se appena ne ha la possibilità, o si ammazza o ammazza subito qualcuno. Bisogna internarlo immediatamente in un ospedale psichiatrico giudiziario. Non meno di dieci anni da trascorrere in un manicomio criminale: questa è la disposizione dei giudici; e dopo sei, una nuova valutazione psichiatrica, per stabilire se Gaspare sia migliorato, o se ancora sia in preda a deliri e allucinazioni. Finisce a Reggio Emilia, nella nuova struttura aperta nel 1991 per sostituire il vecchio manicomio criminale. Ospedale psichiatrico giudiziario e carcere: due blocchi squadrati di cemento armato con davanti un campo di calcio cintato da reti altissime, in frazione Buco del Signore, Reggio Emilia.

Una sezione di «custodia attenuata», una per i semiliberi, e quattro normali, con i nomi delle costellazioni, come Perseo, ad esempio. 124 celle. In una di queste Gaspare Zinnanti combatte con il delirio, con la disperazione. Mai potremo sapere come la disperazione abbia alla fine vinto. Luglio 2001: gli agenti di custodia trovano il corpo senza vita di Gaspare Zinnanti, impiccato alle sbarre della cella.

La storia di Ed Gein Chiuso in una cella della polizia, Norman Bates sta parlando con la voce isterica e acuta di sua madre. Poi, lentamente, i suoi occhi si fissano, il suo volto perde di espressione, mentre le labbra sottili si stirano in un sorriso agghiacciante. Poco per volta, gradualmente, sui suoi lineamenti si sovrappongono quelli della madre morta tanto tempo prima, imbalsamata su una sedia a dondolo in una stanza chiusa al piano superiore del Bates Motel. È soltanto un film, è Psycho di Alfred Hitchcock, e Norman Bates è l’attore Anthony Perkins, ma il personaggio a cui si è ispirato Robert Bloch, l’autore del racconto da cui è tratto il film, è esistito davvero, davvero aveva un rapporto morboso con la madre e davvero ha ucciso, come Norman Bates. È il serial killer che ha ispirato più romanzi, racconti e film dell’orrore. Si chiama Ed Gein. Edward Theodore Gein nasce a La Crosse, una tranquilla, piccola cittadina del Wisconsin, il 27 agosto 1906. Ha un fratello che si chiama Henry, più grande di lui di sette anni, e un padre che si chiama George, disoccupato e alcolizzato. Ma soprattutto Edward ha una madre che si chiama Augusta. Augusta Gein è una donna energica e dura. Ha una drogheria nel centro di La Crosse ed è lei che mantiene la famiglia, con rigore, perché anche se il negozio va bene e fa guadagnare soldi, la signora Gein è avarissima e mette via tutto. Il signor Gein praticamente non esiste, è come se non ci fosse neanche, in famiglia, come se fosse soltanto il terzo figlio della signora Augusta, che stabilisce le regole e i divieti, determina i principi e provvede a tutto. In un modo molto particolare. La signora Gein è una fanatica religiosa. Ha un codice morale rigorosissimo, basato su un’interpretazione tutta sua della Bibbia e sulla lotta quotidiana contro i peccatori che circondano la famiglia e vogliono portarla alla perdizione. Soprattutto, la signora Gein ce l’ha con le donne, tutte strumenti del demonio, da cui fuggire assolutamente. Bisogna evitare le tentazioni carnali, evitare il contatto, evitare gli atti sessuali, evitare il matrimonio, altrimenti si finisce all’inferno. La Crosse è una cittadina di campagna di cinquantamila abitanti, il Wisconsin stesso è uno stato di campagna, con grandi boschi, allevamenti di vacche, campi di granturco e patate, il lento scorrere del Mississippi, ma per la signora Gein è troppo peccaminosa, troppo ricca di tentazioni e di donne. Nel 1914 vende la drogheria, prende la famiglia e la porta lontano, nel cuore del Wisconsin, a Plainfield, un paesino di

duemila abitanti. E non le basta ancora, compra una fattoria isolata, centonovantacinque acri di terra lontano dal mondo, dal peccato e dalle tentazioni. A scuola, però, i bambini ci devono andare. La signora Gein cerca in tutti i modi di evitare che i figli facciano amicizia con altri ragazzi e preferisce che giochino soltanto fra loro. Per il piccolo Eddie è ancora più difficile avere amici, i ragazzi del paese lo prendono in giro perché è timido ed effeminato. Per il resto, a scuola non va male. Soprattutto gli piace leggere, romanzi d’avventura e anche riviste di fantascienza. Poi, nel 1940, il signor Gein muore. Anche i ragazzi devono darsi da fare e Eddie trova lavoro soprattutto come baby-sitter per i bambini del vicinato. Un lavoro che gli piace, perché Eddie, con i bambini, si trova bene, parla con loro, ci gioca, quasi fosse un bambino anche lui. Nel confronti della madre, Eddie ha una vera forma di venerazione. Fa tutto quello che vuole, non la critica mai, è convinto che abbia sempre ragione e stravede per lei. Henry, invece, crescendo diventa sempre più critico, sempre più insofferente della disciplina che regna in casa Gein. Litiga apertamente con la madre, cosa che a Eddie sembra quasi un sacrilegio. Poi, all’improvviso succede qualcosa. Il 16 maggio 1944, Henry e Eddie sono nei boschi intorno alla fattoria assieme agli uomini dello sceriffo per cercare di spegnere un incendio. Restano fuori fino a notte, ma a tornare è solo Eddie. Dice che ha perso di vista il fratello appena si è fatto buio, e allora cominciano a cercarlo, perché potrebbe essere rimasto vittima del fuoco. Lo trovano poco distante, a terra, morto, ma non per l’incendio, che non è riuscito ad arrivare fino a quel punto. È morto per soffocamento e ha strane ferite sulla testa. Ma non c’è motivo di sospettare di nessuno, tanto meno del timido Eddie, per cui la morte di Henry viene attribuita a un incidente e le indagini si fermano lì. Eddie resta solo con sua madre. Poi, anche sua madre muore. Succede il 29 dicembre 1945. La signora Gein soffriva di cuore, aveva già avuto alcuni infarti e quel giorno ha un ultimo attacco, quello definitivo. Eddie ha quasi quarant’anni ma è solo, completamente solo, e senza la madre si sente perso. Resta nella fattoria, ma sigilla le stanze che usava sua madre, senza toccare niente, le sedie a dondolo, il tappeto, le tende, le assi di legno del pavimento, la polvere e le ragnatele che cominciano a formarsi sui mobili. Chiude ermeticamente tutto e per sé tiene soltanto la cucina e una stanzetta sul retro. Il resto della casa è praticamente un museo. Come per il Norman Bates di Psycho. Ezra Cobb, il Macellaio di Woodside, se ne sta immobile sulla poltrona, fingendo di essere un cadavere. Tutto il salotto è pieno di cadaveri, uomini e donne mummificati alla meglio, anche bambini, vestiti come per una cena importante, la pelle raggrinzita, i teschi coperti da parrucche, i denti sporgenti da sorrisi senza labbra. Ezra Cobb se ne sta immobile e aspetta. Aspetta che la ragazza si avvicini abbastanza da saltarle addosso e ucciderla fracassandole la testa con un femore umano. Anche questo è un film, è Deranged, di Jeff Gillen e Alan Ormsby, ed Ezra Cobb è Robert Blossom, un attore. Ma assomiglia molto a Ed Gein. Rimasto solo, Eddie cerca di sopravvivere con lavoretti occasionali, alla giornata, continuando soprattutto a fare il baby-sitter. Non gli serve molto per campare, tutto quello che ha lo spende in libri e riviste, perché la passione per la lettura non l’ha ab-

bandonato. Ma non legge di tutto, Eddie, ha gusti molto precisi e molto particolari. Legge libri di storia sul Terzo Reich e i campi di sterminio nazisti, reportage sui cacciatori di teste dei Mari del Sud e storie di naufragi. Legge riviste pulp con storie sanguinose di gangster e delitti, ma anche testi scientifici di anatomia. Legge anche i giornali locali, con particolare attenzione ai necrologi. Non basta. Eddie comincia a frequentare i cimiteri. Scorre pazientemente i necrologi finché non trova la notizia di un funerale recente che abbia come oggetto una donna, poi aspetta la notte giusta, si introduce nel cimitero e riesuma il cadavere. Ma vedere e toccare i cadaveri non gli basta ancora, saccheggia le tombe e porta a casa quello che trova: ossa, parti del corpo, teste intere. Parti del corpo di donna diventano ornamenti per le due stanze della casa in cui vive. Apre i teschi e li trasforma in ciotole, appende crani nella sua camera da letto, decora i mobili con nasi, orecchie, vagine, confeziona maschere da appendere alle pareti con i volti dei cadaveri femminili. È diventato bravissimo a introdursi nei cimiteri e abilissimo a tagliare, sezionare, amputare, quasi come un chirurgo. Dai libri sui campi di sterminio prende l’idea di conciare la pelle umana per fare paralumi, cestini, rivestimenti per sedie, e diventa bravissimo anche in quello. Eddie non ha amici, a parte uno. Un ragazzo con problemi mentali che abita in una fattoria vicina, un ritardato di nome Gus. Gus lo segue nelle sue scorribande nei cimiteri, lo aiuta a trasportare i cadaveri, a lavorare la pelle umana. Poi Gus peggiora, i suoi decidono di metterlo in un istituto e Eddie rimane definitivamente solo. Con le sue ossessioni. Un giorno uno dei ragazzini a cui fa da baby-sitter va a trovarlo alla fattoria, e Eddie gli fa vedere alcune delle teste che tiene in camera da letto, dicendogli che sono state prese dai selvaggi dei Mari del Sud. Quando torna a casa, il ragazzino lo racconta ai genitori, ma nessuno gli crede, come nessuno crede ad altri due ragazzi che vanno da Eddie qualche giorno dopo e vedono teste umane in casa sua. Saranno maschere per i costumi di Halloween, pensano. Nel Silenzio degli innocenti di Jonathan Demme la parte del serial killer la fa Ted Levine. È uno psicopatico che chiamano Buffalo Bill da quando hanno ritrovato il cadavere di una ragazza a cui era stata staccata la pelle dalla schiena. Buffalo Bill come il cacciatore del West che uccideva e scuoiava i bisonti. Adesso Buffalo Bill è seduto alla macchina per cucire e sta rifinendo un pezzo di pelle. Pelle umana. La deve aggiungere a quella che sta già in forma su un manichino dalle curve femminili. Da dietro la porta che dà sulla cantina arrivano le urla disperate di una ragazza e l’abbaiare furioso di un cane. Il cane è Precious, il barboncino bianco che vive con lui. La ragazza è l’ultima che ha preso. L’ha narcotizzata, l’ha caricata sul furgone e l’ha gettata nella buca che ha scavato in cantina. Senza darle da mangiare, perché così dimagrisce e sarà più facile staccarle la pelle. Perché è quello che a lui interessa, la pelle. Come a Ed Gein. Non è solo per un macabro senso dell’arredamento che Eddie profana tombe e cimiteri. Cerca scrupolosamente sui necrologi i decessi di donne per trafugarne il cadavere e prendergli la pelle. Pelle umana che concia e con la quale confeziona vestiti,

braccialetti, gambali, e soprattutto un corpetto con applicati seni veri presi a un corpo trovato in una tomba. Sono «travestimenti» che Eddie indossa di notte, per uscire nei campi a compiere rituali solitari, da lui inventati. Vorrebbe diventare una donna, perché è convinto che le donne siano più forti degli uomini e abbiano un vero potere su tutto. È chiaro che il rapporto con una madre come Augusta lo ha segnato profondamente; i due hanno finito per costruire una relazione simbiotica, che non ha lasciato a Eddie alcuno spazio per crescere, nessuna autonomia; gli psicoanalisti certamente rispolvererebbero il complesso d’Edipo, e parlerebbero della sua mancata elaborazione. In verità non c’è nessun margine per l’altro, per una comunicazione matura; solo nella fusione con la madre Gein può trovare serenità ed equilibrio; e certamente nemmeno la morte può interrompere la loro unione. Di fatto Eddie è cresciuto con un’unica figura di riferimento, quella femminile; il padre non ha mai contato nulla, il fratello è stato solo una nota fastidiosa, qualcosa che turbava il perfetto rapporto tra madre e figlio e che per questo è stato eliminato. Da solo, nella sua fattoria isolata nelle campagne del Wisconsin, Eddie può fare tutto quello che vuole per coltivare le sue fantasie. È un po’ strambo, ma chi non lo è in quel paesino di «bifolchi»? Non ha mai creato problemi, non beve, non è violento, non corre con la macchina, non scende in paese ad attaccare briga. Non c’è ragione per cui lo sceriffo lo tenga d’occhio o debba salire fino alla fattoria a vedere cosa succede. Tutti lo conoscono come un tipo a posto, un po’ strano, un po’ ritardato, ma che forse proprio per questo ci sa fare così bene con i bambini. Sembra innocuo anche a vederlo, un cinquantenne magro, col volto scavato, da campagnolo, un berretto da caccia scozzese, con la visiera, sempre sulla testa. Finché non viene il momento in cui a Eddie le fantasie, i cadaveri trafugati dai cimiteri, i «travestimenti», non bastano più. Non aprite quella porta, 1974, regia di Tobe Hooper. Pam, tipica teenager americana dei film del terrore, è appesa a un gancio da macellaio attaccato al soffitto. Un gigante con il volto coperto da una maschera di pelle l’ha presa e l’ha infilzata sulla punta acuminata, ma lei è ancora viva. Penzola nella cantina di quella che sembrava una tranquilla e solitaria casa di campagna e che invece si rivela una spaventosa macelleria umana. Kirk, il suo ragazzo, è stato atterrato dal gigante con la maschera di pelle, che lo sta facendo a pezzi con una sega elettrica. Pam è costretta a guardare la scena. Poi il gigante si alza e comincia ad avvicinarsi anche a lei, con la sega in mano. Non c’è un unico serial killer nel film, ci sono troppi omicidi e la fattoria si trova nel Texas, ma sui manifesti appesi nei cinema sopra il titolo campeggia la scritta: NON È SOLO UN FILM! NON È SOLO UN FILM! NON È SOLO UN FILM! È REALMENTE ACCADUTO! Non è del tutto vero, ma un po’ ci assomiglia a quello che ha fatto Ed Gein. A Pine Grove c’è un posto di ristoro, una piccola stazione di servizio per camionisti e automobilisti che vogliano un caffè o una fetta di torta di mele. Lo gestisce una signora di 51 anni che si chiama Mary Hogan. Il paese è piccolissimo, non ci passa molta gente da quelle parti, e capita che a volte il posto di ristoro di Mary sia completamente vuoto.

Accade così un giorno di dicembre del 1954. Pine Grove è a soltanto dieci chilometri da Plainfield, dove c’è la fattoria di Eddie. Eddie è in giro col furgoncino che usa per spostarsi e capita da Mary. La donna è sola, dietro il bancone. Eddie ne approfitta. Le spara con una pistola calibro 32 e la uccide. Poi la trascina fuori, la carica sul furgoncino, un Ford Sedan del ‘49, e la porta a casa. Non lo vede nessuno. Sul pavimento del posto di ristoro restano soltanto un bossolo vuoto e delle tracce di sangue, che arrivano fino al parcheggio ma non portano a niente. A Plainfield, proprio in centro, sulla Main Street, c’è un negozio di ferramenta. Lo gestisce una signora di 58 anni che si chiama Berenice Warden. Eddie è parcheggiato proprio lì davanti e sta tenendo d’occhio il negozio da dentro al furgone, finché non vede che è vuoto. Allora entra e spara a Berenice con un fucile calibro 22. Poi la trascina fuori senza farsi vedere da nessuno, la carica sul Ford Sedan e la porta a casa. Prima, già che c’è, svuota anche la cassa della ferramenta. A casa, Eddie porta la signora Berenice in una baracca che si trova accanto alla fattoria e che serve da magazzino, la appende a un gancio, a testa in giù, la spoglia nuda, la sventra e la decapita. È il 17 novembre del 1957. Three on a Meathook, 1973, regia di William Girdler. C’è una fattoria isolata nella campagna americana che si rivela una casa dell’orrore. Un agricoltore folle e suo figlio che rapiscono giovani ragazze e le appendono a ganci da macellaio. Una di queste, prima di essere uccisa, entra nella casa e si trova di fronte a quella assurda macelleria, con i corpi delle altre ragazze appesi al soffitto. Una scena allucinante. Come quella che vide la polizia quando entrò nella casa di Ed Gein. La scomparsa della signora Berenice viene notata subito. È suo figlio a rendersene conto, quando torna dalla caccia con un cervo sul pick-up, vorrebbe scaricarlo al negozio ma lo trova stranamente chiuso. Dentro, al posto della madre trova tracce di sangue e il registratore di cassa vuoto. Il figlio della signora Berenice è anche il vicesceriffo di Plainfield, un uomo abituato per mestiere a ricordare volti e particolari. Il vicesceriffo Warden si ricorda di aver visto attorno al negozio quel tipo un po’ strambo che sta alla fattoria, quel Gein, e decide che è meglio andare a dare un’occhiata. Eddie non c’è, è fuori, a cena da alcuni amici a ovest del paese. La fattoria è chiusa. Il vicesceriffo Warden, però, comincia a fare due più due, a mettere insieme tutte le voci che girano su quel tipo, la scomparsa della signora Mary a Pine Grove, altri fatti accaduti nei dintorni, anche i racconti dei bambini a proposito di teste tagliate e costumi di Halloween. C’è qualcosa che non torna. Forse quel Gein non è soltanto un po’ strambo. Forse c’è qualcosa di più. Quella sera stessa gli uomini dello sceriffo Schely e gli agenti del capitano Schoephoester entrano in casa di Eddie. Trovano le stanze della signora Gein sigillate e intatte, chiuse fin dal giorno in cui era morta, nel lontano 1945. Poi passano alla cucina e alla stanza in cui vive Eddie, e quasi faticano a passare perché c’è un disordine incredibile, con riviste, scatole vuote, cartacce e spazzatura sparse sul pavimento, e anche uno strano, insopportabile odore. In quelle stanze trovano il macabro arredamento di Eddie, i paralumi e le sedie di pelle umana, le teste in camera da letto, i teschi usati

come suppellettili, le maschere, i nasi, le orecchie, le vagine, il corpetto con i seni che Eddie usa per i riti. Nel magazzino di fianco alla casa è ancora peggio, perché è lì che Eddie seziona i cadaveri e ne lavora i resti. Lo sceriffo Schely è il primo a entrare e accorgersi che uno strano liquido denso e nerastro gli sta colando sulla giacca. Alza la testa e vede che, appesa a un gancio fissato al centro del soffitto, c’è la signora Berenice, sventrata e decapitata. In una pentola, a bollire sul fuoco, c’è il suo cuore. Eddie viene raggiunto a casa degli amici da cui si trova a cena e arrestato immediatamente. Dice di non sapere nulla di tutti quei massacri, ma non gli crede nessuno. La domanda principale che agita gli uomini dello sceriffo Schely e del capitano Schoephoester è a chi appartengano tutti quei resti trovati in casa di Eddie. E, soprattutto, se provengano da persone che erano già morte o ancora vive quando hanno incontrato lo strano signor Gein. Attorno a Plainfield, infatti, c’erano state altre sparizioni, in quegli anni. Il 1° maggio 1947, una bambina di 8 anni di nome Georgia Weckler era scomparsa mentre stava tornando a casa da scuola. Abitava vicino a Jefferson, a sud di Plainfield, e la polizia, aiutata da centinaia di volontari, aveva setacciato un’area di dieci miglia quadrate, senza trovarla. Unico elemento interessante rinvenuto, strane tracce di pneumatici vicino alla casa di Georgia. Pneumatici di un furgoncino Ford. Sei anni dopo, a La Crosse, scompare un’altra ragazzina. Ha 15 anni e si chiama Evelyn Hartley. Sta facendo la babysitter in una casa della cittadina e il padre vorrebbe contattarla per dirle qualcosa, ma al numero di telefono che lei gli ha lasciato non risponde nessuno. Il signor Hartley va a vedere all’indirizzo che corrisponde al numero e trova soltanto una casa vuota e chiusa. Dentro, però – la vede da una finestra – c’è una scarpa di Evelyn. E ci sono anche i suoi occhiali. Nella casa, il signor Hartley trova tracce di sangue e segni di lotta, e ce ne sono anche fuori, sull’erba, assieme all’impronta insanguinata di una mano sul muro della casa di fianco e all’altra scarpa di Evelyn. Qualche giorno dopo si trovano anche i suoi vestiti insanguinati, sull’autostrada che passa vicino a La Crosse. Poi, più niente. Nel novembre del 1952, invece, scompaiono due uomini. Victor Travis e Ray Burgess. Stanno passando da Plainfield e si fermano in un bar a bere qualcosa. Ci restano parecchio, bevono molto e poi ripartono con la loro macchina. E scompaiono nel nulla. La polizia scava nel terreno attorno alla fattoria e trova i resti di dieci donne. In casa e nel magazzino ce ne sono almeno per altre otto. Diciotto persone diverse. Quante di queste sono state uccise da Eddie? Chiuso nella prigione della contea, a Wautoma, Eddie viene interrogato. All’inizio si rifiuta di rispondere, poi nega tutti gli omicidi, poi, alla fine, ammette qualcosa. Ammette l’omicidio della signora Berenice. Ammette di aver trafugato corpi e parti di cadaveri dai cimiteri della zona. Ammette anche l’omicidio della signora Mary, ma poi non ammette più nient’altro. Tutto quello che ha in casa viene soltanto dalle sue scorribande nei cimiteri. La polizia non riesce a provare che Eddie abbia ucciso altre persone o semplicemente profanato i loro cadaveri, così Edward Theodore Gein viene accusato di omici-

dio di primo grado nelle persone di Mary Hogan e Berenice Warden. E a questo punto si pone un’altra domanda molto importante. Eddie è pazzo? Lo è al punto da non poter essere processato? Freddo, tranquillo, a volte addirittura compiaciuto per quello che ha fatto, Eddie non sembra proprio sano di mente. Sottoposto a perizia psichiatrica, viene riconosciuto schizofrenico. I suoi problemi mentali vengono fatti risalire al suo rapporto insano con la madre e al conflitto creatosi fra le sue naturali pulsioni sessuali e l’educazione fortemente repressiva che ha ricevuto, ma certamente egli era anche nato con una predisposizione biologica alla follia; i cromosomi da una parte, la madre Augusta dall’altra: una combinazione che lo ha condotto prima a isolarsi, poi a sviluppare fantasie sempre più complesse e malate; da ultimo a viverle, quelle ossessioni, in un mondo completamente staccato dalla realtà. Per questo, dopo una serie di test e di perizie che continuano per più di un mese, Eddie viene considerato non in grado di intendere e di volere e viene internato nel reparto psichiatrico del Central State Hospital di Waupun. Il processo, nonostante le proteste dei cittadini di Plainfield, soprattutto per quanto riguarda l’omicidio della signora Berenice, non si può fare, almeno per adesso. Eddie rimane per dieci anni in ospedale, finché una nuova perizia non giudica che sia migliorato abbastanza da poter essere processato. Il 22 gennaio 1968 si apre il processo, che, dopo una serie di rinvìi per valutare le eccezioni della difesa sulla sua sanità mentale, inizia per davvero soltanto il 7 novembre 1968. Eddie ha 62 anni, è incanutito, ha perso i molti capelli, è ingrassato un po’ e nel suo abito scuro con la cravatta a righe sembra soltanto un vecchio pensionato, docile e tranquillo come è sempre apparso a tutti. Le prove e le testimonianze contro di lui, però, sono schiaccianti e dopo appena una settimana arriva il verdetto della giuria. Eddie viene riconosciuto colpevole di omicidio di primo grado per tutti e due i casi in cui è imputato. Ma siccome al momento di commettere i delitti non era in grado di intendere e di volere, non può essere messo in prigione e quindi viene rimandato al reparto psichiatrico dell’ospedale di Waupun, dove dovrà rimanere per il resto dei suoi giorni. I familiari delle vittime, e soprattutto la famiglia della signora Berenice, fanno ricorso contro la sentenza, ma non c’è niente da fare. Rinchiuso nel reparto psichiatrico, Eddie si dimostra un «paziente modello», come dice il suo stesso sorvegliante, il sovrintendente Schubert. Mangia molto, si sottopone docilmente a tutte le terapie, lavora, ha ricominciato a leggere moltissimo e non crea assolutamente nessun problema. Anzi, sembra addirittura felice. Molto felice. Il 26 luglio 1984, malato di cancro da tempo, Eddie muore all’età di quasi 80 anni. Film, romanzi, racconti. Il mito di Ed Gein, il contadino che vive solitario nella sua fattoria sperduta nella campagna e la trasforma in una casa degli orrori, inizia dal momento del suo arresto e si sviluppa immediatamente con estrema violenza. Eddie e i suoi delitti finiscono su tutti i giornali e appena si sparge la voce di quello che ha fatto, migliaia di curiosi si riversano su Plainfield, che da quel momento, da sconosciuto paesino rurale nel cuore del Wisconsin, diventa noto in tutti gli Stati Uniti come il paese di Ed Gein. Nascono addirittura canzoncine e barzellette macabre su Eddie e le sue strane abitudini. Gli oggetti di sua proprietà, che sono stati messi all’asta per pagare le spese processuali, vanno a ruba. Qualcuno compra il furgoncino Ford Sedan e

fa pagare un biglietto a chi voglia farci un giro sopra. Anche la ditta incaricata di mettere all’asta i beni di Eddie fiuta l’affare e organizza visite guidate alla casa del massacro al prezzo di mezzo dollaro a persona. I cittadini di Plainfield si stancano presto di tutta quella morbosa attenzione e dello sfruttamento commerciale che le ruota attorno. Il 20 marzo 1958, di mattina presto, qualcuno dà fuoco alla fattoria Gein, e quando arrivano i pompieri volontari del Dipartimento di Plainfield non c’è molto da fare. La casa era tutta di legno ed è bruciata rapidamente fino alle fondamenta. Quando Eddie, chiuso nel manicomio dell’ospedale, lo viene a sapere, si stringe nelle spalle e dice semplicemente che «è meglio così». II cimitero di Plainfield, adesso, è un tranquillo cimiterino di campagna, grande quanto può esserlo il camposanto di un paesino di duemila anime. Le diciotto tombe profanate da Eddie sono state risistemate da un pezzo e non è più successo niente. In un angolo del cimitero c’è anche quella della signora Augusta Gein. Lì accanto, molto vicino alla tomba della madre, c’è quella di Ed Gein.

