Serial killer [PDF]


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David Grieco

Serial Killer Il comunista che mangiava i bambini 1994

Prologo «Il campionato di calcio 1986 era cominciato da un pezzo.» La Dinamo Rostov non aveva ancora mai vinto in casa. Sul terreno amico aveva rimediato soltanto tre pareggi e due sconfitte. Il bilancio della stagione si annunciava penoso. «I ragazzi non hanno esperienza, lasciamoli crescere,» diceva ogni lunedì Igor Fedorovitch Burkhan. Il lunedì Burkhan è più ubriaco del solito. Ma nessuno osa contraddirlo. Perché nessuno dimentica che Burkhan è stato un grande mediano e ha allenato in prima divisione. Il guaio è che questi ragazzi non sono fatti per il pallone. Hanno caviglie troppo grosse e zucche troppo vuote. Sono tutti contadini. Anzi no. Solo contadini mancati. D'altra parte, la Dinamo Rostov è la squadra della polizia. E chi volete che al giorno d'oggi si arruoli nella polizia? Il derby con i marinai della Torpedo Taganrog bisognava vincerlo a ogni costo. Burkhan l'aveva detto fino alla nausea per tutta la settimana. «Se battiamo i vicini di casa, la stagione è salva. Il pubblico dimentica in fretta.» Burkhan era stato come sempre profetico. Il pubblico aveva già dimenticato. Di venire, innanzitutto. Sugli spalti di quell'enorme, assurdo impianto costruito con le solite manie di grandezza c'erano soltanto un pugno di mocciosi. Tutto facevano, tranne guardare la partita. A dire la verità, non era neppure il giorno adatto per andare allo stadio. Pioveva a dirotto dalle prime ore del mattino. Il campo era un pantano. Trascorsi pochi minuti, già non si riuscivano più a distinguere i colori delle maglie. In quella palude era impossibile giocare di fino. Era venuto il giorno della forza e del coraggio. E i bifolchi della Dinamo Rostov, una volta tanto, sembravano giocatori veri. Nella bolgia, l'investigatore Vadim Timurovitch Lesiev pareva il solo a mal partito. Piccolo di statura e stempiato, il libero della Dinamo era l'unico ufficiale in campo. Giocava ancora, nonostante i suoi trentasette anni e le sue quaranta sigarette al giorno, soltanto perché aveva i cosiddetti piedi buoni. Era stato riserva alle Olimpiadi. Sì, ma quali? Nessuno rammentava più se erano quelle di Monaco o quelle di Montreal. Il vecchio campione adesso era molto occupato a tenere d'occhio il numero sette della Torpedo. Troppo giovane e troppo veloce per lui. Aveva già

saltato due volte il centrocampo e aveva fatto piovere un paio di cross. Per fortuna, i suoi compagni non lo avevano seguito, e tutto era finito lì. Ma Vadim sapeva che prima o poi quel ragazzo avrebbe deciso di fare tutto da solo, avrebbe puntato diritto verso la porta, e sarebbero stati dolori. Intanto, quelli della Dinamo attaccavano a testa bassa. Lottavano su ogni pallone e costringevano i marinai della Torpedo a rifugiarsi in massa nella loro area. In quell'arrembaggio, i poliziotti di Rostov erano riusciti a racimolare soltanto una traversa e ormai mancava poco alla fine. Ancora un pareggio, pensava Lesiev mentre sbirciava il grande orologio con la faccia di Lenin in alto sopra la curva. La lancetta dei minuti sfiorava già il naso del compagno Vladimir Ilitch. Ancora qualche secondo e gli avrebbe solleticato le narici. Lenin avrebbe fatto il grande starnuto e sarebbero tornati tutti a casa, senza infamia e senza lode. Vadim era affezionato da tempo a quell'immagine. Era il suo pensierino rituale di fine partita. La partita, però, non era ancora finita. Il portiere avversario aveva appena rinviato. Sulla linea del centrocampo, un mediano della Dinamo era andato incontro al pallone mancandolo goffamente. Il numero sette della Torpedo, invece, era stato svelto ad agganciarla. E ora veniva giù a grandi falcate. Lesiev sapeva di non poterlo fermare. Il libero della Dinamo Rostov poteva soltanto affidarsi al mestiere. Anziché aspettarlo a pie' fermo, e rischiare di farsi saltare, Vadim pensò che era preferibile contentarsi di dirottarlo sulla fascia laterale. In questo modo, lo avrebbe obbligato ad adottare una traiettoria obliqua, impedendogli di inquadrare facilmente la porta. Nel frattempo, i compagni sarebbero certamente rientrati per dargli manforte. Lesiev rallentò la corsa del sette lavorandolo di spalla. Ma il ragazzo cominciò a girargli intorno come una farfalla. Era capace di dribblarlo una volta, due volte, chissà quante volte. Vadim sembrava un vecchio toro preso per le corna dal giovane matador. Passi per l'umiliazione, ma i suoi compagni dov'erano?... Tutti fermi in mezzo al campo, le mani sui fianchi, a godersi lo spettacolo. Quando il vecchio campione decise di entrare a piedi pari sulle sottili caviglie del ragazzo, si trovavano ormai in piena area di rigore. Con la faccia nella melma, Lesiev sentì sibilare il fischietto dell'arbitro che decretava il penalty. L'uomo con la giacchetta nera si avvicinò e gli ordinò di rialzarsi. Vadim non obbedì. Avrebbe voluto farlo, ma la sua gamba sinistra non era dello stesso parere.

Lui stesso stentava a riconoscerla in quel lungo oggetto disarticolato e sporco di fango che giaceva accanto a lui immobile e triste. Il libero della Dinamo Rostov lasciò il campo su una barella mentre la Torpedo Taganrog trasformava il calcio di rigore per passare in vantaggio a una manciata di secondi dalla fine. I suoi compagni non tardarono a raggiungerlo negli spogliatoi. Senza una parola, si infilarono sotto la doccia. E nessuno trovò il coraggio di protestare perché mancava l'acqua calda. Burkhan e il massaggiatore stavano riflettendo in silenzio sulla gamba di Lesiev. A un tratto, l'allenatore smise di guardarla e offrì una sigaretta al suo capitano. Vadim capì così che la sua carriera di calciatore era finita lì. «Mi hai messo in un bel guaio, Lesiev. Ora mi spieghi che faccio, da solo, con tutte queste mezze seghe?» mugugnò con amarezza l'allenatore. «Mi dispiace, caro Igor Fedorovitch. Ma se non devo più venire agli allenamenti, vorrà dire che almeno avrò il tempo di sposarmi.» Burkhan sembrò sorpreso. «Perché, hai trovato una fidanzata?» Vadim sorrise. Ma era una smorfia di dolore. «Io no. Me l'ha trovata mia sorella.» «Contento te...» sentenziò Burkhan voltandogli le spalle.

1 Novoshakhtinsk dista un centinaio di chilometri da Rostov. A Novoshakhtinsk ci sono più alberi che esseri umani. I boschi assediano la città e serpeggiano tra gli edifici. L'ordine ottuso delle costruzioni è una misera utopia di fronte all'ordine selvaggio della natura. Qui come a Rostov, a Shakhty, a Novocerkassk, la chirurgia sovietica ha soltanto scalfito i lineamenti della grande madre russa. La Scuola Internato numero 32 sorgeva proprio in mezzo ai boschi di Novoshakhtinsk. Ospitava gli orfani e i figli dei divorziati. In quella primavera del 1986 era considerato il migliore istituto della regione. La più rinomata fabbrica di comunisti modello. Gli insegnanti di questi istituti, che Stalin chiamava «ingegneri delle anime,» venivano sempre scelti secondo criteri molto rigidi. La fedeltà al Partito comunista era ancora il requisito fondamentale. a i tempi stavano cambiando. C'era qualcosa nell'aria. Qualcosa che tutti chiamavano Gorbaciov. Nessuno sapeva esattamente che cosa sarebbe accaduto, né quando, né come. Si aspettava un segno del destino. L'arcobaleno o la tempesta. La fine di tutto o l'inizio di qualcosa. Il 14 maggio del 1986, Andrej Romanovitch Evilenko era il capo degli insegnanti della Scuola Internato numero 32. Doveva ancora compiere quarantasei anni. Era docente di lingua e letteratura russa. Era alto, magro, e vestiva sempre di grigio. Teneva un portamento altezzoso. Non dava confidenza ai colleghi e aveva fama di essere molto severo con gli alunni. Godeva da tempo dei privilegi riservati agli iscritti al Partito. Non gli mancava nulla per ambire a una luminosa carriera politica. Evilenko aveva passato la sua infanzia e la sua adolescenza in istituti come questo. Era figlio unico. Sua madre era morta mettendolo al mondo. Quanto a suo padre, Andrej non lo aveva neppure conosciuto. Ma nonostante ciò, ne provava vergogna. Roman Evilenko era un Nemico del Popolo.

Durante la guerra, fu catturato dai tedeschi. Ma ebbe la sventura di sopravvivere. E così, quando tornò, Stalin lo spedì ai lavori forzati con gli altri superstiti. Quei soldati avevano vissuto a contatto con i nazisti prima e con gli americani poi. Ognuno di loro, secondo Stalin, poteva essere una spia del nemico. Quindi, nel dubbio, tanto valeva farli fuori tutti. Roman Evilenko finì i suoi giorni alla «chimica», un istituto di pena dove si maneggiano sostanze altamente tossiche. Quando apprese la notizia della sua morte, Andrej si sentì liberato da un incubo. Stalin se ne andò un anno dopo. Quel giorno, il giovane studente Evilenko lesse ad alta voce, nel cortile della scuola, un lungo e appassionato elogio funebre del dittatore. La campana della ricreazione suonò puntuale alle 10. I ragazzi si precipitarono in cortile correndo e vociando. Evilenko uscì per ultimo, con il suo passo flemmatico. Passò accanto ai colleghi che stavano conversando senza degnarli di un sguardo. Andò a sedersi sulla solita panca vicino al cancello. Si mise a leggere il giornale come sempre. L'organo del Partito. La «Pravda». Il piccolo Sasha festeggiava il pallone nuovo avuto in dono per il suo decimo compleanno. Un pallone a spicchi bianchi e neri, come quelli che si vedono alla televisione quando giocano le squadre straniere. La madre faceva sempre dei bei regali a Sasha. Doveva farsi perdonare di averlo messo all'istituto solo perché non andava d'accordo con i figli del suo nuovo marito. Ma finché duravano i regali, a Sasha andava benissimo così. Per il solo fatto di essere un prodotto esotico, il pallone eccitava enormemente i ragazzi. Anche le femmine volevano partecipare al gioco, e così il gioco stesso diventava la momentanea conquista di quell'oggetto. Al di là della sua forma, il pallone rappresentava un mondo intero. Era come un piccolo anticipo su tutto ciò che non si potrà mai avere. A un tratto, il pallone schizzò fuori dalla mischia. Volò verso il cancello. Iniziò la sua parabola discendente. Ma non finì a terra. Precipitò con fragore su un giornale spalancato. Il giornale di Evilenko. L'insegnante alzò lo sguardo senza aprire bocca. I suoi grandi occhi bianchi passarono in rassegna i volti degli alunni,

scrutandoli lentamente uno dopo l'altro. Nessuno osava avvicinarsi. Evilenko sorrideva. Ma quel suo sorriso obliquo non prometteva niente di buono. Andrej finalmente si alzò. Ripiegò accuratamente il suo giornale. Raccattò il pallone e lo prese sottobraccio. I ragazzi lo osservarono con il fiato sospeso mentre attraversava il cortile. Lo videro entrare nell'androne custodito dai volti sbiaditi degli Eroi della Rivoluzione. Poi udirono distintamente il suono della campana. Il grande orologio sulla facciata dell'edificio segnava le 10 e 10. La ricreazione era finita in anticipo. Il pallone a spicchi bianchi e neri stava immobile sulla cattedra come una scultura futurista. Non appena Evilenko ebbe finito di cancellare ciò che era scritto sulla lavagna, il piccolo Sasha si alzò. «Professore?...» miagolò timidamente. Evilenko si limitò a fissarlo. Sasha si fece coraggio e avanzò la sua richiesta. «Posso riavere il mio pallone?...» Evilenko si mostrò sorpreso. Guardò il pallone sulla cattedra come se lo vedesse per la prima volta. «Questo pallone?» domandò. La bocca chiusa e le labbra tremanti, Sasha confermò con un cenno del capo. «Vorresti dire che questo pallone è tuo, Sasha?» chiese Evilenko. «Me lo ha regalato la mia mamma per il mio compleanno,» rispose il bambino con orgoglio mentre due lacrimoni precipitavano sul suo libro aperto. Evilenko sorrise. Ma era sempre il sorriso di un uomo che non sapeva sorridere. «La tua mamma, il tuo compleanno, il tuo pallone?... Sei fortunato ad avere una mamma, Sasha. Molti tuoi compagni non hanno avuto una mamma. Ma qui dentro siete tutti uguali. In questo istituto non ci può essere niente di tuo, o di suo, o di mio. Questa è la prima cosa da imparare. Tua madre commette un grave errore a farti dei regali. Quando la vedrò, glielo dirò. Adesso ti puoi sedere.» Sasha si lasciò andare sulla seggiola e nascose lo sguardo tra le pagine del libro. Evilenko rimase alcuni istanti imbambolato. Un tramestio negli ultimi banchi aveva colpito la sua attenzione. Si trattava di Tonja. Era la più graziosa, Tonja. Una bella bambolina bionda.

Aveva le gambette spalancate. Indossava un paio di mutandine rosse. Stava offrendo il suo piccolo tesoro allo sguardo di un compagno. Fortunatamente, la bambina sentì i grandi occhi bianchi di Evilenko posarsi su di lei. Tonja chiuse immediatamente le gambe. Abbassò il capo. E soffocò una risata. Evilenko fece finta di nulla. Ma dentro di sé cominciò a sbandare. Prese a sfogliare nervosamente il libro aperto sulla cattedra prima di ritrovare la bussola. «Dove eravamo rimasti?... Ah, ecco. Sciolokov. Il placido Don. Capitolo quarto. Pagina 164.» A mezzogiorno in punto, la campana annunciò la fine della lezione. I ragazzi radunarono in fretta le loro cose e si precipitarono fuori. Anche Tonja stava uscendo. Ma Evilenko la fermò sulla soglia. «Prendi la scopa, Tonja. C'è da pulire l'aula. Oggi tocca a te.» Tonja obbedì senza fiatare. Aprì il ripostiglio, afferrò la scopa e cominciò a spazzare lungo gli stretti corridoi che separavano i banchi. Ma Evilenko trovò da obiettare sul metodo. «Se non metti le sedie sui banchi, come credi di fare pulizia?» La bambina non replicò. Tirò su le sedie e ricominciò a spazzare svelta svelta, gli occhi bassi, il cuore in tumulto. Evilenko la stava osservando in silenzio. Poi, improvvisamente, bisbigliò qualcosa. Una sola parola. Una parola di tre sillabe. Puttana. Tonja sembrò non udirla. Ma l'insegnante la ripeté un'altra volta, con un tono di voce leggermente più alto. Puttana. La bambina continuò a pulire come se niente fosse. Allora Evilenko pronunciò quella parola ancora una volta. Ancora più forte. Puttana. Tonja si fermò. Rimase aggrappata al manico della scopa. Cominciò a singhiozzare. Evilenko sorrise.

Era una smorfia infantile. Il sorriso di un bambino cattivo. «Perché piangi, Tonja? Le puttane non piangono. Su, avanti, smettila di frignare. Vieni qui...» La bambina si avvicinò alla cattedra asciugandosi le lacrime. L'insegnante spalancò le sue lunghe braccia. Tonja vi si rifugiò per piangere ancora un po'. Evilenko la strinse al petto e cominciò ad accarezzarle i capelli. «Tu sei l'unica, Tonja. L'unica che mi conosce. Gli altri hanno paura di me, ma tu no. Perché tu lo sai quanto ti voglio bene, vero?» Tonja sbucò fuori dall'abbraccio. Aveva ancora gli occhi umidi. Ma ora sorrideva. «Che cosa stavi facendo vedere, prima, ai tuoi compagni, eh Tonja?...» chiese l'insegnante. La bambina si irrigidì subito. «Niente,» rispose. «A me non devi dire bugie, Tonja. Io ti ho vista. Lo sai che ti ho vista. Sei diventata tutta rossa. Proprio come adesso.» Tonja abbassò lo sguardo. Deglutì. Era di nuovo spaventata. Evilenko portò la mano alla tasca. Frugò in un mucchietto di spiccioli. Scelse la moneta più pesante. Una moneta da 50 copechi. «I segreti si pagano, è giusto. Ecco qui. Prendi.» L'insegnante strinse la mano della bambina attorno alla moneta. «E adesso fa' vedere anche a me. Sono proprio curioso di sapere se vale veramente quello che ho pagato...» Evilenko restò in attesa. Tonja aprì la mano. Guardò la moneta. Si sentì lusingata. Lanciò uno sguardo teneramente malizioso. Sollevò la veste con calcolata lentezza. E mostrò raggiante le ormai celebri mutandine rosse. Ma il suo sorriso candido si spense in un attimo. Perché ora anche Evilenko le stava facendo vedere qualcosa. Dai pantaloni dell'insegnante era improvvisamente evasa una protuberanza grigiastra e molliccia. «E' la prima volta che vedi un vero uomo, Tonja? Ti fa paura, eh?...Però ti piace anche, dì la verità...» Tonja non rispondeva. Era come ipnotizzata dal lungo verme che penzolava inerte tra le gambe di Evilenko. E l'insegnante si specchiava nella sua paura ricavandone un brivido di piacere. «Lo puoi toccare, se vuoi. Dammi la mano, vieni...»

Evilenko prese la mano di Tonja e la condusse verso quell'intruso. «Lui vuole fare amicizia con te. Mi ha detto che gli piaci, sai?... Vuole farti vedere che cosa succede se tu lo accarezzi... Può diventare grande, molto grande... e duro, durissimo, come l'acciaio. Se tu gli vuoi bene, se tu sei sincera con lui... lui è capace di fare qualsiasi cosa...» «Anche volare?» chiese Tonja. «Certo, Tonja. E tu, se non hai paura, potrai volare con lui.» «E' vero che sa parlare?» «Sì. Ma parla soltanto con me. Non si fida di nessun altro.» «Neanche di me?» «No. Di te si fida.» «Allora fallo parlare,» disse a bruciapelo la bambina. «Aspetta. Non avere fretta. Prima deve diventare grande...» rispose con un certo affanno Evilenko. «Stai dicendo una bugia. Non può diventare grande... E' morto!» La reazione di Tonja fu improvvisa e sconcertante. La bambina tirò indietro la mano e scoppiò a ridere. Continuò a fissarlo e continuò a ridere. Evilenko aveva le fiamme negli occhi. Si alzò di scatto e la afferrò per le braccia. Poi la sollevò in aria e la scaraventò sulla cattedra. Le tappò la bocca per impedirle di gridare. Le allargò le gambette. E tentò di farsi strada dentro di lei. Ma fortunatamente il suo attrezzo non tradiva la benché minima voglia di assecondarlo. Mentre Evilenko si accaniva su di lei, Tonja inseguiva disperatamente una impossibile via di scampo. La bambina cercava di artigliare il volto dell'insegnante, ma le braccine erano troppo corte e il bersaglio sembrava irraggiungibile. Le sue mani annasparono a lungo nell'aria. Poi crollarono sul ripiano della cattedra. Dove erano attese da una soluzione insperata. Il tagliacarte di Evilenko. Tonja lo afferrò. Lo impugnò. E riuscì a colpire con insospettabile forza il braccio di Evilenko. Andrej avvertì una fitta tremenda. Spalancò la bocca. Lasciò la presa. Portò istintivamente la mano in soccorso del braccio offeso. La bambina scivolò via passando in mezzo alle gambe dell'insegnante. Andrej udì la porta che sbatteva alle sue spalle. Era rimasto come pietrificato accanto alla cattedra. Guardava il sangue che usciva dal suo braccio.

Lo vedeva sgorgare tra le dita della sua mano. Evilenko cominciò a gemere con un filo di voce. Una vocina tremolante che saliva dagli ignoti abissi della sua anima. Come un vagito.

2 L'indomani, Grigorij Aleksandrovic Surinov mandò a chiamare Evilenko prima dell'orario delle lezioni. Surinov era il direttore della Scuola Internato numero 32. La piccola Tonja era già seduta dinanzi alla sua scrivania e gli stava raccontando per filo e per segno quel che era successo la mattina prima in classe. Surinov ascoltava con gli occhi sbarrati. Andrej sorrideva e scuoteva la testa. Per sua fortuna, quella sfacciata aveva accuratamente cancellato dall'elenco degli eventi il colpo che gli aveva inferto con il tagliacarte. Quando venne il suo turno, Evilenko espose con calma e sangue freddo la versione ufficiale dell'accaduto. «Ho semplicemente rimproverato Tonja perché si abbandona a comportamenti lascivi con i suoi compagni. Questa bambina rappresenta una turbativa costante per tutta la classe. Tonja non pensa ad altro che al sesso. E il fatto che ora mi accusi di aver tentato di violentarla ne è la prova, non ti sembra compagno direttore?...» Surinov sembrò tranquillizzato dalle pacate argomentazioni dell'insegnante. Guardò Tonja e le chiese in tono preoccupato cos'era che non andava, come mai sentiva il bisogno di inventare simili storie. Ma la bambina reagì con foga. E lanciò sul tavolo la sua carta segreta. «Gli ho dato una coltellata, prima di scappare. Gli chieda di vedere il braccio. Il braccio sinistro. Ci deve essere ancora il segno.» Evilenko esplose in una risata fragorosa, scomposta, liberatoria. Tonja invece crollò in lacrime. Il direttore la invitò a uscire dalla stanza. Ma una volta soli, Surinov chiese all'insegnante di mostrargli il braccio. Andrej si offese a morte. Cominciò a protestare. Disse che non intendeva assolutamente accettare di essere processato in base alle assurde accuse di una bambina isterica. E passò a illustrare una sua precisa teoria su quanto stava accadendo. «Tonja è stata aizzata contro di me dagli altri insegnanti, è questa la verità,» sentenziò Andrej. «Un complotto? E perché mai?» obiettò Surinov. «Come, perché?! Perché sono comunista, perché sono iscritto al Partito, perché rappresento una morale, perché non mi lascio corrompere. La gente ormai ci odia, compagno Surinov. Ancora non te ne sei accorto?... Possibile?... Da quando è comparso quel Gorbaciov, stanno succedendo cose terribili. Il

caos è alle porte, caro compagno. E noi comunisti abbiamo il dovere di fare qualcosa prima che sia troppo tardi.» Il direttore lo fissò a lungo prima di parlare. Quindi affermò, non senza imbarazzo, che continuava a voler vedere il suo braccio. Evilenko non rispose. Si limitò a guardarlo come si guarda un rinnegato. Serrò le labbra. Si esibì in una delle sue incontrollabili smorfie infantili. E da quel momento, Surinov evitò il suo sguardo. Gli comunicò che rifiutarsi di mostrare il braccio era pur sempre un suo diritto. Ma in tal caso, il direttore si aspettava da lui una lettera di dimissioni. Altrimenti, si sarebbe visto costretto ad aprire una regolare inchiesta sull'accaduto. Erano le otto di sera quando il compagno Andrej Romanovitch Evilenko, capo degli insegnanti della Scuola Internato numero 32, varcò per l'ultima volta il cancello dell'istituto di Novoshakhtinsk. La piccola Tonja lo osservava allontanarsi da dietro i vetri. Evilenko si inoltrò a piedi nella Striscia di bosco. Un sole rosso stava precipitando dietro le betulle. Nessuno poteva vederlo, ma Andrej singhiozzava. Piangeva proprio come un bambino.

3 L'investigatore Vadim Timurovitch Lesiev avanzava a fatica sul terreno melmoso. L'abito buono era già imbrattato di fango. La gruccia, poi, non serviva praticamente a nulla. Più lui ci si appoggiava, più quella affondava. Per fortuna, c'era Maja. Maja era forte come un toro. Ma Lesiev si vergognava un po' di arrivare all'appuntamento con la sposa sorretto da sua sorella. Mentre arrancavano negli orti, la vecchia casa di campagna si profilava all'orizzonte. Lo spiazzo antistante brulicava di gente. Li attendeva la curiosità delle donne, la diffidenza degli anziani, l'allegria dei bambini. Erano i Bakirov al gran completo. Una vera famiglia quella. Niente a che vedere con la sua. Eppure, i Bakirov e i Lesiev appartenevano alla stessa etnia. L'antica stirpe degli Ingusci, deportata in Siberia e sterminata da Stalin nel dopoguerra. I Lesiev furono letteralmente spazzati via dalla repressione. Ecco perché erano rappresentati unicamente da Vadim e Maja. Disgraziatamente, non ve ne erano altri disponibili. Tutti gli altri erano morti. I Bakirov inghiottirono Vadim in un attimo. Lo soffocarono di abbracci e lo ubriacarono di parole. Lui sorrideva a tutti ma continuava a guardarsi intorno. Non riusciva a individuare Rulana, la sua futura sposa. Aveva paura di non riconoscerla. In definitiva, non l'aveva vista che una volta, e solo di sfuggita, per la strada. Quando sua sorella, dopo tante insistenze, aveva infine acconsentito a mostrargliela. Quella volta, lei disse soltanto quattro parole. «Sono una donna libera.» Quattro parole che Vadim non riusciva a dimenticare. Maja lo informò che Rulana era ancora in casa. Si stava vestendo. Sarebbe uscita di lì a poco. Lesiev avvertì una stretta alla bocca dello stomaco. Non si era mai sognato di mettere in discussione gli usi e i costumi degli Ingusci. Aveva sempre pensato che un uomo privo di tradizioni non è neanche un

uomo. Ma improvvisamente gli sembrava piuttosto avventato questo matrimonio tra perfetti estranei. Se la stava facendo sotto. Lo assaliva la paura di non essere gradito a Rulana. E quella paura divenne autentico terrore quando provò a immaginare la lunga vita in comune che li attendeva. Fu proprio Rulana a interrompere il flusso di quei pensieri cupi. Vadim la vide uscire e gli parve bellissima. Fin troppo bella. Rulana era più bella di lui, più alta di lui, più orgogliosa di lui. E lui non sapeva se rallegrarsi o disperarsi. Perché l'atteggiamento della ragazza superava di gran lunga le sue più fosche previsioni. Rulana era una gatta ribelle. I fratelli la sospingevano a forza. Quando passò accanto al futuro sposo lo guardò dall'alto in basso con una smorfia di disprezzo. Vadim udì perfettamente ciò che la ragazza diceva all'orecchio della madre. «Non mi piace. E' storpio. Non lo voglio!» Il padre si affannò a spiegare che Lesiev era un grande atleta, che aveva subìto un infortunio, che era una cosa da niente. Vadim avrebbe voluto sparire sotto terra. Chiese a Maja come si poteva fermare quella pazzia di matrimonio. La sorella lo ammonì severamente. «Hai già dimenticato la promessa che abbiamo fatto a nostra madre sul letto di morte? Tu ti devi sposare e ti sposerai. Ricordati che io sono la maggiore. Non puoi discutere le mie decisioni, Vadim Timurovitch.» Lesiev provò a replicare. «Ma non la vedi? Mi odia.» Allora Maja sorrise e pronunciò una frase che secondo lei avrebbe dovuto incoraggiarlo. «Non ti preoccupare, fratellino. Vedrai, la piegheremo...» Il pranzo non fu memorabile. Nonostante i nuvoloni che incombevano minacciosi, la tavola era stata apparecchiata all'aperto. Il vecchio sacerdote invitato dai Bakirov mangiava a testa bassa senza scambiare parola con nessuno. I fratelli della sposa erano già piuttosto alticci. Trascorsero tutto il tempo a raccontare barzellette sul matrimonio, che avevano per protagonisti mariti inevitabilmente stupidi e becchi. E siccome tutti finivano sempre per guardare Vadim, lui si sforzò di

sorridere. Maja ogni tanto gli dava un pizzicotto. Lo voleva mettere al corrente delle fugaci occhiate amorose della sua futura moglie. Ma dovevano essere occhiate fin troppo fugaci. Perché Vadim non riuscì mai a incontrare il suo sguardo. Rulana non aveva toccato cibo. Non smetteva un attimo di fissare il cielo. Stava probabilmente invocando in cuor suo un temporale, un uragano, una qualche fine del mondo. Fortunatamente non piovve. Ma ciò che stava per accadere aveva il potere di spaventare Vadim più del diluvio universale. Finito il pranzo, tutti entrarono nella dacia. In soggiorno, il sacerdote impartì gli ordini agli sposi. Li fece accomodare ai due angoli opposti della stanza. Li obbligò a sedere in terra. Spiegò loro che dovevano rimanere lì tre giorni e tre notti, praticamente immobili, sotto la stretta sorveglianza dei congiunti. Questi ultimi avrebbero provveduto a servire loro due pasti al giorno, da consumarsi sul posto. Anche per andare al gabinetto era necessaria l'autorizzazione dei parenti. E Vadim non osò neppure chiedere il permesso di fumare. Il prete disse infine la cosa più importante. A Vadim e Rulana era fatto assoluto divieto di parlarsi o di toccarsi. La benché minima infrazione a questa regola avrebbe automaticamente comportato l'annullamento della promessa di matrimonio. Naturalmente, nessuno sollevò obiezioni. I familiari lasciarono la stanza. Vadim e Rulana restarono soli. Soli per modo di dire. Ai parenti correva l'obbligo di sorvegliarli dalle finestre, come sentinelle, minuto per minuto. I Bakirov avevano già stabilito turni di quattro ore. E Maja andò a occupare la sua postazione con l'eroica consapevolezza di dover restarci tre giorni e tre notti. Prima che venisse buio, Lesiev tentò varie volte di catturare lo sguardo di Rulana. Inutilmente. La ragazza dirottava sempre gli occhi altrove. Provò anche a sorriderle. Suscitando soltanto le risatine perfide di un fratello di lei che stava appostato alla finestra. Vadim pensò di non meritare una simile umiliazione. Maledì il suo antico popolo e la sua solenne tradizione.

Ma subito dovette pentirsi. A un tratto si rese conto che quel rito in apparenza così rigido lasciava in realtà una notevole libertà agli sposi. Era sufficiente una parola, una sola parola, per mandare a monte tutto. Sarebbe bastato che lei gli dicesse «Ti amo,» oppure «Va all'inferno,» e ognuno avrebbe fatto ritorno a casa propria. Già. Ma allora perché Rulana non ne approfittava? Perché se ne stava zitta e buona nel suo cantuccio, senza tuttavia ricambiare il suo sguardo? Chissà. Forse temporeggiava. Forse aveva già freddamente deciso di rifiutarlo solo all'ultimo momento. Forse stava aspettando proprio l'attimo in cui Vadim si sarebbe azzardato a pensare che ormai lei gli apparteneva. Quella prospettiva gli sembrò atroce. Nient'affatto improbabile, però. E non c'era modo di scongiurarla. A questo punto, l'unica cosa che Vadim poteva fare era mettersi a gridare per primo e mandare così tutti quanti al diavolo. Ma accantonò l'idea. Rulana si era appena addormentata.

4 Fenja era già vestita per uscire. Ma stava ancora lottando con un grosso cavolo che non ne voleva sapere di entrare in quella pentola bollente. La donna finì per scottarsi una mano. Poi lanciò un'occhiata alla vecchia sveglia che ticchettava sopra il frigorifero. Segnava le sette e venti. Suo marito Andrej Romanovitch Evilenko stava ancora facendo colazione. Non accennava ad alzarsi. Era tutto preso dalla lettura del giornale. «Muoviti, Andrej. Farai tardi a scuola,» disse Fenja. «Non vado più a scuola,» rispose Evilenko senza staccare gli occhi dal giornale. Fenja rimase a fissarlo senza capire. Finalmente, Evilenko alzò lo sguardo. «Ho dato le dimissioni, moglie. Stasera, quando torni, ti spiego.» Ma Fenja si era già messa a sedere. «Ora non c'è tempo. Su, non voglio che arrivi tardi al lavoro per colpa mia...» obiettò Andrej. Fenja reagì scuotendo il capo. «Cosa vuoi che me ne importi, Papocika? Dimmi piuttosto...» «Non c'è poi molto da dire,» esordì Evilenko. «Ho dato le dimissioni perché ho fatto una terribile scoperta. Reggiti forte, Fenja. Anche il direttore fa parte del complotto.» Fenja rimase di sasso. «Ma cosa dici? Surinov?...» «Proprio lui. C'è dentro fino al collo. Anch'io non volevo crederci, ma è così. Sono tutti d'accordo. Ormai è una vera e propria cricca. Fanno propaganda anticomunista, hanno sabotato i metodi di studio, stanno corrompendo i ragazzi. Non mi credi? Sta' a sentire... L'altro giorno un alunno ha chiesto all'insegnante di scienze che cos'è il comunismo. Vuoi sapere la Tablinova come gli ha risposto?... «E' il progetto di una società in cui tutti sono uguali. Ma è solo un'utopia. Cioè, un progetto irrealizzabile». Hai capito? Ti rendi conto a chi è affidato il compito di formare gli uomini di domani?» Fenja si mostrò persino più scandalizzata di Andrej. «Cosa intendi fare? La denuncerai, spero.» «Ho fatto molto di più, Fenja. Sono andato da Surinov e gli ho presentato una lettera di dimissioni. Gli ho detto che se si consentiva a una nostra insegnante di fare impunemente dell'anticomunismo in classe, a me non restava che lasciare l'incarico.» Fenja pendeva dalle sue labbra.

«E lui che ha risposto?» La bocca di Evilenko si dilatò nella sua inconfondibile smorfia. «Quel porco ha accettato le dimissioni.» «Ma no, no, come è possibile?!» commentò la moglie indignata. «E' pazzesco!... Devi andare subito a dire tutto al Partito!» «Lo farò, Fenja, lo farò. Ma devo stare attento. Molto attento. Come vedi, non c'è più nessuno di cui fidarsi. I nemici del popolo diventano ogni giorno sempre più numerosi. Si annidano ovunque. Anche nei luoghi più insospettabili. Anche al Cremlino, Fenja. Che ti avevo detto di Gorbaciov, eh? E tu che non mi volevi credere...» Fenja si alzò. Si avvicinò al marito. Lo invitò a poggiare la testa sul suo seno grande, tiepido, accogliente. «Lo so, Andrej. Avevi ragione. Ma proprio per questo non ti puoi arrendere adesso. Devi continuare a batterti. Devi far capire al Partito quello che sta succedendo. Io sono convinta che i compagni neanche se ne rendono conto. Stanno sempre chiusi nei loro uffici, non hanno contatto con la gente. Qualcuno deve convincerli ad aprire gli occhi. Tu puoi farlo. Sei una persona importante, hai studiato, sei iscritto al Partito. Vedrai, loro ti ascolteranno. Perché non fai una bella lettera? Tu sai scrivere così bene, Andrej. Io mi sono innamorata di te per le tue lettere, ricordi?» Evilenko lasciò cadere una lacrima sul seno della moglie e si alzò. «Adesso vai. E' tardi...» Andrej accompagnò Fenja alla porta e la baciò sulla fronte prima di congedarla. Non appena fu solo, cominciò a passeggiare per la casa come un animale in gabbia. In quell'appartamento non c'era molto da fare. Era la solita anonima abitazione nel solito anonimo condominio. Due stanzette, una piccola cucina e un bagno. Col trascorrere dei minuti, Andrej si sentì assalire da una incontrollabile frenesia. La sua improvvisa libertà stava diventando sempre più ingombrante, sempre più inutile, sempre più intollerabile. Evilenko uscì dal caseggiato, attraversò il cortile e fece subito naufragio in strada. Rimase a lungo impalato sul marciapiede ad osservare il fiume umano che scorreva veloce. Tutta quella gente sapeva certamente dove era diretta. Lui invece non ne aveva la più pallida idea. Decise allora di salire sull'autobus. Uno qualsiasi. Poi un altro. E un altro ancora. Mentre vagava per la città, ebbe modo di fare alcune scoperte interessanti.

La popolazione di Rostov se la passava molto meglio di quanto immaginava. Molto meglio di lui, se non altro. Alle dieci, in pieno orario d'ufficio, le vie erano incredibilmente affollate di gente. Tutti sembravano avere qualcosa da vendere o qualcosa da comperare. Erano commerci illegali. Si svolgevano così, in pieno giorno, a ogni angolo di strada. Gli capitò di veder passare di mano in mano le merci più disparate e più ambite. Vodka, Lucky Strike, Pepsi Cola, spaghetti italiani, preservativi. Osservò una ragazza che smerciava delle strane scatole. Somigliavano a pacchetti di sigarette, ma erano decisamente troppo grandi. Il marchio stampato a caratteri cubitali sugli involucri non gli diceva niente. C'era scritto Tampax. Ma ciò che più lo colpì fu la vista di un ragazzo, poco più di un bambino, che stringeva in pugno un mucchietto di banconote. Non erano rubli. Erano dollari. Quelli gli era già capitato di vederli in qualche sciocca pellicola americana. Evilenko provava un senso di ribrezzo. Era sconvolto nel constatare a che punto era arrivata la corruzione e lo angosciava in particolar modo il fatto che le autorità non muovessero un dito per impedirla. Gli tornarono in mente le parole di Fenja. Sua moglie aveva ragione. Lui che aveva studiato ed era iscritto al Partito doveva assolutamente fare qualcosa. E al più presto. Bisognava pensare innanzitutto ai più giovani. Erano loro i primi da salvare. Andrej stava riflettendo su tutte queste cose quando si rese conto di trovarsi fuori città, in una grande strada deserta e polverosa. Era sceso dall'autobus quasi senza accorgersene. Ora, se voleva tornare a Rostov, doveva attraversare. Doveva andare ad aspettare l'autobus che faceva servizio nella direzione opposta. Sul ciglio della strada, c'era già qualcuno in attesa alla fermata. Era una bambina. Una bambina bionda con due grandi occhi neri. Aveva con sé i libri di scuola. Evilenko le domandò a che ora sarebbe passato l'autobus. La piccola rispose che non sapeva. Disse che aveva perso per un soffio quello che prendeva di solito. In quel momento stava cominciando a piovere. Per fortuna, Andrej aveva con sé l'ombrello. La bambina no.

Allora lui la invitò a ripararsi. Le chiese come si chiamava, che scuola faceva e con quale profitto. Poi, a un tratto, le propose di attraversare la Striscia di bosco. «Non ci conviene rimanere qui sotto il diluvio. E' meglio se ti accompagno io a casa. Laggiù c'è la mia macchina. Sono pochi minuti a piedi. Gli alberi ci ripareranno, vedrai. Eppoi, non piace anche a te l'odore dell'erba bagnata?...» Tenendosi per mano, l'uomo e la bambina si incamminarono verso la Striscia di bosco. Lei non poteva sapere che Andrej Romanovitch Evilenko non aveva mai posseduto un'automobile.

5 La piccola dacia nei pressi di Gukovo era immersa nella penombra. Ma il cielo si andava facendo sempre più pallido nei riquadri delle finestre. Le sentinelle dormivano. Rulana era accovacciata sul pavimento e teneva gli occhi chiusi. La sua mano continuava ad agitare un ramoscello. Fustigava lentamente le gambe nude per scacciare le zanzare. Vadim Timurovitch Lesiev era accasciato contro il muro. Pareva il fratello gemello della sua stampella. Stava lì da tempo immemore senza riuscire a dormire né tantomeno a mangiare. Il cibo languiva nella scodella deposta ai suoi piedi. Se lo stavano litigando varie tribù di insetti. Vadim non riusciva a staccare gli occhi da Rulana. La guardava da tre giorni e tre notti. Era diventata la sua droga. Gli sembrava l'unica femmina sulla faccia della Terra. Qualunque fantasma di donna scompariva nel paragone con lei. Quei capelli fluenti e ribelli, quel viso imbronciato e misterioso, quelle mani sottili e affusolate, quelle gambe lunghe come un giorno senza pane. Vadim Timurovitch conosceva ormai il suo incubo nei minimi particolari. E sapeva di non poter più tornare indietro. Se Rulana intendeva ancora respingerlo, giurò a se stesso che non avrebbe mai più guardato una donna per tutta la vita. A un tratto la porta si spalancò. Un'orda di parenti invase a stanza. Il sacerdote invitò gli sposi ad alzarsi. Lei fu subito in piedi. Lui venne issato dai presenti come un monumento ai caduti che stava per essere portato di peso all'inaugurazione. La cerimonia fu breve ed essenziale. Vadim si sentiva sempre sul punto di svenire. Rulana disse infine sì. Però i suoi occhi continuavano a ringhiare. I familiari uscirono alla spicciolata. Gli sposi restarono soli. Finalmente soli. Finalmente liberi di parlarsi e di toccarsi. Vadim non sapeva proprio dove trovare la forza e il coraggio per farsi avanti. Ma inaspettatamente fu lei a fare la prima mossa. Rulana lo abbracciò brutalmente.

Lo travolse fino a farlo cadere. Lo schiacciò sotto il peso di una insospettabile passione. In quel momento Lesiev si sentì l'uomo più felice del mondo. Ma una sua mano vagava sorniona fuori della mischia. Stava cercando la gamba sinistra. Così, tanto per verificare se era ancora affezionata al suo corpo. Non tutti i Bakirov erano andati via. Alcuni stavano ancora appostati alle finestre. Si godevano lo spettacolo. Ma non avevano fatto i conti con la sorella dello sposo. Maja disponeva ancora di una notevole riserva di energia. Quanta ne occorreva per difendere suo fratello da tutti quei parenti già così importuni.

6 Andrej era seduto alla scrivania. Fenja attraversò la stanza in punta di piedi. Accarezzò la nuca del suo adorato marito e uscì senza fiatare. Egli udì distintamente la porta di casa che si richiudeva. Il vecchio Poljot che teneva al polso segnava le otto meno un quarto. Evilenko aveva appena cominciato a scrivere una lunga lettera. «Caro compagno Gorbaciov, noi tutti siamo convinti che tu stai agendo in buona fede, ma forse non hai valutato attentamente le conseguenze della tua avventura politica. Di questo passo, tutto ciò per cui tanto abbiamo lottato andrà irrimediabilmente distrutto. Chi ti scrive è un compagno che ha dedicato la sua vita al Partito. Il mio nome è Andrej Romanovitch Evilenko...» La sua calligrafia era molto ordinata, piuttosto aguzza, piena di guglie. Andrej alzò gli occhi dal foglio. Cercò ispirazione fuori della finestra. Sull'albero più vicino era appollaiata una cornacchia. Il ramo agonizzava sotto il suo peso. Sembrava un'aquila reale. Le cornacchie di Rostov sono le più grandi del mondo. Non è una leggenda. Stava scritto anche sulla «Pravda». Il grande cortile del condominio a quell'ora era deserto. Dalla finestra di Evilenko si poteva vedere soltanto un bambino. Un bambino molto piccolo. Stava giocando con un gattino nero. Lo teneva per la coda. Voleva a tutti i costi infilargli un bastoncino proprio lì, nel di dietro. E' incredibile quanto riescano a essere crudeli alle volte i bambini. Quella mattina, poco fuori città, Lilja Ostilova stava attraversando la Striscia di bosco numero 137. Era una vecchia contadina. Portava la zappa sulle spalle. Camminava di buon passo per raggiungere il suo fazzoletto di terra. Ma prima di arrivare a destinazione fece un brutto incontro. Le capitò di vedere qualcosa che non avrebbe mai potuto dimenticare. Fu un'immagine che la lasciò impietrita nel mezzo del cammino. Si trattava di una bambina bionda. Aveva due grandi occhi neri spalancati nel vuoto. Era completamente nuda. Quel piccolo corpo, squarciato dall'inguine allo sterno, stava attorcigliato a una betulla.

Ma delle viscere non vi era traccia. La base del tronco trasudava sangue. Era come la polena di una nave alla deriva.

7 Il primo maggio del 1989, i coniugi Evilenko avevano deciso di rimanere in casa. Eppure era una splendida giornata. La giornata ideale per fare una scampagnata o andare a trovare qualcuno. Il guaio era che nessuno li aveva invitati. Più che un guaio, si trattava di una triste consuetudine. Quindi non c'era ragione di farne un dramma. Fenja ne approfittò per dedicarsi alle pulizie generali. Andrej restò incollato alla radio ad ascoltare i tradizionali comizi della Festa dei lavoratori. Evilenko era cambiato parecchio negli ultimi tre anni. Naturalmente appariva invecchiato. Portava occhiali dalle lenti più spesse, aveva perso qualche capello e il suo fisico era appesantito dall'ozio. Ma era anche diventato molto più robusto e sembrava persino più alto. A parte gli occhiali, niente ricordava l'intellettuale. La stazza era quella di uno scaricatore di porto. Le mani grandi e ruvide facevano pensare a un tagliaboschi. Nel primo pomeriggio, bussarono alla porta. Fenja andò ad aprire. C'era un uomo sul pianerottolo. Era basso e tarchiato. Aveva con sé una valigetta. «Andrej Romanovitch Evilenko...abita qui?...» chiese con voce incerta. Fenja lo lasciò entrare. Andrej lo squadrò con diffidenza. L'ometto si presentò. Si chiamava Tabakov. Disse che lavorava al Cremlino senza specificare in cosa consistesse il suo lavoro. Veniva appunto da Mosca. Si era sobbarcato quasi venti ore di treno solo per incontrare Evilenko. Senza contare che era il primo maggio. «Per chi fa il nostro lavoro non esistono feste e non esiste famiglia,» sospirò. Ma continuava a guardarsi bene dal dire che diamine di lavoro faceva. Andrej era lusingato e spaventato al tempo stesso. Anche Fenja era rimasta col fiato sospeso. Si era rifugiata in cucina. Ma stava origliando. «A che debbo questo onore?» domandò Evilenko. Tabakov si limitò a sorridere. Poi aprì la valigetta. Mostrò un pacco di lettere tenute insieme da un fiocco nero. Erano tutte lettere sue. Erano le lettere che Andrej aveva spedito in quegli anni a Gorbaciov, al Soviet supremo, al Comitato centrale e a chissà quanti altri pezzi grossi del Partito. Evilenko si irrigidì.

