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Bilquis Sheikh
PROFUMO DAL PAKISTAN
“A mio nipote Mahmud che mi è stato a fianco nella preghiera e che è stato per me una sorgente di gioia e di conforto in tante ore trascorse da sola.”
Capitolo 1 UNA PRESENZA SPAVENTOSA Mentre camminavo lentamente nel mio giardino, lungo il viale ricoperto di ghiaia, sentii crescere in me uno strano senso d'inquietudine. Era il crepuscolo, il profumo degli ultimi narcisi impregnava l'aria. Mi chiesi cos'era a rendermi tanto ansiosa. Mi fermai, guardandomi attorno. Ad una certa distanza, al di là del grande prato all'inglese, i servitori avevano acceso le luci di casa mia. Fuori sembrava tutto calmo e tranquillo. Raggiunsi una pianta per recidere qualche fiore bianco, da disporre nella mia camera. Nel chinarmi, per raccogliere un fiore dal lungo gambo verde, sentii qualcosa che mi sfiorò la testa. Mi raddrizzai spaventata. Cos'era stato? Una nuvola scura, una presenza fredda - non celestiale - era volata via. Il giardino, all'improvviso, mi apparve più cupo. Un soffio d'aria gelida spirò attraverso i salici, facendomi rabbrividire tutta. Ritorna in te, Bilquis! mi rimproverai. L'immaginazione mi stava giocando brutti scherzi... Nonostante quanto appena avvenuto, continuai a raccogliere i fiori, poi mi diressi verso casa. Le sue finestre illuminate mi davano un senso di sicurezza, mentre le mura spesse di pietra bianca e le porte solide di quercia mi offrivano protezione. Percorsi in fretta il sentiero ghiaioso, che scricchiolava sotto i miei passi, non potendo però fare a meno di lanciare un'occhiata al di là della mia spalla. Avevo sempre riso nel sentir parlare del soprannaturale. Ma... naturalmente non c'era niente lì fuori. Non era forse così? Come in risposta al mio pensiero, sentii in maniera reale, autentica, un colpo deciso e misterioso sulla mia mano destra. Gridai, precipitandomi in casa e sbattendo la porta alle mie spalle. Accorsero i miei servitori, i quali, benché spaventati, non fecero alcun commento nel vedermi apparire - forse assomigliavo io stessa ad un fantasma! Fu soltanto all'ora di andare a letto che trovai il coraggio di parlare di quella presenza spaventosa con le mie due cameriere di stanza. "Credete nelle cose spirituali?" chiesi, a conclusione della mia storia. Entrambe le donne, Nur-jan - musulmana e Raisham - cristiana, evitarono di rispondere alla mia domanda; Nur-jan però intrecciandosi nervosamente le dita, mi chiese se poteva chiamare il mullah del villaggio, un sacerdote della moschea, che avrebbe portato dell'acqua santa per purificare il giardino. Il mio buon senso prevalse: rifiutai di sottomettermi alla superstizione degli ignoranti. Le dissi che non volevo ne facesse cenno a quelli del villaggio. Abbozzai un sorriso per la sua premura e le dissi, un po' troppo bruscamente, (mi dispiace) che, a casa
mia, non volevo nessun sant'uomo con la pretesa di scacciare spiriti maligni. Nonostante ciò, quando le cameriere ebbero lasciato la stanza, presi il Corano e mi sforzai di leggere qualche pagina dal Sacro Libro musulmano, ma dopo un po' mi stancai, lo riposi nella sua custodia di seta blu e mi addormentai. La mattina seguente mi svegliai a fatica: mi sentivo come un nuotatore che lotta per mantenersi a galla. Mi raggiunse un canto sottile ed acuto che mi penetrò dentro: "Laa ilaaha illa Ilaah, Muhammed resolu' lla!" La voce mi perveniva attraverso la grata, in filigrana, della finestra della mia stanza: "Non vi è altro Dio che Allah e Maometto è il suo Profeta". Era un suono piacevole e confortante quell'appello musulmano alla preghiera, anche perché mi appariva assolutamente normale dopo la notte precedente! Era un richiamo che avevo sentito, senza eccezione, ogni mattina dei miei 46 anni di vita... Potevo figurarmi, come in una visione, la scena che si svolgeva nel luogo in cui aveva origine il canto. Qualche attimo prima, nel vicino piccolo villaggio di Wah, il nostro vecchio muezzin* era entrato in fretta attraverso la porta, che si trova alla base di un antico minareto. Dentro, nel freddo del suo ambiente, aveva salito a fatica la scala a chiocciola, dagli scalini di pietra, levigata dallo strusciare dei sandali d'intere generazioni di sant'uomini musulmani. Potevo immaginare che, arrivato in cima alla torretta, si fermasse per un attimo a riprender fiato davanti alla porta di tek scolpita, e che, uscendo sul balcone circolare, ne facesse il giro, spingendo indietro la testa dalla lunga chioma e chiamando dal parapetto i fedeli alla preghiera con parole antiche di millequattrocento anni: "Venite a pregare, venite alla salvezza. La preghiera è migliore del sonno" * Muezzin: Nella religione islamica, colui che è addetto a chiamare i fedeli alle preghiere canoniche, modulando la formula rituale dall'alto del minareto. Il richiamo ossessionante fluttuò nella nebbia mattutina, attraverso i viottoli acciottolati di Wah, ricoperta ancora dalla bruma di quella notte di ottobre; poi venne trasportato fino al mio giardino, dove s'innalzò lungo i vecchi muri di pietra della casa, che il sole nascente tingeva di rosa. Appena le ultime note di quell'antico canto si spensero nell'aria, mi ricordai della strana esperienza avvenuta la sera precedente in giardino; rivolsi però subito la mente alle solite occupazioni del mattino, da cui avrei ricevuto conforto, proprio perché erano cose tanto ordinarie... Mi misi a sedere in mezzo al letto per raggiungere il campanello d'oro, posto sul ripiano di marmo del comodino. Al suo tintinnio musicale Nur-jan si precipitò nella mia camera, arrivando trafelata, come al solito. Le due cameriere dormivano in una stanza attigua alla mia. Sapevo che si erano alzate già da un'ora e che erano in attesa della mia chiamata. Il té del mattino, servito a letto, era veramente indispensabile per me. Nur-jan cominciò a preparare le spazzole ed i pettini, ricoperti d'argento. Era una ragazza grassotta, sempre pronta al riso, un po' goffa, ma volenterosa. Se faceva cadere una spazzola, la rimproveravo aspramente. Raisham, invece, era una donna alta e graziosa, più matura e più calma dell'altra. Entrò silenziosamente nella stanza, portando un grande vassoio che sistemò sul comodino; tolse il centro bianco, scoprendo un servizio in argento massiccio e mi versò una tazza di té fumante. Sorseggiando l'ambrosia bollente, mandai un sospiro di soddisfazione; il té era meglio della preghiera! Mia madre sarebbe rimasta sconcertata dalla mia considerazione. Quante volte l'avevo osservata, mentre, disposto il tappeto della preghiera sul pavimento della sua camera da letto e con la faccia rivolta verso la città santa della Mecca, s'inginocchiava in preghiera fino a poggiare la fronte sul tappeto. Pensando a mia madre, guardai la scatola sul tavolino; era antica di centinaia di
anni, in legno di sandalo, ricoperta d'argento cesellato; era appartenuta a mia madre e prima di lei a sua madre. Adesso costituiva il mio cimelio, da custodire come un tesoro. Dopo aver bevuto due tazze di té, mi piegai un po' in avanti per permettere a Raisham di spazzolarmi i lunghi capelli grigi, che mi arrivavano fino alla vita; nel frattempo Nur-jan si prendeva cura delle mie unghie. Mentre le due donne lavoravano, chiacchieravano fra loro con gran familiarità, pettegolando sugli ultimi fatti avvenuti al villaggio. Nur-jan parlava, mentre Raisham faceva ogni tanto dei commenti appropriati. Parlavano di un ragazzo, che stava per lasciare il villaggio per andare in città e di una ragazza che si sarebbe sposata di lì a poco. Poi discussero dell'assassinio avvenuto in un paese vicino, in cui viveva la zia di Raisham. Potevo avvertire il brivido che percorreva Raisham, nel parlare di quel fatto. La vittima era una ragazza cristiana, che era stata ospite in casa di una famiglia missionaria cristiana. Qualcuno aveva trovato, per caso, il suo corpo in una delle tante viuzze che attraversavano il suo villaggio. Si supponeva che la polizia avrebbe fatto delle indagini sul caso. "Nessuna notizia sulla ragazza?" chiesi casualmente. "No, Begum * Sahib, rispose Raisham, con dolcezza, mentre prestava attenzione nell'intrecciarmi i capelli. Potevo facilmente immaginare perché Raisham, anche lei cristiana, non volesse parlare del delitto. Sia lei che io, sapevamo chi l'avesse uccisa. D'altronde la ragazza aveva rinunziato alla sua fede musulmana per farsi battezzare da cristiana. Così il fratello, infuriato per la vergogna che quel peccato aveva portato in seno alla famiglia, aveva obbedito all'antica legge dei fedeli: coloro che abbandonano la propria fede devono essere ammazzati. Anche se gli editti musulmani possono apparire duri e severi, la loro interpretazione viene, a volte, moderata dalla clemenza e dalla compassione. Ma vi sono sempre i fanatici, che interpretano alla lettera le leggi coraniche. Tutti sapevano chi aveva ucciso la ragazza, ma sapevano anche che non sarebbe stato fatto niente per far luce su quel tragico fatto. Era sempre stato così ! Un anno prima, la cameriera cristiana di un missionario era stata trovata in un fossato, con la gola tagliata. Nemmeno in quell'occasione era stato fatto nulla. Scacciai dalla mente quel triste episodio di cronaca e mi accinsi ad alzarmi. Le cameriere si precipitarono verso il guardaroba e ritornarono con diversi sari di seta da farmi scegliere. Ne indicai uno ricamato con pietre preziose; le ragazze, dopo avermi aiutata a drappeggiarlo intorno al corpo, inchinandosi, se ne uscirono silenziosamente. * Begum: Titolo portato in passato da dame d'alto rango turche, persiane, indiane. Il sole inondava adesso tutta la stanza, aggiungendo al bianco dei muri ed all'avorio dell'arredamento, un caldo color zafferano. La luce del sole riflettendosi, scintillò su una cornice d'oro che racchiudeva una foto. Raggiunsi con un balzo la toeletta; ero proprio seccata! Il giorno prima avevo messo la fotografia a faccia in giù, ma una delle cameriere doveva averla messa di nuovo in piedi. Nella cornice cesellata era racchiusa la foto di una coppia sofisticata e sorridente, seduta al tavolo di un lussuoso ristorante londinese. A dispetto di me stessa, guardai di nuovo la foto, come si fa quando si preme continuamente contro un dente che fa male. Quell'uomo ostentatamente elegante, dai baffi neri e dagli occhi penetranti era stato mio marito, il Generale Khalid Sheikh. Ma perché conservavo ancora quella foto? Un moto d'odio mi percorse tutta, appena fissai quell'uomo, di cui una volta non avrei potuto fare a meno. Quando era stata scattata la foto, sei anni prima, Khalid era Ministro degli Interni, in Pakistan. E quella donna attraente, seduta al suo fianco, ero io! La mia era una famiglia musulmana conservatrice, che per settecento anni aveva risieduto nella provincia della frontiera del Nord occidentale. Quella zona dal clima temperato, aveva costituito, un tempo, l'India settentrionale. Come figlia di una famiglia appartenente alla classe gentilizia, avevo ospitato diplomatici ed industriali da ogni parte del mondo. Ero abituata a soggiornare a Parigi e Londra, dove trascorrevo il mio tempo a fare acquisti in Rue de la Paix o da Harrods. La donna graziosa e sorridente della foto, ormai non esisteva più, pensai tra me, mentre mi guardavo allo specchio. La sua pelle morbida
e chiara si era abbronzata, i capelli neri e lucenti erano striati di grigio mentre le delusioni avevano solcato il viso di rughe profonde. Il mondo rappresentato in quella foto era caduto in frantumi cinque anni prima, quando Khalid mi aveva lasciata. Soffrendo l'affronto del ripudio, avevo abbandonato la vita sofisticata di Londra, Parigi e Rawalpindi per cercare rifugio qui, nella pace e nella quiete della proprietà avita di famiglia, appollaiata ai piedi dei monti dell'Himalaya. La proprietà comprendeva il piccolo villaggio collinare di Wah, dove avevo trascorso tanti giorni felici della mia infanzia. Wah era circondato da giardini e frutteti, fatti piantare da molte generazioni della mia famiglia. La casa era grande e sontuosa con torri, terrazze e stanze enormi in cui la voce echeggiava, ma mi appariva vecchia come le cime imbiancate dei monti Safed Koh, che si scorgevano in lontananza, ad occidente. Mia zia viveva anche lei in quella casa ed io, desiderando starmene completamente da sola, mi ero trasferita in un'abitazione più piccola, che la mia famiglia aveva costruito nelle vicinanze di Wah. Incastonata come una pietra preziosa in dodici acri di giardino, questa casa con, al piano superiore, camere da letto e soggiorno più stanza da pranzo e salotto a quello inferiore, mi garantiva quella solitudine di cui avevo tanto bisogno. Mi aveva offerto anche più di quel che mi aspettassi! Quando arrivai, trovai infatti che una vasta zona dei giardini era diventata troppo rigogliosa. Fu una vera benedizione per me! Seppellii molte delle mie pene nel terreno lussureggiante, mentre m'immersi completamente nella ristrutturazione dei giardini. Feci sistemare una parte dei dodici acri in giardino vero e proprio, con muretti ed aiuole con fiori, mentre lasciai il rimanente allo stato naturale. Col passar del tempo, il giardino con i suoi innumerevoli, armoniosi getti d'acqua divenne tutto il mio mondo fino a quando nel 1966 venni a sapere di essermi guadagnata la fama di reclusa, che appartatasi dalla città, si era seppellita tra i suoi fiori. Staccai gli occhi dalla fotografia incorniciata in oro, la rimisi di nuovo a faccia in giù sul tavolo e rivolsi lo sguardo alla finestra, verso il villaggio. Wah... il nome stesso del villaggio era un'esclamazione di gioia. Secoli addietro, quando qui esisteva soltanto un gruppo di case, il leggendario imperatore mongolo Akbar attraversò questi luoghi con il suo seguito e si fermò a riposare nei pressi di una sorgente, dove si trova adesso la mia proprietà. L'imperatore si sedette sotto un salice e riconoscente, per quel che il posto gli offriva, esclamò con gioia e gratitudine: "Wah!" dando così, per sempre, il nome a quel posto. Il ricordo di quella scena idilliaca non mi sollevò però da quella sensazione spiacevole, che mi aveva pervasa tutta, fin dalla sera precedente, dopo quella strana esperienza capitatami. Cercai di cacciare via quel pensiero dalla mia mente, mentre stavo alla finestra. Potevo ormai sentirmi rassicurata dal nuovo giorno che era spuntato, dalle occupazioni giornaliere che mi attendevano e dal sole caldo, che si preannunziava. L'episodio della sera precedente mi appariva ancora reale ma lontano, remoto, come un brutto sogno. Scostai le tende bianche e respirai profondamente l'aria fresca del mattino; si sentiva il giardiniere che spazzava il patio. Mi arrivò alle narici l'odore di fumo della legna arsa nelle case, dove si stava preparando il pasto del mattino. In lontananza potevo sentire il rumore ritmico delle ruote del mulino ad acqua. Sospirai di soddisfazione. Questo era Wah, questa era la mia casa, questo costituiva soprattutto la mia sicurezza! Era lo stesso posto, dove Nawab Muhammad Hayat Khan, un principe e proprietario feudale, aveva vissuto settecento anni prima. Noi eravamo i suoi diretti discendenti e la mia famiglia era conosciuta in tutta l'India come gli 'Hayat' di Wah. Secoli prima, i carri dell'imperatore avrebbero lasciato la strada principale per venire a rendere visita ai miei antenati. Anche ai giorni nostri, personalità di tutta Europa e dell'Asia avrebbero preso la stessa strada, un tempo un'antica via carovaniera che si snodava attraverso l'India, per venire a visitare la mia famiglia. Ma adesso, di solito, soltanto i membri della mia famiglia imboccavano la strada che conduce al cancello di casa. Questo ovviamente stava a significare che non frequentavo molte persone che non facessero direttamente parte della mia famiglia. La cosa però non mi turbava. I miei quattordici servitori mi facevano abbastanza compagnia. Sia essi che i loro predecessori avevano servito la mia famiglia per generazioni. Ma sopra ogni cosa io avevo Mahmud.
Mahmud era il mio nipotino di quattro anni. Sua madre Tooni era la più giovane dei miei tre figli: una donna snella ed attraente. Tooni era medico all'ospedale Holy Family, a Rawalpindi, poco distante da Wah. L'ex marito era un grande proprietario terriero. Avevano avuto purtroppo un matrimonio infelice e la loro unione si era sgretolata poco alla volta. Nel corso dei loro lunghi, spiacevoli litigi, Tooni mandava Mahmud a trattenersi con me fino a quando lei e suo marito non avessero raggiunto un'altra tregua travagliata. Un giorno, Tooni e suo marito vennero a chiedermi se potevo tenere per un po' Mahmud, fino a quando cioè, non avessero appianato le loro divergenze. Risposi di no. Non volevo che il bambino diventasse una palla da tennis. Mi dichiarai però disposta ad adottarlo ed allevarlo come un figlio mio. Sfortunatamente Tooni e suo marito non riuscirono mai a mettersi d'accordo ed alla fine, divorziarono. Avevano dato la loro approvazione per l'adozione di Mahmud e tutto si era risolto per il meglio. Tooni veniva spesso a trattenersi con Mahmud e tutti e tre insieme ci sentivamo molto uniti, in special modo da quando gli altri due miei figli vivevano lontano da casa. Qualche ora più tardi, di quella stessa mattinata, Mahmud scorazzava col suo triciclo in su e giù per la terrazza, dal pavimento di cotto, ombreggiata da alberi di mandorlo. Mahmud era con me da oltre tre anni: un bambino pieno di vita, bello come un cherubino, dagli occhi scuri e profondi e dal piccolo naso a patata. Era l'unica gioia della mia vita! Le sue risate allegre sembravano risollevare lo spirito di questa vecchia casa isolata. Mi preoccupavo, a volte, di come la sua vita sarebbe stata influenzata dalla mia depressione. Cercavo di compensare il vuoto, assicurandomi che ogni suo bisogno venisse anticipato. Per soddisfare le sue necessità, Mahmud aveva tre servitori personali (in aggiunta ai miei undici), che provvedevano a vestirlo, portargli fuori i giocattoli e riporli quando aveva finito di giocare. Ora, ero in pena per lui. Da diversi giorni si rifiutava di mangiare. Era un fatto insolito: Mahmud andava spesso in cucina a fare le moine alle cuoche, ricevendo in cambio biscotti e dolcetti. Quella mattina ero scesa più presto del solito. Avevo attraversato il terrazzo, pavimentato a mosaico alla palladiana, e dopo aver scambiato un affettuoso abbraccio con il piccolo Mahmud, avevo chiesto al suo servitore se il bambino avesse mangiato. "No, Begum Sahib, si rifiuta", mi rispose, quasi in un bisbiglio. Provai a sforzare il bambino a mangiare qualcosa, ma mi rispose che non aveva fame. Mi seccò molto che Nur-jan venisse da sola a suggerirmi timidamente che forse Mahmud era attaccato da spiriti maligni. Allarmata, la guardai duramente. Mi ricordai allora dell'inquietante esperienza della sera precedente. Che stava a significare tutto questo? Chiesi ancora una volta a Mahmud di mangiare qualcosa, ma senza ottenere alcun risultato. Non aveva nemmeno toccato i suoi cioccolatini preferiti, che facevo venire dalla Svizzera, appositamente per lui. Quando gli misi la scatola davanti, rivolse i suoi occhioni limpidi verso di me: "Vorrei mangiarli, mamma" disse, "ma quando provo ad inghiottire mi fa male". Un brivido mi percorse tutta, mentre guardavo il mio adorato nipotino, una volta tanto pieno di vita ed ora così svogliato ed indifferente. Immediatamente mandai a chiamare Manzur, il mio autista - anch'egli cristiano - e gli detti ordine di preparare l'auto. Un'ora dopo eravamo a Rawalpindi, dal medico di Mahmud. Il pediatra, dopo aver visitato accuratamente il bambino, mi disse che non trovava niente di anormale. Mi assalirono nuovamente i timori, mentre facevamo ritorno a casa. Osservavo il bambino, seduto tranquillamente accanto a me. Forse Nur-jan aveva avuto ragione. Esisteva qualcosa oltre alle forze conosciute? Era qualcosa del mondo degli spiriti ad attaccarlo? Mi avvicinai e gli misi un braccio intorno alle spalle, sorridendo tra me di come mi venissero in mente certe idee! Mi ricordai che mio padre, una volta, mi aveva raccontato di un leggendario sant'uomo musulmano che poteva compiere dei miracoli. Avevo riso a quel racconto, dando un dispiacere a mio padre, ma non potevo farci nulla: era quello il mio modo di reagire a simili asserzioni. Eppure quel giorno, tenendo Mahmud stretto a me, mentre l'auto lasciava la strada nazionale per imboccare quella della nostra proprietà, mi venne alla mente uno spiacevole pensiero: poteva il problema di Mahmud essere in relazione al fatto della sera precedente, avvenuto in giardino? Quando condivisi i miei timori con Nur-jan, la donna si portò le mani al viso e mi chiese con
insistenza di chiamare il mullah del villaggio per farlo pregare per Mahmud e per far aspergere il giardino di acqua santa. Presi in considerazione la sua proposta. Anche se credevo negli insegnamenti fondamentali della mia religione, da parecchi anni mi ero ormai allontanata dai suoi riti: la preghiera cinque volte al giorno, il digiuno, il complicato cerimoniale di abluzioni. Ma la sollecitudine per Mahmud prevalse sui miei dubbi e così mi convinsi a far chiamare il sant'uomo della moschea del villaggio. La mattina seguente, Mahmud ed io sedevamo accanto alla finestra, nell'attesa impaziente del mullah. Quando finalmente lo vidi avanzare verso gli scalini della veranda, con la giacca a brandelli, svolazzante al vento freddo di quella mattina autunnale, mi pentii di averlo chiamato, e nello stesso tempo, mi dava fastidio che non affrettasse il passo. Nur-jan introdusse il mullah nella stanza, poi si ritirò. Mahmud l'osservava incuriosito, mentre apriva il Corano. L'uomo vecchio e scarno aveva il colore della pelle che si uniformava a quello del cuoio antico del suo libro sacro. Mi fissò attentamente con i suoi occhietti circondati da una fitta rete di rughe, posò una mano scura e grinzosa sulla testa di Mahmud e con voce tremante cominciò a recitare il Kul. È una preghiera che ogni musulmano recita, prima d'intraprendere qualcosa d'importante, per pregare per un ammalato o per una questione di affari. Il mullah iniziò quindi a leggere il Corano in arabo (il Corano è letto sempre in arabo, sarebbe difatti considerato erroneo tradurre le vere parole che l'angelo di Dio trasmise al profeta Maometto). Cominciai a diventare impaziente. Forse, senza accorgermene, mi misi a battere il piede per terra; fu allora che il mullah porgendomi il Corano mi disse: "Begum Sahib, dovreste leggere anche voi questi versi". Si riferiva al Sura Falak ed al Sura Naz, versi che vengono recitati quando uno si trova in difficoltà. "Perché non li ripetete con me?". "No", risposi. "Non lo farò. Dio si è dimenticato di me ed io mi sono dimenticata di Dio!". Cambiai però tono quando il vecchio mi lanciò un'occhiataccia. Dopo tutto, era venuto qui su mia richiesta e per il bene di Mahmud... "Va bene", dissi prendendo in mano il libro logoro. Lo aprii a caso e lessi il primo verso che mi capitò sotto gli occhi: Maometto è l'inviato di Dio, e coloro che sono schierati con lui, sono severi contro gli infedeli... Pensai alla ragazza cristiana che era stata assassinata, alla nuvola scura che mi era apparsa nel giardino, poco dopo che era stato commesso il delitto e soprattutto pensai alla misteriosa indisposizione di Mahmud. Poteva esserci qualche relazione tra tutti quegli avvenimenti? Una cosa era certa, che non avrei suscitato l'ira di alcuna potenza spirituale, perché né io né Mahmud ci saremmo mai uniti con un cristiano. Rabbrividii solo a pensarci. Il sant'uomo appariva soddisfatto. Nonostante le mie riserve, ritornò per tre giorni di seguito a recitare versi per Mahmud. Ed a completare la serie di eventi misteriosi e sconvolgenti, Mahmud migliorò! Cosa avrei dovuto pensare di tutto quel che stava accadendo? L'avrei scoperto di lì a poco. Difatti, senza saperlo, le cose stavano prendendo una piega tale da cambiare il corso della mia vita, mandando in frantumi il mondo che fino allora mi era appartenuto. Capitolo 2 IL LIBRO SCONOSCIUTO Dopo quelle esperienze mi rivolsi al Corano. Mi avrebbe aiutata forse a spiegare quegli avvenimenti ed, allo stesso tempo, a riempire il vuoto ch'era dentro di me. Di sicuro i membri della mia famiglia avevano trovato spesso una risposta d'incoraggiamento nelle sue scritture in lingua araba, dal corsivo tondeggiante. Naturalmente avevo già letto il Corano. Mi ricordavo lucidamente della mia infanzia quando, per la prima volta, avevo iniziato ad imparare l'arabo, per poter essere in grado poi di leggere il nostro
libro sacro: avevo esattamente quattro anni, quattro mesi e quattro giorni. Era quello il giorno in cui ogni bambino musulmano comincia a districarsi con la scrittura araba. Il momento era solennizzato da un grande banchetto a cui partecipavano tutti i membri della famiglia. Fu allora che, con una cerimonia speciale, la moglie del mullah del nostro villaggio cominciò ad insegnarmi l'alfabeto. Mi ricordo in special modo del mio prozio Fateh (per la verità non era mio zio; in Pakistan tutti i parenti più anziani vengono chiamati zio o zia). Lo zio Fateh era il congiunto più stretto della nostra famiglia, mi ricordo ancora chiaramente di come mi guardava durante la cerimonia. Aveva un'espressione bonaria sul viso dal profilo aquilino, era compiaciuto del fatto che io ascoltassi il racconto di quando l'angelo Gabriele aveva cominciato a dare a Maometto le parole del Corano in quella profetica "Notte di potenza" dell'anno 610 A.D. Mi ci vollero sette anni per leggere tutto il libro per la prima volta; quando finalmente lo terminai, ci fu un buon motivo per un'altra celebrazione familiare! Prima avevo sempre letto il Corano come un obbligo, ma questa volta sentivo che avrei dovuto investigare veramente tra le sue pagine. Presi la mia copia, che era appartenuta in precedenza a mia madre, mi distesi sulla trapunta bianca che ricopriva il mio letto e mi accinsi a leggere. Cominciai dal verso iniziale, il primo messaggio dato al giovane profeta Maometto, mentre si trovava nella caverna sul monte Hira: Recita, nel nome del tuo Signore, che ha creato, Che ha creato l'uomo da un grumo di sangue! Recita! Perché il tuo Signore è il più generoso; Egli è colui che ha insegnato a servirsi del qalam, Ha insegnato all'uomo ciò che non sapeva. (Sura XCVI, versi 1-5, Il Corano, versione del Dott. Bonelli, Edizione Hoepli, Milano, copyright 1969, p. 595.) All'inizio mi lasciai trascinare dalla bellezza dei versi, ma in seguito lessi delle parole che non mi dettero alcun conforto: Quando ripudiate (divorziate) le vostre donne e sia giunto il termine loro (cioè, il momento di rimandarle), trattenetele con umanità o, con umanità, rimandatele; (La Sura della vacca, verso 231, Ia parte, vers. Bonelli, p. 34.) Gli occhi di mio marito erano diventati come carboni ardenti mentre mi diceva di non amarmi più. Mi sentii svuotata dentro, mentre parlava. Che ne era di tutti quegli anni trascorsi insieme? Dovevano forse essere accantonati come se non fossero mai stati vissuti? Avevo, come dice il Corano, raggiunto il 'mio termine'? La mattina seguente continuai a leggere il Corano, sperando di trovare nella sua scrittura tondeggiante, la sicurezza che cercavo tanto disperatamente. Ma quella sicurezza non arrivò mai. Nelle sue pagine trovai soltanto delle direttive sul modo di vivere e degli avvertimenti nei confronti di altri culti. C'erano dei versi riguardanti il profeta Gesù il cui messaggio, diceva il Corano, era stato falsificato dai primi cristiani. Per quanto Gesù fosse nato da una vergine, non era però figlio di Dio. "E non dite 'tre'", avvertiva il Corano riguardo al concetto cristiano della Trinità. "Desistete da ciò, questo sarà meglio per voi; in verità, Dio è un dio solo". (La Sura delle donne, verso 169, vers. Bonelli, p. 90.) Dopo aver letto per diversi giorni il santo libro, un pomeriggio lo posai con un sospiro, mi alzai e scesi in giardino, dove speravo di trovare un po' di pace nella natura e nei vecchi ricordi. In questo
periodo dell'anno la vegetazione era di un bel verde acceso, rischiarato qua e là dagli alissi colorati, che ancora fiorivano. Era una giornata tiepida d'autunno e Mahmud saltellava lungo i sentieri, dove io avevo camminato da bambina con mio padre. Rivedevo, con la mia mente, l'immagine di mio padre, che camminava al mio fianco, con il turbante bianco, vestito impeccabilmente, alla maniera tradizionale britannica di Savile Row, come si addiceva ad un ministro del governo. Mi chiamava spesso con il mio secondo nome 'Bilquis Sultana' sapendo quanto mi facesse piacere sentirlo pronunziare. Bilquis era il primo nome della regina di Sceba e tutti sanno che Sultana sta ad indicare regalità. Mi piaceva conversare con lui. Negli ultimi anni parlavamo spesso della nostra nuova nazione: il Pakistan. Ne era così orgoglioso! "La Repubblica Islamica del Pakistan è stata creata proprio per fare da patria ai musulmani sud asiatici", diceva. "Siamo una delle più grandi nazioni del mondo governate dalla legge islamica", aggiungeva, facendo notare che il 96 per cento della popolazione del nostro Paese era musulmano e che il rimanente era costituito per lo più da gruppi di buddisti, cristiani ed indù. Sospirai, guardando al di là degli alberi del mio giardino, verso le colline ricoperte di fiori di lavanda, che si scorgevano in lontananza. Avevo trovato sempre conforto in mio padre. Negli ultimi anni ero diventata una compagna per lui. Discutevamo spesso della situazione politica, che cambiava così spesso nel nostro Paese. Era così distinto, così comprensivo. Ma ora non c'era più. Mi ricordo di quando mi trovai davanti alla sua tomba aperta nel cimitero musulmano di Brookwood, fuori Londra. Era andato fino a Londra per un'operazione, che purtroppo non era riuscita. Gli usi musulmani richiedono che si debba essere seppelliti 24 ore dopo la morte; quando arrivai al cimitero la bara era pronta per essere calata nella fossa. Non potevo crederci che non l'avrei mai più rivisto. Svitarono le viti ed aprirono il coperchio per permettermi di guardarlo per l'ultima volta. Ma quel corpo grigio e freddo disteso nella bara non era lui, dov'era mio padre? Rimasi là come impietrita, pensando a quelle cose mentre richiudevano la cassa: ogni giro stridente di vite, che penetrava nel legno umido, mi causava dolore. Mia madre, a cui ero anche molto legata, morì sette anni dopo, lasciandomi completamente sola. Nel giardino cominciavano a scendere le ombre della sera, mi trovavo di nuovo fuori all'ora del crepuscolo. Il conforto che avevo cercato nei ricordi mi aveva, per la verità, procurato soltanto molta pena. In lontananza potevo sentire il muezzin che chiamava alla preghiera serale; quel richiamo ossessionante accentuò ancora di più il mio senso di solitudine. "O Allah, dov'è", bisbigliai, seguendo il ritmo della preghiera, "dov'è il conforto che prometti?". Quella sera, nella mia camera da letto, ripresi di nuovo il Corano di mia madre in mano. Mentre leggevo ero colpita dalle numerose referenze alle scritture ebraiche e cristiane, antecedenti al Corano. Forse, mi dissi, dovrei continuare la mia ricerca tra quei primi libri? Ma questo stava a significare leggere la Bibbia! E come la Bibbia poteva aiutare, dal momento che, come tutti ovviamente sanno, i primi cristiani l'avevano tanto falsificata? L'idea di leggere la Bibbia divenne sempre più insistente. Qual'era il concetto di Dio, secondo la Bibbia? Che cosa diceva sul profeta Gesù? Forse avrei dovuto proprio leggerla... Ma sopraggiunse allora un altro problema: dove avrei trovato una Bibbia? Non l'avrei certo potuta reperire in nessun negozio della nostra zona. Forse Raisham ne aveva una copia. Rigettai subito quel pensiero. Anche se l'avesse avuta, la mia richiesta l'avrebbe spaventata. Erano stati assassinati dei pakistani solo perché sembrava che avessero persuaso dei musulmani a diventare cristiani-traditori. Passai in rassegna gli altri miei servitori cristiani. La mia famiglia mi aveva messa sull'avviso di non assumere servitori cristiani: il motivo era la loro ben nota mancanza di fedeltà e sincerità. Ma io non mi ero lasciata influenzare: per me l'importante era che facessero il loro dovere, il resto non mi riguardava. Non si poteva certo asserire che erano sinceri. Difatti, quando i missionari cristiani vennero in India, fu facile per loro fare dei proseliti tra le classi sociali meno abbienti. Molti dei nuovi con-vertiti erano spazzini, una categoria di persone che occupa un posto tanto basso nell'ordine sociale. Il loro lavoro si limita a tenere pulite strade, vicoli e tombini. Noi musulmani chiamavamo quei lavoratori "i cristiani del
riso". Non era forse quello il motivo per cui accettavano una falsa religione? Non era soprattutto per ricevere cibo, vestiti e l'istruzione che i missionari davano loro? Guardavamo con una punta d'ironia gli stessi missionari, che si occupavano così premurosamente di quelle povere creature. Proprio pochi mesi prima, il mio autista Manzur, un cristiano, mi aveva chiesto il permesso di mostrare il mio giardino a dei missionari del luogo che lo avevano ammirato attraverso la siepe. "Ma certamente", avevo risposto con tono enfatico, pensando al povero Manzur, che evidentemente voleva fare una bella figura con quelle persone. Qualche giorno più tardi, dalla finestra del salotto, vidi la coppia americana che gironzolava per il giardino. Manzur si rivolgeva loro chiamandoli: Reverendo e Signora Mitchell. Avevano tutti e due i capelli di colore biondo scuro, occhi chiari ed indossavano vestiti occidentali senza alcuno stile. Che persone scialbe pensai! Nonostante le mie considerazioni detti però ordine al giardiniere di dare dei semi da piantare a quei missionari, se ne avevano piacere. Pensando a loro, seppi finalmente come entrare in possesso di una Bibbia! Manzur me l'avrebbe procurata. Domani, pensai, gli darò l'incarico. Lo mandai a chiamare e la mattina seguente venne nella mia camera. Si mise sull'attenti davanti a me; indossava la divisa con i pantaloni bianchi. Il suo tic nervoso al viso, come al solito, m'irritava. "Manzur, voglio che mi procuri una Bibbia". "Una Bibbia?". Spalancò gli occhi. "Sì certo!" risposi, cercando di mantenermi calma. Poiché Manzur non sapeva leggere, ero sicura che non ne possedeva una, ma sapevo però che era in grado di procurarmela! Mormorò qualcosa che non capii, ma io ripetei con decisione e fermezza: "Manzur, voglio una Bibbia". Annuì con il capo, si chinò in segno di saluto ed uscì. Sapevo perché aveva fatto resistenza alla mia richiesta. Anche a lui mancava il coraggio, come a Raisham. Entrambi avevano ancora presente il caso della ragazza assassinata. Dare una Bibbia ad uno spazzino era una cosa, ma portarne una a qualcuno delle classi sociali più elevate era tutt'altro. Una sola parola avrebbe potuto metterlo in guai seri. Due giorni più tardi Manzur mi stava conducendo a Rawalpindi, dove andavo ad incontrarmi con Tooni. "Manzur, non ho ancora avuto la Bibbia". Notai che le nocche delle dita erano diventate bianche, tanto stringeva forte il volante. "Begum, ve ne porterò una". Dopo tre giorni lo mandai a chiamare di nuovo. "Manzur, ti ho chiesto per tre volte di procurarmi una Bibbia e non l'hai ancora fatto". Il tic che gli contraeva il viso si accentuò di più. "Ti do ancora un giorno di tempo. Se non ne avrò una per domani, sarai licenziato". Si sbiancò in viso. Sapeva che l'avrei fatto. Si girò sui tacchi degli stivali e se ne andò; i suoi passi risuonarono sul pavimento della terrazza. Il giorno seguente, proprio poco tempo prima che Tooni venisse a farmi visita, vidi una piccola Bibbia, apparsa misteriosamente sul tavolino del salotto. La presi e l'osservai attentamente. Ricoperta modestamente di tela grigia, era stampata in Urdu, un dialetto indiano locale. Era stata tradotta da un inglese 180 anni prima ed io trovavo la fraseologia antiquata e difficile da seguire. Manzur, evidentemente, aveva dovuto averla da un amico: era quasi nuova. Ne sfogliai le pagine sottili, poi la posai e non ci pensai più. Pochi minuti dopo arrivò Tooni. Mahmud le corse incontro, gridando di gioia, sapeva che la madre gli aveva certamente portato un giocattolo. Un attimo dopo il bambino si diresse in terrazza a provare il suo nuovo aeroplano mentre Tooni ed io ci sedemmo per prendere un tè. Fu allora che Tooni notò la Bibbia posata sul tavolino, accanto a me. "Oh! Una Bibbia!" esclamò. "Aprila, vediamo cosa dice... ". La nostra famiglia ha sempre considerato con un certo interesse ogni libro religioso. Un passatempo come un altro era quello di aprire un libro sacro, a caso, d'indicare alla cieca un passo e vedere che cosa diceva, quasi come se si leggesse una profezia.