«Bad or mad», malvagi o malati Gaspare Zinnanti e Ed Gein, e prima ancora le storie di Andrea Matteucci e Edmund Kemper III. Inevitabile, a questo punto, porsi una domanda: il serial killer è un folle, un malato, oppure è un individuo che deliberatamente accetta la seduzione del male, percorre gli abissi della crudeltà, «vuole» infliggere sofferenze, torturare a morte, fare scempio dei corpi di innocenti vittime? Gianluigi Ponti e Ugo Fornari, fra i massimi esperti italiani in psichiatria forense, pare non abbiano dubbi. Nel loro testo, Il fascino del male, raccontano di tre serial killer italiani che hanno avuto modo di conoscere a fondo, nella loro veste di periti incaricati di accertarne le capacità di intendere e di volere: Marco Bergamo, Giancarlo Giudice e Luigi Chiatti. Per gli autori «l’essere umano è relativamente libero… nel progettare e nel determinare il proprio comportamento, nel compiere scelte e nel prendere decisioni che per lui abbiano significato». E ancora, gli assassini seriali colpiscono perché esseri umani liberi e affascinati dal male, non perché disturbati da una «malattia della mente che li connoti o li degradi, o da qualche misteriosa natura mostruosa». Ponti e Fornari avanzano un’opinione basandosi sui casi analizzati, e limitano la propria definizione di assassino seriale alla categoria dei lust killer, coloro che, secondo la classificazione di Holmes & Holmes, uccidono per la ricerca di un piacere sessuale. Il loro pensiero tuttavia, condivisibile sul piano etico, non ci consegna conclusioni definitive, non risolve i nostri dubbi sulla folle mostruosità oppure sulla consapevole malvagità dei protagonisti delle storie che andiamo narrando. La vicenda di Jeffrey Dahmer ci condurrà forse più avanti nella comprensione. Il Mostro di Milwaukee 27 maggio 1991: le due del pomeriggio.

Il ragazzino di origine asiatica deve scappare, al più presto. Ha approfittato di un attimo di distrazione dell’uomo che lo ha invitato nel suo appartamento ed è corso fuori. Terrorizzato, ricorda confusamente d’essere stato avvicinato da un omosessuale di bell’aspetto, forse ha ricevuto la proposta di guadagnare un po’ di denaro in cambio di qualche scatto fotografico. Ha bevuto, probabilmente è stato drogato. È disorientato, praticamente nudo. Sandra Smith, 18 anni, è alla finestra insieme alla cugina, Nichole Childress. Le ragazze non esitano: chiamano il 911 e chiedono un intervento urgente della polizia. Sul posto arriva prima un’ambulanza, poi una pattuglia. L’uomo, intanto, ha raggiunto il ragazzo in strada. Agli agenti si presenta un trentenne biondo, alto, dai modi garbati. Con tranquillità racconta che il suo giovane amante di 19 anni ha bevuto troppo, si scusa del trambusto creato, mostra i propri documenti. Konerak Sinthasomphone, radici laotiane, ha in realtà solo 14 anni, e non è assolutamente in grado di replicare alle affermazioni dell’uomo. Sandra e Nichole intervengono, dichiarano che il ragazzo, spaventato a morte, cercava di fuggire. Gli agenti non danno loro retta ma, comunque, decidono di compiere il proprio dovere, ed entrano nella casa dell’uomo. Aleggia nell’appartamento un odore terribile, ma ogni cosa appare in sufficiente ordine, l’ambiente è pulito, gli abiti di Konerak sono ripiegati su un divano, mentre in un angolo si notano due polaroid, che ritraggono il giovane con indosso un bikini nero. I due poliziotti non hanno alcuna intenzione di lasciarsi coinvolgere in una lite tra amanti omosessuali; da un lato osservano l’uomo, che appare intelligente, calmo, capace di esprimersi; dall’altro il ragazzo, confuso, in apparenza ubriaco. Konerak, adesso, sembra tranquillo, non parla più e loro hanno altre urgenze che aspettano nel quartiere. Così si allontanano. Non avrebbero mai immaginato il tremendo errore che stavano commettendo. Non avrebbero mai immaginato che in quella casa, nella stanza da letto, giaceva il corpo in decomposizione di Tony Hughes. Non avrebbero mai immaginato che, appena allontanatisi, l’uomo avrebbe strangolato il ragazzino, per poi intrattenersi sessualmente con il cadavere, smembrarne il corpo e ripulirne lo scheletro per conservarlo come trofeo. Nella serata Sandra racconta alla madre Susan la scena alla quale ha assistito; la donna cerca allora di contattare la centrale di polizia, ma non riesce a ottenere risposte soddisfacenti. Due giorni dopo i quotidiani locali riportano la scomparsa di un quattordicenne di nome Konerak; la rassomiglianza con il ragazzino terrorizzato e seminudo induce Sandra e Susan a ricontattare la polizia prima, l’FBl dopo, ma nessuno presta loro attenzione. 22 luglio 1991, sono trascorsi circa due mesi. È quasi mezzogiorno e il caldo è insopportabile. L’auto della polizia transita lentamente nelle strade intorno alla Marquette University, zona ad alto tasso di criminalità. I due agenti a bordo non possono fare a meno di notare l’uomo di colore che cammina con un paio di manette penzolanti a un polso; pensando che sia sfuggito a un collega, lo intercettano. Tracy Edwards, 32 anni, racconta loro di un tipo quanto meno strano che lo ha ammanettato nel suo appartamento, 924 Nord, 25a Strada. Bussano alla porta dell’abitazione: ad

aprire è un trentenne biondo e gentile, che subito si offre di recuperare le chiavi delle manette nella camera da letto. Edwards dice agli agenti che è proprio nella camera da letto che l’uomo tiene il il coltello con cui lo ha minacciato poco prima, e allora gli agenti decidono di fare un controllo. Uno dei due poliziotti entra nella stanza e nota subito le fotografie che giacciono disordinatamente: ritraggono corpi smembrati, teste umane, genitali e altre parti separate e conservate. Sconvolto, grida al collega di immobilizzare l’uomo che, immediatamente, cambia atteggiamento e cerca di resistere con la forza. Un sopralluogo accurato permette di scoprire un vero e proprio museo degli orrori: nel frigorifero, all’interno di un contenitore, il bicarbonato di sodio assorbe l’odore di putrefazione di numerose teste umane; altre tre sono conservate in sacchetti di plastica nel congelatore. Nel bagno, in una scatola metallica, si trovano alcune mani e un pene; parti di scheletro sono appoggiate a uno scaffale. In vasi di vetro, conservati in formaldeide, galleggiano i genitali di alcune vittime. Abbondano le scorte di alcol etilico, cloroformio e altri prodotti chimici, conservanti e caustici. I tecnici della scientifica lasciano l’abitazione dell’uomo con i macabri reperti diretti al laboratorio di medicina legale. Le loro immagini vengono trasmesse dalle emittenti televisive di tutto il mondo. L’uomo ha 31 anni e si chiama Jeffrey Dahmer. Da allora in poi sarà ricordato come il Mostro di Milwaukee. jeffrey Dahmer nasce e cresce in una famiglia lacerata dai continui conflitti tra i genitori; a 8 anni è vittima di un abuso sessuale da parte di un vicino di casa. Fin dalla più tenera età, mostra un morboso interesse per la morte, in ogni sua manifestazione. Colleziona insetti, tortura e uccide piccoli animali che poi seppellisce in un improvvisato cimitero vicino alla sua casa, per altri mette in scena sommarie impiccagioni nei boschi vicini. A 14 anni inizia, nelle proprie fantasie, a uccidere esseri umani e a intrattenersi in rapporti sessuali con i cadaveri. L’immaginazione prepara al reale. Nel 1978 termina la scuola superiore, i suoi genitori si separano, e Jeffrey rimane ad abitare da solo nella casa di famiglia a Bath, Ohio; a 18 anni ha inizio la sua carriera di assassino. Steven Hicks sta tornando da un concerto rock a cui ha assistito a Cleveland ed è in cerca di un passaggio, quando incontra Jeffrey, di un anno più giovane; quest’ultimo lo accoglie a bordo della sua auto e lo invita a casa per una birra. I due ragazzi bevono, ascoltano musica e chiacchierano ma, alla fine della serata, Steven vuole accomiatarsi: deve rimettersi in strada. Jeffrey insiste nel trattenerlo, non tollera l’idea di un nuovo abbandono. Non ha mai avuto buoni rapporti a scuola, è un solitario, i suoi genitori lo hanno appena lasciato, separandosi. Lo colpisce alle spalle con un bilanciere, strangolandolo poi con l’asta. Fa a pezzi il cadavere, infila tutto in sacchi di plastica che carica sui sedili posteriori della sua vettura, e si avvia alla ricerca del luogo idoneo per abbandonare quel che rimane di Steven Hicks.

Viene fermato dalla polizia che lo sottopone a un test per il tasso di alcolici; i valori non risultano eccessivi, ma gli agenti notano i sacchi e gli chiedono cosa stia facendo. Jeffrey, tranquillamente, risponde che è diretto alla discarica. Lo lasciano andare: nulla di sospetto è stato notato nel suo comportamento. Nell’autunno si iscrive all’Ohio State University, ma abbandona presto gli studi per arruolarsi nell’esercito, destinazione Germania. Durante il periodo di ferma non risulta che Dahmer abbia compiuto delitti, sebbene non lo si possa escludere; comunque dopo due anni viene congedato per problemi legati all’alcol. Siamo nell’ottobre del 1981: Jeffrey viene arrestato per guida in stato di ubriachezza e disturbi del comportamento; il padre ritiene che sia meglio che il ragazzo lasci l’Ohio e vada a vivere dalla madre, in Wisconsin. Trascorrono cinque anni di relativa calma, sino al settembre 1986: sorpreso a masturbarsi in pubblico, davanti a due ragazzi, Dahmer viene condannato a un anno di libertà vigilata. Nello stesso periodo uccide per la seconda volta. Conosce Steven Toumi in un bar frequentato da omosessuali; i due si ubriacano e Jeffrey, al risveglio, si trova accanto il corpo senza vita del ragazzo. Trasporta il cadavere in un luogo sicuro, si intrattiene in rapporti sessuali, lo smembra e se ne libera gettandolo in una discarica. Qualche mese dopo, a morire è il quattordicenne Jamie Doxtator. Quindi, nel marzo del 1988, è la volta di Richard Guerrero, di origini messicane, incontrato anch’egli in un locale gay. Il 25 settembre 1988 Jeffrey si trasferisce nella sua ultima dimora di Milwaukee, ma presto finisce in seri guai; per un insieme di circostanze tanto accidentali quanto drammatiche, che sembrano costellare la sua storia, il killer offre 50 dollari a un tredicenne perché si presti a essere fotografato in atteggiamenti erotici. Il ragazzo si chiama Sinthasomphone, ed è il fratello maggiore di Konerak, che perderà la vita nel 1991; viene drogato, ma non ucciso. Al suo rientro a casa i genitori si insospettiscono per il suo stato e lo portano in ospedale: una semplice visita conferma che ha assunto sostanze a effetto stupefacente. Per Dahmer scatta l’arresto e la condanna per aggressione sessuale. Si dichiara colpevole, ma afferma d’essere stato convinto che il giovane fosse in realtà maggiorenne. Nessuno tuttavia può immaginare che, in attesa della sentenza, Jeffrey uccida ancora: la vittima è Anthony Sears, 24 anni, aspirante fotomodello. Il processo a carico di Jeffrey Dahmer si svolge nel maggio 1989. Gale Shelton, pubblica accusa, chiede una condanna a non meno di cinque anni. Dinanzi al giudice William Gardner afferma: «Nel mio giudizio appare terribilmente chiaro che la prognosi per un trattamento in comunità di Mr Dahmer appare estremamente negativa. La sua percezione che ciò che ha fatto di sbagliato è unicamente limitata al fatto di avere scelto una vittima troppo giovane costituisce solo una parte del problema. Egli appare collaborativo e ricettivo, ma tutto ciò che esiste al di sotto

della superficie rivela una rabbia profonda e radicata, problemi psicologici che non vuole o non è capace di gestire». Gli psicologi che lo esaminano confermano la presenza di una tendenza alla manipolazione e raccomandano un trattamento intensivo in regime di ricovero ospedaliero. Gerald Boyle, difensore di Dahmer, sostiene quest’ultima tesi, affermando che il suo cliente è malato, quindi ha bisogno di cure, non del carcere. «Noi non abbiamo qui un responsabile di plurime aggressioni. Penso che sia stato catturato prima che potesse giungere a un punto in cui le cose sarebbero diventate peggiori. In sostanza l’arresto è stato per lui un male che si è rivelato un bene.» È quindi Jeffrey Dahmer a prendere la parola, difendendosi e imputando il proprio comportamento agli effetti dell’alcol. «Quello che ho fatto è molto grave. Non mi sono mai trovato prima in una situazione simile. Nulla di così terribile. Questo per me è come un incubo diventato realtà… l’unica cosa che nella mia mente appare solida ed è per me fonte d’orgoglio è il mio lavoro. Sono arrivato molto vicino a perderlo per i miei comportamenti, di cui mi assumo ogni responsabilità… tutto ciò che posso fare è implorarvi, per favore lasciatemi il mio lavoro. Per favore lasciatemi una possibilità per mostrarvi che io posso, che io posso proseguire onestamente, e non ricadere mai più in situazioni come queste… questo adescare un bambino rappresenta l’apice della mia idiozia… ho bisogno di aiuto. Voglio cambiare la mia vita.» La sentenza: libertà vigilata per cinque anni, un anno di semilibertà in casa di correzione, con possibilità di lavoro durante il giorno e rientro nella struttura per la notte. Dieci mesi dopo il giudice decreta il rilascio anticipato di Jeffrey, pur ricevendo la lettera preoccupata del padre di Dahmer, che chiede di non liberare il figlio se non dopo un periodo importante di cure. Ciò che segue appare inconcepibile: Edward Smith, giugno 1990; Ricky Lee Beeks, luglio; Ernest Miller, settembre; David Thomas, settembre; Curtis Straughter, febbraio 1991; Errol Lindsey, aprile; Anthony Hughes, maggio; Konerak Sinthasomphone, maggio; Matt Turner, giugno; Jeremiah Weinberger, luglio; Oliver Lacey, luglio. Joseph Bradehoft, 19 luglio 1991. Dodici vittime in quindici mesi, con una inarrestabile accelerazione, sino al giorno della cattura. Il modus operandi di Jeffrey Dahmer È possibile riconoscere una ritualità negli omicidi seriali di Dahmer, una ritualità nella scelta della vittima, nell’adescamento, nella modalità di uccidere e di attuare comportamenti perversi sui corpi delle vittime. Solitamente il killer incontra la vittima in un locale frequentato da omosessuali e la invita a casa, per vedere insieme qualche videocassetta a contenuto pornografico, oppure promettendo denaro in cambio della possibilità di scattare fotografie hard. Scioglie sedativi nell’alcol che offre al malcapitato; costui, una volta stordito, viene strangolato a mani nude o con una cinghia di cuoio. Successivamente Dahmer ha

rapporti sessuali con i corpi, si masturba sopra di essi. Prima di ripulire la scena, scatta delle fotografie polaroid che possano ricordargli ogni particolare dell’omicidio. Quindi inizia ad affondare un coltello nel tronco e nell’addome delle vittime, affascinato dal colore delle viscere e sessualmente eccitato dal calore che emana dai corpi appena uccisi. Da ultimo smembra, fotografando ogni passaggio dell’operazione: si garantisce così un piacevole ricordo. Sperimenta su alcune parti dei corpi l’uso di sostanze chimiche, di acidi che riducono tutto a una poltiglia maleodorante. Conserva i genitali in formaldeide, le teste vengono bollite fino al distacco della carne e dipinte con smalto grigio: sembreranno di plastica. Spesso accompagna la necrofilia con atti di cannibalismo che gli procurano un intenso eccitamento sessuale. Ama cibarsi della carne delle sue vittime perché è convinto che esse potranno rivivere in lui. Nel frigorifero della sua casa, immortalato dai media mentre viene portato all’esterno dagli agenti di polizia, conserva numerosi pezzi di carne umana congelata. Cerca anche di apprendere l’arte della tassidermia e applicarla al corpo delle vittime. Ma l’elemento centrale nel rapporto con gli innocenti che adesca è il bisogno di controllo, la sua assoluta incapacità di tollerare il rifiuto e l’abbandono. Per garantirsi la piena disponibilità delle vittime tenta di trasformarle in docili schiavi senza volontà propria; una volta drogati, talvolta pratica loro una rudimentale lobotomia, forando il cranio e iniettando nel cervello acido muriatico. Naturalmente, e contro le aspettative di Dahmer, tutti i soggetti muoiono immediatamente. Solo una delle vittime sembra essere sopravvissuta per pochi giorni. Incerto sull’esistenza di Dio o di Satana, Dahmer coltiva comunque l’idea di progettare un santuario nel suo appartamento, di esporre i suoi «trofei», la propria statua in forma di grifone e di bruciare incenso negli scheletri esposti delle vittime: così avrebbe potuto ricevere energia e poteri speciali, aiuti economici, successo. Anticipiamo per un istante le conclusioni del processo e la sentenza: Jeffrey Dahmer viene riconosciuto pienamente capace di intendere e di volere, e condannato al carcere a vita per quindici volte. Ma come è possibile che comportamenti così estremi quali quelli che abbiamo descritto possano essere frutto di un individuo capace? Non è necessariamente folle chi commette simili atrocità? E’ indispensabile, allora, capire come si muove la giustizia negli Stati Uniti. Il problema della imputabilità La legislazione statunitense è in gran parte modellata sulla legge inglese, che si fonda non tanto sulla raccolta codificata e sistematizzata di articoli in un corpus dottrinario, quanto sull’esperienza quotidiana progressivamente accumulata e applicata nei tribunali; stiamo quindi parlando di un diritto «consuetudinario», sebbene anche nella legislazione britannica esistano, a partire dal XIII secolo, raccolte di giurisprudenza.

Nel tormentato rapporto tra follia e responsabilità, un episodio storico merita la massima attenzione per la sua ricaduta del tutto attuale. 1843: Daniel Mc Naughten esplode un colpo di fucile all’indirizzo di Edward Drummond, segretario del primo ministro Sir Robert Peel, uccidendolo. Mc Naughten, nelle sue interpretazioni deliranti della realtà, è convinto che Sir Robert Peel sia il responsabile delle maldicenze e delle prevaricazioni che ritiene di subire. Si apposta all’esterno dell’abitazione del primo ministro e, visto uscire Drummond, lo segue e gli spara, convinto in realtà d’avere freddato il suo persecutore. L’assassino viene riconosciuto malato di mente e internato in un manicomio criminale. La sentenza tuttavia provoca violente polemiche e spinge la Camera dei Lord a porre alcuni interrogativi sul rapporto tra follia e responsabilità. Tutto si traduce in cinque domande a cui dare risposta ogniqualvolta sorga il dubbio che a compiere un reato sia un malato di mente: le «regole di Mc Naughten», tuttora applicate in Gran Bretagna. L’applicazione delle regole non solo valuta l’esistenza di una patologia psichiatrica, ma considera anche in che modo la malattia, al momento del fatto, abbia inciso sulla consapevolezza della natura e della qualità dell’atto commesso, e, nel caso in cui sia giudicato consapevole, permette di determinare in che misura l’autore del reato si renda conto del significato illecito del suo gesto. Sempre in Gran Bretagna, fin dal 1922, viene utilizzato il concetto di «irresistibile impulso», in pratica l’incapacità di volere, che tuttavia, per incidere sull’imputabilità del soggetto, deve sempre essere ancorato a una condizione di follia, e non essere semplicemente la manifestazione di un’incontrollata emotività in un soggetto peraltro sano. Per i reati gravi come l’omicidio, ancor più se seriale, l’onere di provare l’esistenza di una grave malattia mentale spetta sempre alla difesa: insanity defense è il termine utilizzato. Qualora l’imputato venga riconosciuto non colpevole per infermità mentale («not guilty by reason of insanity», abbreviato in NGRI), non vi è processo ma l’internamento in una struttura psichiatrica, affinché il soggetto possa essere curato a tempo indeterminato. La situazione appare un po’ più complessa negli USA, dove ai cinquanta sistemi legali statali (uno per ogni stato) vanno aggiunti un sistema per il distretto di Columbia e un sistema federale. Dovendo riassumere una materia tutt’altro che chiara e ben definita, vengono elencati qui di seguito i principali modelli adottati negli Stati Uniti ogniqualvolta la difesa decida di intraprendere nel corso del dibattimento la strada della insanity defense (concetto sovrapponibile a quanto descritto per la Gran Bretagna): TEST DI MC NAUGHTEN / TEST RIGHT-WRONG Le regole di Mc Naughten vengono applicate in circa un terzo degli Stati Uniti. «Non è responsabile colui che durante il fatto ha agito non avendo la capacità di ragionare, colui che agiva senza rendersi conto della sua azione, o era affetto da una malattia mentale per cui non comprendeva la natura e la qualità del suo atto, e non sapeva che era illecito.»