Chiese a Tabakov come doveva interpretare la sua visita. «Come una risposta alle tue lettere, caro compagno,» disse con un ghigno ineffabile l'uomo venuto dal Cremlino. Andrej ne sapeva meno di prima. Che razza di risposta era? Dove voleva andare a parare quel tizio? Che altro conteneva la sua valigetta? Forse un provvedimento disciplinare del Partito, un ordine di sospensione della sua tessera o addirittura un mandato di arresto. Una sola cosa era certa. Tabakov non si era scomodato unicamente per vedere che faccia aveva il compagno Evilenko. E allora tanto valeva tenere duro e morire da uomini. Andrej ribadì con fermezza le sue critiche al nuovo corso del Partito, al compagno Gorbaciov, alla perestrojka. Poi passò a illustrare il degrado morale del paese. E infine elencò tutte le ingiustizie subite. Raccontò a suo modo come era andato via dalla Scuola Internato di Novoshakhtinsk. Spiegò che a causa di quelle dimissioni gli veniva ora negato un impiego degno del suo titolo di studio. Quindi tacque. Rimase ad aspettare che il cielo gli crollasse sulla testa. Tabakov rispettò il suo silenzio. Lo fissò a lungo prima di parlare. Non era un tipo che sprecava le parole. Inaspettatamente, disse che condivideva buona parte delle critiche di Evilenko. L'uomo venuto dal Cremlino affermò che sì bisognava riconoscerlo, erano venuti tempi grami per i veri comunisti. Evilenko non credeva alle sue orecchie. Tabakov era d'accordo con lui. E gli stava già offrendo un lavoro. Un posto alle ferrovie dello Stato. «E' un lavoro semplice ma piuttosto delicato. Ti dico subito che probabilmente non è un impiego all'altezza dei tuoi titoli e delle tue capacità, compagno Evilenko. Ma mi farebbe un enorme piacere se tu lo accettassi. Consideralo un piccolo risarcimento per tutti i torti che hai patito. Tieni conto che potrai viaggiare. A te piace viaggiare, Andrej Romanovitch?...» Andrej era troppo emozionato per rispondere. Riuscì soltanto a sorridere. Quella smorfia isterica, senza labbra e senza denti, per un attimo fece smarrire a Tabakov il filo del discorso. Ma si riprese subito e filò dritto allo scopo. «Quando sarai in viaggio, dovrai prendere molti appunti. Abbiamo bisogno di sapere come si muove la gente, dove va, cosa fa, come la pensa. Anche il più piccolo particolare è importante per capire tante cose che possono succedere prima che succedano. Quando rimarrai in sede, invece, avrai il

compito di controllare il funzionamento dell'ufficio. Se c'è qualcuno che non fa il suo lavoro, qualcuno che abusa del suo potere, o qualcuno che ruba, tu non devi avere pietà, capito? Puoi prendere servizio da lunedì qui, nella sede di Rostov. Il dirigente della sezione si chiama Bagdasarov. Ma il tuo superiore sono io. E' a me che devi rispondere. Soltanto a me. Mi aspetto da te un resoconto ogni fine del mese, compagno Evilenko.» Quando richiuse la valigetta, Tabakov sembrò dimenticare le lettere di Andrej. Le lasciò sul tavolo. Poi, mentre stava uscendo, prese un cartoncino dalla tasca interna della giacca e lo diede a Evilenko. Era il suo biglietto da visita. «Colonnello Yuri Tabakov, Direzione Generale del K.G.B. Lubjanka 36. Mosca».

8 Gli alberi sfilavano veloci e sempre uguali nella luce del finestrino. Quel ragazzino aveva con sé i libri di scuola. Erano già le dieci passate. Troppo tardi per entrare in classe, troppo presto per uscirne. Lui non sembrava affatto preoccupato. Continuava imperturbabile a trafficare con le dita nel naso. Tutto quello che riusciva a reperire nelle narici veniva catturato e condannato ad ammuffire nel luogo più inaccessibile alla vergogna. Sotto il sedile. Il moccioso poteva agire indisturbato. Nel compartimento non c'era nessuno. A parte Evilenko. Ma Evilenko stava leggendo il giornale. Andrej sembrava completamente immerso nella lettura. In realtà, in quel momento nella sua testa stava succedendo il finimondo. Le parole scritte sul giornale erano come impazzite. Si scatenavano in associazioni prive di senso. Si isolavano e si ingrandivano minacciose. Entravano in collisione fra loro. Saltavano via dal foglio come le schegge di una bomba. Evilenko stava sudando freddo. Si tolse gli occhiali. Si stropicciò le palpebre. Ripiegò il giornale. Allungò una mano per aprire uno spiraglio del finestrino. E fu allora che incontrò lo sguardo del bambino. Andrej lo fissò a lungo prima di rivolgergli la parola. «Quanti anni hai?» gli chiese. «Undici,» rispose lui. Ma poi aggiunse: «Quasi undici.» «Io mi chiamo Andrej. E tu?» «Pavel Aleksandrov,» affermò solenne il bambino. «Scommetto che hai fatto sega a scuola, Pavel Aleksandrov,» disse Evilenko con un sorriso obliquo. «Non è vero. Sto andando a trovare mia zia che è molto malata.» «Il risultato non cambia. A quest'ora dovresti essere a scuola, no?» «No. Mi hanno dato il permesso.» «E allora spiegami come mai ti porti appresso i libri.» Pavel arrossì. Guardò i suoi libri e li maledì in silenzio. Ma Andrej si mostrò improvvisamente complice. «Hai fatto bene. Tanto che ci si va a fare a scuola di questi tempi? E' perfettamente inutile. Ormai a scuola non insegnano più niente di valido.» Il ragazzino sembrava ancora diffidente. Evilenko decise di rassicurarlo.

«Non ti preoccupare. Non devi aver paura di me. Io non farò la spia. Ma mi chiedo come ti regolerai quando passerà il controllore...» Pavel prese dalla tasca lo scontrino ferroviario e glielo mostrò. Evilenko gli rise in faccia. «Ma no, che ci fai con quello? Il controllore ha sempre tutti i nominativi di quelli che non sono andati a scuola.» Il bambino cadde dalle nuvole. Allora Andrej continuò a prendersi gioco di lui. «Come, non lo sai? Ti spiego come funziona. Tutti gli istituti fanno la conta degli assenti e portano l'elenco alla stazione più vicina. Ne danno una copia ai controllori. E i controllori sono incaricati di riportare a scuola tutti gli scolari che trovano sui treni. Capito?» Pavel impallidì. Scattò subito in piedi. «Scendo alla prima fermata,» disse. «Non ce la farai. La prossima fermata è fra mezz'ora. Il controllore passerà sicuramente prima di allora,» puntualizzò Evilenko. Pavel si accasciò sul sedile. Aveva lo sguardo smarrito nel vuoto. Si mordeva un labbro. Sembrava un topolino in trappola. Ma la trappola doveva ancora scattare. Evilenko gli venne in aiuto. Gli consigliò di andare a chiudersi nel gabinetto. Gli garantì che sarebbe sopraggiunto a liberarlo dopo il passaggio del controllore. Il ragazzino non se lo fece ripetere due volte. Lasciò il compartimento e si precipitò in fondo al corridoio. La toilette, per fortuna, era libera. Nella fretta, Pavel aveva dimenticato i suoi libri. Andrej si alzò e aprì tutto il finestrino. I libri spiccarono il volo come uno stormo di uccelli spaventati. Evilenko tornò a sedersi. Ora doveva aspettare. Soltanto aspettare. Appena un po'. Una decina di minuti potevano bastare. Ma non era facile. Una frenesia improvvisa si era impadronita di lui. Le sue mani stavano tremando. Il suo cuore batteva sempre più veloce. Gli mancava l'aria. Si sentiva letteralmente soffocare. Eppure il finestrino era spalancato. Evilenko barcollò lungo tutto il corridoio. Arrivò infine al gabinetto. Verificò che non vi fosse anima viva nei paraggi. Bussò tre volte come aveva stabilito. La porta si aprì. Apparvero due occhietti spiritati.

Andrej entrò. Un minuto dopo, dietro la porta chiusa, si levò un lungo grido che nessuno poté udire. Al grido seguirono dei colpi. Colpi sempre più forti. Colpi che squassavano le pareti, il lavandino, lo specchio. Poi, ad un tratto, il silenzio. Il volto di Evilenko riflesso nel mosaico dello specchio infranto sembrava l'incubo di un pittore folle. Si stava lavando le mani, strofinandole accuratamente. Un vecchio rasoio a serramanico era poggiato sul bordo del lavandino. La lama era sporca di sangue. Andrej sbirciò l'orologio per sapere da quanto si trovava dentro il gabinetto. Quando l'ansia lo assaliva, il tempo si fermava e non aveva più senso. Ma tutto perdeva senso, in quei momenti. O forse acquistava un altro senso. Un senso primitivo, trascendente, assoluto, superiore a qualunque realtà. Prima di uscire, Evilenko diede un ultimo sguardo alla scena del delitto. Le pareti del gabinetto erano striate di sangue. La tazza era divelta. Un grande buco nero si affacciava sull'inferno delle rotaie. Del piccolo, indisciplinato scolaro Pavel Aleksandrov non esisteva più neanche il ricordo. Mentre il treno rallentava, Andrej divorò a lunghi passi un corridoio dopo l'altro. Era quasi giunto alla motrice. E la motrice stava entrando in stazione. Una stazioncina qualsiasi. Evilenko scese dal treno. Attraversò la sala d'aspetto. Nessuno lo notò, ma perdeva sangue. Colava dal soprabito. Precisamente dalla tasca destra. Era gonfia. Conteneva qualcosa. Qualcosa di innominabile. Con una sinistra euforia che gli deformava il volto, Evilenko uscì dalla stazione e puntò verso la Striscia di bosco. Il suo regno. Il regno del mostro di Rostov.

9 La famiglia Lesiev stava trascorrendo un breve periodo di vacanza nella vecchia dacia vicino Gukovo. Mentre Rulana si occupava delle faccende di casa, Vadim giocava nell'orto con la figlia. Mariam era il nome che avevano scelto per lei. Aveva appena compiuto due anni. E suo padre, inutile dirlo, stravedeva per la bambina. Mariam correva ma non riusciva ancora a rompere il passo. Vadim la inseguiva e le tendeva agguati. Saltava fuori dai nascondigli minacciandola con voce cavernosa. La assaliva gridandole «Vieni qui che ti mangio!» Lei era spaventata e felice. Rideva eccitata e ripeteva sempre ancora, ancora, ancora. Il gioco quel giorno finì presto. Vadim, a un tratto, non prestò più attenzione a Mariam. Aveva notato una macchina bianca che si era fermata in fondo al sentiero. Aveva visto scendere un uomo di una certa età, vestito di nero. Mentre lo osservava arrampicarsi su per il pendio che conduceva alla dacia, lo riconobbe. Era Oleg Eduardovitch Civadze. Il giudice Civadze. Un suo superiore. Ma anche qualcosa di più. Anzi molto di più. Civadze era il suo vecchio maestro. Quando Civadze arrivò a destinazione, Rulana apparve sulla soglia e Mariam andò a nascondersi dentro la sua sottana, facendo sembrare la mamma uno strano animale eretto su quattro zampe. «Complimenti per la tua bella famiglia, Vadim Timurovitch...» disse il magistrato dopo aver ripreso fiato. Lesiev notò che Civadze portava una bottiglia sotto il braccio. «Grazie Oleg Eduardovitch, ma non ti dovevi disturbare. In casa la vodka non manca mai.» Civadze lo guardò sornione. «Cerca di capire. Non mi posso mica fidare di uno che non beve.» «Vogliamo entrare?» chiese Vadim. «No, perché? C'è il sole, si sta meglio fuori. Che ne dici di sederci sotto quell'albero che sembra più vecchio di me? Però, per prima cosa, mi dovrai portare un bicchiere.» Vadim entrò in casa e tornò con il bicchiere. Andò a raggiungere Civadze sotto un leccio malandato. «E' la gelata dell'anno scorso che l'ha ridotto così. Ma non ho il coraggio di abbatterlo,» disse l'investigatore. «Con la fortuna che mi ritrovo, speriamo che non cada proprio adesso...»

commentò il giudice mentre apriva la sua bottiglia. «E' successo qualcosa?» chiese Vadim. «Succede che mi mandano in pensione,» rispose Civadze. «Ma va bene così, non mi lamento. Ormai ho i miei anni e sono stanco di questo lavoro. Certo, avevo sempre pensato che sarebbe finita in modo diverso. Perdere un incarico per la prima volta alla mia età, non è facile da mandare giù. Ce ne vorrà un bel po', di vodka.» «Quale incarico?» «Quant'è che manchi da Rostov, Vadim Timurovitch?» «Tre anni... più o meno.» «Allora non puoi sapere niente. E' un caso che si chiama Striscia di bosco. Una brutta rogna.» «Ah, sì. Ho capito.» «Ne hai sentito parlare?» «Sì, una volta. Si tratta di un mostro che ammazza i bambini, è così?» «Non soltanto bambini. Anche donne. Purché siano molto giovani, ovviamente.» «Quante persone ha ucciso?» «Tu quante ne sai?» «Tre o quattro, se ricordo bene.» «Sono molte di più. Quando ha cominciato, era una ogni tre mesi. Ma poi, visto che andava tutto liscio, ha incrementato l'attività. Ultimamente, è arrivato a commettere anche due omicidi in un mese.» «Quanti sono in tutto?» domandò Vadim. Civadze lo guardò senza rispondere. Buttò giù d'un fiato tutta la vodka che si trovava nel bicchiere. E infine disse. «Ventidue.» Vadim rimase a bocca aperta. Ma non fece commenti. Era perfettamente inutile. Qualunque cosa avesse detto, sarebbe stata insufficiente. Civadze, intanto, aveva riempito di nuovo il bicchiere. Ora stava parlando a ruota libera. «Lo so, è pazzesco. Ma la cosa più assurda è che non esiste una pista da seguire, non c'è un testimone, non abbiamo uno straccio di indizio, siamo completamente inermi. Questo bastardo va in giro a massacrare la gente e noi non siamo capaci di prenderlo. Non riusciamo neppure a capire come fa. Si sposta continuamente, colpisce dappertutto. L'altro giorno sono dovuto andare a Leningrado. Ha ucciso una bambina anche laggiù.» «Ma come fate a sapere che è sempre lui?» chiese Vadim. «Questa è l'unica cosa certa,» rispose Civadze. «La sua firma è inconfondibile. Se vedessi cosa fa alle sue vittime... Nessun altro ne sarebbe capace. E' persino sbagliato dire che le ammazza. Infatti, non le ammazza. Le stupra, le fa a pezzi, e se le mangia. La morte viene

dopo, è una semplice conseguenza.» «Se le mangia?!» chiese allibito Lesiev. «Sì, Vadim Timurovitch, se le mangia,» disse l'anziano magistrato mandando giù un altro sorso di vodka. «Certe volte le divora mentre sono ancora vive. Altre volte taglia quello che gli interessa e se lo porta via. Credo sia inutile dirti quali sono le parti che considera più appetitose. Le lascio alla tua immaginazione...» «Ma come è possibile?» «Non lo so. Non me lo chiedere. Non saprei nemmeno dirti se è un essere umano. A questo punto sto cominciando a pensare che sia una creatura venuta da un altro pianeta.» «Però, qualche elemento per le indagini lo dovete pur avere. Se stupra le sue vittime, immagino che ci saranno tracce di sperma. E da quelle potrete almeno risalire al gruppo sanguigno,» osservò Vadim. Civadze sorrise. Ma era un sorriso amaro. «E' la prima cosa che abbiamo fatto, ragazzo mio. Lo sperma dell'assassino è di gruppo 2. Di conseguenza, anche il sangue dovrebbe appartenere al gruppo 2. Dico dovrebbe perché, dopo che abbiamo selezionato tutti i sospetti secondo il gruppo sanguigno, un mese fa è arrivata una circolare che smentisce tutto il nostro lavoro. Un istituto di ricerca, giapponese mi pare, ha stabilito che un uomo può avere il sangue di un certo gruppo e tutte le altre secrezioni, come lo sperma, il sudore o la saliva, di altri gruppi. E così, dopo più di due anni, siamo ancora al punto di partenza.» Civadze si apprestava a riempire nuovamente il bicchiere. Ma constatò che la bottiglia era quasi a metà. Allora pensò al viaggio di ritorno e decise che era più opportuno soprassedere. Lesiev aveva appena acceso una sigaretta. Stava riflettendo. Sembrava preoccupato. «A cosa stai pensando?» gli chiese il superiore. «Mi sto chiedendo perché sei venuto fin qui a raccontarmi tutto questo, Oleg Eduardovitch,» rispose Vadim. «E sei riuscito a trovare una risposta?» «Forse.» «Avanti, di'. Vediamo se è quella giusta.» «No. Non mi piace tirare a indovinare. Sei tu che devi dire.» L'anziano ufficiale sbuffò. Riacciuffò la bottiglia prendendola per il collo. «Te lo dico se bevi un goccio con me.» «Mi dispiace. Lo sai che non bevo.» «Sei fortunato, Vadim Timurovitch. Dalle mie parti, nel Caucaso, ti farebbero bere per forza,» disse Civadze prima di mandare giù la vodka. Poi guardò negli occhi Lesiev e sputò il rospo. «E' inutile che stiamo a girarci intorno. Ti dirò quello che vuoi sapere. Al

momento di lasciare l'incarico del caso Striscia di bosco ho posto una condizione. Una sola. Ho detto che volevo decidere io chi sarebbe stato il mio successore. E' stata una battaglia, ma almeno questa l'ho vinta. Ho portato molti argomenti e alla fine hanno accettato il nome che avevo fatto. Adesso tu vorrai sapere questo nome... Ma tanto lo hai già indovinato, Vadim Timurovitch Lesiev.» Vadim non disse nulla. Si limitò ad aggrottare la fronte. «Certo, puoi sempre dire di no. Ma sarebbe un errore. Sei giovane, hai studiato, hai stoffa, puoi farcela. La tua età, ti confesso, all'inizio è stato un problema. Ma io avevo la risposta pronta. Sai che cosa gli ho detto ai capi?... Guardate Gorbaciov. Non vedete che ormai tutto il paese è in mano ai giovani? Allora dategli fiducia, diamine! Altrimenti, non si capisce perché io dovrei andare in pensione. Se mi dovete sostituire con un altro vecchio rincoglionito come me, tanto vale che rimanga io... Ho fatto proprio un bel discorso, sì. E alla fine hanno dovuto abbozzare.» «Perché proprio io?» chiese Vadim. «Per tanti buoni motivi,» rispose Civadze. «Dimmene uno, uno qualsiasi.» «Perché sei iscritto al Partito.» «Ci sono tanti altri investigatori iscritti al Partito.» «Non più tanti, purtroppo. E tu sei di gran lunga il migliore.» «Dimmene un altro, per favore.» «Ne vuoi un altro? Va bene. Te ne dirò uno che forse ti sembrerà strano. L'ho tirato fuori per ultimo, quando non sapevo più a cosa aggrapparmi. E invece è stato importante, direi quasi decisivo. La tua famiglia... Sì, non fare quella faccia. E' la verità. Sei stato scelto perché hai una bella famiglia, Lesiev.» Vadim guardò Civadze e guardò la bottiglia. Per quanto si sforzasse, non riusciva a capire. «E adesso cosa c'entra la mia famiglia?» «C'entra ragazzo mio, eccome se c'entra,» disse Civadze. «Se non lo indovini mi fai rimangiare quello che ho detto, mi costringi a pensare che non sei un bravo investigatore.» Vadim continuava a non capire. Allora Civadze gli indicò la bambina che sgambettava sul prato. «Come si chiama tua figlia?» «Mariam...,» rispose Vadim. E mentre pronunciava il nome di sua figlia, un lungo brivido gli attraversò la schiena. Il vecchio maestro lo guardò. Capì che aveva capito. Ma voleva esserne certo. «Sono i bambini spensierati e indifesi come Mariam che in questo momento

si trovano in pericolo, caro Vadim Timurovitch...»

10 Il 4 luglio del 1989, la famiglia Lesiev si trasferì a Rostov. Vadim dovette faticare abbastanza per convincere Rulana. La spuntò grazie a un vile argomento. L'aumento di stipendio. Non era una gran somma. Ma ora che Mariam cominciava a crescere, quei pochi soldi diventavano indispensabili. Eppoi c'era la Zhigulì. Era la macchina dell'ufficio, non gli apparteneva, ma aveva pur sempre quattro ruote e un motore. L'automobile avrebbe semplificato notevolmente le loro gite alla dacia nei pressi di Gukovo. Non avrebbero più dovuto trascorrere ore e ore a bordo di vecchi pullman lenti e malandati. Anche perché non si sarebbero più mossi da Rostov fino alla soluzione del caso Striscia di bosco. Ma questo Rulana non lo poteva sapere. Come era naturale, Vadim non disse a sua moglie quale terribile incarico gli era stato affidato. E il 9 luglio, alle otto in punto, l'investigatore si presentò al distretto di polizia. Entrò da un ingresso secondario. Il suo ufficio si trovava al seminterrato. Lesiev era obbligato a lavorare in un'atmosfera un po' clandestina. Ciò dipendeva dal fatto che il caso Striscia di bosco doveva rimanere assolutamente riservato, persino negli stessi ambienti della polizia. Vadim constatò che gli avevano messo a disposizione tre stanze ingombre di scartoffie, due linee telefoniche perennemente intasate e una decina di collaboratori del tutto sfiduciati. Inutile protestare. Questo passava il convento. D'altra parte, quale fervore si poteva pretendere da uomini costretti a convivere per più di due anni con tante foto di piccoli cadaveri mutilati appese alle pareti? Il rebus che dovevano risolvere era sintetizzato in un incredibile campionario di carne umana. A tutti i corpi mancava puntualmente qualcosa. Il più delle volte erano gli organi genitali. Ma poteva trattarsi anche di altro. I frammenti rinvenuti sui luoghi dei delitti erano catalogati a parte, in foto più piccole. Ne veniva fuori un enorme puzzle. A chi apparterranno questi grandi occhi che sembrano due uova in camicia? E questa lingua bianca come il latte? Sarà di quella biondina che si chiamava Tatjana? O non sarà invece del piccolo Pavel? L'unico rifugio era la follia. La stessa follia che aveva voluto tutto questo. Se si cercava di combattere la sensazione di orrore che quella rassegna

suscitava, si poteva soltanto fingere che i corpi fossero semplici oggetti e che tutto facesse parte di un assurdo gioco. Per prima cosa, Lesiev radunò il suo staff e fece un breve discorso di insediamento. Cercò di risollevare il morale della sua truppa spiegando che non era colpa di nessuno se le indagini finora non avevano fornito risultati apprezzabili. «In genere, quando cerchiamo un criminale, sono i suoi stessi reati a indicarci quale può essere la pista da seguire. Gli elementi concreti su cui si basa il nostro lavoro sono la circostanza in cui è maturato il delitto, il probabile movente e i rapporti che intercorrevano tra l'assassino e la vittima. Ma ora questi elementi ci vengono negati perché abbiamo a che fare con un criminale di tipo particolare. Lui sceglie a caso le sue vittime. Le conduce in luoghi dove non vi sono testimoni e dove non sarà possibile raccogliere impronte digitali o altri indizi. Quanto al movente, ciò che scatena la furia omicida del maniaco sessuale non è la rapina o la vendetta. Non si tratta di qualcosa che la vittima gli ha detto o fatto, o qualcosa che essa possiede. L'assassino uccide per motivi che non sono razionali. E invece noi lavoriamo secondo metodi razionali. Quindi, è evidente che lui ha un certo vantaggio su di noi. Però questo non ci deve scoraggiare. Al contrario. Le difficoltà ci devono spingere a migliorare i nostri metodi di indagine. Non so perché, ma in questi giorni, a forza di pensarci, credo di aver capito una cosa. Ho pensato che se vogliamo veramente prendere questo mostro, d'ora in poi noi dobbiamo cercare di metterci mentalmente nei suoi panni, dobbiamo fare lo sforzo di ragionare come ragiona lui. Pertanto, prima di cominciare a lavorare insieme, ho una richiesta da farvi. Tutti voi vi occupate di questo caso da molto tempo, ormai. Perciò ritengo che ognuno si sarà fatto, in questi anni, una sua precisa opinione. Ecco, io vorrei conoscere prima di tutto le vostre impressioni personali. Dite pure tutto ciò che vi è capitato di pensare, anche le cose che possono sembrarvi senza importanza.» Nessuno aprì bocca. Tutti i subalterni guardavano il capo in silenzio. Lesiev decise di insistere. «Su... Avanti... Chi vuole parlare?...» «Io!» L'uomo con la mano alzata era piuttosto massiccio e aveva la fronte bassa. Era il sottufficiale anziano. Aveva fama di non ridere mai. Si chiamava Frolov. «Io avrei una domanda, Vadim Timurovitch...» «Falla« rispose Vadim. «Vorrei soltanto che lei mi spiegasse come si fa a mettersi mentalmente nella testa di un pazzo cannibale frocio assassino,» chiese Frolov abbassando

la mano. Lesiev si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. «Giustissimo, Frolov. Hai messo il dito nella piaga. Ti risponderò con un'altra domanda. Come fa un uomo solo a essere tutte queste cose insieme?» Il tenente Ramenskij, unico ufficiale del gruppo, balzò in piedi. «Ah, no. Questo no. Su questo non ci piove. Abbiamo fallito su tutta la linea, lo riconosco, ma almeno questo non si discute. E' un uomo. Un uomo solo. Ed è sempre lo stesso uomo.» Anche Frolov si alzò per ribadire la stessa tesi. Il sottufficiale anziano parlava del mostro di Rostov con un misto di orrore e di ammirazione. «Lui ha una tecnica precisa, inconfondibile. Prima taglia. Appena vede il sangue, morde. Poi stupra. Stupra e mangia allo stesso tempo. E gode come una bestia. E' questo il nostro uomo. Stia pur certo che un altro così non esiste sulla faccia della Terra.» «Tutto questo è molto interessante, Frolov. Ma non ci porta lontano. Noi abbiamo bisogno di sapere perché uccide,» osservò Vadim. «Se vuole altri particolari, può chiederli a Boris...» disse il sottufficiale anziano. Boris Maksimovitch Amitrin stava seduto un po' in disparte. Era giovane, curvo, mingherlino, e portava una barbetta bionda. Sulle sue esili spalle gravava il peso del lavoro di gran lunga più sgradevole. Amitrin era il medico legale del gruppo. Vadim non gli chiese nulla. Si limitò a fissarlo. E allora Boris cominciò a parlare. «Perché uccide? Lo sa soltanto lui perché. Noi non lo sappiamo. Ma sono convinto che, anche se lo sapessimo, non lo capiremmo. Perché nessuno di noi potrebbe fare quello che fa lui. Per nessun motivo al mondo,» disse il dottore scuotendo la testa. Vadim lo guardò preoccupato. «Posso condividere lo stato d'animo, dottor Amitrin. Ma non l'atteggiamento. Se questa è la nostra posizione di fronte al caso che dobbiamo risolvere, la battaglia è persa in partenza. Torno a ripetere che è importante fare il massimo sforzo per capire questo assassino, altrimenti non lo prenderemo mai.» L'agente Nikitin, il più giovane del gruppo, fu il primo a sintonizzarsi. «C'è un fatto di cui siamo certi ma è una cosa che ancora non riusciamo a spiegare. Il fatto è questo. Lui non usa la violenza quando adesca le sue vittime e le porta nella Striscia di bosco. Non le trascina con la forza, nossignore. Sono loro che decidono di andare con lui. Evidentemente si fidano. Sembrano perfettamente consenzienti. Quindi, a me verrebbe da pensare che...» Nikitin non riuscì a completare il suo ragionamento. Il telefono aveva squillato una volta sola. Il dottor Amitrin, che era il più

vicino all'apparecchio, aveva afferrato subito la cornetta e ora stava ascoltando in silenzio. Ma la sua fronte increspata non prometteva buone nuove. Quando depose il ricevitore, Boris disse poche parole con un filo di voce. «Hanno trovato una donna, vicino all'aeroporto, ad Aksai... E' lui...» Irina Radinova non era una donna. Era poco più che una bambina. La madre la stava cercando da diversi giorni. Ora gridava, piangeva, e voleva vederla a ogni costo. Ma gli agenti che circondavano la Striscia di bosco numero 23 avevano la consegna di non lasciar avvicinare nessuno. Il cadavere di Irina si trovava nudo e disteso nel fitto della vegetazione, accarezzato dal vento che correva tra le betulle. Aveva soltanto tredici anni. Forse ne dimostrava di più. Ma chi poteva dirlo adesso? Le gambe erano state come divelte dal corpo. Il pube era trafitto da un grosso ramo che si ergeva al di sopra dell'erba alta. La bocca era spalancata. Era colma di terra e di foglie. Brulicava di vermi e di insetti. «Guardi come è gonfia, Vadim Timurovitch... E' tutta piena di terra,» disse il dottor Amitrin raccogliendo un tronchetto robusto lungo appena una ventina di centimetri. «Deve aver usato questo per ficcargliela dentro. Le ha riempito i polmoni, lo stomaco, l'intestino, tutto. Ci sarà voluto un sacco di tempo. A occhio e croce direi che ci ha passato la notte. Se la prende comoda, il bastardo. Tanto sa che nessuno può venire a disturbarlo. Lui qui è come un leone nel suo territorio.» «Tracce di sperma?» chiese Vadim. «Non lo so. Dovrei prima rimuovere il ramo,» rispose Amitrin. «E allora lo tolga.» Il giovane medico legale sembrava in imbarazzo. Abbassò gli occhi mentre rispondeva. «Ci ho già provato, ma non ci sono riuscito.» «Ho capito. Si faccia aiutare.» «Pensavo di portarla via così.» «Sta scherzando, dottore? A cento metri da qui, dietro quegli alberi, c'è la madre di questa disgraziata. Vuole che quella donna veda sua figlia infilzata come un trofeo di caccia?» «Va bene. E' solo che... credevo che l'esame dello sperma non fosse più così importante. Come forse saprà, tempo fa è arrivata una circolare. Pare che in Giappone...» «Lo so, lo so. Non mi interessa quello che dicono in Giappone. L'esame dello

sperma è importante come prima. Anzi, più di prima.» «Ma se non possiamo risalire al gruppo sanguigno?» «Non importa. Vorrà dire che agli individui sospetti preleveremo direttamente lo sperma.» «Ma... ma non si è mai fatto...» «D'ora in poi si farà. Lo sperma dell'assassino è l'unica cosa che abbiamo, dottor Amitrin. Non è molto, ma è tutto il nostro capitale. Quindi, si sbrighi a togliere quel ramo prima che venga buio.» Mentre il medico elemosinava aiuto per la penosa incombenza, Frolov stava finendo di scavare la buca per il galleggiante. Il galleggiante è una comunissima bottiglia. Ci si infila dentro un biglietto con la data del ritrovamento e le generalità della vittima, quindi viene seppellita a pochi centimetri dal cadavere. Era la vecchia tecnica dei naufraghi. E rendeva bene l'idea. Perché Lesiev e i suoi uomini non avevano molte più probabilità di trovare l'assassino di quante ne poteva avere ai suoi tempi Robinson Crusoe di avvistare una nave all'orizzonte. La stanza era avvolta nella penombra. La finestra era aperta. La tenda ondeggiava dolcemente sospinta dal vento. La donna era grassa e doveva avere una certa età. Stava immobile su una vecchia sedia. Non aveva un volto. Ma Vadim intuì che era spaventata. E le parole che vennero dopo confermarono i suoi sospetti. «Ti prego, prendilo, ti scongiuro...» disse a un tratto la donna senza volto. «Non c'è più tempo da perdere. Devi prenderlo, Vadim Timurovitch. Altrimenti mio marito ucciderà anche me. Lui ha saputo che tu gli stai dando la caccia e adesso... adesso mi guarda in modo strano...» Improvvisamente una lama di luce attraversò la stanza. Apparve la sagoma di un uomo alto e massiccio. Avanzava lentamente, senza far rumore, alle spalle della donna. Vadim notò che pure lui non aveva un volto. Ma scoprì anche un'altra cosa. L'uomo stringeva in pugno un grosso coltello da cucina. La donna era sempre più spaventata. Ma non sembrava accorgersi del pericolo incombente. Continuava a supplicare sottovoce l'investigatore. «Devi fare presto... Ti prego... Vieni... Fai presto... Presto!» Vadim lanciò un grido disumano e balzò a sedere sul letto. La moglie spalancò gli occhi e lo guardò terrorizzata. Lesiev era tutto sudato e stava ansimando. «Che succede?!» chiese spaventata Rulana. «Niente, niente. Soltanto un brutto sogno,» rispose Vadim. Anche Rulana si tirò su e si mise a sedere. Passato lo spavento, sembrava incuriosita. «Dai, raccontamelo. Lo sai che mi piacciono i sogni...»

«No...non posso. L'ho dimenticato.» «L'hai già dimenticato? Così in fretta? Come è possibile?» «Te l'ho detto, era un brutto sogno. Sarà per questo che l'ho cancellato subito,» disse Vadim con una gran faccia di bronzo. Rulana lo guardò con divertita diffidenza. «Lascia perdere. Non le sai dire le bugie, Vadim Timurovitch. Tu stavi sognando un'altra donna, ecco la verità.» «Sì. Ma era vecchia, brutta e grassa. Perciò, non hai motivo di essere gelosa,» disse Vadim con un sorrisetto colpevole. «Uhm... Ammesso e non concesso, si può sapere che faceva questa donna?» insisté Rulana. Prima di rispondere, Vadim diede un'occhiata alla sveglia. Erano le tre passate. «Ma non hai proprio voglia di dormire, dùscenka?» Lesiev la chiamava sempre così, «animuccia», quando voleva tagliare corto. «Io veramente dormivo benissimo. Sei tu che mi hai svegliata.» «E scommetto che adesso non riesci più a riaddormentarti, è così?» «Bravo. Hai indovinato. Se non mi racconti che cosa combinavi con la tua vecchia amante brutta e grassa nel tuo sogno, prevedo che sarà molto difficile riprendere sonno.» Vadim la attirò dolcemente contro il suo corpo. «E va bene. Se proprio non si dorme, si può sempre fare qualcosa di meglio.» «No. Non si può.» «Perché?» «Lo sai che ho le mestruazioni.» «E allora? Facciamolo lo stesso.» «Ma che ti prende? Sei matto?...» «Non ci vedo niente di male...» «Infatti non c'è niente di male. Fa soltanto schifo.» «A me non fa schifo.» «Che strani gusti hai, Vadim Timurovitch. Mi chiedo chi frequenti, ultimamente.» «Credevo fossi una donna libera...» disse Vadim per stuzzicarla. Rulana non lo ascoltava più. Fissava la porta della camera da letto che si stava aprendo lentamente. «Guarda un po'... Eccola qui, la tua amante ufficiale...» Una vocina spaurita sussurrò una parola magica. «Papocika....» Vadim si voltò di scatto. Vide la piccola Mariam che attraversava la stanza svelta svelta a piedi nudi. La sentì intrufolarsi nel letto. Se la ritrovò tra le braccia che pretendeva le coccole. Mentre la saziava di baci e di carezze, notò che Rulana si era girata

dall'altra parte. Stava già dormendo. O almeno così sembrava.

11 La mattina del 24 novembre 1989, Andrej Romanovitch Evilenko era seduto alla sua scrivania presso l'ufficio approvvigionamenti delle ferrovie di Stato a Rostov. Sbadigliava continuamente. Sembrava molto giù. Aveva le unghie sporche, i vestiti stropicciati e le stanghette degli occhiali tenute insieme con il nastro isolante. Andrej non viaggiava più da diverse settimane. Il capufficio era molto irritato con lui. Stava ancora aspettando i resoconti scritti delle sue ultime tre missioni di lavoro a Shakhty, a Belgorod e a Zaporozje. Bagdasarov non poteva sapere che Evilenko aveva un altro resoconto, molto più urgente, da redigere. Era il rapporto mensile per il suo segreto datore di lavoro. Il colonnello Tabakov del K.G.B. Il funzionario capo dell'ufficio approvvigionamenti era un uomo all'antica. Con i suoi baffoni stirati e il completo nero sempre impeccabile, pareva una figura letteraria, arcaica, prerivoluzionaria. Un notaio dei primi del Novecento. Ecco cosa sembrava. E le favole che circolavano sul suo conto erano all'altezza del personaggio. Correva voce che possedesse tre dacie sparse nella regione e una Mercedes metallizzata con lo chauffeur. Si diceva anche che tutte le impiegate più giovani e più carine erano passate prima o poi a rendergli omaggio sotto la sua scrivania. Ma lui non badava alle chiacchiere. Anzi, spesso le incoraggiava. Bagdasarov era fondamentalmente un uomo molto vanitoso. Evilenko non riusciva a combinare niente da giorni e giorni. Il capufficio gli ronzava sempre attorno. A volte si piazzava dietro le sue spalle e restava immobile a spiarlo, per un tempo che sembrava interminabile. In quei momenti, Andrej non capiva più niente. Rischiava sempre di dire o fare sciocchezze. Come quella volta che chiese alla Stepanova, la sua dirimpettaia di scrivania, se poteva chiudere l'armadio. E quando quella domandò perché, tutto ciò che gli venne in mente di rispondere fu: «Perché fa corrente». Evilenko non aveva fama di essere particolarmente spiritoso. Perciò la risposta gli valse il titolo, da tempo vacante, di «scemo dell'ufficio». Quel giorno, Bagdasarov gli dava il tormento peggio del solito. Era la fine di novembre, e il funzionario capo aveva deciso di trascurare il bilancio di fine

anno pur di sorvegliare Evilenko. Si era piazzato come sempre in piedi alle sue spalle, e da quella postazione chiacchierava con gli altri impiegati, tanto per darsi un contegno. Ma Andrej sapeva benissimo che l'interesse del capufficio era tutto per lui. E infatti, di lì a poco Bagdasarov si chinò. Andò a frugare tra i suoi piedi, sotto la scrivania. Aveva adocchiato una busta. Una grande busta di plastica. Conteneva degli indumenti. Una giacca, una camicia e un paio di pantaloni. Davanti a tutti, il capufficio tirò fuori i vestiti dalla busta con la punta delle dita e, come tutti, inorridì. Perché i vestiti di Andrej erano fradici e sporchi. Erano zuppi di sangue. «Cosa fa nel tempo libero, Evilenko? Si diletta in omicidi?...» chiese Bagdasarov. Per fortuna, tutti risero. E anche Andrej accennò un sorriso. Ma il suo sorriso aveva sempre il potere di spegnere l'allegria altrui nel raggio di un chilometro. «Ho aiutato un amico ad ammazzare il maiale, stamani all'alba» rispose lui. Il funzionario capo infilò i vestiti nella busta e la riconsegnò ad Andrej. «Caro Evilenko, mi domando perché mai si ostina a fare l'impiegato se ha questa spiccata vocazione contadina. Non ha mai sentito dire che lavorare la terra rende molto di più? Comunque, cerchi di non essere egoista. Veda di portare qualche salsiccia. Lo considererò un piccolo risarcimento per tutte le pratiche che non ha ancora sbrigato...»

12 La sera del 31 dicembre 1989 faceva un freddo cane. Nevicava senza sosta da tre giorni. Vadim Timurovitch decise di rimanere in casa con Rulana, la piccola Mariam e sua sorella Maja che era venuta a trascorrere il Capodanno a Rostov. C'era una festa da ballo al commissariato, ma Lesiev declinò l'invito. Sapeva che la sua presenza non sarebbe stata gradita. Il bilancio dei primi cinque mesi di indagini non era poi del tutto negativo. Il mostro di Rostov era diventato guardingo. Aveva ucciso solamente due bambini e una ragazza da quando Lesiev si occupava del caso Striscia di bosco. Non c'era motivo di rallegrarsi. Però, se non altro, la media si era sensibilmente abbassata. Ma in quei mesi era successo un altro fatto. Un fatto piuttosto grave che aveva pregiudicato i rapporti tra l'investigatore e tutto l'ambiente della polizia. Ai primi di dicembre, in una Striscia di bosco, Lesiev e i suoi uomini avevano trovato una giovane donna agonizzante. Era una prostituta. Il suo assassino l'aveva pugnalata 21 volte. Si era buscata 11 coltellate nei polmoni, ma era ancora viva. Lesiev capì immediatamente che l'autore di quello scempio non era il mostro di Rostov. Ma fece finta di credere che potesse trattarsi del suo uomo. Vadim trascorse due giorni e due notti al capezzale della ragazza. Riuscì a strapparle soltanto pochi e inutili monosillabi. Anche le sue corde vocali erano state recise. Allora l'investigatore si armò di una telecamera e cominciò a perlustrare il quartiere dove lei abitualmente esercitava il suo mestiere. Lo aveva visto fare in un film americano di cui non ricordava più il titolo. Nascosto in un furgone, Vadim filmò per giorni e giorni tutte le prostitute, tutti i clienti, tutti i passanti. Quando ebbe finito, tornò in ospedale, fece installare un televisore nella stanza della ragazza e le mostrò tutto il materiale che aveva girato. Dopo ore e ore di immagini, lei finalmente riconobbe, fra tanti insignificanti primi piani, il volto del suo aggressore. Per Lesiev fu un piccolo trionfo. Ma anche una grande tragedia. Perché l'uomo che aveva inflitto 21 coltellate alla giovane prostituta non era un tizio qualsiasi. Era un uomo ombroso che Vadim incrociava quasi ogni giorno sulle scale del commissariato. Un poliziotto.

Il sergente Nikita Denisovitch Starov, soprannominato Roccia. E il bello era che tutti i colleghi sapevano da tempo in che modo Roccia arrotondava lo stipendio. Sfruttando le prostitute. Un vero duro, Roccia. Decise di evitare il processo servendosi dell'espediente più drastico. Prima di riconsegnare la pistola d'ordinanza, si tirò un colpo alla tempia. Proprio sotto gli occhi di Vadim. Da quel momento al commissariato non vi furono più sorrisi, parole o cenni di saluto per l'investigatore Lesiev. Tuttavia Vadim non era per nulla amareggiato. Quella occasionale indagine coronata da successo lo aveva comunque ripagato delle continue frustrazioni del caso Striscia di bosco. E aveva riacceso, con l'anno nuovo che stava arrivando, la speranza di toccare con mano anche il protagonista di tutti i suoi incubi.

13 Mancavano pochi minuti alla mezzanotte. Aveva smesso di nevicare, ma il termometro segnava diciotto gradi sottozero. Il giovane agente Vladimir Nosov prestava servizio attorno alla Striscia di bosco numero 244 nei pressi di una località chiamata Sultan-Saly, a circa trenta chilometri da Rostov, e non sapeva nemmeno perché. Ordini superiori esigevano che i poliziotti messi a presidiare quei luoghi fossero del tutto ignari dell'esistenza del mostro di Rostov. Quella notte il bosco era davvero magico. Un silenzio totale e irreale dominava il paesaggio. La luna era uscita dalle nuvole così grande da poterla toccare. E la sua luce rendeva abbagliante il manto di neve. Vladimir era solo. Macinava chilometri camminando su e giù lungo il perimetro del bosco. Non poteva assolutamente fermarsi. Se lo avesse fatto, avrebbe corso il rischio di morire assiderato. Certo non era il modo migliore di trascorrere il Capodanno. Eppure Nosov si era offerto volontario. Aveva appena scoperto che la sua fidanzata se la intendeva con un altro. La solitudine, il freddo pungente e una bottiglia di champagne georgiano dovevano sembrargli, tutto sommato, degli ottimi rimedi per sbollire la rabbia. Vladimir stava controllando sul quadrante del suo Raketa l'ultimo giro della lancetta dei secondi. Fece saltare il tappo dello champagne a mezzanotte in punto. Fu come una cannonata in quel silenzio. Quando afferrò il collo della bottiglia e si apprestò a bere, udì un grido. Proveniva dal fitto della boscaglia. Era acuto e dolente. Sembrava il lamento di un uccello ferito. Ma aveva un suono mai sentito prima. Per quanto si sforzasse, Vladimir stentava a riconoscerlo. O forse aveva troppa paura di riconoscerlo. L'agente Nosov rimase immobile e in silenzio per alcuni attimi. Finché udì di nuovo il grido. Allora dimenticò la bottiglia e si addentrò nel bosco. Muoveva lunghi passi tra le betulle. I suoi pesanti stivali non facevano nessun rumore sulla neve fresca e soffice. Era come camminare su un altro pianeta. Mentre avanzava, il grido sembrò venirgli incontro. E finalmente Vladimir lo riconobbe. Adesso era più vicino. Adesso era più chiaro. Non era veramente un grido. Era una parola. Sempre

la stessa parola. La parola più vecchia dei mondo. Una parola di due sillabe. Due sillabe perfettamente identiche. Mamma. Il poliziotto impugnò la pistola e allungò il passo. Puntava in direzione del grido. Non era distante. E laggiù, tra quegli alberi, si stava addensando una leggerissima nebbiolina che sembrava guidarlo. Quando giunse a destinazione, il suo cuore si fermò all'istante. Vladimir era decisamente troppo giovane e troppo impreparato per ciò che ebbe la sventura di vedere. Laggiù la neve era scura. La nebbiolina era originata dal fiato di un essere che sarebbe stato intollerabile definire uomo. Era alto e robusto. Era completamente nudo. Si dimenava come un serpente sopra un corpo infinitamente più piccolo e fragile. Il bambino che invocava la sua mamma rantolava debolmente sotto quel peso. Al posto degli occhi, aveva due cavità buie e sanguinanti. Scandiva il tempo che lo separava dalla fine della sua agonia muovendo ritmicamente il capo contro una grossa radice. Quell'essere che lo stava divorando si era aperto un varco nelle sue viscere e si stava ingozzando. Aveva il volto affondato nella carne palpitante. E la sua bocca era immersa nel sangue denso e fumante. Quando Andrej Romanovitch Evilenko sollevò la testa, i suoi grandi occhi bianchi incrociarono lo sguardo del poliziotto. Il mostro di Rostov gli sorrise. L'agente Nosov aveva il revolver puntato e il dito sul grilletto. Ma dentro di lui c'era soltanto l'ansia di fuggire. La pistola gli scivolò di mano e precipitò sulla neve scura. Vladimir cominciò a correre fra gli alberi come un animale impazzito, travolgendo tutto ciò che poteva sbarrargli il cammino.

14 Il 2 gennaio, l'investigatore Lesiev uscì di casa più presto del solito. Trovò la Zhigulì sepolta sotto trenta centimetri di neve. Ma per fortuna era stato previdente. Quando aveva visto arrivare la grande nevicata, era sceso a staccare la batteria e l'aveva portata in casa. Prima di recarsi al commissariato, doveva passare in tribunale. Il procuratore generale di Rostov, Leonid Grigorievitch Novikov, lo aspettava nel suo ufficio non più tardi delle otto. Era stato Vadim a insistere per ottenere quell'appuntamento. Voleva chiedere al giudice l'autorizzazione a rendere pubblico il caso «Striscia di bosco». Sapeva che sarebbe stata un'impresa ardua, forse impossibile. Ma aveva intenzione di dare battaglia. Era convinto che non si poteva più nascondere l'esistenza del mostro lasciando ignara, e soprattutto inerme, la popolazione di Rostov. Lesiev nutriva una piccola, segreta speranza di raggiungere il suo scopo. Il giudice Novikov non era un pachiderma della vecchia nomenklatura. Era giovane, e non faceva mistero delle sue posizioni radicali. Era un simpatizzante di Boris Eltsin. I comunisti chiamavano gli uomini di Eltsin «cow-boys.» A Vadim non piaceva affatto Eltsin. Ma sapeva che un radicale avrebbe ascoltato senza pregiudizi le sue argomentazioni. Quando l'investigatore entrò nell'ufficio del giudice, Novikov gli venne incontro con un insolito sorriso. Aveva fama di essere un tipo severo e taciturno, ma ora sembrava piuttosto allegro. Gli diede la lieta novella senza inutili preamboli. «L'anno comincia bene, Lesiev. Forse l'abbiamo preso.» Vadim rimase senza fiato. Riuscì a dire soltanto una piccola parola. «Quando?!» «Ieri, a Sultan-Saly. Ha sbranato un bambino.» «Chi è?!» Il giudice gli lanciò un sguardo complice. «Si tenga forte, Lesiev. E' un poliziotto. Ma per noi non fa nessuna differenza, dico bene?...» Pochi minuti dopo, Novikov e Lesiev si recarono insieme al commissariato. Scesero nei sotterranei. E presero posto fuori dell'Acquario. L'Acquario è una camera di sicurezza. Si chiama così perché è provvista di un falso specchio che permette di osservare da fuori, senza timore di esser visti, chi vi si trova rinchiuso. L'agente Vladimir Nosov indossava una camicia di forza.