A cuor leggero aprii la Bibbia e guardai le pagine davanti a me. Accadde allora qualcosa d'inspiegabile. La mia attenzione venne richiamata su di un verso scritto nell'angolo in basso, della pagina destra. Mi accostai per leggerlo meglio: "Io chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo, e 'amata' quella che non era amata; e avverrà che nel luogo ov'era loro stato detto: 'Voi non siete mio popolo', quivi saran chiamati figliuoli dell'Iddio vivente". Romani 9:25-26. Trattenni il respiro mentre ero percorsa da un tremito. Perché quel verso mi colpiva tanto? "Io chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo... nel luogo ov'era loro stato detto: 'Voi non siete mio popolo', quivi saran chiamati figliuoli dell'Iddio vivente". Sulla stanza pendeva il silenzio. Alzai gli occhi dal libro e vidi che Tooni era in attesa, pronta ad ascoltare il passo trovato. Non potevo leggere quelle parole ad alta voce. C'era qualcosa in esse che per me era troppo profondo per poterlo considerare un semplice gioco. "E allora, cos'era, mamma?" domandò Tooni, mentre i suoi occhi vivaci m'interrogavano. Chiusi il libro, mormorai qualcosa sul fatto che non era più un gioco e cambiai argomento di conversazione. Quelle parole mi bruciavano dentro come tizzoni ardenti e si apprestavano a diventare il preludio ai sogni più insoliti che avessi mai avuto! Capitolo 3 I SOGNI Soltanto il giorno dopo presi di nuovo in mano la piccola Bibbia grigia. Né Tooni, né io avevamo più fatto riferimento ad essa, dopo che io avevo, di proposito, cambiato discorso. Nel corso di quel lungo pomeriggio le parole del passo letto mi ritornavano ogni tanto alla mente. Il giorno successivo in serata mi ritirai nella mia camera, dove pensavo di riposare e meditare un po'. Presi la Bibbia e mi distesi sui cuscini candidi e soffici del divano. Sfogliai di nuovo il libro e mi capitò sotto gli occhi un altro passo rebus: "Mentre Israele, che cercava la legge della giustizia non ha conseguito la legge della giustizia". Romani 9:31 Ah, pensai. Proprio come dice il Corano; gli ebrei avevano mancato il bersaglio. Lo scrittore di quei versi doveva essere stato un musulmano. Fui indotta a pensarlo dal fatto che continuava a parlare del popolo d'Israele come di chi non conosce la giustizia di Dio. Il passo successivo mi fece però trattenere il respiro: "Perché il termine della legge è Cristo, per essere giustizia ad ognuno che crede". Romani 10:4 Posai il libro per un attimo. Cristo? Era in lui la fine del combattimento? Continuai a leggere. "Ma che dice ella? La parola è presso di te, nella tua bocca e nel tuo cuore... se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore, e avrai creduto col cuore che Dio l'ha risuscitato dai morti, sarai salvato". Romani 10:8-9 Posai di nuovo il libro, scuotendo la testa. Era totalmente in contrasto col Corano. I musulmani sapevano che il profeta Gesù era soltanto umano, che l'uomo non morì sulla croce ma fu assunto in cielo da Dio e che un sostituto fu crocifisso al suo posto. Ora, dopo aver soggiornato in un cielo inferiore, questo Gesù sarebbe ritornato un giorno sulla terra a regnarvi per quarant'anni, si sarebbe
sposato, avrebbe avuto dei figli e poi sarebbe morto. Avevo sentito difatti che c'era una fossa lasciata appositamente vuota per ricevere i suoi resti a Medina, la città dove anche Maometto è sepolto. Nel giorno della Resurrezione, Gesù sarebbe risorto e giudicato con gli altri uomini davanti all'Onnipotente Iddio. Ma intanto la Bibbia diceva che Cristo era risorto dai morti. O era una bestemmia o... La mia mente turbinava di pensieri. Sapevo che chiunque si fosse rivolto ad Allah, sarebbe stato salvato. Si doveva credere che Gesù fosse Allah? Perfino Maometto, l'ultimo ed il più grande dei messaggeri di Dio, il Suggello dei Profeti, era soltanto un mortale. Mi sdraiai sul letto e mi misi una mano sugli occhi. Se la Bibbia ed il Corano rappresentano lo stesso Dio, perché c'è tanta confusione e contraddizione? Come potevano essere entrambi lo stesso Dio se quello del Corano è un Dio di vendetta e punizione mentre quello della Bibbia cristiana è un Dio di misericordia e perdono? Non so a che ora mi addormentai. Di solito non ricordo i miei sogni, ma quella notte lo feci. Il sogno era tanto vivo, i fatti così reali, che trovai difficile, la mattina successiva, credere che fosse soltanto fantasia. Ecco ciò che vidi: Stavo pranzando con un uomo, che sapevo con certezza fosse Gesù. Era venuto a farmi visita ed a trattenersi con me per due giorni. Si era seduto a tavola di fronte a me ed avevamo mangiato insieme in pace e con gioia. All'improvviso il sogno cambiò. Mi trovavo adesso sulla cima di una montagna con un altro uomo. Aveva un abito lungo e calzava i sandali. Come mai conoscevo misteriosamente il suo nome? Giovanni Battista. Che nome strano. Mi misi a raccontare a questo Giovanni Battista della recente visita di Gesù. "È venuto il Signore ed è stato ospite mio per due giorni", dissi. "Ma adesso se n'è andato. Dov'è? Devo trovarLo! Forse tu, Giovanni Battista, puoi guidarmi da Lui". Questo fu il sogno. Mi svegliai gridando: "Giovanni Battista! Giovanni Battista!". Nur-jan e Raisham si precipitarono nella mia stanza. Sembravano imbarazzate alle mie grida e cominciarono a prepararmi la toilette, con eccessiva minuzia. Mentre si affaccendavano raccontai loro il mio sogno. "Che bello", disse ridendo scioccamente Nur-jan, mentre mi metteva davanti un vassoio colmo di boccette di profumo, "Sì, era un bel sogno benedetto", bisbigliò Raisham, mentre mi spazzolava i capelli. Ero sorpresa che come cristiana, Raisham non fosse più eccitata. Stavo per chiederle di Giovanni Battista, ma mi trattenni; dopo tutto, Raisham era solo una donna semplice di campagna. Ma chi era questo Giovanni Battista? Non avevo trovato ancora il suo nome nella lettura che avevo fatto, finora, della Bibbia. Nei tre giorni successivi continuai a leggere la Bibbia ed il Corano confrontando l'uno con l'altro. Consultavo il Corano con un certo senso del dovere, poi mi rivolgevo avidamente al libro cristiano, immergendomi nella sua lettura e cercando di capire quel mondo nuovo e confuso che scoprivo man mano. Ogni qualvolta aprivo la Bibbia provavo un senso di colpa. Questo mi derivava forse dalla rigida educazione ricevuta. Anche da adulta, mio padre doveva dare la sua approvazione a qualsiasi libro leggessi. Una volta mio fratello ed io portammo di nascosto un libro nella nostra camera. Anche se era completamente innocuo, eravamo molto spaventati nel leggerlo. Ora, appena aperta la Bibbia, ebbi la stessa reazione. Un racconto attirò particolarmente la mia attenzione. Parlava dei capi sacerdoti che menarono una donna colta in adulterio davanti al profeta Gesù. Tremai, sapendo quale destino era in serbo per lei. Il codice morale dell'antico Oriente non era molto diverso da quello del nostro Pakistan. Gli uomini della comunità sono obbligati, dalla tradizione, a punire la donna adultera. Quando lessi nella Bibbia della donna che stava davanti ai suoi accusatori, sapevo che i suoi stessi fratelli, zii e cugini le stavano davanti per lapidarla. Il profeta invece disse: "Chi di voi è senza peccato, scagli il primo la pietra contro di lei" (Giov. 8:7). Rimasi sconvolta mentre con gli occhi della mente vedevo gli uomini andarsene furtivamente. Invece di eseguire una condanna a morte, Gesù aveva costretto gli accusatori ad accettare la propria colpevolezza. Il libro mi scivolò in grembo mentre ero assorta nei miei pensieri. Trovavo così logica, così giusta la sfida del profeta. Quell'uomo diceva il vero. Tre giorni dopo ebbi un secondo strano sogno: mi trovavo nella mia camera da letto, quando una
cameriera venne ad an-nunziarmi che era venuto un venditore di profumi. Mi alzai dal divano esultante; in quel periodo in Pakistan mancavano i profumi di marca. Temevo di trovarmi a corto del mio lusso favorito. Sempre in sogno dissi alla cameriera di farlo entrare. Era vestito alla maniera dei venditori di profumo dei tempi di mia madre, quando i mercanti viaggiavano, vendendo la loro mercanzia di casa in casa. Indossava una redingote nera e teneva la merce chiusa in una valigia. L'aprì e tirò fuori un'anfora d'oro. Ne tolse il tappo e me la porse. Appena la vidi trattenni il respiro; il profumo scintillava come cristallo liquido. Stavo per toccare l'anfora, quando egli alzò il braccio. "No", disse. E tenendo sempre l'anfora in mano andò a posarla sul mio comodino. "Il suo profumo si spanderà in tutto il mondo", disse. Quando la mattina mi svegliai, il sogno era ancora vivido nella mia mente. Il sole penetrava attraverso la finestra; potevo ancora sentire quel buon profumo, la sua deliziosa fragranza aveva riempito tutta la stanza. Mi alzai e guardai in direzione del comodino, aspettandomi quasi di vedere l'anfora d'oro. Al suo posto c'era invece la Bibbia! Mi sentii percórsa da un fremito. Mi sedetti sulla sponda del letto, riflettendo sui due sogni. Che stavano a significare? Non ricordavo sogni da anni ed ora ne ricordavo due, uno dopo l'altro! C'era qualche relazione fra di essi? E c'era qualche riferimento al mio recente scontro con la realtà del mondo soprannaturale? Quel pomeriggio scesi per la mia solita passeggiata in giardino. Mi sentivo ancora confusa per i sogni fatti, ma sentivo che adesso c'era qualcosa di diverso. Avvertivo una strana contentezza, una gioia, una pace come non l'avevo mai provata prima. Mi sembrava di sentirmi vicino alla presenza di Dio. All'improvviso, mentre passavo dal folto di un boschetto ad una zona aperta, inondata di luce, sentii nell'aria un delizioso profumo. Non era la fragranza dei fiori - era ormai troppo tardi perché ve ne fosse qualcuno ancora in boccio - era un profumo vero e proprio. Alquanto agitata feci ritorno a casa. Da dove veniva quell'odore? Che mi stava succedendo? Ci sarebbe voluto qualcuno che conoscesse la Bibbia. Avevo già scartato l'idea, affacciatasi alla mente, di rivolgermi ai miei servitori cristiani. In primo luogo era assurdo pensare di ricavare da loro qualche informazione. E poi, con molta probabilità, non avevano nemmeno letto la Bibbia e perciò non avrebbero saputo neppure dirmi di che parlavo. No, dovevo rivolgermi a qualcuno che fosse istruito e che conoscesse le Scritture. Mentre prendevo in considerazione quel fatto, mi venne un'idea inaccettabile. Scacciai subito quel pensiero. Era proprio l'ultimo posto, dove sarei andata in cerca di aiuto. Ma quel nome ritornò alla mia mente così insistentemente che alla fine suonai per chiamare Manzur. "Preparami la macchina". E subito dopo, aggiunsi: "La guiderò io". Manzur spalancò gli occhi. "Voi?". "Sì, se non ti dispiace". Se ne andò a malincuore. Ero uscita raramente con la macchina così tardi di sera. Durante la IIa guerra mondiale ero stata un ufficiale dell'Esercito Reale Indiano, divisione donne ed avevo guidato ambulanze e macchine per i più alti gradi dell'esercito, per migliaia di miglia e su ogni tipo di terreno. Ma in tempo di guerra era un'altra cosa ed oltretutto ero sempre in compagnia di qualcuno. Non ci si aspettava che la figlia della casta Nawab, guidasse l'auto, in tempi normali e tanto meno di notte! Ma non potevo, d'altra parte, rischiare che Manzur venisse a sapere quel che stavo per fare; volevo evitare i conseguenti pettegolezzi della servitù. Ero convinta che esistesse solo una fonte, da cui attingere le risposte alle mie domande: Chi era Giovanni Battista? Cos'era quel profumo che sentivo? Così, con una certa riluttanza, quella sera mi recai a casa di una coppia che conoscevo appena: il Reverendo David Mitchell e sua moglie. Erano venuti a vedere il mio giardino quell'estate. Essendo missionari cristiani, erano proprio le ultime persone che avrei voluto incontrare...
Capitolo 4 L'INCONTRO La mia Mercedes nera era pronta nel viale. Manzur mi stava aspettando davanti allo sportello, che manteneva chiuso per evitare che il fresco pungente di quella sera d'autunno penetrasse nell'auto. I suoi occhi scuri e penetranti avevano un'aria interrogativa. Non parlò. Salii nell'auto calda e confortevole, mi sistemai al volante e partii con le ombre della sera, la Bibbia sul sedile a fianco a me. Ognuno sapeva dove viveva l'altro, nel piccolo villaggio di Wah. La casa dei Mitchell si trovava all'ingresso di una fabbrica che produceva cemento, da cui la mia famiglia traeva parte della sua rendita. Era servito come centro per una piccola insolita comunità, a circa cinque miglia dalla città. Le case erano state costruite come quartieri provvisori per le truppe britanniche, durante la IIa guerra mondiale. Mi ritornò in mente che, in una delle poche volte che mi ero avventurata in quella zona, avevo notato che le case, tutte uguali e senza stile, avevano perso gran parte dell'intonaco e che i tetti di lamiera mostravano i segni di diverse riparazioni. Mentre guidavo sentii in me un senso di aspettazione e paura miste insieme. Non ero mai stata prima in una casa di missionari cristiani. Ero fiduciosa che avrei conosciuto l'identità del mio uomo misterioso: Giovanni Battista. Eppure temevo una certa - come dire - 'influenza' da parte di coloro che avrebbero risposto alle mie domande. Che cosa avrebbero pensato i miei antenati di questa visita ad un missionario cristiano? Pensavo, ad esempio, al mio bisnonno che aveva accompagnato il famoso generale britannico Nicholson attraverso il passo Khyber, in una delle guerre dell'Afganistan. Questa visita avrebbe procurato vergogna alla mia famiglia! Avevamo sempre associato i missionari con i poveri e gli emarginati. Cercavo di figurarmi un'ipotetica conversazione fra me ed uno dei miei zii, mentre io mi difendevo, raccontandogli i miei sogni strani. "Dopo tutto", concludevo nella scena che raffiguravo nella mia mente, "ognuno vorrebbe scoprire il significato di quei sogni così vivi e reali". Man mano che mi avvicinavo al quartiere, dove abitavano i Mitchell, mi ricordavo sempre più del posto, nonostante la luce tenue che rischiarava le case, che apparivano una simile all'altra. Dopo aver girato per vie e viottoli, finalmente trovai la casa dei Mitchell, in prossimità della fabbrica di cemento, proprio dove immaginavo che fosse: una casa piccola ad un piano, imbiancata a calce, circondata da piante di gelso. Come precauzione volevo parcheggiare l'auto ad una certa distanza per sottrar-mi agli sguardi indiscreti. Avevo troppo timore delle reazioni della mia famiglia. Invece mi fermai proprio di fronte alla casa, presi la Bibbia e mi diressi in fretta verso l'abitazione. Notai che il cortile era pulito e la verandina ben tenuta. Almeno - pensai tre me - questi missionari si prendono cura della proprietà! All'improvviso la porta di casa si aprì ed uscì un gruppo di donne, in fila, che chiacchieravano ad alta voce. Erano vestite con il tipico shalwar qamiz, una specie di pigiama ampio di cotone, con una dupatta (sciarpa). M'irrigidii. Mi avrebbero certamente riconosciuta; quasi tutti a Wah mi conoscevano. Adesso il fatto sarebbe stato reso noto: la Begum Sheikh aveva fatto visita a dei missionari cristiani! Difatti, appena le donne mi scorsero, alla luce che filtrava dalla porta dei Mitchell, smisero all'improvviso di chiacchierare. Si diressero in fretta verso la strada e ciascuna di esse, nel passarmi accanto, si toccò la fronte con la mano, nel saluto tradizionale. Non potevo far altro che proseguire verso la porta, dove la signora Mitchell stava scrutando nell'oscurità. Guardandola più da vicino notai che era proprio come me la ricordavo quando l'avevo vista ad una certa distanza: giovane, pallida, dall'aspetto fragile. Adesso indossava però uno shalwar qamiz come le donne del villaggio. Appena mi vide aprì la bocca ma non riuscì a dire altro che: "Come mai... Begum Sheikh! Che cosa! Ma... entrate, prego entrate". Fui contenta d'infilarmi in casa, lontano dagli sguardi indiscreti delle donne del villaggio, che sapevo erano fissi alle mie spalle. Andammo nel soggiorno, una stanza piccola, ammobiliata
semplicemente. La signora Mitchell prese quella che sembrava la sedia più comoda e me l'avvicinò al camino acceso. Lei non si sedette, rimase in piedi, intrecciandosi nervosamente le dita. Rivolsi lo sguardo alle sedie messe in circolo, al centro della stanza. La signora Mitchell mi spiegò che aveva appena terminato uno studio biblico con alcune donne locali. Poi tossì imbarazzata. "Uh! vorreste una tazza di tè?" disse, tirandosi indietro i capelli. "No grazie", risposi. "Sono venuta per fare una domanda". Mi guardai attorno. "Il Reverendo Mitchell è a casa?". "No, è in viaggio per l'Afganistan". Mi dispiacque veramente. La donna che mi stava davanti era così giovane! Sarebbe stata in grado di rispondere alle mie domande? Arrischiai una domanda: "Signora Mitchell, sapreste dirmi qualcosa su Dio?". Si lasciò cadere su una sedia e mi guardò in modo strano; l'unico rumore che si sentiva nella stanza era lo scoppiettìo della fiamma nel camino. Rispose con calma, "Mi dispiace, non so molto su Dio, ma posso dirvi che Lo conosco". Che asserzione straordinaria! Come potrebbe una persona avere la pretesa di conoscere Dio intimamente! La maniera confidenziale di trattare della donna, m'ispirò fiducia. Prima che io stessa me ne rendessi conto, mi ritrovai a raccontarle del mio sogno sul profeta Gesù e sull'uomo chiamato Giovanni Battista. Stranamente, non riuscivo a controllare il tono della voce, mentre le raccontavo la mia esperienza. Parlandole, sentivo la stessa eccitazione che avevo provato in cima a quella montagna. Dopo aver descritto il sogno, mi rilasciai, appoggiandomi alla spalliera. "Signora Mitchell, ho sentito parlare di Gesù, ma chi è Giovanni Battista?". La signora battè le palpebre ed aggrottò le sopracciglia. Avvertii che stava quasi per chiedermi se veramente non avevo mai sentito parlare di Giovanni Battista, ma si trattenne e si accomodò di nuovo sulla sedia. "Beh! Begum Sheikh, Giovanni Battista era un profeta, un precursore di Cristo Gesù; predicava il ravvedimento e fu mandato a prepararGli la strada. Era colui che additando Gesù disse: 'Ecco l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo'. Fu anche colui che battezzò Gesù". Perché il mio cuore ebbe un sussulto alla parola "battezzò"? Sapevo poco dei cristiani, ma tutti i musulmani avevano sentito parlare della loro strana cerimonia del battesimo. Il mio pensiero volò a tutte le persone che erano state assassinate, dopo essersi fatte battezzare. E tutto questo accadeva sotto il governo britannico, quando si supponeva vi fosse libertà di religione. Fin da bambina avevo sempre associato quei due fatti: musulmano battezzato, musulmano ammazzato. "Begum Sheikh?". Alzai lo sguardo. Quanto a lungo eravamo rimaste sedute in silenzio? "Signora Mitchell", dissi, con la gola che mi si stringeva, "dimenticate per un attimo che sono musulmana. Ditemi sinceramente: che cosa intendevate quando avete detto di conoscere Dio?". "Conosco Gesù", rispose, e sentivo che in cuor suo aveva risposto alla mia domanda. Poi mi raccontò quel che il Signore aveva fatto per lei personalmente e per il mondo intero, abbattendo l'insormontabile barriera tra l'uomo peccatore e Dio stesso, manifestandosi in questo mondo in forma umana, come Gesù, e morendo per tutti noi sulla croce. La stanza diventò nuovamente silenziosa. Potevo sentire gli automezzi che passavano lungo la strada nazionale. La signora Mitchell sembrava non aver fretta, mentre parlava. Finalmente, credendo a stento alle mie orecchie, tirai un lungo respiro e dissi in modo chiaro e distinto, "Signora Mitchell, in questi ultimi tempi sono accadute delle cose strane a casa nostra. Degli eventi spirituali sia buoni che cattivi. Mi sento come se mi trovassi nel mezzo di un tiro alla fune; ho bisogno di tutto l'aiuto possibile che sia in grado di ricevere. Potreste pregare per me?". La donna sembrò molto sorpresa alla mia richiesta, poi si riprese e mi chiese se volevo pregare in piedi, seduta o in ginocchio. Mi strinsi nelle spalle, ero comunque inorridita! Erano tutte proposte inammissibili... Ma quella donna snella e giovane s'inginocchiò sul pavimento ed io ... la seguii. "O Spirito di Dio", disse la signora a voce bassa. "Io so che nulla di quel che dirò riuscirà a convincere Begum Sheikh di chi è Gesù. Ma io Ti ringrazio che Tu togli il velo dai nostri occhi e che riveli Gesù ai nostri cuori. O Spirito Santo, fa' questo per Begum Sheikh. Amen".
Restammo in ginocchio per un tempo che mi sembrò eterno. Ero contenta di stare in silenzio perché il mio cuore si era stranamente riscaldato. Finalmente ci alzammo. "È una Bibbia, signora Sheikh?" mi chiese, facendo cenno col capo al piccolo libro che tenevo ben stretto al petto, in una mano. Glielo mostrai. "Lo trovate facile da capire?" mi domandò. "Veramente no", risposi. "È una vecchia traduzione e non riesco a seguirla bene". Andò nella stanza a fianco e ritornò con un altro libro. "Ecco un Nuovo Testamento scritto in inglese moderno" disse. "È la traduzione di Phillips. La trovo più facile da seguire delle altre. Lo vorreste?". "Sì", rispose senza esitare. "Incominciate con il Vangelo di Giovanni", mi suggerì, aprendo il libro e mettendoci un foglio di carta come segnalibro. "Questo è un altro Giovanni, ma rende molto chiaro il ruolo di Giovanni Battista". "Grazie" dissi commossa. "Penso proprio di avervi trattenuta a lungo". Mentre mi accingevo ad andarmene la signora Mitchell disse: "Sapete che è veramente interessante che un sogno vi abbia condotta fin qui. Dio spesso parla ai Suoi figliuoli in sogni e visioni". Mentre mi aiutava ad indossare il cappotto, mi chiedevo se potevo condividere con lei l'altro sogno. Quello sul venditore di profumo. Sembrava così... bizzarro. Ma come era già accaduto altre volte in quella stessa serata mi sentii ripiena di un coraggio e di un ardire che sembrava venire dal di fuori. "Signora Mitchell, potreste dirmi se vi è alcuna relazione tra Gesù ed il profumo?". Ci pensò su per un attimo, la mano sulla maniglia della porta. "No", disse. "Non riesco a trovarne nessuna. Ad ogni modo fatemici pregare su". Mentre guidavo l'auto, diretta verso casa, avvertii per la seconda volta nella giornata quella Presenza profumata che avevo sentito in giardino. Ritornata a casa, quella sera lessi un po' del Vangelo di Giovanni, il passo in cui lo scrittore parla di Giovanni Battista: quest'uomo stranamente vestito di pelo di cammello, che viveva nel deserto e che ne era uscito per preparare il popolo alla venuta del Signore. E lì, nella sicurezza della mia propria camera, seduta sul divano, circondata dai ricordi e da tradizioni vecchie di sette secoli, mi venne alla mente un pensiero spontaneo, non voluto, che respinsi in fretta. Se Giovanni Battista era un segno da parte di Dio, che guidava a Gesù, questo stesso uomo stava guidando anche me a Gesù? Il pensiero naturalmente era insostenibile. Lo scacciai dalla mente ed andai a dormire. Quella notte dormii profondamente. Quando il muezzin chiamò per la preghiera, il mattino seguente, mi sentii sollevata nel constatare che vedevo le cose di nuovo chiaramente. Che pensieri strani mi si erano affacciati alla mente la sera prima! Ma ora che il muezzin mi ricordava dov'era riposta la verità, mi sentii di nuovo al sicuro, lontano da quelle influenze cristiane che interferivano. Raisham arrivò proprio in quel momento, non con il solito tè ma con un biglietto, che mi riferì, era stato consegnato a mano. Era da parte della signora Mitchell. Tutto quel che diceva era: "Leggete II Corinzi capitolo 2 verso 14". Presi dal comodino il Nuovo Testamento che lei stessa mi aveva dato e cercai fino a che trovai il capitolo ed il verso. Mentre leggevo, trattenni il fiato: "Ma grazie siano rese a Dio che sempre ci conduce in trionfo in Cristo, e che per mezzo nostro spande da per tutto il profumo della sua conoscenza". Mi sedetti in mezzo al letto e rilessi il passo, la mia calma di un attimo prima era svanita. La conoscenza di Gesù si spande come un buon profumo! Il venditore del mio sogno aveva messo l'anfora d'oro con l'essenza sul mio comodino dicendo che il suo profumo "si sarebbe sparso in tutto il mondo". La mattina seguente avevo trovato la mia Bibbia nello stesso posto dov'era stato messo il profumo! Era tutto fin troppo chiaro. Non volevo più pensarci. Dovevo suonare per il tè, ecco quel che dovevo fare. Suonare per il té e riprendere al più presto la mia vita di sempre, prima che qualcos'altro sopraggiungesse.
Anche se la signora Mitchell mi aveva invitata a ritornare a casa sua, sentivo che era meglio non andarci. Mi sembrò una decisione logica e sensata quella d'investigare prima le Scritture per conto mio. Non volevo essere influenzata in alcun modo. Un giorno Nur-jan si precipitò nella mia stanza con una strana luce negli occhi. "Sono venuti il Reverendo Mitchell e la signora" farfugliò. Mi portai una mano alla fronte. Perché erano venuti qui? Mi stupii. Però mi ricomposi subito e dissi alla cameriera di farli accomodare in salotto. David Mitchell, un uomo alto e magro, con tante rughe intorno agli occhi emanava lo stesso calore umano di sua moglie. I due sembravano così contenti di vedermi che dimenticai l'incomodo che mi avevano procurato, venendo a casa mia. La signora Mitchell mi prese tutte e due le mani, poi all'improvviso mi abbracciò. Ero sbalordita. Nessuno, all'infuori dei miei familiari, nemmeno le mie amiche più intime, mi aveva mai abbracciata prima. M'irrigidii, ma la signora Mitchell non sembrò dare importanza alla mia reazione. In retrospettiva, devo ammettere che quell'effusione di affetto mi fece piacere. Non poteva esserci stata affettazione nel suo saluto. "Sono tanto contento di conoscere la 'Signora dei fiori'" esclamò David con un gioviale accento americano. Lanciai un'occhiata alla signora Mitchell e lei rise. "Ora vi spiego" disse. "Quando veniste a casa nostra, volevo telegrafarlo subito a David, dato che avevamo spesso parlato di voi, da quando eravamo venuti a vedere il vostro giardino, la primavera scorsa. Per cautela però non volevo usare il vostro vero nome. Mentre mi chiedevo come fare riferimento a voi nel telegramma, guardai dalla finestra e vidi i bei fiori che erano spuntati dai semi che ci aveva dato il vostro giardiniere. Mi venne in mente il nome: 'Signora dei fiori' e questo diventò il nostro nome in codice per indicarvi". Risi. "Sì, ma da ora in poi potete chiamarmi Bilquis". "E voi, per favore", disse, "chiamatemi Synnove". Fu una strana visita. Mi aspettavo una certa pressione da parte dei Mitchell, ad accettare la loro religione, ma non accadde nulla del genere. Prendemmo una tazza di té e chiacchierammo insieme. Domandai perché Gesù veniva chiamato "Figlio di Dio". Per i musulmani non esiste peccato più grande di una simile asserzione. Il Corano afferma e ribadisce che Dio non ha figli. "E per quanto riguarda la 'Trinità'" chiesi, "Dio è identificato in tre persone?". David mi rispose paragonando Dio al sole, che si manifesta in tre energie produttive: calore, luce e radiazione, un triplice rapporto che nell'insieme formano il sole, ma preso singolarmente non è il sole. Dopo poco tempo se ne andarono. Mi ritrovai nuovamente sola, alle prese con il Corano e la Bibbia. Continuai a leggerli entrambi, per diversi giorni. Studiavo il Corano perché era stato il dovere e l'abitudine di tutta la mia vita, ma investigavo la Bibbia per un'indefinibile fame interiore. Eppure, a volte, mi trattenevo dal prendere la Bibbia. Sentivo che Dio non poteva trovarsi in ambedue i libri, perché i loro messaggi erano così diversi. Ma quando la mia mano esitava, nel prendere il libro che la signora Mitchell mi aveva dato, provavo allora un certo disappunto. In quest'ultima settimana avevo vissuto in un meraviglioso mondo irreale, che non aveva niente a che vedere con l'altro mio mondo - il giardino creato da me con semi ed acqua; questo invece era un giardino interiore creato da una nuova conoscenza spirituale. Ero penetrata per la prima volta in questo mondo meraviglioso per mezzo dei miei due sogni; ne ero venuta di nuovo a conoscenza nella notte che incontrai quell'indefinibile gloriosa Presenza nel mio giardino. L'avevo avvertito un'altra volta quando avevo obbedito all'impulso che mi aveva spinta a far visita ai Mitchell. Nei giorni seguenti, lentamente ma chiaramente, cominciai a rendermi conto che c'era una via per far ritorno al mio mondo ideale. La lettura di quel libro cristiano sembrava, per motivi che non riuscivo a capire, la chiave per il mio rientro in quel mondo. Un giorno il piccolo Mahmud venne da me, con una mano sull'orecchio e trattenendo a stento le lacrime, disse con voce di pianto: "Il mio orecchio, mamma, mi fa male". Mi chinai per osservarlo meglio. Il viso roseo si era impallidito. Per quanto Mahmud fosse un bambino che non si lamentava tanto facilmente, potevo scorgere tracce di lacrime sulle sue
guancine paffute. Lo misi subito a letto e cominciai a canticchiare la ninnananna: i capelli gli si erano appiccicati al guanciale per il sudore. Appena si addormentò andai a telefonare all'Ospedale 'Holy Family' a Rawalpindi. Qualche minuto dopo potei parlare con Tooni. Fu subito d'accordo a far visitare accuratamente Mahmud in ospedale, il pomeriggio del giorno dopo. Io mi sarei sistemata in una stanza a fianco a Mahmud ed una persona di servizio avrebbe occupato una stanzetta adiacente alla mia. Fu soltanto verso sera che riuscimmo a trovare una sistemazione confortevole. Tooni aveva la serata libera da trascorrere con noi. Mahmud si mise a ridere e scherzare con sua. madre, mentre colorava le figurine di un album che lei gli aveva portato. Io mi ero sdraiata sul letto per leggere la Bibbia. Avevo portato anche il Corano con me, ma lo leggevo più per un senso di dovere che per interesse. All'improvviso le luci tremolarono e poi si spensero. La stanza rimase al buio. "Manca di nuovo l'energia elettrica", dissi seccata. "Ci sono candele?". In quel momento la porta si aprì ed una suora entrò con una pila. "Spero che non vi disturbi l'oscurità", disse con una voce allegra. "Tra poco porteranno le candele". Riconobbi dalla voce la dottoressa Pia Santiago, una filippina dall'aspetto gracile, con gli occhiali. Dirigeva l'ospedale. C'eravamo già incontrate in precedenza, seppure per poco tempo. Quasi subito entrò un'altra suora con le candele e di lì a poco una tenue luce illuminò la stanza. Mahmud e Tooni ripresero il loro gioco ed io rimasi a conversare con la dottoressa Santiago. Non potevo fare a meno di notare il modo in cui fissava la mia Bibbia. "Vi dispiace se mi siedo un poco qui con voi?" mi chiese. "No, mi fa piacere", risposi, ritenendo la sua una visita di cortesia. Andò a sedersi su una sedia vicino al mio letto, facendo un fruscio col suo abito bianco. "Oh!" disse, togliendosi gli occhiali e passandosi un fazzoletto sulla fronte. "È stata veramente una serata laboriosa". Provai simpatia per lei. I musulmani hanno rispetto per queste sante donne che abbandonano il mondo per servire il loro Dio; possono errare nella fede, ma la loro sincerità è autentica. Chiacchierammo per un po', ma man mano che conversavamo, potevo avvertire che la suora aveva qualcosa in mente. Era la Bibbia. Potevo scorgere le occhiate che lanciava al libro, con crescente curiosità. Infine si piegò in avanti e con tono confidenziale mi chiese, "Signora Sheikh, cosa fate con la Bibbia?". "Sono ardentemente alla ricerca di Dio", risposi. E così, mentre le candele si consumavano lentamente, le raccontai, con una certa prudenza al principio poi sempre con più coraggio, dei miei sogni, della mia visita alla signora Mitchell e del mio continuo confronto tra la Bibbia e il Corano. "Qualsiasi cosa accada", accentuai, "devo trovare Dio, ma mi sento confusa per quanto riguarda la vostra fede", dissi, rendendomi conto che proprio mentre parlavo, stavo mettendo il dito su qualcosa d'importante. "Mi sembra che voi rendiate Dio così... non so... personale!". Gli occhi della piccola suora si riempirono di compassione, mentre si chinava verso di me dicendomi con voce emozionata: "Signora Sheikh, c'è solo un modo per conoscere il perché. È quello di cercare da sola, anche se può sembrarvi strano. Perché non pregate quel Dio che state cercando? ChiedeteGli di mostrarvi la Sua via. ParlateGli come se fosse un vostro amico". Sorrisi. Poteva anche suggerirmi di parlare al Taj Mahal! Ma proprio allora la dottoressa Santiago disse qualcosa che mi scosse tutta come se fossi stata attraversata da una scarica elettrica. Si fece più vicino e mi prese una mano nelle sue, mentre le lacrime le scendevano giù per le guance. "ParlateGli", disse molto piano, "come se fosse vostro padre". Mi raddrizzai di colpo. Un silenzio di tomba pesava sulla stanza. Si era interrotta anche la conversazione di Mahmud e Tooni. Fissavo la suora alla luce della candela che si rifletteva sui suoi occhiali. Parlare a Dio come se fosse mio padre! Il pensiero mi turbò l'animo in quello strano modo che ha la verità di essere sorprendente e confortante allo stesso tempo. Poi, come per intesa, ricominciammo a parlare tutti insieme ed allo stesso momento. Tooni e
Mahmud si misero a ridere e decisero che il parasole doveva essere colorato di violetto. La dottoressa Santiago sorrise, si alzò, ci augurò ogni bene e sollevando appena l'orlo dell'abito da terra, lasciò la stanza. Non fu detto nient'altro sulla preghiera né sul cristianesimo. Eppure mi girai e rigirai nel letto per tutto il resto della notte e la mattina seguente mi sentivo stordita. Ciò che rese quell'esperienza particolarmente misteriosa fu che i medici non trovarono niente di anormale a Mahmud e d'altra parte il bambino continuava a dire che l'orecchio non gli faceva male neppure un po'. Al principio mi sentii seccata per tutto il tempo perduto ed il fastidio procuratomi. Poi mi venne il pensiero che forse - dico forse - il Signore, in maniera misteriosa, aveva colto quell'occasione per mettermi in contatto con la dottoressa Santiago. Nella tarda mattinata Manzur ci ricondusse a Wah. Appena lasciammo la strada nazionale per imboccare quella che conduce alla nostra proprietà potei scorgere, attraverso gli alberi, il tetto grigio di casa mia. Di solito non vedevo l'ora di tornare a casa, per ritirarmi dal mondo; oggi però mi sembrava diverso, come se lì mi fosse dovuto accadere qualcosa di particolare. Mentre percorrevamo il lungo viale, Manzur suonò il clacson. I servitori corsero fuori e circondarono l'auto. "Come sta il bambino?" chiesero tutti in una volta. Li rassicurai che Mahmud stava bene. La mia mente però era lontano. Non riuscii a prender parte alle loro cerimonie per il nostro ritorno a casa. Pensavo piuttosto a questa nuova via che menava a Dio. Salii nella mia camera per pensare a tutto quanto era accaduto. Ero certa che nessun musulmano aveva mai pensato ad Aliati come ad un padre. Mi era stato detto, fin da bambina, che la maniera migliore per conoscere Allah era di pregare cinque volte al giorno, studiare e meditare il Corano. Eppure le parole della dottoressa Santiago mi tornarono di nuovo alla mente. "Parlate a Dio. ParlateGli come se fosse vostro padre". Sola, nella mia stanza, mi misi in ginocchio e cercai di rivolgermi al Signore, chiamandoLo 'Padre'. Fu un tentativo inutile, mi rialzai sgomenta. Era semplicemente assurdo. Oltretutto non era peccato cercare di far abbassare l'Eterno al nostro livello? Quella notte mi addormentai più confusa e disorientata che mai. Mi svegliai qualche ora dopo. Era passata la mezzanotte, era ormai il 12 Dicembre, il giorno del mio compleanno. Avevo 47 anni. Provai un'eccitazione momentanea, un ritorno alla mia infanzia, quando i compleanni erano giorni di festa con giochi, un'orchestra ad archi che suonava sul prato e parenti che andavano e venivano per tutto il giorno. Oggi non ci sarebbe stata alcuna festa, forse qualche telefonata, ma niente di più. Quanto rimpiangevo quei giorni della mia infanzia! Pensai ai miei genitori, che amavo ricordare più di tutti gli altri. Mia madre così amorevole, regale e bella. E mio padre. Ero così orgogliosa di lui, delle alte cariche che occupava nel governo indiano. Potevo raffigurarmelo ancora chiaramente: vestito impeccabilmente, mentre si aggiustava il turbante davanti allo specchio, prima di uscire per andare all'ufficio. Lo sguardo benevolo sotto le sopracciglia folte, il sorriso dolce, i lineamenti finemente cesellati, il naso aquilino. Uno dei miei ricordi più cari era quello di vederlo al lavoro, nel suo studio. Pur vivendo in una società in cui i figli maschi sono tenuti in più alta considerazione rispetto alle femmine, mio padre considerava i figli in maniera imparziale. Spesso, da bambina, capitava che avevo qualcosa da domandargli e così sbirciavo attraverso la porta aperta del suo studio, incerta se interromperlo. Allora il suo sguardo incrociava il mio. Posando la penna, si appoggiava allo schienale della sedia e mi chiamava "Keecha?". Entravo allora piano nello studio, con la testa bassa. Mi sorrideva ed indicandomi la sedia a fianco a lui mi diceva: "Vieni, mia cara, siediti qui". Poi mettendomi un braccio intorno alle spalle, mi avvicinava a sé. "Dimmi, piccola Keecha, cosa posso fare per te?" mi chiedeva in tono affettuoso. Era sempre così con mio padre. Non si dispiaceva quando lo disturbavo. Ogni qualvolta avevo una domanda da fargli od un problema da sottoporgli, per quanto occupato potesse essere, metteva da parte il suo lavoro e mi rivolgeva la sua piena attenzione. Era passata da un bel po' la mezzanotte quando mi distesi a letto, assaporando quel bel ricordo. "Oh,
grazie..." mormorai al Signore. Stavo veramente parlando con Lui? Improvvisamente sentii un gran senso di fiducia dentro di me. Supponendo - soltanto supponendo che Dio fosse come un padre, allora, se il padre mio terreno metteva ogni cosa da parte per ascoltarmi, non l'avrebbe fatto anche il Padre mio celeste...? Sentendomi fremere per l'eccitazione, mi alzai dal letto, mi misi in ginocchio e rivolgendo lo sguardo verso l'alto, in una nuova, ricca consapevolezza chiamai Dio "Padre mio". Non ero preparata a quanto poi accadde. Capitolo 5 IL BIVIO "Oh Padre, Padre mio... Padre eterno". Con esitazione pronunziai il Suo nome ad alta voce. Provai a rivolgermi a Lui in diversi modi. Ad un tratto sentii come se si fosse aperto un varco dentro di me. Credetti che Egli potesse veramente ascoltarmi, proprio come aveva sempre fatto il padre mio terreno. "Padre, o Dio Padre" esclamai con maggiore confidenza. Il tono della mia voce mi sembrò insolitamente alto, in quella grande stanza, mentre stavo inginocchiata sul tappeto, a fianco al letto. All'improvviso la stanza non fu più così vuota. Egli era là. Potevo avvertire la Sua presenza. Potevo sentire la Sua mano poggiata affettuosamente sulla mia testa. Mi sembrava di poter vedere i Suoi occhi, pieni di amore e compassione. Era così vicino che mi ritrovai ad appoggiare la testa sulle Sue ginocchia, come fa una bambina, seduta ai piedi di suo padre. Rimasi così inginocchiata per molto tempo, singhiozzando sommessamente, ripiena del Suo amore. Mi sorpresi a parlare con Lui, scusandomi per non averLo conosciuto prima. E nuovamente, sentii quella Sua amorevole compassione, che mi ricopriva tutta, avvolgendomi come in una coperta calda. Soltanto allora mi resi conto che era la stessa amorevole Presenza che avevo avvertito quel pomeriggio in giardino, quando ne avevo sentito anche il profumo tutt'intorno a me - la stessa Presenza che avvertivo spesso nel leggere la Bibbia. "Mi sento confusa, Padre..." dissi. "Devo prendere un momento una cosa". Raggiunsi il comodino, dove tenevo la Bibbia ed il Corano uno a fianco all'altro. Li presi e li sollevai, uno in ciascuna mano. "Quale dei due, Padre?" dissi. "Quale di questi è il Tuo libro?". In quell'istante accadde una cosa straordinaria. Non mi era mai capitato prima niente di simile. Sentii difatti una voce dentro di me, una voce che mi parlava chiaramente come se io stessi ripetendo delle parole nel mio intimo. Erano parole nuove, piene di dolcezza eppure allo stesso tempo piene di autorità. "In quale libro Mi hai riconosciuto come tuo Padre?". Risposi prontamente: "Nella Bibbia". Questo fu tutto. Adesso nella mia mente non c'erano più quesiti su quale fosse il Suo libro. Guardai l'orologio e rimasi sorpresa nel constatare che erano trascorse tre ore. Eppure non mi sentivo stanca. Desideravo continuare a pregare, desideravo leggere la Bibbia, perché sapevo adesso che il Padre mio avrebbe parlato per mezzo di essa. Andai a letto solo quando non potei più farne a meno. L'indomani mattina presto dissi alle mie cameriere che non volevo essere disturbata; presi di nuovo la Bibbia e mi distesi sul divano. Cominciando da Matteo, lessi tutto il Nuovo Testamento, parola per parola. Rimasi impressionata dal fatto che Dio aveva parlato al Suo popolo per mezzo di sogni *. Nella prima parte del Vangelo di Matteo, questo fatto accadde ben cinque volte! Il Signore parlò a Giuseppe in favore di Maria. Mise in guardia i Magi verso Erode e per altre tre volte guidò Giuseppe riguardo alla protezione del bambino Gesù. Non riuscii a trovare abbastanza tempo per leggere tutta la Bibbia. Ogni cosa che leggevo sembrava indicarmi di camminare più strettamente vicino al Signore. * Vedi l'Appendice alla fine del libro.