Il test right-wrong permette invece di stabilire in che misura l’autore di un crimine fosse capace, al momento del fatto, di distinguere tra bene e male, tra giusto e sbagliato. INFERMITÀ TEMPORANEA O TEMPORARY INSANITY «Non è colpevole colui che al momento del fatto presentava temporaneamente una malattia, un disturbo o difetto che gli impediva di distinguere il lecito dall’illecito e di comportarsi in maniera lecita.» TEST DI DURHAM «Non è colpevole di un fatto colui che al momento in cui l’ha commesso era affetto da una malattia o da un difetto mentale di cui l’azione illecita è il prodotto.» ALI TEST «Non è penalmente responsabile chi al momento del fatto, per malattia mentale o stato di minorazione, non aveva capacità di comprendere la propria condotta criminale o di conformare il proprio comportamento a quanto previsto dalla Legge.» Il processo a Jeffrey Dahmer La psichiatria forense, al servizio della legge, ha incontrato Dahmer e le sue atrocità per valutare se e in che misura attribuirle a una patologia o, viceversa, alla malvagità di un soggetto peraltro «sano di mente». Siamo negli Stati Uniti, nel Wisconsin, e quindi parliamo di insanity defense. In questo stato viene adottato lo standard ALI. Febbraio 1994: assistiamo al confronto tra il dottor Becker, consulente della difesa, e il dottor Park Dietz, per la pubblica accusa. Il dottor Becker afferma che Dahmer è incapace di controllare i propri impulsi, in quanto affetto da necrofilia, una condizione che gli impone, lo «obbliga» ad avere rapporti sessuali con i cadaveri. Lo psichiatra porta a sostegno dell’infermità del suo assistito il fatto che Dahmer, avvertendo il rischio d’essere scoperto dalla polizia, aveva rinunziato ai suoi progetti omicidi, per riprenderli immediatamente non appena aveva sentito allentarsi la pressione delle indagini. In realtà questa argomentazione presta immediatamente il fianco a critiche feroci: la possibilità di Dahmer di sospendere, anche temporaneamente, la sua condotta illecita viene presa semmai a dimostrazione di una capacità di controllo sui propri impulsi. Durante il controinterrogatorio, il consulente della difesa è inoltre costretto ad ammettere che Dahmer, in un’occasione, aveva lasciato libera una delle vittime con l’accordo di rivedersi il giorno successivo, perché si era accorto di non avere sufficienti sedativi per stordirla. E questo non poteva certo rientrare nella condotta di un soggetto sopraffatto da un’impulsività omicida a cui non sapeva resistere. Dietz appare più incisivo ed efficace nelle sue argomentazioni. Afferma che, quando le indagini avevano condotto gli investigatori troppo vicino, Dahmer si era fermato, oppure aveva cercato e trovato compagnia senza ricorrere all’uso della violenza: nessuna necessità assoluta di uccidere. Quello che Dahmer desiderava era trascorrere

del tempo con le sue vittime, ed era possibile che ciò si realizzasse in modi diversi: l’omicidio non era fondamentale. E ancora, Dietz parla di incompatibilità fra il concetto di impulso irresistibile, patologico, e la capacità di programmare e pianificare il delitto mostrata dal serial killer. Dahmer preparava in anticipo i farmaci, teneva a portata di mano tutto quanto gli occorreva per ridurre la vittima all’impotenza, sceglieva la preda, uccideva all’inizio del weekend per avere più tempo a disposizione con lo sventurato che aveva scelto. Anche la distribuzione spaziale del suo comportamento predatorio si adattava alla maggiore o minore presenza di agenti di polizia. Per quanto riguarda la necrofilia di Dahmer, Dietz è convinto che il comportamento perverso lasci all’individuo la libertà di scegliere o meno di commettere un crimine per ottenere una gratificazione sessuale; la stragrande maggioranza dei soggetti affetti da necrofilia non commette infatti reati in tutta la vita. E in Dahmer, prosegue Dietz, la necrofilia si accompagna alla capacità di scegliere la vittima, il momento più opportuno, le strategie più efficaci. La giuria al termine del processo si pronuncia: colpevole, all’unanimità. Quindici volte condannato al carcere a vita, Jeffrey Dahmer è sì affetto da un disturbo mentale, ma questo non ha abolito in lui la capacità di resistere ai propri impulsi. Nella valutazione ha certamente pesato il fatto di considerare Dahmer un essere fondamentalmente malvagio. Gli psichiatri prima, i giurati poi, non possono prescindere da un giudizio morale. Il verdetto rappresenta in ultima istanza un giudizio morale. Jeffrey Dahmer ha «scelto» la strada del male. Rinchiuso nel Columbia Correctional Institute, Portage, Wisconsin, Dahmer si comporta da detenuto modello e gli viene affidato un lavoro. Con lui Jesse Anderson, un bianco che ha ucciso la moglie tentando di incolpare un uomo di colore, e Christopher Scarver, nero, schizofrenico, in preda ad allucinazioni e convinto di essere il figlio di Dio, anch’egli in carcere per omicidio: una combinazione catastrofica. Non è difficile immaginare cosa Scarver pensi di Dahmer, le cui vittime erano in gran parte di colore, e di Anderson. 28 novembre 1994: l’agente di custodia lascia i tre detenuti al lavoro; venti minuti dopo, al suo ritorno, trova Dahmer con il cranio sfondato e Anderson poco lontano, colpito a morte. Scarver è immobile, le mani insanguinate. Alle 9 e 11 del mattino, Jeffrey Dahmer viene dichiarato clinicamente morto. Infermità di mente e imputabilità nel nostro codice penale Se è interessante conoscere la legislazione statunitense e le sue applicazioni al tema dell’omicidio (in fondo dobbiamo agli USA la maggior parte degli assassini seriali mai esistiti) è altrettanto utile comprendere cosa accada a casa nostra, quali siano

i principi giuridici a cui ci si attiene quando il tema della follia fa il suo ingresso nell’aula di un tribunale. L’imputabilità è il requisito individuale determinato dalla capacità di intendere e di volere e che pertanto fa sì che ciascuno di noi possa essere sottoposto a una sanzione penale. Viene anche definita come capacità di diritto penale e raffigura in fondo una condizione psichica di base. Per convenzione, nel nostro ordinamento, non si può essere imputabili sotto i 14 anni, mentre dai 14 ai 18 anni l’imputabilità va accertata caso per caso. Oltre i 18 anni ognuno è responsabile delle proprie azioni e omissioni, fino a prova contraria; e l’infermità di mente può appunto rappresentare una delle situazioni previste con il generico termine di «prova contraria». Senza alcuna pretesa di trasformare questo testo in un manuale di diritto, occorre tuttavia citare alcuni articoli di legge. Sulla base della loro applicazione, infatti, il serial killer si vedrà rinchiuso dalle sbarre di un carcere o tra le mura di un ospedale psichiatrico giudiziario, avrà condanne all’ergastolo oppure potrà uscire dopo alcuni anni e un trattamento medico. ART. 85 CODICE PENALE (CAPACITÀ DI INTENDERE E DI VOLERE) Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se al momento in cui lo ha commesso non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere. ART.

88 C.P (VIZIO

TOTALE DI MENTE)

Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere. ART.

89 C.P. (VIZIO PARZIALE DI MENTE)

Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere, risponde del reato commesso, ma la pena è di minuita.

Completa gli articoli sopra descritti la nozione di «pericolosità sociale» (art. 203 c.p.) che prevede che un soggetto venga appunto giudicato pericoloso quando, avendo commesso un reato, è probabile che commetta altri fatti illeciti previsti dalla legge. Naturalmente va sottolineato come i concetti di vizio di mente, di capacità di intendere, di volontà, rappresentino semplici convenzioni, indispensabili per potersi ricondurre a un linguaggio condivisibile, ma senza alcuna pretesa di offrire certezze assolute. Ma cosa si intende per capacità di intendere e di volere? La capacità di intendere rappresenta la competenza di un individuo di comprendere il valore o il disvalore sociale di un’azione o di una omissione. La capacità di volere esprime invece l’idoneità ad autodeterminarsi in funzione di uno scopo, di un’azione o dell’evitamento dell’azione stessa. Un poco più complicato è il concetto di infermità, che possiamo chiarire ricorrendo alle parole di Gianluigi Ponti, che nel suo Compendio di criminologia così si esprime:

Il concetto di infermità com’è posto dal codice penale è più ampio di quello di malattia, nel senso che non si limita esclusivamente alle vere e proprie malattie mentali… ma ricomprende anche più estensivamente qualsiasi condizione patologica che sia stata in grado di interferire sulla capacità di intendere e di volere an che solo transitoriamente, ovvero quei disturbi che abbiano «valore di malattia», cioè che agiscono come se si trattasse di un processo morboso. Configura dunque l’infermità ciascuno dei tanti disturbi psichici qualificabili con un termine tecnico preciso (psicosi, ritardo mentale, nevrosi, schizofrenia, demenza, paranoia, ecc.), ma anche qualsiasi altra condizione sempreché produca effetti psichici paragonabili a quelli di un vero stato morboso, e che risulti idonea ad interferire sull’intendere o sul volere. Deve poi essere chiaro che l’esistenza di una infermità al momento del fatto delittuoso non comporta ne cessariamente un giudizio di non imputabilità, venendo richiesta dal codice penale anche una valutazione di carattere quantitativo…

Qual è l’applicazione sul campo dei concetti giuridici che abbiamo illustrato? Dopo un estenuante lavoro di indagine, l’assassino seriale viene identificato e catturato; il lavoro del gruppo investigativo, in stretta collaborazione con i reparti della scientifica, ha condotto a prove certe della colpevolezza del killer. Scatta a questo punto, pressoché costante, il bisogno di chiamare in causa lo psichiatra, la cui collaborazione può essere richiesta dal giudice, e allora verrà nominato «perito», oppure da una delle parti in causa: pubblico ministero, difesa, parte civile; in questo caso la definizione del suo ruolo è quella di «consulente». In ogni caso l’esperto si pone al servizio della legge, e compete al giudice utilizzare l’opinione espressa accogliendola in toto, in parte, oppure rigettandola. Infatti il giudice assume le vesti di peritus peritorum, il perito dei periti: a lui spetta l’ultima parola, anche se, nella maggior parte dei casi, l’inquadramento dello psichiatra assume un peso determinante. Il ruolo dello specialista della mente non è tuttavia facile, e spesso egli viene investito di un potere quasi magico: colui che farà chiarezza su ogni cosa, soprattutto se si ha a che fare con imprese efferate e inverosimili. Se il suo compito è infatti comprendere e trattare i comportamenti che deviano dalla norma e causano sofferenza all’individuo e alla società, si tende a credere che «certamente» egli sarà in grado di gettare luce sulle imprese criminali di un assassino seriale. Nonostante la ricerca abbia dimostrato che non più del 20% dei serial killer ha una storia di malattia mentale significativa, i comportamenti degli assassini seriali sono così orribili e al di là dell’umana comprensione da invocare per forza la pazzia. Ma naturalmente non vi è alcuna prova scientifica che colleghi la malattia mentale ad aggressività e violenza, anzi: la maggior parte degli individui affetti da un disturbo psichiatrico è più facilmente vittima, piuttosto che autore, di un reato. E ciò è tanto più vero quanto più grave è la patologia (ma ciò non fa notizia, e pertanto lo stereotipo del pazzo = pericoloso continua ad avere ingiusto e ingiustificato credito). La psichiatria forense italiana, pur lontana nelle sue impostazioni da quelle statunitensi, ha affrontato il tema della imputabilità del serial killer giungendo a conclusioni simili: sono pochissimi gli assassini seriali ai quali viene riconosciuto un vizio parziale di mente, ancor più raro il giudizio di totale incapacità di intendere e di volere.

Un caso illustra comunque bene la complessità dell’accertamento psichiatrico, del suo utilizzo e della traduzione in sentenza. Luigi Chiatti, il Mostro di Foligno, ha 24 anni quando, il 4 ottobre 1992, sequestra e uccide il piccolo Simone Allegretti; l’anno successivo, precisamente l’8 agosto 1993, toglie la vita a Lorenzo Paolucci. Due sentenze, due diverse conclusioni. Corte d’assise di Perugia, 27 febbraio 1995: Osserva la Corte, dopo aver rammentato che il Chiatti è gravemente disturbato dalla presenza di plurimi disturbi di personalità sia della sfera psichica propriamente detta – a cui si aggiungono anche tratti marcati di altri disturbi – sia della sfera affettiva e in particolare di quella sessuale, che il nostro ordinamento non consi dera tra le cause di esclusione della responsabilità penale le forme di degenerazione del sentimento, per cui le psicopatologie sessuali possono avere rilievo solo se sono il sintomo, e quindi a esso si accompagnano, di uno stato patologico, suscettibile di alterare la sfera intellettiva o volitiva in modo tale da escludere o grande mente scemare la capacità di intendere e di volere. … Di contro il nostro ordinamento non riconosce valore di malattia, e quindi come causa di esclusione della responsabilità, alle psicopatie o disturbi della personalità, in quanto le anomalie che la scienza medicolegale riconduce nel vasto raggruppamento delle abnormità psichiche (tra le quali sono compresi i disturbi ri scontrati in Chiatti) costituiscono varianti anomale dell’essere psichico. … In definitiva ritiene la Corte che al momento dei due delitti in Chiatti erano integre le sue capacità di cognizione, progettazione, previsione, decisione, esecuzione e giudizio delle proprie azioni. In altre parole erano integri tutti i parametri in cui si concreta la capacità di intendere di volere. Né vale sostenere che le modalità con cui sono iniziate le azioni omicide sono frutto di una perdita tempo ranea della capacità di intendere e di volere.

L’11 aprile 1996 giunge la sentenza di secondo grado, pronunciata dalla corte d’assise d’appello di Perugia. In contrasto con la prima sentenza, si afferma che Luigi Chiatti era, al momento di commettere i delitti, affetto da una complessa sindrome psicopatologica, caratterizzata da un conclamato disturbo narcisistico di personalità e da una costellazione di tratti, più o meno marcati, di numerose altre abnormità psichiche, quali quelle schizoidi, paranoidi, sadiche, ossessivo-compulsive e fobiche. Viene anche riconosciuto che i sintomi descritti si inseriscono su una struttura di personalità immatura; il tutto ha condizionato il comportamento del killer non solo sul piano cognitivo e affettivo, ma anche soprattutto sul piano del funzionamento interpersonale e del controllo degli impulsi. Conclude la corte con questa affermazione: «Al Chiatti, perciò, deve essere riconosciuto il vizio parziale di mente». Abbiamo dunque una sentenza di primo grado parzialmente smentita dal secondo grado di giudizio. La cassazione conferma quest’ultima sentenza. Due ergastoli, trasformati in trent’anni di carcere. Donato Bilancia nasce a Potenza il 10 luglio 1951. Viene catturato alle 11 del 6 maggio 1998 e accusato di diciassette omicidi, commessi in poco più di sei mesi, tra il 16 ottobre 1997 e il 20 aprile 1998. Il 14 febbraio 2001 la corte d’assise d’appello lo condanna a tredici ergastoli e ventotto anni di reclusione, provvedimento confermato in cassazione. Un passaggio, nella sentenza di secondo grado, merita di essere qui riportato:

La Corte non si nasconde che è agghiacciante il solo pensiero che un uomo, aduso a delinquere ma non alla violenza sulla persona, pur affetto da tempo da un complesso disturbo di personalità diventi, a 46 anni, un pluriomicida privo del minimo senso etico, di ogni moto di pietà per le vittime, senza per questo perdere le proprie capacità intellettive e volitive. Per quanto l’idea possa apparire spaventosa, occorre prendere atto che ogni tentativo di discostarsene ha, in questo caso, soprattutto una forte valenza di rimozione e di rassicurazione, di negazione dell’inconoscibili tà fin nel profondo dell’animo umano e, con esso, delle sue possibili bassezze. In ogni caso, quel tentativo dev’essere supportato da un rigoroso fondamento scientifico, che vada ben al di là della tautologica equazione «delitto eccezionale = patologia psichica», la quale, se può avere un fondamento su un piano clinico-psichiatrico, nulla ancora ci dice su quello, giuridico-forense, della capacità di intendere e di volere. In conclusione, Donato Bilancia va dichiarato colpevole di tutti i delitti commessi, trattandosi di soggetto da ritenersi pienamente imputabile al momento di ciascuno dei fatti a suo carico accertati.

Il serial killer e le diagnosi dello psichiatra 3 Perversioni, disturbi di personalità, schizofrenia. Ma cosa intendono gli psichiatri con questi termini tanto spesso utilizzati nel linguaggio comune quanto incerti nel significato? E, soprattutto, che rapporto hanno tali patologie con l’omicidio seriale? I comportamenti degli assassini seriali indubbiamente incrinano una percezione del mondo rassicurante, in cui ogni cosa deve presentarsi stabile, o quantomeno prevedibile; tuttavia, come abbiamo più volte scritto, la maggior parte delle azioni dei serial killer non può essere direttamente ricondotta a una malattia mentale. Quando è possibile trovare elementi sufficienti per formulare una diagnosi, sono comunque poche le malattie mentali che si presentano con frequenza: la psicosi, i disturbi dissociativi e quelli sessuali, l’abuso di sostanze e i disturbi della personalità. Psicosi e schizofrenia 4 David Berkowitz, tra il 1976 e il 1977, terrorizza gli abitanti di New York uccidendo sei persone e ferendone altre sette. Non sono soltanto le vittime innocenti a dargli una sinistra notorietà, ma anche i messaggi che egli confeziona per gli investigatori, nei quali si firma «Son of Sam», il figlio di Sam. Quando viene catturato dichiara di essere stato spinto a commettere i suoi delitti da un uomo di 6000 anni d’età che gli parlava attraverso il cane del vicino. Al termine del processo la corte stabilisce, con il contributo di un collegio di psichiatri, che in realtà Berkowitz sta cercando di ricorrere alla malattia mentale per attenuare la propria responsabilità. Di certo una patologia psicotica che si presenti in modo conclamato, con deliri e allucinazioni, può avere un’influenza determinante sulle azioni di un serial killer (si pensi agli altri assassini che Holmes & Holmes definiscono visionary) e non mancano i ricercatori convinti che all’efferatezza dei gesti di un omicida non possa che corrispondere una malattia grave. Donald Lunde, uno dei primi a occuparsi di serialità omicida, dichiara infatti che tutti i mass killer sono pazzi, e che la loro follia assume due forme principali: quella della schizofrenia paranoide, con allucinazioni visive e uditive, deliri di persecuzione, di grandezza, a sfondo mistico-religioso; e quella dei sadici sessuali, dove la malattia è caratterizzata appunto dal piacere di infliggere torture, mutilazioni, la morte.

Ma non è accettabile che lo psichiatra e il criminologo riconducano sempre le deviazioni dalla norma (e certamente la condotta del serial killer lo è) a una patologia: il male è comunque una scelta. In generale la psicosi gioca un ruolo determinante solo in pochi casi, e non ci fornisce certo elementi per la comprensione del fenomeno del serial killer nella sua totalità. Disturbo da personalità multipla e disturbi dissociativi Kenneth Bianchi e Angelo Buono: dodici vittime tra l’ottobre 1977 e il febbraio 1978, tutte nella zona di Los Angeles. Uccidono giovani donne, tra i 15 e i 28 anni, dopo averle violentate e torturate. Ne scaricano i corpi alle pendici delle colline. Questa caratteristica induce i media, che si impossessano immediatamente del caso, a etichettare quello che ritengono erroneamente un assassino che agisce da solo con un soprannome: Hillside Strangler. In realtà siamo di fronte a una delle poche coppie di assassini seriali. La prima vittima è una prostituta di colore, il cui corpo viene abbandonato nei pressi del cimitero di Forest Lawn. Trascorrono circa due settimane e a essere assassinata è una ragazza di 15 anni fuggita di casa. Con l’aumentare dei delitti pare crescere anche l’efferatezza nelle torture condotte sulle donne. La presenza sui cadaveri di liquido seminale con due diverse caratteristiche conduce presto i detective a collegare i delitti ad almeno due killer; il dato viene confermato da un testimone oculare che vede una ragazza costretta con la forza a salire su un’auto da due uomini. Quattro mesi dopo il primo delitto, gli omicidi cessano improvvisamente. Trascorre circa un anno, quindi due ragazze vengono stuprate e uccise a Bellingham, Washington. I sospetti immediatamente si appuntano sul ventiseienne Kenneth Bianchi, trasferitosi da poco da Los Angeles appunto a Bellingham. Presto gli investigatori cominciano a raccogliere elementi di prova tanto a carico di Bianchi quanto del suo quarantaquattrenne cugino, Angelo Buono. A lato di un’attività commerciale ben avviata, Buono è in realtà un brutale psicopatico, dedito allo sfruttamento della prostituzione e con una storia di violente aggressioni a donne. Se i due da soli non hanno mai commesso omicidi, diventa chiaro che in coppia si lasciano andare a gesti di inaudita ferocia. I killer vengono infine catturati. Bianchi, in carcere, gioca a questo punto la carta della personalità multipla, chiamando in causa uno dei più celebri alter ego nella storia dell’omicidio seriale: «Steve Walker». Walker emerge in tutta la sua malvagità durante una seduta ipnotica: contrariamente all’indole apparentemente gentile di Kenneth Bianchi, Steve Walker si presenta aggressivo e violento: è lui il responsabile del sadismo, delle torture, degli omicidi. Tuttavia uno psichiatra esperto nell’utilizzo dell’ipnosi rivela che Steve è solamente un’invenzione di Bianchi, il quale ha tratto spunto per la costruzione di una doppia

personalità dalla trama di un film visto qualche giorno prima (Sybil, con Sally Field e Joanne Woodward, uscito nel 1976). Bianchi accetta infine di dichiararsi colpevole testimoniando contro Angelo Buono: evita così la pena capitale. Quello simulato da Bianchi era dunque un disturbo da personalità multipla: nel passato si parlava di «doppia personalità», termine ben più radicato nell’immaginario collettivo, forma patologica ampiamente sfruttata nella letteratura e nei media, per il fascino che il tema del «doppio» ha sempre esercitato sull’uomo. Ma la reale esistenza e autonomia di questo disturbo è stata duramente contestata in psichiatria, e molti rifiutano di accettare questa patologia come una categoria diagnostica accertata scientificamente. Altro disturbo spesso citato nelle aule di tribunale è l’amnesia dissociativa, richiamata spesso a sostegno di una richiesta di riconoscimento di responsabilità attenuata o assente. Si giunge a invocarla in una percentuale che va dal 40 al 70% dei casi. Come di ogni aspetto clinico di cui discutiamo, non è possibile negarne la realtà, ma certamente una lacuna nella memoria dell’assassino che gli impedisca di ricordare ogni aspetto del delitto è riconoscibile solamente in un numero di casi assai limitato. Tornando al tema della personalità multipla, è certamente comprensibile il tentativo di addossare la responsabilità di un crimine a un alter ego, incarnazione del male, del lato oscuro. Alcune di queste creazioni assumono un’identità, un nome: ecco il vero colpevole dell’omicidio. Un’alternativa al tema: «È il diavolo che me lo ha fatto fare». Ma una vera personalità multipla deve essersi manifestata in altri contesti, precedenti e documentati nella storia del soggetto, e non può essere invocata solo sulla scena del crimine. Per esempio il fatto che Ted Bundy parlasse sempre dei suoi crimini in terza persona è assai più facilmente ascrivibile a una strategia difensiva che all’esistenza di un «doppio», di un Mr Hyde, sconosciuto al buon dottor Jekyll. Le parafilie Albert Fish è forse il serial killer che nella storia meglio rappresenta l’essenza di una perversione sessuale maligna. Nato nel 1870 in una famiglia numerosa, rimane presto senza il padre ed è affidato a un orfanotrofio. Già prima dei 10 anni manifesta una curiosità morbosa per gli aspetti sadici e masochistici nei rapporti con gli altri. Nel 1898 si sposa e ha, con la prima compagna, sei figli. La donna lo lascia dopo vent’anni e Fish, incurante di ogni disposizione sulla bigamia, convola a nozze altre tre volte. Il rapporto con i figli è caratterizzato da morbosità e perversione. Ama intrattenersi in giochi erotici con i suoi bimbi e non esiterà, sessantacinquenne e in carcere, a inviare una lettera alla figlia Mary Nichols in cui non rinuncia ad ammiccamenti incestuosi. Fra il 1902 e il 1933 colleziona otto condanne per i delitti più diversi. Il primo omicidio avviene a New York, dove si è trasferito, nel 1910. Rapisce, tortura, uccide, mutila e si ciba dei cadaveri di bambini; non è dato sapere il numero di vittime che si

è lasciato alle spalle, ma la stima all’atto dell’istruzione del processo contro di lui parla di un numero da sedici a cento. Nel 1922, all’età di 52 anni, Fish si mostra chiaramente disturbato da una severa forma di psicosi: crede di essere Gesù Cristo, invoca il sacrificio di bambini prendendo spunto dalla vicenda di Abramo e Isacco. Non solamente indulge in pratiche sadiche con le vittime, ma mette pure in atto condotte masochistiche in cui si ferisce traendone piacere fisico: celebri sono le lastre che mostrano i 29 aghi che ha profondamente infissi all’inguine. Il dottor Wertham, lo psichiatra che segue le vicende giudiziarie di Fish, riconosce nell’uomo pressoché ogni forma di parafilia, oltre al sadismo e al masochismo. Riscontra condotte voyeuristiche ed esibizionistiche, coprofagia e cannibalismo. Il processo si apre l’11 marzo 1935 e si conclude il 22 marzo. La sentenza riconosce la follia del killer, ma ciò nonostante condanna l’uomo a morte: la mostruosità della sua condotta porta i giurati a non riconoscere alcun diritto di sopravvivenza ad Albert Fish. Il serial killer accoglie il verdetto con un’affermazione disarmante, inconcepibile quanto i delitti che ha commesso: «Che gioia sarà morire sulla sedia elettrica. Sarà l’ultimo brivido. Il solo che non ho ancora provato. Ma non è un buon verdetto. Sapete, io non sono veramente sano di mente. E i miei poveri bambini, cosa faranno senza di me, chi sarà a guidarli?» L’esecuzione di Albert Fish avviene nella prigione di Sing Sing; la prima scarica elettrica non è sufficiente. Occorre nuovamente abbassare la leva, creare un nuovo contatto. Sono da poco passate le 23 del 16 gennaio 1936. Gli studi di approfondimento scientifico centrati sulle condotte sessuali dei serial killer, le loro predilezioni e perversioni sono arrivati a essere molto numerosi: Robert Ressler in una ricerca del 1988 rileva come la pornografia compaia al primo posto degli interessi in oltre l’80% dei casi da lui esaminati; la stessa scelta del tipo di materiale pornografico riflette gli aspetti in cui il serial killer amerà poi indulgere sulle scene dei crimini: necrofilia e sadismo, esibizionismo e travestitismo, masturbazione compulsiva e voyeurismo, coprofilia e zoofilia. Robert Prentky un anno più tardi riscontra un’incidenza maggiore di parafilia negli assassini seriali rispetto a coloro che uccidono una sola volta, soprattutto per quello che riguarda il feticismo (71% vs 33%) e il travestitismo (25% vs 0%). Il ruolo della perversione negli omicidi seriali può essere così importante da porre la questione se in alcuni casi la morte della vittima non sia puramente accidentale, non necessaria alla realizzazione del bisogno sadico-sessuale, quanto semmai funzionale alla eliminazione di uno scomodo testimone. Le disfunzioni sessuali e i disturbi dell’identità di genere Henry Lee Lucas nasce nel 1932 in Virginia, e lo scenario familiare in cui cresce è a dir poco drammatico: un padre alcolista e paralizzato, una madre che lo percuote selvaggiamente, lo umilia travestendolo da bambina e ricevendo davanti ai suoi occhi gli uomini con cui si prostituisce.