Era legato, con quella, a una seggiola. Era sporco di sangue. Era scalzo. E cantava. Mentre il giudice e l'investigatore lo stavano osservando da dietro lo specchio, il sergente di polizia Lev Rudènko li ragguagliava sulle circostanze dell'arresto. «Quando siamo andati a dargli il cambio, lo abbiamo trovato disteso in mezzo alla strada. Era completamente nudo, pieno di graffi, tutto insanguinato...» «Ha fatto resistenza?» chiese Novikov. «Oh, no. Si è messo a cantare. Proprio come adesso,» rispose Rudènko. «E il bambino, come lo avete trovato?» domandò Lesiev. «E' stato facile. Come la caccia al tesoro. Abbiamo notato i vestiti di Nosov sparsi nel bosco. Era tutto coperto di neve, si vedevano benissimo. La pistola stava proprio accanto al cadavere. Ma non aveva sparato. Infatti, ha usato un coltello per ucciderlo.» «Ha confessato?» chiese Novikov. «No. Non ancora...» rispose il sergente. Acquario era una definizione ineccepibile. Le pareti dello stanzone erano tutte cariate dall'umidità. Negli interstizi del pavimento cresceva una strana specie di muschio. E il freddo si insinuava implacabile nelle ossa. Mentre Novikov subissava di domande Vladimir Nosov, Lesiev accendeva una sigaretta dietro l'altra. Era seduto in disparte. Stava sfogliando un dossier che conteneva le foto del bambino trovato a Sultan-Saly. Le caratteristiche dell'omicidio erano le solite. L'assassino quello di sempre. Non c'era ombra di dubbio. Il piccolo cadavere poteva essere senz'altro catalogato come il decesso numero 28 del caso «Striscia di bosco.» Ma Vadim era convinto che Nosov non poteva essere il mostro di Rostov. Aveva solo 21 anni. Troppo giovane. Dormiva in caserma. Troppo controllato. E soprattutto, aveva seminato un incredibile numero di prove. Troppo facile. Novikov stava perdendo la pazienza. L'interrogatorio sembrava senza sbocchi. Nosov non aveva mai risposto, neppure una volta, alle sue domande. Continuava a piagnucolare e a ripetere, come in una litania, sempre la stessa parola. Mamma, mamma, mamma... Quando uscirono dalla camera di sicurezza, il giudice aveva un diavolo per capello. «Se quello crede di salvarsi facendo il matto, si sbaglia. Prosegua lei l'interrogatorio, Lesiev. Io ho un'udienza. Tornerò nel pomeriggio...» «Posso esprimere un'opinione personale, Leonid Grigorievitch?» disse

Vadim. «Ma certo. Il caso è suo.» «Secondo me non è lui.» Novikov si irrigidì. Poi, lentamente, si sciolse in un sorriso. «Anche secondo me. Lei però continui a interrogarlo. Ci vediamo più tardi.» L'investigatore rientrò nell'Acquario. Andò a sedersi di fronte al giovane poliziotto. Lui stava guardando il soffitto e frignava. Vadim lo fissò a lungo in silenzio. Poi, a un tratto, scattò in piedi e gli mollò uno ceffone. La seggiola traballò e infine cadde con tutto il suo contenuto. Nosov lanciò delle urla isteriche. Vadim si gettò su di lui e gli tappò la bocca. Il ragazzo si dimenava come un ossesso. Ma Lesiev gli parlò sottovoce, con molta calma. «Stammi bene a sentire. Lo so che non l'hai ammazzato tu, quel bambino. Quindi non hai niente da temere. Io credo che tu, tu eri lì, tu devi aver visto qualcosa. Forse hai visto l'assassino. E' così?» Vadim gli liberò la bocca per lasciarlo parlare. Ma Nosov esplose in un grido disumano. Allora l'investigatore richiuse con forza quell'antro di dolore e ritentò. «Va bene, facciamo così. Io ti porto qui l'assassino, te lo faccio vedere e se lo riconosci, tu mi rispondi soltanto sì. D'accordo?» Nosov lo guardava con occhi spiritati. Vadim stavolta non si fidò ad aprirgli la bocca. «Se sei d'accordo, non me lo devi dire. Mi basta un cenno. Se ti sta bene la mia proposta, ti chiedo soltanto di chiudere gli occhi... Adesso...» Lo sguardo di Nosov diventò improvvisamente liquido e torbido. Le palpebre calarono pesantemente sui suoi occhi esausti. Nei giorni che seguirono, l'investigatore esaminò a fondo tutte le pratiche del caso Striscia di bosco. Lavorò giorno e notte sui dossier degli indiziati. Erano più di duecento. Buona parte dei fascicoli riguardavano dissidenti politici che venivano sistematicamente sospettati per qualunque tipo di reato. Vadim decise ben presto di accantonarli. Ne rimanevano una trentina. Si trattava di omosessuali, pedofili, esibizionisti. O medici. Questi ultimi figuravano tra gli indagati per motivi puramente tecnici. Il mostro di Rostov tagliava infatti le sue vittime con l'abilità di un valente chirurgo. Tra gli indiziati, c'era anche Andrej Romanovitch Evilenko. Nell'ottobre del 1988, l'ex insegnante era stato denunciato da una giovane donna, tale Irina Zubova, che lo accusava di aver tentato di violentarla. Il volto di Evilenko non suggeriva niente di particolare a Vadim. Anche perché nella foto segnaletica, per sua fortuna, Andrej aveva evitato di sorridere.

Il 7 gennaio, Vadim allestì una spettacolare macchina di inquisizione nella grande sala del poligono di tiro che si trovava nei sotterranei. L'investigatore aveva ordinato di sistemare diversi tavoli per poter interrogare gli indiziati tre alla volta, come in una catena di montaggio. Aveva fatto riprodurre numerose foto delle vittime del mostro di Rostov. E aveva scelto di proposito le immagini più raccapriccianti. Un paravento era stato collocato in un angolo. Accanto, su uno sgabello, c'erano delle riviste pornografiche. Era l'occorrente per il nuovo test. L'esame dello sperma. Di prima mattina, Vadim mandò a prelevare tutti gli individui sospetti che aveva selezionato e li segregò nell'Acquario. I trenta uomini si tennero compagnia con la paura per quasi due ore. In tutto quel tempo, Lesiev non smise mai di spiarli da dietro lo specchio. Dentro la camera di sicurezza, si erano formati vari capannelli Ognuno parlava con qualcuno. L'unico che non rivolgeva la parola a nessuno era Evilenko. Andrej stava in un angolo. Trafficava con i suoi occhiali. Si era messo a lustrare le lenti con un lembo della giacca. Era molto preso da questa operazione. La ripeteva ossessivamente da più di un quarto d'ora. Ad un tratto, gli occhiali caddero in terra. Le lenti esplosero come il parabrezza di un'automobile, rimanendo attaccate alla montatura. Andrej non fece una piega. Non sembrò contrariato. Ripiegò le stanghette e ripose tranquillamente gli occhiali nel taschino della giacca. Un altro indiziato lo stava osservando. Un tipo piccolo e anziano, con una grande barba. Si chiamava Aron Richter. Noto omosessuale, noto ebreo e meno noto psicanalista. Il dottor Richter lo guardò meravigliato. Gli era parso che Evilenko avesse fatto cadere gli occhiali di proposito. A non più di un metro di distanza da Andrej, c'erano Igor Saburov e Konstantin Petrov. Quei due si comportavano diversamente dagli altri. Non parlavano a bassa voce. Se lo potevano permettere, loro. Igor e Konstantin avevano fedine penali lunghe come braccia. Erano i grandi boss della piccola prostituzione locale. «Vedrai... Ci faranno sputare sangue finché non lo prendono, questo assassino,» disse Igor a Konstantin. Un ragazzo grassottello ed effeminato non poté fare a meno di intromettersi. «Quale assassino?...» chiese candidamente. «Quello che ammazza i bambini,» rispose con sufficienza Konstantin Petrov.

«Non so niente. E' la prima volta che ne sento parlare...» commentò il giovane. Igor Saburov scoppiò a ridere. «Ehi, ma dove vive questo?!» «Neanch'io ne ho mai sentito parlare...» disse un altro ragazzo che poteva essere il fidanzato del primo. Igor gli lanciò un'occhiata piena di disprezzo. «Ah, eccone un altro. Non sapete mai un cazzo, voi. Chissà perché state qui, eh?...» Ora tutti i presenti guardavano Igor Saburov e Konstantin Petrov. Nessuno osava parlare. «Tutti innocenti, eh?...» disse Konstantin. «Ma guardali, Igor... Sta' a vedere che in mezzo a tutti questi pederasti siamo noi quelli che si inculano i ragazzini...» Igor rise più forte di prima. Ma improvvisamente qualcuno gli troncò la risata. «E' ovvio che non potete essere voi....» Era il dottor Richter. «Si vede subito che voi due siete persone perbene,» aggiunse sorridendo. Se le circostanze non glielo avessero impedito, Igor lo avrebbe azzannato. Data la situazione, si limitò a fargli capire con chi aveva a che fare. «Lo puoi ben dire, vecchio. Io ho sette donne. E ogni sera, quando finiscono di lavorare, me le chiavo tutte e sette. Sono una persona normale, io...» Il dottor Richter non sembrava molto impressionato. «Complimenti. Lei ha un concetto molto generoso della normalità.» A quel punto, i due magnaccia si scambiarono un'occhiata fulminea, si alzarono simultaneamente e si avvicinarono a Richter. Attorno al medico si fece immediatamente il vuoto. Konstantin si attestò a un centimetro dal grosso naso aquilino del piccolo ebreo. «E tu chi sei per parlarci in questo modo?» gli ringhiò sul muso. Richter aveva paura. Però se la sapeva cavare bene con le parole. «Io sono un medico. Ma non vi dovete preoccupare. Non sono migliore di voi.» Igor e Konstantin si guardarono a lungo per capire se erano stati ancora offesi oppure no. Il silenzio cessò. Un uomo completamente calvo, lungo e pallido come un cero, si rivolse a Richter. «Ma questo assassino... lo stanno cercando proprio fra di noi?» L'anziano medico lo guardò con indulgenza paterna. «Perché, lei dove lo cercherebbe?» Improvvisamente, una faccia da contadino attirò l'attenzione di tutti i presenti.

«Sentite... visto che parlate di questo assassino, credo che io... qui... forse sono l'unico che ne sa qualcosa...» Tutti si voltarono verso di lui. E nella camera di sicurezza ripiombò il silenzio. «Io conosco il padre di un bambino che è stato ammazzato da questo assassino...» disse il bifolco. «Una sera, sapete com'è, eravamo un po' sbronzi, il mio amico si è messo a piangere e si è sfogato. Mi ha confessato che suo figlio... cioè che questo qui, a suo figlio... insomma, se lo è mangiato...» Una sensazione di orrore, come un vento gelido, attraversò la stanza. «Che vuol dire mangiato?!» domandò qualcuno. «Mangiato, mangiato...» ripeté il contadino. «Lo ha portato nel bosco, ci ha fatto i suoi comodi e lo ha sgozzato come un capretto. Poi gli ha aperto la pancia, zac, e l'ha svuotato tutto. Hanno trovato un pezzo di fegato qua, un pezzo di intestino là. E in mezzo alle gambe, il bambino non aveva più niente. Quel poco che c'era, l'assassino se lo era portato a casa. Se lo sarà fatto in padella...» disse ridendo di cuore mentre gli altri continuavano a fissarlo muti e allibiti. Evilenko si destò dal suo torpore. Alzò la testa e fissò il contadino con i suoi grandi occhi bianchi. «A noi non ci fanno impressione i morti, compagno. Non si contano i morti. Si contano gli aerei caduti. Stalin ci ha insegnato a non aver paura del sangue. Il sangue degli uomini è l'inchiostro della storia. Ricordate?» Andrej si guardò intorno. Sfoggiò il suo proverbiale sorriso per catturare il consenso degli astanti. Ma quella smorfia oscena li ammutolì definitivamente. Intanto, fuori dell'Acquario, Vadim non era più solo. Il giudice Novikov lo aveva raggiunto e ora anche lui stava guardando gli indiziati nel falso specchio. Un minuto dopo sopraggiunsero due agenti in uniforme. Scortavano un ragazzo infagottato in una camicia di forza. Vladimir Nosov aveva lo sguardo assente e il morso alla bocca. Le sue condizioni sembravano notevolmente peggiorate. Vadim lo piazzò dinanzi al vetro. Il ragazzo fissò la piccola folla che si trovava dentro la grande camera di sicurezza. Rimase a osservare senza emozione i volti degli indiziati. Ma a un tratto, dall'altra parte del vetro, Evilenko si voltò verso lo specchio. Gli occhi dell'assassino e quelli del testimone entrarono in rotta di collisione. Come due treni che procedevano a folle velocità sullo stesso binario. Lo sguardo di Nosov improvvisamente prese fuoco. Vadim si affrettò a sciogliere i legacci della camicia per liberargli le braccia. «Lo hai visto?... E' lui?... Indicamelo!»

Con mano tremante, Nosov indicò Andrej. Ma un istante dopo, nei suoi occhi e nella sua testa, i volti di tutte le persone che si trovavano nella stanza assunsero improvvisamente i lineamenti di Evilenko. Il giovane poliziotto scoppiò in lacrime. Cominciò a gesticolare. Finì per indicarli tutti. E l'investigatore, con un cenno sconsolato, ordinò di portarlo via. Un'ora dopo, gli indiziati entrarono nel poligono a gruppi di tre. La grande sala era avvolta nella penombra. Uniche fonti di luce erano le lampade da terzo grado che si trovavano sulle tre scrivanie. Ogni postazione era dotata di un registratore a bobine. Vecchi arnesi, ma funzionavano ancora. Il medico legale Amitrin, il tenente Ramenskij e gli agenti Nikitin, Kazakov e Denisov facevano le domande. Lesiev saltava da un tavolo all'altro. Scrutava le facce e controllava le risposte. Giocava da battitore libero. Come sui campi di calcio. Ognuno ha il suo destino. Frolov stava accanto al paravento. Il sergente era addetto ai prelievi dello sperma. Spettava a lui l'ingrato compito di consegnare agli indiziati la rivista pornografica e la provetta. Quell'incarico non gli andava a genio. Lo aveva detto chiaro e tondo. Tuttavia, Frolov era tanto scorbutico quanto ubbidiente. Poteva battere il pugno sul tavolo, ma non si sarebbe mai rifiutato di eseguire un ordine. Come Lesiev aveva stabilito, gli inquirenti dovevano mostrare agli indiziati le foto delle vittime del mostro di Rostov. Nessuno riusciva a guardarle senza restarne profondamente turbato. L'investigatore la considerava una pura provocazione. Quelle immagini raccapriccianti forse avrebbero spinto l'assassino a tradirsi. Ma Vadim in realtà sapeva benissimo che un uomo capace di tanta ferocia difficilmente si sarebbe lasciato spaventare dalla documentazione dei suoi stessi delitti. Infatti, Lesiev perseguiva segretamente un altro scopo. Voleva rendere pubblico il caso «Striscia di bosco« per mettere in guardia la popolazione. E siccome non poteva farlo ufficialmente, aveva escogitato questo stratagemma. Probabilmente, tutta l'operazione non gli avrebbe consentito di stanare il mostro di Rostov. Ma sicuramente quei trenta indiziati, una volta fuori di lì, si sarebbero precipitati a raccontare a destra e a manca ciò che avevano visto. Sotto questo aspetto, la sua idea avrebbe certamente funzionato. Meglio di un articolo sul giornale. Osservando la foto di una bambina rosicchiata come un torso di mela, il noto pregiudicato Igor Saburov la commentò con la tipica sufficienza del delinquente incallito. «Quando non bevo, ho allucinazioni peggiori,» affermò.

Ma dalla sua fronte sgorgavano gocce di sudore freddo. Quando si recò da Frolov per il prelievo dello sperma, il boss della prostituzione sembrò sollevato. «Ehi, qui dentro il mio non c'entra!» disse strafottente mentre riceveva dalle mani del sergente la provetta per lo sperma. «Per il tuo cervello, basta e avanza,» rispose Frolov spingendo Saburov dietro il paravento. Il dottor Aron Richter faceva parte del secondo scaglione. Gli fu chiesto di accomodarsi di fronte alla scrivania di Boris Amitrin. Toccava sempre al medico legale interrogare i colleghi. «Nome, cognome e patronimico,» chiese meccanicamente Boris mentre accendeva il registratore. «Aron Richter. Mio padre si chiamava Abramo.» «Ebreo?» «Sì.» «Data e luogo di nascita.» «Sono nato il 19 settembre del 1931. A Berlino.» «Tedesco?» «No. Sono un cittadino sovietico. Mio padre mi ha portato qui all'età di tre anni...» Poi, con un lieve accento ironico aggiunse: «Avevamo scelto la libertà...» Amitrin ignorò la battuta. Stava sfogliando il dossier dell'indiziato. «Residenza?» «Abito a Rostov. In via Mezhevoj. Al 26.» «Che mestiere fa?» «Sono medico.» «Leggo qui che lei esercita abusivamente la professione di psicanalista.» «Non più, signor poliziotto, non più. Da circa sei mesi sono autorizzato.» Questa volta, Boris dimenticò il fascicolo e lo guardò negli occhi. «Non mi chiami signor poliziotto. Siamo colleghi, dottor Richter.» «E' vero. In fondo, sono un poliziotto anch'io. Io sono il poliziotto del cervello.» Il medico legale non sembrò apprezzare il suo umorismo. Tornò a consultare il dossier. «Qui c'è scritto anche che le piacciono i bambini...» «Sì. Mi piacciono molto i bambini. Avrei tanto voluto averne.» «Per avere dei bambini ci vuole una moglie.» «L'ho sentito dire, sì.» Boris sorrise a Richter. Non era un sorriso da medico Era un tipico sorriso da sbirro. «Ma lei non può avere una moglie e dei bambini. Perché lei è omosessuale, dico bene?» «Conosco molti omosessuali che hanno moglie e bambini,» replicò serafico

il vecchio Aron. «Nel 1975 lei è stato arrestato, processato e condannato perché molestava un bambino in un cinema, rammenta?» «Sì. Ricordo perfettamente. Era un brutto film.» Stavolta Richter accusò il colpo. Il ricordo, evidentemente, sanguinava ancora. In quel momento, sopraggiunse Lesiev. Si piazzò dietro le spalle di Amitrin. Gli fece segno di non badargli e di continuare liberamente l'interrogatorio. «Dove si trovava l'ultimo dell'anno, dottor Richter?» domandò Boris. «A casa mia.» «Con chi?» «Da solo.» «E' venuto a trovarla qualcuno?» «No.» «Ha ricevuto telefonate?» «No.» «Allora lei non ha un alibi?» «Per cosa?» chiese meravigliato Richter. Boris Amitrin prese da un cassetto alcune foto delle vittime. Le mise in bella mostra sul ripiano della scrivania. «Che impressione le fanno queste foto?» Aron Richter evitò accuratamente di abbassare gli occhi. «Quali foto?» rispose fissando impertinente il giovane collega. Boris gli lanciò uno sguardo furibondo. Con un gesto di stizza, smorzò il registratore. Poi, senza dire nulla, si voltò verso Lesiev. Vadim si chinò sulla scrivania e avvicinò il suo volto a quello dell'indiziato. «Lei sa benissimo chi stiamo cercando, non è vero?» domandò l'investigatore. «No. Ma il guaio è che non lo sapete neanche voi.» Vadim puntò il dito sul ripiano della scrivania. Amitrin riaccese il registratore. «Che cosa vede in queste foto, dottor Richter?» L'indiziato non poteva più sottrarsi. Allora guardò con attenzione le immagini. Poi dispensò commenti precisi e telegrafici. «Sangue... Istinto... Sesso... Perversione... Morte.» Richter alzò nuovamente gli occhi. Incontrò gli occhi di Lesiev e di Amitrin. Lo stavano fissando. E non dicevano una parola. Richter si sentì molto a disagio. «Non lo troverete facilmente,» aggiunse il piccolo ebreo. «Lo sappiamo. L'uomo che ha fatto questo è un tipo molto speciale,» rispose Vadim. «Al contrario. Non lo troverete facilmente perché può essere chiunque. Io...

Lei... Lui... Chiunque.» «Stiamo parlando di cannibalismo, dottor Richter.» «L'uomo è un animale feroce. Non lo sapevate?» «Lei pensa veramente che chiunque possa fare questo?» «Se un uomo lo può fare, tutti gli uomini lo possono fare. » «Resta da stabilire perché.» «Perché? E' semplice. Perché prima eravamo un gregge di pecore e adesso siamo un branco di lupi.» «Lei è un chirurgo, dottor Richter?» «In teoria sì. Ma non ho mai operato nessuno,» disse Aron. E indicando le foto sul ripiano della scrivania, aggiunse: «Questo qui è sicuramente molto più bravo di me.» «Quale è la sua specializzazione?» «Sono uno psicanalista.» «Psichiatra?» chiese Vadim. «No. Psicanalista.» «Che differenza c'è?» «Gli psichiatri portano i malati al manicomio. Io no.» «Lei invece dove li porta?» «Io? In nessun posto. Sono loro che vengono a casa mia.» «E come li cura a casa sua?» «Loro parlano. Io li sto a sentire.» «Grazie per la collaborazione, dottor Richter. Ora può andare...» disse l'investigatore indirizzandolo da Frolov. Il sergente gli consegnò la provetta. Quanto alla rivista pornografica, lo psicanalista la rifiutò sdegnosamente. Mentre Aron si eclissava dietro il paravento, nella grande sala del poligono entrò Evilenko. Andrej andò a sedersi di fronte a Nikitin. Gli sorrise. Il giovane poliziotto ne rimase nauseato. Rifugiò lo sguardo nel dossier dell'indiziato. E cominciò subito a interrogarlo. «Nome, cognome e patronimico.» «Evilenko. Andrej Romanovitch.» «Nato il?...» «20 ottobre 1940.» «Dove?» «A Yabloshnoye. In Ucraina.» «Residenza?» «Rostov. Petrovskaja 240.» «Dove si trovava la notte dell'ultimo dell'anno, Evilenko?» «A casa. Con mia moglie.»

«E nessun altro?» «Nessun altro.» Nikitin aprì il cassetto della scrivania. Prese quelle foto spaventose. «Guardi un po' queste foto, Evilenko...» Andrej posò i suoi grandi occhi bianchi sulle foto. Le guardò ma non le vide. Scoppiò a ridere. «Le trova divertenti?» chiese sorpreso Nikitin. «E' che... purtroppo mi si sono rotti gli occhiali....» Evilenko mise la mano nel taschino della giacca e mostrò al giovane agente le lenti frantumate. «Vedi compagno?» «Non mi chiami compagno,» rispose stizzito Nikitin. Nello stesso istante, dietro il paravento, il dottor Richter si stava masturbando senza passione. La voce di Evilenko gli impediva la già ardua concentrazione. Quando Andrej nominò gli occhiali, la mente di Aron fu improvvisamente invasa dalla visione di quell'uomo che poco prima, nell'Acquario, aveva deliberatamente lasciato cadere le sue lenti. Poiché non era un'immagine molto stimolante, il piccolo ebreo decise di darsi una piccola tregua. Spinto dalla curiosità, Aron sbirciò l'interrogato dalla sottile fessura che separava le ante del paravento. Nikitin stava sfogliando il dossier. Evilenko non rideva più. Era proteso sulla scrivania. Allungava il collo verso il poliziotto. E i suoi occhi sprigionavano una gelida ira. «Perché non vuoi essere chiamato compagno?» gli chiese a denti stretti Andrej. «Mestiere?...» domandò Nikitin senza guardarlo. «Voglio sapere perché non vuoi essere chiamato compagno,» ruggì l'ex insegnante. «Sono io che faccio le domande, Evilenko.» «Senza il comunismo tu non esisteresti. Lo sai questo?» «Le ho chiesto che mestiere fa.» «Sono un iscritto al Partito. E voglio parlare con un tuo superiore.» «Qui il Partito non c'entra niente.» «Non aggravare la tua posizione, ragazzo. Fammi parlare con un tuo superiore.» Nikitin fu costretto a guardare Evilenko. Ma non sopportò a lungo quei grandi occhi bianchi. Il giovane agente fermò la bobina nel registratore. Quindi si alzò e andò a cercare Lesiev. Gli disse qualcosa in un orecchio. E subito dopo l'investigatore venne a rilevare il suo posto alla scrivania.

«Che cosa c'è che non va?» chiese Vadim a Evilenko. «Non credevo che essere comunisti fosse diventato un reato,» fu la risposta di Andrej. «Infatti, non lo è. Anch'io sono comunista. Allora?... Vogliamo continuare il colloquio, compagno?» «Sono qui per questo.» Vadim fece partire il registratore e cominciò a sfogliare il dossier. «Nome, cognome e patronimico.» «Andrej Romanovitch Evilenko.» «Nato a?...» «A Yabloshnoye. In Ucraina.» «Quando?» «Il 20 ottobre 1940.» «Residente a?...» «A Rostov. In via Petrovskaja 240.» «Coniugato?» «Mia moglie si chiama Fenja. Siamo sposati da ventiquattro anni.» «Occupazione?» «Insegnante di lettere.» «Dove insegni?» «Insegnavo nella Scuola Internato numero 32, a Novoshakhtinsk. Adesso lavoro alle ferrovie.» «Cosa fai alle ferrovie?» «Ispeziono la rete ferroviaria. Segnalo i guasti. Conto le traversine.» Vadim alzò lo sguardo dal dossier. Scrutò Evilenko con evidente meraviglia. «Prima insegnavi lettere, adesso conti le traversine. Strana carriera...» «Mi hanno costretto ad abbandonare la scuola.» «Chi?» «Loro.» «A chi ti riferisci?» «Ai nuovi barbari.» «E chi sarebbero?» «Quelli della perestrojka.» «La perestrojka? Cerca di essere più preciso...» «Se tu fossi un bravo comunista avresti già capito di cosa sto parlando. Comunque, se non lo sai, ti informo che siamo in guerra compagno. E' ora di decidere da che parte stare.» Vadim lo guardò spazientito. «Io sto dalla parte della legge, Evilenko. E faccio la guerra ai criminali.» «Senza il comunismo non esiste legge. Senza il comunismo siamo tutti criminali,» sentenziò Andrej.

In quel momento, il dottor Richter abbandonò il paravento e consegnò al sergente Frolov la provetta che conteneva il risultato di tutti i suoi sforzi. Quindi si avviò. Doveva obbligatoriamente riattraversare la sala per raggiungere l'uscita. Ma la cosa non lo infastidiva. Anzi. Era l'occasione per passare accanto a Evilenko e guardarlo in faccia. Il volto di quell'uomo lo inquietava ancor più del suo stravagante comportamento. Andrej, intanto, era sempre sotto torchio. Vadim stava ancora consultando il suo dossier. «Leggo qui che tuo padre... Roman Evilenko... è morto alla chimica...» «Sissignore. Mio padre era un nemico del popolo. E io sono fiero di non averlo mai conosciuto.» «C'è scritto anche che due anni fa sei stato denunciato da una donna, una certa Irina Zubova, per tentato stupro...» «Irina Zubova è una prostituta. Non c'è scritto questo nel tuo fascicolo?...» «Mi dispiace. No.» «E ovvio che non c'è scritto. Ormai le puttane e i ladri hanno preso il potere.» «Dov'eri la notte dell'ultimo dell'anno, Evilenko?» «A casa con mia moglie.» «C'era qualcun altro con voi?» «Io e mia moglie non abbiamo figli. Lei ha dei cugini. Ma non li vediamo mai. Abbiamo mangiato un pollo. Fenja cucina benissimo il pollo.» «Tua moglie è un po' poco come alibi...» «Mia moglie significa molto per me.» «Quindi come testimone è ancora meno attendibile.» «Siete voi che non siete attendibili. Non sapete più chi vi comanda. Poveri voi. State qui a spalare la melma della democrazia...» disse Andrej a denti stretti. «Eccola la tua democrazia, compagno!» aggiunse indicando le foto che erano sparpagliate sul ripiano della scrivania. Vadim guardò le foto. Poi guardò l'indiziato. «Secondo te, compagno Evilenko, chi può essere che va in giro a mangiare bambini?» «Oggi i mascalzoni sono sazi e ben vestiti, mentre gli onesti si cibano delle loro briciole,» fu la risposta di Andrej. L'investigatore pensò che era meglio lasciar perdere. Disse a Evilenko di recarsi da Frolov per l'esame dello sperma. Ma lui obiettò che non poteva. «Non puoi? Che significa?» chiese Vadim. «Significa che se vado li, non succede niente,» rispose Evilenko. «Spiegati meglio.»

«Il mio coso... qui... non funziona. Non ha mai funzionato.» Vadim restò molto sorpreso. «Ma tu... tu sei sposato...» «Non vedo il nesso, compagno.» «E quella donna che hai tentato di violentare?» «Questo lo dice Irina Zubova. Ovviamente, non è così. Ma se la parola di una puttana vale più della mia...» Per tutta risposta, Lesiev schiacciò un pulsante del registratore e si alzò. «Scopriremo quanto vale la tua parola, Evilenko. Da questo momento sei in stato di fermo, compagno.» L'investigatore chiamò l'agente Denisov. Gli affidò Andrej. E gli ordinò di portarlo immediatamente in cella d'isolamento. Mentre si calava nella fredda spirale di ghisa che conduceva alle celle, Evilenko infilò una mano nella tasca interna della giacca. Il giovane Denisov afferrò istintivamente il revolver. Gli puntò la canna tra le scapole chiedendogli cosa stesse facendo. Andrej si voltò. Il poliziotto si vide porgere una banconota da cento rubli e un piccolo cartoncino rigido. Il biglietto da visita del colonnello Yuri Tabakov del K.G.B. «Chi è?» domandò Denisov. «E' un superiore. Un superiore del tuo superiore,” rispose Andrej. «E io che c'entro?» disse il poliziotto. «Tu devi soltanto fargli sapere che mi trovo qui.»

15 L'autostrada era tutta in pianura. Diritta come una spada. Immensa e deserta. La benzina non si trovava più da giorni e giorni. L'intera regione era paralizzata dalla crisi energetica. Eppure, Vadim doveva guidare con gli occhi bene aperti. Non poteva distrarsi un attimo. Il gelo delle settimane precedenti aveva aperto molte ferite nell'asfalto. La Zhigulì procedeva a zig-zag. Non superava mai i settanta all'ora. Le buche più profonde avrebbero potuto ospitare comodamente la ruota di un camion. Figurarsi una delle sue. Erano soltanto un centinaio di chilometri. Ma in quella fine di gennaio del 1990, raggiungere Novoshakhtinsk rischiava di sembrare un'impresa. Gli alberi che circondavano l'Istituto numero 32 erano come pietrificati e avevano le braccia protese al cielo. Il cancello della scuola dove Andrej Romanovitch Evilenko aveva forgiato tanti piccoli comunisti si spalancò senza opporre resistenza dinanzi all'investigatore Lesiev. Non c'era anima viva. L'edificio si trovava in uno stato di totale abbandono. Non esistevano più neanche gli infissi alle finestre. Tutto era stato portato via. Solo la vecchia altalena arrugginita cigolava ancora al più piccolo alito di vento. L'Istituto numero 32 non era più quello e non era più niente. Eppure Vadim fu assalito da uno strano languore allo stomaco. Mentre percorreva i lunghi corridoi e si affacciava nelle aule vuote, ebbe la netta impressione di essere cresciuto lì dentro, di aver vissuto in quelle stanze tutte le piccole gioie e i grandi dolori della sua infanzia. Ma non capiva come la sua nostalgia potesse trovare dimora in quel luogo deserto e sconosciuto. E non sapeva dare un nome al senso di malinconica familiarità che lo assaliva. Quando vide un ritratto di Lenin abbandonato in un angolo, ricordò improvvisamente cos'era che poteva rendere gli uomini tutti incredibilmente uguali, nel bene e nel male. Il giorno seguente, Lesiev si recò all'ufficio approvvigionamenti delle ferrovie. Entrò senza bussare nella stanza del funzionario capo. La porta era aperta. Bagdasarov stava raccontando una barzelletta sconcia alla segretaria. Quando il capufficio capì finalmente che aveva di fronte a sé un investigatore della Procura, si sentì in imbarazzo e cercò di addolcire l'atmosfera con una bottiglia di vodka. Ma il rifiuto dell'investigatore aggravò definitivamente il suo disagio.

Vadim voleva informazioni sul conto di Evilenko. Bagdasarov tirò un sospiro di sollievo. Evilenko era il suo argomento preferito. Per prima cosa, il dirigente mostrò all'investigatore una lettera ricevuta dal Ministero del lavoro. Recava la data del 2 maggio 1989. Era una richiesta formale di assunzione per Andrej. Firmata dal ministro in persona. Bagdasarov era affabile come al solito. Non faticò ad ammettere che quella lettera gli aveva procurato l'insonnia. «Vuoi vedere che questo Evilenko è stato mandato qui per farmi le scarpe?» Questo fu il suo primo pensiero. Ma quando vide il nuovo impiegato, ogni timore svanì all'istante. «Evilenko è un povero disgraziato. Non è capace di sbrigare i lavori più semplici. E soprattutto, non ha un filo di memoria. Qualsiasi cosa gli chiedi di fare, un minuto dopo l'ha già dimenticata. Allora, l'ho costretto a tenere un taccuino e a prendere sempre appunti. E' l'unico modo per renderlo un minimo efficiente. Intendiamoci, solo un minimo. Con lui c'è poco da fare. E' un caso disperato.» L'investigatore lo stava ascoltando con grande attenzione. Quando finì di parlare, Vadim gli chiese a bruciapelo come giudicava il comportamento di Evilenko con le donne che lavoravano in quell'ufficio. «Non le risulta niente? Mi riferisco a molestie sessuali...» Bagdasarov deglutì. Quell'argomento lo terrorizzava. Perché avrebbe potuto essere usato, a ragion veduta, contro di lui. Il capufficio realizzò improvvisamente che forse aveva infierito un po' troppo su Andrej. Con un audacissimo salto mortale, cambiò repentinamente il tono e i termini delle sue dichiarazioni. «No, no, assolutamente. Nessuno si è mai lamentato di Evilenko. Qui dentro, tutti gli vogliamo bene e cerchiamo di fare il possibile per aiutarlo. In fondo, è un brav'uomo. E' un comunista vecchio stampo. Quelli come lui, purtroppo, non si fabbricano più. Sul piano morale, non c'è che dire, è una persona veramente irreprensibile. Non so di cosa lo si accusa, ma sono convinto che deve trattarsi di un equivoco.» Quella sera, Fenja rincasò alle sette meno un quarto. Lesiev la stava aspettando nell'androne del civico 240 di via Petrovskaja. Vadim la avvicinò, si qualificò e si avviò verso le scale. Ma la moglie di Evilenko non aveva nessuna intenzione di condurlo nel suo appartamento. «Possiamo anche parlare qui. Io non ho niente da nascondere,» disse la donna. «Le debbo fare alcune domande. L'argomento è piuttosto delicato. Sarebbe meglio salire...» insisté il poliziotto. Fenja rimase dov'era. «Perché avete arrestato mio marito?»

«Non lo abbiamo arrestato. Lo abbiamo semplicemente trattenuto.» «Di che cosa lo accusate?.» «Non lo accusiamo di niente. Sono solo sospetti. Ma le spiegherò tutto quando saremo di sopra.» «No. Voglio saperlo adesso.» In quel momento, altri inquilini varcarono la soglia del palazzo. Era per tutti l'ora del rientro dal lavoro. Con un semplice sguardo, Vadim le chiese ancora una volta di salire le scale. Fenja rimase ferma in mezzo all'androne. L'investigatore capì che si trattava di una sorta di sfida. «Suo marito è sospettato di omicidio,» disse Lesiev con voce squillante. Una giovane donna che teneva per mano due bambini si arrestò di colpo sulla prima rampa di scale. Non si voltò. Rimase con il piede sospeso sul gradino per alcuni istanti. Poi riprese a salire. Ma andava molto più spedita di prima. «Andrej ha ammazzato qualcuno? E chi? Sentiamo...» domandò Fenja nient'affatto turbata. «Non è una persona sola. Si tratta di vari omicidi.» «Ah, sì? E quanti sono? Dieci?... Cento?... Mille?...» «Il numero non ha importanza.» «No. Io credo che il numero sia importante. Quanti ve ne servono? Quanti sono i delitti che non sapete risolvere?... Ma potete stare tranquilli, avete trovato l'uomo che fa per voi. Andrej è un vero comunista. Ha un grande senso del dovere. Basterà che voi gli diciate cosa deve confessare e lui ubbidirà.» Quella donna dimostrava una grinta non comune. Vadim scoprì di provare un disagio indefinibile. Decise pertanto di andare dritto allo scopo. Anche perché l'unica domanda che gli importava veramente non era per niente facile da formulare. «Vorrei chiederle qualcosa a proposito dei rapporti sessuali tra lei e suo marito...» disse l'investigatore sforzandosi di non sembrare in imbarazzo. «A noi non interessa il sesso,» rispose Fenja. «Tutto questo sesso che c'è in giro ci fa veramente schifo.» «Ma voi siete sposati. E come tutte le persone sposate, avrete pure dei rapporti sessuali.» «No.» «Non avete rapporti sessuali?» «No.» «Da quanto tempo?» «Non ne abbiamo mai avuti.» Vadim rimase muto e sconcertato. «Il sesso non ci interessa. Mi sembra di averlo già detto,» ripeté Fenja. «Non avete mai desiderato un figlio?» domandò Vadim.

«Andrej aveva tanti figli, quando insegnava all'istituto. E gli volevano tutti molto bene.» «Un figlio vostro, intendo.» «Che significa vostro? Quando si è comunisti, i figli sono di tutti e tutti ne siamo responsabili. Tanto più che non saranno mai i figli a chiedere di venire al mondo.» «Posso domandare perché vi siete sposati?» «Perché ci siamo sempre amati.» «Ma non avete mai avuto rapporti sessuali.» «Non vedo cosa c'entra il sesso con l'amore.» Vadim non era soddisfatto. Ma si sentiva molto a disagio e, in definitiva, aveva ottenuto l'informazione che voleva. Salutò la donna prima di uscire. Lei non ricambiò. Fenja si attardò nell'androne. Continuò a fissarlo da dietro la porta a vetri. Lo vide salire in macchina. E solo quando la Zhigulì scomparve dal suo orizzonte, si decise infine a salire le scale. La porta dell'appartamento si aprì con un semplice scatto. Fenja ne rimase sorpresa. Era convinta di aver chiuso con tutte le mandate. Infatti, aveva ragione. Andrej sbucò improvvisamente dalla penombra. Si avvicinò silenzioso. Aveva uno sguardo umido e implorante. Tremava come una foglia. La moglie lo accolse tra le sue braccia senza dire una parola. E con il tacco della scarpa, senza guardare, richiuse la porta di casa.

16 La sveglia suonò alle cinque. Rulana borbottò e si rifugiò sotto il cuscino. Vadim si vestì al buio e uscì di casa senza far rumore. Lesiev arrivò in ufficio molto più presto del solito. Voleva studiare i resoconti dattiloscritti di tutti gli interrogatori degli ultimi giorni. Quando scese nel seminterrato, tutte le stanze sembravano deserte. Ma non era così. Qualcuno lo aveva preceduto. Il sergente Frolov. Stava sfogliando i verbali. E faceva colazione ingoiando sottili fette di lingua affumicata. L'investigatore non si stupì. Frolov era sempre il primo ad arrivare e l'ultimo ad andarsene. Il sergente viveva ormai unicamente per il suo lavoro. Dopo la morte della moglie, la sua permanenza in ufficio era diventata una malattia cronica. Vadim cercò di non offenderlo. Gli chiese soltanto i verbali che aveva già letto. Ma Frolov li prese tutti quanti e li trasferì in blocco sulla scrivania del capo. Accompagnandoli con un commento poco incoraggiante. «Qui dentro non c'è niente di interessante. Siamo sempre al punto di prima. Cioè a zero.» «Ci sono anche i risultati delle analisi?» chiese Lesiev. «Lo sperma?...» domandò il sergente con un sorrisino sarcastico. «Pure quello è un buco nell'acqua. Sono quasi tutti del gruppo 2. Ventitré su trenta. Ne possiamo scartare soltanto sette. Di questi. Ma nessuno ci dice che l'assassino è fra i rimanenti ventitré.» Lesiev non diede peso alle parole di Frolov. Si chinò sui verbali e cominciò a esaminarli. Improvvisamente, si ricordò di Andrej. Evilenko si trovava in isolamento da una settimana. La legge consentiva alla polizia di protrarre il fermo fino a un massimo di dieci giorni. Scaduto il termine, l'indiziato doveva essere incriminato o scarcerato. E poiché non vi erano particolari accuse da formalizzare nei confronti di Evilenko, Vadim pensò che fosse inutile trattenerlo ancora. L'investigatore chiese quindi al sergente di andare a liberarlo. «Già fatto,» rispose Frolov. «E' andato via ieri, nel primo pomeriggio. Sono venuti a prenderlo in due.» «Chi?!» chiese meravigliato Vadim. «Il K.G.B.» «Il K.G.B.?! E cosa vuole da lui il K.G.B.?» «Ho provato a fare delle domande. Ma loro non rispondono mai. Però... era strano, sembrava contento.» «Evilenko?» «Sì. Non era spaventato. Anzi. Ho avuto come l'impressione... Ma no, che

dico, quel tipo è tutto scemo.» Frolov era troppo sergente e troppo vecchio stampo per dare libero corso ai suoi pensieri. Ma Vadim aveva afferrato ugualmente il suo incerto messaggio. Evilenko poteva forse essere un uomo del K.G.B.? Effettivamente, la cosa pareva piuttosto assurda. Eppure, a pensarci bene, Andrej sarebbe stato perfetto come spia. Niente figli, una moglie devota, e una cieca obbedienza al Partito. Ieri intellettuale organico di un certo spicco. Oggi mediocre impiegato alle ferrovie. E raccomandato, per giunta. Vadim si rifiutò di proseguire il ragionamento. Evilenko era indubbiamente un mistero. Ma il K.G.B. non poteva essere la risposta a tutti i misteri di questo mondo.

17 Gli alberi frustati dal vento danzavano intorno a Margarita. Loro piangevano e gridavano ma nessuno poteva udirli. Lei era distesa nel fango e nel sangue. I lunghi capelli ribelli fuggivano via da quel corpo senza vita strisciando nell'erba come spaventati serpenti. Le gambe erano ritte e divaricate, con le ginocchia puntate verso il cielo. Lì, nel luogo dove la donna celava i suoi segreti, non c'era più niente da scoprire, niente da rubare. Evilenko stava accovacciato dinanzi a lei. La fissava imbambolato. Era completamente nudo, ma il suo cuore emanava un calore struggente. Andrej sentiva di amare quella donna. Come nessun'altra prima di lei. Perché Margarita non aveva niente a che vedere con le altre. Margarita era una creatura meravigliosa. Lei non aveva paura del sangue. E non aveva paura di lui. Ora che l'aveva trovata, Andrej meditava di rimanere per sempre lì con lei. Dopo che l'aveva punita per la sua oltraggiosa bellezza, niente avrebbe potuto separarla da lui. Margarita adesso non parlava più. Si era certamente pentita di averlo deriso, insultato, umiliato. E stava aspettando in silenzio il suo perdono. Ma Andrej non era più arrabbiato. Non vedeva l'ora di stringerla tra le sue braccia, di accarezzarle i capelli, di riempirla di baci. A un tratto, dalla porta spalancata sbucò un'ombra furtiva. Evilenko vide uscire dall'abisso di Margarita una figura minuta ma severa. Un bambino. Vestito come un adulto. Portava gli occhiali. Due stanghette tenute insieme con il nastro isolante. Un paio di lenti spesse come fondi di bottiglia. Aveva lo stesso sorriso di Evilenko. Ma su di lui non faceva lo stesso effetto. Il bambino si avvicinò e gli tese la mano. Lo invitò a rialzarsi. Pronunciò poche parole con un filo di voce. «Vieni. E' tardi...» Finalmente Evilenko lo riconobbe. Era Andrej. Andrej Romanovitch. Un piccolo comunista senza macchia e senza paura. La sua guida spirituale. L'amico di sempre. L'unico alleato che poteva portarlo fuori del bosco sano e salvo.

18 La via Mezhevoj è l'ultima traversa della Sovietskaja, una delle principali arterie di Rostov. E' una stradina stretta e accidentata, esposta al tramonto e sprovvista di fognature. Le case sono piccole e basse, tutte di legno. Hanno colori allegri. Verde, celeste, arancione. Ma la tinta è ormai sbiadita. Una volta ci pensava lo Stato a ridipingerle. Adesso è affare degli inquilini. Che il più delle volte non hanno i mezzi per farlo. L'unica casetta linda e pinta si trova al numero 26. E' bianca. Ha un cancello di legno ben laccato e un bel giardinetto sul retro. Nel febbraio del 1990, ci abitava un medico ebreo. Si chiamava Aron Richter. Erano le dieci di un mattino grigio quando l'investigatore Lesiev suonò il campanello. Attese a lungo prima che l'uscio si aprisse. Ma appena Aron comparve sulla soglia, Vadim intuì dal suo imbarazzo che il medico lo aveva riconosciuto subito. «Il dottor Richter? Mi chiamo Vadim Timurovitch Lesiev. Si ricorda di me?...» gli chiese in tono formale ma con un sorriso franco. Anche Aron sorrise. Il suo però era un sorriso amaro. «Sì. Disgraziatamente sì. Ma lei mi coglie impreparato. Mi trovo con un paziente. Può darmi qualche minuto?» «Certo. Faccia pure,» rispose l'investigatore entrando nella casa. Aron gli mostrò un divanetto rosso che si trovava in soggiorno. «Lei aspetti qui. Io vado di là, ma torno fra poco...» disse indicando la stanza attigua che evidentemente dava sul giardino. Vadim lo guardò senza rispondere. Di conseguenza, Aron pensò che il poliziotto pretendesse da lui una qualche rassicurazione. «C'è un'altra uscita, in giardino Ma non vedo perché dovrei scappare. E, soprattutto, non saprei proprio dove andare. Allora?... Si fida?...» Lesiev lo fissò divertito. «Se lei me lo chiede con tanta insistenza, mi costringe a pensare che vuole proprio scappare...» «Ha ragione,» rispose Aron. «Dimentichi quello che ho detto. Con permesso...» Lesiev annuì con un semplice cenno del capo. Lo psicanalista si congedò con un piccolo inchino e si eclissò dietro la porta del suo studio. Vadim rimase solo per alcuni minuti. Non era tempo sprecato. Nella casa di un indiziato si

può lavorare anche semplicemente guardandosi intorno. Alle pareti c'erano molti ritratti di uomini con grandi barbe. Li osservò attentamente uno dopo l'altro. Riconobbe solo Freud. Marx e Lenin mancavano all'appello. Il dottor Richter possedeva mobili non molto antichi ma di gusto piuttosto ricercato, tutti in uno stile che risaliva probabilmente agli anni venti o trenta. Vadim non riusciva a ricordare il nome di quello stile. Ma ciò che più lo meravigliò non furono i mobili. Ciò che lo lasciò sbalordito furono i ninnoli. Erano decine e decine, forse centinaia. Soltanto lo zoo di vetro era un autentico universo di bestioline, minuscole e multicolori. Vi si potevano trovare tutti i felini conosciuti in molteplici versioni, strani e rarissimi uccelli e persino animali preistorici. Mentre li guardava, Vadim capì che Aron non poteva davvero improvvisare una fuga. Quell'uomo piccolo e stravagante non avrebbe mai saputo rinunciare a tutti gli oggetti che affollavano la sua solitudine. Eppure era ebreo. Degli ebrei, razza perseguitata ed errante, aveva sempre sentito dire che «sono abituati a portare tutta la loro vita in una sola valigia.» Vadim sorrise a quell'idea. Se il detto aveva un qualche fondamento era altrettanto vero che la sua razza, gli Ingusci, non possedeva nemmeno la valigia. In quel momento, la porta dello studio si aprì. Apparve per primo un uomo giovane, molto alto, con un lungo cappotto di astrakan. Il paziente. Aveva due occhi piccoli e spauriti. Era pallido. Il dottor Richter lo accompagnò all'uscio senza dire una parola. Subito dopo, tornò sui suoi passi. Indossò il soprabito, prese il colbacco e guardò Lesiev. «Possiamo andare...» disse. «Dove?» chiese sorpreso Vadim. «Dove vuole lei,» rispose ancor più sorpreso Aron. «Dove pensa che la porterò?» «Non so. Al commissariato, immagino.» «No. Per me possiamo benissimo parlare qui.» «Allora si accomodi,» disse il dottor Richter indicando la porta dello studio mentre si sfilava il soprabito. A differenza del soggiorno, lo studio era estremamente sobrio. Due pareti nude. Altre due piene di libri. Anche la scrivania ingombra di libri. Un lettino verde damascato con spalliera. Una sedia imbottita giusto dietro la spalliera. Il dottor Richter prese la sedia e la piazzò al centro della stanza. La offrì a Lesiev. «Visto che è lei a fare le domande... vorrà dire che io mi metterò qui,» disse lo psicanalista adagiandosi sul lettino.