Mi trovai al grande bivio. Fino allora avevo incontrato personalmente Dio Padre. Ora sentivo nel mio cuore che dovevo darmi completamente al Suo figliuolo Gesù oppure voltargli le spalle del tutto. Sapevo con certezza che coloro che amavo mi avrebbero messo sull'avviso di voltare le spalle a Gesù. Mi venne in mente il ricordo di una giornata speciale, eccezionale, quando anni addietro, mio padre mi aveva accompagnata alla nostra moschea di famiglia. Eravamo solo noi due. Entrati nella sala dalla volta slanciata, mio padre prendendomi per mano mi disse con molto orgoglio e consapevolezza che ben venti generazioni della nostra famiglia si erano riunite lì per adorare. "Che privilegio hai, mia piccola Keecha, di far parte di quest'antica verità". Pensai allora a Tooni. Questa giovane donna aveva già abbastanza preoccupazioni. E c'erano poi gli altri miei figli: per quanto vivessero lontano, anche loro si sarebbero certamente dispiaciuti se 'fossi diventata cristiana'. E poi c'era mio zio Fateh, che appariva tanto orgoglioso il giorno in cui avevo compiuto quattro anni, quattro mesi e quattro giorni ed ero finalmente in grado d'iniziare a leggere il Corano. E poi c'era la cara zia Amina e tutti gli altri parenti - un centinaio di "zii", "zie" e "cugini". In Oriente la famiglia diventa biraderi, una sola comunità: ogni membro diventa responsabile verso gli altri. Potevo danneggiare la mia famiglia in molti modi, compromettendo perfino le mie nipoti nella loro scelta di matrimonio: sarebbe infatti pesata su di esse la mia decisione, se mi fossi unita agli "spazzini". Ma sopra ogni cosa mi preoccupavo per il mio nipotino Mahmud; che cosa gli sarebbe accaduto? Il mio cuore ebbe un sussulto al pensiero del padre di Mahmud. Era un uomo molto volubile, che sarebbe stato capace di togliermi il bambino se io fossi diventata cristiana, dimostrando che ero chiaramente una persona instabile. Quel pomeriggio, quando mi sedetti per leggere e meditare le Scritture nella quiete della mia stanza, quei pensieri m'indurirono il cuore. All'improvviso mi resi conto del dolore che avrei inflitto agli altri, non riuscivo a sopportarlo e mi alzai piangendo. Mi gettai uno scialle sulle spalle e nonostante il freddo andai in giardino, nel mio rifugio, dove mi riusciva meglio pensare e meditare. "O Signore", implorai mentre percorrevo il sentiero ghiaioso "vuoi veramente che lasci la mia famiglia? Può un Dio di amore volere che io infligga dolore agli altri?". E nel buio della mia disperazione, quel che sentii furono le Sue parole, le parole che avevo appena lette in Matteo: "Chi ama padre e madre più di me, non è degno di me; e chi ama figliuolo o figliuola più di me, non è degno di me..." Matteo 10:37-38 Questo Gesù non accettava compromessi. Non voleva mezzi termini. Le sue erano parole dure, scomode, parole che non volevo sentire. Basta! Non potevo più sopportare il peso della decisione. Seguendo un impulso mi affrettai verso casa, chiamai Manzur, il mio autista, poi annunziai alla governante, alquanto allarmata, che partivo per Rawalpindi. Mi sarei trattenuta lì per qualche giorno. Se ve ne fosse stato bisogno avrebbe potuto raggiungermi da mia figlia. Manzur mi condusse a Rawalpindi, dove trascorsi alcuni giorni di acquisti febbrili: giocattoli per Mahmud, profumi e sari per me. Non c'è da sorprendersi se, nel continuare con le mie follie, mi sentii allontanare sempre più dalla Sua presenza rassicurante. Un giorno, mentre un negoziante spiegava una stoffa sul banco e mi mostrava le pietre ricamate nel tessuto prezioso, ad un tratto vidi la forma di una croce nel disegno. Investii quasi il negoziante per uscirmene in fretta. La mattina seguente ritornai a Wah, senza essermi ancora decisa se rimanere musulmana o diventare cristiana. Una sera, mentre mi riposavo seduta accanto al fuoco, presi di nuovo la Bibbia in mano. Mahmud era a letto. Nel soggiorno era tutto tranquillo. Il vento in giardino faceva vibrare i vetri delle finestre, il fuoco scoppiettava nel camino. Avevo letto senza interruzione i Vangeli e gli Atti e quella sera ero arrivata all'ultimo libro della Bibbia. Ero affascinata dall'Apocalisse, anche se riuscivo a capire ben poco. Leggevo come se fossi
guidata, mi sentivo stranamente fiduciosa. Tutto ad un tratto lessi una frase che mi fece girare la stanza tutt'intor-no. Era il ventesimo verso del terzo capitolo dell'Apocalisse: "Ecco, io sto alla porta e picchio: se uno ode la mia voce ed apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli meco". Cenare con Lui ed Egli con me! Rimasi senza fiato, il libro mi cadde in grembo. Era quello il mio sogno, il sogno in cui Gesù cenava con me! A quel tempo non avevo alcuna idea di un libro chiamato Apocalisse. Chiusi gli occhi ed ancora una volta potei vedere Gesù, che sedeva con me dall'altra parte del tavolo. Potevo avvertire il Suo sorriso dolce, la Sua approvazione. Difatti la gloria era anche lì proprio com'era stato con il Padre. Era la gloria che apparteneva alla Sua presenza! Ora sapevo che quel sogno era venuto da parte di Dio. Il motivo era chiaro. Potevo accettarLo o rifiutarLo. Potevo aprir Gli la porta e chiederGli di entrare per sempre, oppure chiuderGliela. Dovevo prendere la mia decisione totale, ora, in un modo o nell'altro. Mi decisi e m'inginocchiai davanti al fuoco. "O Dio, non aspettare più. Ti prego, entra nella mia vita. Ogni parte di me è aperta a Te". Non dovevo lottare o preoccuparmi di quel che sarebbe accaduto. Avevo detto SÌ! Cristo era adesso entrato nella mia vita ed io lo sapevo. Provavo una sensazione di una bellezza sublime, indescrivibile. In pochi giorni avevo incontrato Dio Padre e Dio Figlio. Mi alzai e mi preparai per andare a letto. La mia mente turbinava di pensieri. Avrei osato fare un altro passo? Mi ricordai che nel libro degli Atti, alla Pentecoste, Gesù aveva battezzato i Suoi discepoli con lo Spirito Santo. Avrei seguito anch'io quell'esempio? "Signore", dissi appena poggiai la testa sul cuscino, "Non ho nessuno che mi guidi, al di fuori di Te. Se Tu vuoi che io riceva questo battesimo dello Spirito Santo, sappi che io voglio ciò che Tu vuoi. Sono pronta". Con la consapevolezza di essermi messa completamente nelle Sue mani, mi lasciai prendere dal sonno. Era ancora buio quella mattina del 24 dicembre 1966 quando mi svegliai in uno stato di profonda aspettazione. Guardai le lancette fosforescenti del mio orologio: segnavano le 3 di notte. La stanza era molto fredda, ma io mi sentivo bruciare dall'eccitazione. Mi buttai fuori dal letto, lasciandomi cadere in ginocchio sul tappéto. Guardai verso l'alto e mi sembrò di vedere una gran luce. Alzai le mani verso di Lui, mentre calde lacrime mi scorrevano sul viso. Supplicando dissi: "O Dio Padre, battezzami col tuo Santo Spirito!". Presi la Bibbia e l'aprii dove il Signore dice: "Poiché Giovanni battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo fra non molti giorni". Atti 1:5 "Signore", implorai, "se queste Tue parole sono vere, allora concedimi adesso questo battesimo". Mi raggomitolai a faccia in giù sul pavimento gelido e tra i singhiozzi dissi: "Signore, non mi alzerò più da terra fino a quando non mi avrai battezzata". All'improvviso provai timore e meraviglia allo stesso tempo; in quella stanza silenziosa vidi la Sua faccia. Qualcosa mi fluttuò dentro: onda dopo onda di un oceano purificatore che si frangeva su di me, inondandomi tutta, dalla punta delle dita dei piedi, purificandomi l'anima. Poi i flutti impetuosi cominciarono a calare, l'oceano celeste si calmò. Ero completamente purificata. La gioia esplose dentro di me e cominciai a lodarLo e ringraziarLo. Qualche ora più tardi, sentii che il Signore mi sollevò da terra. Voleva che mi alzassi. Guardai fuori della grata della finestra e vidi che era quasi l'alba. "O Signore", dissi coricandomi, "può il paradiso, di cui Tu parli, essere più bello di questo? ConoscerTi è gioia, adorarTi è felicità, esserli vicino è pace. Questo è il vero paradiso! Non credo che riuscii a dormire per più di due ore quella mattina. Ben presto le mie cameriere
vennero per aiutarmi a vestire il sari. Per la prima volta, che io mi ricordi, non rivolsi loro alcun rimprovero. C'era invece un'aria di calma e di pace nella stanza inondata dal sole. Raisham, mentre mi spazzolava i capelli, canticchiò addirittura una canzone, cosa che non aveva mai fatto prima. Per tutto il giorno andai gironzolando per casa lodando in silenzio il Signore; riuscivo a stento a contenere la gioia che era in me. A pranzo, Mahmud alzando la testa dal piatto delle focacce disse: "Mamma, sei così sorridente, che ti è successo?". Gli andai vicino e gli scompigliai i capelli neri e lucenti. "Dategli dell'halwa", dissi alla cuoca. Questo piatto di frumento, burro e zucchero era il suo dolce preferito. Dissi a Mahmud che avremmo celebrato il Natale a casa dei Mitchell. "Natale?" disse Mahmud. "È una festa", risposi "un po' come il Ramadan". Mahmud sapeva a cosa mi riferissi. Ramadan era il mese dell'anno musulmano, quando Maometto ricevette la sua prima rivelazione. Ogni anno, per tutto quel mese, i musulmani digiunano ogni giorno dall'alba al tramonto fino a quando si sentono risuonare i tamburi nelle moschee. Soltanto allora ci rimpinziamo di ghiottonerie, dolci, frutta, frittelle di foglie di spinaci, melanzane cotte, succulenti kabobs. Ritenevo che il Natale sarebbe stato un po' come il Ramadan. E fu proprio così. Quando David ci aprì la porta, si sentiva nell'aria un buon odore di cucina. "Entrate! Entrate!" disse, guidandoci verso il salotto addobbato a festa. In un angolo scintillava un albero di Natale, mentre da un'altra stanza si sentiva il suono delle risate dei due ragazzini Mitchell, poco più grandi di Mahmud. Mahmud si unì con piacere ai loro giochi. Non riuscii a contenere più a lungo la gioia che era in me. "David!" dissi, chiamandolo per nome senza riflettere, "Sono una cristiana adesso! Sono stata battezzata nello Spirito Santo!". Mi fissò per un attimo, poi mi chiese, spalancando i suoi occhi grigi: "Chi vi ha detto del battesimo dello Spirito Santo?". Cominciò a ridere di gioia ed a glorificare il Signore. Sentendo i suoi "Alleluia!", Synnove si precipitò dalla cucina. David mi chiese nuovamente: "Chi ve lo ha detto?". "Gesù me l'ha detto", risposi ridendo. "L'ho letto nella Bibbia, nel libro degli Atti; l'ho chiesto a Dio e l'ho ricevuto". Sia David che Synnove sembravano sconcertati. Poi all'improvviso mi si avvicinarono. Synnove mi abbracciò e scoppiò in lacrime. Anche David fece lo stesso. Ed allora tutti e tre abbracciati l'uno all'altro, glorificammo insieme Dio per quel che aveva fatto. Quella sera iniziai un diario, in cui annotai tutte le cose meravigliose che il Signore stava facendo per me. Se fossi morta - non potevo certo prevedere quel che mi sarebbe accaduto, una volta che si sarebbe sparsa la notizia che ero diventata cristiana - volevo che rimanesse almeno quella testimonianza della mia esperienza. Quando sedevo alla scrivania per scrivere le mie esperienze, non mi rendevo conto che Egli si apprestava ad istruirmi. Capitolo 6 IMPARANDO A RICERCARE LA SUA PRESENZA Mi aspettavano diverse sorprese nei giorni che seguirono il mio triplice incontro. In primo luogo trovai che stavo facendo l'esperienza di sogni e visioni, completamente diversi però dai due sogni precedenti, che avevano dato inizio a tutta quell'incredibile avventura. In effetti la mia prima esperienza mi lasciò piuttosto delusa. Un pomeriggio stavo riposando sul letto e pensavo al mio Signore, quando all'improvviso sentii come se stessi volando fuori dalla finestra. Sono sicura che non dormivo; uscii attraverso la grata della finestra e potei gettare uno sguardo in basso, a terra. Mi spaventai tanto che gridai di paura e d'un tratto mi ritrovai di nuovo a letto. Mi distesi, un po' intontita, respiravo affannosamente, sentivo un formicolìo nelle gambe, come quando s'intorpidiscono gli arti e poi il sangue riprende a circolare bene. "Che cos'era, Signore?" domandai. Mi resi conto allora che mi aveva fatto provare una nuova
esperienza. "Mi dispiace tanto, Signore", mi scusai, "ma Tu hai scelto una vigliacca...". Quella sera, sul tardi, si ripetè di nuovo. Questa volta però parlai a Dio per mezzo di quell'esperienza e Gli dissi che non avevo paura. Quando ritornai nella stanza, passando attraverso la finestra, riuscii solo a pensare al fatto che ero stata 'trasportata' in spirito. "Ma qual è il Tuo motivo, mio Signore?" chiesi. Cercai nella Bibbia qualche verso che ne parlasse specificamente, dato che cominciavo a temere che potesse essere qualcosa che non veniva da parte del Signore. Sospirai di sollievo nel leggere negli Atti degli Apostoli (8:39) che lo Spirito del Signore, all'improvviso, rapì Filippo nella lontana città di Azot, dopo ch'egli aveva battezzato l'eunuco etiopico. Ebbi un'ulteriore conferma quando lessi la seconda lettera di Paolo ai cristiani di Corinto. Nel capitolo 12, parlando di visioni e rivelazioni da parte del Signore, scrive di essere stato 'rapito fino al terzo cielo'. Egli sentiva che solo Dio sapeva se era o meno una vera esperienza fisica; anch'io sentivo la stessa cosa, per quanto mi concerneva. Paolo aggiunge: "Quest'uomo udì parole ineffabili che non è lecito all'uomo di proferire". Udii anch'io parole che non posso ripetere, ma non dimenticherò mai le scene. In una di queste esperienze vidi un campanile che s'innalzava fino al cielo; poi vidi davanti a me centinaia di chiese: nuove, vecchie, con stili architettonici diversi e poi una bella chiesa d'oro. La scena cambiò e vidi zone centrali di città che scorrevano davanti ai miei occhi: centri moderni e piazze di vecchi paesini. Era tutto così chiaro! Potevo distinguere i grattacieli, gli orologi dei campanili e degli edifici un po' antiquati, riccamente decorati. Poi il mio cuore ebbe un sussulto quando vidi un uomo che cavalcava un cavallo rosso e nella sua mano destra brandiva una spada; galoppava intorno alla terra sotto grandi masse di nuvole. A volte s'innalzava fino a toccare con la testa le nuvole, altre volte gli zoccoli risplendenti del suo destriero sfioravano la terra. Non riuscii a togliermi dalla mente la sensazione che queste esperienze mi venivano date per una particolare ragione ancora sconosciuta. Leggendo le Scritture, mi resi conto che era un'esperienza completamente diversa da tutte le altre volte che avevo letto la Bibbia. Mi accadde che mentre leggevo il Libro sacro, invece di limitarmi alla sua lettura, lo vivevo addirittura! Era come se fossi balzata dalle sue pagine nell'antico mondo di Palestina quando Gesù camminava lungo le strade pietrose della Galilea. Lo guardavo mentre Egli predicava ed insegnava, mentre viveva il suo messaggio nella vita di ogni giorno, di come manifestava la potenza dello Spirito ed infine di quando andò alla croce, passando vittoriosamente attraverso l'esperienza della morte. Scoprii inoltre, con mia sorpresa, che l'effetto della lettura della Bibbia, cominciava ad essere avvertito dagli altri. Lo constatai di persona una mattina, mentre le cameriere preparavano la mia toilette. Nur-jan stava sistemando i pettini e le spazzole di argento su un vassoio, quando accidentalmente fece cadere tutto a terra. Si sentì un gran fracasso. Nur-jan s'irrigidì, spalancò gli occhi; sapevo che si aspettava i miei soliti rimproveri. Per la verità, stavo quasi per farlo, quando mi trattenni. Dissi invece "Non ti preoccupare, Nur-jan. Non si sono rotti". Poi cominciai a provare un coraggio mai avuto in vita mia. Fino allora avevo avuto timore di far sapere a chiunque del mio interesse per Cristo. Tremavo al solo pensiero delle feroci battute che avrebbero fatto sulla 'Begum spazzina'. Ma mi preoccupavo ancora più di essere messa al bando dalla mia famiglia; il padre di Mahmud poteva anche tentare di prendersi il bambino. Ero inoltre spaventata all'idea che qualche fanatico prendesse alla lettera l'ingiunzione: chi abbandona la propria fede deve morire. Perciò non avevo tanto desiderio di farmi vedere a casa dei Mitchell. Ero ancora preoccupata per essere stata vista da quel gruppo di donne, che uscivano dalla casa di David e Synnove, la prima volta che andai da loro. I miei stessi servitori erano certamente a conoscenza che mi stava capitando qualcosa d'insolito. Quando sommavo tutte queste cose insieme, mi sentivo in un continuo stato di ansia; non sapevo difatti quando sarebbe iniziata la pressione nei miei riguardi. Ma dopo il mio triplice incontro con Dio, un giorno feci un'ammissione che sorprese me stessa. Per
quanto ne sapessi, la mia decisione di diventare cristiana era ormai diventata di dominio pubblico. Come dice la Bibbia io stavo confessando Gesù con le mie labbra. "Bene", mi dissi un giorno, mentre stavo alla finestra della mia camera da letto, "lascerò che le conseguenze facciano il loro corso". Non mi aspettavo un esito così immediato. Subito dopo Natale 1966, la cameriera del piano terreno, con la fronte aggrotta-ta venne ad annunziarmi: "Begum, è venuta la signora Mitchell". "Ah sì?" dissi, cercando di avere un tono informale, "Falla entrare". Il cuore mi batteva forte, mentre andavo incontro alla mia ospite. "Sono tanto onorata di ricevere la tua visita", dissi, assicurandomi che la cameriera che si trovava in fondo alla stanza, mi sentisse. Synnove era venuta ad invitarmi a pranzo. "Ci saranno altre persone, che sono sicura avresti piacere d'incontrare", disse. Altri? Sentii come se un muro mi si parasse davanti. Synnove dovette cogliere uno sguardo di esitazione nei miei occhi e cercò di rassicurarmi. "Molti sono cristiani", aggiunse. "Ci sono degli inglesi e degli americani. Vuoi venire?" mi chiesecon occhi imploranti. E naturalmente, con più entusiasmo di quanto pensassi, risposi che ne sarei stata contenta. Mi chiedevo perché tanti cristiani fossero così spesso timidi! Avevo avuto contatto con altri cristiani prima di allora; li avevo ospitati ai ricevimenti di stato, come moglie di un funzionario del governo. I pranzi erano occasioni formali, serviti da camerieri in divisa, tovaglie di pizzo di Bruges, centri tavola di fiori freschi; cerimonie lunghe con numerose portate, servita ognuna separatamente, in porcellane cinesi del tipo Spode. Tra gli ospiti c'erano cristiani di diverse nazionalità, ma nessuno di loro aveva mai parlato della propria fede, anche quando questa era argomento di conversazione. Sentivo però che le persone che avrei incontrato dai Mitchell, non sarebbero state così riluttanti. Il giorno seguente andai in auto a casa dei Mitchell, percorrendo la strada che, ormai mi stava diventando familiare. David e Synnove mi salutarono affettuosamente e mi presentarono ai loro amici. Mi chiedo cosa avrei provato, a quel tempo, se avessi saputo del ruolo importante che alcuni di loro avrebbero avuto nella mia vita. La prima coppia presentatami furono Ken e Marie Old. Ken era inglese: aveva occhi azzurri, ammiccanti dietro le lenti spesse. Era un ingegnere civile, dagli atteggiamenti informali, che vestiva abiti altrettanto informali. Sua moglie Marie era un'infermiera americana, dall'aspetto pratico, compensato da un bellissimo sorriso. Gli altri erano anch'essi gentili e cordiali. Fui terrorizzata dal fatto di ritrovarmi al centro dell'attenzione generale. Erano tutti desiderosi di ascoltare le mie esperienze. Quel che mi aspettavo fosse un pranzo tranquillo si trasformò in una continua domanda- risposta. La sala da pranzo era silenziosa, anche i bambini stavano seduti in silenzio, quando raccontai dei miei sogni e dei miei incontri separati con la trina persona di Dio. Alla fine del pasto David si complimentò con la moglie per il buon pranzo ma disse che il nutrimento spirituale del mio racconto era ancora migliore. "Sono d'accordo", disse Ken Old. "Vi ho vista altre volte, prima di adesso. Vivevo a Wah. Passavo la mattina presto davanti al vostro giardino ed ammiravo i bei fiori. Qualche volta vi ho vista in giardino, ma devo confessare che non sembrate più la stessa donna". Sapevo a cosa si riferisse. La Bilquis Sheikh di qualche mese prima era una donna senza sorriso. "Siete come un bambino", Ken continuò, "che ha ricevuto un dono inaspettato. Sul vostro viso leggo un'incredibile meraviglia per questo dono. Voi lo custodite gelosamente come non avete fatto con nessuna altra cosa posseduta prima". Quell'uomo cominciava a riuscirmi simpatico. Conversai piacevolmente anche con gli altri e mi resi conto di aver pensato giusto! Questi cristiani erano molto diversi da quelli incontrati in precedenza. Prima che la serata fosse finita, ognuno aveva raccontato brevemente come il Signore stava operando nella propria vita. David aveva proprio ragione. Il pranzo era squisito, ma il vero nutrimento era venuto dalla presenza del Signore in quella piccola casa. Non avevo mai provato niente di simile e mi augurai di poter ricevere regolarmente quel cibo spirituale. Ecco perché mi colpì tanto il commento che fece Ken, al momento di andarmene. Ken e Marie si avvicinarono e mi strinsero la mano. "Bilquis, avresti bisogno di avere adesso una regolare
comunione cristiana", disse Ken. "Potresti venire a casa nostra la domenica sera". "Verrai?" chiese Marie, con un tono di voce pieno di speranza. E così incominciai a partecipare regolarmente alle riunioni con altri cristiani. La domenica sera ci riunivamo dagli Old, che abitavano in una casa in mattoni; il loro salotto poteva a stento contenere la dozzina di persone che l'affollavano. C'erano soltanto due pakistani, tutti gli altri erano americani o inglesi. Conobbi anche altre persone come il dottor Christy e sua moglie. Quest'uomo magro, ma energico, era un medico oculista americano e sua moglie un'infermiera. Facevano tutte e due parte del personale ospedaliero della missione locale. Nel corso delle riunioni cantavamo, leggevamo la Bibbia e pregavamo per i bisogni reciproci. Quel momento diventò presto il più atteso di tutta la settimana. Una domenica però non avevo voglia di andare. Telefonai agli Old e trovai una scusa. Sembrava una cosa banale, eppure quasi subito cominciai a sentirmi agitata. Che cos'era? Camminavo irrequieta per tutta casa, controllando il lavoro della servitù. Era tutto in ordine, eppure mi sembrava tutto fuori posto... Poi andai in camera mia e mi misi a pregare in ginocchio. Dopo un po' Mahmud si infilò nella stanza; entrò così piano che non lo sentii fino a quando non mise la sua mano grassottella nella mia. "Stai bene mamma?" mi chiese. "Hai un'aria così strana". Gli sorrisi e lo rassicurai che stavo bene. "Ma perché continui allora ad andare su e giù guardando in giro, come se avessi perso qualcosa?". Se ne andò saltellando giù per le scale. Sembrava che avessi perso qualcosa? Mahmud aveva ragione. In quel preciso momento mi resi conto di quel che avevo perso. Avevo perso la sensazione della gloria di Dio. Se n'era andata. Perché? C'era qualcosa a che vedere col fatto che non ero andata alla riunione degli Old? Perché avevo deciso di non avere comunione fraterna quando ne avevo invece tanto bisogno? Mi premurai di telefonare a Ken, dicendogli che di lì a poco sarei arrivata a casa loro. Che differenza! Sentii immediatamente ritornare, in maniera reale, il calore alla mia anima. Andai alla riunione, come promesso. Non accadde nulla d'insolito, eppure sentivo di nuovo che stavo camminando nella Sua gloria. Ken sembrava proprio aver ragione. Aveva bisogno di comunione fraterna. Per quella volta avevo imparato la lezione! Decisi che d'allora in poi avrei frequentato regolarmente le riunioni, a meno che Gesù stesso non mi avesse detto di non andare. Man mano che mi avvicinavo di più a Dio, passo dopo passo, sentivo che avevo sempre più bisogno della Sua parola. Ogni giorno, appena alzata, leggevo la Bibbia, ogni volta immancabilmente trovavo in essa un senso di attualità. La Bibbia divenne qualcosa di vivo per me, rischiarava la mia giornata, spandendo la sua luce su ogni passo che facevo. Era diventata infatti il mio profumo prediletto. Ma anche questa volta avvenne qualcosa di strano. Mahmud ed io dovevamo andare a trascorrere una giornata da sua madre. La sera prima ero andata a letto tardi e veramente non mi sentivo proprio di alzarmi all'alba per la mia oret-ta di lettura biblica. Dissi perciò a Raisham di portarmi il tè un poco prima della partenza. Quella notte non dormii affatto bene. Mi sentivo agitata, mi girai e rigirai nel letto e feci brutti sogni. Quando Raisham venne a svegliarmi, mi sentivo sfinita. Notai che tutta la giornata non andò bene. Che cosa strana! Che voleva dirmi il Signore? Forse si aspettava da me che leggessi la Bibbia ogni giorno? Quella fu la seconda volta in cui mi sembrò di essere fuori dalla gloria della presenza di Dio. Quell'esperienza mi lasciò però con uno strano senso di eccitazione. Avevo difatti la sensazione di essere in possesso di un'importante verità, senza che me ne rendessi conto. A volte mi sentivo alla Sua presenza e sperimentavo un profondo senso di gioia e pace ed altre volte non avvertivo la sensazione della Sua presenza. Qual era la chiave? Cosa potevo fare per rimanere vicino a Lui? Ripensai a tutte le volte in cui mi era sembrato insolitamente vicino; riandai col pensiero ai miei due sogni ed a quel pomeriggio d'inverno, quando avevo sentito quel profumo sottile nel mio giardino. Pensai a quando, per la prima volta ero andata dai Mitchell, fino ai tempi più recenti in cui leggevo la Bibbia regolarmente
ed andavo alle riunioni domenicali a casa degli Old. Quasi sempre, in queste occasioni sentivo che il Signore era con me. Ma pensai anche alle altre volte, ai momenti in cui mi rendevo conto di aver perso quella stretta comunione con Lui. Cosa diceva la Bibbia in proposito? "Non contristate lo Spirito Santo di Dio". Efesini 4:30 Era quel che facevo io quando rimproveravo la servitù? O quando non nutrivo il mio spirito con una lettura biblica quotidiana? Oppure quando non andavo dagli Old? Un modo per rimanere sempre alla Sua presenza era l'obbe-dienza. Quando obbedivo, allora mi era concesso essere in comunione con Lui. Presi la Bibbia e cercai nel Vangelo di Giovanni fino a che trovai il verso in cui Gesù dice: "Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l'amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui". Giovanni 14:23 Quella era la maniera di esprimersi della Bibbia su quanto io cercavo di dire. Rimanere nella gloria. Era proprio quello che cercavo di fare! La chiave per arrivare a quel punto era l'obbedienza. "Padre", pregai, "voglio essere Tua serva, così come dice la Bibbia. Voglio obbedirti. Ho sempre ritenuto un sacrificio rinunziare ad esercitare la mia volontà, ma ora non lo è più, perché mi mantiene stretta a Te. Come potrebbe la Tua presenza essere un sacrificio?". Non mi ero ancora abituata all'idea che il Signore potesse parlare direttamente alla mia mente, ma in quel momento ne fui profondamente convinta! Chi altro, se non il Signore, poteva chiedermi di perdonare mio marito? Ama il tuo ex marito, Bilquis. Perdonalo. Mi dovetti sedere per il colpo subito. Sentire il Suo amore per il prossimo era una cosa, ma come amare quell'uomo che mi aveva fatto tanto male? "Padre, non posso proprio. Non mi sento di benedire Kha-lid, né tanto meno di perdonarlo". Mi venne in mente di quando, infantilmente, avevo addirittura chiesto al Signore di non far convertire mai mio marito, per non fargli provare la mia stessa gioia. Ed ora Dio mi chiedeva dì amare quello stesso uomo? Sentii salire un'ondata di collera dentro di me appena pensai a Khalid, e subito scacciai quel ricordo dalla mia mente. "Forse potrei dimenticare, Signore. Non sarebbe già abbastanza?". Era una mia impressione, oppure il calore che emanava la presenza del Signore sembrò raffreddarsi? "Non posso perdonare mio marito, Signore. Non ne sono capace". "Il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero". Matteo 11:30 "Signore, non riesco a perdonarlo!" dissi piangendo. E cominciai allora ad elencare tutte le cose terribili che mi aveva fatto. Mentre lo facevo, altre ferite affioravano, dolori che avevo relegato nel fondo delle mia mente perché troppo umilianti da ricordare. L'odio proruppe in me, mi sentivo adesso completamente separata da Dio. Impaurita, mi misi a piangere come un bimbo smarrito. E subito, miracolosamente, Lo sentii nella stanza, al mio fianco. Mi gettai ai suoi piedi, Gli confessai il mio odio e l'incapacità a perdonare. "Il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero". Lentamente, deliberatamente, scaricai il mio terribile peso su di Lui. Mi liberai del risentimento, delle offese ricevute e dell'oltraggio che mi aveva tanto amareggiato, riponendo tutto nelle Sue mani. All'improvviso avvertii una luce che nasceva in me, come il chiarore dell'alba. Respirando-di sollievo, mi affrettai verso la toeletta, presi la foto incorniciata d'oro e fissai il viso di Khalid. Pregai: "Padre, togli da me ogni risentimento e riempimi del tuo amore per Khalid, nel nome del mio Signore e Salvatore Cristo Gesù".
Rimasi a lungo a guardare la foto. Lentamente quel sentimento negativo, che era in me, cominciò a scomparire, lasciando posto ad un amore inaspettato, ad un senso di premura nei confronti dell'uomo della foto. Non potevo crederci. Adesso mi auguravo che il mio ex marito stesse bene. "O Signore, benedicilo, donagli gioia, fà che sia felice nella sua nuova vita". Appena ebbi espresso questo desiderio, una nuvola nera si dipartì da me. Venne rimosso un peso dalla mia anima. Mi sentii in pace, rilassata. Mi ritrovai ancora una volta a vivere nella Sua gloria. Ed ancora una volta sentii di non voler più lasciare la Sua preziosa compagnia. Per ricordarmi di quel desiderio, andai giù, nonostante l'ora tarda, a prendere della tintura henna. Tracciai con questa, una grande croce sul dorso di ambedue le mani, per ricordarmene sempre. Mai più, se fosse dipeso minimamente da me, mi sarei di nuovo allontanata deliberatamente dal Suo cospetto. Mi ci sarebbe voluto molto tempo, ne ero sicura, per acquistare la capacità di vivere al calore della Sua presenza. Sarebbe stato un tempo di ammaestramento, che accolsi però con grande eccitazione. Una notte ebbi un'esperienza spaventosa. Non sapevo che mi veniva dal lato opposto.... Capitolo 7 BATTESIMO Quella notte del gennaio 1967 stavo dormendo profondamente quando mi svegliai per lo spavento: il letto veniva scosso violentemente. Terremoto? Il mio cuore fu attanagliato da un terrore indescrivibile. Avvertii nella stanza un'orribile, malevola presenza; era decisamente uno spirito maligno. All'improvviso mi sentii buttare fuori dal letto; non so se era col mio corpo od in spirito. Venni spinta e sbattuta qua e là come un fuscello in un uragano. Mi apparve il viso di Mahmud ed il mio cuore implorò per la sua protezione. Deve essere la morte che si avvicina, pensai, mentre la mia anima tremava. Quella presenza orribile mi coprì tutta, come una nuvola nera fluttuante; istintivamente gridai a Colui che ormai costituiva tutto per me. "Signore Gesù!". Appena pronunziai quel nome venni scossa fortemente, come un cane fa con la sua preda. "Sto sbagliando a rivolgermi a Gesù?" gridai a Dio nel mio spirito. In quell'istante mi venne una gran forza e dissi ad alta voce: "Voglio invocarLo. Gesù! Gesù! Gesù!". A quel nome, la potenza devastatrice si arrestò. Rimasi distesa ad adorare e lodare il Signore. Verso le tre, le mie palpebre diventarono troppo pesanti e caddi addormentata. Venni svegliata la mattina da Raisham, che mi portava il té. Rimasi distesa a letto ancora un po', provando un certo conforto. Appena ebbi chiusi gli occhi per pregare, vidi il Signore Gesù Cristo, che mi stava davanti. Era vestito di bianco con un mantello color porpora. Mi sorrise dolcemente e disse: "Non temere; non accadrà più". Capii allora che la mia esperienza terrificante era stata satanica, una prova che Gesù aveva permesso per il mio bene. Mi ricordai del grido che era venuto dal profondo della mia anima: "Voglio invocare il Suo nome, voglio chiamare Cristo Gesù". Il mio Signore era ancora lì, davanti a me. "È arrivato il tempo di essere battezzata in acqua, Bilquis", disse. Battesimo in acqua! Avevo sentito distintamente, ma quelle parole non mi piacevano... Mi vestii più in fretta che potei e dissi a Nur-jan e Raisham che fino all'ora di pranzo non volevo essere disturbata per nessuna ragione. Rimasi in piedi davanti alla finestra a pensare. L'aria del mattino era fresca; un vapore leggero saliva dalle fontane del giardino. Sapevo che il significato del battesimo non sfugge al mondo musulmano. Una persona può leggere la Bibbia senza attirarsi per questo troppe ostilità, ma il sacramento del battesimo è una cosa diversa. Per i musulmani è il solo inequivocabile segno che un convertito abbia rinunziato alla fede islamica per abbracciare quella cristiana. Per i musulmani il battesimo è apostasia.
Ero arrivata così ad una svolta decisiva. La scelta si delineava chiara. Mi sarei lasciata prendere dalla paura di essere trattata come una proscritta o peggio ancora come una traditrice, oppure avrei obbedito a Gesù? Prima di tutto dovevo essere sicura che stavo veramente obbedendo al Signore e non a qualche illusione. Ero da troppo poco tempo diventata cristiana per dar credito a delle 'voci'. Come potevo mettere meglio alla prova quella mia impressione, se non attraverso la lettura della Bibbia? Ripresi allora la Bibbia e lessi di come lo stesso Gesù era stato battezzato nel Giordano. Rilessi di nuovo la lettera di Paolo ai Romani, in cui egli parla del rito in termini di morte e resurrezione. "Il vecchio uomo" muore e nasce una nuova creatura, che lascia tutti i suoi peccati dietro di sé. Così stavano le cose allora! Se Gesù era stato battezzato e se la Bibbia richiede il battesimo, naturalmente anch'io avrei obbedito. In quel preciso momento suonai il campanello per Raisham. "Di' a Manzur di preparare l'auto" le chiesi. "Dopo pranzo andrò a far visita agli Old". Dopo poco mi trovai, ancora una volta, seduta nel piccolo salotto di Marie e Ken, quando proruppi nella mia solita maniera: "Ken", dissi affrontandolo direttamente, "sono sicura che il Signore mi ha detto di essere battezzata". Mi guardò per un lungo istante, con la fronte aggrottata, cercando forse di penetrare nella profondità del mio pensiero, poi si chinò verso di me e disse in tono molto, molto serio: "Bilquis, sei preparata a quel che potrebbe accadere?". "Sì, ma..." cominciai a rispondere. Ken m'interruppe; parlava a bassa voce. "Bilquis, l'altro giorno ho incontrato un pakistano che mi ha chiesto se ero uno spazzino nel mio paese". Mi guardò in faccia. "Ti rendi conto che da ora in poi non saresti più la Begum Sheikh, la rispettata proprietaria con generazioni di prestigio? Ti rendi conto che saresti associata agli spazzini cristiani?". "Sì", risposi. "Lo so". Le sue parole diventarono ancora più decise ed io mi armai di coraggio per affrontare il suo sguardo. "Ed hai preso in considerazione il fatto", continuò "che il padre di Mahmud può facilmente portartelo via? Potrebbe definirti una tutrice incapace". Il mio cuore era ferito. Avevo già preso in considerazione tutto questo ma sentendolo dire da Ken ad alta voce, la prospettiva mi appariva più realizzabile. "Sì, lo so Ken", dissi debolmente. "Mi rendo conto che molte persone penseranno che sto commettendo un crimine. Ma voglio essere battezzata lo stesso, devo obbedire a Dio". La nostra conversazione venne interrotta dall'arrivo inaspettato dei Mitchell. Ken li informò subito che avevamo qualcosa d'importante da discutere assieme. "Bilquis", disse, "vuole essere battezzata". Silenzio. Synnove tossì. "Ma non abbiamo una vasca", disse David. "Non ce n'è una alla chiesa di Peshawar?" chiese Marie. Il mio cuore ebbe un sussulto. Peshawar è il capoluogo della provincia della frontiera Nordoccidentale. È un territorio di frontiera nel vero senso della parola: una città di provincia abitata da musulmani conservatori, noti per la loro prontezza nell'agire. Ma sì, pensai, lì deporrò ogni riserbo che ancora mantengo. L'intera città l'avrebbe saputo nel giro di un'ora. Rimanemmo d'accordo che Ken si sarebbe interessato per farci andare a Peshawar. Avremmo saputo qualcosa dal pastore locale entro un paio di giorni. Quella sera ricevetti una telefonata. Era il mio prozio Fateh. Volevo tanto bene a quel vecchio gentiluomo. Si era sempre interessato alla mia istruzione religiosa. "Bilquis?". La voce autoritaria di mio zio appariva un po' turbata. "Sì, zio?". "È vero che leggi la Bibbia?" "Sì". Mi chiesi come fosse venuto a saperlo. Cos'altro aveva sentito dire? Lo zio Fateh si schiarì la voce. "Bilquis, non parlare mai della Bibbia con qualcuno di questi cristiani. Tu sai come sono polemici. Le loro discussioni creano sempre confusione". Stavo per interromperlo, ma coprì la mia voce dicendo: "Non invitare nessuno...", accentuò ".. .nessuno a casa tua, senza prima consultarmi! Se lo farai, sappi che la tua famiglia non ti starà
vicina". Zio Fateh tacque per un attimo per riprendere fiato. Approfittai della pausa per parlare. "Zio, ascoltami". Dall'altro capo del filo ci fu un silenzio forzato. Mi lanciai. "Zio, come ben ricorderai, nessuno è mai venuto a casa mia senza invito". Mio zio se ne sarebbe senz'altro ricordato; ero conosciuta proprio perché mi rifiutavo spietatamente d'incontrarmi con persone che non avessero annunziata la loro visita anticipatamente. "E sai anche", conclusi, "che m'incontro con chiunque mi piaccia. Arnvederci zio". Misi giù la cornetta. Era questo un anticipo di quel che sarebbe avvenuto, una volta che il resto della mia famiglia ne fosse stato informato? Se lo zio Fateh aveva reagito in maniera così forte alla notizia che leggevo la Bibbia, che sarebbe accaduto quando, sia lui che gli altri componenti della famiglia avessero saputo del mio battesimo? Non ci volevo nemmeno pensare. Quel fatto mi dette una spinta per farmi battezzare al più presto. Non ero tanto sicura di riuscire a resistere all'afflizione che avrei arrecato alle persone che amavo di più. Da Ken nessuna notizia. La mattina seguente, nel leggere la Bibbia, mi capitò nuovamente sotto gli occhi, il passo in cui si parla dell'eunuco etiopico, a cui Filippo aveva portato il messaggio di salvezza. La prima cosa che l'eunuco fece, appena vista l'acqua, fu di saltare dal carro e farsi battezzare. Sentivo che il Signore me lo stava di nuovo ripetendo, "Battezzati e fallo subito!" Ero certa che intendeva dirmi che se avessi atteso più a lungo, qualcuno o qualcosa me lo avrebbe impedito. Mi gettai giù dal letto, rendendomi nuovamente conto che si stavano schierando delle forze avverse, pronte ad ostacolarmi in quello che il Signore voleva che facessi. Posai la Bibbia, chiamai le cameriere, che mi aiutarono a vestirmi in fretta. Dopo poco mi dirigevo a casa dei Mitchell. "David", dissi, mentre stavo ancora davanti alla porta, "è arrivata qualche risposta da Peshawar?". "No, non ancora". "Non potresti battezzarmi qui, oggi stesso, adesso?". David mi guardò aggrottando la fronte. Mi fece entrare in casa; stavo ancora fuori, al freddo pungente del mattino. "Bilquis, non possiamo aver fretta per un passo così decisivo". "Devo obbedire al Signore. Mi dice ripetutamente di affrettarmi". Gli riferii del passo che avevo letto la mattina e dell'insistenza, da parte del Signore, nel volermi far battezzare prima che mi potesse accadere qualcosa. David alzò le mani, in segno d'impotenza. "Questo pomeriggio devo accompagnare Synnove ad Abbottabad. Per il momento non c'è niente che possa fare per te, Bilquis". Mi mise una mano sul braccio. "Abbi pazienza, Bilquis. Sono sicuro che domani avremo notizie da Peshawar". Mi diressi allora a casa degli Old. "Per favore", dissi appena Ken e Marie mi ebbero salutata, "sarebbe possibile farmi battezzare subito?". "Abbiamo chiesto al nostro pastore", rispose Ken, prendendomi per un braccio e guidandomi verso il salotto: "Ha detto che tutta la faccenda deve essere portata avanti alla Sessione". "Sessione?" ripetei, "che cos'è?". Mi spiegò allora che il suo pastore voleva battezzarmi, ma doveva avere prima l'approvazione dal consiglio direttivo della sua chiesa. "Potrebbero trascorrere diversi giorni", aggiunse "e nel frattempo potrebbe accadere di tutto". "Sì", dissi in un sospiro, "ma in quel caso la notizia certamente si divulgherebbe". La mia mente galoppò freneticamente pensando a tutte le possibili circostanze. Poi Ken mi disse qualcosa di straordinario. Nel cuore della notte aveva sentito una voce d'uomo che lo guidava ad - Aprire la Bibbia a pagina 654! Che strano modo, pensò Ken, di dare una referenza biblica. Era il capitolo 13 del libro di Giobbe, versetti 14, 15. Il passo risaltava nella pagina indicata dalla voce. Ken lesse quei versi che l'avevano tanto benedetto e che sembravano proprio essere indirizzati a me. "Perché mi strappo io la carne con i denti; E perché tengo l'anima mia nella palma della mia mano? Ecco, mi uccida egli pure; sì spererò in lui".