Cresce sulla strada, senza alcun modello educativo di riferimento, senza alcun valore, alcun principio morale: nessuno ha mai badato a lui se non per insultarlo e picchiarlo. Lucas comincia a uccidere a 15 anni, quando aggredisce una sua compagna di scuola, tagliandole la gola. Rinchiuso in un carcere minorile, viene sottoposto a visite ripetute. Gli psicologi della struttura lo definiscono un deviato omosessuale con gravi turbe mentali. Esce di prigione nel 1970, e presto torna a uccidere, in compagnia di un altro terribile assassino: Ottis Toole. Torture, mutilazioni, cannibalismo: nel 1983, Lucas viene fermato perché porta con sé una pistola non denunciata. Ha ucciso Becky Powell, l’unica donna alla quale sia mai stato legato da sentimenti autentici. Il killer appare sconvolto: denuncia di essere l’autore di un numero incredibile di delitti, e conduce gli investigatori nei luoghi in cui ne ha sepolto i corpi. Si attribuisce l’uccisione di seicento vittime, un numero evidentemente esagerato. Viene comunque collegato in modo più o meno diretto a duecento omicidi. Durante le deposizioni, le perizie, il dibattimento, emergeranno con chiarezza le sue difficoltà sessuali: Henry Lee Lucas pratica costantemente la necrofilia, non per il piacere che da quella scelta sessuale gli deriva, ma per l’impossibilità di avere un’erezione valida in un rapporto con un essere vivente. Sono state condotte alcune ricerche sulla relazione fra disturbi dell’identità di genere, omosessualità e assassini seriali, proprio per il numero elevato di vittime con simili caratteristiche. Niente conferma però che comportamenti omicidari seriali siano più frequenti tra questi soggetti. Molto spesso però la storia della sessualità del serial killer è segnata da intoppi, disarmonie, difficoltà, proprio nei momenti più delicati dello sviluppo. Alcuni comportamenti che si registrano sulla scena del crimine e che appaiono bizzarri e incomprensibili sono di fatto il surrogato di una sessualità incapace di normale espressione: la penetrazione del corpo della vittima con oggetti permette al killer impotente di trovare il proprio piacere. Abuso di sostanze5 Cincinnati, Ohio: il 12 novembre 1934 nasce Charles Manson. Il padre è sconosciuto, la madre è una prostituta che viene arrestata per rapina. Charles viene affidato a una coppia di zii, e l’uomo, mentalmente disturbato e dalla ricca vena sadica, mortifica continuamente il nipote, dandogli della femminuccia e giungendo a vestirlo da bambina per il primo giorno di scuola. Scontata la pena, la madre riprende il figlio con sé, ma presto se ne libera, affidan dolo, nel 1947, a un centro per adozioni. All’età di 12 anni Charles inizia a vivere per la strada, campando di rapine e furti d’auto; la prima fase della sua carriera criminale dura circa un anno. Arrestato, viene condannato a tre anni di riformatorio, dove subisce ogni sorta di prevaricazione e di abuso sessuale da parte degli altri detenuti, con la complicità delle guardie. A 17 anni, insieme a due amici, evade dal carcere, ruba un’auto e si dirige

verso un altro stato, lo Utah; nuovamente arrestato, viene trasferito in una prigione federale, dove da vittima diviene carnefice, violentando il compagno di cella sotto la minaccia di un rasoio. Viene immediatamente giudicato peicoloso e trasferito in un penitenziario di massima sicurezza. Trascorrono tre anni, e Manson riesce a convincere la commissione per la libertà condizionata d’essere maturato e di meritare un’altra occasione: non a caso il test di intelligenza a cui viene sottoposto durante un periodo di carcerazione mostra una dotazione brillante, con un punteggio di 121, mentre il quoziente di intelligenza medio è tra 85 e 105. Nel 1954 si sposa e ha un figlio, ma presto divorzia. Viene nuovamente arrestato per furto d’auto e, dal 1960 al ‘67, trascorre la vita entrando e uscendo di prigione. Siamo nel 1967, quando, pagato ogni debito con la giustizia, si dirige verso la zona di Haight-Sansbury a San Francisco. È l’epoca degli hippie, si parla di «summer of love», di «flower power», delle droghe capaci di liberare la mente, di rendere più viva la percezione del mondo. In questo scenario, Charles Manson rivela sconosciute doti carismatiche, fonda la sua Famiglia, chiamata appunto Manson Family, che giunge a contare sino a cinquanta membri. Il gruppo si trasferisce presto in un ranch nella Simi Valley, dove si mescolano bizzarri rituali, progetti omicidi, rapporti sessuali promiscui, e si assumono droghe, soprattutto allucinogeni. Nel 1969 «the Family» mostra il suo volto letale. Fra il 27 luglio e il 26 agosto a cadere vittime della setta nel Sud della California sono nove innocenti. Il 9 agosto Charles Manson, con Tex Watson, Patricia Krenwinkel, Susan Atkins e Linda Kasabian, entra nella villa di Roman Polanski e uccide quattro ospiti e l’attrice e moglie del regista, Sharon Tate, incinta di otto mesi. Gli assassini si accaniscono con ferocia sui corpi delle vittime e col loro sangue imbrattano i muri, scrivendo le parole «Pigs» e «Helter Skelter» (che è il titolo di una celebre canzone dei Beatles su cui Manson ha elaborato una sua farneticante filosofia). La notte successiva, Rosemary e Leno LaBianca vengono trucidati nella loro abitazione di Los Angeles da Manson e sei membri della Famiglia. In dicembre, Manson e altri dieci complici vengono finalmente identificati e arrestati. «Satana» Manson, come viene ribattezzato, è condannato a morte, ma la pena è commutata nel carcere a vita. Attualmente è ospite delle prigioni statunitensi dove, periodicamente, avanza domanda di libertà condizionale che, puntualmente, viene respinta. Il disturbo da uso di sostanze è frequente nella storia dei serial killer, e lo si ritrova in almeno il 50% dei casi. Molti assassini seriali raccontano di aver assunto droghe e alcol prima di uccidere. Oltre a Charles Manson, anche Henry Lee Lucas assumeva abbondanti quantità di alcol prima di ciascun delitto, mentre amfetamine, marijuana e PCP lo accompagnavano nel suo spostarsi in cerca di nuove vittime. È certo però che, nella maggior parte delle aggressioni dei serial killer, l’alcol e le droghe rappresentano al massimo un fattore facilitante.

Il ruolo della psicopatia … Ted lavorava con me a un centro di ascolto. Lentamente i miei sentimenti di amicizia sono cambiati. In un primo momento non volevo credere che Ted fosse colpevole. Poi però, a poco a poco, ho cominciato a dubi tare di lui. Dopo quasi cinque anni di ricerche e dopo aver visto le prove al processo di Miami, ho dovuto ac cettare il fatto che era un mostro. E difficile rendersi conto di essersi lasciati completamente ingannare da un affascinante psicopatico…

Così scrive Ann Rule nella sua biografia di Ted Bundy Un estraneo al mio fianco. Parlare di serial killer impone automaticamente di affrontare il tema della psicopatia, il disturbo mentale che è più frequente riscontrare in questi assassini. Cosa si intende per psicopatico? Una cosa è certa: stiamo parlando di uno dei termini più utilizzati nelle cronache di nera, al pari di «raptus», «efferato delitto» e «in un momento di follia». La definizione, utilizzata per la prima volta da J.L.A. Koch nel 1891, descrive un soggetto che possiede caratteristiche ben definite sia sul piano individuale che relazionale. Hervey M. Cleckley, nel testo The Mask of Sanity del 1976, riporta sedici tratti che permettono di identificare lo psicopatico: 1) intelligente; 2) razionale; 3) tranquillo; 4) inaffidabile; 5) insincero; 6) incapace di provare vergogna o rimorso per le proprie azioni; 7) possiede scarse capacità critiche e di giudizio; 8) incapace di autentici sentimenti d’amore; 9) freddo, senza risonanza emotiva; 10) scarsa capacità di introspezione; 11) indifferente ai sentimenti di fiducia e alle manifestazioni di gentilezza degli altri; 12) mostra iperreattività agli effetti dell’alcol; 13) ha tendenze suicide; 14) vive le relazioni sessuali in modo impersonale; 15) è incapace di porsi obiettivi a lungo termine; 16) mostra comportamenti antisociali immotivati. Cleckley ci consegna una descrizione precisa, completa, ma lascia alcuni interrogativi senza risposta: perché le carceri traboccano di psicopatici che non hanno mai commesso un omicidio, tanto meno seriale? E, ancora, in che modo natura e ambiente concorrono a costituire uno psicopatico? Perché uno psicopatico diventa un assassino seriale? Sono domande a cui la ricerca criminologica dedica attenzione da decenni, e che probabilmente mai avranno una risposta unica e definitiva. Robert Hare, il massimo studioso della personalità psicopatica, autore nel 1990 del saggio Without Conscience, prova a darci un’interpretazione:

Noi viviamo in una società «mascherata», una società in cui qualche tratto psicopatico – egocentrismo, mancanza di riguardo verso gli altri, superficialità, lo stile prima della sostanza, l’essere «freddi», manipola tivi, e così via – è sempre più tollerato e anche apprezzato… è facile vedere come gli psicopatici possano unirsi sollecitamente con gruppi che sostengono valori antisociali o criminali… E l’egocentrismo, il sangue freddo e la mancanza di rimorso degli psicopatici che si mescola a ogni aspet to della società, ha un impatto devastante sulle persone che incontra, e mette i brividi a chi deve far rispettare la legge…

Conclusione Nulla è stato detto di definitivo sulla vera e profonda natura dell’assassino seriale. Sappiamo che solo in piccola parte i serial killer sono affetti da un disturbo mentale che azzera le loro capacità di intendere e volere. Di certo per alcuni il ricorso alla follia può costituire l’unica strategia per evitare la pena di morte. Ecco allora il caso di John Haig, il Vampiro di York, che durante il processo a suo carico per sei omicidi commessi tra il 1946 e il 1949 beve la propria urina dinanzi alla corte nel tentativo di dimostrare la propria follia (riuscendo soltanto, in realtà, a provocare nei giurati ancora più repulsione). E in Italia la difesa di Gianfranco Stevanin ottiene nel secondo grado di giudizio il proscioglimento del killer per un’infermità attribuita a una precedente lesione cerebrale riportata in un incidente (ma la sentenza definitiva gli riconoscerà una piena imputabilità per i delitti commessi). Dati statistici alla mano, la percentuale di assassini seriali riconosciuti incapaci di sostenere un processo o prosciolti per infermità negli Stati Uniti dagli inizi del Novecento è stimata solamente intorno al 3,6%. Ma tuttavia, nel valutare questo dato, dobbiamo considerare l’esasperata attenzione e la pressione dei media nonché il bisogno di una rassicurante punizione che possa farci sentire «buoni» e «al sicuro». Oltre a tutto ciò, almeno negli USA, raramente la difesa di un serial killer viene affidata a un avvocato di grande nome ed esperienza affiancato da un pool di consulenti tecnici capaci di sostenere con efficacia l’esistenza di una patologia di mente.

V Cross nation

La storia di Roberto Succo Alle ore 18.10 dell'11 aprile 1981, le telescriventi dei giornali collegate con l’ANSA battono un brevissimo lancio d’agenzia:

DUPLICE OMICIDIO A MESTRE. (ANSA)

– VENEZIA, 11 APR – UN APPUNTATO DI POLIZIA E LA MOGLIE SONO STATI UCCISI OGGI A MESTRE. SUL FATTO, CHE È COPERTO DAL PIÙ STRETTO RISERBO, NON SI SONO APPRESI PER ORA ALTRI PARTICOLARI. (SEGUE X) Cos’è successo? È successo che alla questura di Mestre qualcuno si è insospettito perché l’appuntato Succo non si è presentato al lavoro. E non solo quel giorno, manca da due giorni dal suo posto al commissariato del secondo distretto di polizia di San Marco, proprio nel centro della città. E siccome l’appuntato Nazario Succo non è un ragazzino, è un vecchio «appuntatone» di 53 anni che sta in polizia da una vita, se sparisce senza chiedere permesso o dare notizia significa che è successo qualcosa. Così il commissario si decide e la mattina del 10 aprile manda due agenti alla palazzina popolare di quattro piani in via Terraglio, a Mestre, dove i Succo si sono trasferiti da pochi mesi. Gli agenti suonano il campanello ma non gli apre nessuno. L’appartamento, per fortuna, è al primo piano, così è facile per gli agenti sfondare una finestra ed entrare da lì. L’appartamento è piccolo, tre stanze più il bagno, ed è buio. Non c’è nessuno. Nessuno risponde agli agenti che chiamano l’appuntato Succo. Non c’è neanche la moglie, Maria, e neppure il figlio Roberto. Non c’è nessuno. I tre agenti si muovono per le stanze. Poi aprono la porta del bagno. L’appuntato Succo e sua moglie Maria sono lì. Distesi tutti e due nella vasca. Massacrati a colpi di coltello. Nell’appartamentino di via Terraglio arrivano subito il capo della squadra mobile di Venezia, il dottor Arnaldo La Barbera, e il sostituto procuratore di turno, il dottor Stefano Dragone. E arriva anche la polizia scientifica che cerca di ricostruire quello che è successo. La prima a essere stata uccisa è stata la signora Maria. Qualcuno l’ha colpita con un coltello almeno una decina di volte mentre si trovava in cucina, poi l’ha trascinata nel bagno, l’ha gettata nella vasca e lì dentro l’ha finita. Poi ha aperto il rubinetto, coprendo il corpo d’acqua. L’appuntato Succo è rientrato a casa attorno a mezzanotte, dopo aver finito il turno al commissariato di San Marco. È stato aggredito subito, appena chiusa la porta, nell’andito di casa. È stato colpito con un coltello e trascinato anche lui in bagno, nella vasca, sopra il corpo della moglie, e coperto d’acqua. Chi è stato? La polizia ricostruisce in fretta i movimenti dell’appuntato Succo e di sua moglie in cerca di un possibile movente. Nazario Succo non è un investigatore, non si occupa di indagini pericolose, non mette il naso negli affari della droga, della politica o della criminalità organizzata. Al commissariato San Marco di Venezia lavora in archivio. Non solo, è nella pubblica sicurezza da venticinque anni ed è sempre stato un poliziotto zelante, coscienzioso e tranquillo, apparentemente privo di qualunque preoccupazione. Impossibile pensare che sia rimasto coinvolto in qualcosa di losco. Assolutamente impossibile. L’ultima volta che è stato visto prima di essere ritrovato assieme alla moglie, è stata la sera del 9 aprile, attorno alle 23, quando è smontato dal turno di servizio. E anche la signora Maria è stata vista per l’ultima volta quella

sera, quando è andata a trovare la famiglia che abita sullo stesso piano, per fare quattro chiacchiere. Non facevano molto di più, i Succo, non uscivano quasi mai, lavoravano, frequentavano un po’ i vicini e basta. Gente tranquilla. Tranquillissima. Chi li ha uccisi? In realtà l’indagine sui possibili moventi dell’omicidio e sui movimenti dell’appuntato Succo e di sua moglie Maria sono soltanto una formalità per un’indagine che deve necessariamente svilupparsi a trecentosessanta gradi. Perché un’ipotesi sul possibile assassino, il dottor La Barbera e il dottor Dragone, ce l’hanno subito, fin dall’inizio. Era già in quel lancio ANSA del pomeriggio dell’11 aprile. (ANSA) –

VENEZIA,

11

APR



SECONDO ALCUNE INDISCREZIONI, GLI INVESTIGATORI STAREBBERO

CERCANDO IL FIGLIO DEI DUE CONIUGI, CHE POTREBBE ESSERE IMPLICATO NEL DUPLICE OMICIDIO .

(SEGUE X) Chi è il «figlio dei due coniugi» che la polizia sospetta implicato nel massacro? Si chiama Roberto, Roberto Succo, ha 19 anni e frequenta il quinto anno del liceo scientifico Morin di Gazzera, un quartiere di Mestre. Uno studente liceale, un tipo tranquillo, molto silenzioso, forse troppo. Taciturno, introverso, ma niente di più. Fissato con il culturismo. Mai dato segni di squilibrio, mai saputo di screzi tra lui e i genitori. Sì, al massimo i vicini lo avevano sentito litigare con la madre perché non gli voleva lasciare le chiavi della macchina, ma niente di più. E allora, perché la polizia sospetta proprio di lui? Perché ci sono i suoi vestiti, sporchi del sangue dei genitori, abbandonati in quell’appartamento di via Terraglio. È quasi una firma lasciata sul luogo del delitto. E c’è anche chi l’ha visto allontanarsi, sano e salvo, e da solo. Non c’è altro da fare che diramare un ordine di ricerca per Roberto, esteso soprattutto al Veneto e anche alla Lombardia, perché il ragazzo ha uno zio a Brescia e potrebbe essere diretto lì. Un bollettino di ricerca che comprende la descrizione dei suoi vestiti – blue jeans e maglione marrone, dell’auto che guida – l’Alfasud blu del padre, ma anche altri particolari ben più inquietanti, come la pistola d’ordinanza dell’appuntato Succo, la Beretta automatica 92 S con quindici colpi calibro 9 per 19 che Roberto avrebbe preso con sé, e che lo rende, quindi, «armato e pericoloso». Lo prendono due giorni dopo, il 13 aprile 1981, nel pomeriggio. Lo trovano in una pizzeria alla periferia di San Pietro al Natisone, un paesino friulano, in provincia di Udine. Qualcuno aveva notato un’Alfasud, il giorno prima, che girava per le strade del paese. Un’Alfasud blu identica a quella descritta dai telegiornali e dai fonogrammi di ricerca. Targata Udine, e non Venezia, come quella dei Succo, ma basta un semplice controllo per scoprire che quella è una targa falsa, rubata a un’altra macchina. A prendere Roberto è un maresciallo dei carabinieri, che gli salta addosso in fretta appena si accorge che il ragazzo l’ha visto avvicinarsi e sta cercando di tirare fuori la Beretta 92 dalla custodia di una macchina fotografica in cui la teneva nascosta. In macchina, i carabinieri trovano anche parecchi proiettili e il coltello col quale sono stati uccisi i coniugi Succo.

In caserma, Roberto ci arriva in stato confusionale e racconta una storia assurda. Non è stato lui a uccidere i genitori, sono stati i carabinieri e lui è solo scappato perché non facessero fuori anche lui. È una sciocchezza, naturalmente. I carabinieri avvertono la polizia di Venezia, che manda una macchina della mobile a prenderlo per portarlo al commissariato di Mestre, davanti al dottor La Barbera. In auto Roberto non dice una parola, resta muto e immobile fino all’uscita dell’autostrada per Mestre, poi, all’improvviso, aggredisce gli agenti che gli siedono accanto e comincia a colpirli, come un pazzo, finché non lo immobilizzano. Al commissariato Roberto è di nuovo calmo e ammette tutto, anche se in modo ancora confuso. Li ha uccisi lui i suoi genitori, perché la madre lo aveva escluso dal suo affetto e il padre non gli voleva dare la macchina perché correva troppo forte. Dice anche di scappare perché ha paura di essere ucciso dalla camorra, che lo vuole morto, ma anche questa è una sciocchezza e non ci crede nessuno. La sua deposizione viene verbalizzata e Roberto finisce al carcere di Santa Maria Maggiore, a Venezia, in attesa di essere visto anche dal magistrato. Al sostituto procuratore Dragone, che lo interroga per due ore, Roberto conferma tutto. Dice che ha ucciso i genitori nella notte tra giovedì 9 e venerdì 10 aprile e conferma la dinamica dell’omicidio: prima la madre e poi il padre, che ha colpito con il coltello e poi con un’accetta, dopo avergli infilato la testa in un sacchetto di plastica. Dice che li ha messi tutti e due nella vasca perché l’acqua coprisse l’odore e ritardasse la scoperta del delitto. Dice che ha atteso fino alle sette del mattino dopo, quando ha preso la pistola e trecentomila lire per andare fino a Brescia, dallo zio, a cui voleva raccontare tutto. Ma non ne ha avuto il coraggio, così è tornato a Mestre, dove ha girovagato per l’intera giornata di sabato. Si scopre anche che è rientrato in casa, forzando i sigilli della polizia, perché voleva portare via i corpi dei suoi per nascondere il delitto, ma erano già stati trovati e ormai era tutto inutile. Allora è ripartito e si è fermato a dormire in macchina, in un parcheggio di fronte a un albergo di Mogliano, in provincia di Treviso. Poi l’hanno preso. Davanti al magistrato Roberto è calmo. Parla con attenzione e ogni tanto interviene per farsi rileggere quello che ha detto e correggere il verbale di interrogatorio battuto a macchina. Il magistrato nota che, quando racconta dell’omicidio, Roberto sembra piuttosto esperto di anatomia. Sì, dice lui, infatti un po’ se ne intende. Da piccolo si divertiva a sezionare gli animali dopo averli cloroformizzati. L’8 ottobre 1981, sulla base delle perizie psichiatriche che lo giudicano schizofrenico, l’ufficio Istruzione del tribunale di Venezia dichiara Roberto non punibile per totale infermità di mente e ne ordina il ricovero nel manicomio criminale di Reggio Emilia, dove dovrà essere sorvegliato, curato e tenuto sotto osservazione per almeno dieci anni. Ma non va così. Roberto resta a Reggio Emilia soltanto sei anni. E non perché guarisca o venga dimesso prima del tempo. Perché scappa. Roberto ha 19 anni quando entra nell’ospedale psichiatrico giudiziario; lì si comporta bene. O almeno così pare, perché, nonostante stia tranquillo e non crei problemi

a nessuno, scrive lettere inquietanti a don Domenico Franco, un sociologo conosciuto durante la detenzione. «Non sanno» dice Roberto parlando delle guardie del manicomio «che se volessi potrei sollevare cinque di loro con una mano sola e stritolarli. Ma mi trattengo, perché il desiderio più forte è quello di poter tornare un giorno libero, di poter respirare all’aria aperta, mentre qui mi sento un animale in gabbia.» Parla anche del suo passato, Roberto, di quando andava a scuola, e sono lettere altrettanto inquietanti. «Soprattutto odiavo profondamente le ragazze e avrei voluto e potuto strizzarle con le mie mani.» È a Reggio Emilia, in manicomio, che Roberto conosce un altro serial killer, e uno dei più famosi: Wolfgang Abel, che assieme a Marco Furlan ha ucciso quindici persone in sei anni, firmando i delitti col nome di «Ludwig». Però si comporta bene, Roberto, finisce addirittura il liceo e prende la maturità scientifica. Si iscrive all’università, facoltà di scienze naturali, e comincia a dare esami, ed è così bravo, zelante e coscienzioso, che gli vengono concesse alcune licenze di studio, fuori dall’ospedale, per poter frequentare i corsi più impegnativi. È durante una di queste licenze che Roberto esce dal manicomio di Reggio Emilia e non torna più. È il 1986. Roberto ha 25 anni ed è scomparso. Come un fantasma. Due anni dopo, però, riappare. Nella tarda mattinata dell’11 febbraio 1988, verso l’una e mezzo, i giornali italiani ricevono una serie di lanci dell’ANSA. (ANSA) – PARIGI, 11 FEB – UNA SERIE DI CONTROLLI EFFETTUATI IN ITALIA HANNO PERMESSO ALLA POLIZIA FRANCESE DI IDENTIFICARE UN PERICOLOSO ASSASSINO AL QUALE SI STA DANDO LA CACCIA DA QUINDICI GIORNI: È ROBERTO SUCCO, DI 25 ANNI, FUGGITO NEL 1986 DA UN OSPEDALE PSICHIATRICO DI REGGIO EMILIA, DOVE ERA STATO RINCHIUSO PER SCHIZOFRENIA DOPO AVERE UCCISO NELL’APRILE 1981, A MESTRE, IL PADRE E LA MADRE.