«D'altra parte, se c'è chi paga per stare sdraiato qui, un motivo ci dovrà pur essere. E chissà che io non finisca per scoprirlo.» «Quanto si fa pagare l'ora?.» «Dipende. C'è chi paga di più e chi paga di meno, a seconda delle possibilità. I pazienti molto interessanti alle volte non pagano.» Vadim sorrise. «Allora io sarei molto interessante?» «Speriamo...» sussurrò Aron alzando gli occhi al cielo. «L'uomo che io sto cercando, lei come lo giudica? Interessante?» «Lui è molto interessante. Ma purtroppo non è un mio paziente.» «Secondo lei è pazzo?» «Secondo lei?» «Se glielo chiedo vuol dire che non lo so.» «Posso sapere quanti ne ha ammazzati?» «Ventinove.» «Ventinove?! In quanto tempo?» «Tre anni.» «Tre anni?!... E come sperate di trovarlo?» domandò allibito Aron. «Con il suo aiuto, dottor Richter,» rispose serafico Vadim. «Io?! Aiutare la polizia?! Ha bevuto molto prima di venire qui?!» «Lei è fuori strada. Sono astemio.» «Ha altre domande?» chiese Aron balzando a sedere sul lettino. «Mi sta cacciando via?» domandò Vadim. «Se non ha nient'altro da chiedermi, ho del lavoro da sbrigare.» «Non mi vuole aiutare?» «No.» «Perché?» «Non mi piacciono i poliziotti.» «Non sono un poliziotto, dottor Richter.» «Mi dispiace. Lei è come un poliziotto. E la mia risposta è sempre no,» disse Aron in tono definitivo alzandosi dal lettino. Con un guizzo, Vadim gli afferrò un polso. «Va bene, dottore. Io sono un poliziotto. E ora le ordino di rimettersi a sedere. Prego...» Aron si accasciò sul lettino. Ma Vadim non lasciò il suo polso. «Lei mi aiuterà. Lei mi deve aiutare. Altrimenti non sarà difficile trovare un altro ragazzo disposto a testimoniare che lei lo ha molestato in un cinema, in un giardino, o magari, perché no?, in un bosco. Preferisce così?...» Aron lo guardò negli occhi. Poi fissò la mano che stringeva il suo polso. E infine sorrise. «Sì. Preferisco. Molto meglio così. Così mi piace...» Vadim mollò la presa. Aron tornò a sdraiarsi. La sua schiena aderì

dolcemente al lettino. Il medico si abbandonò a un lungo respiro e i suoi occhi si incollarono al soffitto. «Le ripeto la prima domanda. L'uomo che sto cercando secondo lei è pazzo?» «Pazzo è una parola che non significa niente. Che cosa intende lei per pazzo?» «Un malato, un malato di mente.» «In tal caso, la risposta è sì. Su questo non ci sono dubbi. E' un malato di mente.» «Come fa a esserne tanto sicuro?» «Solo un malato di mente uccide per il piacere di uccidere.» «E la sua malattia, come si chiama?» «Non lo so. Non ho elementi sufficienti per dirlo. Potrei soltanto tirare a indovinare.» «Tiri a indovinare.» «Schizofrenia.» «Ne ho sentito parlare. Ma non so cos'è. E' una malattia rara?» «Non è una malattia rara. E' una malattia grave. In questo paese ne sono affetti, probabilmente, milioni di persone. E ogni giorno che passa, diventano sempre di più.» «Sta dicendo che questa malattia è una malattia tipicamente sovietica?» «No, non dico questo. La schizofrenia è una malattia universale. Ma in Unione Sovietica trova un terreno molto fertile.» «Perché?» «Alla base della schizofrenia c'è sempre una crisi di identità. L'Unione Sovietica è una nazione completamente inventata. L'unica identità dell'uomo sovietico è il comunismo. Però il comunismo sta cadendo a pezzi. E l'uomo sovietico ha bisogno urgente di altre identità. Ma a cosa può aggrapparsi? Alla religione? No, la religione no. Dio non è mica risorto. E se Dio non esiste, allora tutto è possibile. La gente finisce per arrangiarsi. C'è chi riscopre la propria razza, chi diventa monarchico, chi comincia ad ammirare il nazismo. Chi più chi meno, sono tutti malati di mente...» Vadim lo ascoltava con interesse ma lo guardava con diffidenza. «E lei?» gli chiese a bruciapelo. «Io cosa?...» domandò Aron. «Lei non soffre di crisi di identità?» Aron lo guardò negli occhi. Con uno sguardo sorprendentemente virile. «Ne ho sofferto. Ne ho sofferto tutta la vita. Ma adesso è finita. Adesso che tutti si ammalano, quelli come me guariscono. Io sono scappato dal nazismo e ho cercato rifugio nel comunismo. Solo che il comunismo non mi ha voluto. Non deve dimenticare che io rappresento tutto ciò che il comunismo

ha sempre rifiutato. Sono ebreo, omosessuale, ed esercito una professione che fino a ieri era proibita.» «Se è così, perché non se ne va? Perché si ostina a rimanere ancora in questo paese?» Aron lo fissò con un sorriso beffardo. «Perché è ancora qui, in questo paese, che si decide il destino dell'umanità. E io voglio proprio vedere come va a finire. Anche se dovesse essere la fine del mondo.» Le parole di Aron avevano un suono angosciante per Vadim. Perché in cuor suo lui le condivideva, ma non voleva e non poteva ammetterlo. L'investigatore provò a sfuggire l'intenso sguardo di sfida del medico ebreo. Ma quando i suoi occhi si posarono sulla porta finestra che dava nel giardino, Vadim incontrò un altro sguardo, ancora più inquietante. Erano le pupille incandescenti di un gatto. Un gatto nero. Stava immobile dietro i vetri. E lo fissava. «Forse ha ragione lei, dottor Richter. Ma vede, io sono ancora comunista. Io non credo nel destino. Ho sempre pensato che il destino ce lo fabbrichiamo noi, con le nostre mani. Ed è per questo che ora le sto chiedendo di aiutarmi a fermare quell'uomo». Aron scosse il capo. «E' inutile. Troppo tardi.» «Troppo tardi? Perché?...» «In questo secolo gli uomini hanno ammazzato decine di milioni di uomini, eppure siamo ancora qui. Ma l'uomo che lei sta cercando è di una razza a parte. Rappresenta lo stadio più avanzato di una malattia che conosciamo poco, pochissimo. Ora le dirò il vero motivo che mi trattiene ancora in questo paese. Le malattie mentali sono la cosa più progredita che ci sia oggi in Unione Sovietica. E sa perché? Perché in Unione Sovietica la psichiatria non esiste e non è mai esistita. Nessun medico si è mai preso la briga di curare un malato di mente. I vostri medici, da generazioni e generazioni, sono dei poliziotti. E i manicomi sono serviti soltanto per scardinare il cervello dei dissidenti politici, cioè dei più sani di mente. Nel frattempo, provi a immaginare cosa è successo. E' successo che le malattie mentali sono andate avanti indisturbate, hanno fatto passi da gigante, hanno imparato a camuffarsi nella realtà quotidiana. Sono cresciute, sono diventate terribili, astute, incontrollabili. Ecco che cosa è successo. E le garantisco che questa è una calamità forse peggiore della bomba atomica.» Vadim lo ascoltava sempre più angosciato. Ma era sempre più incuriosito. «Mi parli ancora di quell'uomo.» «Sbaglia a chiamarlo uomo. E' un bambino.» «Un bambino?»

«E' grande, è forte, è feroce. Ma è un bambino. Anzi, per la precisione è un bambino morto. Anzi no. E' esattamente un uomo adulto che porta nel cuore un bambino morto. Questo adulto uccide i bambini perché vuole cancellare il bambino che c'è in lui. Ma siccome non ci riesce, se li mangia... Oppure li mangia per rinascere, per rigenerarsi, per dimenticare tutte le sue sofferenze di bambino e ricominciare tutto daccapo. Se vogliamo, è la stessa cosa. E' chiaro?...» «No.» «Lo sapevo. Vede? Non le sono di nessuna utilità.» «Stiamo parlando di delitti sessuali, dottor Richter.» «Il sesso è l'istinto. E' la scintilla. Ha mai notato con quanta violenza si accoppiano gli animali?» «E' un bambino o un animale?» «E' come il primo uomo sulla Terra. Uccide e divora i suoi simili. Il suo stato è il più arretrato della storia dell'umanità. Ma è un uomo di oggi. Vive la vita di oggi con tutte le conoscenze del mondo di oggi, quindi è anche l'uomo più progredito di tutti i tempi. Lui è queste due cose insieme. Ha l'istinto di un milione di anni fa e le armi mentali del Duemila. E' un essere eccezionale.» Vadim scoprì improvvisamente una luce di ammirazione negli occhi di Aron. «Da come ne parla, sembra quasi che ne sia affascinato.» Per tutta risposta, Aron gli rovesciò addosso la sua stessa domanda. «Perché, lei no?» «Io voglio soltanto prenderlo.» «Per farne cosa?» «Io? Niente. Sarà un tribunale a processarlo.» «E lo condanneranno a morte.» «Non lo so.» «Glielo dico io, lo condanneranno a morte.» «Forse no, se è così malato.» «Un tribunale sovietico non accetterà mai la sua malattia. Non lo capiranno, quindi lo uccideranno. E uccideranno tutti quelli che verranno dopo di lui. Ma così non risolveranno mai il problema.» Vadim si sentiva come Alice nel paese delle meraviglie. O Alice nel paese degli orrori. Orrori e meraviglie. In fondo, erano la stessa cosa. Stava cominciando a ragionare come Aron. Con la stessa ingenuità. E lo stesso cinismo. «Mi piacerebbe sapere qualcosa di più su questa malattia. Vorrei capire come nasce, come funziona, come si sviluppa.» «E un discorso troppo lungo e troppo complesso.» «Abbiamo tempo.» «Non è una questione di tempo.»

«Mi sta dicendo che è una cosa che io non posso capire? E così?...» «In un certo senso sì.» «Cercherò di fare uno sforzo.» «Temo che dovrà fare un grandissimo sforzo. Lei è comunista, e il comunismo nega l'esistenza del mondo interiore.» Vadim lo guardò con scetticismo. E una punta di disprezzo. «Lei è un medico ma parla come un prete.» «Mi aspettavo che dicesse così. Come tutti i comunisti, lei confonde il mondo interiore con la religione. Lei non riesce a capire che un mondo interiore ce l'hanno tutti, anche se non tutti hanno una fede religiosa.» «Va bene. Vada avanti.» «Un individuo diventa schizofrenico quando si verifica una profonda frattura tra il suo mondo interiore e il nostro mondo, quello esterno. Questo individuo viene risucchiato dal suo mondo interiore e non riesce più a vivere la realtà esterna. E' come una persona prigioniera di un incubo. Ma deve pur continuare a vivere nella realtà esterna. E allora si fabbrica un sosia. Crea un altro individuo che gli faccia da controfigura nella vita quotidiana, nei rapporti con gli altri. E' a questo punto che la sua personalità si divide in due. Egli diventa due persone completamente diverse. E nessuna delle due è in grado di sapere cosa sta facendo l'altra... Ha mai letto «Il Dottor Jekyll e Mister Hyde«?» «No, non l'ho letto. Lei dice che questa persona è prigioniera di un incubo. Vorrei capire in cosa consiste questo incubo...» «Lo schizofrenico vive nel nulla. Sto parlando di un grande nulla, un nulla totale, universale. Questo nulla è l'assenza di qualcosa o di qualcuno. Assenza di genitori, assenza di amici, assenza di rapporti umani, assenza di gioia, assenza di denaro... L'elenco, in teoria, è illimitato. Provi a pensare qualcosa e provi a immaginarne l'assenza.» Vadim si era distratto. Con la coda dell'occhio, sbirciava il gatto nero. Era sempre immobile. Non smetteva di fissarlo. «Nel nostro caso, secondo lei, di quale assenza si tratta?» «Non lo so. Non lo conosco. Come faccio a saperlo?» «Avrà pure una sua ipotesi...» «L'unica ipotesi che posso fare non riguarda lui, riguarda tutti. Perché il comunismo ha creato le condizioni per farci finire tutti nel nulla. Quando ai genitori si sostituisce lo Stato, agli amici i compagni e all'amore il dovere, tutti diventiamo potenzialmente schizofrenici. Ecco perché le sto dicendo che dopo questo assassino ne verranno degli altri. E le posso garantire fin da ora che saranno sempre più forti, sempre più pericolosi, sempre più inafferrabili.» Vadim aveva visto giusto. Quel piccolo ebreo, nonostante il suo gatto nero e

il suo catastrofismo, poteva essere un prezioso alleato. «Non le sembra un buon motivo per lavorare insieme?» «No.» «Non menta con se stesso, dottor Richter. Lei vuole quest'uomo quanto lo voglio io.» «Sì. Ma io lo voglio vivo.» «Anch'io lo voglio vivo.» «Lei è un poliziotto. Come faccio a fidarmi?» «E io perché mi dovrei fidare di lei? Lei è un intellettuale ebreo, lei è omosessuale, lei adesca i bambini nei cinema... Secondo lei chi è di noi due quello che rischia di più?» A un tratto, squillò il telefono. L'apparecchio si trovava sulla scrivania, sepolto sotto i libri. Lo psicanalista si alzò dal lettino e si precipitò a rispondere. Ma passò immediatamente il ricevitore a Lesiev. La chiamata veniva dal commissariato. La conversazione telefonica fu breve. In realtà, non fu nemmeno una conversazione. Vadim si limitò ad ascoltare, mentre guardava il gatto che lo osservava imperturbabile da dietro il vetro. La fissità dello sguardo di quell'animale lo sconcertava. Quando riappese la cornetta, l'investigatore non poté fare a meno di dirlo al dottor Richter. Aron scoppiò a ridere. «Quel gatto è morto otto anni fa, Lesiev. L'ho imbalsamato io stesso. Ma non ho fatto un buon lavoro. Puzza peggio di un cadavere. E per questo che lo tengo fuori. L'ho amato molto, però c'è un limite a tutto. Cattive notizie?» Vadim annuì in silenzio. Ma Aron voleva sapere di più. Moriva di curiosità. La curiosità era la sua più grande qualità e il suo più grande difetto. «Ancora lui?» «Sì.» «Chi è la trentesima vittima?» «Una donna.» «Dove?» «Poco fuori città. Dove comincia l'autostrada per Novocerkassk.» «E lei adesso cosa farà? Andrà lì?» Vadim guardò Aron e capì che lo teneva in pugno. «Prenda il soprabito, dottor Richter. Lei viene con me.» «E un ordine?» «Sì.» «Non posso rifiutare?» «No.» «Va bene, andiamo.»

Margarita era sempre lì. Aveva ancora le gambe ritte e gli occhi spalancati. Sembrava che piangesse. Era la pioggia. Veniva giù fitta e sottile, senza far rumore, senza neppure scuotere la vegetazione. Anche gli agenti lavoravano in silenzio. Il tenente Ramenskij stava redigendo un verbale. Il sergente Frolov preparava il galleggiante. Il giovane Nikitin scavava la buca. E il medico legale Amitrin esaminava il cadavere. Quando Lesiev sopraggiunse in compagnia del dottor Richter, nessuno azzardò commenti. Ma lo psicanalista, appena vide la donna, sentì immediatamente che il suo stomaco stava per esplodere. Si precipitò a vomitare dietro un albero. I poliziotti si scambiarono occhiate complici. Una irrefrenabile risatina laida passò di bocca in bocca. Difficile biasimarli. Il cinismo era la loro unica, triste soddisfazione in quella orribile routine. Vadim stava ancora fissando il cadavere. Ramenskij si avvicinò con l'aria di chi la sa lunga. «Non la riconosce?» L'investigatore lo guardò molto sorpreso. «E' Margarita Larikova, l'avvocatessa. Non le è mai capitato di incontrarla?» disse il tenente. «No... Credo di no.» «Allora sicuramente no. Se l'avesse vista, anche una volta sola, non avrebbe potuto dimenticarla. Era bellissima. Giù al tribunale, sbavavano tutti per lei...» «Ah, sì?...» rispose distrattamente Vadim. «Sì, sì, eccome. Ma la Larikova non dava molta confidenza. Era altezzosa. Aveva una puzza sotto il naso...» «Ah, sì?...» ripeté ancora Vadim. «Glielo dico a ragion veduta. Una sera l'ho portata fuori a cena. Ma non è successo niente.» «Ah, sì?...» disse per la terza volta Vadim. Il tenente Ramenskij finalmente realizzò che il superiore lo stava sopportando a stento. «Forse la annoio, Vadim Timurovitch?» «No. Al contrario. Mi interessa molto. Quello che mi dà fastidio è soltanto il modo in cui lei parla di questa donna, tenente.» Ramenskij abbassò lo sguardo e voltò le spalle all'investigatore. Vadim notò allora il dottor Richter che stava frugando tra gli indumenti della vittima. «Trovato qualcosa, dottore?» «Niente. Assolutamente niente. E' veramente incredibile...» Aron mostrò a Vadim il vestito e la sottoveste di Margarita. «Guardi qui... Non c'è uno strappo, non manca neppure un bottone, niente. E come se

fosse stata lei a togliersi tutto, di sua spontanea volontà. E' incredibile...» «Le sembrerà ancora più incredibile se le dico che questa donna non è come le altre. Non si tratta di una prostituta e nemmeno di una ragazza scappata di casa. Si chiamava Margarita Larikova. Era un'avvocatessa. Molto bella e molto altezzosa, pare.» «Se è così, non mi sorprende. Anzi. Adesso capisco...» «Cosa?» «Una prostituta, una ragazza scappata di casa, o una contadina avrebbero avuto l'istinto di lottare, avrebbero cercato di fuggire. Per una persona istruita, bella, elegante e di buona famiglia invece è diverso. Questa donna non ha nemmeno tentato di difendersi perché in tutta la sua vita non le sarà mai capitato di dover reagire all'aggressione di un bruto. Se è venuta fin qui, deve aver provato un certa attrazione per il bruto... ma poi, quando quello l'ha assalita, è rimasta paralizzata dal terrore.» «Bene. Vedo che ha cominciato a lavorare, dottor Richter...» «Io non ho cominciato un bel niente. Per lavorare veramente dovrei raccogliere tutte le informazioni che mi servono, dovrei conoscere le indagini svolte finora, dovrei poter consultare i vostri archivi.» «Va bene,» disse Vadim. «Va bene cosa?» chiese Aron. «La autorizzo a consultare i nostri archivi.» «Sta dicendo sul serio?» «Sì. La farò aiutare da Nikitin. E' l'agente più giovane che ho, ma è veramente in gamba.» Lo psicanalista si rabbuiò improvvisamente e rispose a denti stretti. «Non voglio poliziotti tra i coglioni, Lesiev.» Vadim se l'aspettava. Eppure si irrigidì. L'obiezione di Aron era stata più brusca e più determinata del previsto. «Questo complica le cose, dottor Richter.» «Se vuole, possiamo semplificarle. In fondo, esiste sempre un'altra soluzione.» «Quale?» «Oggi io sono un libero professionista, Lesiev. Lei mi assume ufficialmente come collaboratore e mi corrisponde il mio onorario. In tal caso, mi rassegnerò a sopportare il suo sbirro.» Vadim lo guardò sorpreso. Dispiaciuto. Quasi indignato. «Allora è solo una questione di soldi, dottor Richter?» «Già. Io sono ebreo. Ha dimenticato?» disse sorridendo Aron. «E lei ha dimenticato o fa finta di non capire che io non posso assumerla e non posso pagarla...» «Lo so benissimo. Ma io voglio essere pagato in fiducia,» disse lo psicanalista tendendo la mano all'investigatore.

Il giorno seguente, il dottor Richter entrò di soppiatto negli archivi del commissariato. In gran segreto, Lesiev gli aveva concesso un pomeriggio, uno solo, per consultare i documenti del caso «Striscia di bosco.» Aron si ritrovò chiuso a chiave in una stanza piena di scartoffie, umida e senza finestre. Ma la chiave era nella sua tasca. E lui ogni tanto la accarezzava con orgoglio. Quella chiave significava molto per lo psicanalista. Voleva dire parecchie cose. Tutte importanti. Non era più un indiziato da interrogare a suon di minacce e di intimidazioni. Non era più un frocio pervertito ebreo da additare al pubblico disprezzo. Non era più un losco stregone che si faceva passare per medico. E ognuna di queste cose gli sembrava di gran lunga più appagante del suo onorario. Sorseggiando un lungo caffè turco, Aron sfogliava i dossier degli indiziati. Passava rapidamente dall'uno all'altro con grande disinvoltura. Si soffermò soltanto sul fascicolo che lo riguardava. Lo lesse per intero e gli scappò di correggere, a penna, un dato inesatto. «Occhi azzurri,» stava scritto nel dossier. Aron cancellò l'aggettivo e lo sostituì con «verdi.» Una pura civetteria. Alle otto di sera qualcuno bussò. Era Vadim. Gli domandò per quanto ne avesse ancora. Aron disse che era ben lungi dall'aver finito. L'investigatore lo guardò con una smorfia di disappunto. Gli ricordò che doveva fare in fretta, perché non poteva certo lasciarlo lì e non gli andava davvero di aspettare fino all'alba i suoi comodi. Per tutta risposta, il dottor Richter gli chiuse la porta in faccia e fece ritorno alle scartoffie. Aron sapeva esattamente cosa stava cercando. E infatti, quando sul dossier 135 apparve la foto di Andrej Romanovitch Evilenko, lo psicanalista ebbe un sussulto. Prese carta e penna e cominciò a trascrivere tutti i dati biografici contenuti nel fascicolo che portava il nome dell'ex insegnante. Ricopiò anche alcuni brani dai verbali degli interrogatori, soffermandosi sulle risposte più strane, e ve ne erano in abbondanza, che l'indiziato aveva fornito agli inquirenti. Viste così, nero su bianco, le dichiarazioni di Andrej erano effettivamente sconcertanti. Già a prima vista, le sue parole sembravano tradire profondi disturbi mentali. Se ne poteva ricavare tutto un campionario di quelli che in gergo si definiscono lapsus freudiani. Come quell'atto di rompere gli occhiali che lo psicanalista aveva potuto osservare quando si trovavano entrambi rinchiusi nella camera di sicurezza. Perché mai Evilenko aveva fatto cadere le sue lenti? Per non vedere? Per non esserci? Per diventare invisibile? Quest'ultima supposizione gli parve la più

appropriata e la più ampia, dal momento che conteneva le due precedenti. Aron, tuttavia, fu turbato dalla sua stessa ipotesi. Diventare invisibili è infatti il desiderio più immediato e più ricorrente nelle persone afflitte da schizofrenia. Lo psicanalista rimase alquanto sorpreso dalla ammissione di impotenza fatta da Andrej. Anche lui la confrontò con la denuncia sporta da tale Irina Zubova che, al contrario, lo accusava di aver cercato di violentarla. Il dottor Richter annotò il nome e l'indirizzo della donna. Abitava in via Bolshaja Sadovaja, al terzo piano del civico 33. Non era distante da casa sua. Pensò quindi che sarebbe stato utile andare a trovarla, prima o poi. Ciò che più colpì Aron, fra le tante cose che ebbe modo di leggere in quel dossier, era la foga che l'ex insegnante mostrava nel rinnegare il padre, vittima delle purghe staliniane. Andrej aveva sviluppato un complesso di Edipo molto evidente. Il più evidente fra i tanti che lo psicanalista aveva potuto constatare nella sua lunga e tribolata carriera. Ma se Evilenko, come Edipo, voleva uccidere suo padre per impossessarsi di sua madre, il progetto risultava frustrato in partenza. La madre di Andrej, infatti, era morta nello stesso istante in cui egli nasceva. E lui con chi l'aveva sostituita? Nell'età adulta, con una moglie bianca, una moglie-sorella devota come Fenja. Ma nella prima infanzia? Chi era a quel tempo la sua prima madre?... Un istituto per orfani? Un insegnante in particolare? O addirittura Stalin in persona? Evilenko aveva una concezione della vita del tutto artificiosa. Un matrimonio mai consumato, nessun parente, nemmeno un amico. Quest'uomo pareva generato da un principio astratto, come un essere umano clonato dall'ideologia. Era figlio dell'ideologia e l'ideologia lo aveva completamente invaso. Un esercito di duri e intransigenti concetti aveva piantato le tende nel suo cervello e anche nel suo cuore. La fede cieca in un comunismo assoluto, paternalistico e autoritario rappresentava tutto per lui. Tutto il suo passato, tutta la sua sfera emotiva, tutte le sue aspettative mancate. Forse neppure Stalin aveva mai sognato, nei suoi deliri di onnipotenza, di riuscire a creare un prototipo di comunista così perfetto. Quasi senza accorgersene, Aron giunse a una conclusione paurosamente eccitante. Evilenko era un uomo di una razza a parte. Come il mostro di Rostov. Lesiev riaccompagnò a casa il dottor Richter poco prima della mezzanotte. La Zhigulì scivolava silenziosa sull'asfalto lucido di pioggia attraverso la città buia priva di insegne. Vadim e Aron restarono per un po' senza parlare.

Ma l'investigatore non riuscì a trattenere a lungo la sua curiosità. «Ha trovato qualcosa di interessante?» chiese Vadim senza staccare gli occhi dalla strada. «Forse. Chissà. Devo ancora indagare,» rispose Aron facendo il vago. «Ah, no. I patti erano chiari. Le ho concesso un solo pomeriggio in archivio.» «Le ho forse chiesto di tornare in archivio?» «E allora dove intende indagare?» «Un po' qui, un po' lì. In giro.» «Questa non è una risposta,» ribatté Lesiev. «Gradirei indicazioni più precise, dottor Richter.» «Se facessi la stessa domanda a lei, come mi risponderebbe?» «Come dice lei, io sono un poliziotto. Non sono uno psicanalista.» «Non c'è poi molta differenza, mi creda.» «I poliziotti esistono da che esiste il mondo, come i criminali. La psicanalisi mi pare una cosa piuttosto recente.» «Lei si sbaglia, Lesiev. La psicanalisi è sempre esistita.» «A me risulta che non sia neppure una scienza.» «Non so se sia una scienza oppure no. Questo non l'ho mai capito neanch'io. Ma le assicuro che è sempre esistita. In passato, ogni medico, ogni artista, ogni magistrato, ogni poliziotto, ogni conoscitore di esseri umani non poteva non usarla, anche se ciò è sempre avvenuto in modo del tutto automatico. Tutti i nostri antenati hanno lavorato con la psicanalisi. Non la chiamavano così, ma era la stessa cosa.» Erano giunti all'incrocio tra la Sovietskaja e la Mezhevoj. Non pioveva più. Richter disse a Lesiev che poteva lasciarlo all'angolo, senza addentrarsi nel vicolo. Prima di congedarlo, Vadim lo guardò negli occhi e gli parlò con estrema lealtà. «Non sarebbe poi così difficile per me ottenere informazioni sulle sue indagini, dottore. Potrei farla pedinare. Ma non lo farò. Sarebbe sciocco. In fin dei conti, sono stato io a chiedere il suo aiuto. Lei vuole essere ricompensato con la fiducia? Va bene. Io le darò tutta la fiducia che chiede. Però la avverto. Non prenda troppe iniziative. Lei ha poca dimestichezza con i criminali. Non faccia niente che io non farei. E soprattutto, mi tenga sempre al corrente. Intesi?» «D'accordo,» rispose lo psicanalista con un sorriso di gratitudine. Aron era maestro nel dire bugie. Quando la Zhigulì scomparve in fondo alla Sovietskaja, il dottor Richter si incamminò con passo spedito verso la Bolshaja Sadovaja. Passò indenne in mezzo a un gruppo di ubriachi georgiani che uscivano caracollando dal Ristorante Centrale.

E raggiunse infine il numero civico 33. L'indirizzo di Irina Zubova. Il luogo dove risiedeva l'unica donna che era stata lambita dal discutibile privilegio di conoscere intimamente Andrej Romanovitch Evilenko. L'edificio era sporco e malandato. Le scale buie. Mentre Aron si inerpicava indovinando i gradini, salivano con lui gli odori del cibo e l'olezzo degli escrementi. In quello stabile, le cucine e i gabinetti erano in comune fra tutti gli inquilini. Ma solo chi abitava lì da parecchio tempo poteva abituarsi a un simile tanfo. Una debole luce guidò il dottor Richter fino al terzo piano. Aron notò che la porta dell'appartamento di Irina Zubova era spalancata. La donna doveva essere piuttosto giovane. Aveva i capelli rossi e sembrava molto magra. Era seduta accanto a una vecchia stufa a gas, proprio sotto la lampadina che spioveva dal soffitto. Le sue lunghe gambe nude erano piantate contro la parete di fronte a lei, come per sbarrare il cammino agli intrusi. Irina si trovava in quella posizione perché si stava laccando le unghie dei piedi. Di rosso. Un rosso molto cupo. Un rosso che poteva ricordare, senza eccessivi sforzi di immaginazione, il colore del sangue rappreso. «Hai portato il preservativo?» domandò Irina al dottor Richter sbirciandolo con la coda dell'occhio. «Io li ho finiti e non posso uscire a cercarli, ho una febbre tremenda...» aggiunse con un colpo di tosse che le fece vibrare il petto peggio di una fucilata. Evilenko non aveva mentito. Irina Zubova era effettivamente una prostituta. E a giudicare dal suo stato di salute, nonostante la giovane età, la sua carriera pareva avviata a grandi passi verso il capolinea. Aron le sventolò sotto il naso tre banconote da cento rubli. «Se mi vuoi scopare senza preservativo, trecento non bastano,» rispose Irina. Lo psicanalista la squadrò con un sorriso di compatimento. «Io sono vegetariano, signorina. Non voglio scopare. Voglio soltanto parlare. Posso entrare?» La donna lo guardò sospettosa. «Chi sei? Un frocio o un poliziotto?» «Tutti e due, signorina.» «No, tu non sei poliziotto. Sei troppo educato. E mi sa che non sei nemmeno un frocio.» «Quanto a questo, le posso dare la mia parola, signorina». Con un guizzo esperto, Irina gli strappò di mano i soldi.

Quindi ripiegò le sue lunghe gambe per lasciarlo passare. Aron entrò nella stanza e si rese immediatamente conto che era l'unica. Un grande letto sfatto occupava gran parte dello spazio. Un lavandino incrostato di sporcizia sorgeva da un muro. A parte un armadio senza più ante, non c'era niente altro. Lo psicanalista si guardò attorno e scoprì il suo volto riflesso in uno specchio. Poi un altro. E un altro ancora. Ce n'erano tanti, di specchi. In ogni parete, e anche sul soffitto. Ma erano quasi tutti rotti. Incrinati da momenti di ira o di passione. Forse più ira che passione. Irina lo invitò, con un cenno, a sedersi sul letto. Il dottor Richter preferì restare in piedi. Non si tolse neppure il soprabito. Le domandò subito di Evilenko. Ma appena pronunciò quel nome, lei corrugò la fronte e mostrò una faccia feroce. Aron se la cavò spiegandole che Andrej era molto malato e che lui era il suo medico. La parola medico ebbe un immediato effetto benefico sull'umore di Irina. «Sei un medico? Veramente? Allora mi devi visitare. Sono io che sto male e non capisco che cos'è. E' più di un mese che ho la febbre e la tosse. Ho preso un sacco di medicine, ma non sono servite a niente...» La donna si spogliò e lo psicanalista dovette fare buon viso a cattiva sorte. Quando Irina si sfilò il reggiseno, Aron riuscì a scorgere delle piccole ustioni intorno ai suoi capezzoli. Il dottor Richter fece finta di niente. Avrebbe voluto chiederle: «Quale è la sua tariffa per una bruciatura di sigaretta?» ma ingoiò la battuta un attimo dopo averla pensata. E così, mentre lui le auscultava un rumore di ferraglia nei polmoni, la donna cominciò a parlare di Evilenko. «L'ho incontrato davanti alla stazione. Gli ho chiesto se aveva la grana e lui mi ha fatto vedere il portafogli. Era pieno di soldi. Sembrava una fisarmonica. Poi, non ricordo più niente. E stato come... come se mi fossi addormentata. Quando mi sono svegliata mi sono ritrovata qui, con i vestiti strappati, legata al letto. Lui era in piedi davanti a me, era nudo, e aveva in mano un coltello, o forse... non so, forse era un rasoio. Allora io mi sono messa a gridare e per fortuna i vicini hanno sentito. Lui ha capito al volo che si metteva male. Ha raccolto i vestiti ed è scappato, tutto nudo, giù per le scale.» «Ma scusa, tu non sapevi il suo nome. Come hai fatto a denunciarlo?» obiettò Aron. «Sapessi quanto l'ho cercato, quel bastardo. Mi ci sono volute non so quante settimane, ma alla fine l'ho ritrovato. Sempre lì, alla stazione. Ho chiamato un poliziotto e l'ho fatto arrestare. Però, siccome io sono solo una puttana, quegli stronzi lo hanno rilasciato subito. Non si sono fatti dire neanche i

nomi dei suoi complici...» «Complici? Quali complici?» «E' chiaro che aveva dei complici, no?! Sennò come avrebbe fatto a tramortirmi, a portarmi via di peso fino a casa, a legarmi al letto, eh?!...» «Ma... Allora tu eri già stata con lui?» «No. Mai.» «Mi vuoi spiegare come ha fatto Evilenko a sapere dove abitavi?» «Saranno stati i suoi complici. Dovevano essere almeno in due.» Il dottor Richter si guardò bene dal fare altre domande. A un tratto, ebbe la sensazione che non vi fosse più niente da sapere. Aron era stato folgorato da un'intuizione improvvisa. Forse aveva capito chi erano i complici di Evilenko. Dovevano essere effettivamente due, come pensava Irina. Ma non erano quelli che immaginava lei. Si trattava di due esecutori freddi, spietati e assolutamente insospettabili. Erano gli occhi di Andrej. Proprio così. Quelle due grandi pupille bianche forse avevano il potere di piegare qualunque volontà. Se questa supposizione era giusta, si sarebbe spiegato perché le vittime del mostro di Rostov non si ribellavano mai e lo seguivano docili fino alla mattanza. Lo psicanalista esultò dentro di sé. L'ipotesi era affascinante ed era sua in esclusiva. Nessun altro ci sarebbe arrivato. Una simile idea poteva venire solamente a un uomo che conosceva e praticava l'ipnosi. Aron lasciò l'appartamento della giovane prostituta dopo averle prescritto un robusto analgesico. Scese le scale portando con sé la consapevolezza che non l'avrebbe mai più rivista. La febbre e la tosse non sarebbero andate avanti per molto. Del resto, era meglio che la donna si spegnesse così, senza sapere di aver contratto un recente e micidiale virus ormai comunemente chiamato AIDS. Tornando a casa, mentre rifletteva sulla triste sorte di Irina Zubova, il dottor Richter fu assalito da un pensiero buffo. Se Evilenko era davvero il mostro di Rostov, aveva una fortuna a dir poco sfacciata. Se nessuno gli avesse impedito di darsi alla pazza gioia con il sangue di Irina Zubova, quell'uomo probabilmente non sarebbe sopravvissuto a molte delle sue successive vittime. L'indomani, lo psicanalista si recò di buon'ora all'università di Rostov. La sua meta era l'archivio della facoltà di lingua e letteratura russa. Aron consultò i registri a partire dal 1960. Non tardò a scoprire che Andrej Romanovitch Evilenko era uno studente di qualità non comuni.

Conseguiva sempre voti più alti di tutti i suoi compagni di corso e, caso più unico che raro, aveva incredibilmente rifiutato una borsa di studio all'estero per poter partecipare a un concorso che assegnava un posto di insegnante in una Scuola Internato per orfani a Novoshakhtinsk. Inutile aggiungere che quel concorso Andrej lo aveva vinto a mani basse. Lo psicanalista trovò inoltre, fra i tanti documenti, alcune foto dell'anno accademico 1961. Gli ci volle un po' per individuare il volto di Andrej in mezzo a tante facce di studenti vestiti tutti uguali e pettinati secondo la moda dell'epoca. Lo riconobbe proprio dallo sguardo. In quella foto, Evilenko era un ragazzo magrolino dai tratti gentili. Ma gli occhi erano quelli di sempre. Occhi così chiari che quasi riflettevano l'immagine di chi li guardava.

19 Verso la metà di marzo, il termometro impazzì. In quei giorni, Rostov balzò agli onori delle cronache con il titolo di città più calda d'Europa. Attorno alla foce del Don la temperatura salì fino a 25 gradi. La punta massima fu registrata il 14 marzo a un'ora decisamente insolita. Le tre del mattino. Uno strano scherzo della natura. O forse un fenomeno che con l'ordine naturale delle cose aveva assai poco a che fare. Recentemente, una équipe di giovani ricercatori dell'università aveva scoperto, in seguito a una serie di rilevamenti, che la zona di Rostov era la più radioattiva di tutta l'Unione Sovietica. Il vento che spirava in direzione del Mar d'Azov ingrossava il fiume di invisibili veleni provenienti dall'Ucraina. Ucraina era come dire Cernobyl. La vecchia centrale nucleare dava ancora ineffabili segnali di vita e sinistri annunci di morte. Ma poiché a nessuno premeva rievocare lo spettro di Cernobyl, i risultati di quella ricerca restarono a lungo segregati dietro i muri dell'università. In fin dei conti, la gente era allegra. Quel caldo improvviso e appiccicoso pareva a tutti un atto di clemenza divina. Il sindaco di Rostov decise di approfittare del clima per accantonare i soliti problemi irrisolti e mettere all'ordine del giorno un incredibile piano di incentivazione del turismo. Fece stampare alla spicciolata centinaia di dépliant che recavano indirizzi di alberghi e ristoranti per lo più inesistenti e persino la réclame di un casinò ancora da costruire. Il 17 marzo del 1990, l'impiegato Andrej Romanovitch Evilenko era seduto alla sua scrivania. Sudava e sbuffava. Nell'ufficio approvvigionamenti delle ferrovie l'afa era più insopportabile che altrove. Tutte le finestre guardavano il fiume ed erano martellate dal sole. Un sole molto velato, quasi bianco, che spandeva un calore sporco. Evilenko era stanco ma soddisfatto. Aveva lavorato sodo, nelle ultime due settimane. Era riuscito a mettersi finalmente in pari con i resoconti delle sue missioni fuori sede. E anche il rapporto mensile destinato a Mosca era pronto. Dopo aver controllato che non vi fossero sguardi indiscreti in agguato, Andrej scrisse sulla busta il nome e l'indirizzo del destinatario: Colonnello Yuri Tabakov, Direzione Generale del K.G.B., Lubjanka 36, Mosca. Poi si alzò e andò dritto all'ufficio del funzionario capo. Bussò alla porta a vetri. E quando la voce del capufficio assentì, Evilenko entrò.

Con un sorrisetto dei suoi, Andrej depose sulla scrivania di Bagdasarov tutti i verbali che aveva redatto. Il dirigente li sfogliò con viva sorpresa e non lesinò la sua approvazione. «Mi compiaccio, Evilenko. Mi compiaccio. Davvero un bel lavoro.» Andrej fu lesto a chiedere a Bagdasarov il permesso di assentarsi. «Va bene, Andrej Romanovitch. Mi pare giusto. Lei si è meritato un po' di svago...» disse Bagdasarov. «E già che esce, mi faccia un favore...» Il capufficio aprì un cassetto della scrivania. Tirò fuori un oggetto piuttosto insolito per quella sede. Una scarpa da donna. Evilenko la guardò e per un attimo restò come stregato dalla sua proterva oscenità. Era di un viola scioccante. Era molto scollata. Aveva il tacco spezzato. Nella mente perversa di Andrej, quella scarpa diventò improvvisamente una spogliarellista di quart'ordine violentata da un branco di cosacchi sul palcoscenico di un fumoso cabaret sotto un diluvio di applausi. «La porti a riparare, Evilenko. E' di mia moglie. Viene da Parigi. Ci tiene molto. Mi raccomando, non se ne dimentichi...» Evilenko si recò all'ufficio postale per imbucare il plico diretto a Mosca. Poi fece tappa dal calzolaio e si separò con un impercettibile, inconfessabile rammarico della scarpa allucinante che apparteneva alla signora Bagdasarova. Quando fu libero da ogni incarico, Andrej cominciò a vagare per le strade affollate. La gente sembrava molto eccitata dal caldo e le gambe delle donne sfilavano in parata sotto spericolate minigonne. A Evilenko piaceva molto guardare la gente. Era il suo svago preferito. E aveva assolutamente bisogno di un po' di svago. Non lo aveva forse detto anche il capufficio? A pensarci bene, Bagdasarov da qualche tempo era diventato più gentile con lui. Chissà perché. Forse stava tramando qualcosa. Forse aveva capito che Andrej lavorava per il K.G.B. Forse voleva corromperlo a poco a poco. Ma qualunque cosa avesse avuto in mente, sarebbe rimasto deluso. Perché Andrej non aveva minimamente tenuto conto della sua improvvisa cordialità nel redigere i suoi ultimi, puntigliosi rapporti per il colonnello Tabakov. A un tratto, sulla Sovietskaja, Evilenko si fermò dinanzi a una donna grassa che vendeva gelati. Ma Andrej non era attratto dal gelato. Gli era caduto l'occhio su una bambina bionda che piangeva calde lacrime. Stava rannicchiata ai piedi della gelataia. Si dimenava in terra e squittiva come un uccellino. Portava al collo un grande fiocco bianco su un vestitino nero tutto impolverato.

«E' sua, la bambina?» chiese Andrej al donnone che distribuiva i gelati ai passanti. «No. Non la conosco. Anzi, se la porta via mi fa un favore...» disse quella in tono seccato. Evilenko si chinò sulla bambina e le domandò perché piangeva. Lei non rispose. Continuava a singhiozzare. Fu la gelataia a spiegare l'arcano. «Fa i capricci. Sua madre le ha comprato il gelato, ma lei ne vuole un altro ancora. Allora la madre si è arrabbiata e l'ha lasciata qui. Senza pensare che questa mi fa scappare i clienti. Guardate un po' come mi tocca lavorare...» Andrej si chinò nuovamente sulla bambina porgendole il suo fazzoletto. «Se mi dici come ti chiami, te lo compro io il gelato...» La bambina accettò il fazzoletto e si asciugò le lacrime. Ora i suoi occhi sorridevano mentre pronunciava il suo nome. Valentina. «Quanti anni hai, Valentina?» «Sette.» «Sette? Ma come sei piccola... Allora hai ragione tu. Sì, sì. Sei piccola, perciò hai ancora il diritto di fare i capricci.» Evilenko comprò una cialda ricolma di vaniglia. La bambina fu subito in piedi e cominciò a leccare il gelato con voluttà. Con quel musetto tutto sporco di crema, Valentina era veramente adorabile. Andrej la prese per mano e si avviarono insieme lungo il boulevard che tagliava in due la città. Finito il gelato, la bambina prese a succhiarsi le dita. Evilenko la rimproverò prontamente. «Non mettere le mani in bocca. Sono sporche.» «Non ti preoccupare. Dopo me le lavo,» rispose Valentina. Ma qualche metro più avanti si fermò di colpo e si staccò da lui. «Dove stiamo andando? Io abito dall'altra parte...» «Pensavo che non volessi tornare a casa, visto che tua madre non ti vuole,» disse sornione Andrej. «Non è vero!» protestò Valentina. «Se non è vero dimmi perché ti ha lasciata così, in mezzo alla strada.» «Perché mio fratello si è sentito male, ecco perché.» «Sono sicuro che tua madre vuole più bene a tuo fratello.» «Non è vero!» «Mi dispiace, ma è così.» «No! Vuole più bene a me!» Andrej la fissò con i suoi grandi occhi bianchi e la annichilì con il suo sorriso obliquo. «Non devi dire le bugie, Valentina... Chi te li ha fatti quei lividi sul braccio, tua madre o tuo fratello?»