Mi chiesi se ero pronta anche a quest'evenienza. La mia fede era abbastanza salda? Mi alzai ed afferrai il braccio di Ken. "Voglio essere battezzata ora in acqua. E dopo, anche se Egli mi ucciderà, sarò pronta. Starò meglio in cielo col mio Signore". Mi lasciai andare su una sedia e rivolgendomi a Ken gli chiesi scusa: "Mi dispiace, Ken. Sono sconvolta. Ma so di certo una cosa: il Signore dice che devo essere battezzata ora. Te lo dico in maniera schietta. Vuoi aiutarmi oppure no?". Ken si appoggiò alla spalliera della sedia, si passò la mano nei capelli castano rossicci e guardando Marie rispose: "Ma certamente! Perché non andiamo a casa dei Mitchell e vediamo quel che si può fare?". Ritornai a casa loro, percorrendo le strade tortuose di Wah. Per un po' rimanemmo seduti tranquillamente a pregare nel salotto dei Mitchell. Poi Ken tirò un lungo sospiro, si piegò in avanti e parlò a tutti noi. "Sono certo che siamo tutti d'accordo sul fatto che il Signore abbia finora guidato Bilquis in un modo molto insolito. E se lei insiste che la sua premura di essere battezzata viene da parte di Dio, allora non dobbiamo esserle di ostacolo". Si rivolse a David. "Tu e Synnove dovete andare ad Abbottabad, potrei raggiungervi con Marie e Bilquis e prender cura dei preliminari necessari per il suo battesimo nel pomeriggio. Non pensiamo più a Peshawar". Tutto ad un tratto ci parve la cosa migliore da fare. Cominciammo tutti a fare preparativi. Io corsi a casa, chiesi a Raisham di preparare un abito di ricambio. Gli Old avevano detto che ne avrei avuto bisogno. Ken aveva precisato: "Qualcosa che non si sciupi nell'acqua". Nonostante i preparativi mi sentivo ancora ansiosa. Avevo la sensazione che il mio rapporto con il Signore si stesse indebolendo. Non mi aveva dato in diverse occasioni delle istruzioni specifiche e pressanti? Non mi aveva ordinato di fare il battesimo in acqua subito? Mi passò un pensiero per la mente. Lo scacciai subito via. Era impensabile. Ma quando il pensiero si riaffacciò di nuovo, chiesi in preghiera al Signore: "Sarebbe giusto, Padre?". E così il 24 gennaio 1967 ebbe luogo un insolito battesimo. Avevo chiamato Raisham, che ora mi stava davanti. "Sì, Raisham", ripetei. "Per favore riempi la vasca". La donna andò a fare il suo dovere, con un'espressione perplessa sul viso; non avevo mai fatto un bagno a quell'ora del giorno! Raisham venne poi a dirmi che il bagno era pronto; la congedai. Quel che mi accingevo a fare potrebbe far nascere dei problemi teologici. Ma io non stavo pensando in termini teologici. Stavo semplicemente cercando di essere obbediente ad un bisogno urgente, convalidato anche dalle Scritture. Sentivo di dover essere battezzata subito ma con tutte le difficoltà che si frapponevano, avevo i miei dubbi ad attendere anche fino al pomeriggio... Poiché volevo più di ogni altra cosa al mondo rimanere alla presenza del Signore e poiché la sola maniera per farlo era attraverso l'obbedienza, andai nel bagno e m'immersi nella vasca profonda. Appena seduta, l'acqua mi arrivò alla spalla. Mi misi una mano sulla testa e dissi ad alta voce: "Bilquis, io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo". Tuffai la testa nell'acqua, così da immergere completamente tutto il corpo. Uscii dall'acqua ripiena di gioia: lodavo e glorificavo Dio. "O Padre, Ti ringrazio. Mi sento così privilegiata". Sapevo che i miei peccati erano stati lavati via e che ero diventata accettevole davanti al Signore. Non volli dare spiegazioni a Raisham di quel che avevo fatto e lei, nel suo modo abitualmente riservato, non mi chiese nulla. Dopo pochi minuti ero pronta, in attesa degli Old, che venivano a prendermi per farmi battezzare ad Abbottabad. Ancora una volta non sapevo quale fosse la posizione teologica. Conoscevo però i miei motivi. I miei amici cristiani si erano presi tanta cura di me, aiutandomi in vari modi. Avevano sofferto molto per me ed io non volevo scombinare ancora di più le cose. Sarei andata lo stesso a farmi battezzare, sebbene un istinto innato mi dicesse che avevo già fatto quel che il Signore voleva da me. Cercai di leggere la Bibbia ma il mio spirito gioiva tanto che non riuscivo a concentrarmi. Ero ritornata di nuovo nella Sua gloria, come lo ero stata ogni qualvolta Gli avevo
obbedito fedelmente, avendo la Bibbia come mia sola guida. "Begum Sahib, Begum Sahib?". Mi voltai. Era Raisham. Gli Old erano giù ad aspettarmi. Dissi a Mahmud che sarei rimasta fuori per tutto il resto del giorno. Sentivo in cuor mio che era meglio che il bambino non venisse coinvolto in un evento, che poteva avere conseguenze spiacevoli. Scesi a raggiungere Ken e Marie. C'erano due ore di auto per Abbottabad, lungo una strada fiancheggiata da pini ed abeti. Non parlai del mio battesimo nella vasca da bagno. Parlai invece delle molte volte in cui avevo viaggiato su quella stessa strada per gite di famiglia. Allora avevamo al nostro seguito diverse auto stipate di bagagli. Pensai tra me se mi stavo comportando lealmente verso tutto il mio passato dorato. Arrivammo alla missione, dove trovammo i Mitchell che ci attendevano insieme ad un medico canadese e sua moglie: Bob e Madeline Blanchard. Insieme a loro c'era un pakistano. "Questo", disse Synnove, "è il Reverendo Bahadur che ti battezzerà". Mi guardai intorno, c'erano anche un medico, che era anglicano, ed un altro pastore pakistano. "Forse è profetico, Bilquis", disse Synnove, "forse per mezzo tuo molti cristiani diventeranno più uniti. Sembra proprio che sia la prima volta, in Pakistan, che cristiani battisti, presbiteriani ed anglicani si siano riuniti per un battesimo". C'era una certa apprensione nella stanza. Porte chiuse, tende tirate... potevo facilmente immaginare come poteva essere stata la vita nel primo secolo, sotto il governo di Roma, quando i cristiani si battezzavano nelle catacombe. Mentre ci preparavamo per la cerimonia, mi guardai attorno e chiesi, "Ma dov'è la vasca?". Si venne a sapere che non c'era. Ken disse che sarei stata aspersa con acqua. "Ma Gesù fu immerso nel Giordano", risposi. Avevamo superato un fiume proprio prima di giungere alla missione. "Perché non andiamo al fiume?" chiesi; ma poi mi ricordai che faceva abbastanza freddo e che anche altri sarebbero dovuti entrare in acqua, così non volli insistere. D'altra parte avevo la certezza di aver già ubbidito al Signore. E così fui battezzata di nuovo, questa volta per aspersione. Mentre venivo spruzzata d'acqua, pensai a come se la ridacchiava il Signore... Dopo la funzione, mi guardai attorno e vidi molti visi bagnati di lacrime. "Be'", dissi ridendo, "tutti questi pianti certo non m'incoraggiano!". "O, Bilquis", disse Synnove, tirando su col naso; poi venne verso di me e mi abbracciò. Non riuscì a dire altro. Si complimentarono poi a vicenda. Synnove cantò un inno e Ken lesse un passo dalla Bibbia. Si fece così l'ora di far ritorno a casa. Tornammo a casa tranquillamente. Non c'era ansietà tra di noi; era bello stare tra cristiani. Ci salutammo nuovamente tra le lacrime ed io feci ritorno a casa. L'atmosfera tranquilla fu subito infranta, non appena ne ebbi varcato la soglia; la governante si precipitò verso di me con gli occhi sbarrati, la voce agitata: "Begum Sahib,è venuta la vostra famiglia a cercarvi. Hanno detto di aver saputo che vi siete unita ai cristiani e...". Alzai la mano. "Basta adesso!" ordinai, mettendola a tacere. "Dimmi chi è venuto". Man mano che la donna elencava i nomi di quelli che erano venuti a casa mia quel pomeriggio, mi sentii invadere da una nuova apprensione. Erano tutti i membri anziani della mia famiglia: zii, cugini anziani, zie, persone che non sarebbero venute a casa mia in quel modo se non per una ragione di vitale importanza. Sentii una stretta al cuore. Quella sera cenai con Mahmud, cercando di non mostrare le mie apprensioni; appena il bambino andò a letto, mi ritirai in camera mia. Stetti a guardare fuori dalla finestra, attraverso la grata: la neve aveva smesso di cadere ed al debole chiarore della luna potevo scorgere i contorni del giardino, che amavo tanto. Intorno a me potevo avvertire il conforto, che mi veniva dalla mia vecchia casa e che costituiva il mio santuario, il mio rifugio. E adesso? Avrei ancora avuto la mia casa? Era un pensiero strano quello che mi si affacciava alla mente! Avevo avuto difatti sempre la sicurezza della famiglia, del denaro e del prestigio. Eppure
sentivo, senza alcun dubbio, che quello era un pensiero profetico. Le forze avverse, che si erano manifestate prima contro di me, avevano iniziato adesso la loro azione deleteria tra i miei familiari. Gran parte del mio 'potere', e della mia 'sicurezza' risiedevano in seno alla famiglia. Cosa sarebbe accaduto, se all'improvviso, avessero iniziato tutti in una volta, ad oppormi-si? Sicuramente era quella la vera ragione per cui il Signore aveva insistito che avessi il mio battesimo al più presto, anzi immediatamente. Egli mi conosceva! Sapeva qual'era il mio punto debole. Rimasi in piedi a guardare fuori dalla finestra. Scendeva la sera: i rami degli alberi oscillavano al vento, potevo scorgere i loro giochi d'ombre attraverso la grata della finestra. "O Signore", dissi, "Ti prego, non permettere che le ombre discendano su di me tutte in una volta. Fà che vengano una per volta". Non avevo nemmeno finito di mormorare quelle parole che sentii bussare alla porta. La cameriera del piano di sotto venne a portarmi un pacchetto. "È stato consegnato questo per voi", disse. Strappai con impazienza la carta che l'avvolgeva. Era una Bibbia. Sulla pagina interna c'era scritto: Alla nostra cara sorella, nel giorno del suo compleanno. Era firmato: Ken e Marie Old. Me lo strinsi al petto, ringraziando Dio per degli amici tanto cari. Aprii il libro ed il mio sguardo cadde su una pagina in cui sembravano risaltare queste parole: Li disperderò lontano... A quel tempo il significato di quelle parole era ancora un mistero per me. Capitolo 8 MA C'ERA POI PROTEZIONE? L'indomani mattina mi svegliai molto in apprensione. Oggi sarebbero venuti di nuovo i miei familiari, in massa oppure uno alla volta. In ambedue i casi ne temevo lo spiacevole confronto. Temevo le accuse, le lusinghe e le minacce che inevitabilmente mi sarebbero state fatte. Sopra ogni cosa, non volevo far loro del male. Credendo a stento che il Signore avrebbe esaudito la mia richiesta, chiesi a Raisham di portarmi i miei sari più belli, ne scelsi il più attraente; feci poi comunicare al servitore, addetto al cancello, che in quel giorno sarei stata felice di ricevere tutti i visitatori e quindi me ne andai in salotto. Lì mi sedetti su una delle poltrone di seta bianca e mi misi a leggere, mentre Mahmud giocava per terra con le sue automobiline: le faceva muovere da un punto all'altro, seguendo il disegno del grande tappeto persiano, che ricopriva il pavimento. Il grande orologio scolpito della sala suonò le dieci, le undici e finalmente mezzogiorno. Bene, pensai, sembra che abbiano in programma una visita pomeridiana. Fu servito il pranzo e dopo, mentre Mahmud faceva un sonnellino, io continuai la mia attesa. Finalmente alle tre sentii il rumore di un'auto che si fermava fuori. Ero pronta ad affrontare la battaglia quando sentii che l'auto ripartì. Che stava succedendo? Seppi dalla cameriera che era soltanto venuto qualcuno per una consegna. Dalle grandi finestre del salone vedevo calare la sera, mentre nella stanza le ombre si allungavano fino a toccare il soffitto. Arrivò una telefonata. Guardai l'orologio: erano le sette. Forse telefonavano, invece di venire di persona? Alzai il ricevitore e sentii dall'altro capo del filo una voce dolce che riconobbi subito: Marie Old. Sembrava alquanto preoccupata. Si era già sparsa la voce della mia conversione, come dimostrava, d'altronde, l'invasione del giorno prima da parte dei miei parenti. Perché allora quella preoccupazione? "Stai bene?" chiese Marie. "Sono stata molto in ansia per te". La rassicurai che stavo bene. Appena terminai la conversazione mi feci portare uno scialle e chiesi di preparare l'auto in fretta. In questo periodo freddo dell'anno la mia famiglia, normalmente, non mi avrebbe fatto visita dopo le otto di sera, così pensai che era meglio uscire. Strano che nessuno
dei miei parenti avesse telefonato o fosse venuto. Volevo essere rassicurata da una delle mie famiglie cristiane. Dagli Old, ad esempio. Perché Marie aveva fatto quella telefonata così misteriosa? Mi diressi verso la loro casa. Rimasi sorpresa nel trovarla completamente al buio. Accadde allora che, inaspettatamente, quasi all'improvviso mi spaventai. Appena mi avvicinai al cancello che dà sul loro cortile, sentii la paura che s'impadroniva di me, mi attanagliava nella sua morsa gelida. Gli angoli bui del cortile suscitavano in me brutti pensieri. Ero stata proprio sciocca ad uscire sola di sera! Cos'era quell'ombra nera? Il mio cuore batteva all'impazzata. Mi girai. Stavo per scappare verso l'auto. Invece mi fermai. No! Non era quello il modo di agire. Se facevo parte del Regno, avevo diritto alla protezione del Re. Rimasi lì in quell'oscurità terrificante, ero ancora molto impaurila. Volli deliberatamente rimettermi nelle mani del mio Re. "Gesù, Gesù, Gesù", dissi ripetutamele. Incredibilmente la paura si dileguò. Com'era venuta, così sparì. Ero libera! Rasserenata e quasi sorridendo, mi diressi verso casa Old. Dopo pochi passi, vidi uno spiraglio di luce che filtrava dalle tende accostate del salotto. Bussai. La porta venne aperta lentamente. Era Marie. Appena mi vide, tirò un sospiro di sollievo e prontamente mi attirò in casa, abbracciandomi. "Ken! Ken!" chiamò. Ken ci raggiunse subito. "O, grazie a Dio!" esclamò. "Eravamo in pena per te". Ken mi spiegò che il pastore pakistano, al mio battesimo, si era molto preoccupato per la mia incolumità e gli aveva detto che avevano commesso un errore a lasciarmi sola. "Ecco perché eri così preoccupata al telefono, Marie!". Repressi un riso nervoso. "Sono sicura che l'intera nazione verrà a sapere presto della mia conversione, ma ad ogni modo, vi ringrazio. Fino adesso, non è successo niente. Perfino la mia famiglia non si è fatta ancora vedere e non potete immaginare quanto sia riconoscente al Signore per la Sua risposta alla mia preghiera". "Ringraziamo insieme il Signore" disse Ken. C'inginocchiammo tutti e tre e Ken ringraziò il Signore per la protezione che mi aveva dato fino allora e Gli chiese di continuare a vigilare su di me. Feci ritorno a casa, arricchita dentro di me, perché di fronte alla paura mi ero rivolta al Signore, nel nome di Cristo Gesù. La servitù mi informò che non era arrivata nessuna telefonata per tutta la serata. Bene, pensai mentre mi preparavo ad andare a letto, aspetteremo domani. L'indomani, seduta in salotto, attesi nuovamente per tutto il giorno: pregando, pensando, osservando il mosaico bianco del pavimento e seguendo il disegno dei tappeti persiani. Non arrivò nessuna notizia. Che stava succedendo? Era una specie di caccia tra gatto e topo? Pensai allora di chiedere informazioni alla servitù. In Pakistan se si vuol sapere una cosa si deve chiedere ad un domestico. Riuscii finalmente a bloccare la mia cameriera personale: "Dimmi Nur-jan, cos'è successo alla mia famiglia?". "O Begum Sahib", rispose, trattenendo una risatina nervosa, "sono accadute delle cose strane! Sembra proprio che avessero tutti delle occupazioni allo stesso tempo! Vostro fratello doveva andare al torneo annuale di cricket invernale". Sorrisi: per mio fratello lo sport era molto più importante di una sorella che era sulla via dell'inferno! "Vostro zio Fateh doveva andare fuori provincia, per una causa in tribunale; vostra zia Amina doveva andare a Lahore, due dei vostri cugini erano stati chiamati fuori città per affari, e...". La fermai; non c'era bisogno che andasse oltre. Il Signore aveva detto che Egli li avrebbe dispersi lontano e difatti li aveva allontanati... Potevo quasi sentire il mio Signore ridacchiare... Non sarebbe certo avvenuto che i membri interessati della mia famiglia avrebbero lasciato cadere così la cosa, ma almeno sarebbero venuti uno alla volta. E così fu. La prima emissaria fu mia zia Amina, una donna sui settant'anni, dal portamento regale, di una bellezza orientale, che mi appariva sempre come una stonatura con la mobilia moderna - stile
europeo - del mio salotto. Per anni avevamo avuto una stretta relazione di amore e di fiducia. Appena la vidi entrare notai che la sua carnagione color magnolia appariva più pallida del solito e gli occhi grigi erano cerchiati dal dispiacere. Chiacchierammo un po'. Mi resi conto poi che stava arrivando al vero scopo della sua visita. Si schiarì la voce, si appoggiò allo schienale della poltrona e con tono casuale, chiese: "E... Bilquis... così... ho sentito... che sei diventata cristiana. È vero?". Le sorrisi soltanto. Cambiò posizione sulla poltrona, poi continuò. "Pensavo che avessero messo in giro delle false voci su di te". Esitò per un istante, i suoi occhi miti m'imploravano di dire che non era vero. "Non è una menzogna, zia Amina", risposi. "Mi sono arresa completamente a Cristo. Sono stata battezzata. Adesso sono una cristiana". La zia si portò le mani al viso. "Che errore madornale!" disse ad alta voce. Rimase seduta in silenzio assoluto, incapace di aggiungere altro. Poi aggiustatasi lo scialle, si alzò e con fredda dignità uscì da casa mia. Mi sentivo addolorata, chiesi al Signore di proteggerla dall'affronto che provava in cuor suo. Sapevo che avrei dovuto scoprire adesso come pregarLo per la mia famiglia. Mi sarei lasciata altrimenti alle spalle un mucchio di persone care, sconvolte nel loro intimo. "Signore", dissi, "l'ideale sarebbe, naturalmente, che ognuno di questi cari Ti conoscesse. Ma so che, anche se non sono convcrtiti, Tu li ami lo stesso ed in quest'istante Ti chiedo di toccarli uno per uno, benedicendoli, cominciando, se vuoi, da mia zia Amina. Grazie, Padre!". Il giorno successivo ripetei la stessa preghiera. Questa volta fu per Aslam, un caro vecchio cugino; un avvocato, che viveva a circa 80 chilometri da Wah. Essendo figlio di un fratello di mio padre, aveva ereditato molte delle caratteristiche di mio padre stesso: lo stesso sorriso cordiale, un garbato senso dell'umorismo. Mi piaceva, Aslam. Dal suo atteggiamento, potei capire che non era al corrente di tutti i particolari della faccenda. Scambiammo qualche frase scherzosa, poi Aslam disse: "Quando ci sarà la riunione di famiglia? Ti verrò a prendere io e ci andremo insieme". Feci una risatina. "Non so quando ci sarà, Aslam, ma so di sicuro che io non sarò invitata perché la riunione sarà fatta per discutere di me". Mi sembrò così disorientato che dovetti spiegargli ogni cosa. "Ma ti prego, va' alla riunione, Aslam", dissi, quando ebbi finito. "Forse potresti mettere una buona parola per me". Lo guardai mentre usciva mestamente da casa; era scontato, pensai, che stavamo per raggiungere il culmine. Sarebbe stato meglio andare a Rawalpindi e Lahore il più presto possibile. Non volevo che i miei figli Tooni e Khalid sentissero delle notizie incomplete o alterate su di me. Non potevo far niente personalmente per mia figlia Khalida, che viveva in Africa. Ma potevo ben affrontare Khalid e Tooni. Il giorno seguente andai a Lahore. Khalid aveva incontrato molto bene negli affari e la casa rifletteva la posizione raggiunta. Un bel villino in città, circondato da ampie verande e da un prato mantenuto con molta cura. Entrammo con la macchina attraverso il cancello, parcheggiammo vicino all'ingresso e camminammo fino alla grande veranda. Khalid, messo all'erta dal resto dei familiari e da una mia lunga telefonata, si affrettò a venirmi a salutare. "Mamma! Come son contento di vederti", disse, per quanto sentissi che mi dava il benvenuto con un certo imbarazzo. Parlammo tutto il pomeriggio su quel che avevo fatto, ma alla fine sentivo che Khalid non mi aveva capito per niente. La prossima persona da visitare era Tooni. Andai a Rawalpindi, direttamente all'ospedale. La feci chiamare e mentre ero in attesa, mi chiedevo come avrei dovuto dirglielo. Senza dubbio aveva già sentito qualcosa ed era stata informata di prima mano che io leggevo la Bibbia. Forse aveva anche ascoltato, casualmente, qualche brano della mia conversazione con la suora cattolica, la dottoressa Santiago, in questo stesso ospedale dove Mahmud era stato ricoverato in precedenza. Una cosa però non sapeva: com'era cambiata la mia vita, dopo la visita della dottoressa Santiago; difatti era stata quella piccola suora, che mi aveva incoraggiato a pregare Dio, rivolgendomi a Lui come a un padre. "Mamma!". Alzai gli occhi verso Tooni, che si affrettava a venire verso di me, i capelli castani in
netto contrasto con il camice bianco inamidato, il viso raggiante, le braccia aperte. Mi alzai, ero sconvolta dall'emozione. Pensavo a come avrei potuto darle la notizia. Volevo usare delle maniere gentili, moderate, ma il timore della pressione da parte di Tooni era troppo incalzante. Senza tentare nemmeno di essere circospetta, dissi sconsideratamente: "Tooni, preparati ad un colpo, cara. Due giorni fa sono ... sono stata battezzata". Tooni rimase sconvolta, con la mano distesa, gli occhi suoi sensibili, pieni di lacrime. Si lasciò cadere sul divano, di fianco a me. "Sapevo che saresti arrivata a questo", disse con un filo di voce, che riuscii a stento a sentire. Cercai di consolarla, ma senza alcun risultato. "Non serve a niente fingere di continuare il lavoro", disse Tooni. Chiese perciò il permesso di andar via più presto ed andammo insieme in auto al suo appartamento. Il telefono squillò proprio mentre apriva la porta; corse dentro, alzò il ricevitore e si girò verso di me. "È Nina". Era una nipote che viveva anche lei a Rawalpindi. "Vuol sapere se è vero". Si girò di nuovo verso l'apparecchio: Nina evidentemente aveva ripreso a parlare; potevo sentire la sua voce da dove ero seduta! Tooni disse allora in tono sommesso : "Sì, è vero Nina. Lo ha proprio fatto". Nina dovette allora metter giù la cornetta, perché Tooni scostò il ricevitore dall'orecchio, lo fissò, poi alzando le spalle, lo rimise lentamente a posto. Sarebbe stato bene dare a Tooni il tempo di riordinare le idee. Raccolsi perciò le mie cose per andarmene. "Vieni a trovarmi, cara" dissi "quando ti senti di venire. Parleremo insieme". Tooni non fece obiezioni; dopo pochi minuti mi trovavo sulla strada nazionale, diretta a casa. Nello stesso istante in cui arrivai, i servitori si raccolsero intorno a me. Nur-jan si torceva le mani paffute e perfino il viso di Raisham era più pallido del solito. Il telefono aveva squillato per tutto il giorno, i parenti erano venuti davanti al cancello, a chiedere di me, fin da prima mattina. Anche mentre i servitori chiacchieravano, il telefono trillò nuovamente. Era il marito di mia sorella, Jamil, che lavorava in una società petrolifera britannica. Avevo sempre ritenuto Jamil un uomo di mondo, ma ora la sua voce non mi appariva più tanto sicura di sé. "Bilquis, ho sentito delle cose molto strane, ma non posso crederci", disse seccamente. "Un amico di affari mi ha detto di aver sentito che eri diventata cristiana. Naturalmente gli ho riso in faccia, assicurandolo che non sarebbe mai accaduta una cosa simile". La voce si stava veramente diffondendo con rapidità. Non dissi nulla. "Bilquis!" La voce di Jamil si fece più insistente. "Mi hai sentito?". "Sì". "Questa storia non è vera, non è così?". "Sì, è vera". Ci fu un'altra pausa. Poi: "Va bene, va proprio bene!" Jamil disse aspramente. "Hai perso molto di più di quanto pensi. E per che cosa poi? Solamente per un altro punto di vista religioso. Questo è tutto". E riattaccò. Dopo dieci minuti Tooni mi telefonò singhiozzando. "Mamma, lo zio Nawaz ha appena telefonato per dire che adesso il padre di Mahmud potrà riprendersi il bambino. Nawaz ha detto che nessun tribunale ti permetterebbe di tenerlo!". Cercai di confortarla ma lei riattaccò singhiozzando. Quella sera, sul tardi, mentre Mahmud ed io stavamo cenando in camera mia, vennero Tooni e due mie nipoti. Mi allarmai vedendo i loro visi tanto pallidi. "Sedetevi e cenate con me" dissi. "Farò portare su la vostra cena". Sia Tooni che le mie nipoti toccarono appena il cibo. Ero contenta di rivedere le due ragazze, ma era palese che loro non erano altrettanto contente di rivedere me! La conversazione si mantenne sul banale; le tre donne lanciavano occhiate a Mahmud proponendogli indirettamente di andare fuori a giocare. Fu soltanto dopo che il bambino se ne fu andato, che una delle mie nipoti si piegò in avanti ed in tono ansioso mi disse: "Zia, ti rendi conto che significhi questo per gli altri?". Poi scoppiò in lacrime. "Hai pensato anche a qualcun altro?". Potevo leggere la sua stessa domanda negli occhi scuri dell'altra nipote, che sedeva in silenzio di fronte a me. Raggiunsi l'altro capo della tavola e presi la mano affusolata della ragazza. "Mia cara", dissi in tono
addolorato, "non posso fare nient'altro che obbedire". Tooni mi fissò allora con gli occhi pieni di lacrime e, come se non avesse affatto sentito quel che avevo detto, m'implorò: "Mamma, prepara la tua roba e parti. Parti mentre c'è ancora qualcosa o qualcuno... con cui andar via". Alzò la voce. "Sai che cosa dicono? Che verrai attaccata. Tuo fratello stesso potrebbe essere costretto ad agire contro di te". E poi con la voce rotta dai singhiozzi: "I miei amici dicono che verrai ammazzata, mamma!". "Mi dispiace, Tooni, ma non ho intenzione di scappare", risposi con calma. "Se vado via adesso, continuerò a fuggire per il resto della mia vita". Mentre parlavo mi sentivo risoluta a prendere quella decisione. "Se Dio vuole, Egli si prenderà certamente cura di me, mentre rimango a casa mia. Perché nessuno, nessuno", dissi "mi metterà fuori". Mi raddrizzai sulla sedia, assumendo all'improvviso un tono melodrammatico. "Lascia che vengano e che attacchino!". E poi, mentre rimanevo seduta, sentendomi così orgogliosamente sicura di me, accadde qualcosa. Non avvertivo più la calda, personale presenza del Signore. Rimasi seduta, quasi in preda al panico, ignorando completamente le voci che si levavano intorno a me. Mi resi però subito conto di quel ch'era accaduto. La mia vecchia natura, ancora orgogliosa ed ostinata, aveva preso il sopravvento. Avevo deciso che qualsiasi cosa fosse accaduta, nessuno mi avrebbe smossa da casa mia. Mi rilassai sulla sedia, rendendomi appena conto che Tooni si stava rivolgendo a me. "... va bene, allora, mamma", Tooni diceva piangendo. "Sei diventata allora una cristiana. Ma devi diventare anche una martire cristiana?". S'inginocchiò accanto alla mia sedia appoggiando la testa sulla mia spalla. "Non ti rendi conto che ti amiamo?". "Certo cara, naturalmente", mormorai, accarezzandole i capelli. Dentro di me chiesi il Suo perdono per essere così testarda. Dovunque Dio avesse voluto che io andassi, andava bene per me, anche se questo stava a significare di lasciare la mia casa. Appena ebbi detto quelle parole nel mio cuore, sentii di nuovo la presenza del Padre. Lo scambio di parole era avvenuto in pochi minuti soltanto, ma anche se le tre donne, sedute di fronte a me, continuavano a parlare, ero consapevole che la vita stava continuando anche ad un altro livello. Il Signore, proprio in quel momento stava operando in me, insegnandomi. Mi stava mostrando chiaramente come rimanere alla Sua presenza. "... faremo così, allora? Va bene?". Era la voce di Tooni, non avevo la benché minima idea su che cosa mi stava chiedendo di essere d'accordo... Per fortuna continuò. "Se il padre di Mahmud viene per togliertelo, puoi lasciare che il bambino lo prenda io. Io non sono diventata cristiana", aggiunse con tono pungente. Le tre ragazze si erano finalmente calmate. Proposi loro di trascorrere la notte a casa mia; acconsentirono. Mentre auguravo la buonanotte a Tooni ed alle mie nipoti, pensai a come erano cambiati i ruoli. Un tempo ero io a proteggerle ed a preoccuparmi per loro; adesso invece eravamo ugualmente preoccupate l'una per l'altra. Quella sera pregai: "Signore, è così difficile parlare ad una persona che non ha fede in Te. Ti prego aiuta la mia famiglia. Sono così preoccupata per il benessere dei miei cari". Mi lasciai prendere dal sonno, e nuovamente mi sembrò che il mio corpo galleggiasse. Mi ritrovai in piedi su di un pendìo erboso, circondato da alberi di pino. Una sorgente zampillava poco distante. Tutt'intorno a me c'erano angeli, erano tanti che sembravano formare una cortina. Gli angeli mi esortarono ad avere coraggio. Poi mi trovai di nuovo a letto. Mi alzai e sentendo ancora il beneficio di quella forza spirituale, andai nella camera di Mahmud. Additai il bambino sul letto, poi andai nelle stanze di mia figlia e delle mie nipoti e ripetei lo stesso gesto. Ritornai in camera mia e mi misi in ginocchio. "Signore", pregai, "Mi hai dato tante risposte, adesso mostrami, Ti prego, che cosa hai intenzione di fare con Mahmud. Vorrei dare a Tooni una certa sicurezza". Mi sentii spinta ad aprire la Bibbia e lessi il passo che risaltava nella pagina: Genesi 22:12 - "Non metter la mano addosso al ragazzo, e non gli fare alcun male...". "O Padre grazie", mormorai, tirando un sospiro di sollievo. A colazione potei rassicurare Tooni. "Mia cara, non accadrà niente a tuo figlio; non devi preoccuparti". Le mostrai il passo della Scrittura, rivelatomi dal Signore. Non so se la mia fede
l'aveva influenzata o se era stata toccata dallo Spirito Santo, quel che so è che il viso di Tooni mi appariva sereno e rilassato e, per la prima volta in due giorni, sorrise! Sia mia figlia che le mie nipoti lasciarono la mia casa con un aspetto meno triste di quando erano arrivate. Continuò però ad arrivare la marea di parenti ed amici. Qualche giorno più tardi Raisham annunciò che erano venute sette persone, tutti carissimi amici miei, che desideravano vedermi. Non volli affrontarli senza Mahmud. Il bambino doveva essere al corrente di quanto stava accadendo. Lo cercai, ed insieme andammo in salotto. Li trovai seduti impettiti sulle sedie; non avevano certo un aspetto rilassato. Dopo il tè, i pasticcini ed una breve chiacchierata, uno dei presenti si schiarì la voce. Mi preparai a quel che stava per dire. "Bilquis", disse un amico, che conoscevo fin da bambina, "noi ti vogliamo bene; abbiamo pensato a quanto hai fatto ed avremmo un suggerimento, che riteniamo potrebbe esserti di qualche utilità". "Sì?". Si piegò in avanti, sorridendo. "Non dichiarare pubblicamente il tuo cristianesimo". "Intendi dire di mantenere segreta la mia fede?". "Beh!...". "Non posso", risposi. "Non posso scherzare con Dio. Se devo morire, morirò". Mi sembrò che tutti e sette si stringessero intorno a me. Un vecchio amico di mio padre mi lanciò un'occhiata torva. Stavo per ricambiargli l'occhiataccia, ma mi trattenni. In effetti, pensavano di agire per il mio bene. "Mi dispiace" dissi, "ma non posso proprio fare quel che mi chiedete". Spiegai loro che la mia fede era diventata in poco più di un mese la cosa più importante della mia vita. "Non posso proprio tacere", dissi. Citai quel passo biblico in cui il Signore dice: "Chiunque dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io riconoscerò lui davanti al Padre mio che è nei cieli. Ma chiunque mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io rinnegherò lui davanti al Padre mio che è nei cieli". Matteo 10: 32-33 "Ma", disse un altro signore anziano, "tu sei in una situazione molto particolare. Sono sicuro che al tuo Dio non dispiacerebbe se te ne stessi zitta. Egli sa che credi in Lui. E questo basta". Citò la legge del Corano sull'apostasia. "Abbiamo paura", disse "che qualcuno ti uccida". Sorrisi. Ma nessun altro m'imitò! Era una discussione inutile, come avevamo avuto modo di appurare. Quando si alzarono per andarsene, mi venne dato l'ultimatum. "Ricordati, Bilquis, che se ti troverai in difficoltà nessuno dei tuoi amici o dei tuoi familiari ti sosterrà. Quelli che adesso si preoccupano di più per te, quel giorno dovranno girarti le spalle". Annuii col capo. Avevo capito bene le loro parole. Mi auguravo adesso che Mahmud fosse andato in giardino a giocare, piuttosto che star lì ad ascoltare quelle minacce. Quando mi voltai per guardarlo, stava seduto sulla sua sediolina, accanto a me; mi guardò e mi sorrise. Sembrava dirmi: "Va tutto bene". Il gruppo stava per accomiatarsi e qualcuno era prossimo alle lacrime. Un'amica intima di mia madre volle baciarmi. "Arnvederci", disse. Ripetè ancora: "Arnvederci" con una strana enfasi. Poi prorompendo in lacrime, si staccò da me, affrettandosi verso la porta. Dopo che se ne furono andati la casa sembrava una tomba. Perfino i giochi di Mahmud, di solito rumorosi, erano più calmi. Trascorsero tre settimane, durante le quali, l'unico suono che si sentiva a casa mia era il vocìo sommesso della servitù. Se non fosse stato per i Mitchell e gli Old e per le nostre riunioni della domenica sera, mi domando se il congelamento non stesse forse funzionando. Ogni giorno che passava la linea di condotta adottata dalla mia famiglia appariva sempre più chiara. Potei scorgerla nel viso adirato di un cugino, che incontrai nel bazar. L'avvertii nell'occhiata sprezzante di un nipote, che incontrai per strada a Rawalpindi. Era nella voce fredda di una zia che telefonò per dirmi che non poteva mantenere l'appuntamento per l'invito a pranzo. Il boicottaggio
era cominciato. Il telefono rimase silenzioso, nessuno suonò il campanello del mio cancello. Nessun membro della famiglia venne a farmi visita, nemmeno per venire a rimproverarmi. Non potevo far niente altro che ricordarmi di un verso del Corano (Sura 47:24-25): Sarebbe dunque avvenuto che voi avreste portato la corruzione sulla terra, se vi foste allontanati dalla fede, e avreste spezzato i vostri vincoli di consanguineità? Costoro sono quelli che Dio ha maledetto, ha reso sordi, e ne ha accecato gli occhi. Si stava avverando in una maniera molto reale. Avevo violato i legami di sangue e senza dubbio non avrei rivisto più la mia famiglia, né avrei avuto più loro notizie. I servitori quando entravano o uscivano dalle mie stanze parlavano e ridevano a bassa voce. Potevo a stento far dire loro più del solito: "Sì, Begum Sahib". E una mattina il boicottaggio prese poi una strana piega. Sentii uno scatto leggero alla porta; mi voltai e vidi Nur-jan che entrava piano per preparare la mia toilette. Non aveva la sua solita esuberanza. Raisham entrò poi nella stanza con un tono più solenne del solito. Svolgevano il loro lavoro senza parlare; mi chiesi il perché di quell'espressione preoccupata sui loro volti. Mi aspettavo di sentire qualche parola, ma Nur-jan continuava il suo lavoro in silenzio, senza le solite chiacchiere e pettegolezzi. Il viso di Raisham era serio e pallido. Alla fine, non resistendo, con un po' del vecchio fuoco nella voce dissi: "Va bene, so che c'è qualcosa che non va. Ditemi di che si tratta". Raisham smise di spazzolarmi, mentre mi dava la notizia. Eccetto lei, che ora mi stava di fronte, tutti gli altri servitori cristiani, compreso Manzur, avevano lasciato la mia casa durante la notte. Capitolo 9 IL BOICOTTAGGIO Che stava a significare questa defezione? Quattro servitori se ne erano andati! In una cittadina come Wah, dove era difficile trovare un lavoro, le loro decisioni apparivano difficili da capire. Era paura naturalmente. Manzur aveva paura perché gli avevo chiesto di procurarmi una Bibbia ed accompagnarmi in macchina a casa dei missionari. Gli altri tre servitori cristiani dovevano aver intuito le sue preoccupazioni. Dovevano aver sentito i brontolii di un vulcano che presto avrebbe eruttato e non volevano essere travolti dalle circostanze. Ma che dire di Raisham, questa domestica cristiana, che adesso aveva nuovamente ripreso a spazzolarmi i capelli? Potevo avvertire il tremolìo delle sue mani aggraziate. "E tu?" chiesi. Si morse le labbra, mentre continuava sempre a spazzolarmi. "Non sarei dovuta rimanere", disse a bassa voce. "Adesso mi sentirò..." "Molto sola", terminai io la frase. "Sì", disse deglutendo "e...". "Ed hai paura. Raisham, se te ne vai, io non ti biasimo. Devi prendere la tua decisione, come ho fatto io. Se nonostante tutto rimani, ricordati che Gesù ci ha detto che saremmo stati perseguitati per cagione sua". Raisham annuì, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. Prese una forcina che teneva in bocca e cominciò ad appuntarmi i capelli. "Lo so", disse tristemente. Raisham rimase silenziosa per il resto del giorno. Le sue preoccupazioni influenzarono Nur-jan, che era prossima ad una crisi isterica. La mattina successiva, al mio risveglio, non mi decidevo a suonare il campanello. Chi era rimasto ancora con me? La porta della mia camera si aprì piano, entrò Nur-jan. La seguiva un'altra forma, che riuscii ad intravvedere appena, nella semi-oscurità di quell'alba invernale. Era Raisham!