A Parigi? Perché a Parigi? E cosa era successo quindici giorni prima? Era successo che il 28 gennaio 1988 due ispettori della polizia francese erano andati a cercare un uomo in un albergo di Tolone. C’era stata una rissa in un bar, la notte prima, e un uomo era stato ferito alla schiena da un colpo di pistola. A sparare era stato un certo André, che dicevano stesse in quell’albergo. I due ispettori stavano ancora chiedendo sue notizie al personale dell’albergo quando all’improvviso arriva André, che vede i poliziotti, tira fuori una pistola e si mette a sparare. L’ispettore Ajazzi cade a terra e sembra morto, anche se è soltanto ferito. L’ispettore Morandin, invece, resta in ginocchio, colpito a un braccio e a una gamba. André gli si avvicina, e anche se Morandin supplica di non ucciderlo, l’uomo gli prende la pistola, una Smith & Wesson calibro 38 Special, e lo finisce con quella, sparandogli alla testa. Poi scappa e sparisce. André non si chiama André. La polizia francese lo scopre quasi subito. Dopo la morte dell’ispettore Morandin una ragazza si presenta alla gendarmeria di Aix-lesBains. Ha 16 anni e dice di essere l’amica di un uomo che si fa chiamare André e che

corrisponde alla descrizione dell’assassino. Che però non si chiama André. Si chiama Roberto. Roberto Succo. Ed è un tipo pericoloso. Tre funzionari della polizia francese volano subito fino a Venezia e poi vanno anche al manicomio di Reggio Emilia. Confrontano le impronte digitali lasciate da André in albergo con quelle dell’ex paziente Roberto Succo e constatano che corrispondono perfettamente. Non solo. Dal 30 gennaio un uomo con gli stessi connotati di André è stato notato in Svizzera. Sulla strada tra Ginevra e Losanna ha aggredito il gestore di una stazione di servizio per rubargli la macchina e scappare con quella. Dopo un po’, però, la abbandona per fermarne un’altra e scappare, tenendo come ostaggio la ragazza che la stava guidando. Vuole farsi portare fino a Berna e la ragazza è terrorizzata, perché lui le ha detto che non ha niente da perdere e lei ha paura che la ucciderà. Ma sulla strada hanno un incidente, e lei riesce a scappare. Arriva la polizia e l’uomo si mette a sparare come un pazzo, tenendo sotto tiro gli agenti finché non riesce a fuggire. A Lyss, vicino a Berna, sequestra e violenta tre donne. Una finisce in ospedale, in stato di shock, ma le altre due riescono a darne una descrizione, ed è quella dell’uomo che si faceva chiamare André. Ci sono anche delle impronte, lasciate nella macchina rubata e abbandonata vicino a Losanna. Corrispondono anche quelle. Roberto Succo è in Svizzera. Da qualche parte. La magistratura di Tolone emette subito un mandato di cattura internazionale per Roberto Succo, e tutte le polizie d’Europa cominciano a cercarlo. Il 12 febbraio la polizia francese ferma a Lione un uomo che corrisponde alla descrizione di Roberto. È un ragazzo sui vent’anni, biondo, che parla solo italiano ed era al volante di una Mercedes 300 blu rubata a Torino a un professore universitario. Ma c’è qualcosa che non torna, il colore degli occhi, per esempio, e poi, cosa c’entra Torino? Cos’ha fatto Roberto, avanti e indietro tra la Svizzera, la Francia e l’Italia? No. La polizia di Lione confronta le impronte dell’uomo con quelle di Roberto e deve ammettere che non è lui. Roberto Succo è ancora in giro. Da qualche parte. Il 20 febbraio un giovane che corrisponde alla descrizione di Roberto viene segnalato nella regione delle Alpi dell’Alta Provenza francese. C’è un testimone che lo ha visto in un parcheggio di Sainte-Tuille al volante di una Opel nera, che viene notata anche da alcuni gendarmi di una cittadina vicina. La polizia francese istituisce immediatamente posti di blocco in tutta la zona, controllando minuziosamente tutte le auto che passano. Lo fanno fino a tarda notte, quando decidono di smettere e togliere i posti di blocco, perché non hanno trovato niente. Roberto Succo è ancora un fantasma. Da qualche parte. Il 29 febbraio 1988, alle tre del mattino, le telescriventi dei giornali battono un’altra notizia ANSA. (ANSA) – TREVISO, 29 FEB – ROBERTO SUCCO, 25 ANNI, DI MESTRE (VENEZIA) È STATO CATTURATO LA NOTTE SCORSA NEI PRESSI DI CONEGLIANO DAGLI AGENTI DELLA SQUADRA MOBILE DI TREVI SO.

Preso. Alle dieci e mezzo della sera del 28 febbraio, una decina di poliziotti fra agenti in borghese della squadra mobile di Treviso e uomini delle squadre speciali è in appostamento a Santa Lucia di Piave, un paesino vicino a Conegliano. Sono arrivati lì seguendo una serie di segnalazioni che li hanno portati in giro per quasi un mese. Prima a Belluno, poi a Milano, poi in provincia di Treviso e alla fine lì, a Santa Lucia. Dove vedono arrivare un giovane che riconoscono subito. È Roberto Succo. Gli saltano subito addosso, ma Roberto reagisce come un leone, si divincola, riesce a scappare dalle mani degli agenti e corre verso una macchina, una Rover 800 rubata il giorno prima a Sirmione, in provincia di Brescia. Roberto non ci arriva, alla Rover, gli agenti lo atterrano prima, e fanno bene, perché nel cruscotto ha una pistola, proprio la Smith & Wesson calibro 38 Special con cui ha ucciso l’ispettore Morandin. Addosso gli trovano anche un documento falso intestato a un dipendente delle ferrovie italiane, una carta di credito e un libretto di banca. Ha anche un sacco di soldi in contanti: quattrocentomila lire e sessantamila franchi francesi. E c’è una cartina geografica, sulla quale ha segnato il tragitto del suo piano di fuga: giù, verso la Sicilia e da lì in Nord Africa. Viene portato immediatamente alla questura di Treviso e chiuso in camera di sicurezza, e quando il capo della squadra mobile dottor Francesco Zonno gli chiede di dichiarare la sua professione, Roberto dice: «Sono un killer, ammazzo la gente». Interrogato dal sostituto procuratore della Repubblica di Treviso Giovanni Cicero, Roberto si vanta della sua abilità nel riuscire a prendere in giro le polizie di mezza Europa. Poi ammette tutto. È vero, è andato in Francia appena è scappato dal manicomio di Reggio Emilia, nell’86. È rimasto là mantenendosi con un non meglio precisato «lavoro nero». Non ha mai avuto contatti con la criminalità e meno ancora con quella organizzata. Ad aiutarlo sono state le donne, le sue donne, quelle che stavano con lui perché si erano innamorate, e in Francia ne vengono incriminate tre con l’accusa di favoreggiamento. E quelle che erano costrette a farlo perché le aveva violentate e rapite. Tra i delitti di cui è sospettato ci sono proprio quelle, le violenze carnali, tantissime, tra Francia e Svizzera, ma anche parecchi omicidi. A parte quello dei genitori di sette anni prima e quello dell’ispettore Morandin, c’è quello di una ragazza vietnamita, France Vu Dinh, che Roberto avrebbe rapito il 27 aprile 1987 e poi massacrato a coltellate. C’è quello del dottor Michel Astoul, un medico di Annecy, che Roberto uccide dopo essersi fatto dare un passaggio in autostop. C’è quello di una donna, Claudie Duschosal, uccisa ancora ad Annecy con la stessa 38 Special che ha ucciso l’ispettore Morandin a Tolone. E c’è anche quello di un poliziotto svizzero, il brigadiere Castillo, a cui Roberto spara in un parcheggio di Tesserve perché vuole controllare i suoi documenti. Ma ormai l’hanno preso e adesso si trova nel carcere Santa Bona a Treviso, al sicuro e senza più possibilità di nuocere. Forse. Il 1° marzo 1988, attorno alle tredici, proprio mentre in prefettura il primo dirigente, il dottor Scivoletto, sta congratulandosi con il questore Nicolini e con il capo della squadra mobile Zonno per la cattura del pericolosissimo ricercato, Roberto è nel cor-

tile del carcere per l’ora d’aria, sorvegliato da tre agenti di custodia. Si distraggono un attimo, un attimo solo, ma a Roberto è sufficiente. Scatta e con un salto si aggrappa a una tettoia alta più di due metri e da lì passa sul tetto del carcere. Poi si attacca a un cavo e lasciandosi penzolare arriva al tetto di un altro edificio, che viene subito circondato da polizia e carabinieri. Ci sono anche le televisioni locali, e allora Roberto si spoglia, restando solo con gli slip e improvvisa una specie di conferenza stampa. Soprattutto ce l’ha con una donna, la ragazza di 16 anni che ha segnalato la sua identità a Tolone, l’unica donna che ha amato, dice. Lo show finisce un’ora dopo, verso le due del pomeriggio. Roberto si attacca al cavo per passare sul tetto dell’abitazione del direttore, ma arrivato a metà si ferma. «Adesso comincia l’esibizione numero due,» grida ai giornalisti «vi faccio vedere come si muovono i parà» e comincia a dondolarsi, attaccato con le mani. Poi cerca di saltare su un terrazzino ma non ce la fa e cade di sotto, precipitando nel cortile da un’altezza di sei metri, rompendosi tre costole e lussandosi una spalla. Neanche ridotto così Roberto sta fermo, tanto che i medici dell’ospedale di Treviso sono costretti a imbottirlo di calmanti, prima di caricarlo di nuovo in ambulanza e trasferirlo nel carcere Le Sughere di Livorno, dove viene chiuso in cella d’isolamento. L’8 marzo la Francia chiede l’estradizione di Roberto per processarlo laggiù. Hanno paura che una nuova perizia psichiatrica possa giudicarlo schizofrenico, e che venga di nuova prosciolto dalle accuse perché riconosciuto infermo di mente. Contemporaneamente arrivano almeno una decina di rogatorie inoltrate dai giudici svizzeri e francesi che indagano sugli altri delitti attribuiti a Roberto. Il 23 aprile giunge a Treviso un magistrato francese, il giudice istruttore Bertrand, del tribunale di Tolone, per interrogare Roberto. L’interrogatorio dura poco più di dieci minuti, perché, appena vede il giudice, Roberto comincia a parlare in francese, ma dice cose prive di senso. Poi passa all’italiano e si avvale della facoltà di non rispondere. Il 17 maggio 1988, il giudice istruttore del tribunale di Treviso Nicola Maria Pace esamina la perizia psichiatrica che un collegio di periti ha condotto su Roberto con una serie di colloqui presso il carcere di Livorno. Nella perizia c’è scritto che Roberto è schizofrenico e pericoloso per la società, per cui il giudice Pace non può che dichiararlo incapace di intendere e di volere. In Francia il Sindacato nazionale autonomo della polizia in borghese che raccoglie ispettori e commissari di polizia protesta vivamente con il ministero della Giustizia francese e il giudice Bertrand chiede subito una controperizia con esperti e psichiatri francesi. Comunque sia, intanto Roberto deve tornare in un istituto psichiatrico giudiziario, come sette anni prima. Ma anche questa volta, le cose non vanno come dovrebbero andare. 23 maggio 1988, ore 1.50. Notizia ANSA. (ANSA) – ROMA, 23 MAG – VICENZA. ROBERTO SUCCO SI È SUICIDATO LA SCORSA NOTTE NEL CARCERE DI VICENZA.

Lo avevano trasferito lì dal carcere di Livorno perché fosse più vicino al tribunale e non facesse scherzi durante i trasferimenti. Lo avevano chiuso in una cella d’isolamento del carcere San Pio X ed era praticamente sorvegliato a vista, a parte la notte. La mattina del 23 maggio gli agenti guardano dallo spioncino della cella di Roberto e si accorgono che è ancora a letto. Ha la testa coperta dal cuscino, come fa di solito, ma comincia a essere tardi, così aprono la porta e vanno a vedere. Sollevano il cuscino e scoprono che Roberto ha la testa infilata in un sacchetto di plastica pieno del gas di una bomboletta da campeggio. Non c’è niente da fare. Non è un espediente per scappare e non andare più in manicomio. Non è un atto di esibizionismo per finire di nuovo sui giornali. Questa volta non è un trucco. Roberto è morto per davvero.

La storia di Jack Unterweger Jack è bravissimo. È profondo, acuto, brillante, anche simpatico. E’ presuntuoso quanto deve esserlo un giovane scrittore dei primi anni Novanta, e sicuro quanto può esserlo un autore di fama nazionale che comincia a essere tradotto anche all’estero. Al suo attivo ha ancora soltanto un libro, alcune pièce teatrali, alcuni racconti e molte poesie, ma è già una star nei caffè letterari austriaci, ricercatissimo dai giornali come opinionista e molto, molto venduto nelle librerie. In televisione, soprattutto, Jack è bravissimo. Interviene nei talk show, parla e piace, è anche fotogenico. Seduto sulla poltroncina davanti alle telecamere mentre ascolta il suo interlocutore, pronto a interromperlo e a contraddirlo con una certa violenza, come è giusto che succeda in un talk show, Jack sa che c’è la sua bellissima e costosa auto sportiva che lo aspetta nel garage della stazione televisiva, pronta a portarlo fino alla sua bellissima e costosa suite nel migliore albergo della città. Sta facendo un sacco di soldi, Jack, e sa anche come spenderli. Non era così, una volta. Anche solo fino a pochi anni prima, le cose non gli andavano così bene, anzi. Andavano malissimo. Il libro che ha scritto, il primo che ha pubblicato, era un’autobiografia che parlava di quando era in galera per aver ucciso una prostituta. Alla fine degli anni Sessanta, Jack era un teppista. Jakob Unterweger, detto Jack, nato a Lienz nel 1952 da una prostituta di strada e un militare americano delle forze d’occupazione, è un adolescente molto difficile, e piuttosto conosciuto dalla polizia. Tra il 1968 e il 1975, a Vienna, Jack si fa arrestare sedici volte per furto con scasso e abusi sessuali. È intelligente, Jack, è anche carino, magro, biondo, con un paio di baffetti e un sorriso accattivante, ma quando vuole qualcosa deve ottenerla subito, immediatamente, e se si trova di fronte a qualche difficoltà, o peggio ancora a un rifiuto, perde la testa e reagisce con violenza. Troppa. Nel 1975, una donna cerca di resistergli e lui finisce per farsi denunciare per stupro. Nel 1976 succede di nuovo, a Salisburgo. Una ragazza tenta di sfuggire al suo assalto, cerca di resistergli, ma questa volta lui la uccide.

La giovane si chiama Margaret Schaefer, ha 18 anni ed è una sua vicina di casa. A Jack piace, ma lei non vuole andare con lui, non si fida di quel ragazzo strano, intelligente, sensibile, certo, ma così eccitabile, pronto ad accendersi per nulla. Le fa paura, quel Jack Unterweger, e così accetta di uscire con lui soltanto quando glielo chiede anche Barbara. Barbara Scholtz è una prostituta, ma è sua amica e in tre non dovrebbe succedere niente di male. Così Margaret accetta di fare un giro in macchina con loro. Il giro però dura poco. Appena arrivano fuori città, Jack ferma la macchina e salta addosso a Margaret. Ha un impermeabile alla moda, Jack, uno di quelli che si vedono nei film americani, e con la cintura del soprabito le lega le mani, bloccandole i polsi, e lo fa in fretta, come se l’avesse già preparata, quella cintura, e lo avesse già fatto altre volte. E una trappola, e Barbara lo sapeva perché ci sta, è complice, fa tutto quello che Jack le chiede, come se ne fosse soggiogata. Vanno a casa di Margaret, che rimane legata in macchina con Barbara, e Jack sale di sopra. Forza la serratura dell’appartamento della ragazza e ruba tutti i soldi che trova. Poi torna alla macchina, si mette alla guida e porta le ragazze nei boschi attorno alla città. Qui costringe Margaret a spogliarsi e appena lei si rifiuta e cerca di resistere lui sembra perdere completamente la ragione. Comincia a prenderla a pugni, furiosamente, in tutto il corpo, poi afferra un bastone e la colpisce alla testa, parecchie volte. Margaret non riesce a reagire, travolta da quella frenesia, ha quasi perso i sensi, e anche Barbara non fa nulla, non aiuta l’amica, resta immobile, schiacciata lei pure dalla violenza cieca di Jack. Che trascina Margaret fino a un albero, la copre con un mucchio di foglie e poi le strappa il reggiseno, lo annoda rapidamente, formando un cappio, glielo stringe attorno al collo e la strangola. Lo arrestano subito. Ha molti precedenti proprio per violenze simili, è conosciuto e l’hanno visto andarsene via in macchina con le due ragazze. Jack non nega l’omicidio, non potrebbe. Cerca di difendersi dando una spiegazione psicologica. Dice che voleva uccidere sua madre. Margaret, dice, era una prostituta, anche sua madre era una prostituta, e quando si è trovato davanti la ragazza gli è sembrato di vedere sua madre e allora l’ha uccisa. Ma non sapeva quello che stava facendo. Il dottor Klaus Jarosch, incaricato dal tribunale di Salisburgo di fare una perizia psichiatrica su Jack, lo definisce «emozionalmente impoverito, sensibile ed eccitabile». Dice che tende a improvvisi attacchi di collera, e che nel suo comportamento si dimostra estremamente aggressivo con perversioni sessuali di carattere sadico. Insomma, è uno psicopatico, esplosivo e aggressivo; come tutti gli psicopatici è incapace di provare sentimenti e rispetto per gli altri, non possiede un codice morale, non riconosce nemmeno i più semplici doveri del vivere sociale e, se lasciato libero, inevitabilmente diventerebbe un criminale abituale. E quasi sicuramente ucciderebbe ancora. Il tribunale di Salisburgo accoglie i suggerimenti del dottor Jarosch e condanna Jakob Unterweger all’ergastolo per l’omicidio premeditato di Margaret Schaefer. Jack ha 24 anni e finisce in prigione per tutta la vita. Dopo la sua partecipazione al talk show, Jack rientra in albergo. Non un albergo da poco, un cinque stelle, come si conviene a una piccola star della letteratura come lui, un nome emergente, che sicuramente farà strada. Alla reception il portiere lo ricono-

sce e gli sorride, prima di consegnargli la chiave della stanza. Non una stanza da poco, una suite, pagata dalla rete televisiva dopo gli accordi col suo agente letterario sull’ospitalità, sul viaggio e sul cachet. Non resta molto in camera, Jack. E’ inquieto. E’ uno scrittore emergente, l’idolo dei circoli letterari, conteso dai giornali eccetera eccetera, ma non è tranquillo, Jack. Non riesce a stare fermo, ad aspettare in camera l’ora per la cena, quando lo verranno a prendere i colleghi scrittori della città. Ha anche un’intervista, e sicuramente gli chiederanno di quei tempi, di quando era in galera, condannato per sempre per un brutale omicidio, e di come ha fatto invece a diventare così, a essere lo scrittore Jack Unterweger e non più il teppista assassino di Lienz. Jack esce dall’hotel. Consegna la chiave della stanza e si fa dare quella della Ford Mustang che ha parcheggiato nel garage. Risale lo scivolo, si immette nella strada dell’albergo e si allontana, svoltando sulla strada principale. Sa dove andare. Lo sa sempre. Poco distante ci sono i quartieri bassi, le strade ai margini del centro in cui battono le prostitute. Non è difficile trovarne una e non bisogna neppure aspettare troppo perché si avvicini di corsa a quella bella macchina. Dentro c’è un signore distinto, dall’aria sportiva, un biondino con i capelli che cominciano a imbiancarsi appena sulle tempie. Porta al collo una sciarpa rossa, ha un bel sorriso e deve essere anche pieno di soldi. Parla bene. È uno scrittore. Il problema è che non è soltanto quello. In galera Jack cambia. Ma non poco, molto. Comincia a studiare. Sensibile, intelligente, anche colto lo era sempre stato, ma in carcere Jack si avvicina alla letteratura. Legge moltissimo, romanzi, opere teatrali, poesie, e intanto comincia a comportarsi come un detenuto modello e non come quel teppista violento che era al momento di finire dietro le sbarre. Non legge soltanto, Jack, comincia a scrivere. Da solo nella sua cella, di giorno e di notte, è curvo sui fogli che ha avuto il permesso di tenere e scrive, per adesso ancora a mano. Scrive tutto quello che gli è accaduto e come gli è accaduto, scrive quello che ha provato, quello che ha sentito, quello che ha pensato, racconta la sua infanzia, la sua adolescenza, la sua famiglia, le sue compagnie, le sue donne, tutto, fino a quel momento, a quel brutto giorno del 1976 in cui ha ucciso una ragazza stringendole attorno al collo un cappio fatto con il suo reggiseno. Non nasconde niente, Jack, non scrive per giustificarsi o per passare il tempo, scava dentro di sé fino in fondo e butta fuori tutto, sulla carta. E siccome è intelligente, sensibile e anche colto, quello che scrive non è soltanto sincero, è anche bello. Di più. Jack ha talento, Jack ancora non lo sa, ma è un vero scrittore. Quello che scrive non è soltanto un diario ben fatto, quello che scrive nella sua cella nel carcere di Salisburgo è un libro. Fegefeuer oder die Reise ins Zuchthaus, l’autobiografia di Jack Unterweger, ha fin da subito un enorme successo. La discesa agli inferi di un giovane assassino affascina e interessa sia i critici sia il pubblico, che la trasformano in un caso letterario. Il nome di Jack comincia a essere noto e il suo lavoro viene seguito con attenzione da giornalisti, lettori e editori. Dopo l’autobiografia, Jack scrive una serie di racconti e poi comincia a scrivere per il teatro, pièce molto tormentate e dure, che partono sempre da un dato autobiografico. Scrive poesie, e anche quelle hanno successo. Da Fegefeuer

oder die Reise ins Zuchthaus, nel 1987, il regista Willi Hengstler trae un film, Purgatorio, scritto a quattro mani con lo stesso Jack Unterweger, che deve collaborare al film a distanza, perché sarà anche un giovane scrittore di successo, ma è in carcere per omicidio e deve restarci per sempre. È per questo che la comunità letteraria austriaca comincia a muoversi. Scrittori, poeti, registi, uomini di cultura si mobilitano perché Jack, lo scrittore Jack e non Jack il teppista, esca di prigione. Jack è cambiato, si è trasformato in un altro, è stato recuperato e può tornare a inserirsi nella società. È successo altre volte, come con Robert Stroud, l’Uomo di Alcatraz, che finisce all’ergastolo per omicidio, relegato in isolamento proprio per il suo comportamento violento, e che poi si mette a studiare i canarini, tanto da diventare uno dei massimi esperti scientifici nel campo dell’avicoltura e delle malattie degli uccelli. Settecento tra i più bei nomi della cultura austriaca mettono uno dietro l’altro la loro firma sulla petizione che vuole Jack libero. Il tribunale di sorveglianza riesamina la posizione di Jack, parla con lui, lo trova radicalmente cambiato e sinceramente pentito e nel maggio del 1990 gli accorda la libertà condizionata. Jack è libero, può lavorare, vivere e viaggiare, a patto, naturalmente, che non commetta reati. Jack il teppista è morto, è nato Jack lo scrittore. Il problema è che non è soltanto quello. La prostituta sale nella macchina di Jack. È gentile con lui, lo sono tutte con Jack, che è così carino, pulito e sorridente. Potrebbe chiamarsi Blanka Bockova, e lei e lui potrebbero essere a Praga, la notte fra il 14 e il 15 settembre 1990, pochi mesi dopo che Jack è stato rilasciato. Blanka sale in macchina con lui e si lascia portare in un luogo appartato, senza problemi perché è il suo mestiere, è una prostituta, anche piuttosto conosciuta dalla polizia. Jack ha un coltello con sé. La minaccia, la costringe a spogliarsi, tutta nuda tranne i gioielli che indossa, poi la colpisce col coltello, prende il suo reggiseno, lo annoda formando un cappio e la strangola. La ritrovano il giorno dopo, in un bosco, stesa sulla schiena e parzialmente sepolta sotto le foglie di un albero. Oppure potrebbe chiamarsi Brunhilde Masser, e potrebbero essere in Austria. Brunhilde sale in macchina con Jack tra il 25 e il 26 ottobre del 1990, poco più di un mese dopo Blanka. Jack la spoglia, la colpisce col coltello e la strangola col suo reggiseno. Anche lei la trovano nel bosco, prona, coperta dalle foglie e con i gioielli addosso. O Heidemarie Hammerer, sempre in Austria. Anche Heidemarie fa la prostituta e anche lei sale in macchina con Jack di notte, fra il 5 e il 6 dicembre 1990, due mesi dopo il precedente omicidio. Non le dà il tempo di spogliarsi completamente, la strangola con il suo reggiseno, poi la lascia nel bosco, prona, semivestita e con i gioielli addosso. Quattro mesi dopo, nella notte tra il 16 e il 17 aprile 1991, è la volta di Sabine Moltzi. Lei la strangola con i suoi collant e poi la lascia prona sotto un mucchio di foglie, completamente nuda e con i gioielli addosso. Meno di un mese, notte fra il 7 e l’8 maggio 1991. Karin Erogiu, in Austria. Strangolata con il body e poi lasciata vicino alla strada, nuda e con i gioielli, ma questa volta senza seppellirla sotto le foglie.