Improvvisamente la bambina scoppiò a piangere. E fra i singhiozzi ammise che non voleva tornare a casa perché nessuno, proprio nessuno le voleva bene. «Anche questo non è vero, Valentina. Io ti voglio bene. Io ti ho comprato il gelato. Ricordi? E siccome ti voglio bene, sai che facciamo? Adesso ci andiamo a nascondere. Conosco un posto dove nessuno ci troverà. Poi io andrò dai tuoi genitori e gli dirò che sei mia prigioniera. Se ti vorranno riavere, dovranno pagare... diciamo mille rubli». La bambina sgranò gli occhi. «Mille rubli?!» «Sì, mille rubli. Perché? Non pensi di valere mille rubli? Se ti vogliono bene devono pagare. E se pagheranno, tu potrai essere finalmente sicura che ti vogliono bene. Capisci?» La bambina annegò nello sguardo di Evilenko e si ritrovò in balìa delle sue parole. E così, quando quell'uomo che sapeva comprenderla le offrì nuovamente la sua mano, lei ci si aggrappò senza esitazione. Pochi minuti dopo, Andrej e Valentina lasciarono la strada asfaltata. Presero la via dei campi. Improvvise raffiche di vento piegavano le cime degli alberi che si stagliavano all'orizzonte. Lui la aiutò ad arrampicarsi su una diga di ciottoli dove correva la ferrovia. Oltre la massicciata, una piccola pianura si spalancò dinanzi a loro. Cento passi più avanti, l'uomo e la bambina vennero inghiottiti dalla Striscia di bosco. Andrej guidò Valentina nel fitto della vegetazione. Si fermò solamente quando fu certo che gli alberi avevano occultato ogni possibile traccia del resto del mondo. A quel punto, un irrefrenabile tremore si impadronì delle sue mani e un assordante ronzio gli perforò il cervello. Ma lui non si preoccupò. Conosceva bene il terremoto che scuoteva il suo organismo in quei momenti. Era il ruggito della belva che lo abitava. E ora la belva lo stava supplicando di farla uscire dalla gabbia. Andrej prese nella tasca del soprabito un rotolo di spago e cominciò a legare i polsi della bambina. Eseguì l'operazione nel più assoluto silenzio. Lei lo lasciò fare. Non accennò neppure a ribellarsi. Valentina si sentì protagonista di un gioco sconosciuto ma eccitante. E ricambiò il sorriso viscido dell'uomo con un malizioso sguardo d intesa. Dopo averla legata, Evilenko tuffò nuovamente la mano nella tasca del soprabito.

Serrò tra le dita l'inseparabile compagno di tanti misfatti. Poi lo tirò fuori, lo brandì al di sopra della sua testa e lo presentò come un castigo divino alla vittima inerme. Valentina non si spaventò neppure quando vide luccicare la lama del rasoio. Continuò a fissare il suo nuovo grande amico. Rimase ad aspettare fiduciosa il misterioso esito di quel promettente gioco. Ma quando Evilenko si apprestava a vibrare il primo colpo, il suo nome echeggiò improvvisamente per tutta la boscaglia. «Andrej!... Andrej!... Andrej!...» Lo gridavano gli alberi, i cespugli, gli uccelli, la stessa terra. Il mostro di Rostov restò pietrificato con il rasoio sospeso a mezz'aria. Si voltò. Vide sbucare dalla selva un uomo piccolo e anziano, con una grande barba. Lo osservò incredulo mentre avanzava verso di lui con un sorriso commosso e le braccia spalancate. «Andrej!... Finalmente!... Sono ore che io e tua madre ti stiamo cercando...» Il dottor Richter si fermò a pochi passi da Andrej. Scelse la distanza giusta per battersi con le uniche armi che l'avversario e la situazione gli consentivano. La parola e lo sguardo. «La guerra è finita, Andrej. Lo ha detto la radio, pochi minuti fa. Hanno detto anche che tu... tu sei un eroe, Andrej. Il tuo comandante ti aspetta. Ti daranno la Croce di Lenin, sai?...» Il piccolo ebreo giocava d'azzardo. Tutto per tutto. Follia contro follia. Non aveva scelta. E non poteva permettersi di confessare il terrore che provava neppure a se stesso. Evilenko avrebbe fiutato subito la sua paura. In quel momento, Aron non pensava più a nulla. Doveva impersonare il padre di Andrej e aveva l'obbligo di credere fino in fondo, senza dubbi, senza esitazioni, senza riserve, di essere a tutti gli effetti il redivivo Roman Evilenko. La sua incredibile idea avrebbe funzionato solo a questa condizione. Se mai avesse funzionato. Nel momento in cui il dottor Richter riuscì a inquadrare gli occhi del rivale, gli sembrò di scorgere una luce di commozione che brillava nello sguardo di Andrej. E allora continuò con accentuato fervore la sua paradossale recita. «Sono molto fiero di te, ragazzo mio... Dai, vieni. Andiamo a casa. E' tanto che non parliamo, io e te... Lo so, lo so, è colpa mia... Lo so che ti sono

mancato molto. Lo so che hai sofferto tanto. Ma adesso sono tornato e non ci lasceremo mai più... Te lo prometto, Andrej... Mai più...» Evilenko si staccò da Valentina e si avvicinò ad Aron con passi lenti. Lo psicanalista lo attese a pie' fermo. Evitò accuratamente di guardare il rasoio che Andrej stringeva in pugno. Continuò a fissare i suoi occhi. Perché sapeva che tutto quel che poteva accadere, nel bene e nel male, sarebbe transitato un attimo prima nel suo sguardo. Quando l'assassino fu dinanzi a lui e lo sovrastò con la sua imponente statura, Aron intuì che le sue speranze non erano del tutto vane. Le braccia di Evilenko penzolavano inerti ai suoi fianchi. Lo sguardo era annebbiato. Una lacrima stava scivolando lentamente sulla sua guancia. E lui non faceva niente, assolutamente niente per fermarla. «Sei stanco, figlio mio... Non ne potevi più di questa guerra, lo so... Hai combattuto tanto e nessuno ti ha aiutato. Ma adesso è finita. Vieni Andrej, vieni tra le mie braccia...» A un tratto, Evilenko si inclinò come un fuscello e appoggiò la testa sulla spalla di Aron. Poi chiuse gli occhi. Mentre gli accarezzava dolcemente la nuca, il dottor Richter si sentì invadere da mille sentimenti. Paura, onnipotenza, dolore. Ma continuò a tenerli ben chiusi in se stesso. Non poteva certo rovinare tutto proprio adesso. Improvvisamente, Valentina lanciò un grido. Un grido lunghissimo, disperato, agghiacciante. Un grido che fece fuggire, in un convulso battito d'ali, tutti gli uccelli del bosco. Di colpo, Andrej drizzò la testa. Nelle sue grandi pupille bianche apparve una luce straordinaria, una luce di violenza pura. E in quello stesso attimo, nello sguardo del piccolo ebreo si affacciò un nudo, incontrollabile terrore. Evilenko squarciò la gola del dottor Richter con un solo, micidiale fendente. Lo psicanalista si afflosciò nell'erba senza un gemito. Andrej si voltò subito a cercare Valentina. La vide ormai lontana. Stava correndo all'impazzata verso l'uscita del bosco. E continuava a gridare con tutto il fiato che aveva in corpo. La bambina divorò in un baleno la piccola pianura. Puntò verso la ferrovia. Aveva ancora le mani legate. Si inerpicò sui ciottoli. Scivolò. Risalì di nuovo. Scivolò ancora. Risalì un'altra volta. E infine, con le ginocchia

sanguinanti, approdò sulle rotaie. Ma proprio in quel momento, un treno sbucò ansimando dalla curva. Veniva come un bolide. Era vicinissimo. Era enorme. Lei lo guardò ma non lo vide. Restò immobile sui binari. Niente poteva più spaventarla. Quella valanga d'acciaio che la travolgeva era soltanto la fine del suo incubo. Il treno passò come una folata di vento. Ma il destino obbligò Valentina a vivere più a lungo la sua morte. La bambina rimase aggrappata alla motrice. Annaspò per alcuni interminabili istanti sotto gli occhi dei macchinisti allibiti. Poi lentamente scivolò giù. E il suo piccolo corpo finì sotto quelle grandi ruote che lo masticarono con fugace indifferenza. Quando il lugubre convoglio cominciò la sua lunga e inutile frenata, uno strano figuro che impugnava un rasoio sporco di sangue lo fissava inebetito dai margini del bosco. Andrej Romanovitch Evilenko era un uomo sconvolto. L'idea che la sua preda era stata uccisa dal destino doveva sembrare intollerabile al suo inseparabile amico noto come il mostro di Rostov. Quella notte, Andrej rincasò poco dopo le due. Passò davanti alla stanza da letto camminando in punta di piedi. Si andò a chiudere in bagno. L'alba lo sorprese chino sul bordo della vasca, con la testa fra le mani. Aveva trascorso in quella posizione un tempo lunghissimo, un tempo senza tempo. Non aveva mai smesso di piangere. Frignava e singhiozzava tra sé con l'inconsolabile tragicità di un bambino. E una vocina tremolante, che sembrava provenire dai suoi più profondi abissi, biascicava frammenti di parole in una lingua misteriosa. Una lama di luce lo obbligò a destarsi da quel cupo torpore. Evilenko si alzò e vide all'improvviso il suo volto riflesso nello specchio sopra il lavandino. Osservò sgomento l'immagine dell'uomo che ora sapeva di essere. Una insopportabile ansia lo assalì. Prese il rasoio dalla tasca del soprabito. Aprì il rubinetto. Attese che i vapori dell'acqua calda cancellassero l'odiosa figura che sorrideva nello specchio. Poi, quando tutto scomparve nella nebbia, si ripiegò su se stesso e si lacerò i polsi infliggendosi due colpi tremendi. Nubi color porpora si addensarono nell'acqua. Un vortice di sangue cominciò a ribollire nel lavandino. Il mostro di Rostov lasciò cadere il rasoio liberando un sospiro. E rimase immobile a fissare quel gorgo rosso in cui finiva la sua vita incomprensibile. Poi la porta del bagno si spalancò e apparve Fenja. Andrej scoppiò a piangere farfugliando scuse.

La moglie non rispose. Non gridò neppure. Non disse niente di niente. Lo sollevò con le sue robuste braccia e lo trascinò verso il letto in una scia di sangue. Poi adagiò il corpo sui cuscini e cominciò a strappare furiosamente le lenzuola. La donna utilizzò i brandelli per tamponare le ferite. Li annodò con forza attorno alle braccia del marito senza dire una parola. Qualche minuto dopo, la stanza da letto sembrava un mattatoio. Ma i polsi di Evilenko non sanguinavano più. Il mostro di Rostov era sopravvissuto a se stesso. Ora dormiva con una espressione serena. Il sole era già alto nel cielo. Fenja si alzò per chiudere le tendine. Poi tornò a letto. Prese in braccio il suo Andrej. E cominciò ad accarezzarlo, accompagnando il gesto con una nenia dolcissima.

20 Il sergente Frolov si inginocchiò e spazzolò l'erba alta con le mani grandi e tozze per osservare più da vicino il cadavere del dottor Richter. Lo fissò con occhi estranei. Non lo riconobbe. E si voltò subito verso il suo superiore. «Ehi, ma non è roba per noi. Questo qui non può averlo ucciso il nostro uomo, dico bene Vadim Timurovitch?...» Aron era rigido come uno stoccafisso. Conservava intatto il terrore scolpito negli occhi. Teneva ancora le mani aggrappate attorno al collo, nel disperato tentativo di fermare il sangue che si era ormai incrostato tra le dita e scendeva giù, come un grosso fiume in secca, fino alla vita. Il dottor Richter era scalzo. Come spesso accade, molta gente quando muore non perde solamente la vita, ma anche le scarpe. In quel momento, il corpo fugge via da tutto ciò che può comprimerlo o trattenerlo. Non è un'esperienza mistica. E' un puro fenomeno fisico. Vadim si chinò sopra di lui e posò la sua mano calda su quegli occhi. Il dolore e il senso di colpa per la morte di quell'ebreo intelligente e stravagante erano inferiori soltanto alla drammatica constatazione di aver perso l'unico alleato in grado di aiutarlo ad acciuffare l'assassino della Striscia di bosco. E il modo in cui Aron aveva perso la vita la diceva lunga sulle sue capacità investigative. Come diavolo era riuscito quell'ometto, da solo e in pochi giorni, a scovare il mostro di Rostov? Le tragiche circostanze potevano far pensare a una fatalità beffarda, a uno scherzo del destino. Solamente Vadim sapeva che Aron non si trovava in quel luogo per caso. Lo psicanalista doveva aver consapevolmente seguito l'assassino fino all'appuntamento con la morte. Era andata così. Senza alcun dubbio. Ma c'era qualcosa che non quadrava. Non poteva essere certo l'anziano dottor Richter la vittima designata della perversa gita nel bosco. Non ne possedeva i requisiti. Il mostro di Rostov non avrebbe mai fatto un'eccezione per lui. Aveva gusti troppo precisi, quello lì. E purtroppo Vadim conosceva meglio di chiunque, fin nei più tremendi particolari, le sue preferenze sessuali. A un tratto, l'investigatore ricordò che era stato chiamato sul posto per la morte di una bambina. «Dov'è questa bambina?» domandò ad alta voce. Un uomo con grandi baffi, che indossava l'uniforme da ferroviere, si

avvicinò. Aveva in mano un involto sanguinante. Lo aprì lentamente sotto gli occhi di Vadim. Conteneva due piccole mani. Le manine di Valentina. Ancora legate con lo spago. Un'ora dopo, Lesiev e il suo staff si trasferirono in blocco al numero 26 di via Mezhevoj, nell'abitazione dello psicanalista. Misero tutto a soqquadro, ma non trovarono una benché minima traccia dell'indagine che aveva portato il dottor Richter tra le fauci del mostro di Rostov. Nulla. Neanche una piccola nota vergata in fretta su un foglio di carta volante. Eppure Aron aveva consultato l'archivio della polizia. E Vadim era sicuro di aver intravisto un taccuino pieno di appunti quando lo riaccompagnò a casa quella notte. Ma a chi poteva dirlo? A chi mai avrebbe potuto confidare che quel medico ebreo, omosessuale e indiziato stava lavorando al caso Striscia di bosco dietro suo preciso invito? Evidentemente, il dottor Richter si era voluto sbarazzare di tutto il materiale che aveva accumulato durante la sua ricerca. Questo voleva dire due cose. Innanzitutto, se lo psicanalista aveva distrutto i suoi appunti, doveva senz'altro aver raggiunto l'inconfutabile certezza della vera identità del mostro di Rostov. E difatti, questa certezza gli era poi costata cara. In secondo luogo, la cancellazione di ogni traccia dimostrava che Aron non si fidava di Vadim. Del resto, lui stesso l'aveva detto più volte senza giri di parole. «Non mi piacciono i poliziotti... Non voglio poliziotti tra i coglioni... Lei è come un poliziotto, Lesiev...» Anche adesso, Vadim non riusciva a dargli completamente torto. Se la polizia fosse riuscita a trovare il suo taccuino, il dottor Richter avrebbe reso un grande servizio all'umanità. Ma da un punto di vista un po' più egoistico, ciò non sarebbe comunque servito a restituirgli la vita. Mentre i suoi uomini continuavano a rovistare inutilmente in ogni angolo, Vadim si dedicò alla libreria. Vi trovò incolonnati numerosi volumi che descrivevano rare malattie mentali e indicavano terapie strane e complesse. L'investigatore avrebbe voluto leggerli tutti d'un sol fiato. Peccato che fossero scritti in tedesco, in inglese o in francese. Già. La psicanalisi non esiste in Unione Sovietica. Il dottor Richter l'aveva detto. Del resto, la psicanalisi non è neppure una scienza, lo ammetteva anche Aron. Però, che mezzo straordinario per capire gli uomini poteva essere quella strana medicina se il piccolo ebreo, da solo, era riuscito in pochi

giorni a ridicolizzare quattro anni di indagini condotte dai migliori poliziotti della regione... O magari era stato soltanto tutto merito di un uomo troppo in gamba e troppo curioso che ci aveva lasciato la pelle? Improvvisamente, Vadim ricordò le ultime parole di Aron. «Non c'è poi molta differenza tra un poliziotto e uno psicanalista. Ogni conoscitore di esseri umani usa la psicanalisi. Non la chiama così, ma è la stessa cosa.» Se questo era vero, Vadim aveva teoricamente le stesse possibilità di Aron. Anche lui poteva dare un nome e un volto al mostro di Rostov. Ma anche lui poteva lasciarci la pelle. Alla fine, Vadim trovò un libro scritto in russo che voleva leggere. Aron gliene aveva parlato e lui non l'aveva dimenticato. Rimase soltanto un po' deluso quando scoprì che non era un trattato di psicanalisi. Era semplicemente un romanzo britannico della fine dell'Ottocento. «Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde», scritto da un certo Robert Louis Stevenson. Prima di lasciare quella casa, l'investigatore Lesiev conobbe l'unica, modesta consolazione della giornata. Sorprese Boris Amitrin, il giovane medico legale, mentre indirizzava paroline tenere e dolci al gatto nero che stava immobile fuori della finestra. Per pietà o per sadismo, Vadim si guardò bene dal rivelargli che quel gatto era morto da otto anni.

21 Il 5 maggio di quel 1990, Andrej Romanovitch Evilenko se ne stava seduto senza far niente nell'ufficio approvvigionamenti delle ferrovie. Aveva portato una bottiglia di champagne e una scatola di cioccolatini per festeggiare il primo anno del suo nuovo impiego. Ma quello non era certamente il giorno più adatto. Evilenko si trovava circondato da un nugolo di poliziotti che ispezionavano dappertutto. Nei cassetti, sugli scaffali, dentro gli armadi, persino nei cestini dei rifiuti. Tuttavia, Andrej non sembrava preoccupato. Neanche un po'. Gli agenti facevano parte del Nucleo speciale anticorruzione e non ce l'avevano con lui. Erano venuti a contestare al capufficio tutta una gamma di reati che andavano da «furto della proprietà dello Stato» ad «abusi sessuali nei confronti di dipendenti dello Stato.» L'ottusa definizione burocratica di quest'ultimo crimine si sarebbe prestata alle più paradossali interpretazioni. Se l'abuso sessuale è di per sé cosa disdicevole, che senso aveva specificare «dipendenti dello Stato»? Forse a ribadire il principio che lo Stato poteva sì abusare, anche sessualmente, dei propri dipendenti mentre un privato cittadino non aveva assolutamente il diritto di farlo? Bagdasarov era letteralmente annichilito davanti ai poliziotti. Nell'istante in cui le manette scattarono attorno ai suoi polsi, tutte le «dipendenti dello Stato» presenti in quell'ufficio si scatenarono come belve contro di lui, vomitandogli addosso le accuse più inaudite e spaventose. Fu a quel punto che Evilenko decise di intervenire. Prendendo le difese del capufficio con insospettabile ardore. «Cosa sarebbe questo, un linciaggio?! Perché vi accanite così contro quest'uomo?» le arringò Andrej. «Se il nostro funzionario capo ha sbagliato, pagherà per i suoi errori. Ma finché un tribunale non lo condannerà, egli ha ancora diritto al nostro rispetto. Se avevate tanti motivi per lamentarvi, perché non lo avete fatto prima, eh? Troppo comodo accusarlo adesso. No, non ci si comporta così fra comunisti. Vi dovreste vergognare, care compagne...» Le impiegate restarono ammutolite. Bagdasarov guardò Andrej con occhi colmi di gratitudine. Prima di essere portato via, il capufficio chiese agli agenti di poter scambiare due parole con Evilenko. «E bello sapere di poter contare su qualcuno nei momenti più difficili.

Grazie di cuore, Andrej Romanovitch.» «Non mi deve ringraziare, cornpagno Bagdasarov. Mi sono sentito in dovere di dire quello che ho detto. Era il minimo che potessi fare...» «Ora che ci penso... forse... ci sarebbe un'altra cosa che lei potrebbe fare...» Il dirigente cominciò a balbettare. Aveva qualcosa di importante da dire a Evilenko ma tirarla fuori sembrava costargli una enorme fatica. «Però non so... Non so proprio se posso chiedergliela...» «Ma certo. Dica pure,» rispose ossequioso Andrej. «Io sono convinto che è stato lei a denunciarmi, Andrej Romanovitch. Ma non mi fraintenda, io non la biasimo. Anzi. Ha fatto bene, ci voleva un po' di ordine qui dentro. Io ero stufo di questo lavoro e ultimamente sì... lo so... forse mi sono lasciato un po' andare. Se qualche volta mi sono comportato male anche con lei, la prego di perdonarmi...» «Le posso assicurare che io, personalmente, non ho niente di cui lamentarmi, compagno Bagdasarov.» «Sono contento di sentirglielo dire. Questo è un grande sollievo per me. Vedo che lei continua ad aiutarmi, e io... io adesso non so più come ringraziarla. Ma se... se vorrà avere la benevolenza di spendere qualche parola in mio favore presso i miei accusatori, e lei sa certo meglio di me a chi mi riferisco, le prometto che il suo amico Bagdasarov, quando tutta questa storia sarà finita, saprà essere molto riconoscente con lei... Capisce cosa voglio dire, vero?» «Non si preoccupi, compagno Bagdasarov. Vada pure tranquillo. Vedrà, vedrà, tutto si chiarirà.» Il capufficio aveva le lacrime agli occhi. Con uno slancio che pareva sincero, abbracciò e baciò Andrej prima di uscire per sempre da quell'ufficio. Un attimo dopo, l'ufficiale che guidava gli agenti fece capolino per chiedere a Evilenko che cosa gli avesse detto Bagdasarov. «Niente. Mi ha solo offerto dei soldi in cambio del mio silenzio,» rispose senza esitazione Andrej. L'ufficiale lo ringraziò e se ne andò definitivamente. Evilenko cominciò subito a rimettere ordine nei cassetti, dentro gli armadi e sugli scaffali. Gli altri impiegati rimasero a lungo con il fiato sospeso. Guardavano con timore Andrej e fissavano con terrore la stanza vuota di Bagdasarov. L'associazione saltava agli occhi. Ma in realtà non c'era motivo di preoccuparsi. Evilenko non era per nulla tentato dall'idea di occupare la scrivania del funzionario capo. Andrej era un vero comunista. Lui non voleva niente per sé.

La cosa inquietante era ciò che pretendeva dal resto dell'umanità.

22 Il 19 maggio, intorno alla mezzanotte, l'investigatore Lesiev stava facendo ritorno a casa al volante della sua Zhigulì. Era cupo e angosciato. Non cenava più in famiglia da parecchi giorni. Da svariate settimane vedeva la piccola Mariam solo di sfuggita. E non ricordava nemmeno a quando poteva risalire l'ultima volta che aveva fatto l'amore con Rulana. Vadim era tristemente consapevole che la sua già striminzita vita privata si stava deteriorando in modo grave, forse irrimediabile. Eppure negli ultimi tempi il lavoro non lo tormentava più di tanto. Il mostro di Rostov non faceva parlare di sé da due mesi abbondanti. Esattamente dal fatidico 17 marzo in cui il dottor Aron Richter aveva dato un calcio alla vita per poterlo incontrare. Per strano che potesse sembrare, era proprio il silenzio improvviso della Striscia di bosco che non dava pace all'investigatore. Vadim era assillato da nuove domande che non trovavano risposte. Come erano andate veramente le cose quel 17 marzo? Aron era morto, d'accordo. Però questo era solo un dato di fatto. Vadim avrebbe pagato qualunque somma per sapere se lo psicanalista e l'assassino si erano detti qualcosa, e soprattutto che cosa. Del fatto che si fossero parlati ormai era pressoché certo. Aron era morto guardando in faccia il mostro di Rostov. Non aveva minimamente accennato la fuga. Non aveva neppure cercato di proteggersi dal colpo, quel colpo unico e definitivo che gli aveva squarciato la gola. Aveva fatto ricorso alle mani soltanto dopo, nell'inutile tentativo di fermare l'emorragia. Tutto lasciava supporre che lo psicanalista stesse parlando con l'assassino fino a un attimo prima di morire. Va bene, parlavano. Ma in quali termini? Sapevano entrambi con chi avevano a che fare? Aron sicuramente sì. E l'assassino? Poteva forse credere di essersi imbattuto per pura combinazione in quell'ometto elegante vestito da città nel fitto del bosco? Molto probabilmente no. Eppoi, c'era di mezzo anche una bambina. E non era stato certo Aron a legarle i polsi con lo spago. Quei nodi erano indubbiamente opera del mostro di Rostov. Un classico del suo repertorio. Ma come aveva fatto la bambina a scappare, legata a quel modo, fino alle rotaie? I macchinisti del treno avevano dichiarato di non aver visto nessuno

al suo inseguimento sulla pianura che separava la ferrovia dalla Striscia di bosco. Era mai possibile che quella belva se la fosse lasciata sfuggire così, senza neppure correrle dietro? La sostanza dell'enigma stava tutta qui. E la spiegazione che l'investigatore stava immaginando poteva anche essere plausibile ma in definitiva non spiegava un bel niente. Vadim sospettava che Aron avesse distratto l'assassino facendo o dicendo qualcosa di strano. Impossibile indovinare cosa. Quel segreto sarebbe rimasto sepolto per sempre con il dottor Richter. Fin qui, niente di grave. Ma se l'incontro con Aron avesse sconvolto il mostro di Rostov al punto da indurlo a smettere di uccidere? Questo sì, sarebbe stato un vero guaio. Perché se le cose fossero andate in questo modo, il caso Striscia di bosco sarebbe rimasto eternamente insoluto. L'investigatore stava in ansia. Vadim aspettava con impazienza una nuova vittima. Ecco la verità. Potrà sembrare spaventoso quanto si vuole, ma lui era obbligato a ragionare così. Nelle ultime settimane, Lesiev aveva letto tre o quattro volte di seguito il libro prelevato nella biblioteca del dottor Richter. «Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde» lo aveva appassionato molto, anche se non era mai riuscito a identificarsi nel grigio e ipocrita avvocato Utterson che era l'investigatore della situazione. Ma anche il Dottor Jekyll non gli stava affatto simpatico. Lo trovava troppo borghese e smodatamente ambizioso. Il suo cuore di lettore batteva sempre, e invariabilmente, per il mostruoso Mister Hyde. Quella creatura così solitaria e violenta era stata immediatamente adottata dalla sua sensibilità. Ne viveva i misteriosi tormenti con sincera partecipazione. E ogni volta che giungeva alla fine del testamento del Dottor Jekyll, egli si sorprendeva ad augurarsi che Mister Hyde sarebbe in qualche modo sopravvissuto alla morte del suo alter ego e alla persecuzione di quelli come Utterson. Strano sentimento per uno che faceva il suo mestiere. Il dottor Richter evidentemente aveva lasciato il segno. Vadim aveva imparato da Aron che dentro ogni essere umano se ne nasconde un altro, e che è sempre quello nascosto a patire di più. I pensieri che affollavano la mente di Lesiev erano tanti e tutti piuttosto ingombranti. Però, se non altro, anche quella notte gli avevano fatto compagnia durante il lungo viaggio fino a casa. L'appartamento messo a sua disposizione dalla Procura di Rostov si trovava fuori città, in un moderno condominio accerchiato dal bosco. Era un edificio grande e opprimente come una caserma, ma dotato di rare comodità: citofono, ascensore e riscaldamento. Per la verità, il riscaldamento non aveva funzionato quasi mai a causa della

crisi energetica. Anche l'ascensore si era rotto prima di Natale e non era ancora venuto nessuno a ripararlo. Rimaneva il citofono. Ma a lui non capitava mai di usarlo. Vadim entrò nell'appartamento camminando in punta di piedi. Per prima cosa, fece tappa nella stanza della figlia. Era la sua medicina. Vederla dormire gli dava un senso di pace e in quel momento riusciva a dimenticare tutti i suoi pensieri. Ma quando si chinò sul lettino di Mariam, vide una grande chiazza scura al centro del lenzuolo. Con il cuore in gola, allungò un braccio per accendere la luce. E allora scoprì la sua bambina che giaceva immobile in un lago di sangue. Un urlo disumano risuonò in tutto il caseggiato. Vadim afferrò Mariam come una furia e la sollevò in aria. La bambina spalancò gli occhi. E anche lei, spaventata a morte, gridò. Ma un istante dopo, per fortuna, nella stanza entrò la mamma. Che d'istinto la strappò dalle mani del padre e la strinse forte al petto per rassicurarla. Rulana fissò il marito con occhi ostili. All'improvviso, lo guardava come fosse un estraneo. Un pericoloso estraneo. «Si può sapere perché urli in quel modo?» gli disse. «Ma non vedi il sangue?!» disse Vadim con voce rotta. «Mariam ogni tanto perde sangue dal naso. Succede perché le manca una vitamina. Mi pareva di avertelo già detto, o sbaglio?» «Ma allora... allora bisogna portarla subito dal medico.» «L'ho già portata due volte dal medico, Vadim Timurovitch.» «Questo non me lo avevi detto, Rulana.» «Dirti cosa?!... Se non ci sei mai, e anche quando ci sei non mi stai mai a sentire!» A quel punto, Mariam smise di colpo di singhiozzare. Si voltò verso il padre mostrandosi molto interessata al discorso. In un attimo, Vadim si ritrovò spalle al muro. Le sue donne lo stavano guardando come due severissimi e incorruttibili giudici popolari in un'aula di tribunale. «Sì, hai ragione, è vero che non ci sono mai. E' che mi sto occupando di un caso molto delicato. E non riesco a venirne a capo. Tutto qui.» «Già. Tutto qui. E noi siamo veramente molto soddisfatte della tua spiegazione, vero Mariam?» disse con amarezza la donna. «Posso dormire nel letto grande?» chiese a quel punto la bambina vedendoli in difficoltà. «Ma certo, amore,» rispose Vadim. «Neanche per idea, Mariam. Lo sai che in tre si dorme malissimo. Adesso ci laviamo il musetto, ti cambio il lenzuolo e tu, da brava, torni a fare la nanna

nel tuo lettino,» disse Rulana con un tono dolcissimo ma inflessibile. A letto, Vadim faceva finta di leggere il giornale ma con la coda dell'occhio guardava Rulana. Era uno sguardo di desiderio. Veramente non aveva mai smesso di desiderarla. Se da tanto tempo non facevano l'amore il motivo non era difficile da indovinare. L'investigatore pensava al sesso e parlava di sesso tutti i maledetti giorni dalla mattina alla sera. E non era certo un sesso desiderabile. Era un incubo. Era lo scempio del sesso e della vita secondo le gesta del mostro di Rostov. In quella situazione, Vadim si meravigliava di poter ancora provare un amore semplice e naturale per la sua donna. Ma Rulana era muta e imbronciata. Stava seduta sul letto e fissava il soffitto. Vadim pensò che sua moglie era gelosa. Per rassicurarla, decise allora di fare uno strappo alla regola. Le parlò del caso di cui si stava occupando. Solo un rapido accenno. Perché la reazione di lei fu immediata. E anche assai diversa da quella che lui si aspettava. «Sei tu che dai la caccia a quel mostro?» disse incredula Rulana. «Perché? Tu cosa ne sai?» replicò Vadim altrettanto incredulo. «Lo sanno tutti che c'è un pazzo in giro che ammazza i bambini e se li mangia. Ma cosa credete, che la gente sia scema?! Non è più come una volta, caro compagno. E' finito il tempo in cui si poteva lasciare la gente all'oscuro di tutto.» «Siamo perfettamente d'accordo, Rulana. Infatti, se lo vuoi sapere, sono stato proprio io a fare in modo che la notizia circolasse il più possibile...» «Ah, sì? Tu lo hai fatto sapere a tutti, tranne che a tua moglie. Bravo!» «Te lo sto dicendo adesso. E sai pure che non dovrei farlo. Ma tu eri così preoccupata, così angosciata, magari pensavi che io avessi un'amante o chissà che altro... Te l'ho detto soltanto per tranquillizzarti.» Rulana lo fissò allibita. «Tranquillizzarmi?! Ma cosa dici? Sei diventato pazzo o mi stai prendendo in giro?» «Perché?» «Come, perché?! Mi vieni a dire che sei tu il responsabile delle indagini su quel mostro e in questo modo pretendi di tranquillizzarmi? Ma non ti rendi conto del rischio che corriamo tutti e tre?...» «Quale rischio?» Vadim non riusciva a capire. Cadeva letteralmente dalle nuvole. E credeva di essere sincero. «Quale rischio?! Senti un po', secondo te lui lo sa che tu gli stai dando la caccia?» «Ma che domanda è?»

«E' una domanda serissima. Rispondi.» «Come diavolo faccio a risponderti?! Mica lo conosco. Non ho la più pallida idea di chi possa essere.» «E non ti salta in mente che lui potrebbe conoscere te?» Vadim fece una lunga pausa. A un tratto, vide materializzarsi il pericolo di cui parlava Rulana. Ma per sua sfortuna, lei si era accorta che lui aveva capito. «No. Non ci ho mai pensato,» disse lui guardando altrove. «Bugia, Vadim. Stai dicendo una bugia. Se fosse vero quello che dici non avresti gridato in quel modo, prima.» «L'ho capito in quel momento, quando ho visto il sangue di Mariam. Mi credi?» «Posso pure crederti. Ma non mi basta.» «Oh, insomma!... Che altro vuoi da me, moglie?» «Voglio che lasci questo incarico.» «Come fai a chiedermi una cosa del genere? Sai benissimo che non posso farlo.» «Sì, che puoi. Basta dare le dimissioni. Dov'è il problema? Lo so, ci toglieranno la macchina, la casa, forse diminuirà anche lo stipendio. Ma non importa. Ce la faremo lo stesso. Torneremo a Gukovo. Stavamo benissimo lì. Eravamo felici prima che cominciasse tutta questa storia, no?...» «Che vorresti che facessi?... Che mi tirassi indietro?... E a te piacerebbe vivere con un uomo che si tira indietro?...» «E' mai possibile che per un uomo il dovere debba per forza essere più importante della famiglia?... No, io questo non lo accetto, Vadim Timurovitch.» «Allora lasciamo perdere il dovere Te lo spiego in un altro modo. Io intendo portare a termine il mio incarico per un motivo solo. E' un motivo molto semplice. Voglio prendere quest'uomo che uccide e mangia i bambini perché tutti i bambini di questo paese, non solo Mariam, hanno il diritto di crescere liberi e spensierati senza che nessuno possa far loro del male. Va meglio così?...» «Anche se questo potrebbe costare la vita a tua figlia, a me, a te stesso?» gli domandò la donna in tono definitivo. «Adesso basta, Rulana. Questa eventualità non esiste,» tagliò corto Vadim. Rulana lo guardò con furore e gli voltò le spalle. Si girò su un fianco e smorzò la luce. Senza dire niente. Neppure buonanotte. Il mattino seguente, l'investigatore aprì gli occhi alle sei meno un quarto. Più presto del solito. Ma già troppo tardi. Rulana e Mariam erano vestite e pronte per uscire. Avevano una carovana di bagagli al seguito. Con voce distaccata, la moglie gli spiegò che andavano a stare per un po'

dalla sua famiglia, a Sverdlovsk, «dove la frutta non costa un occhio della testa.» Disse proprio queste parole, per non turbare la bambina. E anche Vadim si sforzò di salutarla senza accenti drammatici. «Allora sei di nuovo una donna libera, Rulana...» «Sono sempre stata una donna libera, Vadim Timurovitch. Sono io che ho scelto te. Vedi di non dimenticartelo, per tutto il tempo che non ci sarò...» Rulana rispose così anziché dargli un bacio. Ma poi gli diede anche un bacio. Nelle settimane che seguirono, Lesiev attraversò brutti momenti. Dopotutto, aveva perso contemporaneamente sua moglie, sua figlia e il suo misterioso assassino. Eppure Rulana gli telefonava in ufficio ogni mattina e si dimostrava più affettuosa che mai. Vadim si sforzò di esaminare onestamente ciò che stava provando. Non gli mancava la famiglia che, anzi, sembrava trovare nuova linfa vitale nella lontananza. A tenerlo in ansia era sempre l'ineffabile individuo di sesso maschile che rispondeva al soprannome di mostro di Rostov. Il suo crudele antagonista aveva fatto perdere ogni traccia da più di tre mesi. Si era volatilizzato. Sembrava scomparso in quel grande nulla da cui proveniva. Ma l'attesa non fu lunga. Il 14 di luglio il mostro tornò a colpire. Tre o quattro giorni dopo, il corpo di una ragazza di diciassette anni venne trovato a bordo di un vagone merci fermo su un binario morto a non più di trecento metri dalla stazione di Rostov. Si chiamava Lia Golikova. L'assassino l'aveva sbucciata come una banana. Finito quel lavoro, si era riposato per alcune ore accanto al cadavere. Aveva usato la pelle della giovane donna come una coperta. L'aveva poi lasciata sulle assi del vagone. Era rimasta tutta accartocciata. Sembrava un giornale vecchio. L'investigatore esaminò il trentaduesimo omicidio del mostro di Rostov da un punto di vista completamente diverso dal solito. Vadim capì finalmente cosa intendeva il dottor Richter quando diceva che quell'uomo era un bambino. Nell'uso che aveva fatto della pelle della vittima egli riuscì a scorgere, come se un lampo avesse improvvisamente squarciato le tenebre, la creazione di una placenta immaginaria. Lesiev aveva stabilito un contatto con l'inconscio dell'assassino e questo lo eccitava. Ma purtroppo la sua nuova consapevolezza non cambiava il copione. Il mostro di Rostov era tornato più sanguinario che mai e non lasciava, a parte la sua inconfondibile firma, nessun indizio utile a smascherarlo.

Tutto era ricominciato come prima e anche peggio di prima. Nell'arco di un mese o poco più, l'assassino colpì altre tre volte. Il 28 luglio, nella Striscia di bosco numero 542 nei pressi di Lisogorka, massacrò un bambino di otto anni, Jakov Polunin, e gli asportò i genitali. Due settimane dopo, il 12 agosto, un vecchio contadino della provincia di Donesk scoprì una piccola mano tesa che sorgeva come una strana pianta nel suo orto. Apparteneva a Viktor Fokin, un ragazzino di undici anni scappato di casa due mesi prima. A giudicare dalla posizione in cui si trovava, Viktor era probabilmente ancora in vita mentre l'assassino lo seppelliva. Il 26 agosto, la sua violenza superò ogni immaginazione. Quel giorno, il mostro di Rostov si macchiò di un crimine molto particolare, un delitto che in un paese di tradizione cattolica sarebbe stato classificato come duplice omicidio. In un parco pubblico, proprio al centro della città, egli assalì Nlna Stoletova, una prostituta di 19 anni. La violentò e le aprì la pancia. Ma la ragazza era incinta. Allora lui si impadronì dell'esserino che trovò dentro di lei e andò a deporlo su un monumento poco lontano, tra le braccia di un Lenin triste e pensoso. Quest'ultimo scempio, che fu scoperto l'indomani mattina da una piccola folla di passanti, seminò il panico nella popolazione di Rostov. Il mostro era ormai sulla bocca di tutti. All'improvviso, quasi tutti sapevano quasi tutto. E anche di più. Chi diceva dieci, chi venti, chi cinquanta, chi ottanta. Sul numero dei morti si era scatenata una vera lotteria. Il 28 agosto, le radio e i giornali locali si avventarono sulla notizia e riuscirono a raccogliere le sconvolgenti testimonianze dei parenti di alcune delle vittime. Il 29 agosto, l'annuncio dell'esistenza di un cannibale pluriomicida ai confini tra la Russia e l'Ucraina apparve su alcuni quotidiani tedeschi e scandinavi. E infine, il 30 agosto, una troupe della televisione di Stato arrivò espressamente da Mosca. Quello stesso giorno, il giudice Leonid Grigorievitch Novikov decise di rendere pubblico il caso Striscia di bosco con una conferenza stampa che si tenne nei locali della Procura di Rostov. Parlando ai giornalisti, il magistrato non mancò di far ricadere ogni responsabilità per le lunghe e infruttuose indagini sulle spalle dell'investigatore Lesiev. Ma Vadim non se ne ebbe a male. Gli avvenimenti di quell'ultimo periodo lo avevano messo a dura prova. Era più che mai sfiduciato. Perché adesso si sentiva terribilmente in colpa. Di fronte all'ondata di sangue che dilagava nella città, tutte le sue elaborazioni

psicologiche perdevano improvvisamente ogni ragion d'essere e finivano per sembrargli soltanto un futile passatempo. Subito dopo la conferenza stampa, Vadim si avvicinò a Novikov e gli annunciò, senza acrimonia, una sua lettera di dimissioni. Il giudice lo guardò sorpreso e gli rispose che l'avrebbe respinta. «Lei ha ancora la mia fiducia, Vadim Timurovitch. Non si sarà mica offeso per ciò che ho detto sull'inefficienza dei suoi uomini? In democrazia, la critica è la regola del gioco, soprattutto quando si parla con i giornalisti. Mi rendo conto che lei non è ancora abituato alla trasparenza, ma dovrà imparare in fretta se non vorrà rimanere tagliato fuori dal progresso.» «Io non mi sono offeso, Leonid Grigorievitch...» disse l'investigatore. «Accetto serenamente le critiche che lei ha fatto, anche perché le trovo giuste. Ma mi permetto di insistere sulle dimissioni. Chiedo di lasciare l'incarico perché sono convinto che io questo assassino non lo prenderò mai. Ho undici uomini che lavorano con me. Sono ottimi elementi, ma contro un criminale che uccide senza movente e non lascia indizi, non servono a niente. Purtroppo, è come una guerra. Per catturare quest'uomo, dovremmo presidiare come minimo tutte le Strisce di bosco comprese tra Rostov, Novoshakhtinsk, Shakhty e Novocerkassk. Ha presente quanto è estesa quest'area?.» «Vuole dei rinforzi? Va bene. Domani mi porti una richiesta scritta, e vedrò cosa si può fare,» replicò il magistrato. «Io la ringrazio. Ma non sarebbero sufficienti neppure tutti i poliziotti della regione. Come le ho detto, siamo in guerra,» rispose Vadim. «Questo è puro disfattismo. Che dovremmo fare secondo lei, aspettare che si costituisca?» «Una soluzione ci sarebbe. Ma non so se posso dirla...» «Certo che può.» «Non vorrei che lei si mettesse a ridere.» «Non mi faccia perdere la pazienza, Lesiev. Qual è questa soluzione? Avanti, dica.» «L'Armata Rossa.» Sul momento, il giudice guardò Vadim come si guarda un mentecatto. Gli voltò le spalle e lo lasciò senza neppure degnarlo di una risposta. Ma il giorno dopo lo mandò a chiamare. «Quella dell'Armata Rossa è proprio una bella idea, lo sa Lesiev? Però scommetto che lei non indovina perché...» «Perché con l'esercito forse riusciremo a prenderlo?» rispose Vadim sentendosi idiota. «No, questo è secondario. L'idea di far intervenire l'Armata Rossa è una grande idea perché introduce un uso completamente nuovo dell'esercito. Un uso veramente democratico. I cittadini sovietici hanno sempre avuto paura

dell'esercito ma adesso, per la prima volta, noi mettiamo l'esercito al servizio dei cittadini. Geniale. Ne ho parlato ieri sera al telefono con Eltsin. E' entusiasta.» Forse Eltsin era davvero entusiasta. Ma quando l'Armata Rossa arrivò in città, la gente di Rostov si rintanò nelle case e a tutto pensò tranne che a una iniziativa democratica. L'indomani, in un trafiletto su un giornale, la notizia venne riportata nel modo seguente: «Nel quadro delle operazioni straordinarie per consentire la cattura del maniaco omicida che ha assassinato trentacinque persone nella zona del Don, all'alba del 5 settembre duecentoventi automezzi dell'esercito sono entrati a Rostov con la massima discrezione.» Discrezione? Quale discrezione? Erano quattromila uomini armati fino ai denti. Se ne andò settembre, arrivò ottobre, ma com'era prevedibile il mostro di Rostov si guardò bene dal ripresentarsi. E Lesiev si ritrovò a lavorare in una situazione a dir poco assurda. Aveva un autentico esercito alle sue dipendenze ma in pratica non c'era niente da fare. Il 26 ottobre, Vadim ricevette una telefonata di Valentin Lighin, commissario di polizia nella vicina Taganrog. Lighin era un suo vecchio superiore e come lui era appassionato di calcio. Parlarono per un po' della Dinamo e della Torpedo, ricordando lontane sfide divenute epiche solo per la generosità della memoria. Durante la conversazione, Lighin assunse un tono funereo e chiese a Lesiev se poteva andarlo a trovare. Gli diede appuntamento nel suo ufficio per il giorno seguente. Ma fu del tutto evasivo sul perché di quell'appuntamento. Taganrog è un piccolo porto sul Mar d'Azov. E' la città natale di Cechov. Ma a chi può interessare ormai? La maggior parte dei giovani non hanno la più pallida idea di chi fosse Cechov. Mentre i vecchi, con la fame che li assilla, figurarsi se stanno a pensare a Cechov. Taganrog dista appena un'ora di macchina da Rostov. Vadim ci tornava sempre volentieri. Ogni volta che arrivava, lo assaliva puntualmente un'ombra di malinconia. La sua prima fidanzata era di Taganrog. Si chiamava Zinaida. Il venerdì lui disertava spesso gli allenamenti e saltava sul treno per incontrarla. Aveva solo mezz'ora di tempo fra un treno e l'altro e così non riusciva mai a spingersi al di là di un bacio. Lei un bel giorno si stancò e decise di sposare

un marinaio. Poi, quando scoprì che suo marito trascorreva nove mesi l'anno sulle navi, si pentì. Troppo tardi. Alla tenera età di ventitré anni Zinaida aveva già due figli sulle spalle e una ventina di chili di troppo dalla vita in giù. Lighin era un pacioccone grande e grosso, del tutto sprovvisto di collo. Dentro la sua uniforme sembrava sempre sul punto di esplodere. Era piuttosto anziano e dimostrava senz'altro qualche anno di più. Quando vide Lesiev, i suoi occhi si illuminarono. «Complimenti, ragazzo mio. Sono proprio contento di vederti. Certo che ne hai fatta di strada...» «Solo settanta chilometri...» disse Vadim per sdrammatizzare. «E' inutile che fai il modesto. Ho letto il tuo nome sul giornale. Con quel mostro stai diventando famoso.» «Sì, sono famoso perché non riesco a prenderlo.» «Non dire così. Io sono sicuro che ci riuscirai... Ma è proprio di questo che ti volevo parlare. Prima però fammi il favore, chiudi la porta... A chiave, mi raccomando.» Un attimo dopo, Lighin aprì un cassetto della sua scrivania e mostrò a Lesiev le foto di alcuni cadaveri. Tutte donne. Tutte molto bionde e molto giovani. Tutte strangolate. Tutte vestite solo di una calza nera. Si trattava di sei omicidi. Sei omicidi identici. Sei omicidi in tre mesi. Sei omicidi inequivocabilmente firmati dallo stesso assassino. «No. Non è lui. Purtroppo questo è un altro...» disse Vadim a Lighin. Poi si affannò a spiegargli, con dovizia di dettagli, quali erano le caratteristiche dei delitti del mostro di Rostov. Mentre lo stava ascoltando, l'anziano commissario diventò pallido come un cencio. Quando la sua sopportazione varcò il limite, Lighin di punto in bianco cambiò argomento e attaccò a sproloquiare di calcio. Lungo il viaggio di ritorno verso Rostov, l'investigatore guidava in compagnia di una voce che gli rimbombava nel cervello. Era la voce del dottor Richter. Ripeteva sempre la stessa frase. «Dopo questo assassino ne verranno degli altri, e saranno sempre più pericolosi, sempre più astuti, sempre più inafferrabili». La prima volta che udì queste parole, Vadim le aveva trovate prive di senso. Ora non più.