In seguito le dissi di come avevo apprezzato il fatto che fosse rimasta. Arrossì. "Begum Sahib Gi", disse dolcemente, aggiungendo il terzo attributo che stava a significare amorevolmente: Possiate avere lunga vita, "Come voi servite il Signore, così io servirò voi". La mia casa adesso era diventata ancora più quieta, anche perché non avevo rimpiazzato tutti i servitori cristiani, che mi avevano lasciata. Le mie necessità si erano ridotte ora che nessun familiare veniva più a trovarmi. Decisi di non assumere più personale cristiano per un certo tempo. Trovai un nuovo autista, un musulmano di nome Fazad ed un altro musulmano aiutante cuoco; non presi nessun altro a servizio. Ero in particolar modo contenta per Mahmud, che continuava a giocare felicemente in casa o fuori, in giardino. Lo incoraggiai ad invitare qualche amico del villaggio, suggerimento che il bambino accettò prontamente. La maggior parte dei bambini erano un poco più grandi di Mahmud, che aveva solo cinque anni. Ma nonostante la differenza di età era Mahmud il loro capo... non penso però che questa supremazia fosse da attribuire soltanto al fatto che era il padroncino di casa, ma anche ai settecento anni di posizione di comando che erano un'eredità genetica del bambino. Tale autorità non si poteva disconoscere, come non si poteva negare la limpidezza ed il candore dei suoi occhi scuri. In che misura stavo mettendo a repentaglio una tale eredità? In che misura stavo minando i suoi legittimi vincoli familiari? Proprio il giorno prima aveva chiesto nuovamente quando suo cugino Karim l'avrebbe accompagnato a pescare. Karim aveva infatti promesso d'insegnare a Mahmud come prendere una trota, mentre il pesce scivolava tra le pietre ricoperte di muschio del ruscello del nostro giardino. Il piccolo corso d'acqua andava poi a raggiungere il fiume Tahmra. "Mamma!". Mahmud mi aveva chiesto. "Quando verrà Karim?". Guardai il bambino: i suoi occhi brillavano. Non mi sentivo proprio in cuore di dirgli che quella partita di pesca non avrebbe mai avuto luogo. Mahmud, data la sua età, non poteva ancora sentirsi spinto a conoscere meglio Gesù. Cominciai a leggergli dei racconti biblici; gli piacevano tanto che pensai di anticipare l'ora di andare a letto per avere più tempo insieme per leggerli, mentre era coricato. Ma cos'erano dei racconti paragonati ad una partita di pesca? E gli amici? A poco a poco gli amici di Mahmud non vennero più a giocare. Mahmud non riusciva a capire il perché; quando provai a spiegarglielo mi guardò perplesso. "Mamma", disse, "chi ami di più, me o Gesù?". Cosa dovevo rispondere? In special modo adesso che era così solo? "Dio deve venir prima, Mahmud", dissi parafrasando l'avvertimento del Signore che se non mettiamo la famiglia dopo di Lui, non apparteniamo veramente a Lui. "Dobbiamo mettere il Signore al primo posto", dissi, "anche prima delle persone che amiamo di più al mondo". Mahmud sembrò accettare quella spiegazione. Sembrava anche che mi seguisse quando gli leggevo la Bibbia. Una volta, dopo avergli letto "Venite a me voi tutti che siete stanchi ed aggravati ed io vi darò riposo", sentii la sua preghiera prima di addormentarsi: "Gesù, io ti amo e verrò a Te, ma... per favore non mi dare riposo. A me non piace riposare". Giungeva perfino le manine e pregava, ma sapevo che era difficile per lui stare da solo e vedermi sola. Nessun parente, amico o conoscente imboccò più il sentiero che porta a casa mia; neanche il telefono squillò più. Una notte, alle 3 trillò il telefono bianco sul mio comodino. Raggiunsi l'apparecchio, mentre il cuore mi batteva forte. Nessuno avrebbe chiamato a quell'ora a meno che non vi fosse stato qualcosa di molto grave, forse una morte in famiglia. Alzai la cornetta, dapprima sentii soltanto un respiro affannoso. Poi tre parole mi vennero lanciate contro come pietre: "Infedele. Infedele. Infedele". Interruppero poi la comunicazione. Mi distesi sul letto. Chi era stato? Uno di quei fanatici di cui mi avevano messo sull'avviso i miei zii? Cosa avrebbero potuto fare? "O Signore, Tu sai che non mi dispiace morire. Ma sono una vigliacca. Non sopporto il dolore. Tu sai che mi sento venir meno quando il medico mi fa un'iniezione. Ti prego di rendermi capace di sopportare il dolore, se verrà". Gli occhi mi si riempirono di lacrime. "Ammetto di non aver la stoffa dei martiri, Signore. Mi dispiace. Fammi stare soltanto in comunione con Te, qualsiasi cosa
avvenga!". Seguì poi una lettera minatoria anonima. "Vogliamo essere chiari. Esiste solo una parola per descrivervi. Traditrice". Poi ne giunse un'altra e dopo poco un'altra ancora. Mi davano tutte degli avvertimenti. Ero un'apostata e sarei stata trattata come tale. Un pomeriggio, sul tardi, nell'estate 1967, circa sei mesi dopo la mia conversione, mi trovavo in giardino con uno di quei fogli appallottolati in pugno. Era una lettera particolarmente cattiva, al vetriolo. Mi definiva più che un'infedele, una sedut-trice di fedeli. I veri credenti, diceva la lettera, avrebbero dovuto eliminarmi, bruciandomi, come si fa con la cancrena che ha colpito un arto sano. Bruciandomi? Era solo un modo di dire? Continuai a camminare nel giardino, tutt'intorno c'erano aiuole con fiori dai colori smaglianti: tulipani, giacinti, alissi. La primavera aveva ceduto il posto all'estate. I cotogni fiorivano, mentre cadevano gli ultimi petali bianchi dei peri. Mi girai a guardare la mia casa. "Non la toccheranno!" dissi tra me. Non elimineranno una begum! Ma, come a conferma del fatto che non potevo più contare su alcuna protezione, derivantemi dalla mia posizione sociale e dai miei beni, venne qualcuno a farmi visita. La sua presenza mi fu annunziata da un'inserviente. "Il Generale Amar sta aspettando, vorrebbe vedervi, Begum". Ebbi un tuffo al cuore. Guardai attraverso il cancello e vidi un'auto di rappresentanza, che mi era familiare, dal colore grigio-verde. Il Generale Amar era un caro vecchio amico, fin dal tempo in cui prestavo servizio nell'esercito. Durante la IIa guerra mondiale avevo lavorato con lui che ora era diventato uno dei primi generali nell'esercito pakistano. Eravamo rimasti in contatto per tutti quegli anni, in special modo nel periodo in cui mio marito era Ministro degli Interni e lavoravano insieme. Era venuto anche lui per condannarmi? Sentii i suoi passi risuonare sul sentiero del giardino: camminava risolutamente venendomi incontro. Era tutto tirato a lucido in un'inappuntabile uniforme color cachi, calzoni da cavallerizzo e stivali di cuoio. Mi prese la mano e me la baciò. La mia apprensione diminuì un poco; evidentemente non era in missione di guerra... Mi guardò, gli occhi scuri brillavano di malizia. Come sempre, il Generale arrivò diritto al punto. "È vero quel che dice la gente?". "Sì", risposi. "Che cosa ti ha spinto a farlo?" esclamò. "Ti sei messa in una situazione molto pericolosa. Ho sentito dire che vogliono ammazzarti". Lo guardai in silenzio. "E va bene", aggiunse mentre si sedeva su una panchina del giardino. La cintura di cuoio scricchiolò. "Sai che sono come un fratello per te?" disse. "Lo spero". "E come un fratello sento di doverti proteggere amorevolmente". "Te ne ringrazio". "Sappi allora che la mia casa è sempre aperta per te". Sorrisi. Era la prima cosa gentile che qualcuno mi avesse detto negli ultimi tempi. "Ma", il Generale continuò, "c'è qualcosa che dovresti sapere. Questa è una proposta mia personale". Si chinò su di un fiore, lo piegò verso di sé e ne aspirò il profumo; poi si voltò verso di me ed aggiunse: "Ufficialmente non c'è molto che io possa fare per te,Bilquis". "Lo so". Presi la mano del Generale, ci alzammo dalla panchina e passeggiammo su e giù per la terrazza, poi entrammo in casa. Mentre camminavamo, gli raccontai di come le cose non erano state certo facili per me. "E nemmeno lo diventeranno, mia cara", disse il mio amico, nel suo modo casuale di parlare. Più tardi, dopo che ebbi ordinato il té in salotto, mi chiese con un sorriso un po' scherzoso: "Dimmi, Bilquis, perché l'hai fatto?". Spiegai quel ch'era avvenuto e notai che il Generale Amar mi seguiva attentamente. Che cosa straordinaria! Stavo dando, senza rendermene conto, quel che i missionari chiamano testimonianza! Stavo parlando di Cristo ad un musulmano e per giunta ad un alto ufficiale, che per di più era
interessato a ciò che dicevo! Ho i miei dubbi se davvero toccai il suo cuore, quel pomeriggio, ma una mezz'ora più tardi, quando si accomiatò da me, il suo stato d'animo rifletteva quanto accoratamente gli avevo raccontato. Era il crepuscolo, quando mi salutò, baciandomi di nuovo la mano. "Ricordati, Bilquis", disse con voce rauca, "in qualsiasi momento avessi bisogno del mio aiuto... come amico... farò quello che mi sarà possibile!". "Grazie, Amar", risposi. Si girò sui tacchi, che risuonarono sulle piastrelle del corridoio. Uscì nella penombra della sera e si diresse verso la sua auto di rappresentanza. Era terminata quella visita così insolitamente triste. Mi domandai se l'avrei rivisto ancora. Per la prima volta, nel corso di quel boicottaggio, tra lettere anonime, telefonate ed avvertimenti da parte di vecchi amici, stavo imparando che cosa significasse vivere ora per ora. Era esattamente l'opposto della preoccupazione. Ero in attesa di sperimentare quel che Egli avrebbe permesso che avvenisse. Ero pienamente convinta che non accadesse nulla senza che Egli lo permettesse. Sapevo, ad esempio, che sarebbe aumentata la pressione contro di me. Se questo si fosse verificato, sarebbe stato Dio a permetterlo ed io avrei dovuto imparare a ricercare la Sua comunione nel mezzo di un eventuale disastro. Avrei vissuto ora per ora mantenendomi vicino a Lui. Era quanto mi ero proposta di fare. Imparare a conservare la Sua compagnia, così che qualsiasi cosa fosse accaduta, in qualsiasi momento, io sarei rimasta sempre nella Sua gloria. Con la crescente pressione esercitata su di me da parte della mia famiglia, capii come il Re Davide si era dovuto sentire quando, fuggendo davanti a suo figlio, Absalom, prese la sua lira e cantò: "Ma tu, o Eterno, sei uno scudo attorno a me, sei la mia gloria..." (Salmo 3:3). Per gloria, ritengo che considerasse l'indicibile beatitudine, la gioia e la felicità dei santi in cielo. Per il momento la pressione da parte della mia famiglia era costituita ancora dal boicottaggio. Nessun membro della mia famiglia mi chiamò, nemmeno per rimproverarmi. Tranne in qualche rara occasione non mi chiamò nessuno dei miei vecchi amici. Continuarono i sogghigni beffardi nella piazza del mercato. Mi tennero volutamente in disparte dai grandi eventi di famiglia: nascite, morti, matrimoni. In qualsiasi momento mi lasciassi prendere dalla solitudine che quella situazione mi causava, la gloria cominciava a diminuire, lo sentivo; ed allora immediatamente rivolgevo i miei pensieri, con un puro atto di volontà, alle volte in cui anche Gesù si era sentito solo. Mi aiutava molto. Ma mi resi conto, con una certa sorpresa, che avevo disperatamente bisogno di semplice amicizia. Io che mi ero tenuta così a distanza da tutti, ero adesso bisognosa di contatto umano. Perfino gli Old ed i Mitchell non venivano più a casa mia. Avevo chiesto loro di non farmi visita per la propria sicurezza. Un pomeriggio nuvoloso mi ero ritirata nella mia camera per leggere la Bibbia. Era una giornata insolitamente fredda, pur essendo già iniziata l'estate. Un forte vento scuoteva le finestre. Appena iniziai a leggere avvertii un calore sulla mano; era un raggio di sole che si era posato sul mio braccio. Guardai fuori della finestra, giusto in tempo per vedere il sole che scompariva di nuovo tra le nuvole. Per un attimo sembrò che Egli mi avesse raggiunta, toccandomi la mano in segno di conforto. Guardai verso l'alto, "Oh Signore", dissi. "Mi sento così sola; mi si asciuga perfino la lingua per il non parlare. Ti prego, mandami qualcuno con cui parlare, oggi". Sentendomi un po' sciocca per aver fatto una richiesta così puerile, ritornai alla mia lettura biblica. Dopo tutto avevo la Sua compagnia e mi bastava. Ma dopo un po', con un certo stupore, sentii delle voci, giù nell'atrio. Era un suono che ormai non mi era più familiare. M'infilai un vestito e mi precipitai in anticamera. Per le scale incontrai Nur-jan che, senza fiato, mi veniva incontro. "Oh, Be-gum Sahib", disse gridando concitatamente, "sono venuti i signori Old". "Gloria a Dio" esclamai, affrettandomi ad andare loro incontro. Naturalmente mi vedevo con Ken e Marie al culto la domenica, a casa loro; quest'incontro era però diverso, interrompeva la monotonia di una lunga settimana. Marie mi venne incontro, prendendomi la mano. "Dovevamo proprio vederti, Bilquis", disse, mentre gli occhi azzurri le brillavano per la gioia. "Non c'era alcun motivo
tranne quello che ci fa piacere stare con te". Che bella visita fu! Mentre parlavamo, mi resi conto che avevo sbagliato non chiedendo agli altri di venirmi a fare visita. L'orgoglio mi aveva trattenuto dall'ammetterne il bisogno. All'improvviso ebbi un'ispirazione. Perché non invitare le persone a casa mia, per il culto della domenica? Ma questa decisione non avrebbe forse aggiunto polvere da sparo al fuoco già acceso? Cercai di scacciare quel pensiero, ma senza riuscirvi. Mentre i miei amici stavano sul punto di lasciarmi, dissi prontamente: "Vorreste venire a casa mia per il culto di domenica sera?". Gli Old mi guardarono con aria meravigliata. "Lo desidero tanto" dissi, allargando le braccia. "Questa vecchia casa ha bisogno di un po' di vita". Rimanemmo così d'accordo. Quella sera, mentre mi preparavo per andare a letto, pensai a come il Signore provvede per noi, meravigliosamente. Mi erano stati tolti familiari ed amici, ma Egli li aveva rimpiazzati con la Sua propria famiglia ed altri amici. Dormii tranquillamente e mi svegliai con la sensazione che un sole caldo penetrasse attraverso la finestra. Mi alzai ed aprii la finestra, godendomi la brezza leggera che entrava nella stanza. Nell'odore di terra potevo avvertire il caldo respiro della piena estate, che ormai ci aveva raggiunti. Non vedevo l'ora che venisse la domenica sera. Il pomeriggio del sabato la mia vecchia casa era piena di fiori, i vetri delle finestre scintillanti, i pavimenti strofinati fino a farli risplendere. Suggerii a Raisham di unirsi a noi, se le faceva piacere, ma era incerta, non era ancora pronta per un passo tanto audace. Non volli forzarla. La domenica trascorse nel mantenere Mahmud lontano dal salotto, nel raddrizzare il tappeto persiano, nell'aggiustare continuamente i fiori nei vasi e nello scovare qua e là un granello di polvere da togliere. Finalmente sentii aprire il cancello e le auto che facevano scricchiolare la ghiaia lungo il viale. La serata si svolse proprio come me l'aspettavo: cantammo, pregammo e testimoniammo quello che il Signore stava operando tra di noi. Eravamo in dodici, oltre a Mahmud; stavamo seduti confortevolmente in circolo, nel salotto, ma avrei giurato che lì c'erano almeno un migliaio di altri ospiti invisibili, benvenuti. La serata ebbe anche un altro risvolto, che non avevo previsto. Scoprii che i miei amici cristiani erano ancora molto preoccupati per me. "Sei abbastanza prudente?". Era Marie a parlare. Risi. "Beh, non c'è molto da fare. Se qualcuno vuoi farmi del male sono sicura che troverà il modo". Ken guardò attentamente le finestre del salotto e poi la grande porta a vetri, che dava sul giardino. "Veramente il posto non offre molta sicurezza", disse. "Non mi ero reso conto di come fossi esposta e vulnerabile". "E com'è la tua camera?" chiese Synnove. Ognuno ritenne opportuno dare un'occhiata alla mia stanza, così ci dirigemmo tutti al piano superiore. Ken era particolarmente interessato alle finestre, che affacciavano sul giardino; l'unica protezione era costituita dai vetri e da una grata in filigrana. Scosse la testa. "Non è affatto sicuro. Dovresti provvedere, Bilquis, a far installare un'inferriata di metallo pesante. Chiunque potrebbe entrare così com'è". Risposi che me ne sarei occupata il giorno dopo. Fu la mia immaginazione oppure la Sua gloria diminuì un pochino dopo aver fatto quella promessa? Alla fine ci salutammo ed io andai a coricarmi felice, come non lo ero stata da tempo. Il giorno seguente però, mentre mi accingevo a mandare a chiamare il fabbro ferraio del villaggio, mi sentii nuovamente conscia dell'improvvisa diminuizione della gloria del Signore. Perché? Era forse causata dal fatto che volevo compiere un'azione che traeva origine dalla paura? Una cosa era certa, che ogni qualvolta avevo l'intenzione di chiamare il fabbro ferraio c'era qualcosa che me lo impediva. Mi resi poi conto del perché. Quando si sarebbe saputa in giro nel villaggio la notizia che volevo far sbarrare la mia finestra, la gente si sarebbe resa conto che avevo paura. Potevo già immaginarmi le chiacchiere! "Però che tipo di religione questo cristianesimo... quando si diventa cristiani si diventa anche paurosi?". No. Avevo preso la mia decisione: non avrei fatto sbarrare la finestra.
Quella notte andai a letto fiduciosa di aver preso la giusta decisione. Mi addormentai subito, ma all'improvviso fui svegliata da un suono. Sorpresa, ma non impaurita, mi sedetti in mezzo al letto. Davanti ai miei occhi apparve una visione sorprendente. Attraverso le mura della stanza, in maniera soprannaturale, potevo vedere interamente il mio giardino. Era inondato da una luce splendente, celestiale. Potevo scorgere nitidamente ogni petalo di rosa, ogni foglia d'albero, ogni filo d'erba, ogni spina. Su tutto il giardino dominava una grande calma. Sentii nel mio cuore il Padre mio che diceva: "Hai fatto bene, Bilquis. Io sto con te". Piano piano, la luce andò diminuendo e la stanza si fece di nuovo buia. Accesi il lume del comodino, alzai le braccia in alto e glorificai il Signore. "O Padre, come potrò mai ringraziarti abbastanza? Hai tanta cura per ognuno di noi". La mattina successiva chiamai a raccolta i miei servitori e dissi loro che, se lo preferivano, da ora in poi, avrebbero potuto dormire nelle proprie abitazioni. Soltanto Mahmud ed io avremmo dormito nella grande villa. I domestici si scambiarono tra di loro delle occhiate chi di stupore, chi di piacere, mentre due o tre fra essi si mostrarono allarmati. Sapevo che almeno una cosa era stata fatta. La mia decisione aveva messo fine ad ogni idea di protezione personale. E con quella decisione risentii la gloria, che rimase con me più a lungo del solito. Quella stretta comunione era più che necessaria per affrontare i prossimi eventi. Una mattina, Raisham mentre mi spazzolava i capelli, incidentalmente disse: "Ho sentito dire che il figlio di vostra zia, Karim, è morto". Mi sporsi dalla sedia e la guardai incredula. "No!", dissi allibita. Karim, no. Era uno dei miei preferiti. Doveva andare a pesca con Mahmud! Cos'era accaduto? Perché dovevo venire a conoscenza della morte di Karim attraverso i miei servitori? Con un'incredibile forza di volontà ripresi il controllo di me stessa e forzatamente mi appoggiai allo schienale della sedia, per permettere a Raisham di continuare il suo lavoro. Ma la mia mente galoppava altrove. Poteva anche essere una voce messa in giro, pensai. O forse Raisham aveva capito male il nome. Il mio stato d'animo si risollevò un poco. Più tardi chiesi ad una donna di servizio anziana d'informarsi su quanto era veramente accaduto. La donna andò al villaggio e dopo un'ora fece ritorno. Aveva l'aria abbattuta quando mi disse: "Mi dispiace Begum Sahib, purtroppo è vero. È morto la scorsa notte per un attacco cardiaco. Oggi ci sarà il funerale". Poi, questa domestica, che aveva inclinazione ad informarsi di tutto quello che accadeva, mi dette delle notizie che mi addolorarono ancora di più. Mia zia, mi disse la donna, sapendo quanto amavo suo figlio, aveva espressamente chiesto alla mia famiglia d'informarmi della morte del suo ragazzo. Ma nessuno aveva esaudito quel suo desiderio. Più tardi, mi misi seduta davanti alla finestra, rivangando nella mia mente gli ultimi avvenimenti. Ero stata esclusa dagli eventi di famiglia per sei mesi, ma il boicottaggio non mi era mai costato tanto. Mentre mi lasciavo andar piano sulla sedia a dondolo, cominciai a pregare per ricevere il Suo aiuto e, come sempre, l'aiuto non tardò a venire. Questa volta mi sembrò come se mi fosse stato messo affettuosamente un mantello caldo sulle spalle. E con quella sensazione sopraggiunse anche un insolito piano di azione. L'idea mi scosse. Era così audace che sapevo con certezza che veniva da parte del Signore! Capitolo 10 IMPARANDO A VIVERE NELLA SUA GLORIA Mentre stavo seduta alla finestra ad osservare il giardino, dove Karim ed io avevamo giocato da bambini, un forte vento monsonico proveniente dall'India, piegò le cime degli alberi. In quella manifestazione mi sembrò di afferrare un messaggio straordinario, ma non riuscivo a credere alle mie orecchie! "Non mi stai dicendo questo, vero Signore?" dissi sorridendo. "Sto sentendo soltanto delle voci.
Non vorrai che io vada al funerale di Karim. Sarebbe inopportuno. Sarebbe di cattivo gusto. Non farei altro che offendere le persone che sono in lutto". Mentre facevo obiezioni, mi resi conto ancora una volta che la sensazione della Sua presenza andava scomparendo. Cominciai allora a chiedermi se con quel segno non mi era stato detto di compiere davvero quell'azione straordinaria, di andare proprio ad affrontare le ostilità del boicottaggio. Alla fine, tirando un lungo sospiro mi alzai dal mio posto accanto alla finestra, mi strinsi nelle spalle e dissi a voce alta: "Signore, sto incominciando ad imparare. Il mio senso di rettitudine è niente a paragone del Tuo! Andrò, dato che Tu mi stai dicendo di andare". E, naturalmente, ritornò la sensazione della Sua presenza. Stavo vivendo delle esperienze straordinarie col continuo avvicendarsi della Sua gloria. Eppure, avevo la sensazione che ero proprio sul punto di afferrare di che cosa si trattasse. Come sarei riuscita ad imparare a rimanere alla Sua presenza per un tempo sempre maggiore? Non mi rendevo conto che nei prossimi due mesi avrei vissuto un susseguirsi di esperienze che mi avrebbero portato un passo avanti in quel processo di apprendimento. Mi trovavo di fronte alla casa di Karim, in mezzo alla stradina pavimentata a ciottoli. Ero un po' esitante. Nonostante la mia promessa di obbedire, mi sentivo come una colomba lasciata in balìa di migliaia di cobra. Tirai un lungo respiro, alzando la testa verso la casa di pietra che si ergeva in mezzo alle altre. Mi avviai verso il cortile ed entrai nella veranda, esponendomi agli sguardi fissi su di me della gente del villaggio, che stava seduta in silenzio, tutt'intorno. Entrai nella casa vecchio stile, dai soffitti scolpiti, dalle mura bianche intonacate, dove tante volte Karim ed io avevamo riso, giocato e corso insieme. Non si sentivano risate adesso. Alla tristezza per la famiglia in lutto, si aggiungeva il gelo di una ventina di sguardi sprezzanti diretti verso di me. Guardai in direzione di una mia cugina con cui ero stata molto intima. I nostri sguardi s'incrociarono per un attimo: mia cugina girò subito la testa e si mise a parlare con uno seduto vicino a lei. Io, raddrizzando le spalle, entrai nel salotto, mi sedetti su uno degli spessi materassi di cotone, che erano stati sistemati sul pavimento: c'erano dei cuscini tutt'intorno per appoggiarsi. Mi sistemai il sari intorno alle gambe. Tutto d'un tratto le persone sembrarono accorgersi di me. La conversazione che fino ad allora era scorsa tranquillamente, s'interruppe all'improvviso. Perfino le donne che recitavano le loro preghiere ad Allah, s'interruppero per guardare verso di me. La stanza, che era infuocata dal calore estivo e da un gran numero di corpi stretti l'uno all'altro, all'improvviso sembrò diventare gelida. Non dissi niente e non mi sforzai di apparire socievole, abbassai semplicemente gli occhi e dissi le mie preghiere. "Signore Gesù", sussurrai in cuor mio, "stai con me, mentre io Ti rappresento in questo gruppo di cari amici e parenti, i quali sono tanto rattristati per la morte di Karim". Dopo un quarto d'ora riprese tranquillamente il corso della conversazione. Era ora che andassi a rendere omaggio alla moglie di Karim. Tenendo la testa eretta, mi alzai dal materasso ed andai nella stanza accanto, dove il corpo di Karim giaceva in una bara alta e profonda. Secondo il credo musulmano una persona morta deve essere in grado di sedersi quando gli angeli vanno ad interrogarla, prima che entri in cielo. Detti le mie condoglianze alla moglie di Karim, poi guardai il viso disteso del mio caro cugino, avvolto nel bianco lenzuolo funebre. Oh, come avrei desiderato parlargli prima che morisse! Un basso mormorìo riempiva la stanza: erano i familiari più stretti che pregavano per Karim. Le donne stavano in piedi e leggevano dei versi dal Corano. Faceva tutto parte dell'avvicendarsi della vita e della morte - versi che conoscevo così bene. Stavo girando le spalle a tutto questo. Prima del tramonto di quest'oggi ci sarebbe stata una processione al cimitero con tutti i componenti della famiglia, che avrebbero seguito il feretro. Alla tomba i portatori avrebbero poggiato la bara sulla terra ed il sacerdote avrebbe detto a gran voce: "Dio è il più grande. Signore, questo è il tuo servo, il figlio del tuo servo. Egli era solito testimoniare che non c'è altro Dio all'infuori di te e che Maometto è il tuo servo ed il tuo messaggero.”
Mentre stavo in piedi ad ascoltare il lamento sommesso nella stanza, vidi la madre di Karim inginocchiarsi davanti alla bara. Sembrava così disperata; sentii all'improvviso un bisogno irresistibile di andarle vicino. Avrei potuto osare? Sarebbe stato un affronto? Avrei dovuto dirle qualcosa su Gesù? Probabilmente no. Il fatto di essere là come cristiana stava a significare che le mettevo Gesù al fianco, amorevolmente. Mi diressi così verso la madre di Karim e mettendole un braccio intorno alle spalle, le dissi a bassa voce, di come ero addolorata. "Karim ed io eravamo così legati. Possa Dio benedirvi e confortarvi". La zia voltò il viso verso di me. I suoi occhi scuri pieni di lacrime mi ringraziarono ed io compresi che Gesù stava anche allora confortando il suo cuore afflitto. Sembrava proprio che la madre di Karim fosse l'unica lì presente che mi accettasse. Appena mi allontanai da lei, per andare a sedermi di nuovo tra i parenti in lacrime, un cugino - stretto per di più! - si alzò in piedi ed ostentatamente se ne uscì dalla stanza. Un altro cugino lo seguì. E poi un altro ancora. Rimasi seduta in lotta con me stessa: da una parte i miei sentimenti di dolore per Karim e la sua famiglia e dall'altra un grande imbarazzo. Il mio cuore batteva forte. L'ostilità cominciava a far breccia nel mio senso di protezione. Tutto quanto potessi fare era di restarmene seduta per un tempo convenevole, poi alzarmi, salutare ed uscire dalla stanza. Quando finalmente me ne andai, potevo sentire gli occhi di tutti i presenti fissi su di me. Mi sedetti in macchina, appoggiata al volante, cercando di riprendermi. Avevo obbedito, ma il prezzo era stato alto. Ovviamente avrei preferito rimanere a casa piuttosto che andare ad affrontare quell'ostilità così evidente. Mi sarei sbagliata però, se avessi pensato di non dover più ripetere quell'esperienza. Difatti qualche settimana più tardi, quando nel nostro distretto la calura estiva cominciava a diminuire, venne a mancare un altro cugino. Anche questa volta venni a conoscenza del fatto per mezzo della servitù. E di nuovo, obbedendo alle direttive del Signore, mi ritrovai riluttante ad entrare in una stanza piena di persone che si lamentavano e piangevano, facendo cordoglio, i quali mi accolsero con freddezza ed ostilità. Con un atto di volontà non pensai più a me stessa, concentrando la mia attenzione sull'unica persona che era stata veramente colpita: la vedova di mio cugino. Aveva un bambino sui cinque anni, la stessa età di Mahmud. Aveva un'aria così addolorata, affranta mentre stava davanti alla bara, che piansi per lei e per suo marito. E poi, com'era già accaduto al funerale di Karim, mi sentii come spinta verso quella donna disperata. Appena mi avvicinai, i nostri occhi s'incontrarono e notai una certa esitazione sul suo viso solcato di lacrime. Poi, con un'occhiata d'inaspettata determinazione, consapevole di mettersi contro la volontà dei suoi familiari, mi tese la mano. Mentre le stringevo la mano bruna, piansi in silenzio. Scambiammo soltanto poche parole, ma il mio cuore pregava ardentemente che lo Spirito Santo potesse toccarla per mezzo di quel lutto e che potesse mantenere la Sua promessa anche nei confronti di questa cara creatura musulmana: "Beati coloro che fanno cordoglio". "Grazie Bilquis, grazie" disse la vedova in un sussurro, quando mi lasciò la mano. L'abbracciai ed uscii dalla stanza. Stranamente ci furono altri due funerali, uno dopo l'altro. Era qualcosa fuori dal normale anche in una famiglia numerosa come la nostra. Ogni volta mi fu detto da parte del Signore, in maniera chiara e distinta che dovevo uscire dalla sicurezza della mia casa ed andare dove c'era bisogno di me. Non parlavo molto. Lasciavo che la mia presenza amorevole desse la sua testimonianza. E per tutto il tempo il Signore operava in me. Aveva ancora molto da insegnarmi e stava usando quelle tristi occasioni come banco di prova. Fu nel corso di una di questo visite di condoglianze che scoprii il grande segreto di come rimanere sempre in comunione con Lui. Ad un funerale musulmano nessuno cucina o mangia fino a quando non è avvenuta la sepoltura. Di solito si fa un giorno di digiuno, che per la verità, non è poi una prova tanto dura. In ogni modo, quel giorno, mentre me ne stavo seduta 'isolata' nella stanza affollata, sentii all'improvviso il desiderio del mio solito té pomeridiano. Era qualcosa, dissi a me stessa, di cui non potevo fare
assolutamente a meno. Così, incapace di controllare quel mio desiderio, mi alzai, mormorai una scusa: "Vado a lavarmi le mani" dissi e scivolai fuori dalla stanza. Andai fuori, in un piccolo bar. Lì presi il mio immancabile té e poi feci ritorno tra quelli che facevano cordoglio. Avvertii subito uno strano senso di abbandono, come se un amico, che mi stava al fianco, mi avesse lasciata. Sapevo naturalmente di che cosa si trattava. La presenza confortante del Suo Spirito mi aveva lasciata. "Signore" dissi tra me, "che cosa ho fatto?". E poi mi resi conto. Avevo mentito, nel cercare una scusa. "Ma era solo una bugia pietosa, Signore", dissi. Non avvertii alcun senso di consolazione da parte dello Spirito. Soltanto una stasi. "Ma Signore", insistetti, io non devo più seguire queste pratiche religiose musulmane. Ed oltre tutto, non riesco a far a meno del mio té. Tu lo sai". Nessuna sensazione del Suo Santo Spirito. "Ma Padre", continuai ad insistere, "Non potevo certo dire che andavo fuori a prendere il té coi pasticcini! Si sarebbero dispiaciuti". Nessuna risposta dallo Spirito. "Va bene, Padre", dissi. "Capisco. Ho sbagliato a mentire. Mi rendo conto che cercavo l'approvazione degli uomini mentre devo vivere soltanto per la Tua approvazione! Sono sinceramente dispiaciuta, Signore. Ti ho addolorato. Con il Tuo aiuto non lo farò più". Appena ebbi pronunziato quelle parole, sentii di nuovo la Sua presenza consolante: era come una pioggia benefica su un terreno riarso. Mi sentivo distesa, rilassata. Sapevo che Egli era con me. E così fu che imparai a ristabilire di nuovo la comunione col Signore. Ogni qualvolta non avvertivo più la Sua vicinanza, sapevo di averLo rattristato. In quel caso sarei andata a ritroso nel tempo, fino a risalire all'ultima volta in cui avevo avvertito la Sua presenza. Allora avrei riesaminato ogni atto, ogni parola o pensiero fino a scoprire il momento in cui ero andata fuori strada. A quel punto avrei confessato il mio peccato e chiesto il Suo perdono. Imparai a compiere quell'atto con sempre più coraggio. Con quell'atto di obbedienza appresi il meraviglioso segreto del pentimento. Scoprii che pentimento non è rimorso lacrimoso, quanto piuttosto ammettere in che cosa avevo sbagliato e dichiarare apertamente che, con il Suo aiuto, non avrei commesso più quello sbaglio in futuro. Quando mi rendevo conto della mia debolezza, potevo invocare la Sua forza. Fu in quel periodo che scoprii che non esistono bugie innocue. Una bugia è una bugia e viene sempre da Satana, il padre della menzogna. Egli usa delle innocue bugie pietose per farci cadere in questa abitudine insidiosa. Le bugie preparano il terreno a tentazioni maggiori che sopraggiungeranno. Satana ci bisbiglia che una bugia pietosa è 'stima' per gli altri. In questo modo ci assoggettiamo al mondo, invece che a Gesù, che è la verità. Per quanto avessi imparato la lezione al funerale di un parente, era per me l'inizio di un nuovo modo di vivere. Cercai di sradicare del tutto in me l'atteggiamento di menzogna. Da quel giorno in poi avrei cercato di trattenermi, ogni qualvolta mi fossi trovata sul punto di dire una bugia pietosa. Una volta un amico missionario m'invitò ad una riunione a cui non volevo partecipare. Mi ero già preparata la scusa di un altro impegno. Dentro di me sentii un segnale di avvertimento e mi trattenni giusto in tempo. Trovai invece che potevo essere sincera senza pertanto urtare nessuno, dicendo semplicemente: "Mi dispiace veramente, ma non mi riesce di venire". Oppure il giorno in cui mi misi allo scrittoio per scrivere una lettera ad un amico a Londra e quasi automaticamente cominciai a scrivere che ero stata fuori città per un certo tempo e che non mi era riuscito di rispondere alla sua ultima lettera. Mi fermai, con la penna in mano. Fuori città? Ma ero stata qui tutto il tempo. Appallottolai il foglio, lo gettai nel cestino delle carte e ricominciai daccapo. "Caro amico, ti prego di scusarmi per non aver risposto prima alla tua cara lettera...". Piccole cose, certo. Ma stavo imparando che badando alle piccole cose, era molto più facile
affrontare le tentazioni maggiori quando queste fossero sopraggiunte. Oltre tutto la vita era molto più facile da quando non dovevo più passare il tempo a trarmi d'impaccio da situazioni difficili. Lentamente, ma in maniera evidente, cominciai ad accorgermi che stavo cercando di vivere con Cristo come il mio fedele compagno! Naturalmente, non era sempre possibile metterlo in pratica... Troppo spesso ricadevo nelle mie vecchie abitudini. Ma perseveravo! Col passare del tempo scoprii il lato pratico della promessa: "Cercate prima il regno di Dio e la Sua giustizia e queste cose vi saranno sopraggiunte." Matteo 6:33 Avendo perciò cercato di mettere Dio al primo posto mi furono rese alcune delle mie più sentite necessità. Un pomeriggio Raisham venne in camera mia con un'espressione allarmata sul viso. "C'è una signora in salotto che desidera vedervi" disse. "Chi è?" chiesi. "Begum Sahib, se non mi sbaglio è la madre di Karim". Certo che si sbagliava! La madre di Karim non sarebbe mai venuta qui. Andai giù, chiedendomi chi fosse. Ma appena girai l'angolo del salotto, vidi che effettivamente c'era la madre del mio cugino defunto. Sentendo i miei passi, si girò e mi venne incontro, gettandomi le braccia al collo. "Bilquis", disse la zia, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime, "dovevo proprio venire di persona a dirti qualcosa. In un primo momento al funerale non ti avevo notata, in mezzo a tutte quelle persone, ma son venuta a dirti di quanto conforto mi sei stata. Ho provato... non so... qualcosa di nuovo. Ho sentito un calore, qualcosa di diverso". E così finalmente capii perché non mi era stato consentito parlare di Gesù alla madre di Karim, in occasione della perdita di suo figlio. Sarebbe stato come profittare di quella disgrazia. Adesso invece la situazione era già diversa. Nel salotto di casa mia le parlai con dolcezza ed amore di quel che significasse per me Gesù e di come Egli stesse lentamente, ma inesorabilmente, cambiando molte mie maniere arroganti, rimpiazzandole con la Sua calda personalità umana. "È vero", disse la zia. "Tu hai mostrato interesse. Volevi veramente partecipare al mio dolore". Fu una visita breve ma molto ben accetta. M'incoraggiò in due modi: primo, che un'altra persona avesse effettivamente notato un cambiamento in me e secondo, mi auguravo che questa visita fosse l'inizio della sospensione del boicottaggio da parte della mia famiglia. Ma quel mio desiderio non si avverò tanto presto. Ogni qualvolta trillava il telefono era sempre qualcuno dei miei amici mis-sionari. Così la mattina precedente il sesto compleanno di Mahmud, quando sentii trillare il telefono mi aspettavo che fosse Marie. Sentii invece una voce familiare, quella della madre dell'altro cugino che era morto. "Bilquis?". "Sì?". "Bilquis, volevo soltanto dirti quanto io abbia apprezzato l'aiuto che hai dato alla moglie di mio figlio. Mi ha detto che hai veramente parlato al suo cuore". Che bello! Eppure avevo detto così poco... Era stato Cristo Gesù che l'aveva consolata. Fu una breve conversazione ma piacevole, poi riattaccammo. Ancora una volta non avevo fatto molto, ma ero meravigliata di come Gesù avesse operato per mezzo mio, pur non avendo detto nulla o quasi, riferendomi a Lui direttamente. Essere presente in quell'occasione, rappresentare il Suo Spirito in quel momento di necessità, ecco in che cosa consisteva il mio aiuto! Col passare delle settimane vennero altri membri della mia famiglia a farmi delle brevi visitine. Vennero per fare gli auguri a Mahmud per il suo compleanno, portandogli dolciumi e giocattoli, ma solo apparentemente era quello lo scopo della loro visita. In effetti sapevo che era una scusa, perché in realtà erano venuti ad addolcire un po' l'offesa del boicottaggio. Le visite erano sempre brevi ed
un po' tese, però piacevoli: piccoli spiragli di luce nel muro di ostilità, che si era alzato intorno a me. Era trascorso quasi un anno da quando avevo preso la mia decisione per Cristo. Come volava il tempo! Tra poco sarebbe venuto di nuovo il mio compleanno: un anno da quando mi ero data al Signore! Ed ora aspettavo, con ansia, la mia prima vera celebrazione del Natale. Avevo naturalmente partecipato ad altre celebrazioni natalizie, quando mi trovavo in Europa. Ma non avevo mai conosciuto che cosa significasse il Natale, sentito con il cuore. Mi feci prestare un piccolo presepio dai Mitchell. Quando vennero a casa con la mangiatoia, portarono anche un piccolo abete ed insieme cantammo "O Christmas Tree... O Christmas Tree...", mentre Mahmud gridava di gioia. I servitori sistemarono l'albero in salotto e noi lo decorammo con ghirlande di carta. Ma c'era qualcosa che non andava. Per quanto quei festeggiamenti mi piacessero molto, non si sentiva in essi però il vero significato del Natale. Cominciai a pensare alla possibilità di celebrare il Natale in un modo che esprimesse il cambiamento avvenuto nella mia vita. Ed allora mi venne un'idea in mente. Perché non dare un ricevimento aperto a tutti: missionari, gente del villaggio, anche agli spazzini. Sentii subito la voce ammonitrice dei miei familiari, che mi raccomandavano di non far mostra della mia fede e sentii anche la voce del mio amico Generale, il quale mi metteva in guardia che non avrebbe potuto più garantirmi la sua protezione ufficiale, se mi fossi messa nei pasticci. Sapevo che l'idea di un ricevimento simile sarebbe stata una minaccia per molti. Eppure dopo molte preghiere mi sembrò che la presenza del Suo Santo Spirito fosse aumentata da quando avevo cominciato a fare progetti per l'insolito raduno. Così andai avanti con la mia idea del ricevimento natalizio, che suscitò tanto scalpore a Wah. La gente del villaggio arrivò presto e si raccolse attorno all'albero in salotto. Poi arrivarono i missionari. Synnove ci guidò tutti nel canto. Ed in quel momento, con mia grande sorpresa una delle donne di servizio annunzio che erano arrivati da Rawalpindi una zia e dei cugini per una breve visita! Il mio cuore sobbalzò. Come avrebbero reagito? Non c'era bisogno di preoccuparmi; reagirono nella tipica maniera dell'aristocrazia, purtroppo. Dapprima smisero di chiacchierare, poi riservatamente si ritirarono in un'altra stanza, dove si sedettero, da soli, in un forzato silenzio. Io non volevo trascurare nessuno dei due gruppi: così trascorsi il mio tempo, andando e venendo da una stanza all'altra. Era come passare continuamente da una doccia calda ad una fredda. Infine, forse per la mia perseveranza, qualche componente della mia famiglia cominciò a distendersi e rilassarsi. Qualcuno andò perfino in salotto, partecipando alla festicciuola sotto l'albero. Alla fine del ricevimento, scambiarono qualche parola con gli Old ed i Mitchell, anche se non con gli spazzini.... Il ricevimento annunciò, come speravo in cuor mio, l'inizio di un anno diverso. Non più facile... ma soltanto diverso! Infatti mi si pararono davanti molte situazioni difficili che mi avrebbero messo in difficoltà, se non avessi imboccato la via giusta. Poiché insieme a qualche parente ed amico, che adesso cominciavano a ritornare, arrivò un diverso tipo di visitatore. Erano persone decise a farmi convertire nuovamente alla fede musulmana. Avevo la sensazione che ci fossero degli spettatori interessati, ansiosi di vedere come avrei reagito a quelle voci che mi richiamavano nuovamente a casa. Avrei dovuto mantenere un silenzio discreto o avrei dovuto dire quello che realmente sentivo in cuore? La risposta mi venne nuovamente in termini di... presenza. Difatti ogni qualvolta stavo per sviarmi, mi sentivo sola ed a disagio. Ma quando rispondevo alle domande sinceramente ed amorevolmente, allora mi sentivo a posto col Signore. Un pomeriggio, ad esempio, sentii un leggero tocco alla porta della mia camera. Ne fui sorpresa, perché erano le due del pomeriggio. "Sì?". La porta si aprì. Era Raisham. "Begum Sahib, c'è una visita".