Nessuno collega i delitti. Siamo agli inizi degli anni Novanta, in Austria non esiste un vero e proprio concetto criminologico di assassino seriale, e neppure una pratica consolidata per quanto riguarda la composizione del profilo psicologico dell’assassino o di certe indagini scientifiche. Le vittime sono tutte prostitute e appartengono a una categoria a rischio in cui certe cose, purtroppo, succedono. Nessuno collega i delitti e soprattutto nessuno li collega a Jack, che non è più un assassino ma uno scrittore e un giornalista. Tanto che un giornale lo manda a indagare su uno degli omicidi, per scrivere un pezzo ben documentato e approfondito. Chi meglio dello scrittore Unterweger, ex assassino di una prostituta, potrebbe parlare del problema? E infatti Jack accetta e va a intervistare Max Edelbacher, che dirige l’ufficio Sicurezza del Dipartimento di polizia di Vienna e risponde volentieri alle domande dello scrittore, raccontandogli tutto delle indagini sulla donna che Jack ha appena ucciso. Nessuno pensa a Jack, se non come scrittore particolarmente informato e particolarmente attento a certi argomenti. Un altro giornale lo chiama e gli affida un reportage sulla prostituzione negli Stati Uniti. Deve andare a Los Angeles e raccontare quel mondo ai lettori austriaci. E Jack lo fa, si documenta, si informa, se ne va anche in giro su un’auto di pattuglia del LAPD, il Dipartimento di polizia di Los Angeles, che collabora volentieri con lui. In fondo, è un giornalista e un famoso scrittore. La mattina del 20 giugno 1991, la polizia di Los Angeles trova il corpo di una donna nei dintorni della città. Viene identificata subito come Shannon Exley, prostituta professionista, scomparsa la sera prima dopo essere salita in macchina con uno sconosciuto. Shannon è seminuda ed è stata strangolata, ma soprattutto ha qualcosa che colpisce gli investigatori di Los Angeles, più attenti dei loro colleghi austriaci alle stranezze di certi casi. Ha il reggiseno annodato in un cappio e stretto attorno al collo. Dieci giorni dopo ne trovano un’altra. Irene Rodriguez, prostituta anche lei, scomparsa fra il 28 e il 29 giugno. Il suo corpo viene ritrovato sulle colline attorno a Los Angeles, scoperto e nudo. Irene è stata strangolata con il suo reggiseno, come anche Sherri Ann Long, prostituta professionista, scomparsa tra il 3 e il 4 luglio 1991. Supina, scoperta, vestita, con ancora addosso l’orologio da polso, strangolata con il suo reggiseno. La polizia di Los Angeles nota subito le analogie. Jim Harper, il detective della squadra omicidi che si occupa dei casi, chiama Lynn Herold, del laboratorio criminale della contea di Los Angeles, una specialista leggendaria nel suo settore. Dopo il primo omicidio, Lynn va personalmente sul luogo del delitto a esaminare il nodo che ha trasformato il reggiseno delle prostitute uccise in un cappio mortale. Sul luogo del delitto, Lynn taglia scrupolosamente la stoffa del reggiseno vicino al nodo, in modo da poterlo portare via intatto e studiarlo in laboratorio. Così stabilisce che il nodo è sempre lo stesso, fatto da una persona esperta, sempre la stessa, che sicuramente lo ha già fatto altre volte e che probabilmente lo ha usato per uccidere ancora. Una persona che ha ucciso con premeditazione, scegliendo con cura le proprie vittime tra soggetti ad alto rischio come le prostitute. Uno psicopatico organizzato. Un serial killer.

La notizia dei tre omicidi avvenuti negli Stati Uniti arriva anche in Europa e in Austria. La polizia austriaca aveva già cominciato a mettere in fila tutti quegli omicidi di prostitute strangolate quasi sempre con il proprio reggiseno, anche perché nel frattempo ne erano saltate fuori delle altre. Come Silvia Zagler, che era scomparsa già tra il 7 e l’8 aprile 1991, e che viene trovata il 4 luglio dello stesso anno in avanzato stato di decomposizione, nuda, con i gioielli addosso e coperta da foglie d’albero. Come Elfriede Schrempf, scomparsa tra il 7 e l’8 marzo 1991, trovata il 5 ottobre, nuda, con i gioielli e coperta di foglie. O come Regina Prem, sparita tra il 28 e il 29 aprile del ‘91 e trovata molto tempo dopo, il 16 aprile 1992, in stato di decomposizione così avanzato da rendere impossibile capire come fosse stata uccisa. Sono tante le prostitute uccise. Tre negli Stati Uniti e sette in Austria, a cui si aggiunge anche quella trovata uccisa a Praga dalla polizia cecoslovacca. Undici in tutto, legate da caratteristiche simili studiate e analizzate in America nei laboratori dell ’FBl. Ad ammazzarle è stata sicuramente una persona sola, e sempre la stessa, che si è mossa liberamente per i tre paesi. Chi è questa persona? La polizia cecoslovacca ha un sospetto. Blanka Bockova, a Praga, era stata vista allontanarsi con quello scrittore, quel Jack Unterweger. Quello che era già stato dentro per aver strangolato una ragazza con il suo reggiseno. Anche la polizia austriaca ha cominciato a puntare Jack lo scrittore, visto da molti assieme alle ragazze che poi sono state trovate uccise. Su richiesta dei colleghi cecoslovacchi i poliziotti austriaci perquisiscono la Ford Mustang di Jack e ci trovano, fra gli altri, un capello sospetto, di cui fanno analizzare il DNA. È di Blanka Bockova. Non solo: sul corpo di Heidemarie Hammerer ci sono fili di lana rossa, e anche questi vengono analizzati. Appartengono alla sciarpa di Jack Unterweger, lo scrittore. Intanto, dagli Stati Uniti, arriva il profilo psicologico stilato dagli esperti di scienze del comportamento dell’FBl, a Quantico, in Virginia. Corrisponde a quell’austriaco che è stato in Cecoslovacchia e negli Stati Uniti proprio in corrispondenza con gli omicidi avvenuti in quei paesi. La polizia austriaca chiede un mandato di cattura per Jackob Unterweger, sospettato di otto omicidi in Austria e di altri quattro fuori dal paese. Jack lo scrittore muore. Nasce Jack il serial killer. Appena Jack capisce che la polizia sta arrivando a lui, scappa. Non lo fa da solo, lo fa con un’amica, una ragazzina di 18 anni che si è innamorata di lui, perché Jack continua ad avere un fortissimo ascendente sulle ragazze e lei lo seguirebbe dovunque, come Barbara Scholtz, la sua complice nel primo omicidio. Non è una cima, la nuova ragazza di Jack, è proprio una bambina e quando lui le chiede dove vorrebbe che scappassero, lei dice a Miami, in Florida. Perché le piace Don Johnson, quello del telefilm «Miami Vice». Assieme passano in Svizzera, poi vanno a Parigi e da lì si imbarcano su un volo per gli Stati Uniti, riuscendo a passare tutti i controlli che in quel momento, per Jack, non si sono ancora fatti così pressanti. Ogni volta che riesce a fermarsi un momento, Jack chiama l’Austria. Chiama i giornali e chiama le televisioni e a tutti quelli che gli rispondono protesta la sua innocenza. Non è lui ad aver ucciso quelle undici ragazze.

Non gli crede nessuno. Ci sono le prove, ci sono le testimonianze, ci sono i precedenti. C’è lo shock di tutto il mondo intellettuale austriaco perché la giovane star della letteratura, lo scrittore prodigio nato in carcere, l’autore di commedie, racconti, poesie, film è in realtà uno dei più feroci serial killer europei, capace di strangolare undici ragazze in giro per il mondo. La polizia lo cerca. L’Interpol sta seguendo le tracce lasciate dalla sua carta di credito. In Florida, arrivato a Miami, Jack fa appena in tempo a sbarcare e a trovare un albergo dove nascondersi che la polizia americana lo trova, lo arresta e lo rispedisce in Austria, dove è stato spiccato per lui un mandato di cattura internazionale. Il processo si tiene presso il tribunale di Graz, in Austria. Contro Jack ci sono le prove che lo legano ai delitti, e c’è anche una consulenza di tre esperti del comportamento criminale, Gregg O. McCrary, James A. Wright e John E. Douglas, del Centro nazionale per l’analisi del crimine violento. Secondo loro, Jack è l’autore di tutti gli omicidi, naturalmente, ma soprattutto è uno psicopatico organizzato. Come un predatore, ha scelto le sue vittime con cura, ne ha premeditato l’omicidio e le ha uccise. Non le ha mai mutilate, non ha mai preso feticci, in molti casi non ha neppure usato loro violenza sessuale. Le ha sempre portate sul luogo del delitto con la macchina, le ha sempre uccise nello stesso modo e poi ha cercato in un certo modo di nasconderne i corpi. Ha usato quasi sempre la stessa arma, la biancheria intima delle ragazze, e ha fatto sempre il medesimo nodo. Per l’assassino strangolare la vittima utilizzando la biancheria intima è divenuto il modo di «firmare» i suoi delitti; la firma, quella che gli agenti speciali dell’Unità di scienze del comportamento chiamano «signature»: nulla di necessario e indispensabile per dare la morte, ma qualcosa di più profondo e unico, un bisogno psicologico dell’omicida, un bisogno sessuale; e Jack Unterweger è certamente un «lust killer», un assassino che uccide per libidine. Non occorre pensare che la componente sessuale di questi delitti debba sempre manifestarsi in un rapporto, più o meno completo, più o meno violento, con la vittima; spesso sono altri gli elementi che eccitano, che soddisfano l’assassino: la scelta delle prostitute anzitutto, poi l’azione sadica, il piacere del controllo, una ragazza nuda e impaurita, la sua biancheria intima diventata mezzo di morte. Jack, da parte sua, nega tutto. Prima nega di aver ucciso le ragazze, poi nega che quell’uomo, quell’assassino feroce, sia lui. O almeno, che lo sia ancora. «Ero un individuo avido, vorace, affamato di vita, deciso a risalire dal fondo… ma non ero io!» Non basta. Il 26 giugno 1994, la giuria del tribunale di Graz lo ritiene responsabile di sette omicidi e sospettabile di almeno altri due, e lo condanna nuovamente all’ergastolo. Jack non può accettarlo. Non può tornare in prigione per sempre, dopo esserne uscito in quel modo. È Jack lo scrittore, non Jack il teppista, e meno ancora Jack il serial killer. Poco prima della sentenza, nonostante si veda bene come andrà a finire il processo, sembra fiducioso, sicuro di un’assoluzione. La condanna è un colpo che non si aspetta. La mattina dopo, il secondino che va ad aprire la sua cella lo trova impiccato alle sbarre della finestra con un pezzo di una tenda.

Per uccidersi ha fatto un cappio con lo stesso nodo con cui strangolava le sue ragazze.

Il comportamento «spaziale» dei criminali Sono i serial killer come Roberto Succo e Jack Unterweger e prima di loro Ted Bundy ad avere stimolato lo studio del comportamento spaziale dei criminali, una delle sfide più affascinanti, vero punto di incontro tra scienze psicologiche e mondo delle investigazioni. Il luogo in cui avviene un delitto non è mai del tutto casuale: occorre che vi sia sempre un’intersezione fra autore e vittima, in termini sia di tempo sia di spazio: I crimini si concentrano poi in luoghi dove vittime o bersagli sono maggiormente disponibili e appetibili, valutati i rischi e i profitti, luoghi che il criminale conosce in quanto fanno parte del suo «spazio di attività». Il concetto di spazio di attività è comune a tutti noi, e rappresenta l’insieme dei luoghi che abitualmente frequentiamo (il posto di lavoro, l’abitazione, i punti di ritrovo sociale) e dei percorsi che li collegano. Ciascuno di noi, come pure il criminale, finisce inevitabilmente per costruirsi un modo originale di percepire il mondo, frutto di suoni, immagini, ricordi e sentimenti; stiamo parlando delle «mappe cognitive», un concetto descritto con chiarezza dalla psicologa ambientale Maria Rosa Baroni: La rappresentazione interna che ci facciamo di un ambiente, delle strade che possiamo prendere per percorrerlo, dei suoi elementi percettivi più rilevanti, degli oggetti che possono essere utili per i nostri scopi e di quelli che possono metterci in pericolo o ostacolarci, viene chiamata mappa cognitiva. Possiamo immaginare le nostre mappe cognitive dei vari ambienti che conosciamo come delle vere mappe stampate sulla carta, come quelle che usiamo per orientarci in una città sconosciuta.

Le mappe cognitive non sono altro che le rappresentazioni mentali del mondo che ci circonda, e nella loro struttura sono identificabili alcuni fattori determinanti: i segnali territoriali, per esempio edifici o monumenti che possono essere individuati da lontano; gli itinerari, rappresentati dalle vie di percorrenza; i nodi, che non sono nient'altro che l’incrocio dei diversi itinerari; i distretti, cioè quelle parti della città riconoscibili per una loro peculiarità, come per esempio il quartiere finanziario; e da ultimo i margini, vale a dire i confini visibili definiti dai distretti o da altri elementi della geografia urbana, come le linee ferroviarie o i fiumi. Paul e Patricia Brantingham hanno studiato in particolare i criteri di selezione dei luoghi per commettere un reato, e nel loro modello il concetto di spazio di attività occupa un ruolo di primo piano. All’interno di uno spazio di attività si trovano dei punti che rappresentano luoghi importanti nella vita di un individuo. Sono i «punti di ancoraggio», che si attraversano o dove ci si ritrova con grande frequenza, determinanti nella scelta del luogo dove compiere il delitto; come noi passiamo dal bar o andiamo a far compere al supermercato, così un criminale agirà nelle zone che ritiene più «convenienti». E ogni volta che qualcuno, sia un comune cittadino sia un delinquente incallito, si ripropone di raggiungere un determinato luogo, sceglierà l’alternativa che crede più economica: in altre parole, la strada più breve.

Sin qui tutto appare scontato. Ma in realtà nella percezione della distanza da un luogo entrano in gioco molti fattori: la lontananza, certamente, ma anche l’attrattiva del punto che si vuole raggiungere, il numero e il tipo di ostacoli che si frappongono, la conoscenza della topografia del luogo. Occorre perciò prestare attenzione sia agli aspetti oggettivi (lo spazio così com’è) sia a quelli soggettivi (lo spazio così come è percepito). Secondo il modello elaborato dai Brantingham per spiegare la distribuzione spaziale dei delitti, i luoghi dove i crimini vengono compiuti sono il risultato della sovrapposizione dello spazio di attività con le zone in cui il criminale, per esperienza o previsione, pensa vi siano buone possibilità di riuscita delle proprie imprese. I reati decrescono poi con l’aumentare della distanza tra l’abitazione del criminale e il luogo in cui agisce: è la cosiddetta «legge di decadimento». Intorno alla stessa residenza del criminale è possibile evidenziare una buffer zone, o zona cuscinetto, in cui è meno probabile che vengano commessi i delitti, proprio per l’eccessiva vicinanza alla propria casa, e quindi al rischio di essere scoperti. Lo studio di questi aspetti negli omicidi commessi da serial killer statunitensi e britannici ha permesso di notare una buffer zone per i primi del diametro di circa 3 chilometri e mezzo, di quasi 500 metri per i secondi. Ma non è solamente il timore di essere collegati ai reati, se compiuti nei pressi dell’abitazione, a giustificare l’esistenza di una zona cuscinetto. In fondo con l’aumentare della distanza percorsa, aumentano considerevolmente gli obiettivi a disposizione del criminale: per esempio, nel raggio di 2 chilometri vi sono, se non il doppio, quanto meno più gioiellerie che in un raggio di 1 chilometro. Gli studi sul comportamento geografico nei reati in generale hanno ampia possibilità di applicazione nel campo dell’omicidio: quando il cadavere di un soggetto adulto viene trasportato e scaricato lontano dalla scena del delitto, è generalmente rinvenuto non più lontano di 15 metri da una strada o da una linea ferroviaria, mentre il corpo di un bambino lasciato in una zona isolata viene ritrovato solitamente a non meno di 60 metri dalle medesime vie di passaggio. È stata anche calcolata la velocità del trasferimento a piedi di un omicida che sta trasportando una vittima. La stima del tempo impiegato basata sulla distanza, il grado di difficoltà del percorso, il dislivello segue quelle che vengono definite le «regole di Naismith»: in un’ora il criminale percorre in media 5 chilometri con andatura normale a piedi su un terreno con fondo regolare; 3 chilometri se in lieve arrampicata; 1 chilometro se si muove su terreno accidentato, sabbia profonda o neve soffice. A queste stime andrà aggiunta 1 ora per ogni 500 metri di elevazione, 1 ora per ogni 1000 metri di dislivello verso il basso, 1 ora per ogni 5 ore di viaggio, dovuta alla fatica. Gli studi di David Canter e Kim Rossmo David Canter, psicologo a Liverpool, e Kim Rossmo, detective a Vancouver, sono i ricercatori che con più efficacia hanno raccolto il patrimonio degli studi sul comportamento geografico dei criminali, elaborando un proprio modello. Canter, nel 1993, studiando quarantacinque stupratori seriali a Londra, elabora il concetto di «cerchio criminale», vale a dire lo spazio racchiuso da una circonferenza

il cui diametro è dato dalla distanza fra i crimini più lontani. In base a questo concetto egli identifica due tipi di criminali: i «residenti», che utilizzano la propria abitazione come centro attorno al quale sviluppano l’attività predatoria; e i «pendolari», che commettono i delitti lontano dal luogo di residenza. Lo studio sugli stupratori diviene una pietra miliare nella ricerca sul comportamento spaziale dei criminali, mostrando come nell’87% dei casi il comportamento sia riconducibile a uno stile «residente». Se molti criminali commettono i reati in prossimità della loro residenza, con l’aumentare dell’esperienza aumenta il tempo impiegato dal criminale per gli spostamenti dalla residenza al luogo del delitto e, di conseguenza, l’area di attività si allarga. Anche Kim Rossmo muove dalle ricerche dei Brantingham e propone una classificazione degli aggressori violenti basata sugli stili di caccia: definisce cioè il modo in cui la vittima viene ricercata e attaccata. L’investigatore canadese descrive infatti quattro tipologie di criminali in base al metodo di ricerca delle vittime. L’hunter (il cacciatore): ha una base, la sua residenza, e da lì parte per cercare la vittima; il poacher (il bracconiere): non usa come base la sua residenza, bensì viaggia da una località a un’altra alla ricerca della vittima; il troller (traducibile come «chi canticchia allegramente»): la vittima è incontrata per caso mentre il criminale è impegnato in un’altra attività; il trapper (chi tende trappole): crea le condizioni che facilitino la ricerca e la selezione della sua preda, per esempio cercando un determinato impiego. Rossmo passa poi a valutare i metodi d’attacco, descrivendo il raptor (il rapace), che attacca la vittima appena la incontra; lo stalker (chi segue furtivamente), che pedina la vittima e la attacca al momento ritenuto opportuno; e infine Yambusher (chi prepara imboscate), che aggredisce la vittima quando quest’ultima raggiunge un luogo che il criminale reputa di controllare. Dall’incrocio delle due differenti tipologie, dalle informazioni sul luogo in cui vittima e aggressore si sono incontrati e dove poi si è consumato il delitto, Rossmo elabora una griglia che permette di comprendere in quali casi un profilo sia effettivamente utile alle indagini. Il profilo geografico 1997, Lexington, Kentucky: una coppia di giovani viene aggredita nei pressi dei binari di una linea ferroviaria: il ragazzo viene ucciso. 1998, Houston, Texas: la dottoressa Claudia Bentos viene violentata e assassinata nella propria abitazione, non lontano da una tratta ferroviaria. Non trascorrono cinque mesi che a cadere nella canonica della chiesa, colpiti a morte da un oggetto contundente, sono un pastore e sua moglie. Le agenzie investigative di tre stati notano che i delitti, compreso l’ultimo, duplice omicidio, fanno parte di una serie che ha in comune la collocazione geografica delle scene del crimine nei pressi di un collegamento ferroviario. Ciò permette di puntare l’attenzione su un sospetto, più volte ricondotto oltre il confine tra Stati Uniti e Messico: Rafael Resendez-Ramirez.

Nonostante l’allarme, in soli due giorni altre due donne vengono ritrovate morte nelle loro abitazioni, nello stato del Texas. Quando i detective arrivano, il killer si è già mosso, diretto verso l’Illinois. Qui aggredisce e spara a un uomo di 80 anni, e ne uccide la figlia colpendola al capo con il calcio del fucile. Entrambi i corpi vengono lasciati nella roulotte dove vivevano, a un centinaio di passi dai binari. Soprannominato «the Railroad Killer», Resendez-Ramirez viene alla fine catturato, processato e condannato per lo stupro e l’omicidio della dottoressa Bentos, anche se risulta chiaramente collegato anche agli altri sette delitti. La scoperta che i suoi crimini venivano commessi in prossimità delle linee ferroviarie ha permesso agli investigatori di acquisire informazioni determinanti sulla sua mentalità, sulla logica dei suoi spostamenti, ancor prima che il profilo geografico potesse giovarsi dei moderni programmi informatizzati di analisi. Delimitare un’area geografica dove è probabile che risieda il criminale, l’autore di una serie di delitti: questo è l’obiettivo del profilo geografico. E, in casi selezionati tale conoscenza si traduce in un impiego più razionale, quindi più efficace, delle forze impegnate nelle indagini, in uno strumento in più per riuscire a identificare il criminale.