23 Il 7 novembre del 1990, l'anniversario della Rivoluzione non fu un grande evento. I tradizionali festeggiamenti erano stati annullati o disertati. Fin dal primo mattino una pioggerellina fitta e petulante, sospinta da un vento gelido, dissuase gli abitanti di Rostov dall'uscire di casa. Solo nel pomeriggio, qualche sparuto temerario si avventurò per le strade, camminando lungo i muri e usando l'ombrello come uno scudo per ripararsi dall'acqua che arrivava a raffiche. Sulla via Engels, c'era anche qualcuno che se ne infischiava del vento e della pioggia. Era una bella ragazza bruna vestita come un teppista, carica di anelli e di orecchini. Avanzava spavalda sotto il diluvio accennando passi di danza tra le pozzanghere. Teneva sulle spalle una grossa radio che vomitava una musica americana isterica e metallica. Dietro di lei, a circa una trentina di metri, un uomo a capo scoperto seguiva attentamente le sue mosse. Di statura molto alta, indossava un impermeabile lungo fino ai piedi. Portava occhiali dalle lenti notevolmente spesse. Non si sa bene cosa riuscisse a vedere, dal momento che l'acqua vi scorreva sopra come un torrente in piena. Comunque guardava proprio lei. E quello sguardo era tutto un programma. Perché l'uomo in questione rispondeva al nome di Andrej Romanovitch Evilenko. A un tratto, la ragazza abbandonò il ciglio della strada per entrare in un cinema. Evilenko sostò fuori per qualche minuto, poi entrò anche lui. Il locale era immerso in un buio profondo ma si intuiva che doveva essere piuttosto affollato. Sullo schermo, un uomo tutto muscoli si stava scrollando di dosso una dozzina di ratti unti e famelici che gli avevano azzannato le mani, le braccia, le caviglie. La scena si svolgeva nella penombra di una grotta. Andrej decise di aspettare una luce più favorevole per andare a sedersi. La sua attesa fu assai più breve del previsto. Improvvisamente, nella sala esplose l'assolo di una chitarra impazzita. Il pubblico cominciò a urlare e fischiare. Perché quel frastuono non proveniva dal film. Era la radio. La ragazza vestita da teppista fu costretta ad alzarsi. A forza di spintoni, gli spettatori più inferociti accompagnarono lei e la sua musica fino all'uscita. Fuori stava facendo buio.

Non pioveva quasi più. La ragazza alzò al massimo il volume della sua radio e si avviò saltellando lungo la via Engels. Solo dopo alcuni metri, si rese conto che un uomo alto e silenzioso stava camminando al suo fianco. Allora si fermò, si girò verso di lui e lo scrutò con diffidenza. Evilenko si tolse gli occhiali. La guardò. Le sorrise. Un sorriso larghissimo che era tutt'uno con la sua mascella. «Hai fatto bene...,» disse Andrej. «Quel film era proprio una schifezza.» Erano da poco passate le nove e pioveva a dirotto quando il mostro di Rostov sbucò barcollando dalla Striscia di bosco numero 37, un labirinto di betulle che si trovava ai margini della città, non lontano dall'aeroporto. Ma appena uscì allo scoperto, qualcuno lo vide. Un milite di pattuglia. Aveva soltanto diciassette anni. Era originario di Krasnodar. Per una singolare coincidenza, si chiamava quasi come lui. Il suo nome era Andrej Romanenko. Il soldatino gli gridò di fermarsi. Evilenko ubbidì. Lo attese immobile sotto la pioggia. Quello si avvicinò e gli chiese i documenti. Mentre l'ex insegnante gli porgeva la carta d'identità, il ragazzo notò che sanguinava. Aveva dei profondi graffi sul viso. Romanenko gli domandò come se li era fatti. Evilenko non rispose. Si tolse gli occhiali. E lo fissò in silenzio. Il soldatino riuscì a sostenere il suo sguardo soltanto per una manciata di secondi. Quindi abbassò gli occhi, annotò il suo nome su un taccuino, voltò le spalle e si allontanò precipitosamente. Il corpo della giovane donna vestita da teppista venne rinvenuto soltanto cinque giorni dopo. La mattina del 12 novembre, qualcuno telefonò al commissariato. Era una voce maschile incrinata dalla paura. Lo sconosciuto non volle dire il suo nome ma indicò con esattezza la posizione in cui si trovava il cadavere. Quando giunsero sul luogo del delitto, i poliziotti si imbatterono in una situazione assai diversa dal solito.

La ragazza indossava ancora tutti i suoi indumenti. Non vi erano tracce di violenza sessuale. Era stata strangolata. Un solo macabro particolare accusava il mostro di Rostov. Alla vittima mancavano le dita delle mani. Erano state recise. I poliziotti le cercarono inutilmente nel raggio di venti metri. Ma l'assassino non le aveva portate via. Si era divertito a ficcarle in fondo alla gola della donna. Quando il giovane medico legale Boris Amitrin le aprì la bocca, tutti poterono vedere le falangi smozzicate che spuntavano dal palato. Eppure, nonostante la crudeltà, non sembrava il classico delitto della Striscia di bosco. Somigliava piuttosto alla spietata vendetta di un gangster. Mentre il dottor Amitrin era ancora affaccendato sul cadavere, Vadim sbottò con grida rabbiose nel silenzio del bosco. Era allibito e furioso. Stentava a credere che l'assassino fosse riuscito a sgusciare tra le fitte maglie della sorveglianza militare. La Striscia di bosco numero 37 aveva un'estensione di dieci ettari o poco più. Sul posto c'erano ottanta uomini in servizio permanente, distribuiti in quattro turni di sei ore ciascuno. Di giorno come di notte, venti soldati piazzati a duecento passi di distanza l'uno dall'altro circondavano il perimetro degli alberi. Sembrava una caccia al cinghiale. Ma il cinghiale era passato di lì, aveva fatto i suoi comodi e se ne era andato indisturbato. «A quando risale la morte?» chiese Vadim al medico legale. «Così, su due piedi, non saprei dirlo. Tre giorni... forse quattro,» rispose Boris. «Quanto tempo ci vuole per saperlo?» incalzò l'investigatore. «Tre giorni, forse quattro...» ripeté Amitrin pensando di essere spiritoso. «Voglio i risultati dell'autopsia di questa donna domattina alle otto sul mio tavolo,» disse Vadim spegnendo il sorrisetto sciocco che aveva fatto capolino sulle labbra del medico legale. Il giorno seguente, alle nove e quarantacinque, Lesiev convocò in commissariato gli ottanta militari che presidiavano la Striscia di bosco numero 37. Li radunò nell'unico ambiente che potesse contenerli. La grande sala del poligono di tiro che si trovava nel seminterrato. I soldati erano tutti molto giovani. Scherzavano, ridevano, facevano un gran baccano. Ma quando Vadim cominciò il suo discorsetto, fra di loro si instaurò immediatamente un angoscioso silenzio. L'investigatore parlò in tono grave, senza mai perdere le staffe.

E li spaventò a morte. «Come forse saprete, nel territorio di vostra competenza una donna è stata uccisa circa quattro o cinque giorni fa. Non abbiamo ancora potuto stabilire la data precisa della morte, ed è per questo motivo che siete stati convocati tutti quanti. Se disgraziatamente non riusciremo a risalire all'ora esatta dell'omicidio, è giusto che sappiate fin da ora che sarete considerati tutti ugualmente responsabili. E' inutile che adesso io vi dica fino a che punto sono scontento di voi. Immagino che potrete immaginarlo da soli. Del resto, io non sono autorizzato a prendere alcun provvedimento nei vostri confronti. Anche se in questo momento vi trovate sotto la mia giurisdizione, voi siete dei soldati e dipendete dalle forze armate. Quindi, sarà la Corte marziale a giudicarvi e a punire in modo esemplare la vostra imperdonabile disattenzione. Non sono pratico di tribunali militari, ma sono convinto che i vostri giudici saranno severi almeno quanto lo sarei io. A questo punto, se volete evitare un processo, sarebbe bene che ognuno di voi facesse un piccolo sforzo di memoria per ricordare se nei giorni scorsi ha notato qualche strano movimento nella zona che stava sorvegliando.» Dopo queste parole, Vadim non disse altro e rimase in attesa. Ma nessuno fiatò. I soldatini continuarono a fissarlo con occhi pieni di terrore. Finché, a un tratto, uno di loro uscì dal mucchio e timidamente si fece avanti. «Soldato Romanenko Aleksandrovitch Andrej...» disse mettendosi sull'attenti dinanzi a Lesiev. «Se hai qualcosa da dire, ti ascolto,» rispose l'investigatore. «Il 7 novembre scorso, verso le nove di sera, io avrei visto un uomo che usciva dalla Striscia di bosco. E credo di averlo fermato,» disse il ragazzo suscitando nei suoi commilitoni una fragorosa risata. «Che significa 'credo di averlo fermato'?» obiettò Vadim. «Mi correggo. Sono sicuro di averlo fermato. Infatti, sta scritto qui...» rispose Romanenko mostrando il suo taccuino. «E allora perché hai detto 'credo'?» «Perché... Perché...» Il soldato cominciò a balbettare. «Lo so, è strano... Ma io non ricordo... Non ricordo niente... Però, ho annotato tutto...» Gli altri continuavano a ridere. Lesiev li zittì e ordinò a Romanenko di mostrargli il taccuino. Sul primo foglio c'era un appunto telegrafico, vergato con calligrafia tremolante. Per fortuna, era scritto in stampatello. Vadim decise di leggerlo ad alta voce.

«7 NOVEMBRE 1990... ORE 21,07... EVILENKO ANDREJ ROMANOVITCH... SPORCO DI SANGUE...» Nell'udire la propria voce che pronunciava quel nome, l'investigatore ebbe un sussulto. Alzò lo sguardo. Aveva gli occhi di fuori. Ma riuscì ancora una volta a mantenere la calma. «Soldato Romanenko, immagino che tu possegga, come tutti i tuoi compagni, la lista degli indiziati, giusto?» Il ragazzo annuì. «E allora... non ti sei accorto che Andrej Romanovitch Evilenko è uno dei nostri principali indiziati?» domandò Vadim. Romanenko era sempre più imbarazzato. Aveva un viso paonazzo. «E' che... purtroppo... come le ho detto... io non ricordo quest'uomo... Ho scoperto l'appunto soltanto adesso e... per questo motivo non ho avuto il tempo di controllare sulla lista...» «Fammi capire,» chiese pazientemente Vadim. «Stai dicendo che tu, questo Evilenko, non sai nemmeno che faccia abbia, e che, insomma, se tu non avessi scritto questo appunto non potresti ricordare in alcun modo di averlo incontrato, è così?» «Sì. Lo so che sembra assurdo... ma è proprio così...» rispose il soldato. Poi, in un soprassalto d'orgoglio, aggiunse: «Però quell'appunto l'ho scritto io, di questo sono sicuro!» Le sue parole vennero sottolineate da un boato di ilarità. Romanenko era sull'orlo delle lacrime. Ma riuscì a trattenerle e cercò di difendersi come poteva. «Lo so che è difficile credere a quello dico, ma è la verità! Non mi ricordo niente, lo giuro, e porco il demonio non so nemmeno perché!» I commilitoni, sordi al suo lamento, continuarono a infierire con le loro risate. Allora il soldatino guardò Lesiev con occhi imploranti. «Lei mi deve credere, sto dicendo la verità!... E non ero ubriaco!... Lo giuro su mia madre!» Inaspettatamente, Vadim sorrise e gli posò una mano sulla spalla. «Io non solo ti credo, Romanenko. Ma ti ringrazio. E anche i tuoi compagni, invece di ridere alle tue spalle, farebbero bene a dirti grazie.»

24 Il 16 novembre, Evilenko si assentò dal lavoro verso le undici del mattino. Erano trascorsi più di cinque mesi dall'arresto del capufficio Bagdasarov. Da quel giorno, Andrej entrava e usciva a suo piacimento. Il nuovo dirigente dell'ufficio approvvigionamenti delle ferrovie, tale Ignatov, non aveva impiegato troppo tempo a capire che non sarebbe stato prudente chiedere conto a Evilenko dei suoi frequenti spostamenti. Com'era sua abitudine, Andrej cominciò a girovagare senza meta per la città. Di tanto in tanto, si fermava di colpo e rimaneva immobile come una statua in mezzo al marciapiede. Succedeva sempre quando vedeva un bambino smarrito o una ragazza sola. Dall'alto di quel collo lungo come un periscopio, li scrutava intensamente per capire se facevano al caso suo. Ma se la preda che aveva adocchiato improvvisamente incontrava un conoscente o allungava il passo perché era diretta in un luogo preciso, allora lui non la guardava più e riprendeva il suo cammino. Andrej, in fondo, cercava sempre l'anima gemella. Le sue vittime dovevano necessariamente essere sole, tristi, sbandate. Come lui. Eppoi giovani, molto più giovani di lui. Del resto, chi mai avrebbe potuto indovinare l'età che Andrej riteneva di avere nel segreto della sua mente malata? Evilenko notò in una vetrina una grande scatola di metallo piena di matite colorate. La fissò a lungo con occhi golosi. Mentre la osservava, vide riflesso nel vetro il volto di un giovanotto che stava impalato dietro di lui con un giornale aperto. Andrej non riconobbe l'agente di polizia Nikitin. Però gli venne il sospetto che non stesse leggendo il giornale. Un attimo dopo, si rese conto che fingeva soltanto. Infine non ebbe più dubbi. Quel ragazzo lo stava spiando. Evilenko entrò nel negozio e acquistò le matite colorate. Quando uscì, attraversò la strada in un baleno e saltò su un autobus che stava partendo. Nikitin rimase sul marciapiede a fissare con un senso di impotenza l'autobus che si allontanava. Dal finestrino, Andrej gli spedì uno dei suoi famigerati sorrisi. Poi domandò scusa a un tipo anziano e robusto poiché gli aveva inavvertitamente pestato un piede. Quello rispose con un grugnito e si voltò dall'altra parte per evitare il suo sguardo. Era il sergente Frolov. Nello stesso istante, in una stanza al secondo piano del palazzo della Procura, il giudice Leonid Grigorievitch Novikov si stava congratulando con

l'investigatore Lesiev per il brillante esito delle indagini. Vadim lo ringraziò, ma abbreviò il cerimoniale. Aveva fretta di passare a un argomento più pratico. «Io direi di arrestarlo domattina, quando esce di casa...» «No. Non si può rischiare,» rispose Novikov. «Possiamo farlo anche subito, se preferisce. E' in giro per la città. Ma è sempre circondato. Ha venti uomini addosso.» «No. Conviene aspettare...» «Aspettare? Aspettare cosa?» «Lo voglio prendere con il topo in bocca, Lesiev.» L'investigatore lo guardò allibito. «Cosa?!... Lei vuole un altro cadavere?!...» «Anche fosse. Trentasei o trentasette non cambia niente. Abbiamo a che fare con il più grande delinquente comune della storia dell'umanità. Adesso tutto dipende da noi. Ora siamo noi a dettare le regole del gioco. E non possiamo assolutamente rischiare di perdere, solo perché abbiamo troppa fretta di vincere.» «No, Leonid Grigorievitch. Non sono d'accordo. Io non me la sento di giocare con la vita della gente.» «Lei lo vuole arrestare subito? Va bene. Lei lo arresta. E poi? Come pensa di incastrarlo? Che cosa abbiamo in mano? Un appunto scritto da un soldato che non ricorda nemmeno di aver visto quest'uomo? Lei non è un poliziotto, Lesiev, lei è un magistrato come me. Pensa veramente di poter sostenere un processo sulla base di quello scarabocchio?» «Non c'è solo quell'appunto. Ci sono molte altre cose. Stiamo esaminando tutti gli spostamenti di Evilenko negli ultimi quattro anni. Piano piano, i nodi vengono al pettine. Quando ci sono state delle vittime lontano da Rostov, a Leningrado, a Krasnodar, a Mosca... lui si trovava sempre lì per motivi di lavoro.» «E allora? Che cosa prova questo? Sono solo indizi, coincidenze, supposizioni, niente di più. Non si va lontano con questa roba. Non è più come una volta, Lesiev. Per fortuna, adesso noi lavoriamo per uno Stato di diritto e la democrazia sta arrivando a grandi passi. Se Dio vuole, è finita l'epoca dei processi farsa.» Ma Vadim teneva duro. «Con tutti gli elementi che ho, sono convinto di poter ottenere una confessione...» disse. Per tutta risposta, Novikov gli scoppiò a ridere in faccia. «Una confessione?!... Lo avete già arrestato altre volte, lo avete tenuto in cella per giorni e giorni, ma non ha mai parlato. Perché dovrebbe confessare proprio adesso. «Perché sta male.» «Sta male? In che senso?»

«Evilenko è un uomo malato. Molto malato. Tutto quello che ha fatto credo stia a dimostrarlo. Solo un uomo malato uccide senza movente.» «Ah, sì? E che malattia avrebbe, secondo lei?» «Si chiama schizofrenia.» «Complimenti, Lesiev. Non sapevo che lei avesse studiato anche medicina. Comunque, se è malato sarà un vero medico a stabilirlo. Nell'attesa, visto che è lei a farne una malattia perché non può arrestarlo, le consiglio di prendere qualche giorno di svago. Non è un favore che le faccio. Credo che lei si sia proprio meritato una vacanza. Quindi, per un po', dia un taglio a questa storia e vedrà che le farà bene.» Quando uscì dalla Procura, Vadim salì in macchina e partì. Ma non aveva la più pallida idea di dove andare. La malinconia lo condusse inconsapevolmente al di là del fiume, sulla riva disabitata del Don. Laggiù, era un mondo a parte, dove non esisteva alcuna possibilità di incontrare anima viva. La vegetazione era selvaggia e rigogliosa. C'era soltanto un vecchio luna-park abbandonato, con una giostra piena di mostruosi pupazzi strangolati dalle erbacce. Al tempo in cui Vadim frequentava l'università tutto era diverso. Qui venivano le famiglie a trascorrere la domenica e le giovani coppie a fare l'amore. Quelli come lui che non avevano la ragazza, si contentavano di rimanere per ore sul greto del fiume a tirare sassi, sperando di riuscire un giorno a scagliarne uno tanto forte da raggiungere l'altra sponda. Pungolato dai ricordi, Vadim si chinò a raccogliere una pietra. Ma quando stava per lanciarla, improvvisamente si fermò. Aprì la mano e la guardò. Era nera, perfettamente levigata e aveva una forma strana. Faceva pensare a un gatto. Un cucciolo di gatto. Un gattino che dormiva raggomitolato su se stesso. Vadim si rese conto in quel momento che il tempo non passa mai invano. Quando era ragazzo e stava in compagnia, desiderava soltanto lanciare il sasso il più lontano possibile per dimostrare che i suoi sogni si sarebbero avverati. Invece adesso, da solo, preferiva sognare a occhi aperti guardando le cose e cercando di afferrarne il mistero.

25 La notte fra il 19 e il 20 novembre, la luna era piena e la sua luce spietata. Lesiev stava seguendo Evilenko nel cuore del bosco. Non ricordava più da quanto tempo gli stava alle costole. La sagoma scura di Andrej si allontanava rapida e silenziosa attraverso la fitta trama degli alberi, come un ragno che cammina tessendo la tela. Il bosco era il suo elemento e nessuno lo conosceva meglio di lui. Vadim invece arrancava a denti stretti. Era sfinito. Aveva i vestiti laceri e le mani sanguinanti. Ma continuava a promettere a se stesso che non avrebbe mollato. Improvvisamente, la vegetazione si diradò e apparve una vasta pianura. Trovandosi così allo scoperto, Vadim si fermò ai margini del bosco. Evilenko non si voltò. Continuò ad avanzare con passo spedito. Puntava verso una gobba nera che si ergeva al centro della radura. Quando la raggiunse, cadde sulle ginocchia e alzò le braccia al cielo. Un attimo dopo, lanciò un urlo lunghissimo. Un urlo pieno di dolore. Vadim ne fu atterrito. Era il grido di un animale sconosciuto. Un animale che non si udiva sulla faccia della Terra da tempo immemorabile. Un animale che solamente molto più tardi sarebbe stato chiamato uomo. Vadim si spogliò della sua paura e si staccò dagli alberi. Mentre si avvicinava a Evilenko, notò che la gobba nera al centro della pianura si stava muovendo. Impercettibilmente, ma si muoveva. Era un movimento ritmico eppure dolce. Come un respiro palpitante. Come una lunga onda. In controluce, quella grande massa scura sembrava una donna incinta che aspettava ansiosa il suo momento. Vadim era giunto ormai a pochi passi da Evilenko. Ma Andrej, prima ancora di vederlo, lo sentì arrivare. Si girò di scatto verso di lui e lo chiamò per nome. «Vadim!... Li vedi?... Aiutami!... Aiutami, ti prego!... Li vedi?... Non vogliono morire!» Improvvisamente, Lesiev fu investito da una visione terrificante. La gobba nera altro non era che un gran mucchio di cadaveri accatastati. Erano decine, centinaia, piccoli, grandi, storpi, ciechi, sanguinanti. Si lamentavano, si contorcevano, strisciavano uno sull'altro. Si muovevano lentamente ma laboriosamente. Pullulavano come orde di vermi dentro una mela marcia. Vadim restò impietrito e senza fiato.

Mentre Evilenko, in ginocchio, continuava a supplicarlo. «Vadim!... Li vedi?... Non vogliono morire!... Perché non vogliono morire?... Dobbiamo fare qualcosa... Non possiamo lasciarli soffrire così!... Dobbiamo aiutarli a morire... Ti prego... Vadim!...» Lesiev si svegliò di soprassalto e si ritrovò solo e smarrito nel grande letto vuoto. Si alzò di scatto e spalancò la finestra che dava sul bosco circostante. Accese una sigaretta. La divorò aspirando profonde boccate mentre osservava le creste degli alberi strapazzate dal vento. Quando si rese conto che stava fumando il filtro, gettò il mozzicone in strada. Lo guardò spegnersi in una pozzanghera e richiuse la finestra. Poi diede un'occhiata all'orologio sul comodino. Segnava le tre meno un quarto. L'ora in cui tutti dormono. L'ora più adatta per mettere in atto la grave decisione che aveva appena preso. Vadim afferrò il telefono e compose un numero. Quello del tenente Ramenskij. Nonostante la spiccata antipatia, chiamò Ramenskij per un motivo molto semplice. Lui era l'unico, fra i suoi collaboratori, a possedere il telefono. E inoltre, sempre per quella famosa antipatia, non gli dispiaceva affatto l'idea di buttarlo giù dal letto. L'ufficiale rispose con voce impastata solo dopo una buona dozzina di squilli. Vadim gli raccomandò di radunare tutti gli agenti e fissò l'appuntamento dopo un'ora in via Petrovskaja. Ramenskij si guardò bene dal chiedere perché. Aveva capito perfettamente che il superiore voleva arrestare Evilenko e ne pregustava già le disastrose conseguenze. Il tenente sapeva che una iniziativa così rischiosa avrebbe potuto segnare la fine ingloriosa della carriera dell'investigatore Lesiev. E la sua fervida immaginazione gli stava certamente conferendo il comando delle indagini, all'indomani del siluramento di Vadim. Alle quattro, l'intero staff del caso Striscia di bosco si ritrovò come una setta di congiurati sulla via Petrovskaja, nei pressi del civico 240, dove risiedeva Andrej Romanovitch Evilenko. Erano tutti presenti. Tutti insonnoliti. A eccezione di Frolov. Il vecchio sergente, che non dormiva più dalla morte della moglie, era il candidato ideale per il turno di notte sotto l'abitazione dell'indiziato. Come ogni notte, Frolov non era solo. Quella volta gli faceva compagnia l'agente Kazakov, che aveva il compito di pedinare Evilenko qualora fosse uscito. L'indiziato in quel momento si trovava in casa.

Il sergente stava lì dal pomeriggio e aveva controllato scrupolosamente tutti i suoi movimenti. Li riferì a Lesiev con la precisione di una tabella ferroviaria. L'uomo dai grandi occhi bianchi era tornato alle sette e trentacinque, era uscito di nuovo alle nove meno venti, ed era rientrato definitivamente all'una e dieci. «Sei sicuro che ora è su?» gli domandò l'investigatore. «Direi proprio di sì,» rispose il sergente. «Ti ho chiesto se ne sei sicuro,» incalzò Vadim. «Tutto quello che posso dire è che non ci siamo mai mossi di qui. Nemmeno per pisciare,» disse il sergente. Con Frolov si poteva stare tranquilli. Più il compito era ottuso, più lui si dimostrava affidabile. «Allora ci andrete in tre,» decise Vadim. «Frolov, il tenente Ramenskij e Nikitin. Io rimango in macchina. Quando verrete fuori con lui, vi seguirò. Comunque, voi non dovete badare a me. Io cercherò di non farmi vedere. Poi, appena arrivati, lo portate subito nell'Acquario. E' tutto chiaro?» «Per essere chiaro è chiaro,» disse Frolov. «Ma non avevamo ricevuto l'ordine di aspettare?» «Voi ricevete ancora gli ordini da me. E finché eseguirete i miei ordini, tutte le responsabilità spettano a me.» Alle quattro e diciassette, Lesiev vide uscire dal portone Andrej Romanovitch Evilenko accompagnato dai tre poliziotti. Non poté fare a meno di notare che sorrideva. Sembrava tranquillo, sereno e ben disposto. Il sergente Frolov lo fece accomodare su una Zhigulì celeste che partì all'istante, seguita dalla Volga nera di proprietà del tenente Ramenskij. Vadim non si unì al corteo. Rimase fermo alcuni minuti con il motore acceso. A un tratto, lo assalì la paura. Cominciò a pensare di aver agito troppo impulsivamente. In fondo, cos'era che l'aveva spinto a tentare il tutto per tutto? Un sogno. In quel sogno, era stato proprio Evilenko a invocare il suo aiuto per fermare la furia omicida del mostro di Rostov. Ma, appunto, era solo un sogno. Nella realtà, Evilenko affrontava con molta calma la situazione. E già sorrideva all'idea di poter beffare ancora una volta la polizia. L'investigatore Lesiev giunse al commissariato circa un quarto d'ora dopo gli altri. Quando scese nel seminterrato, scoprì che quei quindici minuti erano stati fatali. Dal falso specchio, Vadim vide che Evilenko si trovava già nell'Acquario.

Ma non era solo. Stavano con lui il sergente Frolov e gli agenti Kazakov, Denisov e Yashenko. Lo facevano giocare. Al gioco preferito dei poliziotti sovietici. Il gioco si chiamava il «quinto angolo» ed era una versione riveduta e corretta dei classici «quattro cantoni». Funziona secondo le stesse regole. I quattro agenti si piazzano ai quattro angoli della stanza. L'indiziato rimane nel mezzo. La regola vuole che venga spinto, percosso e preso a calci. Si smette di picchiarlo solo quando il disgraziato trova un angolo libero tutto per lui. Il famoso quinto angolo. L'angolo che non esiste. Il procedimento è crudele ma la violenza non è così gratuita come sembra. Nel quinto angolo si cela un disegno preciso. E' una sorta di rudimentale macchina della verità. L'indiziato viene sballottato senza tregua allo scopo di fargli smarrire il senso dell'equilibrio. L'equilibrio fisico è del tutto secondario, a meno che non si tenga conto del puro divertimento sadico dei poliziotti. E' soprattutto l'equilibrio interiore che il gioco del quinto angolo mira a smantellare. Perché l'equilibrio interiore è quel dispositivo che consente all'individuo di destreggiarsi abilmente tra verità e menzogna. Evilenko, tuttavia, si dimostrava un osso duro. Lui giocava a quel gioco meglio di chiunque altro. Non fiatava. Non si ribellava. Ostentava la sensibilità di una palla di gomma. Andrej aveva trovato rifugio in una difesa rigorosamente passiva. Prendeva le botte, cadeva, si rialzava, ne buscava ancora, e cadeva di nuovo. Sempre con quel sorriso agghiacciante stampato sulle labbra. Vadim chiese conto di quanto stava succedendo al tenente Ramenskij che si godeva lo spettacolo e rideva insieme agli altri. «E' stato Frolov a decidere di fare il quinto angolo...,» disse arrossendo l'ufficiale. «Pensavamo che sarebbe servito ad ammorbidirlo un po'...» L'investigatore si voltò verso il dottor Amitrin. Gli domandò di portargli un camice bianco. Alla svelta. «Un camice bianco?...» «Sì, ha capito bene. Un camice bianco. E' un dottore lei? Allora avrà pure un camice bianco, o no?...»

Il medico legale sparì in fondo al corridoio e tornò un attimo dopo con un camice. Vadim si tolse in fretta e furia la giacca e la cravatta. Indossò immediatamente il camice, ripiegando le maniche troppo lunghe per le sue braccia. Poi rivolse ai suoi uomini una specie di ultimatum. «Io adesso vado lì dentro e caccio via quei quattro stronzi. Dopo di che, nessuno deve più entrare. Qualunque cosa succeda, il primo che si azzarda ad aprire quella porta va sotto processo. Intesi?» Vadim piombò sbraitando nell'Acquario. Kazakov, Denisov e Yashenko uscirono subito con la coda tra le gambe. L'unico a non spaventarsi fu il sergente Frolov. Osservò con occhio bovino il camice bianco di Lesiev. Poi lasciò la stanza con passo flemmatico. Quando la porta si richiuse, Vadim si chinò su Evilenko. L'indiziato era rimasto accartocciato sul pavimento. Aveva gli occhi chiusi e il sangue alla bocca. Almeno in apparenza, non dava segni di vita. «Evilenko?... Sono il compagno Lesiev. Sono un medico. Come ti senti?» Vadim lo sollevò prendendolo per le ascelle. Quell'uomo era grande e grosso il doppio di lui. L'investigatore fece appello a tutte le sue energie per adagiarlo su una delle vecchie seggiole di metallo che stavano ammucchiate contro una parete della stanza. Appena si ritrovò seduto, Andrej aprì gli occhi e lo vide. «Sto benissimo,» disse con voce roca. «Gli faremo rapporto, te lo prometto. Non la passeranno liscia, non ti preoccupare...» gli assicurò Vadim. «Sei preoccupato, tu?» domandò Andrej. «Certo che sono preoccupato. Guarda come ti hanno ridotto... Su, spogliati, fammi vedere...» «Non ti devi preoccupare, compagno. Non mi hanno fatto niente. Non mi possono fare niente. Io sono già morto...» «Ah, sì? E quando saresti morto?» «Oh, che vuoi che mi ricordi. Sono morto tante di quelle volte. Ci sono abituato, ormai,» rispose Evilenko evitando lo sguardo di Lesiev. «Senti Andrej...» disse Vadim. «Tu non sei ancora morto. Ma adesso sei in pericolo. Dopo quello che hai fatto, qui tutti ti vogliono morto. E' bene che tu lo sappia.» «Te l'ho detto, ci sono abituato.» «Stavolta è diverso. Vedi, loro sono al corrente di tutto. Loro sanno che tu hai ammazzato trentasei persone. Conoscono ogni minimo particolare dei delitti che hai commesso. Sanno tutto, per filo e per segno. L'unica cosa che non sanno è che tu sei malato. Io invece lo so che tu hai fatto quello che hai

fatto perché stai male, perché la tua vita è stata una grande, interminabile sofferenza... Io lo so, e per quanto orribile sia, sono un medico e ti posso capire... Io non ti odio, Evilenko. Io comprendo la tua disgrazia e il tuo dolore. Non ti sto mentendo... Lo senti che sono sincero?... Tu lo senti, vero? Sì, che lo senti... Tu hai una grande sensibilità, Andrej... E io provo una grande pena per te... Perché dentro di te c'è un bambino cattivo, e noi dobbiamo tirarlo fuori... Ma solo tu ci puoi aiutare a trovarlo...» Ora Andrej lo guardava. E Vadim avvertì la sensazione che il suo cuore lo stesse ascoltando. «L'importante, adesso, è far capire agli altri la tua malattia. Sono convinto che noi due, insieme, ci riusciremo. E dopo... quando ti sarai liberato di tutto il dolore che ti tormenta, ti garantisco che nessuno ti torcerà un capello. Ti dò la mia parola. E' la parola di un comunista, Evilenko. Perché io sono un comunista. Proprio come te...» «Che cosa vuoi sapere?» disse inaspettatamente Evilenko. Lo disse sorridendo. Era la sua solita smorfia. Ma Vadim la interpretò come un provvidenziale cedimento. «Tutto. Voglio sapere tutto. Dall'inizio.» «E' impossibile spiegarti tutto. Io non sono autorizzato a parlare... Eppoi è tardi. Non c'è più tempo...» «Abbiamo tutto il tempo che vogliamo,» affermò Vadim mentre prendeva una seggiola per sedersi davanti a lui. «Dall'inizio hai detto?» «Sì.» «Sono nato a Yabloshnove, in Ucraina, il 20 ottobre del 1940. Quella mattina c'era un sole nero, il cielo era buio e faceva freddo... molto freddo. Ma io non sono nato veramente... Mi hanno buttato fuori da un ventre morto e putrefatto. E' stato atroce... Non è una cosa che si dimentica...» «Vuoi dire che ti ricordi come sei nato?» «Esattamente come me lo immagino.» «E dopo?» «Dopo, mi hanno gettato nel Don. L'acqua era gelida e la corrente mi portava via... Ma improvvisamente... mi sono sentito afferrare e sono uscito dall'acqua... Ero salvo...» «Chi ti ha salvato?» «Non era un uomo...» «Che cos'era?» «Era un leone... Io stavo nella bocca del leone, ma non avevo paura... Il leone mi ha portato nel bosco e mi ha lasciato lì... Prima di andarsene, mi ha detto che dovevo scegliere e io ho scelto.... Ho scelto di vivere come un comunista.

Un comunista non vive per se stesso, vive per gli altri. E' l'unico modo di vivere, sai?» «E il leone? L'hai più rivisto?» «No. Il leone è morto.» «E' morto? Come è morto?» «Lo hanno ammazzato.» «Chi lo ha ammazzato?» «I codardi.» «Chi sono questi codardi?» «I codardi hanno preso il potere. Ma loro non sanno che il leone è vivo. Lui è ancora dentro di me. Non potranno più ammazzarlo.» «Che cosa è successo dopo la morte del leone?» «I codardi ci hanno venduti. E Gorbaciov ha incassato i soldi. Ma anche Gorbaciov morirà. E' già deciso...» «Gorbaciov non ci interessa. Vai avanti...» disse inavvertitamente Vadim. Nello spazio di un attimo, lo sguardo di Evilenko diventò buio e ostile. «Adesso basta. Non ti posso spiegare tutto. Se sei un vero comunista devi andare avanti da solo,» rispose stizzito. «Ti stai prendendo gioco di me, vero Andrej?.» «Tu non conosci la storia. E' la storia che si prende gioco di noi.» «Ho capito. Spogliati. Voglio vedere cosa ti hanno fatto,» disse Vadim alzandosi in piedi. Evilenko si sbottonò la camicia. Subito dopo, fece scivolare i pantaloni fino ai piedi. Quando rimase in mutande, l'investigatore gli fece segno di togliere anche quelle. Andrej ubbidì senza dire nulla. Poi, fissando pudicamente il soffitto, aspettò il responso dell'uomo che indossava il camice bianco. Ma Vadim dedicò ai suoi lividi soltanto una fugace occhiata. Lo sguardo dell'investigatore fu istintivamente attratto dalla piccola proboscide grinzosa che penzolava inerte tra le gambe di Andrej. «Ti hanno conciato male... Ma a quanto pare non c'è niente di rotto, per fortuna...» sentenziò Vadim «Tu non sei un medico,» disse sorridendo Andrej. «Perché dici che non sono un medico?» «Lo vedo da come mi guardi. Mi guardi come una donna.» A Evilenko non era sfuggito lo sguardo di Vadim che si era insinuato tra le sue gambe. L'investigatore pensò che allora tanto valeva giocare a carte scoperte. «Come sta il tuo amico, lì?...» disse Lesiev senza staccare gli occhi dai genitali di Andrej. Ma Evilenko non replicò. «Ehi, sto parlando di lui...» ripeté Vadim.

E finalmente Andrej si degnò di rispondere. «Non ti ha sentito.» «Già... dimenticavo che tu sei impotente. E' questa la tua disgrazia, vero?» «Non è una disgrazia. E' il mio privilegio. Io sono inferiore agli altri. Ma gli altri sono inferiori a me.» «Cosa vuoi dire?» «Quello che ho detto.» «Cos'hai tu più degli altri?» «Non ho niente più degli altri.» «Allora perché gli altri sono inferiori a te?» «Perché io so.» «Che cosa sai?» «Non fare domande sciocche. Se te lo dico è finita.» «A me puoi dirlo.» «Non posso dirlo a nessuno.» «A me lo devi dire. Se ti tieni tutto dentro, scoppierai.» Evilenko non rispose più. Si limitò a fissare Vadim. «Va bene compagno...» disse Lesiev con un sospiro. «Te lo dirò io. La verità è che tu non sei impotente. Quando vedi un bambino per la strada, tu non sei impotente... Che succede in quel momento, Andrej? Lo guardi? Sì, lo guardi... Forse lo guardi proprio come stai guardando me, adesso...» In quel preciso istante, l'investigatore si rese conto che faticava a sostenere lo sguardo di Evilenko. Una luce sempre più intensa sembrava sprigionarsi dai suoi occhi. Erano come i fari di una macchina che gli stava piombando addosso. Veniva veloce. Voleva accecarlo. Stava per travolgerlo. Ma ora Vadim non poteva più abbassare lo sguardo. Doveva insistere. «Quel bambino è solo... Dove va? Non sa dove andare... Si vede benissimo che non sa dove andare... E adesso tu che fai? Lo segui? O no? No, non lo segui... Tu... tu cerchi i suoi occhi... Tu cerchi soltanto di catturare il suo sguardo... E quando... Ma certo, è lui che ti segue!» Improvvisamente, sulle labbra di Andrej comparve un ghigno terrificante. E nello stesso istante, gli occhi dell'investigatore si fecero torbidi, assenti. Lesiev era rimasto impigliato nello sguardo di Evilenko. Come una mosca nella tela del ragno. «Dove mi stai portando?» chiese Vadim con una voce esile che non sembrava la sua.» «Come ti chiami?» disse Andrej quasi senza muovere le labbra. «Vadim...»

«Perché a quest'ora non sei a casa, Vadim?» «Perché... mio padre e mia madre sono morti.» «Non importa, Vadim. Da questo momento, sarò io a occuparmi di te. Ma tu mi dovrai ubbidire.» «Dove mi porti?» «Spogliati.» Senza riuscire a staccare i suoi occhi da quelli di Evilenko, Vadim sbottonò il camice. Continuò a spogliarsi restando seduto. I suoi gesti lenti e meccanici sembravano assolutamente privi di volontà. Fuori dell'Acquario, dietro il falso specchio, i suoi uomini lo stavano osservando con il fiato sospeso. Erano esterrefatti. «Che facciamo, entriamo?» chiese preoccupato Nikitin. «Nossignore. Facciamo quello che ha detto lui. Noi dobbiamo soltanto eseguire gli ordini,» rispose puntuale il tenente Ramenskij. Dentro l'Acquario, Vadim aveva finito di spogliarsi. Adesso era completamente nudo. Proprio come Evilenko. Che continuava a tenerlo incatenato al suo sguardo. «Avvicinati...» gli sussurrò Andrej. Come attirato da una calamita, Vadim si protese lentamente verso Evilenko. Ma quando il suo viso e quello di Andrej stavano quasi per sfiorarsi, Vadim inaspettatamente sorrise. Negli occhi dell'investigatore era tornata di colpo la luce. Anche la sua voce era diversa. Ora aveva un suono adulto e minaccioso. «Con me non funziona, Andrej... Io non sono un bambino... Ma se fossi un bambino... ora... tu cosa mi faresti?» Evilenko non sorrideva più. I suoi occhi erano dilatati dalla paura. «Cosa mi faresti, eh? Mi prenderesti il cazzo in bocca? Il cazzo e le palle, tutto insieme, e poi un bel morso alla radice? E così che ti ecciti? E così che ti piace, vero? Perché non provi con me, eh? Forza, fammi vedere come fai... Sono proprio curioso di vedere come fai... Dai, non vedi che sono io che te lo chiedo? Avanti, mordi! Avanti, fammi uscire il sangue! Voglio il sangue, Andrej!» «Tu sei pazzo!» esclamò Evilenko ritraendosi contro il freddo schienale della seggiola. «Che succede quando azzanni un bambino, Andrej? Che succede quando hai la bocca piena della sua carne e cominci a masticarla, eh? Avanti, dimmelo... Perché non vuoi dirmelo? Preferisci che te lo dica io?»

Evilenko si proteggeva le orecchie con le mani per non sentirlo e non osava neanche più guardarlo. I suoi occhi cercavano ovunque un'impossibile via di fuga. In quel momento, Vadim notò che l'anima nascosta di Andrej era venuta allo scoperto in mezzo alle sue gambe. Il suo membro era lì. Forte e rubizzo. Dritto come una spada. Non c'era un minuto da perdere. «Va bene Andrej, te lo dico io... Dev'essere bellissimo, vero Andrej? Sì, io lo so che è bellissimo... Lo so che tu provi una sensazione incredibile quando ti si riempie la bocca di sangue... E proprio così, non c'è niente che ti fa perdere la testa come il sapore del sangue... Il sangue è denso... è vivo... Lo senti scendere giù piano piano, in fondo alla gola, poi sempre più giù, sempre più giù... E fra poco... Fra poco sarai finalmente un vero uomo, dico bene Andrej? Sì, eccolo, sta arrivando... Lo senti? Ma certo che lo senti... Come potresti non sentirlo? Ora è lì, nella tua carne, e la tua carne adesso è viva... La vedi? La vedi la tua carne che si gonfia, Andrej? Lo vedi questo pezzo di carne che diventa grande, enorme, forte, duro come l'acciaio? Guardalo! Il tuo cazzo, Andrej! Voglio che lo guardi! Guarda il tuo cazzo Andrej!!!» «Mi fai schifo!!!!» urlò Evilenko. Con un guizzo, Vadim balzò in piedi e gli afferrò il membro. La sua mano cominciò a stringerlo più forte che poteva. «Nooo!!! No che non ti faccio schifo! Perché dici che ti faccio schifo?! Non ti faccio schifo! Lo senti che non ti faccio schifo, Andrej?! Eh, lo senti? Eh?!...» Improvvisamente, il glande cominciò a vibrare nella mano di Vadim. D'istinto, lui allentò la morsa e lo lasciò andare. Giusto in tempo. Evilenko ansimava. L'orgasmo e la paura. Lo stesso respiro. Un istante dopo, l'uomo dai grandi occhi bianchi fissò sgomento le gocce di sperma che luccicavano sul pavimento. Ora sì, Andrej si sentiva veramente impotente. Perché ora Lesiev era riuscito a ottenere da lui, contro la sua stessa volontà, quello che andava cercando. In quella stanza e in quel momento, quei due uomini che si affrontavano erano nudi ed erano uguali. Appartenevano a un mondo irreale ma tutt'altro che immaginario. Erano come Caino e Abele. Ma questa volta Abele aveva sconfitto Caino. «Mi dispiace, Andrej...» disse Vadim con un tono privo di enfasi. «Mi ci hai

costretto... Perché tu godi soltanto così. Lo vedi, è più forte di te. Tu sei malato, Andrej. Ma non è una tua colpa. E' la tua sciagura....» Evilenko non lo stava ascoltando. Andrej sembrava una nave in mezzo a una tempesta. Quell'uomo alto, forte e spietato non era più che un fuscello in balla della bufera. Le braccia si agitavano disarticolate come se stesse precipitando in un vuoto senza fondo. Tutto il corpo sussultava, comprese le dita dei piedi e delle mani. Si ripiegava su se stesso in preda a spasmi lancinanti. E stava lentamente ma inesorabilmente scivolando giù dalla seggiola. Quando precipitò a terra, continuò a dimenarsi sotto lo sguardo allibito di Vadim. Evilenko strisciava come un verme in mezzo alla stanza. Batteva la testa contro il pavimento. E si teneva aggrappato al suo membro quasi fosse stato una sorta di cordone ombelicale. L'investigatore rimase come folgorato. Andrej stava nascendo. Proprio così. Stava nascendo ancora una volta. E ancora una volta veniva al mondo nudo, inerme, sanguinante, dilaniato da mille sofferenze. Vadim aspettò che quel terremoto si placasse. Quando infine vide Andrej ripiegato in un angolo e lo udì frignare come un bambino, raccattò gli indumenti sparsi per la stanza e li posò sopra di lui. Poi si chinò e gli parlò in un orecchio. «Bravo, Andrej... Ce l'hai fatta... E' stata dura ma ce l'hai fatta... Adesso io manterrò la mia promessa... Ricordi che cosa ti ho promesso? Nessuno ti torcerà un capello, Andrej. Ma tu mi devi dire tutto, capito?» «E tutto scritto,» rispose Evilenko fra i singhiozzi. «Nella mia scrivania... in ufficio. Ma tu... tu non lo puoi leggere. Portalo qui... Solo io... solo io lo posso leggere...» Quando Vadim uscì dall'Acquario, indossava soltanto il camice bianco. I suoi uomini si appiattirono contro le pareti dello stretto corridoio per lasciarlo passare. Il primo a complimentarsi con lui fu il sergente Frolov. «Vadim Timurovitch...,» esordì l'anziano sottufficiale con la voce velata d'imbarazzo, «volevo dirle che... insomma... non trovo le parole... ma io... io non dimenticherò mai cosa ho visto succedere lì dentro. Lei è stato grande. Soltanto lei poteva riuscire a farlo confessare...» «Grazie sergente, ma lasciamo perdere le congratulazioni. Evilenko non ha ancora confessato. Forse lo farà, spero proprio che lo farà, però noi adesso non ci possiamo permettere altri errori. D'ora in poi, lo dobbiamo trattare

con i guanti. Niente più quinto angolo, intesi Frolov?...» «Certo, certo...» bofonchiò Frolov abbassando gli occhi. «Che ore sono?» chiese Vadim. «Le cinque e quaranta,» rispose il dottor Amitrin. «Io adesso vado a casa a mettermi qualcosa addosso,» disse l'investigatore. «Poi, verso le otto, andrò all'ufficio approvvigionamenti delle ferrovie. Ci dovrebbe essere una confessione scritta, una specie di diario, nella scrivania di Evilenko. Me lo ha detto lui. Se lo troviamo, il più è fatto. Se invece è stato solo un trucco per prendere tempo, allora siamo nei guai come prima...forse anche peggio di prima...» Vadim lanciò un'occhiata nel falso specchio. Evilenko era sempre lì, immobile, incastrato tra la parete e il pavimento. Teneva gli occhi chiusi. Però muoveva ininterrottamente le labbra. Come se parlasse tra sé. E in modo piuttosto concitato. «Finché sarò via, voi dovrete occuparvi di lui. Dategli una coperta, un tè caldo, qualcosa da mangiare. Fate conto di non essere poliziotti ma infermieri. In fin dei conti, quell'uomo è gravemente malato. Però mi raccomando: evitate di guardarlo negli occhi e cercate di parlare con lui il meno possibile.» Alle otto in punto, l'investigatore Lesiev si presentò all'ufficio approvvigionamenti delle ferrovie. Quando domandò di Bagdasarov, tutti gli impiegati lo guardarono di traverso. Il nuovo dirigente, Ignatov, fu invece molto gentile con lui, specie dopo aver appreso che Evilenko era stato arrestato. Mostrò a Vadim la scrivania di Andrej e gli disse che era a sua completa disposizione. Si offrì persino di farla trasportare al commissariato qualora avesse voluto esaminarla con maggiore comodità. Vadim impiegò più di mezz'ora per trovare quello che cercava. Andrej non aveva mentito. Il mostro di Rostov teneva un diario. Era nascosto dietro il secondo cassetto. Si trattava di un tomo molto grosso. Copertina rigida verde sbiadito. Carta a quadretti. Centinaia e centinaia di fogli. Un tipico registro, di quelli che solitamente usano i contabili o i direttori didattici. Quando cominciò a sfogliare il diario, l'investigatore rimase sbalordito. Non era scritto secondo un linguaggio corrente. Era pieno di disegni. Realistici. Simbolici. Iperbolici. Colorati.