Sentii una certa esitazione nel tono dolce della sua voce. Le avevo dato precise istruzioni di non voler essere disturbata dall'una alle tre pomeridiane. Non era comunque un ordine perentorio. Un anno fa avrei detto aspramente a Raisham che per nessuna ragione avrei voluto essere disturbata. Ma adesso le avevo spiegato che non consideravo più il tempo come qualcosa di mio; esso apparteneva al Signore. Se fosse accaduto qualcosa per cui lei stessa avesse ritenuto necessaria la mia presenza, allora naturalmente, doveva venire in camera a chiamarmi a qualsiasi ora. "Begum Sahib, il signore che attende è un inglese". Nel suo sguardo lessi un lampo d'ironia. "Dice che vuol parlare di Dio". "Va bene", dissi un po' sorpresa. "Scendo subito". Nel salotto mi aspettava un signore dalla pelle chiara e dai capelli biondi rossicci. Notai che indossava un tipico abito pakistano: una casacca bianca e pantaloni larghi. Con quell'abito bianco ed il viso pallido si confondeva quasi con i muri chiari del mio salotto. Dopo essersi scusato per esser capitato a casa mia senza appuntamento, venne subito al punto. Mi disse di aver fatto il viaggio da Karachi appositamente per incontrarmi. Dato che si era convcrtito dal cristianesimo all'islamismo, i miei familiari ritenevano che avessimo qualcosa in comune. "Ah ora capisco", dissi tra me. I miei, sapendo quanto ammiri i britannici, hanno pensato che sarei rimasta colpita dal fatto che un inglese avesse abbandonato il cristianesimo per l'islamismo". Il mio ospite tossicchiò, si schiarì la voce, poi con una certa esitazione arrivò al vero scopo della sua visita. "Begum", disse l'uomo, "c'è una cosa che mi turba veramente quando i musulmani si convertono al cristianesimo: questa è la Bibbia. Lo sappiamo tutti che il Nuovo Testamento cristiano è diverso da quello ispirato da Dio". Stava rivolgendo l'accusa principale dell'islamismo nei riguardi della Bibbia, cioè che il suo significato è stato così alterato che la versione attuale è poco attendibile. L'originale, pretendono i musulmani, concordava con il Corano. "Spero che non penserete che voglia fare una battuta", dissi. "Ma voglio veramente sapere una cosa. Ho sentito spesse volte dire che la Bibbia è stata alterata ma non ho mai potuto sapere chi sia stato. Quando sono stati fatti questi cambiamenti e quali sono i passi alterati?". Il mio interlocutore si appoggiò allo schienale della poltrona e guardò in alto verso le travi scolpite del soffitto, mentre con le dita tamburellava sul bracciolo della poltrona. Non rispose. Non era stato cortese da parte mia, lo riconobbi. Per quanto ne sapessi non c'era risposta a quelle domande. "Sapete", continuai, attingendo a certe ricerche che avevo fatto, "al British Museum a Londra esistono delle antiche versioni della Bibbia, pubblicate circa trecento anni prima della nascita di Maometto. Per ogni controversia tra cristianesimo ed islamismo questi antichi manoscritti sono identici alla Bibbia dei giorni nostri. Gli esperti asseriscono che la Bibbia attuale non sia diversa dall'originale, in nessuno dei suoi elementi essenziali, fondamentali. È importante per me, personalmente. Difatti la Bibbia è diventata per me una Parola vivente. Parla direttamente all'anima mia e mi nutre. Mi guida...". Il mio ospite si alzò in piedi nel bel mezzo della frase. "... e così", continuai, "trovo di estrema importanza sapere se esistono dei punti su cui mi sbaglio. Potete ragguagliarmi?". "Voi parlate della 'Parola' quasi come se fosse vivente", disse il mio visitatore. "Io credo che Gesù sia vivente, se è questo che intendete", risposi. "Il Corano stesso dice che Cristo era la Parola di Dio. Mi piacerebbe parlarne con voi un'altra volta". "Devo andare". E questo fu tutto. Lo accompagnai alla porta e lo invitai a ritornare. Non ritornò più. Ma altri vennero, alcuni pronti alla battaglia e con certe idee sbagliate in testa! Non dimenticherò mai l'uomo che accusava i cristiani di adorare tre Dii distinti e separati. "La vostra così detta Trinità consiste in Dio, Maria e Gesù!" disse. "Voi cristiani dite che Dio prese
Maria per moglie e che dalla loro unione nacque Gesù. Allah non può avere moglie!" concluse ridendo. Rivolsi una preghiera telegrafica al Signore. Mi venne in mente un pensiero molto chiaro. "Leggete il Corano?" domandai. "Naturalmente". "Bene, allora vi ricorderete come dice il Corano che a Cristo fu dato lo Spirito di Dio?". Mi ero spesso chiesta come il Corano potesse contenere una verità così meravigliosa. "Avrete forse sentito parlare di Sadhu Sundar Singh, il devoto Sik a cui Gesù apparve in visione. Gesù così gli spiegò la Trinità: 'Come nel sole c'è luce e calore ma la luce non è calore ed il calore non è luce perché sono ambedue in uno, nonostante abbiano aspetti diversi nella loro manifestazione, così Io e lo Spirito Santo, procedendo dal Padre, portiamo luce e calore al mondo... Eppure Noi non siamo tre ma Uno, proprio come il sole che è soltanto uno'". Ci fu silenzio nella stanza quando smisi di parlare. Il mio ospite era assorto nei suoi pensieri. Alla fine si alzò, mi ringraziò per avergli prestato attenzione ed in silenzio lasciò la mia casa. Mentre osservavo la sua figura dall'aria mesta, che camminava lungo il sentiero ghiaioso, mi venne in mente un interrogativo: se visite come quelle dell'inglese e di questo fanatico avrebbero contribuito veramente all'avanzamento del regno del Signore? Non ebbi modo di saperlo perché non seppi più niente da nessuno dei due. Non importava. Forse non mi sarei nemmeno dovuta preoccupare dei risultati. L'unica cosa che aveva veramente importanza per me era l'obbedienza. Se il Signore mi chiedeva di parlare a certe persone, allora era quella l'unica cosa che avrei dovuto fare. Man mano che l'inverno cedeva il posto alla primavera, sembrava che il Signore mi desse anche altre occasioni per parlare. Andai a Lahore dove, dopo aver fatto a mio figlio Khalid una visita stranamente non molto comunicativa, acquistai cento copie della Bibbia da distribuire a chiunque ne fosse stato interessato. Comprai anche un certo quantitativo di trattati cristiani. Li distribuii ad ogni occasioni che mi si presentò, lasciandoli perfino nelle toilettes. Non sono affatto sicura se fu proficuo. Mi ricordo che una volta, facendo ritorno nella toilette, trovai che la pila dei trattati era diminuita, guardai allora nel cestino dei rifiuti. I miei trattati erano là tutti accartocciati e spiegazzati. "Mi sembra così inutile, Signore", dissi. "Ma sto veramente facendo la Tua volontà? Perché allora, Signore", dissi alzando le mani, in tono di supplica, "finora non ho potuto vedere alcun risultato per tutte le volte che ho parlato di Te?". C'erano stati l'inglese convcrtito all'islamismo ed il Generale e tutti i servitori che erano scappati di casa, e le centinaie di volte in cui avevo parlato con i membri della mia famiglia e con gli amici, ma nessuna di queste occasioni aveva portato frutti visibili. "È strano Signore! Non capisco proprio perché non mi stai usando". Mentre pregavo sentii che la presenza di Cristo aumentava sempre di più nella stanza. Egli sembrò riempire l'atmosfera di forza e conforto. Sentii nel mio cuore un suggerimento ben preciso, "Bilquis, ho solo una domanda da farti. Ripensa a tutte le volte in cui hai parlato con i tuoi amici e con i tuoi familiari. Ripensa a tutte le volte in cui hai accolto coloro che venivano a discutere, a contestare. Hai mai sentito la mia presenza nel corso di quelle visite?". "Sì, Signore. In verità l'ho avvertita". "C'era la mia gloria?". "Sì, Signore". "È soltanto questo che ti necessita. Capita spesso questo con i propri amici e familiari. Il risultato non è un problema che ti concerne. L'unica cosa di cui debba preoccuparti è l'obbedienza. Cerca perciò la mia presenza, non il risultato". Continuai ad agire in quel modo. Il fatto strano fu che diventò un tempo di crescita stimolante e rafforzante. Una volta che il Signore aveva fatto distogliere il mio sguardo dal "risultato", per convogliarlo verso la Sua presenza, potei avere il piacere d'incontrarmi con amici e parenti senza più quel certo senso di frustrazione. Imparai a cogliere l'occasione propizia. Che la conversazione vertesse sulla politica o sulla moda, chiedevo sempre al Signore di suscitare una domanda che mi avrebbe dato una certa apertura nel discorso. Una volta, ad esempio, mentre stavo parlando con mia
nipote, la conversazione cadde sul mio ex marito, che era adesso ambasciatore pakistano in Giappone. "Che faresti se Khalid venisse a casa tua?" mi disse con un sorriso, sollevando un sopracciglio. La guardai dritto in faccia. "Gli darei il benvenuto e gli servirei il tè". Mia nipote mi guardò con aria incredula. "L'ho perdonato", proseguii. "E spero che egli mi abbia perdonato per quello che ho fatto io nei suoi confronti". "Ma come puoi perdonare in questo modo?". Mia nipote sapeva che la rottura era stata difficile e penosa. Le spiegai che certamente non avrei potuto perdonare con le mie proprie forze. Avevo chiesto a Gesù di aiutarmi. "Devi sapere", dissi, "che Gesù c'invita ad andare a Lui con tutti i nostri pesi. Gesù aveva preso su di Sé il mio peso di odio". Mia nipote rimase seduta in silenzio per un po'. "Per la verità", disse, "questo è un cristianesimo di cui non ho mai sentito parlare. Se continui a parlarmi in questo modo, io sarò la prima a venire a conoscere il tuo Gesù". Anche quella volta rimasi delusa. Avevo grandi speranze. Credevo che veramente mia nipote volesse ritornare su quell'argomento, ma non lo fece più. Vi furono delle volte, in quel periodo, in cui la Sua gloria mi abbandonò. Capitava sempre allo stesso modo. Cadevo nell'insidia tesami da Satana, il quale mi convinceva che ero abbastanza brava! Le mie discussioni erano, in realtà, molto profonde! Un giorno, ad esempio, un amico mi disse, "Perché devi essere così esclusivista? Dovresti ammettere che adoriamo tutti lo stesso Dio; cristiani, musulmani, indù, buddisti o ebrei. Possiamo chiamarLo con nomi diversi ed arrivare a Lui da direzioni diverse, ma in fin dei conti è sempre lo stesso Dio". "Vuoi paragonarLo forse ad una cima di montagna verso cui convergono diversi sentieri?". Si rilasciò sulla poltrona, reggendo in mano la sua tazza di té ed annuì. Partii allora all'attacco. "Sì", dissi, "Può essere come una cima di montagna, ma c'è solo una via che conduce a Lui, attraverso Cristo Gesù. Il Signore dice: Io sono la via, la verità e la vita. Non "una via", puntualizzai con acredine "ma la via". Il mio amico posò la tazza del té e scuotendo la testa cambiò espressione del viso. "Bilquis", disse "ti ha mai detto nessuno che dai ancora l'impressione di essere orgogliosa?". In quell'istante mi resi conto che l'uomo, seduto di fronte a me, stava parlando da parte di Dio. Le mie risposte erano giuste. Erano bibliche e valide. Ma lo Spirito mi aveva lasciata. Bilquis aveva ragione. Bilquis asseriva il vero. Rivolsi in fretta una preghiera di ravvedimento e chiesi al Signore di prendere Lui le redini. "Mi dispiace", dissi ridendo. "Se do l'impressione di essere presuntuosa perché sono cristiana, non mi comporto allora come Cristo vorrebbe. Più imparo su Cristo più ho bisogno di correzione. Il Signore ha tanto da insegnarmi e so che in questo momento mi ha parlato proprio attraverso di te". Il mio ospite se ne andò, forse più vicino al Signore o forse no. Non so se avrei dovuto neanche saperlo. Ma quel che so è che passo dopo passo, penosamente, stavo imparando ad ascoltare ed obbedire. Una notte ebbi un'altra di quelle esperienze spaventose, che avevo avuto solo dopo essere diventata cristiana. Mi trovavo nella mia camera, stavo preparandomi ad andare a letto, quando all'improvviso avvertii una potenza malefica alla finestra. Rivolsi subito la mente al mio Protettore e fui messa in guardia dall'avvicinarmi alla finestra. M'inginocchiai in preghiera, chiedendo al Signore di proteggermi come una chioccia copre i suoi pulcini con le ali. Sentii la sicurezza della Sua protezione. Quando mi alzai, la presenza alla finestra era sparita. La mattina successiva andai a casa dei Mitchell. Il sole risplendeva sulla strada, ma io ancora tremavo dentro di me. Eppure, mentre mi dirigevo verso la loro casa, mi sentivo ancora in dubbio se parlare di quel che mi era accaduto; temevo di non essere capita. Appena Synnove mi vide, mi abbracciò, poi si ritrasse quando vide la mia espressione preoccupata. I suoi occhi azzurri m'interrogavano.
"Che ti è successo Bilquis?" mi chiese. "Io mi domando perché continuano a capitarmi certe brutte esperienze, dopo essere diventata cristiana!". Mi fece entrare in salotto, dove ci sedemmo. "Ti ha minacciato qualcuno?". "Non qualcuno", risposi "ma qualcosa". "Davvero?" disse, alzandosi e prendendo la Bibbia. "Qui" disse, sedendosi e cominciando a sfogliare le pagine, "in Efesini 6 si tratta quest'argomento". Lesse: "// combattimento nostro non è contro sangue e carne, ma contro ì principati, contro le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità che sono nei luoghi celesti". Rivolse lo sguardo verso di me. "Deve essere proprio questo", dissi, raccontandole, in parte, quel che era accaduto la notte precedente. Mi ascoltò attentamente, poi disse: "Perché non ne parli agli Old?". "Veramente" risposi, con una risatina nervosa, "non vorrei proprio più parlarne!". Era quello il mio stato d'animo quando c'incontrammo con gli Old, quella sera. Decisi di non farne cenno alcuno. Mi sarei semplicemente resa ridicola, pensai. Forse era stato solo frutto della mia immaginazione. Però, mentre ero seduta con Marie Old sul divano, davanti al fuoco, non potei fare a meno di accennare al fatto capitatomi. Cercai di apparire disinvolta. "Marie, la notte scorsa mi è accaduta una cosa stranissima", dissi. "Ho avuto un'esperienza terrificante e non riesco a spiegarla". Suo marito Ken con la sua imperturbabile calma, stava leggendo un libro seduto davanti alla finestra, alle nostre spalle. Sentendo quel che dicevo, posò il libro, alzò lo sguardo verso di me, avendo afferrato che ero riluttante a parlarne e, nella sua maniera calma e cortese, m'invogliò a raccontare tutto l'accadute. Quando ebbi finito cercai di scherzarci sopra. "Ancora una volta" dissi ridendo, "avrò preso troppo curry a cena, la sera scorsa!". "Non minimizzare le prove che il Signore ti fa attraversare", disse Ken pacatamente. "Le cose soprannaturali accadono realmente". Girò intorno al divano e si venne a sedere su una poltrona, di fronte a noi. Appariva molto serio. Spiegò la presenza soprannaturale del maligno e di come Dio possa permettere che accada a qualcuno, per metterlo alla prova. Ken fece poi notare come, nell'Antico Testamento, Dio permettesse a Satana di attaccare Giobbe e come Egli permettesse al Maligno di tentare Cristo nel deserto. Ambedue i casi menzionati, fece rilevare Ken, erano delle prove. In entrambe le occasioni, aggiunse, la vittima scelta da Satana, ne era uscita vittoriosa, per la sua indiscussa fede in Dio. Non potei fare a meno di ricordarmi degli attacchi che avevo subìto prima del battesimo. Lentamente continuava per me il tirocinio. Quel che non sapevo, dato che accettavo con gratitudine l'insegnamento rassicurante di Ken, era che il Signore aveva già iniziato un processo nella mia vita, che mi avrebbe lasciato sempre più isolata - eppure non sola, sempre più tagliata fuori dalla mia famiglia - eppure parte di una grande famiglia, che mi sosteneva, sempre più staccata dalle radici di Wah, che stavano a significare tanto per me - eppure stavo già per affondare le radici in una nuova Città. Per sopportare queste prove Egli mi aveva posto, volta dopo volta, in situazioni in cui dovevo dipendere unicamente da Lui. Capitolo 11 CAMBIAMENTI NELL'ARIA Il periodo di svezzamento iniziò una domenica, poche settimane più tardi, nel corso di uno dei
nostri soliti incontri di preghiera. Quella sera mi sembrava che sia gli Old che i Mitchell apparissero insolitamente tristi. "Che c'è che non va?" domandai mentre entravamo nel salotto degli Old. Ken ripiegò la testa all'indietro e fissò il soffitto. "Marie ed io dobbiamo andare a casa, in licenza per un anno", disse all'improvviso. La mia prima reazione fu di terrore al pensiero di essere lasciata sola. Cosa avrei fatto senza gli Old? Avrei certamente avuto sempre i Mitchell, ma io facevo assegnamento su ambedue le famiglie, che insieme costituivano il mio sostegno. I Mitchell erano stati il mio primo contatto con la chiesa. Anche gli Old mi erano stati molto vicini. Era forse soltanto l'inizio? Quanto tempo sarebbe trascorso prima che perdessi anche l'altra famiglia? Marie doveva aver letto nei miei pensieri. Si avvicinò e mi prese la mano. Gli occhi le si riempirono di lacrime mentre parlava. "Mia cara", disse Marie, "devi renderti conto che è sempre così. Coloro che amiamo ci lasceranno sempre un giorno. Solo Gesù rimane sempre con noi". Ken raggiunse la moglie, che era al mio fianco. "C'è un'altra cosa, Bilquis", disse Ken. "Puoi essere certa che il Signore non ti conduce fuori da una situazione sicura a meno che Egli non abbia un piano per te. Proprio per questo, puoi cominciare già da adesso a rallegrarti, anche nel bel mezzo del dispiacere". Trascorremmo ancora qualche settimana insieme: gli Old, i Mitchell ed io. La data della partenza si avvicinava, portando con sé un inevitabile senso di vuoto. Cercammo tutti di avere più fede per colmare il vuoto che si sarebbe creato per la partenza di Ken e Marie, ma in effetti recitavamo, non eravamo sinceri. Fu un giorno triste quando i Mitchell, io ed altri del nostro piccolo gruppo cristiano andammo a casa degli Old per una festa di addio. Facemmo del nostro meglio, cercando di rendere quegli ultimi momenti allegri, ma i nostri cuori erano tristi. Cercammo di considerare quel momento come un'occasione non di 'lasciarli partire' ma di 'accomiatarli'. Recitammo bene. Ma nei nostri cuori, quando vedemmo l'auto degli Old a pieno carico, che avanzava pesantemente lungo la strada nazionale, ci sembrò che la vita non sarebbe stata mai più così piena. Mentre guidavo verso casa, quel giorno, ebbe la strana sensazione di ritrovarmi adesso da sola, per conto mio, in una comunità ostile. Che sciocchezza. I Mitchell si trovavano ancora a Wah, dopo tutto! Lo svezzamento prese una piega nuova ed inaspettata, quando in una tarda mattina, qualche mese dopo che gli Old erano partiti, mi telefonò il dott. Daniel Baksh. Mi disse che lui ed il dott. Stanley Mooneyham, rappresentanti un gruppo cristiano denominato World Vision, con sede negli Stati Uniti, California, avevano piacere d'incontrarsi con me. Non avevo mai sentito parlare di quell'organizzazione, ma la mia casa era sempre aperta a chiunque - anche a coloro che, solo per curiosità, venivano a conoscere di persona una musulmana convertita al cristianesimo. Arrivarono insieme, qualche giorno più tardi. Quando terminammo il pranzo, il dott. Mooneyham cominciò a parlare ed era chiaro che non era in cerca di curiosità. Era interessato sì alla mia conversione, ma avevo la sensazione che sarebbe stato ugualmente interessato a quella del mio giardiniere. Mentre sorseggiavamo il té, venne al punto. "Verreste a Singapore, signora Sheikh", chiese il dott. Mooneyham, "a testimoniare per il Signore?". "Singapore?". "Billy Graham sta organizzando là un grande raduno chiamato Cristo cerca l'Asia. Sarà per i cristiani asiatici di ogni nazione: indonesiani, giapponesi, indiani, coreani, cinesi, pakistani. La vostra testimonianza sarebbe un'ispirazione per noi tutti". Non mi andava molto. Avevo abbastanza da fare già qui a Wah, senza andare girando in altre parti del mondo. "Va bene", dissi, "ci pregherò su".
"Fatelo, per favore!" rispose il dott. Mooneyham, e dopo un breve cortese saluto se ne andarono. Dopo un po' che se n'erano andati, mi sedetti sulla veranda a pensare e pregare, così come avevo promesso. Da una parte sentivo che avrei dovuto cogliere l'occasione. Dall'altra sentivo che non avrei dovuto nemmeno pensarci. Ed allora mi venne in mente qualcosa: il mio passaporto. Stava proprio per scadere. Avrei dovuto rinnovarlo se fossi andata a Singapore. In quel tempo in Pakistan c'era molta burocrazia riguardo ai passaporti. La situazione era veramente impossibile. Alcuni avevano inviato i loro passaporti per il rinnovo e non li avevano mai più ricevuti indietro vidimati. Perché non far sì che la situazione si evolvesse da sola? Attendendo una risposta da parte del Signore? Se Egli voleva che andassi, si sarebbe curato dei dettagli del mio passaporto. Quello stesso pomeriggio compilai il modulo con tutte le informazioni richieste e spedii il passaporto all'ufficio addetto. Nel mentre che lo facevo scivolare nella cassetta delle lettere, sentivo che quasi certamente non mi sarebbe stato rinnovato, impedendomi in tal modo di andare a Singapore. Una settimana più tardi mi arrivò una lettera, proveniente da un ufficio governativo. Sorrisi tra me: "Sarà questo il primo passo per ottenere il rinnovo, qualche altro modulo da riempire... e così andrà avanti per mesi". Aprii la busta. Dentro c'era il mio passaporto rinnovato e timbrato! Qualche mese più tardi salutai Mahmud, che aveva ora sei anni, ed andai a Lahore. Lì, dopo una breve visita a mio figlio Khalid, avrei proseguito per Karachi, dove mi sarei imbarcata sul jet per Singapore. Sebbene fossimo nel 1968 e fosse già trascorso un anno e mezzo da quando avevo accettato il Signore, Khalid era più o meno come gli altri membri della mia famiglia: mostrava cioè sempre meno interesse alla mia conversione. Ebbi l'impressione che riteneva che, alla mia età (48 anni), mi stavo 'imbarcando' per uno strano genere di viaggio! Ma dovevo essere rispettata, essendo sua madre. Trascorremmo in maniera piacevole quel breve tempo insieme. Più tardi, quando salii a bordo del jet a Karachi, prendendo in considerazione il viaggio che stavo per intraprendere, ebbi l'Impressione che Khalid avesse ragione. Ma che cosa stavo mai facendo su quest'aereo diretto a Singapore? C'erano molti cri-stiani a bordo e non ero troppo entusiasta di quel che accadeva intorno a me. Rifuggivo la loro esuberanza! Cantavano canti evangelici, si chiamavano l'un l'altro gridando, andavano su e giù lungo il corridoio. A volte alzavano le mani, dicendo ad alta voce: "Gloria al Signore!". Mi sentivo imbarazzata. Era una gioia apparente, non molto diversa da quell'allegria forzata che avevo notato, a volte, per le strade di Londra, in coloro che prendevano parte ad altre manifestazioni. Borbottai tra me che se viaggiare in circoli cristiani consisteva in questo, io non ero affatto interessata. Quel che peggiorò la situazione fu che, per ragioni sconosciute, sentivo che quel viaggio assumeva un significato particolare, al di là del mio safari a Singapore! Era come se quel viaggio fosse profetico, che preannunziasse il genere di vita che sarei stata chiamata a condurre. "O no, Signore" dissi fra me. "Non devi scherzare con me!". Profetico in che senso? Che avrei trascorso una parte del mio tempo viaggiando in aerei jet fra tipi estroversi? Di ritorno a Wah, mi sarei immersa di nuovo nel mio ruolo di tranquilla cristiana di un paese di provincia. Lì almeno mi sarei sentita padrona di me stessa. Il cristianesimo, secondo me, era una gioia da godere in privato e come volevo io. Decisamente non mi piaceva l'idea di mettermi in mostra davanti a centinaia, forse migliaia di estranei. Appena l'aereo decollò, mi misi a guardare fuori dal finestrino, rimanendo ad osservare il mio Paese che si allontanava sotto di me, nella nebbia. Anche se sapevo che in pochi giorni avrei fatto ritorno a casa, qualcosa però mi avvertiva in un senso molto reale che quello non era che l'inizio. Anche se avessi fatto ritorno a casa in senso fisico, in un altro senso non vi avrei mai più fatto ritorno. Questo - questo stesso gruppo di cristiani su un aereo - sarebbe diventato adesso la mia famiglia. Cosa voleva dire? L'idea mi sgomentò. Dall'aeroporto di Singapore andammo direttamente alla sala della conferenza, dove era già iniziato
il convegno. Ed improvvisamente, con mio stupore, notai che stavo avendo una reazione diversa verso questo gruppo di cristiani, lì riuniti. C'erano migliaia di uomini e donne nella sala della conferenza, il più grande assembramento di persone che avessi mai visto prima. Quando entrai nella sala cantavano "Grande tu sei". Sentii la presenza familiare dello Spirito di Dio, non l'avevo mai avvertito prima in maniera così palpitante. In quell'istante avrei voluto piangere non per tristezza ma per gioia. Non avevo mai visto prima una simile folla glorificare il Signore. Riuscivo a sento a crederci. Tante persone, da tante nazioni! Razze diverse, costumi diversi. Nella sala c'erano tante file, una dietro l'altra, di cristiani che lodavano il Signore. Erano tante che sembrava non finissero più... Era completamente diverso adesso ! Non assomigliava affatto al gruppo di persone incontrato sull'aereo. Mi resi allora conto di quel che avevo sperimentato durante il volo. Ogni cosa mi apparve all'improvviso molto chiara. Quelle persone sul jet erano preoccupate, nervose, forse anche impaurite. Spaventati per la novità da affrontare, atterriti per il volo. Facevano gli stupidi per assumere un atteggiamento, non riflettendo la luce dello Spirito, nonostante il linguaggio che usavano. Non agivano in conformità allo Spirito più di quanto non lo fossi io quando rimproveravo uno dei miei domestici o reagivo violentemente con mio zio, quando cercava di far pressione su di me per farmi ritornare all'islamismo. Il problema era stato il loro linguaggio. I loro discorsi cristiani mi avevano ingannata. Avrei dovuto capire che nascondevano i loro timori dietro una parvenza di 'cristianesimo'. Ma in questo centro di conferenze era tutto diverso. Conclusa la parte introduttiva era iniziata adesso l'adorazione. Se la profezia che mi era stata rivelata significava stare con gruppi come questo, in quel caso l'avrei apprezzato ed accettato. C'era ancora una cosa che mi preoccupava. Mi sarei dovuta veramente alzare e parlare di fronte a queste migliaia di persone? Era completamente diverso parlare delle mie esperienze a gente che conoscevo a Wah. Ma qui? Con tutte queste persone convenute da continenti diversi? Non mi sentivo affatto sicura. Mi affrettai verso il mio albergo, dove cercai di riprendermi un po'. Rimasi ad osservare, dalla finestra, una Singapore formicolante. Com'era diversa Singapore da Londra o da Parigi. Le persone si spingevano l'una con l'altra nelle strade, i venditori ambulanti vendevano la loro merce gridando a gran voce, mentre le automobili s'infilavano in quella confusione, suonando continuamente il clacson. La calca sembrava minacciarmi come era stato alla sala della conferenza. Rabbrividii, chiusi le tende e mi rincantucciai nell'angolo opposto della stanza, dove mi sedetti e cercai di calmarmi. "O Signore", gridai "dov'è il Tuo Spirito confortante?". Ed all'improvviso mi ricordai di un'esperienza avvenuta nella mia infanzia, mentre camminavo con mio padre, in un mercato di Wah. Mio padre mi aveva avvertita di stargli a fianco ma io, sempre vivace, avevo voluto allontanarmi. Un'esposizione di fiori aveva attirato la mia attenzione ed io ero corsa ad ammirarla. Quando mi resi conto che mio padre non era più al mio fianco, mi prese il panico e scoppiai in lacrime. "Papà", gridai, "vieni a cercarmi, non voglio più scappare lontano da te". Mentre ancora parlavo, egli stava già arrivando; la sua figura alta e magra si dirigeva in fretta verso di me, attraverso la folla. Ero di nuovo con lui! Tutto quel che desideravo era di rimanere al suo fianco. Mentre ero seduta nella stanza dell'albergo, mi resi conto che in effetti avevo lasciato nuovamente il mio Padre celeste. Permettendo a me stessa di diventare ansiosa, mi ero allontanata dalla Sua presenza confortante. Quando avrei imparato che non potevo preoccuparmi ed aver fiducia in Dio allo stesso tempo! Mi rilassai sulla poltrona e mi sentii di nuovo in pace. "Grazie, Padre", dissi piangendo di sollievo. "Ti prego di perdonarmi per essermi allontanata da Te. Tu sei qui, Tu sei in quella sala. Mi sentirò al sicuro". Pochi minuti più tardi nell'atrio dell'albergo, sentii una mano posarsi sul mio braccio e sentii una voce familiare. Mi girai e vidi il dott. Mooneyham.
"Signora Sheikh, che piacere avervi tra di noi!". Il dott. Mooneyham sembrava molto contento di avermi incontrata. "Volete ancora parlare?". Era come se avesse letto nei miei pensieri. "Non preoccupatevi per me" risposi sorridendo. "Andrà bene. Il Signore è con me". Il dott. Mooneyham rimase fermo lì a scrutare il mio viso, come se avesse dovuto prendere una decisione sul modo d'interpretare le mie parole. Dopo tutto avevo usato anche io un linguaggio cristiano forzato ed egli non l'avrebbe accettato, permettendo forse che l'ingannasse, come aveva ingannato me lull'aereo. Gli occhi del dott. Mooneyham stavano veramente icrutando la mia anima. Poi tutto ad un tratto apparve soddisfatto. "Bene", disse all'improvviso. "Domani mattina sarà il vo-stro turno". Guardò l'ora. "Avrete molte preghiere di sostegno". Il dott. Mooneyham mi aveva capita perfettamente. Quel senso di sicurezza continuò fino alla mattina successiva, quando mi alzai di fronte a migliaia di persone, riunite nell'auditorio, per parlare dello strano modo in cui il Signore mi aveva trovata. Non fu difficile parlare. Egli era con me mentre m'impaperavo e gesticolavo nervosamente nel corso della mia testimonianza. Mi metteva un braccio intorno alle spalle e m'incoraggiava, rassicurandomi che c'era Lui a comunicare agli altri e non io. Quando ebbi finito di parlare, le persone mi vennero intorno, in affettuosa comunione fraterna, ed era come se avessi mosso il primo passo in un nuovo genere di lavoro per il Signore. Il Signore provvide anche a farmi incontrare qualcuno, che sarebbe diventato molto importante nella mia vita, per quanto non me ne rendessi conto in quel momento. Venni presentata al dott. Christy Wilson, una persona molto cortese, che era pastore di una chiesa a Kabul, in Afganistan, dove aveva un ministe-rio tra gli espatriati residenti in quel Paese. Trovammo un punto d'incontro, nello Spirito del Signore, mentre parlavamo del suo lavoro. Terminate le riunioni mi ritrovai sulla strada del ritorno a Wah. Ancora una volta ebbi la sensazione che tutto il viaggio avesse per me uno strano carattere profetico, come se il Signore mi avesse chiesto di andare con Lui a Singapore, per apprendere qualcosa di più su di un genere di lavoro che Egli voleva farmi intraprendere. Va bene, dissi a me stessa, se non altro avrei risieduto a Wah. In tal caso non mi sarebbe rincresciuto troppo allontanarmi, per qualche viaggio occasionale, dalla sicurezza della mia casa avita. Mentre l'auto lasciava la strada nazionale per imboccare il viale alberato di casa nostra, io non ero ancora a conoscenza che il periodo di svezzamento stava per infrangere ancor più quella sicurezza. Capitolo 12 TEMPO DI SEMINA Il passo successivo, verso la separazione, lo feci quando ricevetti la spiacevole notizia che i Mitchell sarebbero dovuti andare per un periodo di licenza negli Stati Uniti. Sarebbe trascorso del tempo prima del loro ritorno in Pakistan. Era trascorso più di un anno dal mio viaggio a Singapore. Ero seduta nel salotto dei Mitchell con un piccolo gruppo di fratelli e sorelle, tutti professionisti della nostra zona. Era un'occa-sione triste, l'ultimo nostro incontro prima che David e Synnove partissero. Non potei fare a meno di pensare alla prima volta in cui, con una certa esitazione, ero venuta in questa stessa casa, in cerca della verità. Erano accadute tante cose da allora. Guardai in faccia le due persone che mi erano state tanto vicino nel mio cammino verso Cristo: David, alto, dai capelli grigi e Synnove, così fervente, che aveva pregato per me con tanta perseveranza. "Sentirò terribilmente la vostra mancanza", dissi, mentre ci trovavamo sul piccolo prato all'inglese, di fronte alla loro casa. "Come farò ad andare avanti senza di voi?". "Il Signore forse ti sta insegnando a farlo senza di noi" disse Synnove. "E sai Bilquis, Egli ci sottopone continuamente alla tensione di una nuova meta di fede finché non consideriamo nessun posto sicuro, all'infuori di Lui".