Il case linkage e la creazione dei database Waco, Texas, 19 aprile 1993: si consuma l’ultimo atto di una tragedia forse evitabile. Dopo cinquantun giorni di assedio da parte delle forze di polizia e, soprattutto, dei reparti speciali dell’FBl, improvvisamente divampa un furioso incendio nella fattoria dove sono asserragliate ottantaquattro persone della setta dei Branch Davidians e il loro santone David Koresh. Solo otto sono i sopravvissuti. Diciassette bambini muoiono tra le fiamme. Tutto aveva avuto inizio il 28 febbraio, quando quattro agenti erano stati colpiti a morte da membri del gruppo. L’esito catastrofico dell’operazione scatena grandi polemiche sull’operato dell’FBl. Voci indiscrete, ma ben informate, suggeriscono che siano stati gli stessi agenti speciali a innescare il rogo, utilizzando maldestramente armi non idonee all’attacco di un luogo in gran parte costruito in legno, quindi facile alle fiamme. Il risultato comunque non si fa attendere, e porta a una riorganizzazione drastica del CIRG, il Criticai Incident Response Group, la struttura deputata al contrasto dei crimini violenti. All’interno del CIRG vengono meglio definiti i compiti del National Center for the Analysis of Violent Crimes (NCAVC), che si occupa dei casi di scomparsa di bambini, degli omicidi e degli stupri seriali, degli omicidi singoli purché con caratteristiche insolite, dei casi di incendio doloso e attentato dinamitardo, di terrorismo nazionale e internazionale. Scompare la Behavioral Science Unit (BSU), l’Unità di scienze del comportamento resa celebre dal Silenzio degli innocenti, con la figura di

Jack Crawford, il direttore responsabile, e della sua giovane assistente Clarice Starling, interpretata da Jodie Foster. Dell’NCAVC fanno ora invece parte tre diverse strutture: la Behavioral Analysis Unit (BAU), il Child Abduction Serial Murder Investigative Resource Center (CASMIRC) e il Violent Crime Apprehension Program (VICAP). La BAU fornisce la propria consulenza attraverso la dettagliata analisi dei crimini violenti, la criminal investigative analysis, dando indicazioni investigative, profili psicologici di aggressori sconosciuti, strategie di intervista e interrogatorio, suggerimenti sulle tattiche processuali e sulle testimonianze in dibattimento. Il CASMIRC a sua volta si occupa dei casi di rapimento o di misteriosa scomparsa di minori, degli omicidi infantili e seriali, fornendo risorse, esperienza multidisciplinare e supporto investigativo. Il VICAP, infine, è un centro informazione dati studiato per raccogliere, analizzare e riconoscere eventuali punti in comune fra più crimini violenti, in particolare omicidi. Siamo a Los Angeles nei primi anni Cinquanta, quando Pierce Brooks, già comandante della locale polizia, con un’esperienza nel campo degli omicidi e la conoscenza dei primi casi accertati di serial killer, ha l’intuizione di costruire un archivio centralizzato dei casi criminali. A quel tempo la collaborazione delle varie agenzie governative era pressoché assente, e l’unico modo per collegare i delitti compiuti da assassini che colpivano spostandosi in diversi stati era fondato sulle notizie di cronaca curate da giornali locali. Linkage blindness, cecità di collegamento, ecco qual era quasi sempre la regola: l’impossibilità di cogliere un’associazione tra crimini con caratteristiche simili per l’assenza di informazioni utili. Il passaggio determinante per la creazione del VICAP viene compiuto nel 1981 da Robert Keppel, che formula un primo questionario da distribuire alle forze di polizia. La storia professionale di Keppel è destinata fatalmente a incrociare quella di un altro personaggio unico, il serial killer Ted Bundy. Ed è proprio il comportamento spaziale di Bundy, che uccide in diversi stati varcandone il confine, a dare un impulso fondamentale alla creazione di un primo archivio del crimine. Nel 1984 Ronald Reagan annuncia la creazione dell’NCACV e nel maggio del 1985 inizia l’attività del VICAP Computer Network, con sede a Quantico, presso l’Accademia dell’FBl. Subito si evidenziano grosse difficoltà: gelosie e rivalità tra sedi periferiche e struttura centrale, la mole eccessiva del modello da compilare per ogni caso di omicidio, 44 pagine di domande che sarebbero poi state inserite in un calcolatore a Quantico. Anche se i moderni computer hanno acquisito una enorme capacità di gestione dei dati e il questionario VICAP è stato ridotto di oltre due terzi, rimangono i problemi nella raccolta dei dati. Ma ciò nonostante l’utilità dello strumento è risultata determinante nella risoluzione di molti casi. Uno degli esempi più eclatanti è stato l’identificazione e la cattura di un assassino a distanza di oltre quarant’anni da due delitti compiuti nel 1951 e nel 1959, in due stati diversi, e inseriti nel database VICAP nel 1989. Sulla base dell’innovazione e dell’importanza del VICAP, la Royal Canadian Mounted Police, la polizia canadese, ha studiato ed elaborato un proprio sistema informatico per il collegamento di casi (linkage system) denominato Violent Crime Linkage Analysis System. Il VICLAS, abbastanza simile al modello statunitense, è oggi adottato anche in Giappone, Belgio, Gran Bretagna, Austria, Olanda e Australia, e ha conqui-

stato spazio anche negli Stati Uniti, ufficialmente utilizzato negli stati del Tennessee e dell’Indiana. VICAP o VICLAS, in realtà ciò che appare fondamentale è che questi strumenti permettono il già citato case linkage, il collegamento cioè tra crimini violenti in precedenza non correlati, che si va ad aggiungere a tutti gli altri elementi utili alla caccia a un criminale già ricordati: le prove fisiche presenti sulla scena del crimine e i riscontri medicolegali; il modus operandi e la firma; le caratteristiche della vittima e la localizzazione geografica delle aggressioni. In Italia, l’Unità per l’analisi del crimine violento (UACV) della polizia di stato, ufficialmente costituitasi nel 1997, grazie all’esperienza maturata dagli altri paesi, ripensa e rielabora i modelli VICAP e VICLAS, anche alla luce delle specificità sociali, economiche e culturali italiane. Nasce così il Sistema per l’analisi della scena del crimine (SASC): 110 archivi separati, 415 moduli di ricerca, 122 schede di visualizzazione differenti, e più di 60 mila righe di codice. Oltre all’unità centrale e alle piattaforme grafiche in funzione presso il servizio di polizia scientifica, il SASC è installato nei quattordici gabinetti regionali che sono collegati in tempo reale con l’unità centrale. Nell’archivio vengono raccolti i dati ricavabili dall’esame della scena del crimine durante l’attività di sopralluogo, tutte le informazioni investigative provenienti dai verbali di spontanee dichiarazioni o dai diversi atti giudiziari, e infine le immagini relative agli esami autoptici e agli accertamenti tecnici disposti dall’autorità giudiziaria. Ma la vera specificità del SASC sta soprattutto in quest’ultima caratteristica: a differenza dei sistemi utilizzati dall’FBI e dalla polizia canadese, semplici database alfanumerici, il SASC è l’unico sistema di questo tipo che permette l’archiviazione delle immagini che possono risultare utili alle indagini compiute dall’UACV.

VI Dalla parte di chi indaga È in aumento il fenomeno dei serial killer? I dati non ci forniscono una risposta sicura. C’è chi parla di un gran numero di assassini in libertà, che uccidono ripetutamente per soddisfare il loro bisogno di morte. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un proliferare di casi, soprattutto in alcune parti del mondo, come nei paesi dell’ex blocco sovietico, in Sudafrica, in Australia. Ma siamo certi che ciò sia dovuto a un reale aumento di omicidi seriali, e non invece al fatto che è semplicemente migliorata la capacità di riconoscerli, attraverso le tecniche investigative e la creazione di archivi del crimine e il lavoro dei profiler? II numero degli omicidi commessi ha registrato una flessione in tutte le nazioni del mondo ma, parallelamente, sembrano aumentare i delitti in cui tra assassino e vittima non vi è alcuna precedente conoscenza. E in questi casi è indispensabile che la tecnologia e la psicologia criminale si affianchino all’investigatore, mettendo al suo servizio strumenti sempre più raffinati, sempre più efficaci.

L’assassino seriale continua a rappresentare la massima sfida per il criminologo e per le forze di polizia. Le origini di una professione … l’assassino deve essere un uomo fisicamente forte e di grande freddezza e audacia. Non vi sono prove che abbia avuto un complice. Egli deve, secondo la nostra opinione, essere soggetto a periodici attacchi di mania erotica e omicida. Le caratteristiche delle mutilazioni indicano che l’uomo può essere affetto da un disordine sessuale denomi nato satiriasi. E naturalmente possibile che l’impulso omicida abbia avuto origine da una condizione mentale di vendicatività a lungo covata, o che la patologia di base debba identificarsi in una mania religiosa, sebbene noi non pensiamo che tali ipotesi siano probabili. L’assassino appare assai probabilmente come persona inoffensiva, di mezza età, curato nell’igiene e rispettabilmente abbigliato. Pensiamo abbia l’abitudine di indossare un mantello o un cappotto e che altrimenti difficilmente avrebbe potuto sottrarsi all’attenzione fuggendo per le strade con le mani o gli abiti insanguinati. Assumendo che l’assassino appaia nelle modalità che abbiamo descritto, riteniamo egli sia soggetto solitario ed eccentrico nei comportamenti. Ancora, egli non ha una occupazione regolare, ma vive di piccole entrate o di un sussidio. È possibile abiti tra persone rispettabili che hanno qualche conoscenza del suo carattere e delle sue abitudini, e che hanno iniziato a sviluppare qualche sospetto sul fatto che talvolta non sia del tutto persona equilibrata mentalmente. Tali persone probabilmente non desiderano comunicare i propri dubbi alla polizia per il timore di guai o eccessiva notorietà; la prospettiva di una ricompensa potrebbe superare i loro scrupoli…

Così scrive il dottor Thomas Bond, medico legale, in un rapporto riservato, inviato al responsabile della Criminal Investigation Division di Londra riferendosi a Jack the Ripper. E se ancora è incerta la vera identità del più famoso serial killer dell’era moderna, sicuramente il rapporto del dottor Bond stupisce per la sua accuratezza: il primo esempio di profilo criminale, con un secolo di anticipo sui lavori di Robert Ressler e John Douglas, i profiler dell’FBl. Nel 1943, negli Stati Uniti, circola un rapporto «top secret» fra i membri del governo Roosevelt. Il frontespizio rivela la natura e la delicatezza del contenuto: «A Psychological Analysis of Adolph Hitler: His Life and Legend». Lo ha fortemente voluto il direttore dell’Ufficio dei servizi strategici, l’OSS, William J. Donovan, che ha dato incarico allo psichiatra William Langer di raccogliere ogni comunicazione ufficiale e ogni informazione riservata per elaborare il profilo psicologico del primo nemico degli americani, l’incarnazione del male: Adolf Hitler. Langer analizza un’enorme quantità di dati, non sempre di sicura attendibilità. Con la collaborazione di Henry Murr, dell’Harvard Psychological Clinic, di Ernst Kris, esperto in ricerca sociale, e Bertram Lawin, del New York Psychoanalytic Institute, passa al setaccio le memorie dell’industriale Fritz Thyssen e del disertore delle SS Hans Jürgen Koehler, l’intervista rilasciata da Eduard Bloch, medico di famiglia di Hitler, la testimonianza di Karl Kronor, specialista in malattie nervose fuggito dalla Germania, che dice di essere a conoscenza dello stato di salute del Führer. Il contenuto del rapporto rimane segreto sino alla fine degli anni Sessanta e viene pubblicato nel 1972. In oltre 250 pagine, complete di voci bibliografiche, Langer descrive quale immagine il dittatore abbia di se stesso, come lo veda il popolo tedesco e quali possano essere i suoi comportamenti futuri. Una parte, di straordinaria sugge-

stione, analizza la possibile fine del Führer, elencando una serie di probabili condotte. Al punto 8 è ipotizzato il suicidio. 8°: è possibile che Hitler commetta suicidio. È la conclusione più plausibile. Non solo egli ha frequentemente minacciato di togliersi la vita, ma da quanto noi conosciamo della sua psicologia, è questa la possibilità più attendibile. È probabilmente vero che egli ha un esagerato timore della morte, ma essendo un isterico potrebbe senza dubbio scivolare nel disturbo mentale e dar spazio alla sua natura di superuomo, realizzando l’impresa. Con ogni probabilità, comunque, non si tratterebbe di un semplice suicidio; egli ha troppo il senso del dram matico e poiché l’immortalità è uno dei suoi pensieri dominanti, possiamo immaginare che voglia rappresentare la più drammatica ed efficace delle scene di morte. Egli sa come legare a sé la gente e, se non potrà avere un riconoscimento in vita, farà di tutto per raggiunger lo nella morte. Potrà persino valersi dell’opera di qualche altro fanatico che, ai suoi ordini, lo uccida. Hitler ha già previsto una morte di questo genere, dal momento che ha detto a Hermann Rauschning: «Sì, nell’ora del supremo pericolo, io devo sacrificare me stesso per il popolo». Tutto ciò si rivelerebbe estremamente indesiderabile dal nostro punto di vista, perché, se intelligentemente preparato, contribuirebbe a fissare la leggenda di Hitler nella mente dei tedeschi così a fondo che occorrereb bero molte generazioni per sradicarla. Qualunque cosa accada, possiamo essere ragionevolmente certi che se la Germania subirà altre sconfitte, Hitler diverrà sempre più nevrotico. Ogni sconfitta scuoterà la sua fiducia, e limiterà la possibilità di provare a se stesso la propria grandezza. Di conseguenza si sentirà sempre più vulnerabile agli attacchi dei suoi com plici e le sue esplosioni di rabbia aumenteranno di frequenza. Probabilmente tenterà di compensare la propria vulnerabilità accentuando brutalità e spietatezza. Le sue apparizioni pubbliche diverranno sempre meno frequenti in quanto, come abbiamo visto, egli non è in grado di fronteggiare le pubbliche critiche. Probabilmente cercherà conforto nel suo Nido dell’Aquila, sul monte Kehlstein, nei pressi di Berchtesgaden. Lì, tra i picchi innevati, egli attenderà che la sua «voce interiore» gli mostri la strada. Nel frattempo i suoi incubi aumenteranno in intensità e frequenza e lo condurranno vicino al collasso nervoso. Non è del tutto improbabile che alla fine egli si possa rinchiudere in questo utero simbolico, sfidando il mondo a prenderlo. In ogni caso le sue condizioni mentali continueranno a peggiorare. Combatterà con ogni arma o tecnica che possa preservarlo dalla crisi finale. La strada che seguirà sarà quasi certamente quella che gli apparirà la più sicura per raggiungere l’immortalità e allo stesso tempo trascinare il mondo in fiamme…

Il criminal profiling Jack lo Squartatore, Adolph Hitler: due esempi che aprono la strada alla comprensione di ciò che si intende per profilo psicologico. Criminal profiling, psychological profiling, offender profiling, identikit psicologico del criminale: se le definizioni sono numerose, il concetto che esse sottendono è semplice e chiaro. Si tratta di elaborare un profilo psicologico e comportamentale di un criminale ancora sconosciuto, partendo dai più piccoli dettagli della scena del crimine, da ogni notizia disponibile sulla vittima, da qualunque altra informazione. Il profiling poggia sulla constatazione che il comportamento riflette la personalità, e da ciò deriva che le azioni di un criminale durante l’esecuzione di un reato rispecchiano le sue caratteristiche individuali; si tratta di un processo molto simile a quello che mettiamo in opera quando cerchiamo di comprendere il profilo di un artista attraverso l’osservazione dei suoi lavori. L’obiettivo principale del profiling è sempre quello di fornire agli investigatori informazioni che possano essere utili all’identificazione e alla cattura di un criminale. Come processo dinamico, si propone di ridurre

gradualmente il cerchio dei sospetti da «praticamente chiunque» a un ristretto numero di individui, contraddistinti da caratteristiche e comportamenti particolari. Che sia l’esperto dell’FBl, o lo psichiatra a fianco degli investigatori, il profiler si pone sempre alcune domande, semplici e immediate: Cosa è avvenuto durante il delitto? Quale tipo di individuo ha potuto commettere un simile delitto? Quali caratteristiche solitamente possono essere associate a un tale soggetto? Mad Bomber, il primo successo del profiling New York, 16 novembre 1940: all’interno dell’edificio che ospita la Con Edison, l’azienda che fornisce energia all’intera metropoli, viene rinvenuta una bomba inesplosa. E’ il primo segnale. Per quindici anni la città vivrà nell’incubo di un personaggio presto soprannominato Mad Bomber, il dinamitardo folle, dei suoi rabbiosi messaggi recapitati ai principali quotidiani, dei trentasette ordigni che colloca pressoché in ogni quartiere della Grande Mela. Viene incaricato di coordinare le indagini l’ispettore Howard Finney, con la collaborazione del capitano Vincent Cronin; i due, nel 1956, chiedono e ottengono l’assistenza di uno psichiatra, James Brussel. Il dottor Brussel ha già diretto durante la Seconda guerra mondiale il reparto di neuropsichiatria presso la base militare di Fort Dix, e con un ruolo simile è stato impegnato durante la guerra in Corea. Brussel chiede di avere accesso a tutte le informazioni disponibili e fornisce agli investigatori un profilo psicologico dettagliato dell’attentatore dinamitardo. Lo fa delineando una diagnosi psichiatrica sulla base degli elementi lasciati sulla scena del crimine e dei messaggi di Mad Bomber. Dalla diagnosi psichiatrica ipotizza quindi quali possono essere le principali caratteristiche del soggetto. Ecco, in breve, il procedimento seguito da James Brussel: - l’attentatore è un maschio, e si può desumere dalle statistiche su chi utilizza ordigni esplosivi a scopo criminale; - il tono e il contenuto delle lettere minatorie rivelano che il soggetto ritiene di essere stato permanentemente danneggiato dalla Con Edison, ed è in cerca di vendetta: probabilmente in precedenza è stato impiegato presso la stessa azienda; - nelle sue parole emerge la convinzione che la Con Edison e in generale la società complottino contro di lui: è questo il classico comportamento di un paranoide; - l’attentatore ha un’età di circa 50 anni. Ciò viene calcolato in base all’età media di esordio del disturbo paranoide (di solito intorno ai 35 anni) e la durata della sua carriera criminale (che ormai ha raggiunto i 16 anni); - il tipo di patologia si concilia con l’attenzione ai particolari e la cura con cui costruisce gli ordigni, confeziona le lettere di rivendicazione, colloca le bombe: si tratta di un soggetto ben curato, meticoloso e competente nel suo lavoro; - mostra una ipersensibilità alla critica: classico sintomo di un quadro paranoico; - dallo stile formale dei messaggi, esente da ogni espressione gergale, come pure dal mancato utilizzo di abbreviazioni solitamente utilizzate dai newyorkesi, è possibi-

le dedurre che Mad Bomber sia di origini straniere o passi la maggior parte del suo tempo con stranieri; - nel linguaggio usato nelle lettere e nell’abilità dimostrata nella costruzione delle bombe vi è prova di una discreta cultura, ma anche di una formazione da autodidatta: se ne desume che l’attentatore ha frequentato quanto meno le scuole superiori, senza tuttavia accedere a un’istruzione di più alto livello; - l’utilizzo delle bombe come arma è tipica delle zone dell’Europa centrale e orientale, dove la religione principale è la cattolica: è probabile che l’attentatore sia di origini slave e di religione cattolica romana; - in base alla forma fallica degli ordigni, al modo in cui vengono scritte le «w» nei messaggi, e ad altri elementi ancora, è possibile sostenere che l’attentatore presenta un complesso edipico irrisolto. Questo suggerisce come altamente probabile che non sia sposato e viva con un parente di sesso femminile che non è la madre, probabilmente perduta da giovane; - da ultimo, nel caso venga identificato e catturato, al momento dell’arresto Mad Bomber indosserà un doppiopetto scuro, accuratamente abbottonato. Quando gli investigatori arrivano a George Metesky, il 20 gennaio 1957, si accorgono che indossa un gessato, doppiopetto, che lo sta abbottonando e che tutte le caratteristiche indicate dal dottor Brussel corrispondono correttamente al soggetto. John Douglas e l’omicidio di Francine Evelson James Brussel non riporterà più successi straordinari come quello descritto. Chiamato a dare il proprio contributo alle indagini sullo Strangolatore di Boston, Albert De Salvo, lo psichiatra non saprà fornire elementi determinanti. Ma nel frattempo ha aperto un’originale strada di ricerca. Un nuovo impulso al criminal profiling giunge nel 1960 per opera del poliziotto californiano Howard Teten, che, con l’aiuto dello psichiatra Douglas Kelly, suo docente alla Scuola di criminologia di Berkeley, inizia uno studio scientifico sul comportamento criminale. Quando, nel 1970, diviene agente speciale, Teten dà avvio a un programma di ricerca sul profiling presso l’Accademia dell’FBI. Con il collega Pat Mullany crea una vera e propria scuola per lo studio degli aspetti psicologici del crimine, riportando indubbi successi, soprattutto nei casi di negoziazione in presenza di barricamento o ostaggi. A Mullany e Teten si associa l’agente speciale Jack Kirsch e i tre, nel 1972, creano la Behavioral Science Unit (BSU), in cui, nel 1978, entra John Douglas. È il più celebre profiler dell’FBI insieme a Robert Ressler, e lascerà il Federai Bureau dopo vent’anni di servizio. Da un lato inizia a svolgere il ruolo di consulente di parte in numerosi processi, e dall’altro comincia a scrivere, pubblicando, con l’aiuto del giornalista Mark Olshaker, alcuni testi divulgativi che lo rendono ancora più famoso. Nel suo libro di maggiore successo, Mindhunter, è contenuto un esempio particolarmente chiaro di criminal profiling: il caso di Francine Evelson.

1979, New York: Francine Evelson ha 26 anni ed è insegnante di sostegno in una struttura che si occupa di handicap. Timida e riservata, abita ancora con i genitori e, come ogni mattina, alle 6.30, lascia il proprio appartamento diretta al posto di lavoro. Uno studente che risiede nello stesso condominio esce circa due ore più tardi e trova il portafoglio della donna; decide però di restituirlo solo al suo ritorno a casa, per il timore di far tardi alle lezioni. Quando nel primo pomeriggio il ragazzo bussa all’appartamento degli Evelson, la madre di Francine cerca di avvisare telefonicamente la figlia del ritrovamento, ma scopre che quella mattina nessuno l’ha vista presentarsi al lavoro. Le ricerche iniziano e si concludono rapidamente: il cadavere della donna giace a terra, all’ultimo piano dello stabile. L’assassino ha infierito sul corpo della vittima in modo brutale: la donna è nuda, percossa al volto, morsicata, ferita con un temperino, strangolata con la cinghia della borsa. Dopo la morte è stata legata mani e piedi, i capezzoli sono stati recisi e appoggiati sul torace, il volto coperto dalle mutandine infilate in testa. Il killer ha inserito poi nella vagina una penna e un ombrello; e con la stessa penna ha lasciato i suoi messaggi: «You can’t stop me», scritto sulla coscia, «Fuck you» sull’addome. Ha disposto il cadavere in modo che disegni per terra una lettera dell’alfabeto, la stessa di un ciondolo che Francine portava al collo e che è scomparso, e da ultimo ha defecato accanto al corpo, coprendo i propri escrementi con gli indumenti della vittima. Gli investigatori trovano tracce di liquido seminale su Francine Evelson (ma nel 1979 l’analisi del DNA non era ancora utilizzata nelle indagini). Nonostante si tratti di un crimine compiuto nei confronti di una vittima a basso rischio, dopo circa un mese l’inchiesta non ha portato ad alcun risultato. Viene allora chiamata in causa la Behavioral Science Unit, che riprende gli elementi a disposizione degli investigatori, riordinandoli in un percorso di ricostruzione logica. ANALISI DELLA SCENA DEL CRIMINE

Il luogo del delitto è il pianerottolo. L’ora del delitto risale alle 7 del mattino. L’arma del delitto appartiene alla vittima. Vi è presenza di atti ritualistici successivi alla morte. La vittima non ha opposto resistenza. ANALISI VITTIMOLOGICA

La vittima era timida, riservata, abitudinaria. Non sempre utilizzava le scale dove è stata aggredita, preferendo l’ascensore. Il luogo in cui il crimine è stato commesso fa pensare a un delitto non pianificato, anche perché il criminale non ha portato con sé un’arma, se non forse un temperino. L’assassino si trova alle 7 del mattino nello stabile, e forse abita nello stesso edificio. In quella zona e a quell’ora i servizi pubblici ancora non funzionano; il killer può avere utilizzato un taxi, ma l’autista sarebbe stato poi un possibile testimone.

Potrebbe aver raggiunto l’edificio a piedi; in questo caso abita nelle vicinanze. L’assassino ha avuto tempo a disposizione e si sentiva a suo agio nel luogo del delitto: i rituali sul cadavere non possono essere stati compiuti in pochi minuti. E’ assai improbabile che il killer abbia una vita di relazione e sessuale matura; ciò è deducibile dalla psicopatologia evidenziata attraverso i rituali eseguiti post mortem. Il delitto è stato commesso in un’ora in cui le persone si stanno preparando per andare a lavorare. Il criminale potrebbe non lavorare o avere un impiego part time, a meno che sia in pensione. Date però le caratteristiche sessuali del delitto si esclude quest’ipotesi. Una persona così non può ricoprire importanti ruoli lavorativi, forse non può neanche comprarsi un’automobile, né mantenersi da sola. Raramente questo tipo di crimine è commesso ai danni di una vittima di razza differente da quella dell’assassino. A causa dei suoi disturbi non ha probabilmente prestato servizio militare ed è in cura presso un centro di igiene mentale. Dagli elementi esposti l’agente speciale dell’FBI ipotizza un profilo del criminale: PROFILO PSICOLOGICO E COMPORTAMENTALE DEL CRIMINALE

Di sesso maschile e razza bianca caucasica. Ha un’età intorno ai 30 anni. Single, vive con la sua famiglia. Abita nello stesso edificio della vittima o comunque molto vicino allo stabile. Non possiede un’auto. Non lavora, ha un impiego part time o svolge comunque un lavoro da cui guadagna poco. Potrebbe essere in cura presso un centro di igiene mentale, forse assume psicofarmaci. Nell’elenco dei sospettati, uno in particolare pare adattarsi al quadro psicologico elaborato da Douglas. Il profiler lo descrive così, concludendo l’indagine: Si chiamava Carmine Calabro. Trentenne, bianco, attore disoccupato, viveva saltuariamente con il padre vedovo nello stabile degli Evelson, sullo stesso piano. Non aveva fatto il militare e quando la polizia perquisì la sua stanza trovò un’ampia collezione di materiale pornografico sadomaso. Inoltre aveva tentato più volte di suicidarsi mediante impiccagione e soffocamento, sia prima che dopo l’omicidio Evelson. Ma aveva un alibi… Carmine era paziente interno di un locale ospedale psichiatrico, dove veniva sottoposto a cure antidepressive… in seguito fu possibile provare con assoluta certezza che la sera precedente l’omicidio di Francine Evelson aveva lasciato l’istituto senza autorizzazione.