E accanto a quelle figure, spuntavano come funghi delle cifre. Numeri incomprensibili, che si accompagnavano ai disegni forse per commentarli, o forse per indirizzarli verso una segreta chiave di lettura. Comunque, in tutto il volume non c'era una parola che fosse una. Evilenko aveva deciso di immortalare le sue gesta in un colossale, enigmatico racconto a fumetti. Dopotutto, Andrej era un gigantesco bambino. E come tale amava rappresentarsi. In quei disegni, il mostro di Rostov era alto come gli alberi del bosco ma portava i calzoncini corti. Il primo fumetto mostrava un ombrello chiuso. Venivano quindi, in sequenza, altre immagini. Una fermata d'autobus. Un gigante con i calzoncini. Una bambina bionda e sola. Un fascio di libri di scuola. La pioggia battente. L'ombrello aperto. Il gigante e la bambina sotto l'ombrello. Una automobile dentro una nuvola. Il gigante e la bambina diretti verso un bosco mano nella mano. Il gigante e la bambina sdraiati nell'erba. La bambina che prende la mano del gigante e la guida tra le sue gambe. La mano del gigante che viene inghiottita dalle gambe della bambina. Poi il braccio. Poi la testa. Poi tutto il resto. Il gigante che scompare tra le gambe della bambina. Il ventre della bambina che si gonfia. La bambina che grida. Il gigante che viene sparato fuori come una palla di cannone. Il gigante che ora è piccolo e nudo. Il piccolo gigante che afferra i lunghi capelli dorati della bambina. La bambina che si ritrova sospesa in aria. La bambina che spalanca la bocca in un grido disperato. La mano del piccolo gigante che entra nella sua bocca e le strappa la lingua. La bambina che precipita a terra. Il piccolo gigante che agita un bastone più grande di lui. Il bastone che si abbatte in mezzo alle gambe della bambina. La sua vagina trafitta che sembra un cuore. Il piccolo gigante che continua a colpire con il suo grande bastone. Le viscere della bambina che esplodono in un boato di sangue... Quando l'investigatore fece rientro al commissariato con il diario di Evilenko sotto il braccio, trovò ad attenderlo Leonid Grigorievitch Novikov. Il Procuratore di Rostov lo aggredì senza preamboli. «Ma bravo Lesiev. Veramente bravo. E così, ha voluto arrestare Evilenko. Deve essere stato difficile catturarlo eh? Mi dica come è andata. Voglio proprio congratularmi con lei per questo suo gesto così eroico.» «Mi perdoni, lei ha ragione, non ho seguito il suo consiglio, è vero...» rispose con calma Vadim. «E so anche di aver corso un grosso rischio, ma per fortuna...» «Io so soltanto che non dovevo fidarmi di un comunista,» disse il giudice interrompendolo. «La sua brillante carriera finisce qui, caro Lesiev. Ma questo purtroppo a me non basta. Lei mi capisce, non posso contentarmi di una soddisfazione così

magra. No Lesiev, lei non se la caverà a buon mercato. Aprirò un'inchiesta e le prometto che...» «Evilenko ha confessato,» annunciò bruscamente Vadim. «Ah, sì? Ma davvero? E dov'è questa confessione?» chiese Novikov. «Eccola...» disse l'investigatore mostrando il grosso registro che stringeva tra le mani. «Che cos'è?...» «Il suo diario.» Con un gesto sprezzante, il giudice strappò il registro dalle mani di Lesiev. Mentre Novikov lo sfogliava, Vadim continuò a parlare per attenuare la prevedibile sorpresa del superiore. «E' incredibile, vero? Evilenko ha disegnato tutto. Tutto quello che è successo tra lui e le sue vittime, lo troverà descritto per filo e per segno. Poi, ci sono i numeri. Quelli, non sono riuscito a decifrarli. Ma lo farà Evilenko. Ha detto che mi leggerà lui stesso il suo diario. Come può vedere, i numeri compaiono sotto ogni disegno. Forse Evilenko ha tradotto in numeri le parole dette in quelle circostanze in base a un codice inventato da lui. Non lo so, è solo una supposizione. Comunque, credo che ora sia evidente quanto è folle quest'uomo...» «Secondo me, il pazzo è lei, Lesiev...» disse Novikov chiudendo il registro. «Questo diario, come lo chiama lei, non serve a niente. E' soltanto un fumetto. Se non ci fosse tutto questo sangue, lo potrei regalare a mio figlio...» «Le ho detto che Evilenko ha promesso di leggerlo. Sarà la traccia per la sua confessione...» replicò Vadim. «Io non ho nessuna intenzione di farmi prendere in giro, Lesiev. Evilenko deve confessare, punto e basta. Voglio sentirlo parlare. Voglio mettere a verbale le sue dichiarazioni. Adesso vado giù da lui. Se mi dice quello che devo sapere, bene, Altrimenti, sarà lei a rispondere di questa situazione assurda.» Il giudice uscì sbattendo la porta. Vadim accese una sigaretta e rimase seduto a riflettere. Quindi chiamò il sergente Frolov. Gli ordinò di convocare tutti gli uomini nella sua stanza. Dieci minuti dopo, l'intero staff del caso Striscia di bosco si trovò riunito attorno alla scrivania del capo. Mancavano all'appello soltanto Denisov e Nikitin, che erano di servizio giù nell'Acquario. L'investigatore staccò il telefono e fece chiudere la porta a chiave. La riunione fu lunga e sofferta. Vadim esordì con una spietata autocritica. Riconobbe che aveva sbagliato a precipitare gli eventi. Confermò che la responsabilità dell'arresto di Evilenko ricadeva interamente

sulle sue spalle. E annunciò che avrebbe lasciato immediatamente l'incarico, senza stare ad aspettare la famosa inchiesta minacciata dal giudice Novikov. La reazione dei suoi uomini fu immediata e spontanea. Dimissioni. Dimissioni. Dimissioni. Anche il tenente Ramenskij pronunciò senza esitazioni la fatidica parola. L'investigatore apprezzò molto la solidarietà dei suoi uomini. Ma disse no. Disse anche che si faceva da parte serenamente proprio perché sapeva che il caso Striscia di bosco restava in buone mani. Se invece l'intero staff lo avesse seguito, il lavoro di anni e anni sarebbe andato irrimediabilmente perduto. Era facile pronosticare che Novikov avrebbe rimpiazzato tutti in un batter d'occhio. Ma quali sostituti potevano essere in grado di raccogliere la confessione di Evilenko e di ricostruire la lunga e sanguinosa guerra privata del mostro di Rostov? Mentre Lesiev esponeva le sue ragioni, qualcuno bussò alla porta. Nessuno vi badò. Al primo colpo ne seguirono altri. Sempre più forti. Sempre più insistenti. Vadim smise di parlare e fece segno al dottor Amitrin di aprire la porta. L'agente Nikitin entrò di slancio nella stanza. Il pivello era molto agitato. «Vadim Timurovitch?!... Presto!... Venga giù!..» Evilenko stava seduto al centro dell'Acquario con una coperta sulle spalle. Dinanzi a lui, c'erano il giudice Novikov e l'agente Denisov. Fra di loro, un tavolo. Sul tavolo, un vecchio magnetofono acceso. Il nastro strisciava fra le bobine come un rettile pronto a colpire. Ma in quella stanza non si udiva niente di interessante da registrare. Il giudice incalzava con le sue domande. Evilenko non lo ascoltava. Andrej aveva di fronte a sé un bicchiere pieno d'acqua. A intervalli regolari, ci sputava dentro e subito dopo prendeva un sorso di acqua e sputo. Quindi risputava tutto nel bicchiere. E ricominciava daccapo. Novikov e Denisov lo guardavano disgustati. L'investigatore li stava spiando dal falso specchio. Vadim non provava ribrezzo per il comportamento di Evilenko. Come sempre, in lui era la curiosità a prevalere. Andrej non rispondeva alle domande del giudice.

Non diceva niente. Però, sputava e risputava in continuazione la sua stessa saliva. Perché lo faceva? In un certo senso, era come confessare e rimangiarsi la confessione subito dopo. Che cosa voleva dimostrare con quei gargarismi? Se non intendeva vuotare il sacco, gli sarebbe bastato tacere. Invece sembrava che dicesse: «Io vorrei parlare, ma è più forte di me, non ci riesco.» A un tratto, Evilenko fissò Novikov e avanzò una richiesta secca. «Voglio parlare con il compagno Lesiev,» affermò Andrej. «Ha sentito?!... E' la terza volta che lo dice!...» commentò raggiante l'agente Nikitin. A quel punto, Novikov si alzò di scatto, indispettito, e uscì dall'Acquario. Quando vide Vadim, il giudice non riuscì a mascherare un certo imbarazzo. Lo invitò a seguirlo in fondo al corridoio. «Ha sentito cosa ha detto?» domandò all'investigatore. «Sì,» rispose Vadim. «Va bene. E' suo.» «Mi sta dicendo che lo devo interrogare io?» «Lo ha chiesto lui. Eppoi è un comunista come lei, no?» «Non vedo cosa c'entra.» «Lei ha combinato il guaio, lei deve riparare. Ma voglio che sia ben chiara una cosa. Se il compagno Evilenko non confessa, io in tribunale porto il compagno Lesiev.» «E se confessa?» «Se confessa, tutto si aggiusta.» «No. Se confessa, voglio condurre io l'istruttoria,» replicò Vadim cambiando repentinamente tono di voce. «Non so. Vedremo.» «Gradirei una risposta adesso.» «E' così sicuro di riuscire a farlo confessare?» chiese il giudice con uno sguardo sornione. «Sì,» rispose Vadim sforzandosi di sembrare convincente. «Perché?» «Perché io sto cercando di capirlo.» «Già, dimenticavo che lei ultimamente ha studiato anche medicina... Va bene, Lesiev. Se Evilenko confessa, lei dirigerà l'istruttoria. Ma attenzione. Non commetta altri errori. Si ricordi che il giudice sono sempre io.» «Buona fortuna,» bisbigliò Novikov avviandosi verso le scale. Ma un attimo dopo ritornò sui suoi passi. Si era accorto che l'investigatore aveva con sé il diario di Evilenko. «Quello non serve a niente. Lo dia pure a me, Lesiev...» disse il giudice. «Ho promesso a Evilenko che glielo avrei portato...» obiettò Vadim. «Invece lo prendo io...» ribatté bruscamente Novikov strappandoglielo dalle

mani. «Ma non si rende conto che senza il diario è tutto molto più difficile?» disse l'investigatore. «A me non è servito. Quindi ne può fare a meno anche lei,» rispose il giudice andandosene soddisfatto.

26 Lesiev entrò nell'Acquario e prese il posto di Novikov. Evilenko lo salutò con uno di quei sorrisi che gli deformavano orribilmente il volto. Anche l'investigatore sorrise. L'agente Denisov fece partire il registratore. Ma Andrej e Vadim continuarono per un po' a guardarsi in silenzio. «Ne vuoi uno pulito?» chiese a un tratto Vadim alludendo al bicchiere di Evilenko colmo di saliva. «No. Qui dentro ci sono io,» ribatté Andrej. «Lì dentro?» domandò Vadim indicando il bicchiere. Per tutta risposta, Evilenko rovesciò lentamente il contenuto del bicchiere. «Non più...» disse Andrej con una smorfia triste mentre la saliva si spandeva e si sfilacciava sul ripiano del tavolo. «Non sono riuscito a trovare il tuo diario...» affermò Lesiev senza inutili preamboli. «Un bel guaio...» commentò Evilenko. «Lo hai dato a loro, vero?» aggiunse improvvisamente con un ghigno. «Sì, Andrej. Io non volevo. Ma loro se lo sono preso,» disse Vadim.» «C'era da aspettarselo.» «Immagino che ora tu farai fatica a ricordare...» «Se guardi nel mio cervello potrai vedere il cielo, compagno.» «Ma tu...mi lascerai entrare nel tuo cervello, Andrej?» «Per non lasciarti entrare, dovrei prima farti uscire,» rispose Evilenko con uno strano sguardo. Quello sguardo aveva tutta l'aria di uno sguardo complice. Possibile che Evilenko cominciasse a nutrire una sorta di fiducia nei confronti di Lesiev? In fondo, era stato Andrej a chiedere di parlare proprio con lui e solo con lui. Ma perché? Forse perché Vadim lo aveva difeso dalle violenze degli agenti? Perché aveva detto che comprendeva e compativa la sua malattia? Perché aveva violato il suo terribile segreto scendendo nel profondo della sua intimità? O magari soltanto perché erano entrambi comunisti, come insinuava il giudice Novikov? L'investigatore non sapeva dare risposte alle tante congetture che gli affollavano la mente. Ma se una complicità in qualche modo era sorta, di certo valeva la pena assecondarla. Vadim accese una sigaretta. Poi si chinò, prese alcuni fogli da una cartella e li mostrò ad Andrej. «Questo è un elenco con i nomi, i luoghi e le date. Avrei piacere che tu gli

dessi un'occhiata...» Evilenko inforcò gli occhiali e cominciò a leggere. Erano solo tre paginette. Quando ebbe finito, Andrej si tolse gli occhiali. Guardò l'investigatore. Gli sorrise. E improvvisamente stracciò i fogli. «Cosa c'è che non va?» chiese preoccupato Vadim. «Prendi carta e penna,» gli ordinò Andrej. «C'è il registratore...» «No. Devi scrivere.» Vadim cercò affannosamente dei fogli bianchi nella sua cartella. «Sei pronto?» chiese con impazienza Evilenko. «Sì,» si affrettò a rispondere Vadim. Andrej cominciò a dettare. Una valanga di nomi, date, luoghi. Un elenco terrificante. Una precisione impressionante. «Quindici maggio 1986, Maria, nove anni, Striscia di bosco numero 137, distretto di Rostov... Ventinove agosto 1986, Vera, diciotto anni, Striscia di bosco numero 21, zona di Shakhty... Quindici ottobre 1986, Tamara, ventun anni, Striscia di bosco numero 11, distretto di Rostov... Quattro novembre 1986, Oleg, sette anni, Striscia di bosco numero 19, zona di Revda... Ventiquattro dicembre 1986, Lev, undici anni, Striscia di bosco numero 31, zona di Novocerkassk...» Evilenko andava come un treno. L'investigatore scriveva a testa bassa. Non trovava neanche il tempo di dare una boccata alla sigaretta che si stava consumando inutilmente e pericolosamente sul bordo del tavolo. Vadim annotava e rifletteva. Lo colpivano, in modo particolare, le date. Stando alle sue dichiarazioni, Andrej aveva cominciato ad uccidere nel 1986. Aveva ammazzato cinque persone nel 1986. Se era vero, si trattava di una notizia sconvolgente. Perché la scoperta ufficiale del primo delitto della Striscia di bosco risaliva soltanto al 1987. Ma allora, quante potevano essere le vittime del mostro di Rostov?... Trentasei?... Quarantuno?... O addirittura di più? Mentre Vadim era sprofondato nei suoi ragionamenti, Evilenko continuava imperterrito. Elencava tutti quei dati senza un'esitazione, come se avesse semplicemente premuto un pulsante e li stesse estraendo dalla memoria di un computer. «Sette febbraio 1987, Aleksandra, vent'anni, stazione di Leningrado... Ventuno febbraio 1987, Ivan, quattordici anni, Striscia di bosco numero 234, distretto di Sverdlosk... Quattro aprile 1987, Ludmila, diciannove anni, Striscia di bosco

numero 14, distretto di Rostov... Sette giugno 1987, Maria, diciassette anni, Striscia di bosco numero 40, zona di Novoshakhtinsk... Primo agosto 1987, Valentina, ventun anni, Striscia di bosco numero 19, distretto di Rostov... Quattordici agosto 1987, Elizaveta, undici anni, Striscia di bosco numero 13, zona di Novoshakhtinsk... Otto settembre 1987, Vladimir, tredici anni, Striscia di bosco numero 18, zona di Novocerkassk... Ventuno ottobre 1987, Tamara, dodici anni, Striscia di bosco numero 29, distretto di Leningrado... Tre dicembre 1987, Tatjana, nove anni, Striscia di bosco numero 109, distretto di Rostov... Venti dicembre 1987, Leontij, dodici anni, Striscia di bosco numero 7, distretto di Vladimir... Nove febbraio 1988, Marina, otto anni, Striscia di bosco numero 19, distretto di Krasnodar... Dodici febbraio 1987, Larisa, ventitré anni, Striscia di bosco numero 62, distretto di Krasnodar... Ventiquattro marzo 1987, Vera, vent'anni, Striscia di bosco numero 12, distretto di Rostov... Primo maggio 1987, Elena, quindici anni, Striscia di bosco numero 22, regione di Mosca.... Sette luglio 1987, Leonid, dieci anni, Striscia di bosco numero 7, distretto di Rostov... Primo settembre 1987, Mark, tredici anni, Striscia di bosco numero 24, distretto di Rostov... Ventiquattro dicembre 1987, Maria, diciannove anni, Striscia di bosco numero 24, distretto di Rostov... Dodici febbraio 1988, Rosa, diciannove anni, Striscia di bosco numero 36, zona di Shakhty... Undici aprile 1988, Lidia, diciotto anni, Striscia di bosco numero 2, distretto di Rostov... Quattordici aprile 1988, Andrej, nove anni, Striscia di bosco numero 44, distretto di Rostov... Sette giugno 1988, Natalja, diciotto anni, Striscia di bosco numero 32, distretto di Rostov... Quindici agosto 1988, Roman, tredici anni, Striscia di bosco numero 17, zona di Novoshakhtinsk... Ventuno agosto 1988, Ljudmila, dieci anni, Striscia di bosco numero 11, distretto di Kiev... Primo ottobre 1988, Konstantin, undici anni, Striscia di bosco numero 29, distretto di Rostov... Venticinque dicembre 1988, Sofia, quattordici anni, Striscia di bosco numero 24, distretto di Rostov... Primo gennaio 1989, Elena, nove anni, Striscia di bosco numero 46, distretto di Leningrado... Tre gennaio 1989, Anna, ventidue anni, Striscia di bosco numero 44, distretto di Leningrado... Quattordici marzo 1989, Ivan, nove anni, Striscia di bosco numero 16, zona di Shakhty... Ventidue marzo 1989, Dimitrij, dodici anni, Striscia di bosco numero 18, zona di Novocerkassk... Nove maggio 1989, Pavel, undici anni, treno locale RostovTaganrog... Dodici giugno 1989, Ekaterina, diciannove anni, Striscia di bosco numero 8, distretto di Rostov... Cinque luglio 1989, Irina, quattordici anni, Striscia di bosco numero 23, distretto di Rostov... Sedici agosto 1989, Yuri, undici anni, Striscia di bosco numero 31, distretto di Rostov... Primo settembre 1989, Andrej, quattordici anni, Striscia di bosco numero 11, distretto di Leningrado... Cinque ottobre 1989, Olga, ventidue anni, treno rapido Rostov-Donesk... Ventitré novembre 1989, Larisa, dodici anni, Striscia di bosco numero 27, distretto di Rostov... Otto dicembre 1989, Lidia,

ventiquattro anni, Striscia di bosco numero 12, zona di Novocerkassk... Trentuno dicembre 1989, Pavel, otto anni, Striscia di bosco numero 244, distretto di Rostov... Undici gennaio 1990, Igor, undici anni, Striscia di bosco numero 67, distretto di Rostov... Diciotto febbraio 1990, Margarita, ventisei anni, Striscia di bosco numero 44, distretto di Rostov... Diciassette marzo 1990, Valentina, sette anni, e suo padre Roman, Striscia di bosco numero 5, distretto di Rostov...» Vadim ebbe un sussulto. Quel Roman che Andrej aveva menzionato come padre della piccola Valentina era con ogni probabilità il povero Aron Richter. Ma non era certo il momento di fare domande a Evilenko. «Nove luglio 1990, Anatolij, otto anni, Striscia di bosco numero 49, zona di Shakhty... Quattordici luglio 1990, Lia, diciassette anni, stazione di Rostov... Quindici luglio 1990, Igor, tredici anni, Striscia di bosco numero 18, distretto di Rostov... Ventotto luglio 1990, Jakov, otto anni, Striscia di bosco numero 51, distretto di Donesk... Sette agosto 1990, Viktor, undici anni, Striscia di bosco numero 17, distretto di Rostov... Quindici agosto 1990, Dimitrij, nove anni, Striscia di bosco numero 8, distretto di Rostov... Ventisei agosto 1990, Nina, diciannove anni, Parco Gorkij di Rostov... Sette novembre 1990, Maria, ventidue anni, Striscia di bosco numero 37, distretto di Rostov.» Finalmente, Evilenko tacque. E rimase a fissare Vadim spalancando il suo sorriso osceno. «Quanti sono?» domandò l'investigatore ad Andrej. «Cinquantacinque...» rispose l'agente Denisov, che evidentemente aveva tenuto il conto. Evilenko annuì con un cenno del capo. «Abbiamo fatto un buon lavoro, vero compagni?» aggiunse Andrej.

27 La notizia della cattura del mostro di Rostov venne divulgata poco prima di Natale, durante una conferenza stampa che si tenne il 20 dicembre del 1990 nella sala della camera di consiglio del tribunale. Erano presenti circa un centinaio di giornalisti. Ma definirli giornalisti era un azzardo. Avevano facce da bifolchi e folte capigliature artistoidi. Probabilmente, non distinguevano ancora una notizia da una zucchina. Rappresentavano per lo più piccole testate locali sorte sull'onda della perestrojka. In quella occasione, il nome di Andrej Romanovitch Evilenko non fu menzionato per evidenti ragioni di segreto istruttorio e di ordine pubblico. Nonostante ciò, l'attesa della stampa non andò delusa. Il giudice Leonid Grigorievitch Novikov aveva una spiccata vocazione per lo spettacolo. Fece ascoltare a tutti i presenti il nastro registrato che conteneva la lunga e dettagliata confessione dell'assassino. Distribuì a destra e a manca fedeli riproduzioni delle foto più raccapriccianti dei delitti della Striscia di bosco. E annunciò infine che il processo al mostro di Rostov sarebbe stato un grande, straordinario evento democratico. Novikov aveva già deciso che il dibattimento si sarebbe svolto a porte aperte, per dare un esempio di trasparenza all'opinione pubblica e per consentire la presenza in aula dei parenti delle vittime. Il magistrato terminò la recita con un sensazionale colpo di scena. La sua voce si incrinò di indignazione quando affermò che per il primo omicidio della Striscia di bosco (15 maggio 1986, vittima Maria Makarova, nove anni) un innocente era stato purtroppo già processato, condannato e giustiziato. Lo sventurato soppresso per errore si chiamava Boris Kopcenko. Non aveva ucciso la piccola Maria ma era comunque un assassino. Eppure Novikov gli dedicò nobili parole e lo definì «martire del regime comunista.» Lesiev constatò che non vi erano limiti al bieco opportunismo di certi democratici dell'ultima ora. Novikov aveva davvero un bel coraggio per fare una simile dichiarazione. Vadim conosceva tutta la verità su Kopcenko. Era stato proprio l'investigatore a inciampare, durante le sue ultime indagini, nel tragico errore giudiziario. E aveva scoperto molti particolari agghiaccianti di quella vicenda. Boris Kopcenko venne fermato il 18 maggio del 1986, mentre vagava ubriaco

nella Striscia di bosco numero 137, a non più di cento metri dal posto ove era stato rinvenuto, trentasei ore prima, il cadavere di Maria. In virtù dell'antico pregiudizio secondo il quale «l'assassino torna sempre sul luogo del delitto,» il ragazzo fu arrestato e interrogato. Kopcenko non si stancò mai di ripetere che si trovava nella Striscia di bosco numero 137 semplicemente perché quella era la strada che faceva tutti i giorni per tornare a casa. Ma Kopcenko non era un ragazzo come tanti altri. All'età di quattordici anni, Boris aveva violentato e ucciso una donna. Questo gli era costato dieci anni di lavori forzati, che aveva appena finito di scontare. Le sue ottime referenze lo fecero tornare diritto in galera. Tre giorni prima del processo, Kopcenko confessò improvvisamente che era stato lui a uccidere la bambina. Ma una volta in aula, il ragazzo ritrattò spiegando che la confessione gli era stata estorta con la tortura. La conseguenza fu che lo torturarono ancora, tra un'udienza e l'altra, negli stessi locali del tribunale, fino a fargli sottoscrivere una confessione definitiva. Quando venne condannato alla pena capitale, Boris non riuscì nemmeno ad ascoltare la sentenza, dal momento che aveva perso completamente l'udito a causa dei maltrattamenti subiti. Fu giustiziato, con un colpo di pistola alla nuca, il 22 luglio 1988. A quella data, i delitti accertati della Striscia di bosco ammontavano ormai a quattordici. Se ne poteva dedurre che gli inquirenti erano perfettamente consapevoli di mandare a morte un innocente. Occorreva un colpevole e loro ne avevano trovato uno su misura. Pertanto, l'idea di definire Kopcenko «martire del regime comunista,» come aveva fatto Novikov, sembrava ineccepibile. Ma qui veniva il bello. Se qualcuno avesse domandato a Lesiev il nome di quel giudice che aveva firmato la condanna a morte del povero Boris Kopcenko, Vadim poteva rispondere, senza timore di smentite, che si trattava per l'appunto di Leonid Grigorievitch Novikov, assai brillante e democratico Procuratore di Rostov. Tuttavia, nessuno di quei giornalisti assetati di sangue possedeva l'arguzia necessaria per una domanda del genere. Vadim stabilì che tutto sommato era meglio così. Se avesse messo a nudo la falsa coscienza di Novikov, avrebbe senz'altro dovuto dire addio all'istruttoria del caso Striscia di bosco. La confessione di Andrej sarebbe stata certamente affidata a qualcun altro. Un altro che magari avrebbe optato per gli stessi, abominevoli metodi usati

sulla pelle di Kopcenko. Eppoi, in questa storia, non erano forse tutti martiri del regime comunista? A cominciare da Evilenko, che uccideva in conseguenza della perversa educazione staliniana ricevuta. Per finire con le sue cinquantacinque vittime, vittime soprattutto del mancato diritto alla più elementare informazione. Nel colpevole silenzio dei giornali, della radio e della televisione, il mostro di Rostov aveva trovato il migliore degli alleati. Se invece il caso Striscia di bosco fosse stato reso pubblico fin dall'inizio, come sarebbe avvenuto in un paese libero, Andrej Romanovitch Evilenko forse non avrebbe potuto conseguire quel record mondiale del crimine che adesso eccitava morbosamente i mezzi d'informazione. Mentre pensava ai fatti suoi per non ascoltare Novikov che si pavoneggiava con i giornalisti, Vadim pensò a un tratto che voleva mantenere la tessera del Partito. Rulana gli aveva appena strappato la promessa che l'avrebbe riconsegnata. Da quando Rulana e Mariam erano tornate a stare con lui, Vadim avrebbe fatto qualunque cosa per accontentarle. Ora lui desiderava soltanto ciò che la sua famiglia desiderava. Ma la sola idea di poter prima o poi somigliare a uno come Novikov lo faceva rabbrividire. Eppure, l'investigatore aveva modo di verificare giorno dopo giorno, nei lunghi colloqui con Evilenko, il colossale fallimento dell'esperienza comunista. La vicenda del mostro di Rostov era uno specchio fedele delle perversioni ideologiche che avevano regolamentato la vita di centinaia di milioni di esseri umani per più di settanta anni. Andrej parlava sempre dei suoi delitti alla stregua di «missioni» da compiere, e descriveva invariabilmente le sue vittime come persone «sbandate,» «declassate,» «di seconda categoria,» «traviate» o, nel migliore dei casi, «sfortunate.» I suoi spaventosi crimini, secondo quella mente bacata, rappresentavano dei sacrifici inevitabili. Come il comunismo, Andrej fingeva di non vedere o non riusciva più a vedere la malattia che pian piano lo divorava. Come il comunismo, Andrej ne camuffava i sintomi facendo appello a qualche delirante questione di principio. Come il comunismo, Andrej finiva per affogare nel grande, agitato mare delle sue contraddizioni. Evilenko praticava una forma di pulizia etnica ma predicava l'esatto contrario. Ripeteva spesso che la perestrojka aveva portato il paese alla rovina perché aveva finito per dividere le tante razze e i tanti popoli che il comunismo era

riuscito a far convivere sotto lo stesso ideale. E questo in un certo senso era vero. Pochi lo potevano sapere meglio di Lesiev. Stalin aveva sterminato tutta la sua stirpe. Però Vadim non aveva mai smesso di credere nel comunismo. Ma allora, che diavolo era il comunismo? Era forse, come sosteneva il dottor Richter, il germe stesso di quella terribile e devastante malattia mentale chiamata schizofrenia? Assillato da questo e da altri dubbi, l'investigatore si era recato giorni addietro a casa di Evilenko. Voleva parlare con Fenja. Fenja non c'era. Vadim seppe poi che aveva fatto la valigia ed era partita. Ma non c'era modo di scoprire dove fosse andata. La moglie di Evilenko uscì per l'ultima volta dal civico 240 della via Petrovskaja il 9 dicembre alle sette del mattino. Dieci minuti dopo, la donna salì su un autobus che andava alla stazione. Alle otto meno cinque, Fenja trovò posto sul direttissimo Rostov-Mosca. Arrivò nella capitale il 10 dicembre, pochi minuti dopo mezzogiorno. Lasciò la valigia in una cassetta di sicurezza e prese la metropolitana. Scese alla Lubjanka. Entrò nel palazzo del K.G.B. e domandò del colonnello Yuri Tabakov. «Generale Tabakov...» precisò l'usciere pregandola di attendere. Un'ora dopo, Fenja fu ricevuta da Tabakov. La donna rimase a lungo nella stanza del generale. Tanto a lungo che nessuno la vide mai uscire.

28 Verso la fine di marzo del 1991, quando il tempo si era fatto più clemente, l'investigatore Lesiev decise che era venuto il momento di verificare sul campo le deposizioni di Evilenko. L'intero staff del caso Striscia di bosco lo accompagnò nelle ricognizioni sui luoghi dei delitti. Vadim chiese ad Andrej di indicare dove aveva incontrato le sue vittime, dove le aveva portate, dove le aveva lasciate. Non si trattava di una semplice formalità. Mancavano all'appello ben diciannove cadaveri. E soltanto il mostro di Rostov poteva sapere dove si trovavano. La geografia dei delitti era talmente estesa che ci sarebbero voluti anni e anni per portare a termine quell'indagine. Ma la straordinaria collaborazione di Evilenko rese tutto più semplice. Molto più semplice. Incredibilmente semplice. Dalla sua mente scaturiva come per magia ogni minimo particolare. Andrej non rammentava soltanto i nomi delle vittime. Era in grado di riferire con precisione come erano vestite, cosa avevano detto o fatto, e soprattutto dove. Dove le aveva viste per la prima volta, dove avevano camminato fianco a fianco, dove si erano fermati, dove era successo quello che era successo, dove le aveva abbandonate, dove le aveva seppellite. In mezzo a boscaglie tutte uguali o al centro di steppe sconfinate, Evilenko si guardava intorno, indicava un punto esatto nel terreno e diceva semplicemente: «Scavate qui.» Quando non affioravano i cadaveri, venivano fuori le bottiglie. Erano i galleggianti della polizia. Quei galleggianti che gli stessi uomini di Lesiev, nonostante le loro mappe dettagliate, spesso non riuscivano a individuare. E pensare che Evilenko aveva fama di possedere una memoria labile. Come si spiegava allora una così improvvisa e sbalorditiva efficienza mentale? Ancora una volta, a Vadim vennero in soccorso le parole del dottor Richter. Una volta di più, il piccolo ebreo aveva visto giusto. Evilenko, per via della sua malattia, era diventato un essere eccezionale. Non si poteva definirlo in altro modo. Quella esplosiva miscela di istinto primordiale e cultura moderna che lui aveva in corpo forse era davvero, come diceva Aron, la cosa più progredita che si potesse trovare in Unione Sovietica dopo il tramonto delle grandi imprese spaziali. Solo nel regno animale esistono creature capaci di ricordare quello che ricordava Andrej. Ma nessun animale sarebbe stato capace di fare quello che

aveva fatto lui. Evilenko andava orgoglioso delle sue capacità come uno scolaro modello. Nel suo comportamento erano del tutto assenti rimorsi o pentimenti. Andrej riattraversava i luoghi dei suoi misfatti e li descriveva con il tono di un grande esploratore. In quei momenti, nessuno lo detestava. Tutti pendevano dalle sue labbra. Una volta soltanto Andrej si trovò a dover fare i conti con l'odio. Accadde il 18 giugno, dalle parti di Revda. Oggetto della ricerca era il corpo di Oleg Zernov, un bambino di sette anni che il mostro di Rostov aveva violentato, ucciso e sepolto quasi cinque anni prima, nel lontano 4 novembre del 1986. La lugubre comitiva capeggiata da Evilenko giunse alla stazione di Revda poco dopo le nove del mattino. Andrej era come sempre legato con la manetta a un agente. Quel giorno, il suo angelo custode era Nikitin. Il corteo si lasciò alle spalle la città e si addentrò per circa quattro chilometri nel bosco, lungo il fiume Ciusovaja, fino alle pendici del monte Volcikha. Faceva parte del gruppo un poliziotto locale di stazza notevole, un vero bestione. Si chiamava Nikita Agapov e conosceva la zona come le sue tasche. Ma purtroppo nessuno poteva sapere che Agapov era lo zio del piccolo Oleg. Fu lui stesso a rivelarlo a Evilenko strada facendo. Agapov seguiva Andrej come un'ombra e gli vomitava addosso tutti gli insulti possibili e immaginabili. Fortunatamente, Andrej continuò a guardare dritto davanti a sé e non accennò mai la minima reazione. Data la situazione, anche gli uomini di Lesiev preferirono far finta di niente. Quando giunsero ai piedi del monte Volcikha, Evilenko si piantò di colpo in mezzo a una piccola radura. Un attimo dopo, indicò con sicurezza il punto dove occorreva scavare. Il sergente Frolov consegnò il badile all'agente Denisov, che si rimboccò le maniche e cominciò ad affondare la vanga nell'erba umida. Agapov lo osservava imbambolato. L'idea che, di lì a poco, avrebbe visto uscire dalle viscere della terra ciò che restava del suo adorato nipote gli arrecò un dolore tremendo, accecante, insopportabile. E fu così che smarrì la bussola. «Mi fai schifo, Evilenko!» gridò improvvisamente Agapov avvicinandosi minaccioso ad Andrej. «Sei un verme! Sei una merda fetida! Sei l'essere più abominevole che sia mai stato partorito su questa terra! Non capisco perché stiamo tutti qui a

perdere tempo con te. Ma io... io ti giuro che quando avremo liberato Oleg sarai tu a entrare dentro questa buca! Perché tu non hai il diritto di vivere ancora! E sai che ti dico? Pagherei qualunque somma per poterti uccidere con le mie mani...» Nikitin si piazzò tempestivamente tra Agapov e Evilenko. Vadim fece segno ai suoi uomini di non muovere un dito. Andrej si limitò a squadrare l'aggressore con i suoi grandi occhi bianchi e il suo proverbiale sorriso. «Tu sei vecchio, ormai. Forse ti salverai...» gli rispose con sufficienza. Fu quella la scintilla che appiccò il fuoco alla rabbia di Agapov. Il bestione spazzò via Nikitin con una spinta e saltò al collo di Andrej. Vi si aggrappò con tutte le forze. Ma Andrej, con una sola mano, riuscì a fare altrettanto. Ci vollero sei uomini e due minuti buoni per dividerli. Agapov era diventato paonazzo e mancava poco che tirasse le cuoia. Evilenko, invece, era rimasto imperturbabile. Mentre l'altro cercava di strangolarlo, lui non aveva mai smesso di sorridere. Subito dopo, Agapov cercò di scusarsi con Lesiev. Vadim, però, lo zittì all'istante. «Adesso basta. Non voglio più sentire una parola,» disse l'investigatore. «Se la cosa si ripete sparo a tutti e due, senza distinzioni.» Agapov abbassò gli occhi. Evilenko no. «Se è permesso trattarmi così, allora neanch'io dirò più una parola,» affermò risentito Andrej. «Ah, sì? Non vuoi più parlare? Peggio per te, Andrej. Con tutto quello che hai sullo stomaco, se smetti di parlare scommetto che finirai per scoppiare...» disse Vadim. Poi si voltò verso Agapov e lo invitò a prendere il badile. «E' tuo nipote, no? E allora sei tu che devi scavare. Evilenko rimarrà qui a guardarti. E' lui che deve provare orrore, non tu. Scava. Scava senza paura. Avanti, forza... Il tuo Oleg oggi nasce un'altra volta...» Agapov cominciò a vangare la terra umida sotto gli occhi di Andrej. Dopo pochi istanti, scoppiò in singhiozzi. Ma continuò lo stesso a scavare. Nikitin sembrava preoccupato. Si voltò a cercare Vadim e vide che si stava allontanando. Evilenko invece era sempre lì, legato a lui con la manetta. «Vadim Timurovitch?... Vadim Timurovitch!...» gridò spaventato il giovane agente. «L'avete trovato?» chiese l'investigatore avvicinandosi. «No... Non è questo... E' che... Mi perdoni, credo di non farcela a stare qui con lui...» ammise arrossendo Nikitin.

«Va bene. Slegalo,» rispose inaspettatamente Lesiev. «Ha detto, prego?» «Ho detto slegalo.» Il ragazzo non se lo fece ripetere un'altra volta. Aprì la manetta e si separò da Evilenko con enorme sollievo. Andrej si ritrovò solo dinanzi alla buca proprio quando il badile arpionò un piccolo piede fasciato da un calzino rosso. In quel preciso istante, l'urlo di Agapov fece tremare la montagna e salì fino in cielo. Ai primi di agosto, le ricognizioni sui luoghi dei delitti erano finite. Lo staff del caso Striscia di bosco aveva fatto un buon lavoro e lo aveva portato a termine assai prima del previsto. Evilenko aveva confessato cinquantacinque omicidi e le sue dichiarazioni si erano rivelate esatte. Eppure, Lesiev non era soddisfatto. Al suo posto, chiunque avrebbe gridato al miracolo. Lui no. Lui non riusciva ad accontentarsi. A lui premeva soprattutto dimostrare perché Andrej aveva cominciato a uccidere. Dimostrare questo equivaleva a spiegare la sua malattia. E spiegando la sua malattia si sarebbero potuti salvare tanti altri futuri mostri e tante altre future vittime. Per raggiungere un simile scopo, occorreva un supplemento d'indagine. Che tipo d'indagine? Un'indagine in grado di approfondire le motivazioni psicologiche di Evilenko. Ma Vadim, come sottolineava sempre Novikov, non era uno psichiatra. Con quale autorità avrebbe potuto dimostrare quello che intendeva dimostrare? L'investigatore pensò che forse sarebbe bastato vedere in che modo aveva agito Andrej per capire quale era la natura degli impulsi omicidi del mostro di Rostov. La bontà dell'intuizione stava tutta in quel verbo, vedere. Perché qualunque resoconto scritto non avrebbe mai reso l'idea. Evilenko doveva uccidere ancora. E stavolta doveva farlo sotto gli occhi di tutti. Vadim decise quindi di ricostruire minuziosamente i delitti della Striscia di bosco con l'aiuto dell'assassino. Tornò nella grande sala del poligono di tiro. Vi nascose una telecamera che si poteva comandare a distanza. Fece preparare cinquantacinque manichini di taglie diverse. E si procurò un coltello di plastica, di quelli per far giocare i bambini. Lunedì 19 agosto, tutto era pronto per la sinistra rappresentazione. Ma quella mattina accadde qualcosa che mandò a monte i programmi di Lesiev e di milioni e milioni di cittadini sovietici.

Il tentativo di golpe della vecchia nomenklatura comunista tenne il mondo con il fiato sospeso per tre giorni. Tre giorni dopo, il definitivo fallimento del comunismo era un fatto acquisito, Gorbaciov veniva messo alla gogna per l'eccessiva prudenza della perestrojka e Boris Eltsin appariva come un monumento vivente all'eroica resistenza del popolo assetato di democrazia. Evilenko venne condotto nel poligono di tiro il lunedì successivo, il 26 agosto. Andrej aveva seguito le fasi del golpe attraverso la radio e la lettura dei giornali. Vadim non poté fare a meno di domandare ad Andrej se era dispiaciuto per come era andata a finire. «Dispiaciuto? E perché dovrei essere dispiaciuto? Quel porco di Gorbaciov ha avuto quello che si meritava,» disse Andrej. «Adesso però comanda Eltsin...» aggiunse Vadim. «Eltsin mi piace. Si vede subito che è un bravo compagno,» commentò Evilenko. «Ma cosa dici? Eltsin odia i comunisti!» esclamò sbalordito Vadim. «E inutile. Tu non conosci la storia. E non capisci niente di politica,» rispose molto seccato Andrej. Nel poligono di tiro, Evilenko recitava la sua parte con impressionante convinzione. Assaliva, stuprava, smembrava e divorava i manichini esattamente come faceva nella Striscia di bosco. Come se la natura fosse ancora l'unico, imparziale testimone di ogni suo gesto. Andrej si muoveva sotto un potente riflettore che relegava nella penombra il resto dell'ambiente. Quel faro era indispensabile per la telecamera, ma la sua luce violenta faceva pensare di essere a teatro. Lesiev e gli altri spettatori non furono per questo meno turbati da ciò che gli videro fare. Ma almeno fu concessa loro la possibilità di lasciarsi tutto alle spalle una volta usciti dalla sala, proprio come il pubblico che torna a casa dopo aver assistito a uno spettacolo. Vadim era finalmente soddisfatto. Ora lui non provava più orrore guardando Andrej. Perché adesso il delirio omicida del mostro di Rostov mostrava chiaramente la sua ragione d'essere. Fin dalla prima simulazione, i disturbi sessuali che affliggevano Evilenko apparvero evidenti. Quando Andrej adescò la sua prima vittima, Maria Makarova, la portò nel bosco e tentò di violentarla. Ma non vi riuscì.

Non poteva riuscirvi. Era impotente da sempre. Allora provò in un altro modo. Un altro modo per provare a se stesso di essere un vero uomo. Andrej usò le mani. Cominciò a scavare con i suoi lunghi artigli tra le gambe della bambina. Riuscì a penetrarla. Vide zampillare il sangue. Provò una sensazione nuova e sconvolgente. Ebbe un'erezione. La sua prima erezione. E fu così che da quel giorno il sangue si accompagnò sempre al suo delirio sessuale fino a diventare il vero oggetto del suo desiderio.

29 Alla fine del secolo scorso, il bianco edificio dell'Istituto Slavskij era uno dei palazzi più belli di Mosca. Ma da molto tempo ormai le guide turistiche non lo menzionano e i passanti evitano di guardarlo. La distrazione è probabilmente imputabile a quelle matasse di filo spinato che stanno abbarbicate, minacciose come piante carnivore, sui muri di cinta. L'Istituto Slavskij è il più autorevole ospedale psichiatrico del paese che fino a ieri veniva chiamato Unione Sovietica. Sull'aggettivo «psichiatrico» ci sarebbe molto da obiettare. Ma per essere autorevole, l'Istituto Slavskij lo è persino troppo. Nell'arco di settant'anni, parecchi dissidenti sovietici sono passati di qui. A tanti è stata diagnosticata una grave malattia mentale denominata schizofrenia. Tutti, senza eccezioni, sono stati sottoposti a trattamenti più punitivi che terapeutici. Alcuni sono morti di vecchiaia qui dentro. Altri se ne sono andati alla svelta per overdose da psicofarmaci. I più fortunati sono tornati a casa, ma senza documenti e senza lavoro. «Una persona si dice schizofrenica quando non riesce più a distinguere tra l'immaginazione e la realtà.» Questa è la sommaria definizione della schizofrenia che si può trovare nei libri di testo sovietici. Gli psichiatri che lavoravano presso l'Istituto Slavskij l'hanno sempre presa alla lettera. Chiunque si azzardava a mettere in discussione il comunismo veniva sistematicamente bollato come schizofrenico. Perché il comunismo era la realtà e tutto il resto pura follia. Fino al 1988, l'Istituto Slavskij non dipendeva dal Ministero della sanità, bensì dal Ministero degli interni. Questa era la più solida conferma della sua funzione carceraria. Ma nel 1988, finalmente gli uomini della perestrojka scoprirono l'esistenza di cinque milioni e mezzo di cittadini sovietici schedati come malati di mente. E Gorbaciov decise pertanto di restituire gli ospedali psichiatrici al Ministero della sanità. Da allora, tutto è cambiato. O almeno così si vuol far credere. In realtà, il direttore dell'Istituto Slavskij non è mai stato sostituito. E' lo stesso di trent'anni fa. E adesso, come trent'anni fa, non c'è attività dell'Istituto che possa sfuggire al suo controllo. Il suo nome è Morosovskij. Professor Gheorghij Olimpievitch Morosovski.

L'investigatore Lesiev e l'indiziato Evilenko varcarono il cancello dell'Istituto Slavskij il 18 gennaio del 1992 alle 10 del mattino. Erano scortati da quattro poliziotti in divisa. Andrej fu immediatamente preso in consegna dall'équipe che aveva il compito di stabilire il suo effettivo stato di salute mentale. Lesiev affidò agli uomini in camice bianco un mucchio di videocassette e tutti i verbali degli interrogatori. Quindi domandò se poteva incontrare Morosovskij quella mattina stessa. Un giovane medico dall'aria altezzosa gli rispose che era impossibile, perché il professore teneva una lezione. Allora lui candidamente chiese se era permesso assistere alla lezione. «Non è proibito,» rispose il dottorino con la puzza sotto il naso. Vadim non aveva trovato posto a sedere ed era rimasto in piedi in fondo alla sala. L'aula era immensa e bianca. La cattedra, i banchi, le pareti, i lavandini, i grembiuli degli studenti. Tutto bianco. Le uniche cose scure erano la lavagna e la grassa barba di Morosovskij. Il professore doveva certamente avere più di sessant'anni, ma non possedeva neanche un pelo bianco. Tuttavia, i riflessi rossastri nei capelli lasciavano presumere che facesse abbondante uso di tinture. Curiosa frivolezza per uno scienziato. E non era l'unica. Morosovskij portava degli stivaletti con i tacchi molto alti, che rimbombavano continuamente sulla pedana della cattedra. D'altra parte, lui non scendeva mai di lì. Mentre parlava, camminava sempre su e giù lungo quei pochi centimetri, dimostrando il talento di un equilibrista. Era basso, Morosovskij. Non più basso di Lesiev, a dire il vero. Eppure, in cuor suo doveva sentirsi più nano d'un nano. Il professore era nano dentro. Il destino gioca sempre strani scherzi. Quell'uomo studiava la mente degli altri ma non si accorgeva di avere qualche sciocco problema in sospeso con la sua. «Oggi avrete modo di scoprire come il sistema nervoso svolga la funzione di tenere insieme e integrare le diverse parti del corpo anche in mancanza di una direttiva centrale...» disse Morosovskij facendo uscire una rana da una gabbietta che stava sul ripiano della cattedra. «Adesso vi mostro come si fa...» aggiunse scendendo finalmente dal suo piedistallo per dirigersi verso un lavandino. «Teniamo la rana per i piedi, in questo modo, e le appoggiamo il mento qui, sul bordo del lavandino. Poi, con l'altra mano, usando il palmo, le schiacciamo la testa. Non è difficile. E' sufficiente un colpo secco... Così!»