Sembrava giusto, ma lo stesso non mi piaceva essere provata e lo dissi a Synnove, che rise... "Certo che non vuoi, cara Bilquis. Chi vorrebbe mai lasciare la sicurezza di un grembo materno? Ma l'avventura ti aspetta". Synnove entrò nella sua vecchia auto e chiuse lo sportello. Un altro abbraccio attraverso il finestrino e poi subito l'auto partì, sollevando polvere. Si lasciò indietro gli edifici imbiancati dall'aspetto trascurato, che erano stati gli alloggi degli ufficiali durante la guerra. L'auto scomparve dopo la curva. Mi si prospettava davvero un'avventura! C'era una cristiana abbandonata in una città musulmana! Sarei stata capace di farcela da sola? Trascorsero diverse settimane durante le quali, per la verità, fu difficile per me sperimentare l'avventura di cui Synnove aveva parlato o le direttive e lo scopo che Ken Old aveva predetto quando lui e Marie erano partiti. Mi sembrava che fosse trascorso già tanto tempo dalla loro partenza. Le riunioni della domenica sera continuarono regolarmente, alternandosi a casa di uno di noi cinque che eravamo rimasti. Ma senza la guida degli Old e dei Mitchell gli studi andavano avanti a rilento. Una sera, dopo una riunione, che non aveva suscitato molto interesse, mi venne un'idea. Non stavamo commettendo un errore, cercando di fare esattamente come avevano fatto Mitchell ed Old? Il nostro gruppetto si sarebbe certamente atrofizzato se non avessimo ricevuto nuova linfa tra di noi. Che sarebbe accaduto (solo a pensarci sentivo già accelerare i battiti del cuore), se avessimo chiesto ad altri di unirsi al nostro gruppo, cioè accogliere persone che non fossero necessariamente professionisti: dottori, ingegneri o missionari? Pensavo che avremmo potuto chiedere a cristiani e non cristiani, agli spazzini o ad altri delle classi meno abbienti di unirsi al nostro gruppo. Forse ci saremmo potuti riunire a casa mia, essendo più grande e comoda. Quando feci la proposta al nostro gruppo ci fu una certa resistenza iniziale, poi un consenso un po' scettico. Decidemmo di portare avanti quell'idea. Attraverso inviti diretti e facendo circolare la notizia fra la gente, feci passare parola che la domenica successiva ci sarebbe stata a casa mia una serata cristiana. Rimasi sorpresa di quante persone vennero! La maggior parte veniva da Rawalpindi, dove si era diffusa la voce e proprio come io mi auguravo, non erano tutti cristiani. Molti desideravano ardentemente saperne di più sul Dio dei cristiani. Con quelli del nostro gruppo che fecero da conduttori, cantammo e pregammo, cercando di fare quel che era possibile per provvedere individualmente ai bisogni spirituali di camerieri, manovali, insegnanti o commercianti che erano venuti a casa. Sentimmo subito una nuova ventata alla nostra riunione domenicale. La responsabilità era grande. Sia io che gli altri che guidavano quel piccolo gruppo passammo delle ore sulle nostre ginocchia, delle ore più strettamente vicini al Signore ed alla Parola. Cercavamo di non divergere minimamente dalla direzione che Egli voleva che seguissimo. All'improvviso quel periodo 'senza risultato' che avevo sperimentato fino allora, cambiò completamente. Potei assistere a delle vere conversioni. La prima ad andare al Signore fu una giovane vedova. Gridò al Signore il suo dolore e la sua solitudine e poi Gli chiese di entrare a colmare quel vuoto. Fu straordinario vedere la trasformazione nella sua personalità - da una creatura triste ed indifesa in una figlia di Dio piena di speranza! Dopo poco entrò nel Regno del Signore un meccanico di un garage vicino, seguito da un impiegato d'archivio, poi da uno spazzino. Il tutto nella mia casa. Mi sentii veramente onorata, per quanto mi chiedessi quando avrei cominciato a sentire le reazioni da parte della mia famiglia per quella macchia sulla nostra reputazione. Ma nessuno ebbe niente da ridire. Non ancora, per lo meno... La mia famiglia non voleva accettare quanto stava accadendo. Un giorno inciampai in una mattonella della terrazza, caddi e riportai una leggera frattura ossea. I miei familiari non si fecero vivi, però telefonarono. Avevano fatto almeno quello! Mentre l'opposizione alla mia seppur lenta crescita cristiana si andava affievolendo sempre di più da parte della mia famiglia, ogni tanto invece riaffiorava in me. Ero ancora molto riservata, possessiva e consideravo le mie terre ed il mio giardino ancora come proprietà mia. Oltre il prato del mio giardino c'è una stradina che conduce agli alloggi della servitù. Nei pressi
della strada c'è un albero di ber, che ha dei frutti rossi simili alle ciliegie. Quell'estate, dopo che i Mitchell erano partiti, i bambini del villaggio (incoraggiati forse da quanto si diceva sul mio cambiamento di carattere) cominciarono a venire nella mia proprietà, ad arrampicarsi sull'albero ed a servirsi da sé. L'intrusione era già di per se stessa da condannare, ma quando le loro grida ed il chiasso che facevano interruppe il mio riposo pomeridiano, mi affacciai alla finestra ed ordinai al giardiniere di cacciar via i ragazzi. Gli chiesi anche di abbattere l'albero in quella stessa giornata. Si sarebbe così risolto il problema una volta per sempre! Soltanto dopo aver fatto abbattere l'albero mi resi conto di quel che avevo fatto. Insieme all'albero se n'erano andate anche la gioia e la pace della presenza del Signore. Rimanevo per lungo tempo alla finestra a fissare il posto vuoto lasciato dall'albero. Come avrei voluto che l'albero fosse ancora là... così avrei potuto sentire le grida allegre dei bambini! Mi accorsi allora di com'era la vera Bilquis Sheikh. Nuovamente mi resi conto che non sarei mai cambiata da sola. Era soltanto per mezzo della grazia del Signore che poteva avvenire qualche cambiamento in me. "O Signore", dissi. "Ti prego, fammi di nuovo ritornare alla Tua presenza!". Mi rimaneva solo una cosa da fare. Nel mio giardino c'erano diversi alberi carichi di vari frutti di stagione. Il giorno seguente rivolsi un pubblico invito ai ragazzi del villaggio di venire a goderseli! Lo fecero, eccome! Anche se (ne sono sicura) cercarono di stare attenti, si spezzarono dei rami ed i fiori vennero calpestati. "Penso di capire, Signore, quel che stai facendo", dissi un pomeriggio, dopo che i ragazzi se ne furono andati, ed io stavo rendendomi conto dei danni arrecati. "Signore, Tu ritieni che il giardino si frapponga tra di noi. Mi stai privando perfino del mio giardino! Me l'hai tolto per darlo agli altri. Guarda come se lo Stanno godendo! È il Tuo giardino. Lo cedo a loro con gran piacere. Ti ringrazio per esserTi servito di questo per riportarmi alla Tua presenza confortante". Che ritornò... fino a quando non ebbi bisogno di un'altra potatura. Questa volta non era in ballo il giardino ma il mio prezioso riposino pomeridiano. In un freddo pomeriggio di novembre, mentre stavo riposando, Mahmud entrò nella mia camera. Stava diventando un ragazzo adesso e le sue fattezze attraenti preannunziavano l'aspetto di un bel giovanotto. Il suo viso appariva preoccupato. "Mamma, c'è una donna di là che vuole vederti. Ha un bambino in braccio". Sollevai la testa. "Mahmud", dissi, dimenticando le istruzioni impartite a Nur-jan e Raisham, "tu hai otto anni adesso! Sai bene che non voglio vedere nessuno a quest'ora". Mahmud aveva appena lasciato la stanza che un pensiero mi attraversò la mente: che cosa avrebbe fatto il Signore al posto mio? Ovviamente sapevo quel che Egli avrebbe fatto. Sarebbe andato dalla donna immediatamente, anche se fosse stato nel cuore della notte. Chiamai Mahmud, che non era andato troppo lontano e perciò mi sentì. Si affacciò di nuovo alla porta, con il suo viso scuro un po' meravigliato. "Mahmud", dissi, "cosa vuole la donna?". "Penso che il bambino sia malato", disse Mahmud, entrando nella stanza. Potevo scorgere una certa apprensione nei suoi occhi. "Va bene, accompagnala in salotto", gli dissi, mentre mi preparavo a scendere. In un attimo raggiunsi Mahmud e la donna con il bambino. La mamma era vestita con abiti rozzi ed informi da contadina. Avrebbe potuto essere la nonna del bambino. Aveva un viso avvizzito, le spalle curve; indossava pantaloni larghi su di un corpo esile. Soltanto quando alzò la testa e mi fissò con dei profondi occhi scuri potei rendermi conto che lei stessa era poco più di una bambina. "Cosa posso fare per voi?" chiesi, mentre il mio cuore s'inteneriva. "Ho sentito parlare di voi nel mio villaggio e così sono venuta". Il posto da dove veniva distava quasi venti chilometri. Non c'era da stupirsi che la poveretta avesse l'aria tanto stanca. Ordinai té e panini. Mi domandai se allattava ancora il bambino; in alcuni villaggi le madri allattano i figli fino ai tre anni. Gli occhi del bimbo fissavano assentemente il lampadario di cristallo, mentre la bocca era semi-aperta. Posai le mani sulla sua fronte e pregai per lui, la fronte era molto calda, ma non sudata. Quando posai le mani sulla testa della donna, potevo
immaginare come generazioni dei miei familiari si sarebbero ritratti trasalendo. Nei tempi passati io sarei inorridita anche se solo l'ombra della contadina fosse ricaduta su di me. Il mio cuore palpitò verso quelle creature: la madre ed il piccolo, mentre chiedevo al Signore la loro guarigione nel nome di Gesù. Quando entrò la cameriera con il té, le chiesi di portare anche delle vitamine per la madre. Si trattenne per una mezz'ora, raccontandomi della sua vita con il marito, che era diventato zoppo in seguito ad un incidente. Mi parlò del suo bambino e della mancanza di cibo. Difatti allattava ancora il bambino; era il modo più economico per nutrirlo. Quando la donna si alzò per andarsene, la trattenni con un gesto. "No", sussurrai. "Non ancora. Dobbiamo trovare un modo come farvi curare insieme al bambino". Appena ebbi pronunziato quelle parole, la vecchia Bilquis Sheikh cominciò ad agitarsi. Che sarebbe successo se si fosse venuto a sapere a Wah che la Begum Sahib, dal gran giardino, provvedeva un asilo ai bisognosi? Non saremmo stati sommersi da valanghe di persone anch'esse magre, emaciate, malaticce, disperate, in cerca d'aiuto? Ma anche se dentro di me si affacciava quest'ipotesi, sapevo anche che non avevo scelta. Non l'avevo stabilito nel mio cuore quando avevo dato me stessa e tutto quel che possedevo al Signore? "...e, certamente anche vostro marito ha bisogno di aiuto. Conviene che siate tutti e tre ricoverati in ospedale e che vi nutriate in maniera adeguata. Poi, se vostro marito non sarà riuscito ancora a trovare un lavoro, fatemelo sapere". La donna si accomiatò. Avvertii l'ospedale di mandarmi il conto e rimasi in attesa... ma la donna non ritornò più. Ne fui sorpresa e chiesi alla servitù se, per caso, sapevano che cos'era successo. Come al solito, avevano la risposta! La donna col marito ed il bambino erano andati all'ospedale ed ora stavano tutti bene. Il marito aveva un lavoro. Il mio ego si risentì per l'ingratitudine della donna, che non era ritornata per ringraziarmi, ma il Signore mi frenò. "È per questo che l'hai aiutata? Per essere poi ringraziata? Credevo che i ringraziamenti andassero a Me!". E naturalmente il Signore parlava giusto. Ritornai con la mente a quando avevo sentito in me di prendermi cura della donna. Chiesi allora al Signore di perdonarmi e di non permettermi di cadere di nuovo in quella trappola. "Signore", sospirai, "il Tuo braccio dovrà essere stanco per quante volte mi hai rialzata!". In quei giorni mi sembrava di avere soltanto pochi attimi in stretta comunione col Signore, poi ripiombavo subito in terra in fallimento completo. Mi domandavo se erano quelle le norme di vita prese ad esempio nella vita cristiana. Dato che non avevo nessuno con cui condividere i miei dubbi, dovevo tenerli tutti dentro di me. Una mattina, mentre Nur-jan stava provvedendo alla mia toletta, un uccello dalle piume rosse si posò sul davanzale della finestra. "Oh!" esclamai, "guarda che cosa ci ha mandato il Signore questa mattina!". Nur-jan rimase in silenzio mentre continuava tranquillamente a spazzolarmi i capelli. Ero un po' sorpresa; Nur-jan era di solito così chiacchierona! Poi la cameriera disse timidamente: "Begum Sheikh, sapete che quando cominciate a parlare del Signore, cambia tutto il vostro aspetto?". Quel pomeriggio feci un'ordinazione di diverse Bibbie alla libreria della missione ad Islamabad. Era un'edizione ridotta della Bibbia, illustrata per bambini. Ne avevo constatato l'utilità con Mahmud. Avevo scoperto che anche i servitori, quando ne trovavano una in giro per casa, erano attirati da quel libretto con tante figure colorate. Quando arrivarono le Bibbie, mi sentii in dovere di darne una copia a Nur-jan. Si può immaginare la mia gioia quando la cameriera venne un giorno a parlarmi in privato. "Begum Sahib", disse Nur-jan, mentre si leggeva l'emozione sul suo viso paffuto, "ho qualcosa da raccontarvi. Vi ricordate di quante volte ci avete detto che se volevamo conoscere questo Gesù, tutto quello che dovevamo fare era di chiederGli di venire nei nostri cuori?". A queste parole scoppiò in lacrime. "Io l'ho fatto, Begum Sahib. E Gesù è venuto. Non ho mai provato tanto amore in tutta la mia vita!". Non potevo credere alle mie orecchie. Le gettai le braccia al collo e, tenendoci abbracciate danzammo per tutta la stanza.
"Che notizia incredibile, Nur-jan. Adesso siamo tre cristiane in questa casa: tu, Raisham ed io. Dobbiamo festeggiare!". Così prendemmo il té tutte e tre insieme. Non era la prima volta che bevevo il té con la mia servitù. Eppure provai lo stesso un certo 'choc'. Mentre con grazia bevevamo e sgranocchiavamo il dolce, chiacchierando come vecchie amiche, la mia mente vagava lontano. Cos'era accaduto alla donna che si era ritirata in questa casa per evitare la vita di società? Era qui, seduta con le sue cameriere. Come ne sarebbero rimasti scandalizzati i miei familiari e gli amici! Come si sarebbero meravigliati... Ripensai a quando davo ordini bruschi ed andavo spesso in collera per scaricarmi delle mie frustrazioni. Se notavo un po' di polvere sul piolo di una sedia, se la servitù parlava a voce troppo alta in cucina, se il pranzo ritardava di un attimo, tutto l'andamento della casa poteva dipendere da un mio accesso di collera. Il Signore aveva veramente operato in me ed io mi sentivo veramente soddisfatta della Sua compagnia. Non era che volessi diventare una santa, ma stavo cominciando ad imparare che la mia responsabilità di rappresentare Gesù non mi permetteva di fare alcuna cosa che potesse portare disonore al Suo nome. Ed Egli mi stava anche insegnando che le azioni valgono più delle parole quando si tratta di testimoniare per Cristo. Notai però una cosa strana alle nostre riunioni serali. Nur-jan non era tra le persone del villaggio una dozzina - che adesso s'incontravano a casa mia. Che strano! Un giorno, dopo che lei mi aveva pettinata, le chiesi di trattenersi per un momento. Le domandai se non le sarebbe piaciuto unirsi a noi quella domenica. "Ma Begum", disse Nur-jan con aria allarmata e sbiancandosi in viso, "io non posso parlare di quel che mi è accaduto, né partecipare ad una riunione. Mio marito è un musulmano devoto. Abbiamo quattro figli. Se dico che sono diventata cristiana, mi scaccerà certamente di casa". "Ma devi dichiarare la tua fede", insistetti. "Non c'è altro modo". Nur-jan mi rivolse uno sguardo triste, poi lasciò la stanza scuotendo la testa e mormorando. Potei appena afferrare le parole, "Ma non si può fare". Qualche giorno più tardi feci visita a Madre Ruth, che avevo conosciuta all'ospedale 'Holy Family'. Mi faceva sempre piacere scambiare qualche parola con lei. La suora mi accennò di quante persone in Pakistan siano dei credenti in segreto. "Credenti in segreto!" esclamai. "Non riesco a capire come sia possibile. Se uno è cristiano perché non far sapere la notizia?". "Beh", disse Madre Ruth, "ma leggete nella Bibbia che c'è scritto su Nicodemo". "Nicodemo?". "Era un credente in segreto. Cercate nel capitolo tre del Vangelo di Giovanni". Aprii la Bibbia e cominciai a leggere di come questo fariseo era andato da Gesù, a tarda notte, per saperne di più sul Suo regno. Avevo letto spesso quel capitolo appassionante, ma fino ad allora non mi ero resa conto che Nicodemo fosse, senza dubbio, un credente in segreto. "Forse, in seguito, Nicodemo espresse il suo credo apertamente", disse la Sorella. "Ma per quanto ci mostrano le Scritture, Nicodemo stava attento a non farlo sapere agli altri farisei". Il giorno dopo chiamai Nur-jan nella mia camera e le lessi i versi su Nicodemo. "Mi dispiace di averti messa in imbarazzo", dissi. "A suo tempo il Signore potrà mostrarti come dichiarare la tua fede. Nel frattempo, segui attentamente la Sua guida". Il viso le s'illuminò. Più tardi notai che canticchiava felice, mentre lavorava. "Spero di aver agito in maniera giusta, Signore", dissi. "Quello a cui devo stare attenta è di non emettere giudizi nei confronti degli altri". Soltanto pochi giorni dopo dovetti constatare di persona, con maggior intensità, come fosse difficile diventare cristiana in questa parte del mondo. Un pomeriggio trillò il telefono. Èra uno dei miei zii, un parente che era stato particolarmente duro con me. Anche se il boicottaggio da parte della mia famiglia era cominciato legger-mente a diminuire, questo zio non si era mai messo in contatto con me, né mi aveva mai parlato. La sua voce al telefono era tagliente.
"Bilquis?". "Sì". "Ho sentito che stai facendo sviare altre persone. Li stai allontanando dalla vera fede". "Be', caro zio, questo è un punto di vista". Potevo facilmente immaginarmi la sua faccia che diventava rossa di collera: lo avvertivo chiaramente dalla sua voce mentre mi diceva: "Una cosa è prendere decisioni per conto tuo, un'altra è che le seguano gli altri. Devi smetterla, Bilquis". "Zio, io apprezzo la tua premura, ma devo ricordarti che io conduco la mia vita e tu la tua". Il giorno seguente, mentre il mio nuovo autista mi conduceva a casa, di ritorno da una visita a Tooni, un uomo sulla strada cercò di far fermare l'auto. L'autista sapeva che davo spesso dei passaggi agli autostoppisti. Ma questa volta non volle fermarsi. "Vi prego, non chiedete di fermarmi, Begum," disse con voce decisa. Fece una sterzata dov'era l'uomo, mentre le gomme stridevano contro il battistrada. "Che volete dire?" chiesi, sporgendomi dal sedile. "Non volete intendere che quell'uomo stava cercando di...?". "Begum..." "Sì?". "Begum, è proprio quello..." poi l'uomo cadde in un ostinato silenzio e nonostante le mie insistenze, non riuscii a tirargli fuori altre informazioni. Soltanto una settimana dopo, una donna della mia servitù penetrò nella mia stanza, pochi minuti dopo che vi ero entrata per il mio riposo pomeridiano. Chiuse la porta dietro di sé. "Spero che non vi dispiaccia", disse in un basso mormorio. "Voglio soltanto mettervi in guardia. Ieri mio fratello era nella moschea di Rawalpindi quando ha sentito un gruppo di giovani che parlavano del male che state facendo. Dissero che si doveva fare qualcosa e subito, per mettervi a tacere". La voce della ragazza tremava. "Oh Begum Sahib" disse, "dovete proprio agire così apertamente? Noi temiamo per voi ed il ragazzo". Il mio cuore ebbe un sussulto. Adesso toccava a me pensare se non sarebbe stato meglio rimanere una credente in segreto in questo Paese ed in seno alla mia famiglia, dove Gesù era considerato anatema. Capitolo 13 TEMPORALE IN ARRIVO Trascorsero due mesi da quando avevo sentito quelle minacce nei miei confronti. Non mi capitò però niente di grave a parte delle occhiatacce ostili da parte di certi giovani e così cominciai a chiedermi se l'allarme non fosse infondato. Era di nuovo tempo di Natale, qualche anno dopo aver conosciuto il Bambino di Betlemme. Anche se alcuni miei familiari mi facevano visita di tanto in tanto, la telefonata minacciosa di mio zio mi rammentava che i rapporti con i miei parenti erano ancora tesi. Pensai che sarebbe stata una buona idea invitare a pranzo parenti ed amici per rendermi conto, in tal mòdo, se c'era qualcos'altro da fare per rinsaldare quella rottura. Trascorsi parecchio tempo a preparare la lista degli ospiti. Poi una sera, prima di andare a letto, infilai la lista completa nella Bibbia, per tenerla in un posto sicuro, dato che volevo spedire gli inviti la mattina successiva. Ma non lo feci mai. Difatti, quando la mattina aprii la Bibbia per prendere il foglio, gli occhi mi si posarono su di un passo. Sorprendentemente, vi si legge:
"Quando fai un desinare o una cena, non chiamare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i vicini ricchi; che talora anch'essi non t'invitino, e ti sia reso il contraccambio; ma quando fai un convito, chiama i poveri, gli storpi, gli zoppi, i ciechi; e sarai beato, perché non hanno modo di rendertene il contraccambio; ma il contraccambio ti sarà reso alla risurrezione de' giusti". Luca 14: 12-14 "Signore è questo che vuoi dirmi?" mi domandavo, tenendo la Bibbia in una mano e la lista degli invitati nell'altra. Certo la maggior parte dei miei parenti, vicini ed amici erano agiati. Avevo pensato che sarebbe stata un'opportunità per riunire insieme musulmani e cristiani, ma in effetti mi rendevo conto che c'era dell'orgoglio da parte mia. Volevo dimostrare alla mia famiglia che avevo ancora amici benestanti. Appallottolai il foglio. E feci invece esattamente quel che dice la Bibbia. Preparai un elenco con i nomi di vedove, orfani, gente povera o senza lavoro del villaggio e poi li invitai tutti ad intervenire al pranzo di Natale. Erano inclusi tutti, anche i mendicanti. Alcuni degli inviti li feci personalmente, per gli altri detti incarico al mio personale. Notizie come quelle viaggiano in fretta e presto i miei servitori mi riferirono che tutto il villaggio aveva intenzione di venire. Per un attimo ebbi dei timori. Tutte quelle persone! Pensai a quel paio di tappeti persiani in seta, lavorati a mano, che avevo da poco acquistato per il salotto. Va bene, pensai, in quell'occasione potevo sempre mettere da parte tutte le cose di valore. Cominciammo così i preparativi. L'entusiasmo degli otto anni di Mahmud era contagioso, mentre mi aiutava a preparare i regali per coloro che sarebbero venuti. Avevo comprato camicie di lana per i ragazzi, abiti a colori vivaci per le ragazze, rotoli di stoffa rossa, rosa e porpora per le donne, pantaloni pesanti per gli uomini, sciarpe e scarpe per i bambini. Trascorsi delle ore insieme alla servitù per incartare i doni e legare i pacchi con nastri argentati. Un giorno si sentì bussare alla porta: era un gruppo di donne di Wah che si offrivano in aiuto. "Non per essere pagate, Begum", chiarì la loro portavoce. "Vogliamo soltanto darvi una mano a preparare". All'improvviso la festa era diventata un'attività comunitaria. Per le decorazioni, chiesi ad una famiglia di ceramisti del villaggio di fare delle lampade - le piccole lampade ad olio in ceramica, che sono ancora usate in questa zona del Pakistan. Ne ordinai 500. Le donne del villaggio mi aiutarono a fare gli stoppini, attorcigliando dei fili di cotone. Mentre lavoravamo, mi si presentarono diverse opportunità per parlare di Cristo. Quando, ad esempio, sistemammo le varie lampade per la casa, raccontai la storia delle vergini sag-ge e di quelle stolte. La preparazione del cibo fu un'altra cosa entusiasmante. Le donne del villaggio mi aiutarono nuovamente a preparare i dolci tipici pakistani: le mandorle tagliate e le deliziose noci legus. Tagliarono la carta argentata in striscie tanto sottili, che potemmo attaccarla sui dolciumi come un pennacchio argentato. La gente del villaggio cominciò ad arrivare il 24 dicembre e continuò a venire nei giorni successivi, facendoli diventare un'intera settimana di festeggiamenti. Le lampade illuminavano ogni nicchia, con la loro luce suggestiva, mentre noi eravamo allegramente seduti sui davanzali e sulle ringhiere delle nicchie. Mahmud si divertì molto a giocare con i ragazzi del villaggio. Non avevo mai visto brillare tanto gli occhi di quei bambini né, per la verità, quelli di Mahmud. Grida e risate risuonavano per casa. Ogni tanto Mahmud veniva a chiedermi qualcosa. "Mamma, ci sono altri cinque ragazzi là fuori, possono entrare?". "Ma certo" rispondevo ridendo, dandogli un colpetto sulla schiena. Di certo c'erano ora più bambini a casa nostra di quanti vivessero in tutto il paese di Wah! Quando parlai con la gente del villaggio del modo in cui Cristo ci aveva insegnato a comportarci l'uno con l'altro, la loro domanda fu, "ha veramente camminato con persone come noi?". "Sì", risposi, "ed oggi quel che facciamo per gli altri è come se lo facessimo a Lui".
A chiusura della serata, quando la festa era ormai terminata, mi sprofondai su di una poltrona, senza preoccuparmi (questa volta) di sedermi su qualche bambino addormentato, e sospirando di soddisfazione mi rivolsi al Signore: "Era questo che Tu volevi che io facessi?". Mi sembrò di udire la Sua risposta rassicurante: "Sì". Soltanto allora mi accorsi di non aver tolto i nuovi tappeti persiani. Eppure non sembravano affatto sciupati dall'uso. Molti di quei poveri non dimenticarono mai quel ricevimento. Circa un mese dopo seppi, per mezzo di uno della servitù, che c'era stato un funerale a Wah e che la moglie del mullah locale aveva detto, ad alta voce, che avevo commesso un errore a lasciare la mia vecchia fede. Qualcuno però le rispose: "Avete incontrato la Begum Sahib ultimamente? Avete forse fatto qualcuna delle cose che lei ha fatto da quando è diventata cristiana? Se volete saperne di più su Dio, perché non andate da lei?". C'era però anche un altro aspetto di quell'esperienza. Seppi difatti che c'erano delle persone a Wah, ai quali questa festa non era andata a genio. Un vecchio dipendente, che lavorava nel giardino, un giorno mi fermò. "Begum Sahib", disse toccandosi la fronte: mi concedete un minuto?". "Ma certamente". "Begum Sahib Gi, in città c'è una voce in giro che dovreste sapere. Si parla di come la Begum sia diventata un problema. Ci sono alcuni nel villaggio, che dicono che faranno qualcosa contro di voi". "Contro di me?" dissi. "Non capisco". "Nemmeno io, Begum Sahib. Ma sentivo di dovervelo dire...". Avvertimenti come quello, a volte si susseguivano l'uno all'altro, altre volte invece intercorrevano dei mesi fra di essi. Nell'anno successivo cominciarono a verificarsi con crescente regolarità. Era come se il Padre mi stesse preparando ad affrontare dei tempi difficili. Un giorno, ad esempio, vennero a casa nostra tre ragazzini del villaggio. In seguito mi domandai se non erano dei messaggeri di Dio, che venivano sotto forma di bambini. Mahmud arrivò con delle notizie da parte loro. Tremava tutto e gli occhi erano spalancati per la paura. "Mamma, sai cosa hanno detto i miei amici? Che certe persone del villaggio stanno progettando di ammazzarti. Lo faranno dopo le preghiere del venerdì". Mahmud cominciò a singhiozzare. "Se muori, io mi ucciderò!". Che dovevo fare! Strinsi il mio nipotino tra le braccia, e carezzandogli i capelli arruffati, cercai di confortarlo. "Caro Mahmud" dissi, "voglio dirti qualcosa di Gesù". Gli raccontai del primo sermone di Gesù a Nazaret, di quando la folla si era così inferocita che aveva deciso di lapidarlo. "Mahmud", dissi, "Gesù passò in mezzo a loro senza essere toccato. Non c'era niente che potesse essere fatto contro di Lui fino a quando il Padre non lo avesse permesso. È la stessa cosa con te e con me. Abbiamo la Sua protezione. Tu lo credi?". "Intendi dire, che nessuno ci farà del male?". "No, non voglio dire questo. Anche a Gesù lo fecero. Ma soltanto quando era giunto il Suo tempo di soffrire. Non dobbiamo vivere una vita nel continuo terrore che ci accadrà qualcosa di terribile. Non potrà accaderci nulla fino a che non sarà venuto il nostro momento. E può darsi anche che quel momento non venga mai. Dobbiamo soltanto aspettare con fiducia. E nel frattempo vivere, riposando, nel Signore. Hai capito?". Mahmud mi guardò con i suoi occhioni scuri e dolci. All'improvviso sorrise, si voltò e corse fuori a giocare, gridando di gioia. Era la risposta migliore che potesse dare alla mia domanda! Avrei voluto anch'io sentirmi così sicura! Non perché non credessi a quanto avevo appena detto a Mahmud, ma non avevo ancora la fiducia spontanea di un bambino. Mi alzai e prendendo la Bibbia, mi diressi in giardino. Il mio cuore era un po' oppresso. Come osavano tentare di strapparmi dalla mia terra! L'aria di quella giornata di autunno era fresca ed asciutta. Mentre camminavo lentamente lungo il sentiero ghiaioso, potei avvertire il guizzo di un pesce nel ruscelletto che scorreva attraverso.la mia proprietà e potei sentire il richiamo lontano di un uccello. I crisantemi ed altri fiori tardivi dell'estate ornavano i bordi del sentiero. Respirai con piacere quell'aria frizzante. Era la mia terra e la mia
gente. Era il mio Paese. La mia famiglia lo aveva servito onorevolmente per settecento anni. Era la mia casa ed io non potevo, non volevo lasciare tutto questo! Eppure si verificarono dei fatti, completamente fuori del mio controllo, che non erano certo di buon auspicio alla mia ostinata determinazione di rimanere a casa mia. Nel dicembre 1970, quattro anni dopo la mia conversione, il Pakistan ebbe la sua prima elezione nazionale, in cui ogni cittadino aveva diritto al suo voto. Sembrava che avrebbe vinto il Partito Popolare. E quella non era proprio una buona notizia per me! Nessuno dei miei amici altolocati faceva parte di quel partito. Lo slogan del nuovo partito era: "Islamismo - la nostra fede, Democrazia - la nostra politica, Socialismo - la nostra economia". Era uno slogan destinato a far presa sull'uomo della strada. Mi rendevo conto che il pakistano medio provava un nuovo senso di potere. Era vantaggioso per me? Forse lo era per la nuova Bilquis, ma esisteva un pericolo inerente anche ad esso. Difatti non c'è niente che infiammi di più lo zelo di un fanatico che il credere che il suo governo lo sosterrà nelle proprie azioni. La mia vecchia reputazione non era certo quella di una democratica; il socialismo non si adattava bene alle antiche tradizioni della nostra famiglia ed in quanto all'islamismo - adesso ero considerata una traditrice. Seguii gli eventi un po' a distanza. Un giorno arrivò da Sardar un vecchio amico di mio padre. Nonostante il suo disappunto per la mia nuova fede, aveva cercato di starmi vicino. Di tanto in tanto mi telefonava o veniva a farmi visita per rassicurarsi che andava tutto bene. Ora era seduto con me in salotto, sul divano di seta bianca e sorseggiava il suo té. "Bilquis", disse a voce bassa, "ti rendi conto di quel che sta avvenendo e di come puoi esserne coinvolta?". "Ti riferisci al Partito Popolare Pakistano?". "Certo, hanno vinto le elezioni! Che cosa sai di Zulfikar Ali Bhutto?". Risposi che lo conoscevo bene. "Ma non leggi i giornali, non ascolti la radio?". "No, lo sai che non trovo tempo per questo". "Sì, ma adesso ti suggerisco di trovare il tempo! La situazione al governo è cambiata. Dubito che tu possa contare su di lui come hai fatto con i presidenti precedenti". Poi aggiunse: "Mia cara, tu hai perso l'influenza che potevi avere nelle alte sfere. Quell'epoca è passata". Una mezz'ora più tardi mi accomiatai dal mio vecchio amico, accompagnandolo fino al viale, poi feci ritorno a casa. Chiamai la cameriera per far riordinare e nel frattempo pensavo a quanto aveva detto il mio amico. Era come se avesse parlato da parte del Signore, preparandomi a constatare l'evidenza dei fatti. Non potevo ormai contare più sulla protezione dei miei amici influenti e questo mi spingeva un passo avanti verso la totale dipendenza dal Signore. Non trascorse molto tempo che cominciai ad avvertire un'ostilità crescente nei miei riguardi. La scorgevo negli occhi degli uomini, mentre camminavo per le strade di Wah. Lo constatai nell'atteggiamento di un semplice impiegato, che prima mi aiutava nella denunzia dei redditi. Nel passato era un uomo servile, che s'inchinava in segno di rispetto, toccandosi la fronte. Adesso l'ometto era diventato apertamente ostile. Lo potevo notare nelle sue osservazioni taglienti e nella maniera sprezzante in cui sbattè la mia pratica sul tavolo. E più tardi mentre passeggiavo lungo la strada che costeggia la mia casa, scorsi un uomo, che di solito quando mi vedeva mi veniva incontro per parlarmi. Questa volta non lo fece. Appena m'intravvide, girò subito la testa dall'altra parte e continuò a guardare in quella direzione, mentre io passavo. Ridacchiai fra me. "Signore, vedi che ci comportiamo tutti come bambini!". Notai con interesse che il nuovo governo aveva avuto poche ripercussioni sul mio personale di servizio. Oltre a Nur-jan, che continuava sempre in silenzio il suo cammino con Gesù e Raisham, l'altra cameriera cristiana, tutta la mia servitù era fedele seguace di Maometto. Eppure esisteva uria sincera affezione fra noi tutti. Più di una volta i miei servitori musulmani sono venuti in camera mia ed in tono implorante mi hanno detto: "Vi prego, Begum Sahib Gi, se doveste andarvene... o se decideste di partire... non vi preoccupate per noi. Troveremo lavoro!". Adesso avevo un rapporto diverso con il mio personale rispetto a quattro anni prima!
Anche i sogni ebbero un ruolo importante per me in quel periodo. I sogni avevano avuto un posto rilevante nella mia esperienza cristiana, fin dal giorno in cui incontrai Gesù, che venne a banchettare con me. Adesso quelle esperienze strane e mistiche, allo stesso tempo, come lo stesso apostolo Paolo ci dice di aver sperimentate, divennero per me sempre più frequenti. Una notte mi sentii rapita nello spirito ed attraversai l'oceano ad una velocità impressionante. Alla.velocità della luce giunsi a quella che ritenni essere la Nuova Inghilterra, per quanto non fossi mai stata in America prima. Fui trasportata, sempre nello spirito, in una casa o era forse una casa di cura. C'era una stanza a due letti, in uno di essi era coricata una donna di mezz'età dal viso pieno, occhi azzuro chiaro e capelli corti grigi. Una coperta di cotone bianco, lavorata in rilievo, ricopriva il letto. Era evidente che la donna fosse malata: sentivo che aveva un cancro. Un'infermiera leggeva, seduta su una sedia. Vidi allora il mio Signore in un angolo della stanza. M'inginocchiai davanti a Lui, chiedendoGli cosa dovessi fare. "Prega per lei", rispose. Andai vicino al letto della donna e pregai ferventemente per la sua guarigione. La mattina mi sedetti alla finestra, ancora intimorita, per quel ch'era accaduto in quella stanza d'oltre oceano. Perché Gesù mi aveva chiesto di pregare per la donna? Egli era là, eppure mi aveva chiesto di pregare per lei. Stavo cominciando ad avere una pallida idea di una straordinaria rivelazione. Le nostre preghiere sono d'importanza vitale per il nostro Signore. Egli opera per mezzo di esse. Mi sentii guidata a leggere il quinto capitolo di Giacomo: "La preghiera della fede salverà il malato, e il Signore lo ristabilirà: e s'egli ha commesso dei peccati, gli saranno rimessi... molto può la supplicazione del giusto, fatta con efficacia". In questo modo le nostre preghiere liberano un forte potenziale nella persona per cui noi intercediamo. Un'altra volta vidi, come in visione, che salivo su una passerella di sbarco, come se avessi dovuto imbarcarmi su una nave. La passerella conduceva fino ad una stanza. Cristo Gesù era in quella stanza: sembrava che stesse dandomi delle istruzioni. Tornai indietro, passando di nuovo per la passerella e lì, al termine, c'era una signora che attendeva, vestita in abiti occidentali: gonna e giacca. Sembrava che stesse lì ad attendermi. Venne verso di me, si mise sotto il mio braccio e cominciò a camminare, portandomi con lei. "Ma dove stiamo andando, Signore?" chiesi girandomi verso di Lui, ma Egli non me lo disse. Il sogno sembrava preannunziarmi che avrei fatto un altro viaggio. Per quanto questa volta sarei partita per una destinazione sconosciuta, Gesù avrebbe vigilato sul viaggio. Il sogno mi lasciò in un tale stato di predisposizione a fare la volontà del Padre che non mi allarmai affatto alla notizia che mi portò un vecchio amico. Nel marzo del 1971, pochi mesi dopo che il Presidente Bhut-to era entrato in carica, ricevetti la visita di Yacub, un amico del Ministero. Era da tanti anni molto intimo della nostra famiglia. Al tempo in cui mio marito era Ministro, ci fu un periodo di declino economico per il Pakistan, con un conseguente forte bilancio passivo. Yacub ed io ideammo un programma di autogestione chiamato il 'Piano per un tenore di vita più semplice'. Lo scopo prefisso era quello d'incoraggiare le industrie pakistane a produrre le nostre proprie merci, facendo diminuire in tal modo le importazioni. Eravamo poi andati in giro per il Paese per provvedere aiuti alle piccole manifatture e ad incentivare l'artigianato locale. Avevamo incoraggiato la gente del posto a tessere la tela e cominciare a produrre i propri capi di vestiario. Noi stessi avevamo voluto adottare un programma di austerità, indossando abiti di fabbricazione locale. Il 'Piano per un tenore di vita più semplice' fu un'iniziativa che riscosse successo. Le fabbriche locali cominciarono a prosperare e le condizioni del Pakistan migliorarono. Dopo di allora, col passar degli anni, Yacub veniva ogni tanto a farmi visita e discutevamo insieme di politica e di affari internazionali. Yacub conosceva bene il nostro patrimonio di famiglia, dato che aveva visitato le numerose proprietà che possedevamo in tutto il Pakistan. Sapeva inoltre che la maggior parte dei nostri capitali era investita in beni immobili. "Bilquis", mi disse, quasi scusandosi, "mentre parlavo con degli amici è venuto in discussione l'argomento delle tue finanze. Hai mai preso in considerazione la vendita di qualche terreno? Non so
quanto sia sicuro per te avere tutti i tuoi capitali investiti in beni immobili, con la riforma terriera annunziata da Bhutto". Che premura da parte di Yacub. E non senza correre rischi. Con la crescente ostilità verso la passata classe dirigente, la sua auto di rappresentante del governo, fuori casa mia, poteva facilmente suscitare delle critiche, che sarebbero ricadute su di lui. "Ti ringrazio Yacub", dissi, cercando di controllare la mia voce. "Ma per come stanno le cose adesso, sono risoluta nella mia decisione. Niente, assolutamente niente, mi costringerà ad andarmene!". Dire una cosa del genere era certo puerile da parte mia, ma la vecchia natura di Bilquis, con le sue maniere arroganti ed ostinate, stava venendo fuori, prendendo il sopravvento. Il mio atteggiamento, d'altra parte, non sorprese affatto il mio amico. "Era quella la risposta che mi aspettavo da te, Bilquis", disse Yacub, lisciandosi i baffi e ridendo. "Potrebbe venire comunque il tempo in cui potresti lasciare il Pakistan, se avrai bisogno di aiuto...". "Se ce ne sarà bisogno, mio buon amico, certamente mi ricorderò della tua proposta", esclamai. Ancora un sogno: questa volta da parte di Raisham, di solito tanto riservata. "Begum Sahib" mi disse la ragazza, piegando la sua esile figura verso di me, che ero seduta sullo stesso divano di quando incontrai il Signore in quella notte gelida, "ho avuto un sogno orribile. Posso raccontarvelo?" "Ma certo". Ascoltai attentamente. Raisham mi riferì che nel sogno aveva visto degli uomini, dall'aspetto cattivo, che erano penetrati in casa e mi avevano fatta prigioniera. "Avevo lottato con loro" mi disse. "Poi avevo gridato ad alta voce 'Begum, scappate!' E nel sogno vi ho vista lasciare la casa fuggendo". Gli occhi scuri della ragazza erano umidi di lacrime. Dovetti io confortare lei! Ma non mi riuscì difficile. Nelle parole che pronunziai, c'era un avvertimento, che avrei dovuto spesse volte ricordare. "Mia cara," dissi, "in questi ultimi tempi ho sentito spesse volte, da parte del Signore, dell'eventualità di dover fuggire. Potrebbe accadere. Al principio mi rifiutavo anche di crederlo. Ma ora comincio a pensarci". "È possibile", dissi sorridendo ed alzandole il viso pallidissimo per il mento, "che debba andarmene. Ma se lo farò, sarà quando il Signore lo deciderà per me. Sto imparando ad accettare ogni Sua decisione. Mi credi?" La ragazza rimase a lungo in silenzio. Poi disse: "Che maniera meravigliosa di vivere, Begum Sahib". "Sì, lo è veramente. È l'unica via. Non c'è più niente sotto il mio proprio controllo". Per quanto credessi ciecamente a quanto avevo detto, appena la ragazza ebbe lasciato la mia camera non mi sentivo più tanto in grado di poter controllare le mie emozioni, come volevo far credere. Fuggire? Scappare via? Io? La serie di messaggi su 'esperienze' da riferirmi continuò con maggior intensità nell'autunno del 1971. Un giorno Nur-jan venne da me, senza fiato e tesa per l'emozione. "Che c'è, Nur-jan?" le chiesi, mentre con le mani che le tremavano iniziò a spazzolarmi i capelli. "Oh, Begum Sahib", disse singhiozzando Nur-jan, "non voglio che vi facciano del male". "Chi vuol farmi del male?". Nur-jan si asciugò gli occhi. Mi raccontò allora che suo fratello era stato alla moschea il giorno prima ed aveva sentito che un gruppo di uomini diceva che finalmente era venuto il tempo di agire contro di me. "Hai un'idea di quel che intendessero?". "No, Begum Sahib", disse Nur-jan. "Ma vi confesso che ho paura. Non soltanto per voi, ma anche per il ragazzo". "Un ragazzo di nove anni... non vorranno...?". "Begum Sahib, questo non è più lo stesso Paese di cinque anni fa. State attenta, vi prego", disse Nur-jan; sembrava strano vederla così seria, lei che era sempre pronta al riso!
E veramente qualche settimana più tardi, accadde qualcosa... Era stata una bella giornata. L'autunno era ormai nell'aria. Eragià passata la stagione dei monsoni: il tempo era asciutto e fresco. Non era capitato niente di strano per tutto quel tempo e perciò pensavo che, dopo tutto, vivevamo in un'epoca moderna. Eravamo nel 1971, non nel 1571! Le guerre sante erano un triste retaggio del passato. Salii nella mia stanza per la mia ora di preghiera. Ma all'improvviso, senza sapere il perché, sentii il bisogno urgente di prendere Mahmud e di correre insieme fuori, sul prato! Che cosa insensata... Ma sentivo quella sensazione impellente dentro di me. Mi precipitai a svegliare Mahmud, dal suo sonnellino pomeridiano, e senza dargli spiegazioni lo trascinai, ancora assonnato con me. Per quanto sentissi di fare qualcosa senza senso, corsi giù per le scale, aprii la porta che dava accesso al portico francese e mi precipitai fuori. Nel momento in cui misi piede sulla terrazza, sentii un odore acre di bruciato. Qualcuno stava bruciando dei rami di pino. Esisteva un divieto, di lunga data, che proibiva a chiunque di bruciare rifiuti nella mia proprietà. Andai in cerca del giardiniere, ma appena girato l'angolo di casa rimasi inorridita. Ammucchiata, contro la casa, c'era una catasta di rami di pino in fiamme. Il fuoco, alimentato dalla legna secca, aveva ormai raggiunto l'ala dell'edificio, lambendolo con le sue fiamme alte. Gridai. Accorse la servitù. Subito alcuni di loro andarono a riempire dei secchi d'acqua al ruscello, correndo avanti e indietro. Altri avevano srotolato la pompa del giardino, dirigendo il getto d'acqua sulle fiamme, ma la pressione era troppo bassa. Per un attimo sembrò che il fuoco stesse per prendere nel rogo le travi che sporgevano dal tetto. Si erano già bruciacchiate ed usciva del fumo. Non c'era alcun modo di raggiungerle con l'acqua. Per evitare che la casa andasse a fuoco si doveva spegnere l'incendio. Facemmo una corsa col tempo. Tutto il personale, composto da dieci servitori formò una catena dal ruscello alla casa - passandosi l'un l'altro i secchi d'acqua, che nella fretta in parte si versava per terra. Continuarono così per una buona mezz'ora fino a quando il fuoco fu sotto controllo. Ci mettemmo in circolo intorno al fuoco, eravamo una dozzina, tutti sudati, eppure tremanti. Ancora qualche minuto e la casa sarebbe stata avvolta dalle fiamme. Sarebbe stato allora impossibile estinguerle. Incrociai lo sguardo di Nur-jan. Si strinse nelle spalle, scuotendo la testa. Sapevo esattamente quel che stava pensando. La minaccia era stata portata a termine. Guardai verso il tetto: le travi di legno avevano le estremità sporgenti carbonizzate, mentre i muri bianchi della casa erano sporchi di fuliggine. Ringraziai il Signore che non era successo niente di peggio e rabbrividii al pensiero di che cosa sarebbe potuto accadere se non fossi andata fuori in quel preciso momento. Un'ora più tardi, dopo che la polizia era venuta per investigare, prendere appunti ed interrogare sia me che il personale, mi sedetti nuovamente nella mia stanza. Presi la Bibbia per verificare se il Signore aveva qualcosa di particolare da dirmi in quell'occasione. Mi balzò sotto gli occhi una frase. "Affrettati, scampa colà, poiché io non posso far nulla finché tu vi sia giunto" (Genesi 19:22). Posai il libro e guardai verso l'alto. "Signore, tutto quello che devi fare adesso è mostrarmi la via che Tu vuoi che io percorra. Sarà facile o dura?". "E soprattutto, Signore", dissi mentre mi si riempivano gli occhi di lacrime, "che ne sarà del ragazzo? Potrà venire anche lui con me? Mi hai privato di tutto. Mi verrà tolto anche il bambino?". Sei mesi più tardi, nel maggio del 1972, il Signore mi parlò nuovamente con un altro sogno. Raisham venne da me, con un'espressione molto preoccupata sul viso. "Begum Sahib", disse Raisham, "la cassetta dei soldi è al sicuro?". Si riferiva alla scatola di legno in cui conservavo il denaro in contanti. "Ma certo che è al sicuro", risposi. "Perché?".