Tredici mesi dopo l’omicidio, Carmine Calabro fu arrestato e sottoposto alla rilevazione delle impronte dentali. Tre dentisti della polizia confermarono che queste coincidevano con i segni impressi sul corpo di Francine. Fu su questa prova che si imperniò il processo, e benché si dichiarasse non colpevole Calabro fu condannato a venticinque anni di carcere. Hans Paul Jeffers, autore statunitense di numerosi testi sul crimine, inquadra perfettamente l’importanza e i limiti del profilo psicologico: «Il Criminal Profiling non potrà mai prendere il posto di una approfondita e ben pianificata investigazione, non potrà mai sostituire l’esperienza, la competenza e l’addestramento professionale del

detective, ma costituisce un’arma in più nell’arsenale di coloro i quali devono combattere con il crimine violento». Quindi si tratta di un’arma in più, ma mai di un procedimento che indichi chi sia il colpevole di un delitto o, viceversa, chi debba assolutamente essere escluso dalle indagini: la posta in gioco è altissima, la cautela d’obbligo. Il profilo psicologico può indicare una tipologia di criminale, non il nome e l’indirizzo del colpevole. Se negli Stati Uniti i profiler appartengono all’area investigativa, negli altri paesi dove questa attività ha iniziato a destare interesse, gli specialisti sono per la maggior parte psicologi e psichiatri. In realtà un esperto nel profiling deve possedere conoscenze approfondite non solo di psicologia e psicopatologia, ma pure di sociologia, criminalistica, patologia forense, tecniche di intervista e interrogatorio. Sebbene questa figura investigativa raccolga sempre più interesse e attenzione, la sua reale capacità di identificazione del criminale deve essere ancora scientificamente dimostrata. Appare tuttavia certo che la collaborazione fra investigatori e psichiatri nella elaborazione di profili psicologici di un sospetto sconosciuto possa sin d’ora contribuire alla nascita di nuovi modelli di indagine.

La vittimologia Nell’elaborazione del profilo psicologico dell’assassino di Francine Evelson, John Douglas introduce gli elementi dell’analisi vittimologica, lo studio delle caratteristiche della vittima. Vittima: soggetto che diviene l’obiettivo dell’attacco dell’aggressore, incrociandone la strada nel momento in cui l’offender valuta favorevoli le circostanze per commettere un crimine (assenza di testimoni, periodo della giornata, vulnerabilità della vittima ecc.). Le condizioni mentali dell’offender possono influenzare la sua percezione del rischio insito nell’atto. Alcol, droghe, situazioni di stress, impulsività, tra gli altri fattori, possono far sì che l’offender assuma rischi maggiori nel commettere il crimine. Vittimologia: una completa ricostruzione della storia della vittima, che include lo stile di vita, i tratti di personalità, l’occupazione e altro ancora. Sono le definizioni tratte dal Crime Classification Manual, il trattato di classificazione dei crimini violenti dell’FBI. La vittimologia, insieme al case linkage, il collegamento tra casi precedentemente conosciuti, e all’analisi della scena del crimine, rappresenta il cardine su cui si basano le indagini. Ecco le domande che si impongono alla mente dell’investigatore: perché proprio quella vittima è divenuta un bersaglio? come è stata scelta? O forse l’aggressione è frutto di un’opportunità inaspettata che si è presentata all’assassino? E ancora: che possibilità c’era che un soggetto potesse diventare una vittima scelta casualmente? in che misura l’assassino si è assunto dei rischi nell’uccidere quel tipo

di vittima? Come si è avvicinato alla sua preda, come l’ha aggredita? ha usato la forza? Di cosa si è servito per immobilizzarla? E la vittima, ha tentato di reagire all’aggressione? Ogni risposta ci consente di fare un passo avanti, ci permette di costruire ipotesi sulle motivazioni del serial killer, sul suo modus operandi, sulla conoscenza che egli possiede degli aspetti investigativi e medico-legali connessi a un reato, la sua occupazione, le sue competenze sociali. Nelle testimonianze rese da Donato Bilancia, contenute nella sentenza della corte di assise di Genova, pronunciata il 12 aprile 2000, c’è il tragico racconto di come un serial killer incontra la sua vittima. Ok. Passiamo ai treni? Allora, ho preso il treno a Genova. Il pendolino che andava a Venezia, credo. In uno scompartimento di prima classe c’era una donna, che io chiaramente non ho mai visto e conosciuto, e… io ho aspettato che questa qui si recasse in bagno. Aveva la borsa con sé quando si è alzata. Io ho aperto la porta con una chiave falsa. È una normalissima chiave a quattro, una femmina a quattro ecco. L’ho buttata via dopo il secondo episodio, e preciso che l’avevo fatta io stesso, è… una sciocchezza. Questa qua s’è messa ad urlare e io le ho messo la giacca sulla testa e le ho sparato. L’ho fatto per non vedere cosa succedeva al momento dello sparo. Però ho ripreso la borsa, sempre con la pinza, e gliel’ho rimessa nello scompartimento dove stava lei. Ah no, l’unica cosa che ho preso è il biglietto, perché spuntava lì dalla borsa e io non avevo biglietto perché avevo preso il treno così, senza mete. Il fatto è successo tra Serravalle e Tortona, dove pensavo che quel treno fermasse; invece non ha fermato perché fermava a Voghera. Quindi sono rimasto una ventina di minuti lì, con la signora in bagno, anche meno, un quarto d’ora. Da questo periodo di tempo ho dedotto che il fatto fosse accaduto tra Serravalle e Tortona. A Voghera sono sceso e ho aspettato un altro treno che andava giù a Genova. Ho strappato il bi glietto e l’ho buttato via, e ho preso un treno che tornava a Genova. Lo scompartimento era vuoto, ma forse c’era qualcuno nella parte di là, mi pare che quei treni abbiano una divisione a metà. Preciso che io non mi sono mica seduto con lei, ero in piedi in fondo al corridoio. Questa mi ha detto: «Mi scusi, per andare in bagno?». È andata in bagno e… cioè io non l’ho neanche toccata, dal punto di vista sessuale. Niente. Sono salito sul treno con quell’intenzione. Doveva essere necessariamente una donna. Ricordo il giorno del viaggio perché l’ho letto sui giornali, era il giorno di Pasqua o qualcosa del genere. Sì, eh… quella… quella cosa che si è sviluppata poi nel mio cervello che non so neanche io, a dir la verità, che cosa è successo. Il tutto è scattato dopo l’episodio del Parenti e Centanaro. Non lo so cosa dovevo fare, se dovevo ammazzare o cos’altro. Io quella mattina mi sono alzato dal letto e sono andato in stazione per prendere visione di una donna sul treno per ucciderla, non per… usarle violenza; per ucciderla… ma non posso dire il perché…

La donna è Elisabetta Zoppetti, infermiera, 32 anni, nativa di Pisogne, un paesino in provincia di Brescia. Il suo corpo senza vita viene scoperto da un controllore delle Ferrovie dello Stato nella toilette del treno Intercity 631 La Spezia – Venezia. Agli investigatori, tra gli altri indizi, spetta anche il compito di valutare il cosiddetto rischio vittimologico, l’insieme dei fattori che conducono un determinato soggetto a divenire vittima di un crimine. Appare ovvio come vi siano situazioni concrete che espongono un individuo a un rischio vittimologico alto: basti pensare agli agenti di polizia e ai carabinieri in servizio di pattuglia. Ma vi sono altre circostanze in cui non è per nulla semplice rintracciare un fattore di rischio immediatamente comprensibile. Esiste sempre una motivazione che conduce l’aggressore a scegliere una determinato soggetto su cui orientare la propria violenza: può trattarsi di un fattore situazionale, oppure di una scelta legata allo stile di vita della vittima. Persino nella follia vi è una logica: anche negli omicidi compiuti da serial killer visionari, assassini psicotici che agiscono in preda a comandi allucinatori, a essere aggrediti sono sempre soggetti

che, nel momento dell’offesa, assumono significato e valore particolari, anche se solo nel contesto di una pseudorealtà, malata e folle. Elisabetta Zoppetti era da considerarsi, al di là di ogni dubbio, una vittima a basso rischio: una donna con occupazione stabile, amicizie solide e vere, che viaggiava, quando è stata aggredita, secondo un percorso e un orario non prestabiliti. Vittime ad alto rischio sono invece le prostitute, per un fatto semplice: sono esposte costantemente all’incontro con persone sconosciute, impegnate in luoghi isolati nelle ore notturne, spesso in contatto con tossicodipendenti o spacciatori; e poi la loro scomparsa non sempre viene notata in tempo. L’alto rischio vittimologico delle prostitute è ancora una volta ben illustrato dalle dichiarazioni che Donato Bilancia rende in aula durante il suo processo: Dopo l’episodio della guardia giurata ci sono i due episodi di quelle due ragazze di Cogoleto ed Albenga… L’ho prelevata laggiù alla Foce, lì dall’Automobile Club. Però nel pomeriggio, che ero andato a trovare mio padre nella casa di Cogoleto in via Arrestra, mi sono andato un po’ a vedere le zone lì intorno, ho visto che c’era questa strada col passaggio a livello che andava a finire in un tunnel poi fino in fondo e sbucava, però era una strada chiusa quindi… La sera l’ho presa e le ho detto che le davo un milione, mi pare, se veniva a casa mia; poi me la son portata là, ho avuto un rapporto sessuale di tipo… penetrazione e poi l’ho uccisa. Finisce Cogoleto, c’è quella sbarra che chiude la strada, che però non è assicurata; si alza la sbarra e si entra, poi ad un certo punto, ora non so quanto, si passano delle case che sono qui sulla destra andando in direzione ponente. C’è una prima galleria, in cui mi sono accostato alla parete destra per impedire che uscisse, proprio all’inizio del tunnel, con il muso in direzione di Varazze. Alla fine della galleria c’è uno slargo sulla sinistra, e poi la stradina prosegue: consumato il rapporto sessuale sono venuto avanti con la macchina fino a questo slargo, poi ho fatto retromarcia e mi sono fermato in questo spiazzo. Avevo un asciugamano bianco in macchina e l’ho preso in mano. L’ho fatta scendere e l’ho fatta dirigere verso il mare, in corrispondenza di una piccola scarpata che va giù verso il mare. Le ho detto: «Scendi un attimo, guarda il mare, ti lascio qua e me ne vado…», non le ho fatto capire che avrei fatto quello che ho fatto. Le ho detto che non le avrei fatto niente, perché non volevo che vedesse la tar ga, e allora a questo proposito le ho messo l’asciugamano in testa e poi le ho sparato un colpo alla nuca. La ragazza è caduta in avanti, ed è rimasta con i piedi qui, all’inizio della scarpata; ho preso l’asciugamano che era rimasto sotto, l’ho messo in un sacchetto di plastica e poi sono andato via… Si era denudata per avere il rapporto con me, ed i suoi vestiti, rimasti in macchina sul sedile posteriore, li ho messi tutti nel solito bidone della spazzatura, mi pare a Varazze. Credo avesse una borsa con quelle due cose che hanno loro, ma non ho toccato assolutamente niente con le mani per non lasciare impronte, e cose di questo genere. Tutto quello che era suo è stato racchiuso in più sacchi di plastica e poi distribuito nei cassonetti… Io della ragazza non conoscevo nulla, nemmeno nome e cognome, dove stava, con chi stava; niente, assolu tamente niente, cioè il rapporto preciso che può avere un cliente con una prostituta. Il nome l’ho letto sui giornali… Precedentemente io a prostitute ci sono andato poco e niente, perché avevo tutto il «materiale» senza fre quentare prostitute; ho sempre avuto del materiale, di grosso pregio anche! Non è che non voglio dire perché è successo: è che lo vorrei sapere anch’io. La scintilla è partita da quell’e pisodio là – quello di Centanaro e Parenti – che ho raccontato prima. Poi il prosieguo non so cos’è successo…

Gli investigatori italiani sulla scena del crimine Il Reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri 1998, Sturla, Comunità montana del Tigullio. Donato Bilancia, il serial killer della Liguria, si ferma in un bar e prende un caffè. Accanto a lui, in borghese, due uomini del Reparto operativo dei carabinieri di Genova. I carabinieri si accertano che l’uomo si sia allontanato e si impadroniscono della tazzina dalla quale l’assassino ha bevuto. Nei laboratori dell’Arma la saliva dell’uomo viene analizzata, il DNA estratto e comparato con quello rinvenuto in tracce biologiche lasciate sulla scena del crimine. Quando gli investigatori arrivano a identificare e arrestare Donato Bilancia, il laboratorio fornisce prove inoppugnabili della colpevolezza del killer, mostrando una perfetta integrazione tra metodi scientifici e indagini tradizionali. Novi Ligure, 21 febbraio 2001, le otto di sera: Erika, 16 anni, fugge terrorizzata dalla villetta in cui abita con i genitori e il fratellino; scalza, lascia dietro di sé impronte insanguinate, e si rifugia dai vicini di casa. All’arrivo dei carabinieri la ragazza racconta: «Mio padre era uscito da poco per la partita di calcetto e due albanesi sono entrati in casa per rapinarci. Quando mia madre li ha sorpresi, loro hanno ucciso lei e il mio fratellino». Immediatamente scattano le indagini, ma, nelle parole della ragazza, qualcosa non convince. Il giorno dopo viene nuovamente interrogata, insieme al suo ragazzo, Omar. I due vengono lasciati soli in una stanza della caserma dei carabinieri e, di nascosto, il loro comportamento viene ripreso e registrato con microfoni e telecamere. Emerge una verità ancor oggi difficile da comprendere e accettare: sono stati i due ragazzi ad aggredire e uccidere Susy Cassini e Gianluca De Nardo con due coltelli. Determinante nella ricostruzione della dinamica del duplice omicidio è l’intervento dei carabinieri del RIS che, al termine delle indagini, consegnano i risultati del loro lavoro al pubblico ministero. In oltre mille pagine di relazione, affiancate da ottocento fotografie e dall’IPlX, la ricostruzione tridimensionale dell’ambiente, forniscono le prove inconfutabili della partecipazione di entrambi i giovani al delitto. Gli esperti del RIS sono intervenuti in altri casi celebri, come per esempio la morte della contessa Vacca Agusta nel mare di Portofino, e l’omicidio del piccolo Samuele Lorenzi a Cogne. Fondato il 15 dicembre 1955 come Centro carabinieri investigazioni scientifiche, il Raggruppamento carabinieri investigazioni scientifiche (RACIS) è la struttura che svolge analisi tecnico-scientifiche in appoggio alle attività di polizia giudiziaria condotte dai reparti territoriali e speciali dei carabinieri. Attualmente è organizzato su quattro Reparti investigazioni scientifiche (RIS) con sede a Roma, Parma, Messina e Cagliari in modo da coprire tutto il territorio nazionale. A loro volta, i Reparti sono articolati in varie sezioni, una per ogni branca della criminalistica (biologia, chimica, balistica, dattiloscopia e fotografia giudiziaria, fonica e grafica).

Proprio la suddivisione del territorio, unitamente alla preparazione e alla competenza professionale, ha contribuito alla fama del RIS di Parma. È la squadra di tecnici selezionati di questo reparto a gestire le attività di sopralluogo negli omicidi che hanno riempito le prime pagine dei giornali negli ultimi anni; omicidi che si sono concentrati soprattutto nel Nord dell’Italia. Ferdinand Camper e la UACV 8 febbraio 1996, Merano. Una coppia non più giovane passeggia serenamente per le strade della città del Tirolo: una storia d’amore che dura già da cinque anni. Lui è Hans Otto Detmering, tedesco, 60 anni, funzionario della Bundesbank, sposato; lei è una bella donna di 49 anni, italiana: il suo nome è Clorinda Cecchetti. Due colpi alla testa, improvvisamente esplosi a distanza ravvicinata, pongono fine alla vita dei due amanti. I proiettili sono calibro 22. Le indagini seguono due piste, la prima, quella legata alla professione dell’uomo, potenzialmente coinvolto in intrighi finanziari, a conoscenza di delicati segreti economici. La seconda, quella della gelosia, porta alla moglie tradita di Detmering. Nessun riscontro, nessuna prova. Compare all’improvviso un testimone: si chiama Luca Canali, e afferma di avere assistito all’incontro tra l’assassino e le sue vittime. Ma Canali ha fama d’essere un personaggio strano, un balordo, e nelle sue parole emergono troppe contraddizioni. Trascorre una settimana. Umberto Marchioro, 58 anni, contadino, osserva il calare della sera nell’aia della sua cosa colonica. Un proiettile calibro 22 lo raggiunge alla fronte. La morte dell’uomo viene definita inizialmente accidentale: si pensa che sia caduto picchiando il capo. Non viene infatti notato il foro provocato dall’arma da fuoco. Quando si scopre la verità, a Merano si comincia a parlare di uno sconosciuto serial killer. Le contraddizioni di Luca Canali lo trasformano da testimone in sospetto: ne viene ordinata la custodia cautelare in carcere. Ma, mentre l’uomo è agli arresti, l’assassino colpisce ancora. 27 febbraio: Paolo Vecchiolini, 36 anni, cammina con la fidanzata Ivonne Sanzio nella centralissima piazza Duomo. Il killer aggredisce alle spalle, e spara un colpo alla testa dell’uomo. Ivonne fissa in volto l’omicida e inizia a urlare: questo le salverà la vita e permetterà agli inquirenti di avere in mano, finalmente, un identikit. Ma ciò non impedisce che ci sia un’altra vittima: è Tullio Melchiori, un contadino di 58 anni, anch’egli freddato con un colpo in fronte, davanti alla sua casa. Accanto al cadavere un sasso blocca un foglio, un messaggio scritto a mano: «Sono un italiano emigrante, e un killer di bambini. Ancora una volta siete arrivati tardi». Le forze di polizia, giunte sul posto, trovano la moglie della vittima barricata in casa. L’assassino si è rifugiato nel fienile accanto. Ma prima che tutto si concluda, un altro uomo viene assassinato: Guerino Botte, maresciallo dell’Arma, si avvicina alla porta della stalla. Colpito in pieno, muore poco dopo all’ospedale di Bolzano. Inevitabile, furioso, il conflitto a fuoco: il serial killer preferisce togliersi la vita piuttosto che farsi arrestare; accanto a lui viene ritrovata l’arma, una carabina calibro 22 con canne e calcio segati, e lo zainetto in cui la nascondeva sparando attraverso un buco. Ci sono anche abiti femminili, una parrucca, altri biglietti, altri messaggi: «Meglio morto in Tirolo che di fame in Italia».

Il suo nome è Ferdinand Gamper, 40 anni, pastore durante l’estate, contadino il resto dell’anno. Di lui si scoprirà un’infanzia infelice, la malattia mentale della madre, il suicidio orribile di un fratello che dapprima sistema con cura un coltello a terra, quindi si spara in fronte e, cadendo, viene infilzato dalla lama. Taciturno e scontroso, con qualche precedente penale, è costretto a lasciare il maso di proprietà della famiglia cedendolo al Melchiori, la sua quinta vittima. Si trasferisce nel fienile accanto e cerca di rientrare in possesso della casa dove è cresciuto. Non vi riesce, e questo lo porta a sviluppare un odio insensato, frammisto a convinzioni xenofobe, in una miscela delirante ed esplosiva. È con il caso di Ferdinand Gamper che l’Unità per l’analisi del crimine violento, la UACV, conosce il suo battesimo di fuoco. I suoi uomini si ritrovano a fianco degli investigatori del luogo durante l’assedio finale. Da allora sono numerosi i casi che hanno visto impegnata la struttura specializzata della polizia scientifica. Per citarne alcuni, il caso Marta Russo, il serial killer di Padova Michele Profeta, la ricostruzione della scena del delitto Calabresi e Dalla Chiesa, sempre al fine di valutare l’attendibilità di alcuni collaboratori di giustizia. La UACV nasce nel 1994, come Sezione indagini speciali, voluta per studiare, prevenire e combattere il fenomeno dell’omicidio seriale, efferato o senza apparente movente. Vi sono infatti segnali di un possibile incremento nel numero dei serial killer, con le recenti imprese di Giancarlo Giudice, Marco Bergamo, Luigi Chiatti e altri ancora. Al momento della sua fondazione sono stati presi contatti con le strutture già esistenti che vantano una storia e un’esperienza uniche in questo settore di indagine: Quantico e l’FBl, Londra e la Metropolitan Police, l’Accademia di polizia di Bramshill sono tra i punti di riferimento imprescindibili. Lo scopo della struttura è oggi quello di offrire supporto agli organismi investigativi e all’autorità giudiziaria attraverso lo studio, l’analisi e l’elaborazione di tutte le informazioni disponibili nel caso di omicidi insoliti e violenze sessuali seriali. Per far questo viene studiato un percorso metodologico ben definito, fatto di quattro passaggi fondamentali: l’esame e l’analisi della scena del crimine, l’analisi delle informazioni raccolte e, da ultimo, l’analisi del comportamento dell’aggressore e della vittima. Ed è in quest’ultimo momento che più attiva e importante è la collaborazione con psichiatri e criminologi, tra scienze investigative e psicologiche.

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From hell / Mr Lusk, / Sor / I send you half the Kidne / I took from one woman / and prasarved it for you. tother piece / I fried and ate it was very nise. / I may send you the bloody knif that / took it out if you only wate a whil / longer / signed catch me when / you can / Mishter Lusk 2

Nell’ottobre del 1995, dopo oltre otto mesi di processo e dopo aver ascoltato più di cento testimoni, la giuria dichiara il celebre giocatore di football Orenthal James Simpson non colpevole dell’omicidio della moglie Nicole Brown e dell’amico di lei Ronald Goldman. Nonostante le prove schiaccianti contro l’imputato, l’abilità del collegio difensivo riesce a sollevare dubbi importanti sulla modalità di acquisizione delle prove da parte degli investigatori; ben altro esito avrà l’iter processuale in sede civile. 3

Le definizioni e la terminologia che utilizzeremo si rifanno al testo di riferimento per le classificazioni psichiatriche: il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, DSM, nell’ultima versione detta TR (Text Revisited). 4

La schizofrenia è un disturbo che dura almeno sei mesi e implica almeno un mese di sintomi della fase attiva (per es., due [o più] dei seguenti sintomi: deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico, sintomi negativi). La schizofrenia può essere differenziata in sottotipi: sottotipi paranoide, disorganizzata, catatonica, indifferenziata e residua. Psicotico: questo termine ha ricevuto nella storia un gran numero di definizioni diverse, nessuna delle quali gode di accettazione universale. La definizione più restrittiva di psicotico si riferisce ai deliri o alle allucinazioni rilevanti, che si manifestano in assenza di consapevolezza della loro natura patologica. (DSM IV TR) La caratteristica essenziale dei disturbi dissociativi è la sconnessione delle funzioni, solitamente integrate, della coscienza, della memoria, della identità o della percezione. Le alterazioni possono essere improvvise o graduali, transitorie o croniche. Nella sezione sono compresi i disturbi seguenti: – Amnesia dissociativa, che è caratterizzata dalla incapacità di rievocare importanti notizie personali, che è usualmente di natura traumatica e stressogena, e che risulta troppo estesa per essere spiegata con una normale tendenza a dimenticare;

Le parafilie sono caratterizzate da ricorrenti e intensi impulsi, fantasie, o comportamenti sessuali che implicano oggetti, attività o situazioni inusuali e causano disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa, o di altre aree importanti del funzionamento. Le parafilie includono l’esibizionismo, il feticismo, il frotteurismo, la pedofilia, il masochismo sessuale, il sadismo sessuale, il feticismo di travestimento, il voyeurismo, e la parafilia non altrimenti specificata. (DSM IV TR) 5

I disturbi correlati a sostanze comprendono disturbi secondari all’assunzione di una sostanza di abuso (incluso l’alcol), agli effetti collaterali di un farmaco e all’esposizione a tossine. In questo manuale, il termine sostanza può riferirsi a una sostanza di abuso, a un farmaco, o a una tossina. Le sostanze discusse in questa sezione sono raggruppate in 11 classi: alcol; amfetamine o simpaticomimetici ad azione simile; caffeina; cannabis; allucinogeni; inalanti; nicotina; oppiacei; fenciclidina (PCP) o arilcicloexilaminici ad azione simile e sedativi, ipnotici o ansiolitici. (DSM IV TR)