Quando il professore vibrò il colpo, ne scaturì un rumore soffice, ovattato. Morosovskij usò il camice per pulirsi dagli occhi della rana che erano rimasti appiccicati alla sua mano. Poi, tenendola per la testa ridotta in poltiglia, la esibì ai suoi allievi. La rana era morta eppure continuava a muoversi. Si agitava come una marionetta. «Come potete constatare, i suoi centri nervosi sono ancora funzionali. Il segmento del midollo spinale che manovra le braccia è il più attivo, poiché le braccia sono fondamentali per l'accoppiamento e sono governate dall'istinto più duro a morire, cioè l'istinto sessuale...» affermò Morosovskij avvicinando un dito al petto della rana. La bestiola lo abbracciò forte con le sue zampette. «Vedete? Lei può rimanere aggrappata a questo dito per un considerevole periodo di tempo. Noi l'abbiamo privata del cervello, ma i suoi nervi lavorano ancora a pieno regime. Adesso la rana obbedisce esclusivamente a stimolazioni esterne. E' come un soldato senza comandante. Continua a combattere ma non sa né perché, né contro chi. Il nostro sistema nervoso, facendo le dovute proporzioni, reagisce allo stesso modo. L'esempio che viene citato sempre in questo caso è quello, famosissimo, del boia di Parigi... Il boia sfiorò il petto di un criminale un'ora dopo averlo decapitato, e vide il braccio e la mano del morto portarsi esattamente nel punto che lui aveva involontariamente stimolato...» L'investigatore uscì in punta di piedi. Mentre richiudeva la porta dell'aula, si augurò di tutto cuore che i medici incaricati di studiare Evilenko fossero così abili da trovare il guasto evitando di fracassargli la testa o di asportargli il cervello. Nei giorni seguenti, Vadim non riuscì a ottenere il colloquio con il professor Morosovskij. In compenso, un pomeriggio gli fu concesso di assistere agli esami di Evilenko. Il ragazzo in camice bianco che stava seduto davanti ad Andrej aveva poco più di vent'anni. Gli mostrava dei disegni e voleva sapere da lui cosa potevano rappresentare. Evilenko rispondeva sempre con descrizioni magniloquenti, articolate e complesse. Una piccola macchia scura, quando transitava nei suoi grandi occhi bianchi, poteva facilmente trasformarsi in un paesaggio sconfinato. «Hai nostalgia del bosco?» gli chiese a un tratto il ragazzo. «Sì,» rispose Evilenko. «Si stava meglio lì. Qui fa molto più freddo.» «Cosa pensi adesso di quello che facevi nel bosco?» «Cosa penso? Che vuol dire cosa penso?»

«Cosa pensi dei delitti che hai commesso...» «Che importanza può avere cosa penso?» «Invece è importante.» «No. Cosa penso non ha nessuna importanza neanche per me. Perché ciò che penso è meno di ciò che so... e ciò che so è molto meno di ciò che mi interessa... ma ciò che mi interessa è ancora meno di tutto ciò che esiste... Quindi, io sono altrettanto meno di ciò che sono e di ciò che mi interessa... Come vedi, cosa penso non è importante » Il giovane medico si riprese da un leggero capogiro e chiese a Evilenko se per caso gli era mai capitato di udire delle voci senza che nessuno parlasse. Andrej annuì con un cenno del capo. «E cosa dicono queste voci?...» domandò il ragazzo. «Tu sei uno stupido,» rispose sorridendo Andrej. «E' questo che dicono?» «Sì. Dicono proprio così. Tu sei uno stupido.» L'investigatore fu costretto a uscire precipitosamente dalla stanza per non scoppiare a ridere. La risposta di Andrej aveva preso alla sprovvista anche lui. Ma lui almeno aveva capito che si trattava di un diabolico espediente per dare impunemente dello stupido a quel ragazzo. L'ultimo giorno utile prima di ripartire per Rostov, Vadim riuscì infine a incontrare Morosovskij. Il professore lo fece accomodare nel suo ufficio. Gli comunicò con aria seccata che poteva dirgli ben poco, poiché non era neppure in grado di prevedere quanto tempo avrebbe richiesto la perizia psichiatrica di Evilenko. «Non c'è nessuna fretta,» rispose Vadim. «Tenetelo pure tutto il tempo che credete. La perizia è fondamentale. In un caso come questo, senza una buona perizia non c'è nemmeno un buon processo.» «La ringrazio, Lesiev,» disse Morosovskij improvvisamente cordiale. «Non capita spesso di trovare una persona capace di comprendere il nostro lavoro. I magistrati di solito vengono qui e pretendono tutto e subito. Noto con piacere che lei, invece, si rende conto dei nostri problemi...» «Da quando mi occupo di questo caso, ho scoperto che mi interessano molto le malattie mentali. Non che me ne intenda, ma debbo riconoscere che la materia mi affascina.» «E' per questo che l'altro giorno ha assistito alla mia lezione?» «Sì. Infatti » «Peccato.» «Peccato cosa?» «Dico peccato che sia un po' tardi per mettersi a studiare una materia così

difficile e complessa. Però, lei potrebbe seguire un corso per corrispondenza...» «Ah, no. Io non ho questa pretesa. La curiosità è nata così, per caso, durante le indagini. Mi è capitato di conoscere uno psicanalista in gamba, un ebreo, un certo Aron Richter...» disse Vadim. «Mai sentito nominare,» rispose Morosovskij con una smorfia di disprezzo. «Mi sono sempre chiesto... che differenza passa tra uno psichiatra e uno psicanalista.» «E' la stessa differenza che c'è tra uno scienziato e una chiromante.» «Ah, vedo... No, perché questo Richter diceva che secondo lui Evilenko è schizofrenico.» «E come faceva a dirlo?» «Non so, era una supposizione credo...» «In questa materia c'è poco da supporre. Noi esaminiamo dati oggettivi e diamo risposte oggettive. Tutto il resto sono chiacchiere. Eppoi la schizofrenia, la vera schizofrenia, in realtà è una malattia molto rara.» «Esiste anche una falsa schizofrenia?» «Esisteva. Adesso fortunatamente non esiste più. Come forse lei saprà, Lesiev, per molto tempo in questo istituto sono stati ricoverati i dissidenti politici. E loro erano tutti schizofrenici. Ma non era mica vero. Era solo un pretesto. Capisce cosa voglio dire?» «Capisco... Eppure, questo Richter in fondo diceva qualcosa del genere. Secondo lui, ci sarebbe un aumento della schizofrenia dovuto proprio alla crisi del comunismo. Perché la gente si è sempre identificata nel comunismo e così, ora che il comunismo è in crisi, anche la gente è in crisi. Insomma, il concetto più o meno era questo.» «Che stupidaggine. La gente è ben felice che il comunismo sia finito. Mi piacerebbe proprio conoscerlo, questo Richter.» «Purtroppo è morto. E' stato Evilenko ad ammazzarlo.» «Ma come? Ho sempre sentito dire che uccideva solamente donne e bambini...» «Per il dottor Richter ha fatto un'eccezione.» «Vede? Non è poi così pazzo come sembra...» La battuta era accompagnata da un sorrisetto indisponente. Se il metro adottato dal professore per giudicare i pazienti sani o malati era questo, c'era di che preoccuparsi. «Professor Morosovskij, mi spiega come può un uomo sano di mente uccidere 55 persone senza neppure un movente?» domandò Vadim guardandolo negli occhi. «Ci sono più di venti assassini come Evilenko in giro per il paese, caro Lesiev...» disse Morosovskij replicando il suo sorrisetto malizioso. «Non ne hanno ammazzati 55 come Evilenko, ma una dozzina a testa sì. E

secondo lei sarebbero tutti matti?» Quella notizia cadde come una tegola sul capo dell'investigatore. «Più di venti?!...» chiese allibito Vadim. «Sissignore. Due a Mosca, uno a Kiev, uno a Vladimir, due in Georgia, uno a Odessa, tre in Siberia... glieli devo elencare tutti?» «Ma come è possibile?!» «Non c'è da stupirsi. Gorbaciov ha aperto le gabbie e adesso le belve sono in giro.» «Richter aveva ragione. Qui stiamo diventando tutti pazzi...» «No. Loro non sono pazzi, Lesiev.» «Se non sono pazzi, perché uccidono?» «Come, perché?!... Si uccide per uccidere. Uccidere è il desiderio più profondo di ogni essere umano. Lei che è un investigatore dovrebbe saperlo meglio di me...» La conversazione terminò lì. Lesiev guardò l'orologio e scoprì improvvisamente che aveva ancora molte faccende da sbrigare prima di ripartire per Rostov. Naturalmente non era vero. Ma Vadim inventò quella scusa per evitare di prolungare e inasprire il suo conflitto di vedute con il professore. Animato dallo stesso opportunismo che lo aveva spinto a stilare false diagnosi di schizofrenia per quasi trent'anni, ora Morosovskij si apprestava a fare sistematicamente l'esatto contrario. Prima erano tutti malati. ADESSO tutti sani. Ma se il metodo non era scientifico ALLORA, tantomeno poteva esserlo ORA.

30 Erano le quattro di un pomeriggio uggioso di fine marzo. Vadim e Rulana guardavano in silenzio la pioggia che veniva giù fitta e petulante. Erano a letto. Erano nudi. Lui stava fumando una sigaretta. Lei si era rannicchiata nella sua ascella. Niente estasi. Niente sudore. Vadim e Rulana stavano riflettendo su ciò che purtroppo non era accaduto. «Scusa...» mormorò a un tratto Vadim. «Succede...» disse Rulana. «Mi dispiace. Mi dispiace veramente...» «Non essere sciocco.» «Abbiamo fatto i salti mortali per rimanere soli... Abbiamo portato Mariam da Xenia, poverina, neanche ci voleva andare...» «Vadim Timurovitch?!» esclamò Rulana balzando a sedere sul letto. «Che c'è?» «Ho capito che sei perdutamente innamorato di tua figlia, ma almeno non me lo dire così, non me lo dire adesso, e non me lo dire mentre pensi tutto il giorno a quell'uomo che ha ammazzato cinquanta bambini!... Vedi? Neanche lo nomino. E non lo nominerò mai.» «Stai pensando che sono diventato come lui?» «Non lo penso io. Forse lo pensi tu.» «Io? Vuoi sapere cosa penso io? Io penso che è orribile. E' tutto orribile. E' orribile lui, è orribile quello che ha fatto, è orribile soltanto pensarci. Ma è orribile anche dire che quell'uomo è sano di mente.» «Lo vogliono ammazzare, ancora non lo hai capito?» «E cosa pensano di risolvere ammazzandolo? Lo sai quanti ce ne sono come lui in circolazione?» «Lo so. Me lo hai già detto.» «Scusa.» «E non dire sempre scusa.» «Di' la verità, tu pensi che sia giusto ammazzarlo?» le domandò Vadim. «Sì...» rispose Rulana. » ...Però mi fa anche tanta pena. Perché è una persona che non sa cos'è l'amore.» «Non è vero. Sua moglie lo ha amato.» «Ma cosa dici? E' scappata. Eppoi sapeva tutto e non ha fatto niente per fermarlo.» «Come fai a dire che sapeva?» «E' ovvio che sapeva. Sei un bravo investigatore, Lesiev. Ma hai un grosso limite. Sei un uomo. E un uomo non riesce quasi mai a capire certe cose. Se poi quest'uomo è pure comunista, allora non c'è speranza.»

«Lasciamo perdere il comunismo.» «Perché?» «Perché è un disastro.» «Sono contenta di sentirtelo dire.» «E' il minimo che si possa dire, purtroppo.» «Ma questo non ti ha impedito di tenere la tessera.» «La tessera?» «Sì, la tessera. La tua tessera di quel Partito comunista che non esiste più.» «Come lo sai?» «L'ho vista.» «Che fai? Ti metti a frugare tra le mie cose?» «Colpa tua. Sei tu che mi dici sempre di prendere i soldi nel portafogli.» «Lo dico perché mi fido.» «Anch'io mi fido. Mio marito è ancora un comunista, ma io mi fido.» «Veramente non ti dispiace?» «No. Mi dispiaceva di più prima.» «Perché?» «Perché adesso almeno ci vuole coraggio.» «Dici sul serio?» «Certo che dico sul serio. Ma io ti amo. Quindi quello che dico io non conta... Ehi, che fa quel coso?...» Rulana aveva notato qualcosa che si agitava tra le gambe di Vadim. «Si è svegliato...» disse Lesiev imbarazzato e felice. «Allora non sei impotente. Ti ecciti soltanto quando si parla di comunismo. Sei come Evilenko...» «Lo hai detto! Ti è scappato!...» «Cosa?» «Niente...» sussurrò Lesiev mentre incombeva dolcemente su di lei.

31 La prima foto di Andrej Romanovitch Evilenko apparve sui giornali giovedì 9 aprile 1992, a meno di una settimana dal processo. In quella foto Andrej aveva un aspetto adeguato alla sua fama. Con pochi, azzeccati accorgimenti, era diventato esattamente ciò che la gente si aspettava che fosse. Lo avevano rapato a zero. Gli avevano tolto gli occhiali. E il mostro di Rostov sorrideva beato. Evilenko era finalmente quel che si dice un uomo realizzato. Adesso tutti lo conoscevano e avevano paura di lui. D'ora in poi, nessuno avrebbe mai più osato guardarlo come una sgradevole nullità. Quella mattina, l'investigatore Lesiev si stava recando in macchina al tribunale. Il giudice Novikov lo aveva convocato per il passaggio delle consegne come stabiliva la prassi. Durante il tragitto, Vadim teneva il giornale con la foto di Evilenko sul sedile accanto. Di tanto in tanto, quando era fermo a un semaforo, lo sbirciava. Ma ciò che lo irritava di più non era la foto. Era il titolo. «Quest'uomo è sano di mente,» diceva. Senza punto interrogativo. Quando Lesiev entrò nell'ufficio di Novikov, il giudice non era solo. Si trovava con lui l'avvocato Eduard Medvedev. Era un vecchio arnese del regime, Medvedev. Quell'uomo grasso dalla testa quadrata ricoperta di forfora aveva sulla coscienza buona parte delle ingiustizie processuali degli ultimi trent'anni a Rostov. Ma evidentemente uno come lui poteva ancora tornare utile. Affidargli il patrocinio di Evilenko a prima vista poteva sembrare una follia. Invece, era il frutto di un calcolo preciso. Novikov aveva fatto bene i suoi calcoli. Medvedev era il classico avvocato d'ufficio corrotto e mansueto. Era persino comunista. Comunista redento, per la precisione. Meglio ancora. Non si poteva chiedere di più. Medvedev era il tipo ideale per gestire senza imprevisti il processo del secolo secondo l'obiettivo ampiamente preventivato. La condanna a morte di Evilenko. «Ora lei è un libero professionista, avvocato... Quindi, immagino che avrà già chiesto una nuova perizia psichiatrica,» domandò subito Vadim a Medvedev. Medvedev non confermò e non smentì. L'avvocato decise che quello era il momento ideale per fare una capatina

sotto il tavolo ad allacciarsi una scarpa. «Perché mai? Lei sa meglio di me che l'Istituto Slavskij è l'ospedale psichiatrico più autorevole che abbiamo,» rispose in sua vece Novikov. «Mi sembra più che legittimo chiedere un'altra perizia,» insisté Vadim. «In ogni caso, io non la concederei.» «Perché?» «Perché l'imputato è perfettamente sano di mente.» «Ma è assurdo!... Come può essere sano di mente un uomo che ha ucciso 55 persone senza movente?» «Perché lo difende tanto? Perché è comunista?» «Io non lo difendo. Io sono preoccupato per gli altri.» «Chi altri?» «Ce ne sono più di venti come lui a piede libero.» «E con questo?» «Noi dobbiamo capire perché uccidono. Dobbiamo fare un lavoro di prevenzione. Altrimenti, prima o poi questi assassini potrebbero diventare cento, mille, diecimila...» «E' l'eredità del comunismo, caro Lesiev...» sentenziò il giudice. «Sono perfettamente d'accordo con lei, caro Novikov,» disse sorprendentemente Vadim. «Prego?» «Anch'io penso che questi assassini sono gli orfani del comunismo. Sono le schegge impazzite di un mondo che è andato in pezzi. Uccidono senza motivo perché non hanno più niente. Niente da mangiare, niente in cui credere, niente da difendere, niente da amare... Si sentono in credito verso la vita e allora si vendicano. Ma oggi chiunque in questo paese ha diritto di sentirsi in credito verso la vita. Quindi, chiunque può fare quello che ha fatto Evilenko. Ecco perché ce ne sono tanti altri come lui.» «Penseremo anche agli altri, non dubiti,» tagliò corto Novikov. «No. Non così...» incalzò Vadim. «Anche se vogliamo far credere che sono persone normali, anche se li uccidiamo appena li troviamo, non risolveremo mai il problema. C'è voluta una carneficina per catturare Evilenko. Se ognuno di questi assassini ammazza cinquanta donne e bambini prima che riusciamo a prenderlo, moriranno migliaia di innocenti. E i responsabili saremo noi.» «Adesso basta, Lesiev. Evilenko avrà quello che si merita.» «Già. Certo. Come Kopcenko...» «Che c'entra Kopcenko?» domandò Novikov fissandolo con uno sguardo truce. «Anche Kopcenko ha avuto quello che si meritava da questo tribunale, vero Novikov?» «Cosa sta insinuando, Lesiev?...»

«Niente. Dico soltanto che anche Kopcenko è stato processato da un giudice democratico, un giudice come lei. Ma lei forse adesso non ricorda che quel giudice ha fatto torturare Kopcenko, lo ha costretto a confessare e lo ha mandato a morte sapendo che era innocente. Che ne dice di fare una grande, democratica conferenza stampa per raccontare come sono andate veramente le cose?» Lentamente, l'espressione rabbiosa di Novikov si tramutò in un sorriso. Un sorriso di compassione. «Vede Lesiev... Io me lo aspettavo che prima o poi lei avrebbe tirato fuori questa storia per ricattarmi. Le dirò che stavo per disporre io stesso la revisione del processo Kopcenko, quando l'avvocato Medvedev mi ha portato questa... » Il giudice prese un foglio dalla cartella di finto cuoio che teneva sul ripiano della scrivania e lo presentò a Lesiev. «E' una dichiarazione firmata dal suo amico Evilenko. La legga, avanti, la legga...» Mentre Vadim leggeva, Novikov continuò a parlare per illustrargli il prezioso significato di quel documento. «Evilenko nega ogni responsabilità riguardo a due delitti. Il primo è quello di Maria Makarova, vale a dire l'omicidio commesso da Kopcenko e per il quale Kopcenko è stato giustamente condannato. Noi non abbiamo motivo di non credere a Evilenko, non le pare Lesiev? Uno in più, uno in meno, per lui non fa molta differenza... Come vede, quando i giudici non hanno preconcetti ideologici e sono in buona fede, i conti della giustizia tornano sempre.» «Complimenti,» disse con calma Vadim. «Avete fatto un ottimo lavoro. Davvero. Potevate togliere solo il cadavere che vi interessava. Invece ne avete tolti due. Giusto. Così nessuno può pensare che siete in malafede. Bravi. Veramente bravi...» «Attento, Lesiev. Lei sta passando il segno,» ringhiò il procuratore. Ma l'avvertimento era inutile. Vadim era partito e niente poteva più fermarlo. «Mi era già capitato uno bravo come voi,» proseguì l'investigatore con quel suo tono pacato. «Voleva uccidere la moglie, e per sviare i sospetti ha ammazzato altre due donne. Immagino che vi interesserà sapere se l'ha fatta franca. Sì. Purtroppo sì. L'ha fatta franca. I veri assassini di solito la fanno franca. Perché i veri assassini, come voi, hanno sempre un eccellente alibi...» «Che sciocco, Lesiev...» replicò Novikov con un ghigno. «Che peccato. Che peccato per la sua carriera. Se mi diceva una cosa del genere a quattr'occhi, non avrei potuto fare niente. Ma purtroppo per lei, qui abbiamo un testimone... Ha sentito, vero avvocato?»

«Ho sentito, ho sentito. Non sono mica sordo...» confermò sbuffando Medvedev. «Mi dispiace, Lesiev. Lei si è rovinato con le sue mani,» concluse Novikov. «Oh, no. Non mi sono rovinato...» rispose Vadim alzandosi. «La mia rovina sarebbe continuare a lavorare alle dipendenze di un assassino. Riceverà domattina la mia lettera di dimissioni, Leonid Grigorievitch.» L'investigatore Lesiev uscì dalla stanza senza voltarsi. Senza neppure sbattere la porta. Vadim aveva deciso così, su due piedi, di lasciarsi alle spalle le cose più importanti in cui aveva creduto fino a quel momento. L'ideologia, gli studi, la professione, il senso della giustizia. In una parola, la sua vita. Poco alla volta, era venuto giù tutto. Gli rimaneva soltanto la famiglia. Un po' poco per un vero comunista. Un patrimonio considerevole per un uomo senza identità.

32 Il 14 aprile del 1992, poco prima dell'alba, Andrej Romanovitch Evilenko arrivò al tribunale di Rostov a bordo di uno strano veicolo. Si trattava di un vagone ferroviario, ermeticamente chiuso, trainato dalla motrice di un camion. Impossibile scardinarlo o rovesciarlo. Quel bizzarro mezzo di trasporto era l'unico che poteva garantire l'incolumità del mostro di Rostov. Nonostante facesse ancora buio, la folla inferocita circondava già l'edificio. Appena il vagone si fermò, un grappolo di gente lo prese d'assalto e sfogò tutta la rabbia che aveva in corpo contro le robuste pareti di metallo. Dentro quel guscio inviolabile, il fragore dei pugni e dei calci diventava un tam-tam selvaggio e assordante. I sei miliziani della scorta si guardavano atterriti come i passeggeri di un aereo in caduta libera. Invece Andrej non era affatto spaventato. Stava addentando una mela e niente poteva turbare il suo appetito. Alle sei e trentacinque, l'avvocato Medvedev accompagnò Evilenko nell'ufficio di Novikov. Il giudice comunicò all'imputato l'esito della perizia psichiatrica. Quando apprese che era stato considerato sano di mente, Andrej sembrò piuttosto soddisfatto. «Bene. Vuol dire che sono guarito,» fu il suo commento. Novikov gli annunciò che la televisione avrebbe ripreso la prima udienza del processo. «Come in America,» precisò il giudice con orgoglio. «Non vedo mai la televisione,» rispose con sufficienza Evilenko. Prima di congedarlo, Novikov lo ringraziò per il suo spirito di collaborazione. E subito dopo gli chiese di soddisfare una sua piccola curiosità. «Mi sono sempre domandato Evilenko... che sapore ha la carne umana?...» L'imputato lo fissò con i suoi grandi occhi bianchi. «Perché me lo chiedi? Tu lo conosci il sapore, compagno giudice. E' esattamente quello che c'è nella tua testa...» rispose Evilenko spalancando il suo famoso sorriso. Anche il giudice sorrise. Era un ghigno in tutto e per tutto simile a quello di Andrej. «Sei una bestia, Evilenko. E morirai come una bestia. Con un colpo qui. Proprio qui, dietro la nuca. Il tuo sangue schizzerà davanti ai tuoi occhi. E sarà l'ultima cosa che vedrai...» L'aula non era molto grande. Era tutta di legno, come l'edificio neoclassico che la ospitava. Non vi era traccia alcuna del tipico grigiore sovietico. Chi

aveva fatto costruire quel tribunale doveva avere un animo gentile e una compassione sincera per i comuni mortali che smarriscono la retta via. I banchi e gli scranni erano graziosamente intarsiati e le finestre generose accoglievano la luce, senza riserve, fin dalle prime ore del mattino. Sembrava la casetta di Biancaneve. Mancava soltanto il lupo cattivo. L'unica nota stonata, o forse la sola intonata alla circostanza, era la gabbia di ferro riservata all'imputato. Una vecchia gabbia in tutto e per tutto simile a quelle dei gorilla allo zoo, con le sbarre corrose dalla ruggine, una panca di metallo avvitata al pavimento e un reticolato per soffitto. I parenti delle vittime stavano seduti nelle prime file. Saranno stati una quarantina e piangevano ininterrottamente, coprendo il brusio del resto del pubblico assiepato in fondo alla sala. Il dolore sordo degli uni e la curiosità eccitata degli altri costituivano uno sconcertante miscuglio emotivo, reso ancor più paradossale dal continuo andirivieni di infermieri in camice bianco che scrutavano le facce di tutti cercando di indovinare chi sarebbe crollato per primo. Evilenko fece il suo ingresso in aula alle dieci meno cinque. Fu come l'apparizione di un grande divo del rock. L'imputato proveniva dal sottosuolo, su per una scala infernale che conduceva direttamente nella gabbia. Nessuno riusciva a vederlo, ma tutti potevano ascoltare i suoi passi che rimbombavano sui gradini di legno e si avvicinavano sempre di più. La gente era come impazzita. Gente che gridava, gente che spingeva, gente che piangeva, gente sconvolta. Quando entrò nella gabbia, Evilenko fu subito assediato dai fotografi e dagli operatori. Nello stesso momento, Novikov cominciò a leggere il lungo capo d'accusa. «Siamo qui per giudicare l'imputato Evilenko Andrej Romanovitch, accusato di aver commesso 53 omicidi a sfondo sessuale di particolare crudeltà. Egli deve rispondere della morte di 21 bambini di età compresa tra gli otto e i sedici anni, di 14 bambine di età compresa tra i nove e i diciassette anni, di 18 ragazze e giovani donne in un periodo di tempo compreso tra il 29 agosto 1986 e il 7 novembre 1990 sui territori delle regioni di Rostov, Revda, Leningrado, Krasnodar, Mosca, Kiev, Donesk...» Mentre il giudice proseguiva inascoltato, l'imputato fissava la folla sconvolta con i suoi occhi bianchi e il suo spaventoso sorriso. Andrej era meravigliato e felice. Quel putiferio tutto per lui non gli pareva vero. Si sentiva l'uomo del giorno. Era venuto a riscuotere il grandioso successo che lo avrebbe liberato di tutte le sue insicurezze, di tutte le sue paure, di tutte le sue frustrazioni.

Evilenko venne chiamato a deporre alle 10 e 10. In quell'attimo, vi fu come una vampata di calore. Poi, tutto tacque. La gente guardava a bocca aperta l'imputato e sembrava annichilita dalla sua presenza. Con la sua voce cavernosa, monotona e priva di emozione, Andrej cominciò a raccontare come aveva attirato nel bosco uno dei tanti bambini che aveva poi violentato, torturato, divorato e ucciso. Le sue descrizioni erano di una precisione spietata. Non sorvolava mai sul benché minimo dettaglio. Capezzoli strappati a morsi, dita mozzate, orbite trapassate, cuori trafitti, organi sessuali asportati. Questo era il suo mondo. Il paese del Nulla. La regione del silenzio dei silenzi. Un mondo meno lontano di quanto si possa immaginare. L'incredibile esperienza di Evilenko stava lì a dimostrarlo. In ogni momento della sua esistenza, lo straordinario animale che viene chiamato uomo si trova ancora sprofondato laggiù, in quel deserto dell'anima. Quando tutti pendevano dalle labbra di Evilenko, un tipo basso e tarchiato vestito di nero uscì dall'aula senza dare nell'occhio. Nessuno lo notò. Nessuno lo riconobbe. Eppure, quell'ometto qualunque era un pezzo grosso del K.G.B. Dopo il fallimento del golpe di agosto, era diventato addirittura generale. Nel corso delle udienze successive, la grande tensione pian piano si affievolì. I giornali e la televisione dedicavano sempre meno spazio al mostro di Rostov. In aula non veniva quasi più nessuno. Gli unici frequentatori erano ancora i parenti delle vittime, che il giudice continuava a convocare nell'affannoso tentativo di mantenere surriscaldata l'atmosfera del processo. Ma quei disgraziati facevano ormai parte dell'arredamento. Non piangevano più, non gridavano più, non ascoltavano più. Si stavano abituando. Le atroci parole che sentivano pronunciare continuamente fra quelle mura non avevano più alcun significato per loro. Erano diventate, giorno dopo giorno, soltanto una penosa consuetudine. Novikov era molto irritato da quell'andazzo. Si sentiva come un grande impresario che vede sgonfiarsi lentamente ma inesorabilmente il più ambizioso spettacolo della sua carriera. Il giudice passava le notti insonni a lambiccarsi il cervello per capire che cos'era che non funzionava. Le ragioni potevano essere un'infinità. Con tutto quello che succedeva ogni giorno nel paese più grande del mondo, non era facile monopolizzare l'interesse dell'opinione pubblica su un solo fatto, per quanto sconvolgente. Senza contare che Rostov era una città decisamente troppo provinciale per il «processo del secolo.» Eppure, ci doveva essere qualche motivo specifico per un fiasco di quelle

proporzioni. Novikov si era accorto, per esempio, che l'avvocato difensore stava diventando lo zimbello di tutti. A parte le dichiarazioni rituali del primo giorno, Medvedev non aveva più aperto bocca. La sua presenza non era molto stimolante. Durante le udienze, solitamente sonnecchiava o leggeva il giornale. Ma il giudice non poteva farci niente, perché a lui Medvedev stava benissimo così. Dopo lunghe ed estenuanti riflessioni, Novikov approdò alla conclusione che il vero problema era Evilenko. Troppo prolisso, troppo pignolo, troppo diligente questo mostro. La sua maniacale attenzione per i particolari aveva annoiato tutti e stava affondando il processo. Di questo passo, il dibattimento poteva andare avanti per anni. E prima o poi anche i parenti delle vittime avrebbero finito per disertare l'aula. Il 4 luglio faceva un caldo soffocante. Il termometro segnava 35 gradi. Evilenko stava parlando da più di un'ora. Gli spettatori potevano essere sì e no una ventina. Ma alcuni di essi si stavano alzando per andare a prendere una boccata d'aria. Con uno sguardo severo, il giudice li invitò a tornare ai loro posti. «Non riesci proprio ad andare un po' più svelto, Evilenko?» disse Novikov interrompendo bruscamente Andrej. «Sto facendo del mio meglio...» rispose l'imputato. «Il tuo meglio non è mai abbastanza buono comunque, Evilenko.» «Io mi sto sforzando di aiutare la giustizia... Mi sembra di fare un lavoro utile...» «Senti senti... un lavoro utile?! Molto spiritoso, Evilenko. Davvero molto spiritoso... Possibile che ancora non ti rendi conto di essere uno dei più spregevoli assassini della storia dell'umanità?! No, non è possibile. Infatti, tu stai cercando soltanto di perdere tempo perché speri di salvare la pelle, ecco cosa stai facendo.» «Non è vero!» esclamò risentito Andrej. «Levategli il microfono!» ordinò Novikov alle guardie di custodia. «Adesso ti metti a sedere e sarò io a leggere le tue deposizioni, così la finiamo una volta per sempre con questa pagliacciata!» Mentre il giudice sfogliava uno dei duecentoventidue volumi dell'istruttoria, Evilenko era ancora in piedi. Aveva le lacrime agli occhi. «Sono stufo di sentirmi dare del tu! Perché mi dà del tu? Lei non è un comunista! Non le permetto di darmi del tu!» urlò Andrej. Ma nessuno lo ascoltava. Le sue grida erano coperte dalla voce amplificata di Novikov che riempiva la sala.

Il giudice aveva rubato la parte all'imputato e la stava recitando con insopportabile enfasi. Allora Evilenko si lasciò cadere sulla panca e scoppiò a piangere come un bambino. Poi si accanì contro la gabbia come un ariete. Cominciò a picchiare la testa sulle sbarre. Una volta. Due volte. Tre volte. Altre volte ancora. Sempre più forte. Un minuto dopo, il suo povero cranio rasato era vermiglio e pesto come un frutto marcio. Soltanto quando uno schizzo di sangue andò a posarsi sulla manica della giacca dell'avvocato Medvedev, il giudice smise finalmente di leggere e ordinò alle guardie di ricondurre l'imputato in cella. La foto di Evilenko che grondava sangue fece in poche ore il giro del mondo. Adesso Novikov era soddisfatto. Il caso Striscia di bosco aveva riconquistato le prime pagine dei giornali. I curiosi erano tornati ad affollare il tribunale. Ma soprattutto ora Evilenko faceva esattamente quello che si pretendeva dal mostro di Rostov. Andrej era di nuovo sprofondato nella sua malattia e dava i numeri. Gridava, piangeva, delirava, si strappava i vestiti. Il più delle volte, Novikov lo cacciava dall'aula e proseguiva l'udienza senza di lui. Quel gioco delle parti funzionava a meraviglia. Il dibattimento si era notevolmente sveltito e lo spettacolo era assicurato. Il processo del secolo correva senza ostacoli verso la sentenza. Il 14 ottobre del 1992, a distanza di cinque mesi esatti dalla prima udienza, venne il giorno del verdetto. Un mare di gente aveva circondato l'edificio del tribunale. Erano stati installati altoparlanti dappertutto. Sugli alberi, ai davanzali delle finestre e a bordo di un blindato della polizia che faceva il giro del palazzo. L'aula era gremita come il primo giorno. Le stesse spinte, le stesse grida, gli stessi malori. Evilenko si trovava nella gabbia con le manette ai polsi. Aveva uno sguardo attonito e una schiuma grigiastra sulle labbra, per effetto dei sedativi. Il giudice fu assai breve. Novikov ribadì che Andrej Romanovitch Evilenko era stato giudicato sano di mente dai più prestigiosi psichiatri del paese. Annunciò che la corte lo riteneva colpevole di 53 omicidi volontari particolarmente efferati. E precisò che la condanna a morte sarebbe stata eseguita in data da destinarsi mediante un colpo di pistola alla nuca come prevedeva il codice di procedura penale. Tutto qui. Per la verità, il giudice pronunciò anche altre parole, ma il boato della folla le rese del tutto superflue. L'imputato, dal canto suo, non prestò alcuna attenzione alla sentenza.

Il mostro di Rostov, cupo eroe della fine del comunismo, si era alzato in piedi e stava cantando l'Internazionale.

33 Nella primavera del 1994, a Mosca nevicava. Migliaia e migliaia di uomini e donne formicolavano per la città in cerca di qualcosa. La carne, la frutta e la verdura erano introvabili. Ma se qualcuno aveva bisogno di una Coca Cola, di una prostituta o di una slot-machine, c'era soltanto l'imbarazzo della scelta. Sulla via Tverskaja, al centro di una rampa di scale che scende nella metropolitana, c'era uno strano tipo fermo sui gradini. Se ne stava immobile in mezzo a ondate di folla che andavano e venivano. Quel tipo aveva una faccia sinistra. La stessa, identica faccia di Andrej Romanovitch Evilenko. Era più basso, più mingherlino, e sembrava più giovane. Ma la faccia era proprio quella di Evilenko. Improvvisamente, il tizio si strappò via quella faccia. Sotto, c'era il volto di un ragazzo. Un ragazzo infreddolito e dallo sguardo spento. Aveva una borsa piena di facce. Tante facce tutte uguali a quella del mostro di Rostov. Lui le vendeva. Qualcun altro le comperava. La sinistra profezia dello psicanalista ebreo Aron Richter era divenuta realtà. I serial killer a piede libero nel paese più grande e più malato del globo erano ormai circa duecento. E stavano imparando a organizzarsi. Alcuni agivano addirittura in gruppo. Nell'arco di un solo anno, un folle sodalizio che si firmava «I Quattro Cavalieri dell'Apocalisse» aveva violentato, ammazzato e divorato più di sessanta bambini, di età rigorosamente inferiore ai quattordici anni. Altri assassini squilibrati erano stati arruolati dalla malavita, che li teneva in pugno come teneva in pugno tutta la situazione nell'Europa dell'est. La mafia russa forniva a questi mostri piccole creature da fare a pezzi per film pornografici girati in teatri di posa clandestini. Quelle immagini si vendevano a peso d'oro in tutto il mondo. Era questa la merce più ambita sul famoso mercato che avrebbe dovuto salvare il paese dalla catastrofe. Il numero delle vittime accertate superava già le cinquemila unità. Somigliava al bilancio di una guerra, ma non si trattava di una guerra. Era soltanto un silenzioso sterminio. Il governo continuava a far finta di niente. Anche i giornali avevano ricominciato a non pubblicare le notizie dei delitti. Proprio come ai vecchi tempi. Verso la fine di aprile, il pioniere del nuovo cannibalismo Andrej

Romanovitch Evilenko fu trasferito in un istituto di pena di recente costruzione a venti chilometri da Mosca. Il mostro di Rostov era arrivato al capolinea. Dopo un anno e mezzo di oblio, ora lo attendeva la suprema vendetta di Stato. La data dell'esecuzione era stata fissata da tempo, e in gran segreto, per il primo lunedì di giugno. Al termine di una cena abbondante condita con cinquanta gocce di un potente tranquillante, alle 20 e 20 di quel lunedì Andrej venne accompagnato nel sottosuolo da quattro agenti di custodia. La stanza della morte si trovava sprofondata nelle fondamenta dell'edificio, al livello più inaccessibile. Il livello -4. Quel luogo era come chiunque se lo sarebbe immaginato e forse anche peggio. Pareva l'anticamera dell'Inferno. Tutto l'arredamento era costituito unicamente da una sedia di metallo dotata di catene, bracciali e collare. C'era anche un forno crematorio. Qualcuno lo aveva già acceso, poiché sprigionava un intenso calore. Il fuoco della giustizia reclamava con impazienza il corpo del condannato. Il 2000 si avvicinava sempre più e sempre più rassomigliava al Medioevo. Evilenko si lasciò incatenare alla sedia senza opporre resistenza. Subito dopo, una delle guardie aprì un prezioso astuccio in velluto rosso. Nell'interno, c'era un revolver. Era lucido. Era vergine. Aveva la canna molto lunga. Sembrava d'oro. Ma Evilenko non lo vide. Andrej aveva un'aria assente. Stava fissando il vuoto dinanzi a sé. In quel vuoto, a un tratto, si materializzò un sorriso familiare. Era apparso sulla soglia un uomo di bassa statura. Portava una pesante uniforme che lo rendeva piuttosto ridicolo. Anche se nessuno avrebbe mai osato ridere di una divisa del K.G.B. Il generale Tabakov aveva con sé un grosso volume. Sembrava un registro. Era un registro. Era il famoso diario del mostro di Rostov. L'ufficiale si avvicinò lentamente e andò a deporlo sulle gambe del condannato. «Guarda cosa ho trovato, Evilenko...» disse in tono affettuoso Tabakov. «Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere portarlo con te...» Mentre le pallide labbra di Evilenko si contorcevano in una di quelle sue penose espressioni infantili, il generale si fece consegnare la pistola dagli agenti. E cominciò a soppesarla sotto gli occhi stralunati di Andrej. «E' bella... E' proprio bella... Non trovi?» commentò Tabakov con uno strano

tono di voce. «Non ti dispiace, vero, se ti ammazzo io? Non ti sparerò alla nuca, Andrej. E' una cosa vile, non mi piace. Ti colpirò in fronte. Non voglio mancarti di rispetto, vecchio mio. In fondo, noi due ci conosciamo da un bel po' di tempo... Mi piacerebbe avere una pistola così, sai? Ma nessuno può averla. Soltanto tu. E' un tuo privilegio, questa pistola. Ci farò incidere le tue iniziali, compagno...» Con un cenno, il generale invitò le guardie a lasciarli soli. Poi, quando la porta si richiuse alle loro spalle, si apprestò a fare quello che doveva fare. Puntò la pistola a pochi centimetri dal cranio di Andrej e appoggiò il dito sul grilletto. I due uomini si scambiarono un ultimo sguardo. Evilenko sorrise. Tabakov no. Un boato invase la stanza. Il sorriso di Evilenko svanì e si tramutò in una smorfia di panico. La pallottola era passata un pelo sopra la sua testa ed era andata a conficcarsi nella parete alle sue spalle. Andrej era ancora vivo. Ma questo contrattempo lo spaventava più della morte. Ora l'uomo del K.G.B. sorrideva. Il suo era un sorriso un po' goffo. Un sorriso che voleva dire scusa per aver mancato un bersaglio così facile. Quando il generale puntò nuovamente il revolver, Evilenko calò le palpebre e invocò la fine. Ma non vi fu nessuno sparo. Dopo una breve attesa, Andrej udì solamente uno sferragliare di chiavi dietro la nuca. Tabakov lo stava liberando del collare. Un attimo dopo, il condannato era in piedi. Evilenko non fece domande. Si limitò a guardare Tabakov che gli indicava la via d'uscita. Lo sportello del forno crematorio era spalancato. Lì dentro, il fuoco divampava. Eppure, stranamente, da quell'antro non proveniva alcun calore. La stanza era arroventata, ma il forno emanava un'aria fredda e umida. Il generale entrò per primo ed Evilenko lo seguì. Mentre avanzavano strisciando lungo lo stretto cunicolo, le fiamme danzavano sui loro volti senza scalfirli. Tabakov mostrò ad Andrej un proiettore che stava nascosto dietro una spessa lastra di cristallo. Quel fuoco così spaventosamente realistico era soltanto una specie di film. Parecchi metri più avanti, i due uomini riconquistarono la posizione eretta.

Erano giunti in fondo a una sorta di pozzo. Sulle pareti del grande cilindro di cemento armato si indovinavano degli impervi gradini che salivano formando una vertiginosa spirale. Quella scala sospesa nel vuoto metteva i brividi. Il generale puntò l'indice verso l'alto. C'era un piccolo rettangolo grigio lassù. Era un pezzetto di cielo.

Epilogo L'ex investigatore Lesiev stava pranzando con sua moglie e sua figlia nella dacia nei pressi di Gukovo quando la radio diffuse la notizia che Andrej Romanovitch Evilenko era stato giustiziato. Vadim rimase per un attimo con il cucchiaio sospeso a mezz'aria ma non disse nulla. «Era quel tuo amico brutto che mangiava i bambini, papocika?» domandò in compenso Mariam. Rulana, invece, fissava intensamente la minestra e si accarezzava la pancia. Mancavano soltanto tre mesi. Suo figlio doveva arrivare con l'autunno. Lei era convinta che sarebbe stato un maschio e sapeva già come chiamarlo. Ma il nome che aveva scelto non lo voleva rivelare a nessuno. Dopotutto, Andrej era un bel nome. E non era certo patrimonio esclusivo del mostro di Rostov. Dopo due anni, i Lesiev erano ancora felici di vivere in campagna. L'aria era respirabile e il cibo assicurato. Eppoi, non si sentivano soli. I loro vicini sembravano cordiali ed erano lontani quanto bastava. Vadim si arrangiava facendo svariati lavori. Accudiva l'orto, allenava la squadra di calcio di Gukovo e redigeva la nota politica per il giornale locale. Non aveva più rinnovato la tessera del Partito comunista. Adesso ce l'avevano in pochi. Ma diventavano sempre di più. Perché adesso c'era un dittatore democratico che faceva sognare la rivoluzione. Finito il pranzo, Lesiev doveva tornare in città. La via più breve passava per i boschi. Dieci chilometri di saliscendi in mezzo agli alberi, senza vedere un metro d'asfalto. Vadim andava in bicicletta e si dilettava in calcoli maniacali sul tempo che impiegava. La sua quotidiana sfida con se stesso lo eccitava come un ragazzino. Aveva da poco stabilito un record di ventidue minuti. Sperava segretamente di scendere sotto i venti entro la fine dell'estate. Quel pomeriggio, le nuvole correvano e si ammassavano nel cielo. L'assillo del temporale era uno stimolo provvidenziale. Sulla salita, Vadim aveva i muscoli pietrificati. Ma ormai mancava soltanto l'ultimo tratto. Ed era in discesa. Lassù, oltre il picco, il sentiero diventava molto più stretto e scendeva giù a precipizio, insinuandosi pericolosamente fra i tronchi e i cespugli. Lui aveva in mente di fare la discesa tutta d'un fiato. Era da tanto che ci voleva provare.

Vadim superò la cima e si lanciò a capofitto in mezzo agli abeti. Un attimo dopo, si era già pentito. La bicicletta aveva preso subito velocità. E a quella velocità diventava sempre più arduo evitare gli ostacoli. Ma anche fermarsi era un'impresa. Provò a rallentare usando le suole delle scarpe e cercando di afferrare i rami più bassi. Il primo lo mancò. Il secondo gli rimase in mano. Mentre veniva giù come una valanga, notò una massa scura che gli sbarrava il cammino. Non riuscì a rendersi conto di cosa si trattava, ma capì che se ci fosse andato a sbattere contro ci avrebbe lasciato l'osso del collo. Allora saltò dalla bicicletta e si tuffò in un cespuglio. Quando venne fuori da quel cespuglio, aveva il volto coperto di graffi ma era ancora tutto intero. La bicicletta, invece, si era schiantata addosso a un albero. La forcella era storta. Il manubrio era sparito. Chissà dove era andato a finire. Vadim non pensava più alla sua bicicletta. Ora stava osservando quella massa scura sul sentiero. Era un cane. Un grosso cane nero. Nonostante tutto quel trambusto, non si era mosso di lì. Stava mangiando qualcosa. Rosicchiava un oggetto rotondo incrostato di sangue rappreso. Doveva essere un osso. Un osso di un animale piuttosto grande. Un ginocchio di bue, probabilmente. Il cane sbirciava Vadim con diffidenza. Per non disturbarlo, lui si limitò a costeggiare il sentiero. Ma quando gli passò accanto, ebbe come un'allucinazione. La cosa che il cane stava mangiando improvvisamente lo aveva guardato. Gli era sembrato di vedere un occhio. Un occhio spalancato. Proprio al centro di quell'oggetto rotondo. Vadim non poté fare a meno di avvicinarsi. L'occhio non si vedeva più. Adesso su quella cosa era apparso un orecchio. E sopra l'orecchio c'erano dei lunghi peli neri che il cane stava leccando. Ora non poteva essere un'allucinazione. Ora tutti i dubbi erano svaniti. Il ginocchio non era un ginocchio. Era una testa. Una piccola testa. La testa di un bambino. Appena lo vide arrivare, il cane prese la testa fra i denti e cominciò a ringhiare. Vadim si ritrovò sopra di lui quasi senza accorgersene. Si aggrappò alla gola del cane con tutta la forza che aveva in corpo. Lo obbligò a mollare la presa. La testa finì per ruzzolare nell'erba.

Ma lui non riuscì a fermarsi. Continuò a stringere con un accanimento disumano. Smise soltanto quando la bestia assetata d'aria reclinò il capo e si afflosciò tra le sue mani. Proprio in quel momento, cominciava a piovere.

Fine