"Meno male", disse Raisham, cercando di controllare la voce. "Ho fatto un sogno la notte scorsa: stavate partendo in automobile per un lungo viaggio. Avevate con voi la cassetta coi soldi". "Davvero?" risposi. Non era una cosa insolita, dato che portavo spesso con me, nei viaggi, la cassetta. "Ma il sogno era così reale" insistette Raisham. "E la cosa triste è che mentre viaggiavate, delle persone vi hanno fermata e vi hanno derubata della cassetta col denaro". La donna tremava ed ancora una volta fui io a doverla confortare, assicurandola che la perdita del denaro mi avrebbe spinta a dipendere ancora di più dal Signore. Dopo che Raisham ritornò al suo lavoro, ripensai a quel sogno. E se fosse stato profetico? Forse voleva mettermi sull'avviso che sarei stata privata delle mie finanze? Sarei rimasta presto da sola ad affrontare le difficoltà senza nemmeno mezzi di sostentamento? Erano delle giornate piene di sorprese per me. Due mesi più tardi, in una calda giornata di luglio del 1972, un servitore venne ad annunziarmi l'arrivo di mio figlio Khalid. "Khalid?". Mio figlio viveva a Lahore. Perché aveva fatto un viaggio speciale, soprattutto con quel caldo soffocante? Che aveva da comunicarmi di tanto importante che non poteva essere detto per telefono? Khalid mi attendeva in salotto. "Figlio mio", esclamai, mentre entravo, "che piacere rivederti! Ma perché non mi hai telefonato?". Khalid mi venne incontro e mi baciò. Poi chiuse la porta del salotto e, senza preamboli, arrivò subito allo scopo della sua visita. "Mamma, ho sentito qualcosa che mi ha preoccupato". Fece una pausa. Cercai di sorridergli. Khalid abbassò la voce e continuò: "Mamma, il governo sta per espropriare molte proprietà private". Riandai col pensiero alla visita fattami dal mio amico del governo, il quale mi aveva detto la stessa cosa più di un anno addietro, nel marzo del 1971. La sua visita profetica stava per realizzarsi adesso? Khalid mi disse che Bhutto stava iniziando la sua riforma terriera e sembrava proprio che le mie proprietà sarebbero state tra le prime ad essere nazionalizzate. "Cosa pensi che dovrei fare?" chiesi. "Le requisiranno tutte o soltanto una parte?". Khalid si alzò dalla sedia ed andò verso il balcone del giardino, assorto nei suoi pensieri. Ritornando verso di me disse: "Mamma, nessuno lo sa. Forse sarebbe meglio vendere qualcuno delle tue proprietà in piccoli lotti. In questo modo il nuovo proprietario sarà protetto da una totale requisizione da parte del governo". Più ci pensavo su e più sentivo che la proposta di Khalid era da prendere in considerazione. Andammo in auto da Tooni per discutere insieme la cosa; fummo tutti d'accordo che quello fosse il sistema giusto. Decidemmo che Khalid sarebbe ritornato a Lahore. Entro breve tempo lo avremmo raggiunto Tooni ed io con Mahmud, per sistemare le pratiche. Così in una calda mattinata del luglio 1972, noi tre eravamo pronti per andare a Lahore. Lì avrei preso contatto con gli agenti immobiliari interessati alla vendita delle mie proprietà. Appena uscita di casa rimasi colpita dalla bellezza del mio giardino. Gli alberi erano nella loro piena fioritura e le fontane avevano un suono argentino diverso dal solito. "Ritornerò fra qualche settimana" dissi al personale di servizio, riunito sulla soglia di casa. Apparvero tutti accettare l'idea. Tutti, tranne Nur-jan e Raisham. Nur-jan all'improvviso scoppiò in lacrime e se ne andò via correndo. Con un po' di tristezza andai nella mia camera a prendere qualcosa che avevo dimenticato. Stavo per scendere, quando trovai Raisham davanti alla porta. Mi prese la mano, aveva gli occhi umidi di lacrime. "Il Signore vi protegga, Begum Sahib Gi", disse con un filo di voce. "Che protegga anche te", le risposi. Restammo in silenzio senza parlare, ma pur comunicandoci tante cose. Sentivo dentro di me che non avrei più rivisto questa ragazza alta e snella - con cui ero diventata tanto intima negli ultimi tempi. Le strinsi la mano bisbigliando: "Non c'è nessuno che sappia pettinarmi come te". Raisham si
coprì il viso con le mani e scappò via. Stavo per chiudere la porta, quando qualcosa mi trattenne. Ritornai dentro. Mi guardai attorno: i mobili chiari erano rischiarati ancora di più da un raggio di sole che entrava dalla finestra del giardino. Era lì che avevo conosciuto il Signore. Girai le spalle alla mia camera ed al mio prezioso giardino, dove avevo avvertito tante volte la presenza del Signore, e mi diressi verso l'auto. A Lahore vivevano delle persone, che desideravo tanto rivedere. A parte, naturalmente, Khalid, sua moglie e la figlia ormai adolescente. Avevo inoltre la possibilità d'incontrarmi con gli Old. Avevo scritto che sarei andata a Lahore. La loro nuova missione era in un villaggio, ad una certa distanza dalla città. Speravo proprio di rivedere quei vecchi, cari amici. A Lahore, come al solito in luglio, si bruciava dal caldo. Dalle vecchie stradine si alzava un vapore, a causa delle piogge dell'ultimo monsone. Appena imboccammo una strada che conduceva al centro della città sentimmo gracchiare un altoparlante dall'alto di un minareto. Seguì poi la voce metallica di un muezzin, che recitava la preghiera di mezzogiorno. Il traffico tutto ad un tratto diminuì, dato che auto ed autocarri si accostavano al marciapiede per sostare. Gli autisti, discesi dai loro mezzi, distesero i propri tappetini delle orazioni ed iniziarono a prostrarsi. Tooni potette trattenersi con noi solo per pochissimo tempo, a causa d'impegni improrogabili. Dopo aver sbrigato le pratiche necessarie, Khalid ci accompagnò alla stazione per far prendere il treno a Tooni. Fu un momento commovente quello della sua partenza. Rimanemmo d'accordo che di lì a qualche giorno Mahmud sarebbe andato a stare per un po' con sua madre. Eppure, sentivamo tutti che c'era qualcosa d'insolito nel nostro commiato. Mahmud, che aveva ormai quasi dieci anni, cercò di trattenere le lacrime, mentre baciava la madre. Tooni pianse apertamente mentre abbracciava il figlio. Anch'io mi misi a piangere e tutti e tre ci abbracciammo l'uno con l'altro, sul marciapiede della stazione. Alla fine Tooni, spingendo indietro la testa dai capelli castani disse ridendo: "Suvvia, non stiamo ad un funerale!". Sorrisi, la baciai un'altra volta e poi Mahmud ed io la vedemmo salire sul treno. Dato il segnale di partenza il treno cominciò lentamente a lasciare la stazione; provai una stretta al cuore. Cercai il viso di Tooni ai finestrini dei vagoni. Mahmud ed io alla fine la individuammo e le lanciammo baci da lontano. Fissai avidamente l'immagine di Tooni nella mia mente, imprimendola nella mia memoria. Trascorsi il giorno successivo con gli agenti immobiliari, i quali m'informarono che per la vendita sarebbe trascorsa qualche settimana. Khalid ci assicurò che saremmo potuti rimanere a casa sua per tutto il tempo che volevamo. L'unica cosa che mi dispiaceva era che non avrei avuto comunione spirituale. Ora mi rendevo conto del perché i discepoli andassero sempre in due. I cristiani hanno bisogno di stare insieme per sostenersi e consigliarsi a vicenda. Telefonai agli Old. Che piacere sentire la voce di Marie! Ridemmo insieme, piangemmo insieme e pregammo insieme .... tutto per telefono! Non era possibile per loro venire a Lahore, per impegni di lavoro, ma mi avrebbero messo in contatto con altri cristiani residenti in città. Marie mi parlò in particolar modo della moglie di un professore, Peggy Schlorholtz. Che strano! A sentire quel nome il mio cuore accelerò i battiti.... Dopo pochi minuti Peggy ed io parlavamo al telefono. Dopo qualche ora si trovava già nel salotto di Khalid. Quando mi vide il suo viso s'illuminò con un sorriso. "Ditemi, Begum Sheikh", mi chiese, "è vero che avete incontrato, per la prima volta, il Signore Gesù in un sogno? E come avete fatto ad accettarLo?". E così, nel salotto di Khalid, raccontai a Peggy tutta la mia storia, da quando era iniziata sei anni prima. Peggy ascoltò attentamente. Quando terminai, prese la mia mano e disse una cosa veramente sorprendente... "Vorrei che veniste in America con me!".
La guardai stupita. Il mio cuore batteva di nuovo velocemente. "Intendo questo", disse Peggy. "Io sto per partire, devo accompagnare mio figlio a scuola. Rimarrò negli Stati Uniti per quattro mesi. Voi potreste viaggiare con me e parlare alle varie chiese locali". Sembrava così entusiasta che non volli scoraggiarla. "Va bene", risposi sorridendo, "apprezzo molto il vostro invito. Fatemi pregare prima però!". La mattina seguente la cameriera mi portò un biglietto. Lo lessi ridendo. Era da parte di Peggy. "Avete già pregato?". Sorridendo, appallottolai il foglietto, senza far niente. Era veramente assurda quell'idea! A meno che... All'improvviso gli avvenimenti degli ultimi due anni mi si affollarono alla mente in un succedersi drammatico. I sogni. Gli avvertimenti. Il fuoco. Ed infine la mia risoluzione a fare qualsiasi cosa il Signore avesse voluto - anche se questo stava a significare lasciare il mio Paese. No, non avevo veramente sottomesso al Signore la proposta di Peggy. Lo feci in quel momento. Misi il progetto del viaggio nelle Sue mani. Non fu facile, perché dentro di me sentivo che, se avessi lasciato la mia patria, non sarebbe stato soltanto per quattro mesi, ma per sempre. "Signore, Te lo dico ancora una volta. Tu sai quanto voglia rimanere nella mia terra. Oltre tutto ho 52 anni e non è certo l'età per ricominciare tutto daccapo. "Ma", sospirai, "ma... non è quella la cosa più importante! Quello che conta veramente è rimanere sempre alla Tua presenza. Ti prego, Signore, aiutami a non farmi prendere mai una decisione che potrebbe allontanarmi dalla Tua gloria". Capitolo 14 IL VOLO Strano quanto accadde subito dopo che il Signore mi aveva fatto cambiare idea sulla mia decisione di lasciare il Pakistan! Sorsero delle difficoltà, degli ostacoli imprevisti. Uno ad esempio, che sembrava insormontabile, era un regolamento che permetteva ai cittadini pakistani di lasciare il loro Paese con una somma non superiore ai cinquecento dollari. Mahmud, essendo a mio carico, poteva portarne 250. Come avremmo potuto vivere Mahmud ed io, per quattro mesi, con soli 750 dollari? Già questa difficoltà ci avrebbe dovuto far desistere dal prendere in considerazione la proposta di Peggy. Qualche giorno più tardi, Peggy m'invitò a farle visita a casa sua. Mentre conversavamo, menzionammo il dottor Christy Wilson. Peggy lo conosceva. Ero preoccupata per lui da quando avevo sentito che era stato espulso dall'Afganistan dal governo musulmano, che aveva anche distrutto la chiesa ch'egli aveva costruito per gli espatriati residenti a Kabul. "Hai un'idea di dove possa trovarsi?" chiesi. "No veramente", rispose Peggy. In quel preciso istante trillò il telefono. Peggy andò a rispondere. Quando ritornò aveva gli occhi spalancati, "Sai chi era?" disse. "Era Christy Wilson!". Dopo aver superato quella sorpresa, che ci aveva un po' stupite ed un po' fatto ridere, cominciammo a chiederci se quel fatto non fosse più che una semplice 'coincidenza'. Il dottor Wilson, disse Peggy, stava proprio passando per Lahore. Voleva venire a farci visita. Ne fui ovviamente contenta perché così avrei appreso altre notizie, ma avevo una certa intuizione che stava per avvenire qualcosa di più di una visita casuale. Il giorno seguente avemmo una bella riunione a casa di Peggy. Informai il dottor Wilson degli ultimi avvenimenti di Wah e della mia vita stessa. Peggy gli disse allora di cercare di persuadermi ad andare negli Stati Uniti. Si entusiasmò molto all'idea. "Ci sono però dei problemi", disse Peggy. "Il primo è che, per il regolamento vigente nel suo Paese, Bilquis può portare con sé solo cinquecento dollari". "Mi domando..." disse il dottor Wilson, carezzandosi il mento, "ho degli amici che potrebbero..
forse potrei mandare un telegramma.... Conosco qualcuno in California...". Dopo pochi giorni Peggy mi telefonò, tutta eccitata. "Bilquis", gridò. "È tutto sistemato! Il dottor Bob Pierce, tesoriere di 'Samaritan's Purse' (Borsa del Samaritano) ti farà da garante. Pensi di poter partire tra una settimana?". Una settimana! All'improvviso sentii su di me il peso di quella decisione: lasciare la mia patria! Avevo dentro di me la convinzione, che se fossi partita, sarebbe stato per sempre. Comprendevo meglio adesso quel che Rudyard Kipling diceva nei suoi versi: Dio ha dato agli uomini tutta la terra da amare Ma essendo i nostri cuori troppo piccoli, Ha assegnato ad ognuno di noi un pezzetto che si potesse amare più degli altri... (dal poema: Sussex) Wah... il mio giardino... la mia casa ... la mia famiglia ... Potevo prendere sul serio la decisione di lasciare tutto? Sì, potevo. Non avrei preso nient'altro in considerazione, se mi fossi sentita sinceramente convinta che era quella la volontà del Signore. Sapevo già quel che sarebbe accaduto, se avessi deliberatamente disobbedito. Non avrei percepito più la Sua presenza. Nelle ventiquattr'ore seguenti ebbi un'altra conferma. Khalid mi riferì, apranzo, che a parte un piccolo dettaglio, erano ormai stati superati tutti i problemi per la vendita delle mie proprietà. Mi disse inoltre: "Ritengo, mamma, che tu possa dire, senza tema di smentite, che da oggi in poi, ti sei privata di quelle proprietà che avresti voluto vendere". Ma all'improvviso si chiusero le porte. Non da parte di Dio, a quanto sembrava, ma da parte del governo pakistano. Venne emesso ancora un altro regolamento che nessun cittadino avrebbe potuto lasciare il Pakistan senza aver prima pagate le imposte sul reddito. Le mie erano state pagate, ma avevo bisogno di un documento che lo comprovasse. Dovevo procurarmi una ricevuta dell'avvenuto pagamento, altrimenti non avrei potuto acquistare i biglietti per gli Stati Uniti. Ormai erano trascorsi già quattro dei sette giorni che mancavano alla partenza. Me ne rimanevano soltanto tre quando Khalid ed io andammo all'ufficio addetto, per far richiesta del documento. Pensavamo che non sarebbero sorti certamente altri problemi, dato che la mia pratica era tutta in ordine. L'ufficio si trovava in una strada affollata della zona sud di Lahore. Quando entrai nell'edificio mi colpì qualcosa di strano. Era troppo silenzioso per essere il solito ufficio burocratico, dove gl'impiegati vanno avanti ed indietro per sbrigare le pratiche e c'è sempre qualcuno che discute con il personale. Khalid ed io eravamo gli unici, a parte un impiegato calvo che, seduto dall'altra parte dello sportello, leggeva una rivista. Mi avvicinai dicendogli quello di cui avevo bisogno. Alzò appena lo sguardo dal giornale e scuotendo la testa mi disse: "Spiacente signora, c'è uno sciopero in corso". Poi s'immerse nuovamente nella lettura. "Uno sciopero?". "Sì signora", rispose. "A tempo indeterminato. Non c'è nessuno in ufficio che possa fare qualcosa per voi". Rimasi lì a fissare l'uomo. Poi mi allontanai di qualche passo. "Signore", pregai ad alta voce, ma in modo che potesse sentirmi soltanto mio figlio, "hai chiuso Tu la porta? Ma perché allora mi hai incoraggiata fino adesso?". Poi mi venne un pensiero improvviso. Aveva veramente Lui chiuso la porta? "Va bene, Padre", pregai. "Se è la Tua volontà che Mahmud ed io andiamo in America, sarai Tu a sistemare ogni cosa". Un grande senso di fiducia s'impossessò di me; mi avvicinai di nuovo all'impiegato. "Beh, mi sembra che voi almeno non siate in sciopero!" dissi. "Perché non mi date voi il documento che mi necessità?". L'uomo mi lanciò un'occhiata, mentre continuava sempre a leggere il suo giornale: aveva un'espressione dura, accigliata. Sembrava proprio il tipo di persona che è contento di dire sempre 'no'. "Ve l'ho detto, signora, che c'è sciopero" borbottò. "Va bene, allora fatemi parlare col capufficio". Avevo imparato, a mie spese, quando lavoravo per il
governo, che se volevo far fare qualcosa, dovevo sempre andare dall'autorità superiore. L'impiegato sbuffò, sbattè la rivista sul tavolo e mi accompagnò fino ad una porta lì a fianco. "Attendete qui" borbottò di nuovo scomparendo nell'ufficio. Sentivo provenire dalla stanza un basso mormorio di voci, poi l'uomo si affacciò alla porta e mi fece segno di entrare. Khalid edio ci trovammo di fronte ad un uomo piacente, di mezz'età, seduto dietro una vecchia scrivania. Gli esposi il mio problema. Si appoggiò allo schienale della sedia, giocherellando con una matita. "Mi dispiace, signora ... signora ... che nome avete detto?" "Bilquis Sheikh". "Sì, sono veramente spiacente. Non c'è proprio niente, nel modo più assoluto, che noi possiamo fare, quando c'è uno sciopero in corso... ". Ma all'improvviso una luce balenò nei suoi occhi. "Non siete per caso la Begum Sheikh che aveva organizzato il 'Piano per un tenore di vita più semplice'?". "Sì, sono io". Sbattè il pugno sul tavolo, poi esclamò: "Bene!". Mi accostò una sedia, invitandomi a sedere. "Ritengo che sia stato il miglior programma promosso nella nostra nazione". Sorrisi. Poi; sporgendosi dalla sedia, verso di noi, disse in tono confidenziale: "Adesso vediamo quel che possiamo fare per voi". Mi chiese di spiegargli con esattezza quale fosse il problema. Gli dissi che entro tre giorni sarei dovuta andare a Karachi per prendere un aereo per gli Stati Uniti. Il viso dell'uomo assunse un'aria decisa. Si alzò e chiamò l'impiegato allo sportello. "Dì a quel nuovo assistente di venire qui". Poi mi disse a bassa voce: "Ho uno stenografo in servizio temporaneo. Non fa parte del personale regolare e perciò non è in sciopero. Può scrivere a macchina il certificato. Lo timbrerò io stesso. Sono contento di potervi aiutare". Pochi minuti dopo ebbi il mio prezioso documento tra le mani. Era tutto in ordine adesso! Devo confessare che, nell'andarmene via, sventolai il foglio davanti all'impiegato che, abbandonata per un attimo la lettura, lo fissò a lungo collo sguardo. Potè vedere il mio sorriso di soddisfazione e sentire il mio "Dio vi benedica". Mentre lasciavamo il palazzo degli uffici governativi, Khalid, con aria meravigliata, mi fece notare che tutto il disbrigo della pratica aveva preso non più di venti minuti. "È stato più breve di quando ogni impiegato è al suo posto di lavoro!" disse. Il mio cuore esultava. Cercai di spiegare a Khalid che il Signore vuole la nostra collaborazione. Quando preghiamo, Egli vuole operare con noi. Era lo stesso principio usato da Mosè col suo bastone. Se avessi soltanto rimesso il problema nelle mani del Signore, senza muovermi anch'io per fede, probabilmente non sarei mai entrata in possesso di quel documento. Mi sono dovuta muovere, tentando tutto quel che potevo fare. Ho chiesto di parlare col capufficio. Allo stesso modo in cui Dio chiese a Mosè di percuotere la roccia con un bastone, così chiede anche a noi di prender parte, quando Egli opera dei miracoli. Khalid apparve un po' preso alla sprovvista dal mio entusiasmo ma si riprese subito, dicendomi con un sorriso: "Io so soltanto una cosa, mamma. Ho notato che invece di 'grazie' dici sempre 'Dio ti benedica'. Quando usi quell'espressione, è la cosa più bella che abbia mai sentita". Ora che tutte le pratiche erano state espletate, mi domandavo se potevo fare un breve viaggio a Wah, per andare a dire almeno 'arnvederci'. Già d'allora ero convinta che quella lontananza sarebbe durata più di quattro mesi. Ma quando l'accennai, Khalid mi rispose: "Non hai sentito dell'inondazione?". Pioggie torrenziali avevano colpito la zona tra Lahore e Wah. Erano stati allagati molti ettari di terreno. Il traffico era stato interrotto. Era il governo stesso a provvedere al trasporto. Provai una stretta al cuore. Non mi era nemmeno concesso di andare a dare un ultimo saluto. Il Signore mi stava chiedendo di dare un taglio netto, come Lot a cui era stato raccomandato di non voltarsi indietro.
Avevo progettato di lasciare Lahore il venerdì mattina: avevo ancora due giorni! Sarei andata in aereo a Karachi, da dove avrei preso il volo per gli Stati Uniti. Peggy ed il figlio avrebbero iniziato il loro viaggio a Nuova Delhi. Il loro aereo della Pan-American, diretto a New York avrebbe fatto scalo a Karachi, dove Mahmud ed io saremmo saliti a bordo, raggiungendoli. Il giovedì mattina però, avvertii un'insolita premura che mi spingeva a non attendere oltre. La mia ansietà era accentrata su Mahmud. Certamente, grazie all'efficienza delle indiscrezioni trapelate, la notizia era ormai giunta a Wah, che non ci trovavamo a Lahore per una semplice visita, ma che stavamo invece per lasciare il Pakistan. Non poteva darsi che i familiari di Mahmud tentassero di sottrarlo alla mia influenza 'corruttrice'? Sarei stata fermata da qualche pretesto? Sentivo che un pericolo mi minacciava. No, non avrei atteso ancora. Sarei partita quello stesso giorno. Sarei andata a Karachi a casa di amici, dove mi sarei sentita al sicuro. Così quel pomeriggio, dopo aver preparato affrettatamente i bagagli, Mahmud ed io salutammo Khalid e la sua famiglia e ci dirigemmo in gran fretta all'aereoporto. Lasciammo Lahore con un certo sollievo. Eravamo ormai in viaggio! Karachi era, come ben mi ricordavo, una città formata da un deserto e da una spiaggia, situata di fronte all'Oceano Indiano. Un miscuglio di vecchio e nuovo: cammelli al pascolo, che sfioravano le Rolls Royce, bazar invasi da mosche ronzanti, a fianco di negozi eleganti che esponevano l'ultima moda di Parigi. Perfetto. La città era tanto grande che ne saremmo stati inghiottiti. Fummo ospiti di miei amici. Andai a fare acquisti nella zona bassa della città; erano gli ultimi preparativi per la partenza del giorno dopo. Sentii tutto ad un tratto una strana oppressione che m'invase tutta. Chiusi gli occhi, mentre mi appoggiavo ad un muro per sostenermi e pregai il Signore, invocando la sua protezione. Mi sentii guidata, in modo deciso, che Mahmud ed io andassimo a pernottare in albergo. Cercai di rigettare l'idea. "Ma è sciocco" mi dissi. Poi ricordai l'episodio dei re magi, che erano stati avvertiti in sogno di partire al più presto, percorrendo un'altra via. Di lì a poco registravamo i nostri nomi all'Hotel Air France all'aereoporto di Karachi. Andai subito in camera con Mahmud, ordinai che mi portassero su la cena ed insieme aspettammo. Mahmud appariva irrequieto. "Perché dobbiamo agire così di nascosto, mamma?" mi domandò. "Penso che sarebbe meglio stare tranquilli per un po'; questo è tutto". Quella notte rimasi a pensare, distesa sul letto. Perché mi sentivo così in apprensione? Non c'era alcun motivo per esserlo. Stavo facendomi trascinare dal mio nervosismo? Stavo reagendo in maniera esagerata alle minacce fattemi in passato? L'incendio? Dormii solo per qualche ora ed in maniera agitata. Alle due di notte mi alzai e mi vestii, spinta nuovamente da un bisogno urgente di allontanarmi. Mi sentivo ridicola. Non era da me! L'unica spiegazione plausibile che potessi dare a quel senso di urgenza, era che per me era venuta l'ora di lasciare l'albergo e che stavo per esserne spinta fuori dal Signore. Infilai Mahmud, barcollante per il sonno, nei suoi vestiti, poi radunammo le borse vicino alla porta per farle prendere dal facchino dell'albergo. Erano le tre di notte. L'aereo partiva alle cinque. Mahmud, ancora assonnato, rimase ad aspettare con me davanti all'albergo il taxi che ci avrebbe accompagnati al terminal. Guardai la luna che calava e mi chiesi se sarebbe stata quella l'ultima volta che avrei visto la luna nella mia terra. Una leggera brezza mattutina mi portò un profumo di narcisi, proveniente forse da un vaso di fiori, il mio cuore pianse perché sentivo in me che non avrei più rivisto il mio giardino. Il portiere riuscì finalmente a fermare un taxi. Mahmud ed io c'infilammo dentro in fretta. Pregai, mentre l'autista si apriva un varco in mezzo al traffico. Perfino a quell'ora del mattino, le strade, che conducevano all'aereoporto erano congestionate dal traffico. Mentre le auto si fermavano al semaforo, mi appoggiai allo schienale del sedile per rilassarmi, ma mi sentivo ancora molto agitata. "Stiamo tranquilli per un po'" mi dissi, cercando di rassicurare me stessa., come prima avevo fatto con Mahmud. No, non era quello il modo migliore. Ciò di cui avevo veramente bisogno era di pregare. "Signore, allontana da me questo stato di agitazione. In Te non c'è nervosismo. Non posso aver
fiducia in Te e preoccuparmi allo stesso tempo! Tuttavia se questa premura mi viene da Te, dovrà pur esservi una ragione ed io voglio obbedirTi". Arrivati al terminal, scendemmo sul marciapiede affollato. Si sentiva il rombo dei motori dei jet e le voci, che a centinaia si mescolavano insieme, in un'atmosfera di continuo andirivieni. Ebbi un sussulto al cuore quando, nel guardare in alto, vidi la bandiera della mia nazione - la stella e la mezzaluna su campo verde - svolazzare al vento. Avrei sempre rispettato quella bandiera, la mia gente e la loro fede. Un facchino ci portò il bagaglio al banco di controllo, da dove fui contenta di vederlo sparire in Un posto almeno in apparenza sicuro! Soltanto venti chili di bagaglio ciascuno. Sorrisi al pensiero dei viaggi che la mia famiglia faceva in passato. Andavamo solo per qualche settimana in un'altra parte del Pakistan e portavamo con noi tonnellate di bagagli e le mie sorelle si lamentavano di non poter portare tutti i vestiti che volevano! Dovevamo attendere ancora un'ora prima della partenza dell'aereo. Tenendo Mahmud ben stretto a me, pensai che la cosa migliore sarebbe stata quella di confonderci tra la folla, così da non essere notati. Ma non riuscivo a scuotermi di dosso quel senso di pericolo incombente. Ancora una volta mi rimproverai di preoccuparmi inutilmente. Il Signore vigila e sorveglia, mi dissi. Mi sta conducendo fuori da questa situazione e tutto quello che devo fare è di obbedire. Mahmud mi chiese di andare alla toilette, lo accompagnai fino alla porta ed aspettai nel corridoio. All'improvviso una voce all'altoparlante annunciò il nostro volo. "... salire a bordo per il volo Pan Am per la città di New York". Ebbi un tonfo al cuore. Dov'era Mahmud? Dovevamo andare! Finalmente la porta di accesso alle toilettes si aprì. No, era un sikh col turbante che usciva. Stavo quasi per infilarmi dentro. Ma che stavo facendo ... Di sicuro nessuna donna, in un paese musulmano, sarebbe mai entrata nella toilette degli uomini, anche per cercare un ragazzo che si era perduto! Stavano annunziando di nuovo il nostro volo. "Il volo Pan Am per la città di New York è pronto per la partenza. Tutti i passeggeri a bordo". Oh no! Il mio cuore gridò. Dovevo fare qualcosa. Spinsi la porta e chiamai "Mahmud!". Una vocina rispose, "Sto venendo, mamma ...". Tirai un profondo sospiro e mi appoggiai, senza forze, al muro. Mahmud uscì subito. "Dove stavi? Che cosa ti ha trattenuto?" gli gridai. Non aveva importanza ormai. Senza aspettare la risposta, gli afferrai una mano e corsi. Attraversammo il lungo corridoio fino al cancello per l'imbarco. Eravamo tra gli ultimi passeggeri a salire a bordo. "Guarda mamma che aereoplano!" esclamò Mahmud. Che aereoplano davvero... L'aereo di linea 747 era immenso. Eravamo tutti e due un po' eccitati... Non avevo mai visto prima d'ora un aereo tanto grande. Mentre stavo per mettere piede a bordo, esitai per un attimo, era l'ultimo contatto col suolo pakistano. Dovevamo muoverci però. L'interno mi apparve come un auditorio, una hostess ci accompagnò ai nostri posti. Dov'era Peggy? Cosa avrei fatto in America, senza di lei? Ma sì, era là! Stava venendoci incontro per il corridoio. Peggy mi gettò le braccia al collo. "O, amica mia preziosa!" disse. "Ero così in ansia. Non ero riuscita a scorgerti tra la folla dei passeggeri in attesa al cancello...". Le spiegai quanto era accaduto ed apparve sollevata. Mi presentò il figlio, che era con lei. "Peccato che non possiamo sederci insieme" disse. Abbiamo dovuto prendere i posti disponibili". Francamente era meglio così. Non mi sentivo di stare in compagnia in quei momenti. Mi rendevo conto che stavo per lasciare la mia madrepatria. Certo mi sentivo triste, ma allo stesso tempo realizzata. Non riuscivo a capire. Mahmud ritornò ad essere quello di sempre... Diventò amico della hostess, che gli fece visitare la cabina di pilotaggio. Ritornò affascinato. Ne fui contenta. La hostess avvertì di allacciare le cinture. Guardai fuori dal finestrino e vidi i primi raggi del sole che spuntava. I motori rombarono. Mi
sentivo stranamente eccitata. L'aereo cominciò a muoversi pesantemente e rumorosamente lungo la pista. Guardai dietro di me, non riuscii a scorgere Peggy. Ma Mahmud era lì con me. Potevo vedere il suo viso raggiante per l'emozione, nel sentire i motori del jet che rombavano assordanti, nel decollo. Gli presi la mano e cominciai a pregare. "Che c'è adesso, Signore? Sento nuovamente in me un senso di adempimento. Mi hai condotta fuori della mia terra, come Abramo. Senza sapere quel che succederà, eppure mi sento completamente soddisfatta, realizzata perché sono con Te!". Non mi preoccupava più nemmeno l'imbarazzo, provato a causa del mio nervosismo e delle mie paure. Quello che sapevo, era che avevo obbedito fedelmente al Signore. Dovetti ammettere che non sarei mai venuta a sapere quel che sarebbe accaduto veramente se non avessi seguito ogni Suo ordine ed agito come avevo fatto. Vidi luccicare delle luci ai finestrini ed improvvisamente cessò, sotto di noi, il rumore delle ruote del carrello. Stavamo volando! Alle prime luci dell'alba vedevo allontanarsi sotto di noi le coste del Pakistan, sull'Oceano Indiano. Protesi la mano verso di Lui, che era ormai la mia sola sicurezza. L'unica mia gioia era di rimanere alla Sua presenza. Sapevo che avrei vissuto per la Sua gloria. "Grazie, Signore", sussurrai. "Grazie per avermi permesso di camminare con Te".
EPILOGO 1978. Sono trascorsi sei anni da quando ho visto, dall'aereo, sparire la mia terra nella nebbia. La consapevolezza che non avrei più rivisto il Pakistan si era rilevata profetica. Non vi ho fatto più ritorno. Il mio soggiorno si è prolungato per molte ragioni. Prima di tutto, i miei amici mi hanno avvertiti che sarebbe stato meglio per me e Mahmud, un giovanotto di 15 anni, pieno di vitalità, conosciuto ora come David, di non fare più ritorno. Sono stata avvertita anche dalle autorità del mio Paese. Nel 1976 c'è stato un congresso islamico mondiale in cui è stata approvata una disposizione di legge che ordinava il ritiro di tutte le istituzioni cristiane straniere, stazioni radio mis-sionarie, ed il rientro del personale. È evidente che non sarei bene accolta in Pakistan adesso. Ma quello che è più importante di tutto è che il Signore ha manifestato chiaramente che io debbo rimanere qui. Sembra infatti che in America ci sia bisogno di ascoltare il messaggio che porto. Mi è stato mostrato per la prima volta in una visione, subito dopo essere arrivata negli Stati Uniti. Il Signore si trovava nella mia stanza. Mi chiese di parlare della Sua sollecitudine per le chiese e che vi sarebbe stata una netta separazione tra le pecore e le capre e che il giudizio sarebbe iniziato nella Chiesa del Signore (I Pietro 4:17). Provavo un certo timore nell'adempiere a quel compito; non toccava a me far notare agli altri i propri difetti. Io ero un'ospite in questa nazione ed una cristiana nuova nella fede. Così chiesi: "Perché io, Signore?". In risposta, vidi nei Suoi occhi una tale sofferenza per le chiese in agonia, che caddi in ginocchio e promisi di obbedire. Però, essendo umana e debole, esitavo ancora. Era veramente da parte del Signore o veniva da me? Così Gli chiesi di darmi un segno: "Se mi rapisci nello spirito, Signore, allora niente al mondo potrà fermarmi dal testimoniare". Appena posai la testa sul guanciale, fui trasportata nello spirito ed avvolta in una grande luce, come se io venissi unta per quel compito. Chiaramente ed inequivocabilmente, il Signore mi ordinò di onorare e glorificare il Suo nome e di parlare della Sua misericordia e del Suo amore dinanzi a chiese e gruppi, dappertutto. Poi, come ulteriore conferma delle Sue direttive per me, quasi tutte le visioni che avevo avuto in Pakistan si sono avverate, così come le avevo viste anni prima. Ho visto realmente città americane e chiese, che mi erano state mostrate in precedenza molto chiaramente nei miei sogni. Una sorprendente conferma al fatto che il Signore può parlarci per mezzo di visioni, mi fu data dalla Signora B. Wold. Il marito è pastore della Lighthouse Mission Church a Portland, nell'Oregon. Mi
scrisse di una visione che aveva avuto in America, all'incirca nello stesso tempo di quando il Signore mi aveva parlato in Pakistan, dieci anni prima. "Stavo camminando e pregando nel mio soggiorno", mi scrisse, "quando all'improvviso la potenza del Signore m'investì in maniera così forte che sentii come se i piedi non avessero toccato più il pavimento. Di fronte a me vidi una visione bellissima. C'era una donna dalla pelle scura, che indossava un sari, sapevo in qualche modo che era di origine nobile. Mi stava di fronte e vi rimase per parecchio tempo. Sentivo che quando l'avessi incontrata, l'avrei riconosciuta. Quando veniste a parlare nella nostra chiesa io riconobbi in voi la signora della visione". Oggi io vivo momento per momento, in attesa di conoscere quel che il Signore vorrà fare di me e del mio tempo. Una cosa so ed è che devo testimoniare per Lui. Devo inoltre incoraggiare le persone ad apprezzare la loro libertà nell'adorare Cristo. Devo pregare per la mia nazione. Non posso testimoniare alla sua gente direttamente. Ma, quando qualcuno viene a farmi visita, come le mie figlie Tooni e Khalida hanno fatto e come si appresta a fare mio figlio Khalid, allora posso parlare liberamente. Probabilmente non vedrò più gli amici ed altri membri della mia famiglia. Ma io prego per tutti loro regolarmente. Prego per il popolo musulmano, così vicino all'Iddio vivente, eppure tanto lontano. Essi credono che la loro salvezza consista nel sottoporsi ad interminabili sacrifici di buone opere. Io prego ch'essi incontrino il Cristo vivente in Cui e riposta la loro salvezza e che questo possa accadere prima della seconda venuta di Gesù. Penso a Nur-jan e Raisham ed a tutti gli altri cristiani che ho lasciato lì. E quando mi preoccupo perché loro non hanno comunione cristiana, mi sento poi rassicurata dal fatto che Egli è anche con loro. Difatti Egli ci ha promesso: "Non vi lascerò orfani: tornerò da voi".
Giov. 14:18
Il mondo ed i suoi beni stanno a significare ben poco per me adesso. Quando mi resi conto che non sarei più ritornata a casa, scrissi alla mia famiglia dicendo loro che avrebbero potuto prendere la mia mobilia ed altre cose e darle agli altri oppure usarle nel modo che ritenevano opportuno. Mi dispiaceva un po', ma non c'erano altre soluzioni. Devo però ammettere che vi sono alcune delle mie vecchie cose a cui penso talvolta, con un pizzico di nostalgia. La borsa da toletta in argento, che era appartenuta a mia madre e prima ancora a sua madre ed i due tappetini persiani di seta del mio salotto. Ma poi... passa subito, come quando ci si ricorda di un piacevole momento vissuto nel passato. Ho fatto la procura a Tooni, a cui ho chiesto di mettere da parte un deposito per gli stipendi della servitù, per un intero anno. Erano tutti diventati per me come dei familiari, ed io volevo fare per loro tutto il possibile per far sì che potessero vivere dignitosamente, mentre cercavano un nuovo lavoro. I miei giardini e la mia casa? So che i giardini di Wah sono stati requisiti dal governo, essendo d'importanza storica. Ma quando chieda della casa, dove ho conosciuto il Signore, ricevo soltanto delle risposte molto vaghe. Forse la mia famiglia ed i miei amici cercano di non farmi sapere in quali condizioni si sia ridotta. Quel che non riescono veramente a comprendere e che Wah adesso appartiene al passato. Le cose del mondo sono diventate per me senza alcun significato. Adesso la mia casa è nel Signore: La mia famiglia in Cristo, la mia nuova famiglia. Io sto vivendo nella Nuova Gerusalemme. È un luogo dove ho tutto e nello stesso tempo non ho nulla. Difatti ho imparato penosamente, passo dopo passo, che quando non abbiamo più niente, allora è il momento in cui il Signore può veramente cominciare ad operare per mezzo nostro. Quello è il momento in cui cominciamo a vivere più fermamente nella Sua gloria. BILQUIS SHEIKH
INDICE Introduzione 1. Una presenza spaventosa 2. Il Libro sconosciuto 3. I sogni 4. L'incontro 5. Il bivio 6. Imparando a ricercare la Sua presenza 7. Battesimo 8. Ma c'era poi protezione? 9. Il boicottaggio 10. Imparando a vivere nella Sua gloria 11. Cambiamenti nell'aria 12. Tempo di semina 13. Temporale in arrivo 14. Il volo Epilogo